Filosofia e rivelazione. Un contributo al dibattito su ragione e fede
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IDEE/Filosofia Vittorio Possenti

FILOSOFIA BERIVELAZIONE un contributo al dibattito

su ragione e fede

Città Nuova

Vittorio Possenti

FILOSOFIA E RIVELAZIONE

Il clima spirituale postmoderno, con le incertezze e il nichilismo che lo angustiano e la domanda di senso che lo percorre, domanda una rivisitazione dei temi che riguardano da vicino ogni uomo: filosofia e Rivelazione, ragione, metafisica, sapienza,

fede. Il “discorso breve” del volume nasce come pensiero pro-vocato dall’enciclica Fides et ratio. La forza della ragione può entrare nella comprensione della fede senza adulterarla, e l'energia della fede che nasce dalla Rivelazione può abitare nella ragione senza rischio, dischiudendole orizzonti nuovi. È il grande incontro fra pensiero umano e messaggio biblico con le sue specifiche difficoltà nel moderno. Approfondendo la memoria delle sorgenti, la ragione postmoderna può riprendere contatto con l’essere e la Rivelazione, e la filosofia valere come praeparatio evangelica se, oltrepassando il nichilismo, saprà porsi come ragione magnanima, aperta alla complessità e ai chiaroscuri dell’esistenza umana, amica di tutto ciò che esiste.

IDEE / filosofia FILOSOFIA E RIVELAZIONE e

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Vittorio Possenti

FIROSOELÀ EsRIVELAZIONE un contributo al dibattito

su ragione e fede

Città Nuova

Il libro è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia 0 dell’Università degli Studi di Venezia.

In copertina: Raffaello, Scuola d’Atene (part.). Stanza della Segnatura - Vaticano. Grafica di Gyòrgy Szokoly © 1999, Città Nuova Editrice

Via degli Scipioni 265 - 00192 Roma ISBN 88-311-0123-4

Finito di stampare nel mese di maggio 1999 dalla tipografia Città Nuova della PA.M.O.M. Largo Cristina di Svezia, 17 00165 Roma - tel. 06-5813475/82

INTRODUZIONE

Oltre alla cattolicità o universalità della Rivelazione che proviene dalla Trascendenza e verso cui si rivolge la fede, vi è

una “cattolicità” o universalità naturale della ragione: di una ragione aperta, flessibile, magnanima, compassionevole, amica

di tutto quanto esiste e in specie del volto dell’altro. Una ragione di questa forma può aiutare la cultura postmoderna a superare la sua insicurezza e la tentazione di accontentarsi di poco, con il rischio di andare quasi alla deriva in un’epoca enigmatica e incerta.

Della fede e della ragione, della loro specifica “cattolicità”, ha trattato l’enciclica Fides et ratio, forse il più importante documento della Chiesa moderna sul tema espresso nel titolo e sulla filosofia, intesa come lo specchio in cui si riflette la cultura dei popoli. Il suo nucleo centrale si individua nella giusta relazione da instaurare fra la verità rivelata e la verità raggiunta dal sapere filosofico. Il testo che segue pensa con libertà entro uno spazio che approssimativamente è quello scandito dall’enciclica, sebbene vari suoi temi verranno lasciati nel-

lo sfondo. Nascendo come pensiero pro-vocato da essa e che ad essa reagisce, depone ogni intento di operarne una esegesi:

non è questo il nostro intento, quanto di interrogare e di riflettere sul nesso fra filosofia e Rivelazione, senza escludere in via preliminare le intuizioni dell’enciclica in merito !. 1 Ad alcuni mesi di distanza dall’uscita dell’enciclica prende corpo l’impressione, certo provvisoria e rivedibile, che la sua recezione nella cultura sia sta-

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Introduzione

Fides et ratio intende rimettere in moto il pensiero credente (che è cosa diversa dal credente che pensa) e la questione della verità, aprendo un più alto dialogo con la tarda modernità e il postmoderno, «prima che il filo d’argento s’allenti, la lampada d’oro s’infranga, si rompa la secchia alla fonte» (Oo 12, 6). Fra i diversi stimoli che il testo propone per riavviare il pensiero credente, significativo si presenta il metodo della reciproca collaborazione e della circolarità fra ragione e fede, filosofia e teologia, da cui entrambe escono arricchite. Desidereremmo entrare nello stesso cammino, evitando il la-

mento; piuttosto cercando il positivo e il vero, e operando perché l’eros filosofico che vive in ogni uomo possa liberarsi in una ricerca ad un tempo ontosofica e contemplativa. Contemplativa qui significa: con spirito aperto al tutto e disposto a mantenere fermo sulle cose lo sguardo dell’intelletto. Ricerca ontosofica vuol dire: desiderosa di raggiungere una sapienza dell’essere, che sia il suo “sapore originario”. I nuclei del nostro “discorso breve” si dispiegano intorno ad alcune parole-guida: filosofia, Rivelazione, verità, fede, ragione, metafisica, sapienza, che nella loro pluralità attestano eterogeneità, dislivelli, diversità, non però reciproca inimicizia.

Il clima spirituale del presente sembra chiedere una rivisitazione di questi temi che riguardano da vicino ogni uomo in rapta per ora modesta e talvolta preconcetta. I principali quotidiani italiani al momento dell’uscita del testo se la sono sbrigata con qualche articolo estemporaneo e interviste ad accademici che hanno dichiarato di non averne conoscenza e di non aspettarsi a priori nulla da esso. Quando vi è stata una considerazione meno estemporanea come nel caso di «Micromega» (n. 5, 1998), taluni interventi ospitati hanno dato l'impressione di voler colpire piuttosto che comprende re. In qualche caso alquanto raro (penso qui ad es. all'articolo di E. Scalfari su «la Repubblica» del 18 ottobre 1998), si è colto che il testo ruota intorno al tema della veritàedella conoscenza, e che il pontefice ha ragione almeno su un punto: non si può vivere senza un senso. Fra le numerose conferenze e tavole l’enciclica, si avverte finora la mancanza di convegni di approfond rotonde sul: imento: uno dei È rari inCR merito si svolse presso l’Università di Padova ova il il 1 1° di cembre 1998 con valido esito di interventi e di pubblico.

Introduzione

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porto alla posta esistenziale in gioco. Sino ad un recente passato il giudizio secondo cui «la realtà di un mondo senza Dio, di fronte al quale ci troviamo, è in parte solo la reazione a un Dio

senza mondo» 2, poteva reclamare qualche fondamento. Inoltrandoci nel postmoderno, una separazione del genere potrebbe apparire sempre più problematica. Il saggio si muove in prevalenza intorno alla filosofia, poiché chi scrive è filosofo, senza però dimenticare che la fe-

de, come la ragione, è un’energia conoscitiva, non solo pietà ed obbedienza, come invece a partire da Spinoza ha inteso la critica del cristianesimo e della Rivelazione. Il nostro tema è la filosofia in se stessa e nel suo rapporto con la fede che cerca la propria autocomprensione (fides quaerens intellectum): l’energia della ragione può entrare nella comprensione della fede senza adulterarla, mentre l’energia della fede che nasce dalla Rivelazione può abitare nel cuore della ragione senza violenza e rischio per quest’ultima. Anzi, può dischiuderle orizzonti nuovi e darle qualcosa di grande. Sovviene qui un passo del libro di Tobia, uno dei più deliziosi della Bibbia (cf. il cap. 6). La fede può essere per la filosofia qualcosa di analogo a quanto operò nel viaggio di Tobia l'Arcangelo Raffaele: egli guidò nel cammino, neutralizzò i mostri marini, preparò un collirio

per gli occhi, affinché fossero difesi da malattie e vedessero meglio. Incontrando la filosofia, la Rivelazione la provoca ad essere se stessa e a raggiungere la pienezza. Affinché questo

accada, occorre superare il principio di immanenza, uno dei massimi retaggi del razionalismo, che in varie fasi della modernità è stato il cardine attorno a cui si sono disposte le principali obiezioni nei confronti della possibilità stessa della Rivelazione. Il criterio di immanenza toglie alla radice qualsiasi dialogo fra uomo e Rivelazione: sopprimendo la seconda, tesse l’elogio di una ragione potentissima e solitaria. 2 W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1975, p. 160.

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Introduzione

È un'esigenza notevole che il rapporto fra filosofia e Rivelazione, fra ragione e fede debba oggi venir nuovamente meditato in rapporto ai nuovi orizzonti spirituali del postmoderno, alle incertezze che lo angustiano, alla domanda di senso che lo percorre.

I. FILOSOFIA DELL'ESSERE

RESPONSABILITÀ

DELLA FILOSOFIA

Nel rapporto tra religione e filosofia, tra fede e ragione, si incontra un tema con molteplici volti. Fra i vari punti d’ingresso cercheremo di non sottovalutare una frase della Fides et ratio: «Anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da un’amicizia sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l’amicizia come uno dei contesti più adeguati per il retto filosofare» (n. 33). Nel rapporto amicale fra coloro che si dedicano alla ricerca del vero, traluce qualcosa di quella fondamentale amicizia fra le diverse forme del sapere, a cui si farà cenno trattando più oltre della sapienza e della sua casa che include vari piani. L'una amicizia non può andar disgiunta dall’altra. AI di là di questo invito opportuno, che cosa può significare l’enciclica per i filosofi? In essa la filosofia è presentata come luogo idoneo per ascoltare i problemi dell’uomo e dell’oggi, soprattutto perché è nella ricerca filosofica che si pone, in maniera specificamente intensa, la questione della verità e

del senso. Il pensiero filosofico è candidato a valere come rivelatore sensibile dello strato profondo delle nostre convinzioni. Legata a questo assunto sta l’idea che esso stabilisca un terreno di universalità fra le culture, sotto l’egida di alcune que-. stioni originarie, sempre e nuovamente incontrate dall'uomo

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Filosofia e Rivelazione

in ogni epoca, poiché riguardano l'enigma del suo esistere e in generale il senso dell’essere. Anche su ciò si basa l’elogio che viene formulato verso la filosofia da Fides et ratio: nei suoi confronti ricorrono espressioni profondamente positive, quali oggi forse nessun singolo o nessuna istituzione al mondo pronuncerebbero. Se si pone mente alla condizione di difficoltà,

di abbandono e talvolta di emarginazione della filosofia nella cultura, vi sono motivi perché i filosofi siano grati per l’omaggio reso alla loro disciplina. L'enciclica ricorda che l’uomo è naturalmente filosofo (n. 64), presenta la filosofia «come uno dei compiti più nobili dell'umanità» (n. 3), afferma che la Chiesa «vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo» (n. 5). Deplora che essa sia stata condotta a rivestire un ruolo del tutto marginale (n. 47), e che la ragione sia stata ridotta a ragione debole (n. 48). Per quanto concerne la situazione ecclesiale, si osserva

con disappunto che «in molte scuole cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non

solo della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della filosofia» (n. 61). Non è estraneo al testo un richiamo alla responsabilità propria dei pensatori: non cavarsi d’impaccio attraverso il vagabondaggio filosofico, magari brillante, ma che ospita più o meno apertamente una dimissione. L'intento è di provocare,

promuovere, incoraggiare la filosofia, non di seppellirla: vivido è il richiamo alla sua responsabilità in un'epoca in cui tanti ne dichiarano perentoriamente la morte, a beneficio delle scienze naturali e di quelle umane. Queste le avrebbero sottratto ogni terreno, per cui alla fine di un processo durato una manciata di secoli, la filosofia non avrebbe oggetto e insisterebbe sul

nulla. Remotissimi appaiono i tempi in cui Dio era considera-

to da Hegel (in coerenza coi presupposti centrali del suo siste-

ma) l'oggetto uno e unico della filosofia, la quale era perciò essenzialmente teologia e servizio divino. Supposto che Hegel

I. Filosofia dell'essere

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cogliesse nel segno, è poi intervenuta dapprima una secolarizzazione della filosofia, passata al servizio del mondano e del finito, e successivamente una sua decostruzione-dissoluzione in

base a cui si ritiene che essa sia destinata a vegetare, a meno che non accetti appunto di diventare riflessione sul sapere scientifico. Queste disposizioni, avvertibili nella cultura e nei

vari saperi, rendono necessario riflettere sulle conseguenze prodotte dalla liquidazione della filosofia, perché senza essa diviene arduo salvaguardare un senso. In effetti ciò che è normativo deve essere assunto in prestito dai livelli spirituali più elevati: la filosofia e la teologia. Vi è qualcosa di singolare nell’evento per cui è un uomo di fede, un Pontefice addirittura, a_ dare credito alla ragione, a riabilitarla. Ma forse si sentono già

le voci di coloro che, dopo aver addebitato a lungo alla Chiesa di essere la madre di ogni oscurantismo e irrazionalismo, manifestano ora scontentezza perché attribuisce troppo credito e un’alta responsabilità alla ragione !. La filosofia, come suo primo movimento, non si inginocchia dinanzi alla fede: le va incontro, la interroga, talvolta la

accoglie, in tal caso cercando l’intesa e la cooperazione. Fede e filosofia dovrebbero essere due amiche, certo diverse e perfino eterogenee, ma che si stimano e si riconoscono. Oltretutto il loro scopo è lo stesso, sebbene secondo diversi cammini: conoscere il vero, e trarne gioia e appagamento. Lo scopo della filosofia è di conoscere la realtà, l’essere, e in questo movi-

mento alla fine Dio. Essa arriva a coglierne l’esistenza, a conoscere qualcosa di lui, ma non lo può raggiungere: getta uno

1 La stima di Fides et ratio verso la filosofia non fa che confermare quella già vivida presente nell’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879) secondo la quale dalla filosofia, «nobilissima fra tutta le discipline», «in gran parte dipende il retto orientamento di tutte le altre scienze». Il particolare rilievo della filosofia nel pensiero credente è posizione antica, che trova solida conferma nella Scolastica, in specie nell'opera dell’Aquinate, il quale poneva la questione «utrum sit necessarium, praeter philosophicas disciplinas, aliam doctrinam haberi» (S. Tb., Ligsda at)

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Filosofia e Rivelazione

sguardo sull’oltre, che è ad un tempo il Trascendente e l'aldilà, ma non può portarci lì. Giunta a questa sommità, può espri-

mere il voto che dall’«altrove rispetto al mondo» venga verso l’uomo una potenza amica, capace di far compiere il viaggio. O comunque può rimanere in un atteggiamento di apertura e

di attesa verso un’eventuale ulteriorità. L’orizzonte in cui conviene collocarsi è costituito da una ragione filosofica disposta ad ascoltare a pieno arco. Aperta è quella filosofia che con procedimento razionale e controllabile si riconosce insufficiente a offrire una visione completa; ossia che si scopre incompiuta e inadeguata rispetto allo scopo di pervenire alla pienezza del vero e della sapienza. Consapevole dei propri limiti, essa è spontaneamente inclinata a integrare con gli elementi della fede quelli raggiunti dalla ragione. Naturalmente ciò richiede che la teologia, quale mediazione razionale

della fede, si ponga anch’essa come aperta, disposta a farsi interrogare e mettere in questione dalla Rivelazione, dalla cultura, dagli eventi. In senso immediato, “filosofia aperta” significa qualcosa che non frappone ostacoli, che non sbarra il cammino. Di per sé non significa ancora qualcosa che necessariamente “indirizza a...”, cioè che conduca con cammino neces-

sario alla fede. Sappiamo che nella modernità la tensione fra fede e ragione si è acuita, talvolta sino al limite della rottura, con il connesso rischio di approdare alle posizioni polari, costituite dalla sola fides o dalla sola ratio 2. In questo quadro si 2 Che la strada della sola ragione o della sola fede non corsa dal pensare credente che voglia rimanere nell’equilibri possa essere pero e non sacrificare alcunché, lo conferma fra gli altri Jean Daniélou: «Se il razionalismo l'orgoglio dello spirito che pretende di impadronirsi di Dio e di disporne, costituiscono un considerevole pericolo, quanto maggiormente degno di ammirazione è lo sforzo intrepido dell’intelligenza che, nel rispetto del mistero non rinuncia affatto a comprendere, che va fino alle sue possibilità e non si insostenibile di una luce che l’acceca. Questa intrepi arresta che vinta dal peso dezza dell’intelligenza nell’esplorazione del mistero resta la grandezza imperit ura di san Tommaso d'Aquino Essa costituisce un equilibrio difficile e raramente realizzato fra gli abissi Li

I. Filosofia dell'essere

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colloca con una sua originalità l'istanza magisteriale ecclesiale, che quando ha richiesto la parola in campo filosofico (la cosa è accaduta con una certa frequenza negli ultimi 150 anni), ha evitato di rompere il legame fra fede e ragione, nonostante le indubbie tensioni. La fede non ha alcun interesse a screditare la ragione, come vorrebbe una problematica e alquanto spicciativa apologetica; e la critica da essa rivolta alla ragione illuministica e razionalistica non ha ceduto il campo alla posizione estrema, dove l'affermazione di fede si innalzerebbe severa-

mente solitaria sulle rovine di ogni ricerca umana. Un atteggiamento di apertura e di dialogo non toglie autonomia alla filosofia: essa non è ancilla di nessuno. Se per secoli significative obiezioni si sono appuntate sull’espressione per cui la filosofia era considerata ancilla della teologia (locuzione impropria, poiché non salvaguarda a sufficienza l’autonomia del pensare filosofico), vi è oggi da temere che la filosofia non sia divenuta ancilla scientiarum: sempre più spesso so-

no le scienze ad assegnarle i temi da pensare, il perimetro entro cui muoversi, il campo degli oggetti disputabili. Se la scienza appare molto più potente della filosofia per quanto concerne la sua capacità di cambiare la vita, le sue teorie però non si estendono mai all’intero come quelle filosofiche, e rimangono più incerte e mutevoli rispetto ad alcuni fondamentali guadagni conoscitivi della filosofia, che in alcuni casi raggiunge la forma del sapere stabile e non smentibile. La scienza non è in grado di compiere alcuna scelta di trascendenza, orizzontale o verticale, e la sua pratica conduce a considerare soltanto l’elemento del divenire, poiché la natura è in costante movimento, con la conseguente impossibilità di raggiungere lo strato dell'eterno e del senso ultimo. In questi campi l’enciclica stringe alleanza con quella parte della filosofia che si pone come contraltare dell’assunto centrale di ogni antico e nuovo positivinous, li del razionalismo e del fideismo», «Le Dieu des philosophes», in Dieu et Grasset, Paris 1956, p. 59.

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Filosofia e Rivelazione

smo: l’idea cioè che solo la scienza raggiunga la forma del conoscere, e che dunque la filosofia abbia al massimo una funzione di supporto delle scienze; valga come una sorta di canone epistemologico che mette ordine nei suoi risultati. Se si domanda che cosa possa significare il richiamo alla responsabilità della filosofia, risponderei: che essa riprenda contatto e “ripeta” le esperienze originarie da cui ha preso inizio. Ora, vi sono due grandi rami dai quali discende la filosofia: il senso dello stupore dinanzi all'essere e alla vita, e quello del tizzzore, inteso non come paura o fobia, ma come sosta me-

ditante su quanto va dileguando, sul declinare della vita e delle cose verso la scomparsa 3. Tanto lo stupore o la meraviglia fanno sorgere in noi il desiderio di conoscere e di filosofare, al-

trettanto lo produce in noi la rzeditatio mortis. Se nel libro dei Proverbi e nel Siracide leggiamo: «Initium sapientiae timor Domini», una parte almeno della filosofia potrebbe dire: «Initium philosophiae meditatio mortis». Qui la filosofia con la sua vocazione essenziale si candida a valere come farmaco contro l’orrore del nonsenso, e a preparare forse ad una esistenza più libera di quella terrestre. Tuttavia, dopo che la filosofia ha per lungo tempo saputo dire tanto sulla morte, specialmente considerandola in rapporto al tema dell'immortalità, oggi incisive trasformazioni spirituali sono intervenute, per cui la questione della morte appare largamente affidata alle scienze. Valutata con i loro schemi, essa viene intesa come un evento meramente biologico che non dà adito ad ulteriori domande, per cui sa3 Sul primo elemento, quello dello stupore, si è soffermata la filosofia di Schelling: «È una sentenza nota di Platone: la passione del filosofo (to pathos tou philosophou) è la meraviglia (to thaumazein). Se questa sentenza è vera e profonda, allora la filosofia, invece di essere limitata a ciò che deve esser compreso come necessario, sentirà piuttosto la tendenza a trapassare da ciò che essa stessa deve riguardare come necessario, che pertanto non provoca nessuna meraviglia, a ciò che sta fuori e al di sopra di ogni esame e conosce nza necessari; essa non tro verà nessuna pace, prima di essere arrivata a qualcos a che sia degno di una assoluta meraviglia», Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bàusol i i logna 1972, vol.

II, p. 121.

RR

I. Filosofia dell’essere

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rebbe vano cercare una sostanziale differenza fra il dileguarsi dell’uomo e quello di qualsiasi altro vivente. Non solo si dice: «si muore, e questo è tutto», ma si tende a porre semplice-

mente un'equazione fra l’intero e la mortalità. Tutto (i! Tutto) è mortale. La meditatio mortis non sembra più qualcosa che riguardi la filosofia, che in numerose scuole esprime una preferenza piuttosto per questioni logiche, epistemologiche, formali, notevoli eppure diversive rispetto alla serietà della domanda sulla morte. Questo complesso di eventi costituisce un impoverimento per il pensiero, che perde uno stimolo formidabile. Il filosofare entra in una zona di rischio quando l’uomo non prova più stupore di fronte all'essere, uno stupore che metta in moto qualcosa di profondo in lui; o quando non sente la sfida dell’assurdo che si diparte dalla certezza del dover morire, ed anzi allontana quanto più può lo spettacolo della morte da sé e dalla città. Quei due rami del filosofare non erano estranei agli antichi: la mente corre ad Aristotele e soprattutto a Platone, che nel Fedone intende la filosofia come medi-

tatio/praeparatio mortis 4. Là dove lo stupore di fronte all’essere e alla vita — che dovunque sovrabbondano e si danno — è scarso, là dove la meditatio mortis non accade più, vi sono buoni motivi per sospettare che la ragione umana sia diventata anemica e pigra. La ragione debole di cui molto si parla, potrebbe essere una ragione stanca, inadatta a riesplorare le esperienze cardinali dell’esistenza sul vivere e sul morire.

si esercitano 4 CÉ. Fedone, 67 a ss. «Coloro i quali filosofano dirittamente

altro a morire... e la morte è per loro cosa assai meno paurosa che per chiunque la realtà degli uomini» (67 e). Sulla cattiva filosofia che vuole mettere da parte Genova della morte, cf. anche F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, in trasforma mondo... dal bandire può si non che 1985: «La realtà della morte filosofia, l’idea di menzogna prima che sia pensato il pensiero fondamentale della un'unica ed universale conoscenza del Tutto» (p. 5).

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Filosofia e Rivelazione

LA QUESTIONE DELLA VERITÀ E DELLA LIBERTÀ

La questione fondamentale del nostro tempo, come di qualsiasi altra epoca, è quella della verità, la quale va posta nel-

le condizioni proprie dell’esistenza spirituale contemporanea, dove al razionalismo di un tempo troppo fiducioso di raggiungere il vero è succeduta una radicale sfiducia nella ragione. In questo elemento si solidifica il dramma che investe il pensare filosofico mondiale, e che talvolta giunge al tentativo di dissolvere l’idea stessa di verità. Con una mossa strategica l’enciclica presenta l’uomo come «colui che cerca la verità» (n. 28). Se cerchiamo di intendere questa determinazione, dobbiamo dire

che la ragione umana, con la forza incoercibile che proviene dall’esplicarsi di un’inclinazione naturale inscritta nel dinamismo delle facoltà e che in quanto tale precede l’atto dell’arbitrio, è per natura orientata al vero: ogni uomo desidera per natura conoscere e conoscere il vero, non l’errore, di modo

che nelle coppie “conoscenza

- conoscenza

della verità”,

“ricerca - ricerca della verità”, il secondo termine non fa che

esplicitare quanto è già contenuto nel primo. Con la suddetta

determinazione si introduce una nuova definizione dell’uomo,

da affiancare a quelle più celebri e tradizionali che lo pensano come animal rationale o animal liberum; e si pongono le pre-

messe per sostenere una anteriorità ontologica o un primato

della verità sulla libertà: la mente si lava con la verità, l’intelletto con la conoscenza. Nell’idea che l’uomo sia strutturalmente o essenzialmente colui che cerca la verità, è incluso

qualcosa di ulteriore: l’assunto che il suo destino — qualunque esso sia a vada pensato come raggiunto o perduto, a seconda che egli sia in grado di pervenire o meno ad un rapporto personale con la verità. Ciò sottintende una concezione in cui l'appropriazione esistenziale della verità sia decisiva, di modo che alla sua questione appartiene l’oltrepassamento dell’astrattezza della norma per la concretezza della sequela.

Nello spazio della verità si gioca il destino della filosofia,

I. Filosofia dell'essere

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che fa tutt'uno con quello della metafisica: al di là di sottolineature variabili secondo le scuole, la metafisica è la ricerca dell'intelletto in ordine alla chiarificazione della struttura dell’intero, o anche la sua ricerca sul mistero del tutto, allo scopo di raggiungere un sapere stabile. Impiegando il termine “miste-

ro” invece che quello più usuale di “problema”, si allude all’idea che il mistero differisca dall’assurdo: non vi è equivalenza alcuna fra mistero e assurdo, come ha ritenuto e ritiene il ra-

zionalismo. Il mistero, lungi dal costituire contraddizione o

destituzione della ragione, è una pienezza di verità, velata, in ombra, inesauribile, dove la mente si inoltra, senza poterla af-

ferrare completamente, nel contempo confermando l’intuizione originaria che dice dell’incondizionatezza e della universa-

lità del vero. Non sono soltanto alcune conoscenze universali,

quali quelle veicolate nei primi principi speculativi e morali, a testimoniare della capacità veritativa della ragione umana. É l’incontro progressivo dell’uomo con la verità, accaduto nella storia umana, a certificarlo: incontro che accade nell’apertura all'essere e si realizza tramite la dilatazione dell'anima e lo sviluppo dell’autocoscienza. L'insieme di questi guadagni trova il vertice nella conoscenza di Dio come apice e compimento di ogni altra conoscenza. Ma proprio questi assunti vengono 0g-

gi sottoposti a critica e anche respinti, attraverso una sfiducia e un diffuso scetticismo che privano la ragione umana della sua capacità “teo-relativa”, ossia indirizzata e riferita a Dio. L'accertamento della verità dell’essere è il compito dello Standpunkt speculativo, là dove non si decide ma si svela il senso dell'intero: occorre lasciare essere l'essere, occorre lasciare

che appaia. Strettamente connessa all’istanza di uno sguardo teoretico indirizzato all'intero è la questione — vero tema di di contrappunto — dell'oblio dell’essere. Sebbene il termine sia ultimamente modo al connesso origine heideggeriana e perciò delambiguo con cui è posta nel pensatore tedesco la questione intenderlo per motivi la «differenza ontologica», non vi sono avviso solo alla maniera di Heidegger. Oblio dell’essere, a mio

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Filosofia e Rivelazione

significa che per parte della cultura postmoderna l’essere, l’esi-

stenza sono muti, non-rivelativi: l'essere non è “fanico”

o di-

svelante (anche sotto l’elemento del simbolo), perché è mera res extensa che non rivela nulla. Quando si giunga a questa condizione che è ad un tempo esistenziale e culturale, la realtà appare al soggetto qualcosa di estraneo, ostile, verso cui ci si può rapportare solo nel modo della sfida e del dominio. La questione della verità come svelamento (aletbeia) resta centra-

le per la filosofia e la teologia, poiché oltre alla Rivelazione divina esiste una parola naturale o una attitudine rivelativa naturale dell’essere, che in quanto fanico è anche teo-fanico. A questa disvelabilità naturale dà voce la ricerca metafisica. L’'incontro fra pensiero credente e postmodernità non potrebbe accadere al di fuori di questa dimensione. Questo nucleo fa tutt'uno con la questione della verità e del senso. Per quanto nel titolo dell’enciclica compaiano i due termini di fede e ragione — ampiamente consacrati dalla tradizione anche quando si tende a sopprimerne uno o ad opporli — il suo tema non è in primo luogo questo, quanto la questione della verità (cf. l'incipit: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità») e quella della Rivelazione («Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso», n. 7). Ad una riflessione meditante, questi sembrano i due punti focali del testo,

entro un intreccio originario di fede e ragione, che nella vicenda del pensiero occidentale è stato fecondo. Sarebbe segno di qualche frettolosità intendere il titolo dell’enciclica come se volesse dire: fede e ragione, cioè teologia e filosofia. L'atto intenzionale-conoscitivo della ragione e l’evento della Rivelazione sono più originari, ossia precedono tanto la filosofia che sl struttura tecnicamente, quanto la fede che cerca la propria autocomprensione i nel compito teologico. Liinterlocuzione fra Rivelazione, Bibbia, ragione, filosofia, fede ac-

I. Filosofia dell’essere

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cade e va pensata nella storia, tuttavia non nel modo che il suo prodotto risulti pienamente risolvibile entro il circolo della storicità. La parola pronunciata dalla ragione e la parola ascoltata dalla fede non si riducono solo al contesto storico-culturale, come vorrebbe oggi un radicale multiculturalismo. D'altronde il postulato dell’unità della verità, alluso nell’immagine delle due ali con cui lo spirito si innalza verso il vero, non contrasta con l’esperienza usuale della frammentazione del vero in una molteplicità di veri singoli e parziali, se si ammette che la pienezza della verità è escatologi-

ca. Quel postulato rimane comunque importante come indirizzo entro la dispersione. Se il tema è la verità, quella raggiunta dalla filosofia e quella donata dalla fede — poiché una rivendicazione di verità è intrinseca all’atto di fede —, si devono prendere le distanze

dalle diagnosi sulla fine della metafisica e la sfiducia nella ragione che in ciò si cela. Occorre allontanarsi dall'oblio dell’essere e dal suo stretto correlato: l’antirealismo, presente sia nel pensiero debole, sia nel costruttivismo che pensa l'oggetto come costruito dal soggetto e che ci pare presente in varie versioni delle scienze, in specie umane. Sebbene il termine “realismo” sia impiegato parcamente nell’enciclica, l’idea di conoscenza reale e obiettiva che esso designa circola dovunque al punto da stabilirne un presupposto fondamentale, secondo cui tanto la filosofia quanto la fede sono conoscitive, non solo le scienze. Con la questione della conoscenza reale si salda la de-

terminazione dell’essenza della verità (dichiarativa), secondo la

formula — di per sé universale e intrascendibile e perciò fatta propria surrettiziamente da coloro stessi che vorrebbero negarla — dell’adaeguatio intellectus et rei. L’enciclica riprende questa determinazione nella sua essenziale unità (cf. nn. 56 e 82), che pone fuori gioco i tentativi di dualizzare il concetto stesso di verità, ritagliandone un'idea per le scienze ermeneutiche ed un’altra per quelle della natura (le prime caratterizza te dalla “verità” del comprendere e interpretare, le altre dal

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Filosofia e Rivelazione

“metodo” del verificare, come in certo modo intende Gadamer). Nella sua potenza sintetica il concetto di verità come adeguazione o conformità fra atto del soggetto e realtà, abbraccia ogni possibile dominio, oltrepassa il pur fondamentale livello del vero dichiarativo, applicandosi anche al momento dell’azione e della sequela, dove si opera per “render vero” qualcosa. Qui la verità appare — un caso tipico è quello dell’esperienza religiosa — come qualcosa o qualcuno a cui si rende testimonianza, conformando o adeguando la propria vita a ciò che viene richiesto e/o ad un esempio vivente. Tale concetto rimane normativo per ogni sapere, sebbene l’intento di abbandonare la determinazione dell’adaeguatio possa aver contagiato taluni settori della filosofia e teologia recenti. Avrebbero allora ragione coloro che vedono l’“ermeneutica radicale” (che rifiuta appunto l’adaeguatio) come un pensiero amichevole verso la religione. Senonché, se è vero che togliendo l’idea di verità come conformità si tolgono le negazioni della religione, si pone altresì la religione alla stregua di qualsiasi altro elemento, e si giunge al relativismo ‘dove tutto è ugualmente vero e ugualmente falso. Infatti è vero anche l’asserto che tutto sia falso 5. Non è superfluo aggiungere che in rapporto alla domanda sulla verità sono emerse contestazioni esplicite nelle prime reazioni a Fides et ratio. Esse si presentano con l’asserto che

non vi sia bisogno di verità ultime, sostenendo anzi che la ri? Talvolta appunto si sostiene che occorra lasciare ai margini la nozione di verità come conformità per potre al centro la nozione di senso, su cui la tradizione metafisica sarebbe in difetto. Meditando il proble ma si profila peraltro che la nozione di verità è originaria, mentre quella di senso non lo è. Senso può essere il significato di una frase, oppure il contenuto di verità delle verità. Nel primo caso, domandando «che senso ha la frase A?», noi interroghiamo sul suo contenuto intellegibile, se ad es. soggetto e predica to convergano o si contraddicano senza ancora sollevare il problema se la frase A sia vera o falsa in rapporto al reale. Nel secondo caso la nozione di senso anche presa in tutta la sua forza, ossia De pienezza e

verità.

non solo come mera somma di verità atomi che, rinvia a quella

I. Filosofia dell'essere

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nuncia alla metafisica come luogo della conoscenza del senso costituisca una vittoria della ragione postmoderna. Dove vi è stata critica o presa di distanza, il motivo è da ravvisare non in

primo luogo nel mancato nesso tra fede e ragione (e perciò non nelle posizioni della sola fides oppure della sola ratio), ma sulla questione della ragione come tale, dunque della verità e del senso. Su tale questione alcuni hanno detto o diranno: «Lo sappiamo perfettamente, non c’è né verità né senso alcuno nel-

la vita e nell'essere. Siamo noi a crearlo, a porre quel senso che ci consente di continuare a vivere». Nella tentata creazione del senso da parte dell’uomo si condensa da un lato l’esito di una soggettività autocentrata e chiusa che vuole trarre tutto da se

stessa, e dall’altro l’eclisse del carattere rivelativo o fanico del- .

l’essere. Su quest'ultimo aspetto influisce poderosamente lo spirito di dominio della Tecnica e il connesso primato della ragione strumentale su quella rivelativa. Con l'avvento della ragione strumentale accade un mutamento nella percezione dell’essere e degli ordinamenti o ranghi che gli sono interni: essere, nel senso più alto, non consiste ormai nell’essere sempre, ma nello stare nella presenza, disponibili per qualsiasi trasformazione. Essere, nel senso più alto, consisterebbe dunque nell'essere disposto a scomparire, ad annullarsi, a essere-per-lamorte. Se secondo Heidegger l’essenza della verità è la libertà $, non dovrebbe stupire se all'oblio dell'essere e del vero si aggiunga quello della libertà, da intendere almeno come impoverimento dell’idea di libertà e dell’estensione del suo concetto. E si coordini il delicato nesso fra libertà e verità, vera crux di molte e drammatiche questioni. Sappiamo che il problema della libertà ha costituito uno dei massimi nodi della modernità,

pe6 Cf. Essere e tempo, $ 44. La suggestiva formula heideggeriana appare soffermia ci Non verità. della natura la nti concerne equivoci raltro portatrice di

in Terza navimo su questo aspetto, su cui si è cercato di esprimere una diagnosi 176-181. pp. 1998, Roma , Armando , metafisica e o Nichilism gazione.

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Filosofia e Rivelazione

forse il suo programma centrale, da Cartesio a Fichte e Schelling, da Kant a Bergson e Sartre, e insieme uno dei maggiori retaggi rimasti aperti nella transizione dal moderno al postmoderno, soprattutto con la domanda se e come la libertà costituisca quell’originario che non si riconosce più all’essere. Il tema assume ulteriore vividezza con il procedere della crisi della ragione speculativa, quasi sottintendendo di poter recuperare dal lato della decisione della libertà quanto viene a mancare dal lato della verità. Per pensare con speranza di successo il tema della libertà, necessitano almeno due condizioni, col connesso quesito se ricorrano nel postmoderno. La prima è una

adeguata antropologia filosofica, capace di mettere in campo una sufficiente introspezione su come nasca in noi l’atto libero e come si rapportino le due facoltà del volere e dell’intelligenza. La seconda ha a che fare con l'accertamento dell’estensione semantica e della profondità contenutistica del concetto di libertà, spesso frettolosamente assimilato o addirittura identificato con quello di libertà di scelta. La questione della libertà è ben più ampia del solo libero arbitrio, né si può ricondurre solo alla autodeterminazione: oltre alla libertà di scelta (su cui tanto insiste il liberalismo attuale, che ha di mira l’elettore e il consumatore), si incontra la liberazione nella forma sociale e

in quella spirituale, e che è tale in quanto incorpora una libertà

di autonomia, di spontaneità, di fioritura, di esultazione. La

questione della libertà travalica perfino il perimetro della prassi. Preme qui ricordare che essa si estende anche all’intelletto. Esiste una Zbertà intellettuale, che è lungi dal ridursi alla libertà di pensiero quale diritto civile: l'essenza più profonda della libertà intellettuale consiste nell’aderire all'essere, nel

sottomettersi all’oggetto facendosi guidare dalle sue esigenze,

e ciò vale come una libertà di spontaneità nello slancio della mente verso la realtà. L’autentica libertà intellettuale è un momento del problema della verità e fa tutt'uno col realismo, entro un fecondo rapporto con l’essere e la Rivelazione. Nel pensiero ebraico-cristiano si inco ntra un caratteristi-

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co riferimento al nesso fra libertà e verità, in cui si fa avanti una sorta di anteriorità e di maggior radicalità della verità sulla libertà: quantomeno l’anteriorità della ragione veritativa, quale livello deputato a custodire il senso, a proteggere la storia e la vita. Si tratta di un assunto alquanto in distonia rispetto all’attuale enfasi postmoderna sulla libertà. Una delle più vivide espressioni che si incontra nei Vangeli, e che veicola un insegnamento di Gesù, suona: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). Liberi da che cosa? Dal male di

colpa, o — volendo ricorrere al linguaggio teologico — dal peccato? Indubbiamente questa idea è inclusa nel /ogior evangelico, la cui pregnanza è però maggiore, alludendo alla libertà come pienezza di liberazione. Secondo i Vangeli la libertà e la liberazione sono un frutto che matura sotto il sole della verità. Si darebbe dunque una anteriorità naturale e spontanea della verità sulla libertà, senza peraltro dimenticare che nella loro interlocuzione accade un circolo virtuoso fra la ragione che,

aprendosi all’essere, tende al vero, e la libertà che si orienta al

bene. Dinanzi alla suddetta anteriorità, parte della cultura che impregna di sé le società occidentali storce la bocca, manifestando perplessità. Essa sarebbe anzi propensa a capovolgere

l'assunto, sostenendo: «Praticherete la libertà, e la libertà vi

farà veri». Così sembra suonare la formula centrale di un nuovo codice secolarizzato, in cui alla libertà spetterebbe un indifferenziato primato. Anche a stare soltanto dal lato della vita civile, l'affermazione illimitata della libertà è fonte di molteplici atteggiamenti, che rendono ingovernabile lo Stato e impossibile il raggiungimento di una società giusta. La grande confidenza concepita verso la libertà è evento spirituale che invita a riflettere. Proprio quando si diffonde la sfiducia nella verità sino a raggiungere non di rado il livello di una scepsi acuta e di una universale desperatzo de veritate — che è il più inquietante fra tutti gli ospiti e l’esito ultimo del nichilismo che bussa alla porta —, si innalza sino alle stelle la libertà. Sia però lecito aggiungere: è indiscutibile che ogni uo-

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mo cerchi la libertà. Ma è altrettanto pacifico che l’uomo desidera conoscere la verità, non l’errore. Nel legame fra verità e libertà esiste una anteriorità della verità sulla libertà, nel

senso che quest’ultima non è in grado di costituire il vero; lo può riconoscere e “realizzare”, accogliendolo nel proprio agire. Non si intendano queste espressioni in un senso intellettualistico, poiché l’azione del soggetto può sorgere dall'amore del bene, raggiunto per via non concettuale. Tuttavia anche in questa situazione ad ispirare ed attrarre l’azione è la verità sul bene. Se vediamo fede e ragione come due strade rivolte alla conoscenza della verità, si dilegua quella competizione di principio fra loro, pensata nel regime della separazione. Competizione significa che quanto viene attribuito all’una, sarebbe sottratto all’altra: se una acquista, allora l’altra non può che perdere. Il razionalismo e infine l’ateismo hanno pensato così il

nesso uomo-Dio: quanto più l’uomo pone in alto Dio, tanto

più si aliena e sottrae a se stesso qualcosa di essenziale. Lo stesso schema di pensiero si rinviene nel rapporto fra libertà umana creata e libertà divina increata. Quanto viene dato alla prima è per il razionalismo tolto all’altra, e viceversa. Non viene accolta l’idea che le due libertà possano cooperare nella produzione del bene: quella divina come causa prima, quella umana come causa seconda, di modo che l’atto buono proviene tutto da Dio come causa prima e tutto dall'uomo come caùusa seconda.

IL MODELLO

DI RAGIONE E LA SAPIENZA

Entro il dislivello non ostile fra parola della ragione e parola della Rivelazione si può domandare quale profilo della prima emerga dall’enciclica. È una ragione aperta, flessibile conos citiva, lontana dall’oblio dell’essere, dunque contempla.

I. Filosofia dell'essere

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tiva, sapienziale, capace di “vedere” e di “ascoltare”; una ra-

gione forte, non però altera, dura, ostile: ammaestrata dall’esperienza dell’umano, conosce la compassione e il dolore. È una ragione nutrita di esperienza, che fa propria una dottrina della conoscenza analoga a quella circolante nei libri sapienziali della Bibbia (torneremo su ciò), capace di cogliere frammenti di eternità, e in taluni casi di approdare ad un sapere stabile. Attenta a quanto le accade intorno, non ripete il refrain di non poca filosofia attuale, troppo incline a sostenere: «oggi non è più possibile che...». Ad es.: non è più possibile la metafisica; oppure una conoscenza diretta e non solo interpre-

tante; oppure oggi è solo possibile criticare, mai fondare, ecc. Diciamo in prima battuta: lo schema di ragione che viene disegnato nel testo è di tipo veritativo e contemplativo, considerato più decisivo della sola ragione etica. Esso non esclude l’ermeneutica, ma non la intende efficacemente operante senza un presupposto ontologico, ossia che esista una natura o essenza umana largamente immutabile con i suoi desideri, pas-

sioni, necessità. Senza un tale assunto l’intento di comprende- . re testi lontani sarebbe un desiderio votato alla sconfitta, poiché con il trascorrere del tempo sarebbero sostanzialmente mutati il soggetto e le condizioni minime per intenderli. Nell'oblio e infine nella negazione delle essenze si configura un volto notevole e rischioso del nichilismo. Rischioso perché se non vi sono essenze, ed essenze di rango più alto o più basso, non sapremo mai su che cosa fondare l’eventuale rispetto dovuto agli individui che ne partecipano. «L'“essenzialismo” è molto meno facile da accantonare di quanto vorrebbe far credere l’“esistenzialismo” di marca volgare», ha scritto con buone ragioni H. Jonas 7. L’enciclica si colloca in questa area di pensiero non solo quando domanda di passare dal fenomeno voci 7 H. Jonas, Mutamento e stabilità, in AA.VV., Su Heidegger. Cinque

ebraiche, a cura di F. Volpi, Donzelli, Roma 1998, p. 92.

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al fondamento, ma pure quando chiede al pensare filosofico di raggiungere le essenze. Il cenno ai libri sapienziali merita un prolungamento. Se ci riferiamo in specie al Qobelet, intenso in esso è il richiamo all’esperienza come cammino di indagine idoneo alla scoperta della realtà e della verità. Il sapiente del Qobelet vede, sperimenta, paragona, riflette, conclude. Può certo apparire deluso, disincantato, perfino amaro. Rimane comunque un saggio, che nella

ricerca della conoscenza della vita e di un senso non cessa di essere credente. Il suo è anche un sapere doloroso, perché molte cose rimangono incomprensibili e cariche di ingiustizia; ed è pure un sapere duramente contestatore di tante certezze ricevute, più scaltrito e perfino feroce nella critica di molti fallibilisti attuali. Diversi esegeti sostengono che nel Qobelet si realizzi un’originale composizione di ragione e fede, di esperienza e rivelazione, poiché il protagonista è e rimane un sapiente d'Israele che continua a cercare Dio, nonostante non ne comprenda le vie e il modo di rapportarsi all’uomo. Una lezione che può trarsi dal Qobelet sta nell’idea che, pur dando il rilievo necessario all’oscurità che grava sulla vita umana, non esista una opposizione di principio fra sapienza e storia, come

invece ritengono le filosofie che inclinano verso espressioni decisamente formali di razionalità. Si potrebbe anche sostenere che la ragione dell’autore, fortemente radicata nell’esperienza, è sì autonoma o juxta propria principia, ma non autosuffi-

ciente, se con questo termine intendiamo il rifiuto preliminare di ogni altro apporto, il trincerarsi della ragione in se stessa 8.

i

in filigrana una teologia negativa o Dio e le sue vie. Essa, che possiede

> Incontra una potente espressione nel taoismo. della sua virtù, trascrivo la seguente o, non è l'eterno dao. Se il suo nome può essere pronunciato, non è il suo etern o nome. Ciò che è senza nome è il principio del cielo e della terra... La misur a dell’uomo è la terra, la misura della terra è il cielo, la misura del cielo è il dao, la misura del da0 è se stesso».

I. Filosofia dell'essere

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In seconda battuta Fides e? ratio presenta un paradigma non univoco ma polivalente di ragione: come l’essere si dice in molti modi, senza però travalicare nell’equivocità pura, altrettanto la ragione (/ogos pollakos legetai). Viene così allargato di molto il modello consueto della ragione occidentale, spesso ricalcato sulle abitudini della scienza e del razionalismo anche oggi, quando quest’ultimo ha assai minor fiducia in se stesso, e la conoscenza scientifica è avvertita come su palafitte, dunque precaria. Esiste uno sguardo diverso e lontano da quello scientifico oggettivante, esistono forme di razionalità diverse da quella scientifica. L’enciclica amplia il quadro con ricchezza di riferimenti al pensiero greco, al mondo biblico ed ebraico, e perfino con cenni all’Oriente extraeuropeo. Ciò suggerisce come tema di contrappunto che il modello di ragione oggi prevalente nella cultura occidentale sia alquanto svigorito: declinante appare lo slancio verso l’esistenza, sebbene ogni nostra conoscenza sia in ultima analisi conoscenza dell’essere. Assumo come plausibile che la attuale crisi della verità e infine la desperatio de veritate dipendano da un modello anemico, formale e debole di ragione. Quando questo tipo di ragione si volge verso il cristianesimo, fatica a vedervi qualcosa di più di un'etica. Si danno allora la mano due disattenzioni: quella dinanzi all’essere, e quella dinanzi all’evento cristiano, riportato a insegnamento morale, come intendeva Kant. La sua maggior

opera di filosofia della religione, La religione entro i limiti della sola ragione, è un tentativo esplicito di versare il vino nuovo del cristianesimo negli otri un poco screpolati della sola morale. È un tentativo di rinchiudere il cristianesimo entro un re-

cinto, dove Incarnazione, Croce e Resurrezione vengono ad-

domesticate, private del loro significato divino e salvifico, e riportate entro l’ordine esclusivamente morale del sistema. Nella ragione che si dice in molti modi, un rilievo di primo piano va riconosciuto alla ragione concettuale, argomenta-

tiva, dimostrativa, la quale occupa un posto non rimpiazzabile, di poiché la conoscenza che la filosofia cerca è una conoscenza

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Filosofia e Rivelazione

modo perfetto, che raggiunge la verità e sa di conoscerla in maniera stabile, al riparo da colpi di mano e da sorprese: siamo nella regione dell’episterze (scientia), non ancora in quella della sapienza. La ragione argomentativa è in grado di elevarsi al di sopra dell’empirico e del contingente, per accedere ad una certa conoscenza di Dio che rimane oggetto incatturabile, a partire da quella del cosmo ?. Per questo esito non è necessaria una filosofia intrinsecamente religiosa: una filosofia autonoma, come è quella di Aristotele, giunge necessariamente alla teologia filosofica. Vengono perciò allontanate le posizioni dello scetticismo come quelle di tipo “speculativamente negativo”, per le quali è impossibile formulare enunciati sull’assoluto. Conseguentemente la ragione non possiede soltanto una capacità puramente critica, indirizzata a denunciare la negatività dell’esistente. Quale tema di contrappunto della difesa della ragione veritativa affiora nel testo pontificio l’idea di una crisi o eclisse contemporanea della ragione, dunque non solo il tema di una sua crescente separazione dalla Rivelazione. La ragione sembra volgersi a liquidare se stessa in quanto organo di comprensione ontologica, morale, politica, estetica. Tuttavia la ragione argomentativa e la filosofia sono solo una parte della complessa vita dello spirito, che vale come una dimora dai molti padiglioni. Con l’allusione all’intera vita intenzionale dello spirito, ci verranno incontro come sorelle larte, la poesia, la musica, la letteratura: spesso in queste grandi ? Le vie a Dio sono state e sono

nere variabili secondo le epoche e gli stili culturali. Una delle più insidiose dice con Nietzsche: «tutto quello che si lasc que vie di Tommaso (non si dimentichi però la sesta, proposta da Maritain) Dio

De potentia a. 7, q.5, ad 14 m. Sulla forza della razion

alità teo le cinque vie dell’Aquinate, valida «oggi più che mai», cf. Gi care le soglie della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 35.

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produzioni ci sorprende nelle forme più impensate una divinazione dello spirituale nel sensibile, che traluce nel bello. In esse si esprimono il sentimento e la nostalgia di qualcosa che va oltre il solo livello dell'umano, e su cui Baudelaire ha scritto,

commentando Poe: «E questo ammirevole, questo immortale istinto del Bello, che ci fa considerare la Terra e i suoi spetta-

coli come un saggio, una corrispondenza del Cielo. È mediante la poesia e attraverso la poesia, mediante e attraverso la musica, che l’anima intravede gli splendori situati oltre il sepolcro». Forse non è completamente vero il detto di Dostoevskij, secondo cui la bellezza salverà il mondo 1°. La filosofia sa però che uno dei più alti nomi di Dio, forse il più segreto e circonfuso di mistero, è “Bello”. Il Sirzposio platonico può esser letto come un itinerario di ascesa verso la contemplazione della bellezza 11. Nella meditazione metafisica noi riconosciamo il bello come il fulgore o lo splendore di tutti i trascendentali presi insieme (essere, uno, vero, buono). Se non vogliamo li-

mitarci all'ambito importante ma parziale del sapere non smentibile, dobbiamo riconoscere che ragione e fede possono comunicare sulla questione della bellezza, poiché la filosofia

10 Cf. in proposito L'idiota, dove il nichilista Ippolit chiede al principe Myskin: «È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?», aggiungendo: «quale bellezza salverà il mondo?» (L’idiota, p. III, c. 5). Domanda pertinente, poiché vi sono almeno due grandi forme di bellezza: quella estetica percepibile coi sensi, e quella trascendentale raggiungibile con l'intelletto ed esprimente un volto dell'essere. La prima, che sta sul bordo fra sensibile e intelligibile, porta con se qualcosa di grande e di fragile, intuito da è Dmitrij Karamazov («La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma anche un mistero»). 11 «Chi invero sia stato condotto per mano sino a questo punto delle dotgiutrine d'amore, contemplando gli oggetti belli secondo un ordine e nel modo istanun in — scorgerà amorosa, disciplina della fine alla sto, costui ormai, giunto che te- un qualcosa di bello, ammirabile nella sua natura... un qualcosa anzitutto e in seguito che sempre è, e non nasce né perisce, non si accresce né viene meno,

riuscisnon è in parte bello e in parte brutto... Che pensare allora se a qualcuno .. il bello dise di vedere il bello in se stesso, puro, senza macchia, non mescolato. vino nella sua semplicità?» (210ss.).

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tende al bello, quale più alto e nascosto volto dell’Essere, e la fede tende a Dio suprema bellezza.

l

Nel rapporto tra fede e ragione entra di soppiatto e ci sorprende la bellezza: ospite inatteso ma non sgradito, che da un lato veicola un Nome di Dio, e dall’altro con la sua fragilità, la fragilità delle cose belle, ci ricorda l’oltre e la morte, che

lo Zeitgeist vorrebbe allontanare dallo sguardo della mente. Affinché la ragione non fugga dinanzi a questi aspetti, occorre che non si pensi solo secondo un modello utilitaristico, scientifico, strumentale, agnostico sul divino, bensì con respiro sapienziale in una conoscenza che valga come gustosa, luminosa, sintetica: adottando il primo aggettivo si fa menzione del fatto per cui la radice di “sapienza” e “sapere” è la stessa degli aggettivi “saporoso” e “sapido”. Sin dall’origine, sapienza e filosofia procedono strettamente appaiate, poiché lo scopo-guida della seconda consiste nella ricerca della sapienza. Colui che ricerca è in cammino e non stima di essere giunto alla meta. Solo l'ambizione un po’ folle del razionalismo assoluto può illudersi di poter raggiungere la Sapienza, là dove la filo-sofia depone il suo nome di cercatrice e viandante verso la sapienza, e si muta in sapere integrale, infinitamente certo di

se stesso.

Tuttavia questa tentazione è alle nostre spalle, e semmai

prevale la contraria. Se nella cultura contemporanea l’eleme nto della sapienza risulta in condizione precaria, alla radice potrebbe stare la perdita dello stesso tema sapienziale in filosofi a

e forse in teologia, con la concomitante crisi della sapienza cri-

stiana quale edificio che nella sua unità differenziata incorpora in ordine ascendente la sapienza filosofica, quella teologica, quella dei santi o dello Spirito santo 2. Osserviamo che, men-

sota 12 «Non èè dubbio che la nostra cultur a sia da lungo tempo dominata dalo spirito di scienza, che ricerca

il sapere delle cose create, e assume l’unità della propria visione nel proprio slancio prome teico», AA.VV., Sagesse, DDB, Bruge s 1951, p.9.

i

cassia

I. Filosofia dell'essere

DI

tre le prime due sono sapienze di conoscenza e si costruiscono stando dentro la fatica del concetto, la terza è una sapienza di conoscenza ed amore che conduce verso l’alto e ultimamente verso l’esperienza mistica 13. Sarebbe importante ma al di fuori dei limiti di questo scritto ripercorrere le tappe fondamentali con cui — all'insegna di una crescente separazione fra fede e ragione — si è verificata la crisi dell’edificio intellettuale della sapienza cristiana, entro la quale anche la filosofia (e in essa in specie la metafisica) vale come una sapienza: umile, ma necessaria. Costituisce infatti una specifica ricchezza del cristianesimo il lungo e tutto sommato fecondo rapporto fra sapienza teologica e sapienza filosofica 14. Più radicalmente costituisce suo elemento distintivo l’idea della Sofia/Sapienza come eterna pienezza divina, con la connessa questione di che cosa comporti per il pensare filosofico una simile concezione, dove alla faticosa ricerca umana fa cenno da lontano una pienezza trascendente. Nella questione della sapienza è inscritto un doppio superamento: della frammentarietà del sapere, e della crisi del senso al fine di raggiungere una visione unitaria delle cose conosciute. Nel non accontentarsi della cultura del frammento, idonea forse a disegnare minute cartografie di questo o quel 13 «Non vogliamo dire che la sapienza cristiana non sia che la filosofia: essa la oltrepassa come la grazia oltrepassa l’uomo... Il ricorso alla sapienza teolonella gica, che avanza immersa nella luce della fede, al passo di ragione, e risolve dottrina rivelata gli interrogativi dell’esperienza umana, costituirà una delle istancui il ze indispensabili all’instaurazione di quel comportamento evangelico, di sosanti, dei infusa sapienza la è Ma sete. ha saperlo, nostro tempo, forse senza legame prannaturale perfino nella sua démzarche, che costituisce ad un tempo il e p. 17. interiore e la fioritura suprema della sapienza cristiana», ibid., p. 10 per14 Con il rilievo attribuito al momento veritativo-contemplativo viene sapere che cepita nella sua problematicità l’idea — difesa da Heidegger — che il non sia vera promana dalla fede, entro il circuito della fides quaerens intellectum, «la teologia conoscenza, ma semplice elemento positivo. Per il pensatore tedesco modo asin filosofia dalla distingue si tale, come quindi, e positiva, è una scienza p. 7; la 1987, Milano Adelphi, Segnavia, in , soluto» («Fenomenologia e teologia» sottolineatura è dell'autore).

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Filosofia e Rivelazione

luogo dello spirito ma incapace di andar oltre, sta un vivido invito di espressioni consapevoli del pensiero contemporaneo. L’assolutizzazione di tale cultura, che comporta la proliferazione anarchica delle conoscenze analitiche a scapito di quelle sapienziali, rischia di dare partita vinta alla ragione strumentale e rende difficile per il soggetto porre ordine in se stesso, divenendo capace di governarsi. La vicenda dura da tempo e non necessita molta fantasia per intendere quanto impegno ci vorrà per raddrizzarla. Già Hegel osservava che l’illuminismo è cura del “regionale”. Se abbiamo perso il grande bene dell’unità intellettuale di una civiltà, il suo recupero non può accadere percorrendo i due cammini contrapposti della “sola fede” o della “sola ragione”.

LA FILOSOFIA DELL'ESSERE

Se riteniamo di attribuire rilievo alla filosofia dell'essere, è

perché da essa può provenire un’energia unificante capace di andar oltre l’analitico. Tale dottrina si è costruita quale sapere dispiegato e solare in un lungo cammino dai Greci a noi, in cui grandi autori cristiani segnano un approfondimento fondamentale. La loro filosofia si può denominare appunto filosofia dell’essere per lo sforzo sempre risorgente di conoscere l’esi-

stenza, di mettere le mani alla radice delle cose: qui fra i massimi svetta l’Aquinate con la sua dottrina dell’atto d’essere (actus essendi). Vivide espressioni ricorrono in Fides et ratio sulla filosofia dell'essere, di cui non potrebbero fare a meno la teologia dogmatica, quella fondamentale e quella morale: «Se l’îytellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione

teologica, deve ricorrere alla filosofia dell’essere, [ch

filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture el è una ontologiche, causali, comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull’atto stesso dell’essere che per-

I. Filosofia dell'essere

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mette l’apertura piena e globale verso tutta la realtà...» (n. 97). Senza questo ancoraggio conoscitivo, il lume naturale della mente non ne trova altri di pari forza, con l’esito di dubitare di se stessa e di volgersi appunto al frammento 1. In effetti la filosofia contemporanea, che ha largamente congedato la filosofia dell’essere, si trova segnata da incapacità costruttiva sul piano dell’intero. Questo rimane sguarnito, non presidiato da nessuno: non dalla scienza, certo potentissima in molti campi ma incompetente sull’intero; non dalla filosofia,

perché molte scuole l’hanno abbassata a semplice opzione psicologica, spirituale, letteraria, narrativa. Il pensiero degli ultimi decenni, nei momenti in cui non si è rivolto soltanto alla

prassi ma ha gettato uno sguardo sulla questione dell’essere, ha finito per percorrere una parabola discendente dotata di interna coerenza. Esso, in una prima fase, è passato dall’essere

come eterno all'essere come futuro e avvenire (entro l’inglobante generale della Rivoluzione, specialmente marxista ma poi anche nicciana, dove guida la danza l’idea dell’oltreuomo), e successivamente all’essere come povertà e declino. Dall’ontologia senza aggettivi all’ontologia escatologica, e infine all’ontologia debole e sfrangiata, specchio di un soggetto che, intimamente sfiduciato sulla possibilità di trovare un senso, si acconcia alla bell'e meglio a quanto trova intorno. Di pari passo è proceduto lo scoronamento del sapere — strettamente legato a quello dell’ontologia — per cui l’episterze è messa da parte come un sogno e sostituita dal futuro, interpretabile in ascesa oppure in declino a seconda della temperie prevalente nella cultura. Come si può intuire, la dislocazione intervenuta è ricca di conseguenze sul piano dell’articolazione e della significanza di fondamentali concetti filosofici. La scelta non è scarsa. Si va 15 «La nozione tomista di esse è ultima per definizione. È l’ultima Thule

di ogni metafisica, il fondamento di una metafisica per tutti i tempi», E. Gilson,

Le philosophe et la théologie, Fayard, Paris 1960, p. 255.

n

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Filosofia e Rivelazione

dall'idea che non sia possibile applicare a Dio il concetto di es-

sere, all’addebito, infinite volte ripetuto tanto da sfiorare or-

mai la chiacchiera, che l’intera metafisica abbia fallito nel pen-

sare la differenza ontologica fra ente ed essere, all’assunto (an-

ch’esso di matrice heideggeriana) che essere sia stato inteso come identico ad essere presente, sino al giudizio che la metafisica renda impensabile la storia umana come accadere del nuovo e luogo della libertà. In merito a quest’ultima critica si po-

trebbe citare a discarico Felice Balbo, metafisico dell’essere a

pieno servizio, per il quale solo la metafisica dell’essere come actus essendi rende possibile il pensamento del futuro come diverso dalla ripetizione del presente. L'antinomia fra metafisica e cambiamento, pensata da Bloch e risolta con l'adozione di un concetto di essere che si declina esclusivamente al futuro, è

purtroppo un equivoco che sino ad un recente passato raccolse vari adepti. Non constano motivi teoretici per cui la metafisica debba porsi per principio come contraria al mutamento. Queste tendenze ed altre consimili vennero circa 25 anni

fa catalogate da G. Bontadini sotto il concetto di «deellenizzazione» !6, intendendo con ciò esprimere l’allontanamento di considerevole parte della filosofia occidentale dal retaggio greco, particolarmente da quello ontologico. La caratterizzazione pare felice, a patto di aggiungere che nel non applicare a Dio il concetto di essere non si configura propriamente una deellenizzazione, ma più esattamente una “debiblicizzazione”. Dio come essere ci è reso noto dalla Bibbia non dalla grecità, dove egli è o il Motore Immobile (Aristotele), o l’Uno (Plotino),

non l’esse ipsum. Esprimendo una opzione favorevole alla filosofia dell’essere, Fides et ratio non deellenizza, né debiblicizza.

Per quanto il concetto biblico di Dio non sia la fotocopia di quello greco, essi si toccano tuttavia almeno in un punto essenziale: l'affermazione di Dio come Perfezione originaria. 16 Cf. G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975:

I. Filosofia dell'essere

55)

Con l’abbandono di questa idea di Dio, si giunge ad una di-

versa comprensione dell’esistenza, declinata al futuro, e che al-

l’incirca ruota intorno all'impegno umanistico per il mondo. Il richiamo alla metafisica, e in specie a quella dell'essere, si pone come tema di contrappunto nei confronti di un feno-

meno tutto sommato recente, secondo cui entro il perimetro

del cattolicesimo si è venuto svolgendo un percorso analogo a quello che connota quasi tutta la cultura presente: l’abbandono della metafisica e della questione della verità. Oltre alla conseguenza della frammentazione intellettuale, si riscontrano pure esiti sulla teologia stessa, che talvolta sembra meno attenta alla domanda sul vero. Con l’insieme di queste dislocazioni, a cui se ne aggiungono altre intervenute nella cultura, è diminuita in filosofia e nella vita credente l’importanza del «rendere ragione» (/ogor didonai), nel primo caso attraverso un indebolimento delle percezioni intellettuali primarie e del processo argomentativo, nel secondo in omaggio ad un primato attribuito alla testimonianza e all’esperienza, che rischia di trascu-

rare l’invito dell’apostolo: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3, 15s.). Di conseguenza il cristianesimo è stato inteso solo come una esperienza, non anche come un sapere e una sapienza. Gioca in questo restringimento di orizzonti, più o meno con-

sapevolmente, un’idea limitata e problematica di sapere, inteso soltanto come competenza tecnica, funzionale, come un’a-

bilità a scopo utile (ciò è in effetti incluso nel termine inglese ‘ skill), che spesso nella scuola e nella cultura pare divenuto l’unico paradigma del concetto di sapere, a danno dell’aspetto sapienziale che resta basilare. Entro lo spazio concettuale che assegna rilievo alla filosofia dell'essere, si possono enucleare altri punti notevoli: a) il più alto rango della ragione rivelativa su quella tec| nico-strumentale. Si incontra in proposito in Fides et ratio una affinità con la severa critica della ragione strumentale da parte della Scuola di Francoforte, la quale aveva intuito che la fine

AVE MARIAUNIVERS,

36

Filosofia e Rivelazione

della ragione rivelativa avrebbe aperto una voragine: «La morte della ragione speculativa, dapprima serva della religione, poi sua nemica, può rivelarsi catastrofica per la ragione stessa» !. Prolungando il pensiero di Horkheimer, sembra dischiudersi una prospettiva che meriterebbe una assidua meditazione: con la crisi della ragione speculativa, mentre si tocca il vertice del nichilismo (teoretico), si manifesta la difficoltà in cui viene a

trovarsi l’uomo nell’intendere una possibile Rivelazione. Dal lato della Rivelazione e del suo ascolto, il nichilismo è quell’evento per cui, disseccatesi le sorgenti dell'intelletto contemplativo e avvenuta la trasformazione della mente in ragione strumentale, non può esser più inteso in senso proprio ciò che esce dalla bocca di Dio. Il nichilismo sterilizza, poiché la mente non è più in grado di riferirsi contemplativamente a oggetti, e perciò di “vedere” e di “ascoltare”. All’eclisse del carattere fanico-rivelante dell’essere, non più raggiunto dall’intelletto, si appaia la dissoluzione del carattere rivelativo della Parola. Quando tutto è inteso con le categorie dell’utilizzabile e “dell'essere a portata di mano” per ogni possibile trasformazione, per cui non vi è rigorosamente nulla da disvelare, l’idea stessa di una Rivelazione divina entra in crisi;

b) presentando la filosofia dell’essere come punto di vertice del pensare filosofico, Fides et ratio sembra suggerire in filigrana la prospettiva della “terza navigazione”, ossia che dopo la “seconda navigazione” platonico-ellenica siano intervenuti nella vicenda della filosofia un progresso, un’ulteriorità, un avanzamento, concretatisi nella filosofia dell’essere con le con-

cezioni dell’essere come actus essendi e di Dio come ipsurz esse per se subsistens. Ciò è coerente con l’idea che la Rivelazione, provocando la mente, stimoli il pensare filosofico ad andar oltre, a compiere un viaggio nuovo, una nuova “navigazione”

che lo conduca ad un più penetrante contatto con la verità dell'essere. Nell’idea di “terza navigazione” si incontra un esito 17 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1977, p. 23.

I. Filosofia dell'essere

37

notevole di quella cooperazione fra filosofia e Rivelazione che è cardine del pensiero credente: la filosofia avanza verso un incontro progressivo con la verità, conseguendo una migliore

comprensione di se stessa e del suo scopo. Rimanendo entro il suo terreno, stimolato però da un’energia superiore, il pensare filosofico non è un percorrere sentieri che non portano mai da alcuna parte; c) l'importanza attribuita alla filosofia dell'essere non sembra peraltro riposare tanto su motivi apologetici quanto speculativi: solidità, adeguatezza al reale, lontananza dall’oblio dell'essere, forza costruttiva sul piano dell’intero. Non viene perciò negata legittimità ad altri orientamenti filosofici compatibili col cristianesimo. La Seinsphilosophie è proposta, non imposta. È preferita perché ritenuta maggiormente idonea per il compito teologico, dogmatico, morale. E gli autori cristiani moderni e contemporanei di cui si tesse l'elogio al n. 74, non possono tutti venire ascritti alla filosofia dell'essere. Essi sono citati per aver tenuto in stretto rapporto filosofia e teologia, ragione e fede. Altrove (cf. n. 59) si riconosce che il rinnovamento nella cultura cristiana non fu dovuto solo al tomismo e al neotomismo, quanto pure ad altre scuole, fra cui quelle che partendo dall’analisi dell’immanenza dischiusero il cammino verso il trascendente (un riferimento implicito a Blondel?), e quelle che fecero ricorso al metodo fenomenologico; d) il passaggio dal soggettocentrismo psicologico ad una diversa antropologia, nel senso che si può individuare come compito per il pensiero futuro lo svolgimento di una antropologia ontologica, secondo un metodo coerente con la nuova determinazione dell’uomo che lo intende come “colui che cerca la verità”. Poiché la verità è necessariamente relativa all’essere, dire che carattere principiale dell’umano consista nel cercare la verità si approssima a sostenere che la dignità dell’uomo si radichi nel suo rapporto con l’essere. Nella transizione

‘dal soggettocentrismo ad una forma di ontocentrismo si procede a intendere ontologicamente l’uomo, non antropologica

Filosofia e Rivelazione

38

mente l’ontologia. Quest'ultima dunque non vale come una

scienza umana, poiché non verte sull'uomo ma sull'essere, sebb)

bi

bene come ogni scienza sia elaborata dall'uomo. .

.

.

>

METAFISICA BIBLICA

L'istanza metafisica, quale luogo in cui viene a svelamento almeno parziale la verità dell’essere e la struttura fondamentale dell’intero, è coniugabile con il testo biblico entro una circolarità ermeneutica feconda a vario titolo per entrambe: la ragione metafisica aiuta a cogliere le affermazioni di portata ontologica presenti nella Bibbia; d’altro lato quest’ultima vale come una inesauribile sorgente di ispirazione per il pensare credente, per quanto si potrebbe chiamare la “metafisica biblica” o anche la “metafisica cristiana”. Si può preliminarmente osservare che il ricorso alla metafisica si estende anche alla retta comprensione della Bibbia, dove innumerevoli sono le affermazioni di portata ontologica, per intendere le quali una filosofia fenomenista o relativista sarebbero impari. Nella Rivelazione quale parola di Dio all’uomo è trasmesso, secondo diversi generi letterari, un nucleo di

verità sull’essere, su Dio, l’uomo, il cosmo e il loro destino; vi è contenuta una struttura metafisica, che risulta non compati-

bile con ogni filosofia. Volendo esemplificare in modo cursorio, nei primi versetti della Bibbia è contenuta un’intera metafisica, quella per cui Dio e il mondo sono infinitamente diver-

si: il mondo non è Dio, né sua emanazione necessaria, né è di essenza divina. Neppure è increato o autogenerantesi: non è

perciò l'Assoluto. Contingente e mutevole, è stato chiamato all’esistenza da un libero atto dell’Assoluto: con ciò si esclude ogni forma di panteismo così come di autosufficienza intenta ad escludere dal finito ogni riferimento all’infinito. Considerazioni affini possono essere svolte sull’antropologia veicolata in

I. Filosofia dell'essere

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quei versetti, a partire dall'idea dell’uomo come ?mrago Dei, persona ed ente libero. In vari lavori Cl. Tresmontant ha mostrato l’esistenza di una «metafisica cristiana» contenuta nelle Scritture e nella dogmatica cristiana. Le loro prospettive meta-

fisiche includono una ontologia, una dottrina del mondo, della materia, del divenire storico, dell’azione, differenti da quel-

le del pensiero greco: «Il cristianesimo comporta una struttura metafisica, che non è qualunque; il cristianesimo è una metafisica originale... in confronto alle metafisiche esistenti quali quelle dell'India, della Grecia, dell'Europa moderna non cri-

stiana e parzialmente cristianizzata» !8. AI bagaglio della metafisica biblica appartengono pure la negazione del materialismo e, sul piano antropologico, la delicata questione dell’anima, che tanto tormentò il pensiero antico, e che viene risolta nel senso che l’anima non è né esistente ab aeterno, né increata, né divina, né trasmigra, ma è creata im-

mortale. Entro quel deposito si segnalano pure le dottrine affermate nei primi versetti del Credo, e che formano quanto in senso estensivo si potrebbe denominare la “metafisica del Credo”. Recitando la sequenza: «Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium...», si dichiara l’unicità di Dio, la sua onnipotenza;

si rifiuta la tesi dell’esistenza di due supremi principi e la posizione teosofico-gnostica secondo cui Dio ha fatto solo le anime e le realtà invisibili, mentre quelle materiali sono opera di un altro principio, di un Demiurgo malvagio. Dal lato della fecondazione e dello stimolo che la Bibbia ha esercitato nei confronti del pensare filosofico, e che sembra incontestabile all'accertamento storico, si segnala l’introduzione nella sfera della filosofia di concetti che le appartengono in

18 Les idées mattresses de la métaphysique chrétienne, ed. du Seuil, Paris 11s. C£. anche dello stesso autore Etudes de métaphysique biblique, Gapp. 1967, in | balda, Paris 1955, e il mio saggio I/ Concilio Vaticano Il e la filosofia cristiana, «Doctor Communis», XXXV, 1980, pp. 31-50.

40

Filosofia e Rivelazione

proprio, che è compito della filosofia chiarire, ma che le erano rimasti estranei prima del cristianesimo: il concetto di creazione, di persona, una più ricca idea di natura, la nozione di Dio come Essere (forse già intravista da lontano da Aristotele, cf. Met., 1073 a 23), la distinzione reale tra essenza ed esistenza in

tutti gli esseri creati e la loro identità in Dio 19, e in campo morale i concetti di male e di peccato, l'inesistenza di un primo Principio del male, ecc. Forse la tradizione filosofica precristiana non ignorava completamente questi temi, ma su essi ri-

maneva più o meno fortemente all’oscuro ed in una perplessa incertezza. Ed è grazie all'opera del filosofare cristiano che il pensiero ha potuto impossessarsi con maggiore

certezza

di

quelle verità ed esplorarle più compiutamente. La Rivelazione non vale per la filosofia come un limite esterno o una regola negativa, bensì come ispirazione e stimolo che raggiunge e fe19 Questa scoperta viene dalla Bibbia, non da Aristotele o dai Greci, come avverte l’Aquinate: «In Dio l'essenza si identifica con l’essere. Di questa sublime verità Mosè fu ammaestrato dal Signore, quando chiedendogli egli: “Se i figli di Israele mi domanderanno: qual è il suo nome? Che cosa risponderò?”, il Signore disse: “Io sono Colui che sono”», Contra Gentiles, 1. I, c. 22.

Il testo di Es 3, 14 è stato assunto come centro della teologia cristiana del-

la Patristica e della Scolastica da Agostino, Anselmo, Tommaso, Bonaventura, ecc. Ma se alcuni esegeti ci assicurano che quel testo non è stato ben interpreta-

to, poiché il suo senso è un altro, come evitare l’idea che la teologia cristiana per quasi due millenni si sia ingannata sulla Bibbia? La lettura spregiudicata del brano di Esodo pare mostrare che, avendo Mosè domandato a Dio il suo nome, Egli risponde rivelandolo come Io soro. Con tale risposta Dio non ha voluto insegnare una metafisica o un concetto di essere: ha lasciato che i filosofi lo scoprissero via via nelle sue parole. Quando nell’Itinerarium mentis in Deum san Bonaventura (cap. V) tratta «de speculatione divinae unitatis per ejus nomen primari um, qu od est esse», si introduce una smentita arte litteram: alla troppo celebre frase hei deggeriana sull’ontoteologia che intenderebbe Dio come ens supremut, cioè come vertice di una catena di enti. E se non bastasse l’attestato dei teologi cristiani, si potrebbe ricorrere a quello di Avicenna, il quale osservava che Pri77775 quidditatem non habet: non avendo ( essenza, Dio io èè esattamente agli antipodi dell’e nte, il quale è tale

in quanto ingloba una quiddità. Secondo Gilson, la frase di Avicenna segna il punto più alto mai raggiunto dalla teologia naturale (cf. Costanti filosofiche dell'essere, Massimo, Milano 1993, p. 200)

I. Filosofia dell'essere

41

conda le sorgenti dell’intelletto, e senza di cui questo è esposto a lasciar cadere nell’oblio problemi notevoli. Una significativa prova di ciò sta nell’allontanamento a cui varie contemporanee filosofie hanno sottoposto il tema del male e del dolore, centrali nell’orizzonte biblico. L’esito è meglio assicurato quanto più il filosofare credente ha cercato di mantenersi fedele ad una notevole regola, cioè l’intercomunicazione vitale, la continuità e il sostegno tra gli babitus, per cui quelli superiori sostengono, fortificano e affinano quelli inferiori. Ciò significa che l’habitus teologico e la contemplazione evangelica spiritualizzano e possono rendere maggiormente acuto l’habitus metafisico. L'enciclica Aeterni Patris (1879) col suo stile antico conferma questa regola: «È tanto poco vero che la luce sopraggiunta della fede estingua o diminuisca il vigore dell’intelligenza, che anzi piuttosto lo perfeziona, e accrescendone le forze lo rende capace di cose maggiori e più alte di quelle a cui è naturalmente ordinato». Per-

tanto la “filosofia cristiana” rimane filosofia, ossia qualcosa di

mondano, ma è posta in una condizione migliore: è filosofia che raggiunge la maturità, che procede quanto più si può nella conoscenza della verità dell'essere. Come ha più volte osservato Gilson, l’esistenza della filosofia cristiana, ad esempio nel quadro del pensiero medievale, riposa sull’assunto che Agostino non ripeta semplicemente Platone, che l’Aquinate o Duns Scoto non siano soltanto un Aristotele mal compreso; e che perciò tale filosofia possieda una sua originalità, un proprio campo tematico. L'immenso vuoto postulato tra Plotino e Cartesio, uno sterile deserto di quasi quindici secoli in filosofia, che venne sostenuto anche da È. Bréhier nella sua Histoire de la philosophie, va considerato un asserto favoloso (per Bréhier nei Padri, in Agostino, nell’intero Medioevo non vi era traccia di filosofia, ma soltanto asgiustapposizione di elementi eterogenei, una mescolanza di raziovalore senza serti dogmatici e di proposizioni filosofiche a menale). La conclusione di Gilson in Lo spirito della filosofi

42

Filosofia e Rivelazione

dievale, che rimane una delle sue opere più riuscite, è che la rivelazione ebraico-cristiana è stata una fonte religiosa di sviluppo filosofico, essendo il Medioevo latino il testimone per eccellenza di tale sviluppo. Contro tale conclusione ci si può esprimere sostenendo che quanto ha subito l'influsso di una > fede religiosa ha cessato per ciò stesso di detenere valore filosofico: questo appare però un postulato razionalista contrario alla ragione. Una filosofia che si ispira alla Rivelazione non è di per se stessa falsa; sarà vera se sarà una buona filosofia. E d’altro canto gli averroisti latini, che deliberatamente vollero sottrarre la loro filosofia all’influsso cristiano, hanno dato prova di sterilità filosofica. Un pensare filosofico libero da quanto Vico chiamava la «boria dei dotti» è più capace di chinarsi sull’uomo e di cogliere la ricchezza, la complessità, il chiaroscuro

dell’esistenza.

II. INTERMEZZO

SUL PENSIERO MODERNO

LA SEPARAZIONE

FRA FEDE E RAGIONE

L'interesse della Chiesa per la filosofia, divenuto più intenso nell’ultimo secolo e mezzo, come attestano i due Concili Vati-

cani e la Aeterni Patris, è evento che stimola la riflessione poiché dal lato del pensiero si è acceso il più intenso e duraturo fronte fra modernità e Chiesa: in esso sono accadute le dialettiche più decise, i contrasti più forti, le maggiori difficoltà, che, bal-

zando fuori dalle pagine dei libri, hanno assunto carne e sangue e sono entrati con forza nell’esistenza storica. Non appare infondata l’idea di chi sostiene che la storia moderna sia “storia

filosofica”, ossia uscita in buona misura dalle menti dei filoso-

fi. Soprattutto dai tempi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese in avanti, il dissidio, già latente qua e là nel XVI e XVII secolo, divampò con forza toccando l’apice nell’800 e in parte del nostro secolo. Anche oggi il giudizio ecclesiale sulla filosofia moderna e contemporanea, pur presentandosi più duttile e variegato, più sereno ed esente da anatemi rispetto al passato, non maschera le riserve che permangono Se consideriamo come Fides et ratio configura il pensiero moderno, ci accorgiamo in primo luogo che essa non sposa l’idea di uno sviluppo omogeneo della filosofia, sostenendo piut‘ tosto che nella modernità sia intervenuta una importante cesura introdotta dai rovatores. L’abbozzo per scorci di storia del-

la filosofia presente nel testo lascia intendere, contrariamente alla poderosa ricostruzione hegeliana, che la successione stori-

44

Filosofia e Rivelazione

ca dei sistemi metafisici non sia la successione logica delle de-

terminazioni fondamentali dell’Idea. In proposito scriveva Hegel: «Nel movimento dello spirito pensante vi è una continuità essenziale e si procede razionalmente. Con questa fede nello spirito del mondo dobbiamo accostarci alla storia e particolarmente alla storia della filosofia» !. Piuttosto si danno nella vicenda del pensare filosofico acquisti come perdite, tanto innalzamenti quanto cammini tortuosi, dove ad ogni angolo sta in

agguato il meglio e il peggio. In Fides et ratio esistono passaggi in cui alla modernità filosofica si riconoscono aspetti positivi e grandi meriti: ad es. lo sviluppo di attenzione all’uomo, quella per la storia e il problema della conoscenza, la cura per l’universo del sapere, gli sviluppi contemporanei riguardanti la logica, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio, la filosofia della natura, l'approccio esistenziale all’analisi della libertà. Non è casuale che nell’elencazione non compaiano la metafisica, l’ontologia, l'etica, ossia

le discipline tradizionalmente centrali del filosofare, nelle quali - sembra di intendere — non sono intervenuti grandi sviluppi, o perfino possono essere accaduti indietreggiamenti. Neppure è casuale che quando ci si riferisce alla filosofia antica si parli di maestri, titolo che non è impiegato per i pensatori moderni. Ciò lascia intendere che nella valutazione dell’enciclica gli aspetti d'ombra, i giudizi dubitativi o anche negativi prevalgano, sino al punto da sollevare la questione se considerevole parte del pensiero moderno sia idoneo a favorire quella fides quaerens intellectum, quella ricerca di genuina autocom-

prensione della fede che pensa se stessa, che costituisce cardine del credere cristiano e norma della sua teologia; e se esso piuttosto non soggiaccia ad agnosticismo, relativismo, scetticismo. Un orizzonte comune della diagnosi, spesso

radicale sfiducia nei confronti della conoscenza evocato, è la della ragione e 1 G.W.E He gel, Lezioni di storia della filosofia, i La Nuova Italia, Firenze

II Intermezzo sul pensiero moderno

45

la fine della metafisica, a cui la tarda modernità è pervenuta. La sua dialettica discendente ha poi favorito l’essor della ragione strumentale per fini di utilità sociale e di potere 2. L'esperienza spirituale che raramente ha consentito nel moderno un fecondo rapporto fra filosofia e Parola di Dio, è individuata nella crescente separazione fra ragione e fede, filosofia e teologia: «la legittima distinzione fra i due saperi [teologia e filosofia] si trasformò progressivamente in una nefasta separazione» (n. 45). Essa era individuata come elemento negativo anche nella Aeterni Patris, secondo cui «ottimi fra i filosofi sono quelli che congiungono lo studio della filosofia con l’ossequio della fede cristiana». L'armonia fra ragione e fede raggiunta nel pensiero patristico e medievale venne compro-

messa dalle filosofie che posero la conoscenza razionale come separata e alternativa alla fede, spesso giungendo alla contrapposizione esplicita, e che programmaticamente trascurarono le luci di verità contenute nel messaggio di Dio all'uomo. Un tale movimento, iniziato nei secoli XVII e XVIII, ha toccato

l’acme nell’800 con espressioni dell’idealismo, con l’umanesimo ateo, col positivismo, col passaggio dalla ragione rivelativa a quella strumentale. Si può dire che questi aspetti si sommano fra loro, conducendo alla perdita della dimensione sapienziale della filosofia nella ricerca del senso. Le posizioni a cui si rivolge l'esposizione critica dell’enciclica possono essere fatte risalire sia ad un antirealismo che nega la conoscenza ontologica oggettiva e si attarda nel fenomenismo, nel relativismo e nel rifiuto della metafisica senza di cui diventa velleitario avere accesso alla sfera del trascendente; sia al non ancora avve-

nuto superamento del principio di immanenza, che veicola la pretesa di una autofondazione assoluta della ragione entro il circolo insuperabile dell’autocoscienza. fra 2 Nella valutazione della modernità filosofica si notano spunti paralleli sole Varcare in Il Paolo Giovanni da svolto il tessuto dell’enciclica e il discorso metafisica alla figlie della speranza, fra cui, ad es., il passaggio nel moderno dalla losofia della conoscenza.

sii

46

Filosofia e Rivelazione

AI termine della dialettica negativa tratteggiata appare il

fenomeno più inquietante: prende corpo il nichilismo, quale «conseguenza della crisi del razionalismo» (n. 46). Col riferimento al nichilismo fa ingresso sulla scena un termine-concetto centrale della modernità filosofica, intensamente dibattuto

negli ultimi 150 anni, ma largamente assente sinora nel pensiero cattolico e nel Magistero: forse il Concilio Vaticano I accadde troppo presto perché ne parlasse, non così il Vaticano II, che però tacque in merito. La questione del nichilismo fa ingresso con qualche ritardo nei documenti alti della Chiesa, ma in modo efficace (ne tratteremo nel cap. III). Il postmoderno “debole” e scettico, che considera finito il tempo delle certezze e giunto quello dell’assenza di ogni senso, non si salva dal nichilismo, a cui l’enciclica attribuisce un significato negativo inequivocabile, collocandosi lontano da quelle correnti che lo intendono invece come qualcosa di positivo. I fattori evocati, sebbene ospitino un certo influsso cristiano sulla filosofia moderna, non hanno subìto sostanziali

mutamenti nel pensiero contemporaneo, entro il quale Fides et ratto individua alcuni punti critici: l’eclettismo, lo storicismo, lo scientismo, il pragmatismo, e appunto il nichilismo. Vale la pena di sottolineare fra essi soprattutto il secondo e il terzo, che si richiamano alle due grandi potenze del moderno: la Storia e la Scienza. Allo storicismo e allo scientismo possono riportarsi in misura variabile alcune posizioni che attualme nte godono di ampio favore nel pensiero contemporaneo, pur non essendo condivise da tutti. Ne citiamo due: a) la tesi di origine heideggeriana sulla fine della metafisica e l'avvent o di un pensiero postmetafisico; b) l'orientamento verso un universale fallibilismo secondo cui non sarebbe possibile raggiungere una conoscenza stabile di alcunché, con il corollario che l’unica legittima attività conoscitiva sia quella critica, mai quella costruttivo-positiva.

Il quadro disegnato apparirebbe storiogr afic

amente scompensato, se non integrasse filosofi, pens atori, teologi moderni

II Intermezzo sul pensiero moderno

47

capaci di coniugare fede e ragione. Essi non erano moderni dal lato della matrice speculativa, quando questa manifestava chiusure immotivate verso la Rivelazione e prendeva la forma di “filosofia separata”, ma lo erano dal lato personale: hanno vissuto, operato, combattuto nella modernità, accogliendone criticamente le istanze e riformulandole, quando necessario. Il testo papale rende omaggio all’opera di una nutrita schiera di pensatori cristiani moderni, che hanno operato per un incontro fra Rivelazione e ragione: Newman, Rosmini, Maritain, Gilson,

Stein. Ed è significativo che nell'elenco non vengano dimenti-

cati nomi dell'Oriente europeo: Soloviev, Florenskij, Caadev,

Losskij, con un’opportuna valorizzazione dell’orienzale lumen e in esso dell’opera di Soloviev, citato per primo (cf. n. 74). Si incontra in queste elencazioni un tratto felice dell’enciclica, che procede ad integrare ed innovare una tradizione che talvolta rischiava di essere ritualmente ripetuta, nella quale veniva contemplato il periodo patristico e poi l'epoca medievale, sostanzialmente fermandosi al XIII secolo (questo schema è ancora diffuso nella Aeterni Patris). Col nuovo approccio, Fides et ratio suggerisce l’idea che la filosofia ad impronta metafisica e aperta alla fede sia una realtà vivente entro una grande tradizione (una delle massime nell’intera vicenda della cultura umana), non evento limitato ad un lontano passato. Forse alcuni avrebbero desiderato che l'elenco includesse altri nomi di contemporanei, ad es. quelli di Blondel, Guardini, Marcel. Quello che non è citato non è però escluso, come lascia inten-

dere il n. 74: «altri nomi potrebbero essere citati». Si è facili profeti osservando che i succinti interventi dell’enciclica sulla modernità filosofica daranno esca a dibattiti e obiezioni. Il filosofo e lo storico della filosofia potrebbero trovare qualcosa da eccepire sui giudizi avanzati nel documento, proprio assumendo l’orizzonte in cui esso si pone, cioè le modalità del rapporto fra fede e ragione. Rimangono infatti fuori dal quadro alcuni importanti pensatori dell’epoca dell’Umaneil simo, del Rinascimento, del Seicento, nei confronti dei quali

Filosofia e Rivelazione

48

giudizio secondo cui «posero la conoscenza razionale come se-

parata e alternativa alla fede» risulta alquanto sovradetermina-

to. Per il secolo XV la mente corre al Cusano, e forse ancor

più al Ficino, che cercando una sintesi di cristianesimo e di

platonismo intese sanare la separazione fra pietas e sapientia,

fra religione e filosofia; e per l’epoca successiva a Malebranche, Vico, in certo modo a Leibniz. Se la separazione fra fede e ragione è sostenibile per Cartesio, non pare esserlo per Malebranche e Vico. Il primo cercò una loro sintesi, ritenendo

che la collaborazione fra fede e ragione fosse vantaggiosa per entrambe, contrariamente all’antinomia fra loro posta dall’apologetica di Pascal. Forse questi pensatori non esercitarono un influsso intellettuale paragonabile a quello dei filosofi che vengono riprovati; ma una loro valorizzazione anche per semplici cenni avrebbe attenuato l'impressione di un completo e poco credibile vuoto fra il XIII secolo e la metà del XIX, quando con Newman, Rosmini, la ripresa neoscolastica, e poi

la Aeterni Patris si tocca con mano la vigorosa rinascita di un pensiero che non separa fede e ragione. Ciò avrebbe consentito di dare concretezza alla diagnosi stessa di Fides et ratio, la

quale osserva che «buona parte [dunque non pensiero filosofico moderno si è sviluppato progressivamente dalla Rivelazione cristiana». costruzione del rapporto moderno tra filosofia

la totalità] del allontanandosi Inoltre nella rie teologia difet-

ta un momento di autocritica, ossia il riconoscimento delle re-

sponsabilità attribuibili alla vita ecclesiale. L’allontanamento delle scuole filosofiche dalla Rivelazione e la condizione di povertà del pensiero cristiano (la mente corre in specie al secolo

XVIII) costituiscono fenomeni interni, non solo esterni, alla

Chiesa.

Pur con alcuni limiti interpretativi, in parte dovuti al ca-

none metodologico con cui si guarda alla modernità (il rap-

porto fra fede e ragione), Fides et ratio si colloca in continuità col Vaticano IlII Di fatto la dinamica culturale e l'inter pretazio-

ne del Concilio hanno incontrato un diverso svolg imento: vi

II. Intermezzo sul pensiero moderno

49

sono posizioni che in certe correnti postconciliari sono state

attribuite al Concilio e che esso non ha inteso affermare. E ve ne sono altre che esso ha detto e talvolta ridetto con insistenza, ma che sono state ignorate sulla scorta del problematico presupposto che esso non le avesse dette e che anzi non le volesse sostenere. Il rilievo del pensare filosofico per l’evangelizzazione e la possibilità di raggiungere una conoscenza del metaempirico appartengono all’ambito delle cose che il Concilio ha detto, sebbene non pochi abbiano operato come se esso avesse scelto la linea del silenzio in merito 3. A differenza del passato, il rischio che ora incombe non consiste nella troppa fiducia nella ragione, che intendeva un tempo mettere da parte la Rivelazione, ma nella troppo scarsa confidenza nella ragione, che si considera al suo posto solo se, trafficando col sensibile, opera come l’agente di cambio della finitezza. Se molte voci ammoniscono il pensiero a non cercare cose troppo alte, la Rivelazione lo invita a non fermarsi mai nella ricerca,

poiché esso non può riposare se non nell’Assoluto, e lo può fare se non si erge a totalità autosufficiente. Tutta la filosofia «ha bisogno di essere completata perché, in fondo, tutto ciò che è finito è, in quanto creato, posto in relazione con Dio, e questo

non è esaurito dalle risorse proprie della filosofia» 4. Con l’insieme di questi richiami viene evocato il lungo contenzioso filosofico, svoltosi in specie in Europa (ma non solo) per circa due secoli fra i sostenitori di filosofie immanen-

tiste, atee, laiciste da un lato, e il pensiero cattolico dall’altro.

3 Ponendosi in continuità con la tradizione cattolica e l'insegnamento del Concilio Vaticano I, il Vaticano II ha sostenuto che la ragione umana non è limitata all'orizzonte dell’empirico. «L'intelligenza non si restringe all'ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata» (Gaudium et spes, n. 15), «Il Sacro Sinodo professa che “Dio, principio e fine di tutte le cose, può esser conosciuto con certezza con il lume naturale della umana ragione dalle cose create» (Dei Verbum, n. 6). 4 Edith Stein, lettera’ a Jacques Maritain, 16 aprile 1936, in «Cahiers Jacques Maritain», n. 25, dicembre 1992, p. 38.

50

Filosofia e Rivelazione

Questo straordinario dibattito, in cui si è realizzata una delle

più alte manifestazioni dello spirito e un momento di vertice della ricerca filosofica, merita di venire ricordato come qualcosa di grande e sottratto all’oblio. Un modo per conseguire lo scopo consiste nel riesplorare per cenni che cosa pensassero della modernità notevoli esponenti del pensiero cattolico (alcuni di loro sommi, e valgano due nomi: Maritain e Rosmini). Ci dedicheremo ora ad una ricognizione dei loro giudizi, facendo perno su un ristretto ma significativo manipolo di pensatori franco-italiani dell’800 e ‘900. Non senza qualche sorpresa si giunge alla conclusione che lo schema fondamentale di analisi e di metodo da loro sviluppato verso la modernità è vicino a quello, succinto, di Fides et ratio (e prima di Aeterni Pa-

tris). Nel dialogo critico fra cattolicesimo e modernità non è agevole discernere quanto abbia giocato il Magistero e quanto i filosofi cattolici nell’articolare uno schema interpretativo della modernità, che si presenta complessivamente omogeneo e che pare testimoniare di un elevato influsso reciproco. LA FILOSOFIA MODERNA NEL GIUDIZIO DEL PENSIERO CATTOLICO

Per avviare l'indagine (qui non potremo far altro che que-

sto), ci proponiamo di ripercorrere per sommi capi l’inter pre-

tazione della filosofia moderna prospettata nel XIX e XX secolo da un certo numero di pensatori cristiani. Si farà riferi-

mento a Gioberti, Rosmini, Maritain, Fabro, Del Noce, Balbo,

senza escludere Leone XIII, che Gilson considerava il maggior filosofo cristiano del XIX secolo. Non si attenda uno sviluppo sistematico, ma solo colpi di sonda, che non sono forse

meno significativi di più elaborate analisi. Leone XIII viene evocato come promulgatore dell’enciclica Aeterni Patris (agosto 1879),

la quale, nonostante i 120 anni trascorsi, è la più immediata progenitrice di Fides et ratio, che in effetti nella sua valutazio-

II. Intermezzo sul pensiero moderno

vj

ne chiaroscurale del moderno ospita giudizi già formulati nel passato. I punti in cui si verifica vicinanza di sguardo fra le due encicliche risultano effettivamente numerosi. Enumerando cursoriamente, troviamo: la crescente separazione fra filosofia e fede a partire dal XVI secolo; la rivendicazione del compito della ragione nella scoperta del vero, compreso quello su Dio; l’importanza del ricorso alla filosofia in teologia e il suo impiego in essa; l'incremento di vigore che la luce della fede apporta all’intellisenza. Nonostante il tempo trascorso e le trasformazioni spirituali intervenute, gli avversari dei due documenti rimangono all’ingrosso il razionalismo chiuso in se stesso e l’irrazionalismo fideista ed estrinsecista. La continuità di fondo,

pur con modulazioni e diramazioni diverse, non dovrebbe sorprendere chi conosce la cura con cui il Magistero romano assume, recepisce, elabora le proprie posizioni passate.

Nella prima metà dell’800 la teologia e la filosofia cattoli-

che reagiscono alle correnti moderne

(sensismo, positivismo,

razionalismo immanentistico oppure ateo), che mettono radicalmente in questione i fondamenti razionali e metafisici della conoscenza umana. In una prima fase ciò accade volgendo verso il tradizionalismo, talvolta alleato con l’ontologismo. Secondo il tradizionalismo, l’uomo non riceve le verità importanti per la vita dalla propria ragione, ma dal grande e durevole fiume della tradizione. Pronunciandosi contro l’antitradizionalismo uscito da Cartesio, il tradizionalismo considera l’intelli-

genza uno strumento molto imperfetto e comunque subordinato di investigazione. È costante in esso la critica all’intelligenza, intesa solo come facoltà di collegamento, di ragionamento, di costruzione, che non possiede alcuna capacità intuitiva e metafisica, se non è stimolata dall’urto con la parola di| vina, se non accoglie per fede ed autorità la Rivelazione: il tradizionalismo faceva propria, senza forse rendersene conto, la critica di Kant alla metafisica. In esso, in cui è intenso il so-

spetto verso tutto ciò che è uscito dalla Rivoluzione francese,

DR

Filosofia e Rivelazione

considerata la madre di tutte le deviazioni, si configura dunque uno spiccato atteggiamento antimoderno sul piano filosofico e su quello civile. Sebbene Leone XIII fosse personalmente ostile all’ontologismo e al tradizionalismo come specifiche scuole filosofiche, il tono della Aeterni Patris — pur complessivamente orientato a sostituire la condanna con l’invito a restaurare la filosofia cristiana — non è privo di spunti di somiglianza con le dottrine del tradizionalismo di De Bonald, De Maistre, del primo Lamennais, di Bautain (l’importanza della tradizione, la critica ai novatores). Gli appunti rivolti dalla scuola tradizionalista al tomismo e più in generale alla Scolastica erano di costituire una deviazione razionalista dall’autentica filosofia cristiana: gli autori del tradizionalismo, contrari all’aristotelismo, erano im-

pregnati di spiritualismo francese, in parte di origine classicocartesiana, e in specie di romanticismo cattolico, salvo poi ver-

so la metà del secolo allontanarsi da Lamennais e orientarsi verso Tommaso. Opponendosi alla corrente del razionalismo cristiano e a quella dell’irrazionalismo, l’enciclica di Leone XIII sposa la causa della concordia fra fede e ragione, che deve condurre ad una filosofia coordinata e unita alla fede, pur nella distinzione. Rimane però forte la dimensione dell’antimoderno, che in parte si sarebbe trasfuso nell’antimoderno speculativo del tomismo del ’900, tuttavia in una accezione diversa e più positiva: meno come reazione agli errori moderni,

e più come capacità del tomismo e della filosofia cristiana di riprendere a svilupparsi e a camminare verso il futuro 5. Un tratto comune al pensiero cristiano del XIX secolo è la diffidenza verso i novatores del secolo XVI (novatores saecu? Per intendere l’importanza che Leone XIII conferi va alla Aeterni Patris, basterebbe dare il giusto peso alle parole da lui pronunc iate nel colloquio con Pègues il 1° agosto 1900: «Fra tutte le mie encicliche quella che mi sta più a cuore e che mi ha dato maggior consolazione è l’enciclica Aeterni Patris sulla restaurazione della filosofia scolastica e tomista», cf. «Revue thomiste» maggio 1901 pi132; 7 :

II. Intermezzo sul pensiero moderno

53

li sexti decimi, si legge nella Aeterni Patris), e la stretta relazione che viene posta fra i mali di cui soffre il mondo e le “funeste” dottrine uscite dalle scuole dei filosofi: la prima origine della crisi della civiltà è intellettuale, sta nel disordine della mente. La responsabilità principale dei suddetti zovatores fu di iniziare a filosofare, separandosi dal dato della fede e allontanandosi dalla tradizione filosofica passata. In un colpo solo gli innovatori lasciarono da parte la fede e la teologia da un lato, e la metafisica dall’altro, intraprendendo un cammino nuovo, che Gioberti definì “psicologistico” e Bontadini, quasi un secolo dopo, “gnoseologistico”. Passo gravido di tanti esiti, poiché per la schiera dei pensatori cristiani prima elencati il processo fondamentale della realtà è ontologico, non gnoseologico o psicologico. Volgendoci verso Gioberti, egli disse e ridisse che la sostanza della filosofia consiste nella scienza ontologica e teologica: «La falsa filosofia, dopo un lungo circuito di errori, cacciò l’idea di Dio dallo scibile umano... La filosofia

vera ha per iscopo di ritrovare il Dio scientifico, di riappacificare, mediante il sapere, gli spiriti con la religione, e può essere definita l'instaurazione dell'idea divina nella scienza» 6. Su questa diagnosi si riscontra un esteso accordo nel XIX secolo e in parte del nostro, secondo un approccio che ottenne un meditato avallo nella Aeterri Patris. Quando Gioberti cercò di disegnare il profilo del moderno filosofico, individuò in Cartesio (e indirettamente in Lute-

ro) il principale corruttore della filosofia nell’età moderna: il primo iniziò lo psicologismo filosofico (oggi forse diremmo: “soggettivismo”), Lutero quello religioso. Due riformatori dunque, come li intese quasi 80 anni dopo Maritain. Il vizio metodico presente all'origine si ripercosse sulla teologia e sulla filosofia moderne. Partendo da Cartesio, i Francesi trassero,

secondo Gioberti, tutte le conseguenze più negative, che inve6 V. Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, Fratelli Bocca, Milano 1939, p. 61.

si

Filosofia e Rivelazione

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ce i Tedeschi temperarono in virtù del peso residuo della dottrina cristiana, pervenendo però con Kant, al seguito di Cartesio, ad annullare nella Critica della ragion pura ontologia con la psicologia. Con felice intuito Gioberti interpretò il kantismo come il cartesianismo condotto alla sua perfezione, come la sistematizzazione scolastica di Cartesio, potremmo dire, mentre

la filosofia inglese rimase invece più legata al senso comune. Mentre nella francese domina la percezione sensibile, nella te-

desca signoreggia l’intuito ideale, che presto o tardi conduce al panteismo, nel quale Gioberti ravvisò il cedimento maggiore della filosofia tedesca. In base all’assunto che «l’Idea si conserva sempre splendida e pura nelle mani del magistero gerarchico... ed ivi può trovarla chi intende filosofare con buon successo» 7, Gioberti

valutò positivamente il decreto di censura della filosofia di Cartesio da parte della Congregazione dell’Indice (20 novembre 1663). Nella modernità il torinese ravvisa un piccolo numero di filosofi isolati e ortodossi e una ininterrotta successione di pensatori eterodossi che ruppero il filo della tradizione. Separazione dalla tradizione e separazione dalla religione furono dunque le loro massime colpe. Gioberti, pur non confondendo filosofia e religione, giunse a sostenere che «la filosofia non è possibile se non è fondata e presidiata dalla religione» (p. 35). Per lui la formula centrale dell’ontologia risiedeva soprattutto nella religione, a cui si aggiungeva la speculazione, di modo che le stesse verità che religiosamente avevano il valore di un assioma, erano poi trattate di nuovo sotto la forma di un

Tao, contro Cartesio e gli psicologisti, la filosoila non viene considerata una scienza a sé, separata dal dogma teologico. Forse anche a partire da questa alleanza che vedeva in loro salvaguardata, Gioberti considerò Leibniz, Malebranche e Vico i veri grandi filosofi moderni, gli unici paragonabili agli antichi: «Io tengo per fermo che la vera filosofia, consi? Ivi, p. 58.

II. Intermezzo sul pensiero moderno

DI

derata nella sua sostanza e non negli accessori, finisse in Europa col Leibniz e col Malebranche» (p. 36). E Vico, «per la grandezza dell'ingegno ha pochi pari nella storia delle scienze speculative» (p. 118). Sin dalla giovinezza Rosmini perseguì l’idea di una restaurazione della filosofia dopo l’annientamento operatone dagli autori del sensismo e del soggettivismo, «guazzabuglio Wi negazioni e di ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l'Europa con più detrimento del vero sapere, che ‘non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica» 8. Dell’assiduo confronto con il pensiero filosofico moderno, disseminato in quasi ogni sua opera, accenneremo soltanto ad un elemento, ossia alla sua critica del razionalismo (sia filosofico .

che teologico), il quale recideva alla radice ogni cooperazione fra filosofia e teologia, e che poneva la ragione non solo come autonoma, ma pure come perfettamente autosufficiente e conchiusa in se stessa. E noto che la lotta al razionalismo costituì uno dei maggiori fronti di battaglia del pensiero cristiano nel secolo scorso. Nello scritto I/ razionalismo che tenta insinuarsi nelle scuole teologiche, il razionalismo è determinato come quel principio «il quale si riduce a questa proposizione: “L'uomo non dee ammettere se non quello che gli dice d’ammettere la sola ragione naturale, escluso ogni lume soprannaturale» ?, e perciò esso costituisce l’eresia del «secol nostro». Il razionalismo «disconosce ogni lume superiore, abolisce ogni ordine soprannaturale, e riduce l’uomo alla sua sola natura», per cui

8 Introduzione alla filosofia, Anonima Romana Editoriale, Roma 1934, p.

19. In quest'opera numerosi e articolati sono i giudizi critici sulla filosofia moderna, in specie francese e tedesca. Fra i vari merita menzione l’addebito di nichilismo rivolto ad Hegel: «Le cose che attualmente non cadono nel pensiero, s0no nulla al pensiero... Ecco qua di nuovo l’origine del nichilismo hegeliano... Il pensatore come tale non riconosce come esistente quello che non è ancora oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA» (p. 110). 9 Il razionalismo che tenta..., a cura di R. Bessero Belti, Cedam, Padova

1967, p. 1.

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Filosofia e Rivelazione

l’uomo si affida soltanto alla ragione naturale, rifiuta l’aiuto della Rivelazione e della grazia, avendo come guida una ragione separata dalla Rivelazione. Esso non è perciò inteso solo in senso logico-gnoseologico come un eccesso di fiducia nella capacità veritativa e argomentativa della ragione umana. É compreso specialmente in senso pieno ed esistenziale, ossia escludente il soprannaturale, come chiusura dell’uomo in se stesso e rifiuto dell’aiuto della Rivelazione. Uno dei massimi bersagli di Fides et ratio, forse il maggiore fra tutti, è il razionalismo proprio nel senso individuato dal Roveretano, il quale vi legge un atteggiamento di rischio permanente per la fede. Egli riconosce alla sorgente del processo che conduce ad un compiuto razionalismo il rifiuto del dogma del peccato originale, tolto il quale è resa inutile la redenzione e distrutto il massimo motivo dell’Incarnazione. Nel razionalismo è presente l'intento,di liberare l’uomo da ogni dipendenza, compresa

quella da Dio, che talvolta assume le fattezze di Signore-Padrone; ed in ogni caso di concepire Dio come lontano, assente dal mondo e dalle sue vicende. In certo modo un mondo sen-

za Dio, a cui fa da riscontro un Dio senza mondo. La separa-

zione fra vita civile e Chiesa non è altro che un correlato della distanza fra Dio e mondo, il quale si regge nella sua adulta mondanità secondo principi propri. Negli scritti di Maritain incontriamo una tematizzazione

costante della filosofia moderna dalle prime opere sino alla tarda vecchiaia. Fgli si allontana tanto dallo schema illumin istico e idealistico sulla filosofia moderna intesa come un processo in continua ascesa verso il meglio e una più alta verità che toccò l’apice nel paradigma hegeliano 1, quanto dallo du «L'insieme della storia della filosofia è un progre sso conseguente e in sé necessario, in sé razionale e determinato a priori dalla sua idea: questo dunque la storia della filosofia ha da offrire come esempio... L'ultima, la più moderna e la più nuova filosofia è la più sviluppata, la più ricca e la più profonda», Hegel. Iytroduzione alla storia della filosofia, Laterza, Bari 1925, p.3f ep. 62 saga

II Intermezzo sul pensiero moderno

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schema reazionario dell'’800 (De Bonald, Donoso Cortés, De

Maistre), che spesso è il compiuto rovesciamento del precedente, e che dunque intende lo svolgimento della modernità filosofica come un processo verso la pienezza dell’errore. Già in Antimoderno (1922) il filosofo francese non si colloca sotto la seconda bandiera, nonostante che il suo giudizio sui fondamenti metafisici e gnoseologici della modernità si presenti poco accomodante. La differenza rispetto alla posizione antimoderna pura accade in Maritain in virtù dell'idea che sia possibile un progresso in filosofia, e del compito costruttivo in ciò spettante alla filosofia dell’essere. Presentando Antimoderno, osservava: «Ciò che qui chiamo antizzoderno, avrebbe altrettanto bene esser chiamato ultramoderno. È ben noto, infatti,

che il cattolicesimo è tanto antimoderno per l’innegabile attac-

camento alla tradizione, quanto ultramoderno per la sua ardi-

tezza nell’adattarsi alle nuove condizioni emergenti nella vita del mondo» 1. Il riferimento alla tradizione compare con una connotazione positiva, tanto che i filosofi innovatori della modernità sono considerati intellettualmente barbari per il disprezzo in genere mostrato verso il pensiero delle generazioni precedenti. Orbene, se «la filosofia moderna è piena di ricchezze che sarebbe assurdo dimenticare, ed inoltre ci istruisce nel modo

più utile» (p. 94), sarebbe ingenuo trascurare i suoi due criteri costitutivi, che il filosofo francese individua nel principio immanentistico e in quello trascendentalistico, entro una separazione fra fede e ragione che è data per presupposta e sconteta. Il primo criterio è inteso da Maritain come una rivendicazione di indipendenza dell'io, dell'interno rispetto all’esterazione, no; una sorta di oblio dell’alterità, di modo che «ogni

ogni aiuto, ogni regola, ogni magistero che provenisse dall’al-

satro (dall’oggetto, dall’autorità umana, dall’autorità divina)

rebbe un attentato contro lo spirito». Nel principio trascen11 Antimoderno, Logos, Roma 1979, p. 12.

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Filosofia e Rivelazione

dentalistico si esprime l’idea che non esista alcun dato che ci misuri, «poiché natura e leggi, definizioni, dogmi, doveri sono pure espressioni del nostro intimo e dell'attività creatrice dello spirito in noi» (p. 12). I due principi sono dunque intesi come manifestazione dell’indipendenza assoluta della creatura, la quale — potremmo dire — procede etsi Deus non daretur. Circa 45 anni più tardi la questione della filosofia moderna è ripresa in Le Paysan de la Garonne attraverso la polarità realismo-idealismo, giungendo a esiti nel complesso vicini a quelli di Antizzoderno. La verticale speculativa della diagnosi si affatica intorno alla questione dell’alterità e dell’essere, che secondo Maritain è sacrificata da coloro che cominciano col pensiero: «Mi riferisco a Cartesio, al padre dell’idealismo moderno, e a tutta la serie dei suoi eredi che, operando ognuno mutamenti al suo sistema, seguirono una curva evolutiva di

una logica irresistibile. Tutti questi uomini cominciano col so-

lo pensiero e lì si fermano, sia che neghino la realtà delle cose

e del mondo... sia che in un modo o nell’altro la riassorbano nel pensiero... Essi ricusano fin dall'inizio proprio ciò su cui fa presa il pensiero e senza del quale esso non è che sogno — la realtà da conoscere e da capire, che esiste, vista, toccata affer-

rata dai sensi... la realtà sulla quale e a partire dalla quale un filosofo è nato per interrogarsi: e senza questo egli è nulla. Essi ricusano il fondamento assolutamente primo del sapere filosofico e della ricerca filosofica» 12, Qui la partenza dal solo pensiero, ossia l’idealismo, si mostra come un antirealismo che fa tutt'uno con l’oblio dell’essere e l’allontanamento dall’alterità,

compresa quella alterità rappresentata dalla Rivelazione, verso cui si volge la fede. Felice Balbo (1913-1964), prematuramente scomp arso, ha lasciato un’opera non molto vasta quanto a dimen sioni, ma intensa nel suo vigore, nonostante talune giovan ili acerbità. 12 Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 152s.

II. Intermezzo sul pensiero moderno

9

Egli fu in Italia uno dei pochissimi pensatori laici che scoprì e fece propria la filosofia dell'essere, entro un personale e intricato itinerario di ricerca, che dall’insofferenza verso l’ideali-

smo (in specie gentiliano) e dalle vicinanze rispetto al marxismo (per un certo tempo intese Marx come il Galileo delle scienze sociali) lo condusse verso Tommaso d'Aquino e la filosofia dell'essere, originalmente intesa come conquista propria

dell’«uomo senza miti». Dopo la sua prematura scomparsa l'interesse della cultura italiana per la sua opera è stato scarso e a corrente alternata: ma un certo volume di attenzione, sia pure esiguo, al suo pensiero è rimasto, come testimoniano le

pubblicazioni su di lui. La sua valutazione della filosofia moderna si è espressa in giudizi netti, talvolta impietosi, ma che, pur bisognosi di essere meglio espressi e di dotarsi di maggiori articolazioni criticostoriche, portano il segno di una chiaroveggente lucidità. Limitandoci in buona misura a lasciar parlare l’autore, desideria-

mo attirare l’attenzione sul loro carattere ad un tempo di conquista personale e di omogeneità con le diagnosi che siamo andati scoprendo. Il giudizio più acuto di Balbo — quasi una dichiarazione di decesso nei confronti della filosofia moderna — suona: «La filosofia moderna intera ha fatto fallimento storico e tutta la filosofia sino ad oggi esplicitamente espressa deve essere, in qualcosa di essenziale, o erronea, o insufficiente, o tut-

te e due le cose insieme» 13. Se la filosofia moderna si trova nella condizione dipinta, quella contemporanea costituiva per Balbo essenzialmente una filosofia della crisi (l’esempio massimo che aveva di fronte era l’esistenzialismo), e in quanto tale

autentica, perché priva di orpelli enfatici che mascherano la situazione, seppure incapace di proporre una positiva via d’uscita da essa. Oltre alla filosofia della crisi, egli individuò la reale possi13 F. Balbo, Opere 1945-1964, Boringhieri, Torino 1966, p. 385.

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Filosofia e Rivelazione

bilità offerta al pensiero contemporaneo nella ripresa «storicamente rinnovata in modo totale della filosofia speculativa nel senso dello sviluppo storicamente nuovo e metafisicamente omogeneo della linea aristotelico-tomista... Essa è infatti la sola filosofia che non soggiace alla critica anche teoretica della prassi marxista (come invece avviene per tutto il razionalismo

e in particolare per Hegel nella loro figura teoretica essenziale), in quanto non cerca di “teologizzare il divenire”, ma di conoscere l’essere» (p. 251). Quanto nella fase giovanile Balbo determinava come filosofia aristotelico-tomista, secondo mo-

duli allora correnti seppure rituali, chiamerà poco dopo e poi manterrà come «filosofia dell’essere». A questa filosofia egli assegnerà costantemente la palma, per un complesso di motivi di peso, fra cui qui ne ricordiamo due: 1) il suo radicale orientamento realistico, che unisce primato dell’essere e partenza

dall’4 posteriori; 2) il fatto che essa è portatrice di un concetto unico nella storia della filosofia e straordinariamente ricco,

quello di essere come atto di esistere (actus essendi), che è pos-

sibilità, crescita, intensificazione, perfezionamento

dinamico

per l’ente finito. Balbo interpretò la dottrina dell’actus essendi in un senso lontanissimo dall'immagine parmenidea dell’essere come sfera piena, immobile, in se conclusa 14. Si può aggiungere che in Balbo, come del resto in Maritain, la posizione dell’antimoderno teoretico non fa corpo con una posizione antimoderna sul piano civile e politico, ed include la possibilità di una svolta ultramoderna 15. Entro la valutazione della modernità da parte di C. Fabro (1911-1995), espressa in specie nella Introduzio ne all'ateismo N)

14 C£. ibid., p. 645. n Costituisce un aspetto di interesse della pagina balbiana la critica del razionalismo, inteso come quel sistema che ritiene l'essere deducibile dal pensiero, per cui l’essere non trascende l’essere concep ito e l'essere logico include perfettamente quello reale. Da un altro punto di vista il razionalismo è quella posiFa S pensiero che assume l’identità pura e semplice del pensiero con la sua ormula.

II. Intermezzo sul pensiero moderno

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moderno, incontriamo una considerazione inequivocabilmente critica del principio di immanenza, consustanziale, secondo l’autore, al pensare filosofico moderno e sboccante di necessità nell’ateismo. Secondo una cadenza che prende le mosse dal cogito e che si esprime in una filosofia chiusa entro l’immanenza dell’atto di coscienza, l’io non riesce più ad uscire dal circolo

dell’identità con se stesso verso l’alterità. La cadenza atea della modernità trova i suoi presupposti nel sistema cartesiano, col quale secondo l’autore «incipit tragoedia hominis moderni». «Sull’interpretazione di fondo del pensiero moderno, ossia sul nuovo cammino del pensiero che ha avuto origine col principio di immanenza, si trovano d’accordo fautori e avversari: esso è fatto consistere in un rovesciamento di direzione dall'oggetto al soggetto, dal mondo all’io... Anche per il pensiero classico il conoscere era un processo immanente... è quindi [in esso] il conoscere un processo perfettivo, non costitutivo, dell’essere. Nel pensiero moderno invece l’immanenza è costitutiva e fondante rispetto all’essere» 16, la coscienza cioè fa la propria partenza da se stessa. Secondo l’autore vi è nel pensiero moderno una «valenza atea» che va considerata non facoltativa ma costitutiva, nel senso che le stesse eventuali con-

cessioni alla trascendenza costituirebbero una incomprensione e una incoerenza rispetto al criterio di immanenza, con cui si è operato ilnuovo cominciamento. Va da sé che con queste premesse il tema di un rapporto amico fra filosofia e Rivelazione non si può porre, costituendo la seconda esempio massimo di alterità, di differenza rispetto al circolo dell’autocoscienza. Pertanto nelle filosofie uscenti dal cogzto e che si rinserrano in esso, la Parola di Dio, oltre a non poter venire intesa poiché fuo| riesce dalla autocoscienza, dovrebbe per lo stesso motivo essere esclusa anche come possibilità.

16 Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969, p. 1010.

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Filosofia e Rivelazione

Tanto Fabro quanto Del Noce (1910-1989) individuarono nel problema dell’ateismo il tema che si colloca al cuore della modernità filosofica, sebbene poi le rispettive diagnosi di insieme seguissero cammini peculiari. In effetti, se per il primo l’ateismo connota assiologicamente e in certo modo senza resi-

dui il pensiero moderno, per Del Noce, «l’insorgere dell’ateismo caratterizza solo problematicamente la filosofia moderna» 17, per cui essa ospita due linee o direzioni: «Oltre quella verso l’immanentismo radicale, anche quella verso la concilia-

zione con la tradizione (da Cartesio a Rosmini e oltre, appunto verso la riscoperta del tomismo)» 18. Secondo l’autore, lo scacco stesso dell’attualismo gentiliano può essere inteso come l'introduzione 4 contrario alla ripresa della metafisica classica. L'individuazione da parte di Del Noce di un cammino positivo nella modernità che va da Cartesio a Rosmini, toccando Pascal, Malebranche e Vico, e dove l’ateismo è escluso, fa

del moderno un processo speculativamente non unitario ma con più moduli, e dunque aperto a integrazioni, riprese. Con l’introduzione di un duplice sviluppo viene posto in crisi lo schema laico, in certo modo avallato da altra visuale da Fabro,

della modernità come processo fatalmente indirizzato all’immanenza e all’ateismo 19. 17 Cf. Il problema dell’ateismo, il Mulino, Bologna 1990, p. 16. È oppor-

tuno fare memoria che per Del Noce il razionalismo ha vari volti, il massimo dei

quali consiste nel rifiuto senza prove del soprannaturale: il razional ismo esclude quanto va oltre il circolo dell’immanenza. 18 La riscoperta del tomismo in Étienne Gilson e il suo significato presente, in AA.VV., Studi filosofici in onore di Gustavo Bontadi ni, Vita e Pensiero, Milano 1975, vol. II, p. 470. Più ampie analisi del pensiero di Balbo e di Del Noce sono

svolte nel nostro Cattolicesimo e modernità, Ares, Milano 1996.

a 19 In Maritain si incontra — come in parte accenn ato — una lettura che non coincide con quelle di Fabro e di Del Noce, Col primo ha in comune l’assunto della fondamentalità del cogito e del momento metafi sico-gnoseologico; con l’altro l’idea che la filosofia moderna difficilmente possa venire intesa come un processo univoco verso l’ateismo. La diagnosi sul moderno si svolge interessando più tastiere: da quella metafisica dove si rileva un primato dell’idea e della logica sull’ontologia, a quella del realismo dove viene avanzata la critica di «ideosofia»

II. Intermezzo sul pensiero moderno

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Dopo i colpi di sonda effettuati, si possono raccogliere in alcuni punti le prospettive dove si segnala una sostanziale comunanza fra i pensatori cristiani dell’800 e del ’900 richia-

mati:

a) In essi emerge — talvolta dichiaratamente talaltra in modo implicito — un elemento strutturale della maggiore importanza: il rifiuto del divorzio fra logos filosofico e Rivelazioai principali pensatori moderni, a quella in cui sono messe in campo categorie teologiche come il rapporto fra libertà e grazia, il teocentrismo, l’antropocentrismo (la mente corre alle analisi svolte in Umanesimo integrale). Si può aggiunge re che Gilson intese il pensiero filosofico moderno segnato dai caratteri dell’antirealismo e dell’essenzialismo, nel senso che l'oggetto primo ed immediato del conoscere venga ritenuta l’essenza, non l’esistenza. Nella ricognizione effettuata un posto andrebbe riservato alle posizioni del gruppo, dove in special modo emerge la figura di A. Gemelli, che operò per preparare la nascita dell’Università Cattolica di Milano. Due elementi possono qui venire citati come sintomatici delle sue posizioni: l'articolo programmatico, intitolato significativamente «Medievalismo» di Gemelli nella rivista «Vita e Pensiero» (1914), e l'editoriale che inaugurava nel 1909 il primo numero della «Rivista di filosofia neoscolastica». L'articolo (raccolto in Vita e Pensiero 1914-1964, Vita e Pensiero, Milano

1966, pp. 11-38) mostra senza sottintesi lontananza e ostilità nei confronti della cultura moderna, «così povera di contenuto, così scintillante di false ricchezze

tutte esteriori», per cui «la così detta coltura moderna è il nemico più fiero del cristianesimo» (p. 11 e p. 15). Di conseguenza il programma del nuovo periodico sarà «medievalista nella sostanza, modernissimo nella forma» (p. 21). Quanto all’editoriale della RFNS esso assegna, conformemente al tema largamente dibattuto nella filosofia moderna, particolare rilievo al problema criteriologico ed epistemologico (portata oggettiva delle nostre conoscenze, problema della certezza), nell'intento di recuperare il valore dell’oggettività e della certezza tanto severamente compromesso: «È noto universalmente che la filosofia moderna, fin dal suo inizio, ha scosso quella fede incondizionata nell’oggettività dello spirito, del mondo...» (p. 6). Nella scuola metafisica dell’Università Cattolica risultano significative le figure che instaurano un esame dialettico del pensiero moderno: Olgiati, Vanni Rovighi, Masnovo, Bontadini, tanto per limitarci ai nomi più noti e autorevoli. Dell’ultimo si può — fra le altre cose — ricordare il significativo saggio La deviazione metafisica all’inizio della filosofia moderna (poi raccolto in Metafisica e deellenizzazione, cit., pp. 35-53), dove è svolta la tesi che, ritirandosi in se stessa, la filosofia moderna riapre la strada alla metafisica «come scienza dell'essere in | quanto essere, dato che l’essere è ora nella posizione di termine intenzionale del conoscere», e non più esterno ed estrinseco ad esso (p. 38).

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Filosofia e Rivelazione

ne, fra principio ebraico-cristiano e principio greco. In non pochi di loro il problema si fa anzi tematizzazione esplicita: in Gioberti col discorso protologico e la stima per la filosofia an-

tica, in Del Noce attraverso il suo “platonismo cristiano”, in Maritain mediante l’idea della doppia elezione: l'elezione naturale della grecità e quella soprannaturale del cristianesimo. Si è così espresso un fronte di resistenza verso un impeto deellenizzante, che è stato intenso entro il recinto della teologia e della filosofia cristiana nell'ultimo mezzo secolo, all’insegna del «via da Atene!», del «via dalla Scolastica!», del «via da

Tommaso!».

Nel progressismo filosofico-teologico la strada è stata percorsa cercando di divaricare al massimo il principio ebraico-cristiano, accolto, da quello greco, allontanato perché ritenuto completamente disomogeneo con il primo, nel senso che, recependo la metafisica, il pensiero cristiano si sarebbe subordinato all’ellenismo, tradendo il pensiero biblico. Giova nota-

re che così veniva percorsa una strada esattamente contraria a quella di varie correnti gnostiche, desiderose di ricomprendere il cristianesimo entro l’ellenismo. A questo punto si può intendere in nuova luce il diniego opposto da Fides et ratio alla opposizione di principio fra /ogos filosofico e logos rivelato, di cui la deellenizzazione è un aspetto. Gli autori di cui si è detto hanno tenuto fermo sia Atene sia Gerusalemme, evitando di pronunciare tanto «né Atene, né Gerusalemme», secondo la divisa del nichilismo europeo e del

nuovo paganesimo tanto diverso da quello antico, quanto

«Gerusalemme sì, Atene no» (o il suo reciproco), secondo la

bandiera dell’esclusivismo biblicizzante o dell’esclusivismo ellenizzante. Piuttosto hanno accolto nell’edificio della filosofia cristiana Atene e Gerusalemme, riconoscendo la necessità del-

la metafisica ma anche la sua umiltà rispetto alla sapienza del-

lo Spirito Santo, ossia, in ultima istanza, ponendo Gerusalem-

me sopra, non però contro Atene. Come esito di tale processo che interessa il rapporto tra

II. Intermezzo sul pensiero moderno

65

cristianesimo ed ellenismo, si è operata più una cristianizzazio-

ne del secondo che una ellenizzazione del primo. Il metodo che presiedette al loro incontro fu basato su una dialettica di illuminazione,

discernimento,

assunzione

e rifiuto, in cui il

momento regolatore e direttivo fu svolto dal cristianesimo. Si potrebbe individuare in ciò una forma originale di compimento e trasvalutazione della grecità, nel senso che l’ellenismo viene compreso più in profondità, integrato, corretto, aperto a nuovi guadagni. Questo metodo rimane come un paradigma per ogni comunicazione tra cristianesimo e cultura, che potrà ottenere soluzione positiva se sarà confermato il criterio che presiedette a quella tra cristianesimo e grecità: essi si incontra-

rono perché il primo esercitò un discernimento sull’altra, e perché esistevano disposizioni e basi comuni, quali una cultura non secolarizzata, una religiosità diffusa, il senso della verità, l'aspirazione all’assoluto, ecc. Viceversa, nel modernismo

deellenizzante talvolta si ha l'impressione che il criterio regolatore dell'incontro debba venir rintracciato nella cultura del moderno piuttosto che nel cristianesimo. Nel dialogo tra cristianesimo e cultura moderna sembrano perciò da lasciar cadere le due posizioni estreme: quella dell’integrismo, secondo cui quel dialogo è da evitare, perché toglierebbe originalità al Vangelo; e quella del modernismo, per il quale la cultura moderna veicola una precomprensione e un’autocoscienza dell’umano, che non si trova altrove 20.

b) Lo schema interpretativo della modernità filosofica, 20 Il dialogo tra grecità e cristianesimo, che continua a vivere nel pensiero cattolico, risultò precario nel Rinascimento e nella Riforma. Il primo optò per l’elemento umanistico, la seconda scelse l'elemento cristiano e denunciò nella classicità greco-pagana proprio quello che il Rinascimento le riconosceva, l’umanesimo appunto. Entrambi allontanarono metafisica e cristianesimo, sia pure anche | qui con cammini divergenti: l’uno eleggendo la filosofia, l’altro la fede. Dopo di allora è risultato precario pervenire ad una stabile sintesi tra i due elementi, onde molte crisi della cultura europea sono interpretabili in radice come crisi del rapporto tra le sue due anime: comprensione dell’umano e comprensione del diVINO.

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Filosofia e Rivelazione

proposto da Leone XIII nella Aeterni Patris ma che ovviamen-

te aveva alle spalle studi ed elaborazioni da parte di pensatori cattolici antecedenti, entra per l’essenziale nel quadro tratteggiato in Fides et ratio. In particolare sono accolti come elementi diagnostici tuttora validi almeno quattro aspetti: 1) la svolta, paragonabile ad una cesura, prodottasi nello svolgimento della filosofia ad opera dei zovatores fra il tardo Medioevo e l’inizio della modernità; 2) la crescente separazione

fra filosofia e teologia; 3) la difficoltà a far ripartire un pensiero di matrice cristiana o, come dice la Aeterzi Patris, la “filo-

sofia cristiana”; 4) con la separazione della filosofia dalla teologia, non è la prima ma la scienza che incide nei destini del mondo, col rischio che la filosofia sia ridotta a marginalità insignificante. A questo essenziale orizzonte, Fides et ratio aggiunge uno sviluppo di particolare rilievo, con il riferimento alla filosofia dell’essere e alla corrispondente metafisica come luce teoretica indispensabile per una valida filosofia e teologia. Si tratta di integrazione omogenea rispetto alla Aeterni Patris, suggerita dal grandeggiare della domanda sull’essere nel secolo XX e dal correlativo sviluppo endogeno della filosofia dell’essere e del tomismo. Si presenta perciò possibile un passaggio dall’antimodeno speculativo all’ultramoderno, impersonato dalla ripresa postmoderna della filosofia dell’essere. Essa si presenta in potenza attiva rispetto al futuro, in rapporto al fatto che le versioni più autorevoli della metafisica

moderna, ossia la metafisica critica, la metafisica della mente,

quella dello spirito, hanno incontrato elevate difficoltà e paio-

no giunte a terminale esaurimento. In esse più ardua si pre-

senta la connessione fra filosofia e teologia nel senso di una

circolarità ermeneutica, che rimane significativa per entrambe

e che viene di fatto praticata dagli autori a cui si è fatto riferimento. Questi la intesero come capace di riassegnare significa -

to e vigore alla concettualità cristiana.

Entro questo quadro metodologico si possono collo care talune difficoltà della teologia postridentina che, risultando

II. Intermezzo sul pensiero moderno

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confinata entro il perimetro ecclesiale dei seminari, ha obiettivamente bisogno della filosofia e deve conoscerla a fondo, per porsi come ermeneutica del kerygzz4 e come intelletto della fede, argomentando in loro favore. Ciò sembra vero in specie per la teologia sistematica, che medita e analizza i contenuti fondamentali della fede e che può svilupparsi acquisendo e integrando in se stessa la filosofia. Nel più ampio giro della cultura significativa si presenta in merito la conventio ad excludendum, instauratasi fra “destra teologica” e “sinistra laico-radicale”, nel marginalizzare la teologia dal commercio della vita civile. c) La necessità di non adeguarsi alla separazione fra filosofia e teologia, ragione e fede, persuade i pensatori cristiani a

leggere il pensiero filosofico della modernità, mettendo in campo non soltanto categorie metafisico-gnoseologiche, ma pure teologiche (quali il rapporto fra natura e soprannatura, fra libertà e grazia). In questo cammino, quanto si ha di mira è la comprensione della vicenda speculativa moderna, non un fine apologetico o confessionale. Con non secondarie ragioni si ritiene infatti che non si possa intendere, a livello storiografico e concettuale, il pensiero moderno se non in relazione al pensiero teologico, per cui storia della filosofia e storia della teologia si presentano come inseparabili. Le grand siècle in Europa, non solo in Francia, risulterebbe incomprensibile se prescindessimo dalle preoccupazioni teologiche che lo abitarono, e che circolarono in Cartesio, Leibniz, in Port Royal, in Male-

branche, Spinoza, ecc. d) diversamente da Heidegger, l’interpretazione dello sviluppo storico e concettuale della filosofia dai Greci a noi, quale si intuisce nel tessuto delle due encicliche di Leone XIII e di Giovanni Paolo II e quale è concretamente presente nei | pensatori dell’essere, non approda mai ad un giudizio di universale decadenza. La condizione di crisi concerne la filosofia moderna o suoi fondamentali aspetti, non l’intera filosofia occidentale postsocratica. In altre parole, l’oblio dell’essere non

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Filosofia e Rivelazione

è universale diacronicamente e sincronicamente, ma “regiona-

le”, ossia relativo ad una precisa fase e a taluni sistemi filosofici. Ciò lascia intendere che il cammino verso una ripresa del filosofare di tipo non “ideosofico” sia possibile, attraverso la ripresa di contatto con l’esistenza e attraverso una noetica realistica.

e) Non viene favorito o giudicato idoneo il passaggio da un cristianesimo “metafisico” e contemplativo ad uno non metafisico, nel quale esso sia inteso soltanto come un progetto di libertà e giustizia sul mondo, vale a dire in termini storici, blo-

chiani, volti al futuro del mondo. Qui diventerebbe possibile una risoluzione-dissoluzione del cristianesimo nella politica per secolarizzazione endogena. Essa può esperire due possibili approdi: una grande enfasi posta sulla Bibbia, nell’assunto di una sua incomponibilità di principio con la metafisica e di un suo uso politico, oppure una subordinazione della cultura cristiana alle forme del pensiero “laico”: fisicalismo, scientismo, volontarismo, utilitarismo.

III. RELIGIONE E TRADIZIONE BIBLICA

L'’ENIGMA DEL NICHILISMO

Incontrando la questione del nichilismo, il lettore potrebbe inarcare il ciglio, tanto frequentato è il tema, sul quale non c'è penna alle prime armi che non voglia dire la sua. Su ciò si può convenire, sebbene l'orizzonte cominci a mutare quando si domandi a quale livello di esplicitazione e chiarimento si sia pervenuti nei confronti della questione. Quasi mezzo secolo fa — quando il nichilismo era tema noto da tempo e persino “vecchio” —, E. Jiinger riteneva che ne mancasse ancora una

consistente determinazione: «Una buona definizione del nichilismo sarebbe da comparare all’individuazione della causa del cancro. Essa non significherebbe la guarigione, ma senz'altro la sua premessa, nella misura in cui in generale degli uomini vi collaborino. Si tratta infatti di un processo che occupa larga-. mente la storia» 1. Ben poco ci assicura che ancor oggi — in

un’epoca in cui il termine “nichilismo” è stato impiegato in tutti i possibili sensi, maneggiato come nome di condanna e perfino come segno di benedizione — la questione non rimanga in uno stato confuso. Fra i molti e ripetuti tentativi di addivenire ad un sufficiente insight dell'essenza del nichilismo, non si pochi rimangono teoreticamente alquanto marginali, poiché altri pongono in partenza obiettivi diversi e meno radicali; Oltre la linea, 1 E, Jiinger, Oltre la linea, in E. Jinger - M. Heidegger,

Adelphi, Milano 1989, p. 57.

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Filosofia e Rivelazione

hanno invece compiuto un buon tratto di strada in proposito (penso qui soprattutto a Dostoevskij e a Nietzsche). Altri ancora, come Heidegger, hanno percepito la stretta coapparte-

nenza di nichilismo e oblio dell’essere, senza tuttavia pervenire a cogliere e ad articolare in un pensiero coerente — in ragione delle ambiguità stesse che gravano sulla sua diagnosi dell’oblio dell’essere — come il nichilismo possa venire oltrepassato. Parole forti le nostre, ma non temerarie. Per pervenire ad una sufficiente determinazione del concetto di nichilismo, la

filosofia dovrebbe raggiungere un livello di autoconsapevolezza e una forza di riflessione che nelle ultime decadi sembrano essere stati rari. In via preliminare si può intanto osservare che

il nichilismo non può essere una concezione in cui tutto l’esistente viene ricondotto a nulla. Sebbene taluni letterati e filosofi non siano indietreggiati dinanzi a questa accezione, essa non costituisce un vero passo in avanti, se per nulla si intende — come è legittimo — il ribil absolutum. L'annientamento tota-

le dell’intero, oltre a manifestarsi completamente sottratto al

potere della filosofia, non si pone come concezione da cui sia possibile derivare alcunché: è un andare a fondo del pensiero, che da una falsa radicalità conclude ad autointorbidarsi. Può invece accadere che la parola “nulla” sia presa come metafora di altro: l’allontanamento dal finito, una sorta di abisso, un di-

verso nome per il totalmente Altro. Si tratta di impieghi legittimi, entro i quali, in ragione del carattere analogico e metaforico dell’uso, non si perviene peraltro ad una adeguata determinazione dell'idea di nichilismo. Approdare alla quale diventa ormai indilazionabile in rapporto ad un evento notevole e

perfino epocale: un nichilismo sottile, talvolta travestito e im-

palpabile, appare il notturno angelo tentatore delle società liberali dell'Occidente. Conviene comunque aggiungere che in merito alle previsioni sulla durata storica del nichilismo e sui suoi possibili superamenti ci si muove su un terreno infido.

Non spetta al filosofo emettere pareri o previsioni su quanto potrà accadere. Semmai egli può sgombrare il terreno dal cul-

III. Religione e tradizione biblica

11

to idolatrico del destino, e nella fattispecie operare una separazione dall’assunto heideggeriano secondo cui il nichilismo sarebbe qualcosa di sottratto all’uomo, perché collocantesi nella storia stessa dell'essere che si dà e si cela. Accaparrato dal confronto secolare con le moderne culture dell’azione, in specie il marxismo, è capitato che il pensiero cristiano abbia meno indirizzato lo sguardo verso il nichilismo, segnando un certo ritardo in proposito. Esso ne ha avvertito la sfida, l’ha temuto soprattutto sul piano morale, ha cercato di esorcizzarlo tenendolo a distanza, raramente l’ha

guardato in volto. I documenti del Magistero (encicliche sociali, lettere pastorali) hanno a lungo puntato il dito contro il consumismo, pressoché mai contro il nichilismo. Adesso, an-

dando più in profondità, ci si rende conto che causa del consumismo e correlato edonismo è il nichilismo. Avviene un importante spostamento di prospettiva dalla centralità del consumismo a quella del nichilismo, ritenuto fenomeno assai più radicale e inquietante. Fides et ratio provvede a colmare il ritardo accumulato, offrendo quella determinazione di nichilismo («che cosa è nichilismo?») che la filosofia mondiale ha cercato con inconsueto impegno lungo almeno 150 anni, senza ultimamente riuscire a venirne a capo 2. Per l’intendimento di questo evento dob2 Ripercorrendo il fitto e disomogeneo dibattito sul nichilismo, in cui la filosofia italiana è stata presente con suoi apporti in varie occasioni e istanze, difuna ficilmente ci si sottrae all’assunto che il termine stia andando incontro ad sono spirito dello fenomeni troppi o tanti se semantica: e estenuazion crescente

un tacciati di nichilismo, la parola diventa un passepartout per tutte le stagioni, elastico che si può tirare in ogni direzione. Alla sua crescente estensione corriza sponde una copiosa vaghezza di comprensione e determinazione. Un'esperien anni fa, | spirituale affine potrebbe riscontrarsi nell'impiego pletorico, di moda 50 allora che - del concetto di esistenzialismo. Con qualche diritto J.-P. Sartre osservò e diverse troppe che momento dal nulla, più a “esistenzialismo” non significav un rifecorrenti si piccavano di essere esistenzialistiche. Il termine era diventato prestae fatalment che e i eterogene più usi gli per buono nale rimento convenzio va un vestito alla meno peggio per si/bowettes assai diverse. e di Un primo passo per non cadere in una condizione analoga suggerisc

TR

Filosofia e Rivelazione

biamo cogliere nello scarno dettato dell’enciclica i modi con cui essa offre, quale moneta d’oro in uno scrigno, l’essenza del

nichilismo. Si può aggiungere che i maggiori esponenti del pensiero cristiano nel 900 hanno in parte posto le basi per l’intendimento del carattere del nichilismo, senza però procedere oltre, forse pensando che sarebbe stato sufficiente il ba-

stione dell’etica. A questa carenza ha fatto seguito che la linea filosofica dominante in proposito sia stata quella impersonata da altri pensatori, in specie Nietzsche ed Heidegger. Il problema viene dapprima toccato nel n. 46. «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo il ri chilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano

la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e

provvisorio». Successivamente la questione è ripresa ai nn. 81,

91 e soprattutto al n. 90. Facendo riferimento all’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso del-

l'essere, l’enciclica si riferisce alla lettura nichilista, «che è in-

sieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo, prima ancora di essere in contra-

sto con le esigenze e i contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell’umanità dell’uomo e della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l’oblio dell'essere comconsiderare il nichilismo un evento con più volti, che postula un’ermeneutica a più strati e che consiglia alla filosofia un atteggiamento nel quale siano escluse pretese di esaustività e di onnicomprensività. Vi sono notevoli ricadute del nichilismo nel campo dell’arte, della vita dello spirito, della religion e e forse perfino della mistica, se è vero che per taluni mistici il Nulla è assunto come il più puro e alto nome di Dio. Già entro questi modesti cenni si avverton o la carica evocativa e insieme l’equivocità semantica del termine.

III. Religione e tradizione biblica

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porta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell’uomo». Nell’epoca del nichilismo accade la fine del tempo delle certezze, sostituite dall’assenza di senso. Le due espressioni si completano a vicenda. Mentre la prima, acuta nel cogliere la genesi del nichilismo dal razionalismo e dalla sua crisi, presenta alcuni caratteri sintomatici non sempre necessariamente collegabili al nichilismo (il riferimento all’effimero), la seconda ne raggiunge la natura, in specie di quello teoretico, tanto spesso preliminare e più originario di quello morale. Crisi dell'idea di verità, oblio dell'essere, crollo

della conoscenza reale e oggettiva, negazione dell'umanità dell’uomo: si potrebbe dire che vi è nichilismo (teoretico) quando la luce dell’intelletto speculativo non si rivolge più all’essere, onde gli uomini e le cose non sono più ordinate secondo la loro natura e valore d’essere. Il nucleo speculativamente originario, a cui è possibile far risalire tante forme di nichilismo (dapprima teoretico, successivamente, e con modalità specifiche, pratico), è individuabile

in una struttura negativa compatta, entro la quale si danno la mano e si sostengono vicendevolmente alcuni eventi, in cui è agevole ravvisare altrettante negazioni: 1) una profonda frattura esistenziale fra uomo e realtà, di cui l’antirealismo gnoseologico è il più decisivo riflesso teoretico; 2) oblio/coprimento dell'essere, per cui lo scopo sempre e nuovamente cercato dalla filosofia non è (più) la conoscenza dell’essere, che le sembra precluso. Eventualmente la conoscenza che sfugge alla filosofia potrà venire surrogata da quella della scienza o dalla volontà di potenza; 3) vittoria del nominalismo sul realismo nel quadro di un diffuso antirealismo, in cui in genere si opera la

- transizione dal riferimento all'essere a quello al testo, nel passaggio da una ontologia metafisica ad una “indiretta” di altro stampo. Il linguaggio fondamentale della filosofia non è più ravvisato in quello della metafisica ma in quello delle scienze, o nell’asse ermeneutico volto a comprendere testi e perciò al

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Filosofia e Rivelazione

massimo entro una seconda immediatezza; 4) tentativo di fare

a meno o di trasformare il concetto di verità attraverso una mano parricida levata contro l’idea di verità come adaequatio fra il pensiero e l'essere. Nel nucleo compatto del nichilismo accade una sorta di annientamento o dissoluzione dell’oggetto, dall’idealismo considerato una produzione inconscia dell’Io 3. Se è antinichilistica la dottrina che supera l'opposizione fra pensiero e oggetto, ciò accade secondo cammini diversissimi nell’idealismo e nel realismo. Quest'ultimo sostiene l’identità intenzionale di intelletto e oggetto, sulla scorta della lezione aristotelica, e il primato ontico-reale dell’oggetto (tutta la luce viene dall’oggetto) al posto della primazia della produttività trascendentale dell’Io che pone il non-Io.

Obiettivamente collegata a queste determinazioni fondamentali di nichilismo, al di là delle intenzioni dell’autore, è la

folgorante sentenza di Nietzsche: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al perché». La realtà esiste, l'essere si dà ma tutto è privo di senso, poiché è rigorosamente impossibile rinvenire un significato qualsivoglia quando le idee di scopo, di intelligibilità, di ragion d’essere vengono meno. Il nichilismo ci appare qui come perdita o coprimento totale del senso 4. Un

3 Un notevole nichilismo dell'oggetto in quanto esterno, extrapsichico è presente in Freud, in specie nell’interpretazione dei sogni intesi come un fatto assolutamente e integralmente interno, una produzione esclusiva del singolo: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale... sorto all’intern o di una persona come compromesso fra le forze psichiche che vi si combatto no, resta incomprensibile anche a questa persona». L'interpretazione psicanalitica dei sogni come prodotti totalmente interni rischia di essere stato uno dei più tenaci miti del XX secolo. Un aspetto dell’antinichilismo è di valere come una metafis ica dell’esteriorità e dunque della densità reale dell'oggetto, non ponendosi però come negazione del soggetto, dal momento che la più alta forma di esisten za è quella personale dove la filosofia dell’essere riconosce un massimo di profondità ontologica e di mistero. i î L'opposizione filosofica fondamentale che interco rre fra realismo e nichilismo si precisa come opposizione fra il secondo e la filosofia dell'essere (massimo esito del realismo): essa rintraccia il luogo speculativam ente più nevralgico nel

III. Religione e tradizione biblica

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tale assunto, tutt'altro che isolato, tiene ad es. sotto la sua pre-

sa le intuizioni generatrici a cui si abbevera la monumentale opera di Weber, lucido ma disincantato discepolo di Nietzsche, poiché, a differenza di questi, non nutre fiducia nella fi-

losofia futura quale creazione e luogo di manifestazione dell’oltreuomo. Il carattere nichilistico dell’opera di Weber si fa avanti in tante sue formulazioni, fra cui appare specialmente parlante quella secondo cui la cultura «è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» >. Frase che riconferma essere caratteri del nichilismo la mancanza di senso (niente perché, niente scopo), la sua riconduzione ad un atto di volontà del soggetto, che per sopravvivere e non precipitare nell’assurdo pone il senso quale sfida verso un'esistenza inghiottita dal divenire, e che si dà come ostile, muta, assolutamente non-rivelativa.

I colpi di sonda di Fides et ratio, comparati con alcune intuizioni di Nietzsche e di Heidegger, trasportate però in un altro orizzonte di pensiero, aiutano a pensare l’essenza postmetafisica e postcristiana del nichilismo, che include un deciso antinomismo, di cui è segno notevole il diffuso rifiuto e talvol-

ta perfino l’odio per la lex naturalis; nonché una comprensione non più (teo)fanica, ma muta, dell'essere e del cosmo. L'uomo, impegnandosi a sopravvivere in un cosmo ostile, sviluppa in se stesso uno spirito anticontemplativo e un corrispondente attivismo intramondano. Se eclisse del carattere “fanico” delrapporto fra immutabile e diveniente, e nei problematici postulati polari o della originarietà e innocenza del divenire, o dell'eternità di tutti e singoli gli enti. Tanto l'essenza del “divenirismo” sta nel trascurare la ricerca di una causa sufficiente del divenire, altrettanto l’essenza dell’“eternismo” consiste nel disattendere e scarta-

‘ re senza motivo la dyra7255, l’idea di potenzialità. Il tentativo di cassare la dynamis rappresenta l'equivoco di origine di non poca filosofia moderna, in specie della linea razionalistica. Anche una quota del pensiero neoclassico è rimasta impigliata in tale equivoco con vaste conseguenze sulla sua visione metafisica. 5 M. Weber, I/ metodo delle scienze storico-sociali, Mondadori, Milano

1980, p. 96.

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Filosofia e Rivelazione

l’essere e atteggiamento anticontemplativo fanno circolo, la ricerca, tanto spesso oggi praticata, di un baluardo contro il nichilismo individuato nell’etica rischia di valere come un diversivo. L'etica non può durare a lungo, quando sia compromesso lo spazio della verità e del senso. Con sicuro intuito Nietzsche aveva colto che la morte dell’etica avrebbe fatto seguito alla «morte di Dio», non foss’altro perché (aggiungerei) essa è un «agente segreto» al servizio dell’ Altissimo. La potenza nichilistica del nucleo in cui si sommano frattura fra uomo e realtà, oblio dell’essere, antirealismo, crisi del-

l’idea di verità, è alta perché, portando sull’originario, riverbera indefinitamente i suoi effetti in tante direzioni, fra cui le

questioni del necessario, dell'essenza, della sostanza, alle quali la tradizione filosofica ha attribuito un particolare rilievo in ordine alla comprensione dell’intero e dell’esistenza. Nella decisione di non riconoscere o cancellare ogni dimensione della necessità, intendendo il necessario come ciò che non può essere diversamente da come è, prende origine un nichilismo da volontà di potenza e di dominio portato all’acme, e perciò disposto ad osare cammini temerari, dove sarà sconfitto non senza aver prima provocato gravi danni. E l’intento, verso cui una

porzione della scienza e dell’ideologia stende la sua mano ra-pace, di cambiare la natura o l’essenza dell’uomo. Qui il nichi-

lismo (teoretico, pratico, e poietico ad un tempo) si palesa come oblio delle essenze: un oblio che rende inconsapevoli dell'impossibilità di mutare le essenze, in specie quella dell’uomo, inteso come un sussistente individuale di carattere intellettuale o spirituale. Chiamo richilismo delle essenze questo atteggiamento. Ad esso si volge l'ideologia (in sé nichilista) dello scientismo tecnologico, che oggi individua la sua ala marciante nel settore biologico-genetico. La sorgente da cui trae nutrimento questa specifica forma di nichilismo si riconosce in un innalzamento

enfatico del solo divenire, congiunto ad una negazione apriorica dello strato necessario dell'essere e all’assunto che le essen-

III. Religione e tradizione biblica

dI

ze siano mere convenzioni lessicali, qualcosa che fondamentalmente dipende dalle scelte dell’uomo e dalle mai ferme determinazioni della sua libertà L’antirealismo gnoseologico-ontologico qui si declina come irrealtà delle essenze/nature. In quanto tale negazione è postulata e dunque velleitaria, essa appare allo scrutinio dell’intelletto condannata allo scacco e insieme pericolosa, poiché molti esiti negativi possono emergere nel tentativo di violare l’inviolabile. Chiaroveggente si presenta perciò l’invito di Fides et ratio a non arrestarsi a come si comprende e si dice nel linguaggio la realtà, ma a proseguire verificando le possibilità della ragione di scoprire le essenze. Alla postura determinata come «nichilismo delle essenze» si coordina poi l’attacco all’idea di sostanza, nel tentativo di risolverla in quella di funzione, come ritenne Kelsen. Un’interna necessità collega il nichilismo teoretico come oblio dell’essere all’abbandono-dissoluzione del concetto di sostanza, poiché questa è la prima e fondamentale concrezione dell’ente reale: solo gli individui o le sostanze individuali esistono. Se ora, senza perdere di vista la diagnosi speculativa, si compie il trapasso al campo pratico, si può parlare di un nichilismo etico, inteso come attacco ai valori, tentativo di loro

dissoluzione, relativismo. Il nichilismo morale, che oggi costituisce forse l’elemento più appariscente del tema nichilistico per la frequenza con cui viene evocato nella cultura, possiede talune radici pratiche (ma non solo). Esso ci sembra originare dal primato del negativo sul positivo, di eros su agape, dell’indiretto-negativo sul diretto-positivo. Un nichilismo nel quale si postula che il positivo sorga dal negativo, e di cui un modulo paradigmatico si riscontra nell’idea nicciana che la morale dell’amore, del perdono, della misericordia nasca non da un positivo slancio eroico della persona, ma emerga come travesti-

‘ mento inconfessabile di un duro ressentizzent contro la vita, la

forza, la gioia 6. Non è difficile collegare a questo quadro un

6 Il risentimento (ressentizzent) opera secondo Nietzsche come motivo in-

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Filosofia e Rivelazione

altro significato notevole di nichilismo etico, proveniente da una ragione debole, plurima, rassegnata al declino, scettica. Il nichilismo morale “dolce” che sembra prevalere nell’Occidente contemporaneo, assomiglia ad un “fai da te” e prende origine dalla metamorfosi del criterio di autonomia, su cui la mo-

dernità aveva puntato le sue carte migliori. Sostenendo che il principio supremo della moralità fosse l'autonomia quale autolegislazione della ragione, Kant (cf. Fondazione della metafisica

dei costumi) aveva dinanzi alla mente un’unica legge morale e un'unica, universale, immutabile autolegislazione della ragio-

ne. Ma che dire oggi quando l’uro è divenuto r70/#? quando la legge morale si è sbriciolata nella illimitata pluralità delle autolegislazioni empiriche dei singoli? Entro questa nuova temperie spirituale diventa destituito di senso tanto il proibire quanto il prescrivere 7. Per dire interamente la nostra persuasione, in tante mo-

dalità di nichilismo speculativo gioca un ruolo di prim'ordine il formalismo logico-dialettico, di per sé intimamente antirealistico. In esso, vuoto e sterile dal punto di vista reale, è assente ogni senso dell’essere: un logicismo assoluto lo riduce a nulla. Se ne può forse riconoscere l’origine decisiva nel coprimento confessabile alla base della morale dell’amore, della misericordia, del perdono. Questi sentimenti connoterebbero la «rivolta degli schiavi nella morale», che inizia «quando il ressertizzent diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri [i deboli] a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria», Gerealogia della morale, Adelphi, Milano 1988, PI251!

7 Nel “pensiero debole” paradossale è la compresenza di due rifiuti, pronunciati uno nei confronti della verità stabile, l’altro verso la volontà di potenza:

esso raccoglie parzialmente il retaggio di Nietzsche, che diceva no alla prima e si alla seconda. Nel debolismo si ravvisa un “niccianesimo” a metà e di conseguenza un nichilismo incompiuto: all'intento di combattere l’idea di verità si coordina un atteggiamento di pietas verso l’uomo e di sospetto verso la potenza. Essi possono forse fungere da prolegomeni per una fuoriuscita dal nichilismo, che avverrebbe sul piano esistenziale, non ancora su quello speculativo. L'abbandono del nichilismo accadrebbe se il tema della verità stabile non venisse raccordato a quello della violenza, che semplicemente non le conviene in nulla.

III. Religione e tradizione biblica

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dell’essere reale di cui è pregna la grande e ingannevole macchina della dialettica hegeliana, in base alla quale l’essere, ossia ciò che è il più ricco e il massimamente determinato, è inteso dalla Scienza della logica come il più vuoto, il più povero, il massimamente indeterminato, il puro nulla. Raramente nella

storia della filosofia si è presentata una forma di oblio dell’essere di pari intensità. Intanto rimarrà come un interrogativo

costantemente riproposto, se sia mai possibile raggiungere la realtà rimanendo rinserrati entro una graticola di concetti meramente logici. Nel nichilismo logicistico circola più o meno apertamente disprezzo per la realtà: essa appare forse troppo umile agli occhi dei dottori della logica perché ci si possa fermare a considerarla. (Per il rapporto fra nichilismo e critica all’ontoteologia e all’analogia entis, cf. lAnnesso, p. 109).

TENTATIVI DI FUORIUSCITA DAL NICHILISMO

Se lo scientismo tecnologico — per il quale essere significa solo «stare nella presenza disponibili per ogni trasformazione» — si palesa come un importante volto del nichilismo, non ci sembra che le filosofie esistenzialistiche, quelle della libertà o quelle trascendentali siano in grado di operare la sperata fuoriuscita da esso. Spesso l’esistenzialismo sospende l’esistenza ad un atto di libertà e infine all’abisso della libertà (il termine è sintomatico), cioè in ultima istanza ad una decisione.

L'esistenzialista, comprendendo che non si può dimorare al-

l’infinito nel relativismo e nel nichilismo, decide di uscirne con

un atto di libertà. Il problematico non sta nell’uscire dal rela‘ tivismo o dal nichilismo, ma nel modo. Il carattere forse più intimo dell’esistenzialismo è la consapevolezza che al fondo di ogni conoscenza e di noi stessi scopriamo l’abisso, ciò-chenon-è-fondato. Esso è talmente radicale che insidia lo stesso

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Filosofia e Rivelazione

Assoluto, per cui in ultima analisi ogni verità e significato poggiano solo sull’abisso infondato della libertà: umana o divina, a seconda dei casi, ma la struttura dell’originario non muta. Se ogni significato proviene dall’atto oscuro e principiale della libertà, allora ogni significato è fondato su una decisione, e infine non vi è in senso proprio significato ma decisione. Nono-

stante ogni diversa intenzione personale, l’esistenzialismo di tal fatta, ospitando un fraintendimento sull'essenza della li-

bertà e sul carattere ultimo dell’essere, non sembra in grado di

contrastare l’avanzata del nichilismo. Se guardiamo dal lato della filosofia trascendentale, che nel suo complesso ha rappresentato l’ontologia dei moderni, vi si incontrano molte cose rispettabili, tranne l’essere. Si incontrano cose ed uomini, orta e soggetti umani, e certamente la

“differenza antropologica” fra gli orta inanimati e l’uomo vivente e pensante. Anzi, la soggettività è talmente innalzata che la dottrina trascendentale moderna difficilmente avrebbe potuto nascere al di fuori dell’inglobante spirituale dell’antropocentrismo, quello per cui, a detta di Barth, l’uomo è il soggetto universale e Cristo nel migliore dei casi è il predicato. Una tale filosofia poteva essere una filosofia della coscienza e una della libertà, e fu le due cose insieme. Non riuscì però a produrre quell’apertura dell’anima all'intero, senza di cui la fuoriuscita dal nichilismo non può accadere. Apertura dell’anima, allusa nell’antico adagio anima est quodammodo omnia, qui significa apertura all'essere e all'esperienza, nella possibile accettazione di quell’infinita apertura prodotta in noi dalla Rivelazione. È per ragioni profonde che Nietzsche cercò con inflessibile energia di abolire l’anima, comprendendo che una condizione dell’avvento del nichilismo risiedeva nella cancella-

zione dell'anima quale sensorio ontologico e teologico. Oblio

dell’essere e dell'anima, e dissoluzione dell'etica si danno la

mano. __ Per operare la fuoriuscita dal nichilismo sembrano disponibili due grandi correnti vitali: /a filosofia dell'essere e la tra-

III. Religione e tradizione biblica

81

dizione biblica. Senza prendere posizione su questioni di scuola, enciclica suggerisce che uno dei maggiori limiti del moderno filosofico consista nell’aver messo fra parentesi l’essere, nel non essere riuscito a porsi come filosofia dell’essere, in-

contrando di conseguenza maggiori difficoltà nel ritrovare la dimensione sapienziale che è propria del pensare filosofico ed andando incontro alla frammentazione del sapere. Con il riferimento alla metafisica è giustificato evocare per contrasto quell’area della filosofia contemporanea che si autodefinisce come postmetafisica, volendo con ciò alludere alla irreversibile svalutazione dei fondamenti del vero e del valido che essa legge nella cultura occidentale. Se la diagnosi rimane problematica nella sua valenza speculativa, d’altro canto conferma la

precarietà di trovare un senso e di preservare il contenuto delle intuizioni morali, quando il pensiero programmaticamente si separi dall’ontoteologia e dalla religione 8. Poiché della filosofia dell’essere si è già detto, è tempo di volgersi verso la religione, la tradizione biblica e la Rivelazione.

CONOSCENZA

DI DIO E SCOPI MONDANI

Nel rapporto generale fra filosofia e religione sono implicati molti e complessi problemi, tra i quali a tre vorremmo ora dedicare un cenno in questa sezione e nelle successive: 1) se la conoscenza di Dio sia ormai da considerare un problema extrafilosofico; 2) in che cosa consista il compito della filosofia 8 Sul problema del nichilismo, in specie teoretico, cf. il nostro Terza navi| gazione. Nichilismo e metafisica, cit. Il volume si impegna a individuare quella determinazione adeguata di nichilismo, che venne cercata con intensa passione da Nietzsche, da Heidegger ed altri, ma che ultimamente sfuggì loro. Nella comprensione della natura o essenza del nichilismo si deve riconoscere il passo propedeutico e inaggirabile per avviare la guarigione dalla sua “malattia”: si intende l'impossibilità di liberarsi di un evento di cui si ignora la natura.

82

Filosofia e Rivelazione

della religione; 3) se non esista una invalicabile differenza fra filosofia e religione, in rapporto alla quale una “religione filosofica” si ponga come un equivoco. Nell’Occidente secolarizzato è diffusa la persuasione che la conoscenza su Dio non appartenga alla cultura ormai decisamente rivolta al mondano, ma sia un affare da abbandonare alla

sfera del sentimento privato e del non-sapere. Opinioni in parte analoghe sembrano circolare nei confronti della Bibbia — considerata sì il “grande Codice” dal quale lo spirito occidentale ha continuato ad attingere nei secoli, ma ormai alle nostre spalle —

come nei confronti del cristianesimo: in tutti questi casi un’ala influente della cultura dei popoli occidentali guarda verso un postmoderno, che assume le forme di un’epoca postmetafisica, postbiblica e postcristiana. In proposito qualcosa di decisivo si fa innanzi, per cui il problema più degno di esser pensato nel rapporto tra Occidente e cristianesimo è se il primo possa fare

realmente a meno del secondo, mentre rimane vero che questo può fare a meno di quello. Ciò suppone la profonda insufficienza di un cristianesimo secolarizzato e laicizzato, che non di

rado è stato il battistrada dell’ateismo; e nuovamente si impone una scelta pro o contro il cristianesimo. A questo crocevia si incontra il problema forse più impegnativo per la cultura e la teologia attuali: come riconciliare nell’esistenza i liberi scopi umani, dotati di autonomia e deter-

minatezza, con la coscienza religiosa, affinché i primi nella

molteplice varietà dei loro lati mondani siano fecondati dal divino e ad esso ricondotti. Uno dei massimi compiti delle religioni e in specie del cristianesimo nell’epoca della tarda modernità consiste nel conciliare la posizione dei fini mondani

con la conoscenza religiosa e la preghiera, affinché queste non siano rese irrilevanti dalla crescente estensione delle attività terrestri, in cui consiste lo spirito dell'Illuminismo. Quale l’equilibrio auspicabile tra conoscenza di Dio e conoscenza mondana con i suoi fini? E come raggiungerlo nell’attuale esplosione dei saperi terrestri? La risposta non sembra potersi col-

III. Religione e tradizione biblica

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locare solo sul piano etico, che di per sé costituisce la norma del mondano, poiché ciò implicherebbe accettare il confronto sul terreno preferito dall’Illuminismo, dove con una scelta dalle importanti conseguenze Dio viene considerato un tema non

più di pertinenza della filosofia, pregiudizialmente tenuto ai margini. In ogni caso il problema esiste. La religione insegna che Dio ha fatto tutto; nel contempo il soggetto vede che è l’uomo che ha fatto e va facendo tutto nella molteplicità della sua prassi terrestre. La crisi della coscienza religiosa scaturisce dal suo esser deprivata della percezione dell’attività di Dio: è come se Egli stesse soltanto su un lontano lato del poligono, e luomo occupasse tutti gli altri. La coscienza rimane perciò nella scissione, per cui essa crede che tutto è opera di Dio e nel

contempo vede che tutto è opera dell’uomo, onde lo stesso sentimento della dipendenza del soggetto nell’agire svanisce. L’autonomia della prassi tende a elevarsi sulla distruzione del senso religioso, difformemente dalla verità delle cose per cui la

autenticità del mondano sta nel divino. La coscienza cristiana può rispondere, discernendo tra gli scopi mondani quelli assumibili da un punto di vista trascendente, e con ciò cercando di riconciliare. Riconciliazione è la

parola del cristianesimo: dell’umano e del divino; dell’intelletto e del cuore; della libertà e della grazia. La riconciliazione è un evento teologale, qualcosa che mette in campo Dio stesso, non solo un atto che si conchiude a livello morale, come sem-

bra accadere in Hegel: «nell’etico esiste e si compie la riconciliazione della religione con la mondanità, con la realtà» 9. Parola rivelatrice! Nella forma hegeliana della riconciliazione l’elemento teologale sembra svanito, soppiantato da quello etico.

Poiché questo stabilisce l’universale, mentre l’evento-Cristo è

collocato dal lato della singolarità, una tale riconciliazione è

9 Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1974, vol. I, p. 60.

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Filosofia e Rivelazione

problematica, in quanto l’attore fondamentale rimane fuori dal quadro. Sebbene Hegel colga lucidamente il problema della conciliazione del cristianesimo con la cultura moderna, che sembra non aver bisogno di Dio e star fuori dalla religione, la sua proposta solutiva che cerca di tenere insieme la conoscenza finita e il sentimento religioso, il finito e l'infinito, resta dubbia perché la coscienza religiosa è collocata sotto quella filosofica (torneremo su questo aspetto). Quanto all’Illuminismo, difficilmente ha voluto battere la strada della conciliazione, preferendole quella dell’aut-aut. Esso risolve il dissidio tra intelligenza e religione, abbandonando la seconda, ossia lasciando

andare un lato e tenendo fermo solo l’altro. Ma così lo spirito rimane nella lotta e nell’inquietudine: se lascio da parte la religione, sbocco nell’indifferenza religiosa che è spesso il retaggio di anime superficiali; se mi affido al sentimento religioso per rigettare il mondano, rischio di mantenere una parete divisoria tra quest’ultima e la religione, per cui lo spirito non prende un interesse fondamentale per essa. Nessuno dei due partiti è raccomandabile: nessuno dei due riconcilia realmente, poiché lascia fuori nell’inessenziale elementi notevoli, tra cui l’esperien-

za mistica e la possibilità di una rivelazione.

FILOSOFIA DELLA RELIGIONE E RIVELAZIONE

Se la religione continua a far parlare di sé, meno ci si interroga sulla filosofia della religione: che cosa essa sia, pare divenuto problematico. Si sa che è una disciplina accademica, inserita nell’area delle discipline morali e antropologiche. Attribuzione curiosa ma rivelativa poiché si suggerisce l’idea che la religione appartenga o sia omologa alla morale. Già in rapporto a questa collocazione sorge la più generale questio ne se la filosofia della religione possieda sufficienti titoli per esistere

III. Religione e tradizione biblica

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come disciplina autonoma, epistemicamente in grado di autofondarsi. Per venire preliminarmente in chiaro su questo notevole tema, occorre domandarsi: che cosa è e di che cosa si occupa la filosofia della religione? Essa verte sulla conoscenza che l’uomo può raggiungere intorno a Dio e al proprio rapporto

con lui. L'oggetto primario della religione è Dio e il rapporto dell’uomo con lui, e ciò è pure l'oggetto della filosofia della religione: entrambe solo secondariamente e sempre in riferimento a Dio e all'uomo si occupano del culto, delle pratiche religiose, dei sacrifici, del sacro 19. Vertendo sulla conoscenza (na-

turale) di Dio e sul rapporto con lui attraverso la religio che è almeno pietà e culto, la filosofia della religione non è una di-

sciplina autonoma o capace di autofondazione; vale piuttosto come una regione della metafisica (e dell’antropologia). Alla metafisica spetta infatti di indagare il moto dell’uomo e della sua ragione verso Dio a doppio titolo: entro il quadro della religione naturale, e senza escludere l’eventualità di una rivelazione divina. La possibilità di una adeguata filosofia della religione, che non si accontenti di un’indagine fenomenologica sul sacro, il religioso, il numinoso, ecc., riposa sulla metafisica, os-

sia sulla capacità dell’intelletto di trascendere il livello empirico per inoltrarsi nel metaempirico. Introdotti così i termini del problema, è agevole intuire che la filosofia della religione sia stata coinvolta dalla crisi della metafisica, al punto da non avere più oggetto proprio e di doversi rivolgere verso elementi fenomenologici, che risultano utili, propedeutici, non però decisivi. Se l’oggetto della filosofia della religione è la religione, e questa verte su Dio e il rapporto dell’uomo con lui, la disciplina rischia di trovarsi in una condizione quasi disperata, in quanto Dio non è più da secoli ‘un oggetto su cui la filosofia ritenga di poter affermare o ne10 Secondo Tommaso d'Aquino la religione riguarda essenzialmente il rapporto con Dio, al quale viene ordinato l’uomo, cf. S. Th. I II q. 81, a. 1.

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Filosofia e Rivelazione

gare alcunché, poiché è ritenuto inaccessibile, inconoscibile,

qualcosa che è al di là del raggio dell'intelletto. Da qui ha preso inizio il tentativo di mutare l'oggetto stesso della disciplina, la quale se ne crea cammin facendo altri, a seconda degli stili e delle epoche, con una certa preferenza per il Sacro, oppure cerca di valorizzare al massimo lo studio fenomenologico del comportamento religioso dell’uomo, entro però una condizione di cattiva coscienza poiché l’Oggetto immenso non è raggiunto e quel comportamento si rivolge ad una “x”. Ciò sia detto senza sottovalutare i notevoli apporti provenienti dalla sociologia e dalla psicologia religiosa, nonché dall’antropologia culturale quale studio delle usanze religiose dei popoli. Che da lungo tempo la filosofia si volga con crescente esitazione verso Dio, lo ricordava circa due secoli fa Hegel con parole molto forti: «Vi fu un tempo in cui tutta la scienza era una scienza di Dio; il nostro tempo al contrario si caratterizza soprattutto perché conosce una infinita quantità di oggetti e proprio niente di Dio» !!, La moltiplicazione dei saperi regionali vertenti sul finito ha drasticamente ridotto l’area del sapere su Dio. A tal punto non si mostra dispiacere di non conoscere più nulla di Dio, che anzi si eleva a principio metodico universale il procedere etsi Deus non daretur. Tuttavia il nostro scopo di filosofi, il fine verso cui muoviamo, è di conoscere l’essere e attraverso esso Dio: non Dio come è nella sua eterna essenza, ma almeno che egli è; conoscerlo da lontano e nella caligine, indirettamente, attraverso i suoi riflessi creati. Questo

è l'interesse della parte più alta della metafisica, ed è pure l’interesse della filosofia della religione.

Orbene, il concetto più alto di Dio che la metafisica come teologia naturale e la filosofia della religione riescono a formare è il concetto di Dio come 7psurz esse per se subsistens. Dio come essere: tale la sua nozione per noi naturalmente attingi-

bile. E con essa Dio come spirito e come pensiero, capace di 11 Lezioni di filosofia della religione, vol. I, p. 64.

JA

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manifestarsi come Deus absconditus. In ciò consiste lo snodo fondamentale che collega la metafisica e la filosofia della religione, e che rimane aperto ad un’ulteriorità, ad una possibile

Rivelazione. Collegandosi alla metafisica e da essa dipendendo, la filosofia della religione non può presupporre il suo oggetto. Essa dunque si trova in una condizione più difficile della teologia cristiana rivelata, la quale accoglie nella fede la Rivelazione e il suo contenuto. A questo crocevia si fa avanti l'apporto di Fides et ratio, la quale, sostenendo la conoscibilità naturale di Dio da parte dell’intelletto umano (e della disciplina metafisica), rende nuovamente possibile la filosofia della religione, ricostituendone l’oggetto (dell’altra parte del suo o0ggetto, l’uomo, infatti non si dubita). Rendendola possibile, le

suggerisce anche di costituirsi come disciplina aperta. Aperta ad una possibile Rivelazione, e dunque attenta a completarsi con un’antropologia metafisica che individui nell’uomo la capacità radicale di rimanere in ascolto di tale possibile Rivelazione, se mai accadesse. In tal modo la filosofia della religione, che è essenzialmente teologia naturale in unione con una antropologia metafisica, si pone come praeparatio evangelica prossima, in rapporto al più generale compito di preparazione evangelica che compete a tutta la filosofia. Si è accennato nel cap. I che l’altro punto focale dell’enciclica (forse meno sviluppato di quello vertente sulla filosofia e la sua pretesa alla verità) si individua nel problema della Ri-

velazione, senza di cui non v'è cristianesimo. La Rivelazione è

per sua natura una autorivelazione: quando Dio rivela, infatti, non rivela altro che se stesso, autocomunicandosi. La sua massima autorivelazione è partecipare agli uomini suo Figlio. Prima ancora di essere suggerimento divino all’uomo, ausilio per

il cammino di una ragione claudicante, la Rivelazione è essenzialmente autocomunicazione, che è ad un tempo svelamento e raddoppiameno del velo, secondo il doppio significato di revelatio, ed in cui ne va della dialettica di Dio che si rivela nascondendosi, si nasconde rivelandosi. La Rivelazione quale ve-

Filosofia e Rivelazione

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ritas semper indaganda emerge come il luogo di contatto e di confronto fra il pensare filosofico e quello teologico (cf. n. 79), entro quella circolarità per cui la filosofia è dalla parola di Dio indirizzata verso nuovi oggetti, e la teologia procede allo sviluppo dell’intelligenza della fede, chiamando accanto a sé l’energia della ragione. Una spia che qui viene toccato il nervo forse più delicato del rapporto fra cristianesimo e modernità sta nel fatto che nell’arco di un secolo due concili ecumenici se ne siano occupati, dedicando alla Rivelazione le due loro più importanti costituzioni dogmatiche: Der Filius il Vaticano I e Dei Verbum: il Vaticano II. Anche oggi il tema rimane vitale: in rapporto ad esso sono in specie i pensatori ebraici a metterne in luce l’importanza (Buber, Rosenzweig, Lévinas). Una riflessione sulla Rivelazione rimane un punto ineludibile, senza dimenticare i due poli fra cui si svolge: a) quello dell’uomo, nel senso che questi può essere uditore di una parola che gli venga rivolta da Dio 12; b) quello di Dio, poiché egli liberamente può decidere di parlare, compiendo un atto che è gratuita autocomunicazione di sé all'uomo, ossia grazia 13. In proposito si potrebbe impiegare il termine di “filosofia della Rivelazione”, chiarendone la portata. La teologia non nasce facendo cadere lo sguardo 12 «L'uomo è l’ente che nella sua storia deve tender l'orecchio a un’eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana», K. Rahner, Uditori

della parola, Borla, Torino 1988, p. 208. E anche: «L'uomo è l’ente che, amando liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione. L'uomo è in

ascolto della parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazione» (p. 136). Una filosofia è aperta quando nella sua antropologia fondamenta le mostra che l’uomo è sempre, ossia per natura, inclinato ad ascoltare una possibile Rivelazione.

13 «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo nta

amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi», Dei Ver-

un, n. 2.

È

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del filosofo sugli oggetti teologici, ma operando entro un movimento dove il mezzo di conoscenza è la fede, mentre la filo-

sofia svolge un compito cooperante, in cui viene sopraelevata e quasi “transustanziata”. Scrive l’Aquinate: «Qui utuntur philosophicis documentis in sacra Scriptura redigendo in obsequium fidei, non miscent aquam vino, sed convertunt aquam in vinum» 14.

Nel momento in cui l’idea di una Rivelazione divina non venga abolita a priori, ma rimanga come possibilità aperta, da quello stesso momento è posta l’idea che essa possa apportare qualcosa di nuovo all'uomo e alla sua mente, dischiudendo spazi inediti. Una delle frasi reggenti dell’enciclica, forse la più feconda e caratteristica, suona: «La Rivelazione immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la

mente a non fermarsi mai» (n. 14). Aprirsi alla Rivelazione è aprirsi alla Incarnazione, alla Croce. Nel Verbum caro factum est e nel In cruce unus de Trinitate mortuus est risiede un formidabile stimolo al pensare filosofico. Prendendo una posizione disponibile nei confronti di una possibile Rivelazione nella storia, la ragione non si contraddice, si pone piuttosto in ascolto critico di qualcosa che può stimolarla, e imprimerle una tensione idonea a farle esprimere il suo massimo rendimento. Qualcosa dunque che mette in moto il soggetto per un viaggio, anche speculativo, che non ha fine. Per quanto possa qui suonare offensivo per le orecchie dei razionalisti, non si può non menzionare l’inesauribile sollecitazione speculativa che si diparte dal contenuto del dogma. Nell’insieme risulta agevole intendere come Fides et ratio dimetta la tesi idealistica e neoidealistica secondo cui la religione costituisce una forma inferiore di filosofia, poiché conosce come mito e rappresentazione quanto il sapere filosofico sa nella forma dell’autocoscienza ‘come verità concettualmente espressa. In proposito si incontrano talune difficoltà sollevate dal 14 In Boetii de Trinitate, q. II, a. 3, ad 5m.

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Filosofia e Rivelazione

pensiero attuale. Oggi esso raramente si pronuncia in modo

esplicito per l’ateismo; piuttosto se ne sta più o meno asceticamente al finito, e quando volge la mente verso il divino, lo intende non di rado in due modi: 1) talvolta nella versione della

polivalente sua presenza come nel paganesimo, cioè entro un

almeno tendenziale politeismo: non Dio, ma gli dèi, il pantheon; 2) talatra entro le categorie del deismo, come un Dio lontano e indifferente rispetto alla storia degli uomini: un Dio estromesso dal mondo, non agente in esso. Conseguentemente l’essenza della religione diviene l’etica, volta ai rapporti interumani. In questa fattispecie si prescinde dalla conoscenza proveniente da Dio, sottintendendo che un tale conoscere non è un

compimento, né qualcosa di rilevante in ordine alla gestione della vita. Ed in rapporto all’etica viene sviluppata l’idea di un minimo comune denominatore morale, una sorta di etica planetaria che si spaccia come valida al di sopra di tutte le confessioni religiose, intese entro un pluralismo di diritto. Ponendo la verità filosofica come cammino che prepara e conduce ad accogliere la Rivelazione, Fides et ratio invita a riprendere lo studio di Dio come l’oggetto più alto: di Dio come essere, spirito, amore, di Dio che si rivela e vive nel suo popolo.

RELIGIONE FILOSOFICA O FILOSOFIA RELIGIOSA?

| Se una filosofia della religione (con le precisazioni dette) è legittima, e così pure una filosofia religiosa capace di ispirarsi e integrare nel suo tessuto l'elemento religioso, ha invece scarso fondamento una religione filosofica, intesa secondo moduli tematizzati da Hegel o da Gentile: un pensiero cioè che inglobi perfettamente nel movimento della ragione il contenuto trascendente della religione, lo digerisca, lo dissolva nello speculativo, al massimo lasciandolo sussistere per i semplici. Lungo questo approccio la fede viene eliminata come sorgente di conoscenza

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distinta dalla ragione. Non vi sono motivi per pensare la filosofia come la suprema e compiuta esposizione del sistema assoluto del vero, come ritennero Hegel e Gentile. Se ci riferiamo a quest’ultimo, suo atteggiamento costante fu che il mito si risolve nella ragione, e la religione nella filosofia. Egli non rinunziò a vedere nell’attualismo il pensiero capace di “ridurre” l’arte e la religione, e di considerare quest’ultima, al massimo, inferior philosophia, che deve rimanere tale e dunque congedare ogni senso di modernizzazione e di rinnovamento (da qui l’acerba sua opposizione al modernismo cattolico), oppure deve oltrepassarsi nella filosofia: la religione comincia là dove si arresta il processo critico della ragione. La Rivelazione non potrebbe rivelare nulla di quanto la ragione già non sappia !. Che una religione filosofica — intesa come genesi immanente dalla ragione dell’intero suo contenuto e piena risoluzione dello stesso nel concetto — sia un equivoco, è quanto si in-

tende ora mostrare. Per tracciare il perimetro della sua impossibilità, devo convocare la vita profonda dell’io, la soggettività in quanto tale nel suo mistero e nel suo abisso, senza dimenticare che una possibile parola di Dio rivolta all'uomo si indirizza in primo luogo alla sua soggettività, alla precarietà che l’io porta in sé, all’indecifrabile mistero che il singolo, ogni singolo, è. La religione, e in modo del tutto speciale il cristianesimo, 15 In Hegel la re-velatio, che rivela e vela, è divenuta semplicemente Of fenbarung, aperta e piena manifestazione, per cui il concetto speculativo di Dio come spirito fa conoscere l’intima necessità che egli si manifesti: «Dio si rivela. Rivelarsi vuol dire questa conversione della soggettività infinita, questo giudizio della forma infinita, il determinarsi per sé, essere per un altro; questo manifestarsi appartiene all'essenza dello spirito stesso. Lo spirito che non si manifesta non è spirito... Dio come spirito è essenzialmente questo: essere per un altro, ma| nifestarsi» (Lezioni sulla filosofia della religione, cit., vol. II, p. 250). La religione in quanto luogo della manifestazione di Dio, non può che dissolvere il mistero. La re-velatio è ormai un completo svelamento, dove ancora una volta si osserva la fondamentale inimicizia fra razionalismo e mistero, e la identità fra razionali smo e necessità, che è appunto il cammino attraverso cui si cerca di raggiungere

l’episteme e si distrugge la sophia.

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è un rapporto, ultimamente inoggettivabile, fra persona e persona, fra interiorità e interiorità, fra soggetto umano e Soggetto divino; sta tutta dentro la relazione fra soggetti. Dio è un “ty”, non un “egli” o peggio un “esso”. La nostra prima affermazione suonerà così: la soggettività individuale e la sua esperienza profonda, entro cui si dispiega il fenomeno religioso, si colloca ultimamente al di fuori della portata del concetto e dunque della filosofia. In effetti il concetto, per sua natura, 0ggettiva, ossia conosce come oggetti i soggetti: conoscere col con-

cetto è oggettivare, è universalizzare, dunque è andare in senso contrario alla conoscenza della soggettività individuale come tale. La conoscenza concettuale, necessaria e indispensabile, paga l’alto scotto di non poter raggiungere il soggetto nella sua individualità. Se il mistero della soggettività sfugge alla conoscenza del concetto, esso sfugge alla filosofia, le sta di fuori. «Il limite insormontabile contro il quale urta la filosofia, è do-

vuto al fatto che questa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, risulta totalmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto, mentre la religione si inscrive nella relazione fra soggetto e soggetto. Per questo ogni religione filosofica od ogni filosofia che pretenda, come quella di Hegel, di assumere in sé e di integrare la religione, è in definitiva una mistificazione» 16. Nella religione filosofica non ci si rapporta a Dio come a uno a cui si possa parlare e che sta di fronte all'uomo 17. AI di là della conoscenza obiettivante attraverso il concetto si dà una conoscenza non obiettivante della soggettività che può raggiungere la soggettività del singolo e che si muove sulle ali della sim-patia, della connaturalità, dell'amore. Una tale sie J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 58. Ca: LI Indurendo un poco le cose, scrive efficacemente M. Buber: «La filosofia inizia sempre con il prescindere decisamente dalla sua situazione concreta, cioè con un elementare atto di astrazione», L'eclissi di Dio, Ed. di Comunità, Mi-

lano 1983, p. 56.

/

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conoscenza, intesa come rapporto non estraniante, viene in-

contro ad un desiderio profondissimo del soggetto: quello di non perdere il proprio io, di trovare un senso, e di venire riconosciuto; che vi sia perciò qualcuno, nel mondo o fuori dal mondo, che mi riconosca nella mia singolarità ferita e precaria; qualcuno che mi conosca più di quanto io mi conosca, che ri-

volga uno sguardo misericorde e mi renda giustizia. Forse l’uomo può accettare di dire addio al desiderio di essere felice, non può però rinunciare a quello di essere riconosciuto, e che

qualcuno gli renda giustizia. L'inferno è non essere riconosciuti da nessuno. AI di fuori di un’illusoria religione filosofica, fede e filosofia hanno molto da comunicarsi. Può qui venir in appoggio a stimolare la riflessione un noto pensiero di Adorno, che conclude i Minima Moralia. «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella costruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica» !8. Lontani sono i monti su cui si collocano la prospettiva

adombrata nel brano di Adorno e l’idea di una religione strettamente filosofica. In che cosa possono comunicare? Forse nella questione della morte: implicita in Adorno, non può venire schivata dalla filosofia. La mente corre ancora a Gentile e alle riflessioni sulla morte che chiudono Genesi e struttura della società. Le due prospettive comunicano sul tema, pur affrontandolo ben diversamente. Se ne indaghiamo i motivi, la ‘risposta suona: in una religione filosofica razionalistica non si dà superamento reale della morte. Essa, o allontana semplice18 T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1954, pp. 235 s.

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mente il tema, oppure lo pone sul proscenio, ricorrendo al crudele asserto: «tutto ciò che esiste, merita di morire (o è degno di perire)», in cui secondo Engels dovrebbe riconoscersi l’anima potente e autentica della dialettica hegeliana. Non si esprime qui una semplice constatazione sul declinare e svanire degli enti, ma una legge universale, ossia la meritata e dovuta destinazione del Tutto alla morte. Con il riferimento alla morte come qualcosa di ontologicamente meritato, si insinua l’idea dell’esistenza come colpa ontologica intrinseca ad essa, non dunque come evento sopravvenuto per una disobbedienza successiva attribuibile alla libertà. Conseguentemente la filosofia, per la quale il riferimento alla morte come meditatio mortis ci era parso tema da non cancellare per le prospettive che può dischiudere e per le domande sull’oltre che può sollevare, rischia di venire legata intrinsecamente alla morte, poiché pone l’intero come degno di morire senza eccezioni e senza residui

di ulteriorità. Una religione filosofica paga lo scotto di accontentarsi di fronte all’enigma del male, riconducendolo ad una universale

colpevolezza e infine mortalità del Tutto. Una diversa prospettiva affiora nel dettato di Adorno, poiché questi, pur non tralasciando il compito della filosofia nel rapportarsi alla morte, guarda a quest’ultima dal punto di vista della redenzione, nel tentativo di considerare l'essere non solo dal lato non del declinare e morire, ma di ciò che potrà accadergli sotto l'impatto della redenzione messianica.

LA FILOSOFIA (POSTMODERNA) COME PRAEPARATIO EVANGELICA? CINQUE PERSONAGGI

Entro il rapporto fra sapere filosofico e Rivelazione due questioni notevoli ci interpellano: 1) possiamo in generale pensare la filosofia come preparazione evangelica (praeparatio

evangelica), ossia come un’area di conoscenza che predispone

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all’ascolto aperto, amichevole, non pregiudicato dell'annuncio cristiano? A tale domanda Fides et ratio assegna risposta positiva, fondandosi sull’esperienza dei primi secoli cristiani e facendo riferimento in specie a san Giustino e a Clemente Alessandrino (cf. n. 38); 2) in particolare possiamo pensare nell’orizzonte della praeparatio evangelica la filosofia postmoderna? L'enciclica non suggerisce una risposta, anzi la questione non è

sollevata. In effetti la formulazione stessa della domanda può suscitare stupore. Si obietta: non è dal pensiero moderno e contemporaneo, tanto influente su quello postmoderno, che sono venute radicali contestazioni al cristianesimo, a Dio, al

Cristo? Non ha esso voluto porsi in numerose sue espressioni come ateo e antiteista? E non è oggi tale pensiero spesso in-

camminato verso il nichilismo o almeno a costeggiarlo? Numerosi indizi militano a favore di una risposta affermativa a queste domande. D'altra parte il filosofo non prepara ordini del giorno per il futuro: gli basta portare la fatica del concetto. Sarà già un buon passo il determinare che cosa si intenda per praeparatio evangelica. Ricorrendo a questo termine, si impiega un concetto antico, a cui ha fatto ricorso Clemente Alessandri-

no, intendendo la filosofia greca come strada e cammino per venire preparati a ricevere il Vangelo: qualcosa di analogo si riscontra in Agostino in rapporto alla filosofia platonica (cf. De civitate Dei). Per Clemente il “Testamento” ad uso dei Gentili fu la filosofia: essa giustificava i greci, i quali secondo l’autore in qualche modo intravedevano le due verità fondamentali su Dio creatore e remuneratore. Non è superfluo aggiungere che

a questa tesi si contrapponeva allora quella degli gnostici e dei marcioniti, che intendevano la filosofia come sapienza diabolica data dagli angeli decaduti agli uomini: la filosofia o la cono‘scenza come frutto del serpente !9. 19 «Prima della venuta del Signore, la filosofia era necessaria per la giustificazione dei greci; ora, è utile per condurre le anime a Dio, giacché è una propedeutica per coloro che arrivano alla fede attraverso la dimostrazione... Dio in-

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Filosofia e Rivelazione

Nella filosofia che prepara il cammino all'annuncio del Vangelo si può forse individuare un equivalente naturale del compito di Giovanni Battista che preparò la strada al Verbo: chi appronta la strada fa in modo che i principali ostacoli siano rimossi e che il cammino non sia tortuoso. L'idea di Clemente può risultare anche oggi valida, a patto di saper individuare la forma più urgente di preparazione evangelica che la filosofia può offrire. Se mi interrogo in proposito, intravedo che tale preparazione dovrebbe includere la riconquista del senso della verità e di Dio, e la capacità di sgomberare il terreno dai principali ostacoli, fra cui appunto il nichilismo, col quale è andata in frantumi non solo l’idea che la filosofia potesse valere come praeparatio evangelica, ma è entrato in una

zona d'ombra un altro compito “tradizionale”: quello secondo cui il filosofare vale come cura e medicina dell’anima. Rispetto all’orizzonte di Clemente, che aveva dinanzi il mondo antico prima della venuta di Cristo, viviamo in una condizione diversa, poiché il Vangelo è stato annunziato. Il tema della preparazione da parte della filosofia non può perciò venire inteso in senso sostitutivo e surrogatorio di qualcosa che ancora non c’è, ma in modo cooperante e aprente: preparare il cammino, non ponendo ostacoli verso qualcosa che già si è manifestato. Ciò in modo più determinato significa per la filosofia: non adulterare il senso della verità e del bene, e operare perché con le assise naturali della mente e del volere il soggetto sia indirizzato verso tale senso. Nel cercare di intendere come la filosofia possa svolgere fatti è la causa di tutte le cose belle, ma di talune in maniera principale, come del-

l'Antico e del Nuovo Testamento; delle altre secondariamente, come della filoso-

fia. E forse questa è stata donata principalmente ai greci prima che il Signore chiamasse anch'essi: giacché essa conduceva i greci verso il Cristo come fa la Legge per gli ebrei. Ora la filosofia resta una preparazione che mette sulla via giusta colui che è perfezionato dal Cristo stesso» (Clemente, Stromzata, 1,5, 28). Occor-

re aggiungere che per Clemente i greci hanno appreso molte dottrine dai profeti dell’ebraismo.

III. Religione e tradizione biblica

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un compito di preparazione evangelica, vari cammini e diverse

metodologie si prestano allo scopo. La strada che percorreremo adotta un metodo narrativo che racchiude peraltro potenzialità filosofiche. Si volge a figure del passato, ritenendo che dal loro esempio possa venire un’ispirazione permanente per intendere la preparazione evangelica e la cooperazione fra fede e ragione. Ci indirizzeremo in specie a quelle persone capaci di incarnare filosofia e fede nella loro forma più pura e tipica, chiedendo: chi è / chi sono i rappresentanti della filosofia? chi è / chi sono i rappresentanti della fede? Convocheremo dinanzi allo sguardo della mente cinque figure: Socrate, Gesù, Pilato, Abramo, Odisseo/Ulisse, osservandoli nel loro agire. In Socrate si è sempre riconosciuto il rappresentante e in

certo modo il padre della filosofia, degno di quell’amore che il giovane Platone maturò in se stesso e gli serbò per tutta la vita, nella nostalgia dello stupore che un giorno lo sorprese nell’incontro con lui. Anche Nietzsche — pur tanto avverso al grande occhio ciclopico di Socrate a cui imputava la dissoluzione della tragedia greca, e la nascita, con la filosofia, di uno sconsiderato

ottimismo teoretico — ne riconosce l’eccezionale rilievo (cf. La nascita della tragedia). In Gesù abita la Parola eterna incarnata, o comunque una personalità d’eccezione, un grande maestro di

morale, come Kant riconosceva. Se osserviamo attentamente i

due personaggi, per non pochi aspetti simili qualcosa ci colpisce e sollecita la nostra meditazione. Socrate interroga, Cristo è interrogato. L’Ateniese si aggira per la piazza pubblica, l’agorà, ponendo domande e infastidendo non di rado i suoi interlocutori, a cui appariva come un tafano importuno. Egli chiede: che cosa è la giustizia? che cosa il bene? e la felicità? Da queste domande e da quelle dei filosofi ionici precedenti è nata la filosofia. Socrate interroga. Gesù invece è interrogato lungo le strade ‘ della Galilea e della Giudea: è interrogato dagli scribi e dai fa-

smà esi

risei, dal giovane ricco, dal popolo, da sua madre, da Pilato, dal

sommo sacerdote, dagli apostoli, dai discepoli, ecc. È interrogato perché, rispondendo, renda testimonianza alla verità.

98

Filosofia e Rivelazione

Socrate non è la verità, perciò interroga: domanda per sapere ed anche per correggere nel dialogo critico le opinioni infondate. In Cristo gli interlocutori avvertono qualcosa di grande e di misterioso, forse la verità stessa, perciò egli è interrogato. Chi interroga, non sa, ma cerca. Chi è interrogato, sa, ed è interrogato su quanto sa. Ciò pone una diversità fra i due personaggi, che è la differenza tra la filosofia e il divino. La filosofia cerca Dio, ma non è divina: essa non sa, ma cerca di sapere; si tende tutta e si affatica nello sforzo della ricerca;

raramente raggiunge una condizione di quiete. Un'altra differenza emerge dal diverso carattere dell’interrogazione: Socrate eleva domande allo scopo di raggiungere la verità sulle essenze etiche. Cristo è ultimamente interrogato in ordine a lui stesso: chi sei tu? gli si chiede. Insieme gli si domanda: che cosa è la verità? Questione sulla identità di Gesù e questione della verità si congiungono e si fondono. Quest'ultima fu la domanda di Pilato durante il processo a Gesù. Egli chiede: «che cosa è la verità?» (quid est veritas?), ma non attende la risposta. Aveva troppa fretta. Fretta di chiudere il caso in qualche modo, di non scontentare troppo le parti che gli stavano a cuore, di cui desiderava garantirsi l'appoggio. Forse è il prototipo di tanti personaggi importanti, che hanno sempre qualcosa di urgente che li attende e niente di essenziale da fare. Pilato è distratto e perciò non aspetta la risposta; si rivolge alla folla chiedendo: «che cosa volete che io faccia di lui?». Egli domanda, non però in ordine alla verità. La verità non risponde ai frettolosi 0. 20 La domanda di Pilato — che cosa è la verità? — non venne posta male o impropriamente: era /a domanda. Dobbiamo biasimare Pilato quale uomo-filosofo non per aver sollevato la domanda, bensì per non aver atteso la risposta. Non è azzardato congetturare che cosa Gesù avrebbe risposto a Pilato, se questi avesse preso reale interesse alla questione. Forse avrebbe detto: Io sono la verità. E anche: fate come me; conformatevi nella sequela alla mia persona. La possibile risposta di Gesù conferma l’idea di verità come conformità o adeguazi one, allargandola oltre il pur necessario elemento dichiarativo.

III Religione e tradizione biblica

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Se un insegnamento si diparte dal dialogo tra Gesù e Pilato, è l’invito alla quiete e alla calma: reiterare la domanda e attendere con pazienza e perseveranza la risposta. Socrate da parte sua domanda senza stancarsi, in modo non finto. Non ha fret-

ta. Forse è un contemplativo, anzi lo è, come è attestato dall’episodio di Potidea durante una campagna militare, quando rimase fisso in ininterrotta meditazione per un giorno intero ed un'intera notte, sollevando la meraviglia di compagni e militi (cf. Sirzposto, 220ss.).

Che cosa dobbiamo pensare di Gesù, di Socrate, di Pilato? Gesù, interrogato sulla sua divinità, sta oltre la filosofia e la fede. Socrate ci appare il rappresentante della filosofia; Pilato si presta a più di un’interpretazione: è l'autorità infedele al suo compito; forse è il curioso che pone domande distratte, in modo ben diverso da Socrate. Se abbiamo trovato il rappresentante della filosofia, non ci è ancora venuto incontro quello della fede, che non può essere né Pilato, né il Verbo Incarna-

to. Non avendo ancora convocato Abramo, il dialogo tra filosofia e fede non può svilupparsi. Abramo è il padre di tutti i credenti; egli credette contro ogni speranza (spes contra spem). «Abramo credette, perciò egli è giovane; poiché colui che spera sempre la cosa migliore, costui invecchia perché deluso dalla vita: chi si tiene sempre pronto al peggio, costui invecchia precocemente; ma colui che crede, conserva un’eterna giovi-

nezza», scrisse Kierkegaard in Tirzore e tremore. La nostra “messa in scena” potrebbe concludersi a questo punto, ossia con la determinazione del rappresentante della filosofia e del cavaliere della fede. Uno scrupolo di lealtà e di aderenza agli eventi ci invita tuttavia a non fermarci a questo esito pur significativo, domandando a nostra volta se non si ritrovino in Socrate padre della filosofia e in Abramo padre dei credenti atteggiamenti fondamentali analoghi che, avvicinando le due figure, avvicino pure filosofia e fede.

Qualcosa di notevole, capace di stabilire una segreta affinità fra i due personaggi, ci sorprende nel comportamento di

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Filosofia e Rivelazione

Socrate e in quello di Abramo, ed è l'obbedienza ad una voce

che a loro viene rivolta e dal cui ascolto nascono esiti diversissimi. Per obbedire alla voce della coscienza e non disobbedire alle leggi della polis, Socrate rimane nel carcere di Atene, bevendo la cicuta e affrontando la morte. Per obbedire alla voce di Dio, Abramo esce dalla sua terra natale e va. L’uro rimane, l’altro va: l’uno resta nel carcere, l’altro esce dal suo paese. L'u-

no va incontro alla morte, l’altro all’ignoto. Entrambi lasciarono indietro una cosa e presero con sé una cosa. Socrate lasciò indietro il desiderio di continuare a vivere,

e prese con sé la speranza nell’immortalità e quella di poter perseverare a filosofare nell’Ade. Abramo, accingendosi a sacrificare Isacco, lasciò indietro le misure terrene del senso co-

mune e prese con sé la fede: fede pura e assoluta, poiché nessuna richiesta del genere, nessun sacrificio di Isacco, sono in-

dirizzati a Socrate. Ma entrambi sono uniti dall’aver ascoltato

una voce che parlava in loro e dall’averle obbedito. È la voce che chiama e parla in ogni uomo. Né Socrate, né Abramo hanno criticato, respinto, svuotato l'appello loro rivolto: nella sot-

tomissione hanno cercato di comprendere, lontani dall’orgoglio di un pensiero autocentrato, che allontana da sé ciò che non calza con le sue misure. In atti culminanti della loro esistenza il rappresentante della filosofia e il cavaliere della fede hanno ritenuto che non fosse possibile sottrarsi all’obbedienza ad una voce. Essi hanno ascoltato e obbedito. Anche la filosofia postmoderna, pur segnata da svolte scettiche e tentazioni formalistiche, potrà valere come praeparatio evangelica se ritroverà un contatto con la testimonianza di Socrate, mettendosi in ascolto della sua lezio-

ne, senza chiudere gli occhi su quella di Abramo. Ritrovare un

contatto può qui significare due cose: non interrompere trop-

po presto e a buon mercato la ricerca, ossia non accontentarsi

come non si accontentava facilmente Socrate nel dialogo per la verità; non perdere di vista che Socrate allontana da sé l’accusa di ateismo, sollevatagli contro da Meleto ed altri. Il padre

III. Religione e tradizione biblica

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della filosofia non è ateo: «Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio, è

oscuro a tutti fuori che a Dio» (Apologia di Socrate, trad. Manara Valgimigli). Egli intuiva che essere nel senso più alto è essere per sempre. Se forse Socrate, come riteneva Kierkegaard (cf. La wm4lattia mortale), sta più in alto della filosofia moderna, non si dovrebbe aggiungere che Abramo sta più in alto di Socrate? Sta più in alto non secondo una graduatoria di valore ma di elezione, poiché Abramo intuì qualcosa del mistero della Cro-

ce. A Socrate fu chiesto di accettare l’ingiusta condanna a morte, eseguita dalla città; ad Abramo di sacrificare il suo uni-

co figlio. A chi fu domandato di più? A quello a cui fu domandato di più e fu richiesta una speranza più grande, questi ha un presentimento della Croce. In essa (e nell’Incarnazione) sta il vertice della Rivelazione, la quale avviene «con eventi e parole intimamente

connessi» (Dez Verbum, n. 2). Socrate e

Abramo sono grandi e con profonde analogie nella loro grandezza: ma sta fra loro conficcata quella Croce, di cui Abramo ebbe oscura conoscenza obbedendo alla richiesta di sacrificare

Isacco. Quella Croce che nessuna struttura dialettica, nessuna argomentazione razionale possono dissolvere, perché sta oltre l’umano e la filosofia. Forse non è ancora terminato il nostro cammino, poiché

oltre a Gesù e Pilato, oltre a Socrate e Abramo, ci interpella la

figura di Odisseo/Ulisse. Essa una volta ancora ci indirizza verso Abramo. Entrambi viaggiano e affrontano l’ignoto, ma per diversi fini. Abramo per uscire dal suo paese natale, Ulisse per ritornarvi, per dimorare di nuovo nel luogo che è origo e fons di ogni bene e degli affetti familiari. Abramo è spinto dalla chiamata di Dio, l'Ulisse dantesco dal desiderio di «virtute e conoscenza»: vi è in lui un intenso ardore di sapere, capace di

sfidare la morte e che dà testimonianza al naturale desiderio di conoscere. Anche egli come Socrate è un'immagine della filosofia, che sempre deve tornare al proprio principio, e che per

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Filosofia e Rivelazione

ottenere ciò è obbligata a compiere un rischioso viaggio. Condotto dal desiderio di sapere, non da vana curiositas, a varcare le colonne d’Ercole, Ulisse non ha nulla dell’Uberzzensch. È l’uomo che cerca; è la filosofia senza la fede, che con forza e

nobiltà rischia ma che ultimamente non riesce da sola a varcare quelle colonne. Che cosa trasmette la sua figura? Nel rispondere vorremmo distaccarci da Lévinas, per il quale l’elemento dubbio del greco Odisseo starebbe nel desiderio di ritornare al punto di partenza, all'origine. Il filosofo lituano intese tale atteggiamento come paradigma di una soggettività isolata, chiusa, autocentrata, identica a se stessa, forse indiffe-

rente al volto dell’altro. Un'altra interpretazione pare possibile. Tanto Abramo, uscendo dalla sua terra, quanto Odisseo, tentando di tornarvi,

rischiarono per la verità. Poiché nessuna parola uscita dalla bocca di Dio venne rivolta ad Odisseo, egli dovette muoversi

stando sulle proprie gambe e decidere contando sulle sue forze, nell’ascolto dell'eterna voce della natura e degli affetti che imperiosamente suggeriva un ritorno verso il paese natale nel superamento di molteplici insidie. Egli rischiò da solo per la verità dell’origine: vinse e perse. Vinse mantenendo alto il desiderio di conoscenza e tornando ad Itaca; perse invece la sfida nei confronti dell'ignoto. Forse questo è il destino della filosofia: poter con le proprie gambe percorrere un tratto di cammi-

no, mai tutto; conoscere qualcosa, ed ignorare qualcos'altro. Per compiere più ampio tratto essa deve stringere alleanza,

unendo alla propria energia conoscitiva quella che promana dalla Rivelazione. Non sappiamo quanto e come ciò accadrà nel postmoderno: ma che almeno la filosofia cammini con le proprie gambe e calpesti il solido terreno dell’essere! Questa è la condizione delle condizioni e prende vari nomi: realismo,

senso dell’essere, intuizione intellettuale dell’essere, ecc. Una filosofia incamminata in questa direzione è per sua natura aperta al trascendente, pensa l’uomo come strutturalmente di-

sposto all’ascolto di una possibile Rivelazione, supera il crite-

III Religione e tradizione biblica

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rio di immanenza con le sue strettoie finitistiche. A questo punto si aprirebbe la delicata questione di quali e quante siano le filosofie attuali che rispettano le condizioni suddette. Se lo stupore dinanzi all’esistenza è genuino, la filosofia è sul terreno giusto per incontrare lo stupore infinito dell’Incarnazione, del Dio-uomo. Su questa soglia si conclude la praeparatio evangelica, e inizia l’itinerarium personae in Trinitatem.

COMMIATO

Non sappiamo se nell’Occidente, terra dei simboli infranti (così lo definiva P. Tillich), filosofia e Rivelazione torneran-

no a comunicare intensamente, come fra gli altri auspicava Jaspers, secondo il quale «la Bibbia e la tradizione biblica sono una delle basi della nostra filosofia... La ricerca filosofica in Occidente — che lo si confessi o no — si fa sempre con la Bibbia, perfino quando la si combatte» 1. Qui è possibile suggerire nuovamente e integrare il significato di filosofia aperta già determinato: filosofia aperta è quella che, consapevole dei propri limiti raggiunti attraverso un processo razionale e control-

labile, rimane in ascolto di una possibile Rivelazione, di una parola pronunciata dal Trascendente nella storia; e che non esclude che da qui le possa venire uno stimolo, un apporto per raggiungere meglio il suo scopo. Sembra che due legittimità si diano la mano: quella — comunemente concessa — che sia la ragione a interrogare la Rivelazione; e quella che interroga la ragione a partire dalla Rivelazione, verificando se da quest’ultima non provenga un contributo per rimettere in rotta la ricerca filosofica e per dischiuderle orizzonti nuovi. Una tale filosofia aperta non si presenterebbe né come una religione filosofica di cui si è cercato di mostrare i gravi limiti, e neppure come una filosofia genericamente religiosa. Un nome non impro| prio, sebbene storicamente caricato di molteplici significati, 1 K. Jaspers, La foi philosophique, Plon, Paris 1952, p. 129.

106

Filosofia e Rivelazione

potrebbe suonare: filosofia cristiana, poiché essa sarebbe aperta non soltanto al fenomeno religioso, ma specificamente alla Rivelazione del cristianesimo. Diventerebbe allora possibile riprendere la fatica del concetto in filosofia e in teologia, talvolta un poco emarginata per tenere dietro sia ad un biblicismo eccessivamente positivo, sia a modulazioni fortemente storiche

dell’approccio teologico. Con la ricucitura di un processo circolare virtuoso fra filosofia e Rivelazione si procederebbe verso il superamento di una estraneità reciproca che è stata notevole: o perché la teologia ha voluto riassumere in sé il vertice e come la totalità del sapere; o perché ciò è capitato a vantaggio della filosofia, la quale, in specie con l’idealismo, è pregna di intenzionalità teologiche catturate nel sistema. L’assorbimento di una disciplina nell’altra o, viceversa, la

loro estraneità rappresentano un impoverimento che, mi sembra, vige tuttora in Italia, e che ha un punto emblematico e rivelatore nell’eliminazione, che risale al 1874, delle scienze reli-

giose e teologiche dal tessuto universitario nazionale. Ciò comporta l’esiguo dialogo della cultura e della filosofia con la Bibbia, che, pur non esaurendo la totalità della Rivelazione, rimane il grande codice dell'Occidente e dell'Oriente europei. Essa è un fiume solenne che raccoglie le acque di mille e mille sor-

genti: voci, dubbi, lodi, lamenti, proteste, domande, risposte. È

il libro del dialogo fra l’uomo e Dio, gli acta dell'iniziativa di Dio verso l’uomo. Si leggono Esiodo, Platone, Sofocle, Cicerone, Virgilio, non il Geresi, Luca, Paolo, Clemente. Perché

Omero e non Giovanni? Sarebbe qui consigliabile una profonda rivoluzione del modello di istruzione da molti secoli adottato in Europa, e che dapprima si è basato sulla classicità greca e

latina, ampliandosi successivamente alle scienze-tecniche, ma

nell'insieme mantenendo sempre a distanza il codice biblico 2. . 2. Nell'op t era Le poète et la Bible (Gallimard, Paris 1999) ; di froato n raccolti gli scritti dedicati da Claudel alla Bibbia, si legge: «Non è mostruo e: so, dal

Commiato

107

L'integrazione del paradigma presuppone la costruzione di un rapporto diverso con la Scrittura e la Rivelazione, una loro visitazione non limitata al metodo storico-critico, importan-

te, certo, ma anche per vari aspetti sterilizzante e problematico 3. Si intravede perciò l'opportunità di un ascolto e di un impiego in filosofia della Bibbia, qualcosa di affine al cammino percorso da taluni autori ebraici, almeno nel senso che essa non sia intesa come documento rinchiuso nel passato. La scar-

sità dell’influsso biblico sul pensare filosofico costituisce per questo un depauperamento che diminuisce la possibilità di una svolta, di una rivoluzione, necessaria per oltrapassare l’at-

tuale distretto del filosofare. Largamente si è infatti operato per dare l’assalto alla ragione; per stabilirne non solo il carattere finito (il che non è falso), ma la sua insuperabile natura finitistica, per cui essa è sempre situata, relativa, incapace di

raggiungere l’universale; per abbassare quest’ultimo (e con esso il concetto) all’assoluto particolare, addirittura all’“etnico”.

punto di vista semplicemente culturale, che la Bibbia non occupi alcun posto nella nostra educazione universitaria, quando consumiamo i nostri poveri ragazzi sulle insulsaggini di Orazio Flacco e imponiamo alla loro ammirazione, peral-

tro recalcitrante, i grandi uomini di Plutarco che per la maggior parte non sono

che dei laidi fantocci?», in Avvenire, 24 gennaio 1999. 3 Quando tale metodo è inteso come «storia delle Forme» (R. Bultmann),

il Gesù della storia e il Gesù della fede si separano con l’approdo ad una varian| te di docetismo, per cui all'origine del cristianesimo vi sono sempre meno fatti e | persone, e sempre più proiezioni mitiche della comunità.

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ANNESSO

NICHILISMO, ONTOTEOLOGIA, ANALOGIA ENTIS

La diagnosi sul nichilismo svolge in Fides et ratio un compito di primo piano: conferendole un carattere drammatico, ne fa un appello rivolto alla filosofia e al pensare credente, che nel nichilismo potrebbero incontrare il grande tema da meditare per una ripresa nell’esistenza e nella conoscenza. Come visto,

esso viene legato all’allontanamento 0 congedo dal senso dell'essere, dunque all’oblio dell’essere e alla perdita di contatto con la verità oggettiva. Questa diagnosi, pur mettendo mano alla radice, lascia non poco di inespresso. Dimorando nel suo spazio, si tratta di cogliere il non-detto, a partire dall’elemento

per cui il congedo dal senso dell’essere rinvia ad un altro nucleo notevole, che formuleremmo

così: l’oblio dell’essere include

l'oblio e infine il rifiuto dell’analogia entis e dell’ontoteologia. L’allontanamento da queste è spesso mosso da un desiderio più o meno consapevole di decostruire il concetto di Dio quale ostacolo alla radicalità del compito filosofico, e di negare l’identità fra Dio e l’Essere. La critica verso l’ontoteologia e l’analogia, divenuta quasi un luogo comune in numerose scuole, viene in genere condotta ispirandosi ad Heidegger. Scarsa peraltro è la consapevolezza su un punto nodale: se cioè un

pensiero come il suo, il quale si attesta entro la finitezza e l’in-

superabile circolo trascendentale della temporalità, non appaia inadeguato a pronunciarsi (tanto positivamente quanto criticamente) sull’infinito, su quanto fuoriesce da quel circolo. Attac-

care l’ontoteologia e l'analogia entis su queste basi assomiglia a mordere il granito.

110

Filosofia e Rivelazione

La critica heideggeriana è consegnata in numerose pagine, fra cui significative quelle di “Identità e differenza” e in specie di “La costituzione onto-teo-logica della metafisica”. Esse sostengono l’assunto secondo cui Dio è pensato dall’ontoteologia come l’ente supremo, l'“Entissimo”, e come è causa sus. Non è adeguata soluzione attribuire l'equivoco — colossale — ad una scarsa informazione storiografica di Heidegger che pur svolge un ruolo (dove e quando le più accreditate teologie naturali hanno pensato il dio che entra in filosofia come causa suz?). In realtà vengono sostenute due posizioni che non possono coesistere: da un lato il limite dell’ontoteologia è individuato nell’aver pensato Dio come ente e non come essere; dall’altro si ritiene impossibile porre l’identità fra Dio ed essere. Rilevanti sono i passi di Bestrage zur Philosophie dove Dio è determinato come indefettibile bisogno dell’essere (Notfschaft des Seyns),

quasi abitato da una oscura fame; e quelli in cui l’equazione Deus = Esse è negata con una chiarezza che non lascia nulla a desiderare: «Essere e Dio non sono identici, e non cercherei

mai di pensare l’essenza di Dio mediante l’essere. Alcuni sanno che io vengo dalla teologia e che ho conservato per essa un vec-

chio amore, e che un poco me ne intendo. Se io dovessi scrive-

re una teologia — e qualche volta ne ho voglia — in essa non dovrebbe apparire il termine “essere”. La fede non ha bisogno dell'essere. Se lo usa, non è già più fede... Credo che l’essere non può mai essere pensato come essenza e fondamento di Dio» !. In queste frasi si esprimono due avversioni: una antiel-

lenica ed una antibiblica, poiché nella Bibbia è usuale l’attribuzione dell'essere a Dio, e ciò fa parte dell’idea che egli sia Perfezione originaria, non un Dio che si fa, che è fame dell’essere, non un Dio venturo, vicinissimo all’“ultimo Dio” introdotto

dai Bertràge. Negando alla fede di essere tale se ricorre all’esse-

1 Seminare, in Gesamtausgabe, vol. 15, Klostermann, Frankfurt a.M., p. 437. Su questi aspetti cf. V. Possenti, A rossimazioni all’ ì :

dova 1995, pp. 99-106.

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ioni all'essere, Il Poligrafo, Pa

Nichilismo, ontoteologia, analogia entis

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re, si fa più vivido il rischio di ontofobia del pensare heideggeriano. In nessuna ontoteologia il problema della differenza fra l'essere e l'ente è stato pensato con tanta profondità come in quella della Sezrsphilosophie, in cui vale l'identità Deus = Esse, e dunque l’infinita sua distanza dagli essenti, il suo valere come l'Unico e l’Altro. Solo pensando Dio come Esse si può percepire l’essere nella sua differenza dall’essente. Questo grandioso sviluppo è sfuggito ad Heidegger, che anche da tale lato non è riuscito ad evadere dall’oblio dell’essere. Agli appunti all’ontoteologia in quanto incapace di pensare l’infinita differenza tra ente e Dio, si affiancano spesso quelli all’analogia entis intesa come modalità conciliativa, nel senso di una prossimità di similitudine tra finito e infinito invece che nel senso della forte dissimiglianza. A chi volesse meditare un poco il tema e venire in chiaro sul carattere pretestuoso dell'addebito, viene incontro una sentenza del Concilio Latera-

nense IV (1215), fissata in un vertice storico dell’ontoteologia: «Inter creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter eos major sit dissimilitudo notanda» (Denz., n. 432). Ciò implica che la conoscenza di Dio raggiungibile dal basso sia indiretta, nel mistero (in 4enigrate), assolutamente

non esaustiva e incapace di cogliere la sua essenza. Su questi elementi si stabilisce una continuità da Agostino ad Anselmo, da Bonaventura a Tommaso, su su fino al pensare credente

moderno che si salva dall’oblio dell’essere: significative in merito le pagine piene di misura e di equilibrio stese da Maritain in I gradi del sapere a proposito della conoscenza di Dio raggiungibile dalla ricerca umana. La teologia di Tommaso non fa che imperniarsi su questo acquisto, scrivendo che «de Deo quid sit penitus manet ignotum» 2. L'analogia entis, ponte lanciato tra 2 SCG, 1. III, c. 49. L'impiego della analogia entis per raggiungere una certa

certo conoscenza di Dio non pone Dio come simile alle creature, ma, in un modo

deficiente, le creature simili a Dio in virtù della rassomiglianza fra l’effetto e la | causa: ciò che Dio fa o ha fatto è la sorgente della conoscenza che abbiamo di lui. L'essere divino differisce da ogni altro: «Esse divinum, quod est ejus substantia,

tere

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Filosofia e Rivelazione

finito e infinito, è una analogia incircoscrittiva, che non circo-

scrive né esaurisce il suo oggetto divino. La conoscibilità diretta è la caratteristica degli idoli. Quando l’attacco alla ontoteologia e alla analogia entis venga portato sino in fondo e compreso nelle sue virtualità, in esso si dispiega un principio anticreazionistico che nelle forme più radicali si esprime come rifiuto di Dio creatore e della sua causalità trascendentale onnipervadente, e che implica una separazione tanto drastica tra Causa prima e cause seconde, tra Creatore e creature, che in senso proprio non vi è più Creatore

e non vi è più creatura. Al fondo dell’attacco all’ontoteologia e alla analogia entis (che è immediato risvolto metafisico del principio creazionistico) può operare un elemento antidivino, una volontà di separazione assoluta tra Dio (lontano, estraneo, forse

ostile) e uomo. Questo elemento rischioso è sfuggito a Barth che, invischiato in una polemica tesa a demonizzare l'analogia entis, non ha valutato le dirompenti implicazioni del suo rifiuto 3. Altrettanto incautamente operano coloro che, assegnando non est esse commune, sed est esse distinctum a quolibet alio esse. Unde per ipsum suum esse Deus differt a quolibet alio ente» (De Pot., q. 7, a. 2, ad 40). 3 Secondo K. Barth, l’aralogia entis è da ritenersi un’invenzione dell’Anti-

cristo. Essa rappresenta il massimo motivo per cui non si può divenire cattolici (cf. la prefazione al primo volume della Dogmzatica ecclesiale). Si comprende che la condanna dell’analogia entis implichi quella della teologia naturale e l’impiego della sola analogia fidei: le due analogie non possono venire impiegate insieme sinergicamente, poiché sono mutuamente esclusive. Un ricorso all’analogia (sia pure solo quella della fede) è indispensabile anche per Barth, in mancanza della quale si imporrebbero l’equivocità o l’univocità: la prima rende impossibile ogni conoscenza di Dio, l’altra o abbassa Dio o divinizza l’uomo. Accolta la sola analogia fidei, l'analogia fra Dio e il mondo è, secondo Barth, qualcosa di totalmente indipendente dalla filosofia e di totalmente dipendente dalla Rivelazione. Secondo H. Chavannes, che ha accuratamente studiato il tema (L'analogie entre Dieu et le monde, Cerf, Paris 1969), Barth è incorso in un equivoco, scambiando la peculiare concezione dell’analogia entis sostenuta da E. Przywara con quella cattolica e tomista, di cui sembra avesse una conoscenza inadeguata. L'autore invita a considerare i limiti inerenti alla ontologia barthiana e alla sua dottrina della conoscenza di taglio postkantiano e con venature idealistiche, dove l'oggetto conosciuto è interessato e mutato nel suo essere dal soggetto conoscente. Circo-

Nichilismo, ontoteologia, analogia entis

113

la palma ad Heidegger e a Barth, considerano senza appello la critica all’ontoteologia e rifiutano l'identità Deus = Esse. Tali assunti sembrano provenire da un radicale agnosticismo secondo cui la filosofia, intesa come una dialettica aporetica che si può sempre rivoltare come un guanto, non conosce alcunché. Ora una teologia cristiana senza creazionismo non ha più

alcun diritto a questo nome. Perdenti sono perciò le strade in cui si separano creazione e redenzione, prendendo la seconda e obliando la prima: oblio dell’essere, oblio del creazionismo e oblio della causalità si danno la mano, ed insieme, come cia-

scuno per proprio conto, valgono come nichilismo, dove nei casi estremi non è impossibile ravvisare una oscura valenza an-

tidivina. Neppure è strada adeguata pensare al creazionismo senza radicarlo nella causalità onnipervadente della Causa prima, che istante per istante attiva ogni esistente creato, salvandolo dalla vertibilitas in nibilum a lui congeniale, e attivando atin lui l’atto primo e radicale di esistenza, che dimora come inpiù primo, Il to immobile e in riposo nel cuore dell’essente. timo e immediato effetto della causalità divina onnipervadente agli svolgiè l’esse proprio di ogni ente. Aprendo il cammino entis, il limenti speculativi dell’onto-teologia e dell’analogia e bellezza bro della Sapienza (13, 5) osserva: «Dalla grandezza dicriterio Il delle creature per analogia si conosce l’autore». endimorano che schiude l'eterna strada — preclusa per coloro una cerraggiunge l’uomo cui con — tro l’ombra del nichilismo ta conoscenza dell’assoluto 4. o, fia raggiunga solo l’astratto e il neutr la inoltre in Barth l'assunto che la filoso digma del filosofapara come zi dinan e avess egli che mai l’esistenza: è probabile invischiato nell’impossibilità di raggiunre soprattutto il razionalismo moderno, ‘esistenza. dell’analogia entis e Si pui Nd Rd negativo, nutrito dalla critica mediata ai

conoscibilità naturale delle sx) toteologia, si rivela un rifiuto della principio di causalità, me contraddizione, non di primi principi (principio trascendentale non è altro che validità loro della e di finalità). L'abbandono loro e valgono in rapporformulano si essi infatti un corollario dell'oblio dell’essere:

to all’essere.

Maat

tn

odi

cal

INDICE DEI NOMI

Abramo, 97, 99, 100, 101, 102 Adorno T.W., 93, 94 Agostino (s.), 40, 41, 95, 111 Anselmo (s.), 40, 111 Aristotele, 15, 28, 34, 40 Avicenna, 40 Balbo F, 34, 50, 58, 59, 60 Barth K., 80, 112, 113

Claudel P., 106 Clemente Alessandrino, 106 Cortés D., 57

Cusano N., 48

Daniélou J., 12 De Bonald, 52, 57 De Maistre, 52, 57

Baudelaire C., 29 Bàusola A., 14

Del Noce A., 50, 62, 64 Dostoevskij F., 29, 70

Bautain, 52

Duns Scoto G., 41

Bergson H., 22 Bessero Belti R., 55 Bloch E., 34 Blondel M., 37, 47

Engels F., 94 Esiodo, 106

Fabro C., 50, 60, 62

Bonaventura (s.), 40, 111 Bontadini G., 34, 53, 63 Borruso G., 83 Bréhier E., 41 Buber M., 88, 92

Ficino M., 48 Flacco O., 107 Florenskij P., 47

Bultmann R., 107

Freud S., 74

Caadev P.J., 47

Gadamer G., 20 Galilei G., 59 Gemelli A., 63 Gentile L., 90, 91, 93

Cartesio R. (Descartes), 22, 41, 48, 51, 53, 54, 58, 62, 67

Chavannes H., 112 Cicerone, 106

“=

Fichte J.G., 22

Gesù, 97, 98, 99, 101

95, 96,

116

Indice dei nomi

Gilson É., 33, 40, 41, 47, 50, 62 Gioberti V., 50, 53, 54, 64 Giovanni Battista, 96 Giovanni Paolo II, 28, 45, 67 Giovanni, 106 Giustino (s.), 95 Guardini R., 47

56:57: 58; 6062-6492; 111

Marx K., 59 Masnovo, 63

Newman J.H., 47, 48 Nietzsche F, 28, 70, 72, 75, 77, 76 S0 84297

Hegel G.W.F, 10, 32, 44, 55, 56, 60, 83, 86, 90, 91, 92

Heidegger M., 17, 21, 31, 67, 69,

Oberti E., 83 Olgiati E, 63

70% 72679; Bby109, 410,615

Isacco, 100, 101

Paolo (s.), 106 Pascal B., 48, 62 Pègues, 52

Jaspers K., 105

Pilato, 97, 98, 99, 101 Platone, 14, 15, 41, 97, 106

Horkheimer M., 36

Jonas H., 25

Jinger E., 69 Kant:E,22,27,;51;54, 78,97

Kasper W., 7 Kelsen H., 77 Kierkegaard S., 99, 101

Lamennais F.R. de, 52 Leibniz G.W. von, 48, 54, 67

Plotino, 34, 41 Plutarco, 107 Poe E.A., 29 Possenti V., 110 Przywara E., 112 Rahner K., 88 Rosenzweig F,, 15, 88 Rosmini A. (Roveretano), 47, 48, 50, 55, 56, 62

Leone XIII, 11, 50, 52, 66, 67 Lévinas E., 88, 102 Losskij N.O., 47 Luca (s.), 106 Lutero M., 53

Malebranche N. de, 48, 54, 62, 67

Manara Valgimigli, 101

Sartre J.-P., 22, 71 Scalfari E., 6 Schelling FEW.J., 14, 22 Socrate, 97, 98, 99, 100, 101

Sofocle, 106 Soloviev V.S., 47 Spinoza B., 7, 67

Stein E., 47, 49

Marcel G., 47 Maritain J., 28, 47, 49, 50, 53,

Tillich P., 105

Indice dei nomi

Tommaso d'Aquino (s.), 11, 12, 28, 32, 40, 41, 52, 59, 64, 85, 89, 111 Tresmontant Cl., 39

Vanni Rovighi, 63 Vico G.B,, 42, 48, 54, 62 Virgilio, 106 Volpi F.,, 25

Ulisse (Odisseo), 97, 101, 102

Weber M., 75

117

INDICE GENERALE

MD

ION

i

e

le

CAPITOLO I uo dell'essere il Responsabilità della filosofia ............. La questione della verità e della libertà . .... Il modello di ragione e la sapienza ........ vb. oli Fa filosofia dell'essere. e ee bebdca biblica CAPITOLO II Intermezzo sul pensiero moderno ............ La separazione fra fede e ragione ......... La filosofia moderna nel giudizio del pensiero CORIO ERO AR RE ERTA, CAPITOLO III Religione e tradizione biblica ............... Pewismardel nichilismo Gti Tentativi di fuoriuscita dal nichilismo ......

Conoscenza di Dio e scopi mondani ....... Filosofia della religione e Rivelazione ...... Religione filosofica o filosofia religiosa? La filosofia (postmoderna) come praeparatio evangelica? Cinque personaggi ...........

» Mi, SI

tu

»

120

COMMIATO

Indice generale

ZOMIE IO R LM

0

pag. 105

ANNESSO Nichilismo, ontoteologia, analogia entis ........

»

109

INDICE DELNOMI

SR

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344

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e

ii

Vittorio Possenti insegna Storia

della filosofia morale presso l’Università di Venezia. Autore di numerose opere nei campi della filosofia sociale, dell’etica e del pensiero teoretico, tradotte in varie

lingue, ha pubblicato tra l’altro: La buona società (1983); Le società libe-

rali al bivio. Lineamenti di filosofia della società (19922); Oltre l’illuminismo (1992); Razionalismo critico e

metafisica (19962); Il nichilismo teoretico e la “morte della metafisica” (1995; Premio Internazionale Salvatore Valitutti 1996); Dio e il male

(1995); Approssimazioni all'essere (1995); Terza navigazione. Nichilismo e metafisica (1998). i Dirige la collana “Scienze umane e filosofia” (Massimo, Milano) e coordina Seconda navigazione. Annuario di filosofia (Mondadori, Milano).

L. 18.000 (iva compresa)

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ISBN 88-311-0123-4

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