Da altrove, la rivelazione. Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione 9788855292900, 9788855293327

Quest’opera corrisponde a una tappa decisiva del percorso di Jean-Luc Marion: il nesso tra fenomenologia della donazione

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Da altrove, la rivelazione. Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione
 9788855292900, 9788855293327

Table of contents :
Da altrove, la rivelazioneContributo a una storia criticae a un concetto fenomenico di rivelazione
Copyright
In-fine, la teologia Introduzione di Sergio Ubbiali
Nota alla traduzione
Prefazione
I INVIO
II COSTITUZIONE DELL’APORIA
III RESTITUZIONE DI UN CONCETTO TEOLOGICO
IV CRISTO COME FENOMENO
V L’ICONA DELL’INVISIBILE
VI L’APERTURA
D’ailleurs
Indice

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Jean-Luc Marion Da altrove, la rivelazione

Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione

Jean-Luc Marion, Accademico di Francia dal 2008 e insignito del Premio Ratzinger nel 2020, ha insegnato presso l’Université Sorbonne – Paris IV e l’University of Chicago. Gli studi cartesiani, la fenomenologia della donazione e la considerazione di Dio oltre la metafisica hanno imposto il suo pensiero al dibattito contemporaneo. Le sue opere sono tradotte nelle principali lingue del mondo, tra le numerose edizioni italiane Dato che (Torino 2001), Il fenomeno erotico (Siena 2007), Dio senza essere (Milano 20082), Certezze negative (Firenze 2012), Sant’Agostino. In luogo di sé (Milano 2014).

Prossimamente disponibile nella stessa collana: Jean-Luc Marion, Sulla saturazione. Sei studi di fenomenologia

Copertina a cura di Ufficio grafico di Inschibboleth Immagine di copertina: William Congdon, Crocefisso 91, 1974 (particolare) © The William G.Congdon Foundation, Milano - Italy www.congdonfoundation.com

Au dedans, au dehors

Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi †

Au dedans, au dehors | 14

Jean-Luc Marion de l’Académie française

Da altrove, la rivelazione Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione Traduzione e cura di Francesca Peruzzotti Introduzione di Sergio Ubbiali Postfazione di Carla Canullo

Titolo originale D’ailleurs, la révélation © 2020, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Au dedans, au dehors ISSN: 2281-5368 n. 14 – settembre 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-290-0 ISBN – Ebook: 978-88-5529-332-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: William Congdon, Crocefisso 91, 1974 (particolare) © The William G. Congdon Foundation, Milano – Italy www.congdonfoundation.com

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In-fine, la teologia Introduzione di Sergio Ubbiali

I L’impresa teologica ricopre ineccepibile valore critico in base al proprio esclusivo movente ultimo ossia l’evento Cristo, la filosofia non fallisce pertanto l’analisi sul materiale teologico se ne onora con rigorosa precisione gli specifici varchi esplicativi, ancora meglio se ne appaga l’originaria tensione veritativa. Confrontandosi con la teologia, il lavoro filosofico non usa coefficienti ontologici o categorie epistemologiche esteriori rispetto allo statuto specifico della teologia, al contrario si avvicina alle sue ricerche per investigare con cura il registro ispiratore della teologia – unitario, per quanto complesso. Proprio questo esigente compito di esplorazione ispira le aperture di Jean-Luc Marion sul «concetto (alla fine quasi-concetto) di Rivelazione», lo svolgimento che conduce è una conferma delle indagini esplorative condotte a vario titolo nelle opere precedenti, cioè una originale verifica attorno alla «fenomenicità della rivelazione». Marion conosce le tecniche e le strutture che caratterizzano l’attuale stagione teologica, anch’egli conviene nell’identificare il Concilio Vaticano II con una svolta che tocca l’intera sfera ecclesiale relativamente alla visione teorico pratica.

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Nella storia cristiana «ad affrontare esplicitamente e in modo completo la dottrina della Rivelazione» ci pensa il Vaticano II con «la costituzione Dei Verbum». La ripercussione sul ragionamento teologico stimola ciascuna analisi a plasmarvi prospettive con ampi impulsi innovatori, «la Rivelazione ingloba tutto ciò che sappiamo di Dio» vi raffigura la premessa orientatrice comune. Accanto alle formule conciliari, l’incremento teologico sottolinea allora nel movimento rivelativo divino «la manifestazione di Dio in sé e a partire da sé», la dinamica della rivelazione divina non rappresenta o non fornisce pertanto «una conoscenza supererogatoria». «Sotto l’innegabile, per quanto implicita, influenza di Barth (e di qualche altro)» le opinioni teologiche non ammettono in effetti «che Rivelazione corrisponda in prima istanza alla comunicazione di una conoscenza (ancor meno di una «scientia)». Marion conferma in forma persuasiva l’avvertimento, con altrettanta energia ne illustra l’esito per le (future) analisi. Il compito dei ragionamenti speculativi non si limita ad essere quello di fornire spiegazioni marginali o accessorie, ma sono interpellati a definire quale sia la noetica adeguata per appagare la forma rivelativa che rappresenta rigorosamente l’opera divina. La riflessione tratteggia il movimento divino qualora afferri «la manifestazione di Dio da parte di se medesimo», in altre parole se mette in campo «l’attribuzione dell’altrove a Dio stesso». Solo «un’intesa propriamente teo-logica della Rivelazione» enuncia l’adeguata visione noetica, conducendo ineluttabilmente alla completa «distruzione del concetto teo-logico». L’«intesa propriamente teo-logica» sollecita i programmi speculativi a respingere la lettura metafisica che non sacrifica il criterio logico nell’unilaterale versione moderna. Marion scorge nella critica al programma metafisico (con chiare sorgenti nel tempo moderno ma poi ininterrotte propaggini negli schemi attuali) la premessa utile a spingere la riflessione teologica verso

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le uscite filosofiche contemporanee, soprattutto se queste perseguono lo speciale interessamento ascrivibile alla «nuova fenomenologia», il pensiero post-husserliano o post-­heideggeriano emerso nell’ambiente culturale francese. «Durante la modernità la metafisica (intendiamo la metafisica in senso stretto) ha poco a poco imposto alla teologia cristiana» l’appoggio sulla precaria noetica (giustappunto moderna), giungendo a risultati impropri dell’analisi relativa alla stupefacente azione divina, insistendo nel «volerla definire tramite il concetto». La centratura sul concetto occupa le analisi soltanto nella vicina epoca storica, come conferma Paul Tillich tramite prove irreprensibili (in effetti se «come idea, la Rivelazione è tanto antica quanto la religione», al contrario «la Rivelazione come concetto è molto più recente»). Mentre «le prime forme di pensiero teologico (patristico e monastico) ne sono state a lungo dispensate», non appena nella sacra doctrina trovano rilievo «le norme della filosofia, poi dei princìpi del sistema della metaphysica» il ragionamento cambia. Marion interroga la storia a partire dalla questione secondo cui se «da più di due secoli il termine “Rivelazione” è stato consacrato dall’uso moderno fatto dalla teologia universitaria», non risulta in ogni caso necessaria «un’indagine, almeno abbozzata, che dovrà misurare forza e legittimità di questo uso». Occorre allora stabilire in maniera coerente «che valore abbiano il concetto o i concetti di “Rivelazione”» in vigore nelle recenti letture. Marion ritiene che il confronto sia immaginabile solo facendo riferimento all’unico criterio chiarificatore possibile, cioè richiamando le «esigenze formali del pensiero teo-logico». In quest’ottica «conviene capire come la questione della Rivelazione abbia potuto e dovuto confrontarsi con l’autorità del concetto»; nella versione moderna il concetto, mentre illumina cosa esiste, «impedisce e si impedisce di avvenirci da altrove». Il pensiero comune attribuisce al concetto come «precisa fun-

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zione quella di farci conoscere ciò che noi, per suo tramite, possiamo comprendere, possedere e produrre», questa visuale accoglie o promuove il suggerimento (moderno) a proposito di una specifica figura di soggetto. La proposta (moderna) riconosce nello sviluppo conoscitivo umano l’obiettiva propensione al possesso, non invece la trama vitale caratteristica per chi nell’occasione conoscitiva rappresenta il beneficiario.

II La visione moderna fa corrispondere all’impresa conoscitiva il governo e non la sorpresa. Marion, in studi precedenti, ha già rintracciato le linee fondamentali di questa impresa nella proposta di Descartes, dove la metafisica moderna, offrendo sostegno per molti temi, è anche spinta ineluttabilmente verso la chiusura. Eppure, Descartes non ripete l’ontoteologia che è all’opera in altre correnti filosofiche o in altri autori divenuti capiscuola, in quanto egli non definisce univocamente quale sia lo statuto da assegnare al soggetto umano. Infatti, se nell’analisi sull’ordo cognoscendi (ossia il programma o la linea cogito ergo sum) affiora con efficacia l’autonomo io solipsistico (causa sui), nell’analisi sull’ordo essendi (ossia il programma o la linea ego sum, ego existo) sporge la nativa (veritiera) connessione all’altro. Con la precisa tecnica ricostruttiva che lo caratterizza, Marion sottolinea le varie e significative sfumature teoretiche che si possono rintracciare nei passaggi esplicativi di Descartes, rilanciando il fatto che a partire da quella analisi è possibile riconsiderare la metafisica moderna, dal momento che quel progetto garantisce una rigorosa opera critica e quindi sollecita a impiegarne alcune strutture.

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In quest’ottica Marion scruta le occasioni fattuali con autentico spessore umano, nella rassegna colloca sia il gesto sportivo sia (con carica «maggiormente realizzata») il gesto erotico (la serie continua in altri repertori con l’espressione artistica). I gesti in analisi, mentre esibiscono tre costanti fattori elementari («l’autorivelazione del fenomeno, la rivelazione di me a me stesso [del mio mondo e anche del mio spazio] e infine la rivelazione ad altri di colui che sono diventato da altrove»), attestano la potente incisiva «distinzione tra la fenomenicità di rivelazione e le altre forme di fenomenicità». La «riserva di invisto» è per Marion il nucleo esclusivo della «fenomenicità di rivelazione», sia in chiave empirica, sia sul piano fattuale «la fenomenicità di rivelazione» «non si ripete senza fine e non avviene con regolarità», ma «nel momento inatteso e imprevedibile della sua attivazione, in seno a ciò che manifesta di sé conserva una riserva di invisto». La notifica sull’aspetto specifico per l’occasione rivelativa (l’«invisto») non accenna a cosa vi ricoprirebbe lineamenti opachi, caratteristiche comunque trascurabili. Piuttosto vi stabilisce come «la fenomenicità di rivelazione» non sfoci o non confluisca «interamente nell’apparire rappresentabile», cosa istituisce «non potrò mai dimenticarlo proprio perché non potrei mai rendermelo totalmente intelligibile». In quest’ottica il passato (l’occasione rivelativa) non passa, i successivi momenti temporali non l’annullano, «non si può dimenticare». «La fenomenicità di rivelazione», siccome «avviene da sé a partire da sé», non passa come gli istanti umani, che trascorrono uno dopo l’altro, si può interpretare il momento rivelativo solo qualora si eviti di «ridurlo a componenti prime secondo condizioni ultime o padroneggiarlo e quindi riprodurlo». L’evento di rivelazione non si limita, né può coincidere, al semplice passaggio storico temporale, viceversa «in ogni istante dei momenti seguenti introduce le sue riserve di invisto». La formula

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rilancia il compito esplicativo collegabile alla prospettiva critica capitale per Marion, ossia il caratteristico motivo inerente alla semplice «pura donazione», lo spunto o la «riduzione con innegabile priorità» tra i vari fattori speculativi all’opera attraverso le (sempre) singolari letture interpretative. Marion, in scia all’assunto attinente la fattuale consegna storica agibile (soltanto) in base al «dono come dono», esibisce, oltre alla riapertura dell’indagine relativa ai fondamenti e alle possibilità dell’approccio fenomenologico, una revisione convincente dell’indagine a proposito dell’esserci, cioè dello specifico umano. Marion abbandona il ricorso alla connessione soggetto-oggetto (quindi attivo-passivo), la legge o il criterio immancabile nelle abituali antropologie unificate attorno al concetto di «causa» (con l’effetto conseguente). Tramite la «pura donazione» Marion mette in luce l’impareggiabile «principio della fenomenicità» («senza limiti né presupposti»), vi stabilisce la cornice ultima per il concetto nell’autorevole impronta fenomenologica, l’impianto concettuale suffragante la noetica nel prescrittivo statuto fenomenologico. L’importante ripercussione sul ragionamento relativo all’occasione rivelativa divina Marion la specifica tramite la puntuale risposta a Richard Swinburne, alla questione pertanto se nel concreto darsi rivelativo, ove Dio manifesta se stesso alla reale storia umana, non entrino (in altre parole, Egli non vi presenti pure) «alcune verità proposizionali circa se stesso». Nella risposta Marion non determina un’opzione irrimediabile per posture anti o sovra concettuali, ma il riconoscimento del fatto che «il logos di Cristo può e deve coincidere con il logos del mondo», cioè la verifica a proposito del fatto che «il logos di Cristo» possa essere restituito adeguatamente da «proposizioni conformi alla logica delle proposizioni che costruiamo a partire dall’esperienza delle cose del mondo e della nostra razionalità finita (o addirittura creata)».

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III Marion riconosce allora che emerge la possibilità di un solo varco teoretico, se si vuole mantenere la coerenza critica richiesta dalla questione in esame, «non c’è altra via per accedere all’altrove che l’altrove stesso». L’apertura invita a compiere un percorso chiarificatore lontano dalle formule abituali, nell’altrove a ragione «bisogna entrarvi in un colpo solo, per anamorfosi, come si entra in un circolo ermeneutico». Se l’indagine critica vuole essere autentica questa è l’unica mossa teorica possibile, dal momento che se il ragionamento vi rinunciasse non farebbe altro che ribadire la lacuna che caratterizza le forme abituali dell’indagine speculativa, dove «lo scoprimento teologico s’inabissa nel disvelamento teologico, di fatto metafisico o filosofico». L’analisi, con il recepirvi la norma o il proposito associabile all’anamorfosi, segnala l’integrale impellente rifiuto per le visioni («secondo l’intuizione», «secondo l’immaginazione», «secondo la volontà», «secondo il concetto») volta a volta rintracciabili nei vari segmenti riflessivi. Ciò che viene prescritto e raggiunto dall’anamorfosi è attestato da Marion quale norma capitale per l’esame sistematico della rivelazione divina, «l’anamorfosi designa il trasferimento dal punto di ancoraggio della mira intenzionale di un luogo (punto zero, Nullpunkt) a un altro, distante e differente». In trasparente risposta agli spinosi conflitti sulle tematiche attinenti l’insormontabile questione epistemica, che confluiscono nelle posizioni relative alla portata veritativa intrinseca all’«ego intenzionale», nell’anamorfosi Marion colloca la spinta per «lo spostamento dell’ego intenzionale da un punto di vista all’altro». La frattura interviene comunque «secondo le esigenze del fenomeno che si dà a vedere» sebbene le obiettive richieste interne al fenomeno costituiscano «esigenze che la maggior parte delle volte sono mute ma tanto più vincolanti», in ogni maniera non giungono a rivestirvi forme

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generaliste, agiscono invece sempre «secondo le esigenze di questo fenomeno». Ora Marion rimarca con nutrita precisione il «d(on)ato», la prerogativa inalienabile o l’aspetto intangibile per cosa entra nell’effettivo campo reale, sottolineatura irrinunciabile per lo svolgimento in chiave riflessiva (iscrivibile come tale nello stesso pensiero rappresentativo). In quest’ottica virtuosa «ciò che si dà arriverebbe a mostrarsi in un colpo solo e nel suo splendore più proprio», aprendosi al fenomeno il soggetto punta a rinvenire «un fenomeno che si dà, il punto di vista». L’apertura raggiunge tale obiettivo in base all’unico criterio perseguibile «che subito non corrisponde, né contraddice, a quello che assumeremmo», se volessimo alla fine abbracciare «la posizione neutra di uno spettatore trascendentale» ossia «costituendolo come suo oggetto». La struttura ontologica costitutiva per il fenomeno empirico orienta e illumina il fattibile accostamento (mai possessivo). L’estensione qualificante l’anamorfosi giunge «fino a de-figurare e re-figurare anche l’ente nel suo essere», con il (noto) accenno conclusivo, ossia «al punto che l’essere non definisce il fondamento dell’invisto scoperto dal mustêrion, ma ne proviene, anche lui e tra gli altri». In connessione al «mustêrion di Dio non è possibile nessuna visione, interpretazione o costituzione, se non tramite l’intenzionalità di Dio», la posta in gioco attraversa la sacra scrittura, come attestato dalla parabola evangelica («dà un certo accesso al significato, ma non al suo possesso») e testimoniato dalle lettere di Paolo («con la maggior chiarezza possibile, descrive, annuncia e domanda questa anamorfosi che sposta la mira umana verso il punto di vista della mira stessa di Dio»). Simile anamorfosi nessun uomo «può realizzarla da sé», per l’inalienabile costitutiva qualifica «solo Dio può accordare di compiere l’anamorfosi che conduce dal punto di vista umano fino a quello divino».

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Tramite questa tesi Marion considera la scissione inevitabile che caratterizza la forma della speculazione moderna, dove mentre la teologia «come scienza è ridotta a insieme di proposizioni («sufficienti»)», gli svolgimenti tutelano tra le normali premesse esplicative che «ciò che si rivela riguarda propriamente la teologia, in quanto non richiede la fede per essere ricevuto». La persuasione sorregge l’usuale scorporo fra ciò che è considerato dal trattato (moderno) De revelatione o il trattato (moderno) De fide, Marion riconosce che la loro separazione è inevitabile come conseguenza della postura metafisica moderna. Per riconoscere l’inadeguatezza di tale separazione è necessario considerare il proprio della rivelazione divina, a conti fatti «la fede, l’atto di fede diventa il criterio – e criterio pratico – dello s-coprimento», che può essere attuato o compreso a partire dall’unico motivo immanente (la famosa replica fenomenologica a Dominique Janicaud) alla dinamica del rivelarsi divino. Pertanto l’apprehensio interviene assieme all’assensio, per quanto l’assenso umano non impianti, completi, né logori Colui che accoglie, pure è fattore istitutivo, oltre ogni misura. In termini sintetici, «l’anamorfosi della fede» appaga «l’ana­morfosi trinitaria che fa apparire Gesù come Cristo, Figlio nei confronti del Padre» (la questione risolutiva presente nelle parti finali). Marion vi certifica la gratuita (amorevole) «iniziativa» divina, l’«Originario», che risulta irraggiungibile o inesplorabile se dall’uomo è considerato come mero attributo o somma di attributi. L’apertura al «Nome proprio» segna la chiamata riferibile all’Originario, in quest’ottica Egli non annulla, ancora meglio non «assorbe», la confacente risposta all’appello. La risposta umana (ove l’uomo vi entri come tale in causa) «costituisce» il «luogo» rivelativo, cosa l’assunto comporti interpella tuttora, per larghi tratti, la riflessione teo­logica contemporanea.

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Nota alla traduzione di Francesca Peruzzotti

D’ailleurs, la révélation corrisponde a una tappa decisiva del percorso marioniano, nella misura in cui riprende e completa molti temi tracciati nelle opere che l’hanno preceduta, svolgendoli in modo nuovo. Annodando in modo talvolta inatteso i fili tesi nella trama del pensiero filosofico e teologico, la proposta di Jean-Luc Marion si propone nuovamente come occasione propizia per un serio dibattito attorno alle categorie che segnano la contemporaneità, a partire dalla postura propria alla fenomenologia. Di per sé, la collocazione di un’opera all’interno della storia del pensiero comporta accostamenti, separazioni e nuovi posizionamenti rispetto al contesto nel quale si inserisce. Tali considerazioni aumentano quando quell’opera subisce la traduzione in un’altra lingua: aggiungendo ulteriori mediazioni interpretative il dialogo si amplifica coinvolgendo anche le traduzioni che la hanno preceduta1.

1.  Una traduzione è occasione per scoprire ulteriormente la profondità del pensiero di un autore, innanzitutto per chi la compie. Desidero pertanto esprimere un vivo ringraziamento alla prof.ssa Carla Canullo, che mi ha dato

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Per questo motivo riteniamo fruttuoso esplicitare al lettore alcune delle scelte effettuate, dal momento che fare chiarezza a riguardo consente di diminuire il tradimento del testo originale e di favorire l’appropriazione di una collocazione personale, di volta in volta generata dal fatto di concordarvi o di prenderne le distanze. Innanzitutto, è da segnalare che quest’opera assume una caratteristica differente dai precedenti testi marioniani, perché per la prima volta lascia che le strutture specifiche del discorso teologico e di quello fenomenologico operino in un’unica movenza teorica; non è più definita preventivamente l’esplicita opzione per l’uno o per l’altro, che comportava la possibilità di considerare l’eventuale sconfinamento nell’ulteriore versante solo in un secondo momento. Tale struttura ci ha sollecitato a lasciar parlare, senza frapporre mediazioni ulteriori, le molte tradizioni che sono convocate in questo testo. Per tal motivo, ogni qual volta è stato possibile, è stata fornita la traduzione italiana già esistente delle opere convocate da Marion nel proprio discorso, così da fare emergere immediatamente il suo inserimento in una storia che è connotata da tratti specifici. In particolare, sono state preferite le edizioni italiane che forniscono a fronte la versione originale del testo, per facilitare gli opportuni raffronti2; ciò consente anche di far risaltare le occasioni nelle quali è stato necessario riportare la particolare torsione interpretativa fornita dallo stesso Marion, di volta in volta segnalate dalla indicazione “tr. modificata”. Lo stesso

l’opportunità di realizzare questa esperienza, sia favorendone la possibilità, sia offrendo il supporto della sua competenza. 2.  Quando ciò non è stato possibile, soprattutto nel caso delle opere patristiche, accanto all’edizione italiana è stato suggerito il testo originale reperibile nelle edizioni della Patrologia greca [PG], della Patrologia latina [PL] e della collezione Sources Chrétiennes [SC]. Tutte le traduzioni italiane delle quali non esiste una versione edita sono invece da considerarsi come nostre.

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criterio è stato adottato per i riferimenti biblici, che sono tratti dalla versione del 2008 promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana, salvo quando l’autore ha offerto una traduzione propria, necessaria per lo svolgersi del ragionamento. A partire da questo incontro con tradizioni differenti dalla fenomenologia della donazione ci è parso che già a livello terminologico emergesse l’inopportunità di una normalizzazione dei termini tecnici secondo l’intenzione ultima della teoria di Marion, in particolare in merito ai vocaboli propri della fenomenologia e della teologia: ci auguriamo di non avere abusato della disponibilità del lettore scegliendo termini talvolta aspri, che però favorivano una maggiore neutralità, lasciando a chi si accosta allo scritto lo spazio della riflessione, per decidere solo in seconda battuta se essi possano ricondursi alla linea interpretativa che dipende dalla donazione. Nella misura in cui questa opera è frutto di un percorso segnato da molte tappe, fornendo l’elenco di alcuni tra i termini specifici la cui traduzione ha richiesto un posizionamento interpretativo, è parso utile segnalare anche le ulteriori occorrenze all’interno della produzione marioniana e le differenti scelte operate dai traduttori italiani. Nel testo si troveranno inoltre alcuni rimandi puntuali, per i termini che non era opportuno inserire in questo Glossario, evidenziati dalla dicitura n.d.t. *** Advenire (advenir): il calco del verbo francese advenir restituisce in italiano il verbo “advenire”. Questa dicitura insiste sulla caratterizzazione specificamente evenemenziale del fenomeno, conservando il prefisso latino ad-, cioè esplicitando la dinamica che definisce il fenomeno saturo come advenien-

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te3. L’advenire da altrove della rivelazione corrisponde a un moto da luogo che coincide con l’avvicinamento decisivo a colui al quale essa si rivolge, da intendersi però in modo differente rispetto alla causalità di tipo metafisico, in quanto coincide con una dinamica di profonda trasformazione interna della figura soggettiva, che consente di ripercorrere e amplificare la qualificazione del fenomeno come adveniens extra4, ovvero di non differire – o meglio di distanziare all’infinito – ciò che adviene da colui al quale adviene. Il participio passato sostantivato corrispondente, advenue, è stato reso con “avvento”. Appello (appel): contrariamente alle principali traduzioni italiane, che propongono il vocabolo “chiamata” per esprimere il termine appel, abbiamo preferito “appello”. Infatti, intrecciato con la risposta (réponse)5, esso è espressione di un dispositivo della fenomenologia della donazione6 che sviluppa in modo proprio Ruf des Gewissen e Anspruch des Seins heideggeriani7, 3.  Cfr. J.-L. Marion, L’événement ou le phénomène advenant, in Id., De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, PUF, Paris 2001, pp. 35-63. 4.  Cfr. J.-L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997; tr. it., Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, pp. 190-193. 5.  Che in questo testo non assume la particolare connotazione del responsorio (répons) (sull’interesse di questa struttura cfr. R. Caldarone, Nota del traduttore, in J.-L. Marion, Dato che, cit., pp. xxxi-xxxv: xxxii). 6.  Cfr. J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, PUF, Paris 1989; tr. it., Riduzione e donazione, Marcianum Press, Venezia 2010, pp. 283-290; Id., Dato che, cit., pp. 346351, ma anche l’anticipazione proposta in Id., Dieu sans l’être, Fayard, Paris 1982 (PUF, Paris 20022); tr. it., Dio senza essere, Jaca Book, Milano 1987 (20082), p. 188. 7.  Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1927; tr. it., Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, §§ 56-60, e Id., Was ist Metaphysik?, in Id.,

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insistendo sulla dimensione personalizzante e giudiziale. Riconoscere come rivolto a sé un appello, dandogli modo di emergere, corrisponde a ben più che l’udire una chiamata: quel termine mette in luce la dinamica di convocazione personale rispetto alla quale è impossibile reagire in modo neutro o generico. Tanto l’accettazione quanto il rifiuto dell’appello impegnano in prima persona, provocando una conversione che incide anche sulle strutture abitualmente usate per intendere la soggettività. Nel testo compare anche il vocabolo “chiamata”, unito a “interpellazione”, in corrispondenza del termine francese adresse, usato dall’autore per definire ciò che è tematizzato dalla teologia novecentesca sotto il titolo di Anrede. Avvenire (arriver): la traduzione è motivata dal legame con “advenire” (cfr.); i due verbi sono accomunati dalla dinamica di moto, anche in “avvenire” si ribadisce l’accadere dato dal movimento di avvicinamento, anche se è meno insistita la caratterizzazione evenemenziale. Il participio sostantivato arrivée è stato quindi reso con il termine italiano “venuta”. Avvenire (avenir): è stata conservata la traduzione più prossima al sostantivo francese, per segnalare la differenza rispetto al mero “futuro” (futur). Tramite la mediazione dell’analisi agostiniana8 Marion ha già proposto ciò che ora esprime in modo proprio, intendendo l’avvenire come la forma autenti-

Wegmarken, Klostermann, Krankfurt a.M. 1976; tr. it., Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-77. 8.  Cfr. J.-L. Marion, Au lieu de soi. L’approche de saint Augustin, PUF, Paris 2008; tr. it., Sant’Agostino. In luogo di sé, Jaca Book, Milano 2014, p. 297.

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ca del futuro, caratterizzato da un compimento escatologico. Si prospetta una temporalità alternativa a quella che segue il fluire cronologico, dove il futuro corrisponde alla mera sostituzione di attimi successivi a quelli presenti e dà luogo all’interpretazione della storia secondo l’ideologia del progresso. L’avvenire caratterizza la temporalità di un’apertura ulteriore, evenemenziale; l’equivalenza grafica con il verbo “avvenire” ribadisce la possibilità di ciò che ancora deve venire, in quanto a-venire perché determinato dall’altrove. Compiere (accomplir): il termine, insieme al sostantivo corrispondente “compimento” (accomplissement), conserva l’accezione operosa equivalente a “realizzare”, ma di volta in volta si è preferito proporre la traduzione “compiere” nella misura in cui, riferendosi nello specifico all’agire di Cristo quale somma rivelazione divina, esso racchiude la dinamica del portare a compimento, offrendo una decisa interpretazione della storia della salvezza e della storia tout court (sottolineata più volte dall’autore citando la locuzione giovannea eis telos). Poiché in questo testo la comunione trinitaria viene approcciata come paradigma della fenomenicità rovesciata, la stessa struttura – segnata da una tonalità escatologica e non semplicemente teleologica – si riproduce nell’intendere la piena manifestazione della fenomenicità evenemenziale che caratterizza la saturazione. Conferimento di senso (signification): salvo nei casi in cui il termine è usato nella forma comune, tradotti con “significato”, è stata operata la stessa scelta fatta nelle traduzioni italiane per rendere il termine husserliano Sinngebung. Essa corrisponde all’intento di lasciare che la valutazione circa la liceità fenomenologica delle operazioni marioniane sia giudicata dal lettore, senza veicolarne una prima normalizzazione. L’effetto di stra-

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niamento provocato dall’accostamento dell’ambito propriamente fenomenologico a un contesto esplicitamente teologico, infatti, insiste sulla sollecitazione da tempo posta da Marion alla teologia affinché assuma il metodo fenomenologico quale fondamento delle proprie indagini9 – compito che qui viene preso in carico in prima persona, a partire dallo stile con cui sono costruiti i commenti delle pericopi bibliche. Da altrove (d’ailleurs): questa resa italiana consente di insistere sulla provenienza da altro luogo, sulla extraterritorialità – rispetto al sistema metafisico basato sulle coordinate date dall’essere, dal tempo e dal principio di causalità – dei fenomeni di rivelazione e, in particolare, della Rivelazione. L’avverbio francese, tuttavia, sembra consentire all’autore un sottile gioco ironico nei confronti della storia della filosofia, qualora venga messa a confronto con la tematica della rivelazione: la locuzione d’ailleurs è infatti usata dalla lingua francese anche per introdurre una proposizione avversativa, come nell’italiano “peraltro”, “d’altronde” (arcaicamente altronde e altrove coincidevano, significando appunto una provenienza altra). Tale ambiguità, che purtroppo risulta di difficile resa nell’italiano contemporaneo, racchiude probabilmente la portata ultima dell’intera opera, espressa fin dal titolo: una volta manifestatasi – meglio, anche solo una volta riconosciuta la sua possibilità come data – la rivelazione determina una frattura della storia, a partire dall’innesto nella storia del pensiero, di cui definisce la crisi. La rivelazione è pungolo insopprimibile per il sapere contemporaneo, instaurando quantomeno il dubbio che una seria presa in carico della tematica da essa espressa – non più relegata all’ambito teologico da una limi-

9.  Cfr. J.-L. Marion, Phénoménologie de la donation et philosophie première, in Id., De surcroît, cit., pp. 1-34: p. 34.

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tante e surrettizia partizione delle competenze debitrice della modernità – sfoci nella necessità di una radicale ridefinizione delle questioni elaborate. De-misura (démesure): usando questo termine Marion segnala non tanto il sovrappiù rispetto a una misura considerata canonica e comune, come sarebbe espresso dal termine “dismisura”; egli indica piuttosto che la donation determina la fuoriuscita dal sistema della misurazione, mostrando così i limiti dell’approccio recettivo che opera misurando e definendo la propria finitezza insieme a quella del fenomeno di cui non può cogliere l’essenza, in quanto privo della possibilità di comprendere soggettivamente il fenomeno cui si correla10. La particella “de” mette allora in luce un paradigma nel quale la misurazione cede il passo ad altro. Disvelamento (décèlement): è il termine usato da Marion per definire l’accezione della rivelazione espressa dal vocabolo greco aletheia. Il sostantivo, come il verbo corrispondente déceler, “disvelare”, mostra il movimento negativo di rimozione di ciò che vela, riferito dal prefisso “dis-” – equivalente all’alfa privativo greco. Tale operazione racchiude il malinteso metafisico secondo il quale portare in piena luce corrisponderebbe alla possibilità soggettuale di acquisire una conoscenza definitiva (dimensione che emerge se si considera che il termine francese décèlement può essere tradotto anche con “individuazione”). Già a partire dalla scelta termi10.  Alle diverse traduzioni di questo termine corrispondono differenti interpretazioni delle caratteristiche e delle conseguenze della donation, come si evince confrontando C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Rosenberg & Sellier, Torino 2004, p. 114 e R. Caladarone, Caecus amor. Jean-Luc Marion e la dismisura del fenomeno, ETS, Pisa 2007, pp. 24 ss.

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nologica, l’autore lascia emergere prossimità e risonanze con la speculazione heideggeriana relativa alla verità, in particolare con quelle raccolte dal sostantivo tedesco Unverbogenheit (ne è conferma il fatto che le traduzioni italiane la esprimono tramite le particelle negative non di “non nascondimento”11 e dis di “disvelatezza”12). Il termine “disvelamento” costituisce il polo alternativo a “scoperta” (cfr.), esplicitando l’insuperabile intreccio speculativo tra il logos greco e quello biblico13. D(on)ato (donné): seguendo le scelte operate in altre traduzioni14, nonostante l’appesantimento della resa grafica, questa è parsa la scelta più adeguata al fine di esprimere la ricchezza del dispositivo marioniano, che intende mostrare la forma della donazione quale piena interpretazione della datità. La dicitura “d(on)ato” e la corrispettiva forma verbale “d(on)a­re”

11.  Cfr. la scelta operata da G. Vattimo traducendo M. Heidegger, Aletheia (Heraklit, fragment 16), in Id., Vortrage und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it., Aletheia (Eraclito, frammento 16), in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1991, pp. 176-192. 12.  Cfr. F. Volpi, Glossario, in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 580613: pp. 607-608 e, per un ulteriore allargamento relativo ai termini heideggeriani riferiti a “verità”, A. Marini, Lessico di «Essere e tempo», in M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, pp. 1403-1498: p. 1496. 13.  A tal proposito è bene ricordare che le indagini heideggeriane relative a questo concetto capitale per il pensiero occidentale sono favorite dall’influenza delle ricerche teologiche di Rudolf Bultmann a proposito del suo radicamento nell’ambito biblico (cfr. R. Bultmann, Der griechische und hellenistische Sprachgebrauch von αληϑεια, in G. Kittel [hrsg.], Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testaments, Bd. I, Kohlhammer, Stuttgart 1933, pp. 239-251; tr. it., Uso Greco ed ellenistico di ἀλήθεια, in G. Kittel [ed.], Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1965, coll. 640-674). 14.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 134, nota 90 e J.-L. Marion, Le visible et le révélé, Cerf, Paris 2005; tr. it., Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007, pp. 33 ss.

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sono state utilizzate ogni qualvolta si è trattato di tradurre étant donné, reso con “ente d(on)ato” e nella ripresa diretta della questione relativa alla Gegebenheit husserliana e all’es gibt heideggeriano. Questa non è però l’unica accezione con la quale si è inteso il verbo donner: esso è stato tradotto con “donare” quando il riferimento alla semantica del dono è indiscutibile, perché esplicitato dal ricorso al sostantivo don, “dono” (usato in particolare nelle ricerche relative alla pneumatologia agostiniana), ma è stato perlopiù tradotto con il verbo “dare” ogni qual volta non fosse rigorosamente necessario caricare il testo in chiave oblativa. È stata seguita l’opzione generale che ha guidato questa traduzione, cioè la necessità di non fornire al lettore un presupposto interpretativo subito riconducibile a una dimensione eccessiva e straordinaria rispetto a quella abituale. Laddove la lingua italiana conserva la differenza tra i verbi “donare” e “dare” è parso più convincente preferire “dare”, nella misura in cui ciò consente di riconoscere che neppure l’azione da esso implicata determina una generica neutralità. Si lascia quindi aperto il ruolo interpretante di chi vi si accosta, ovvero la possibilità di attribuirvi o meno il valore di una gratuità teologica (che a propria volta non necessita di essere ricondotta a un dispositivo metafisico). Tra i tanti, alcuni riferimenti possono corroborare la scelta: innanzitutto il rimando alle traduzioni italiane della Bibbia, la maggior parte delle quali rende il verbo didomi (caratterizzante la dinamica del dono trinitario espresso dal Quarto vangelo) con “dare”, senza per questo offuscarne il valore; inoltre, anche l’adagio di Bernardo di Chiaravalle dando revelat et revelando dat, sul quale più volte Marion appoggia il proprio ragionamento, preferisce la sobrietà del verbo dare; infine, un riferimento più generale, a ricordare che la lingua italiana, non patendo dell’ambivalenza del francese donner contiene già nel verbo “dare” la possibilità di esprimere ben più dell’equiparazione al mero

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scambio mercantile, come espresso per esempio nella locuzione “dare la vita”. A conclusione di questi rimandi segnaliamo però che quando si è incontrato il termine donation esso è stato reso con “donazione”, attribuendogli il valore tecnico, ormai divenuto di uso comune nel lessico filosofico, per esprimere il particolare posizionamento di Marion rispetto alla Gegebenheit husserliana. Fenomenicità (phénomenalité): al pari del termine “fenomenico” usato per rendere il francese fenomenal, nella traduzione si è voluto ribadire l’opzione per il concetto più prossimo al rigore della neutralità fenomenologica; ciò corrisponde probabilmente a un indebolimento della intenzione ultima della prospettiva marioniana15, in favore però della possibilità di verificare di volta in volta e in modo complessivo la sua plausibilità. Fondo (fonds): l’accezione del termine corrisponde al bene fondiario, ovvero alla riserva patrimoniale garantita da un possedimento. Marion usa il vocabolo, differenziandolo e mettendolo in correlazione tanto a “sfondo” (fond) quanto a “fondamento” (fondement) – inteso nell’accezione metafisica di ciò che è reso dal tedesco Grund, per caratterizzare la riserva che mantiene e garantisce l’“invisto” (cfr.)16. Nel testo si può riconoscere quando il termine ha questa particolare accezione rispetto al più ge-

15.  Prospettiva che sarebbe invece messa in luce dalla scelta di caratterizzare con l’aggettivo “fenomenale” non solo il significato di “relativo al fenomeno”, ma anche quello di “stupefacente” (cfr. A. Bellantone – G. Merlino, Nota alla traduzione italiana, in J.-L. Marion, Certezze negative, Le Lettere, Firenze 2014, p. 6). 16.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 125, nota 83, dove il traduttore A. dell’Asta nota il nesso con il concetto heideggeriano di Bestand (cfr. M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Id., Vortrage und Aufsätze,

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nerico “fondo” secondo il valore spaziale perché è fatto seguire dalla parola francese posta tra parentesi. Guardare-in-volto (envisager): nella sua accezione generica il verbo francese è stato tradotto con “considerare”, tuttavia talvolta esso è usato da Marion offrendo una connotazione specifica, cioè la considerazione individuale17 che consegue allo sguardo dell’icona, sguardo che apre a una profondità infinita e non preventivabile18; anche se la lettura risulta appesantita, abbiamo allora aderito alla proposta di tradurre il verbo con “guardare-in-volto”19. Intendere (entendre): il verbo francese copre tanto l’area semantica relativa all’udire quanto quella legata all’ambito della comprensione. Si è pertanto preferito mantenere il termine italiano che più lo ricalca, piuttosto che offuscare la caratterizzazione sensibile, come avverrebbe usando il verbo “capire”. Questo verbo è di particolare interesse quando si lega alla dinamica di appello (cfr.) e risposta, mettendo in luce l’importanza rivestita non solo dall’ambito del visibile, ma anche da quello dell’udibile; in questo testo vista e udito sono considerati ben oltre il loro consueto parallelismo, intrecciandosi e richiamandosi vicendevolmente, a partire dall’analisi di due narrazioni veterotestamentarie paradigmatiche, con protagonisti Abramo e Mosè.

Neske, Pfullingen 1954; tr. it., La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1991, pp. 5-27: p. 12). 17.  Come espresso dal verbo “rivolgersi”, traduzione proposta in J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 388. 18.  Cfr. J.-L. Marion, L’icône ou l’herméneutique sans fin, in Id., De surcroît, cit., pp. 125-153: pp. 143-144. 19.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 33, nota 19.

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Invisto (invu): nella misura in cui anche il termine francese risulta essere un neologismo, ne abbiamo conservato il calco nella lingua italiana, nonostante la traduzione “non visto” offerta in Dato che risulti sicuramente più elegante20. La preferenza è motivata dal parallelismo con ciò che il termine “inaudito” esprime per quanto riguarda il senso dell’udito, esplicitata dallo stesso Marion21. Non si tratta infatti dell’identificazione di quanto non viene visto e tale rimane per semplice mancanza di occasioni, né di tratteggiare un’area contrapposta al visibile: al pari di ciò che accade a riguardo dell’udibile si sottolinea la sorpresa data da un passaggio alla visibilità non preventivabile né riproducibile, dinamica che qui assume nuova luce perché l’ambito estetico si invera in quello trinitario. Mirabile (visable): l’impossibilità di cogliere il dato della rivelazione a partire dalla mira soggettiva trova nel manifestarsi divino nella persona di Gesù un rovesciamento decisivo: l’invisibile, grazie all’invisto (cfr.), è definitivamente incontrabile. Il termine assume nella lingua francese una sfumatura che non riguarda solo il senso della vista, ma apre all’assonanza con il volto (visage), che trova compimento nella forma iconica, cioè nell’unica possibilità di mirare Dio data dal fatto che egli per primo, attraverso lo sguardo di Cristo, incontra l’umano. Usare il termine “mirabile” insiste su questa duplicità, soprattutto a partire dal suo contrario “non mirabile” (invisable)22, che in Marion assume peso specifico perché 20.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., pp. 58, 160, 162, 185, 186, 206, 212, 353, 388, 389. 21.  Cfr. J.-L. Marion, La croisée du visible, PUF, Paris 1991 (19963), pp. 51 ss. 22.  Scelta di traduzione già proposta in J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 28, nota 7.

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si confronta con la categoria kantiana della quantità, per cui il fenomeno saturo che la eccede risulta “imprevedibile”23 e “imponderabile”24. Mirare (viser): è di uso comune, nel lessico fenomenologico italiano, tradurre il verbo meinen con “intendere”, ricordando la duplice valenza del termine tedesco, che racchiude anche “intenzionare”; abbiamo però preferito mantenere la prossimità alla traduzione francese, proponendo il verbo “mirare” e il sostantivo “mira”, usato per rendere visée. Nella misura in cui anche le traduzioni italiane25 rendono il verbo vermeinen con “prendere di mira”, tale soluzione pare accettabile, soprattutto perché lascia che emerga l’accezione fenomenologica di “mira intenzionale”, insistendo sulla sensibilità legata alla vista (come nel verbo italiano “mirare”, ovvero guardare con intensità) e alle abilità che ne conseguono, messe in campo in modo particolare nel gesto diretto a colpire un bersaglio; per suo tramite l’autore può mettere in luce l’ambiguità insita nel ricorso a una mira che risulta intrinsecamente inadeguata a ciò che intenziona, implicando quindi un rovesciamento della forma soggettuale. Scoperta (découverte): opponendosi a “disvelamento” (cfr.), questo sostantivo, insieme al corrispettivo verbo découvrir

23.  Questa la proposta di traduzione di C. Canullo in J.-L. Marion, Il visibile e il rivelato, cit., p. 49, nota 34 e p. 62, nota 55. 24.  Il termine è così tradotto da R. Caldarone in J.-L. Marion, Dato che, cit., pp. 246 ss. 25.  Cfr. V. Costa, Nota terminologica, in E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo, Einaudi, Torino 2002, pp. 465-468: pp. 466 e 468.

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“scoprire” e all’analogo découvrement – tradotto con “scoprimento”, è usato da Marion per esprimere l’accezione della rivelazione offerta dal vocabolo greco apokalupsis, radicata nell’equivalenza esplicitata dall’ultimo libro della bibbia cristiana. Il termine definisce la dinamica della scoperta, cioè l’accesso alla novità consentito dalla rimozione di ciò che la copriva e velava; tale scoprimento non corrisponde però a un mero punto di arrivo, né a un’intuizione di tipo cognitivo, esso esprime piuttosto l’ingresso in un equilibrio dinamico, dove la scoperta data dalla rivelazione coincide con l’esperienza della profondità senza limite del mistero (talvolta l’autore insiste su tale dispositivo, proponendo anche la grafia “s-coperta”, “s-coprimento” e “s-coprire”). La scoperta risuona anche nella titolazione degli ultimi due capitoli dell’opera, nei quali essere e tempo sono definiti in virtù del loro trovarsi “messi allo scoperto” (mis à découvert) ad opera dell’altrove. Questo sintagma deriva dall’ambito militare, dove è usato per definire chi è esposto senza alcuna difesa al fuoco nemico e indica ciò che accade in virtù della rivelazione: solo la perdita di qualunque preventiva difesa garantisce l’autentico incontro con l’altrove, in quanto rimuove quello schermo che impedirebbe di essere da esso raggiunti. Svelamento (dévoilement): il corrispettivo italiano della parola francese ribadisce il legame con l’ambito della rivelazione. Il termine ricorre raramente nel testo marioniano e ha accezione neutra, a differenza dei due vocaboli tecnici “disvelamento” (cfr.) e “scoperta” (cfr.). Succedere (se passer): un’ulteriore tonalità di quanto in italiano viene compreso generalmente come “accadere”. A differenza della irriducibilità dell’evento espressa dai verbi “ad­

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venire” (cfr.) e “avvenire” (cfr.), in questo caso è caratterizzato in modo particolare il mutamento conseguente alla non permanenza di ciò che trascorre e si perde lasciando il passo ad altro. Tanto […] quanto (autant de […] autant de): la singolarità della teoria di Marion emerge a partire dall’approfondimento del principio fenomenologico soviel Schein, soviel Sein, interpretato e radicalizzato affermando come sua necessaria conseguenza il principio autant de réduction, autant de donation, tradotto in italiano con «tanta riduzione, quanta donazione»26. A tal proposito è stata segnalata l’opportunità di mettere maggiormente in luce la piena reversibilità della direzione della formula, come avverrebbe proponendo «tanta riduzione, altrettanta donazione»27; del resto, si può anche offrire un’analisi di quel principio che propenda per il «primato metodologico della riduzione»28. Si deve ora considerare che Marion riprende quella formulazione lungo l’arco di sviluppo della sua intera opera, approfondendo la saturazione che emerge dalla donazione in chiave evenemenziale e verificando il loro intreccio29, fino ad arrivare, in questo testo, al parallelismo con il legame vicendevole tra mistero e “scoperta”. A partire da ciò pare confermata la perfetta biunivocità della formula, per esprimere la

26.  J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 13 e Id., Riduzione e donazione, cit., p. 297. 27.  Cfr. G. Ferretti, Presentazione. Ripresa e radicalizzazione della fenomenologia, in Id. (a cura di), Fenomenologia della donazione. A proposito di Dato che di Jean-Luc Marion, Morlacchi Editore, Perugia 2002, pp. 1-24: p. 3. 28.  S. Bancalari, Logica dell’epochè. Per un’introduzione alla fenomenologia della religione, ETS, Pisa 2015, p. 251. 29.  Cfr. J.-L. Marion, Certitudes négatives, Grasset, Paris 2010; tr. it., Certezze negative, cit., p. 269, nota 73.

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quale abbiamo però preferito mantenere l’espressione «tanto più mustêrion, quanta più apokalupsis» onde non trascurare, neppure nel ritmo, il nesso con le sintesi precedenti.

È sconosciuto Dio? È manifesto (offenbar) come il cielo? Questo credo, piuttosto. Dell’uomo è la misura. F. Hölderlin* 1

*  «Ist unbekannt Gott? Ist er offenbar wie der Himmel? dieses glaub’ ich eher. Des Menschen Maaß ist’s» (F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Bd. II/1, Kohlhammer, Stuttgart 1951, p. 372; tr. it., Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001, p. 347).

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Prefazione

Ormai quasi quarant’anni fa, osavo sostenere «che la teologia, fra tutte le scritture, è quella che dà senz’altro il piacere più grande»1; ora lo confermo, con una riserva: niente è più difficile e faticoso della teologia, con la quale bisogna avanzare direttamente in mare aperto, senza fondo e senza fine – duc in altum (Lc 5,4). Karl Barth, ancora agli inizi, già metteva in guardia chiunque vi si arrischi: «ogni opera umana è soltanto lavoro preparatorio, e un libro di teologia più di qualunque altra opera»2. Tutti i libri che ho prodotto li ho realizzati come un ciclista che sale le alture di una tappa di montagna, con allenamento e metodo, forza e resistenza, astuzia e volontà; eppure, nessun altro mi è costato come questo, né mi ha impegnato così a lungo – e giustamente, perché l’ascesa non è mai stata così aspra né così bella. 1.  J.-L. Marion, Dieu sans l’être, Fayard, Paris 1982 (PUF, Paris 20144); tr. it., Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2008, p. 17. 2.  «Nur Vorarbeit ist alles menschliche Werk, und ein theologisches Buch mehr als jedes andre Werk!» (K. Barth, Der Römerbrief 19222, p. VI; tr. it., L’epistola ai Romani. Prefazione alla seconda edizione [1921], in J. Moltmann [ed.], Le origini della teologia dialettica, vol. I, Queriniana, Brescia 1976, p. 137) [prefazione non riportata nell’edizione italiana del Romerbrief n.d.t.].

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Infatti, prima di questo momento, in cui consegno la versione in francese – che spero essere definitiva – contro ogni abitudine ho dovuto pubblicare due abbozzi in lingua straniera. Innanzitutto, quando nel 2014 l’Università di Glasgow mi ha fatto l’onore di un invito per tenervi le Gifford Lectures, ho incominciato una prima serie di studi che nel 2016 mi ha portato a una prima pubblicazione, Givenness and Revelation3; successivamente, nella primavera del 2018, l’invito dell’Università di Regensburg per ricoprire la Papst Benedikt XVI-Gastprofessur mi ha condotto a riprendere l’intera impresa tramite una versione pubblicata lo stesso anno con il titolo Das Erscheinen des Unsichtbaren. Fragen zur Phänomenalität der Offenbarung4. Di fatto, a partire da Le visible et le révélé5, che raccoglieva schizzi più datati e rivelava già un tema ossessivo, avevo iniziato ad affrontare la questione della Rivelazione, o piuttosto della fenomenicità della rivelazione in generale, quindi anche della Rivelazione biblica in particolare – a meno che non sia il contrario: la Rivelazione come tale, che apre il caso del fenomeno di rivelazione nella fenomenicità comune. A partire da un seminario della Chaire Dominique Dubarle all’Institut Catholique di Parigi (2011‑2016), poi lungo tutto il mio insegnamento alla Divinity School dell’Università di Chicago (in particolare i corsi 2013‑2019) e infine in occasione di un trimestre del 2018, invitato dalla Faculté autonome de théologie de l’Université de Genève, mi sono immerso in questa odissea di lungo corso. Quanto più ci si avventura nell’ambito teologico, non vi è nulla di più facile che denunciare le mancanze dei teologi (troppo di 3.  J.-L. Marion, Givenness and Revelation, Oxford University Press, Oxford 2016 (20182). 4.  J.-L. Marion, Das Erscheinen des Unsichtbaren. Fragen zur Phänomenalität der Offenbarung, Herder, Freiburg i.B. 2018. 5.  J.-L. Marion, Le visible et le révélé, Cerf, Paris 2005 (20162); tr. it., Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007.

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frequente ho ceduto a questo rito puerile), ma, dal momento in cui si fa il primo passo al suo interno, da quando si smette di girare attorno alla teologia come lo si fa attorno a una riserva di primitivi, bizzarra e aperta, senza alcuna difesa (come fanno tutti gli atei devoti che, senza alcun timore di Dio o degli uomini, vengono a battersi per ottenere come bottino qualche tesoro dal quale traggono i loro spiccioli) – da quando ci si inoltra con serietà, cioè considerando che bisogna intendervi una questione e rispondervi di persona – soltanto allora se ne misura la reale difficoltà. Innanzitutto è una difficoltà della conoscenza, al punto che se in filosofia (salvo quando si erge l’ignoranza a principio metodologico, come spesso accade nella tradizione analitica) è sufficiente conoscere i testi greci, latini, francesi, inglesi e tedeschi (e anche italiani), qui bisogna penetrare il testo biblico in tutte le sue lingue. Per fare ciò è necessario esplorare almeno un po’ il “Talmud” cristiano, i Padri (secondo una formula di Lévinas) latini e greci, poi si deve seguire la storia dei dogmi, gli autori del Medio Evo (alto e basso), la svolta metafisica della teologia moderna (per uno storico della filosofia è la tappa più facile) e infine la ragnatela della teologia degli ultimi due secoli, sottile, intricata e piena di insidie – indispensabile. La reale difficoltà si trova però altrove, letteralmente nell’altrove. Un romanziere o un poeta sanno di cosa parlano e possono sperare che anche il loro lettore lo sappia, anche se glielo devono esporre loro stessi con parole proprie. Un filosofo, se parla veramente di qualcosa e non si limita a parlare di un altro testo (cosa che non è così abituale), può fare appello a una verifica sperimentale della sua tesi; certo per renderla accessibile al lettore competente deve ricostruire l’esperienza, ma, di diritto, l’esperienza può diventare il campo della discussione comune, se non proprio di una convinzione condivisa. Il teologo non ha questo appiglio; non che non possa invocare la verifica sperimentale di ciò che lo precede, al contrario: egli sa

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perfettamente dove trovarla – nella pratica liturgica, nei sacramenti, nella preghiera comunitaria e personale, in breve nella vita della Chiesa nel senso più ampio possibile; tuttavia, non può sapere se a propria volta ha un accesso completo e corretto a tale esperienza, né se i suoi lettori lo possano fare meglio di lui. Scrivere una sola riga di autentica teologia espone a un interrogativo eccezionale, a un dubbio radicale, che non è relativo a ciò di cui si parla, ma a colui che ne parla. Un buon teologo non dubita dell’esistenza di Dio (cosa che in fin dei conti non ha senso), ma della sua propria esistenza (essa è più che dubbia); egli non dubita del mistero che mira, ma dell’altezza della sua mira, della potenza della sua vista. Conosce ciò che mira, se non altro perché ne è attratto e perché ne segue l’inclinazione montante e discendente, ma è anche consapevole di star mirando troppo in basso, con uno slancio troppo corto e, come dicono i ciclisti, che sta per “inchiodare” o per “perdere l’equilibrio”6. Il dogma è una formulazione che resta sottoposta alla rettifica escatologica, ma ancor di più l’enunciato teologico: non c’è teologia senza sviluppo perché nessuna teologia può realizzare totalmente l’ermeneutica dell’infinito; il teologo non cade nella cattiva filosofia (quella che ignora) o nell’ideologia (che vuole ignorare tutto al di fuori di sé) alla sola condizione di esserne persuaso. Il teologo sa di non poter ancora dire bene ciò che vede, né di poter vedere bene ciò che mira, ma di doverlo almeno mirare, tanto quanto gli è

6.  Bisogna però fare almeno attenzione a non “saltare dalla finestra”: fermarsi sulla pendenza più dura, appoggiare il piede per terra e sostenere di aver raggiunto la cima; questa semplificazione della questione secondo la misura della parzialità della risposta porta a cancellare la questione stessa, ripiegandola sulla risposta preconfezionata, in breve porta a razionalizzare la sconfitta per trovare una giustificazione. Questa situazione definisce abbastanza bene l’eresia, la facile scusa per il fallimento nel raggiungere lo scopo, che vuole far credere che la cima non fosse più alta del punto in cui si è rinunciato.

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possibile; la sua santità è la misura della sua correttezza. Egli è consapevole del fatto che questa situazione non solo non ha niente di anormale, ma che è l’unica a proteggerlo. Le nostre personali intenzioni sono riassumibili con qualche questione. (I) Perché i primi secoli della (migliore) teologia cristiana (e d’altronde anche ebraica) non usano nulla che ricada sotto il concetto moderno di “Rivelazione”? (II) Perché tale concetto moderno (per l’essenziale) è stato costruito da alcuni metafisici solo polemicamente, in contrasto con ciò che intendevano con “ragione”? (III) Perché, al contrario, non è stato privilegiato un concetto di Rivelazione che parta dalla fenomenicità di ciò che si s-vela (o piuttosto si s-copre), di ciò che tra i fenomeni si rivela? (IV) Non potrebbe darsi che il principio dei sinottici «non c’è nulla di nascosto (kekalummenon) che non sarà s-coperto (ho ouk apokaluthêsetai, revelabitur), né di segreto (krupton) che non sarà conosciuto (ho ou gnôsthêsetai)»7 metta già in opera una modalità privilegiata di fenomenicità? Lo si può individuare e riconoscere in tutte le Scritture e in tutta la tradizione? (V) Questo s-coprimento si riduce all’accezione comune di “monoteismo”, oppure implica la sua reinterpretazione a partire dalla comunione trinitaria? (VI) Abbiamo spinto il tentativo il più lontano possibile, quindi siamo ben consapevoli dei limiti, che corrispondono a quelli perfettamente indicati da Niccolò Cusano: «mi sono sforzato di dispormi al rapimento, confidando nella tua bontà infinita, per vedere te che sei invisibile ed avere, senza veli, una visione che è irrivelabile (ut viderem te invisibilem et visionem revelatam irrevelabilem)»8.

7.  Mt 10,26 e paralleli, qui si tratta molto esplicitamente di apokalupsis. 8.  N. Cusano, De visione Dei; tr. it., Trattato sulla visione di Dio, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, Bompiani, Milano 2017, pp. 10231154: XVII, p. 1111.

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Mi rimane solo da esprimere gratitudine alle istituzioni che mi hanno permesso di realizzare questo lavoro: l’Università di Chicago, l’Institut catholique de Paris, l’Università di Glasgow, l’Università di Regensburg, l’Università di Genève; agli studenti e agli uditori che mi hanno sostenuto con la loro pazienza e le loro domande e ai compagni di sempre, che si potranno riconoscere lungo le pagine. Gli errori e le mancanze sono di mia piena responsabilità; il resto, che non mi appartiene, verrà. J.-L. M. maggio 2020

I INVIO Immensum est autem quod exigitur, incomprehensibile est quod audetur, ut ultra praedefinitionem Dei sermo de Deo sit. Ilario di Poitiers, De Trinitate, II, 5

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1 Il privilegio di una questione

Il mondo non si dischiude come uno spazio ma anzitutto si fa avanti, si scopre e si svolge come un flusso. In questo fiume non mi posso bagnare a piacimento, né dirigermi volontariamente verso di lui, dal momento che continua ad avvernirmi, a emergere su di me e quasi a trascinarmi nel torrente di ciò che mi appare. Non si tratta di un flusso di coscienza, perché tale flusso non appartiene alla mia coscienza e non scorre in essa, al contrario è quest’ultima ad appartenergli e a trascorrere con lui e in lui. Non si tratta di un mondo immobile, di una totalità di enti fissati nell’esistenza presente, ma della totalità dei possibili che mi advengono come delle cose e mi osservano «con sguardi familiari»1, perché i miei sensi continuano a ricevere, come un possibile che non si ripete mai: non colori, suoni, gusti, profumi o superfici lisce o rugose, ma direttamente e immediatamente cose che mi advengono in persona: una casa bianca e blu, una mela acida e dura, un sentiero accidentato che scivola sotto i piedi. Non si tratta di apparenze, ma

1.  C. Baudelaire, Correspondances, in Id., Les Fleurs du mal, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1966; tr. it., Corrispondenze, in Id., I fiori del male, Feltrinelli, Milano 2007, p. 43.

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di apparizioni che emergono dalla bocca dell’abisso2 invista, che, immediatamente o quasi, si riuniscono, si stabiliscono e si costituiscono come cose, cioè le cose del mondo, quello che determina la mia vita e mi consente di dimorarvi. Non è possibile dire se una corrente continua di tal fatta mi rinchiuda o piuttosto mi attraversi, se scivoli su di me o mi invada e mi sommerga. «Contro a me tutto s’erge, e m’assale e mi tenta»3 a meno che il flusso non faccia tutto in una volta sola e che io conquisti la mia identità solo tentando – senza mai riuscirci definitivamente – di distinguerlo per resistergli.

L’oblio e ciò che mi resta Si è allora costretti a porre una questione: tra tutte queste apparizioni, quali mi riguardano realmente, quali mi restano e mi dicono qualcosa? «Pur sempre, e trascinati in notte eterna, / senza ritorno, non potremo noi mai / di tante Età sull’Oceano immenso / gittar l’àncora pure, un giorno solo?» (Lamartine)4. O ancora: a quale gradazione tali apparizioni mi si offrono in forma sufficiente per darmi accesso alla realtà, anziché disperdersi come inghiottite da quelle che le seguono? E ancora: quali di queste apparizioni mi interessano e mi riguardano realmente, dal momento che organizzano un mondo 2.  Marion cita qui implicitamente la poesia di Victor Hugo, Ce que dit la bouche d’ombre; tr. it., Quel che dice la bocca dell’abisso, in V. Hugo, Poesie, Mondadori, Milano 2002, pp. 359-361 [n.d.t.]. 3.  J. de Sponde, Sonnet, in A.-M. Schmidt (éd.), Poètes du xvie siècle, Gallimard, Paris 1953; tr. it., Stanze e sonetti della morte, Einaudi, Torino 1970, p. 55. 4.  A. de Lamartine, Le lac, in A. Gide (éd.), Anthologie de la poésie française, Gallimard, Paris 1953; tr. it., Il lago, in Id., Meditazioni poetiche scelte, Giulio Sperani, Torino 1873, p. 50.

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reale attorno a me? Infatti, tutte queste apparizioni, indefinite nel numero, non si equivalgono né tutte danno origine a cose: le illusioni, le fantasie, le semplici apparenze non si possono confondere (quantomeno è da sperare che non lo siano) con forme, presentazioni e constatazioni che mi consegnano agli oggetti e mi fanno accedere alle cose. Posso ragionevolmente riconoscere che per la maggior parte del tempo percepisco oggetti momentaneamente stabilizzati e non semplici apparenze di oggetti, cose realmente date e non mere rappresentazioni di cose assenti; questa operazione è definibile come conoscenza o, più precisamente, come distinzione dei gradi di certezza, una distinzione spontanea e sufficiente per un orientamento di massima nell’esperienza quotidiana. Tuttavia, l’esperienza quotidiana, nella sua rassicurante (se non ben assicurata) banalità, in fondo non spiega nulla, perché la sua unica funzione è quella di consentire la gestione dell’ambiente più prossimo, i confini della mia sussistenza giornaliera. Essa si limita a differenziare ciò che mi succede, distinguendo l’utile dall’inutile, quanto è nocivo da ciò che è favorevole, le cose comode da quelle scomode. Per dirigermi in essa con maggiore sicurezza mi consente (e anche mi ingiunge) di dimenticare quei possibili che nel loro flusso non mi riguardano immediatamente. Spesso i miei giorni terminano con la rassicurante constatazione che «oggi non è successo niente»; non significa che non è accaduto nulla, ma che non è successo nulla di notevole, nessuna eccezione rispetto alla routine; detto in altro modo, che tutto ciò che è successo è ormai superato, che non rimane nulla di nuovo o di significativo, all’esperienza del mondo e di me stesso non si aggiunge nessuna nuova acquisizione. Il corso dell’esperienza che viene supposto come normale permette di dimenticarne – e felicemente – la maggior parte; ne risulta che tra tutto ciò che appare non conosco quasi nulla che mi definisca intimamente – o persino non voglio saperne nulla. Il corso dell’apparire va così: la maggior parte dell’esperienza

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possibile cade senza lasciare tracce, ciò che succede trapassa con altrettanta facilità. Forse è anche meglio così. Nella corrente del mondo che continua ad avvolgermi e in cui tutto ciò che appare mi assale, tuttavia, l’occasione momentanea non riesce a farmi dimenticare tutto, senza eccezione, e del resto non deve farlo. Più o meno riconosciuto, più o meno accessibile alla coscienza, resta sempre un qualche cosa che non dimenticherò mai, anche se mi sforzo di censurarlo perché non voglio vederlo o rivederlo. Questo qualcosa refrattario all’oblio non è più la mera immagine di una cosa, la rappresentazione distante di un oggetto o la fantasia fluida di una cosa immaginata; non si tratta neppure di uno stock di informazioni disponibili allo sguardo, nello scarto di una considerazione di cui potrei restare lo spettatore distaccato, se non completamente disinteressato. In questo caso, quando succede ciò che non dimenticherò mai, ciò che appare non conduce più verso qualcosa d’altro rispetto a me, ma emergono apparizioni particolari che mi toccano – direttamente e in persona – apparizioni di cui non posso evitare l’impatto, la cui ferita nel mio ricordo non si cicatrizzerà mai. Questo choc traumatico determina un criterio per distinguere le apparizioni che sono destinate a restarmi da quelle che passano: questo choc non proviene più soltanto della quantità di realtà della cosa che appare, ma da colui che la riceve – dipende innanzitutto dalla forza d’urto che un’apparizione (autentica o illusoria, poco importa) esercita su di me (sulla mia coscienza, pulita oppure no, poco importa), dipende dal grado di intensità con cui lo sforzo di un tale apparire mi tocca, dall’effetto che mi fa la cosa. Si tratta della forza, dell’effetto e dell’affezione dell’impressione che un fenomeno esercita su di me; dapprima otterrà di non trasferirsi nell’oblio; poi, soprattutto, di non lasciarmi persistere nello stato in cui mi trovavo prima che si esercitasse e che si esercitasse su di me. Questo tipo di fenomeno si manifesta inizialmente esercitando la sua fenomenicità su colui che lo

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riceve e lo vede; non si riassume quindi nella rappresentazione neutra di un altro, di un terzo (la cosa o l’oggetto), a volte, addirittura, se ne dispensa – come il lampo che si manifesta illuminandomi senza mostrare alcuna sostanza, sostrato, cosa, ma procurandomi un’affezione con niente (res nel caso obliquo: niente [rien]). Per tal motivo questo tipo di fenomeno non si distingue tanto per ciò che rende manifesto (né tramite la verità che talvolta evoca), ma tramite colui al quale si rivolge, che tocca e trasforma. Solo allora il flusso prende forma, il tempo non passa più, ma mi prende o, piuttosto, ne sono preso. «Che arrivi, che arrivi, / il tempo che innamora» (Rimbaud)5. Per il momento, in uno schizzo provvisorio, ciò che si impadronisce di me si può chiamare una rivelazione.

Il gesto sportivo Una rivelazione si definisce quindi come un fenomeno che non si dimentica, una presenza che non passa perché tocca e trasforma colui che lo vede, percepisce e riceve. Tali rivelazioni non sono rare, ciascuno può sperimentarle nell’esperienza dei sensi o estetica, nell’esperienza della teoria o della morale, in quella intellettuale, morale, religiosa, ecc. Inizialmente è possibile descrivere un caso banale, che non presenta nulla di eccezionale né di raro: il gesto sportivo. Tra mille altri scegliamo l’esempio dello sci, più precisamente l’apprendimento della curva con alleggerimento, cambiamento di peso, sbandamento, ecc. Il debuttante riceve una spiegazione chiara di questi movimenti, li vede ben dettagliati nei di-

5.  A. Rimbaud, Chanson de la plus haute tour, in Id., Une saison en enfer, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1972; tr. it., Canzone della torre più alta, in Id., Una stagione all’inferno, La Vita Felice, Milano 2020, p. 103.

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segni del manuale del perfetto sciatore ed eseguiti in modo adeguato dal suo istruttore diplomato alla Scuola francese di sci; tuttavia, quando tenta di compierli in prima persona, il più delle volte si ostina a non fare ciò che dovrebbe, anzi, non fa altro che irrigidirsi sulla gamba superiore, accovacciarsi sugli spigoli e rifiutarsi di affrontare la pendenza; infine, quando si lancia, perde totalmente il controllo della velocità, proprio perché resta sugli spigoli; per questi motivi cade e a volte cade addirittura apposta, per paura di cadere più lontano e a una maggiore velocità. Questo fallimento può ripetersi molte volte, nonostante la litania di consigli e di dimostrazioni ricevute («guarda bene come faccio!», «è facile!»); questa condizione può perdurare nel tempo, fino a diventare un’abitudine, uno stato durevole che in alcuni casi scoraggia per sempre dal praticare lo sci. Eppure, talvolta, all’improvviso, senza che ce lo si possa spiegare, senza averlo anticipato né averlo veramente voluto, succede che l’impossibilità di fatto svanisca come una nuvola; repentinamente, senza sapere il perché o il percome, si realizza; o, piuttosto, si sente che in sé si realizza quel gesto che prima rimaneva inaccessibile e irraggiungibile; sposto il peso, svolto, scivolo, ho voltato! Non cado, controllo la mia corsa e la pendenza diventa mia alleata; in breve: per la prima volta e ormai per sempre, scio. Questo atto, sino ad allora rimasto impraticabile e come segreto, in un colpo solo mi si dischiude e si dispiega in me. Da qui il suo primo effetto: si autorivela, accessibile, semplice, evidente, manifesto. L’evento – il rivelarsi dell’atto sportivo – ha però anche altre conseguenze. In seconda istanza mi apre un nuovo campo di esercizio, rendendomi accessibile lo spazio che ormai è spazio sciabile, più precisamente la montagna in quanto spazio sciabile: in pratica trasforma un sito fino allora per me inaccessibile, quantomeno interdetto al cammino (innevato, scivoloso, ghiacciato, incrinato), in una pista aperta, praticabile, che addirittura invita ad attraversarla in ogni senso; si determina la

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metamorfosi di un campo da ostile e sconosciuto ad aperto e possibile, o piuttosto a possibilità spaziale. Rivelandosi a me, il gesto dello sciare mi rivela il suo spazio, mi rivela un nuovo possibile: un gesto che fino allora era negato ed escludente ormai è potenzialmente mio. Rivelandosi, l’atto sportivo mi rivela un mondo altro. Poi, non appena questo mondo nuovo diventa per me un ambiente nuovo – dal momento che mi apre anche a me stesso – perché estende il mio orizzonte, allora l’orizzonte è sufficientemente lontano, in quanto potrei percorrere le piste fino addirittura ad avventurarmi al di fuori di esse. Alla fine l’atto sportivo ormai rivelato mi rivela un mondo, mi rivela a me stesso. Quello che sono diventato – non più un mero camminatore, ma un abile sciatore in uno spazio allargato – non lo devo a me, ma al gesto, che rivelandosi praticabile e realizzabile, mi ha rivelato a me stesso, facendomi accedere a un altro me che ignoravo, per il quale gli sono debitore. Innanzitutto, quello che sono diventato non dipende da me, ma dalla rivelazione del gesto, del quale in qualche modo rimango spettatore (anche se coinvolto), collaboratore (quasi involontario) e beneficiario (incredulo e sorpreso). Quello che ormai sono diventato, più me di me stesso, non deriva da me: mi è stato rivelato tramite la rivelazione di quel gesto iniziatore. Sono debitore nei confronti di ciò che mi si è rivelato e che come conseguenza mi ha rivelato a me stesso. La rivelazione del gesto che mi rivela a me stesso mi rivela anche agli altri. La rivelazione del gesto che in questo caso mi ha consentito di praticare lo sci non mi ha solo fatto diventare solo uno sciatore, ma mi ha anche fatto entrare nella comunità degli sciatori, la comunità di quelli per cui lo spazio naturale si estende oltre la terra ferma, le città, le pianure e le vallate, fino alla montagna (quantomeno a una parte della montagna, perché la stessa trasformazione si compie anche oltre l’ambito sciabile, quando accedo all’arrampicata e alla scalata). Dunque non modifico solo lo spazio praticabile, ma accedo a un’altra comunità,

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a un altro modo di vivere e abitare (lo chalet, la stazione, il rifugio); emergo in un’altra comunità dove altri mi catalogano come uno dei nuovi membri attivi e mi accolgono, talvolta addirittura cantando: «è dei nostri, he is an englishman!». In una parola, mi rivelo ad altri compagni in un altro gioco sociale6.

Il gesto erotico Questi tre momenti della rivelazione si ritrovano, con aspetti pressoché simili, in molte altre posture: l’attore, l’artista, l’insegnante, l’orante, sono alcuni tra i molti esempi possibili di coloro che conoscono nell’intimo questa concatenazione di aperture e vi si possono riconoscere perfettamente. In qualunque di questi casi ciò che si rivela non rimane mai chiuso in sé, né sul suo beneficiario, ma si diffonde – phaenomenon diffusivum sui. Il caso più evidente è comunque il gesto del fenomeno erotico. La riduzione erotica realizza almeno una triplice rivelazione tra la coscienza eroticamente neutra, non toccata da un altro (chiunque egli sia) e quella che si scopre eroticamente impegnata, detto in altro modo tra un ego neutro e uno amante. La riduzione erotica si rivela innanzitutto instaurando un tempo assolutamente nuovo; nuovo perché non dipende più dal presente (più precisamente dal presente appreso dalla mia 6.  Tra le molte testimonianze possibili c’è quella di Christophe Lemaitre, bambino timido e bullizzato a scuola, nel 2010 diventato triplo campione europeo (100, 200, staffetta 4 x 100) e poi medaglia di bronzo nei 200 metri ai Campionati del mondo del 2011 e ai Giochi olimpici del 2016: «l’atletica non mi ha dato solo imprese e medaglie, mi ha anche consentito di rivelarmi a me stesso» (L’Equipe Magazine, n. 1894, supplemento del 3 novembre 2018). Con questa correzione, tuttavia: non si è rivelato a se stesso, ma lo è stato tramite l’evento e il gesto atletico.

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coscienza temporale, definito dall’istante durante il quale la mia coscienza mantiene, tramite protensione e ritenzione, una presenza intesa come atomo di durata, che dura solo a condizione di non durare, ma a condizione del suo inevitabile dissolvimento). In regime di riduzione il presente erotico ormai si definisce come adviene – non più a partire dal flusso e dalla presenza della mia coscienza, ma dalla presenza di un’altra coscienza, quella amata, e da essa sola. Da quel momento niente è in presenza se non rispetto a ciò che è contenuto dalla coscienza amata, cioè atteso e trattenuto nel suo proprio presente. Ne consegue che se l’amante trascorre un giorno senza sapere nulla della coscienza che ama, cioè senza conoscere ciò che è presente per lei, altrimenti detto senza «il sogno penetrante e strano di una donna / sconosciuta che amo, e che mi ama»7, può dichiarare con piena certezza che durante questo lasso di tempo per lui «non è successo nulla», «non è accaduto nulla». Certamente non perché attorno all’amante il mondo abbia smesso di girare, le persone abbiano smesso di agitarsi e quelli che gli stanno attorno abbiano finito di perdersi in chiacchiere, né perché le cose hanno smesso di avvenire, ma perché tutto ciò non si produce nel suo presente, l’amante. Solo l’amante, a differenza di ciò che lo circonda, non vive nel suo proprio presente, ma vive nella presenza esclusiva del presente che adviene alla coscienza amata, realizzandosi in lei; viceversa, ciò che l’amante scopre essere stato presente alla coscienza amata (lui stesso, i fatterelli dell’altro, cioè l’intero mondo visto a partire dalla presenza dell’amato, che ormai è centro del tempo e sola istanza costitutiva della presenza), dal momento che è presente alla coscienza amata ed esclusivamente secondo questa modalità viene raccolto e salvato dall’unica presenza

7.  P. Verlaine, Mon rêve familier, in Id., Poèmes saturniens, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1962; tr. it., Il sogno familiare, in Id., Poesie saturnine, in Id., Poesie e prose, Mondadori, Milano 1992, p. 35.

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erotica possibile, quella dell’altro, in nessun caso quella dell’ego. La riduzione erotica rivela all’amante un altro presente che è più presente del suo, perché proviene dalla coscienza amata e vi dimora; questo tempo non passa, almeno fino a che si realizza la riduzione erotica. Inoltre, la riduzione erotica mi rivela uno spazio altro. Tale spazio è realmente altro perché ha un altro centro, perché il mio ego, in quanto amante, non è più il suo centro, che corrisponde ormai all’ego amato. Se me ne allontano non sono più qui, ma là e anche là sono sempre situato in un qui, quello nel quale sono posto empiricamente dopo un viaggio o dopo una partenza, rintracciabile nello spazio geografico a partire dalle coordinate cartesiane; eppure, questo mio qui non corrisponde più al centro della mia apprensione del mondo: il mio vero mondo (la mia Umwelt, se si vuole) è amministrato dal qui che ho appena lasciato, se non addirittura abbandonato; in questo qui che ormai è là risiede l’unico centro del vero mondo che, in quanto amante, mi riconosco ancora, il qui di quell’altro che amo (che egli mi ami oppure no). Il centro della costituzione del mondo viene rovesciato, invertito e spostato grazie alla prestazione della riduzione erotica: il centro del mondo d’oggetti, che la mia coscienza teorica (il mio ego cogitante, il punto zero, il Nullpunkt dell’ego trascendentale, il nonamante) continua a costituire non coincide più con il centro del mondo erotico che struttura e regola quell’altra coscienza che si trova sempre altrove, che ha fatto di me il suo amante. È necessario spingersi ancora più lontano: nell’incontro di due corpi erotizzati lo spazio oggettivabile (quello della geometria e dei riferimenti cartesiani) è reso inoperante perché l’amante e il suo altro si situano altrove, non ammettendo più né “alto”, né “basso”, nessun lato “destro” o “sinistro”; essi portano con sé il loro qui nel quale vanno in giro. Si riconoscono solo il sito che occupano eroticamente, quello che sono l’uno per l’altro nell’incrocio in cui si inter-penetrano le loro carni

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sempre in movimento; questo sito atopico apre il suo nuovo spazio solo nella misura della realizzazione della riduzione erotica. Infine, la riduzione erotica mi rivela a me stesso, almeno in due modi: innanzitutto in quanto il godimento della carne dell’altro mi dà accesso alla mia carne erotizzandola (entrambe le nostre carni danno all’altra ciò che non ha e non può darsi da sé, la sua erotizzazione). Di conseguenza io divento altro rispetto a ciò che ero: questo godimento, indubbiamente il più estremo (per quanto rimanga il meno definibile), questo fenomeno saturo-svuotato [saturé-raturé] mi fa diventare un altro uomo – un uomo che mi è inaccessibile senza l’altro del mio godimento, addirittura un uomo che finalmente ha accesso a una possibilità radicale, l’emergere di un’altra carne umana, il figlio8. Poi, soprattutto, la riduzione erotica mi rivela a me rifiutando definitivamente qualunque tentativo di definire la mia ipseità a partire dalla semplice coscienza di sé. Non si tratta tanto del dibattito (che è eccessivamente mal posto per avere una vera posta in gioco) relativo alla possibilità di sapere se la mia coscienza (di fatto la mia coscienza delle cose del mondo e degli oggetti) può ritornare su se stessa (che tuttavia non è né un oggetto né una cosa), né si tratta di sapere se in questo ritorno su sé possa avere pienamente misura e potere di ciò che la definisce in profondità (l’inconscio, che il nichilismo oggi imperante definisce impropriamente come coscienza). Si tratta piuttosto del fatto che in una situazione di riduzione erotica il mio ego non può più abitare nel centro del sé, né deve farlo; il suo luogo si trova per definizione al di fuori di se stesso e il suo qui diventa un là, in riferimento al solo qui che ormai è in azione, quello dell’altro amato. Non solo 8.  Cfr. uno sviluppo più esplicito in J.-L. Marion, Le Phénomène érotique, Grasset, Paris 2003; tr. it., Il fenomeno erotico, Cantagalli, Siena 2007, §§ 23‑25, pp. 144-172.

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non penso (si pensa dove non sono), ma non sono senza l’altro che mi ama (oppure no). Come un viaggiatore calamitato da un fiume in lontananza, l’amante si sa fuori di sé, scioccato da un luogo decisamente altro, quell’altro che gli è più intimo di lui stesso, più elevato della sua maggiore mira – letteralmente interior intimo suo, superior summo suo. La riduzione erotica impedisce qualunque accesso a sé che non passi tramite un altro rispetto a me, essa chiude qualunque luogo di sé che risieda solo in me, l’ego. L’ego è un altro e se mai giunge a sé, sarà sempre da altrove9.

L’indimenticabile e l’altrove La più modesta delle rivelazioni (il gesto sportivo), così come quella maggiormente realizzata (il gesto erotico) implicano entrambe gli stessi momenti, necessariamente congiunti: l’autorivelazione del fenomeno, la rivelazione di me a me stesso (del mio mondo e anche del mio spazio) e infine la rivelazione ad altri di colui che sono diventato da altrove. Questa triplice

9.  Cfr. ivi, §§ 3‑7, pp. 27-53. Lévinas l’ha notato meglio di altri, spiegando che io sono «parola che viene da altrove, dal di fuori, e che abita in quello che l’accoglie» (E. Lévinas, La révélation dans la tradition juive, in Id., L’Au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, Minuit, Paris 1982; tr. it., L’aldià del versetto, Guida, Napoli 1986, p. 217, sottolineature nostre). Cfr. l’analisi di Zaguri-Orly, che rinviene qui un’«intrusione», «senza che la si possa riferire a un’istanza soggettiva e a un’idea regolatrice della ragione o ancor meno a un’esteriorità oggettiva o spaziale» perché si tratta di «ciò che si dà al soggetto non potendo stabilirsi in lui» (R. Zaguri-Orly, Approches de la révélation. Kant et Lévinas, in Id., Questionner encore, Galilée, Paris 2011, pp. 55-88: pp. 84 e 88). Infatti, «l’idea dell’Infinito si rivela, nel senso forte del termine» (E. Lévinas, Totalité et infini, Martinus Nijhoff, The Hague 1961; tr. it., Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 60, sottolineature di Lévinas).

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dimensione della rivelazione (come se autorivelarsi e rivelarsi ad altri costituissero le due ricadute di un primo lancio e di un primo rimbalzo, rivelarsi) permette di comprendere che la sua modalità fenomenica rende la rivelazione un fenomeno indimenticabile: mi giunge da altrove, dal sé di ciò che si rivela e quindi appare di sua propria iniziativa (quantomeno che non dipende dalla mia), non può ripetersi in modo identico, né riprodursi, soprattutto non può prodursi come si produce un oggetto. Solo il fenomeno di rivelazione prende l’iniziativa della propria manifestazione sorgendo una volta, di volta in volta, se non una volta per tutte; per questo motivo mi si impone in modo più radicale di qualsiasi noema, perché il nucleo di quest’ultimo dipende ancora dalla mia mira intenzionale (quantomeno perché la riempie e la conferma). Questa iniziativa messa al riparo gli permette di essere riservato (secondo l’accezione per cui una persona poco socievole ed espansiva conserva qualcosa per sé, evita di consegnarsi interamente). Il fenomeno di rivelazione mantiene sempre la sua riserva, non solo non si ripete senza fine e non avviene con regolarità – poiché si manifesta solo quando e nella misura che decide, ma soprattutto perché, anche nel momento inatteso e imprevedibile della sua attivazione, in seno a ciò che manifesta di sé conserva una riserva di invisto. Questa riserva e la mia incomprensione sono ben lungi dal renderlo opaco o trascurabile, anzi non potrò mai dimenticarlo proprio perché non potrei mai rendermelo totalmente intelligibile, ridurlo a componenti prime secondo condizioni ultime o padroneggiarlo e quindi riprodurlo. Il fenomeno di rivelazione non passa [passe] perché succede [se passe] da sé a partire da sé. Questa forma di passato che non passa, cioè che non si può dimenticare, offre il solo presente duraturo – quello che dura perché in ogni istante dei momenti seguenti introduce le sue riserve di invisto. Ciò che Péguy chiamava «l’avvento, avvenimento, sopraggiungere del futuro sul passato attraverso il ministero

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del presente»10 proviene dall’invisto che rimane ancora in lui e che permette non solo di advenire, ma di fare epoca, di preservare e mantenere la presenza. In questo caso il futuro non prolunga il passato prendendo in ostaggio il presente o estendendo il presente dispotico al passato (che prolunga) e tramite il futuro (che lo prolunga); il futuro si impadronisce del passato e lo trasforma perché la sua innovazione irrompe nel presente, agendo come un avvenimento che eviene (per riprendere il termine di Péguy)11. Non dimentico ciò che si rivela proprio perché dall’inizio della sua manifestazione fino al presente (incluso), non capisco da dove, come, perché o fino a dove emerga. La mia vita reale – quella che mi definisce nell’intimo, che mi si attacca alla pelle e da cui non mi distacco mai neppure di un centimetro – si riassume in ultima istanza nella collezione – disparata solo in apparenza – delle successive rivelazioni che non ho compreso ma che mi comprendono. Tutto il resto passa ed è già sparito, loro no. La distinzione tra la fenomenicità di rivelazione e le altre forme di fenomenicità è relativa alla riserva di invisto che non si riversa interamente nell’apparire rappresentabile, ma che

10.  Ch. Péguy, Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartésienne, in Id., Œuvres en prose complètes, vol. III, Gallimard, Paris 1992; tr. it., Cartesio e la filosofia cartesiana, Studium, Roma 2014, p. 174. 11.  «In questo laboratorio tanto singolare in cui si trasforma il mondo così considerato, il lavoro si fa a cottimo, ma (diviene, eviene, scorre) [sic] passa in tempo. Il lavoro si fa a cottimo con tutto ciò che questo implica e presuppone di frammentario, discontinuo, precario, esposto, orgoglioso, arrischiato, accidentale, libero, avventuroso, concorrenziale, umano, secolare, avventuroso, audax, ingegnoso, ambizioso, beneficiario, ellenico, fortuito, anche di fatale e insieme di industrioso, di odisseo e prometeico. […] L’avvenimento si fa a cottimo, imperturbabilmente, irrevocabilmente a cottimo» (Ch. Péguy, Texte posthume [1907], in Id., Œuvres en prose complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1988, p. 1493; testo messo in evidenza dall’acribia di F. Fédier, Regarder voir, Les Belles Lettres, Paris 1995, p. 115).

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in qualche modo l’eccede sempre. Ogni rivelazione si sottrae anche dall’essere disponibile allo sguardo di colui che la riceve. L’eccesso e l’indisponibilità indicano che la rivelazione non dipende dal mio sguardo (che peraltro non ne dubita neppure per un secondo), ma mi giunge da altrove. Certo, ogni percezione e ogni intuizione presuppongono un’origine esterna, ma in questi semplici casi la provenienza si esercita provvisoriamente, la maggior parte delle volte senza lasciare una traccia memorabile; a lungo andare essa viene dissipata e l’invisto finisce per essere riassorbito senza resto nel visibile finale, al punto che un’oggettivazione può a buon diritto eliminarlo interamente (anche e soprattutto nel riempimento noematico). Viceversa, un fenomeno può rivendicare per sé lo statuto di rivelazione soltanto se la conoscenza che se ne acquisisce, anziché eliminarlo, conferma (o rinforza) l’altrove da cui proviene. Sarà quindi necessario continuare a ricercare almeno la possibilità di indagare ancora più a fondo l’origine di un tale fenomeno di rivelazione, seguendo un’ermeneutica spesso complessa e mai completa. Contrariamente al fenomeno di diritto comune, che, secondo Immanuel Kant, per essere intelligibile ha bisogno di entrare in relazione con almeno un altro fenomeno, il fenomeno di rivelazione impone il suo isolamento e la sua irriducibilità a qualsiasi relazione o serializzazione – appare sempre senza genealogia, come una rottura originaria, come se si inaugurasse da sé (self madeshow), come un nuovo inizio che non è annunciato e che mai potrà essere sintetizzato o ripetuto. Probabilmente questo carattere fuori dal comune non può sfuggire dall’obiezione che domanda se ciò che emerge presentando l’aspetto di una rivelazione ne meriti realmente lo statuto o se un’indagine più dettagliata potrà piuttosto ricondurlo al comune ordine fenomenico, di fenomeni che sono sempre relativi gli uni agli altri. Non c’è alcun dubbio, e perché dovrebbe? Ma bisognerà almeno condurre il più lontano possibile questa indagine

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ermeneutica, per misurare fin dove si estenda l’altrove supposto inizialmente e – se per caso questo dovesse dissiparsi in ciò che è conosciuto – capire perché abbia resistito così a lungo.

Figura È tanto più possibile misurare da dove viene e fino a dove si estende l’altrove, quanto più esso emerge da un luogo qualunque e in qualsiasi momento, anche in modo banale. Come già rilevato per il gesto sportivo e per quello erotico, noti a tutti, l’altrove si impone a chiunque, senza eccezione, proprio perché non necessita di alcuna circostanza eccezionale per emergere. Esso adviene intrecciandosi alla trama ordinaria delle opere e dei giorni, sorprendente e fastidioso proprio perché appare dove non ce lo si aspetta. «È ritrovata! / Che? L’eternità. / È il mare che al sole / S’unirà!»12: questa eternità (per antonomasia ciò che non si dimentica, perché in essa non trascorre nulla) non ha tuttavia nulla di banale, qui non si tratta d’altro che di acqua e di luce: esse però si incontrano (come?), ecco l’altrove. Sono fatti insignificanti, sia che si tratti di una passante che appare e scompare (Baudelaire), dell’emergere di questa donna come un’apparizione (Flaubert), di una madeleine nel tè che risveglia il gusto di un tempo (Proust) o di una chiamata che risuona ma non proviene da nessuna parte (Samuele); sono insignificanti per uno spettatore distratto, ma colpiscono come un lampo decisivo colui al quale si destinano, colui che li percepisce destinati a sé; per lui quella tenue banalità risuona come un colpo del destino, che lo rivela a sé come poeta, amante, narratore o profeta. 12.  A. Rimbaud, Fame, in Id., Una stagione all’inferno, cit., p. 107.

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Può allora iniziare un’altra trama, perché da altrove si instaura un inizio: il fatto non passa più (rien ne va plus), ma rimane e si stabilisce definitivamente nell’indimenticabile, a tal punto strappa la banale tela di ciò che succede. L’apparizione da altrove risplende ancora di più sullo sfondo della banalità e ciò che non si dimentica rifulge per contrasto con tutto ciò che viene dimenticato. È quindi necessario che l’apparizione proveniente da altrove marchi la propria differenza tramite la sua modalità fenomenica: bisogna che la sua visibilità, anziché passare e dissolversi come nel caso degli altri fenomeni del flusso, dimori e rimanga. Ma quale dimora e quale riposo? Qui Friedrich Hölderlin è illuminante, grazie alle prime righe di In amabile azzurro, una poesia eccezionale per molti motivi: «In amabile azzurro fiorisce con il tetto metallico il campanile. Lo attornia garrire di rondini in volo, lo avvolge l’azzurro più toccante. Il sole lo sovrasta e colora le lamine, ma lassù nel vento quieta stride la bandiera. E se qualcuno poi scende quelle scale sotto la campana, è una vita nella quiete (ein stilles Leben), perché quando la figura è così isolata (abgesondert so sehr die Gestalt ist), allora dell’uomo emerge la plasmabilità (Bildsamkeit). Le finestre da cui risuonano le campane sono come porte sulla soglia della bellezza. Uno spirito grave emerge nell’intimo da ciò che è diverso. Ma purezza è anche bellezza». C’è la calma banalità di un campanile che si staglia nell’azzurro intenso di un cielo d’agosto, attorniato dal volo e dal grido degli uccelli, sotto al cigolio del giravento. In controluce, attraverso la cornice di una finestra del campanile, scende una forma umana, ed ecco che all’improvviso si disegna, si stabilisce ormai nettamente, nel chiaro contorno di una figura. Da quel momento questa figura non è più inscritta nel gruppo delle cose visibili, tra gli uccelli, l’edificio e il cielo; essa emerge e si aggiunge a quelli perché ne fuoriesce e se ne distacca (abgesondert), si tratta di una figura che si solleva, si staglia e si sorregge da sé

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(Gestalt)13. Più che di una semplice forma (Bild) si tratta della sua messa in forma, della sua formazione, la possibilità che ha una forma di realizzare la propria visibilità (Bildsamkeit). Infatti, l’uomo che scende i gradini nel campanile sale verso la sua forma, assumendo una figura. Egli impone la propria figura facendola accedere tramite se stessa alla visibilità: per vederla non era solo necessario che si inscrivesse nella cornice della finestra del campanile, ma anche che lo volesse e si distinguesse dal visibile abituale che l’attornia senza imprigionarla: la sua evidenza (enargeia) dipende dalla sua realizzazione (energeia). Si può appena tratteggiare questa figura, che si formalizza da sé, tanto è il suo imporsi d’autorità, «così semplici, sacre sono le immagini, che sovente di descriverle si teme». La figura si costituisce come un evento che non è realizzato da mano d’uomo (acheiropoïetos) perché emerge da altrove. Dal momento che la figura dipende dalla possibilità della sua messa in forma, non c’è spettatore che la possa definire o misurare; al contrario, è la possibilità della messa in forma che «dell’uomo è la misura». Se la misura di tale figura non proviene da colui che la vede, ma solo da essa stessa, allora vi si può riconoscere il nome proprio dell’altrove: la divinità, «ma l’ombra della notte con le stelle non è più pura, se posso dire, dell’uomo, che immagine della divinità è chiamato (der heißet ein Bild der Gottheit)»14. Sin dall’avvio della poesia, Hölderlin determina la singolarità del fenomeno di rivelazione, che appare provenendo da altrove, non come una rara eccezione rispetto al regime di visibilità,

13.  Gestalt proviene da stellen, porre, come Gestell, l’impalcatura. 14.  F. Hölderlin, In lieblicher Bläue; tr. it., In amabile azzurro, in Id., Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001, p. 347. Per un commento più completo cfr. J.-L. Marion, L’Idole et la distance. Cinq études, Grasset, Paris 1977; tr. it., L’idolo e la distanza. Cinque studi, Jaca Book, Milano 1979, § 8, pp. 89-97.

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ma come un’irruzione calma e serena che, nella sua banalità, lo trapassa e lo sovradetermina. La possibilità della forma istituisce una figura che viene da lei stessa normata, con nessun altro limite se non il proprio.

Mostrarsi, d(on)arsi Per comprendere che un tale fenomeno, indimenticabile, possa realizzarsi in sé, restando senza passare, rimane da capire che questo tipo di fenomeno può non solo rendere visibile l’invisto e rendersi visibile a partire da esso (come qualunque altro fenomeno che aggiunge al visibile che è già stato visto del nuovo visibile, fino ad allora invisto), ma anche rendere visibile un invisto che si mostra come tale e rimane così – a titolo di altrove da dove proviene questa rivelazione, di cui conserva la provenienza. Si può ammettere la possibilità di un tale privilegio? Probabilmente, purché non si consideri questo fenomeno (certo eccezionale) come un’eccezione rispetto alla fenomenicità comune (che viene supposta come normale e normativa), ma come la conferma della originaria definizione di ogni fenomeno in quanto tale. Ora, i gradi della manifestazione si misurano sulla scala dei gradi di donazione, quindi a proposito dei fenomeni non si deve solo dire che quanto più si esercita la riduzione, tanto più si compie la donazione, ma anche che quanto più si compie la donazione, tanto più si dispiega la manifestazione. Il primo di questi princìpi risulta dall’incrocio tra due osservazioni decisive: innanzitutto quella di Edmund Husserl, che stabilisce «che ogni intuizione originalmente offerente (originär gebende Anschauung) è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” (in der “Intuition” originär) […] è da assumere come esso di dà (als

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was es sich gibt), ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»15. Detto in altro modo: ciò che si mostra si mostra unicamente in quanto si d(on)a e quindi si riduce al d(on)ato in sé; segue l’osservazione di Martin Heidegger, che stabilisce che «fenomenologia significa dunque apophainesthai ta phainomena: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso»16. Detto altrimenti, ciò che si mostra deve mostrarsi a partire da sé e quindi in sé. I modi e i gradi di una tale manifestazione dipendono quindi direttamente dai modi e dai gradi della donazione in sé, perché l’intuizione che dà la cosa (o più esattamente l’intuizione tramite cui la cosa si dà e si mostra) non risponde ad altra misura che alla sua e non è vincolata da altri limiti (Schranken). Ciò implica che essa non si limiti (begrenzt) a ciò che di volta in volta i nostri concetti e i nostri conferimenti di senso potrebbero anticiparvi e prevederne; infatti, talvolta può e deve avvenire che alcuni fenomeni, quantomeno in un primo tempo, contrastino e mettano fuori gioco [déjouent]17 ciò che ci aspettiamo di ricevere. Ne segue un secondo principio: se (a parere di Kant) le condizioni

15.  E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo, Einaudi, Torino 2002, § 24, pp. 52-53. 16.  M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1927; tr. it., Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, § 7, p. 50. Per un’esposizione dettagliata di questo primo principio cfr. J.-L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997 (20134); tr. it., Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, libro I, pp. 3-85 e Id., Reprise du donné, PUF, Paris 2016, cap. I, pp. 19-58. 17.  Rendiamo il verbo déjouer con “mettere fuori gioco”, riproducendo la scelta di A. dell’Asta in J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 114. S. Bancalari, Logica dell’epochè. Per un’introduzione alla fenomenologia della religione, ETS, Pisa 2015, p. 275 riconosce lì un rimando diretto alla epochè husserliana, espressa con l’immagine “ausser Spiel setzen”; essa appare del tutto corrispondente a questa ulteriore occorrenza [n.d.t.].

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di possibilità dell’esperienza sono nello stesso tempo anche le condizioni di possibilità degli oggetti d’esperienza18, a rigore tale coincidenza riguarda solo gli oggetti, che vengono anche definiti come tali: fenomeni estranei a loro stessi, legati all’ego, come cose non in sé. Quindi, quando si tratta di cose che si danno e si mostrano in sé, per principio le loro condizioni di possibilità non coincidono mai con le condizioni di possibilità della nostra esperienza. Ciò vale per tutti i fenomeni (negativamente anche per gli oggetti) e consente sia di individuarli sia di gerarchizzarli. In questo modo si stabiliscono le distinzioni essenziali tra i fenomeni che si mostrano in quanto si danno e si riconducono al loro d(on)ato: innanzitutto la distinzione fondamentale tra oggetti ed eventi19, o tra fenomeni poveri, fenomeni di diritto comune e fenomeni saturi. Tra i fenomeni saturi aggiungiamo l’ipotesi dei fenomeni che combinano in sé parecchi o tutti i tipi di saturazione, nominati fenomeni di rivelazione20. Quindi, se si vuole concepire, anche solo in uno schizzo, una fenomenicità del tipo della rivelazione – della quale i caratteri sono già stati individuati (rivelarsi da altrove, preservando l’invisto nella sua stessa manifestazione, rivelarmi a me stesso come una novità, rivelarmi ad altri) – bisognerà arrivare a de-

18.  Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft; tr. it., Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, A 111, p. 1223. Detto altrimenti, «la rivelazione costituisce un vero e proprio rovesciamento nei confronti della conoscenza oggettivante» (E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 66, sottolineature di Lévinas). 19.  Cfr. J.-L. Marion, Certitudes négatives, Grasset, Paris 2010; tr. it., Certezze negative, Le Lettere, Firenze 2014, § 27, p. 241 e Id., Reprise du donné, cit., cap. IV, pp. 169-216. 20.  Su queste distinzioni cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., §§ 21‑24, pp. 246303; Id., De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, PUF, Paris 2001 (20102), cap. I, pp. 1-34 e Id., Il visibile e il rivelato, cit., cap. VI, pp. 131-168.

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terminarla in forma strettamente fenomenologica, in tutta la sua potente banalità.

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2 Il privilegio di una nozione: la Rivelazione

Numerosi eventi e molte manifestazioni, scelti tra quelli che non si dimenticano, lungo il fluire delle cose e secondo la prassi possono dunque venir chiamati fenomeni di rivelazione. Ne abbiamo appena tracciato qualche esempio, come il gesto sportivo e quello erotico, figure in cui si realizza la possibilità di una forma; tra i fenomeni saturi se ne possono però trovare molti altri, che seguono le dimensioni dell’invisto. Un amante può provare e far provare emozioni e sensazioni erotiche totalmente nuove che senza di lui sarebbero rimaste letteralmente intatte; un musicista può provare e far provare sensazioni ed emozioni relative all’inaudito (un suono puro, una melodia) che, senza la sua esecuzione, rimarrebbero non udibili; ugualmente il pittore e lo scultore possono rendere sensibile e visibile un invisto che sono i primi e ancora i soli a provare, un invisto che per loro tramite si aggiunge alla somma dei visibili fino allora invisibili. Lo stesso vale per l’invenzione di gusti e odori mai provati prima, rivelati da chef, viticoltori e “nasi”. L’abbondante banalità di tali fenomeni, che si rivelano e ci rivelano a noi stessi, si concede ancor più banalmente nei confronti dell’uso particolare e dominante del termine, quello secondo l’accezione religiosa.

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Soprattutto se dotato di maiuscola, il termine rivelazione è perlopiù confiscato da ciò che, in mancanza di meglio, per una discutibile convenzione, viene confuso sotto il titolo di “religioni”: secondo il significato più corrente vi è Rivelazione quando e quanto più si è in presenza di una religione e, ugualmente, c’è religione quando e quanto più si dà una Rivelazione. Forse nessun altro termine designa con uguale chiarezza la tanto strana pretesa – in quanto consiste nella stranezza medesima – di aver ricevuto da altrove la comunicazione di ciò che Dio in persona (o come lo si vorrà chiamare) ha (o avrebbe) voluto far conoscere del suo nome agli uomini. Infatti, tutti conoscono Dio almeno di nome, compresi coloro che credono di ignorarlo. Dunque la Rivelazione si fa a tal punto discriminante da corrispondere al criterio per antonomasia di distinzione tra le religioni: quelle che rivendicano una Rivelazione, parzialmente o totalmente consegnata in un testo, sono definite religioni stricto sensu, in opposizione a quelle che non pretendono di dipendere da una Rivelazione e quindi di solito si avvicinano piuttosto a forme di sapienza. Per quanto sommaria, questa distinzione definisce uno scarto essenziale che determina l’origine e quindi la finalità delle cosiddette religioni: o esse risultano dallo sforzo e dallo slancio dal basso (per così dire) dei loro devoti; o provengono per così dire dall’alto, cioè dalla divinità in persona, che definisce autonomamente la sua manifestazione nei confronti dei destinatari, resi testimoni, privilegiati per definizione e quindi distinti dal resto degli umani. Questo scarto separa coloro che credono al cielo da quelli che non vi credono perché apre all’idea di “cielo” – l’aperto per antonomasia, ciò che consente qualunque apparizione fenomenica, molto più del mondo (o anche il mondo, inteso dalla buona fenomenologia come l’insieme adveniente dei possibili). Che sia o meno effettiva e autentica, tramite la sua sola possibilità la Rivelazione apre a ogni possibile. Tra tutti i concetti che derivano da questo scarto è

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ora necessario soffermarsi su tre decisivi: il testimone, la resistenza e il paradosso.

Il testimone Le religioni che si definiscono rivelate hanno una strana caratteristica: contrariamente a ciò che solitamente si dice (quando si denuncia il presunto “fanatismo” dei credenti), non ipotizzano che i loro fedeli siano già subito guadagnati a ciò di cui si tratta nella loro (supposta) Rivelazione. Il carattere specifico e autentico della Rivelazione, al contrario, implica che ciò di cui si tratta (il rivelato) superi la misura degli sforzi fatti per riceverlo e l’ampiezza del desiderio di aderirvi. Certamente la Rivelazione ha sempre come obiettivo quello di colmare, tramite una visione finale, lo scarto tra ciò che si rivela e coloro ai quali si rivela, ma la sua intenzione e il suo effetto corrispondono innanzitutto a segnalare e addirittura ad approfondire tale scarto. Proprio perché manifesta ciò che va oltre la comune conoscenza, la Rivelazione implica che nessuno la possa mai percepire adeguatamente o ricevere secondo la sua misura propria. Del resto, se potesse farsi ricevere adeguatamente e senza resto, non si tratterebbe già più di una rivelazione (a fortiori ancor meno di una Rivelazione), ma della mera trasmissione pedagogica di un sapere accessibile in quanto tale, del quale non offrirebbe altro che un insegnamento provvisorio. Una Rivelazione merita questo titolo solo perché rimane incommensurabile per coloro che la accettano – se fosse accettata secondo la misura di questi ultimi, foss’anche di tutto cuore, non sarebbe ricevuta secondo la sua misura; invece, se venisse accettata come tale per principio, almeno in un primo tempo potrebbe essere solo mancata, negata fino a essere rinnegata, ben prima che il gallo canti tre volte.

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Ne consegue il primo concetto: il testimone. Nella routine quotidiana di ciò che avviene come evento banale e non come oggetto, un testimone è definito dallo scarto, da una parte tra ciò che ha visto e sentito, in breve ciò che ha sperimentato dell’incidente che, nel modo più veritiero e sincero possibile, può trasmettere ad altri tramite informazioni verificabili e dall’altra parte ciò che lui stesso può capirne o spiegare, il che la maggior parte delle volte gli risulta limitato, se non confuso, in quanto non è nella posizione teorica richiesta per ricostituire il contesto e lo svolgimento, quindi il senso di ciò che è advenuto. Quando l’evento si rivela, di fatto il testimone lo incontra, ma senza comprenderlo interamente; lo incontra tanto più indubitabilmente quanto meno lo comprende in modo completo; il testimone onesto innanzitutto dovrebbe dire sempre come il profeta Daniele: «udii, ma non compresi» (Dn 12,8, versione dei LXX). Il motivo è dato dal fatto che può avvenirgli di far intuire o comprendere di più ad altri, addirittura molto di più di quanto non capisca per suo conto. Più precisamente, riporta ad altri anche ciò che gli sfugge di ciò che, comunque, ha fatto esperienza, lasciando ad altri di cercare di capirne più di quanto non arrivi a fare lui stesso1. A fortiori, quando si tratta della Rivelazione, cioè dell’irrompere di Dio o della divinità, di ciò che «nessuno ha mai visto (oudeis eoraken popote)» (Gv 1,18 riprendendo Es 33,20-23), il testimone si scopre perso in tale scarto in misura maggiore. In fondo, nessuno quanto il testimone è consapevole di non comprendere ciò che comunque ha visto (eventualmente visto senza vedere, secondo il senso abituale di una visione che possiede ciò che percepisce); egli ne ha tanto più consapevo-

1.  Così, quando interroga il testimone, l’inquirente può comprendere ben più di quanto costui non dica, perché conosce l’insieme dell’affare, incrocia le informazioni e confronta i rapporti; cfr. già J.-L. Marion, Dato che, cit., § 22, pp. 261-272.

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lezza quanto più capisce che si tratta di contemplare niente di meno che «l’icona del Dio invisibile» (Col 1,15) e «l’irradiazione della sua gloria» (Eb 1,3). Stranamente, ciò che qualifica il testimone come autentico e credibile riguarda il fatto che egli sa, meglio di chiunque altro, di aver visto e sentito ciò che non può e spesso non deve realmente comprendere. Un episodio del vangelo di Giovanni presenta perfettamente questa situazione ermeneutica: quando un cieco nato ottiene la vista, dopo che Cristo gli ha spalmato gli occhi con fango e saliva e l’ha mandato a lavarsi alla piscina di Siloe, gli viene chiesto se sia proprio lui, cieco dalla nascita, a essere stato guarito; egli non ne dubita nemmeno per un istante: «sono proprio io» (Gv 9,9) e, quando gli viene chiesto chi l’abbia guarito, conferma che è stato proprio «l’uomo chiamato Gesù» a guarirlo (Gv 9,11, cfr. Gv 9,15), perché gli è possibile testimoniare quel fatto. Tuttavia, quando si pone la questione di sapere «dove è» («da dove viene», Gv 9,29), in quanto testimone non può saperlo, così risponde proprio «non lo so (ouk oida)» (Gv 9,12)2, mentre sa molto bene di essere stato guarito: «ciò che so (ho hoida), è che ero cieco, mentre ora vedo» (Gv 9,25); egli non sa né pretende di sapere come, né grazie a chi, sia diventato vedente. Nuovamente, in questo caso il testimone conosce ciò che conosce, senza però poter spiegare adeguatamente ciò di cui in ogni caso non dubita per nulla, che anzi può confermare anche a costo di eventuali rappresaglie. Ora, proprio perché si espone in favore di ciò che non comprende, rende testimo2.  Si consideri la risposta formalmente ineccepibile dei genitori, che forse sono terrorizzati dall’inchiesta: «sappiamo (oidamen) che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo (ouk oidamen), e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo (ouk oidamen)» (Gv 9,20‑21). Lo stesso succede con il paralitico della piscina di Betzatà “la piscina con cinque portici”: «gli domandarono allora: “Chi è l’uomo che ti ha detto ‘Prendi e cammina?’”. Ma colui che era stato guarito non sapeva (ouk êdei) chi fosse» (Gv 5,12‑13).

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nianza in un modo epistemologicamente corretto all’invisibile in quanto tale, dunque all’inconcepibile in quanto tale, rispetto al quale si scopre esposto senza averlo voluto. In un certo senso il testimone testimonia sempre malgrado la sua incomprensione o, piuttosto, testimoniando suo malgrado testimonia correttamente, per mezzo della sua stessa incomprensione. In un secondo momento il cieco nato, che ora vede, oltrepassa certo la soglia sulla quale si fermavano i suoi genitori: «riconoscerlo (omologein) [Gesù] come il Cristo» (Gv 9,22); anche se non ancora completamente davanti ai farisei: «se sia un peccatore, non lo so (ouk oida). Una cosa io so (hen oida): ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25), qui conserva ancora la postura rigorosa del testimone, si attiene ai fatti senza pretendere di comprenderli. Sono i farisei che, senza volerlo, tramite le loro accuse lo spingono a diventare non solo testimone, ma credente: «suo discepolo sei tu!» (Gv 9,28), ma lo fanno definendo anche lo scarto tra testimone e discepolo, dal momento che loro stessi lo vogliono distruggere; essi infatti affermano di comprendere chiaramente il significato del segno, quindi quello di Cristo: «suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo (oidamen) che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia (ouk oidamen pothen estin)» (Gv 9,29). Eppure, lo pretendono a torto, perché «non sanno» ciò che immaginano di capire chiaramente, come ribatte loro il cieco nato, che è ancora testimone, ma consapevole del fatto che essi non sanno: «proprio questo stupisce (thaumaston): che voi non sapete (ouk oidate) di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo (oidamen) che Dio non ascolta i peccatori» (Gv 9,30-31). La sua ultima replica illustra perfettamente la postura del testimone: è un fatto che «non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato» (Gv 9,32), anche se già emerge l’interpretazione da credente, che gli consente di comprendere correttamente il significato del segno: «se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far

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nulla» (Gv 9,33). Solo una volta «cacciato» (Gv 9,34) dai farisei, quindi liberato della falsa comprensione del fatto, credendo, il testimone può accedere al significato corretto o, piuttosto, lo riceve da altrove, da Gesù che lo chiama e, per una volta, si identifica con il Figlio dell’uomo: «lo hai visto: è colui che parla con te. […] Credo, Signore» (Gv 9,37-38). Per vedere veramente il testimone non solo deve testimoniare che ha visto, ma deve anche credere in colui che l’ha fatto vedere. Non è sufficiente vedere per comprendere, per conoscere bisogna amare: «egnorisa humin» (Gv 15,15). Da questo momento la visione si ribalta: per vedere non è sufficiente vedere come fa un testimone fiducioso (il cieco nato) o respingente (i farisei), perché il testimone non comprende tutto ciò che vede; per vedere, bisogna credere: «è per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39). Il testimone non pretende di capire da sé ciò che vede, ma lo attende da ciò che si dà a vedere3. Si determina così una prima caratteristica, comune a ogni Rivelazione: essa non si manifesta tramite una conoscenza realizzata per comprensione, ma tramite il riconoscimento dell’incomprensibilità: non si lascia mai ricondurre, né immediatamente né probabilmente, a una piena intelligibilità che dipende dalla nostra razionalità e segue un’ermeneutica 3.  Sulla logica di questo racconto cfr. Duke, che lo struttura perfettamente in sette momenti che si richiamano a due a due: (1) 9,1‑7, Gesù e il cieco: cecità naturale = (7) 9,39‑41, Gesù e i farisei: cecità spirituale; (2) 9,8‑12, il cieco guarito e i vicini: l’identità di Gesù = (6) 9,35‑38, Gesù e il cieco guarito: Gesù e il Figlio dell’uomo; (3) 9,13‑17, il cieco guarito e i farisei: Gesù viene da Dio? = (5) 9,24‑34, Gesù viene da Dio. Queste tre coppie confluiscono in (4) 9,18‑22, al momento del confronto tra i genitori del cieco guarito e i farisei, a proposito dell’indiscutibile miracolo (P.D. Duke, Irony in the Fourth Gospel, John Knox Publishing, Atlanta 1985, in part. pp. 126 ss.); sul testimone cfr. anche infra, cap. 14.

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finita, al contrario si espone grazie al non-sapere (al contempo certo) del testimone, colui che accetta di capire da altrove.

Resistenza C’è di più. Lo stesso episodio del cieco nato portato alla vista suggerisce un’altra dimensione della Rivelazione: oltre alla sicura incomprensione del testimone, una Rivelazione implica sempre la sua resistenza4. All’occorrenza qui è il rifiuto – da parte di scribi e farisei, sapienti che sanno, che sanno di sapere e non vogliono sapere altro – di comprendere ciò che vedono. Nel caso specifico non solo non ammettono che Gesù sia il Messia, ma, prima di tutto, seguendo la logica, non possono ammettere lo scarto netto implicato da ogni testimonianza, dove qualcuno fa rapporto di ciò che certamente non può capire totalmente, al limite di ciò che tutti, anche i sapienti, possono comprendere solo a partire e in continuità con ciò che si sa da sempre, ciò che è di scienza certa. Poiché inizialmente rifiutano questo altrove, successivamente i sapienti rifiutano anche la testimonianza certa dell’incomprensibile, al fine di poter conservare ciò che comprendono, anche se questa comprensione contraddice ciò che un testimone vede con certezza; quindi si attengono letteralmente alla tradizione umana: «noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo (oidamen) che a Mosè ha parlato Dio» (Gv 9,28-29). Essi anticipano tutti i «filosofi e sapienti» successivi, che comprendono ciò che ne è di Dio, ingannati e confermati dalla «filosofia e dai vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana» (Col 2,8). Pensano che Dio pensi sempre come loro, per esempio che Dio creando il mondo se-

4.  Su questo concetto cfr. J.-L. Marion, De surcroît, cit., cap. II, § 5, pp. 58 ss.

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gua i princìpi della geometria, perché in qualunque situazione dovrebbe calcolare come noi; che rispetti scrupolosamente le esigenze della nostra logica (della metafisica), come i princìpi di identità e di ragion sufficiente; ancora, che Dio si adegui senza riserve alla funzione di legislatore morale richiesta dal nostro mondo. «Filosofi e sapienti», saggi e scribi, ne sanno a sufficienza per capire ciò che deve essere pensato di Dio; anche quando un testimone gli assicura l’incomprensibilità di Dio ne sanno sempre abbastanza per poterne non sapere nulla: tutte le volte il testimone viene cacciato (Gv 9,34). Allo scarto intrinseco del testimone (il suo sapere certo senza comprensione) si aggiunge un rifiuto che non ha più nulla di soggettivo, facoltativo o aneddotico, ma risulta dall’incommensurabilità specifica di ogni Rivelazione – la resistenza. La resistenza dipende da ciò che per una Rivelazione non è mai immediatamente preparato, favorevole o acquisito, ma dipende dal fatto che chiunque – quantomeno in un primo tempo – vi si oppone, perché ridefinisce l’intero campo di possibilità. È tipico della Rivelazione di apparire in quanto tale intollerabile e irricevibile, proprio perché si dà come assoluta e quindi, ai nostri occhi, secondo la nostra concezione, sembra intollerante, perciò intollerabile. Di conseguenza, il carattere rivelato di una religione, nell’esatta misura per cui la Rivelazione (come già ogni rivelazione) proviene da altrove, gli conferisce un privilegio che in realtà è assai ambiguo, e talvolta può trasformarsi in un segno infamante: essa può certo rivendicare un’autorità estranea e presumibilmente superiore alla condizione umana, ma sono proprio estraneità e superiorità a suscitare la resistenza, nella misura ammissibile dagli eventuali recettori del suo annuncio5. Una tale prova dell’altrove 5.  Il credente «deve lasciarsi iniziare, attraverso l’estroversione, alla forma storica di Dio, nella estroversione fondamentale a Dio dell’atteggiamento di fede» (H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik,

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deve pertanto essere equilibrata tramite la moltiplicazione dei testimoni, perché nessuno di loro può fornire l’esatta ed esclusiva comprensione di ciò che testimonia, né deve fingere di abolire lo scarto intrinseco tra sé e la testimonianza. Se Rivelazione ci deve essere, non può mai venire da uno solo. Anche nella persona di Cristo che testimonia in nome del Padre («sono io che do testimonianza di me stesso»6) la testimonianza si appoggia sul suo riconoscimento della volontà del Padre e sulla conferma pasquale fatta dal Padre. Lo scarto della testimonianza rimane, ma è convalidato da lì, quindi nella stessa Trinità. A fortiori, per tutti gli altri testimoni, che sono uomini, lo scarto non scompare mai; ne consegue la necessità fenomenica di una pluralità di testimonianze. Il Primo Testamento lo instaura e lo sottolinea in abbondanza e il Nuovo Testamento riposa sull’«apparente discordanza dei vangeli» (Pascal7). Soltanto l’effetto della profondità, che aumenta il divario delle testimonianze, è in grado di mantenere lo scarto e, in particolare, di consentire la custodia dell’altrove donde proviene il senso dei segni, letteralmente la Rivelazione. Potrebbe darsi allora che la pretesa di ridurre la testimonianza a uno solo (come quella del profeta nel Corano), ben lungi dal suggellarla, in realtà impedisca la Rivelazione, perché secondo il principio stabilito da Dionigi «rimane occulto anche dopo la sua manifestazione, o, per parlare più divinamente, nella sua Bd. I, Schau der Gestalt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961; tr. it., Gloria. Una estetica teologica, vol. I, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 167). 6.  Gv 8,18. Così, poiché «non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato» (Gv 8,16), si conferma il principio per cui «nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera» (Gv 8,17). Lo scarto tra il testimone e ciò che mira rimane sempre nel nostro mondo, ma trinitariamente è superato dalla comunione di Cristo come Figlio con il Padre. 7.  B. Pascal, Pensées; tr. it., Pensieri, in Id., Opere complete, Bompiani, Milano 2020, pp. 2279-2469: n. 349, p. 2447.

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stessa manifestazione […] anche quando se ne parla, rimane ineffabile, e quando si pensa rimane ignoto»8. Quantomeno a partire da David Hume (infra, cap. 6) è noto che questa resistenza si concentra sulla discussione relativa a prove e criteri di autenticità del “miracolo”, cioè di ogni Rivelazione. Come l’esperienza dimostra in abbondanza, però, l’eventuale autenticità di una rivelazione, lungi dall’attenuare la resistenza che suscita, al contrario la accresce: sarebbe tanto più conveniente resistere alla Rivelazione quanto più essa appare credibile e affidabile, al punto che resistergli seriamente corrisponde perlopiù a resistere all’evidenza. Ne risulta una situazione abbastanza particolare: se non si tratta d’altro che di una supposta Rivelazione, di un’impostura, il cuore del conflitto scomparirà subito e con esso scomparirà anche la resistenza, tutto rientrerà nell’ordine di un’immanenza tranquilla e risolta; invece, se la Rivelazione supera i sospetti relativi alla sua origine e riesce ad attestare la sua autenticità, allora la resistenza conseguente alla sua ricezione aumenta proporzionalmente: niente suscita maggiore resistenza alla Rivelazione della sua eventuale autenticità. Il testimone lo sa per esperienza, resistenza e Rivelazione procedono di pari passo: posto che una resistenza al carattere rivelato di una religione non è sufficiente per renderla autentica, la sua ricezione senza resistenza sarebbe però sufficiente a squalificarla come religione rivelata. Sul piano soggettivo la resistenza indica il grado di invisto e la profondità dell’altrove della Rivelazione. Ormai riconosciuta come suo carattere intrinseco, la resistenza spiega che ogni Rivelazione può (e in un certo senso deve) suscitare un conflitto. Tale conflitto, del resto, si moltiplica: dapprima emerge il conflitto tra la Rivelazione e il suo testimone, sorpreso,

8.  Dionigi Areopagita, Lettera III. Allo stesso Monaco Gaio, in Id., Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, p. 631.

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sovvertito e dilaniato tra certezza e incomprensione; accade un secondo conflitto tra i testimoni che ricevono la Rivelazione e i sapienti che la rifiutano; si aggiunge un terzo conflitto tra i testimoni diretti e gli altri, legati alla stessa Rivelazione, ma obbligati a rimettersi ai primi testimoni, ai loro scritti e alle loro tradizioni «perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto (me idontes) e hanno creduto» (Gv 20,29). Infine, c’è il conflitto tra i testimoni di differenti religioni supposte come rivelate, che vengono immaginate in concorrenza, o tra le concorrenti interpretazioni di una stessa Rivelazione. In breve: senza questi conflitti e senza la resistenza donde provengono e che declinano in molteplici sensi, non ci sarebbe la possibilità stessa della Rivelazione. Bisogna quindi ammettere che nessuna Rivelazione può manifestarsi senza pericolo: «non pensiate che sia venuto a portare la pace» (Mt 10,34). Forse ciò che salva cresce quando cresce il pericolo, ma la salvezza stessa mette in pericolo, perché modifica qualunque concezione delle cose. Non rimane altro da fare che far buon uso di un buon pericolo – quello che non si può evitare e la cui esperienza libera la verità. La resistenza così definita trova la sua migliore illustrazione nel conflitto che oppone le leggi della metafisica alla legittimità di una religione rivelata, quale che sia. Ecco la questione: se vengono loro assegnate due fonti tanto eterogenee come la metafisica e la Rivelazione, quale intelligibilità comune, o piuttosto, quale razionalità (universale per definizione) in materia di religione (e di morale) si potrà mantenere? Per risolvere questa aporia la storia della filosofia e della teologia mostra che sono state tentate due tattiche: o ammettere di fatto la conseguenza imposta di diritto dall’eterogeneità delle due fonti, quindi squalificare uno dei due termini – o conoscenza senza rivelazione, o conoscenza per rivelazione della divinità, dal momento che la prima cade sotto l’accusa di empietà, idolatria, ateismo, ecc. e la seconda sotto quella di illusione,

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irrazionalità, fanatismo, ecc.; oppure, ristabilire una minima continuità, anche se forzata, tra le due istanze: la Rivelazione viene sì da altrove, ma non fa altro che formulare senza concetto ciò che la ragione stessa finisce per dire tramite il concetto (o, inversamente: la Rivelazione ripete senza concetto ciò che la ragione già diceva tramite il concetto); la Rivelazione si limiterà allora a rendere accessibile tramite altri mezzi ciò che la ragione sa già, o saprà presto. Non si tratta d’altro che di riassunti pedagogicamente più efficaci, che però ignorano la ragione degli effetti; seguendo questo metodo un tempo si è voluto rendere ragionevole il cristianesimo, intendendo che, forse per Rivelazione, non avrebbe detto nient’altro che ciò che la coscienza umana conosceva già, anche se confusamente, per pura ragione9. Non c’è alcun dubbio circa il fatto che entrambe le tattiche risultino sempre fallimentari, ma l’essenziale riguarda l’unico motivo del loro doppio fallimento: un pensiero della Rivelazione, se pretende di avere un senso e quindi di produrre concetti, deve assumere lo scarto rispetto alla razionalità comune che sta per sovvertire o completare. Detto altrimenti: dovrebbe dimostrare una razionalità compatibile con la razionalità senza rivelazione e insieme da essa risolutamente distinta. Nessun concetto di Rivelazione può imporsi senza risultare – in una certa maniera problematica ma necessaria – come una Rivelazione nel concetto, che pertanto non può dissolversi nella logica comune del concetto. In altri termini, un esatto concetto di Rivelazione deve rimanere un concetto, anche e soprattutto se

9.  In questo caso è esemplare il tentativo di J. Locke, The Reasonableness of Christianity, London 1695 (16962); tr. it., La ragionevolezza del cristianesimo, La Nuova Italia, Firenze 1976, come confermano Id., A Vindication of the Reasonableness of Christianity, London 1696 e Id., A Second Vindication of the Reasonableness of Christianity, London 1697 (cfr. l’edizione a cura di V. Nuovo, Clarendon Press, Oxford 2012).

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contraddice ciò che il concetto può concepire da sé, secondo la logica comune (altrimenti detto nella metafisica). Cercando di superare la «filosofia negativa» con la «filosofia positiva», Friedrich W.J. Schelling definisce con chiarezza ciò che, quando si pretende di restare nella metafisica (l’unica, quella dell’Illuminismo), rende la Rivelazione un’ipotesi inutile e un concetto vuoto: «se la Rivelazione contenesse unicamente ciò che è nella ragione, essa non avrebbe alcun interesse; il suo specifico interesse può veramente consistere solo nella circostanza che essa contenga qualcosa che va oltre la ragione, che è più di ciò che la ragione contiene. […] Non varrebbe di fatto la pena di occuparsi della Rivelazione, se essa non fosse qualcosa di particolare, se essa contenesse soltanto ciò che si ha già senza di essa»10. Rimane il fatto che questo superamento ha senso concettualmente solo se la Rivelazione – anche quando oltrepassa i supposti limiti della razionalità – è ancora in grado di conoscere. Quindi, quale ragione altra, venuta da quale altrove, può decidere per il superamento dei limiti della razionalità? Una volta oltrepassati tali limiti, quale ragione potrà assicurare che si stia ancora pensando razionalmente? In questo caso, questa ragione altra conserva una certa univocità rispetto alla razionalità che dice di sorpassare? René Descartes ha mostrato che il pensiero della finitezza dipende dal concetto dell’infinito, per quanto ciò possa apparire strano alla ragione. Potrebbe darsi, reciprocamente, che pensare una Rivelazione che soprassa la ragione richieda ancora una razionalità per questo superamento. Sarebbe necessario un concetto di Rivelazione che non contraddica né il concetto né la Rivelazione. Lo si può pensare?

10.  F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung; tr. it., Filosofia della rivelazione (secondo l’edizione postuma del 1858 curata da Karl Friedrich August Schelling), Bompiani, Milano 2002, Lezione VII, pp. 235 e 237.

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Il paradosso La questione dei limiti non si può ridurre a una questione di frontiera, marginale. Infatti, le questioni sulle frontiere (Grenzfragen) non riguardano tanto le frontiere della razionalità (che per definizione sono variabili) quanto le questioni razionali, che tuttavia rimangono ancora (o saranno per sempre) senza risposta, dal momento che la loro risposta si troverebbe dall’altro lato della frontiera, semmai al di là della frontiera che definisce l’esperienza possibile, quella degli oggetti dati per intuizione, sensibile (Kant) o categoriale (Husserl). Alla questione-frontiera risponde, al più, solo un ideale della ragione, oggetto di un’idea che non si darà mai nell’esperienza sensibile; questo ideale ha probabilmente un ruolo legittimo, a titolo di bisogno della ragione, cui mira senza realizzarlo né incarnarlo, ma questo ideale non incrementa per nulla l’attuale campo della conoscenza razionale. Il paradosso – che realizza il passaggio al limite del concetto – si oppone alla questione di frontiera, conosciuta e dotata di senso, senza che però vi corrisponda alcuna risposta razionalmente verificabile. Mallarmé definisce questo passaggio al limite come se «portando ai suoi confini un’idea, dovesse poi esplodervi in forma paradossale»11. Detto altrimenti: in quanto tale il «paradosso inconcepibile (unausdenkbares Paradox)»12 continua a spingere la logica al suo limite. Il paradosso non deve essere confuso con la contraddizione o con il non senso, definibili in seguito al fallimento o all’assenza della logica, né con ciò che in filosofia è comunemente definito come paradosso (i cretesi che affermano che tutti i cretesi mentono), dove è in gioco un’indecidibilità che risulta dall’autoreferenza di colui che parla su 11.  S. Mallarmé, Quant au livre, in Id., Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 2003; tr. it., Quanto al libro, in Id., Opere. Poemi in prosa e opera critica, Lerici editori, Milano 1963, p. 273. 12.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 425.

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ciò che dice, ancora una volta un errore logico (di logica delle classi). Viceversa, il «para-dosso è ciò che si oppone al concetto precedentemente stabilito, alla doxa e all’attesa che ne risulta. La contraddizione al contrario è ciò che si autocontraddice»13. Il paradosso, quindi, mostra certo qualcosa e, in questo senso, compie un’operazione razionale e intelligibile, ma ciò che mostra non è comprensibile o non è ancora comprensibile, in quanto si oppone a ciò che la doxa (ciò che in anticipo si conosce già molto bene) consente di comprendere. Pertanto, esso mette in dubbio l’orizzonte della razionalità che fino allora era ritenuta definita e definitiva. Per approcciare l’originalità del paradosso è possibile avanzare in due tappe: innanzitutto constatando che il paradosso – lungi dall’esprimere una questione costruita senza razionalità, alla quale non corrisponde alcun oggetto constatabile – mette in crisi i limiti e le condizioni della razionalità, che, ritenendosi capace di conoscere, pretende di comprendere. In questo caso ci si dovrebbe lasciar ispirare dall’esempio degli autentici filosofi: per restare fedeli al concetto e alla cosa stessa non hanno alcuna remora a rovesciare la logica comune tramite paradossi radicali; di conseguenza per essere è necessario pensare e non

13.  J. Simon, Das philosophische Paradoxon, in P. Geyer - R. Hagenbüchel (hrsg.), Das Paradox. Eine Herausforderung des abendländischen Denkens, Stauffenburg Verlag, Tübingen 1992, pp. 45-60: p. 46, che illustra i due criteri di autoreferenza e di indecidibilità e conclude: «per tale ragione quelli che sono definiti “paradossi logici”, nella misura in cui è per principio e non in virtù di un potere di illuminazione soggettivo e limitato, cioè quelli che non si lasciano risolvere, non sono autentici paradossi. In pratica non irritano nessuno» (ivi, p. 47); di fatto il paradosso, lungi dal restare inintelligibile, lo è a tal punto da irritare; gli uditori di Socrate e soprattutto quelli di Gesù ne fanno un’esperienza considerevole. Cfr. anche H. Schröer, Das Paradox als Kategorie systematischer Theologie, in P. Geyer - R. Hagenbüchel (hrsg.), op. cit., pp. 61-70. Ritorneremo sulla questione del paradosso nella situazione di Rivelazione, cfr. infra, cap. 10.

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il contrario, come era del tutto naturale prima di Descartes, perché in realtà l’atto di pensiero precede l’atto d’essere e ne offre la prima occorrenza dal punto di vista dell’ego, punto di vista che ormai è originario. Il tempo e lo spazio dipendono quindi dalla mente come forme della sua intuizione e non il contrario, come era abituale prima di Kant, in quanto l’esperienza si regola sull’Io penso, la cui finitezza è ormai diventata originaria. L’essere si definisce poi a partire dalle accezioni del tempo e non il contrario, come era normale prima di Heidegger, in quanto solo i modi della temporalità consentono di distinguere i modi d’essere delle differenti regioni dell’ente, seguendo i caratteri del Dasein, ormai il solo ente significativo. A partire da questi esempi è opportuno rileggere il celebre paradosso di Tertulliano, quasi sempre interpretato come un controsenso: «cruxifixus est Dei filius; non pudet quia pudendum – il Figlio di Dio è stato crocifisso: non mi vergogno, proprio perché c’è da vergognarsi. Et mortuus Dei filius: credibile est quia ineptum est – il Figlio di Dio è anche morto: è cosa credibile, proprio perché inadeguata. Et sepultus resurrexit: certum est quia impossibile»14. Questa argomentazione

14.  Tertulliano, De Carne Christi; tr. it., La carne di Cristo, ESC-ESD, Bologna 2015, V, 4, pp. 133-135. È da deplorare il fatto che anche un traduttore insigne come J.-P. Mahé, nell’edizione di SC (Cerf, Paris 1975), mantenga l’assurdità della traduzione di ineptum con assurdo. Infatti, la grande maggioranza dei lettori (e soprattutto dei non lettori) di Tertulliano rimandano a un presunto credo quia absurdum: così Karl Jaspers che lo esclude (K. Jaspers, Der philosophische Glaube, Piper, München 1948; tr. it., La fede filosofica davanti alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 124) e Barth che l’approva («la parola di Dio, se rettamente annunciata, deve sempre precedere a una certa distanza tutte le altre parole, perciò l’invio del Figliuolo di Dio deve essere descritto soltanto in fortissime negazioni, deve essere annunciato soltanto come paradosso, concepito soltanto come un absurdum che è come tale credibile – nur als das Absurdum, das als solches das credibile ist» (K. Barth, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1978, p. 259). Infatti, non si tratta qui di absurdum ma di ineptum, che in

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funziona grazie a un semplice principio ermeneutico, assai noto tra gli esegeti: un testimone che mente non riferirà mai fatti assurdi e quindi non credibili; piuttosto, per accrescere la credibilità della sua falsa testimonianza, sceglierà di rimanere nei confini del verosimile; quindi se un testimone dà testimonianza di fatti eccessivi, inverosimili o apparentemente impossibili bisogna presumere che per certi versi stia testimoniando contro il suo interesse, cioè in modo disinteressato, avvicinandosi a ciò che ha visto o creduto di vedere. Evidentemente la vergogna provocata dalla crocifissione contraddice a tal punto la nostra immagine della divinità che, se alcuni testimoni la affermano (o addirittura, come Paolo o Ignazio di Antiochia, se ne vantano), significa che non è più necessario arrossirne (pudendum). La condanna a morte del figlio di Dio è tanto poco (ineptum) confacente alla nostra immagine della divinità che è necessario credere a testimoni che non hanno avuto altra scelta che riportarla come un fatto. Un morto che resuscita sembra per principio impossibile (impossibile) per la nostra rappresentazione del possibile, quindi se ne deve concludere che i testimoni hanno dovuto arrendersi ad attestare l’impossibile, nonostante avessero la quasi certezza che fosse impossibile convincere di ciò e che poi, al contrario, hanno voluto manifestare una razionalità altra, secondo la quale ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio e a lui solo: «nulla

latino ha sempre significato solo «ciò che non è appropriato, fuori posto, maldestro, sinistro, impertinente» (F. Gaffiot, Dictionnaire latin-français, Hachette, Paris 1934, s.v.). L’assurda persistenza lungo i secoli e le biblioteche di questo absurdum, sotto penne ritenute autorevoli, ha qualcosa di terrificante. Il controsenso, tanto ampiamente esteso sul preteso credo quia absurdum ha comunque trovato una confutazione definitiva grazie a B. Williams, Tertullian’s paradox, in A. Flew - A. MacIntyre (eds.), New Essays in Philosophical Theology, SCM Press, Oxford 1955, pp. 187-211: p. 190, che conclude che «le persone che si espongono ai paradossi sono in una posizione autorevole».

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è impossibile a Dio»15. Di diritto i tre paradossi si appoggiano sull’ultimo argomento: i fatti di cui i cristiani rendono testimonianza meritano una doppia considerazione: innanzitutto perché sviluppano la logica ermeneutica della testimonianza e poi, soprattutto, perché per diventare completamente intelligibili si richiamano a un cambiamento di paradigma a proposito del possibile, paradigma che è certo radicale ma anche razionale: la possibilità definita a partire dalla nostra finitezza si inscrive e si rovescia in una possibilità secondo l’infinito di Dio. Dal nostro punto di vista ciò significa rovesciarsi nell’impossibile, quindi il paradosso insiste logicamente sullo scarto intrinseco alla testimonianza. Passando ora alla teologia si può dire inoltre che cambiando il paradigma della razionalità (dal possibile all’impossibile) il paradosso formula una risposta molto intelligibile, perfettamente razionale e satura di molteplici sensi, a una questione che finora non è stata formulata né posta esplicitamente e la cui razionalità non è stata ancora concepita. Più precisamente, il paradosso conduce a pensare la traccia di una risposta escatologica, innanzitutto rispetto a qualsiasi questione che l’avrebbe preparata o anticipata – risposta senza questione, risposta percepita chiaramente per una questione non ancora vista. Nel paradosso non manca la risposta, ma il senso della domanda. La conferma è data, tra gli altri, da Gilberto Porretano: «in qualunque facoltà, ma soprattutto in quella di teologia, sono rari i segreti della sapienza che vengono conosciuti. Ma, dal momento che la gloria della loro dignità suscita l’ammirazione dei filosofi, anche dei più grandi, li hanno denominati “paradossi”»16. Questa definizione indica inoltre la vera posta 15.  Lc 1,37 (che cita Gn 18,14) e Mt 19,26; su questo punto cfr. J.-L. Marion, Certezze negative, cit., §§ 11‑13, pp. 109-125. 16.  «Haec igitur sunt sapientia in qualibet facultate, sed maxime in theologia, pauca nota ecreta. Quorum, quia gloria dignitatis summorum etiam

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in gioco del paradosso, corrispondente a un’esigenza specifica della teologia, secondo una regola enunciata da Guglielmo da Saint-Thierry: «quando si tratta di Dio con parole, i significati delle parole devono adattarsi alle cose, e non viceversa»17. In generale – e in teologia in particolar modo – il paradosso nasce dell’anteriorità della risposta sulla domanda – l’enunciato risponde a una domanda che il testimone non può ancora concepire. Quando considerano con serietà la Rivelazione, i teologi radicalizzano o dovrebbero radicalizzare questa postura: anche la logica comune deve essere rivista secondo le esigenze della automanifestazione di Dio, tale manifestazione diverrà allora tanto più razionale quanto più sarà accolta da una questione alla sua altezza e secondo la sua misura – almeno parzialmente – come una risposta subito definitiva. Il paradosso, all’occorrenza il paradosso dato dalla Rivelazione, cerca infatti di far scoprire la questione di cui già enuncia la risposta, aggiungendo all’apparente conflitto logico una seconda istanza, più essenziale; lo fa a partire dal suo modo proprio – certo particolare – di apparire: il para-dosso designa sempre e innanzitutto un’apparizione che si distacca (o almeno sembra distaccarsi) da se stessa, o almeno da ciò che noi ci attendiamo di vedere e sentire; solo se questo scarto oltrepassa ciò che noi possiamo considerare evita di degradarsi in semplice apparenza. Per intenderlo meglio si può leggere l’unico testo del Nuovo Testamento che offre un’occorrenza

philosophorum trahit admirationem, ab ipsis “paradoxa” vocantur» (Gilberto Porretano, Expositio in Boethii librum de bonorum hebdomade, PL 64, prologus, § 9, col. 1313d). Si vedano le indicazioni in J.-L. Marion, Dato che, cit., § 23, pp. 277 ss. 17.  «Idcirco cum de Deo verbis agitur, rationes verborum rebus coaptandae sunt, non ille illis» (Guglielmo di Saint-Thierry, Aenigma Fidei; tr. it., L’enigma della fede, in Id., Opere, vol. I, Città Nuova, Roma 1993, pp. 121192: § 64, p. 167).

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di paradosso: «tutti furono colti da stupore (ekstasis elaben apantas) e davano gloria (edoxazon) a Dio, pieni di timore (phobon) dicevano: “Oggi abbiamo visto paradossi [cose prodigiose] (paradoxa)» (Lc 5,26)18. Di quale paradosso si tratta? Si tratta, insieme, di enunciati a noi incomprensibili e di atti che vanno oltre ciò che per noi è possibile. Tutto dipende dalla guarigione di un paralitico, ma questa resta un semplice segno, segno della risposta data al malato che voleva assolutamente appellarsi a Gesù (al punto da far calare la sua barella tramite corde da un’apertura realizzata nel tetto della casa). Ora, la risposta di Gesù alla questione non consiste in primo luogo nella guarigione, ma nella remissione dei peccati: «vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (Lc 5,20). Gesù sostituisce alla richiesta esplicita del malato (la domanda di guarigione) un’altra questione (la domanda di remissione dei peccati), che non era stata posta. «Scribi e i farisei» non si sbagliano a proposito della sostituzione di una questione con l’altra: prima di qualsiasi miracolo fisico (un fatto che sarebbe visibile al fine di essere testimoniato), subito si scandalizzano perché vedono l’altra questione posta da Gesù, quella spirituale (alla quale già risponde); subito gli contestano non solo il diritto di rispondervi, ma anche di porla: «chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?» (Lc 5,21), ma il riconoscimento della questione spirituale serve solo per non intenderla, perché attenendosi ai loro «ragionamenti» (dialogismoi, dialogizesthai, Lc 5,22) non credono, per restare meglio sulle loro posizioni, cioè alla loro comune definizione di razionalità. Dal momento che, nonostante la loro pretesa spiritualità, per loro la remissione dei peccati risulta «più facile» (Lc 5,22) della guarigione 18.  Da segnalare che ekstasis occorre anche per il risveglio della figlia di Giairo (Mc 5,35-43), per la resurrezione di Cristo (Mc 16,8, con la stessa paura, ephobounto), per le guarigioni operate da Pietro (At 3,10).

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(mentre dal punto di vista di Cristo è vero il contrario), Gesù guarisce: «dico a te […]: alzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua» (Lc 5,24). La «potenza» di Cristo non è rivelata dal segno visibile, che per essere riconosciuto dovrebbe essere riferito da un testimone (la guarigione), ma dalla questione silenziosa che Cristo oppone alla esplicita domanda del paralitico (il perdono dei peccati). Si dà paradosso perché attraverso l’evidenza della prima questione (la domanda di guarigione) alla fine appare la seconda questione (la facoltà di rimettere i peccati, che Cristo condivide con Dio). Infatti, a partire dalla malattia e dalla guarigione, l’obiettivo di tutto l’intrigo è quello di rivelare la divinità di Gesù. Anche se talvolta si tratta solo di apparenza e forse di apparizione, il paradosso insiste sempre sui margini della fenomenicità, non sulle contraddizioni del formalismo. Esso si disvela nelle regioni estreme della fenomenicità, lavorando alla manifestazione di ciò che può lasciarsi vedere e dire solo contraddicendo ciò che noi riteniamo essere le condizioni (oggettive) dell’esperienza – è ciò che fa irruzione nella nostra esperienza come un evento, come l’evento per antonomasia. La Rivelazione non può dispiegarsi come nostra nel nostro mondo, o almeno in ciò che noi concepiamo come tale, «come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé (offenbart sich) nel mondo»19, dal momento che se ciò che si mostra non ci sorprende per nulla, allora non merita alcuna attenzione; reciprocamente, è degno di attenzione solo ciò che sorprende, cioè ciò che contraddice le nostre attese e previsioni e il nostro comune regime di razionalità, «certi giorni non bisogna temere di nominare le cose impossibili da

19.  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Id., Schriften I, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980; tr. it., Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1989, 6.432, p. 173.

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descrivere»20. Se ne può concludere che non si può ricevere alcuna rivelazione senza assumere come tale il paradosso; tale esigenza conferma l’annotazione precedente: nessuna rivelazione può evitare la resistenza dei testimoni che convoca e che, in un modo o nell’altro, possono rifiutarla; essa deve poter spiegare la possibilità del rifiuto, intendendolo non come un incidente di percorso o una perdita collaterale, ma come una delle possibilità implicate dalla sua stessa razionalità. Una vera rivelazione impone una novità tanto grande che le appartiene – intrinsecamente e non accidentalmente – il fatto che la si possa rifiutare. Questa regola di metodo vale per ogni rivelazione, che sia relativa alle scienze, alle arti, alla storia, al fenomeno erotico, ecc., di conseguenza vale anche, innanzitutto e perlopiù, per un evento religioso. In questo contesto la questione della Rivelazione diventa molto più intelligibile e insieme molto più pregnante. In primo luogo molto più intelligibile: la rivelazione si inscrive nella fenomenicità del d(on)ato come un caso che certo è eccezionale, ma perfettamente coerente con tutti gli altri, cioè il caso di un fenomeno che porterebbe all’eccesso il sovrappiù di intuizione su ogni concetto (o sull’insieme dei concetti) che si ritiene la regoli e la costituisca; si tratterebbe così di un fenomeno saturo, se non del fenomeno saturo per antonomasia, non costituibile e donantesi da sé al punto da mostrarsi assolutamente in sé e per sé. Si tratta forse di un’eccezione, se confrontata con gli altri fenomeni, ma di un’eccezione che conferma la definizione generale di fenomeno inteso come ciò che si mostra solo nella misura in cui si dà. La seconda istanza è molto più pregnante: il privilegio del fenomeno di rivelazione, che gli consente di mostrarsi in sé 20.  R. Char, Recherches de la base et du sommet, in Id., Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1983; tr. it., Ricerca della base e della vetta, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 25.

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e per sé con una modalità ineguagliabile, riguarda l’altro suo carattere privilegiato: darsi in modo ineguagliabile. Di fatto la rivelazione biblica mette in atto il privilegio di una donazione che oltrepassa ogni attesa, previsione e, infine, ogni ricezione.

Una questione di fenomenicità Questa forma di intelligibilità più pregnante che caratterizza la Rivelazione presuppone giustamente che venga affrontata (e ricevuta) da un punto di vista che, a prima vista, può apparire strano – quello della fenomenicità21. Eppure, come qua-

21.  Qui la stranezza vale nei due sensi, tanto per un teologo (che si stupisce che la Parola di Dio possa anche apparire) quanto per un filosofo in senso stretto (sorpreso che si cerchi di vedere la minima cosa in un affare di fede). Donde l’importanza della sottolineatura fatta da uno dei primi fenomenologi a essersi dedicato alla teologia: «se si obietta al fenomenologo che alcuni dati non sono oggetti d’Esperienza ma di Rivelazione, egli risponderà che il senso intrinseco di una “Rivelazione” implica lo svelamento di un dato davanti o per la Coscienza; di conseguenza, il dato e la modalità della sua apparizione saranno suscettibili di descrizione, così come il genere particolare di certezza che l’accompagna» (J. Héring, La phénoménologie de Husserl il y a trente ans. Souvenirs et réflexions d’un étudiant de 1909, in «Revue internationale de philosophie», 1939, pp. 366-373: p. 372, nota 1, citato in C. Serban - D. Pradelle, Jean Héring. De l’eidétique à la phénoménologie de la religion. Présentation du dossier, in «Revue de théologie et de philosophie», n. 148, 2016, pp. 400-407: p. 405). Ciò fa fedelmente eco a una sottolineatura di Husserl stesso: «qui come sempre in fenomenologia, bisogna avere il coraggio (der Mut) di assumere (umdeuten) ciò che veramente si vede nel fenomeno, proprio come si offre (wie es sich gibt), e di descriverlo onestamente (ehrlich)» (E. Husserl, Idee, cit., § 108, p. 269). Secondo Héring c’è anche un’eidetica della Rivelazione, perché la tesi che la sfera del dato religioso «non sia data, o che essa sia “in realtà” (eigentlich!) qualcosa d’immanente, ecco quanto non sapremmo affermare senza falsare radicalmente ogni filosofia religiosa. […] Non è quindi solo l’analisi degli stati o degli atti soggettivi a poter fornire una teoria dell’esperienza religiosa. E anche l’og-

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lunque altra rivelazione, la Rivelazione (ebraica e cristiana) si gioca sull’evidenza fenomenicamente intesa, proprio perché «Dio, nessuno lo ha mai visto (theon oudeis eôraken pôpote)» (Gv 1,18), resta «invisibile e unico Dio (aoratos monos theos)» (1Tim 1,17), risiede in «una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto (on oudeis anthrôpôn oude idein dunatai)» (1Tim 6,16) ed è stato necessario che «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, ne facesse l’esegesi (eikeinos ezêgêsato)» (Gv 1,18), a titolo paradossale, per antonomasia, come «icona del Dio invisibile (eikôn tou theou tou aoratou)» (Col 1,15, cfr. 2Cor 4,4). Cristo sicuramente ha compiuto tale «esegesi» tramite un’interpretazione linguistica delle Scritture (diermêneusen, Lc 24,27), ma alla fine l’ha realizzata tramite un paradosso fenomenico, cioè manifestarsi per mezzo di un gesto sacramentale (spezzare il pane) in cui la presenza coingetto intenzionale che tali ricerche devono descrivere» (J. Héring, Phénoménologie et philosophie religieuse, Alcan, Paris 1926; tr. it., Fenomenologia e religione: studio sulla teoria della conoscenza religiosa, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2010, pp. 183 e 184; cfr. S. Camilleri, L’exégèse et la théologie biblique de Hering sont-elles phénoménologiques?, in «Revue de théologie et de philosophie», n. 148, 2016, pp. 449-465). Si tratta della migliore confutazione della pragmatic rule di W. James: «as far as this goes I probably have you with me, for I only translate into schematic language what I may call the instinctive belief of mankind: God is real since he produces real effects – in questo probabilmente voi sarete d’accordo con me, in quanto non faccio che tradurre in linguaggio schematico ciò che posso definire la credenza istintiva dell’umanità: Dio è reale dal momento che produce effetti reali» (W. James, Varieties of religious Experience, in Id., William James. Writings 1902‑1910, The Library of America, New York 1987, pp. 1-478: p. 461; tr. it., Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 2009, p. 441; cfr. infra, cap. 9). Certamente Dio produce effetti reali, perché le “credenze” che suscita riguardano la coscienza dei credenti che ne fanno esperienza, ma soprattutto perché questi credenti credono innanzitutto di fare esperienza di Dio stesso tramite queste “credenze”. Altrimenti, molto semplicemente, non crederebbero che si tratti di Dio, e Dio, semplicemente, non produrrebbe alcun “effetto reale” per loro tramite.

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cide con l’assenza: «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista (aphanos)» (Lc 24,31)22. Infatti, Gesù compie l’«esegesi» del Dio invisibile facendosi vedere tra gli uomini, come fenomeno tra i fenomeni, fenomenizzandosi senza riserva – facendosi lui stesso un fenomeno nella nostra fenomenicità, facendosi uomo. Egli diventa il commento visibile della Rivelazione del Dio invisibile, tramite una visibilità moltiplicata seguendo le modalità di tutti gli sguardi possibili: «il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato (ephanerôthê) in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito, fu visto (ôphthê) dagli angeli e annunciato fra le genti, fu creduto nel mondo ed elevato nella gloria» (1Tim 3,16). Così, tramite un’impresa radicalmente fenomenica, «è apparsa (epehanê) infatti la grazia di Dio […] a tutti gli uomini» (Tt 2,11), e «noi abbiamo contemplato (etheasametha) la sua gloria» (Gv 1,14). Abbiamo contemplato questo fenomeno, l’abbiamo proprio visto, non lo abbiamo costituito e ancor meno provocato, ma lo abbiamo visto perché ha deciso e voluto automanifestarsi a partire da lui stesso: «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto (eôrakamen) con i nostri occhi, quello che contemplammo (etheasametha) e che le nostre mani toccarono del logos della vita – la vita infatti si manifestò (ephanerôthê), noi l’abbiamo veduta (eôrakamen) e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò (ephanerôthê) a noi –, quello che abbiamo veduto (eôrakamen) e udito, noi lo annunciamo anche a voi» (1Gv 1,1‑3)23. La Rivelazione, come 22.  Cfr. il commento offerto in J.-L. Marion, “Ils le reconnurent et lui-même leur devint invisible”, in Id., Le croire pour le voir, Parole et Silence, Paris 2010; tr. it., «Lo riconobbero e divenne loro invisibile», in Id., Credere per vedere. Riflessioni sulla razionalità della Rivelazione e l’irrazionalità di alcuni credenti, Lindau, Torino 2012, pp. 247-272. 23.  Cfr. «gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto (eôrakamen) il Signore”» (Gv 20,25). «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto

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indica il nome, si gioca nella fenomenicità, che pertanto offre il punto di vista privilegiato per descriverla e riceverla. Se la si potrà mai concepire sarà seguendo il filo conduttore della questione della fenomenicità, ben più che a partire dalla questione dell’ente e del suo essere (l’esistenza), infinitamente più che secondo la questione della conoscenza d’oggetti (la dimostrazione). Per la teologia l’ingresso in questo campo rimane ancora in larga parte un lavoro da svolgere24. Beninteso, per il teologo non si tratta di applicare meccanicamente le regole (supposte fisse) della descrizione dei fenomeni ai testi biblici. I fenomeni della Rivelazione (come già tutti i fenomeni di rivelazione) modificano le regole della fenomenicità secondo le loro particolari esigenze, contro ogni riduzionismo, anche quello della fenomenologia. L’avvertimento di Hölderlin dovrebbe bastare: «wo aber / Ein Gott noch auch erscheint, / Das ist doch andere Klarheit – ma ovunque / Un Dio appaia, / Là vi è altro chiarore»25. Ne deriva una conseguenza necessaria: in ultima istanza tutte le manifestazioni di Dio in Gesù Cristo, tutte le «teofanie» bibliche (accettando provvisoriamente questo termine troppo impreciso) non sono altro che un unico paradosso, che presenta l’apparizione – emersa tra i fenomeni che il nostro mondo continua a dischiudere – da un fenomeno che proviene da altrove rispetto al mondo, l’apparizione dell’inapparente per antonomasia, la visibilità dell’in-

(eidamen) e ascoltato» (At 4,20). «Sono io, Giovanni, che ho visto (blepôn) e udito queste cose. E quando le ebbi udite e viste (eblepsa), mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le mostrava (deiknuountos)» (Ap 22,8). 24.  Cfr. il nostro saggio J.-L. Marion, Qu’attend la théologie de la phénoménologie?, in N. Bauquet - X. d’Arodes de Peyriargue - P. Gilbert (dirs.), «Nous avons vu sa gloire». Pour une phénoménologie du Credo, Lessius, Bruxelles 2012, pp. 13-31. 25.  F. Hölderlin, Friedensfeier; tr. it., Festa di pace, in Id., Tutte le liriche, cit., p. 877.

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visibile come tale e che tale resta nella sua stessa visibilità. A meno di affrontare questo paradosso fenomenologico, non si può sviluppare alcuna seria teologia della Rivelazione. Che cosa si vede, che cosa mai si può vedere dell’invisibile? La questione è questa. La Rivelazione è caratterizzata da un privilegio fenomenico che la rende particolarmente appropriata a un approccio fenomenologico, infatti abbiamo insistito (supra, cap. 1) sul principio secondo il quale ciò che si mostra si mostra unicamente nella misura in cui si dà e quindi si riduce al d(on)ato in lui. Ora, in un senso che insieme è strettamente identico e radicalmente senza misura comune, la Rivelazione segue lo stesso principio: «at vero dando Spiritum per quem revelat, etiam ipsum revelat: dando revelat et revelando dat – ma dando lo Spirito, per mezzo del quale rivela, rivela certamente anche lo stesso Spirito: dando lo rivela e rivelando lo dà»26. Dono e donazione, in ogni caso, offrono un concetto perfettamente univoco: in fenomenologia la donazione (l’eccesso di intuizione e l’avvento di conferimenti di senso per gli uomini impensabili) viene ritrovata radicalizzata in «ogni dono perfetto viene dall’alto» (Gc 1,17). Paradossalmente – quindi anche logicamente, in virtù della donazione che essa sola realizza in modo perfetto, la Rivelazione compie l’essenza della fenomenicità.

26.  Bernardo di Chiaravalle, Sermone VIII, in Id., Sermoni sul Cantico dei Cantici, Opere di san Bernardo, vol. V/1, Città Nuova, Roma 2006, p. 180.

II COSTITUZIONE DELL’APORIA

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3 Tommaso d’Aquino e l’interpretazione epistemologica

Ormai, una volta che sulla base del privilegio fenomenico del concetto di rivelazione (supra, cap. 1) sono state delineate le caratteristiche formali di un eventuale concetto di Rivelazione (supra, cap. 2) – cioè un fenomeno saturo che si manifesta advenendo da altrove – resta da valutare se e fino a che punto la tradizione storica della teologia riesca o meno a rispondervi. Infatti, non va da sé che tale tradizione sia sempre stata in grado di riconoscere la Rivelazione a partire dalla fenomenicità in quanto tale, ancor meno di pensarla a partire dalla donazione che la garantisce e la dispiega. La sua storia è gravata da altri obblighi, in particolare dalla decisione di intendere la Rivelazione entro l’orizzonte metafisico dell’essere e – quale necessaria conseguenza – dal tentativo di ergerla a scienza; in breve, di interpretare la Rivelazione innanzitutto come comunicazione di un sapere proposizionale. È quindi necessario iniziare la ricerca a partire dalla ricostruzione di questa interpretazione, al fine di decostruirla (infra, parte I, capp. 3‑6), per poi trovare l’unica base autentica che consentirà la sua comprensione teo-­logica (infra, parte II, capp. 7‑10).

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Il punto cieco La maggior parte delle volte l’uso moderno (ma quando inizia questa “modernità”?) e corrente del termine, anche quando è relativo alla rivelazione comune, quella sperimentabile nella quotidianità (supra, cap. 1), tende a intendere immediatamente la rivelazione come una modalità di comunicazione di conoscenze. Rivelare significa quindi giungere all’acquisizione di un’informazione (rivelare un segreto, un codice, il risultato di un concorso o di una lotteria, la spiegazione di un enigma, ecc.); spesso Nicolas Malebranche ricorre a questo termine per indicare una conoscenza che è innanzitutto sensibile e confusa, ma la cui incertezza si dissipa tramite un fatto incontestabile, per quanto inintelligibile: «la sensazione di dolore che abbiamo […] è una specie di rivelazione»1. Rivelare significa anche farsi comunicare da altri, tramite la persuasione o l’obbligo, un’informazione restata a lungo nascosta; Michel de Montaigne la intende come ciò che viene conosciuto grazie a una confessione ottenuta sotto tortura o ciò che supporta l’ostinazione a non confessare: «Epicari, avendo saziato e stancato la crudeltà dei satelliti di Nerone, e sopportato per un giorno intero il loro fuoco, le loro percosse, i loro strumenti di tortura senza una parola che rivelasse la sua congiura»2. Rivelare, dunque, significherebbe in prima istanza conoscere o far conoscere. Si dovrebbe quindi partire dalla conoscenza per rivelazione sensibile per poi, eventualmente e per derivazione naturale, passare a una conoscenza di Rivelazione che solo a quel punto sarebbe quella propriamente teologica. Malebranche mette spesso in atto un simile va e vieni: «io sono assicurato che esistono corpi non solo dalla rivelazione natu1.  N. Malebranche, Entretiens sur la métaphysique et la religion; tr. it., Colloqui sulla metafisica, Zanichelli, Bologna 1963, VI, § 3, p. 191. 2.  M. de Montaigne, Essais; tr. it., Saggi, Bompiani, Milano 2012, II, 32, p. 1335.

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rale delle sensazioni che Dio me ne dà, ma anche, e molto di più, dalla rivelazione soprannaturale della fede»3. Infatti, poiché la dimostrazione rigorosamente filosofica (che in fondo è cartesiana) non consente di definire l’esistenza dei corpi (delle cose materiali), per averne una conoscenza certa non rimane altro da fare che rimettersi alla fede biblica, che ne fornisce l’assicurazione per Rivelazione. Le due accezioni nell’uso di R/rivelazione sono sovrapposte e incrociate, condividendo lo stesso presupposto: in entrambi i casi si tratta di ottenere una conoscenza. Non c’è quindi da stupirsi se Montesquieu, tra gli altri, rivendica la giustificazione della «rivelazione» della «religione cristiana» tramite la «religione naturale»: «non ho sempre sentito dire che noi tutti abbiamo una religione naturale? Non ho inteso dire che il Cristianesimo era il perfezionamento della religione naturale? Non ho inteso dire che ci si serviva della religione naturale per dimostrare l’esistenza di Dio contro gli atei?»4. Al contrario, desta molto più stupore il fatto che Nicolas-Sylvestre Bergier, nonostante sia uno dei migliori oppositori dei «philosophes», assimili la conoscenza naturale di Dio a una Rivelazione, anzi, che riconosca l’accezione primaria, fondamentale e «generale» di ogni rivelazione affermando che «rivelare a taluno una cosa è dargliela a conoscere: in questo generico significato, Iddio ci rivela ciò che noi discopriamo col soccorso della ragione; perciocché da lui venne a noi largita e in noi si mantiene questa facoltà. Ma l’uso ha annesso alla voce rivelare un’altra significazione, quella di far conoscere agli uomini delle verità per mezzi diversi da quello dell’esercizio che far possono del proprio intelletto»5.

3.  N. Malebranche, Colloqui sulla metafisica, cit., VI, § 8, p. 198. 4. Montesquieu, Défense de l’Esprit des lois (1750); tr. it., Difesa dello Spirito delle leggi, in Id., Lo spirito delle leggi, vol. II, UTET, Torino 1996, p. 481. 5.  N.-S. Bergier, Dictionnaire de théologie, vol. IV (Paris 1788), Lefort, Lille 1852; tr. it., Dizionario enciclopedico della teologia, vol. V, Carlo Turati

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Rivelare consisterebbe innanzitutto – e in senso pieno – nel far conoscere tramite la luce naturale (Dio interviene indirettamente come creatore della nostra «intelligenza») e solo in seguito ed eventualmente tramite «altri mezzi» rispetto a essa (Dio interverrebbe direttamente come Rivelatore di una religione). Questa gerarchia, che subordina la Rivelazione alla rivelazione della «luce naturale», si appoggia sul carattere che è comune all’una e all’altra – rivelare corrisponde a «far conoscere», aspetto che sarà definito come interpretazione epistemologica della Rivelazione. È tutto architettato come se andasse da sé che rivelare consista solo nel far conoscere – e far conoscere in modo univoco – verità che sarebbero in linea di principio incommensurabili. La forma imprecisa e dubbia di tali formule offre un primo indizio del carattere problematico del concetto teologico di Rivelazione. A questo indizio se ne aggiunge un altro, ossia il ritardo dello stesso termine “rivelazione” nell’imporsi in teologia dogmatica come concetto principale. I migliori tra gli storici dei dogmi concordano su questo punto: Heinrich Fries, relativamente alla menzione fatta dal concilio Vaticano I, segnala che l’espressione emerge «se la si situa a un livello fondamentale, certamente in un’epoca relativamente tardiva», come confermato da Avery Dulles: «“rivelazione” non si impone come tema teologico centrale prima della fine dell’Illuminismo […], tipografo-libraio, Milano 1844, pp. 234-243: p. 234, sottolineature nostre. In questa ottica la rivelazione «naturale» si confonde con la Rivelazione biblica, dal momento che la ingloba: «non è perciò malagevole impresa il far confronto tra la vera rivelazione e le false. A dir propriamente, una sola ve n’è, che ha cominciato col mondo e durerà insino alla fine, per esser la medesima all’uomo essenzialmente necessaria» (ivi, p. 243). Quanto alla Rivelazione biblica in senso stretto, essa ha solo un ruolo suppletivo, di conferma: «la rivelazione de’ misteri serve ad esercitar la docilità e la sommessione da noi dovuta a Dio, a confermare le verità dimostrabili, a frenar l’audacia de’ filosofi, a porre le fondamenta della più santa e sublime morale» (ivi, p. 182).

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nella maggior parte dei primi teologi e nella stessa Bibbia non si trova una dottrina sistematica della Rivelazione»; Bernard Sesboüé precisa che «nell’epoca patristica, la rivelazione non era oggetto di una considerazione specifica. La sua idea andava da sé: Dio aveva parlato agli uomini per mezzo dei profeti e in seguito nel suo Figlio Gesù Cristo. Il termine stesso (apokalupsis) rinviava piuttosto a una letteratura particolare, l’apocalittica. La teologia scolastica, nelle sue esposizioni dottrinali, non ne parla molto, anche se si trova con maggior frequenza nei commenti alla Scrittura e nella riflessione sulla profezia»6. Quindi a buon diritto ci si può stupire per il fatto che tale concetto, che è arrivato tardi e, per i primi dodici o tredici secoli, è rimasto a lungo secondario, abbia assunto una dimensione sempre più crescente in epoca molto recente (nel XVII e soprattutto nel XIX secolo), al punto da apparire quasi un sinonimo di “teologia”7. Con sobrietà Jean-Yves Lacoste

6.  Rispettivamente «zwar in grundsätzlicher Sicht zu relativ später Zeit» (H. Fries, Offenbarung, in J. Hofer - K. Rahner [hrsg.], Lexikon für Theologie und Kirche, Herder, Freiburg 1962, vol. VII, coll. 1106-1115: col. 1110); A. Dulles, Revelation Theology: a History, Herder, New York 1969, p. 31 (giudizi simili in Id., Revelation, fonts of, in Catholic University of America [ed.], New Catholic Encyclopedia, vol. XII, Mc Graw-Hill Books Company, New York 1967, p. 441 e in Id., Models of Revelation, Orbis Books, New York 1983; tr. it., Modelli della rivelazione, Lateran University Press, Città del Vaticano 2010, p. 38); B. Sesboüé, Esposizione della fede e apologia nel Medioevo, in B. Sesboüé - Ch. Theobald (éds.), Histoire des dogmes, vol. IV, La Parole du Salut, DDB, Paris 1996; tr. it., Storia dei dogmi, vol. IV, La parola della salvezza. XVI-XX secolo, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 65-116: p. 98. 7.  La constatazione di questo ritardo sorprenderebbe di meno se si considerasse che lo stesso termine “teologia” fu superbamente ignorato (quando non esplicitamente rifiutato) dai primi dodici secoli del pensiero cristiano, che tuttavia, a giusto titolo, consideriamo come quelli della più alta teologia (si faccia riferimento alla sempre attuale messa a punto di J. Rivière, Theologia, in «Revue de Sciences religieuses», n. 16, 1936, pp. 47-57). Sant’Agostino rifiuta il termine ritenendolo proprio dei pagani e gli preferisce philosophia

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nota il cambiamento e ne segnala l’incongruenza: «realtà centrale dell’esperienza cristiana, ma per molto tempo concetto marginale, la rivelazione figura certamente come nozione organizzatrice della teologia contemporanea»8. Come è possibile conciliare queste determinazioni contraddittorie – ritardo e uso dominante? E bisogna proprio farlo? Quale motivo spinge a superare la loro incoerenza (almeno apparente)? Non è sufficiente giustapporre i due caratteri? «Tutto dipende dalla rivelazione divina, tutto si riferisce a essa, nulla si spiega che alla sua luce, ed è questa la ragione per cui, paradossalmente, essa rimane una di quelle grandi verità implicite così evidenti e certe da non aver bisogno di essere»9. Ci si potrebbe anche (Agostino, De civitate Dei; tr. it., La città di Dio, Opere, vol. V/1, Città Nuova, Roma VI, 5‑8, e ivi, VIII, 8, pp. 423-437 e 558-561). San Bernardo lo denuncia brutalmente in Abelardo: «già alle soglie della sua teologia, o meglio della sua ridicologia (Theologiae, vel potius Stultilogiae suae), definisce la fede un atto di opinione, quasi che in essa fosse lecito sentire e dire ciò che piace» (Bernardo di Chiaravalle, Lettera 190, in Id., Lettere, Opere di san Bernardo, vol. VI/1, Città Nuova, Roma 1986, p. 805). 8.  J.-Y. Lacoste, Révélation, in Id., Dictionnaire critique de théologie, PUF, Paris 19982; tr. it., Rivelazione, in Id., Dizionario critico di teologia, BorlaCittà Nuova, Roma 2005, pp. 1143-1150: p. 1148 e aggiunge che «il lessico della rivelazione (greco apokalypsis, epiphaneia, dèlôsis, latino revelatio, manifestatio) è presente nella letteratura cristiana fin dalle origini, ma il cristianesimo ha aspettato parecchio prima di presentare un concetto strutturato di rivelazione» (ivi, p. 1143). 9.  A. Léonard, Vers une théologie de la parole de Dieu, in L. Chalier et alii, La Parole de Dieu en Jésus-Christ, Casterman, Tournai 1961, pp. 11-32: p. 12, sottolineature nostre, citato da R. Latourelle, Théologie de la Révélation, DDB, Bruges 1963; tr. it., Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 1967, p. 6, che a propria volta formula la medesima difficoltà: «è la prima volta che un concilio [sc. Vaticano II] studia in modo tanto cosciente e metodico le categorie fondamentali e primarie del cristianesimo, cioè quelle della Rivelazione, della Tradizione e della Ispirazione. Questi concetti, onnipresenti nel cristianesimo e implicati in tutto lo studio teologico, sono anche i più difficili da definire precisamente perché sono concetti primari. […] Noi viviamo di queste realtà, ma sono le ultime a essere l’oggetto di

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chiedere, però, se si tratta di un autentico paradosso o piuttosto di un pericoloso fallimento, tanto più che qui si aggiunge un terzo indizio della fragilità del concetto corrente di Rivelazione, cioè il fatto che talvolta le Scritture denotano in proposito una certa reticenza. L’Apocalisse stessa usa il termine una sola volta, nel titolo, e Paolo mette in guardia contro gli eccessi del carisma profetico: «se poi uno dei presenti riceve una rivelazione (apokalupsê) il primo taccia» (1Cor 14,30), sono casi che non trattano d’altro che delle conseguenze di un fatto notevole: il termine “apocalisse” (apokalupsis) non copre l’estensione del concetto recente e globale di Rivelazione, ma designa solo il genere letterario “apocalittico”, nei suoi sparsi riverberi e talvolta nei suoi eccessi. La sorpresa non è da poco, ma i testi biblici non sembrano proporre un termine o un insieme di termini che consentano di costruire, senza contesto e in forma immediata, un concetto coerente di Rivelazione.

«Theologia sive scientia» Dove mai sarà possibile reperire il punto di partenza? Come spesso accade affrontando la teologia cristiana, quando non si sa che posizione prendere è necessario fare ritorno a san Tommaso d’Aquino, per appoggiare i piedi su un terreno sicuro. Infatti, potrebbe darsi che le difficoltà appena incontrate abbiano origine in colui che – tra i primi se non per primo – ha elaborato un preciso concetto di Rivelazione. Si consideri l’apertura della Summa Theologiae che, come prima questione, domanda se la conoscenza di Dio possa provenire dalla sola

una riflessione critica» (ivi, p. 345). È stata realmente condotta questa riflessione? Ne abbiamo veramente assunto i mezzi? Una «riflessione critica», nel senso moderno della “critica” è poi sufficiente? Chi deve criticare cosa?

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filosofia o se richieda un’altra istanza, più elevata. Il primo articolo della prima questione conclude che, accanto agli approcci filosofici a Dio tramite la semplice ragione, bisogna necessariamente ammettere un’altra dottrina, la sacra doctrina, che procede per rivelazione: «Necessarium igitur fuit, praeter philosophicas disciplinas, quae per rationem investigantur, sacram doctrinam per revelationem haberi – di qui la necessità, oltre alle discipline filosofiche oggetto dell’indagine razionale, di una dottrina avuta per divina rivelazione»10. Infatti, tanto di fatto quanto di diritto, la theologia sviluppata dalle «discipline filosofiche» (secondo Aristotele in Metaphysica E) non esaurisce la nostra conoscenza delle cose divine; resta possibile un’altra teologia, di un altro genere, che mette in atto la sacra doctrina: «theologia, quae ad sacram doctrinam pertinet, differt secundum genus ab illa theologia, quae pars philosophiae ponitur – la teologia che fa parte della dottrina sacra differisce secondo il genere dalla teologia che fa parte della filosofia»11. Quale differenza generica è qui in gioco? Quella che da Tommaso d’Aquino era già stata chiaramente stabilita nel commento al De Trinitate di Boezio: la teologia si raddoppia perché «theologia, sive scientia divina, est duplex – la teologia o scienza divina è duplice». Solo la teologia nel senso della sacra doctrina può pretendere di conoscere le cose divine in sé, perché essa sola le riceve secondo il loro genere di manifestazione proprio, cioè «secundum quod ipsae se ipsas manifestant – in quanto si manifestano da sé»; perché manifestarsi tramite sé e a partire da sé è caratteristica delle realtà divine, «secundum quod requirit rerum divinarum manifestatio – nella misura in cui lo richiede la manifestazione delle realtà divine».

10. Tommaso, Summa Theologiae; tr. it., La somma teologica, 4 voll., ESD, Bologna 2014, Ia, a. 1, resp., p. 27. 11. Ivi, Ia, q. 1, a. 1, ad 2m., p. 27.

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Queste «realtà divine», la sacra doctrina può solo avvicinarle come oggetto diretto del suo sapere, perché essa sola le riceve innanzitutto dalle Scritture in quanto tali: «ipsas res divinas considerat propter seipsas ut subjectum scientiae, et haec est theologia, quae in sacra Scriptura traditur – considera le stesse realtà divine per sé come soggetto della scienza, e questa è la teologia che viene esposta nella Sacra Scrittura». La teologia filosofica, denominata anche metafisica («quam Philosophi prosequuntur, quae alio nomine Metaphysica dicitur – portata avanti dai filosofi, e che con altro nome viene chiamata metafisica»), al contrario può cogliere le realtà divine solo indirettamente, tramite i loro effetti («secundum quod per effectos manifestantur»); detto altrimenti, la metafisica le coglie solo in ciò che le realtà divine rilevano nei loro effetti ma non in se stesse del suo solo soggetto legittimo, l’ente in quanto ente: «res divinae non tractantur a philosophis, nisi prout sunt rerum omnium principia; et ideo pertractantur in illa doctrina, in qua ponuntur illa quae sunt communia omnibus entibus, quae habet subjectum ens in quantum ens – tali realtà divine vengono considerate dai filosofi solo in quanto sono princìpi di tutte le cose, e perciò vengono prese in esame in quella dottrina in cui si pone ciò che è comune a tutti gli enti, e che ha come soggetto l’ente in quanto ente». La scienza dell’ente in quanto tale infatti giunge a trattare delle «realtà divine» solo in misura derivata, dove queste vi intervengono come princìpi dei loro effetti ontici; come loro unici effetti (non loro stesse) si dicono secondo l’entità (ens in quantum ens, Seiendheit), bisogna quindi concludere che le realtà divine in quanto tali non si inscrivono direttamente nella teologia della metafisica, ma vi intervengono solo indirettamente, a titolo di princìpi di cose e non come queste cose in se stesse – «rerum omnium principia», «non tanquam subjectum scientiae, sed tanquam principium subjecti – non come il soggetto [sostrato] della scienza, ma come princìpi del soggetto». In breve: le «realtà divine»

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non entrano nel sostrato (subjectum) di cui tratta la teologia filosofica proprio perché rimangono il suo principio. Invece, queste «realtà divine» divengono dei sostrati nella theologia sacrae Scripturae; essa sola le rende direttamente accessibili, mentre la theologia philosophica si limita a constatarne indirettamente gli effetti nell’ens in quantum ens, senza affrontarle immediatamente, ma solo mediatamente come il principio di questi effetti12. Da questa prima distinzione consegue un pri-

12.  Tommaso, Super Boetium De Trinitate; tr. it., Commento al libro di Boezio sulla Trinità, in Id., Commenti a Boezio, Bompiani, Milano 2007, q. 5, a. 4, pp. 315-319 e anche «sed divinorum notitia dupliciter potest estimari. Uno modo ex parte nostra, et sic nobis cognoscibilia non sunt nisi ex creaturis, quarum notitiam a sensu accipimus. Alio modo ex natura ipsorum et sic ipsa sunt ex se ipsis maxime cognoscibilia quamvis secundum modum suum, tamen a Deo cognoscuntur et a beatis secundum modum suum – ma la conoscenza delle cose divine può essere valutata in due modi: rispetto a noi, e in questo senso esse risultano conoscibili solo a partire dalle cose create, la cui conoscenza si ricava dai sensi; o rispetto alla loro stessa natura, e in questo senso esse sono di per sé massimamente conoscibili, e per quanto non possano essere conosciute da noi così come sono in se stesse, vengono tuttavia conosciute nel modo loro appropriato, da Dio e dai Beati» (ivi, q. 2, a. 2, resp., pp. 131-133). Altre conferme: «hoc modo [sc. procedere ex principiis notis lumine superioris scientiae] sacra doctrina est scientia, quia procedit ex principiis notis lumine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et beatorum – in questo modo [sc. procedere da princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore] la dottrina sacra è una scienza: in quanto poggia su princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei beati» (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 1, a. 2, c., p. 28) e «est etiam in his, quae de Deo confitemur, duplex veritatis modus. Quaedam namque vera sunt de Deo quae omnem facultatem humanae rationis excedunt, ut Deum trinum et unum. Quaedam vero sunt, ad quae etiam ratio naturalis pertingere potest, sicut Deum esse, Deum esse unum, et alia ejusmodi; quae etiam philosophi demonstrative de Deo probeverunt, ducti naturalis luminis ratione – ora, tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, p. es., l’unità e la trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, p. es., che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla

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mo guadagno: la dualità delle teologie si definisce assegnando alla teologia filosofica l’ens in quantum ens che, al contrario, sviluppa un campo per la teologia della sacra Scriptura o sacra doctrina. Questa acquisizione pone però una difficoltà, perché la possibilità indiscutibile rimane indeterminata: che la rivelazione secondo la Scrittura si opponga, completi e superi la scienza filosofica di Dio, ciò non è ancora sufficiente ad assicurare, anche a essa, lo statuto di scienza, tanto meno per il fatto che essa stessa ha per funzione propria quella di superare la scienza filosofica. L’insufficienza della conoscenza non rivelata non è quindi sufficiente per stabilire subito il concetto, soltanto postulato, di una conoscenza rivelata. Questa possibilità è tuttavia sufficiente perché Tommaso d’Aquino sviluppi un’interpretazione epistemologica della rivelazione, indeterminata, nella misura in cui resta sullo sfondo. Infatti, tramite due argomenti, il corpo della risposta della Summa Theologiae, Ia, q. 1, a. 1, pone, sviluppa e privilegia la funzione epistemologica della sacra doctrina (o theologia sacrae Scripturae). Innanzitutto con un sillogismo implicito: Dio costituisce il fine ultimo del desiderio dell’uomo (tesi non ipotetica, perché Tommaso d’Aquino non ammette alcuna duplex beatitudo), tuttavia l’uomo non può desiderare nulla né amare altro se non ciò che conosce già (secondo il principio che non si può amare ciò che non si conosce)13; quindi, poiché Dio, luce della ragione naturale» (Tommaso, Summa contra Gentiles; tr. it., La Somma contro i Gentili, 3 voll., ESD, Bologna 2000-2001, I, 3, p. 71, si veda I, 9, p. 87). Su questo doppio statuto della teologia cfr. l’eccellente studio di M. Corbin, Le chemin de la théologie chez Thomas d’Aquin, Beauchesne, Paris 1974, in part. cap. 2, § 2, pp. 359-372. 13.  Questo principio, esposto da san Tommaso d’Aquino con la formula «nullus posset amare aliquid incognitum – nessuno può amare ciò che ignora» (Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia IIae, q. 27, a. 2, sed contra, p. 280) deriva da sant’Agostino «certe enim amari aliquid nisi notum non potest – nessuno può amare una cosa del tutto sconosciuta» (Agostino, De

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come si è appena visto, resta sconosciuto alla semplice luce naturale esercitata dalla theologia philosophica o «metaphysica, quae circa divina versatur – la metafisica, che ha per oggetto le cose divine»14, per permettere al desiderio naturale di Dio di conoscere ciò che già ama di necessità è necessario che intervenga un’altra fonte di conoscenza: questa sarà la funzione della conoscenza per rivelazione, che proviene da Dio e quindi eccede la ragione umana («per revelationem divinam, quae rationem humanam excedit»). Questo primo argomento poggia su un punto forte, il paradosso fondamentale che Henri de Lubac ha adeguatamente riportato in evidenza: l’uomo, come creatura razionale capax Dei, gode del privilegio di desiderare naturalmente un fine soprannaturale, quand’anche non lo possa raggiungere senza l’aiuto (soprannaturale) della rivelazione divina; l’insufficienza epistemologica (non poter conoscere i mezzi della propria natura, quindi non poter conseguire il

Trinitate; tr. it., La Trinità, Opere, vol. IV, Città Nuova, Roma 1987, X, 1, 1, p. 393). Tuttavia, mentre Tommaso definisce un principio, Agostino vi riscontra un problema – che finirà per risolvere facendo un’eccezione alla regola, perché, nel caso dell’amore di Dio, l’appetitus corrisponde già a un modo della conoscenza: l’amore di ciò che non si conosce diventa possibile non appena si comprenda che si tratta di amare una cosa a causa della quale si vuole conoscere ciò che non si conosce ancora «omnis amor studentis animi, hoc est volentis scire quod nescit, non est amor ejus rei quam nescit, sed ejus quam scit, propter quam vult scire quod nescit – ogni amore dell’anima che si dà allo studio, cioè che vuole sapere ciò che ignora, non è amore di cosa che ignora, ma di cosa che conosce e per la quale desidera sapere ciò che ignora» (ivi, X, 1, 3, p. 397; cfr. Agostino, Confessiones; tr. it., Le Confessioni, Opere, vol. I, Città Nuova, Roma 1965, X, 20, 29, pp. 325327 e un commento in J.-L. Marion, Au lieu de soi. L’approche de saint Augustin, PUF, Paris 2008; tr. it., Sant’Agostino. In luogo di sé, Jaca Book, Milano 2014, § 16, pp. 141 ss.). Così, per sant’Agostino la scienza di Dio non condiziona l’amore di Dio, piuttosto ne consegue; al contrario di san Tommaso, che deve assumere una scienza di Dio preventiva rispetto all’amore di Dio. Questa differenza avrà conseguenze decisive (cfr. infra, capp. 8‑10). 14. Tommaso, Summa contra Gentiles, cit., I, 4, p. 75.

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proprio fine naturalmente soprannaturale) costituisce pertanto un dono infinito dal punto di vista della beatitudine e della destinazione finale dell’uomo; detto altrimenti: «creatura ergo rationalis in hoc praeeminet omni creaturae, quod capax est summi boni per divinam visionem et fruitionem, licet ad hoc consequendum naturae principia non sufficiant, sed ad hoc indigeat auxilio divinae gratiae – la creatura razionale prevale su ogni creatura quanto al fatto che è capace del sommo bene mediante la visione e la fruizione di Dio, anche se per conseguire ciò non bastano i princìpi della sua natura propria, ma ha bisogno dell’aiuto della grazia divina»15. Contrariamente a tutte le deviazioni – presumibilmente neo-tomiste, ma in fondo suareziane – di una teologia della doppia beatitudine, Tommaso d’Aquino mantiene fermamente il paradosso della finalità soprannaturale della natura umana, inscrivendosi così nella tradizione patristica, incontestabile e assolutamente sicura. Resta il fatto che l’interpretazione che ne dà si appoggia a un punto meno sicuro e più discutibile: poiché intende il privilegio della destinazione soprannaturale dell’uomo come una mancanza di conoscenza, subito interpreta l’aiuto della grazia

15.  Tommaso, De Malo; tr. it., Il male. Questioni 1-6, in Id., Le questioni disputate, vol. VI, ESD, Bologna 2002, q. 5, a. 1, p. 529; cfr. «ideo creatura rationalis, quae potest consequi perfectum beatitudinis bonum, indigens ad hoc divino auxilio, est perfectior quam creatura irrationalis, quae hujus boni non est capax, sed quoddam bonum imperfectum consequitur vitute suae naturae – quindi la creatura razionale, che può conseguire il bene perfetto della beatitudine ricorrendo all’aiuto divino, è superiore alla creatura irrazionale incapace di tale bene, pur raggiungendo questa un bene imperfetto con le capacità della sua natura» (Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia IIae, q. 5, a. 5, ad 2, p. 80). Qui seguiamo H. de Lubac, Surnaturel. Études historiques, Aubier-Montaigne, Paris 1946 e Id., Le Mystère du surnaturel, Aubier-Montaigne, Paris 1965; tr. it., Il mistero del soprannaturale, Opera omnia, vol. XI, Jaca Book, Milano 2017 (con Id., Augustinisme et théologie moderne, Aubier-Montaigne, Paris 1965; tr. it., Agostinismo e teologia moderna, Opera omnia, vol. XII, Jaca Book, Milano 2017).

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necessaria per divinizzare l’uomo – all’occorrenza l’aiuto della Rivelazione nelle Scritture – come una (altra) sorgente di conoscenza; in concorrenza vittoriosa con la ragione umana, la Rivelazione risulta per ciò stesso comparabile e commensurabile, perché condivide la funzione della ragione; l’aiuto della grazia è pagato al prezzo di un’interpretazione rigorosamente e prima di tutto epistemologica della stessa Rivelazione. L’interpretazione epistemologica della Rivelazione trova subito conferma in un secondo argomento (negativo), perché squalifica la conoscenza naturale di Dio tramite la semplice ragione (quella esercitata dalla theologia sulla filosofia) a motivo della sua insufficienza epistemologica. Procede così: supponendo che Dio possa (far)si conoscere dalla pura e semplice ragione, la Rivelazione non risulterebbe meno necessaria («ad ea etiam quae de Deo ratione humana investigari possunt, necessarium fuit hominem instrui revelatione divina») perché, se la conoscenza di Dio si riducesse a ciò che può attingere la ragione umana solo tramite il suo lumen, patirebbe una triplice limitazione: solo alcuni conoscerebbero Dio (pauci: gli esperti, gli istruiti, i filosofi), al termine di una lunga ricerca (per longum tempus) e non senza molteplici errori (admixtione multorum errorum)16; detto altrimenti, se la teologia filosofica avesse l’e-

16.  Cfr. Tommaso, Summa contra Gentiles, cit., I, 4, p. 75 e Id., Summa Theologiae, cit., IIa IIae, q. 11, a. 4, pp. 44 ss. (buona analisi in P. Synave, La révélation des vérités divines naturelles d’après saint Thomas d’Aquin, in A. Wilmart [éd.], Mélanges Mandonnet. Etudes d’histoire littéraire et doctrinale du Moyen Age, vol. I., Vrin, Paris 1930, pp. 327-370). Già in Maimonide «pertanto, se noi non ricevessimo certe dottrine per tradizione e non venissimo guidati dalle metafore, ma dovessimo raggiungere una perfetta rappresentazione intellettuale mediante definizioni essenziali, e verificare ciò che vogliamo verificare mediante la dimostrazione – e questo non è possibile se non dopo questi lunghi studi preliminari – ciò farebbe sì che tutta la gente muoia senza sapere se vi è un Dio nel mondo, o se non vi è, e tantomeno se su di Lui si debba affermare una proposizione o negare una

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sclusività della conoscenza di Dio, la grande maggioranza degli uomini vi avrebbe accesso solo molto poco e molto male. È quindi conveniente che la Rivelazione intervenga a partire dal livello di ciò che dovrebbe conoscere la semplice ragione, per un motivo pastorale inaggirabile: anche gli ignoranti (i rudes) hanno diritto alla salvezza. La superiorità della Rivelazione sulla ragione umana si rivela duplice, sebbene lo sia pur sempre per motivi epistemologici: innanzitutto perché solo essa permette di conoscere Dio come subjectum scientiae (direttamente, come theologia della sacra doctrina) e non soltanto come principium subjecti (indirettamente, come la theologia della filosofia); poi, essa permette a tutti di conoscerla – e con certezza, raddoppiando la filosofia e completando gli apporti deficitari del lumen naturale della ragione umana.

Subalternazione Nello stesso articolo della prima questione le risposte alle obiezioni confermano che la Rivelazione deve innanzitutto e perlopiù essere intesa come una comunicazione di conoscenze, senza una considerazione esplicita della possibile equivocità di una conoscenza dispensata da due fonti, né, soprattutto, delle altre funzioni di questa Rivelazione (in primo grado la grazia di santificare i suoi testimoni). La prima risposta sotto-

mancanza. Nessuno scamperebbe a questa dannazione, se non «uno per città o due per famiglia (Ger 3,14)» (Maimonide, La guida dei perplessi, UTET, Torino 2003, I, § 34, p. 146, in una lunga ammonizione relativa alle difficoltà relative allo studio di Dio da parte della filosofia, §§ 31‑36). Qui, oltre ad argomenti che risalgono ai Padri apologisti, si riconosce la descrizione della conoscenza dei princìpi sui quali si appoggiano i sillogismi probabili (endoxa) secondo Aristotele (cfr. Aristotele, Topici, in Id., Organon, Bompiani, Milano 2016, pp. 1165-1644: I, 1, 100 b 20, p. 1171).

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linea quindi che le verità rivelate non devono essere scrutate dalla ragione («non per rationem inquirenda»17), istituendo già un’opposizione tra le verità conosciute dalla Rivelazione e quelle conosciute dalla pura ragione. È però la seconda risposta ad andare più lontano: essa tenta, sempre epistemologicamente, di articolare in due scienze i due modi di conoscenza in concorrenza tra di loro, secondo il principio che «diversa ratio cognoscibilis diversitatem scientiarum inducit – la diversità di princìpi o di punti di vista causa la diversità delle scienze». Si tratta del principio aristotelico di subordinazione delle scienze: la rotondità della terra si può dimostrare matematicamente facendo astrazione dalla materia, ma anche fisicamente considerando la materia; ne segue che l’astronomia è subordinata alla geometria, come la musica all’aritmetica e, in generale, la fisica è subordinata alla matematica; pertanto, conclude Tommaso d’Aquino, «nulla impedisce che degli stessi oggetti, nihil prohibet de eisdem rebus», all’occorrenza le «realtà divine» si esercitino contemporaneamente due conoscenze, l’una subordinata all’altra, il lumen naturale della ragione (la ragione dei filosofi) subordinata alla luce della Rivelazione divina (la sacra doctrina)18. Viene così rinforzata la supremazia della theologia sacrae doctrinae sulla theologia philosophiae, ma al prezzo (elevato) di un’assimilazione ancor più netta della prima alla funzione epistemologica della seconda: la Rivelazione farebbe conoscere meglio e di più del lumen naturale, perché farebbe innanzitutto e perlopiù conoscere – senza precisare ciò che qui “conoscere” significhi, né se resti univoco o si esponga a un’equivocità irriducibile. Questa imprecisione diventa patente se si considera un’altra difficoltà: non si può non obiettare che questo principio di su-

17. Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 1, a. 1, ad 1m., p. 26. 18.  Ivi, Ia, q. 1, a. 1, ad 2 m., p. 27.

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bordinazione (o piuttosto di subalternità) delle scienze resta puramente filosofico per Aristotele, articolando due scienze ugualmente umane e filosofiche (matematica e matematica applicata alla fisica); quindi non si può applicare – come tenta di fare Tommaso d’Aquino – a due saperi perfettamente eterogenei, l’uno umano, proveniente dalla nostra esperienza di questo mondo, l’altro proveniente da altrove, da una Rivelazione di Dio diretta e da lui accordata. Non si può concepire il rapporto incommensurabile tra un sapere di Dio umano e uno divino tramite un dispositivo appropriato a scienze umane che hanno il medesimo statuto, sebbene siano gerarchicamente distinte. Forse, presagendo l’audace incoerenza di questa assimilazione, Tommaso d’Aquino sembra prudentemente attenuarla, suggerendo che l’«habitus fidei est quasi habitus principiorum – l’abito della fede, che è come un abito dei principi», o che le cose «quae fide tenemus sunt quasi prima principia – le cose che teniamo per fede fungono per noi, […] quasi da principi»19. In breve: nel migliore dei casi (o nel 19.  Tommaso, risp. in Sententiarum; tr. it., Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, vol. I, ESD, Bologna 2001, I, q. 1, prologus a. 3, sol. 2, p. 147, e Id., Super Boetium De Trinitate, cit., q. 2, a. 2, resp., p. 133; cfr. «unde prima ipsa quae fides tenemus sunt nobis quasi prima principia in hac scientia, et alia sunt quasi conclusiones – in ogni scienza alcune cose fungono quasi da princìpi e altre quasi da conclusioni» (ivi, q. 2, a. 2, p. 135). Chenu, riconoscendo l’importanza di questo quasi, lo interpreta come una conferma (M.-D. Chenu, La Théologie comme science au xiiie siècle, Vrin, Paris 1927 [19693]; tr. it., La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1985, p. 24) e se ne entusiasma, forse con imprudenza, come se fosse automatico che la teologia rivelata abbia molto da guadagnare a ergersi a scienza rigorosa, d’altronde, non è neppure certo che la filosofia abbia a propria volta guadagnato a ritenersi scienza rigorosa. Gilson rimane più moderato (E. Gilson, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 19455; tr. it., Il tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 2011, pp. 26 ss.). Ugualmente Torrell: «non si sottolineerà mai abbastanza il quasi, che significa che san Tommaso era cosciente dei limiti della sua trasposizione. Il sapiente che pra-

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peggiore) si tratta solo di una quasi subordinazione; pertanto, l’interpretazione prioritariamente epistemologica della Rivelazione compie un passo in più e di conseguenza cresce anche la sua ambiguità: la Rivelazione come scienza si articola ormai insieme alla scienza filosofica di Dio e si integra con ciò che, nel corso della costituzione del sistema della metaphysica, diventerà il sistema delle scienze; i successori di Tommaso d’Aquino lo faranno certo solo pretendendo di reagire a questo sistema, ma tale pretesa assicurerà loro solo un primato tanto provvisorio quanto, di principio, fragile20. La patente incertezza (per non dire l’imprecisione) di questa interpretazione della Rivelazione si fa manifesta nella dottrina tomista del rivelabile (revelabile). Anzitutto è dottrina tomista più che tommasiana, perché non si tratta che di un hatica una scienza subalterna deve, quantomeno teoricamente, poter innalzare al livello della scienza superiore e, se lo desidera, acquisire a propria volta l’evidenza dei princìpi che fino allora usava in modo pragmatico. Ora, tutto ciò è impossibile per il teologo» (J.-P. Torrell, Recherches thomasiennes, Vrin, Paris 2000, p. 150). 20.  Boulnois conclude: «la teologia è quindi una scienza “quasi subalterna” (quasi subalternata) alla scienza divina, con tutta l’ambiguità del quasi […], che lascia intendere che il modello non è perfettamente adeguato» (O. Boulnois, Fonder la théologie comme science. Albert, Bonaventure, Thomas, in Ph. Capelle-Dumont [éd.], Philosophie et théologie, vol. II, O. Boulnois [éd.], Philosophie et théologie au Moyen Âge, Cerf, Paris 2009, pp. 215-238: p. 219, che alle pp. 317-320 cita i due precedenti autori). Non sono del resto mancate obiezioni a questa dottrina: Enrico di Gand nega che la scientia beatorum possa fornire una reale conoscenza della causa (del propter quid) della sacra doctrina, come sarebbe richiesto dal modello aristotelico (cfr. Enrico di Gand, Summa quaestionum ordinarium, a. 7, qq. 4‑5) e Goffredo di Fontaines che rifiuta che la certezza d’evidenza dei beati possa aiutare i credenti che dispongono solo di una certa adesione (Goffredo di Fontaines, Quodlibetum IV, q. 10); cfr. le traduzioni e i commenti di S.F. Brown, La subalternation et ses critiques d’après saint Thomas. Henri de Gand, Godefroid de Fontaines, Jean de Paris, Pierre d’Auriole, in O. Boulnois [éd.], Philosophie et théologie au Moyen Âge, cit., pp. 311-326: pp. 317‑320).

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pax dell’opera21, al quale la tradizione dei commentatori – da Caie­tano fino a Étienne Gilson – ha conferito un’importanza smisurata ma sintomatica di una profonda ambiguità. Si tratta, innanzitutto, di mantenere il rapporto razionale tra le due conoscenze di Dio, avendo ammesso che anche e anzitutto la Rivelazione costituisce una (altra) conoscenza; si dirà quindi che «siccome dunque la Scrittura o dottrina sacra considera alcune cose precisamente in quanto sono rivelate da Dio […], tutte le cose che possono essere rivelate da Dio convengono per l’oggetto formale che è proprio di questa scienza»22. Detto altrimenti: tutto ciò che è, checché ne sia, quindi tutte le cose in quanto enti e dunque l’intero ambito della theologia dei filosofi, può cadere sotto l’autorità della sacra doctrina (theologia revelata) nella misura in cui si rapporta già implicitamente a uno stesso oggetto formale di conoscenza, all’occorrenza Dio. Quindi, reciprocamente, ogni conoscenza naturale ipso facto diventa in potenza riconducibile alla Rivelazione, come un rivelato che si ignora, un rivelato anonimo. Questo rivelabile può certo essere inteso come un «rivelato virtuale», un «sape-

21. L’Index thomisticus (edito da R. Busa et alii) ne segnala infatti solo due occorrenze, tratte da questo stesso testo, Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 1, a. 3, resp. et ad 2m. 22.  «Omnia quaecumque inquantum scilicet sunt divinitus revelabilia, communicant in una ratione formali objecti hujus scientiae» (Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 1, a. 3, resp., p. 29); cfr. E. Gilson, Note sur le revelabile selon Cajetan, in «Medieval Studies», n. 15, 1953, pp. 199-206 ripreso in E. Gilson, Humanisme et Renaissance, Vrin, Paris 1983, pp. 37-44, che mostra chiaramente che Caietano, con patente opposizione all’intenzione di Tommaso d’Aquino, stabilisce una distinzione formale tra i demonstrabilia e i revelabilia, al fine di giustificare la distinzione tra la finalità (naturale, filosofica) dell’uomo secondo il semplice esse e la sua finalità soprannaturale (rivelata, teologica secondo il senso moderno) secondo l’esse bonum. Tuttavia, Gilson non spiega né giustifica un punto che a nostro avviso è cruciale: l’integrazione tommasiana dei demonstrabilia ai revelabilia, tale da rendere l’interpretazione epistemologica della Rivelazione in sé la sola possibile.

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re umano assunto dalla teologia per i suoi propri fini»23, se non come un’esigenza propriamente teologica, ammettendo che «dalla filosofia venga esigìto come proprio oggetto ciò che nascostamente trapassa già nella teologia»24; nondimeno, si tratta sempre di una conoscenza, tramite l’interpretazione teologica, se non strettamente filosofica. Il revelabile assicurerebbe la continuità, se non l’univocità – sempre epistemologica, – tra i demonstrabilia e i revelata.

Lo scarto Ancora una volta non si può evitare di chiedere che cosa significhi qui la scientia che è supposta comune ai due ambiti e applicata alla teologia rivelata sul modello della teologia filosofica. Tra vari altri testi la difficoltà affiora chiaramente, nell’apertura del libro IV della Summa contra Gentiles. Tommaso d’Aquino vi distingue infatti non più due, bensì tre scienze o, più prudentemente, tre possibili forme di conoscenza di Dio. Innanzitutto, la conoscenza per lumen rationis, che resta debole (debilis) perché dipende solo dalla sensazione, che è sempre confusa e può solo risalire, parzialmente e oscuramente, dalle creature verso Dio («naturalis ratio per creaturas in cognitione Dei ascendit») – vi si riconosce la theologia philosophica. Viene poi la conoscenza rivelata, che procede

23.  E. Gilson, Il tomismo, cit., p. 17; che precisa: «questo “rivelabile” è, quindi, qualcosa di filosofico attirato per così dire nell’orbita della teologia, perché la sua conoscenza, come quella del rivelato, è necessaria alla salvezza. A differenza del “rivelato”, il “rivelabile” non figura nella rivelazione a pieno diritto e in virtù della sua propria essenza, ma come incluso nella teologia, che lo assume per il suo proprio fine» seguendo una «disponibilità permanente di tutto il sapere in funzione dell’opera del teologo» (ivi, pp. 21 e 24). 24.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 154.

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dall’ascolto («fides ex auditu», Rm 10,17) e suscita la fede: essa discende da Dio («fidei vero cognitio a Deo in nos e converso descendit»), ma resta inintelligibile («revelantur ut tamen non intelligantur») nella stretta ragione filosofica e quindi si fonda solo sull’autorità delle Scritture («auctoritate sacrae Scripturae, non autem ratione naturali»). Infine e soprattutto interviene la conoscenza per visione (intuitus) dei beati («non sicut credita, sed sicut visa»), che domina le prime due25. Potrebbe darsi che la giustapposizione di questi tre atteggiamenti, di diritto così eterogenei, tenga solo nel caso della loro assimilazione, forse forzata, allo stesso e unico modello epistemologico: sempre e dappertutto si tratterebbe solo di conoscere, certo secondo gradi diversi; come se, anche nella beatitudine finale, il nostro rapporto a Dio si giocasse innanzitutto nel sapere – più o meno esatto, più o meno evidente, più o meno chiaro e distinto – che ne avremmo o non ne avremmo. D’altronde è Tommaso d’Aquino stesso a riconoscere che l’equivocità caratterizzante i modelli della conoscenza di Dio, senza altra precauzione, non sarebbe in grado di sfociare nel­ l’univocità della scienza divina26. Se bisogna ammettere almeno due definizioni di scienza («duplex est scientiarum genus») e se la prima vale per tutte le scienze il cui soggetto ci è accessibile, quindi non per Dio in quanto tale («omnis scientia procedit ex principiis per se notis. Sed sacra doctrina procedit ex articulo fidei»), la quasi-subalternità della theologia philosophiae alla theologia sacrae doctrinae si può applicare solo alla seconda accezione di scienza: quella di una sacra doctrina a propria volta subordinata alla scienza dei beati («ex principiis superioris scientiae, quae Dei et beatorum propria est, deri-

25. Tommaso, Summa contra Gentiles, cit., IV, 1, pp. 11-13. 26.  Qui seguiamo Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 1, a. 2, successivamente obj. 1; conclusio et resp., pp. 28 ss.

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vata»). Così tra le scienze che considerano Dio ci sarebbero non una, ma due subalternità: quella della theologia philosophiae alla theologia sacrae doctrinae e poi, soprattutto, quella della conoscenza per fede (Rivelazione tramite le Scritture, theologia sacrae Scripturae, che crede senza comprendere) alla scientia Dei et beatorum. Alla scienza dei beati – e a essa sola – compete di vedere (intuitus) in Dio i primi princìpi, che finalmente ne fanno un’autentica scientia Dei («quae scilicet est scientia Dei et beatorum»). Questa modifica non attesta alcun difetto dell’argomentazione iniziale di Tommaso d’Aquino, ma conferma la difficoltà della cosa stessa, che egli disvela con il suo abituale rigore e che qui deve essere ben considerata: ciò che fa della teologia rivelata un’eventuale scienza consiste, in ultima analisi, non soltanto nel fatto che essa sovradetermina la conoscenza naturale (filosofica, tramite la ragione umana) di Dio, ma soprattutto nel fatto che subordina se stessa alla scientia beatorum27. Donde una domanda

27.  Tommaso l’aveva già riconosciuto: «in scientiis subalternatis supponuntur et creduntur aliqua a scientiis superioribus subalternantibus et hujusmodi non sunt per se nota nisi superioribus scientiis. Et hoc modo se habent articuli fidei, qui sunt principia hujus scientiae ad cognitionem divinam, quia ea quae sunt per se nota de scientia, quam Deus habet de se ipso, supponuntur in scientia nostra, et creditur ei nobis hoc indicanti per suos nuntios, sicut medicus credit physico quattuor elementa – nelle scienze subalternate vengono presupposte e tenute per vere alcune cose desunte dalle scienze superiori. Tali princìpi non sono quindi noti di per sé se non a coloro che possiedono le scienze superiori. E questo è anche il modo in cui gli articoli di fede, che rappresentano i princìpi di questa scienza, stanno alla conoscenza divina, poiché ciò che è di per sé noto nella scienza che Dio ha di se stesso, viene presupposto nella nostra scienza e viene tenuto per vero sulla base di ciò che Egli ci indica attraverso i suoi testimoni, così come il medico tiene per vero ciò che gli dice il filosofo naturale, e cioè che gli elementi sono quattro» (Tommaso, Commento al libro di Boezio sulla Trinità, cit., q. 2, a. 2, p. 137). Di conseguenza da una parte la nostra (o le nostre due) conoscenza(e) di Dio sono subordinate alla scienza che Dio ha di sé, quella che naturalmente noi non abbiamo. Com’è dunque possibile concludere che questa subalter-

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inevitabile: quando noi, in via, qui e ora, tentiamo di sviluppare la theologia sacrae doctrinae che Dio ci rivela nella sua Parola, non abbiamo accesso alla «scienza dei beati», che per definizione è ancora a venire, escatologicamente; pertanto, la nostra teologia rivelata non può avere accesso ai princìpi che soli ne farebbero una scienza, quindi essa non ha il rango di una scienza rigorosa. Ancora una volta, questa conclusione non squalifica l’argomento tomista, ma ne manifesta perfettamente il nucleo che, al punto in cui ci troviamo, può essere così formulato: la Rivelazione, intesa secondo la sua indiscutibile caratteristica – provenire, mediatamente o immediatamente, dalla Parola di Dio, in particolare quella trasmessa dalle Scritture (sacra doctrina, sacra Scriptura) – può e soprattutto deve rivendicare lo statuto di scienza? Tommaso d’Aquino pretende che lo sia di diritto, ma a una condizione (la subalternità alla scientia Dei et beatorum), che, di fatto e di diritto – qui e ora, in via – è impossibile soddisfare. Forse, si dovrebbe piuttosto considerare che Tommaso d’Aquino non risolve la questione della teologia come scienza, in quanto in ultima istanza e adeguatamente egli la intende a partire dalla scientia beatorum, quindi escatologicamente. Tuttavia, anche con questa prudente riserva,

nità riproduca quella del medico rispetto al fisico? I tomisti più osservanti vi convengono spesso: «quando il teologo non sarà più viator, quando avrà ricevuto la visione beatifica, vedrà immediatamente in Verbo la vita intima di Dio, la Deità o essenza divina; egli coglierà in piena luce le verità che prima conosceva tramite la fede e potrà ancora vedere extra Verbum [dove?] le conclusioni che se ne possono dedurre. In cielo la teologia esisterà allo stato perfetto con l’evidenza dei princìpi, in via essa esiste in uno stato imperfetto, per così dire non ha ancora raggiunto l’età adulta» (R. Garrigou-Lagrange, Thomisme, in A. Vacant - E. Mangenot [éds.], Dictionnaire de théologie catholique, vol. XV/1, Letouzey et Ané, Paris 1946, coll. 823-1023: col. 848). Torrell si esprime con maggiore sobrietà: «Tommaso distingue con cura la sapienza dei santi da quella dei teologi» (J.-P. Torrell, op. cit., p. 136).

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egli giunge solo a far apparire ancora più chiaramente la difficoltà. In questo caso ci conduce a scegliere tra due possibili risposte all’unica difficoltà: o convalidare l’interpretazione epistemologica della Rivelazione, oppure rifiutarla. Inizieremo con il seguire questa via (infra, capp. 4‑6). Poi, eventualmente, rimarrà il compito di assegnare alla Rivelazione una comprensione più adeguata, cioè più potente in quanto non epistemologica (infra, capp. 8-10).

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4 Suarez e la sufficienza della proposizione

Le innovazioni e le esitazioni (se non le ambiguità) della dottrina di san Tommaso sulla Rivelazione testimoniano quantomeno una chiara coscienza della difficoltà a definirne il concetto. Nel suo caso, in cui il genio è alleato della santità, anche le decisioni audaci, che talvolta sono chiaramente in rotta rispetto all’intera tradizione anteriore (per esempio a proposito dei nomi divini), non compromettono l’equilibrio dell’edificio teologico. «Disgraziatamente, [però,] san Tommaso d’Aquino non è stato il dottore comune della teologia cattolica prima dell’epoca moderna; fatta eccezione per la sua scuola […] non è stato seguito»1. Anziché stare a discutere, e ancor meno anziché rifiutare l’interpretazione epistemologica della Rivelazione, l’evoluzione della teologia l’ha convalidata e radicalizzata, quantomeno per un certo tempo, fino a spingerla alla sua conseguenza ultima, nella figura di una teoria proposizionale delle verità rivelate in cui l’«oggetto della sacra doctrina rischia di 1.  Y. Congar, La Tradition et les traditions. Essai historique, Fayard, Paris 1960; tr. it., La Tradizione e le tradizioni. Saggio storico, Paoline, Milano 1961, p. 178. Questo eccesso di ottimismo potrebbe anche essere corretto: sia nell’«epoca moderna», sia «nella sua scuola», su punti essenziali della sua dottrina i neo-tomismi del secolo XIX e XX non l’hanno «seguìto».

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essere non più le realtà religiose in quanto tali, ma le proposizioni, più o meno razionali»2. Questa via si è imposta come scontata innanzitutto perché si mostrava come la più razionale, o almeno la più coerente; la teologia cristiana, tuttavia, consegue la sua razionalità e ne dà prova solo affrontando paradossi che la rendono al contempo più difficoltosa e più potente; per contro, una logica troppo diretta e un’evidenza troppo chiara portano spesso alla sconfitta della fede e all’assurdità della dottrina. L’esperienza ne dà prova: le eresie nascono sempre quando agli inevitabili paradossi della rivelazione si danno soluzioni molto logiche, quasi evidenti, offrendo conciliazioni diplomatiche (se non devotamente pastorali) tra ciò che Dio dà da pensare e quanto è consentito (o impedito) dalle ideologie e dalla cultura di una data epoca. L’interpretazione epistemologica della Rivelazione conduce alla sua assimilazione a una scienza, così da riconoscerla come un sapere fondamentalmente e innanzitutto teorico. Tra mille altri possibili, proponiamo l’esempio di un autore moderno, Hermann Dieckmann, che senza alcun imbarazzo ha sostenuto che «oggetto [della Rivelazione] sono le verità, cioè essa è relativa all’ordine della conoscenza intellettuale, anche se la sua finalità è religiosa»3. Si può notare la patente difficoltà contenuta nell’enunciato: come può un oggetto puramente teorico avere una finalità religiosa? Come è possibile realizzare la transizione da un ambito all’altro? Se si risponde che «questa manifestazione dello spirito divino è per sua natura sia intellettuale che concettuale, ha per oggetto le verità che l’uomo non può percepire che 2.  Y. Congar, Théologie, in A. Vacant - E. Mangenot (éds.), Dictionnaire de théologie catholique, cit., vol. XV/1, coll. 342-502: col. 409. 3.  «Objectum [revelationis] sunt veritates, i.e. revelatio spectat ad ordinem cognitionis intellectualis; finis est religiosus» e anche «revelatio igitur est manifestatio veritatum; hinc pertinet ad ordinem cognitionis intellectualis» (H. Dieckmann, De Revelatione Christiana. Tractatus Philosophico-­ Historicus, Herder, Freiburg i.B. 1930, § 196, p. 136).

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tramite l’intelletto»4, la difficoltà si raddoppia: la mens divina si definisce veramente solo tramite una natura intellettuale e concettuale e consiste primariamente in un insieme di verità che l’intelletto umano finito è in grado di percepire? Non sarebbe opportuno rovesciare i termini e dire che, dal momento che la mens divina propone ed enuncia verità che non hanno a che fare (non solo né in prima istanza) con la natura intellettuale o concettuale, queste verità non possono essere percepite semplicemente tramite l’intelletto finito, che è appropriato a verità oggettive? Se si vuole realmente definire la Rivelazione a partire da un Dio concepito come «causa efficiente» (aspetto che è in discussione), allora è necessario che l’uomo «recettore» (anche questo è in discussione) la riceva come una parola pronunciata (locutio) e una conoscenza (cognitio) compresa (intellectio), o non si tratta piuttosto di un evento di altro ordine, di una manifestazione di tutt’altra portata? San Tommaso distingueva tra due forme della scientia divina (scientia quam philosophi prosequuntur e theologia sacrae Scripturae), se non addirittura tre (aggiungendo la scientia beatorum per visione diretta), quindi l’interpretazione epistemologica era ancora in grado di mantenere una stretta equivocità; al contrario la deriva moderna – che viene considerata tomista ma nei fatti è anti tommasiana – si attiene a un’unica accezione di conoscenza, che non solo è puramente «intellettuale, intellectualis» e «teo­ retica, theoretica», ma anche «scientifica, scientifica» nel senso inteso dal «subjectum recipiens»5 della scienza dei moderni. Questa univoca sovrascrittura dei modi della scientia divina 4.  «Haec manifestatio mentis divinae sua natura est intellectualis et conceptualis, quae pro objecto habet veritates et ab homine percipi nequit nisi intellectu» (ivi, § 199, p. 138), si veda: «locutio natura sua tendit in communicandam propriam cognitionem alteri, i.e. ad docendum alterum» (ivi, § 202, p. 140) o «et haec quidem auctoritas recte vocari potest theoretica vel, si ut talis constat, scientifica» (ivi, § 203, p. 141). 5.  Ivi, § 196, p. 136.

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radicalizza l’interpretazione epistemologica fino a ridurre la Rivelazione a un insieme di enunciati proposizionali.

Una scienza senza fede Questo risultato tardivo e realmente insensato, tuttavia, si è potuto presentare come un’evidenza solo perché porta a termine una deriva antica e un costume ben consolidato. L’interpretazione epistemologica della Rivelazione intende la Rivelazione come una conoscenza che merita il titolo di scienza, rimane allora da precisare quale senso attribuire a tale titolo, dal momento che si pretende di applicarlo nientemeno che alla Rivelazione. Suarez ha risposto a tale questione in modo esemplare e all’apparenza evidente: «se qualcuno inizia a chiedere che cosa intendo con il nome “Rivelazione”, rispondo in una parola: ogni proposizione di fede sufficiente, che sia fatta solo interiormente o tramite una predicazione esterna. Per farlo meglio comprendere, sottolineo che per la conoscenza di fede sono necessarie due cose: una è l’apprensione (apprehensio) delle cose da credere nella misura in cui sono proposte all’uomo come enunciati pronunciati da Dio e poi credibili seguendo la testimonianza divina; l’altra è l’assenso (assentio) dato alle cose così proposte, la fede, propriamente, corrisponde all’assenso»6. Tale distinzione è ben comprensibile: se alla Rivelazione è appropriato il

6.  «Sed quaeret aliquis primo quid nomine revelationis intelligamus. Respondeo breviter intelligi omnem sufficientem fidei propositionem, sive interius tantum fiat, sive per exteriorem praedicationem. Ut hoc autem magis intelligatur, adverto ad cognitionem fidei duo esse necessaria: unum est apprehensio rerum credendarum, quatenus homini proponuntur ut dicta a Deo, et consequenter ut credibilia ex testimonio divino; aliud est assentio ad res propositas, in quo proprie fides ipsa consistit» (F. Suarez, De Necessitate gratiae, Opera omnia, vol. VII, Berton, Paris 1859, p. II, c. 1, n. 8, p. 588).

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rango di scienza, allora è necessario che comprenda enunciati e proposizioni sulle «cose», anche se sono da credere. Tuttavia, ciò è sorprendente: se la fede propriamente detta corrisponde al solo assenso, se ne deve allora inferire che non riguarda la comprensione delle «cose da credere»? In questo caso, la proposizione sufficiente detta di fede non si realizzerà proprio nello stesso modo di una proposizione compresa senza la fede? Prima di prendere posizione su questo punto, cerchiamo di chiarire la tesi dibattuta. In situazione di Rivelazione, un uomo potrebbe non assentire alla verità rivelata e quindi non conoscerla, pur apprendendola nei fatti, come colui che «in astronomia, ha sentito dire che gli astri sono simili senza però assentirvi (non assentit), né giudicare che essi lo siano, quindi senza comprenderlo; egli apprende soltanto (tantum apprehendit) e capisce ciò che dice e afferma»7. Ancora una volta, la situazione di Rivelazione è spiegata assimilandola alla situazione epistemologica delle scienze, così come vengono definite dalla razionalità filosofica: in astronomia (una delle matematiche applicate di Aristotele) si può apprendere (un enunciato ottenuto per sentito dire, quindi non realmente compreso) senza accordare il proprio consenso. Ciò che vale in questo caso e in tutte le altre scienze legate alla ragione naturale è ancora valido per una proposizione di fede, anche solo sufficiente? La Rivelazione, anche supponendo che abbia il rango di scienza, rientra nella stessa e univoca definizione di conoscenza di tutte le altre scienze? La fede e il suo assenso si aggiungono come dall’esterno all’apprensione oppure, al contrario, l’apprensione implica già un assenso, immediatamente e autono-

7.  «Qui, cum hac revelatione stat, hominem non assentire veritati revelatae et tunc non potest cognoscere illam, sicut qui audit astra esse paria et non assentit nec judicat esse paria, nec cognoscit esse paria, sed tantum apprehendit et audit id affirmari» (F. Suarez, De Trinitate, Opera omnia, vol. I, Berton, Paris 1856, p. I, c. 12, n. 4, p. 572).

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mamente? La fede dell’assenso viene dopo l’apprensione (per confermarla o smentirla), oppure viene con l’apprensione, per renderla possibile? In breve: è necessario vedere per credere o credere per vedere? La scelta di Suarez non consente alcun dubbio: può sempre esserci una apprehensio della proposizione rivelata, anche senza alcuna assentio di fede. Per sostenere questa tesi abbastanza strana (un coglimento puramente intellettuale e in via del rivelato, ma senza la fede) egli ammette il caso opposto più estremo, quello della scienza intuitiva dei beati: «Dio può insegnare al primo predicatore della fede tramite la scienza infusa e beata (per scientiam infusam vel beatam) e quindi non è necessario che Dio proponga a chiunque e in forma immediata l’oggetto proprio alla fede, se non come oggetto di scienza e di visione (objectum scientiae et visionis)»8. Non si può certo negare il fatto che i beati non hanno più bisogno di credere per conoscere ciò che è rivelato (non fosse che in nome di 1Cor 13,13), ma per quale motivo la loro situazione (visione diretta di Dio) può rischiarare la nostra, di noi che restiamo in via? Senza perdere tempo con questa incongruenza, Suarez giunge alla conclusione: «il nome di Rivelazione a volte (interdum) significa la sola proposizione sufficiente dell’oggetto rivelato (solam objecti revelati sufficientem propositionem), sia che colui al quale fu fatta una tale rivelazione vi creda, sia che non vi creda (sive credatur ab eo, cui fit talis revelatio, sive non)»9. Affinché la proposizione sufficiente integri finalmente 8. «Posset enim primus fidei praedicator doceri a Deo per scientiam infusam vel beatam, et tunc non esset necessarium proprium objectum fidei, quatenus tale est, alicui proponi a Deo immediate, sed tantum ut objectum scientiae et visionis» (F. Suarez, De Fide, Opera omnia, vol. XII, Berton, Paris 1858, d. IV, s. 1, n. 5, p. 113). 9.  «Solam objecti revelati sufficientem propositionem, sive credatur ab eo cui fit talis revelatio, sive non, et sive revelatio fiat mere interius an ipso Deo per se ipsum, vel per angelos, sive fiat exterius per hominum praedicationem»

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l’assenso, sarà necessario aggiungerle la grazia soprannaturale di Dio (la fede); al contempo, in sé, la propositio sufficiens giunge proprio a essere sufficiente per se stessa10, in modo tale che l’apprensione del rivelato, possibile senza la fede, implica la ragione naturale; mentre il consenso, poiché presuppone la fede, riguarda la grazia. D’altronde, si può arrivare allo stesso risultato con altri argomenti: è possibile distinguere la «conclusione di fede» – che trae la conclusione partendo da un enunciato di fede (ogni battezzato è giustificato, quindi questo bambino battezzato è giustificato), dalla conclusione teologica – che trae la conclusione partendo da un enunciato di ragione (ogni uomo ride, quindi Cristo ride)11. In questo caso «assicuro che ogni assenso teologico, fondato per propria natura su un ragionamento discorsivo in quanto ragione propria dell’assenso, è atto non solo distinto dalla fede, ma anche naturale nella sostanza; di conseguenza la sua certezza non eccede la certezza naturale del principio dal quale dipende», quindi «il suo assenso è di specie diversa dall’assenso di fede»12. Non solo l’assenso teologico non richiede la fede, ma si può anche arrivare a concludere che la Rivelazione, quando è mediata (tramite un insegnamento), non raggiunge ancora l’assenso di fede, ma solo l’assenso teologico: «la rivelazione soltanto virtuale e mediata non è (F. Suarez, De Trinitate, cit., I, c. 12, n. 4, p. 572) o «sic enim contingit multis revelari fidem qui non credunt, quamvis sine praevia revelatione nemo credat» (F. Suarez, De Necessitate gratiae, cit., L. II, c. 1, n. 8, p. 588). 10. «Hoc modum propositionis fidei posse esse sufficientem» (F. Suarez, De Fide, cit., d. IV, s. 1, n. 4, p. 113). 11.  Ivi, d. III, s. 11, n. 5, p. 96. 12.  «Assero omnem assensum theologiae, per se fundatum in discursu tanquam in propria ratione assentiendi, esse actum non solum a fide distinctum, sed etiam in substantia sua naturalem, et consequenter certitudinem illius non excedere certitudinem naturalem illius principii, a quo pendet» (ivi, d. VI, s. 4, n. 10, p. 178).

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sufficiente per l’oggetto formale della fede, di conseguenza l’assenso fondato in essa tramite il concorso di qualche principio di evidenza naturale non è neppure sufficiente all’assenso propriamente di fede, ma solo all’assenso teologico (sed tantum ad theologicum)»13. Letteralmente, ciò che si rivela (certo in forma mediata, ma quale rivelazione non lo è?) è riassumibile in una proposizione evidente per la ragione, un enunciato di «scienza»14; più radicalmente, esso non riguarda la fede, ma la teologia – ciò che si rivela riguarda propriamente la teologia, in quanto non richiede la fede per essere ricevuto, né la raggiunge. Ci si chiederà, tuttavia, quale autorità possa sostenere la rivendicazione di un «assenso teologico», se esso è distinto e dispensato dalla fede. Quale validità è possibile accordare alla proposizione «teologica» se questa precede e condiziona l’atto di fede, dal momento che lo stesso oggetto della fede «in sé non si vede»15? Infatti, nell’insegnamento «teologico», in cui la teologia come scienza è ridotta a insieme di proposizioni («sufficienti»), la fede diventa facoltativa, sia per l’insegnante, sia per colui che riceve l’insegnamento. All’insegnante non è richiesto un habitus permanente di fede, ma solo che

13.  «Revelatio tantum virtualis seu mediata non sufficit ad objectum formale fidei, et consequenter assensus in illa fundatus cum juvamine alicujus principii naturaliter evidentis non sufficit ad proprium assensum fidei, sed tantum ad theologicum» (ivi, d. III, s. 11, n. 7, p. 97). 14.  «Recte loquuntur Theologi, qui dicunt Theologiam esse scientiam in Catholico, non in haeretico» (ivi, d. III, s. 11, n. 9, p. 98). Dal momento che la teologia è una scienza, ciò significa che l’enunciato può cambiare statuto a seconda che vi si creda oppure no, ma che, nel suo senso «scientifico», resta immutato. 15.  Rispettivamente «ergo hac ratione propositio illius objecti antecedere debet, saltem est conditio necessaria ad credendum» e «objectum fidei in se non videtur, neque etiam revelatio ipsa evidenter cognoscitur ut emanans a Deo» (ivi, d. IV, proemium, p. 111).

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nel momento specifico (actualiter) trasmetta la proposizione come proveniente da Dio16. Quanto a colui che riceve l’insegnamento, egli non è ancora tenuto a credere, ma può aspettare che la proposizione gli appaia credibile, cioè che gli sia comunicata senza e prima di qualunque rivelazione o assenso di fede. «Donde affermo che l’evidenza della credibilità non proviene dalla luce della fede, come un habitus che produce un giudizio evidente. […] La credibilità, infatti, non è rivelata da Dio, ma è tratta dai segni conosciuti tramite l’esperienza; essa non è oscura, ma chiara, quindi non proviene dall’oggetto formale della fede»17. Sorprendente rovesciamento: qui la credibilità precede la fede e la Rivelazione lascia la fede nell’oscurità, tanto che la credibilità della proposizione è già chiara. In breve: la Rivelazione rende oscuro per la fede ciò che nell’enunciato proposizionale, senza la fede, è illuminato dalla credibilità. Suarez non esita a trarre le conseguenze definitive di questo ragionamento: «quindi la risposta generale è che l’evidenza della credibilità è sufficiente, a tal punto che può trovarsi sia nella proposizione esterna sia [nella proposizione] semplicemente interna»18. La credibilità, di conseguenza, ri16.  «Alio modo, solum actualiter, quantum ad certitudinem illius doctrinae quam sufficienter proponit, ut a Deo traditam. […] Ratio autem propria est, quia res fidei proposita ab aliquo praedicante non habet auctoritatem ab ipso secundum se spectata» (ivi, d. V, s. 1, n. 3, p. 139). La proposizione di fede insegnata non deriva la propria autorità da colui che la propone. 17.  «Unde dico evidentiam credibilitatis non fieri a lumine fidei, tanquam ab habitu eliciente judicum evidens. […] Haec autem credibilitas non revelatur a Deo, sed ex signis per experientiam cognitis sumitur; nec etiam obscura, sed clara est; ergo non est ex objecto formali fidei» (ivi, d. IV, s. 6, n. 2, p. 136). 18.  «Responsio ergo generalis est, sufficere evidentiam credibilitatis, quae tam in propositione externa quam in mere interna inveniri potest» (ivi, d. IV, s. 1, n. 8, p. 115). Si veda «ut propositio objecti fidei sit sufficiens, necessarium est ut id quod proponitur fiat evidenter credibile, tanquam dictum a Deo ac subinde ut certam et infallibile» (ivi, d. IV, s. 2, n. 4, p. 116) o «ut objectum fidei sufficienter proponatur, non solum objectum debere fieri evi-

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chiede e consente di credere alla proposizione di fede prima che intervenga la fede donata da Dio, perché si deve e si può concepire razionalmente l’oggetto della proposizione «teologica» (quindi senza la fede), come e anche meglio di ogni altro oggetto della scienza umana. La proposizione sufficiente, assicurandone la credibilità, diventa la quasi ragion sufficiente della fede: «nonostante non sempre possiamo rendere realmente ragione delle cose che crediamo, possiamo almeno rendere una ragione sufficiente del motivo per il quale crediamo, posse nihilominus sufficientem rationem reddere cur credamus»19. Perché Suarez si arrischia in una tanto evidente contraddizione del principio che sant’Agostino legge in Isaia, «se non crederete, non capirete (nisi credideritis, non intelligetis)»? Un’interpretazione conciliante potrà affermare che si tratta di un allargamento dell’ex opere operato oltre l’ambito della pastorale dei sacramenti, fino a quello teorico: come un sacramento rimane valido anche se impartito da un ministro indegno, ugualmente un insegnamento teologico rimane corretto malgrado l’incredulità del professore. Questa analogia, tuttavia, non tiene, perché la funzione del sacramento è proprio quella di trasmettere la grazia, la quale non è compromessa dal ministro in quanto non la può controllare in alcun modo, mentre l’insegnante non credente dovrebbe trasmettere la propositio sufficiens proprio senza la grazia (di fede), dispensandosi da qualsiasi intenzione santificatrice. Bisogna quindi passare all’interpretazione più stringente: la dottrina

denter credibile, sed etiam evidenter credibilius quocumque alio objecto» (ivi, d. IV, s. 2, n. 6, p. 117). La credibilità quindi richiede il credere prima della fede e si tratta di un credere di adesione alla razionalità di un oggetto, che deve anche rivelarsi più razionale di qualsiasi altro oggetto – oggetto delle scienze umane e mondane. 19. Ivi, d. IV, s. 2, n. 1, p. 115.

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della propositio sufficiens mira solo a rendere il contenuto della Rivelazione abbastanza indipendente dal consenso della fede, affinché lo si possa assimilare a un enunciato di scientia. Fare del contenuto della Rivelazione una proposizione oggettiva significa innanzitutto fare della Rivelazione un contenuto conoscibile, un enunciato dotato di senso e, in seguito, ridurlo a una proposizione che enuncia un oggetto disponibile alla conoscenza. In questo modo l’interpretazione epistemologica della Rivelazione viene portata a compimento tramite la riduzione della Rivelazione a un insieme di proposizioni sufficienti. Sufficienti, ma per cosa? Sufficienti per soddisfare i criteri della scientia, sufficienti per la sufficienza del sapere di oggetti. Tramite uno stupefacente rovesciamento della posizione tomista (che però rende manifesto il fatto che essa avrebbe potuto portare a questo risultato, evidentemente contro l’intenzione di Tommaso d’Aquino), Suarez tende a rendere il rivelato indipendente dalla scientia beatorum, proprio per assicurargli lo statuto di proposizione sufficiente nella scienza. In teologia stabilire la sufficienza scientifica impone la dissociazione tra Rivelazione e fede (fatto che suggella la divisione scolastica tra il trattato de Revelatione e il trattato de fide). Da quel momento si potrà letteralmente dire che la rivelazione si riassume in un’informazione – «Revelatio autem est quasi informatio»20. È quindi ormai tutto pronto perché la Rivelazione faccia conoscere informazioni a riguardo di Dio senza che questa «scienza» debba nulla alla scienza dei beati, cioè alla visione di Dio in Dio.

20.  Ivi, d. III, s. 2, n. 6, p. 44. Certamente qui informatio ha anche il senso aristotelico di «dare forma», ma, dal momento che la forma in questione non consiste più nella propositio sufficiens senza assentio, l’informatio si limita veramente a trasmettere ciò che oggi denominiamo informazioni, che si possono accettare o meno.

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Una teologia senza fede Suarez, tuttavia, non raggiunge questo risultato da solo o in forma isolata, ma porta a conclusione lo sviluppo più consistente della scolastica posteriore a san Tommaso d’Aquino. Senza entrare nel dettaglio nella storia di questa deriva, sia sufficiente prendere l’esempio di Ockham, significativo ma abbastanza banale. In apertura al suo Commento alle Sentenze stabilisce la scientificità della theologia (malgrado l’opposizione di san Bernardo, l’uso ha ormai consacrato l’innovazione proposta da Abelardo) rompendo con la subalternità della sacra doctrina rispetto alla scientia beatorum: «è puerile affermare che conosco le conclusioni della teologia, perché Dio conosce i princìpi ai quali credo e me li rivela»21. Così, non soltanto per fare della theologia una scienza non è più necessaria la visione beatifica, ma, appena sciolto questo primo legame, se ne disfa anche un secondo: neppure la fede è più necessaria, «oltre a questo habitus [sc. la fede acquisita], di fatto, per la maggior parte, colui che studia la teologia, che sia fedele o eretico, o anche un non credente (sive sit fidelis, sive haereticus, sive infidelis), acquisisce tutte le disposizioni (habitus) scientifiche che si possono acquisire nelle altre scienze […]. Riguardo a tutte […] chiunque studi la teologia può acquisire l’habitus di apprensione»22. 21. «Puerile est dicere, quod ego scio conclusiones theologiae quia Deus scit principia quibus ego credo, quia ipse revelat» (W. Ockham, Ordinatio sive Scriptum in librum primum Sententiarum, vol. I, St. Bonaventure Institute, New York 1967, prologus, q. 7, p. 199). 22.  «Praeter autem istum habitum et de facto in majori parte studens in theo­ logia, sive sit fidelis, sive haereticus, sive infidelis, adquirit multos habitus scientiales, qui in aliis scientiis possunt adquiri. […] Respectu autem omnium […] quilibet studens in theologia potest adquirere habitum apprehensivum» (ivi, p. 197). Qui risiede l’origine della dichiarazione – abbastanza stupefacente, anche se ancora corrente in epoca recente – di Dieckmann: «così nell’ordine di fatto in vigore (soprannaturale) qualcuno, del resto non

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Insegnare, predicare, consolidare nella fede, ecc., sono tutti aspetti che si possono acquisire a forza di esercizio, quindi senza che sia richiesta la fede, senza il minimo habitus di adesione, ma semplicemente per mezzo di un semplice habitus di acquisizione, per esempio un «habitus [di dichiarazione], che fa immaginare l’intelletto molto meglio, senza richiedere alcuna adesione»23. La fede non fa alcuna differenza nella pratica dell’insegnamento teologico (sacra doctrina rivelata), perché «qualunque habitus acquisito naturalmente che può avere un fedele può averlo anche un infedele»24. Ockham sottolinea anche che, se non succedesse così – se fosse veramente necessario credere per insegnare teologia, allora non sarebbe sufficiente essersi «esercitato in teologia, exercitatus in theologia» – mentre «il teologo [sc. universitario, di professione] di conseguenza non avrà un habitus migliore di quello di una vecchietta [sc. ignorante] (vetula)», la qual cosa, aggiunge con credente e mancante della grazia, può comprendere ciò che la Chiesa cattolica insegna a proposito di questo mistero nel trattato Sulla santa Trinità, nonostante che non ne ammetta la verità né la riconosca – ita in ordine de facto vigente (supernaturali) possit qui, alioquin incredulus gratiaeque expers, intelligere quidnam in tractatu De SS. Trinitate de mysterio isto ab Ecclesia catholica doceatur, licet ejus veritatem non admittat vel agnoscat» (H. Dieckmann, op. cit., § 208, p. 145), e anche «infideles et haereticos, licet supernaturali lumine destitutos, omnia in Sacris litteris contenta cognoscere posse et nonnuli eorum revera cognoscere» (I. Muncunill, Tractatus de vera religione, Gustavo Gili, Barcelona 1909, p. 13, citato da H. Dieckmann, op. cit., § 13, p. 8). Ma cosa significa qui «conoscere»? 23.  «Habitus qui facit aliquid imaginari melius per intellectum absque omni adhaesione» (W. Ockham, Ordinatio sive Scriptum in librum primum Sententiarum, cit., p. 195). È questo l’habitus che intendeva Garrigou-Lagrange evocando l’«habitus naturalis theologiae» (R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione per Ecclesiam catholicam proposita, Desclée-Libreria Ferrari, Paris-Roma 19243, p. 15)? 24.  «Omnem habitum naturaliter adquisitum quem potest habere fidelis, potest habere infidelis» (W. Ockham, Ordinatio sive Scriptum in librum primum Sententiarum, cit., p. 191; si veda p. 193).

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tanta semplicità quanto clericalismo, «appare non conveniente, videtur inconveniens»25. Volendosi affermare come scienza tra le scienze, da quel momento la teologia non dipende più né dalla sacra doctrina, né dalla scientia beatorum, ma da se stessa, all’occorrenza dalle cattedre universitarie di teologia. È noto dove ciò abbia portato la teologia moderna, nonostante la sapienza monastica avesse già anticipato e stigmatizzato questa deriva: «molte persone del genere sanno una quantità di cose su Dio, oppure cercano di saperle, sia perché mosse dalla curiosità – tanto per sapere – sia perché preoccupate dalla loro gloria e non di quella di Dio»26. Come se il professore, non credente nella teologia o non credente tout court, non fosse anch’egli (soprattutto lui) alla ricerca della propria gloria di sapiente! L’influenza sul concetto di Rivelazione della sua interpretazione come scienza non porta dunque solo ad astrarne un enunciato rivelato, inteso come propositio sufficiens, indipendente dall’habitus di adesione (in breve dalla fede), ma conduce soprattutto ad accostare a tal punto la Rivelazione – ormai semplicemente informativa  –  alla conoscenza naturale per 25.  Ivi, pp. 187 e 194. 26.  «Multi ejusmodi multa sciunt de Deo, vel scire student; seu ut tantum sciunt curiositate agentes, seu ut scire vel videantur vel sciantur, gloriam suam quaerentes et non Dei» (Guglielmo di Saint-Thierry, Aenigma Fidei, cit., § 42, p. 152), o anche Ugo di san Vittore, che distingue tre «dimore»: la conoscenza che, seppur esatta, può non servire a nulla (recta […] et inutilis), l’imitazione di ciò che si conosce e infine la sua messa in pratica: «in prima ergo mansione est cognitio, in secunda opus, in tertia virtus, in suprema praemium virtutis: Dominus Jesus Christus» (Ugo di san Vittore, De Archa Noe, Brepols, Turnhout 2001, II, 7, pp. 41 ss.). Talvolta si è tentati di dare quasi ragione a Heidegger: «solo i teologi, vale a dire gli autentici non credenti (Ungläubiger), organizzano una chiacchiera (Gerede) su fede e sapere» (M. Heidegger, Anmerkungen I-V [Schwarze Hefte 1942-1948] [GA 97], Klostermann, Frankfurt a.M. 2015; tr. it., Note I-V [Quaderni neri 1942/1948], Bompiani, Milano 2018, p. 273).

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semplice ragione, mettendole in rapporto a partire dal condiviso carattere di «scienza», che il loro rapporto di dipendenza si inverte, o almeno lo potrebbe fare. Proprio tramite il ragionamento che inizia a imporre il concetto di propositio sufficiens, Suarez suggerisce che la conoscenza naturale di Dio, lungi dal rimanere debole e insufficiente (secondo l’esplicita posizione di Tommaso d’Aquino), potrebbe al contrario fondare la conoscenza soprannaturale (detta rivelata), quindi scoprirsi, se non rivelata, almeno parte integrante della Rivelazione, a titolo di sua condizione di possibilità: «ne segue che, anche se queste cose possono essere conosciute naturalmente riguardo a Dio, tuttavia, dal momento che esse sono come il fondamento di quelle che si conoscono soprannaturalmente (veluti fundamenta eorum quae supernaturaliter cognoscuntur), fu necessario che anch’esse fossero conosciute e rivelate in modo soprannaturale (illa etiam supernaturali modo cognosci et revelari), perché la fede soprannaturale non può fondarsi secondo il giudizio e la certezza della conoscenza naturale»27. L’argomento è controverso: certo riprende il ruolo di conferma della conoscenza naturale di Dio che Tommaso d’Aquino assegna alla Rivelazione, ma questa volta a partire dal pretesto, contrario a Tommaso d’Aquino, che le conoscenze naturali servirebbero da fondamento alle conoscenze soprannaturali. L’intento è chiaro: se le due forme di conoscenza, tanto quella naturale che quella soprannaturale, si sovrappongono, non è (o almeno non lo è innanzitutto) perché la conoscenza rivelata rinforzi e garantisca la conoscenza naturale, sempre incompleta e frammista a errori, al contrario: in primo luogo perché la conoscenza naturale serve come fondamento (fundamenta, fundari) della conoscenza rivelata e in secondo luogo perché quest’ultima, da sé, risulta incapace di

27.  F. Suarez, De Necessitate gratiae, cit., II, c. 1, n. 7, p. 588.

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essere giustificata secondo i criteri della scienza naturale (certezza e giudizio), di modo che la sua mancanza epistemologica deve essere compensata con la sufficienza epistemologica della scienza naturale. Tuttavia, non ci si dovrebbe sorprendere per questo stupefacente rovesciamento della posizione tradizionale (o almeno di quella tommasiana), che erge la conoscenza naturale a fondamento della conoscenza soprannaturale: è semplicemente – e logicamente – conseguente all’interpretazione della Rivelazione come scienza, quindi come scienza proposizionale, interpretazione che deve sottometterla alle caratteristiche e ai criteri dell’unica scienza che ci risulta accessibile e definibile – la scienza della ragione naturale. Lo sviluppo logico e quasi inevitabile di tale situazione sarà tracciato da John Locke (infra, cap. 6). Infatti, se talvolta (se non addirittura di frequente) la conoscenza tramite ragione naturale e la conoscenza per Rivelazione possono trattare «delle stesse cose, de eisdem rebus», allora il loro rapporto di subalternità non dovrebbe invertirsi? Evidentemente tutto dipende dall’identità di queste «stesse cose». Tommaso d’Aquino (e i suoi successori, anche quelli infedeli) intendeva gli enunciati che riguardano la conoscenza almeno indiretta di Dio (dei revelabilia); al contrario Locke intende la conoscenza delle verità razionali che Dio avrebbe reso accessibili per Rivelazione. Da quel momento la subalternità si rovescia in subordinazione, a vantaggio della conoscenza per pura ragione: «così Dio può, mediante la rivelazione, manifestare la verità di una proposizione di Euclide come possono gli uomini, con l’uso naturale delle loro facoltà, giungere a scoprirla da sé. In questa specie di cose, la rivelazione non è né utile né necessaria: perché Dio ci ha fornito di mezzi naturali e più sicuri per arrivare alla loro conoscenza. Quale che sia la verità che giungiamo chiaramente a scoprire con la conoscenza e la contemplazione delle nostre idee, essa sarà sempre più certa per noi di quelle che ci sono manifestate della rivelazione tradizionale. Giacché

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la conoscenza che abbiamo della percezione chiara e distinta dell’accordo o del disaccordo delle nostre idee: per esempio, se fosse stato rivelato, nelle età passate, che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due retti, potrei assentire alla verità di questa proposizione dando credito alla tradizione che essa fu rivelata; questo assenso, però, non raggiungerebbe mai una certezza uguale alla conoscenza che ne ho attraverso il confronto e la misura delle mie idee dei due angoli retti e dei tre angoli di un triangolo»28. Per quanto possa apparire strana l’ipotesi secondo la quale la Rivelazione serva all’apprendimento degli Elementi di Euclide (in qualche modo l’estremo opposto della via trovata dal giovane Pascal) – e per quanto assurdo sia il risultato (Dio sarebbe un cattivo professore, che insegna i teoremi senza spiegarne le dimostrazioni), la conseguenza non è meno ineccepibile: se la Rivelazione subisce un’interpretazione epistemologica, essa sarà sottoposta a criteri epistemologici (certezza, verifica, ecc.) e perderà la sua supposta priorità tra le scienze.

Il rovesciamento della subalternità in subordinazione Non era già lo stesso Suarez ad avanzare spedito in questa direzione, invertendo del tutto il rapporto tra teologia e filosofia, ormai inteso in modo completamente esplicito come una metaphysica (termine quasi sconosciuto a Tommaso d’Aquino)29? 28.  J. Locke, An Essay concerning Human Understanding; tr. it., Saggio sull’intelletto umano, UTET, Torino 1978, IV, 18, § 4, p. 787. 29.  È opportuno ricordare che le numerose volte in cui ricorre al termine metaphysica il rimando non è alla filosofia come metaphysica, ma, nella grande maggioranza dei casi, ai libri di Aristotele che dalla tradizione editoriale sono raggruppati sotto il titolo di Metaphysica, o piuttosto di Libri Metaphysicorum?

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A questo proposito il solenne prologo delle Disputationes Metaphysicae non lascia dubbi circa la radicalità della tesi, esposta in tre tempi. In primo luogo «la teologia divina e soprannaturale, pur basandosi (nititur) su di un’illuminazione divina e su princìpi rivelati da Dio, si compie in realtà tramite un discorso e un ragionamento umano, e per questo si giova (etiam […] juvatur) anche di verità conosciute per lumen naturale, servendosene (utitur) – come di ministri e strumenti – per compiere i suoi discorsi e per illustrare le verità divine»; detto altrimenti, la teologia si appoggia tanto sulla conoscenza naturale quanto su quella soprannaturale, tanto sulla ragione quanto sulla Rivelazione. Questa tesi, tuttavia, non va intesa come la banale constatazione del fatto che il teologo ragiona e argomenta anche lavorando a partire dalla Rivelazione, quindi segue anche le comuni regole della logica e della filosofia. Infatti, in secondo luogo, c’è ben di più: con il nome di metafisica, la scienza naturale ormai determina direttamente la discussione teologica: «durante le disputazioni sui misteri divini, mi si presentavano quelle dottrine metafisiche, senza la cui conoscenza ed intelligenza a mala pena, se non per niente affatto, si possono (vix, aut ne vix quidem) trattare quei misteri superiori». Non si può né si deve evitare la commistione (admiscere) tra teologia e metafisica; non si tratta più di logica, grammatica o retorica, ma dei dogmi metafisici, di cui le Disputationes Metaphysicae, in grande stile e almeno per due secoli, stabiliranno le formulazioni canoniche (concetto univoco di ente, principio di identità, principio di causalità, divisione dell’ente in finito e infinito, dottrina dell’analogia dell’ente, ecc.). In terzo luogo risulta necessariamente che questo «mescolamento» deve essere assunto come una coesione e già – come presto sarà chiamato – come un sistema: «tali princìpi e verità metafisiche (haec principia et veritates metaphysicae), infatti, sono talmente connessi (cohaerent) con le conclusioni e con i discorsi teologici che, se si tralasciasse la scienza e la perfet-

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ta conoscenza dei primi, si farebbe necessariamente vacillare oltre misura anche la scienza dei secondi»30. La conclusione si pone chiaramente: senza metafisica la teologia rivelata perderebbe i suoi fondamenti e i suoi principi. La metaphysica, sia di fatto sia di diritto, impone alla teologia le sue esigenze epistemologiche, pertanto alla Rivelazione non deve più altro se non contenuti informativi (delle propositiones sufficientes), non le sue procedure, né la sua logica propria. Ne derivano conseguenze di cui non si deve sottovalutare l’importanza, anche se sono diventate così evidenti da notarsi ap-

30.  «Divina et surpernaturalis theologia, quamquam divino lumine principiis a Deo revelatis nitatur, quia vero humano discursu et ratiocinatione perficitur, veritatibus etiam naturae lumine notis juvatur, eisque ad suos discursos perficiendos et ad divinas veritates illustrandas, tamquam ministris et quasi instrumentis utitur. […] Cum enim inter disputandum de divinis mysteriis haec metaphysica dogmata occurrerent sine quorum cognitione et intelligentia vix, aut ne vix quidem possunt altiora illa mysteria pro dignitate tractari, cogebar saepe […] divinis et surpernaturalibus rebus inferiores quarstiones admiscere […]. Ita enim haec principia et veritates metaphysicae cum theologis conclusionibus ac discursibus cohaerent, ut si illorum scientia ac perfecta cognitio auferatur, horum etiam scientiam nimium labefactari necesse est» (F. Suarez, Disputationes Metaphysicae; tr. it., Disputazioni metafisiche I-III, Bompiani, Milano 2007, Proemio, pp. 59-61, sottolineature nostre). La stessa posizione, portata a realizzazione completa, si trova in Malebranche, anche se si reputava avversario risoluto del pensiero medievale: «non pretendo affatto di abbandonare la metafisica […]. Essa è una scienza generale che ha diritto su tutte le altre. […] Per metafisica, infatti, non intendo quelle considerazioni astratte su certe proprietà immaginarie, il cui impiego principale è di fornire l’argomento di discussioni senza fine a coloro che han voglia di discutere, ma intendo le verità generali che possono servire come princìpi rispetto alle scienze particolari. Son persuaso, Aristo, che bisogna essere buon filosofo per giungere all’intelligenza delle verità della Fede, e che, quanto più profondamente si conoscono i veri princìpi della metafisica, tanto più si è saldi nelle verità della religione» (N. Malebranche, Colloqui sulla metafisica, cit., VI, 2, p. 189). Cfr. J.-C. Bardout, Malebranche et la métaphysique, PUF, Paris 1999, in part. pp. 56 ss.

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pena e, lungi da scandalizzarcene, le accettiamo quasi come cose che vanno da sé. Certamente la conoscenza di Dio implica la conoscenza della sua realtà e ha inizio da essa: come potrei incontrare, sperimentare e amare un altro – a fortiori Dio – senza assumere che egli appartiene all’ambito di ciò che mi sembra reale, quindi senza averne sicurezza? Eppure, non va da sé che questa certezza debba passare attraverso le forche caudine di una dimostrazione dell’esistenza di Dio, per almeno due ragioni incontestabili: innanzitutto, perché l’esistenza non è che un concetto recente, ottenuto tramite la partizione (a propria volta altamente problematica) dell’ousia in essenza ed esistenza; Descartes ha potuto pretendere che questa divisione fosse «nota a tutti, omnibus nota»31, ma non lo è per nulla e probabilmente la deriva da Suarez. C’è di più: questa esistenza, derivata dall’ousia e quindi dall’entità dell’ente, presuppone un concetto di ente; la metaphysica intende questo conceptus entis come un concetto primo, universale e univoco; esso deve il carattere di fondamento al fatto di non ammettere ancora alcuna determinazione e di restare totalmente astratto e indefinito; donde una questione inevitabile: non si può, anche provvisoriamente e inizialmente, applicare a Dio un tale concetto? Non era forse stato Tommaso d’Aquino, con perfetta lucidità, a escludere Dio dall’ens commune, precisando che si può qualificare Dio con il titolo di ipsum

31.  «Nota est omnibus essentiae ab existentia distinctio – la distinzione fra essenza ed esistenza è nota a tutti» (R. Descartes, Meditationes de prima philosophia; tr. it., Meditazioni di filosofia prima, in Id., Opere 1637-1649, Bompiani, Milano 2009/2012, pp. 701-1395: Terze obiezioni e risposte, p. 941); cfr. V. Carraud, L’invention de l’existence. Note sur la christologie de Marius Victorinus e J.-C. Bardout, Causalité ou subjectivité: le développement du sentiment d’existence, de Descartes à l’“Encyclopédie”, in C. Esposito - V. Carraud (a cura di), L’esistenza («Quaestio», 3), Brepols-­Pagina, Turnhout-Bari 2003, risp. pp. 3-25 e pp. 163-205, oltre a J.-C. Bardout, Penser l’existence. L’existence exposée. Époque médiévale, Vrin, Paris 2013.

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esse solo riconoscendo che questo actus essendi rimane per noi, come tale, «del tutto ignoto, penitus ignotum»32? Prima di voler assegnare a Dio l’essere e soprattutto l’esistenza propri all’ente, bisogna assicurarsi che lo riguardino ancora: l’essere, l’ente e l’esistenza hanno la dignità necessaria per riguardare Dio, offrono abbastanza divinità per essere convenienti a Dio? Tutto, pressoché qualsiasi cosa (i viventi e i cadaveri, i concetti e le immagini, le stelle e le pietre, gli dèi e i demoni e soprattutto, oggi, i rifiuti), cade sotto la determinazione di essere o di poter essere, quindi di essere un ente; questa determinazione, però, si estende così evidentemente fino a Dio e soprattutto a Dio che dai cristiani e da altri è espresso come creatore di ogni cosa (di ogni ente) ex nihilo? Non potrebbe invece darsi che Dio sia oltre ciò che fa concepire e qualifica l’ente, l’essere dell’ente e l’essere tout court? Sant’Agostino, Dionigi l’Areopagita, Scoto Eriugena, san Bonaventura non hanno considerato l’essere come primo nome divino. Chi può negare alla filosofia, soprattutto nella sua configurazione metafisica, il diritto di iniziare dall’essere e dall’ente, come ancora fa Georg W.F. Hegel? Ma che anche la Rivelazione debba passare attraverso questo presupposto per farne uno dei suoi praeambula fidei, chi lo potrà accettare senza metterlo in discussione?

32.  Tommaso, Summa contra Gentiles, cit., III, 49, p. 177; cfr. «sed quia hoc ipsum quod Deus est mente concipere non possumus, remanet ignotum quoad nos – ma proprio perché noi non possiamo concepire intellettualmente l’essenza di Dio, rimane ignoto rispetto a noi» (ivi, I, 11, p. 93) o «in hac vita non cognoscimus de Deo quid est et sic ei quasi ignoto coniungamur – non conosciamo in questa vita l’essenza di Dio, e in questo senso ci uniamo a lui come a uno sconosciuto» (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 12, a. 13, a 1m, p. 151). Su questi aspetti cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., in part. cap. VIII, § 7, pp. 272-282.

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«Notio metaphysica revelationis»33 Ne deriva una seconda questione: speriamo e pensiamo senza problemi che la conoscenza di Dio per Rivelazione, in qualunque modo la si intenda (a questo stadio non possiamo dirne di più), possa e debba garantirci Dio e noi stessi, ma ciò non significa che possiamo provarla tramite ragioni necessarie, per due motivi parimenti fuor di discussione. Innanzitutto, ogni dimostrazione che potremmo farne in ogni caso ammetterebbe le necessità della nostra logica; tali necessità derivano dalla finitezza del nostro intelletto, la sola a consentire alla nostra logica di enunciare regole, porre vincoli e quindi talvolta di dimostrare proposizioni; per questo stesso motivo essa deve accettare almeno due limiti intoccabili. Innanzitutto, non siamo in grado di dimostrare un’esistenza, non possiamo far altro che constatarla come una posizione che è al di fuori del pensiero logico stesso (come stabilito da Kant); ciò vale per l’eventuale esistenza di Dio, indimostrabile per ragionamento tanto quanto l’esistenza di qualsiasi altro ente, ma non più indimostrabile. In secondo luogo: se si tratta proprio di Dio quando diciamo o pensiamo “Dio”, il suo concetto comprende il fatto che noi non possiamo comprenderlo; Dio resta incomprensibile per definizione, perché se io che sono finito potessi comprenderlo, ciò che comprenderei non sarebbe lui, che per definizione è fuori definizione e infinitamente incomprensi33.  Questa formula magnificamente sintomatica di H. Dieckmann, op. cit., § 197, p. 137 fu individuata, senza però essere commentata, da H. de Lubac, La Révélation divine, Œuvres complètes, vol. IV, Cerf, Paris 2006; tr. it., La rivelazione divina. Commento alla Costituzione conciliare «Dei Verbum», in Id., La rivelazione divina e il senso dell’uomo. Commento alle Costituzioni conciliari “Dei Verbum” e “Gaudium et Spes”, Opera omnia, vol. XIV, Jaca Book, Milano 1985, pp. 7-172: p. 153. Qui si tratta proprio della metaphysica in senso moderno (l’unico, come è noto), perché la fondazione della Rivelazione è intrapresa non da se stessa ma sulla possibilità: «possibilitas […] interna sive metaphysica» (H. Dieckmann, op. cit., § 222, p. 156).

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bile34. Più ancora: se, per esempio, per dimostrare la sua esistenza volessi procedere a priori, non tramite puri concetti (senza tener conto del divieto kantiano), dovrei sottomettere il concetto di Dio (infinito, incomprensibile) a regole, operazioni e princìpi della mia logica (finita, comprensibile), cosa che finisce per essere assurda. Forse non è stato un caso se, prima che si costituisse la metaphysica, né l’argumentum di sant’Anselmo, né le viae di san Tommaso d’Aquino erano presentati quali prove logicamente obbliganti dell’esistenza di Dio. E, di più, non è un caso se Descartes – forse il primo ad avere dato inizio all’impresa della dimostrazione dell’esistenza di Dio tramite pura ragione (applicando in termini suareziani ciò che gli sembrava essere il programma che il concilio Lateranense affidava ai «filosofi cristiani»)35 – non ha potuto giungervi tramite una prova sola, ma grazie a tre prove differenti, non sovrapponibili né accordabili, prove che definiscono in anticipo tutte le derive e le strade sbarrate che saranno esplorate dalla metafisica seguente, nello sforzo di integrare Dio nella costituzione del suo sistema36. Ancora una volta ci chiediamo: chi contesterà alla filosofia, soprattutto nella sua struttura metafisica, il diritto di cercare di integrare Dio nella sua logica, a partire dal suo punto di vista? Chi tuttavia potrà ammettere senza esame che anche la Rivelazione debba pas-

34.  «De Deo loquimur, quid mirum si non comprehendaris? Si enim comprehenderis, non est Deus – dal momento che parliamo di Dio, che meraviglia se non comprendi? In verità, se comprendi non è Dio» (Agostino, Discorso 117, in Id., Discorsi, Opere, vol. XXX/1, Città Nuova, Roma 1990, 3, 5, p. 7). 35.  Cfr. R. Descartes, Meditazioni, cit., Epistola, p. 683. 36.  Cfr. J.-L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limites de l’onto-théo-logie cartésienne, PUF, Paris 1986 (20042); tr. it., Il prisma metafisico di Descartes. Costituzione e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, Guerini e Associati, Milano 1998, cap. IV, §§ 19‑20, pp. 252-282.

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sare tramite questo presupposto logico e farne uno dei suoi praeambula fidei37? Rimane ancora una seconda tentazione, ben più riprovevole perché corrisponde a una risposta alla prima, che consiste nel trasferimento del peso e dell’autorità della propositio sufficiens della conoscenza naturale fino alla conoscenza soprannaturale, dalla filosofia e dalla sua scientia alla sacra doctrina, intesa come Sacra Scriptura38. Se è necessaria una propositio sufficiens, che venga allora dalle Scritture, forma originaria

37.  Il tentativo, peraltro di valore, di Swinburne – la difesa dell’interpretazione proposizionale della Rivelazione – si appoggia su un rilievo molto corretto: «in ogni caso è molto difficile capire come Dio potrebbe rivelare se stesso nella storia […] senza, allo stesso tempo, rivelare alcune verità proposizionali circa se stesso […]. Se Dio ha veramente rivelato se stesso a noi in Cristo, allora egli deve aver rivelato alcune verità proposizionali, come minimo le verità degli atti di Cristo erano i suoi atti» (R. Swinburne, Revelation, Oxford University Press, Oxford 1992, p. 4, cfr. anche pp. 2, 3, 73, 83, 101 ecc.). Ma la questione diventa subito: in quale senso gli atti di Cristo e i loro significati si possono trascrivere in proposizioni conformi alla logica delle proposizioni che costruiamo a partire dall’esperienza delle cose del mondo e della nostra razionalità finita (o addirittura creata)? Il logos di Cristo può e deve coincidere con il logos del mondo? Cfr. le osservazioni, di origine tomista, di T.J. White, Monotheistic Rationality and Divine Names: Why Aquinas’ Analogy Theory transcends both Theoretical Agnosticism and Conceptual Anthropomorphism, in A. Ramelow (ed.), God. Reason and Reality, Philosophia Verlag, München 2014, pp. 37-80. Quasi le stesse obiezioni si possono porre al progetto polemico di R. Pouivet, Épistémologie des croyances religieuses, Cerf, Paris 2013; ugualmente Riquier ricorda che la fede non è una conoscenza (debole), ma un affidamento alla parola donata, un coinvolgimento; soprattutto ricorda che, se si vuole che «l’oggetto della credenza sia reso accessibile e soggetto di dibattito indipendentemente dal fatto di credere o no», allora il credente si farà una religione dell’onto-teologia (C. Riquier, L’incroyable Dieu. Note conjointe sur Bergson et la philosophie réaliste, in E. Alloa - E. Düring [éds.], Choses en soi. Métaphysique du réalisme, PUF, Paris 2018, pp. 549-562). 38.  Cfr. Y. Congar, Tradition et “Sacra Doctrina” chez saint Thomas d’Aquin, in J. Betz - H. Fries (éds.), Église et Tradition, Mappus, Lyon-Le Puy 1963,

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della Rivelazione. Questa fu la scelta della Riforma, se non nei risultati, almeno negli inizi; per quanto molto presto diventi insostenibile, il supposto primato assoluto della sola Scriptura consisteva nell’invertire il fondamento, che veniva trasferito dalla metaphysica (in pratica la filosofia scolastico more) al testo biblico, ma implicava inevitabilmente che questo stesso testo, nella lettera, diventasse una riserva di proposizioni. Il fondamentalismo scritturistico che immediatamente ne segue (e che ai nostri giorni continua a riemergere), infatti, non costituisce altro che l’inversione o lo spostamento dell’interpretazione epistemologica della Rivelazione, che passa dalla propositio sufficiens (nella scientia della ragione naturale) alla sufficienza della Scrittura (nel letteralismo o nel biblicismo)39. Non è però sufficiente passare da un termine (conoscenza naturale) all’altro (conoscenza soprannaturale) per evitare la tentazione di una propositio sufficiens, bisogna oltrepassare la scelta di interpretare epistemologicamente la Rivelazione.

pp. 157-194, riproposto in Y. Congar, Thomas d’Aquin: sa vision de la théologie et de l’Église, Variorum Reprint, London 1984, pp. 157-194. 39.  Cfr. «la sufficienza materiale dello Scritto» studiata da J.R. Geiselmann, Die heilige Schrift und die Tradition, Herder, Freiburg 1962, p. 72 e Id., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und der nicht geschriebenen Traditionen, in M. Schmaus (hrsg.), Die mündliche Überlieferung, Herder, München 1957, pp. 123-206, poi discussa da Y. Congar, La Tradizione e tradizioni. Saggio storico, cit., La sufficienza delle Scritture secondo i Padri e i teologi medievali, pp. 203-219 e da J. Ratzinger, Versuch einer Analyse des Traditionsbegriffs, in K. Rahner - J. Ratzinger, Offenbarung und Überlieferung, Herder, Freiburg-Wien 1965; tr. it., Un tentativo circa il problema del concetto di tradizione, in K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e tradizione, Morcelliana, Brescia 1970, pp. 27-73.

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5 Il riserbo del magistero* 40

Rispetto a questo orientamento, o piuttosto rispetto a questa deriva di fondo dell’intera teologia cristiana (dal momento che la Riforma, in particolare il calvinismo, non è rimasta indietro rispetto all’evoluzione cattolica, accomunate dalla pratica proposizionale della polemica), è tanto più significativa la resistenza – o quantomeno la prudente reticenza – del magistero romano.

*  Il termine francese réserve corrisponde tanto all’italiano riserbo, inteso come l’atteggiamento di colui che è riservato (non esponendosi in prima persona), quanto al termine riserva, cioè il frutto dell’accantonamento di alcuni beni al fine di evitarne la perdita o la dissipazione; due accezioni che si uniscono nell’essere entrambe derivate dal verbo latino riserbare, come espresso proprio da Marion (supra, p. 59) ricordando l’atteggiamento di colui che è riservato, cioè colui trattiene qualcosa per sé, non si esprime pubblicamente. In questo caso la prudenza del magistero nell’accordare spazio speculativo al termine rivelazione, dunque il suo riserbo nel pronunciarsi precipitosamente in merito, corrisponde anche all’aver mantenuto integra, come un bene depositato, la conservazione della fede [n.d.t.].

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Un’assenza Innanzitutto, si deve segnalare che il termine revelatio è assente dai testi del concilio di Trento: la sessione del 1546, affrontando il rapporto tra tradizione(i) e Scrittura(e), si riferisce solo alla «stessa purezza del Vangelo, puritas ipsa Evangelii», senza ricorrere al termine di “Rivelazione”1. In particolare, si deve notare che la questione delle fonti della fede viene ripresa per la prima volta solo nel 1870, con il concilio Vaticano I, nel titolo del capitolo De revelatione della costituzione dogmatica Dei Filius2. Un’introduzione così tardiva necessita maggiormente di essere giustificata, cosa che viene fatta ostentando fedeltà alla tematica di Tommaso d’Aquino: appoggiandosi alla Summa theologiae, Ia, q. 1, a. 1, il concilio distinse due modalità della conoscenza: una, che rimanda a Rm 1,20 («invisibilia conspiciuntur intellecta a creatura mundi per ea quae facta sunt – le sue perfezioni invisibili […] vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute»), permette di «essere conosciuto con certezza mediante il lumen naturale della ragione umana (na1.  DH 1501. Latourelle si concentra su questo punto: «notiamo innanzitutto che nel suddetto paragrafo la parola “rivelazione” non appare» (R. Latourelle, op. cit., p. 256) e «senza ricorrere al termine di rivelazione» (ivi, p. 259). 2.  Su questi aspetti cfr. B. Sesboüé, Dogma e teologia nei tempi moderni, in B. Sesboüé - Ch. Theobald (a cura di), op. cit., pp. 155-199: p. 183: «per la prima volta questa parola entrerà nel vocabolario del magistero» e R. Latourelle, op. cit., p. 269: «ma con una nuova precisazione che non appariva al concilio di Trento, il concilio Vaticano usa espressamente il termine di rivelazione per indicare il contenuto della parola divina: haec porro supernaturalis porro supernaturalis revelatio». Bouillard riconosce (a) che il Vaticano I è il primo concilio a trattare esplicitamente della Rivelazione e (b) che poteva appoggiarsi solo su due testi magisteriali (Gregorio XVI, Dum Acerbissimas, del 1835, e Pio IX, Qui Pluribus, del 1846), che con questo nome indicavano l’oggetto di fede (H. Bouillard, Le concept de révélation de Vatican I à Vatican II, in J. Audinet et alii, Révélation de Dieu et langage des hommes, Cerf, Paris 1972, pp. 35-49).

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turali humanae rationis lumine) a partire dalle cose create»; l’altra, sostenuta da Eb 1,1-2 («Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio»), assicura che Dio «rivela (revelare) se stesso (se ipsum) al genere umano, nonché gli eterni decreti della sua volontà per altra via, questa volta soprannaturale (supernaturali via)»3. Questa dicotomia, all’apparenza semplice e incontestabile, richiede al contrario parecchie precisazioni. (a) Certamente, sempre in conformità alla dottrina di Tommaso d’Aquino, alla conoscenza per revelatio viene riconosciuta una doppia validità, relativa innanzitutto al mistero stesso di Dio, ma anche a tutto ciò che «nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla ragione (humanae rationi impervia non sunt)»4. Eppure, non si fa mai riferimento alla subordinazione delle scienze (subordinazione della theologia philosophica alla sacra doctrina), né all’identificazione della conoscenza naturale con la philosophia (ancor meno con la metaphysica), né alla terza via del revelabile, né, soprattutto, all’interpretazione epistemologica di queste due forme di conoscenza: salvo errore, la cognitio rivelata non è mai assimilata a una scientia – quale che ne

3.  DH 3004. Sottolinea Theobald: «il vangelo quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale» (Ch. Theobald, La progressiva dogmatizzazione dei fondamenti della fede, in B. Sesboüé - Ch. Theobald [a cura di], op. cit., pp. 203-229: p. 205) e «il Vaticano I invece sostituirà nella sua stessa citazione di Trento il termine Vangelo con quello di rivelazione» (B. Sesboüé, Dogma e teologia nei tempi moderni, cit., p. 183); cfr. R. Latourelle, op. cit., p. 255. 4.  DH 3005. Tesi che viene mantenuta in Humani Generis del 1950: «divina “revelatio” moraliter necessaria dicenda est – si deve dire che la “rivelazione” divina è moralmente necessaria» (DH 3876) e in Dei Verbum: «Divina revelatione Deus seipsum manifestare ac communicare voluit – con la divina rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso» (DH 4206).

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sia il tipo e ancor meno a una qualunque demonstratio (ci si attiene alla formula «certo cognosci posse»). Successivamente, la supernaturalis revelatio appare solo per evocare la questione delle fonti della fede e del rapporto tra tradizione(i) e Scrittura(e), in riferimento esplicito alla «fede proclamata dal santo concilio di Trento»5. Infine la sola autorità ammessa per la conoscenza (evidentemente mai qualificata come scientifica) di queste «verità rivelate – revelata vera» non proviene dall’«intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione (intrinsecam rerum veritatem naturali rationis lumine perspectam)», ma esclusivamente dall’«autorità di Dio stesso, che le rivela (ipsius Dei revelantis)»6. Il fatto che la deriva proposizionale di Suarez e l’interpretazione epistemologica della Rivelazione sono, se non proprio totalmente respinte, almeno emarginate, non può essere indicato in modo migliore che tramite il riorientamento sui testi biblici. In questo caso il silenzio ha un peso eloquente: ciò che non viene affermato non è affermato. Il Vaticano I resta ostentatamente indietro rispetto a quella che sarà l’evoluzione del neo-tomismo universitario, diretto verso un crescente trattamento proposizionale (e quindi metafisico) della Rivelazione.

Il passo avanti Come noto, sarà il concilio Vaticano II, nel 1965, con la costituzione Dei Verbum, ad affrontare esplicitamente e in modo completo la dottrina della Rivelazione. Non si può sottovalutare l’autorità di questo testo, in quanto offre senza dubbio un contributo dogmatico, rispetto ad altri ritenuti più pastorali,

5.  DH 3006. Cfr. DH 3009‑3011 (De fide). 6.  DH 3008.

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tanto più che ha occupato i Padri per l’intera durata del Concilio, dal momento che la sua prima redazione, rifiutata nel 1962, fu sostituita definitivamente solo nel 1965, alla chiusura dei lavori7. Dei Verbum non si scosta dal riserbo caratteristico dei concili di Trento e Vaticano I, eppure si distingue radicalmente rispetto a essi, rovesciando l’ordine di presentazione delle forme della conoscenza di Dio: anziché procedere dalla conoscenza «naturale» a quella «soprannaturale» come il Vaticano I, inizia direttamente dalla Rivelazione di Dio in persona, quella attuata da lui stesso. Per questo motivo, quando riprende (e probabilmente chiude) il dibattito seguìto alla Riforma circa il rapporto tra la Rivelazione tramite la tradizione (scritta e non scritta) e le Scritture, ridefinisce radicalmente il concetto di Rivelazione in quanto tale. Sotto l’innegabile, per quanto implicita, influenza di Barth (e di qualche altro)8, non si ritie7.  Dulles definisce Dei Verbum come «il più importante pronunciamento ufficiale mai emanato dalla Chiesa Cattolica a proposito della Rivelazione» (A. Dulles, Revelation Theology: a History, cit., p. 156). De Lubac insiste: «era la prima volta che un concilio studiava» frontalmente la Rivelazione «e lo faceva risalendo d’un sol colpo la china su cui si era inoltrata quasi tutta la nostra teologia classica» (H. de Lubac, La rivelazione divina, cit., p. 157); ugualmente Latourelle: «è la prima volta che un concilio studia in modo tanto cosciente e metodico le categorie fondamentali e primarie del cristianesimo, cioè quelle della Rivelazione, della Tradizione e della Ispirazione» (R. Latourelle, op. cit., p. 345, cfr. supra, cap. 3, nota 9). Per la storia di questo testo si può fare riferimento a B.-D. Dupuy (éd.), La Révélation divine. Constitution dogmatique Dei Verbum. Texte latin et traduction française, Cerf, Paris 1968; Ch. Theobald, «Dans les traces…» de la Constitution «Dei Verbum» du concile Vatican II. Bible, théologie et pratique de lecture, Cerf, Paris 2009; tr. it., «Seguendo le orme…» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche di lettura, EDB, Bologna 2001, qui p. 32; M. Levering, Engaging the Doctrine of Revelation. The Mediation of the Gospel through Church and Scripture, Baker Academic, Grand Rapids 2014, pp. 5‑33. 8.  De Lubac, che non ignora Barth (H. de Lubac, La rivelazione divina, cit. p. 35), ivi, p. 91, menziona però Guitmondo d’Aversa: «Christus […] seipsum significat – Cristo è segno della sua persona» (Guitmondo d’Aversa, De corporis et sanguinis Christi veritate; tr. it., La «verità» dell’Eucaristia, ESI,

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ne più che Rivelazione corrisponda in prima istanza alla comunicazione di una conoscenza (ancor meno di una scientia), ma che sia la manifestazione di Dio da parte di se medesimo: «placuit Deo […] Seipsum revelare et notum facere sacramentum voluntatis suae – piacque a Dio […] rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà» o ancora «Seipsum manifestavit – manifestò se stesso» tramite una «œconomia […] gestis et verbis intrinsece inter se connexis – economia […] di eventi e parole tra loro intimamente connessi»9. Quando Dio «si manifesta, ephanerôthê» (Col 1,26; 1Tim 3,16), manifesta innanzitutto e in forma esclusiva se stesso e «il mistero della sua volontà» (Ef 1,9), perché lo scopo della Rivelazione è di accordarci la conoscenza di nessun altra cosa se non Dio stesso, non di accrescere semplicemente la nostra scientia di Dio, ancor meno di aumentare la nostra scienza del resto delle cose in generale. Manifestandosi, Dio ha un progetto che è in altro modo radicale: Egli «volle comunicare se stesso a noi, ipse nobiscum communicare»10. Il solo intento della Rivelazione, che Napoli 1995, 1461c, p. 181); cfr. H.U. von Balthasar, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Jakob Hegner, Köln 1951; tr. it., La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985; a tal proposito cfr. M. Lochbrunner, L’incroyable histoire de la genèse du livre de Hans Urs von Balthasar sur Karl Barth, pp. 23-36 e l’intero dossier Barth-Balthasar. De l’analogie à l’œcuménisme, in «Revue catholique internationale Communio», n. 215, 2011. 9.  DH 4202 e 4203. Si veda anche: «Divina revelatione Deus Seipsum atque aeterna voluntatis suae decreta circa hominum salutem manifestare ac communicare voluit – con la divina rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso e gli eterni decreti della sua volontà» (DH 4206). 10.  DH 4217. È tuttavia da sottolineare che già in Dei Filius, nel 1870, si trova una formula simile: «placuisse ejus sapientiae et bonitati alia eaque supernaturali via se ipsum et aeterna suae voluntatis decreta humano generi revelare – è piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare se stesso al genere umano […] per altra via, questa volta soprannaturale» (DH 3004); di questa formula il Vaticano I sviluppa però maggiormente i «decreti eterni della volontà» rispetto al «se stesso» che si rivela.

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evidentemente non è epistemologico, consiste nel manifestare Dio in persona o, meglio: rivelandosi Dio non vuole solo farsi conoscere, ma soprattutto farsi riconoscere come tale. Infatti, farsi conoscere non è ancora sufficiente per portare a compimento il «mistero» che consiste nello stabilire – o più esattamente nel ristabilire – in Cristo la comunione con gli uomini e con tutta la creazione; farsi conoscere realizza una delle condizioni di questo disegno, ma non è sufficiente (infra, cap. 12). La manifestazione consente certo una comunicazione, ma la comunicazione deve consentire, oltre se stessa e oltre il sapere che fa scaturire, la comunione degli uomini con Dio. La comunicazione si realizza solo nella comunione, quest’ultima implica che, come a Mosè, Dio possa «parlare faccia a faccia, come un uomo parla a un amico» (Es 33,11, cfr. infra, cap. 11), quindi che lo possa fare con tutti gli uomini, che del resto ormai Cristo «chiama suoi amici» (Gv 15,15). Infatti, si potrebbe supporre che il termine «comunicazione» – qui usato per Verbum Dei, – echeggi un’altra formulazione particolarmente azzeccata di Paolo VI, usata nella coeva enciclica Ecclesiam suam: «la rivelazione […] può essere raffigurata in un dialogo (quasi quoddam colloquium), nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’Incarnazione e quindi nel vangelo. Il colloquio paterno e santo […] tra Dio e l’uomo […], conversazione di Cristo fra gli uomini (quasi sermocinatione)», riprendendo la formula da Bar 3,38. Certo non scompare la funzione epistemologica (proposizionale, se si preferisce) della Rivelazione, ma resta totalmente subordinata all’intenzione finale, che si potrebbe definire liturgica o mistagogica – stabilire la comunione con Colui che ci trasforma in Lui: «e noi tutti, a viso scoperto (anakekalummenô), riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima icona (katoptrizomenoi tên autên eikona metamorphoumetha), di gloria in gloria (apo doxês eis doxan), secondo l’azione dello Spirito, Signore» (2Cor 3,18). Si tratta

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certo di vedere ciò che si manifesta, ma per trovarsi da esso trasformati, letteralmente trasfigurati; la comunicazione del sapere non avrebbe alcun senso né importanza se non si realizzasse nella comunione nella gloria dello Spirito. Paolo VI lo ha indicato chiaramente: Dio «dice finalmente come (qualis) vuole essere conosciuto (agnosci) – Amore egli è (uti amor plane)»11, dal momento che, sempre in situazione di Rivelazione, la conoscenza mira alla riconoscenza, quindi la scienza è subordinata e ordinata alla comunione.

Le cose visibili e la «collera» divina Forse, però, si porrà l’obiezione relativa al fatto che nel 1870 Dei Filius ha effettivamente mantenuto un doppio ordine della conoscenza («duplex ordo cognitionis – duplice ordine di cognizioni»)12, quindi la distinzione tra conoscenza naturale e soprannaturale di Dio; in realtà questi due aggettivi non emergono con precisione, anche se il testo di Rm 1,19‑20 è probabilmente citato: «ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro [sc. gli uomini]. Infatti le sue perfezioni invisibili […] vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute (ta gar aorata autou apo ktiseôs kosmou tois poiêmasin nooumena kathoratai)»13. Dei Verbum inserisce questo testo – che certo conferma la conoscenza di Dio

11.  Paolo VI, Ecclesiam suam (6 agosto 1964), in AAS 56 (1964), pp. 609659: pp. 632 ss. La prossimità con Dei Verbum, § 2 (DH 4202), che cita anche Bar 3,38, viene sottolineata da Latourelle, che qui rileva il «carattere dialogico della rivelazione» (R. Latourelle, op. cit., pp. 309 ss.). 12.  Dei Filius, cap. 3 (DH 3009). 13.  Citato da Dei Verbum, § 3 (DH 4203).

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nella sua creazione tramite «il lumen naturale della ragione umana» – all’interno della Rivelazione (altrove detta «sovrannaturale») di Dio tramite sé, iniziando dalla citazione dei testi canonici di Paolo relativi al mustêrion di Dio manifestato in Gesù Cristo; questo aspetto modifica totalmente la questione14. Questo celebre versetto, che in primo luogo è ritenuto capace di stabilire in modo esemplare la possibilità della conoscenza naturale di Dio a partire dalla creazione, di fatto svolge bene il proprio compito (non si può negare questo fatto, come non si può mettere in discussione il ruolo che ha rivestito lungo tutta la tradizione teologica); tuttavia, lo realizza inscrivendo subito la conoscenza cosiddetta «naturale» nell’economia della Rivelazione (apôkalupsis) di Dio tramite sé («soprannaturalmente», se si vuole). Come non notare, del resto, che Rm 1,19‑20 viene subito dopo una doppia menzione dell’atto di “rivelare” (quantomeno se si accetta di tradurre così apokaluptein)? «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela (apokaluptetai en autô) la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “Il giusto per fede vivrà” (Ab 2,4). Infatti l’ira di Dio si rivela (apokaluptetai) dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia» (Rm 1,16‑18). Introducendo la conoscenza di Dio ottenuta dalla ragione umana (vv. 19-20) solo dopo e quindi nella rivelazione divina (vv. 16-18), Dei Verbum comprende con precisione ciò che è richiesto dall’evidenza del testo paolino, cosa che la lettura scolastica non riusciva a fare o preferiva mascherare: la conoscenza di Dio a partire dalla creazione, anche se è certo realizzata a partire dal solo «lumen naturale della ragione umana», non precede la rivelazione (detta quindi 14.  Dei Verbum, § 2 (DH 4202). Sull’inversione tra le due istanze cfr. infra, cap. 12.

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«soprannaturale»), ma è in essa già compresa, rivelazione che determina e rende possibile ogni conoscenza. Infatti, l’argomento paolino diventa intelligibile solo a questa condizione: Dio si rivela a partire dalla fede (v. 17); ora, gli uomini, che hanno «naturalmente» avuto conoscenza di questa verità (vv. 19-20), si rivelano essere «inescusabili» (v. 20) del fatto di «soffocare nell’ingiustizia» (v. 18) una «verità» (v. 18) che si è già loro «manifestata» (v. 19). Anche «l’ira di Dio si rivela» (v. 18), perché gli uomini «pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio» (v. 21); in breve: «la collera di Dio» si rivela perché la conoscenza di Dio si è già rivelata e manifestata ed è già rifiutata; essa non è già rifiutata e condannabile, proprio perché si rivela già rivelata. Ancora una volta la questione non riguarda la conoscenza di Dio (che Paolo ritiene acquisita, perché Dio «si manifesta» a partire dalla visione della natura visibile), ma il riconoscimento adeguato di ciò che gli uomini già conoscono. L’accusa contro gli uomini riguarda il loro rifiuto di riconoscere colui che effettivamente conoscono, il rifiuto di glorificare e rendere grazie a Dio come tale (theon ôs theon doxazein kai eucharistein). Dio si rivela dunque prima della conoscenza nella fede e dopo la conoscenza nella collera, seguendo l’ipotesi – che è realtà con i pagani – secondo la quale l’ignoranza conduce al non-riconoscimento di questa conoscenza. La conoscenza «naturale» non corrisponde al preambolo della rivelazione, ma è prodotta dalla rivelazione ed è ciò in rapporto a cui essa dispiega la sua economia («fede», «ira»). La rivelazione ingloba ogni conoscenza «naturale» e la comprende – in tutti i sensi15.

15.  Tra i vari autori che hanno dato questa interpretazione di Rm 1,18-20, sono degni di nota (a) Scoto Eriugena «proinde non duo a seipsis distantia debeamus intelligere Deum et creaturam, sed unum et idipsum. Nam et creatura in Deo est subsistens, Deus in creaturis, mirabili et ineffabili modo creatur, seipsum manifestans, invisibilis visibilem se faciens et incomprehen-

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I testi conciliari relativi alla definizione della Rivelazione restano quindi tanto rari (in effetti non appaiono che in due occasioni, in un intero secolo) quanto prudenti (molto in ritardo rispetto alle discussioni teoriche della teologia universitaria). Questo riserbo deve essere apprezzato come uno dei vari esempi, ma certo significativo, della volontà del magistero di evitare la trasposizione dei dibattiti e delle controversie di scuola nell’insegnamento ordinario della Chiesa. In epoca moderna è già successo in occasione della spiegazione del sacramento eucaristico (il concilio di Trento non ha ripreso il sibilis comprehensibilem et occultum apertum […] et infinitus finitum – pertanto non dobbiamo intendere Dio e la creatura come due enti distanti fra loro, ma come una sola e stessa cosa. Infatti, la creatura sussiste in Dio e Dio si crea in modo mirabile ed ineffabile nella creatura manifestando se stesso, facendosi da invisibile visibile, da inafferrabile afferrabile, da nascosto a manifesto, da sconosciuto a conosciuto, […] da infinito a finito» (Giovanni Scoto Eriugena, De Divisione Naturae; tr. it., Divisione della natura, Bompiani, Milano 2013, III, 678, p. 833) cfr. il nostro J.-L. Marion, Veluti ex nihilo in aliquid. De l’apophasis à la divina philosophia chez Jean Scot Erigène, in P. Büttgen - J.-B. Rauzy (éds.), La longue durée. Pour Jean-François Courtine, Vrin, Paris 2016, pp. 77-92; (b) Guglielmo di Saint-Thierry: «Deus illis revelavit; qui sic eos creavit, ut in seipsis habeant unde naturaliter eum cognoscant – Dio stesso, infatti, che glielo ha rivelato, perché è stato lui che li ha creati in modo tale che avessero in se stessi la possibilità di conoscere Dio naturalmente» (Guglielmo di Saint-Therry, De Natura et Dignitate amoris; tr. it., Natura e valore dell’amore, in Id., Opere, vol. III, Città Nuova, Roma 1998, pp. 65-120: § 49, p. 113). (c) Cusano: «Quid igitur est ergo mundus nisi invisibilis Dei apparitio? – che cos’è dunque il mondo se non l’apparizione del Dio invisibile?» (N. Cusano, De possest; tr. it., Il potere-che è, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, cit., pp. 1439-1444: p. 1439). Su questo tema cfr. Feuillet, che non situa la conoscenza di Dio tramite la natura nell’orizzonte della teologia filosofica, ma la mette in rapporto all’«ek megethous kais kallonês kristmatôn analogôs […] teôreitai – dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla» di Sap 13,5; così da poter definire che «la caduta dell’umanità nel paganesimo […], la causa di questa caduta fu l’orgoglio che oscura l’intelligenza» (A. Feuillet, La connaissance naturelle de Dieu par les hommes d’après Romains 1,18-29, in «Lumière et vie», n. 14, 1954, pp. 207-224: p. 219).

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lessico tommasiano relativo alla transustanziazione) e soprattutto a proposito della conciliazione tra grazia e libero arbitrio (controversia de auxiliis), tema fino a oggi irrisolto, tanto i suoi termini sono inadeguati per la questione di fondo. Nella contemporaneità questa scelta è ancora valida a proposito di alcune polemiche un tempo infuocate, ma ormai in via di esaurimento (come quella relativa all’impegno politico dei cristiani, alla o piuttosto alle teologie della liberazione, oppure al carattere “tradizionale” o meno dell’ordo missae, ecc.). Non sempre il reale compimento del mistero di Cristo operato dai fedeli si riflette nelle discussioni dei dottori, non ne ha neppure bisogno; la vita nello Spirito della Chiesa non dipende da ciò che i sapienti possono concepire o pretendere di spiegare, né lo deve. Questo prudente riserbo si verifica anche a riguardo del concetto (se mai è necessario trovarne uno) di Rivelazione.

Creazione La creazione è conoscibile solo a patto di arrivare a riconoscerla come Rivelazione. Questo paradosso paolino, ripreso dal Vaticano II in Dei Verbum, non risulta sorprendente se si fa attenzione alla tesi di Gilson, che ha sostenuto che la conoscenza filosofica del mondo non giunge ancora a interpretarlo come creazione: «non si potrebbe raggiungere la nozione di creazione, né la distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza in ciò che non è Dio, finché si ammettono quarantaquattro esseri in quanto esseri. Ciò che manca a Platone come ad Aristotele è l’Ego sum, qui sum»16. Probabilmente, però, la difficoltà non 16.  Tra i vari cfr. E. Gilson, L’Esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris 1932 (19482); tr. it., Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1983, capp. III e IV, qui p. 91. Cfr. la discussione di P. Clavier, Ex nihilo, vol. I, L’Introduction en philosophie du concept de création; vol. II, Scénarios

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riguarda tanto la concezione dell’esse divino come atto puro, quanto l’accettazione di un mondo che deriva radicalmente da Dio e non da sé, dello scarto intrinseco con sé che gli consente di manifestare più di se stesso. Inizialmente la questione dello scarto e della sua origine da altrove non riguarda l’esse, né gli enti, né la questione dell’essere (in qualunque maniera la si intenda) ma il riconoscimento stesso. Tommaso d’Aquino non sbagliava, anticipando la tesi che Gilson prende in prestito da lui giustificandola direttamente tramite la fede: «che il mondo non sia sempre esistito è tenuto soltanto per fede (sola fide tenetur), e non può essere provato con argomenti dimostrativi, come sopra abbiamo affermato del mistero della Trinità. Ciò non si può dimostrare con la ragione, ma crederlo è supremamente vantaggioso (sed id credere maxime expedit)»17. Come concepire questa cosa? Quando si manifesta in quanto tale, il mondo (supponendo che attenendosi rigorosamente alla filosofia lo si possa conoscere e non ci si debba limitare a considerarlo nella sua totalità, cosa che non va da sé), non rivela ancora altro se non il suo fatto proprio. Anche supponendo, secondo il principio di causalità (o di ragion sufficiente), che rinvii a una causa efficiente (o a una ragione) della quale costituirebbe l’effetto, non rivelerebbe ancora niente di ciò che lo strappa dal niente; la constatazione certa della contingenza, quindi della dipendenza di tutte le cose del mondo, non rivela ancora niente, neppure che lo statuto del mondo sia quello di creatura. Infatti, la preminenza della causa efficiente dipende dall’ambiguo privilegio dell’esenzione da qualsiasi similitudine con il suo effetto, così che il mondo può farci il più grande effetto senza tuttavia aprirci il minimo accesso alla sua causa,

de “sortie de la création”, Hermann, Paris 2011 (e la presentazione della sua tesi dottorale, La création est-elle soluble dans la philosophie?, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», n. 137, 2012, pp. 307-324). 17. Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 46, a. 2, c.

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senza venire da altrove, né condurci a esso. Il mondo non può rivelare nulla, a meno che non ci appaia come venendo da altrove, secondo la definizione formale di ogni rivelazione intesa secondo la sua fenomenicità18; pertanto il mondo non può rivelare nulla di Dio a meno che non venga prima considerato come proveniente da lui, cioè come una rivelazione (supra, cap. 2) – per questo motivo solo il mondo ha accesso allo statuto di creazione. Il mondo si rivela come creazione solo nella misura in cui fin dall’inizio appare rivelato e rivelante nella luce della Rivelazione; il mondo appare come un fenomeno di creazione nel momento in cui adviene nella chiarezza della Rivelazione. Qui bisognerebbe anche considerare il paradosso di Franz Rosenzweig, più radicalmente teologico nel definire «la creazione come un divenir-manifesto di Dio», motivo per cui «la creazione stessa è già la prima rivelazione». Questa prima Rivelazione attraverso il mondo suppone però che il mondo sia sin dall’inizio già visto come un fenomeno rivelante, quindi venuto da altrove, cosa che si verifica solo se – in questo stesso mondo – qualcuno è in grado di intendere la voce che rivela e che salva: «chi non è ancora stato raggiunto dalla voce della rivelazione non ha alcun diritto di assumere l’idea di creazione, come se fosse un’ipotesi scientifica»19. A meno 18.  Esponendoci al rischio di destare stupore, suggeriamo che a questo proposito Patočka potrebbe essere di grande aiuto, aiutando a pensare il mondo come un avvento, a partire dalla possibilità di un dato che non si esaurisce in una conoscenza adeguata (cfr. É. Tardivel, La Liberté au principe. Essai sur la philosophie de Patočka, Vrin, Paris 2011, e la nostra analisi in J.-L. Marion, Reprise du donné, cit., cap. III, §§ 22‑25; tr. it., La donazione dispensatrice del mondo, in J.-L. Marion - É. Tardivel, Fenomenologia del dono, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 65-84: pp. 73-84). 19.  F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Kauffmann, Frankfurt a.M. 1921; tr. it., La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, risp. pp. 163, 166, sottolineatura nostra, e 138. Lévinas ha ripreso e approfondito questa critica: «la teologia tratta imprudentemente in termini di ontologia l’idea del rapporto tra Dio e la creatura. Essa presuppone il privilegio lo-

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di ascoltare (o piuttosto di vedere) «le voci del tuono e dei lampi»20 non si può vedere ciò che si rivela, né la Rivelazione di Colui che vi si rivela. Non si deve intendere questa reticenza relativa alla manifestazione del mondo come creazione solo come prudenza teorica, resistente (malgrado il fascino del Genio del cristianesimo) alla disorganicità dello zelo pastorale, che invocherebbe le bellezze della natura per condurre alla bontà del creatore. Nel caso della Rivelazione questo ritegno deve essere inteso soprattutto come una riserva di principio, sostenuta da una positiva esigenza teorica. Si tratta infatti di un caso esemplare di circolo ermeneutico: la Rivelazione, anche quella che si sviluppa nel fenomeno di rivelazione del mondo (inteso come fenomeno saturo per antonomasia), come indica Paolo, rivela la creazione solo perché questo mondo è fin dall’inizio ricevuto nella e come Rivelazione. In questo come in ogni altro caso la difficoltà del circolo ermeneutico non consiste nell’uscirne (dal momento che non è un circolo vizioso), ma nell’entrarvi correttamente. Solo riconoscendolo si accede alla Rivelazione – innanzitutto riconoscendo che si tratta di un fenomeno di rivelazione che, in quanto tale, adviene da altrove; poi ammettendo che si tratta, effettivamente da altrove, della Rivelazione che proviene da Dio. Ogni tentativo di affrontare la Rivelaziogico della totalità adeguata all’essere. Si scontra allora con la difficoltà di comprendere che un essere infinito abbia al suo fianco o tolleri qualcosa al di fuori di sé o che un essere libero affondi le sue radici nell’infinito di un Dio. Ora, la trascendenza rifiuta appunto la totalità e non si offre ad uno sguardo che la ingloberebbe dall’esterno. […] Ciò che mette in imbarazzo la teologia tradizionale che si occupa della creazione in termini di ontologia – Dio che esce dalla sua eternità per creare – si impone come una verità prima ad una filosofia che parta dalla trascendenza» (E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 301). 20.  Es 20,18 secondo la traduzione letterale dall’ebraico e dalla LXX (cfr. infra, cap. 11).

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ne da un punto di vista epistemologico univoco (quindi non critico) cioè facendo riferimento a una scienza o quantomeno a un sapere la cui la razionalità non farebbe nemmeno una certa eccezione alle regole comuni della nostra razionalità, non può che esporsi a un doppio fallimento.

Che cosa merita una Rivelazione? Innanzitutto, si può domandare se il tentativo di definire la Rivelazione tramite il sapere o come fonte di una scienza potenziale non corrisponda a giudicarla a partire da una questione diversa dalla sua. Non sarebbe equivalente a relegarla al ruolo di semplice complemento del sapere comune, atteso ma mancante, cioè degradarla al rango senza onore di sostituto della conoscenza certa, ridurla a scorciatoia (o a corto-circuito) per accedere indebitamente a conclusioni di cui si ignorano dimostrazioni e princìpi; in breve a costruire una macchina per produrre idee inadeguate (Spinoza)? Reciprocamente, supponendo che così concepita pervenga a qualche successo, come si può evitare di non riconoscervi altro da un’indiscreta curiosità a proposito di Dio, un’intrusione sacrilega? Nel caso più probabile, quello del fallimento, non verrebbe squalificata a illusione o, peggio, impostura, «fanatismo» (Kant)? I Padri, al pari dei «filosofi», hanno criticato con fermezza la prima tentazione e hanno combattuto la seconda contro gli gnostici. L’obiezione può essere formulata ancor più radicalmente: Dio si rivela per farsi conoscere e prender posto nella nostra razionalità, al fine di farsi ammettere al suo interno pretendendo, al massimo, solo di colmarne le mancanze? Oppure, nel rivelarsi ha un’altra intenzione? Dio avrebbe dispiegato nella nostra storia l’intera economia della salvezza, la venuta di Cristo, la sua morte e resurrezione, solo per farci sapere, per esempio, che pensa proprio come un geometra e per garantirci che ri-

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spetta le «leggi della natura», per confermarci che incoraggia i progressi della moralità e della civiltà, o solo per dimostrarci che anche lui si inserisce in ciò che intendiamo (o crediamo intendere) con esistenza, ecc.? O non si è piuttosto rivelato per insegnarci ad amarlo e ad amarci gli uni gli altri? Per concepire correttamente la Rivelazione è necessario interrogarci a proposito del suo motivo – e il suo motivo dal punto di vista di Dio. Quale motivo sufficientemente divino può giustificare (se questa parola conserva un senso in questa occorrenza) il fatto che Dio si riveli in persona? Se non pone questa questione prima e ultima, nessuna indagine del concetto di Rivelazione ha senso o legittimità Ne consegue la seconda resistenza: se la definizione di una Rivelazione possibile impedisce che essa possa limitarsi a fornire una scienza o un sapere addizionale e senza ragione (o peggio, con una ragione sufficiente), se la Rivelazione deve avere un altro motivo oltre a quello di far conoscere semplicemente qualcosa in generale, allora che senso ha l’impegno a volerla definire tramite concetto? Perché il concetto, quale che sia, ha per funzione quella di farci conoscere ciò che noi, per suo tramite, possiamo comprendere, possedere e produrre. Il concetto impedisce e si impedisce di advenirci da altrove (supra, capp. 1‑2); tutte le sue funzioni consistono proprio nell’evitarci di ricorrere e addirittura di ammettere il benché minimo altrove. Di conseguenza, secondo una logica molto evidente, anche al quasi-concetto di Rivelazione apparterrebbe la proprietà di non inscriversi in nessun concetto, formalmente parlando la Rivelazione ha per concetto quello di non averne alcuno. Ciò che la rende compatibile con l’unica nozione di Dio che ci è possibile ammettere (che ci diciamo credenti o non credenti non cambia nulla) riguarda la sua irriducibilità al concetto secondo la sua comprensione metafisica. Questo quasi-concetto di Dio consiste nell’impossibilità di un concetto (adeguato, come per definizione deve essere ogni concetto) di

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Dio – secondo la regola grammaticale per cui se lo comprendessi, allora non sarebbe lui (sant’Agostino) o ancora secondo la regola per cui l’incomprensibilità appartiene alla definizione formale di infinito (Descartes). In questo caso non si tratta di una contraddizione, ma di un’esigenza razionale, non si tratta neppure di agnosticismo o di ineffabilità, perché questo paradosso può essere detto e pensato. Tuttavia, la questione non è neppure questa, eventualmente verrà più tardi. Non si tratta neppure di discutere la portata della resistenza della Rivelazione a ogni concetto che pretenderebbe di renderla comprensibile. Innanzitutto, più modestamente, conviene capire come la questione della Rivelazione abbia potuto e dovuto confrontarsi con l’autorità del concetto. Su questo punto è tanto più apprezzabile il riserbo del magistero e l’equilibrio che ne deriva. Infatti, la costituzione Dei Verbum rimpiazza le due forme della conoscenza di Dio, tanto la prima, detta «naturale», che quella che di conseguenza è definita «sovrannaturale», sotto l’egida di un’unica Rivelazione che ingloba entrambe. In questo modo l’opposizione tra la conoscenza di Dio definita «naturale» – presumibilmente ottenuta senza Rivelazione (per pura ragione e secondo la sola filosofia) e la conoscenza «soprannaturale» – solamente rivelata (e riservata alla teologia, per quanto talvolta senza la fede) viene squalificata. Questa ripresa diviene possibile solo a partire della chiara coscienza che la Rivelazione ingloba tutto ciò che sappiamo di Dio, perché non consiste solo, né in prima istanza, in una conoscenza supererogatoria, ma nella manifestazione di Dio in sé e a partire da sé. Solo l’attribuzione dell’altrove a Dio stesso ristabilisce la possibilità di un’intesa propriamente teo-logica della Rivelazione. Ciò implica la distruzione del concetto teo-logico, in fondo logico, che durante la modernità la metafisica (intendiamo la metafisica in senso stretto) ha poco a poco imposto alla teologia cristiana.

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6 L’origine metafisica del concetto comune di Rivelazione

La distinzione tra la questione della Rivelazione e quella della fede, chiaramente assunta dalla teologia moderna distinguendo i due trattati De revelatione e De fide, ha garantito alla teologia (o almeno, precisa Kant, alla facoltà di teologia) un vantaggio plurimo: pretendere di enunciare tesi razionali, in sé intelligibili (anche senza la fede), definirsi come scienza, essere annoverata tra le «facoltà superiori», infine arrivare a esigere di dettar legge a tutte le altre scienze in virtù dell’operazione di subordinazione (o subalternazione) delle scienze presa in prestito da Aristotele. Tale vantaggio aveva però un prezzo, che alla fine è stato necessario pagare: la scientificità rivendicata dalla teologia rimane indefinita e, soprattutto, caratterizzata da validità contestabile, in quanto seguendo questa strada la scientia Dei et beatorum (la sola che potesse fondarla) resta inaccessibile. Di conseguenza, si è dovuto garantire con altri mezzi il privilegio epistemologico della Rivelazione – con i mezzi consentiti e reclamati dall’interpretazione proposizionale (secondo la propositio sufficiens), cioè dalla sua fondazione tramite i princìpi della metaphysica.

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Condizioni Si dà così avvio al ribaltamento della situazione, che conduce all’elaborazione propriamente filosofica del concetto di Rivelazione. Quando Descartes distingue «la rivelazione – cosa che chiamo propriamente Teologia» da ciò che «è piuttosto metafisica e deve essere esaminata dalla ragione umana»1, ammette che «le verità rivelate […] sono al di sopra della nostra intelligenza», perché «per cominciare ad esaminarle e per riuscire in ciò, occorre […] avere una qualche assistenza straordinaria dal cielo ed essere più che uomo»2. Questa dichiarata superiorità della Rivelazione, tuttavia, porterà presto non solo alla sua marginalità, ma anche alla sua dipendenza di fatto dalla metafisica. Gottfried W. Leibniz ritorna quindi alla posizione di Suarez, pretendendo di fondare la Rivelazione non su se medesima, ma su ciò che la filosofia (all’occorrenza la metafisica) può di fatto garantirle circa i princìpi logici: «la teologia cristiana […] è fondata sulla rivelazione, che corrisponde all’esperienza, ma per farne un organismo compiuto, bisogna 1.  R. Descartes, À Mersenne, 15 avril 1630; tr. it., Descartes a Mersenne, 15 aprile 1630, in Id., Lettere 1619-1648, Bompiani, Milano 2015, p. 269. Uso confermato da Spinoza: «qui per teologia intendo precisamente la rivelazione – atque hic per theologiam praecise intelligo revelationem» (B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus; tr. it., Trattato teologico politico, in Id., Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010, pp. 629-1139: p. 995) e da Locke: «la fede, dall’altro lato, è l’assenso a una proposizione non formulata in base alla deduzione razionale ma su credito di chi la propone come proveniente da Dio, attraverso qualche via straordinaria di comunicazione. Questa via di scoprire le verità agli uomini la chiamiamo rivelazione» (J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., IV, 18, § 2, p. 786). 2.  R. Descartes, Discours de la Méthode; tr. it., Discorso sul metodo, in Id., Opere 1637-1649, cit., pp. 24-115: p. 33. Questa formula proviene da Montaigne, quasi letteralmente: «è ben necessario che egli [sc. Dio] ci porga ancora il suo aiuto, con favore straordinario e privilegiato» (M. de Montaigne, Apologie de Raymond Sebond; tr. it., Apologia di Raymond Sebond, in Id., Saggi, cit., cap. II, 12, p. 783).

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aggiungervi la teologia naturale, che è ricavata dagli assiomi della ragione eterna»3. La teologia, ormai, per meritare lo statuto di scienza dovrà allinearsi alle norme e alle condizioni di razionalità stabilite per lei dalla filosofia, che non mette in dubbio di pensare secondo «gli assiomi della ragione eterna». Nel 1624 Edward Herbert of Cherbury fu uno dei primi a osare stabilire esplicitamente le condizioni di validità della Rivelazione. Egli argomenta che, se si ammette che il fondamento di una verità rivelata viene dall’autorità di colui che la rivela («veritatis revelatae fundamentum e revelantis auctoritate»), allora le false rivelazioni divengono quantomeno possibili, rivelazioni con cui bisogna mediare con grande prudenza («summa cautela»); lo si può fare solo a certe condizioni, che bisogna riconoscere adeguatamente («istae tamen conditiones, si adsint, fidem revelationi adhibere consulimus»). Queste condizioni richiedono (a) di non prevenire la provvidenza con voti e preghiere; (b) che la rivelazione si dischiuda direttamente e da sé («sibi ipsi patefaciat») senza alcun intermediario o relazione ad altri; (c) che insegni un bene vero ed eminente («bonum aliquod eximium et verum doceat»); infine, (d) che vi si percepisca il soffio divino («afflatum divini numini sentias»). Solo qualora tali condizioni si diano tutte e anche ammesso che il dato in questione superi la portata della mente umana («superat captum»), sarà lecito accettare questa Rivelazione («proprium numen venerare!»4). Ovviamente, soddisfare tut-

3.  G.W. Leibniz, Nouveaux Essais sur l’entendement humain; tr. it., Nuovi saggi sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 2001, IV, 7, § 11, p. 1077. 4.  «Quando igitur, quod datur humanum superat captum, et conditiones supra enumeratae adsunt, et in opere perficiendo denique divinum persentis auxilium, proprium numen venerare! – quando ciò che si manifesta a noi supera l’umana comprensione e si verificano tutte le condizioni precedenti e nelle nostre attività avvertiamo la guida Divina, dobbiamo rispettosamente riconoscere il buon volere di Dio» (E. Herbert of Cherbury, De Veritate

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te queste condizioni risulta quasi sempre impossibile, quantomeno perché mancano i criteri per decidere, per esempio, quando il «soffio divino» o l’apertura diretta si realizzano oppure no. In particolare, si intuisce già che una tale Rivelazione – sottomessa ai criteri della mente umana, quindi normata dall’esterno e proprio da colui che si suppone debba riceverla – fin da subito non è più una soltanto. La semplice imposizione delle condizioni è già sufficiente per comprometterne la possibilità logica: venire da altrove5. Passare alla tappa successiva divenne pertanto quasi inevitabile: mettere in dubbio che alcune di queste condizioni, per esempio l’apertura immediata e la sensazione del «soffio divino», siano plausibili. Questa è stata la posizione di Thomas Hobbes: «a pochi è concesso di ascoltare la parola sensibile di Dio; né Dio ha parlato agli uomini attraverso la rivelazione, se non rivolgendosi a individui singoli, e dicendo a ciascuno di questi cose diverse; infine nessuna legge di questo regno è mai stata promulgata ad alcun popolo in questo modo»6. Di conseguenza, «quando crediamo che le Scritture siano la parola di Dio, siccome non abbiamo alcuna immediata rivelazione da parte di Dio stesso, riponiamo la nostra credenza, fede

prout distinguitur a revelatione, a verisimili, a possibili et a falso, London 1624; tr. it., De veritate, Tiziano Cornegliani Editore, Milano 2006, p. 116). 5.  Già Descartes ha constatato che Herbert of Cherbury vale più in metafisica che in teologia: «egli dimostra di essere più preparato del comune in metafisica, che è una scienza che quasi nessuno intende; ma visto che nel seguito mi sembrava che mischiasse la religione con la filosofia, e questo è del tutto contrario al mio modo di vedere, non l’ho letto fino alla fine» (R. Descartes, Descartes a Mersenne, 27 agosto 1639, in Id., Lettere 16191648, cit., p. 917). 6.  «Verbum Dei sensibile ad paucos factum est, neque Deum per revelationem hominibus locutus est, nisi viritim et diversis diversa; neque ullae leges regni hoc modo populo ulli promulgatae fuerunt» (T. Hobbes, De Cive; tr. it., Elementi filosofici sul Cittadino, UTET, Torino 1948, p. 316).

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e fiducia [esclusivamente] nella Chiesa, [di cui accettiamo] la dottrina»7. In questo nuovo dispositivo, in cui scompare la condizione di immediatezza posta da Cherbury, la Rivelazione è ridotta alla sua mera interpretazione proposizionale, tanto più che tra le tre «voci» di cui il verbo di Dio si può servire (secondo che si faccia conoscere come rationale, sensibile o propheticum), due non sono adeguate: la profezia (la sola Rivelazione a rigor di termini, il sensus supernaturalis) perché riguarda solo un individuo e quindi non offre una dottrina collettiva e la fede (fides ex auditu) e, all’occorrenza, la fede della Chiesa perché crede senza comprendere, quindi rimane priva di autorità razionale. Non resta quindi che la «voce» della pura ragione (recta ratio), che certo è universale, ma non può imporsi universalmente perché la sua proposizione non ammette un contenuto univoco8. Ogni Rivelazione presa in senso lato risulta pertanto compromessa.

7.  «And consequently, when we believe that the Scriptures are the word of God, having no immediate revelation from God himself, our belief, faith and trust is in the Church, whose words we take and acquiesce therein» (T. Hobbes, Leviathan; tr. it., Il Leviatano, vol. I, UTET, Torino 1955, I, 7, pp. 100-101; tr. mod.). Quindi solo la Scrittura, senza revelatio privata, diventa atemporale, giungendo alla sua completa riduzione proposizionale (cfr. D. Weber, Hobbes et l’histoire du salut. Ce que le Christ fait à Léviathan, Presses de la Sorbonne, Paris 2008, pp. 270 ss.). 8.  «Da ciò ne deriva la triplice parola di Dio, razionale, sensibile e profetica, a cui corrisponde un triplice modo di comprensione: la retta ragione, il senso soprannaturale e la fede. Per ciò che riguarda il senso soprannaturale, consistente nella rivelazione o ispirazione, non esistono leggi universali così formulate, perché Dio non si rivolge in quel modo che a determinate persone e diversamente, ai diversi individui. Dalla differenza tra gli altri due modi in cui si esprime la parola di Dio, razionale e profetico, si può attribuire a Dio un duplice regno: naturale e profetico. Naturale, quello attraverso il quale egli governa tutta quella parte del genere umano che la sua Provvidenza, guidata dai dettami della retta ragione, riconosce; e profetico, quello attraverso il quale, scelto un determinato popolo […] governò» (T. Hobbes, Il Leviatano, cit., XXXI, p. 399). Da M. Levering, op. cit., p. 95,

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Miracolo e possibilità Seguendo l’esempio di Locke, di fronte al fallimento della nozione di Rivelazione in quanto tale non resta che una sola via: garantirla a partire da ciò che ormai si definisce sotto il titolo di ragione – in una parola, il cristianesimo può sperare solo di farsi riconoscere il carattere ragionevole (the reasonableness of Christianity), cioè farsi riconoscere come razionale dall’auto­ proclamato tribunale della ragione, «appartiene tuttavia ancora alla ragione il compito di giudicare se si tratta veramente di una rivelazione»9. L’argomento è apparentemente rispettoso e teologicamente accettabile: «tutto ciò che Dio ha rivelato è certamente vero: nessun dubbio ci può essere su questo. Questo è l’oggetto proprio della fede; se si tratti o no di una rivelazione divina, però, è la ragione a doverlo giudicare: essa non può permettere che lo spirito rigetti un’evidenza maggiore, per abbracciare ciò che è meno evidente, né consentire di ammettere probabilità che si oppongono alla conoscenza e alla certezza. Non ci può essere un’evidenza che una rivelazione tradizionale è di origine divina, nella parola in cui la riceviamo e nel senso in cui la comprendiamo, che sia così chiara e certa come l’evidenza dei princìpi della ragione: perciò niente, che sia contrario o incompatibile con i dettami chiari ed evidenti della ragione, può legittimamente essere proposto ed è stato suggerito che qui Hobbes dipenda da Bacon, che deplorava ciò che era lodato da sant’Agostino – il fatto che il cristianesimo abbia stabilito una liturgia diversa dal culto civico e dottori diversi dai poeti (F. Bacon, On Unity in Religion [1597], pubblicato nel 1625; tr. it., Dell’unità religiosa, in Id., Saggi, Francesco de Silva, Torino 1948, pp. 10-16: p. 10). 9.  «It still belongs to Reason to judge of the truth of its being a Revelation» (J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., IV, 18, § 8, p. 791). Cfr. Id., La ragionevolezza del Cristianesimo, cit., senza contare J. Toland, Christianity not mysterious (1696); tr. it., Cristianesimo senza misteri, Abruzzo-Press, L’Aquila 1975 e M. Tindal, Christianity as old as the creation of the World or the Gospel of the Religion of Nature (1730).

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accolto come materia di fede in cui la ragione non abbia nulla da fare»10. La Rivelazione non ha quindi altra validità (non fosse che quella proposizionale) che nei limiti della ragione e dietro sua garanzia. Tuttavia, emergono subito altre questioni: va da sé che non si può mai essere sicuri dello stesso contenuto proposizionale della Rivelazione e di quale ruolo assegnare all’ermeneutica, quindi all’esegesi e infine alla storia delle tradizioni filologiche, ecc.; è però pacifico che la Rivelazione si limiti a un contenuto proposizionale tale che la “ragione” possa giudicarne, oppure c’è qualcosa di più e ulteriore, che oltrepassa la sua portata? E soprattutto, che cosa significano la “ragione” e i suoi “principi”, quali sono le sue qualifiche e i suoi limiti? Queste tre dimensioni – la scienza biblica, l’ermeneutica e i limiti della ragion pura – vengono ignorate condizionando e compromettendo l’argomento di Locke. Queste obiezioni, ancora implicite, continueranno a comparire fino a Kant e a Johann Gottlieb Fichte, pesando sull’intera teologia moderna. Si deve infatti

10.  «Whatever God hath revealed is certainly true: no doubt can be made of it. This is the proper object of faith: but whether it be a divine revelation or no, Reason must judge; which can never permit the mind to reject a greater evidence to embrace what is less evident, nor allow it to entertain probability in opposition to knowledge and certainty. There can be no evidence that any traditional revelation is of divine original, in the words we receive it, and in the sense we understand it, so clear and so certain as that of the principles of Reason: and therefore nothing that is contrary to, and inconsistent with, the clear and self-evident dictates of Reason, has a right to be urged or assented to as a matter of faith, wherein Reason hath nothing to do» (J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., IV, 18, § 10, p. 792); cfr. «la ragione dev’essere il nostro Giudice supremo e la nostra guida in ogni cosa. Non intendo che dobbiamo consultare la ragione ed esaminare se una proposizione rivelata da Dio può essere formulata in base ai princìpi naturali e rigettarla se non può; ma dobbiamo consultarla e con essa esaminare se si tratta o no di una rivelazione di Dio. Se la ragione trova che essa è rivelata da Dio, lo dichiara, come fa per ogni altra verità, e ne fa uno dei propri dettati» (ivi, IV, 19, § 14, p. 802).

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a Hume il tentativo di dare fondamento a questo argomento ancora molto approssimativo, chiedendo chiaramente se – una volta riconosciuto che la ragione ha il diritto esclusivo di giudicare ricevibile o no ogni pretesa al rango di Rivelazione – si possa stabilire un criterio fondamentale per decidere di tutti i casi. Infatti, si può tentare di dare una risposta: nessuna pretesa a essere Rivelazione deve includere il miracolo perché questo si definisce come «violazione delle leggi di natura»11. Il miracolo sarebbe da escludere di principio, al pari di qualunque testimonianza in suo favore: «possiamo stabilire come massima che nessuna testimonianza umana può avere tanta forza da provare un miracolo, facendone un fondamento sicuro per un qualche sistema di religione»12. Se, per proclamarsi rivelata, una religione vuol far credere ai miracoli, allora si rivela in ogni caso un’impostura, sia perché i miracoli non esistono – di fatto e in primo grado, sia perché esiste almeno il miracolo di secondo grado, tramite il quale alcuni credono a tali presunti miracoli; in quest’ultimo caso per ammettere un miracolo ne servirà un altro: «chiunque sia mosso dalla fede a prestarle il suo assenso, è consapevole di un miracolo continuo che adviene nella sua stessa persona e che sconvolge tutti i princìpi della sua intelligenza e lo spinge a decidere di credere a ciò che è sommamente contrario alla consuetudine ed alla esperienza»13. Non solo la ragione può giudicare la rivendicazione della Rivelazione (Locke), ma ormai dispone anche di un criterio per escludere tale pretesa – l’impossibili-

11. «A violation of the laws of nature», o, più esplicitamente, «un miracolo si può definire esattamente una trasgressione di una legge di natura da parte di un particolare volere di Dio per l’interporsi di un qualche agente invisibile» (D. Hume, An Enquiry concerning Human Understanding; tr. it., Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari 2004, X, 1, pp. 179 e 293). 12.  Ivi, X, 2, p. 199. 13.  Ivi, p. 205.

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tà del miracolo (Hume). Detto altrimenti: a meno di invocare la possibilità del miracolo, nessuna religione può pretendersi rivelata, ma per principio il miracolo rimane impossibile; ogni religione rivelata si rivela quindi essere impossibile. La censura si raddoppia, perché non riguarda più solo il contenuto (proposizionale), ma lo statuto e l’origine della Rivelazione. Le conseguenze di questa problematica si riconoscono senza difficoltà: innanzitutto, il rovesciamento della gerarchia tra conoscenza di Dio soprannaturale (teologia) e naturale (filosofia) non arriva a conferire una fondazione metafisica della Rivelazione (come avevano di mira Suarez e Malebranche) ma, al contrario, a stabilirne l’impossibilità di principio (Locke e Hume). In secondo luogo, la teologia ha voluto diventare una scienza riducendo la Rivelazione a una forma proposizionale, ma questa concessione ha portato a un doppio fallimento: non solo la teologia non è riuscita a conquistare il carattere di scienza, ma la sua interpretazione epistemologica della Rivelazione ne ha compromesso la possibilità di fronte alle scienze rigorose. In terzo luogo, da quel momento lo stesso concetto di “Rivelazione” diventa problematico, perché è costruito da filosofi prima ancora che da teologi, e soprattutto da filosofi che per principio negano, limitano o rifiutano anche il minimo altrove che si rivela14, al punto che lo stesso termine “Rivelazione” non sembra più altro che un artefact contraddittorio, una spalla ad hoc, travestita da spaventapasseri per un combattimento truccato. C’è addirittura da stupirsi del fatto che seri e autentici teologi abbiano potuto prendere così com’era un termine tanto svalutato per rivendicarlo come loro appannaggio.

14.  Rovesciandola, Hume conferma così quella che abbiamo riconosciuto come prima caratteristica formale di ogni rivelazione (quindi anche della Rivelazione), ovvero provenire da altrove: «niente vien considerato un miracolo, se si verifica continuamente nel corso comune della natura» (ivi, X, 1, p. 179).

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Ma c’è di più, perché le debolezze della critica rinforzano l’indeterminatezza del concetto di Rivelazione; infatti, non solo l’argomentazione di Hume non è capace di rimediare all’ignoranza che grava sull’argomentazione di Locke, ma la aggrava, perché la definizione dogmatica di miracolo che parte dalla sua impossibilità presuppone ciò che sarebbe da stabilire: bisognerebbe innanzitutto conoscere tutte le “leggi di natura”, quantomeno sapere che ce ne sono di universali, che non patiscono alcuna eccezione; questa pretesa, che risale a Malebranche, nel migliore dei casi rimane prolettica, anticipando una condizione sempre a venire delle scienze positive; infatti, stabilire tali “leggi” per noi oggi sembra quantomeno aleatorio, tanto quanto aleatoria appariva a Hume la pretesa di una religione che avesse il rango di Rivelazione. Più ancora, l’esclusione del miracolo in virtù della sua impossibilità di principio suppone una determinazione significativa dell’impossibilità, quindi della possibilità; ora, evidentemente l’impossibile contraddice proprio ciò che la possibilità presuppone – cioè che nulla possa essere pensato (ed essere) se si contraddice; ma per chi detta legge la contraddizione, se non per un intelletto finito? Ne consegue che il miracolo (sia la sua rivelazione immediata sia l’atto di credere in essa) contraddice solo la possibilità per noi; o, che poi è la stessa cosa, contraddice solo le “leggi di natura” secondo la modalità attraverso cui noi conosciamo alcune di loro e immaginiamo la maggior parte delle altre, che noi ignoriamo. Immaginiamo le “leggi di natura” ben più di quanto non le conosciamo e, non conoscendole in nessun modo tutte, le immaginiamo seguendo il nostro criterio di probabilità. Esse ci assomigliano e derivano da noi più di quanto ci governino15.

15.  Hume lo dice a proprio modo: «la massima, secondo la quale di solito ci comportiamo nei nostri ragionamenti, è che gli oggetti di cui non abbiamo esperienza assomigliano a quelli d cui abbiamo esperienza; che ciò che

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Ci si dovrebbe chiedere se questo impossibile per noi non costituisca proprio il campo e la definizione formale di ogni Rivelazione pensabile e possibile, lungi da squalificarne il concetto. La stessa nozione di Rivelazione non suppone proprio il fatto che si dia a pensare ciò che, senza Rivelazione, non potremmo pensare e neppure immaginare di poter mai pensare? Reciprocamente, una Rivelazione che non avesse la pretesa di aprirci, in un modo o nell’altro, a ciò che senza di lei resterebbe impossibile da pensare, sarebbe ancora tale? Ponendo altrimenti la questione: non è proprio ciò che per la “ragione”, cioè per noi, i mortali, appare impossibile, a definire ciò che designa – possibile o effettivo, non è questa la questione – il concetto di Rivelazione (supra, capp. 1-2)16? La questione della Rivelazione non cade sulla sua impossibilità, perché questa impossibilità non ne squalifica il concetto, ma lo definisce con precisione: essa riguarda la possibilità che questa impossibilità per noi rimanga in sé possibile. La pretesa smentita, quindi, non chiude la questione della Rivelazione ma, senza accorgersene, la pone chiaramente e – forse per la prima volta – lo fa in modo tanto chiaro, dal momento che definire la possibilità del pensabile costituisce l’iniziale rivendicazione della metafisica in quanto è la prima caratteristica di ciò che la sua ontologia nomina relativamente agli enti, il puro e semplice cogitabile17. Opporre alla Rivelazione la sua impossibilità equivale quindi a riconoabbiam trovato che era più usuale è sempre più probabile (what we have found to be most usual is most probable)» (ivi, X, 2, p. 183). 16.  A proposito dello statuto dell’impossibile per noi, quindi possibile per gli dèi e Dio, cfr. la nostra analisi in J.-L. Marion, Certezze negative, cit., cap. II, pp. 81-125. 17.  Cfr. «ens est quicquid quovis modo est, cogitari ac dici potest – l’essere è tutto ciò che in qualsiasi modo può essere pensato e detto» (J. Clauberg, Metaphysica de ente, quae rectius Ontosophia, in Id., Opera omnia philosophica, vol. I (Amsterdam 1691), Olms, Hildesheim 19682, § 6, p. 283; «nam eo ipso quo quid apprenhendimus, jam est intelligibile et per consequens Ens

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scere il conflitto, forse insormontabile, tra la Rivelazione (che riguarda l’impossibile, o non conta nulla) e la metafisica (che non mira ad altro che a stabilire i limiti del possibile). Quando Kant prenderà l’elementare precauzione di precisare quale criterio di razionalità autorizzi a limitare la possibilità, ne sarà ben consapevole; i limiti che la «semplice ragione» impone ai testi biblici sono giustificati, perché raggiungono limiti che la ragion pura impone a se stessa nel suo esercizio teorico: si può pretendere di conoscere tramite concetti (a priori) solo ciò che l’intuizione (nelle forme dello spazio e del tempo) può dare e così convalidare; la ragione applica all’interpretazione epistemologica (e proposizionale) della Rivelazione solo i limiti che impone alla sua stessa funzione epistemologica. Questo argomento, tuttavia, si rovescia immediatamente: con quale diritto la ragione, che legifera solo a titolo della sua essenziale finitezza e che, rispettando questa finitezza, si relega nella conoscenza esclusiva di oggetti, può pretendere di imporre i suoi limiti (che di diritto sono le semplici norme della sua finitezza) a ciò che, di principio, si propone di trasgredire la finitezza tramite l’intervento dell’infinito e non potrebbe mai ridursi al rango di un oggetto? L’Illuminismo ha portato il dibattito al livello del concetto quando Fichte ha formulato la critica di ogni Rivelazione (Versuch einer Kritik aller Offenbarung, 1793), anticipando di un anno la limitazione della religione (Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft) che in seguito Kant trarrà dalla sua stessa critica della ragion pura. Essa ha trionfato perché gli stessi sostenitori più conservatori della Rivelazione invocarono la ragione come “rivelazione naturale”. Il suo trionfo accadde in vari modi che, non fosse che brevemente, è opportuno ricostruire come tante variazioni di una stessa critica (nel senso di Kant), sviluppata secondo le in prima significatione – per il fatto stesso che abbiamo appreso qualcosa, ciò è già intelligibile e di conseguenza Essere nel primo significato» (ivi, § 10).

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differenti facoltà o modi della res cogitans (nel senso di Descartes) che si riconosceva la ragione nella sua accezione metafisica: intuizione (sensus), immaginazione, volontà e intelletto (concetto). Si potrà vedere con più chiarezza che ciascuno di questi modi del pensiero, secondo una via propria, consente di censurare, richiudere e infine impedire qualsiasi comprensione teologica di qualcosa come la Rivelazione. Detto altrimenti: si vedrà cosa diventa la Rivelazione quando è definita a partire dalla cogitatio senza altrove.

Secondo l’intuizione Friedrich D.E. Schleiermacher è il paradigma della prima via, ché egli tentò di misurare la Rivelazione a partire dall’intuizione, cioè dal sensus e dal sentimento. Il suo punto di partenza è riconoscibile univocamente: si tratta «di essere ancora sopraffatti dalla visione e dalla fede nell’invisibile», quale che sia18, o, ancora, «tutto ciò che è, è per essa [sc. la religione] necessario, e tutto ciò che può essere, è per essa una vera e irrinunciabile immagine dell’Infinito (ein wahres unentbehrliches Bild des Unendlichen)»19, dal momento che la ragione, nella «sua essenza non è né pensiero né azione, ma intuizione (Anschauung) e sentimento. Essa vuole intuire (anschauen) l’Universo»20. Qua-

18.  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihern Verächtern; tr. it., Sulla religione, in Id., Scritti di filosofia e religione 1792-1806, Bompiani, Milano 2021, pp. 163-437: p. 181 (tr. mod.). 19.  Ivi, p. 223. 20.  La religione «non desidera determinare e spiegare l’Universo secondo la sua natura, come la metafisica, e nemmeno perfezionarlo e portarlo a compimento attraverso la forza della libertà e del divino arbitrio dell’uomo, come la morale. La sua essenza non è né pensiero né azione, ma intuizione (Anschauung) e sentimento. Essa vuole intuire l’Universo» (ivi, p. 209).

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le che sia il contenuto o lo scopo (l’infinito nel finito, la totalità, la libertà, il realismo del mondo, ecc.), si tratta sempre di ottenerlo o almeno di mirarvi per intuizione: «intuizione (anschauen) dell’universo […] è il perno di tutto il mio discorso, è la formula più universale e alta della religione»21. Si può certo riequilibrare la prevalenza dell’intuizione tramite il ruolo del sentimento: «l’intuizione (Anschaung) senza il sentimento è niente […], anche il sentimento senza l’intuizione è niente»22, ma, oltre al fatto che il sentimento non si oppone per nulla all’intuizione, della quale non mette in dubbio il primato, esso non impedisce in alcun modo di ricondurre il concetto stesso di Rivelazione, nella sua interezza, alla sola intuizione: «cosa significa rivelazione (Offenbarung)? Ogni nuova e originaria intuizione dell’Universo è tale»23. In altri termini: la Rivelazione riguarda l’intuizione e non il contrario; non si tratta di una semplice differenza espressiva, dal momento che i due concetti non insistono sullo stesso nucleo: l’intuizione, a titolo di facoltà, rinvia all’uomo, mentre la Rivelazione (o religione intesa stricto sensu, supra, cap. 2) proviene da Dio. Si tratta infatti di un rovesciamento radicale: la Rivelazione, intesa come intuizione, molto più che una manifestazione di Dio diventa un effetto dell’uomo. Molto logicamente Schleiermacher vela Dio velandolo tramite l’uomo, anche se riconosce il pericolo della sua tesi: «la maggior parte» dei suoi lettori potrebbero concludere, anticipando Ludwig Feuerbach, che 21.  «Intuizione dell’Universo (Anschauen des Universus) – ve ne prego, familiarizzate con questo concetto – è il perno di tutto il mio discorso, è la formula più universale e alta della religione» (ivi, p. 213). 22.  Ivi, p. 229, con eco evidente alla formula kantiana «i pensieri, senza contenuto, sono vuoti; le intuizioni, senza concetti, sono cieche» (I. Kant, Critica della ragion pura, cit., A 51/B75, p. 169). 23.  F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione, cit., p. 267; cfr. «considerate l’esistenza di ciascuno come una rivelazione (Offenbarung), a voi, dell’uma­ nità» (ivi, p. 245).

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«Dio è evidentemente (offenbar) null’altro che il Genio dell’umanità. L’uomo è l’immagine originaria del loro Dio (Urbild ihres Gottes)»24. Per evitare questa deriva idolatrica egli precisa che la sua definizione dell’intuizione della religione non mira né a «un esemplare unico di una specie particolare» né a «uno Spirito dell’Universo che regge l’Universo con libertà e intelletto», ma, ancora una volta, al fatto che «avere religione significa intuire l’Universo (das Universum anschauen)»25. Per evitare la deriva idolatrica, però, l’intuizione si libera da ogni immagine (Bild) solo respingendo Dio dalla religione, quantomeno escludendolo dal centro di gravità e d’attrazione della religione: «Dio non è tutto nella religione, ma solo una parte, e l’Universo è di più»; infatti, la stessa idea di Dio non ha importanza decisiva, perché «una religione senza Dio può essere migliore di un’altra con Dio»26. L’intuizione (di ciò che si vorrà e potrà nominare in molti modi tra loro equivalenti e indifferenti) rivela il sentimento dell’uomo, il suo «gusto per l’infinito», ma nulla di Dio. Certo in questo modo la Rivelazione si rivela non solo possibile, ma anche effettiva – ciò, tuttavia, non ha più importanza, perché quanto rivela non si chiama né deve chiamarsi Dio27. 24.  Ivi, p. 273; cfr. «l’originale (Urbild) del suo idolo è l’uomo» (L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums; tr. it., L’essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 10). 25.  F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione, cit., pp. 273 e 275. 26.  Ivi, risp. pp. 281 e 275 cfr. «nella religione, dunque, l’idea di Dio non sta così in alto come credete» (ivi, p. 277); donde il suo completo disinteresse per la Trinità, semplice questione di «numero»: «uno o più: io, nella religione, non disprezzo nulla così tanto quanto il numero» (ivi, p. 275), che prolunga così quello di I. Kant, Der Streit der Fakultäten; tr. it., Il conflitto delle facoltà, Morcelliana, Brescia 1994, cit., I, 1, Appendice II, Ak.A. VII, pp. 98 ss. 27.  «Religion ist Sinn und Geschmack furs Unendliche  –  la religione è sentimento e gusto per l’Infinito» (F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione, cit., p. 211). Donde l’impeccabile diagnosi di Schelling che rimprovera a

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Per salvare la religione riportando la Rivelazione alla sola intuizione, bisogna che non sia Dio a rivelarsi, o quantomeno che non sia anzitutto lui.

Secondo l’immaginazione La seconda via fu aperta da Spinoza, con il tentativo di determinare la Rivelazione a partire dall’imaginatio, quarto modo cartesiano della cogitatio. All’apparenza il punto di partenza è pienamente tradizionale: «profezia o rivelazione è la conoscenza certa, rivelata da Dio agli uomini, di qualcosa fatto (rei alicujus certa cognitio)»28. Si possono porre in evidenza molte scelte, che rimangono implicite e quindi sono tanto più significative: innanzitutto, qui la revelatio vale subito come forma di conoscenza, ratificando la definizione proposizionale di Rivelazione e assumendo in anticipo le sue aporie; inoltre, questa conoscenza adotta il paradigma cartesiano della certezza, che implica la costituzione di oggetti e la loro verifica tramite idee chiare e distinte, detto altrimenti, con le parole di Spinoza: tramite idea adeguata. A ciò si aggiunge l’ambiguità che è

Schleiermacher di aver voluto «con richieste tanto più forti, fondare ogni superiore persuasione soltanto su di un cieco sentimento, su una fede o sulla rivelazione» (F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione V, p. 141), salvo che qui non si tratta più affatto di una Rivelazione. In questo caso ci avviciniamo alle conclusioni di Dulles su Schleiermacher, che denuncia un «concetto di esperienza eccessivamente ristretto [considerata come], immediata, individuale, istantanea e autocomprovante» (A. Dulles, Modelli della Rivelazione, cit., p. 182); di E. Brito, Le sentiment religieux selon Schleiermacher, in Nouvelle Revue de théologie, n. 114, 1992, pp. 186-211, così come di X. Tilliette, Raison et révélation chez Lessing et dans l’idéalisme allemand, in M.M. Olivetti (a cura di), Filosofia della Rivelazione, Cedam, Padova 1994, pp. 259-271. 28. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., I, 1, p. 653.

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già di Tommaso, relativa all’ambito della conoscenza tramite revelatio: essa conduce infatti a ciò che eccede i limiti dell’intelletto («multa extra intellectus limites – molte cose oltre i limiti dell’intelletto») e anche a ciò che non li eccede, ma che la revelatio replica a proprio modo29. Pertanto, anche se gli ambiti si possono sovrapporre, la differenza dei modi di conoscenza rimane chiara; la conoscenza pur certa dei profeti (quindi la revelatio) si appoggia all’immaginazione: «i profeti non percepirono le rivelazioni di Dio se non per mezzo dell’immaginazione (non nisi ope imaginationis)»30. Ora, la certezza tramite immaginazione fornisce solo una certezza morale, per nulla dimostrativa (o, per Spinoza, geometrica)31; ne segue che, anche se certi, gli enunciati proposizionali ottenuti tramite revelatio (per semplice immaginazione) non possono garantire una certezza teorica, né dimostrare ragionevolmente, quindi non possono far altro che richiedere un’obbedienza pratica, alla sola condizione di non contraddire ciò che la ragione definisce come buono32. Da ciò dipende una conseguenza inevitabile nell’interpretazione delle Scritture: i testi profetici non possono pretendere di essere relativi alla conoscenza razionale perché risultano da rivelazioni che dipendono solo dall’imma-

29.  Ivi, da una parte I, 28, p. 679 (e I, 2, p. 653), dall’altra I, 5, p. 655. 30.  Ivi, I, 27, p. 677; cfr. ivi, II, 1, p. 681; II, 6, p. 685 e XIII, 1, p. 959. 31.  Ivi, II, 1, p. 681; II, 3, p. 681; II, 6, p. 685. Rovesciandola, Spinoza rimanda a una distinzione introdotta da Descartes, per il quale, come per Kant, la matematica usa necessariamente l’immaginazione, al contrario della metafisica che procede dal solo intelletto; esse, pertanto, raggiungono solo una certezza sotto condizione (quella della dimostrazione metafisica dell’esistenza e della bontà di Dio). Spinoza conserva sicuramente la distinzione tra immaginazione e intelletto, ma malauguratamente attribuisce l’intelletto puro alla matematica, degradando l’immaginazione al rango di una conoscenza che non solo è inadeguata, ma anche pre-teorica. 32.  «Nihil morale […] quod cum ratione […] non conveniat – alcun insegnamento morale che non concordasse […] con la ragione» (ivi, XV, 5, p. 999).

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ginazione. Le profezie devono certamente essere interpretate, ma senza assumere per forza il senso loro attribuito dai profeti33, bisogna quindi interpretarle «sul piano razionale», senza tentare di conciliarle con il senso immaginativo che ha presieduto alla loro redazione34. I due livelli di certezza rimangono assolutamente eterogenei e, se per avventura si vuole comunque mantenere la validità teorica delle rivelazioni profetiche, allora bisogna limitarsi a ricostituirvi l’istituzione politica, la stessa concepita da Mosè per il popolo ebraico. Il motivo dello svilimento della rivelazione profetica dipende sicuramente dalla sua interpretazione radicalmente proposizionale, ma soprattutto dall’averla assegnata alla sola immaginazione. Per Spinoza questa, per principio, non consente di conoscere tramite le cause, già il Tractatus lo spiega esplicitamente: «stando così le cose, non ci resta che ricercare donde abbia potuto derivare ai profeti la certezza di quelle cose che percepivano soltanto con l’immaginazione, e non in base ai princìpi certi della mente (certitudo eorum, quae tantum per imaginationem, et non ex certis mentis principiis percipiebant). Anche a questo proposito tutto ciò che si può dire deve essere ricavato dalla Scrittura, dato che della cosa […] non abbiamo una vera scienza, ovvero non la possiamo spiegare mediante le sue cause prime (hujus rei […] veram scientiam non habemus sive eam per primas suas causas explicare non possumus)»35. Sarà compito dell’Etica fornirne l’esposi-

33.  Ivi, I, 6, p. 655. 34.  «Nec theologia rationi, nec ratio theologiae ancillari teneatur – né la teologia deve essere messa al servizio della ragione, né la ragione della teologia» (ivi, XV, 6, p. 993); «nec Scriptura rationi, nec ratio Scripturis accommodanda – né la Scrittura deve essere adattata alla ragione, né la ragione alla Scrittura» (ivi, p. 995). Cosa che si oppone ai saggi di conciliazione tentati da Maimonide (ivi, XV, 6, p. 993). 35.  Ivi, I, 31, p. 679.

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zione canonica: le idee dei corpi esterni che otteniamo tramite l’immaginazione talvolta ci rappresentano i corpi senza che questi siano presenti (seguendo la definizione aristotelica dell’immaginazione come ciò che rappresenta la cosa anche se assente), ma soprattutto senza mai darci accesso alle loro cause; di conseguenza la mia immaginazione di un altro (visibile nel suo corpo) mi istruisce più sullo stato del mio corpo che non su quello del corpo dell’altro, che rimane in me (nella mia immaginazione) come un effetto senza causa36, «come conseguenze senza premesse»37. La Rivelazione, e all’occorrenza la Rivelazione biblica, in tal modo sottomessa alla sola epistemologia dell’immaginazione, rimane possibile, ma degradata a un livello inferiore: può qualificare le pratiche politiche e morali, ma non consente alcuna esperienza di Dio. La via che in questo modo viene chiusa lascia alla metafisica ordine geometrico il compito, in fin dei conti estenuante e impossibile, di accedere alla conoscenza adeguata dell’essenza di Dio38, perché la 36.  Spinoza, Etica, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 1141-1623: II, § 17, scolio, p. 1257; cfr. ivi, II, § 28, dimostrazione, p. 1271, e già Id., De Intellectus Emendatione; tr. it., Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 103-183: §§ 82 e 92, pp. 157 e 163. Spinoza qui evidentemente dipende da Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001, III, 2, 425b25 e III, 3, 428a8, pp. 195 e 207 e da Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 50, a. 1, c.; q. 78, a. 4, c.; q. 85, a. 2, ad 3, come anche da R. Descartes, Meditazioni, cit., Quarte risposte, p. 1001. 37. Spinoza, Etica, cit., II, § 28, dimostrazione, p. 1217. Si veda «gli uomini s’ingannano nel credersi liberi, e tale opinione consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni e ignari delle cause da cui sono determinati – nempe falluntur homines, quod se liberos esse putant, quae opinio in hoc solo consistit, quod suarum actionum sint conscii, et ignari causarum, a quibus determinantur» (ivi, II, § 35, scolio, p. 1279). 38.  «La mente umana ha una conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio – mens humana adaequatam habet cognitionem aeternae et infinitae Dei essentiae» (ivi, § 47, p. 1299). Che lo spirito umano non raggiunga mai una conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio, soprattutto in via, ma anche tramite visione beatifica (scientia bea-

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ragione dell’intelletto ha il compito di cogliere con certezza ciò che lei stessa denuncia come un’illusione della conoscenza per immaginazione, quindi della Rivelazione. La pretesa di esservi riusciti non è sufficiente per realizzarlo realmente.

Secondo la volontà Per dare la misura della Rivelazione, Kant privilegia la volontà, secondo Descartes il terzo modo della cogitatio. Questa scelta risulta innanzitutto dalla critica della ragion pura: poiché nella conoscenza dei fenomeni (ridotti a oggetti) l’immaginazione non deve più essere separata dall’intelletto (né dall’intuizione), la sua destituzione, che in Spinoza è ancora parziale, per Kant interessa l’intera ragion pura, di conseguenza caratterizzata da un’essenziale finitezza. Ne consegue l’impossibilità di principio della Rivelazione, che trasgredirebbe questi limiti: «Dio non ci ha rivelato nulla e nulla può rivelarci perché noi non lo comprenderemmo (nicht verstehen würden)»39. Questa stessa decisione si prolunga esfiltrando la questione di Dio fuori dall’ambito della teoria verso quello della pratica o, più esattamente, dalla ragione nella misura in cui determina la pratica della nostra volontà, perché le stabilisce la legge morale in modo formale, categorico e imperativo. In contrasto con l’imperativo categorico, universale e incondizionato, nessuna Rivelazione, in particolare quella biblica o quella consegnata torum), sembra rifiutato di fatto, così come la pretesa per cui «sentiamo e sperimentiamo di essere eterni, sentimus experimurque, nos aeternos esse» (ivi, V, § 23, scolio, p. 1583). Qui la pratica si vendica della teoria: quale filosofo puro potrebbe rivendicare queste due realizzazioni? Cfr. F. Alquié, Le rationalisme de Spinoza, PUF, Paris 1981, pp. 321 ss. 39.  I. Kant, Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft; tr. it., La religione entro i limiti della sola ragione, Bompiani, Milano 2001, p. 337.

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in testi culturalmente e storicamente determinati, mantiene un’autorità in materia di morale. Kant si congiunge così al punto di partenza di Spinoza: «l’aspetto storico (das Historische), invece, non offrendo nessun contributo in questa direzione [sc. la moralità], è in sé perfettamente indifferente e può essere utilizzato come si vuole. (La fede storica [Geschichtsglaube] è “morta in se stessa”)»40. Questo principio di radicale non storicità porta a squalificare qualunque pretesa da parte della fede religiosa storicamente condizionata di stabilire norme che siano non solo teoriche, ma anche morali. Quindi, se la religione «deve sempre necessariamente fondarsi sulla semplice ragione»41, non le resta che conformarsi – a qualunque prezzo e con tutti i mezzi – alla legge morale, la sola che possa legittimamente imporsi alla volontà; il testo biblico, pertanto, al fine di riconquistare una qualche legittimità morale, dovrà lasciarsi reinterpretare radicalmente, anche in questo caso secondo la regola spinoziana: «l’aspetto teoretico della fede ecclesiale (Kirchenglauben), infatti, non può avere per noi nessun interesse morale se non influisce sull’adempimento di tutti i doveri umani intesi come comandi divini (e in ciò consiste il tratto essenziale di ogni religione). Ora, questa interpretazione, rispetto al testo (della rivelazione), può spesso apparire forzata, e spesso anche lo è realmente. Nel caso in cui il testo ne ammetta però anche soltanto la possibilità, è allora necessario preferire questa interpretazione a un’interpretazione letterale, la quale o non contiene assolutamente nessun elemento utile per la moralità, oppure va addirittura contro i moventi morali»42. Detto altrimenti: «tutte le interpretazioni

40.  Ivi, p. 265. 41.  Ivi, p. 267. 42.  L’argomento di Kant è così stupefacente da meritare di essere citato nell’originale: «denn das Theoretische des Kirchenglaubens kann uns moralisch nicht interessieren, wenn es nicht zur Erfüllung aller Menschenpflichten

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della Bibbia, sempre che riguardino la religione [sc. per opposizione alla fede della Chiesa], devono essere orientate in questo senso, secondo il principio della moralità (Sittlichkeit), che è il fine della rivelazione; altrimenti sono o interpretazioni prive di significato pratico (praktisch), o addirittura ostacoli al bene»43. Per il teologo di Chiesa il prezzo da pagare a cauals göttlicher Gebote (was das Wesentliche aller Religion ausmacht) hinwirkt. Diese Auslegung mag uns selbst in Ansehung des Texts (der Offenbarung) oft gezwungen scheinen, oft es auch wirklich sein, und doch muß sie, wenn es nur möglich ist, daß dieser sie annimmt, einer solchen buchstäblichen [sc. Auslegung] vorgezogen werden, die entweder schlechterdings nichts für die Moralität enthält, oder dieser ihren Triebferdern wohl gar entgegen wirkt» (ivi, p. 261). Kant fornisce un esempio di una tale correzione, interpretando il Salmo 59 (che invita alla vendetta divina contro i malvagi) in un senso esclusivamente morale (i nemici da distruggere sarebbero le nostre cattive inclinazioni, ecc.), cioè seguendo il tradizionale senso spirituale (qui anagogico) delle Scritture (cfr. ibidem, nota). Segnaliamo tuttavia (con M. Levering, op. cit., pp. 222 ss.) che Kant si inscrive ancora, in un certo modo, nella tradizione esegetica che in ogni caso favorisce il senso spirituale; così Origene che rettifica Gs 8,24‑26: «colui che è giudeo all’esterno (in manifesto Iudaeus, Rm 2,28) e che ha la circoncisione visibile nella carne, ignorando che cosa voglia dire essere giudeo interiormente (in occulto Iudaeus, Rm 2,29), costui a nient’altro pensa che a descrizioni di guerre, a uccisioni di nemici, a vittorie degli Israeliti sotto la guida di Gesù, alla distruzione di regni di pagani da parte loro. Chi invece giudeo lo è interiormente, cioè il cristiano che segue Gesù, non tanto quel figlio di Nave, ma Gesù Figlio di Dio, intende che tutti questi fatti sono misteri del regno dei cieli e dice: ancora oggi Gesù Cristo, il mio Signore, combatte contro le forze avverse e le scaccia da quelle città che esse occupavano» (Origene, Omelie su Giosuè, Città Nuova, Roma 1993, XIII, 1, p. 191). Il rifiuto protestante dei quattro sensi della Scrittura (Littera gesta docet, quid credas allegoria / Moralis quid agas, quo tendas anagogia, secondo la formulazione di Nicola di Lira) mostra qui le sue conseguenze (cfr. H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, vol. I, Aubier-Montaigne, Paris 1959; tr. it., Esegesi medievale, vol. I/1, Opera omnia, vol. XVII, Jaca Book, Milano 1989, in part. cap. III, §§ 4‑5, pp. 209-232). Con la differenza essenziale che il senso spirituale apre il testo biblico alla Rivelazione, mentre secondo Kant il senso morale lo chiude. 43.  I. Kant, Il conflitto delle facoltà, cit., p. 112. Nel migliore dei casi il testo biblico diventa un pretesto per rinforzare il testo della legge morale,

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sa della resistenza a questa esigenza è oltremodo elevato, cioè l’assoluta esclusione della Rivelazione scritturale e storica dal campo della razionalità, un prezzo così elevato che ragionevolmente non lo vorrà pagare: «quando il teologo biblico cesserà di valersi della ragione per il suo scopo, anche il teologo razionale cesserà d’usare la Bibbia per confermare le proprie proposizioni»44. Dal momento che suppone l’imposizione di uno dei due concorrenti sull’altro, la soluzione del conflitto è posta sotto la minaccia di un divorzio conflittuale. Si compie un ulteriore passo verso la chiusura della Rivelazione: «noi comprendiamo soltanto colui che ci parla per mezzo del nostro intelletto e della nostra propria ragione (durch nichts als duch die Begriffe unserer Vernunft); la divinità d’una dottrina che è stata annunziata per noi può dunque essere riconosciuta soltanto mediante concetti della nostra ragione, purché siano moralmente puri e per ciò infallibili»45. Questa conclusione implica immediatamente che si considerino due obiezioni: innanzitutto, si può intendere in due modi molto differenti il fatto che la Rivelazione si possa manifestare solo tramite l’intermediazione dei nostri concetti e della nostra ragione: o si tratta di un’evidenza (di quali altri modi se non della ragione e dei concetti umani sia Dio sia noi potremmo disporre?); oppure si tratta di una petizione di principio: poiché i nostri concetti possono non essere solo nostri, a priori, secondo le condizioni d’esperienza degli oggetti del mondo (e Kant lo

il solo veramente pratico, cioè è conveniente «usare il testo solo (o almeno principalmente) come occasione per tutto ciò che (Veranlassung), a cavarne il senso, migliora i costumi» (ivi, p. 141). Si veda anche «mi chiedo: Bisogna interpretare la morale in base alla Bibbia o piuttosto la Bibbia in base alla morale?» (I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 261, nota). 44. Kant, Il conflitto delle facoltà, cit., p. 108. 45.  Ivi, p. 112, sottolineature nostre.

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sa), come può la nostra ragione pensare secondo l’infinito e l’incondizionato (e Kant sa anche questo)? La vera questione è quindi altrove: i nostri concetti e la nostra ragione devono regolarsi solo sull’esperienza degli oggetti (ragion pura teorica) o solo sulla moralità universale e formale (ragion pratica)? Non sarebbe possibile anche un’altra forma della ragione – e quindi dei concetti (o, se si vuole, delle idee), dal momento che essa sarebbe proprio richiesta – tramite la Rivelazione possibile e pensabile? In caso contrario bisogna sicuramente ammettere che per la ragione teorica la Rivelazione non è possibile e non è indispensabile per la ragion pratica. Ma perché – altrimenti?

Secondo il concetto Fichte compie l’ultimo passo, misurando la Rivelazione a partire dall’intellectus, cioè secondo il modo cartesiano della cogitatio: il suo Saggio di una critica di ogni Rivelazione (1792), in anticipo sullo stesso Kant, trae con molto rigore le conclusioni teologiche che derivano dalla Critica della ragion pratica (1788). Il motivo principale per squalificare ogni Rivelazione (e innanzitutto quella biblica) rimane, come nel caso di Kant, la sua contingenza storica, quindi la sua origine sensibile, che impedisce di cogliere qualunque altro concetto di Dio oltre al «concetto di un effetto prodotto da Dio nel mondo sensibile mediante una causalità soprannaturale»46. Bisogna pertanto rifiutarla, passando risolutamente al solo concetto rigorosamente intelligibile e razionale di Dio, quello di un «Dio morale», coronando così la finitezza umana tramite «il riconoscimento 46.  J.G. Fichte, Versuch einer Kritik aller Offenbarung; tr. it., Saggio di una critica di ogni rivelazione, Laterza, Roma-Bari 1998, § 4, p. 33. Si veda la «contraddizione» patente di «voler utilizzare stimoli sensibili come princìpi di determinazione della moralità pura» (ivi, § 5, p. 40).

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di Dio come legislatore morale»47. Da lì il passo decisivo: la legge morale, che per Kant rimaneva nel campo della ragion pratica, non solo permette all’uomo l’azione morale, ma gli dà un accesso teorico al «concetto di Dio come legislatore morale (Begriff Gottes als moralischer Gott)»48. La critica di ogni Rivelazione non si gioca più solo sul terreno pratico, perché ormai la ragion pratica consente la definizione del concetto o dell’idea di Dio: «l’idea di Dio come legislatore per mezzo della legge morale in noi si fonda perciò su di una alienazione di noi stessi (Entäußerung des unsrigen), sul trasferimento di qualcosa di soggettivo (Übertragung eines Subjektiven) in un’essenza (Wesen) fuori di noi, e siffatta alienazione (Entäußerung) è il vero principio della religione, nella misura in cui questa debba essere utilizzata per la determinazione della volontà»49. Il Dio della legge morale non vale solo per noi, ma, teoricamente, definisce Dio per se stesso; inoltre, egli proibisce tanto più il ricorso alla minima Rivelazione, ormai non più soltanto inutile, se non nefasta, ma semplicemente falsa. Questa forma di trasformazione e amplificazione della critica, tuttavia, solleva una difficoltà significativa: proprio in seno alla smentita di un antropomorfismo di primo grado (pensare Dio per rappresentazione sensibile), non si potrebbe disvelare un antropomorfismo di secondo grado (pensare Dio per rappresentazione concettuale)? Per aver creduto di disfarsi del primo, esso mette in atto una referenza al concetto non analizzata e molto più imperiosa – sotto il solo pretesto della sua moralità per noi. Certo, si capisce bene che «la sensibiliz47.  Ivi, § 2, p. 21. 48.  Ivi, § 8, p. 71. Si veda: «già il concetto di Dio (der Bregriff Gottes) ci viene fornito dalla nostra sola ragione e viene realizzato solo da essa in quanto essa comanda a priori, né è pensabile alcun altro modo in cui potremmo pervenire a questo concetto (Begriff)» (ivi, § 2, p. 20). 49.  Ivi, § 2, p. 23 (tr. mod.).

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zazione del concetto di Dio può contraddire in due modi le proprietà morali di Dio, e con ciò ogni moralità». Ma ciò, secondo Fichte, si può intendere in due modi: sia attribuendo a Dio passioni troppo umane (collera, vendetta, odio, ecc.), che rovinerebbero il suo ruolo di legislatore morale – si tratta dell’antropomorfismo di primo livello; sia attribuendogli recettività all’affettività e sensibilità alla preghiera, agli omaggi, ai sacrifici, ecc., accordando agli uomini mezzi per onorarlo diversi dalla moralità e conferendo una validità oggettiva a ciò che dovrebbe restare una semplice approssimazione soggettiva; in breve: «se davvero possiamo determinare Dio mediante le nostre sensazioni, muoverlo alla compassione, alla misericordia, alla gioia, allora egli non è l’immutabile, il solo-sufficiente, il solo-beato (der Unverändliche, der Alleingenugsame, der Allein-selige)»50. Come non riconoscere qui un antropomorfismo di secondo grado, tanto esplicito quanto il primo? Per Fichte sembra andare da sé che l’immutabilità, l’autosufficienza (cioè la causa sui) e la beatitudine autoreferenziale (cioè le definizioni più classiche di Dio secondo la metafisica) siano sufficienti senz’altra precauzione né revisione per caratterizzare il Dio, anche quello «legislatore morale», in questo modo egli crede di scagionarlo oltre ogni contestazione. La definizione morale di Dio tramite il suo concetto, che suppone una definizione positiva e non analizzata, non rinforza proprio un’idolatria concettuale? Non c’è da stupirsi se nel corso della “querelle sull’ateismo” Fichte abbia dovuto rispondere ai suoi avversari accusandoli di idolatria, nella misura in cui lui stesso poteva sembrare il primo a cedervi, avendo semplicemente sostituito un’idolatria concettuale alla loro idolatria sensibile. Poiché Fichte poteva accusare i suoi teologi – «essi sono i veri atei, essi sono totalmente senza Dio, e si sono fabbricato un idolo empio (heillosen Götzen)» – solo accogliendo e dando a 50.  Ivi, § 10, pp. 88 e 89.

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propria volta il suo assenso a una definizione di Dio chiusa e finita, quindi a propria volta idolatrica: «quello che essi chiamano Dio è per me un idolo. Per me Dio è un Essere (Wesen) totalmente liberato da ogni sensibilità e da ogni aggiunta sensibile. […] Per me Dio è semplicemente e unicamente (bloß und lediglich) il sovrano del mondo sovrasensibile»51. Questo è il punto in cui l’innovazione di Friedrich Nietzsche diventa non solo possibile, ma inevitabile: anche il «Dio morale» può non essere altro che un idolo, certo l’ultimo e supremo, tanto più urgente da distruggere. «Allora si capisce che qui si aspira a un’antitesi del panteismo: perché il “tutto perfetto, divino, eterno” costringe del pari a credere all’“eterno ritorno”. Domanda: assieme alla morale viene resa impossibile anche questa posizione affermativa panteistica rispetto a tutte le cose? In fondo solo il Dio morale è infatti superato (im Grunde ist ja nur der moralische Gott überwunden)»52. Giungendo a identificare Dio con il concetto di «Dio morale» ed evitando di limitarlo alla ragion pratica, Fichte mette in evidenza un idolo che questa volta è concettuale. Nietzsche ne trae una conclusione inevitabile: il crepuscolo degli idoli metafisici di Dio (all’occorrenza della conoscenza di Dio a partire dall’ego e dei modi della sua sola cogitatio) non chiude la questione di Dio, piut51.  J.C. Fichte, Appellation an das Publikum (1799); tr. it., Appello al pubblico, in Id., La dottrina della religione, Guida, Napoli 1989, p. 110, sottolineature nostre; si veda «questa è la fede vera; quest’ordine morale è il Divino che noi ammettiamo (das Göttliche, das wir annehmen). […] L’ordine morale vivente e operante è esso stesso Dio; non abbiamo bisogno di nessun altro Dio e non possiamo concepirne nessun altro» (Id., Über den Grund unseres Glaubens an eine moralischen Weltregierung [1798]; tr. it., Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, in Id., La dottrina della religione, cit., p. 81). 52.  F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente; tr. it., Frammenti postumi 18851887, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VIII, tomo I, Adelphi, Milano 1975, 5 [71], § 7, p. 202; cfr. il nostro commento in J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., § 4, pp. 39-46.

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tosto la apre a un’altra interrogazione – Dio può essere accessibile in modo altro che non sia il provenire da altrove? Detto altrimenti: per rivelazione, o addirittura per Rivelazione.

Manifestazione o rivelazione Abbiamo raggiunto almeno un risultato: lo scoprimento, lo svelamento e il portare alla luce che la Rivelazione realmente teo-logica pretende di operare non possono ancora essere inscritti – neppure a titolo di coronamento supremo e di variazione ultima – all’interno dello stesso dispositivo di quello che li intende come una conoscenza proposizionale, quindi priva dell’universalità e dell’a priori che caratterizzano la “ragione” intesa dalla metafisica. Se non lo ammettesse, il concetto di “Rivelazione” si riassumerebbe in un artefatto, inventato anche da zero con il solo scopo che la “ragione” lo squalifichi a suo piacimento53. Per non distruggere la possibilità di un concetto teologico di Rivelazione, è quindi necessario liberarlo nulla di meno che dalla sua costituzione filosofica, dalla metafisica storicamente costruita e distrutta, con lo stesso gesto. Ciò vuol forse dire che bisogna togliere un’ambiguità nascosta in un concetto che è quasi lo stesso: la conoscenza rivelata (geoffenbarte) non equivale sempre a una conoscenza manifesta (offenbare). Ora, Hegel continua a far uso di questa ambiguità e anche ad appoggiarsi a essa per la ripresa logica 53.  «Le dichiarazioni di Kant e del giovane Fichte a riguardo del concetto di Rivelazione si producono ancora interamente nell’opposizione tra ragione e rivelazione, come l’ha costruita la filosofia dei Lumi. La ragione è il fondo sul quale e a partire dal quale il contenuto e la validità possibili della Rivelazione si trovano determinati» (G. Scholtz, Offenbarung. Von Kant zur Gegenwart, in J. Ritter [hrsg.], Historisches Wörterbuch der Philosophie, Schwabe Verlag, Basel 1984, vol. VI, coll. 1121-1130: col. 1121).

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(dialettica) dell’evento biblico. Così accade, in modo esemplare, con la solenne apertura dell’esposizione della «religione compiuta»: «la religione cristiana è in questa guisa la religione α) della RIVELAZIONE (der Offenbarung); in essa è manifesto (offenbar) ciò che Dio è, che egli viene saputo come egli è, non storicamente o in qualche altra guisa, come nelle altre religioni, ma la rivelazione, la manifestazione (die Offenbarung, die Manifestation) è la sua determinazione e il suo stesso contenuto. Infatti rivelazione, manifestazione (die Offenbarung, Manifestation) è essere per la coscienza, e per la coscienza è che egli stesso è spirito PER lo spirito – vale a dire dunque che è coscienza e per la coscienza»54. Qui l’ambivalenza tra Offenbarung (che potrebbe restare teo-logica) e Manifestation (risolutamente teo-logica, metafisica) è professata con chiarezza dallo stesso Hegel. Questa ambivalenza non si poteva evitare, perché proviene dalla più originaria ambiguità della comprensione hegeliana di Offenbaren, rivelare, che può (e deve) dividersi tra il puro e semplice manifesto (offenbar) e il propriamente rivelato (geoffenbart), ambiguità che emerge spesso dallo stesso testo hegeliano: «questa religione è la religione manifesta (offenbare). Dio si rivela (offenbart sich); “rivelare (Offenbaren)” è, come abbiamo visto, questa partizione originaria della soggettività infinita o della forma infinita: “rivelare (Offenbaren)” significa determinarsi, essere per un altro; questo rivelare, questo manifestarsi (dieses Offenbaren, sich Manifestieren) inerisce all’essenza dello spirito stesso. Uno spirito che non è manifesto (offenbar) non è spirito»55. Ciò che ci è 54.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, Bd. III, Die vollendete Religion; a partire dalla accurata traduzione di R. Garaventa e S. Achella, Lezioni di filosofia della religione, vol. III, La religione compiuta, Guida, Napoli 2011, p. 29. 55.  Ivi, p. 123; qui seguiamo ancora i traduttori, che segnalano opportunamente l’ambiguità tra Offenbaren e Manifestieren, ma anche tra offenbar e sich offenbaren (ivi, p. 123). Si veda inoltre «questa religione assoluta è la

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manifesto, anche nella coscienza assoluta, equivale a ciò che si rivela come proveniente da sé, quindi, per noi, da altrove? Dio si dà per farsi conoscere, ma va da sé che noi, per concetto, lo conosciamo come tale? Dio si dà a conoscere (perché, se si rivela veramente, certo si dà a conoscere) come ciò che può diventare manifesto al concetto? Alla fine, tutto dipende dalla forza del concetto – dal concetto di concetto. Il concetto, risultato ultimo della cogitatio, ormai staccata dalla finitezza dell’ego, può abolire lo scarto tra il manifesto (da sé a sé dello spirito riconciliato con sé) e il rivelato (dato da altrove)? «In questa religione, di conseguenza, l’essenza (Wesen) divina è rivelata (geoffenbart). Il suo esseremanifesta (Offenbarsein) consiste manifestamente (offenbar) nel fatto che viene saputo ciò che essa è. E ciò viene saputo proprio perché l’essenza (Wesen) viene saputa come Spirito, come essenza che è essenzialmente autocoscienza. […] Essere il Manifesto (das Offenbare zu sein) secondo il proprio concetto: è questa dunque la vera figura dello Spirito»56. Qui la

religione manifesta (die offenbare), la religione che ha se stessa a proprio contenuto e riempimento, ma essa è anche la religione che è detta rivelata (die die geoffenbarte gennant wird), e con ciò s’intende, da un lato, che essa è rivelata da Dio (von Gott geoffenbart), che Dio stesso si è dato a conoscere all’uomo (Gott sich selbst dem Menschen gegeben hat) per ciò che egli è, e, dall’altro, che essa, per il fatto di essere rivelata (geoffenbart), è una religione positiva nel senso di essere venuta all’uomo dal di fuori (von außen gekommen), di essergli stata data (gegeben worden)» (ivi, p. 191). L’irriducibilità tra Offenbaren/offenbar e geoffenbart risalta tanto più nella misura in cui giunge a opporre (come in Kant e Fichte?) la conoscenza (concettuale) di Dio tramite e come spirito e il dono fatto da Dio di sé in una religione positiva. 56.  «In dieser Religion ist deswegen das göttliche Wesen geoffenbart. Sein Offenbarsein besteht offenbar darin, daß gewußt wird, was es ist. Es ist gewußt, eben in dem es als Geist gewußt wird, als Wesen, das wesentlich selbst Selbstbewußtsein ist. […] Dies seinem Begriffe nach das Offenbare zu sein – ist also die wahre Gestalt des Geistes» (G.W.F. Hegel, Phänome-

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riduzione della Rivelazione (geoffenbart, quindi Offenbarung) al manifesto (offenbar, Offenbarsein) si fa evidente, perché conduce a riprenderli ugualmente nel concetto, inteso come il compimento dello spirito. Tuttavia, forse Fichte diceva altro e ben di più, quando, probabilmente senza misurare l’intera portata della sua messa in guardia, proclamava: «dica loro direttamente soltanto questo: questa teologia [sc. la dottrina dell’essenza di Dio in e per se stessa] deve venire completamente annientata come una chimera che supera ogni forza di comprensione finita»57. Perché, infatti, questa teologia non appartiene tanto alla Rivelazione quanto alla metafisica.

nologie des Geistes; tr. it., Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2006, pp. 993 e 995); questa equivalenza, mai spiegata, scandisce le analisi di Hegel. 57.  J.C. Fichte, Aus einem PrivatSchreiben (1800); tr. it., Da una lettera privata, in Id., La dottrina della religione, cit., p. 231. Una visione più generale della teologia di Fichte e della sua evoluzione in B. Pecina, Fichtes Gott. Vom Sinn der Freiheit zur Liebe des Seins, J.B.C. Mohr Siebeck, Tübingen 2007.

III RESTITUZIONE DI UN CONCETTO TEOLOGICO

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7 Possibilità e aporie di un concetto teologico di Rivelazione

La ricerca di un eventuale concetto di Rivelazione è sfociata in una conclusione sorprendente e aporetica. La sorpresa riguarda il ritardo nell’utilizzarlo, riassumibile con il sobrio rilievo di Paul Tillich: «come idea, la Rivelazione è tanto antica quanto la religione […]. La Rivelazione come concetto è molto più recente»1. Quanto all’aporia, sin dall’origine è data dalla provenienza più filosofica (teo-logica, metafisica) che teo-logica di quel supposto concetto. I due aspetti della conclusione si rinforzano mutualmente: il concetto di Rivelazione è apparso solo tardivamente perché le prime forme di pensiero teologico (patristico e monastico) ne sono state a lungo dispensate, fino a che non si imposero alla sacra doctrina le norme della filosofia, poi dei princìpi del sistema della metaphysica. Rimane il fatto che da più di due secoli il termine “Rivelazione” è stato consacrato dall’uso moderno fatto dalla teologia universitaria; pertanto, non si potrà evitare un’indagine, almeno

1.  «Offenbarung als Idee ist so alt wie Religion […]. Offenbarung als Begriff ist so viel jünger» (P. Tillich, Die Idee der Offenbarung, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», n. 8, 1927, pp. 403-412: p. 403), si tratta della conferenza inaugurale di Tillich all’Università di Leipzig.

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abbozzata, che dovrà misurare forza e legittimità di questo uso. In una parola: ci si deve chiedere che valore abbiano il concetto o i concetti di “Rivelazione” che sono oggi in vigore e in quale misura corrispondano alle esigenze formali del pensiero teo-logico.

Un concetto inappropriato Si può innanzitutto constatare che i pensatori dei primi (dodici?) secoli di ciò che per convenzione viene denominato teologia cristiana (ancor oggi, per noi, il periodo più decisivo), non hanno avuto bisogno di mettere a tema un concetto univoco di Rivelazione; la spiegazione fin troppo comune, secondo la quale la nozione era tanto evidente da non aver bisogno di essere precisata, lungi dal rispondere alla questione, in realtà rende manifesta la difficoltà2. Rimane quindi da capire per

2.  «Talvolta, ma assai raramente e in un’epoca tardiva, questi termini [revelare, revelatio] sono usati a proposito dei Padri» (Y. Congar, La Tradizione e le tradizioni. Saggio storico, cit., p. 221); «tematizzare la rivelazione nel Nuovo Testamento comporta una difficoltà di principio e suppone già in partenza un’opzione di metodo. Nonostante nella prospettiva cristiana e nel linguaggio corrente, del resto sia nel cattolicesimo che nel protestantesimo, la Rivelazione esprima in una sola parola la comunicazione definitiva che Dio ha fatto all’umanità nella persona di Gesù e ricopra interamente l’intera materia del Nuovo Testamento e anche dell’Antico, non esistono, nel vocabolario del Nuovo Testamento, parole corrispondenti a questa realtà» (J. Guillet, Révélation. Nouveau Testament, in L. Pirot - A. Robert [éds.], Supplément au Dictionnaire de la Bible, vol. X, Letouzey et Ané, Paris 1985, coll. 600-618: col. 600); «il concetto di “Rivelazione”, nonostante appartenga ai concetti centrali della teologia, tuttavia non è articolato pienamente nel periodo del cristianesimo primitivo. Ciò che corrisponde ai diversi procedimenti e modi dell’annuncio di Dio agli uomini, sono diversi termini greci e latini che non si distinguono univocamente gli uni dagli altri» (W. Wieland, Offenbarung, in J. Ritter [hrsg.], Historisches Wörterbuch der Philosophie, Bd. VI, Schwabe

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quale ragione Tommaso d’Aquino si veda costretto o autorizzato a elaborare la sua dottrina delle due forme della conoscenza di Dio. Lo sviluppo posteriore di questa dottrina, condusse inoltre a privilegiare l’interpretazione proposizionale, cioè epistemologica, di una tale Rivelazione, fino alle ambiguità e alle contraddizioni già viste. Ciò arrivò al punto che la pretesa di ergere la sacra doctrina a scienza e poi a scienza dominante che (per subalternità) sottomette le scienze umane ha avuto

Verlag, Basel 1984, coll. 1104-1110: col. 1105); «contrariamente a ciò che si ritiene di solito, bisogna affermare con fermezza che, dal punto di vista della storia dei concetti, quello di Rivelazione inizialmente non ha avuto grande importanza nella Riforma. Una situazione analoga accade per la teologia cattolica dei secoli xvi-xvii» (U. Dierse - W. Lohff, Offenbarung. Neuzeit biz zum 18. Jh., ivi, coll. 1114-1121: col. 1114) o ancora «la terminologia non è unificata; nel NT manca una riflessione esplicita sulla rivelazione», così come nell’«AT [che] non conosce alcun equivalente concettuale della nozione astratta di rivelazione» (T. Söding, Offenbarung. Biblisch-theologisch. 2. Neues Testament e Ch. Dohmen, Offenbarung. Biblisch-theologisch. 1. Altes Testament, in W. Kasper et alii [hrsg.], Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg, Herder 1998, vol. VII, coll. 986-987: risp. coll. 986 e 985); ma soprattutto «allorché, circa trent’anni fa, tentai di fare uno studio della Rivelazione nella teologia del XIII secolo, mi imbattei in una constatazione inattesa: infatti, nessuno aveva avuto l’idea, a quell’epoca, di chiamare la Bibbia “la Rivelazione”; allo stesso modo non le venne mai applicato il termine di “fonte”. E non perché a quel tempo si tenesse la Bibbia in minor considerazione di oggi. Al contrario, se ne aveva un rispetto meno condizionato, ed era chiaro che la teologia non poteva e non doveva essere altro che interpretazione della Scrittura. Era l’idea che si aveva dell’armonia tra Scrittura e vita che differiva. Perché non si applicava il termine “Rivelazione” che al solo atto, impronunciabile con parole umane, attraverso il quale Dio si fa conoscere alla sua creatura, e all’accoglienza attraverso la quale l’accondiscendenza divina diventa percettibile all’uomo sotto forma di Rivelazione. Tutto ciò che deve essere fissato in parole, dunque la Scrittura stessa, testimonia la Rivelazione, senza essere la Rivelazione nel senso più stretto della parola» (J. Ratzinger, Transmission de la foi et source de la foi, in D. Ryan et alii, Transmettre la foi aujourd’hui, Le Centurion, Paris 1983; tr. it., Trasmissione della fede e fonti della fede, Piemme, Casale Monferrato 1985, pp. 21-22). Cfr. supra, cap. 3, note 6‑9.

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bisogno che vi fosse applicato il concetto moderno, univoco, di scienza – una conoscenza certa ed evidente, concetto che per definizione non può riguardare altro che oggetti; in tal modo sono state contraddette le condizioni della conoscenza di Dio, il quale, anch’egli per definizione, non può venir costituito come un oggetto, fosse anche infinito (oggetto infinito, che ossimoro!). In terzo luogo, il concetto di scienza che la metafisica (moderna) doveva sviluppare non poteva non sembrare inapplicabile alla teologia della sacra doctrina, quindi finì semplicemente per squalificarla del tutto come scienza. L’Aufklärung ha pertanto legittimamente squalificato la pretesa della teologia di costituirsi come “scienza”, conferendole uno statuto non epistemologico, anche se illegittimamente la denominò nuovamente come “Rivelazione”. Infatti, questo concetto strettamente metafisico aveva semplicemente un’intenzione polemica, quella di squalificare la teologia cristiana imponendole un titolo decisamente discriminatorio. Detto altrimenti: con il vocabolo “Rivelazione”, l’Aufklärung stigmatizzava la sacra doctrina come un non sapere, ma secondo un punto di vista radicalmente non teologico (supra, cap. 6). In quarto luogo, ci si può solo stupire, se non addirittura scandalizzare, del fatto che, malgrado la ben ispirata prudenza del magistero romano, numerosi teologi e professori di teologia si siano precipitati ad accogliere e ad appropriarsi di un tale concetto di “Rivelazione/Offenbarung”. Come se il recupero in fine, che letteralmente rovescia questo concetto critico, polemico e discriminatorio operato dall’idealismo tedesco, offrisse (malgrado le patenti ambiguità di Hegel, le confuse correzioni di Schelling e la resistenza eroica di Søren Kierkegaard) un fondamento stabile al pensiero cristiano della sacra doctrina e gli assicurasse un’origine teologica sicura. Si comprende con facilità che l’uso improprio di questo concetto di Rivelazione, unito alla sua assenza dalle origini, nella teologia contemporanea sia ormai diventato problematico. La

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circolazione diffusa della sua «monetina»3, lungi dal qualificarla, ha potuto mostrarsi come la prova di una «inflazione»4, addirittura di uno sviluppo canceroso5. L’indeterminatezza non spiega né prova la tentazione di rigettare questo concetto fragile, se non la rinuncia alla cosa stessa6. Il ritardo storico di un concetto tuttavia non ne sopprime l’importanza, posto che tale possibilità resta innegabile. Abbiamo già delineato questa possibilità (supra, capp. 1-2), così come abbiamo constatato 3.  «La parola “rivelazione” è diventata una moneta di uso corrente» (W. Pannenberg, Einführung, in W. Pannenberg et alii, Offenbarung als Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Tübingen 1961; tr. it., Introduzione, in Rivelazione come storia, EDB, Bologna 1965, p. 39). 4.  P. Althaus, Die Inflation des Begriffs der Offenbarung in der gegenwärtigen Theologie, in «Zeitschrift für systematische Theologie», n. 18, 1941, pp. 134-149; cfr. Dulles, che denuncia coloro che «hanno inopportunamente intellettualizzato la nozione di rivelazione» (A. Dulles, Revelation Theology, cit., p. 51) e «ci si può chiedere se non sarebbe opportuno ridurre l’uso del termine “rivelazione” o “religione rivelata” e di sostituirli con quello di “Vangelo” o di “messaggio cristiano”» (H. Bouillard, op. cit., p. 38). 5.  F.G. Downing, Has Christianity a Revelation?, Westminster Press, Philadelphia 1964. Discussione proseguita dalla corrente della «teologia narrativa» da G.W. Stroup, The Promise of Narrative Theology. Rediscovering the Gospel in the Church, Wipf and Stock Publishers, Eugene 1981 (in part. cap. II, Revelation under Siege, pp. 39-79) e B. Mitchell - M. Wiles, Does Christianity need a Revelation? A Discussion, in «Theology», n. 83, 1990, pp. 103-114. 6.  Cfr. F. Nault, Révélation sans théologie. Théologie sans révélation, in Ph. Bordeyne - L. Vuillemin (éds.), Vatican II et la théologie. Perspectives pour le xxie siècle, Cerf, Paris 2006, pp. 127-149. Nonostante riduca i nostri sforzi alla produzione di una «rivelazione senza teologia, una rivelazione senza ermeneutica» (ivi, p. 142) e nonostante stiamo qui tentando di dargli torto, questo autore merita più attenzione della dichiarazione convenzionale di M. Gauchet, Religion civile, foi commune et morale civique, in Id., Un monde désenchanté?, Les Éditions de l’Atelier-Éditions Ouvrières, Paris 2004; tr. it., Religione civile, fede comune e morale civica, in Id., Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale, Edizioni Dedalo, Bari 2008, pp. 145-156: p. 145: «tradizione e rivelazione sono categorie che oggi non trovano più spazio nella sfera civile»; in questo caso la sintassi è libera tanto quanto il pensiero.

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a contrario il suo ruolo, ritracciando le aporie provocate dalla sua non comprensione (supra, capp. 4‑6). Di fatto, ridefinire un concetto veramente teo-logico di Rivelazione è stata la sfida e la grande querelle della riflessione cristiana del XX secolo. Questo progetto poteva svilupparsi solo affrontando – o almeno aprendo – due questioni mancate o mascherate dall’interpretazione epistemologica della Rivelazione. Innanzitutto, se nel caso di Dio, rivelarsi non significa solo né primariamente far(si) conoscere tramite proposizioni (ed enunciati predicativi), ma significa manifestarsi, allora bisogna domandare come si realizzi tale manifestazione e secondo quale fenomenicità. Poi, se questa fenomenicità deve poter manifestare Dio – e Dio in quanto tale – con quale segno, con quale criterio e secondo quale identità uno spirito finito potrebbe riconoscerlo come tale? Queste due questioni possono riassumersi in una sola: per accedere alla Rivelazione come manifestazione di Dio, è necessario anche che vi si manifesti ciò che l’attesta come vero Dio, che vi si manifesti «la conoscenza dell’agapê […] che supera ogni conoscenza» (Ef 3,19). A partire da questa questione si possono definire, almeno schematicamente, le esigenze di una possibile risposta.

La Parola come rivelazione Evidentemente Barth è un punto di partenza imprescindibile (cosa che la costituzione Dei Verbum del concilio Vaticano II non ha dimenticato, supra, cap. 4), quando pone come principio ciò che, a suo avviso, vale come una quasi-tautologia: «Dio si rivela. Si rivela da sé. Rivela se stesso»7. La Rivelazio7.  K. Barth, Die Lehre vom Wort Gottes, Bd. I/1, Prolegomena zur Kirchlichen Dogmatik, Evangelischer Verlag, Zollikon-Zürich 1947, p. 312.

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ne proviene solo da se stessa. Dio è il contenuto e quindi anche l’unico mezzo, la sola mediazione e il processo esclusivo. Se Dio non si manifestasse tramite una modalità propria, allora, propriamente, non si manifesterebbe – come tale. Questa coincidenza manca all’interpretazione epistemologica della Rivelazione, dove colui che presumibilmente si rivela deve manifestarsi a partire da proposizioni formalmente omogenee a quelle delle scienze umane; è ormai per così dire tradotto e tradito nelle nostre parole e nelle nostre predicazioni di qualcosa su qualcos’altro – mentre di Dio non si può predicare nulla. Non si può innanzitutto perché se ne può predicare tutto, ma soprattutto perché Dio non è un qualche sostrato di cui si possa predicare quel che sia. Allora, come si può concepire la coincidenza di ciò che si manifesta con il suo modo di manifestazione? Concependola come Parola, a sua volta intesa come il Verbo «che è presso Dio e che è Dio» (Gv 1,2). Il Verbo offre ciò (o piuttosto colui) che si manifesta e ciò tramite cui (o piuttosto chi) si manifesta, indissolubilmente. La parola (teo-logica) deve quindi essere pensata a partire dalla Parola (teo-logica), ovvero concepire la Parola a partire dal Verbo e ricevere il Verbo a partire da Dio, quindi vedere Dio come Padre attraverso il Figlio. Queste transizioni definiscono un cammino quasi impraticabile, ma, se non lo si percorre, il concetto di Rivelazione perde senso e legittimità. Per colui che vuole avanzare in via, il primo passo consiste quantomeno nel non limitare subito la Parola secondo il nostro uso di parole tribali, all’uso proposizionale delle parole bibliche, ridotte a predicazioni oggettivabili o definite in proposizioni sufficienti. Nessuno quanto Barth era avvertito di questo scarto e della difficoltà relativa alla modalità della Parola di Dio: «alla questione “che cos’è la Parola di Dio?” non si può rispondere in altro modo che rinviando al come, al modo d’essere della Parola […]. La questione è pertanto “com’è la parola di Dio (wie ist das Wort Gottes)?” – la risposta sarà: è sulle nostre labbra e nei nostri

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cuori [eppure] è nel segreto dello Spirito, che è il Signore»8. È necessario sviluppare almeno tre caratteri di questa Parola. Innanzitutto, si tratta di un’enunciazione (Rede), ma di un’enunciazione che, da subito, non si limita all’enunciato di una proposizione, perché, per quanto venga enunciata razionalmente, non si riduce ai limiti della razionalità d’oggetti. Anziché enunciare qualcosa su qualcos’altro, questa enunciazione si rivolge a qualcuno, aprendogli quantomeno la possibilità di realizzare che gli parla. L’enunciazione (si) realizza (come) una chiamata rivolta a colui che interpella e interloquisce; l’interloquito vi intende o può intendervi non solo ciò che anche un terzo vi intenderebbe (secondo il senso ovvio dell’enunciato), ma innanzitutto e perlopiù ciò che lui solo vi discerne – un appello assolutamente singolare rivolto a me solo, che nessuna ermeneutica neutra potrà generalizzare. Si tratta del terzo effetto di ogni rivelazione: la rivelazione di sé a sé, ma proveniente da altrove, dall’altrove stesso (supra, cap. 1). È proprio ciò che sant’Agostino ha capito nel giardino di Cassiciaco leggendo a caso un versetto di Paolo; non ha capito solo il senso ovvio dell’avvertimento generale, ma l’ha preso come un appello personale, rivolto a lui e lo ha fatto proprio: «non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze»9. Si trattava di intendere e di comprendere l’urgenza della conversione, più precisamente della sua conversione; egli accolse per se stesso, hic et nunc, l’avvertimento che era a disposizione di qualunque altro lettore, che quindi lui avrebbe anche potuto non tenere in alcun conto. La Paro-

8.  Ivi, p. 180 (tr. mod.). 9. Agostino, Confessiones, cit., VIII, 12, 29, p. 249, che cita Rm 14,1 (cfr. J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 3, in part. pp. 41 ss.).

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la, come enunciazione e chiamata, già a partire da questo primo momento eccede la sua interpretazione proposizionale. In seguito, (si) realizza (come) un atto, ma un atto moltiplicato, perché la chiamata non finisce con l’interpellazione del primo testimone (il profeta), essa si ripete nella Scrittura e poi nella predicazione della Chiesa, in modo tale che ogni volta l’uditore può essere interloquito dall’atto del Verbo, che è sempre contemporaneo. La Parola è ricevuta (tramite l’ascolto o la lettura) solo esercitando un potere, che pone l’uditore in una nuova situazione, quella di diventare nuovo e altro rispetto a chi era prima. La chiamata operata dalla Parola provoca dunque una decisione, o almeno offre la possibilità di decidere. La Parola chiede quantomeno di scegliere pro o contro di essa, perché il rifiuto, anche il semplice rifiuto di scegliere, corrisponde già a una scelta. Non si accompagna con l’atto compiuto dalla Parola quando a propria volta chiede al suo interloquito l’atto di una decisione: la decisione sarà presa ad ogni modo, positiva, negativa, o anche dubbia. Il dubbio, in particolare, quando mi sottrae dalla questione, fa stagliare per contrasto quest’ultima in modo ancor più deciso, sola in sé. Al pari di un dono abbandonato che rimane un dono compiuto, una chiamata lasciata senza risposta resta un appello lanciato e risuonante. Infine, la Parola custodisce un segreto. Rimangono segreti l’ampiezza di ciò che la fede dell’interloquito riceve effettivamente della Parola e quindi anche ciò che la parola gli ha veramente indirizzato. Lo scarto tra la Parola e ciò che il testimone ha inteso o creduto comprendere raddoppia lo scarto tra ciò che la Parola gli ha chiesto e ciò che la sua risposta ha deciso (oppure no) di rendere effettivo in sé. L’interloquito – in virtù della sua fede e non per sua debolezza – ignora sempre, almeno in parte, la realizzazione dell’azione della Parola in sé e nel mondo. Velamento e disvelamento coincidono proprio perché la parola precede e sorpassa il nostro ascolto e la nostra decisione, essa per noi rimane sempre escatologica (come

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ogni formulazione dogmatica che pertanto possiamo e dobbiamo produrre). Il segreto della Parola spetta allo Spirito10. Solo lo Spirito – e non io – conosce ciò che la parola vuole dirmi e la risposta che attende da me. Questo quasi-super-io non mi appartiene, proprio perché ridefinisce il mio Io. Pertanto, anche sulle nostre labbra, come una chiamata letta e ricevuta nei nostri cuori, come una decisione da prendere, la Rivelazione tramite la Parola resta sempre nel segreto dello Spirito. In questo senso la riflessione di Barth, più che illuminare le difficoltà, apre le dimensioni della questione: la Rivelazione suscita e impone una struttura di appello e risposta tra la Parola e il suo testimone. Come si sviluppa questa struttura, secondo quale logica si decide, seguendo quale fenomenicità si manifesta? Si tratta di una pura drammatica tra il locutore e l’interloquito oppure sono legati da una correlazione? Quindi seguendo quale analogia – dal momento che forse per sviluppare l’analogia fidei in tutte le sue dimensioni non è sufficiente rifiutare (forse a giusto titolo) l’analogia entis?

10.  Su tutti questi punti sono da considerare gli sviluppi classici di K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., pp. 128‑194. Si può quindi vedere che la distinzione, operata sia da Lutero che da Calvino, tra ciò che Dio rivela per la salvezza e il suo decreto assolutamente occulto e incomprensibile sulla predestinazione degli eletti potrebbe non avere oggetto reale, perché il segreto di Dio è interamente manifestato nella Rivelazione, senza trattenere nulla «quando ci diede, come effettivamente ci diede, suo Figlio, che è la sua Parola unica, e non ne ha altra, [Dio] ci disse tutto insieme e in una sola volta in questa sola Parola, e non ha più niente da dire» (Giovanni della Croce, Subida del Monte Carmelo; tr. it., Salita del Monte Carmelo, Edizioni OCD, Roma 2010, II, 22, 3, p. 224). Di conseguenza l’unico blocco che limita la Rivelazione non dipende dal segreto di Dio, ma riguarda l’insufficienza delle risposte finite di coloro che da questa vengono chiamati. Dio non tiene nulla di segreto, per spiegare la nostra oscurità è sufficiente la sola chiusura del nostro cuore.

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Rivelazione per semplice chiamata Ormai la difficoltà è stata precisata: si tratta di pensare la Parola stessa come Rivelazione, altrimenti detto, si tratta di concepire come e fino a dove la Parola di Dio può rivelarlo, ovvero renderne manifesto il mistero. Che cosa mostra la Parola – Dio? Si può tentare di rispondere a questa domanda esaminando e delimitando il contenuto della Rivelazione. Su questa via bisogna seguire Bultmann, il quale radicalizza uno dei possibili sviluppi delle tesi di Barth, di cui riprende la critica della Rivelazione come «comunicazione di un sapere (Wissensmitteilung)» su Dio, a profitto della sua ricezione come evento (Geschehen) che riguarda «una comprensione dell’esistenza (Dasein)»11. Infatti, la Rivelazione riguarda sempre la finitezza del mio Dasein: «avere conoscenza della rivelazione significa quindi avere conoscenza del nostro vero essere (Eigentlichkeit), ma nello stesso tempo conoscere il nostro limite»12. Questi limiti – o piuttosto questo unico limite – consiste nella nostra morte, portata con noi a ogni istante della nostra vita, per tutto il tempo della sua durata. In fondo la Parola di Rivelazione ci riguarda solo perché si indirizza a noi in questa situazione, in quanto «deve essere intesa soltan-

11.  R. Bultmann, Der Begriff der Offenbarung im Neuen Testament (1929), ripreso in Id., Glauben und Verstehen, J.B.C. Mohr Siebeck, Tübingen 1960; tr. it. Il concetto di rivelazione nel Nuovo Testamento, in Id., Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1986, pp. 655-690: pp. 656-657. La Rivelazione non consiste in enunciati stabiliti, che ci informano su Dio come (strana comparazione!) un museo ci informerebbe sulle «antiche locomotive» (a proposito di questo testo ci permettiamo di rinviare a un articolo datato, J.-L. Marion, Remarques sur le concept de révélation chez R. Bultmann, in «Résurrection», n. 27, 1968, pp. 29-42). 12.  R. Bultmann, Il concetto di rivelazione nel Nuovo Testamento, cit., p. 660. Cfr. «noi conosciamo la rivelazione perché essa appartiene alla nostra vita» (ivi, p. 659).

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to come interpellazione (Anrede)»13, perché la Parola rivela che, in Cristo, la vita supera la nostra morte: «la rivelazione non può dunque essere se non il dono (Geschenk) della vita che vince la morte»14. Rimane il fatto che (sempre seguendo Barth) la Rivelazione di questa vita attraverso la morte resta una «rivelazione nascosta»15, una vita ancora nascosta, alla quale non possiamo ancora assegnare alcun contenuto; di conseguenza la soppressione del suo contenuto mondano e discorsivo (detto altrimenti la demitologizzazione, questa volta contro Barth) fondamentalmente non cambierebbe nulla alla Rivelazione che, nella fede senza contenuto, «non è dunque niente altro se non il fatto di Gesù Cristo (in dem Faktum Jesus Christi)»16. L’interpretazione barthiana della Parola come chiamata raggiunge quindi il suo zenit: «la predicazione [della Parola] è essa stessa rivelazione (die Predigt ist selbst Offenbarung)»17, ma questo zenit diviene subito un nadir, perché la predicazione realizza solo un fatto nudo e astratto: «ma che cosa rivela [sc. Cristo]? Il fatto che [daß] è inviato come rivelatore [als Offenbarer]»18. Questo fatto bruto, ridotto al suo impatto duro e puro sul Dasein mortale, in virtù della demitologizzazione (a propria volta né interrogata né criticata) non rivela quindi più niente: «cosa dunque è sta-

13.  Ivi, p. 661 (cfr. Anrede, interpellazione, chiamata, pp. 677, 685, 686), 684. 14.  Ivi, p. 669, citando giustamente Mt 7,14; Mc 9,43 ss.; 1Gv 1,1-2 e At 5,20, ecc., ma con una precisazione: «la rivelazione è un evento che annienta la morte, e non una dottrina che insegna che la morte non esiste» (ibidem). 15.  Ivi, p. 673, appoggiandosi giustamente su 1Gv 1,2; 1Gv 3,2 e 1Gv 5,8; 1Gv 4,9; 1Pt 1,20; Eb 9,26, ecc. 16.  Ivi, p. 673, per opposizione al mondo: «nicht Weltfaktum, non come un fenomeno mondano», «non come una Weltanschauung» (ivi, p. 685 e 684). 17.  Ivi, p. 676; cfr. «Verkündigung im Wort, predicazione nella parola», «Verkündigung als Offenbarung, predicazione come rivelazione» (ivi, p. 685). 18.  Ivi, p. 677.

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to rivelato? Assolutamente niente se per rivelazione si intende la ricerca di dottrine»19. La Rivelazione si compie nella chiamata, ma la risposta a questa chiamata non dispiega alcuna manifestazione, o piuttosto nel Nuovo Testamento il concetto di Rivelazione si riassume nella sola rivendicazione compiuta tramite la sua pura e semplice chiamata. Infatti, qui si ignora o si annulla il principio fenomenologico secondo il quale, se pure la questione provoca e precede la risposta, il senso e la verità della questione si intende solo nella risposta, in modo tale che una chiamata senza risposta che la faccia risuonare scompare in quanto chiamata e, nel caso della Rivelazione, in quanto Parola di Dio. Se la risposta non dice nulla, non solo la chiamata non dirà mai nulla, ma la Parola non sarà mai stata indirizzata – Parola sorda.

Rivelazione per correlazione Proprio l’aporia finale (o iniziale) di Bultmann risulta pertanto ancora istruttiva: infatti mostra che, se questa Parola rivelatrice non si apre sulla profondità del rivelato, sul suo altrove, l’approccio alla Rivelazione come Parola e alla Parola come chiamata (Anrede) può dissolversi nell’astrazione di un semplice fatto (Faktum, daß), in ultima analisi vuoto. Il fatto di Cristo ha senso solo se si tratta del fatto di Cristo – che quindi emerge secondo il “mistero” della sua provenienza. Una Parola che si limita ad advenire (geschehen) non può provocare il minimo evento (Geschehnis), né fare epoca di alcuna storia (Geschichte), perché non permette alcun avvento (Ereignis).

19.  «Was ist also offenbart worden? Gar nichts, sofern die Frage nach Offenbarung nach Lehren fragt» (ivi, p. 683, sottolineature nostre); cfr. pp. 686, 688-689.

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Certamente la Parola di Cristo chiama, ma non lo fa mai in suo nome, ma sempre in nome di un altro, il Padre (cfr. infra, cap. 14). Infatti, senza questo rinvio il semplice fatto della sua Parola non rivela nulla. In questo contesto si capisce meglio perché altri teologi abbiano seguìto un percorso opposto: non separare mai il fatto dalla Rivelazione (poiché l’evento di Gesù si manifesta come Verbo di Dio) che di diritto legittima questa Rivelazione. Ciò perché, per riprendere la metafora un po’ sommaria di Barth, se l’annuncio della Rivelazione (il kerygma) trapassa l’esperienza umana come una pietra che cade nell’acqua – tramite un colpo che scuote l’intera superfice e attraversa tutta la profondità –, è necessario che si trovi già nell’acqua, anche inquinata e paludosa, non fosse che per lasciare che si diffonda l’onda di choc. Solo una tale recettività (capacitas), pur minima e conflittuale, apre la profondità in cui l’altrove della Rivelazione può manifestarsi, parzialmente ma con chiarezza. Forse deve essere intesa in questo senso la distinzione introdotta da Karl Rahner tra la Rivelazione come “categoriale” e la (stessa) Rivelazione come “trascendentale”, che salvaguarda in anticipo il sito di ciò che nella Chiesa si dice e si espone alla fede: bisogna infatti «riconoscere […] la storia della rivelazione e ciò che si usa chiamare semplicemente rivelazione, come l’autoesplicazione storica categoriale oppure, più semplicemente e più precisamente, come la storia di quel rapporto trascendentale tra l’uomo e Dio»20. Il principio enunciato da Tillich, «la teo20.  Rahner, nel suo contributo Annotazioni sul concetto di rivelazione, in K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, cit., pp. 11-26: p. 14: «se quanto abbiamo detto è esatto, allora la rivelazione trascendentale e quella categoriale e la storia della rivelazione sono coesistenti alla storia spirituale dell’umanità in genere». O ciò che altrove nomina un «esistenziale soprannaturale», che permetterebbe in linea di principio di comprendere il «rapporto tra storia della rivelazione trascendentale generale e storia della rivelazione categoriale particolare» (K. Rahner, Grundkurs des Glaubens.

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logia sistematica usa il metodo di correlazione»21, deve essere considerato anche in questo senso. Sempre mantenendo senza ambiguità che ciò che si rivela resta «l’estraneità incondizionata (das Unbedingt-Fremde)» di un «rivelato incondizionato (das unbedingt-Offenbare)»22 e che «anche una volta rivelata […] la rivelazione non dissolve il mistero nella conoscenza»23, il metodo di correlazione suppone sempre che «Dio risponde alle domande dell’essere umano e questi le formula sotto l’effetto delle risposte di Dio»24. Probabilmente, ma questa tesi si espone a un’obiezione che è già stata fatta a partire dalla prima definizione di paradosso (supra, capp. 2 e 4): la Rivelazione da altrove non risponde innanzitutto né sempre a que-

Einführung in den Begriff des Christentums, Herder, Freiburg 1976; tr. it., Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, risp. pp. 174 e 207). 21.  P. Tillich, Systematic Theology, vol. I, The Press of the University of Chicago, Chicago 1951; tr. it., Teologia sistematica, vol. I, Claudiana, Torino 1996, p. 76, o ancora, il «carattere correlativo della rivelazione» (ivi, p. 149). 22.  «Se il concetto di Rivelazione contiene una realtà, una realtà che anche ci accade, forse la sola realtà che ci avviene incondizionalmente (unbedingt), allora essa non potrebbe essere la realtà di un oggetto che gli conviene, ma soltanto la realtà di un’idea» e commenta «Rivelazione è una parola e in quanto parola un concetto, e in quanto concetto, l’oggetto di un’elaborazione concettuale; ma il contenuto del concetto è un’idea, non un oggetto» (P. Tillich, Die Idee der Offenbarung, cit., p. 403) e «essa [sc. la Rivelazione] è l’apparire dell’incondizionato (Unbedingte), nascosta nella nostra condizione-condizionata (Bedingtheit)» (ivi, p. 412) o «non è l’occulto – il relativamente nascosto – ma l’incondizionalmente nascosto (unbedingt Verborgene) che si rivela» (ivi, p. 407). 23. Ivi, p. 131, «qualunque cosa sia misteriosa nella sua essenza non può perdere il suo carattere di mistero neppure quando viene rivelata» (P. Tillich, Teologia sistematica, cit., pp. 150, 152 et passim) o anche «ciò [sc. quanto è nascosto] continua, per il fatto che si rivela, a essere nascosto, perché essere nascosto appartiene alla sua essenza (seine Verborgenheit gehört zu seinem Wesen). E, quando ciò si rivela, è tanto rivelato quanto nascosto» (P. Tillch, Die Idee der Offenbarung, cit., p. 406). 24.  P. Tillich, Teologia sistematica, cit., p. 77 (e pp. 75-80).

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stioni che l’uomo si pone già, ma più spesso e di primo acchito a questioni che non può o non vuole porsi. Si comprende così la resistenza che essa provoca inevitabilmente tra coloro che la ricevono (oppure no). Rivelandosi, Dio pone le sue proprie questioni, che solo molto raramente coincidono con le questioni che ci occupano naturalmente e spontaneamente; lo spostamento delle questioni implica anche lo spostamento delle risposte – perché Dio risponde all’uomo rispondendo alle questioni che l’uomo deve o dovrebbe porsi se prendesse il punto di vista di Dio su se stesso. Questo appariva come il motivo principale della necessaria metanoia: prima di ricevere le risposte di Dio – e al fine di riceverle – bisogna conformarsi all’estraneità delle sue questioni, perché le sue vie non sono le nostre, né i suoi pensieri sono i nostri (Is 55,9), anche a proposito di noi stessi e delle nostre questioni. Questa obiezione si rinforza quando il metodo di correlazione si precisa identificando ciò che riguarda la Rivelazione con «ciò che c’impegna per un fine ultimo (ultimately)»25 e, più ancora, sebbene vagamente, assimilandolo alla «manifestazione della profondità della ragione e del fondamento dell’Essere»26, perché in fin dei conti in questo contesto Dio si lascerebbe assimilare al trascendentale dell’essere: «la parola religiosa per indicare quel che si chiama il fondamento dell’Essere è Dio»27. 25.  Ivi, p. 132 (che riecheggia Bultmann). Si veda «non c’è rivelazione se non c’è nessuno che la riceva come proprio fine ultimo – his ultimate concern» (ivi, p. 133). 26.  Ivi, p. 140 (cfr. p. 152, sottolineature nostre). La stessa ambiguità si ritrova a proposito dello statuto della «ragione», a volte suddivisa in finita o estatica (ivi, pp. 68 e 72), in «conoscenza di controllo» o conoscenza «di ricezione» (ivi, p. 131), che a volte resta, anche nel caso del miracolo, «la struttura razionale della realtà» (ivi, p. 139); per dissipare questi dubbi non è sufficiente denunciare (a giusto tiolo) il «razionalismo irrazionale» (cit., p. 137). 27.  Ivi, p. 183, sottolineature nostre (sul «fondamento dell’essere», cfr. ivi, pp. 36, 48, 64, 68 ss.).

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Così, quasi letteralmente, si ritrova la tesi di Rahner: «per capire intimamente e per legittimare ontologicamente un concetto dell’autocomunicazione così inteso, dobbiamo rifarci all’esperienza trascendentale dell’orientamento di ogni esistente finito all’essere assoluto e al mistero di Dio. Già nella trascendenza in quanto tale l’Essere assoluto è il sostegno e il costitutivo più intimo di tale movimento trascendentale verso di lui [sc. Dio]»28. La sfida iniziale risiede proprio qui: la Rivelazione non può compiersi senza che al momento stesso del suo impatto (nel kerygma) si manifesti e persista la profondità del suo altrove. Ma non è ancora stata posta una questione: questa profondità deve identificarsi con altro che sé, per esempio con l’Essere o con il “fondo dell’Essere”? Può farlo senza ripetere le idolatrie metafisiche del “Dio morale” o del “Dio legislatore morale”?

La storia come rivelazione indiretta Questa aporia ha trovato la sua più chiara illustrazione nell’offensiva in grande stile che Wolfgang Pannenberg sferra contro Barth (e anche contro Rahner) a partire dal manifesto Rivelazione come storia, di cui nel 1961 fu l’iniziatore e il principale contributore. La polemica ha come oggetto evidente la tesi 28.  K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit., p. 168, sottolineature nostre. Si tratta di una tesi radicale: «dal momento che, attraverso l’auto­ comunicazione entitativa ontologica di Dio, esiste un’autotrascendenza del­l’uomo di carattere rivelatorio, assistiamo a una storia della rivelazione ovunque tale esperienza trascendentale ha una storia: assistiamo quindi a una storia della rivelazione nella storia dell’uomo in generale» (ivi, p. 207). Non ci si avvicina così a un rinnovamento della teologia della «natura pura», dove la postulazione ontico-ontologica («l’Essere assoluto e il mistero di Dio», ivi, p. 168) si raddoppierebbe nel postulato di storicizzazione assoluta per incontrare l’uomo in puris naturalibus, essere e storia? Come noto, questa obiezione è stata posta (cfr. infra, cap. 15).

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barthiana (e la sua radicalizzazione bultmanniana) di un’autorivelazione di Dio tramite l’impatto kerigmatico della sola Parola, in particolare quella espressa nelle Scritture: «quale è il significato delle precedenti riflessioni? Come visto gli scritti del Nuovo e del Vecchio Testamento non conoscono una formulazione terminologica relativa alla “autorivelazione di Dio” (Selbstoffenbarung Gottes)»29. Infatti, né il Nome di YHWH, né il nome di Gesù esprimono o compiono tale Rivelazione diretta e in persona del Dio Biblico. Ciò non risulta da un difetto dell’intenzione rivelatrice di Dio, ma dal fatto che «l’auto­ rivelazione di Dio, secondo le testimonianze bibliche, non è avvenuta direttamente – ad esempio alla maniera di una teofania, – ma indirettamente, attraverso le gesta storiche di Dio»30. Infatti, la sostituzione di una Rivelazione diretta con una Rivelazione indiretta, lungi dall’indebolirne la portata, la aumenta almeno in due sensi: innanzitutto, riqualifica la funzione rivelatrice di tutti gli scritti biblici presi nel loro insieme e, soprattutto, consente di comprendere che «la rivelazione non ha luogo all’inizio, ma alla fine della storia rivelatrice»; inoltre, alla Rivelazione storica (contro la contingenza di cui la appesantiva l’Aufklärung) essa riconosce una validità universale, che, anziché perdersi in una particolarità contingente, attraversa e ingloba l’intera storia: «a differenza di particolari apparizioni della divinità, la storia-rivelazione è aperta a quanti hanno oc29.  W. Pannenberg, Introduzione, cit., p. 46. 30.  W. Pannenberg, Dogmatischen Thesen zur Lehre von der Offenbarung; tr. it., Tesi dogmatiche sulla dottrina della rivelazione, il suo contributo personale al collettivo Offenbarung als Geschichte; tr. it., Rivelazione come storia, cit., tesi 1, p. 163. Sottolineiamo ancora che il carattere indiretto non implica per nulla una diminuzione della Rivelazione diretta, ma ne precisa il modo di realizzazione: «una comunicazione indiretta è una comunicazione a potenza superiore: come base essa ha sempre una comunicazione diretta, ma considera questa in una nuova prospettiva. […] La rivelazione indiretta è caratterizzata dal fatto che essa non ha Dio quale contenuto immediato» (W. Pannenberg, Introduzione, cit., pp. 51-52).

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chi per vedere. Essa ha carattere universale». Ormai – e con insistenza – la Rivelazione diviene una questione di verità, patente, constatabile, accessibile nei testardi fatti della storia, secondo un’interpretazione quasi positivista (e che non ha nulla di “soprannaturale”) di 2Cor 4,2: «annunciando apertamente la verità (en phanerôsei tês alêtheias), presentandoci davanti a ogni coscienza umana (pasan suneidêsin anthrôpôn) davanti a Dio»31. Per una conseguenza coerente, la verità di ciò che si rivela tanto universalmente non può limitarsi alla storia di Israele, anche se questa risulta rivelatrice degli atti di Dio; essa si sviluppa così nelle «chiese cristiane d’origine pagana», fino a «l’universalità dell’automanifestazione escatologica di Dio nella sorte (Geschick) di Gesù»32. Quindi la Rivelazione «indiretta» non si sviluppa più nella contingenza storica ma, con il compimento di Gesù, in una universalità escatologica. La forza di una tale ripresa del concetto di Rivelazione non si può negare e i suoi apporti si impongono come acquisizioni positive. In particolare, il punto centrale: se vi deve essere auto­ manifestazione di Dio – e ogni dottrina della Rivelazione lo implica (Barth e Dei Verbum l’hanno imposto) –, per pensarla non è sufficiente una teologia della Parola (e del kerygma). Questo risultato sottolinea però anche altre due difficoltà: innanzitutto, pur avendo il suo credito (da Ernst Bloch e Karl Rahner a Johann Baptist Metz e Jürgen Moltmann), la scelta della storia come orizzonte ultimo della Rivelazione, ha anche i suoi limiti: l’universalità così rivendicata resta ambigua, perché di quale totalità si tratta? Anche se la storia umana diventa il teatro della Rivelazione divina, che allora non si limita più a una “teologia di chiesa”, questa storia non fa la totalità e, se la Rivelazione è compiuta solo dall’intera storia ancora a venire, 31.  W. Pannenberg, Tesi dogmatiche sulla dottrina della Rivelazione, cit., risp. tesi 2, p. 169 e tesi 3, p. 173. 32.  Ivi, tesi 6, p. 189.

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quindi quella escatologica, come si eviterà di ridurre la manifestazione di Gesù Cristo (di cui evidentemente si conviene) al rango di un momento (tra gli altri) della Rivelazione “indiretta”? Come mantenere al contrario che il compimento di Gesù («panta tetelesthai», Gv 19,28) «ricapitola tutte le cose in Cristo» (Ef 1,10)? In breve: come fare diritto a «l’amore perfettamente compiuto in noi (agapê teteleiômenê en humin)» (1Gv 4,12)? Ricorrere all’escatologia non dispensa dal sapere se essa completi la storia prolungandola (e allora come, e tramite quale aggiunta?) o se tramite essa la storia si assorba nell’eschaton, in un omega che costituisce fin dall’inizio un alfa (cfr. Ap 1,8) che è «prima che Abramo fosse» (Gv 8,58). Non si tratta soltanto di considerare l’eschaton ma di vedere che si trova anche all’inizio, «Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine (telos)» (Ap 21,6), «il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,13). Il secondo non completa il primo perché essi sono lo stesso e l’unico «una volta per tutte» (Eb 7,27; Eb 9,12; e Eb 10,10). Se non lo si pensasse, la dubbia articolazione della storia con l’escatologia renderebbe problematica anche la distinzione, del resto corretta, della Rivelazione in “diretta” e “indiretta”. Riaffiora allora un’altra domanda: la storia può essere eretta legittimamente a orizzonte ultimo della Rivelazione33? Non si tratta ancora di un effetto dell’aporia hegeliana? Più radicalmente, di una nuova istituzione, dopo tante altre, di un orizzonte in generale della Rivelazione (l’orizzonte dell’essere, l’orizzonte della metafisica, l’orizzonte della sola Parola, ecc.), la cui inadeguatezza si è già avverata? Ciò porta nuovamente a 33.  «Tale storicità della storia della salvezza da parte di Dio e non solo da parte dell’uomo – di una storia che è veramente quella di Dio stesso» (K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit., p. 193); e «la storia è l’orizzonte più ampio (umfassendste Horizont) entro il quale la teologia cristiana si muove» (W. Pannenberg, Grundfrage systematischer Theologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1967; tr. it., Avvenimento di salvezza e storia, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1975, p. 30).

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chiedere – finalmente – se non convenga, una volta per tutte, rifiutare di assegnare alla Rivelazione un altro orizzonte che non essa stessa e un altro a priori che non sia essa sola. Definendosi come sorgente da altrove, la Rivelazione non ha altro orizzonte che lei stessa; o meglio: essa non ammette per orizzonte che questo altrove, che si definisce tramite l’assenza di limiti a noi conosciuti, poiché non la limita (orizein) nulla del nostro ambito, perché Dio solo stabilisce dei limiti tramite il «disegno prestabilito, hôrismenê boulê» (At 2,23), «stabilendo l’ordine dei tempi, horisas protetagmenous kairous» (At 17,26), nel «Figlio di Dio costituito (oristhentos)» (Rm 1,4) da lui. Un secondo dubbio conferma il primo: se la storia, questo “linguaggio dei fatti” rende «totalmente manifesta, ganz offenbar» la stessa rivelazione “indiretta”, e se è sufficiente avere occhi per vederla, come rendere conto del rifiuto così abituale di vedere il visibile34? Per comprenderlo, bisogna ricorrere a una certa ermeneutica, in cui la fattualità delle cose non è sufficiente per rendere manifesta l’evidenza della Rivelazione. Con l’accecamento volontario o il rifiuto di vedere, in questa manifestazione non si tratta solo dell’incompletezza storica di una comunicazione soltanto “indiretta”: qui l’escatologia non consiste più soltanto né innanzitutto nel completare e universalizzare la manifestazione, ma provoca il giudizio di ciascuno dei credenti sulla sua evidenza e su se stessi, perché rivela che ogni testimone rimane in parte sempre un non credente. Qui, inoltre, si tratta di sapere (o di vedere) come la Rivelazione si regoli tramite se medesima tanto nella sua incondizionatezza (contro ogni a priori trascendentale, compresi quelli dell’essere o della storia), quanto nella logica della sua accettazione o del suo rifiuto (contro ogni interpretazione epistemologica, diretta o indiretta). Rispondendo a Friedrich Gogarten, che 34.  W. Pannenberg, Tesi dogmatiche sulla dottrina della Rivelazione, cit., tesi 3, risp. pp. 100, 99 e 101.

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poneva che «non c’è comprensione dell’uomo senza comprensione di Dio, […] e non posso di contro comprendere nulla di Dio senza prima comprendere l’uomo», Barth, negativamente sebbene definitivamente, ha definito la Rivelazione come «ciò che non ha alcun fondamento (Grund) e alcuna possibilità (Möglichkeit) al di fuori di sé, cosa che non ha alcun senso a partire dall’uomo e la sua situazione, ciò che si può spiegare esclusivamente come conoscenza di Dio a partire da Dio, come una grazia concessa liberamente»35. Atteniamoci a questa lezione: pur senza fornire una risposta sufficiente, permette almeno di formulare correttamente la difficoltà. Resta tuttavia un’altra maniera di intendere Barth, ossia il modo in cui lo comprende Hans Urs von Balthasar in merito alle condizioni di possibilità o piuttosto all’incondizionatezza della Rivelazione. Ecco l’aporia appena tratteggiata: una Rivelazione, intesa radicalmente, non può ammettere alcun a priori che le fisserebbe le sue condizioni di possibilità (Barth, e a contrario, supra, cap. 6); si obietterà, però, che senza determinazione delle condizioni della sua ricezione (dei limiti del modus recipientis), questa Rivelazione diviene vuota (Bultmann), donde l’inevitabile ristabilimento di certe condizioni (Tillich, Rahner, Pannenberg, ecc., cap. 7). Tuttavia, abbiamo già in-

35.  K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 123, rispondendo a F. Gogarten, Karl Barths Dogmatik, in «Theologische Rundschau», n. 1, 1929, pp. 60-80 (discusso in K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 128). Si veda: «quindi la rivelazione non è sottomessa ad alcuna condizione (Bedingung) (lo si può affermare solo a partire dalla nostra conoscenza della rivelazione), ma è essa stessa la sua propria condizione» o «dal momento in cui diciamo che questo atto è la rivelazione, affermando che non c’è nessun altro atto più elevato a partire dal quale potrebbe fondarsi (begründen) o essere dedotta, diciamo che questo atto è la condizione che condiziona tutto, senza essere a propria volta condizionato (Grund ist, der alles bedingt, ohne er selbst bedingt zu sein)» (K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., risp. pp. 121 e 122; tr. mod.).

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travvisto quale presupposto sostiene questa aporia: l’umanità si porrebbe solo le questioni alle quali può rispondere. Ora, di diritto e di fatto, la Rivelazione (supra, cap. 2), come forse già ogni rivelazione (supra, cap. 1), non risponde alle questioni che l’uomo si pone già autonomamente, ma gli impone questioni che, autonomamente, non si pone – almeno non ancora, né spontaneamente, né esplicitamente. Donde la difficoltà, più ancora che di rispondervi, di ricevere e intendere la Rivelazione: il suo appello resta innanzitutto e perlopiù inintelligibile e quindi prende la forma di un paradosso, che chiede di rispondere a questioni ancora incomprensibili, mai formulate prima. Questo paradosso, tuttavia, non esclude che la Rivelazione rispetti delle condizioni né che definisca la sua propria possibilità. Esso chiede solo che queste condizioni di possibilità (di ricezione, di intesa) non siano imposte alla Rivelazione tramite i limiti del suo destinatario e del suo rispondente, ma che provengano da ciò che essa rivela e rende manifesto. L’orizzonte della Rivelazione non proviene mai dal nostro ambito, dalla regione delle nostre possibilità, sotto i nostri orizzonti pensabili di manifestazione (né la “storia”, né l’“essere”, né la “Parola”, ancora meno il testo), ma dal suo, nella «figura di Rivelazione che si esplica dà sé, quella dell’amore (die sich selbst auslegende Offenbarung-Gestalt der Liebe)»36. Con questa svolta tutto torna e molto si chiarisce. Si impongono ormai almeno tre decisioni: innanzitutto, la Rivelazione viene da altrove perché nulla ci sembra più estraneo della perfezione dell’amore (Dio

36.  H.U. von Balthasar, Glaubhaft ist nur Liebe, Johannes Verlag, Einsiedeln 1963 (19855), p. 36; tr. it., Solo l’amore è credibile, in Id., La percezione dell’amore, Jaca Book, Milano 2010, pp. 51-153: p. 90 (tr. mod.). [A differenza della scelta operata dal traduttore italiano, che rende il termine tecnico balthasariano Gestalt con forma, abbiamo preferito optare per il termine figura, onde mantenere la prossimità con la traduzione francese figure e quindi fare risaltare la differenza tra figura e forma, che traduce i termini balthasariani Bild e Form; n.d.t.].

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ama e solo lui ama a fondo). In secondo luogo, questo altrove non ammette alcuna condizione di possibilità, perché l’amore si compie senza condizione – un dono abbandonato può restare un dono perfetto (la qual cosa si chiama Croce). Infine, questo altrove può manifestarsi, perché esso entra nella visibilità prendendo figura d’uomo (l’Incarnazione come l’ingresso nella nostra visibilità, quella della carne).

L’amore e la figura In queste decisioni non vi è nulla di illogico, perché si tratta ancora di una logica, certo non la nostra, ma della «logica dell’amore assoluto»37. Anche se si tratta ancora di una maniera di “trascendentalità” (per parlare come Rahner, dopo Kant), perché una logica è necessaria per definire che un fenomeno si manifesti, questa trascendentalità riflette però il possibile per Dio, ovvero l’impossibile per noi; a questo punto è disciplinata dal vero trascendente che vi si manifesta liberamente e in sé, pertanto senza doversi alienare in un’altra figura che la sua38. Abbiamo già identificato questo possibile incondizionato (un ossimoro per noi), tramite il quale ciò che appare si manifesta in sé, come la possibilità del fenomeno di darsi. Quindi, se ogni fenomeno si manifesta nella misura in cui si dà, allora la Rivelazione di Dio come carità e la Rivelazione di un Dio che non consiste in altro che nella sua carità, si manifesterà assolutamente, senza riserva né compromesso, nella misura, 37.  Ivi, p. 130 (ed. or., p. 76). Quindi «l’amore viene conosciuto soltanto dall’amore», perché «l’amore non chiede altro compenso che di essere contraccambiato» (ivi, risp. pp. 105 e 127; ed. or., pp. 12 e 72). 38.  Sull’inversione del possibile per noi (quindi dell’impossibile) in possibile per Dio (al quale «niente è impossibile»), cfr. le nostre indicazioni in J.-L. Marion, Certezze negative, cit., cap. II, §§ 8‑13, pp. 81-125.

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a propria volta assoluta, incondizionata e infinita, in cui Dio si dà: «dando se revelat, revelando se dat»39. Dio si rivela quindi seguendo le leggi della fenomenicità, salvo che questa fenomenicità non si dispiega secondo le regole del nostro mondo e dei nostri fenomeni, ma secondo le esigenze proprie di ciò che si dà. La Rivelazione si fenomenizza, ma la sua fenomenicità non ha altra legge che la logica (erotica) del dono, dell’agapê. Questa trascendentalità venuta a donarsi da sé sola a noi avviene radicalmente da altrove e tuttavia si compie «tra noi» (Gv 1,14) – nella figura di Cristo, norma e condizione unica della Rivelazione che non emerge da noi proprio perché adviene a noi. Questa trascendentalità si rivela tramite e in Cristo come «realmente figura», caratterizzata da «interna concordanza», patente e potente di «un’evidenza […] che si impone a partire dal fenomeno stesso»40. Si tratta infatti di un fenomeno per antonomasia e non di un fenomeno che costituiremmo come oggetto, tramite il riempimento intuitivo di un conferimento di senso, secondo una correlazione noetico-noematica condotta dalla nostra intenzionalità. Non si tratta neppure soltanto di un fenomeno saturo, dove l’intuizione oltrepassa il limite del concetto (o dei concetti messi in campo per trattenerla), né di un semplice fenomeno di rivelazione che combina in una sola apparizione varie figure possibili di saturazione, ma del fenomeno della Rivelazione, che si costituisce assolutamente da sé perché si dona assolutamente da sé. Ciò che si può osare nominare come «il fenomeno di Cristo»41 ottiene una fenomenizzazione 39.  Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei cantici, cit., VIII, 5, p. 180 (cfr. supra, cap. 2). 40.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., pp. 447 e 434. 41.  Su questa formula cfr. ciò che abbiamo abbozzato in J.-L. Marion, Le “phénomène du Christ” selon Hans Urs von Balthasar, in «Revue catholique internationale Communio», n. 30, 2005, pp. 77-82.

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infinita perché compie, nella carità, un dono infinito. Donde, secondo Balthasar, il suo statuto di ultima forma42 e di «forma fondamentale (Urbild)»43, che incrocia il finito e l’infinito senza alcuna compromissione né contraddizione. Infatti questa figura comporta in sé il suo proprio orizzonte di manifestazione, la carità secondo la quale si dona senza altra misura che se medesima: in questo senso, dal momento che si dona infinitamente e, per questo, arriva ad annientarsi (la kenosi), resta tanto più manifestatamente infinita. Ma questa figura, dal momento che si manifesta solo in quanto si dona e per donarsi, arriva fino a rivelarsi come in-finita nella finitezza stessa: l’amore si manifesta tanto più quanto più si dona al punto di abbandonarsi in lei, dunque questa figura abita decisamente nel finito. La carne che Dio prende rivela la «forma d’amore di Cristo (Liebesform Christi)»44, l’amore infinito si manifesta nel (corpo) finito della carne di Gesù. Questo fenomeno si oltrepassa, come per definizione l’amore diffusivum sui eccede se stesso. L’aporia della Rivelazione e delle sue condizioni di possibilità, o piuttosto della condizione della sua impossibilità essenziale, si risolve così nel paradosso originale della figura di Cristo – in questa visibilità dove nulla meno dell’invisibile si dà a vedere come «icona del Dio invisibile, eikôn tou Theou tou aoratou» (Col 1,15) e «irradiazione della sua gloria e impronta della persona [di Dio]» (Eb 1,3). Tuttavia, questo «aspetto della Rivelazione resta incomprensibile, salvo che sia spiegato con l’amore», perché «lo si vede o non lo si vede»45. Questa figura implica quindi che nessuno sguardo ne disponga e an42.  In italiano nel testo, [n.d.t.]. 43.  H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, cit., p. 138 (tr. mod.); ed. or., p. 84. 44.  Ivi, p. 139; ed. or., p. 86, detto altrimenti nell’«aspetto kenotico di Rivelazione» (ivi, p. 152; ed. or., p. 99). 45.  Ivi, p. 90, poi p. 93; ed. or., p. 37, poi 39.

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che che essa scappi alle regole di una visione comune, di modo che si compie tramite la «manifestazione […] di una sovrafigura infinitamente determinata, eine unendlich bestimmten Über-Gestalt»46. La forma del fenomeno si trova nella figura compiuta dal corpo di carne di Cristo47, ma ciò chiede di ammettere che la Rivelazione, il fenomeno di Cristo, sia interpretato – perché quanto più un fenomeno si rivela saturo, tanto più richiede un’ermeneutica senza fine – solo a partire dal luogo e dal sito dove il Padre si dispiega nel Figlio secondo la comunione dello Spirito, quindi trinitariamente: «la Trinità divina, pur se si tratta di una luce inaccessibile all’intelletto, è l’unica ipotesi la cui introduzione consente di spiegare il fenomeno Cristo (das Phänomen Christi) […] come fenomenologicamente legittimo, senza forzare i dati di fatto»48. La Rivelazione tramite il diventare-uomo (Menschwerdung) non significa più soltanto né innanzitutto che Dio entri nella nostra umanità finita ma che noi lo vediamo nel suo orizzonte infinito – essendo «come una manifestazione di se stesso a opera di se stesso (ekphansis eautou dia eauton)»49 –, dove anche noi già entriamo. Contraddicendoci con dei paradossi, deformandoci e riformandoci, questo fenomeno è conforme alla sua gloria. Per quanto possibile, rimane da precisare questo risultato decisivo.

46.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 400. 47. «Christus aber ist die Form, weil er Gestalt ist – Cristo invece è la forma, perché è il contenuto» (ivi, p. 433). 48.  H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, cit., p. 114; ed. or., p. 58. Cfr. J.-Y. Lacoste, Du phénomène à la figure: pour réintroduire à la Gloire et la Croix, in «Revue Thomiste», n. 86, 1986, pp. 606-616. 49.  Dionigi Areopagita, Nomi divini, in Id., Tutte le opere, cit., IV, 18, p. 427.

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8 Disvelamento o scoperta

L’ampliamento offerto da Balthasar arriva fino a introdurre la nozione di figura (Gestalt). Tale inserimento non sarebbe decisivo se si trattasse semplicemente di una nuova nozione, in aggiunta a quelle a cui la teologia ha già accordato il proprio favore al fine di pensare la Rivelazione (un mero completamento della lista dei “luoghi” teologici o un ulteriore concetto importato dalla filosofia dominante). Si tratta di una svolta ancor più radicale: lo sforzo, ben riuscito, di pensare la Rivelazione a partire da se medesima; ciò non significa solo pensarla a partire da un orizzonte anteriore, che la predetermina, ma riceverla così come si offre. La Rivelazione può rivelarsi a partire da sé perché si dà a partire da sé, seguendo l’adagio dando revelat et revelando dat, qui pienamente all’opera. Essa si rivela da sé, cioè, per noi, da altrove, nell’esatta misura in cui si dà. Per chi lo riceve, il darsi manifesta l’altrove. Il manifestarsi si dà a partire da sé perché a colui che lo riceve avviene da altrove. Ci si può accorgere di questo gioco condiviso della donazione da altrove e della manifestazione di sé tramite sé se non si approccia più la Rivelazione a partire da un concetto formale, ma direttamente, seguendo le sue proprie modalità fenomeniche.

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Una questione di logica La fenomenicità della Rivelazione (quantomeno della sua possibilità), infatti, pone questioni logiche, in particolare quella per cui la figura pretende di riunire in sé i due poli la cui tensione caratterizza la Rivelazione in modo essenziale – l’infinito incondizionato e la finitezza della nostra mente, oppure, trasponendo in termini teologici: la figura pretende di articolare l’apparizione “tra noi”, nel nostro campo fenomenico, di ciò che tuttavia «nessuno ha mai visto» (Gv 1,14.18). Nei confronti di questa «apparente assenza di forma»1 – di cui la metafisica può rivendicare la riduzione solo a colpi di forza concettuali, che in ultima analisi sono senza effetto – il pensiero della Rivelazione arriva a superare l’aporia in un sol colpo e in modo radicale, individuando una figura per l’infigurabile stesso – la carità «come forma compiuta e perfetta di tutte le forme preliminari»2. In che senso intendere che «la forma dell’amore cristiano nel segno di Cristo è assolutamente indivisibile, absolut unteilbar»3? È da intendere nel senso della “forma dell’amore”, dal momento che di fatto l’amore prende forma o, piuttosto, si informa, (si) dà una forma donandosi. Così come si fa vedere nel dono, per definizione senza ritorno e senza riserve, arriva a farsi vedere fin nell’abbandono, sino a manifestarsi proprio dove nessuno se l’aspetta, laddove «il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,10), nella finitezza che non può «accoglierlo» (Gv 1,12) e infine nella morte, «e una morte di croce» (Fil 2,8). L’amore infinito può prendere figura nel finito non solo perché non teme «il carattere di povertà e umiltà dell’amore (Armut-und Demutsgestalt

1.  H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, cit., p. 137 (tr. mod.); ed. or., p. 83. 2. «Vollendende Form aller Vorformen» (ivi, p. 141; ed. or., p. 87). 3.  Ivi, p. 143; ed. or., p. 91.

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der Liebe)»4, ma perché in un certo senso lo esige: la finitezza fino alla morte, posto che sia intesa a partire dall’amore che si dona (non ne esistono altri tipi), costituisce la scena assolutamente privilegiata, se non inevitabile, per la manifestazione dell’infinità che caratterizza il dono senza riserve. Un amore che si abbandona nel finito non contraddice l’infinità del dono di cui è composto, al contrario la manifesta. Scompaiono così la contraddizione e l’impossibilità (filosofica e metafisica) della manifestazione dell’infinito nel finito, dell’incondizionato nel condizionato, dell’invisibile nel visibile, dal momento che nella figura del dono (infinito) fino all’abbandono (finito) – quantomeno quello realizzato da Cristo (e solo da lui) nella sua morte umana – si manifesta perfettamente la logica di Dio, senza restrizioni o condizioni, in una figura stabilita dell’amore che «soffia dove vuole» (Gv 3,8); proprio questo è ciò che manca a tutte le interpretazioni metafisiche della kenosi (infra, cap. 20). Solo allora può dispiegarsi una Rivelazione ricevuta come manifestazione conforme alla logica dell’amore, dove anche il mondo si dispiega in una luce nuova: «se però il creato viene guardato con gli occhi dell’amore, allora esso viene compreso, e ciò in contrasto con tutte le probabilità che sembrano accennare a un mondo senza amore. Esso viene compreso nella sua definitiva volontà di trovare e scoprire un perché (Worum-willen) definitivo: un perché non solo per quanto concerne la sua natura, […] ma per quanto concerne la sua esistenza in genere, per la quale, in caso contrario, nessuna filosofia può trovare una ragione sufficiente (zureichender Grund). E infatti, perché amare qualcosa piuttosto che nulla? (Warum in der Tat lieber etwas als nichts)»5. È evidente che qui, a giusto

4.  Ivi, p. 147: ed. or., p. 94. 5.  Ivi, p. 147 (tr. mod. ristabilendo lieber); ed. or., p. 94.

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titolo, Balthasar stia modificando i termini leibniziani, dal momento che ormai non si tratta più di rispondere alla questione «perché qualcosa e non piuttosto il nulla?» attribuendogli una causa, una ragione o un fondamento a partire dalla logica metafisica; né di ricondurla «dall’essenza e dalla verità della metafisica, fino alla verità dell’essere»6 (Heidegger). Si tratta piuttosto di intendere la questione propriamente erotica, che richiede di concepire ciò che si rivela partendo dal punto di vista della logica stessa dell’amore, «perché amare qualcosa piuttosto che niente?»7. Decostruire l’interpretazione epistemologica (quindi metafisica) della Rivelazione, fino a superarla per restituirne un concetto teo-logico, presuppone niente di meno che il passaggio da una logica a un’altra: dalla logica del concetto a quella della manifestazione, in cui l’amore si fenomenizza, poiché questa logica altra deve provenire esclusivamente da ciò che è rivelato dalla Rivelazione: l’amore. Come visto, la razionalità messa in campo dalla metafisica impone alle pretese della “scienza” teologica solo i limiti che impone alla sua stessa funzione epistemologica (supra, cap. 6) e questo argomento si rivolta subito, non appena si chiede con quale diritto la ragione (che legifera solo a titolo della sua finitezza di principio e, di conseguenza, si limita a conoscere solo oggetti) possa imporre i suoi limiti (norme della sola finitezza) a ciò che, per definizione, deve trasgredire la finitezza in virtù dell’infinito, e non può far altro. Non c’è alcun bisogno di ricorrere a Hegel per opporre alla “critica” l’istanza dell’infinito; è sufficiente dare

6.  M. Heidegger, Einleintung zu “Was ist Metaphysik?”, in Id., Wegmarken (GA 9), Klostermann, Frankfurt a.M. 2004; tr. it., Introduzione a «Che cos’è metafisica?», in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 317-334: p. 333 (tr. mod.). 7.  Su questo passaggio cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., §§ 2‑3, pp. 23-36.

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ascolto a Schleiermacher: «tutto ciò che è, è per essa [sc. la religione] necessario, e tutto ciò che può essere, è per essa una vera e irrinunciabile immagine dell’Infinito»8, ma rimane da capire questa «immagine dell’Infinito». Infatti, nonostante sia assolutamente necessario chiedersi se ciò che per la “ragione” (ovvero per noi mortali) appare impossibile, lo sia ancor di più per gli dèi (o per i loro luogotenenti, se ve ne sono), ai quali, tutti ne convengono, nulla è impossibile (supra, capp. 2 e 6-7), non basta evocare i diritti dell’impossibile per farsene un’“immagine”. È anche necessario conseguire la figura (Gestalt) in cui l’infinito e il finito si incontrano come l’impossibile che trafigge il possibile; bisogna cioè entrare nella logica dell’amore, la sola in grado di spiegare e rivelare tale figura e la sua tenuta. Si può realmente compiere un simile passaggio? È possibile sottrarsi alla grammatica comune della nostra istintiva metafisica? Non sarebbe meglio restare in silenzio di fronte a ciò che non si può dire né pensare? Non bisognerebbe forse constatare che c’è un conflitto tra le logiche, un’incompatibilità tra la supposta unica razionalità a noi accessibile e ciò di cui si tratta in ultima istanza, cioè la figura dell’amore? Detto altrimenti, non ci si dovrebbe attenere all’ipotesi di Ludwig Wittgenstein: «se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia che lo riguarda è falsa – wenn das Christentum die Wahrheit ist, dann ist alle Philosophie darüber falsch»9? A meno che non convenga rovesciare il rapporto tra i termini: anziché giudicare la Rivelazione a partire da ciò che la filosofia le consente quanto a razionalità, bisognerebbe piuttosto dare una valutazione della filosofia a partire da quanto consente (o quantomeno quanto non impedisce) di conce-

8.  F.D.E. Schleiermacher, op. cit., p. 223. 9.  L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen. Werkausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 19844; tr. it., Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1988, p. 155.

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pire della Rivelazione. Schelling non chiedeva altro quando, per rendere possibile almeno una filosofia della Rivelazione, rivolse la filosofia negativa in filosofia positiva: «anche per il Cristianesimo non si deve chiedere: “come devo interpretarlo per porlo in armonia con una filosofia?”, ma, viceversa: “di quale tipo deve essere la filosofia, perché possa accogliere in sé e comprendere (an sich aufnehmen und begreifen) anche il Cristianesimo?”»10.

Che cosa comprende il concetto A questo punto viene alla luce la questione soggiacente dall’inizio della ricerca: a cosa corrisponde ciò che si tratterebbe di oltrepassare per pensare la Rivelazione secondo la sua fenomenicità propria? Che cosa si intende con “comprendere per concetto”? Che cosa permette e che cosa impedisce di pensare la logica del concetto? Di fatto, l’espressione è ridondante, perché letteralmente i due termini sono uno solo: il comprendere implica il prendere (greifen, capere) e arriva alla presa di ciò che viene così concepito e tenuto (Begriff, conceptus). Certo, non ogni pensiero giunge al concetto, perché non tutti i pensieri ambiscono a un’impresa sulla cosa compresa, ma nella concezione del concetto la comprensione si impadronisce di ciò che pensa e solo il pensiero per concetto comprende per impresa. Questa impresa, del resto, si realizza in due momenti, distinti ma inseparabili.

10.  «Auch bei dem Christentum soll man nicht fragen, wie habe ich zu denken, um es mit irgend einer Philosophie in Übereinstimmung zu setzen, sondern umgekehrt, von welcher Art muß die Philosophie sein, um auch das Christentum in sich aufnehmen und begreifen zu können» (F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione XXV, p. 935).

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In un primo tempo il concetto procede eliminando l’impensabile, inteso secondo l’accezione ristretta di ciò che è dubbio. Ora, questa assimilazione della verità al sapere e del sapere alla certezza non ha nulla di banale. Conoscere, infatti, implica pensare ciò che si sa già, ma consiste anche nel considerare ciò che non si sa ancora, ma che si intuisce che appartiene ancora a ciò che si conosce già, in breve: conoscere consiste nell’affrontare anche ciò che si dovrebbe conoscere ma che propriamente non si conosce. Per il pensiero antico la conseguenza fu che nessuna conoscenza che comporti la hulê – ciò che è materiale materico, tale da continuare a modificarsi – potesse passare da una forma all’altra (trasformarsi), in breve di “giocare” (come quando il legno, a causa di tempo, aria e acqua, si muove rispetto all’aggiustamento dato dal falegname) conseguendo una scienza certa, immutabile e definitiva. Donde la sostanziale imperfezione, a parere dei Greci (e dei Latini) circa la conoscenza della natura del mondo: dell’ente naturale non si può, naturalmente, avere un concetto; a meno di tentare – questa fu la rivoluzione epistemologica della modernità (cartesiana) – la dematerializzazione delle cose, ammettere come conosciuto solo ciò di cui la mente conoscente può possedere una certezza invariabile, ovvero tener conto e ritenere della cosa solo ciò che non vi “gioca”, quindi eliminare ogni variazione incontrollabile e astrarre quanto più possibile dalla sua materia – dematerializzarla. Il concetto è dunque la riduzione della cosa all’insieme delle forme calcolabili, cioè precise e delimitate, permanenti e prevedibili, ripetibili e riproducibili. Ciò che viene denominato approssimativamente come matematizzazione del mondo non offre altro che tattiche per questa astrazione; se ne potrebbero trovare altre, non direttamente matematiche, raggruppate da Descartes a titolo di Mathesis universalis. La contemporanea dematerializzazione dei dati operata dall’informatica delle reti ne è l’esempio più recente: beninteso, non si sopprime qualsiasi supporto mate-

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riale (restano schermo, tastiera, connessioni, centri di stoccaggio dei dati, ecc.), ma propriamente si tratta solo di supporti interconnessi, interscambiabili, indifferenti, di cui nessuno determina la forma preferibile e durevole dei materiali; niente informa più del materiale perché attraverso di loro la forma passa indifferente e indifferenziata, a titolo di pura informazione (codificata, decodificata, ricodificata senza fine) senza mai informare una cosa. Così dematerializzata diventa sempre più un puro oggetto di pensiero. In generale, il concetto dematerializza la cosa per conservare solo ciò che il pensiero può mettersi e tenersi a disposizione, donde la possibilità di poterla produrre in ogni momento e quasi integralmente, cioè riprodurla senza resistenza della materia. L’oggetto così compreso riproduce la cosa e la produce quasi in quanto tale (an sich)11. In un secondo tempo ne consegue il fatto che il concetto autorizza, o piuttosto tende, all’appropriazione: dal momento in cui penso un oggetto, quale che sia, ciò che esso finisce per essere (propriamente una cosa relegata alla certezza presa in sé) è perlopiù determinato da una parte all’altra dalla modalità della mia presa (di concezione) piuttosto che dalla sua propria essenza, che in realtà è ridotta e messa tra parentesi, dal momento che, secondo Descartes «le singole cose devono essere considerate, in ordine alla nostra conoscenza, diversamente che se di esse parliamo in quanto veramente esistenti (aliter spectandas esse res singulares in ordine ad nostram cognitionem, quam si

11.  Su questa analisi (e sulla riserva che pesa su questa quasi-dematerializzazione), cfr. J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes. Science cartésienne et savoir aristotélicien, Vrin, Paris 1975 (20174), §§ 4, 5 e 22; Id., Certezze negative, cit., cap. V, pp. 217-319 e Id., Le réalisme réel: l’objet ou la chose, in E. Alloa - E. Düring (éds.), op. cit., pp. 79-100. Potrebbe darsi che la dematerializzazione del mondo (natura materiale) risponda, all’altra estremità dello spettro, alla critica della Rivelazione tramite l’unica impresa di concettualizzazione sviluppata dalla metafisica.

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de iisdem loquamur prout revera existunt)»12. Esistendo solo in quanto ridotto al pensiero e tramite il pensiero, in modo radicale l’oggetto si definisce allora seguendo il pensiero, come un pensabile della cogitatio. In modo tanto strano quanto logico, l’ontologia della metafisica non definirà l’ente come una sostanza, né come un qualche cosa (aliquid, tode ti), ma come un puro e semplice pensabile – ens ut intelligibile, ut cogitabile13. Non solo la mia cogitatio può cogliere solo oggetti, ma ogni oggetto si riduce a ciò che ne produce la mia cogitatio, in modo tale da appropriarsene. Per dirlo in altro modo: il pensiero di me (“io penso”) “accompagna” (Kant)14 già ogni altro pensiero, cioè ogni cogitabile, ogni oggetto possibile. Si può pertanto approvare la formula (che però non è cartesiana) elaborata da Heidegger per presentare l’ego cogito di Descartes: cogito me cogitare rem, a patto di non intendervi la riflessione o il raddoppiamento del pensiero tramite se stesso (cosa da Descartes 12.  R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii; tr. it., Regole per la direzione dell’ingegno, in Id., Opere postume 1650-2009, Bompiani, Milano 2009, pp. 683-816: XII, p. 757. Si tratta già, letteralmente, di ciò che Kant denominerà «la distinzione tra le cose come oggetti dell’esperienza (als Gegenstände der Erfahrung) e le medesime come cose in se stesse (von ebendenselben, als Dingen in sich) – distinzione, questa, che è divenuta necessaria per mezzo della nostra critica» (I. Kant, Critica della ragion pura, cit., B XXVII, p. 47). 13.  Cfr. J.-F. Courtine, Suarez et le système de la métaphysique, cit., in part. parte II, capp. 4-5, pp. 246-321, e parte IV, capp. 2-3, pp. 436-481; M. Devaux - M. Lamanna, The Rise and Early History of the Term Ontology (1606-1730), in C. Esposito (a cura di), Origini e sviluppi dell’ontologia. Secoli XVI-XXI («Quaestio», 9), Brepols-Pagina, Turnhout-Bari 2009, pp. 173-208: pp. 173 ss. 14.  I. Kant, Critica della ragion pura, cit., B 131‑2, p. 241 (cfr. pp. 1237 e 1289). Sulla parziale legittimità della riformulazione del cogito di Descartes fatta da Heidegger, cfr. la messa a punto in J.-L. Marion, Questions cartésiennes. Méthode et métaphysique, PUF, Paris 1991, cap. V, § 1, pp. 158 ss., e in Id., Questions cartésiennes II. Sur l’ego et sur Dieu, PUF, Paris 1996 (20022); tr. it., Questioni cartesiane sull’io e su Dio, Le Monnier-Mondadori, Firenze 2010, cap. I, § 3, pp. 8 ss.

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sempre rifiutata), ma il fatto che il pensabile si pensi sempre a condizione (trascendentale e a priori) del mio pensiero che lo produce e permette; lo si può qualificare come appropriazione. Nel concetto la coscienza di sapere si fonda certo sulla coscienza di sé, ma una coscienza di sé intesa come la coscienza certa in cui il sé regola l’oggetto (di conseguenza a propria volta certo). Per concetto non posso comprendere nulla se io non mi ci trovo già, prendente e comprendente. Per concetto ritrovo tutto, ma solo perché nella cosa trattengo ciò che mi è certo; non perdo nulla riducendola al suo oggetto perché solo questo oggetto ne raccoglie la certezza. Per concetto distillo la cosa nel suo spirito – l’oggetto e, ritrovandovi tutta la certezza possibile (per me), perdendo la cosa non perdo niente; io stesso, quindi, mi ci ritrovo trovando ciò che mi spetta. Detto altrimenti: con il concetto mi ci ritrovo sempre – mi comprendo. La conoscenza d’oggetto instaurata dalla metafisica e tramite cui la metafisica si realizza può quindi raggiungere solo fenomeni poveri e di diritto comune, non può raggiungere i fenomeni saturi, ancor meno i fenomeni di rivelazione (supra, cap. 2). Procedendo per dematerializzazione e appropriazione, essa impedisce e si impedisce tutto ciò che potrebbe advenire in e per sé, da altrove. Dunque ciò che si lascia indovinare a titolo, per ora ancora ambiguo, di Rivelazione.

Disvelare o scoprire La dematerializzazione della cosa e l’appropriazione dell’oggetto stabiliscono quindi la definizione moderna di verità – l’ambito dove non resta più nulla di nascosto, dove tutto è posto innanzi e messo a disposizione, dove l’io è servito: cogito me cogitare rem. Quali che siano le svolte che infine conducono alla sua figura nichilista, una tale definizione di verità resta fon-

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data sull’adaequatio rei et intellectus, ormai intesa come mettere in ordine e a disposizione, come ordinamento e messa a ragione. Questa definizione si identifica con la costituzione del sistema della metafisica, in cui le condizioni di possibilità della messa in evidenza certa sono formulate da Leibniz nel principio di contraddizione e nel principio di ragion sufficiente15. Questi principi, quasi fossero porte di bronzo, aprono e chiudono l’unico accesso alla proposizione vera, ormai oggetto di un possesso certo, quantomeno possibile. Non ci si deve stupire del fatto che qui evitiamo di confrontare i vari stadi della verità intesa come adaequatio, gli inizi con i Greci, i completamenti con i moderni, l’esempio ancora unico o quasi di Heidegger16. Tracciare nuovamente questa genealogia non soltanto va oltre ciò che possiamo foss’anche soltanto tratteggiare, ma qui non è neppure richiesto. Stiamo infatti seguendo un’altra questione, nella quale è sufficiente (è già molto) interrogare lo status contemporaneo del nichilismo terminale della metafisica, al fine di chiedersi se la metafisica porti a compimento il suo modo di verità secondo un dis-velamento (alêtheia) senza resto – che gli certifica la messa in evidenza dell’ente come 15.  G.W. Leibniz, Monadologie; tr. it., Monadologia, Bompiani, Milano 2001, §§ 31-32, p. 73. 16.  Oltre alle varianti dei diversi approcci all’alêthia, a partire da prima di Sein und Zeit fino a Zeit und Sein, oltre alla complessità dello statuto differente successivamente assegnato all’«oblio (lêthê)», la principale difficoltà nell’appoggiarsi a Heidegger su questo punto risiede forse nella brutalità della sua negazione di ogni equivalente teologico e cristiano della «verità» stessa. Il suo commento di Gv 14,6, dove la formula «egô eimi hê hodos kai hê alêtheia kai hê zôhê» viene squalificata senza discutere, innanzitutto perché «di greco è rimasta ormai soltanto la lettera», ma, peggio ancora, perché derivante dal latino veritas, a propria volta «una parola non tedesca, ein undeutsches Wort» (M. Heidegger, Parmenides [GA 54], Klostermann, Frankfurt a.M. 1982; tr. it., Parmenide, Adelphi, Milano 1999, pp. 103-104). Su questi aspetti cfr. D. Franck, Le Nom et la chose. Langue et vérité chez Heidegger, Vrin, Paris 2017, in part. parte I, cap. 1, pp. 33-40.

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oggetto, la teo-logia giudeo-cristiana non assume forse un altro modo di messa in luce – confrontabile ma differente, quello della s-coperta (apokalupsis)? Seguendo una nota di san Girolamo, che sottolinea che «questo termine di apocalisse, ovvero revelatio, appartiene alle Scritture e non è usato da nessuno dei saggi del mondo greco»17, per precauzione sceglieremo di definire tale s-coperta per contrasto con il dis-velamento, per poter forse arrivare, poco a poco, a fare uno schizzo teo-logico di ciò che il Cusano denominava «senza veli, una visione che è irrivelabile, visio revelata irrevelabilis»18. Ancora una volta, è necessario precisare che la s-coperta di cui siamo in cerca per far emergere il concetto di Rivelazione, non corrisponde (supra, capp. 5-6) a ciò che dalla metafisica fu imposto, diminuito e ignorato sotto il titolo di “rivelazione”. Al contrario, chiediamo se e in che modo lo s-coprimento – il rinnovamento operato dalla Rivelazione, possa non inscriversi più (anche a titolo di coronamento estremo e di variazione ultima) all’interno dello stesso dispositivo di ciò che, nella “ragione” della metafisica (anche quella ripresa dalla dialettica speculativa), arriva alla messa in evidenza e alla presa di possesso di un enunciato svelato senza resto tramite concet-

17.  «Verbum quoque ipsum apokalupsêos, id est revelationis proprie Scripturarum est et a nullo sapientium saeculi apud Graecos usurpatum […]: sonare, cum quid tectum et velatum, ablato desuper operimento, ostenditur et profertur in lucem» (Girolamo, In epistulam ad Galatas, Brepols, Turnhout 2006, I, 1, 12, p. 26). Per questa illuminante opposizione siamo debitori a J. Vioulac, Apocalypse de la vérité, Ad Solem, Paris 2014, in part. cap. IV, pp. 109-126. Questo tentativo, notevole sotto ogni aspetto, tuttavia non rimuove alcune ambiguità, che qui non cercheremo di togliere: il modello dell’alêtheia corrisponde veramente alla filosofia greca, alla metaphysica moderna e alla sua ripresa (parziale) nella fenomenologia da parte di Heidegger? Reciprocamente: il termine e l’utilizzo biblico di apokalupsis permettono di farne immediatamente il supporto per un concetto propriamente teo-logico di Rivelazione? 18.  N. Cusano, Trattato sulla visione di Dio, cit., XVII, 79, p. 1111.

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to. Ci chiediamo: in quale modo ciò che la Rivelazione (quale che sia) s-copre deve andare oltre il limite del campo in cui la ragione dis-vela la sua verità? O ancora: dal momento che la ragione disvela la verità (alêtheia), essa procede secondo le stesse operazioni della Rivelazione (apokalupsis), visto che scopre ciò che dà a conoscere? Evidentemente, questa questione non poteva essere formulata finché sembrava andare da sé l’interpretazione epistemologica della Rivelazione (supra, capp. 3‑4); questa decisione discutibile ha mascherato l’originalità e la difficoltà dello scoprimento operato dalla Rivelazione, assimilata senza precauzioni a ciò che la verità (filosofica) opera quando disvela; lo schermo della sua interpretazione epistemologica e la propositio sufficiens offuscherebbe il carattere proprio alla Rivelazione come apokalupsis, a sua volta mancato e mascherato dall’evidenza della verità come alêtheia. Infatti, poiché il concetto diffuso (e indeterminato) di “rivelazione” risulta da una recente polemica tra teologi e metafisici, ne segue che ciò contro cui la “rivelazione” dei primi si è poi ricostruita resta definito dagli ultimi; l’antagonismo complice tra “rivelazione” e “ragione” ha chiuso ogni accesso alla determinazione propria dell’apokalupsis, o, al più, l’ha lasciata radicalmente indeterminata, prigioniera di una polemica insensata. A questa “rivelazione” perduta rimaneva solo di tentare di giustificarsi ergendosi, più male che bene, a credenza fondata nella ragione, quindi enunciando anch’essa proposizioni verificate, conformi alla definizione metafisica della verità. In tal modo, solo la teologia credeva di essere autorizzata a suscitare l’assenso dell’intelletto e ricevere la conferma della volontà, secondo la formula di Descartes: «da una grande luce nell’intelletto segue una grande propensione nella volontà, ex magna luce in intellectu magna consequuta est propensio in voluntate»19. 19.  R. Descartes, Meditazioni, cit., Quarta meditazione, p. 75 (tr. mod.). Non è possibile obiettare che qui si tratti di una determinazione molto parti-

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Ora, rispetto alla logica del disvelamento (secondo l’alêtheia e il suo destino metafisico), per concepire rigorosamente lo scoprimento della Rivelazione in quanto apokalupsis, c’è anche un’altra logica, parimenti pensabile; questa altra logica non solo differisce da quella del disvelamento, ma propriamente ne rovescia i termini. Anche se all’apparenza è marginale, la sua tradizione affiora regolarmente in molti testi e con coerenza perfetta; anche in Guglielmo di Saint-Thierry si trovano i due termini usati da Descartes, ma secondo un ordine rovesciato: «non tam ratio voluntatem, quam voluntas trahere videtur rationem ad fidem – non è tanto la ragione che smuove la volontà [sc. verso l’evidenza], quanto piuttosto la volontà che guida la ragione verso la fede»20. colare della verità, in quanto la proposizione vera è sottomessa alla sanzione della volontà, mentre è possibile sostenere l’autoaffermazione dell’evidenza senza cedere al “volontarismo” (tra le varie, si tratta delle obiezioni poste da Spinoza e Leibniz). È possibile innanzitutto perché fondare la verità direttamente sull’evidenza non fa che radicalizzare – più ancora rispetto al ricorso alla sanzione della volontà – la messa in evidenza di ciò che così viene disvelato, inoltre perché i dibattiti contemporanei sulla credenza (enunciata per proposizioni e in seguito fondata su ragioni e argomenti) confermerebbero piuttosto l’approccio cartesiano. 20.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei; tr. it., Lo specchio della fede, in Id., Opere, vol. I, cit., pp. 61-118: § 25, p. 81. Come descritto da Gregorio Magno: «inoltre si tenga presente che spesso l’amore stimola le anime pigre al lavoro e il timore tiene a freno le anime inquiete nella contemplazione. […] Perciò è necessario che chi intende dedicarsi alla contemplazione, prima interroghi seriamente se stesso per sapere quanto è grande il suo amore. Poiché la forza dell’amore è come una gru, che ci tira fuori dal mondo e ci solleva in alto. Prima si domandi se cercando le cose supreme le ama, se amando teme, se amando sa comprendere le cose che non conosce o almeno venerare col timore quello che non arriva a comprendere. E infatti se nella contemplazione l’amore non stimola l’anima, il torpore della sua tiepidezza la oscura; se il timore non la contiene, il sentimento la solleva per mezzo di cose vane fino alla nebbia dell’errore – Sed inter haec, sciendum est quia saepe et pigras mentes amor ad opus excitat, et inquietas in contemplatione timor refrenat […]. Unde necesse est quisquis ad contemplationis studia

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Un rovesciamento pascaliano Confermiamo innanzitutto che questa logica della conoscenza in cui la volontà (all’occorrenza l’amore) determina l’intelletto si oppone alla logica comune della conoscenza (per l’occasione cartesiana). Pascal, attento lettore di Descartes e, almeno per via indiretta, conoscitore dei Padri, ha tematizzato con precisione il loro antagonismo: «e da ciò deriva che, mentre si dice, parlando di cose umane, che bisogna conoscerle prima di amarle, il che è diventato proverbiale, i santi, invece, parlando delle cose divine, dicono che bisogna amarle per conoscerle e che si perviene alla verità solo mediante la carità, del che essi hanno fatto una delle loro più utili sentenze»21. Infatti,

properat, semetipsum prius subtiliter interrogat quantum amat. Machina quippe mentis est vis amoris, quae dum a mundo extrahit, in alta sustellit. Prius ergo discutiat, si summa inquirens diligit, si novit incognita et amando comprehendere, aut non comprehensa timendo venerari. In contemplatione etenim mentem si amor non excitat, teporis sui torpor obscurat» (Gregorio Magno, Moralia in Job; tr. it., Commento morale a Giobbe/1, Città Nuova, Roma 1992, parte seconda, VI, 37, 58, pp. 533-535). 21.  B. Pascal, De l’art de persuader; tr. it., L’arte di persuadere, in Id., Opere complete, cit., pp. 1615-1620: p. 1615 (abbiamo commentato questa tesi in J.-L. Marion, Il prisma metafisico di Descartes, cit., § 25, pp. 338 ss. e Id., Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., cap. III, § 21, pp. 173 ss., al quale rinviamo per l’intero orizzonte agostiniano di questo rovesciamento). Questo testo capitale è citato anche da M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 29, p. 172, commentato solo da una sottolineatura posteriore: «Scheler è stato il primo a spiegare, soprattutto nel saggio Amore e conoscenza, che i rapporti intenzionali sono totalmente diversi, e che, per esempio, amore e odio fondano persino il conoscere; egli riprende qui motivi di Pascal e Agostino» (M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik [GA 26], Klostermann, Frankfurt a.M 1978; tr. it., Princìpi metafisici della logica, il melangolo, Genova 1990, § 9, p. 160). Si può anche rinviare a una formula chiara: «l’amore è quindi l’essenza dell’“intenzionale” dell’essere che si estende al di là di lui stesso» (M. Scheler, Liebe [1926], in Id., Schriften aus dem Nachlaß, Bd. II, Erkenntnislehre und Metaphysik, Gesammelte Werke, Bd. XI, Francke Verlag, Bern 1979, pp. 242-244: p. 243). Per un commento di questo riferimento

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Pascal (e forse Guglielmo di Saint-Thierry) sta commentando una formula significativa di sant’Agostino, che bisogna leggere nel suo intero contesto: «probamus etiam ipsum [sc. Spiritum Sanctum] inducere in omnem veritatem, quia non intratur in veritatem, nisi per charitatem: “Charitas autem Dei diffusa est”, ait apostolus, “in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis” (Rm 5,5) – proviamo anche che egli stesso introduce alla verità intera, poiché non si entra nella verità se non attraverso l’amore: “L’amore di Dio”, dice l’Apostolo, “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5)»22. Detto altrimenti: di fatto e di diritto – la verità rivelata si scopre solo perché vi siamo condotti dallo Spirito Santo effuso nei nostri cuori (secondo Paolo), la condizione di possibilità della s-coperta non viene più assicurata dall’ego stesso, seguendo le condizioni di possibilità dell’esperienza di oggetti finiti (vale a dire la “critica”, i princìpi della metafisica, l’idea chiara e distinta, l’evidenza certa); questa possibilità gli viene da altrove secondo la carità, che ormai ha il ruolo di una condizione prima (e nuova) per conoscere ciò che resta ancora inaccessibile e impossibile (o impensabile) per la ragione finita, a meno che non lo si ammetta come impossibile. In entrambi i casi si tratta di conoscere delle «cose» (umane o divine), ma le condizioni di conoscenza divergono: o l’ego finito ridefinisce la cosa a propria misura (secondo le sue condizioni), per costituirla come oggetto, allora l’iniziale lumen nell’intelletto (la proposizione) viene in seguito validata (oppure no) dalla volontà; oppure il contrario, per cui heideggeriano a Pascal ci si può affidare a J.-Y. Lacoste, Existence et amour de Dieu. Sur une note d’Être et temps, in Id., La Phénoménalité de Dieu. Neuf études, Cerf, Paris 2008, pp. 111-132. 22. Agostino, Contra Faustum; tr. it., Contro Fausto manicheo, Opere, vol. XIV/2, Città Nuova, Roma 2004, XXXII, 18, p. 721. Si segnala che l’inducere di sant’Agostino si ritrova nell’entrare di Pascal e nel trahere di Guglielmo di Saint-Thierry.

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l’ego – del quale l’intelletto resta finito, ma, per ciò stesso, inscritto nell’orizzonte dell’infinito23 (come prova la sua volontà che non limita nulla)24 – comincia per volere (oppure no), per amare (oppure no), ciò che può eventualmente andare oltre il suo intelletto, al fine poi di concepire (oppure no), alla luce della volontà infinita, ciò che non può neppure tentare di costituire come oggetto, perché gli appare da altrove. Qui si oppongono quindi due logiche e due determinazioni della conoscenza: o conoscere secondo la misura dell’ego, dunque della finitezza dell’intelletto che ridefinisce la cosa come un oggetto; oppure conoscere secondo la misura della cosa che si dà, senza alcun riguardo per la finitezza dell’intelletto, che allora si manifesta come fenomeno saturo. L’antagonismo tra queste due logiche si definisce chiaramente considerando la situazione del centro di gravità dell’atto della conoscenza. Non si tratta quindi di una contraddizione che non offrirebbe altra scappatoia oltre l’assurdità o la scommessa (come si conclude la maggior parte delle volte, con un controsenso duro a morire, che attesta a contrario quanto sia rigoroso l’antagonismo tra le due logiche). Si tratta invece di una distinzione razionale tra i due usi della ragione, quello secondo lo scopo ricercato (la cer-

23.  Secondo l’argomentazione di Descartes, «priorem quodammodo in me esse perceptionem infiniti quam finiti, hoc est Dei quam mei ipsius – in me, la percezione dell’infinito viene prima di quella del finito, ossia quella di Dio prima di quella di me stesso» (R. Descartes, Meditazioni, cit., Terza meditazione, p. 741). 24.  Secondo un altro argomento di Descartes: «sola est voluntas, sive arbitrii libertas, quam tantam in me experior, ut nullius majoris ideam apprehendam; adeo ut illa praecipua sit, ratione cujus imaginem quandam et similitudinem Dei me referre intelligo – c’è solo la volontà, ossia la libertà dell’arbitrio, che sperimento in me tanto grande da non poter apprendere l’idea di nessuna altra più grande; così che è soprattutto attraverso di essa che intendo di portare in me una certa immagine e somiglianza di Dio» (ivi, Quarta meditazione, p. 757).

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tezza d’oggetto o la fenomenicità da altrove) e quello secondo la gerarchia dei modi di pensiero (primato dell’intelletto o primato della volontà, quindi dell’amore). Pascal ha tematizzato questo dispositivo critico tramite la dottrina dei tre ordini, del corpo, della mente e della carità: così come il mondo dei corpi obbedisce alla logica del visibile sensibile e del mondo, quello delle menti (i sapienti, i filosofi, in questo caso Descartes) fonda l’evidenza matematica e gli enti mondani sull’ego cogito (e non il contrario, come immaginato con ostinazione dall’evidenza del primo ordine), allo stesso modo i santi, che vivono e vedono tutto secondo la logica della carità, rovesciano la gerarchia dei due primi ordini, ordinando tutto a partire da ciò che fanno apparire alla pallida luce dell’amore. La distinzione degli ordini non abolisce la logica, ma la complica moltiplicandola.

La sentenza dei santi Ancora senza procedere nell’elaborazione teorica del confronto tra, da una parte, «un proverbio» (conoscere per amare) e, dall’altra, una delle «più utili sentenze» (amare per conoscere) (infra, cap. 10), tentiamo di confermare la ricorsività storica che Pascal le accredita. Infatti, l’abbondanza delle testimonianze assicura un’opposizione ben radicata. Attenendosi ai Latini si può risalire almeno fino a sant’Agostino: «alia sunt enim quae nisi intelligamus, non credimus; et alia sunt quae nisi credamus, non intellegimus – ci sono in effetti delle cose che, se non le si comprende, non le si crede; come ce ne sono altre che, se non le si crede, non le si comprende»25.

25.  Agostino, Enarratio in Psalmum CXVIII; tr. it., Esposizione sul salmo 118, in Id., Esposizioni sui salmi, Opere, vol. XXVII/2, Città Nuova, Roma 1993, 118, 18, 3, p. 1273.

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Questa dicotomia può precisarsi in una triplice specificazione: «credibilium tria sunt genera. Alia sunt quae semper credantur et nunquam intelliguntur: sicut est omnis historia […]. Alia quae mox, ut creduntur, intelliguntur, sicut omnes rationes humanae […]. Tertium, quae primo creduntur et postea intelliguntur, qualia sunt ea, quae de divinis rebus non possunt intelligi, nisi ab his qui mundo sunt corde – tre sono i generi delle cose credibili. Alcune si credono sempre senza comprenderle mai: tale è la storia intera che passa in rassegna gli eventi temporali e umani. Altre si comprendono subito appena si credono: tali sono tutti i ragionamenti umani sui numeri e le altre discipline. Altre invece prima sono credute e poi capite: tali sono quelle riguardanti le cose divine che sono comprese solo dai puri di cuore»26. Questa complicazione ha il merito di sottolineare senza ambiguità che non si tratta di opporre il credere ignorante al sapere puro e semplice (come per Platone, Aristotele o Spinoza e la maggior parte dei filosofi), ma di oltrepassare questa aporia tramite una terza via: rischiarare e aprire l’intelletto tramite la decisione della volontà, in breve: credere per capire, crederlo per vederlo. Questa linea passa anche per Gilberto Porretano, che sottolinea chiaramente il rovesciamento: «nelle altre facoltà, dove si adatta sempre la generalità e la necessità alla regola abituale, non è la ragione a seguire la fede, ma la fede a seguire la ragione […]. Al contrario, nell’ambito teologico, nel quale è necessaria la denominazione vera e assoluta, non è la ragione a precedere la fede, ma la fede a precedere la ragione. In questo caso non crediamo conoscendo, ma conosciamo credendo. Infatti, la fede concepisce senza i princìpi di ragione non solo le cose che le ragioni umane non sono sufficienti a far comprendere, ma anche quelle per le quali queste stesse cose possono ser-

26. Agostino, De diversis quaestionibus LXXXIII; tr. it., Questioni diverse, in Id., La vera religione, Opere, vol. VI/2, Città Nuova, Roma 1995, 48, p. 89.

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vire come principi»27. La fede non si trova più nella situazione di dover scegliere tra il rifiuto fino all’assurdo degli argomenti di semplice ragione o la sottomissione automatica, ma talvolta può anche provocarli e suscitarli, ammettendo innanzitutto nuovi dati di esperienza o nuovi princìpi di ragionamento. Non si tratta soltanto di rovesciare il dispositivo filosofico comune – «doctrina Aristotelis est de his de quibus ratio facit fidem, sed Christi doctrina de his quorum fides facit rationem – la dottrina di Aristotele riguarda le cose in cui è la ragione a produrre la fede, ma la dottrina di Cristo riguarda quelle in cui la fede produce la ragione»28 –, ma di concepire che la razionalità e l’intelligenza aumentano in proporzione diretta alla decisione volontaria e della fede: «inquantum [sc. Deus] creditur, in tantum cognoscitur – nella misura in cui [Dio] è creduto, altrettanto egli è conosciuto»; o ancora, «fides enim qua creditur est tamen animarum, quo quanto quis magis illustratur, tanto magis est perspicax ad inveniendas rationes, quibus probentur credenda – perché la fede tramite la quale si crede è la luce delle anime, in modo tale che più un’anima è illuminata, più è perspicace a trovare delle ragioni che provino che è necessario credere»29. La compensa27.  «In caeteris facultatibus, in quibus semper consuetudini regulae generalitas et necessitas accomodatur, non ratio fidem, sed fides sequitur rationem […]. In theologicis autem, ubi est veri nominis atque absoluta necessitas, non ratio fidem, sed fides praevenit rationem. In his enim non cognoscentes credimus, sed credentes cognoscimus. Nam absque rationum principiis fides concipit non modo illa, quibus intelligendis humanae rationes suppeditare non possunt, verum etiam illa quibus ipsae possunt esse principia» (Gilberto Porretano, In Boethii de praedicatione trium personarum, PL 64, II, 1, n. 9, col. 1303); cfr. N.M. Haring (ed.), The Commentaries on Boethius by Gilbertus of Poitiers, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1966, p. 164. 28.  Simone de Tournai, Expositio in Symbolum “Quicumque”, BN 14886, folio 73a (citato da M.-D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., p. 54, nota 4). 29.  Rispettivamente Guglielmo di Saint-Thierry, Aenigma Fidei, cit., § 41, p. 151 (tr. mod.), e Alessandro di Hales, che per esteso afferma: «eleganter

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zione dell’ignoranza tramite l’atto di credere (descritto dalla filosofia) si rovescia in provocazione dell’intelligenza tramite la fede (che apre alla teologia).

Conoscere l’amore amando La migliore esposizione di questa logica “altra” si trova innanzitutto in Guglielmo di Saint-Thierry, che la formula in termini agostiniani, spingendoli alla loro ultima conseguenza: «nelle cose umane, infatti, la ragione umana [per prima] si costruisce la fede; in quelle divine, invece, la fede avanza per prima, ed è poi lei stessa a costituirsi una ragione che le sia congeniale. Come la realtà esiste, così la ragione – quando è veramente retta – aspira alla fede circa tale esistenza e, necessariamente, adatta a [questa] fede la forma dell’espressione – in rebus enim humanis humana ratio parat sibi fidem; in divinis vero procedit fides, deinde ipsa sui generis format sibi rationem. Sicut enim res est, sic de ea fidem captare et locutionis formam fidei coaptandam esse, rectissima ratio est»30. Qui l’inversione d’ordine tra la fede (quindi la volontà) e la ragione (quindi l’intelletto) si approfondisce conformando la ragione a ciò che essa mira e che le diventa accessibile solo tramite la fede; la fede non si sostituisce alla ragione, ma la riforma e la

quidam respondendo dixerunt quod aliter se habet ratio in logicis ad fidem, aliter in theologicis. In logicis enim ratio causat fidem: unde argumentum est ratio rei dubiae faciens fidem. In theologicis vero est e converso, quia fides causat rationem: unde fides est argumentum faciens rationem; fides enim qua creditur est lumen animarum, quo quanto quis magis illustrat, tanto magis est perspicax ad inveniendas rationes quibus probentur credenda» (Alessandro di Hales, Summa theologica, Quaracchi, Firenze 1924, I tract., intr., q. 2, m. 3, c. 3, p. 35, nota 23). 30.  Guglielmo di Saint-Thierry, Aenigma Fidei, cit., § 47, p. 155 (tr. mod.).

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riformula dal momento che il previo intervento della fede non corrisponde a un semplice preambolo metodologico come nel caso in cui, per esempio per Descartes, la riconduzione del dato sperimentato a ciò che ne formalizza l’ordo et mensura rende la cosa un oggetto e un oggetto potenzialmente certo che la mathesis universalis potrà poi includere nel suo sistema. Al contrario, credendo, la fede crede nell’amore (divino) e, per credervi, deve già amarlo; la fede inizia subito ad amare e subito sperimenta l’amore, proprio perché l’amore si conosce solo praticandolo, amandolo a propria volta. L’atto di fede consiste quindi e senza ritardo a immediatamente «capirlo amandolo, e amarlo capendolo – amando intelligere et intelligendo amare»31; o, più esplicitamente: «conforma [alla fede] pure la vita e i comportamenti, affinché l’oggetto della fede non soltanto venga creduto ma altresì sperato e amato: per cui, amando, egli [il fedele] comprende [ciò che crede], e comprendendo ama. Così, infatti, lo spirito che si sia affidato a Dio merita lo Spirito Santo, la grazia merita la grazia, la fede merita l’intelligenza, il fervore della pietà e la comprensione dell’amore “che imprigiona ogni intelletto per sottometterlo al Cristo” (2Cor 10,5). Sarà in questo modo che – secondo ciò che è stato scritto: “se non crederete, non capirete” (cfr. Is 7,9) – colui che crede amando, meriterà di intendere quello che crede – vitam etiam moresque coaptans, ut quod creditur non solum credatur, sed et speretur et diligatur, et diligendo intelligatur et intelligendo diligatur. Sic enim creditus cum Deo, spiritus meretur Spiritum Sanctum, gratia gratiam, fides intellectum et affectum pietatis et intellectum amoris, “in captivitatem redigentem omnem intellectum in obsequium Christi”, ut secundum quod scriptum est, “nisi credideritis, non intelli-

31.  Guglielmo di Saint-Thierry, Supra Cantica Canticorum; tr. it., Commento al Cantico dei cantici, in Id., Opere, vol. IV, Città Nuova, Roma 2002, § 52, p. 84.

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getis”, qui credit amando, intelligere mereatur quod credit»32. Così la razionalità non viene abolita nell’amore, né sparisce davanti a esso; ma, assumendo la figura della fede che si mette a praticare, si conforma all’amore considerandolo in persona e accettandolo: «l’amore è sostenuto dalla ragione e la ragione a sua volta è illuminata dall’amore. […] la ragione produce l’amore e l’amore investe la ragione – amor ratione munitur, ratio vero ab amore illuminatur […]. Ratio efficit amorem, amor autem afficit rationem»33. Il punto essenziale si trova qui: la ragione, per quanto accetti ciò che propone la fede, sperimenta presto ciò che la fede realizza subito – amare; da quel momento essa accede a un ambito di indagine e di contemplazione radicalmente nuovo ma aperto all’intelligenza (pro32.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei, cit., § 16, p. 75 (tr. mod.). Si noterà che la citazione di Isaia riproduce la traduzione antica secondo la Settanta fatta da sant’Agostino; cfr. «infatti, nella misura in cui egli vede e comprende colui al quale porge l’offerta [sc. il sacrificio della sua preghiera], nella stessa misura questi gli è presente nel cuore, e l’amore stesso è per lui conoscenza (et ei amor ipse intellectus est)» (Guglielmo di Saint-Thierry, Epistula ad Fratres de Monte-Dei; tr. it., L’epistola aurea, in Id., Opere, vol. I, cit., pp. 195-286: § 173, p. 253). Quest’ultima formula potrebbe provenire da Gregorio Magno: «Dum enim audita supercaelestia amamus, amata jam novimus, quia amor ipse notitia – perché mentre amiamo ascoltare le cose celesti, sappiamo già di essere amati, perché l’amore stesso è conoscenza» (Gregorio Magno, Commentaire du psaume 138, PL 76, 17, cc. 1206‑1207); cfr. la discussione dei testi e delle interpretazioni di J.-M. Déchanet e P. Rousselot proposta da M.-M. Davy, Théologie et mystique de Guillaume de Saint-Thierry, I. La connaissance de Dieu, Vrin, Paris 1954, pp. 204 ss. 33.  Guglielmo di Saint-Thierry, Supra Cantica Canticorum, cit., § 112, p. 138; e anche «cum vero illustrantur a gratia, multum se adjuvant ad invicem, quia amor vivificat rationem, et ratio clarificat amorem, fitque columbinus intuitus, simplex ad contemplandum, prudens ad cavendum – perché [sc. questi due occhi] vengono illuminati dalla grazia si aiutano molto l’un l’altro perché l’amore vivifica la ragione e la ragione rischiara l’amore, così lo sguardo diventa come quello delle colombe: semplice nel contemplare, prudente nel fare attenzione» (ivi, § 76, pp. 104-105).

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prio ciò che viene chiamato intelligenza della fede) – l’amore. I due termini possono essere non solo accostati e incrociati, ma identificati: «infatti l’amore di Dio è l’intelligenza stessa di lui. Dio non si comprende se non si ama, e non lo si ama se non lo si comprende. In definitiva nella misura in cui comprendiamo Dio lo amiamo, e nella misura in cui lo amiamo lo possiamo comprendere – amor quippe Dei ipse intellectus est, qui non nisi amatus intelligitur, nec nisi intellectus amatur; et utique tantum intelligitur, quantum amatur, tantum amatur quantum intelligitur»34. In ultima istanza, non solo la ragione e la fede convergono tangenzialmente, al pari di intelletto e amore35, ma, secondo una tematica agostiniana di fondo, pensare equivale ad amare: «ma come pensare a Dio senza amarlo? Dio è il medesimo, perché pensare e amare questo sono: lo stesso – Quis cogitat et non amat? Nimirum Deus est, idipsum est, quod cogitare et amare idipsum est»36.

34.  Ivi, § 64, p. 95. Si veda anche «cognitio vero Sponsae ad Sponsum et amor idem est, quoniam in hac re amor ipse intellectus est – per lo Sposo la conoscenza e l’amore della sposa sono la stessa cosa perché in questo caso l’amore e l’intelligenza sono tutt’uno» (ivi, § 46, p. 80, sottolineature nostre) e ancora «cum retroacta ratione, amor pius ipse efficietur intellectus suus – con una ragione retroattiva, l’amore pio diventa lui stesso la sua intelligenza» (ivi, § 118, p. 144, modifichiamo la traduzione «quando la ragione rimane indietro», che è un controsenso). 35.  Guglielmo di Saint-Thierry parla così di «coalescenza» e di «transizione», per esempio in ivi, §§ 72 e 103, pp. 101 e 172. 36.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei, cit., § 73, p. 114, modifichiamo la punteggiatura del testo e quindi le traduzioni proposte («Dio è sempre lo stesso», che aggiunge un avverbio temporale, assente dal testo), per tenere conto del termine idipsum, che proviene da una quasi-invenzione di sant’Agostino, spesso mal compresa (su questo dibattito cfr. J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., cap. VII, §§ 44‑48, pp. 389‑414). Idipsum indica non soltanto una similitudine («la stessa cosa»), ma l’ipseità della cosa stessa («il medesimo»). Qui, dal momento che Dio costituisce la cosa stessa, amare e pensare si confondono in questa cosa stessa. Altra lettura

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Possiamo registrare questo primo risultato: di fronte alla logica del disvelamento, tale che in filosofia la verità la realizza come alêtheia, si può reperire un’altra logica, quella dello scoprimento, operata dalla Rivelazione come apokalupsis. Esse si distinguono radicalmente, a iniziare dall’ordine che al loro interno hanno la volontà e l’intelletto: in un caso, per accettare la verità bisogna già comprenderne la proposizione, nell’altro, per comprendere ciò di cui si tratta (l’amore o la carità) bisogna innanzitutto volerlo, volerlo bene, quindi alla fine amarlo. Per andare più avanti, bisogna passare da una razionalità puramente teoretica a una razionalità che sia anche pragmatica: la Rivelazione scopre e si scopre perché deve farsi e si conosce solo praticandosi. Qui non si tratta solo dell’uso pragmatico che la filosofia ha insegnato a riconoscere come una delle possibilità del linguaggio, ma di un’esigenza di ciò che la Rivelazione scopre: essa scopre l’amore, quindi la pratica dell’amore che si fa vedere e concepire solo se lo faccio io stesso, dal momento che l’amore si lascia conoscere solo da colui che lo pratica, lo mette in opera, ossia da colui che fa l’amore. Lo stesso e per antonomasia accade nel caso della Rivelazione, almeno se finalmente la si affronta come s-coprimento dell’amore. Per vedere l’amore bisogna crederlo. Credere assume qui una funzione precisa: indicare, o piuttosto portare a compimento ciò che la fede sa tramite una messa in pratica, in modo che non si tratti più soltanto di un sapere proposizionale e predicativo, privo di certezza e fondamento, ma di una conoscenza sperimentata in atto – la conoscenza dell’amore verificata nell’atto di amare. Tale atto d’amare, presupposto essenziale che precede la conoscenza dell’amore e la rende possibile, giustifica solo che si rovesci il principio

possibile: sopprimere il secondo “è” e leggere «nimirum Deus est idipsum, quod cogitare et amare idipsum est».

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«vedere per credere» nel paradosso «credere per vedere». Infatti mette in atto il carattere che, dall’inizio, ha consentito di riconoscere la rivelazione come un fenomeno che adviene da altrove (supra, capp. 1‑2). Colui che accetta di credere, innanzitutto si apre la possibilità che ciò che in questo modo sta per vedere gli advenga da altrove. Esponendosi all’altrove, rovescia la sua intenzionalità tramite un’anamorfosi; da ego autocentrato egli diventa testimone di ciò che vede senza poterlo mai ridurre al suo concetto. Si tratta ormai di descrivere con più precisione come l’altrove investa e riposizioni colui che crede per vedere.

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9 «Ista revelatio, ipsa est attractio»

Per quanto sommariamente, siamo riusciti a confermare la consistenza storica dell’altra logica, nella quale la volontà determina l’intelletto e in cui è necessario credere per vedere. Ormai rimane da riconoscere l’origine concettuale di questo rovesciamento dei termini, origine che potrà provenire solo da una fenomenologia propriamente teo-logica, che almeno di primo acchito può apparire soltanto impraticabile: «bisogna ricominciare in questo modo: comprendere Dio è difficile, ma parlare di lui è addirittura impossibile, come disse un filosofo greco parlando di Dio [sc. Platone] […]. Parlare di Dio è impossibile e comprenderlo è ancor più impossibile (noêsai dè adunatôteron)»1. Tale impossibilità tuttavia non deve scoraggiare, perché nel modo della conoscenza (si potrebbe dire epistemologicamente) essa segna la dimensione fenomenica dell’altrove nel quale si deve penetrare. Per percorrere l’anamorfosi che porta da una logica all’altra bisogna infatti passare attraverso l’esperienza di un altrove serio ed effettivo – è

1.  Gregorio Nazianzeno, citando Platone (Timeo, 28c) e senza esitare a forgiare un superlativo inusitato (Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, Città Nuova, Roma 1986, XXVIII, 4, p. 61 [SC 250, p. 108]).

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necessario che questo passaggio altrove ci accada proprio da altrove.

Non attraverso volontà A prima vista si potrebbe tentare di evitare un’anamorfosi di questo tipo: non sarebbe sufficiente, per approssimarsi a quest’altra logica, ribadire la priorità della volontà sull’intelletto nell’uso pratico della ragione? E a questa non basterebbe accogliere la postura kantiana, che definisce la volontà in generale come quella facoltà che può produrre non solo rappresentazioni, ma anche l’oggetto di quelle rappresentazioni: «la facoltà di desiderare è la sua [sc. di un ente] capacità di esser causa, mediante le rappresentazioni, della realtà degli oggetti di tali rappresentazioni»2? Detto altrimenti: anziché

2.  «Das Begehrungsvermögen ist das Vermögen desselben, durch seine Vorstellungen Ursache von der Wirklichkeit der Gegenstände dieser Vorstellungen zu sein» (I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft; tr. it., Critica della ragion pratica, Bompiani, Milano 2017, Ak.A. V, p. 15); definizione mantenuta e difesa anche più tardi: «si è biasimata la definizione della facoltà di desiderare come “facoltà di essere causa, mediante le proprie rappresentazioni, della realtà effettiva degli oggetti di queste rappresentazioni, della realtà effettiva degli oggetti di queste rappresentazioni”: dato che anche i semplici auspici sarebbero pur sempre desideri dei quali tuttavia ciascuno ammette di non poter produrre il loro oggetto solo desiderando. – Ma ciò non prova nient’altro che nell’uomo ci sono anche desideri per cui egli si trova in contraddizione con se stesso, dal momento che mira alla produzione dell’oggetto soltanto mediante la sua rappresentazione, dalla quale però non può aspettarsi alcun successo, consapevole del fatto che le sue forze meccaniche […] o non sono sufficienti oppure tendono a qualcosa di impossibile […]. Sebbene siamo consapevoli, in questi desideri fantastici, dell’insufficienza delle nostre rappresentazioni (o addirittura della loro inidoneità) a essere causa dei loro oggetti, tuttavia il riferimento di queste rappresentazioni, in quanto cause, e quindi la rappresentazione della loro causalità, è

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conformare le sue rappresentazioni a oggetti già conosciuti, la ragione conforma gli oggetti alle sue proprie rappresentazioni, così da renderle altrettanto effettive tramite la causalità che le è propria, ovvero attraverso la sua volontà. Questo uso corrisponde ancora a un’applicazione della ragione teorica nella pratica, perché o la volontà rende effettivi gli oggetti che già si rappresenta, oppure conforma le sue azioni secondo una legge (morale) che già pensa. Tra le facoltà intercorre quindi una distinzione, ma la loro gerarchia si rovescia e la volontà può determinare l’intelletto; secondo il rigore filosofico, questa situazione non sarebbe analoga al rovesciamento pascaliano, secondo il quale le «cose divine» devono essere amate per essere conosciute? Eppure non è questo il caso, le differenze permanenti tra le due dottrine si possono intuire: il primo scarto è evidente, il semplice fatto che la volontà (il potere di desiderare) si applichi direttamente all’effettività degli oggetti non è sufficiente perché la ragion pratica si sostituisca a quella teorica; la ragion pratica (la volontà) conosce solo ciò che è conosciuto dalla ragione teorica, anche se lo mette in azione; una massima particolare non diventa vera né più precisa per il solo fatto che una volontà individuale tenti di realizzarla; la stessa legge morale è conosciuta senza la volontà (per factum rationis) e la sua sempre imperfetta effettuazione tramite la volontà non vi aggiunge nulla. La semplice inversione dell’ordine delle facoltà in favore della volontà non consente un accrescimento della conoscenza. A ciò si aggiunge un secondo scarto: è evidente che qui non si tratta di rovesciare semplici impieghi della ragion pura, tantomeno di assegnare un potere di conoscere alla volontà; la ragione si riconosce una funzione pragmatica nella

contenuta in ogni auspicio» (I. Kant, Kritik der Urteilskraft; tr. it., Critica del Giudizio, Bompiani, Milano 2014, Introduzione III, 178, p. 25).

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volontà, ma questa pragmatica consente solo di agire secondo ragione, non di estendere il campo dell’intelletto. Il terzo scarto è ancora più importante perché, partendo dalla critica della ragione (pura) teorica, la conoscenza procede sempre a partire dalla mente conoscente, considerata polo assoluto (considerando l’a priori, l’appercezione trascendentale, le anticipazioni dell’esperienza, i postulati del pensiero empirico in generale, ecc.), in modo tale che all’ego non proviene nulla da altrove oltre al «molteplice dell’intuizione» che non si fenomenizza ancora da sé. Trattandosi della ragion pratica e del primato della volontà, quindi dell’ego come causa degli oggetti delle sue rappresentazioni, l’esclusione dell’altrove si raddoppia: in questo caso l’ego può anche rivendicare una completa autonomia perché niente di empirico lo determina più da altrove3. Il rovesciamento della gerarchia delle facoltà e il primato della volontà nell’uso pratico della ragione non solo non ristabiliscono l’apertura all’altrove ma ne raddoppiano la chiusura; è necessario quindi seguire un’altra via per concepire la «sentenza dei Padri». Quando si tratta delle «cose divine» la volontà (il potere di credere o d’amare) non solo consente e suscita una nuova conoscenza (nell’intelletto) ma, secondo Guglielmo di Saint-Thierry, «pensare a lui e amarlo, è lo stesso – cogitare et amare idipsum»4. Detto in altro modo: quando si tratta di conoscere l’amore, solo l’amore pensa in modo corretto; pertanto la distinzione tra ragione teorica e ragion pratica cade.

3.  Tuttavia, si potrebbe discutere la pertinenza di un’autonomia di tal fatta: la legge morale non adviene ancora da altrove? Altrimenti, come spiegare che imponga il «rispetto», che costringe, se non addirittura «umilia» la coscienza morale? Infatti, l’opposizione tra autonomia ed eteronomia resta imprecisa e infondata, tanto più che anche Heidegger ha dovuto rinunciarvi e che Lévinas l’ha invertita. 4.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei, cit., § 73, p. 114 (tr. mod.).

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L’interazione delle facoltà non è concepibile tramite la loro combinazione, anche se inedita, limitandosi a ridistribuirle secondo un’altra organizzazione rispetto a quella della teoria comune; essa si può concepire solo rapportandole al nuovo altrove che le convoca tutte. Questo nuovo altrove è situato nella Rivelazione perché essa si dischiude solo in esso.

Attrazione Nonostante sia spesso ricorso al concetto di revelatio5, si deve a sant’Agostino la riformulazione della questione e anche la chiara segnalazione del fatto che in noi l’altrove può provenire solo da un altrove radicale, ovvero che l’altrove non deve provenire da noi, ma da un altro, da colui che ci precede per definizione perché noi ne procediamo – il Padre. Un inizio di risposta potrebbe venire da una lettura più attenta di una delle rare formulazioni che riecheggia il paradosso cercato a titolo di Rivelazione: «ista revelatio, ipsa est attractio – questa rivelazione è essa stessa un’attrazione»6. Queste parole si pos-

5.  «Sant’Agostino non ha trattato più degli altri Padri l’idea di rivelazione ex professo», nota R. Latourelle, op. cit., p. 153. Come intendere dunque che «indubbiamente il tema della rivelazione è in primo piano nella coscienza cristiana dei primi tre secoli» (ivi, p. 153)? Bisogna ammettere che l’idea farebbe difetto, mentre la «coscienza» sarebbe «innegabile»? A meno che ciò che retrospettivamente è nominato «idea» (moderna) abbia poco in comune con ciò di cui i Padri avevano «innegabilmente» la chiara «coscienza»; sarebbe conveniente riformare la nostra idea di Rivelazione secondo la misura di questa coscienza; cfr. tuttavia A. de Veer, “Revelare-revelatio”. Éléments d’une étude sur l’emploi du mot et ses applications chez saint Augustin, in M. Nédoncelle et alii, Recherches augustiniennes, vol. II, Hommage au R.P. Fulbert Cayré, Études augustiniennes, Paris, 1962, pp. 331-357. 6.  Agostino, In Evangelium Ioannis; tr. it., Commento al Vangelo di san Giovanni, in Id., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di san Gio-

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sono comprendere solo se vengono intese come il risultato di un commento di Gv 6,44: «nessuno può venire a me, se non lo attira (eklusê auton, traxerit eum) il Padre che mi ha mandato». Questa formula suscita un’obiezione di buon senso: se, secondo le Beatitudini, coloro «che hanno fame e sete della giustizia […] saranno saziati» (Mt 5,6), allora bisogna supporre un desiderio, una fame, cioè una volontà anteriore, non fosse altro che perché Dio la possa soddisfare; in questo caso, però, come sarebbe possibile credere passivamente, par attrattiva e come per attrazione («nemo venit nisi tractatur»)? In effetvanni, Opere, vol. XXIV/1, Città Nuova, Roma 1968, XXVI, 5, p. 601. De Ghellinck cita un’altra formulazione della stessa tesi: «et si homines audiunt, tamen quod intelligunt intus datur, intus coruscat, intus revelatur. Quid faciunt homines forinsecus annuntiantes? Quid facio cum loquor? Strepitum verborum ingero auribus vestris. Nisi ergo revelat ille qui intus est, quid dico aut quid loquor? – anche se ascoltano dalla voce degli uomini, ciò che comprendono vien loro comunicato interiormente: è frutto di una illuminazione, di una rivelazione interiore. Che fanno gli uomini con l’annuncio che risuona di fuori? Che faccio adesso io che vi parlo? Faccio giungere alle vostre orecchie il suono delle parole. Se dentro di voi non ci fosse chi ve ne dà la rivelazione, io parlerei a vuoto e vane sarebbero le mie parole» (ivi, XXVI, 7, p. 603) e commenta: «la sua teoria della conoscenza intellettuale è in qualche modo simmetrica con la sua dottrina della grazia soprannaturale; il ruolo dell’illuminazione divina nella conoscenza puramente naturale assomiglia a quella della grazia nell’ordine soprannaturale» (J. de Ghellinck, Pour l’histoire du mot “revelare”, in «Recherches de Science Religieuse», n. 6, 1916, pp. 149-157: p. 156). Introducendo una dicotomia non agostiniana (naturale/soprannaturale) si offusca però il punto della tesi, perché qui, manifestatamente, revelare intus indica che la conoscenza, anche interiore, procede da altrove, da un fondo più profondo che lei medesima (nel senso dell’interior intimo meo, Agostino, Confessiones, cit., III, 6, 11, p. 67); così essa non è più esclusivamente «naturale» tanto quanto la grazia non si limita esclusivamente al solo «ordine soprannaturale»; tutta la questione consiste nel concepire una conoscenza razionale, quindi «naturale», tramite mezzi altri e se si vuole «soprannaturali». Sull’evoluzione dell’interpretazione agostiniana di Gv 6,44, cfr. la nota dettagliata di M.-F. Berrouard all’edizione francese Augustin, Commentaire de l’Évangile de Jean, Bibliothèque augustinienne, vol. 72, DDB, Paris 1977, pp. 804-809.

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ti tutti sperimentiamo il fatto che crediamo solo se lo vogliamo («credere non potest nisi volens – credere non può se non vuole»)7 e, se non lo volessimo, di fatto non crederemmo e che, al contrario «confessare, significa esprimere ciò che si ha nel cuore – hoc est enim confiteri dicere quod habes in corde»8. Rimane però la dichiarazione di Gv 6,44, che potrebbe anche confermare l’esperienza corrente secondo cui «anche l’amore è una forza che attrae l’anima – trahitur animus et amore»9. Questa aporia, tuttavia, apre la via al suo superamento, perché di fatto sono meno attratto dalla mia volontà che dal desiderio del mio piacere («parum est voluntate, etiam voluptate traheris – non è gran cosa essere attratti da un impulso volontario»). Quando si ama appassionatamente lo si scopre («da amantem, et sentit quod dico – dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico»)10, per confermarlo si può anche convo-

7. Agostino, In Evangelium Ioannis, cit., XXVI, 2, p. 597. 8.  Ibidem (tr. mod.). 9.  Ivi, XXVI, 4, p. 599. 10.  Ibidem. Si veda anche: «tu refulges et places et amaris et desideraris, ut erubescam de me et abjiciam me atque eligam te, et nec tibi nec mihi placeam nisi de te – tu splendi e piaci e sei oggetto d’amore e di desiderio, cosicché arrossisco di me e mi respingo per abbracciarti, e non voglio piacere né a te né a me» (Agostino, Confessiones, cit., X, 2, 2, p. 299); e «vocasti et clamasti et rupisti surditatem meam; coruscasti, splenduisti et fugasti caecitatem meam; fragrasti et duxi spiritum et anhelo tibi; gustavi, et esurio et sitio; tetigisti me, et exarsi in pacem tuam – mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (ivi, X, 27, 38, p. 333); o «o Domine, perfice me et revela mihi eas [sc. paginarum opaca secreta]. Ecce vox tua gaudium meum, vox tua super affluentiam voluptatum. Da quod amo: amo enim – o Signore, compi la tua opera in me, rivelandomele [le pagine oscure e segrete delle Scritture]. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce una voluttà superiore a tutte le altre. Dammi ciò che amo. Perché io amo» (ivi, XI, 2, 3, p. 369) e infine «exarsit animus meus nosse istuc implicatissimum aenigma. Noli clau-

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care l’autorità di Virgilio («trahit sua quemque voluptas – ciascuno è attratto dal suo piacere»11) e quella delle Scritture: «metti il tuo piacere nel Signore (delectare in Domine) ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore» (Sal 36,4) o, ancora: «s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie (et torrente voluptatis tuae potabis eos), poiché presso di te è la fonte della vita» (Sal 35,8‑10). Non abbiamo solo il diritto (licet), ma anche il dovere (debemus) di ammettere che siamo «sedotti», attratti dal desiderio del piacere di ciò che amiamo quando amiamo veramente, quindi anche quando amiamo Dio12. Nell’esperienza dell’attrazione subìta non sperimentiamo nulla di meno che la logica fondamentale dell’amore: «amando trahitur – è attratto da ciò che ama»13. Questa attrazione resta comunque libera, perché senza di lei non potremmo amare per nulla. Più ancora: la diffusione di questa attrazione nei cuori (tramite lo Spirito Santo) nello spedere, Domine Deus meus, bone Pater, per Christum obsecro, noli claudere desiderio meo ista et usitata abdita. […] Da quod amo, amo enim et hoc tu me dedisti – il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi […]. Dammi ciò che amo. Io amo, e tu mi hai dato di amare» (ivi, XI, 22, 28, pp. 389-390). Su questo desiderio e sull’accesso alla verità in quanto bellezza, che seduce e attrae il suo amante volontario, cfr. le indicazioni di J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 22, pp. 186 ss. 11.  Agostino, In Evangelium Ioannis, cit., XXVI, 5, p. 601, che cita le Bucoliche II, 65 (circa l’elenco delle citazioni di altri pagani, cfr. H. Hagendahl, Augustine and the Latin Classics, Almqvist & Wiksell, Göteborg 1967). 12.  Agostino, In Evangelium Ioannis, cit., XXVI, 4, pp. 599, 601; si veda anche «nos dicere debemus trahi hominem ad Christum, qui delectatur Veritate, delectatur Beatitudine, delectatur Justitia, delectatur sempiterna Vita, quod totus Christus est – possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo» (ibidem). 13.  Ivi, XXVI, 5, p. 601.

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cifico caratterizza il Dio che ama e che fa amare: «trahere Dei est – attrarre è proprio di Dio»14, perché Cristo non lascerebbe nessuno venire a lui se non rendesse in lui manifesto il Padre, cioè se non lo scoprisse (rivelasse): «non trahit revelatus Christus a Patre? – quale attrattiva eserciterà il Cristo rivelato dal Padre?» (l’ablativo insiste qui sui due verbi)15; o ancora: «trahit Pater ad Filium eos qui propterea credunt in Filium, quia eum cogitant Patrem habere Deum – il Padre attira al Figlio coloro che credono nel Figlio, in quanto sono persuasi che egli ha Dio per Padre»16. Vedere con i propri occhi carnali («naturalmente», se si vuole) Gesù come Cristo, quindi anche come il Figlio, suppone che lo si creda tale, cioè che si creda al Padre, cosa che può essere donata solo dal Padre («soprannaturalmente», se si vuole). Ne conseguono i due caratteri essenziali dell’intelligenza teologica della Rivelazione: innanzitutto, la Rivelazione consiste proprio nel fatto che il Padre ci attrae verso il Figlio affinché in lui vediamo il Padre: «ista revelatio, ipsa est attractio»17 (infra, capp. 16‑17). Questa attrazione, sia che venga percepita come dolce o come violenta18 (o piuttosto come le due cose insieme), non modifica per nulla la questione: la Rivelazione esercita questi due effetti simultaneamente perché si esercita appie-

14.  Ivi, XXVI, 7, p. 603. 15.  Ivi, XXVI, 5, p. 601. 16.  Ibidem. 17.  Ibidem. Si veda anche: «revelare se voluit quid esset – ha voluto rivelare ciò che è» (ivi, XXVI, 10, p. 605). 18. «Violentia cordi fit – questa forma di violenza si fa al cuore, […] dulcis est, suavis est – è dolce, è soave» (Agostino, Sermo CXXXI; tr. it., Discorso 131, in Id., Discorsi, Opere, vol. XXX/1, Città Nuova, Roma 1990, 2, p. 193). Si veda la «potentia adducendi et trahendi – il potere di spingere e di attrarre» (Agostino, Contra Julianum; tr. it., In polemica con Giuliano, in Id., Discorsi, Opere, vol. XVIII, Città Nuova, Roma 1985, V, 4, 14, p. 791).

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no. Evidentemente crediamo in Dio quando lo vogliamo, ma vogliamo solo quando amiamo ciò che desideriamo; nel caso di Dio all’inizio riceviamo questo desiderio (che è comunque un desiderio del nostro piacere) solo da altrove, esclusivamente da Dio: «viene appunto attirato al Cristo chi riceve il dono di credere nel Cristo. […] Il qual potere non è dato se non da Dio, non si può avere in nessun modo dal libero arbitrio, perché nel bene non sarà nemmeno libero l’arbitrio che non sia stato liberato dal Liberatore»19. La rivelazione suppone un intreccio in cui l’attrazione agisce innanzitutto sulla volontà che successivamente definisce la ragione per voler vedere ciò che, altrimenti, non vorrebbe vedere. Il vedere risulta sicuramente dalla decisione di vedere ma tale decisione, che sono io a prendere, mi viene da altrove. Devo decidermi di decidermi, di volere proprio volere, al fine di arrivare a vedere. La Rivelazione mi adviene quando la voglio per un’attrazione da altrove. L’attrazione vale quindi come Rivelazione, perché permette di vedere Gesù come Cristo, ovvero come il Figlio del Padre, come la visibilità dell’invisibile. Non c’è nulla da aggiungere: «nisi ergo revelet ille qui intus est, quid dico aut quid loquor? – se dentro di voi non ci fosse chi ve ne dà la rivelazione, io parlerei a vuoto»20. Si può capire meglio perché la visione

19.  «Ille quippe trahitur ad Christum, cui datur ut credat in Christum; […]. Quae potestas nisi detur a Deo, nulla esse potest ex libero arbítrio: quia nec liberum in bono erit, quod liberator non liberavit» (Agostino, Contra duas epistulas Pelagianorum; tr. it., Contro le due lettere dei Pelagiani, in Id., Polemica con Giuliano I, Opere, vol. XVIII, Città Nuova, Roma 1985, I, 3, 6, p. 191); si veda anche: «nemo igitur habere voluntatem justam, nisi nullis praecedentibus meritis acceperit veram, hoc est, gratuitam desuper gratiam – nessuno dunque può avere la giusta volontà se non ha ricevuto dall’alto la vera grazia, cioè la grazia gratuita senza meriti precedenti di nessun genere» (ivi, I, 3, 7, p. 193). 20.  Agostino, In Evangelium Ioannis, cit., XXVI, 7, p. 603. Analogamente l’esempio del cambiamento improvviso di decisione da parte di Assuero a

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(la scoperta) dipenda da una volontà (decisione): vedo il Padre solo interpretando (nello «Spirito Santo diffuso nei nostri cuori») Gesù come il Figlio del Padre – solo se voglio proprio interpretarlo così, quindi a condizione che lo ami. Qui non potrebbe essere accettata la minima propositio sufficiens objecti revelati, conosciuta anche senza crederci (etsi non credatur), perché senza una decisione ermeneutica non c’è nulla da vedere, nulla da credere, quindi neppure nulla di scoperto. Nei riguardi della Rivelazione chi vuole vedere senza dover credere non vede nulla. Clemente d’Alessandria intendeva così l’autentica gnosi: «non c’è conoscenza senza fede né fede senza conoscenza: come non c’è Padre senza Figlio – oute g’gnôsis aneu pisteôs, outh’hê pistis aneu gnôseôs ou mên oude o patêr aneu uiou»21. La rivelazione mi adviene per ermeneutica, cioè tramite conversione di un’intenzionalità in un’altra22; questa proposito del popolo degli Ebrei: «non lege atque doctrina insonante forinsecus, sed interna et occulta, mirabili ac ineffabili potestate operari Deum in cordibus hominum, non solum veras revelationes, sed bonas voluntates – leggano dunque e comprendano, lo capiscano e lo riconoscano: non con la legge e la dottrina che risuona dal di fuori, ma con un intervento interno ed occulto, mirabile ed ineffabile, Dio non fa negli animi degli uomini solamente delle rivelazioni perché conoscano la verità, ma opera altresì per far buone le loro volontà» (Agostino, De Gratia Christi et de peccato originali; tr. it., La Grazia di Cristo e il peccato originale, in Id., Natura e Grazia II, Opere, vol. XVII/2, Città Nuova, Roma 1981, XXIV, 25, p. 169). Infatti, qui revelationes e volontà diventano sinonimi. 21.  Clemente d’Alessandria, Gli stromati. Note di vera filosofia, Paoline, Milano 2006, V, 1, 1, p. 489 (tr. mod.) [SC 278, p. 25]. 22.  È quanto viene confermato a contrario dall’utilizzo di revelare nella discussione sull’errore commesso da san Cipriano circa la possibilità di ribattezzare gli eretici: il difetto di Rivelazione che lo coinvolge gli dà un’occasione di umiltà e di conversione, quindi conferma la carità: «ecco perché accade spesso che ai più dotti una verità venga rivelata solo in parte: per verificare la loro paziente e umile carità, che è il dono più fruttuoso, per vedere come essi conservano l’unità quando, sulle questioni più oscure, i loro pareri sono discordi, e come accettano la verità, quando vengono a sapere

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inversione dell’intenzionalità dell’ego verso ciò che gli appare (e non solo il rovesciamento della gerarchia tra volontà e intelletto) definisce fenomenologicamente l’anamorfosi, che in questo caso impone all’ego una contro-intenzionalità che proviene da Cristo, al fine di mirare al Padre attraverso di lui come Figlio del Padre. Dal momento che qui una tale anamorfosi si registra in campo pienamente teologico, nell’ego che accetta una tale conversione può essere realizzata solo dallo Spirito Santo. La pratica fenomenica dell’altrove in me dipende quindi dallo «spirito di filiazione» che, «diffuso nei nostri cuori», consente di «gridare: Abbà, Padre» (Rm 5,5 e Rm 8,15, cfr. Gal 4,6), nel senso che la Rivelazione si scopre nei miei confronti solo tramite un altro da me che è in me, più me di me stesso. L’Io è un altro, ma per ciò stesso resta me in me, interior intimo meo.

Sensus mentis Discendendo direttamente da sant’Agostino, Guglielmo di Saint-Thierry rafforza la comprensione teologica della Rive-

che ne è stata proclamata una contraria alle loro idee – et ideo plerumque doctoribus minus aliquid revelatur, ut eorum patiens et humilis charitas, in qua fructus major est, comprobatur, vel quomodo decipiant veritatem, cum contra id quod sentiebant, declaratam esse cognoscunt» (Agostino, De Baptismo contra Donatistas; tr. it., Sul battesimo contro i Donatisti, in Id., Polemica con i Donatisti, Opere, vol. XV/1, Città Nuova, Roma 1998, II, 5, 6, p. 321). L’argomento è tanto più importante dal momento che si trovava già in Cipriano stesso, per spiegare come Paolo abbia potuto aver ragione contro il primo parere di Pietro circa il battesimo dei pagani (Cipriano di Cartagine, Epistula LXXI; tr. it., Lettere 51-81, Città Nuova, Roma 2007, LXXI, pp. 241-243). Donde la possibilità, se non la necessità, di essere talvolta in grado di sottomettersi alla revelatio di un altro rispetto a sé (quindi da altrove), conformemente a una raccomandazione di Paolo (1Cor 14,30).

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lazione. Assumendo l’adagio agostiniano liberamente tratto da Is 7,9 nella versione dei LXX «se non crederete, non capirete»23, egli nega, in termini già pascaliani, che si possano conoscere le «cose divine» senza dapprima credere: «in eis vero quae sunt ad Deum, sensus mentis est amor – in ciò che riguarda Dio, però, l’amore è il senso che permette allo spirito di accedervi»24. Infatti «[questa scienza è] un atteggiamento o abito mentale idoneo ad accogliere ciò che appartiene propriamente alla fede»25 e di conseguenza bisogna anzitutto credere, quindi anzitutto amare, perché nei due atti si tratta della stessa operazione (idipsum): «chi conosce senza amare? Si tratta di Dio, e di Dio stesso (idipsum), questo è certo: pensare a lui e amarlo è lo stesso (idipsum). A lui (ipsum) dico, non su di lui (de ipso), perché sono in molti a pensare su di lui (de ipso) senza amarlo, mentre nessuno pensa lui senza che lo ami»26. Pretendere di conoscere una proposi23.  Is 7,9, versione LXX: kai ean mê pisteusête, oude mê sunête. 24.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei, cit., § 64, p. 108 (tr. mod.); cfr.: «fides voluntarius est assensus mentis, in eis quae fidei sunt; credere vero [sc. est] cum assenso de eis cogitare – la fede è un assenso volontario dello spirito a ciò che è di fede; credere, anzi, significa pensare i contenuti della fede con un atteggiamento di adesione» (ivi, § 23, p. 80). 25. «Scientia vero haec modus quidam est vel habitus mentis ad suscipienda ea quae proprie fidei sunt» (ivi, § 50, p. 99). 26.  «Quis cogitat et non amat? Nimirum Deus est, idipsum est; quod cogitare et amare idipsum est. Ipsum dico, non de ipso. De ipso enim multi cogitant, qui non amant. Ipsum autem nemo cogitat et non amat» (ivi, § 73, p. 114; tr. mod.). Questa regola è a tal punto importante che Guglielmo non esita a correggere un versetto «quia credebant [sc. alcuni uditori] in eum quem non diligebant» (Gv 2,23) amalgamando indebitamente due versetti della Vulgata: «multi crediderunt» (Gv 2,23) e «ipse autem Jesus non credebat semetipsum eis» (Gv 2,24); di modo che non siano gli uditori a credere senza amare, è Gesù che non crede a coloro che dicono di credere senza amare. Così Guglielmo commenta: «abusive quippe dictum est de illis “qui credebant in eum quem non diligant”. Credere enim in eum amando est in eum ire – infatti non è corretto dire – a proposito di quelli – che credevano

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tio sufficiens senza crederla equivarrebbe quindi ad accettare di farsi curare e a voler guarire senza dare fiducia al proprio medico, cioè senza amarlo27. Ne deriva una prima conclusione: nessuno può vedere ciò che si scopre (apokalupsis), se non lo crede. Riprendendo successivamente il commento agostiniano di Gv 6,44 sulla rivelazione come attrazione (nisi Pater traxerit eum), Guglielmo di Saint-Thierry ne ripete la logica: «è chiaro che se non vuoi credere non credi; tu credi, invece, se lo vuoi: però non lo vuoi, se non sei stato prevenuto dalla grazia, poiché nessuno viene al Figlio, a meno che il Padre non lo abbia attratto (cfr. Gv 6,44). […] Se lo vuoi, tu credi; però non puoi volerlo, se non sei attirato dal Padre»28. Da questo paradosso trae la seconda notevole conseguenza: volere non consiste altro che nell’amare. La volontà vuole solo se trova e sperimenta un’attrazione che la mette in opera; attrazione che, poiché proviene sempre da altrove (in linea di principio, dalla cosa voluta), quando si tratta di Dio, proviene da ciò che si dà tanto più da amare quanto più Dio stesso ama; quando si tratta dell’amore, che non consiste in altro che nell’amore, il conoscere equivale ad amare. Di conseguenza, posso volere solo amando (per regola universale), ma tanto più in questo caso in cui ciò che è da amare si identifica con l’amore: «voluntas enim haec aliquatenus jam amor Christi est – questa volontà, infatti, è già in

in lui, dal momento che non lo amavano. Credere in lui significa andare a lui con amore» (ivi, § 43, p. 94). 27. Ivi, § 2, p. 62; detto altrimenti «non credis, quia non diligis et non diligis, quia non credis – tu non credi perché non ami, e non ami perché non credi» (ivi, § 12, p. 72). 28. «Equidem si non vis credere, non credis; credis autem, si vis; sed non vis, nisi gratia praeveniaris; quia “nemo venit ad Filium, nisi Pater traxerit eum”. […] Sed si vis credis, sed non vis nisi a Patre traheris; et si utique vis, quia Pater traxeris» (ivi, § 12, p. 71).

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qualche misura l’amore di Cristo»29. Questa frase non dovrebbe essere intesa come un’anticipazione della fede implicita del «cristiano anonimo», come se qualsiasi volontà si orientasse già verso Cristo spontaneamente e senza coscienza; al contrario bisogna capire che qualunque volontà arriva a volere solo in proporzione di ciò che l’attrae, quindi di ciò che ama; pertanto, si capisce che la volontà tanto più vuole quanto più ama Cristo, ovvero Dio che si rivela come amante. Guglielmo di SaintThierry può dunque riprendere e approfondire la definizione agostiniana di amore: «voluntas enim initium amoris est. Amor siquidem vehemens voluntas est – la volontà, infatti, è l’inizio dell’amore. L’amore non è altro che una volontà fervida»30, o ancora «nihil aliud est amor, quam vehemens et bene ordinata voluntas […] bonae voluntatis vehementia amor in nobis dicitur – l’amore infatti non è nient’altro che questo: la volontà forte e bene ordinata […] la forza della nostra buona volontà,

29.  Ibidem. 30.  Ivi, § 12, p. 72. Sant’Agostino diceva soltanto: «voluntatem nostram vel amorem seu dilectionem, quae est voluntas valentior – la volontà, o l’amore o la dilezione, che non è che la volontà in tutta la sua forza» (Agostino, De Trinitate, cit., XV, 21, 41, p. 695) o «si tam violenta est [sc. voluntas], ut possit vocari amor, aut cupiditas, aut libido – se tale è il suo impeto, che possa venir chiamato amore, o concupiscenza o passione» (ivi, XI, 2, 5, p. 435); alcune analisi aggiuntive a proposito di questa dottrina si possono trovare in J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 28, pp. 239 ss., cfr. supra, cap. 8. In questo senso si può proprio dire che «amor quippe illuminatus, caritas est – l’amore illuminato, infatti, è la carità» (Guglielmo di Saint-Thierry, De Natura et dignitate amoris, cit., § 15, p. 80). Riferendosi a sant’Agostino, Scheler ha opportunamente notato che qui non si tratta solo, e forse non innanzitutto, del primato della volontà sull’intelletto, ma del primato dell’amore sull’intelletto e sulla volontà (M. Scheler, Liebe und Erkenntnis [1915], in Id., Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre, Gesammelte Werke, Bd. VI, Francke Verlag, Bern 1963, pp. 77-98; tr. it., Amore e teoria della conoscenza, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 71 ss.) e che in questo dispositivo l’amore provoca «un autentico rivelarsi (ein wahrhaftiges Sichoffenbaren) da parte dell’oggetto» (ivi, p. 78).

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[che] in noi si chiama amore»31. Donde la seconda conclusione: nessuno può vedere ciò che si scopre (apokalupsis), se non lo crede; ma nessuno può credere se non lo vuole, e nessuno può volere se non ama ciò che crede e vuole volere. Ciò conduce alla terza conseguenza, decisiva. Infatti, nessuno può vedere ciò che si scopre (apokalupsis), se non lo crede; in aggiunta, se nessuno può credere se non lo vuole e nessuno può volere se non ama, allora nessuno può vedere se non ama – quindi, infine, in situazione di Rivelazione (apokalupsis, scoprimento), vedere equivale ad amare, il contrario rispetto alla situazione di verità (alêtheia, disvelamento), in cui conoscere significa vedere immediatamente e sapere direttamente. «Ratio docet amorem, et amor illuminat rationem – la ragione istruisce l’amore e l’amore illumina la ragione»32; o, ancora: «amor ex fide spe mediante per cognitionem oriatur; et fides itidem in amore per cognitionem solidetur – l’amore scaturisce immediatamente dalla fede attraverso la conoscenza e la speranza, e la fede – parimenti – si consolida nell’amore in virtù della conoscenza»33. L’amore conosce e si fa conoscere, ma a una condizione – che gli sia riconosciuta la libertà di stabilire da sé le condizioni della sua conoscenza, cioè di iniziare tramite la volontà, perché essa per prima può convertirsi e convertire lo spirito ad amare da altrove. Questa condizione definisce ciò che ormai potremo chiamare lo s-coprimento, detto altrimenti l’apokalupsis. Un tale autoscoprimento di sé dell’amore

31.  Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo; tr. it. La contemplazione di Dio, in Id., Opere, vol. III, cit., pp. 17-46: § 14, p. 35, cfr. «vehementer velle, quod est amare – voler[ti] con forza, cioè amar[ti]» (ivi, § 16, p. 38). 32.  Guglielmo di Saint-Thierry, De Natura et dignitate amoris, cit., § 25, p. 91; cfr. «voluntas crescit in amorem, amor in caritatem, caritas in sapientia – man mano che le virtù progrediscono, la volontà si sviluppa in amore, l’amore in carità e la carità in sapienza» (ivi, § 4, p. 69). 33.  Guglielmo di Saint-Thierry, Speculum fidei, cit., § 36, p. 88.

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mette in atto una regola che ricorre costantemente nei Padri: bisogna «conoscere da Dio quanto riguarda Dio – para theou peri theou […] mathein», detto altrimenti: «edocuit autem Dominus quoniam Deum nemo potest scire nisi Deo docente, hoc est sine Deo non cognosci Deum – il Signore ci ha insegnato che nessuno può conoscere Dio, a meno che Dio non glielo insegni; in altre parole, senza Dio non si può conoscere Dio»34. Se Dio si spiega come amore, la Rivelazione del suo amore può compiersi e riceversi solo amando. Il modo di Rivelazione, come quello della sua ricezione, si determina perché vi si svela: «mettiamoci d’accordo almeno su questo punto, cioè di parlare misticamente di quanto riguarda il mistero cristiano e santamente delle cose sante – mustikôs ta mustika phthêggesthai, kai aigiôs ta agia»35. La Rivelazione si realizza nel momento in cui arrivo a volere da altrove rispetto a me, detto altrimenti: da altrove rispetto 34.  Rispettivamente Atenagora, Supplica per i cristiani, Paoline, Milano 1964, VII, 2, p. 47 [SC 379, p. 92] e Ireneo di Lione, Adversus Haereses; tr. it., Contro le eresie, vol. II, Città Nuova, Roma 2009, IV, 6, 4, p. 164 [SC 100**, p. 446]. Cfr. anche: «resta quindi che noi pensiamo l’Ignoto solo per grazia divina e per il Logos che da Esso procede – monô tô par’autou logô to agnôston noein» (Clemente d’Alessandria, op. cit., V, 82, 4, p. 562 [SC 278, p. 160]); «dum enim audita supercaelestia amamus, amata jam novimus, quia amor ipse notitia est – quando infatti amiamo le verità che ci furono annunziate riguardo alla soprannatura già le conosciamo, perché lo stesso amore diventa conoscenza» (Gregorio Magno, Homilia in evangelia; tr. it., Omelie sui vangeli, Città Nuova, Roma 1994, II, XXVII, 4, p. 351) e: «nessuno può conoscere Dio se Dio non lo istruisce, cioè: Dio non si conosce senza Dio – aneu theou me ginôskesthai ton theon» (Giovanni Damasceno, Sacra Parallela, in P. Halloix [éd.], Illustrium Ecclesiae Orientalium scriptorum secundi saeculi vitae et documenta, vol. II, Bogardi, Douai 1636, p. 483, citato da A. Rousseau, in Irénée de Lyon, Adversus Haereses [SC 100], Cerf, Paris 1965, p. 446, si veda anche pp. 54 ss.); e sicuramente Pascal «Dio parla come si deve di Dio» (B. Pascal, Pensieri, cit., n. 334, p. 2441). 35.  Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXVII, 5, p. 49 [SC 250, p. 82].

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a ciò che il mio intelletto subito mi rappresenta, in modo che conosco solo ben volendolo e dopo averlo voluto; voglio senza saperlo previamente, ma volendolo so che lo realizzo e quindi in un colpo solo lo so tout court. Questa impeccabile coincidenza tra volontà e conoscenza (che non rovesciano più soltanto il loro ordine di operazione ma si confondono nel loro idipsum) si realizza soprattutto e in forma eminente quando voglio amare, perché l’amore si concepisce solo nel suo atto; l’amore non si prova che quando si fa e si fa solo quando vi acconsento. Io conosco il mio amore – ciò che amo veramente e in fondo che cosa sia amare – solo decidendomi a voler amare. La Rivelazione mi adviene allora da altrove e finalmente mi scopre a me stesso. Questo è sufficiente per distinguere la Rivelazione in primo luogo dalla costrizione: non si tratta più di subire una pressione esterna che, contro il mio libero arbitrio, mi obbligherebbe a fare ciò che non voglio; qui faccio da altrove ciò che spontaneamente non credevo di voler fare, perché prima di farlo volontariamente non ne avevo ancora la minima idea o conoscenza. Ciò distingue in secondo luogo la Rivelazione dall’ideologia: non si tratta di una volontà vuota e controllata, che vorrebbe ciò che non può e non vuole comprendere o ciò che si dispensa anche dal concepire, avendo messo tra parentesi il lavoro dell’intelletto per rimettersi a quel delirio razionalizzato che la dispensa dal pensare, persuadendola di sapere senza aver cercato; qui comprendo da altrove ciò che faccio volendolo poiché, con mio grande stupore, quando lo compio si scopre a me.

Conoscere il dono In situazione di Rivelazione si tratta di far emergere ciò che ancora non conoscevo, lasciando che la mia volontà desiderante finalmente realizzi ciò che vuole veramente; in questo caso

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lo voglio veramente perché (e non nonostante) da altrove mi viene ciò che io stesso non sapevo (poter) volere. Devo allora imparare a conoscere ciò che la mia volontà vuole veramente, dal momento che la verità relativa alla mia volontà mi proviene da molto più lontano che da ciò che il mio solo intelletto si immagina saper(ne). Voglio molto più di ciò che penso non semplicemente perché non saprei ciò che voglio (a causa di debolezza o esitazione), ma perché il mio desiderio mi scappa, mi supera e mi viene da altrove. Certo, il mio intelletto risulta sempre in ritardo sulla mia volontà (seguendo Descartes), ma la mia volontà risulta indietro rispetto al mio desiderio (secondo sant’Agostino), perché il mio desiderio mi adviene senza che io lo sappia, che lo misuri o che lo aspetti – addirittura senza che io me lo aspetti. Quindi devo credere ciò che voglio perché, spontaneamente e così come tale, lo ignoro. Come Parsifal, mi immagino di veder passare una lancia, senza sapere che si tratta proprio dello splendente e glorioso oggetto del mio desiderio e della mia più profonda volontà – il Graal. Ciò che si dà oltrepassa ciò che può mostrarsi, perché va oltre il limite di ciò che il mio sguardo è in grado di realizzare. L’obiet­tivo non si limita mai a un oggetto, perché il desiderio non ha oggetto, anche se mira sempre a un obiettivo. Questa logica, per quanto appaia paradossale alla formulazione concettuale, continua però a realizzarsi nella banalità quotidiana, o la banalità quotidiana può dimostrare piuttosto spesso una semplicità paradossale – a volte essenzialmente teologica. Il racconto dell’incontro tra la Samaritana e Cristo si impone come paradigma dell’obiettivo sconosciuto e del dono ignorato, tramite un dialogo i cui momenti sono articolati con perfetto rigore (Gv 4,3-42)36. Inizialmente si tratta di un incontro 36.  Qui dipendiamo dalla sintesi esegetica del testo di F.J. Moloney, The Gospel of John, in D.J. Harrington (ed.), Sacra pagina Series, vol. IV, Liturgical Press, Collegeville 1998, pp. 114‑150. Cfr. anche, in un differente

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che non dovrebbe aver luogo, per parecchi motivi: in pubblico una donna non deve rivolgere per prima la parola a un uomo e un Ebreo non parla mai a un Samaritano, ancor meno a una donna Samaritana («“come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani», Gv 4,9); tanto più che questa donna, Gesù ne è consapevole, vive in una situazione irregolare (una «peccatrice», Gv 4,17). Del resto i discepoli considerano con «meraviglia, ethaumasan» (Gv 4,27) questo incontro, anche se non osano dir nulla. Era dunque necessario che Gesù prendesse l’iniziativa di aprire il dialogo che in linea di principio era vietato sul fronte umano; così indirizzata, questa parola realizza immediatamente ciò che per gli uomini rimane impossibile, ma c’è di più: questa parola parla di (e a partire da) ciò che le risulta più difficile e quasi inaccessibile, ma che propriamente appartiene a Dio, il dono; infatti, l’uomo non pratica spontaneamente il dono, ma gli preferisce l’appropriazione, al più concepisce il dono come uno stratagemma per appropriarsi di ciò che gli manca, o almeno crede che gli manchi. Quindi, chiedendogli un dono («dammi da bere», Gv 4,7), Gesù provoca la Samaritana, non solo parlandole e chiedendole aiuto – cioè invertendo la disparità della loro condizione (maschio/femmina, Ebreo/Samaritano), ma, più radicalmente, chiedendo a un umano proprio ciò che compie raramente e perlopiù male, un dono. Gesù inizia a intavolare un dialogo proibito per chiedere all’interlocutore che interloquisce un atto che gli è impossibile. Non c’è quindi nulla di cui meravigliarsi se la discussione, inizialmente rifiutata, in un secondo momento volge subito al malinteso. La discussione è rifiutata innanzitutto perché la Sacontesto, J.-L. Marion, La reconnaissance du don, in «Revue catholique internationale Communio», n. 195, 2008, pp. 169-182 ora in Id., Credere per vedere, cit., pp. 227-246.

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maritana, in modo insolente, riporta Gesù ai suoi doveri di Ebreo, appunto il dovere di non rivolgerle la parola (Gv 4,9) e poi si trasforma in malinteso perché, di fronte al rifiuto opposto alla sua prima richiesta dell’acqua da bere fisicamente, Gesù raddoppia la richiesta, questa volta invertendo la direzione del dono e quindi giocando sull’equivoco dell’acqua, ormai acqua «viva»: «se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”» (Gv 4,10)37. Il rifiuto della Samaritana e l’equivoco della sua risposta si confondono in due argomentazioni eterogenee, ma perfettamente razionali. La prima è materiale: come potrebbe Gesù dare dell’acqua, dal momento che non ha un recipiente per attingerla dal pozzo (Gv 4,11)? La seconda è religiosa: per trovare l’acqua senza 37.  Dôrea è un hapax in Giovanni, donde la sua importanza, tanto più che il termine non è presente nei sinottici. L’ironia di Gesù, quasi socratica, è stata rilevata adeguatamente da P.D. Duke, Irony in the Fourth Gospel, John Knox Press, Atlanta 1985 e soprattutto, con altro stile, in J. Grosjean, L’ironie christique. Commentaire de l’Évangile selon Jean, Gallimard, Paris 1991. Si può intendere l’acqua viva (to hudôr to zôn) come acqua di sorgente («corrente, allomenos», Gv 4,14), che, diversamente dall’acqua del pozzo, non ristagna; la Samaritana capisce così che forse si tratterebbe di una sorgente d’acqua più fresca e salutare, ma Gesù intende dire l’acqua che fa vivere della vita di Dio. Uno spostamento simile si legge nel colloquio con Nicodemo, che chiede «può forse [un uomo] entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4 ss.) e che riceve in risposta: «se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (Gv 3,12). Si deve anche notare che Pascal giustifica l’ironia di Cristo «quando egli volle umiliare Nicodemo, che si credeva esperto nella conoscenza della legge» (B. Pascal, XIe Provinciale; tr. it., Lettere provinciali, in Id., Opere complete, cit., pp. 959-1317: XI lettera, p. 1152). L’accostamento dei dialoghi di Gesù a quelli di Socrate mette però in luce la loro differenza: Socrate pone intenzionalmente in imbarazzo i suoi interlocutori, mentre davanti a Gesù sono gli interlocutori stessi a mettersi spontaneamente in contraddizione con loro stessi, aprendo la doppia possibilità: o rifiutare Cristo rifiutando di assumere il suo punto di vista, o seguirlo adattandosi alla sua parola. Socrate trionfa e giudica, mentre Gesù lascia a ciascuno di giudicarsi in rapporto a lui.

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attingerla dal pozzo (l’unica alternativa lasciata dal primo argomento), bisognerebbe fare a meno di quel pozzo (non dipenderne, trovarne un altro, ecc.), quindi ritenersi superiore al «nostro padre Giacobbe», che l’ha donato «a noi» (Gv 4,12). Gesù risponde alle due argomentazioni, questa volta senza ironia (Gv 4,13-14): per donare l’acqua non ha bisogno di nulla, né della brocca, né del pozzo, perché non deve per nulla attingerla, venendo l’acqua da lui stesso (così nel momento della sua morte, dal suo fianco «uscì sangue e acqua», Gv 19,34). La Samaritana, per la prima volta, accetta questa risposta: «Signore […], dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15), ma solo nella misura in cui la comprende; infatti, per lei si tratta sempre di un’acqua naturale, semplicemente dotata di migliori proprietà fisico-chimiche dal momento che sgorga da una fonte più alta, senza ancora comprendere che si tratta di Cristo stesso. La domanda, come la direzione del dono, si ribalta, ma il senso della questione – l’“acqua” e la “vita” – rimane nascosto nella materialità della cosa vista e bevuta. Che cosa manca per giungere al riconoscimento del dono? È necessario che, presso i «veri adoratori» (Gv 4,23) sia fatta tutta la «verità», tutta la verità nel suo doppio senso: la verità a proposito di Cristo e del suo dono (la verità che rischiara, veritas lucens) può scoprirsi solo se colui al quale si propone l’accoglie, proprio nel momento stesso in cui la verità per contrasto gli manifesta le sue colpe e le sue mancanze (verità accusatrice, che si ritorce contro colui che la riceve e ne accusa le colpe, veritas redarguens)38. All’occorrenza, Gesù espone la Samaritana alla

38.  Si tratta evidentemente della doppia funzione della verità secondo sant’Agostino (Agostino, Confessiones, cit., X, 23, 34, p. 331, cfr. J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 17, pp. 148-154): cfr. Scrima: «“se tu conoscessi”: significa che la rivelazione viene da Dio e che necessita la fede della Samaritana in colui che parla con lei: “tu avresti chiesto a lui

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prova (riconoscere che è nella verità) chiedendole di chiamare suo marito per raggiungerla. Ora, la metanoia inizia proprio qui: anziché nascondere la sua situazione personale, la ammette o, quantomeno, la quasi ammette, infatti la sua confessione («io non ho marito – ouk ekhô andra», Gv 4,17) rimane ambigua, simile a un’omissione; è necessario che venga esplicitata da Gesù («hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito»), che le dà credito affinché la mezza verità diventi una verità completa («in questo hai detto il vero» (Gv 4,18). Tuttavia, facendo ciò, egli conferma il gesto fondamentale della Samaritana: perché la verità che sta per vedere possa scoprirsi ella ha accettato (ha proprio voluto) che quella luce illuminante al contempo la accusi, ha preferito [mieux aimé] riconoscere il suo peccato per conoscere la verità, piuttosto che chiudersi alla scoperta della verità per mantenere il suo peccato; ha voluto amare la verità più di quanto solitamente non abbia amato il suo peccato, che per lei prendeva il posto della verità. La Samaritana realizza che per credere, per vedere ciò che si rivela, è necessario amare (di più) la verità rispetto a ciò che la verità stigmatizza di me, eventualmente contro di me. Lungi dall’essere umiliata dalla sua confessione, la Samaritana viene da essa liberata, tanto da poterla rendere pubblica come una prova della Rivelazione: «venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?» (Gv 4,29). Da quel momento la discussione può finalmente raggiungere la posta in gioco più profonda, cioè comprendere come «ado-

ed egli ti avrebbe dato acqua viva”» (A. Scrima, L’évangile de Jean. Un commentaire, Cerf, Paris 2017, p. 73). Si può accostare l’errore della Samaritana (Cristo vorrebbe bere l’acqua fisica, o donargliene una che disseta definitivamente) a quella dei discepoli (che insistono per proporre a Gesù il nutrimento fisico, Gv 4,31.33). L’una non riconosce che Cristo dispone solo dell’«acqua viva», gli altri non riconoscono che non ne dispone perché si nutre esclusivamente della volontà di suo Padre (Gv 4,34).

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rare in spirito e verità» (Gv 4,24): ciò non avverrà né sul monte Garizim né al tempio di Gerusalemme, ma in colui che è «chiamato Cristo» (Gv 4,25), colui che ormai la Samaritana chiama «Signore» (Gv 4,11.15.19) e che, solo ora, si scopre in quanto tale: «le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”» (Gv 4,26). Diventa allora possibile non solo «vedere» (theôrô) (Gv 4,19), ma anche «sapere» (oidamen) (Gv 4,42). Finalmente, una volta soddisfatte due condizioni, il dono è ricevuto: innanzitutto il riconoscimento del fatto che è necessario amare la verità (credere) per vedere il suo svelamento e poi ammettere che il dono non proviene da noi, ma che lo riceviamo da altrove e che supera ciò che il nostro desiderio può pensare autonomamente di desiderare39. Ormai, nell’ultimo momento di questa Rivelazione, lo scoprimento è offerto a «molti» (Gv 4,39) perché lo hanno udito «loro stessi» (Gv 4,42).

Pragmatismo La lettura autentica di Gv 4 consente inaspettatamente di riprendere l’obiezione, tanto seducente quanto rozza, che William James (tra gli altri) oppone alla teologia cristiana. Dato il principio di base del pragmatismo: «se vi fosse una qual39.  A questo proposito si può rileggere F. Roustang, Les moments de l’acte de foi et ses conditions de possibilité. Essai d’interprétation du dialogue avec la Samaritaine, in «Recherches de Science Religieuse», n. 46, 1958, pp. 344-378, che distingue bene i momenti dello scoprimento: l’apparenza posta (acqua materiale, la sete di Gesù), l’apparenza negata (il desiderio della Samaritana, ma desiderio di non avere più sete, desiderio di irrealtà), l’esclusione dell’apparenza (uscire dalla negazione, riconoscere la realtà, non aver marito in realtà significa averne avuti cinque), infine posizione della verità. Ciò apre ai discepoli la definizione della missione tramite la distinzione tra seminare (manifestare) e raccogliere (accettare la manifestazione) (Gv 4,34-38), cioè le due fasi dello scoprimento.

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che componente di un pensiero che non comportasse alcuna conseguenza pratica, essa non costituirebbe nessun elemento del significato di tale pensiero»40; dato il criterio che ne consegue, cioè la cash-value delle nozioni, il loro rendimento41 e riprendendo un’obiezione che già Kant pone a Schleiermacher a proposito dell’inutilità pratica, per esempio, del dogma della Trinità (infra, cap. 15), James conclude brevemente: «quindi, penso, dobbiamo dare un addio definitivo alla teologia dogmatica»42. Eppure, la vera questione inizia proprio ora, dal momento che tale conclusione può e deve essere intesa in

40.  W. James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, cit., p. 383. Si veda: «the pragmatic method […] is to try to interpret each notion by tracing its respective practical consequences. What difference would it practically make to anyone, if that notion were true? – il metodo pragmatico cerca di interpretare ogni nozione indagando le sue conseguenze pratiche. Che differenza farebbe praticamente per qualcuno se fosse vera questa nozione?» (W. James, Pragmatism, in Id., William James. Writings 1902-1910, cit., pp. 479-624: p. 506; tr. it., Pragmatismo, il Saggiatore, Milano 1994, lezione 2, p. 30) e anche: «the true is the name of whatever proves itself to be good in the way of belief, and good, too, for definitive, assignable reasons – vera deve essere detta qualunque cosa che dia prova di essere buona come credenza e buona, anche, per ragioni ben determinate e definibili» (ivi, p. 520; tr. it., p. 47). Cfr. supra, cap. 2, nota 21. 41.  Ivi, pp. 509, 519, 523, 525, ecc.; tr. it., pp. 34, 46, 52, 54, ecc. «They pay  –  che pagano», ivi, p. 581; tr. it., p. 123, almeno quella che «work best – funzionerà meglio» (ivi, pp. 522, 588, 619, ecc.; tr. it., pp. 45, 133, 170, ecc.), essendo così «true instrumentally – strumentalmente vera» (ivi, p. 512; tr. it., p. 37), sfociando nella verità come «a credit system – un sistema di credito» (ivi, p. 576; tr. it., p. 117). In nessun momento James sembra soppesare la stranezza e anche l’assurdità di questa determinazione monetaria della verità, né quanto essa illustri il compimento di ogni progetto moderno della metafisica. Il nichilismo più inconsapevole e trionfante. 42.  «A definitive good-bye to dogmatic theology» (W. James, Varieties of Religious Experience, cit., p. 402; tr. it., Le varie forme dell’esperienza religiosa, cit., p. 386), anche «worthless – senza valore» che ciò che la «metafisica» (quale?) pretende sapere degli attributi divini (ivi, p. 401; tr. it., p. 385), cfr. Id., Pragmatism, cit., pp. 539 ss.; tr. it., pp. 71 ss.). Ben inteso,

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due modi: o ci si attiene (come nel caso di James) a un’interpretazione strettamente proposizionale di ciò che la metafisica ha elaborato sotto il titolo di “Rivelazione” – e allora si tratta di squalificare la neutralità pratica della propositio sufficiens, che si può comprendere senza credere proprio perché comprenderla non impegna minimamente e non implica serie conseguenze in colui che dice di comprenderla. Questa squalifica può (addirittura deve) imporsi, se si pensa a partire dalla Rivelazione intesa come scoprimento. Oppure (come viene intravvisto dallo stesso James), «se le idee teologiche danno prova di avere un valore per la vita concreta, per il pragmatismo saranno vere nel senso di essere buone nella stessa misura»43, allora bisogna decidere se queste «idee» si rivelano di fatto valide nell’effettività, di qualunque tipo essa sia. Ora, sembra proprio essere questo il caso, perché «Dio è reale dal momento che produce effetti reali»44. L’intera questione corrisponde dunque al riconoscimento degli effetti pragmatici di Dio. James, con onestà ma forse senza misurare la portata dei termini in gioco, intravvede varie ipotesi: «Dio non è conosciuto e non è capito; egli è usato [sc. noi ne usiamo, noi lo pratichiamo]: talvolta come rifornitore di alimenti, qualche volta come aiuto morale, altre volte come amico, talvolta come oggetto

l’Eucaristia fornisce l’usual suspect (ivi, p. 524; tr. it., p. 53). La critica è qui di sorprendente rozzezza. 43.  «If theological ideas prove to have a value for concrete life, they will be true for pragmatics, in the sense of being good for so much» (W. James, Pragmatism, cit., p. 518; tr. it., Pragmatismo, cit., p. 45). 44.  W. James, Varieties of Religious Experience, cit., p. 461; tr. it., Le varie forme dell’esperienza religiosa, cit., p. 441; cfr. «God, if you will, produced immediate effects within the natural world – Dio, se volete, produsse […] effetti immediati all’interno del mondo naturale al quale appartiene il resto della nostra esperienza» (ivi, p. 467; tr. it., p. 448).

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[sc. oggettivo] d’amore»45. In questi effetti si possono riconoscere varie figure della divinità: innanzitutto la divinità come nutrice (Madre-terra), poi come legislatrice morale (metafisica); poi corrispondente alla comunità elettiva (la religione civile) e infine come comunione. In questo ultimo caso, non si tratta forse proprio della definizione cristiana di Rivelazione? Così, per Guglielmo di Saint-Thierry: «come possiamo essere salvati da te, o Signore, “da cui viene la salvezza e che diffondi sul tuo popolo la benedizione” (Sal 79,18), se non riceviamo da te l’amarti e l’essere da te amati? […] Ecco “la giustizia dei figli degli uomini” (Sal 102,17): “amami, poiché ti amo”. Ma raramente c’è chi dice, “ti amo affinché tu mi ami”. Eppure questo tu lo hai fatto […], “ci hai amati per primo”. Ed è chiaro d’altronde che ci hai amati per primo affinché ti amassimo»46, poiché la Rivelazione può concepirsi solo se la sua manifestazione si realizza, non solo nella sua evidenza, ma anche nella volontà che vuole accettarla – detto altrimenti: perché essa si fa per amore dell’amore –, allora l’interpretazione pragmatica della teologia non la squalifica, bensì la qualifica, «così la tua verità, che è anche la vita, a cui si va e nella quale si cammina, ci descrive la pura e semplice forma della divina e vera filosofia (formam divinae et verae philoso-

45.  «God is not known, he is not understood; he is used – sometimes as a meat purveyor, sometimes as moral support, sometimes as friend, sometimes as object of love» (ivi, p. 453; tr. it., p. 433). Cfr. «They [sc. universal conceptions] have indeed no meaning and no reality if they have no use – se esse [le concezioni universali] non hanno alcuna utilizzabilità, non hanno neanche alcun significato e realtà» (W. James, Pragmatism, cit., p. 606; tr. it., Pragmatismo, cit., p. 155). Qui ci auguriamo che to use non significhi solo servirsi di, ma anche praticare, mettere in atto, quindi forse dedicarsi a, impegnarsi in; sarebbe quindi istruttivo prendere sul serio questo uso de l’uso, fino al punto, forse eccessivo, di ricondurlo alla coppia agostiniana uti/frui. 46.  Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, cit., § 12, pp. 32-33.

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phiae), dicendo ai discepoli “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15,9)»47. Ormai rimangono da definire il più precisamente possibile le leggi di questa divina et vera philosophia.

47.  Ivi, § 19, p. 42.

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10 L’altra logica e le sue determinazioni

Come accedere a ciò che Guglielmo di Saint-Thierry chiamava la divina et vera philosophia e Gregorio di Nissa la «filosofia del Cantico dei Cantici»1? Qui deve forse essere conservata con rigore la regola di pensiero definita dai Padri: occorre «conoscere da Dio quanto riguarda Dio – para theou peri theou […] mathein», detto altrimenti: «edocuit autem Dominus quoniam Deum nemo potest scire nisi Deo docente, hoc est sine Deo non cognosci Deum – il Signore ci ha insegnato che nessuno può conoscere Dio, a meno che Dio non glielo insegni; in altre parole, senza Dio non si può conoscere Dio»2. 1.  Gregorio di Nissa, In Canticum Canticorum; tr. it., Omelie sul Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 1988, I, p. 38 [PG 44, 765d]. 2.  Rispettivamente, Atenagora, op. cit., VII, 2, p. 47 [SC 379, p. 92] e Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., vol. II, IV, 6, 4, p. 164 [SC 100**, p. 446] (cfr. supra, cap. 8, nota 34). Qui si ritrova tutta la pertinenza di Duns Scoto: «theologia est de illo tanquam de subjecto quod soli Deo est notum naturaliter – la teologia ne tratta come un argomento che naturalmente è noto solo a Dio» (Duns Scoto, Lectura, Opera omnia, vol. XVII, Typ. Polygl. Vaticana, Città del Vaticano 1960, prologus, p. 1, q. 2, n. 73, p. 28) e «theologia est de his quae soli intellectui divino sunt naturaliter nota, igitur est de objecto soli Deo naturaliter noto: sed solus Deus est sibi soli naturaliter notus – la teologia riguarda le cose naturalmente note solo all’intelletto divino, quindi

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Ma come seguire questo comando, che sembra aprire il cammino solo per poi richiuderlo? Come è possibile prendere (in realtà usurpare) il punto di vista di Dio su Dio senza cadere in ciò che l’Illuminismo, con qualche ragione, qualificherebbe come stravagante e fanatico (Schwämerei)? Ricordare la «metafisica dei santi» non basta perché – anche supponendo che la theologia mystica introdotta dalla catalogazione moderna (per opposizione alla theologia scolastica e alla theologia positiva) sia in grado di delineare l’accesso pensabile alla conoscenza di Dio a partire da sé – per ipotesi lo si potrebbe fare solo rinunciando od oltrepassando la logica della metaphysica, quindi conservando integralmente la difficoltà. Al contrario, come si è visto, ogni tentativo di ristabilire la connessione (se non la subalternità) tra la conoscenza propriamente rivelata di Dio e la sua conoscenza detta naturale si espone non alla sottomissione della seconda alla prima, ma della prima alla logica universale della seconda. Quindi, come è possibile fare buon uso della dicotomia di Pascal, che oppone la conoscenza delle «cose umane» a quella delle «cose divine»? Nonostante corrisponda già a un sintomo della modernità metafisica, questa dicotomia potrebbe comunque indicare la direzione, dal momento che identifica i due termini. Ora, se a volerle conciliare e unificare non c’è nulla da guadagnare, né per l’una né per l’altra (come provato dalla nostra indagine), rimane la possibilità di pensarne l’opposizione. A livello concettuale opporremo quindi la prima via – che segue la logica filosofica (e metafisica) e procede per disvelamento (alêtheia), alla seconda (apokalupsis) – che procede teologicamente per scoprimento. Proprio la loro opposizione consente di caratterizzare nel dettaglio la loro pertinenza e i loro rispettivi ambiti.

si tratta di un oggetto naturalmente noto solo a Dio: ma solo Dio è a lui solo naturalmente noto» (Duns Scoto, Ordinatio, Opera omnia, vol. I, Typ. Polygl. Vaticana, Città del Vaticano 1950, prologus, p. 3, q. 1, n. 152, p. 102).

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L’una e l’altra logica Lo scoprimento (apokalupsis), infatti, non rifiuta semplicemente il disvelamento (alêtheia), né pretende di annullarlo, ma lo raddoppia, limitandone il campo logico per sviluppare quello della fede; tuttavia, senza assimilarsi all’uso comune o alla ragione del concetto, non manca né dell’uno né dell’altro, perché questa suddivisione propone ancora due logiche; di conseguenza, tanto l’una quanto l’altra devono affrontare un logos; anche il logos tou staurou (1Cor 1,18) corrisponde a un logos, al punto da spiegare Dio stesso con il titolo di Logos (Gv 1,1). D’altronde, la «sapienza di questo mondo» può entrare in contraddizione con la «sapienza di Dio» (1Cor 1,20‑21) e si possono squalificare vicendevolmente come «stoltezza» (1Cor 1,18; 1Cor 20,24) solo se entrambe si sfidano rivendicando per sé una logica superiore. Infatti, la «stoltezza» emerge perché la logica comune (quella de «la filosofia e [dei] vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo», Col 2,8) non arriva a concepire né a ricevere la logica e il logos del Logos3. La logica comune non vi giunge perché «il mondo», cioè noi, che ci vantiamo di restare Greci nella nostra comprensione della logica, «cerchiamo la sapienza» (1Cor 1,22) proprio come la cercava Aristotele, nell’ente in quanto ente e, soprattutto, perché non ci chiediamo mai seriamente perché questo «eterno oggetto di ricerca» ci risulti sem3.  Vioulac segnala giustamente che la «stupidità» – follia, môria, si distingue dalla mania – delirio o demenza, talvolta ritenuta far sentire la voce degli dèi, come «l’ebetudine, l’abbruttimento, la stupidità» (J. Vioulac, op. cit., p. 118), di ciò che, colpito da stupore e impotenza, «diventa insulso» (così, se si ammette la maggioranza dei manoscritti, il sale diventa insipido, môranthê, evanuierit, Mt 5,13; Lc 14,34). Dio sconvolge la sapienza del mondo inebetendola: «perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio» (1Cor 3,19). Une logica a tal punto inebetita davanti a un’altra logica più potente vi vede quindi solo paradossi che vorrebbe dissipare. Proprio quanto continua a tentare di fare la metaphysica moderna.

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pre «problematico (aei zetoumenon kai aei aporoumenon)»4; infine, non vi giunge perché non mettiamo mai seriamente in questione l’evidenza del nostro concetto di sapienza, sebbene essa già da tempo sia ridotta a scienza degli enti e, oggi anche a scienza della produzione di oggetti, secondo una logica limitata che però si suppone ancora essere evidente. L’apokalupsis dello scoprimento, invece, non si sviluppa senza logica, ma oppone al disvelamento dell’alêtheia un’altra logica, che ritiene essere più potente e comprensiva perché molto più rigorosa. La questione del rapporto tra scoprimento e disvelamento, apokalupsis e alêtheia non si gioca fuori ma entro una certa logica o piuttosto all’interno di due modalità del logos perché, alla fine, si tratta di sapere se la nostra concezione della logica può dettar legge a ogni logos e quindi anche al logos del Logos – in breve: se essa può e deve lasciarsi riformare dalla logica del Logos. Il peso della questione così riformulata riguarda innanzitutto la filosofia (alêtheia): come è possibile che la logica filosofica si riformi al fine di non farsi più confondere davanti al Logos? Il Logos, infatti, si scopre e si fa fenomeno a pieno titolo (quantomeno questa è la pretesa dell’evento biblico), sebbene ciò che è inteso per fenomeno dalla filosofia (o, piuttosto, dalla logica elaborata dal sistema della metafisica) non consenta di concepire che lo possa. Questa difficoltà, tuttavia, non dipende solo dalla filosofia ma soprattutto dal Logos stesso e dalle condizioni della sua manifestazione: quando il Logos si manifesta, «diventando simile agli uomini, dall’aspetto riconosciuto come uomo, skêmati euretheis ôs anthrôpos» (Fil 2,7), si manifesta

4.  Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2004, Z, 1, 1028b3, p. 289; cfr. J.-L. Marion, La science toujours recherchée et toujours manquante, in J.-M. Narbonne - L. Langlois (éds.), La Métaphysique. Son histoire, sa critique, ses enjeux, Vrin, Paris 1999, pp. 13-36.

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proprio come un uomo e non come un oggetto o un enunciato oggettivabile; ora, la metafisica in fin dei conti pensa il fenomeno come un oggetto che appare e si lascia dire seguendo le condizioni dell’esperienza: «le condizioni a priori di una possibile esperienza in generale sono allo stesso tempo (zugleich) condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza»5. Se un fenomeno non si riduce all’oggetto e al suo enunciato significa che non appare a partire da uno sguardo che lo prevede (nelle forme pure della sua intuizione), che lo pensa in anticipo (secondo i concetti a priori del suo intelletto) e che lo sintetizza (a partire dalla sua appercezione attiva), ma che appare o può apparire a partire da se stesso. Sarebbe dunque necessario che certi fenomeni non solo apparissero nell’aperto del visibile, ma che apparissero imponendosi a partire da se medesimi, che sorgessero da altrove e non dal visibile che conosciamo in anticipo, poiché ciò che c’è da vedere non si lascia sempre pre-vedere ma, con la sua apparizione, si reca apertamente alla visibilità ed emerge portando lo spazio stesso della sua apparizione, spazio che, prima di questo emergere, restava chiuso: «ciò che c’è da vedere non proviene dai fenomeni [già] visibili (mê ek phainomenôn to blepomenon gegonenai)» (Eb 11,3). In quanto resuscitato, quindi in quanto fenomeno per antonomasia perché fuori dal comune, Cristo si mostra in modo eccezionale in quanto si dà secondo un modo eccezionale. Senza la sua donazione, che apre la possibilità della sua manifestazione, non apparirebbe. Nel fenomeno centrale dello scoprimento biblico si ritrova così il carattere del fenomeno secondo la sua definizione propriamente fenomenologica (e non metafisica), come evento (e non più come oggetto), ed evento che si rivela nella misura in cui si dà. «Dando revelat et 5.  I. Kant, Critica della ragion pura, cit., A 111, p. 1223, sottolineature nostre; sull’interpretazione (tra le altre kantiane) del fenomeno come oggetto, cfr. J.-L. Marion, Certezze negative, cap. V, § 26, cit., pp. 225 ss.

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revelando dat»6, però questa volta in persona: «solo in Gesù si manifestò la verità di Dio – in solo Jesus Veritas Dei apparuit»7 perché, come sempre, il modo e il grado di donazione decidono di ciò che si mostra. È giunto ora il momento di cercare di delineare come lo scoprimento (apokalupsis) si distingua dal disvelamento (alêtheia) secondo le modalità del darsi a vedere e quindi anche secondo le modalità del non lasciarsi vedere, essendo anche questi ultimi dei modi di donazione. La loro differenza è data da quattro scarti, si vedrà che i primi riguardano più precisamente la definizione filosofica – quindi metafisica – della verità (alêtheia) come adaequatio, mentre gli ultimi due riguardano la verità (alêtheia) nella sua accezione fenomenologica, come ciò che si disvela in sé, da sé.

Omogeneità, eterogeneità Il primo scarto riguarda l’epistemologia e si apre tra l’omogeneità o l’eterogeneità del conosciuto con il conoscente, detto altrimenti: tra l’adeguatezza o l’inadeguatezza di ciò che si mostra con colui che lo vede, quindi riguarda direttamente la definizione canonica di verità come «adeguazione della cosa e dell’intelletto, adaequatio rei et intellectus»8. Infatti, nel di6.  Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, cit., VIII, 3, p. 180 (cfr. supra, cap. 2). 7. Girolamo, In Ephesios; tr. it., Commento alla lettera agli Efesini, Città Nuova, Roma 2010, II, 4, 21, p. 152; o Ireneo, «Veritas ergo Dominus noster existens – nostro Signore è la verità» (Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., vol. II, III, 5, 1, p. 20 [SC 100**, p. 122]). 8.  Tommaso, De Veritate; tr. it., La verità. Questioni 1-9, in Id., Le questioni disputate, vol. I, ESD, Bologna 1992, q. 1, a. 1, resp., p. 79. Cfr. Kant: «nämlich die Übereinstimmung der Erkenntnis mit ihrem Gegenstand – vale

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svelamento (alêtheia) ciò che si dà a vedere resta sullo stesso livello di colui che lo vede; letteralmente, ciò che si vede ha a che vedere con colui che lo vede. Si potrà dire che nella conoscenza vera l’intuizione riempie alla pari [à égalité] il concetto o, più fenomenologicamente, che il riempimento intuitivo eguaglia [égale] la mira del conferimento di senso, il noema eguaglia [égale] la noesi. Solo questa uguaglianza di principio assicura (o quantomeno consente, non fosse che come ideale regolatore), l’adeguamento tra i due termini, la cosa e la mente, il visibile e lo sguardo. In linea di principio la particolarità di ciò che si presenta da conoscere non accade perché so che cosa devo vedere, perché so in anticipo che vedrò solo un oggetto; infatti, per la maggior parte del tempo mi aspetto ciò che si verifica, perché si tratta di un oggetto che emerge secondo il mio a priori, o almeno secondo condizioni a prio­ri di verifica. Quindi posso ragionevolmente sperare in un adeguamento tra ciò che si dà e ciò che se ne conosce, perché la ragione consiste proprio nella realizzazione di questa adaequatio9. In breve, conosco perché riconosco e riconosco perché posso identificare (per concetto) ciò che vedo (per intuizione). In linea di principio l’identità singolare di colui che percepisce a dire l’accordo della conoscenza con il suo oggetto» (I. Kant, Critica della ragion pura, cit., A58/B82, p. 177); Husserl: «se ci atteniamo al concetto or ora accennato di verità, essa è allora […] un’identità: la piena concordanza tra l’inteso e il dato come tale (die volle Übereinstimmung des Gemeinten und des Gegebenem als solchem)» (E. Husserl, Logische Untersuchungen, Niemeyer, Tübingen 19132; tr. it., Ricerche logiche, vol. II, il Saggiatore, Milano 2005, VI, § 39, p. 423) e la discussione di M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 44, pp. 258 ss. 9.  L’obiezione secondo la quale servirebbe un terzo termine per sanzionare l’adaequatio tra la cosa e la mente non ha la forza che le viene attribuita. Qui Spinoza ha ragione: l’adaequatio si fa sentire e si impone da sé, direttamente, a titolo di evidenza. L’idea vera appare decisamente come index sui et falsi, essa pesa della sua propria gloria – tanto più quanto più satura l’inevitabile finitezza della mente che la riceve.

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non entra in gioco, perché in linea di massima la percezione può sempre universalizzarsi tramite la costituzione comune dell’inter-oggettività (perché ciò che dopo Husserl si intende con intersoggettività di diritto consiste solo nella comune costituzione di un oggetto comune). Ne consegue che la neutralità del d(on)ato (colto come un oggetto nel suo concetto adeguato) consente e anche esige la neutralizzazione del recettore e delle situazioni di ricezione. Nello scoprimento (apokalupsis), al contrario, ciò che si dà non può né deve restare allo stesso livello di colui che lo riceve; ciò accade nel caso in cui l’incomprensibilità definisce positivamente ciò che si mostra, secondo la regola stabilita da Descartes: «la stessa incomprensibilità è contenuta nella ragione formale dell’infinito, ipsa incomprehensibilitas in ratione formali infiniti continetur»10. Ciò succede a maggior ragione per ogni fenomeno saturo, in cui l’intuizione che (si) dà oltrepassa – talvolta di molto – il limite di ciò che il concetto o il conferimento di senso preventivamente intenzionati possono riceverne e quindi concepirne; l’eccesso di ciò che si dà su ciò che ci si attendeva di concepirne provoca una diseguaglianza rovesciata: non più per difetto di intuizione verificante (come nel caso dell’errore o del dubbio di fronte a un fenomeno comune o oggetto), ma per eccesso di questa intuizione sul o sui conferimenti di senso pre-visti. Questa disparità di principio impedisce l’adeguamento tra i due termini, la cosa e la mente e talvolta in forma definitiva (come nel caso dell’infinito), più spesso per un certo periodo di tempo, come nel caso in cui un d(on)ato finito, nel quale non conosco subito ciò che vedo, mi coglie di sorpresa; in quel caso, interloquito dall’incontro, non mi aspetto mai ciò che mi avviene; privo di previsione, comprendo solo ciò che comunque, in un certo senso, consta-

10.  R. Descartes, Meditazioni, cit., Quinte risposte, p. 1171.

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to benissimo. In breve, colpito a freddo da ciò che ricevo, non posso afferrarlo ma me ne trovo afferrato («non tam capere quam capi»)11. Ciò che si dà può quindi manifestarsi solo oltre misura e malgrado la capacità di colui che lo riceve (o non riceve), che lo percepisce (o lo percepisce poco), perché – ripetiamolo – se tutto ciò che si mostra si dà, non tutto ciò che si dà si mostra, di modo che l’inadeguatezza tra i termini fa emergere l’irriducibile inadeguatezza di ciò che si dà rispetto a colui che lo riceve: quest’ultimo (e non più questo primo), ormai destituito dal rango di Io trascendentale e assumendo la figura di testimone, segnala la sua eterogeneità epistemologica rispetto al fenomeno saturo.

Ritrarsi interno, ritrarsi esterno La differenza tra i due modi di ricezione dipende da una differenza anteriore, quella tra i due modi del ritrarsi di ciò che si dà su ciò che si mostra. Il ritrarsi di ciò che si dà senza che il testimone possa vederlo adeguatamente può infatti essere inteso sia come un ritrarsi interno (nell’immanenza fenomenica), sia come un ritrarsi esterno (per trascendenza fenomenica); in altri termini: sia come un ritrarsi ad intra della manifestazione del fenomeno stesso, sia come un ritrarsi che si aggiunge ad extra a questa manifestazione. Nel disvelamento (alêtheia) – che dipende solo da ciò che vi si scopre – io resto neutro, spettatore distante, disimpegnato, ritraentesi; comprendo tanto meglio il fenomeno quanto più non mi comprendo in lui, non vi interferisco, non lo modifico. Esso mi rimane oggettivo e di11.  «Qui autem ad singulas ejus [sc. Dei] perfectiones attendere, non tam capere quam ab ipsis capi – coloro però che si sforzano di prestare attenzione alle sue singole perfezioni, e non tanto per afferrarle, bensì per esserne afferrati» (ivi, Prime risposte, pp. 831 ss.).

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sponibile, indipendente (vorhanden) e mi faccio scrupolo di non appropriarmene per il mio uso (zuhanden). La verità, più ancora, implica che, dal momento che questo fenomeno è costituito secondo le condizioni a priori dell’esperienza, con lo stesso scrupolo ne venga mantenuta l’universalità, affinché ciò che mi appare possa apparire anche a chiunque (a ogni mente razionale), senza interferenza della mia individualità e senza che le mie idiosincrasie vi portino confusione. Quindi, se la manifestazione resta imperfetta e la scoperta resta parziale, ciò che in parte ricopre la cosa deriva ancora da ciò che dovrebbe o avrebbe potuto manifestarsi. Il ritrarsi (errore, oscurità, concetto contraddittorio, difetto di conferimento di senso, idea materialmente falsa, ecc.) appartiene sempre all’immanenza fenomenologica della scoperta: posso aver permesso questo ritrarsi per mancanza di intelligenza, per negligenza, perché non l’ho voluto o perché non è affar mio12. Nello scoprimento (apokalupsis), al contrario, il fatto che per un certo tempo la manifestazione può, oppure deve definitivamente ritrarsi dal suo pieno dispiegamento, non dipende dal suo proprio ritrarsi, da una trattenuta che dovrebbe darsi o da un’avarizia fenomenica, ma dai limiti della capacità di colui che riceve (dal modus recipientis), dalla sua ritrattazione di fronte a ciò che percepisce come la minaccia di un’irruzione, dalla sua paura della grande sostituzione che chiederebbe ciò che si dà, in breve dalla sua resistenza. L’incompletezza della manifestazione non consegue più dal ritrarsi di ciò che non stareb-

12.  Non vale l’obiezione secondo la quale potrei avere provocato volontariamente l’errore, il controsenso, l’oscurità, ecc., quindi che sarei responsabile del ritrarsi e della non manifestazione; non vale perché, in questo caso, volevo provocare il ritrarsi e questa manovra resta tanto più razionale quanto più riesce a ingannare altri; quindi, in secondo grado, non c’è ritrarsi per me. Se inganno l’altro dissimulandogli la cosa (e il ritrarsi) non mi sbaglio, resto al di fuori della (non) manifestazione. Imbroglio l’altro, non me: io resto intatto.

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be dando se stesso a fondo ma dal ritrarsi di ciò che non vuole cedere il suo fondo [fonds], persino per arrivare a ricevere ciò che si dà a fondo. Infatti, qui, di fronte a un fenomeno saturo – che si mostra solo in proporzione a quanto si dà, quindi in proporzione a quanto può farsi ricevere – ciò che si dà non può mostrarsi senza essere ricevuto dall’unico che possa vederlo. La misura dello scoprimento dipende dalla capacità di ricevere, quindi di compromettersi con ciò che si dà; può anche accadere che l’evidenza sia oscurata, o rifiutata, proprio perché si dà senza misura13. Colui che riceve interviene direttamente e in modo essenziale, sebbene ad extra, nella manifestazione di ciò che tuttavia si dà da altrove. Il ritrarsi (confusione, accecamento deliberato o spontaneo, rifiuto, ecc.) appartiene alla trascendenza fenomenologica dello scoprimento.

Il ripiegamento e il dispiegamento della piega Una volta precisata la differenza tra disvelamento e scoprimento, si può cercare di definire le opposte ragioni del loro ritrarsi. Tuttavia, la terza opposizione tra le due logiche può essere concepita solo superando la mera definizione di verità come adaequatio (metafisica), per accogliere la sua determinazione più propriamente fenomenologica. Qui la differenza diventa tanto più netta in quanto, nell’uno e nell’altro caso, il

13.  Così si spiega la parabola del banchetto rifiutato dagli invitati: non solo devono «occuparsi» (Mt 22,5) del loro campo o dei loro affari e «tutti cominciano a scusarsi» (Lc 14,18), ma possono arrivare fino a «insultare e uccidere» coloro che li invitano (Mt 22,6). Anche scoprire un tesoro in un campo può diventare una prova, se per comprare il campo e ricevere il tesoro è necessario vendere tutto; pochi lo fanno, ancor meno «pieni di gioia, apo tês kharas, prae gaudio» (Mt 13,44). Non bisogna mai sottovalutare il rischio e il pericolo che c’è a ricevere, spesso più grande che la difficoltà a donare.

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ritrarsi consegue dalla fenomenicità stessa di ciò che si d(on)a per mostrarsi; si tratta infatti di dono. Ora, il dono si dà sempre seguendo una piega, la piega del dono si dà sempre dispiegandosi e il suo dispiegamento può accadere in due modi, cioè provocando il ritrarsi secondo due distinte modalità, addirittura contrarie l’una all’altra. Per il disvelamento (alêtheia) il ritrarsi proviene dal ripiegamento della piega della donazione. Spetta a Heidegger il merito di aver visto e descritto meglio di molti altri, se non il solo, il paradosso del dono14. Al fine di comprendere il ritrarsi dell’essere provocato dall’alêtheia egli è riuscito a compiere la prima seria analisi del “si d(on)a, es gibt”. Heidegger è stato in grado di non sfigurarlo tramite la spazializzazione (con “c’è”, there is”) o tramite il legame con un verbo ausiliare (avere, “il y a” “hay”, o essere, “there is”, “c’è”), come viene comunemente tradotto; infatti, in “si d(on)a” non è questione né di spazio, né di avere e neppure di essere, ma ne va letteralmente di un dono che (si) d(on)a senza identificarsi ad altra cosa che a quel dono rimasto anonimo, di origine sconosciuta (es, si); bisogna quindi affrontarlo come tale, senza protezioni. Che cosa però dà a intendere ciò che “si d(on)a”? O piuttosto che cosa dà “si d(on)a” – nel senso in cui il pittore, dopo aver lavorato al suo quadro, indietreggia di uno o due passi, guarda e si interroga

14.  Cfr. M. Heidegger, Zeit und Sein (1962), in Id., Zur Sache des Denkens (GA 14), Klostermann, Frankfurt a.M. 2007; tr. it., Tempo ed essere, in Id., Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, pp. 97-126 e anche Id., Die onto-theologische Verfassung der Metaphysik (1957), in Id., Identität und Differenz (GA 11), Klostermann, Frankfurt a.M. 2006; tr. it., La struttura onto-teo-logica della metafisica, in Id., Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, pp. 53-98. Sull’ermergere di questa questione cfr. il nostro studio J.-L. Marion, Remarques sur le rôle de la donation (Gegebenheit) dans la première pensée de Heidegger, in Id., Figures de phénoménologie, Vrin, Paris 2012, cap. III, pp. 45-58. Sul motivo di questo ritrarsi nell’es gibt in generale, cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., § 3, pp. 30-46 e Id., Certezze negative, cit., § 20, pp. 176 ss.

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su ciò che vede, per vedere e sapere “che cosa si dà” in questo dono (in questo dato, in questa resa)? Si dà un dono, beninteso, ma resta ancora da intendersi sulla logica che consegue da questo dono. Evidentemente, “si d(on)a” il dono finale, qui, per esempio, il quadro portato a termine; ma, in generale, “si d(on)a” un ente ormai svelato, manifesto e presente; e “si d(on)a” l’ente d(on)ato, abbondantemente, regolarmente e in forma manifesta, perché (compreso forse attraverso l’essere e il tempo) si realizza la risalita e l’avanzata dell’invisto verso questo ente infine visibile; l’ente così d(on)ato si trova a essere d(on)ato solo perché compie la donazione che l’ha provocato, prodotto e proposto. Quindi, l’ente d(on)ato (il dono), d(on)andosi, d(on)a da intravvedere anche la donazione da cui emerge. Donde la piega del dono, che dispiega il dono d(on)ato e anche la donazione secondo la quale si d(on)a. A proposito della questione della differenza ontologica si potrà quindi dire che l’ente d(on)ato (Gabe) si d(on)a solo tramite e seguendo la donazione (Gebung) dell’essere; la venuta (Ankunft) dell’uno implica il sopraggiungere dell’altro. Pertanto, la venuta definitiva dell’ente d(on)ato non manifesta direttamente né evidentemente ciò che implica, cioè il sopraggiungere dell’essere; o, piuttosto l’arrivo dell’ente d(on)a­to implica (nel senso antico di implicare15) il sopraggiungere del­ l’essere, cioè lo rimpiazza e lo ricopre; detto altrimenti: l’ente confisca all’essere la presenza, offuscandola, in quanto occupa da solo l’intera scena fenomenica. Ne deriva il paradosso per cui più l’ente è d(on)ato e manifesto (tramite l’essere), meno appare l’essere che lo d(on)a. A proposito della questione generale del dono come tale, questo stesso paradosso enuncia che più il dono si manifesta, meno appare la donazione; in 15.  Ossia annodare, allacciare, mescolare, imbarazzare, intrappolare, piegare dentro, confondere e infine (in senso logico) contraddirsi, mettersi in contraddizione. Implicare qui significa quasi complicare.

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breve: appartiene al dono di trattenere e dissimulare in sé la donazione. È necessario capire bene che questo ritrarsi della donazione non ha nulla di accidentale, ma obbedisce alla logica del dono, perché se la donazione restasse chiaramente visibile, lo farebbe tramite la visibilità del donatore, che ha ancora una posizione sporgente o retrostante al dono d(on)ato; così, questo dono non sarebbe realmente d(on)ato in quanto tale, ma resterebbe sotto l’ipoteca del suo dispensatore. Al contrario, il dono appare come definitivamente d(on)ato solo se la donazione (e il donatario) l’abbandona, quindi se sparisce dalla scena fenomenica. Per il disvelamento (alêtheia) l’ente e l’essere – quindi in ultima istanza il dono e la donazione – per una necessità essenziale appaiono inversamente proporzionali: se uno si manifesta, l’altro deve ritrarsi, e viceversa. Nel disvelamento alla piega del dono (donazione/dono) è essenziale il suo ripiegamento, pertanto questo modo di ritrarsi non implica mai il minimo rifiuto di ciò che si manifesta tramite un terzo (trascendente alla fenomenicità), perché risulta esclusivamente dalle condizioni del ripiegamento della piega del dono, cioè dal dono stesso. Al contrario, in situazione di scoprimento (apokalupsis), il ritrarsi risulta direttamente dal dispiegamento della piega della donazione stessa, qui il dono non offusca la donazione più di quanto la donazione non trattenga il dono, perché qui la donazione d(on)a fino all’abbandono, in modo che il dono non si compie più come un possesso (semplicemente passando da un proprietario a un altro), ma nel sopraggiungere della donazione «fino alla fine, eis telos» (Gv 13,1). «Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito, ou gar ek metrou» (Gv 3,34). Qui dono e donazione non si offuscano mutualmente, ma si accrescono di pari passo secondo una proporzionalità diretta. Infatti, non sono più definiti tramite il possesso, neppure quello della presenza, ma per mezzo di una comunione in cui ogni termine continua a donarsi

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all’altro e a riceversi da lui: il Padre glorifica il Figlio e «ancora per poco, euthus» (Gv 13,33) il Figlio glorifica il Padre. Il dono, venendo dal Padre al Figlio, dal Figlio ritorna al Padre, senza immobilizzarsi mai in un possesso esclusivo; d(on)ato senza fine e senza fine ricevuto, manifesta in sé la donazione come e tanto quanto manifesta se stesso, lungi dal mascherarla. Di conseguenza nessuna contraddizione può più opporre tra loro dono e donazione, lo scoprimento (apokalupsis) si dispiega secondo la sua unica misura, quella di Dio, che non ne ha. Come è però possibile spiegare che una situazione positiva (qui dono e donazione crescono in proporzione diretta) sfoci in una nuova difficoltà, che prima non si poteva incontrare, cioè che se tutto ciò che si mostra si d(on)a e se tutto si mostra nella misura in cui si d(on)a, lo scoprimento (apokalupsis) – il cui privilegio è quello di d(on)arsi senza misura – non si scopre a propria volta senza misura? Perché ciò che si d(on)a «fino alla fine» non appare già «in abbondanza, perisson» (Gv 10,10), «secondo il dono della grazia di Cristo, katà to metron tês dôreas tou Christou» (Ef 3,7)? Ciò accade per una ragione già ricordata a proposito della trascendenza fenomenologica dello scoprimento: perché ciò che si d(on)a e si mostra non può manifestarsi senza ciò che lo riceve, quindi secondo la misura della sua capacità, che nel nostro caso è limitata. Solo Cristo può ricevere senza misura il Padre che si d(on)a senza misura e nessun altro oltre a lui, in questo momento (in via) può ricevere senza misura ciò che è d(on)ato dal Padre: questa «iperbole della carità» (Ef 3,19) nessuno «è capace di portane il peso, bastazein arti» (Gv 16,12). Qui è fenomenicamente in gioco il principio di «trovarsi misurati con la misura con la quale si avrà misurato» (Mt 7,2 e paralleli). Non solo la misura della ricezione, che è sempre finita, limita la manifestazione di ciò che si d(on)a senza misura, ma proprio questa de-misura della donazione fa apparire la misura ristretta della ricezione. La de-misura della donazione, quindi,

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giudica la finitezza della ricezione, così la stessa finitezza della ricezione diventa parte integrante della manifestazione di ciò che si d(on)a all’infinito ma può mostrarsi solo risplendendo sullo schermo finito di colui che la riceve come un dono, o anche come uno choc. Il rifiuto può sempre aver luogo, perché questo luogo coincide con il luogo stesso dell’accoglienza; il dispiegamento della piega del dono comprende l’appello e la risposta, ma l’appello si intende solo nella misura in cui la risposta echeggia la sua prima voce, quindi il dispiegamento della piega comporta sempre la possibilità del rifiuto, può sempre avvenire che «guarderete, sì, ma non vedrete (blepontes blepsete kai ou mê idête)» (Mt 13,14, che cita Is 6,10). Il dono si abbandona al punto da lasciare il compimento della sua piena manifestazione alla mercé di un’istanza che gli rimane fenomenicamente eterogenea ed esterna: lo scoprimento, che viene da altrove, lascia la sua verità dipendere dalla sua ricezione da [par] altrove. Poiché d(on)are e manifestare possono crescere in proporzione inversa, il dispiegamento della piega permette e provoca il suo eventuale ripiegamento.

Verifica e menzogna Da qui proviene un’ultima opposizione che riguarda i modi di verifica del dono nella sua donazione. Per il disvelamento (alêtheia), la verifica si misura direttamente: la verità si disvela tanto più quanto più si dispiega l’evidenza e chiunque abbia occhi per vedere la vede; la gloria del fenomeno provoca immediatamente l’evidenza della sua manifestazione. Certo l’evidenza non si confonde con l’intuizione, talvolta essa può anche dispensarsene, ma il più stretto formalismo non fa altro che mirarla tramite altri mezzi, che suppone essere più sicuri. Certo l’evidenza può farsi rara ed essere raggiunta solo al termine di un lungo processo, oppure rimanere un mero idea­

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le della ragione, tuttavia solo l’evidenza decide di tutto e può risolvere ogni questione. Nessuno può rifiutare di accettarlo, salvo restare cieco, porsi al di fuori della razionalità (demens, o piuttosto amens). Per lo scoprimento (apokalupsis), che si verifica solo indirettamente, le cose vanno in modo diverso, perché, quando la verità si scopre, non appare nella misura in cui si dà (senza misura, fino alla fine), ma nella misura in cui la si può e la si vuole ricevere (ad modum recipientis), di modo che, nel momento in cui ciò che si dà oltrepassa per definizione ciò che lo riceve, non può e quindi non deve mostrarsi come si dà, come tale. Nel caso eminente di Dio – «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18) – l’invisibilità di principio impedisce positivamente qualsiasi manifestazione adeguata, addirittura qualunque manifestazione possibile nelle comuni condizioni di visibilità. Anziché sproloquiare del Deus absconditus, vale la pena di considerare la vera difficoltà e l’aporia insuperabile: se si potesse vedere Dio, delle due cose l’una: o non si tratterebbe di Dio (secondo il principio che se lo si può comprendere, non è lui16); oppure si tratterebbe di lui e la sua gloria brucerebbe e annienterebbe qualunque occhio che volesse espor16.  «Quid ergo dicamus, fratres, de Deo? Si enim quod vis dicere, si cepisti, non est Deus: si comprehendere potuisti, aliud pro Deo comprehendisti. Si quasi comprehendere potuisti, cogitatione tua te decepisti. Hoc ergo non est, si comprehendisti: si autem hoc est, non comprehendisti – che cosa dunque diremo di Dio, fratelli? Se infatti ciò che vuoi dire lo hai capito, non è Dio. Se sei stato capace di capirlo, hai compreso una realtà diversa da quella di Dio. Se ti pare d’essere stato capace di comprenderlo, ti sei ingannato a causa della tua immaginazione. Se dunque lo hai compreso, Dio non è così; se invece è così, non lo hai compreso» (Agostino, Sermo LII; tr. it., Discorso 52, in Id., Discorsi II/1, Opere, vol. XXX/1, Città Nuova, Roma 1982, 6, 16, p. 75; cfr. J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 44, pp. 373 ss.). Sottolineiamo che si tratta non di (non) conoscere Dio, ma unicamente di (non) comprenderlo (comprehendere, comprehensibilis); ora, comprendere implica di raggiungere il concetto adeguato di un oggetto. Questa distin-

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visi. Tuttavia, questo insuperabile paradosso non impedisce in alcun modo di concepire Dio, perché lo stesso testo, nella stessa frase, aggiunge che il suo «Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, lui ce ne ha fatto l’esegesi (ekeinos exêgêsato)». Come tenere insieme queste due affermazioni? Riconoscendo che l’apokalupsis, anche senza verifica diretta, permette una verifica indiretta che convalida il suo compimento e la sua ricezione. L’invisibilità di Dio non sarà mai soppressa, ma si traspone nella sola visibilità che i nostri occhi possano sopportare: «da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (1Gv 2,3). Il pensiero ebraico traduce questo trasferimento tramite il principio che la Torah vale più di Dio; a ciò bisogna aggiungere che rispettare la Torah offre la sola visibilità non idolatrica dell’invisibilità divina, perché vedere Dio non consiste nel farsene un’immagine ma nel vedere come egli vede e agire come egli agisce – quindi seguire i suoi comandamenti. La scena in cui si verificano la mia conoscenza (senza comprensione) e la mia vista (senza visibilità immediata) di Dio si apre nel e sul volto del mio prossimo, che vedo incontestabilmente e che, per questo motivo, diventa una prova per il mio sguardo, una prova in cui si misura ciò che il mio sguardo può sopportare di vedere. D’altronde quando si chiede a Gesù quale sia il primo comandamento, egli risponde identificando due comandamenti in uno solo: Gesù «gli rispose “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello (omoia autê): “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Pro-

zione essenziale si ritrova esattamente in Descartes e Kant, ma numerose discussioni contemporanee lo ignorano.

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feti» (Mt 22,37‑40). Seguire i comandamenti di Dio sfocia nel vedere veramente un volto ma un volto d’uomo (a cominciare da quello di Gesù17) indirettamente e mediatamente sovrapponibile a quello di Dio. Questa trasposizione e sovrapposizione trova la sua formulazione esplicita come principio ermeneutico nella Prima lettera di Giovanni: «se uno dice: “Io amo Dio” e “odia, misê” suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede (on eôraken), non può amare Dio che non vede (on ouk eôraken). E questo è il comandamento [unico] che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche (kai) suo fratello» (1Gv 4,20‑21). In questo modo il comandamento (quindi l’intera Torah) instaura una situazione fenomenica conforme allo scoprimento (apokalupsis) e stabilisce il criterio della sua fenomenicità: sulla scena di manifestazione la visibilità si trasferisce dal volto invisibile di Dio al volto visibile di mio fratello, in modo che amando questo, a mia volta so con certezza che amo quello, proprio perché quello, Dio, ama «per primo» questo, mio fratello (1Gv 4,19). Subito anche il volto visibile di mio fratello riceve l’unzione dell’invisibilità di Dio, apparendo anch’esso come un volto invisibile – cosa confermata dal fenomeno saturo del tipo dell’icona nell’esperienza etica quotidiana. Si può dire anche della fede, anch’essa invisibile ma manifestantesi nelle opere: «così anche la fede: se non è seguita dalle opere (erga), in se stessa è morta […]. Mostrami (deixon moi) la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,17‑18). L’atto visibile della carità verso i fratelli manifesta la fede, invisibile, verso Dio, quindi indirettamente scopre il dono di Dio, perché «ogni buona donazione e ogni dono perfetto vengono dall’alto (pasa dosis agathê kai pan dôrema teleion anôthen estin), e discendono dal Padre, creatore della luce» (Gc 1,17).

17. Cfr. infra, capp. 13‑14.

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Si capisce così ciò che fa (o piuttosto non fa) colui che qui è qualificato come «mentitore»: dissocia i due volti, il visibile e l’invisibile, e rifiuta il transfer della loro manifestazione comune; certo, egli non dice un qualche enunciato falso, ma non fa ciò che il comandamento richiede, il trasferimento di visibilità; al contrario, ciò che fa (dissociare i due volti) impedisce proprio di vedere il vero volto di Dio – quello del mio fratello in quanto è amato da me secondo la stessa modalità di Dio. Il «bugiardo (pseustês)» non dice nulla di falso, ma impedisce la realizzazione pratica della manifestazione, egli blocca e trattiene lo scoprimento (apokalupsis), si attiene alla neutralità del disvelamento (alêtheia), che separa i due volti come due fenomeni distinti, come due oggetti, rifiutando così la Rivelazione. Non amare il proprio fratello (non amare il proprio fratello come se stessi) corrisponde a negargli il suo volto ma, allo stesso tempo e innanzitutto, a negare a Dio il suo volto in colui che si è scelto e mi ha affidato. Qui si conferma nuovamente l’analisi di sant’Agostino: la visione di ciò che manifesta la veritas lucens (la luce che rischiara e disvela) dipende da ciò che l’amore può ricevere dalla veritas redarguens (la luce che accentua il rilievo del mio paesaggio interiore e quindi mi accusa)18. La prima mi avviene da altrove, la seconda dipende a sua volta da altrove rispetto a sé – da me, secondo la mia capacità di ricezione (e di resistenza) a questo altrove. Poiché il fenomeno si manifesta a fondo e si dona in sé a fondo, esso non può proprio imporsi a me senza di me; non può far altro che pro-porsi in faccia a me, che posso non riceverne l’insorgenza e quindi decidere di non vederla. Il fenomeno che si scopre può trovarsi rifiutato, ricusato. Così, paradossalmente, si attesta la sua forza più grande.

18.  Cfr. ancora Agostino, Confessiones, cit., X, 23, 34, p. 331 (e J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., §§ 17‑20, pp. 148-173).

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Saturazione e trasfigurazione Abbiamo determinato più da vicino la fenomenicità propria alla Rivelazione: ormai distinta dal suo artefatto metafisico e dal disvelamento (alêtheia), si dispiega come lo scoprimento (apokalupsis) distinto da quattro tratti: l’eterogeneità epistemologica della cosa e della sua visione; la trascendenza fenomenologica ad extra dell’interloquito; la possibilità diretta (a partire dal dispiegamento della piega) del rifiuto; la verifica indiretta per trasferimento di visibilità. Avere determinato la Rivelazione come scoprimento permette di riprendere i tre concetti (testimone, resistenza e paradosso) che nell’introduzione non potevamo far altro che accennare (supra, cap. 1) astrattamente (supra, cap. 2). Una volta che essi vengono riferiti al fenomeno saturo per antonomasia, la Rivelazione, trovano tutta la loro pertinenza. Come visto19, un fenomeno saturo si definisce, tramite l’eccesso dell’intuizione sul concetto (o sul conferimento di senso), al contrario del fenomeno di diritto comune (e più ancora del fenomeno povero) che, seguendo la fenomenicità metafisica, ammette solo due altri rapporti tra questi termini, ossia o un deficit di intuizione in riferimento al conferimento di senso, che convalida solo in parte (ma in misura sufficiente per l’uso, ovvero per la conoscenza dell’oggetto tecnico); o una più rara uguaglianza tra loro (nel caso dell’evidenza, ideale in cui l’intuizione del vero riempie ogni conferimento di senso). Resta tuttavia possibile un terzo rapporto: che l’intuizione non si inscriva più né si risolva nel concetto, ma ne sommerga ogni conferimento di senso definito. È questo il caso dell’evento

19.  Cfr. supra, cap. 2 e J.-L. Marion, Dato che, cit., cap. IV, §§  21‑23, pp. 246-287, che completa e corregge J.-L. Marion, Le phénomène saturé, in J.-F. Courtine (éd.), Phénoménologie et théologie, Criterion, Paris 1992, pp. 79-118, ora in J.-L. Marion, Il visibile e il rivelato, cit., pp. 29-66.

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(senza antecedente prevedibile), di un idolo (il massimo del visibile che un tale sguardo sostenga), della mia propria carne (relativa a null’altro che a sé, immanente a sé) o infine dell’icona (il volto d’altri, che non modalizza il mio sguardo). Pertanto colui che vede un tale fenomeno deve accettare di non poterlo mai prevedere (tramite un concetto già conosciuto) né spiegarlo (tramite una relazione, causale o altro), ripeterlo (per fabbricazione e riproduzione), o condizionarlo (tramite i postulati della sua sperimentazione). Egli non può e non deve far altro che constatare, tramite un’innegabile evidenza empirica, ciò che si concepisce senza però lasciarsi comprendere; accade così con l’evento che ci lascia senza voce né vista perché ci priva di ogni conferimento di senso che lo renderebbe adeguatamente comprensibile, cioè possibile (in senso metafisico); al contrario ci impone un’effettività che, non essendo mai stata possibile né pensabile in anticipo, merita proprio il titolo di impossibile, come nel caso delle torri di Manhattan che crollano, o di Notre-Dame in fiamme. «Non è possibile!», questo grido spontaneo di fronte a ciò che però di fatto ci si impone caratterizza l’emergere del fenomeno saturo: ci lascia letteralmente senza le esatte parole per dirlo e senza concetti adeguati a comprenderlo. Certo ne parleremo sempre di più, spesso fino al chiacchiericcio e all’iterazione mediatica ma sempre a cose fatte, per trovargli o piuttosto ritrovargli spiegazioni ipotetiche, cause approssimative, rivendicazioni ideologiche, tutte indotte dagli effetti, i soli a essere indiscutibili, spiegazioni tutte inappropriate, inette. In breve, secondo la misura di ermeneutiche sempre da correggere o da completare, parleremo per non dire nulla o, più esattamente, senza giungere a conferimenti di senso esaustivi, adeguati all’eccesso del dato su ciò che possiamo comprenderne – all’eccesso del dato su ciò che potremmo inquadrare in un visibile patente. Ora, questa situazione d’eccesso del dato in sé sul mostrabile in quanto visibile per noi, già banale nell’esperienza comune,

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si verifica impeccabilmente e per antonomasia davanti al fenomeno della manifestazione di Cristo20. Così, al momento della Trasfigurazione i discepoli scelti per vedere in anticipo la gloria della resurrezione non dubitano assolutamente di ciò che vedono – che il suo «volto cambiò d’aspetto» (Lc 9,29) «come il sole» (Mt 17,2) e le sue vesti «come la luce» (Mt 17,2), «splendenti, bianchissime (lian): nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Non solo l’intuizione non fa difetto, ma la difficoltà a vedere risiede nel suo eccesso: i discepoli cadono faccia a terra, perché non sopportano l’intensità della visione e hanno «grande (sphodra) timore» (Mt 17,6)21. Ne segue che davanti a questo fenomeno saturo la vera prova proviene dalla «mancanza di nomi divini» (Hölderlin), o almeno di parole appropriate per tale manifestazione. Quando Pietro tenta di dire qualcosa (sulle tre tende che sarebbe «bene» montare per Cristo e per le due figure che si suppone siano Mosè ed Elia) reagisce bene, prendendo in prestito dalle Scritture uno dei concetti già disponibili (probabilmente la philoxenia di Abramo, Gn 18,1‑15), tuttavia parla a vuoto, perché i testi precisano «non sapeva che cosa dire, mê eidôs o legei» (Mc 9,6; Lc 9,33). Il conferimento di senso appropriato al fenomeno saturo non verrà da coloro che vedono il fenomeno ma dal fenomeno stesso, «dalla nube esce una voce», che consegna il conferimento di senso adeguato a questo eccesso di intuizione; si tratta però di un conferimento di senso a propria volta eccessivo e – letteralmente – incomprensibile:

20.  Prolunghiamo qui le indicazioni tratteggiate in J.-L. Marion, Dato che, cit., cap. IV, § 24, pp. 287 ss. e in Id., De surcroît, cit., cap. I, § 5, pp. 27 ss. 21.  Cfr. Mc 7,7. Più che per la tempesta in sé, i pescatori si spaventano per il miracolo che la fa cessare (Mc 4,39‑41); le donne venute alla tomba si spaventano per la Resurrezione (Mc 16,8). Ugualmente, al momento dell’arresto al Getsemani, le guardie «cadono a terra» quando Gesù risponde loro «Io lo sono, ego eimi» (Gv 18,5‑6), cioè si manifesta come tale.

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«questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»22 – infatti, questo conferimento di senso era già stato consegnato al momento del Battesimo23 ma era restato non compreso dalla folla. Sarà ripreso nell’ultima manifestazione pubblica al Tempio prima della passione, ma nuovamente malinteso o decisamente rifiutato (Gv 12,27‑28). La quasi impossibilità di nominare Gesù, di dargli un nome, il suo Nome, almeno a livello di un’analisi fenomenologica, consegue da un deficit del concetto al momento stesso della sovrabbondanza dell’intuizione, e non l’inverso24. Gli esempi di messa in scena di questo fenomeno saturo non mancano e obbediscono tutti alla stessa logica. Erode, che «sentì parlare di tutti questi avvenimenti [sc. relativi a Gesù]» constata immediatamente la sua ignoranza «chi è costui?» (Lc 9,7‑9); o Pilato, ascoltando Gesù nel suo tribunale, accusato di «essersi fatto Dio», «ebbe ancor più paura» (Gv 19,8). Così il cieco guarito alla piscina di Siloe, che si stupisce perché i sacerdoti del Tempio, dove conformemente alla Legge faceva constatare la sua guarigione, lo colpevolizzavano senza tuttavia potere (effettivamente senza volere) identificare il suo guaritore: «proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia (ouk oidate pothen estin)» (Gv 9,30). Anche – soprattutto dopo – la Risurrezione la situazione ermeneutica resta identica, perché i discepoli sul cammino di Emmaus non mancano di intuizione («Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro»25), piuttosto sono in difetto di conferimenti di senso 22.  Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35. 23.  Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22. 24.  In tal modo una difficoltà teologica ritrova, conferma e raddoppia la difficoltà filosofica di attribuire un significato al nome proprio in generale, e alle «espressioni essenzialmente occasionali» (E. Husserl, Ricerche logiche, cit., vol. I, I, § 26, pp. 348 ss.). 25.  Su questo episodio, un commento più completo in J.-L. Marion, «Lo riconobbero e divenne loro invisibile», cit., pp. 247-272.

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adeguati (quelli, propriamente, che Gesù gli sta per dare commentando le Scritture per rapporto a lui), perché non comprendono nulla (anoetoi), non vedono niente («lenti di cuore a credere, bradeis […] tou pisteuein», Lc 24,25); solo con un ultimo conferimento di senso, il segno del pane eucaristico, hanno compreso e «riconosciuto, egnôsthê» (Lc 24,35); lo scoprimento interviene dunque solo se un conferimento di senso venuto da altrove permette all’intuizione già data di mostrare un fenomeno compiuto. Lo stesso dicasi per Maria Maddalena, che certamente «vede (theorei)» Gesù, ma senza riconoscerlo, almeno prima che non si verifichi il conferimento di senso adeguato, la viva voce di Gesù in persona, che la chiama per nome e così si fa riconoscere, «Maria!»26. Infine, l’ultimo episodio di Giovanni, il caso dei discepoli tornati a essere pescatori di pesci, mostra esplicitamente la perfetta fenomenizzazione del Risorto (ephanerôsen, due volte in Gv 21,1, poi in Gv 21,14) e porta a compimento il principio di manifestazione che ritroveremo nei sinottici27. I discepoli sono tornati al lago, alle loro barche e alle loro reti; tutto come prima, quando «disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli

26.  Gv 20,14 e Gv 20,16. Si noti che Maria Maddalena si «gira» due volte. La prima volta (estraphê, Gv 20,14), quando, dopo aver detto agli angeli che «non sapeva, ouk oida» dove si trovasse il cadavere di Gesù, si gira per vedere (theôrei) colui che restava dietro di lei, ma ancora senza «sapere, ouk hêdei, che era Gesù»; quindi si tratta di un’intuizione senza conferimento di senso. La seconda volta, avendo sentito Gesù chiamarla con il suo proprio nome («Maria!» Gv 20,16), ella comprende chi è e gli rimanda il conferimento di senso equivalente: «Rabbunì, maestro!»; perché ripetere qui che ella si «volta, strapheisa» (Gv 20,16)? Forse per sottolineare che, questa volta, è il suo spirito che si inverte e si volta, in breve: che si converte al conferimento di senso venuto da altrove. In quel momento capisce ciò che vede, avendo ricevuto il conferimento di senso corretto e avendovi creduto (cfr. anche J. Grosjean, op. cit., pp. 257 ss.). 27. Cfr. infra, cap. 13, accostando Mt 10,26, Mc 4,22 e Lc 8,17.

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dissero: “Veniamo anche noi con te”» (Gv 21,3); questo ritorno agli affari rovescia con precisione la prima chiamata di Gesù: «e disse loro: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”» (Mt 4,19); essi non credevano più e quindi non vedevano più niente, poi non vedono più nemmeno i banchi di pesci e non pescano più nulla. Ma, «quando già era l’alba», come al mattino del sepolcro, Gesù «stette sulla riva»; egli li vede, ma loro «non si erano accorti (ouk êdeisan) che era Gesù» (Gv 21,4), allora egli parla loro, dando (o piuttosto suggerendo) il conferimento di senso adeguato a un’intuizione ancora non identificata; dapprima con una parola familiare, «figlioli, paidia!» (Gv 21,5), corrispondente all’appello «Maria!»; poi tramite il consiglio di gettare le reti «dalla parte destra» (la «destra di Dio»?); infine tramite il segno della rete riempita (letteralmente satura: apo tou plêthous tôn ixthuôn) di pesci e tuttavia intatta (Gv 21,6). Uno, il discepolo che Gesù amava, percepisce subito il conferimento di senso («è il Signore», Gv 21,7) e quindi vede il fenomeno saturo; l’altro non lo percepisce ancora, ma si mette nell’acqua per andare a vedere; riceve allora il segno – il braciere (Gv 21,9)28, i pesci e il pane – e soprattutto sta per ricevere il dono del conferimento di senso, cioè il dono stesso «venite a mangiare» (Gv 21,12), che riprende il dono eucaristico: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro, edôken autois» (Lc 22,19, cfr. Mt 26,26: dous tois mathêtais; Mc 14,22). Insieme al segno sacramentale, Gesù dona loro il conferimento di senso mancante e corretto: «Gesù

28.  Questa anthrakaia è probabilmente in rapporto con l’altro braciere, montato nel cortile del palazzo di Caifa, dove «il discepolo» aveva fatto entrare Pietro (Gv 18,18, unica altra occorrenza del termine nel Nuovo Testamento). Di fronte al Risorto che aveva rinnegato davanti a un fuoco simile, Pietro si confronta con il suo tradimento; si capisce meglio il dialogo che seguirà (Gv 21,15‑17). Può essere lo stesso per il «non sono io, ouk eimi» del rinnegamento, che si rovescia nel «è il Signore!» (Gv 18,17 e Gv 21,7).

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si avvicinò, prese il pane e lo diede loro (didôsin autois), e così pure il pesce» (Gv 21,13). Da quel momento i discepoli non chiedono più nulla, perché sanno e vedono: «nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano (eidotes) bene che era il Signore» (Gv 21,12). La fenomenizzazione è finalmente compiuta. Lo scoprimento di Cristo, in quanto fenomeno saturo per antonomasia perché radicalmente sorto da altrove, impone sempre dapprima un eccesso di intuizione che provoca la mancanza di qualsiasi nostro conferimento di senso, poi propone come unico conferimento di senso adeguato il suo stesso nome, che diventa sia l’indice dell’assurdità di questo fenomeno, sia il conferimento di senso stesso venuto da altrove, a prima vista inconcepibile per quanto udito («questi è il Figlio mio, ascoltatelo!», «questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento»). Questo nome può essere ricevuto o come l’incomprensibile, o come il Nome stesso. Anche il conferimento di senso si definisce così, letteralmente, come un segno che contraddice ciò che noi consideriamo come la nostra logica, il «segno di contraddizione, sêmeion antilegomenon» (Lc 2,34), un logos che, nel nome del Logos, va incontro al nostro logos. Una metalogica contro la metafisica.

In luogo di sé, il testimone Determinare la manifestazione di Cristo come fenomeno saturo per antonomasia permette di concepire un secondo carattere: l’Io assume lo statuto di testimone29.

29.  Rimandiamo a J.-L. Marion, Dato che, cit., cap. V, § 22, Il paradosso e il testimone, pp. 266 ss. e supra, cap. 2.

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In regime di alêtheia o di disvelamento, l’Io anticipa il fenomeno, o tramite la sua appercezione (Kant), o tramite la sua intenzionalità (Husserl); per definizione, il fenomeno sarà conosciuto dall’Io, perché costui ne organizzerà ogni possibile intuizione secondo la misura del concetto e del conferimento di senso che anticipatamente gli avrà assegnato. L’Io sa di cosa parla, perché parla in senso radicale di ciò che lui stesso ha reso visibile (se non già prodotto nella visibilità) a partire dalla sua sola mira. D’altronde, il concetto o il conferimento di senso intenzionale non si potrebbero rivelare talvolta vuoti, se proprio loro non si sviluppassero in anticipo sul fenomeno eventualmente dato a vedere (oppure no). Del suo oggetto intenzionale l’Io ne sa sempre di più rispetto a quanto ne veda, perché per conoscerlo già, almeno nel suo conferimento di senso o nel suo concetto, non ha bisogno di vederlo veramente (in piena intuizione). L’Io conosce (o può conoscere) il suo fenomeno senza che questo appaia pienamente, né che appaia come tale, perché vi si ritrova sempre. Eppure, questa postura non può essere mantenuta di fronte a un fenomeno saturo: infatti l’eccesso di intuizione sui conferimenti di senso o sui concetti disponibili non solo impedisce di conoscere senza dover vedere (tutto) ma soprattutto impedisce di conoscere adeguatamente proprio perché si prevede troppo bene. In questo caso all’Io deve sostituirsi il testimone, il quale vede e vede indiscutibilmente ma senza giungere a inscrivere l’intuizione sovrabbondante nella sintesi (per ricognizione) del concetto o nella costituzione (noematica) del conferimento di senso. Il testimone sa ciò che dice con certezza e sicurezza perché parla di ciò che ha ricevuto per intuizione (vista, audizione, ecc.) ma non comprende ciò che dice, perché non può unificarlo in un concetto completo, né identificarlo in un conferimento di senso sufficiente (propositio sufficiens). Barth ha ben esposto la situazione: «come e perché il testimone biblico ha autorità? Proprio per il fatto che non

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rivendica alcuna autorità per sé e perché la sua testimonianza mira solo a lasciare che un altro dispieghi la propria autorità tramite sé»30. Il testimone ha autorità nella misura in cui non la rivendica per sé ma la lascia venire da altrove. Egli lascia che in lui si dica ciò che egli stesso non capisce. D’altronde, quando un poliziotto o un giudice interrogano un testimone, ciò che viene chiesto di riportare (e che il testimone sa molto bene, anche senza capirlo) permette loro di capire altra cosa rispetto a ciò che il testimone riporta, cioè quanto essi presumono soltanto e quindi cercano: il concetto, il conferimento di senso, il nocciolo della questione. L’inquirente tenta di riqualificare il fenomeno saturo, che ha ridotto l’Io al rango di testimone, a un fenomeno oggettivabile, di diritto comune, in cui un concetto renderebbe comprensibile la totalità dell’evento31. Il testimone, al contrario, per esempio il cieco di Siloe, constata e fa constatare il fatto intuitivo della sua guarigione (ormai lui, cieco dalla nascita, vede), ma senza conoscerne l’origine né il conferimento di senso e senza mai pretenderlo: «gli dissero: “Dov’è costui?”. Rispose “Non lo so, ouk oida”» 30.  K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 115. 31.  Ritrasformare un fenomeno (in apparenza) saturo in un fenomeno di diritto comune è il metodo di qualsiasi detective, quindi per antonomasia quello di Sherlock Holmes: «il processo logico», disse, spiegando il suo metodo «parte dal presupposto che, una volta eliminato tutto ciò che è impossibile, quello che rimane, per improbabile che sia, dev’essere la verità. Le spiegazioni che rimangono possono essere varie nel qual caso si controllano e ricontrollano finché una o l’altra di loro appare confermata da un convincente numero di prove» (Sir A. Conan Doyle, The Adventure of the Blached Soldier, in Id., The Complete Novels and Stories, vol. II, Bantam Classics, New York 20032; tr. it., L’avventura del soldato sbiancato, in Id., Tutto Sherlock Holmes, Newton Compton, Roma 2009, pp. 1115-1116. Evidentemente Sherlock Holmes incappa nella stessa difficoltà di Hume: come discernere tra l’impossibile e l’improbabile e, anche, come definire l’impossibile? Un buon esegeta cristiano dovrebbe così definirsi come un anti-Sherlock Holmes, come colui che sa riconoscere l’impossibile nell’improbabile, quantomeno quando vede il significato di questo impossibile, come per Padre Brown di Chesterton.

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(Gv 9,12). Allo stesso modo, tutti gli interlocutori di questo primo testimone, il cieco guarito, ripetono che neppure loro «sapevano, ouk oidamen» (Gv 9,21-22 e Gv 9,30). Si tratta di una postura fenomenologicamente normale e inevitabile che di fronte a un fenomeno saturo deve essere assunta da ogni Io, soprattutto di fronte al fenomeno saturo del tipo dell’evento, se non di fronte all’evenemenzialità di ogni fenomeno saturo. La postura del testimone si rivela tanto essenziale allo s-coprimento da segnalare la differenza tra, da una parte, il diavolo – «omicida fin da principio» che «quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero» (Gv 8,44) e, dall’altra, Cristo – che non parla da lui stesso: «le parole che io vi dico, non le dico da me stesso» (Gv 14,10). Certo il testimone può anche finire per affermare il vero conferimento di senso, ma allora esso non proviene da lui e fa apparire proprio il fenomeno saturo a partire da altrove, non da un Io intenzionale, ma da questo stesso fenomeno. Per farsi conoscere questo fenomeno deve farsi riconoscere a partire da sé e per farsi così riconoscere a partire da sé, è necessario che parli di sé, in breve che la verità si sveli in persona. Il cieco di Siloe finisce per dire «io credo, Signore» perché Cristo, alla sua domanda «e chi è [il Figlio di Dio], Signore, perché io creda in lui?», gli ha risposto in prima persona: «gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te» (Gv 9,36‑37). Analogamente, il centurione ai piedi della croce finisce per riconoscere che «quest’uomo era giusto» (Lc 23,47) e anche che «davvero costui era Figlio di Dio» (Mt 27,54; Mc 15,40) perché «vede» a partire da essi stessi «il terremoto e quello che succedeva, to seismon kai ta ginomena» (Mt 27,54, ta genomena, Lc 23,48), come un evento che emerge da sé, in sé32. Il testimone non dice mai Io in 32.  Mt 27,54 idontes; Mc 15,40 e Lc 23,47 idôn. Così – ed evidentemente non per caso – la morte di Cristo, a titolo di fenomeno saturo visibile soltanto ai testimoni che lo ricevono senza pretendere di comprenderlo,

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suo nome, ma parla a nome di un Io che gli viene da altrove. Giovanni il Battista assume così il ruolo di testimone per antonomasia («colui che viene dopo di me è più forte di me», Mt 3,11; Mc 1,7; Lc 3,16), perché rovescia l’ordine delle priorità: «dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me (prôtos mou hên)» (Gv 1,30). In qualche modo «molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi» (Mt 19,30 e paralleli) potrebbe valere come definizione del testimone, colui che scopre di non poter parlare in suo nome, né dire Io senza mentire, colui che non risiede né in un me (empirico), né in un Io trascendentale, ma in un Io trasceso, un Io preso in prestito, un Io ricevuto come donato. A titolo di testimone per antonomasia, quindi, Gesù parla solo ed esclusivamente a nome del Padre, attestandosi perfettamente come suo Figlio; questo anche (o soprattutto) nel momento in cui dice Io sono, perché non lo dice che in nome del Padre. «Io sono il pane della vita […] sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,35 e Gv 6,38); non c’è alcuna contraddizione tra il fatto che egli dica «ego eimi, Io sono» e che tragga la sua legittimità solo dalla sottomissione alla volontà del Padre, perché il Figlio si definisce proprio tramite questo compimento abbandonato al Padre. Così, quando risponde alla domanda di Caifa che gli chiede se è realmente «il Cristo, il Figlio di Dio», nella stessa frase, Gesù afferma «Io sono, ego eimi» e cita «il Figlio dell’uomo che siede alla destra della potenza di Dio»33; detto altrimenti: rimanda il suo ego a colui donde proviene, lo rivendica come ricevuto, come nome del Padre, cioè ricevuto conduce Luca a fare l’unico uso, in tutto il NT, di theôria: «tutta la folla che era venuta a vedere (theôrian) questo spettacolo, ripensando [vedendo, theôrêsantes] a quanto era accaduto (génomena), se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48). 33.  Mt 26,64; Mc 14,62 e Lc 22,69‑70, tutti citano Sal 110,1 e Dn 7,13.

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dal Padre. Il Figlio – come ogni figlio, ma lui in modo perfetto – riceve il suo ego [eimi] per antonomasia da altrove. Probabilmente la traduzione di «ego ek tôn anô eimi» può non essere illegittima letteralmente con «il mio io mi proviene dall’alto, da altrove» e non con «io sono di lassù», così da consentire anche la reciproca: «ego ouk eimi ek tou kosmou toutou, il mio io non mi proviene da questo mondo» (Gv 8,23 e Gv 8,24).

Il paradosso e l’iperbole della carità Ne consegue, infine, una terza determinazione della manifestazione di Cristo come fenomeno saturo: il paradosso sviluppato dalla contro-esperienza. Non bisogna disprezzare troppo frettolosamente il paradosso. Kierkegaard, che vi ricorse, ne fece l’elogio: «questo sembra un paradosso. Ma non bisogna pensare male del paradosso; perché il paradosso è la passione del pensiero, e i pensatori privi del paradosso sono come amanti senza passione: mediocri compagni di gioco. […] È questo allora il supremo paradosso del pensiero, di voler scoprire qualcosa ch’esso non può pensare»34. Consideriamo la sua definizione classica: «sono bizzarre e fanno a pugni con l’opinione della gente comune (gli Stoici li definiscono per l’appunto paradossi) – quae, quia sunt admirabilia contraque opinionem omnium, ab ipsis etiam paradoxa appellan­

34.  S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, in Id., Le grandi opere filosofiche e teologiche, Bompiani, Milano 2013, pp. 591-743: p. 639. Ugualmente «il difetto [sc. del paradosso gratuito] risiede allora nella gratuità e non nel paradosso. Ci sono paradossi reali, o, in ogni caso, rivelatori del reale. Il paradosso potrebbe anche avere in forma eminente questa funzione. Bisogna nuovamente che sia motivato, non c’è nulla da guadagnare a coltivarlo per sé» (J. Benoist, Après l’infinitude, in E. Alloa - E. Düring [éd.], op. cit., p. 57, sottolineature nostre).

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tur»35 (Cicerone). Essa chiede varie precisazioni: innanzitutto, si tratta di una questione di apparenza, quindi di apparire e infine di fenomenicità; poi, questa fenomenicità è direttamente legata alla possibilità della sua formulazione logica (doxa si può tradurre con i due termini, opinione e apparenza): il paradosso mette quindi in questione la possibilità che ciò che appare (o non appare) si dica in una proposizione; infine, in questo primo approccio, nulla decide della validità (verità) di ciò che contraddice l’opinione o l’apparenza. Si può quindi approcciarlo anche a partire dall’opinione che enuncia o a partire dall’apparenza che rilascia. Consideriamo inizialmente il paradosso dal punto di vista del­ l’enunciato, dalla logica formulata dalla filosofia, in breve dal paradosso che mette in questione questa stessa filosofia. In questo primo caso il paradosso costituisce un ostacolo logico per l’enunciazione corretta di uno stato di cose. Sia l’enunciato «tutti i cretesi sono mentitori»: allo stato attuale può ricevere una conferma o una smentita empirica, quindi è correttamente

35.  «Nihil est tam incredibile, quod non dicendo fiat probabile; nihil tam horridum, tam incultum, quod non splendescat oratione et tanquam excolatur. […] Quae, quia sunt admirabilia contraque opinionem omnium, ab ipsis etiam paradoxa appellantur, tentare volui, possentne proferri in lucem, et ita dici ut probarentur, an alia quaedam esset erudita, alia popularis oratio – non c’è, però, nessun argomento, apparentemente tanto inverosimile, che un’idonea presentazione non possa rendere credibile, nessuno così grossolano e trasandato che lo studio e il lavorio della tecnica oratoria non riescano a far apparire estremamente curato e brillante. […] E queste tesi paradossali – proprio perché sono bizzarre e fanno a pugni con l’opinione della gente comune (gli Stoici li definiscono per l’appunto paradoxa) – ho voluto perciò provare se si poteva riuscire a portarle alla luce […] e se era possibile presentarle in maniera tale che risultassero comprensibili oppure se, riuscito vano questo sforzo, fosse necessario giungere alla conclusione che l’esposizione dei dotti sia agli antipodi di quella dell’uomo della strada» (Cicerone, Paradoxa stoicorum; tr. it., I paradossi degli stoici, BUR, Milano 2003, 3-4, pp. 55, 57).

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formulato, è vero o falso; però, se a propria volta è incluso in un’altra enunciazione, «dice un Cretese», diventa formalmente indecidibile: se il Cretese dice la verità, allora anche lui mente e il suo enunciato è falso, ma, se mente, il suo enunciato è falso, quindi il contrario è vero e i Cretesi non mentono tutti, quindi il suo enunciato può essere vero, ecc. La soluzione del paradosso si trova infatti nella sua dissoluzione: non è corretto applicare un’operazione (qui un confronto) a un’altra operazione, un’operazione si applica solo a oggetti, non ad altre operazioni; qui la differenza veracità/menzogna non si può applicare alla differenza veracità/menzogna36. Il paradosso non equivale a una contraddizione logica della proposizione (o non senso), né a un’impossibilità (empirica) della conoscenza, né a un’oscurità (confusione) nella fenomenicità, ma a un errore nell’uso delle leggi logiche: «è chiaro: Le leggi logiche non possono sottostare esse stesse, a loro volta, a leggi logiche»37. Abbiamo detto tutto del paradosso in senso logico? No, perché esso apre un’altra questione: la sua formulazione suppone una dicotomia tra due termini o concetti (apparentemente) contraddittori e quindi riposa sul principio del terzo escluso.

36.  Cfr. E. Esposito, Paradoxien als Unterscheidungen von Unterscheidungen, in H.U. Gumbrecht - K.L. Pfeiffer (hrsg.), Paradoxien, Dissonanzen, Zusammenbrücke. Situationen offener Epistemologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, pp. 35-57. 37.  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.123, p. 149. Wittgenstein prosegue: «non v’è, come intendeva Russell, per ogni type un principio di contraddizione ad esso proprio; uno basta, poiché esso non è applicato a se stesso» (ibidem). Si tratta della soluzione di B. Russell, On Denoting (1905), ripreso in Id., Logic and Knowledge: Essays 1901-1950, George Allen & Unwin, London 1956; tr. it., Sulla denotazione, Edizioni Efesto, Roma 2015, o di W.V.O. Quine, The ways of Paradox and other essays, Random House, New York 1966; tr. it., I modi del paradosso e altri saggi, il Saggiatore, Milano 1975; in tutti questi casi, per metterlo in rapporto con la razionalità comune, il paradosso è da dissolvere tramite una distinzione logica (per esempio quella delle classi).

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L’opposizione dei termini che opera in tal caso, tuttavia, si può discutere: nessuno dei termini è adeguato all’enunciato, propriamente i termini dell’opposizione vanno da sé, sono adeguati a ciò di cui si tratta, esauriscono il caso e non ce ne sono altri che andrebbero meglio? Consideriamo questo esempio: se dico che «il volto d’altri resta invisibile», suona come un paradosso, nella misura in cui sembra andare da sé che un volto offra ciò che dell’altro è più visibile. Però, per mantenere questa evidenza di buon senso, è necessario che io consideri già corretta l’opposizione visibile/ invisibile e che assuma che ogni volto è visibile; oppure, si può argomentare (l’abbiamo fatto) che l’opposto del visibile e del visto non si trovi solo nell’invisibile o nell’ancora invisto, ma anche (se non dapprima, se si parla di altri) nella vista che vede, nel vedente; in questo caso, che il volto d’altri si caratterizzi più per il fatto che mi vede che per la sua supposta visibilità vista (perché può dissimularsi, mascherarsi, travestirsi, in breve: sottrarsi alla visibilità, cosa che fa molto spesso). Pertanto, il paradosso offrirebbe solo un’apparenza non perché non direbbe nulla, ma perché ammetterebbe ingenuamente (contro ogni fenomenicità) che ogni volto si mostra visibile secondo le condizioni comuni della visibilità delle cose del mondo mentre il volto, a partire dal quale l’altro vede, non appartiene innanzitutto né fondamentalmente al visibile visto ma riguarda l’invisibile che vede38. Così compreso e corretto, il paradosso si dissolve in un altro: in questo senso, ogni paradosso chiede che ci si interroghi sulla pertinenza dei termini che conducono a una contraddizione logica o, più esattamente, sulla validità fenomenica della contraddizione logica. Non bisogna scartare troppo rapidamente l’ipotesi che si possa, «tale paradosso

38.  Indicazioni utili in F.B. Simon, Paradoxien in der Psychologie, in P. Geyer - R. Hagenbüchel (hrsg.), op. cit., pp. 71-88.

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(che ha poi la forma di un truismo) si può anche esprimere in questo modo: Si può pensare ciò che non è il caso»39. Cosa significherebbe pensare ciò che non è il caso? Consideriamo ora il paradosso a partire dall’apparenza che consegna o sembra consegnare. Perché questo è il punto: non va da sé che il paradosso non mostri nulla quando non dice nulla; come segnala de Lubac, bisogna distinguere «i paradossi d’espressione: si esagera per “far valere”», dai «paradossi reali», che suppongono un’antinomia resistente; questo paradosso non risulta dalla difficoltà logica delle proposizioni a dire, ma descrive logicamente, esso solo, la particolarità di alcuni fenomeni: «paradossi: il termine indica dunque prima di tutto le cose stesse, non la maniera di esprimerle»40. Tra i fenomeni che si sperimentano indiscutibilmente, egli tenta di descrivere quelli che advengono (come fanno, per esempio, tutti i veri eventi) solo contra-dicendo le condizioni della mia esperienza, che si impongono solo opponendomi una controesperienza. Trasposto in termini di fenomenicità, questo avvertimento indica che il paradosso offrirebbe la forma logica corretta per formulare i fenomeni saturi, quelli che nessuno dei nostri conferimenti di senso o dei nostri concetti mondani arriverebbe mai a costituire come oggetti; o, ancora: il paradosso offrirebbe la forma logica corretta per descrivere i fenomeni (saturi) che appaiono nell’esperienza contra-dicendo 39.  L. Wittgenstein, Philosophischen Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953; tr. it., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, § 95, p. 62 (tr. mod.). 40.  H. de Lubac, Paradoxes, Œuvres complètes, vol. XXXI, Cerf, Paris 1999; tr. it., Paradossi e nuovi paradossi, Opera omnia, vol. IV, Jaca Book, Milano 1989, risp. pp. 5 e 44; cfr. S. Weil, La pesanteur et la grâce, Plon, Paris 1948; tr. it., L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 178: «le contraddizioni contro cui urta lo spirito: sole realtà, criterio del reale»; cfr. W. Joest, Zur Frage des Paradoxon in der Theologie, in Id. - W. Pannenberg (hrsg.), Dogma und Denkstrukturen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1963, pp. 16-51.

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le condizioni (finite) di possibilità dell’esperienza. Lungi dal ridurlo, il paradosso andrebbe salvato, perché ci introduce a una logica non standard, ma inevitabile. Lo fa perché non annulla l’esperienza, ma la rende sopportabile e descrivibile, anche quando una fenomenicità dimostrata e sperimentata si rifiuta di prendere lo statuto di oggetto, di fenomeno di diritto comune (in cui l’intuizione si lascia comprendere nel concetto e nel conferimento di senso). Quindi il paradosso estende l’esperienza, lungi dall’escluderla o da escludersene; la estende consentendo di descrivere un’esperienza non oggettivabile, tanto più manifesta quanto più proviene da fenomeni che si manifestano in sé, perché si danno a partire da sé. Questa esperienza può essere chiamata contro-esperienza. È noto che questa figura logica della fenomenicità è l’esperienza, la quale contraddice le condizioni dell’esperienza nel campo della filosofia e, in particolare, della fenomenologia. Potrebbe darsi, però, che si eserciti per antonomasia e innanzitutto nel territorio aperto all’infinito della teologia ebraica e cristiana (supra, cap. 2). Evidentemente stiamo facendo riferimento alla radicale descrizione della Rivelazione imposta da Barth: l’automanifestazione di Dio fatta da lui stesso interviene nell’esperienza degli uomini come una radicale contro-esperienza, come una pietra caduta improvvisamente, che al suo impatto coinvolge tutto. Questa brutalità, tuttavia, non dice troppo (come gli è stato spesso rimproverato), ma ancora troppo poco e ciò per due ragioni: innanzitutto perché va da sé che la Rivelazione, nel senso dell’irruzione di Dio in ciò che, finito, limitato e privo di santità, per definizione non può farsi ricevere, concepire, vedere adeguatamente. Essa non può e non deve mai trovare, nel mondo privo di santità (letteralmente immondo), un soggiorno, un’apertura o un tempio che sia conveniente alla sua santità. Relativamente alla Rivelazione di Dio non c’è controsenso più grande di quello di Heidegger (in ciò paradigma dell’Aufklärung e più hegeliano di quanto sembri), che voleva

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sottomettere la Rivelazione di Dio alla previa manifestazione degli dèi, la manifestazione degli dèi al soggiorno del divino, il soggiorno del divino all’apertura del sacro e l’apertura del sacro al pieno aperto dell’essere41. Non c’è Rivelazione perché i cammini sono effettivamente raddrizzati, le valli colmate, le colline livellate e tutto ciò che era storto raddrizzato (Lc 3,4‑5, che cita Is 40,3‑5), come altrettante condizioni preventive da riempire prima che Dio possa manifestarsi. C’è certo Rivelazione, ma proprio nonostante i cammini restino storti – persino al fine di mostrare ancora meglio che essi lo sono. Se Dio si manifesta come Dio, chi può stargli davanti, chi può ascoltarlo, chi può vederlo senza morire? E se lo si potesse ascoltare, vedere senza morire e stargli davanti, si tratterebbe ancora di Dio o sarebbe già un’idolatria? Non solo le condizioni di possibilità della Rivelazione non sono e non saranno mai radunate ma esse non devono esserlo, almeno immediatamente, se questa rivelazione deve meritare il titolo di autorivelazione divina: quest’ultima «non è sottomessa ad alcuna condizione (lo si può affermare solo a partire dalla nostra conoscenza della rivelazione), ma è essa stessa la sua propria condizione» infatti «non c’è nessun altro atto più elevato a partire dal quale potrebbe fondarsi o essere dedotta, […] è la condizione che condiziona tutto senza essere a propria volta condizionata ed è proprio ciò che diciamo quando la caratterizziamo come Rivelazione»42. Pertanto, in

41.  Cfr., tra gli altri, M. Heidegger, Brief über den “Humanismus”, in Id., Wegmarken (GA 9), cit.; tr. it., Lettera sull’«umanismo», in Id., Segnavia, cit., pp. 267-315: pp. 291-292 e 302 ss. Cfr. i paralleli e una diagnosi in J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., cap. II, §§ 4‑5, pp. 57-75. Il rifiuto da parte di Barth del presupposto espresso in F. Gogarten, Karl Barths Dogmatik, op. cit., di preparare la conoscenza di Dio tramite «una fondazione esistenzial-filosofica della teologia» (K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 129) del resto funziona bene anche contro Heidegger. 42.  K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., pp. 121 e 122. Si veda anche «la rivelazione diventa vera e reale tramite null’altro, né in sé, né per noi. È

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teologia la questione non consiste nel sapere se la Rivelazione contraddica le condizioni dell’esperienza finita – di fatto questa contraddizione la caratterizza analiticamente e per definizione, ma di concepire come le contraddice e come tuttavia arriva, se non tanto più, a manifestarsi perfettamente e definitivamente. Potrebbe essere che la teologia dialettica, con tutte le sue declinazioni, non abbia visto questa questione o l’abbia appena intravvista. Donde la seconda ragione: questa nuova questione resta sconosciuta per un motivo abbastanza chiaro: essa implica dapprima lo studio dei fenomeni in generale e si impone come fenomeno solo in un approccio fenomenologico della Rivelazione – fenomeno eccezionale ma che resta formalmente un caso di fenomeno saturo, o più esattamente di fenomeno di rivelazione, che combina in sé i quattro tipi di saturazione fenomenologica (l’evento, l’idolo, la carne e l’icona)43. In che modo la Rivelazione si rende manifesta contraddicendo, come lo deve fare, le condizioni a priori dell’esperienza? Tramite quali paradossi si realizza questa contro-esperienza? Tali questioni teologiche non possono essere affrontate senza considerare la possibilità di una fenomenicità dei fenomeni saturi. Non bisogna pretendere di risolverli troppo in fretta, mobilitando, sotto la copertura di categorie teologiche, concetti e formule derivati direttamente dalla filosofia nel suo stadio metafisico44.

in sé e per noi attraverso se stessa – Offenbarung wird von keinem Anderen her wirklich und wahr, weder in sich noch für uns. Sie ist es in sich und für uns durch sie selbst» (ivi, p. 322) o «Dio si rivela. Si rivela da sé. Rivela se stesso – Gott offenbart sich. Er offenbart sich durch sich selbst. Er offenbart sich selbst» (ivi, p. 312). 43.  Sulla distinzione tra il (o i) fenomeno(i) di rivelazione e la Rivelazione come fenomeno, cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., cap. IV, § 24, pp. 287 ss. 44.  Così, il tentativo di Charlier, marginale e pregevole, di pensare la Rivelazione in termini di «dato» (L. Charlier, Essai sur le problème théologique, Thuillies, Ramgal 1938, p. 50), avrebbe compiuto un reale passo avanti se questo «dato» fosse stato a propria volta interrogato e definito, anziché ri-

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Bisogna quindi cercare di descrivere la contro-esperienza della Rivelazione come fenomeno saturo per antonomasia e tentare di farlo rispettando due certezze già acquisite: innanzitutto, non lasciare mai lo statuto e la posizione che il fenomeno saturo impone all’Io – quelli di testimone. Ciò implica il fatto di tenere sempre a mente l’avvertimento di Cristo, che «molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso (ou dunasthe bastazein arti)» (Gv 16,12). Non solo «molte altre cose» (Gv 20,30 e Gv 21,25) che non furono scritte nei testi biblici, ma, soprattutto, tra quelle già riportate, quelle di cui la nostra mancanza di concetti e la nostra ignoranza di conferimenti di senso venuti da Dio (anoetoi, Lc 24,25) ci impediscono di sopportare l’eccesso di evidenza. Ed è anche assolutamente necessario «lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità (odogêsei umas eis tên alêtheian pasan)» (Gv 16,13), per altro verso mostrare il cammino definisce il metodo: lo Spirito Santo stabilisce il metodo di interpretazione della saturazione del fenomeno di Rivelazione. Donde la seconda certezza: considerare sempre che ciò che si rivela nel fenomeno saturo di Rivelazione riguarda, come il suo alpha e il suo omega, un solo e unico eccesso, quello della carità. Si tratta solo di «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità [detto altrimenti] di conoscere l’amore iperbolico di Cristo che supera ogni conoscenza (gnônai te tên huperballuosan tês gnôseôs), perché siate saturi di Dio fino alla saturazione totale (plêrôthête

durlo subito implicitamente alla fattualità bruta del dato di un problema o di coscienza, se non di sensazione. Ma, poiché qui non si riesce a intravvedere rigorosamente la donazione in quanto tale, si cade subito nella falsa alternativa tra «dato-rivelato-conoscenza» e «dato-rivelato-realtà» in cui ogni termine ha a che fare con la metafisica del tipo più comune e fragile. Che cosa significa «realtà»? Che cosa significa «conoscenza»? Quale rapporto intrattengono con il «rivelato», a propria volta lasciato completamente indeterminato, se non per la sua interpretazione epistemologica e la sua origine filosofica moderna?

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eis pan to plêrôma tou theou)». Per arrivarci, però, per sostenere questa saturazione e questa iperbole, bisogna dapprima lasciarsi «radicare e fondare nella carità» (Ef 3,17‑19). Cristo stabilisce quindi l’elemento di cui il fenomeno di Rivelazione è saturo e saturante, la carità. A condizione di rispettare queste due certezze metodologiche, diventa possibile non solo liberare il concetto teologico da ogni impresa metafisica e da ogni interpretazione epistemologica, ma a volte, usando le sue risorse è anche possibile arrivare a rettificarle, a contemplare la Rivelazione come fenomeno fin nei dettagli dei testi biblici. A partire da questo hapax del Nuovo Testamento: «tutti furono colti da estasi (ekstasis) e davano gloria (edoxazon) a Dio; pieni di timore (phobou), dicevano: “Oggi abbiamo visto cose paradossali (paradoxa)”» (Lc 5,26).

IV CRISTO COME FENOMENO

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11 Manifestazioni senza persona*

Nella generale esperienza del mondo si possono forse vedere e concepire alcuni paradossi, ma si può fare lo stesso quando si tratta del divino, degli dèi e di Dio? Omero avverte che «gli dèi non appaiono a tutti visibilmente [si manifestano], ou gar pôs pantessi theoi phainontai enargeis»1, inoltre non si dovrebbe mai riuscire a vederli, dal momento che Dio «soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”» (Es 33,20). La questione di fatto non si può separare da quella di diritto: la manifestazione del divino, degli dèi e per antonomasia quella di Dio non indica, per principio, ciò che deve restare taciuto (mistero viene da muô «tacere, non dire»)? Non viene qui stabilito di principio il limite del fenomenico, cioè di quanto può fenomenizzarsi

*  In questo caso, come nei titoli dei paragrafi seguenti, è da ricordare la doppia valenza del vocabolo francese personne, corrispondente tanto a persona quanto a nessuno, a supporto dell’elaborazione marioniana che indica quanto la mancanza di tratti personali coincida con un’assenza radicale [n.d.t.]. 1.  Odissea, XVI, v. 161. La traduzione seguita è quella di G.A. Privitera, in Omero, Odissea, voll. 1-4, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2007.

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per noi? Dal momento che l’ambito del divino si distingue dal nostro per mezzo delle prerogative dell’immortalità e dell’invisibilità, non può né deve apparirci. L’argomento dell’ateismo più diffuso, secondo il quale «Dio non esiste» perché nessuno l’ha visto, sarebbe corretto a condizione che venga inteso più seriamente di quanto non faccia l’ateismo stesso: l’ambito della manifestazione (come quello dell’immortalità) è valido solo per noi e si blocca nel momento in cui non si tratta più di noi, ma del divino, degli dèi e soprattutto di Dio.

L’evidenza degli dèi Se si considera la versione greca del paganesimo, cioè quella che inizia con Omero, in quel caso va da sé che gli dèi appaiano e continuino ad apparire. Quando si descrive la battaglia di Diomede (nel canto V dell’Iliade), quando Ares arriva per sostenere i Greci, lo fa «simile nell’aspetto ad Acamante, valoroso duce dei Traci (eidomenos Achamanti)» (v. 462); anche Diomede riconosce di non poter seguire Achille quando (lui solamente) lo vede protetto da Ares, che «a un uomo mortale somiglia (brotô andri eoikôs)» (v. 604). Nel momento della battaglia finale Apollo spinge Enea al combattimento (quindi a una probabile morte) assumendo la voce e i sembianti di Licaone2 e quando Enea si lamenta con Apollo di non avere un pari sostegno (vv. 997‑998) il dio gli replica «anche tu, eroe, puoi invocare gli dèi che vivono eterni» (v. 104); detto altrimenti: fatti aiutare a tua volta da un dio che intervenga con sembianze umane.

2.  Iliade, XX, vv. 79 ss. La traduzione seguita è quella di M.G. Ciani, in Omero, Iliade, UTET, Torino 1998.

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L’aiuto che Ettore non è in grado di ottenere, Ulisse al contrario lo riceve con continuità da Atena, talvolta addirittura contro Zeus3. Se «una grazia divina (despesiên kharin) Atena gli infuse sul capo e sugli omeri / e lo fece più alto e robusto a vedersi (idesthai), perché riuscisse gradito (philos) a tutti i Fea­ci, fosse riverito (deinos) e onorato (aidoios)» soprattutto da Achinoo, di modo che sia «simile agli immortali (anathanoisin omois)»4, perché inizialmente la stessa Atena lo guida attraverso la città, nascondendosi «simile a un nunzio (eidomenê kêruki)» del re5 o, in seguito, perché interviene ella stessa «somigliante ad un uomo (andri demas eikua)» per arbitrare la vittoria di Ulisse sui suoi rivali locali nel lancio del disco6. In una parola, ella lo fa apparire bello come un Dio, perché lei stessa appare come un umano. Le apparizioni di Atena non si realizzano pienamente fino al ritorno a Itaca e nel massacro dei pretendenti, sempre con due caratteristiche: la dea interviene tra gli uomini innanzitutto per sostenere Ulisse (devia i dardi avversari, presenta lo scudo) e infine per ristabilire la concordia tra gli abitanti di Itaca7. In seguito, anche se Ulisse la riconosce, appare sempre con altri sembianti rispetto a quelli che le appartengono: «e al loro fianco arrivò la figlia di Zeus, Atena, / simile a Mentore sia per

3.  Odissea, VI, vv. 322‑331. 4. Ivi, VIII, risp. vv. 18‑20 e v. 14. Parimenti Atena rende Ulisse «molto più bello, polu kallos» davanti a Penelope ancora restia a riconoscerlo (ivi, XXIII, v. 156). È questo il caso anche per Laerte (ivi, XXIV, vv. 367‑374). In generale gli dèi conferiscono uno splendore divino al loro protetto (ivi, XVI, vv. 211 ss.), «olbiodaimôn, benedetto da Dio» (Iliade, III, v. 182). 5.  Odissea, VIII, vv. 7 ss. 6.  Ivi, VIII, vv. 193‑194. Già Atena «somigliante alla figlia del famoso navigatore Dimante (eidoménè kouré nausikleitroi Dunantôs)» aveva svegliato Nausicaa (ivi, VI, v. 22). 7.  Ivi, XXII, vv. 256 e 273; v. 297; e ivi, XXIV, vv. 540‑548.

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l’aspetto e sia per la voce (Metroni eidoménê êmeen demas êdê kai audên). / Vedendola, Odisseo gioì»8. Queste due caratteristiche sono confermate quando entrambe si rovesciano: Atena interviene nel combattimento ma non dispensa Ulisse dal dare battaglia e dal vincerla; contemporaneamente, abbandona per un verso la mischia e per un altro la somiglianza umana di cui era rivestita: scompare con le sembianze di una «rondine»9. Come tutti gli dèi Atena non appare e se lo fa è solo per un certo tempo e mai in persona. La dea resta piuttosto in disparte rispetto alla sua apparizione.

L’evidenza senza persona Cosa concluderne? Certamente ci si può attenere all’opinione ingenuamente ottimista di Alcinoo, che assicura che «da sempre gli dèi ci appaiono col loro sembiante [si manifestano con evidenza] (theoi phainontai enargeis) / quando facciamo le famose ecatombi,  /  e banchettano presso di noi, sedendo con noi (emin). / E se uno li incontra per strada, anche solo, / non si nascondono (ou katakruptousin), perché ad essi siamo vicini(sphisin eyyuthen) / come i Ciclopi e le selvagge tribù dei Giganti»10. Longino interpreterà questa prossimità ritenendo che Omero «abbia divinizzato – per quanto gli era possibile – gli uomini della guerra troiana, e umanizzato al

8.  Ivi, XXII, vv. 204‑210 (stessa identità presa in prestito in ivi, XXIV, vv. 502‑505 e 546 ss.). Al contrario di Ulisse che «la riconosce, oiomenos» (ivi, XXII, v. 210), i pretendenti non vi vedono che Mentore (cfr. J. Clay, Demas and aude: the Nature of Divine Transformation, in «Hermes», n. 102, 1974, pp. 129-136). 9.  Odissea, XXII, vv. 239 ss. 10.  Ivi, VII, vv. 200‑206.

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tempo stesso le divinità»11. In un certo senso l’intera interpretazione di Walter Otto, ancor oggi tanto decisiva, predilige la prossimità e la erge a tesi di fondo: «ciò che contraddistingue i Greci è la coscienza sempre viva della presenza di codesto divino. […] Il senso profondo dell’unione del naturale col miracoloso, nella quale unione sussistono entrambi, ha trovato la sua espressione classica nelle celebri narrazioni di dèi che appaiono in terra in forma umane»12. Questa sarebbe la caratteristica del politeismo, se non addirittura la sua superiorità rispetto a ciò che viene immaginato essere il “monoteismo” biblico. Tuttavia, ci si deve interrogare su tale supposta prossimità, non foss’altro che perché è negata dallo stesso Omero. Innanzitutto, si deve notare che Ulisse rifiuta subito la tesi di Alcinoo, che dal suo bell’aspetto ricavava un’autentica somiglianza con gli dèi: «Alcinoo, non occuparti di questo: perché certo io / non somiglio agli immortali (ou gar egô gê / athanatoisin eoika) che hanno il vasto cielo / per aspetto o figura, ma alle creature mortali»13. La prossimità di aspetto tra dèi e mortali non realizza un reale incontro, non implica alcuna somiglianza sostanziale, ancor meno un comune destino: gli uomini in guerra davanti a Troia e soprattutto Ulisse l’hanno imparato per esperienza diretta. Si è visto, inoltre, che alcuni dèi si ma11. Longino, Perì Hýpsous; tr. it., Il sublime, Rusconi, Milano 1988, IX, 7, p. 120. 12.  W. Otto, Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes, G. Schutte-Bulmke, Frankfurt a.M. 1929; tr. it., Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino riflessa dallo spirito greco, La Nuova Italia, Firenze 1944, pp. 238 e 252. Balthasar sembra sulla stessa linea quando cita l’opinione di Alcinoo senza tener conto della replica di Ulisse (H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Bd. III, Im Raum der Metaphysik, Teil I, Altertum, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965; tr. it., Gloria. Una estetica teologica, vol. IV, Nello spazio della metafisica. L’antichità, Jaca Book, Milano 1977, p. 73). 13.  Odissea, VII, vv. 207‑209.

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nifestano ad alcuni uomini (soprattutto a eroi o semi dèi), ma non tutti gli uomini sono in grado di riconoscerli, seguendo l’altro principio omerico secondo il quale «per un mortale è difficile, o dea [sc. Atena], ravvisarti incontrandoti, / anche se è molto accorto: perché ti fai simile a tutti (panti eiskeis)»14; la pretesa familiarità degli dèi con gli uomini resta quindi aleatoria, provvisoria e revocabile. Ma è poi necessario scegliere una delle due ipotesi, scegliere tra familiarità ed estraneità degli dèi ai mortali? Potrebbe darsi che anche l’opposizione tra le due tesi sia un’illusione: in realtà, gli dèi possono tanto più liberamente prendere figura umana, intervenire negli affari dei mortali e giocarvi un ruolo decisivo, proprio quanto più non vi si mostrano mai come tali, non si arrischiano mai in persona, in breve non si mostrano mai sotto i loro tratti, a viso scoperto. Essi intervengono tanto più spesso, quanto più spesso procedono a intermittenza, spariscono nello stesso modo con cui sono apparsi – sotto un’apparenza presa in prestito, mascherati sotto un volto straniero15. Si manifestano tanto più liberamente quanto più questa manifestazione non li impegna, non li espone e infine non li rivela in niente. Infatti, risiede qui la vera questione: Ovidio, che realizza ciò che Omero aveva inaugurato, l’ha capito perfettamente: gli dèi assumono una figura tanto facilmente e tanto spesso solo perché possono lasciarla a piacimento. Il volto che mostrano non mostra mai loro stessi, dunque si fanno vedere solo per procura, o piuttosto usurpando l’aspetto di un uomo o di un

14.  Ivi, XIII, vv. 312‑313; infatti Atena si era inizialmente mostrata come un ragazzo (v. 222), poi come una bella donna (v. 288). 15.  Kearns non esita a concludere che «quando appaiono agli uomini gli dèi assumono molto spesso un travestimento umano (a human disguise)» (E. Kearns, The Gods in the Homeric epic, in R. Fowler [ed.], The Cambridge Companion to Homer, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 59-73: p. 65).

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animale, che invece hanno realmente un volto (o una bella bocca, un analogo del volto): così Zeus si presenta «in specie mortali – in aspetto mortale» per visitare Filemone e Bauci, in Diana per avvicinare Callisto o in un toro per rapire Europa16; così accade con Apollo «in serpente deus» per passare da Delfi all’isola Tiberina17. In questo contesto, del resto, che cosa significherebbe che un dio ritrova la sua forma originale di dio quando lascia la sua maschera provvisoria, così che Apollo, diventato serpente, «species caelesta resumpta – riacquistato l’aspetto divino»18, ridiventerebbe infine lui stesso? In realtà, questa specis caelesta non ha alcun senso: o il dio scompare dalla vista dei mortali o riprenderà la figura di un altro mortale perché, in quanto celeste, non ha volto che lo possa mostrare in persona. È proprio il motivo per il quale le Metamorfosi si concludono con l’apoteosi di un uomo reale, quindi di un vero volto, quello visibile di Cesare, elevato al cielo da una dea che nessuno, vede «l’alma Venere si ferma, invisibile (alma Venus,

16.  Ovidio, Metamorfosi, risp. VIII, v. 626; II, v. 425: «protinus induitur faciem cultumque Dianae – subito indossa figura e attributi di Diana» (e di Giove, quando Callisto gli dice di trovarla più bella dello stesso Zeus: «Ridit et audit / Et sibi praeferri gaudet – lui ascolta e sorride: / lo diverte sentirsi anteposto a se stesso»; ivi, vv. 429 ss.); ivi, II, vv. 848‑850: «ille pater rectorque deum, cui dextra trisulcis / Ignibus armata est, qui nutu conculit orbem / Induitur faciem tauri – il padre e il re degli dèi, che in mano brandisce  /  i fuochi a tre punte, che squassa l’universo a un suo cenno, / riveste la forma di un toro». La traduzione seguita è quella di L. Coch e G. Chiarini in Ovidio, Metamorfosi, Fondazione Lorenzo VallaMondadori, Milano 2005-2015, 6 voll. Ovidio pare una buona guida perché, grazie allo scarto dal greco al latino, dal mito alla mitologia, dalla fiducia alla presa di distanza, non contraddice né ripudia Omero, ma, in un certo modo, ne offre il bilancio e ne disegna le regole implicite, mentre Virgilio resta incerto tra loro due. 17.  Ivi, XV, v. 680: «quisquis adest visum veneratur numen – tutti i presenti venerano il dio che è apparso». 18.  Ivi, XV, v. 743.

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nulli cernenda)»19. Quindi gli dèi appaiono solo mascherati, e, in quanto tali, non accedono mai alla visibilità di un faccia a faccia realizzato in persona – non possono o, forse, non vi si arrischiano. Assumono un aspetto solo per non dover apparire. Più tardi un filosofo dirà di procedere mascherato («larvatus prodeo»20) e alcuni critici troppo sottili hanno suggerito che si mascherasse anche davanti a Dio («lavatus pro Deo»). Qui potrebbe darsi che siano gli stessi dèi a poter procedere solo se mascherati davanti agli uomini e che solo sotto queste maschere possano giocare il ruolo e svolgere la funzione di dèi, insomma, che facciano gli dèi: «larvati pro diis». Se questi dèi, semplici luogotenenti di se stessi, come il Grande Pan, hanno finito per morire, forse è stato innanzitutto perché non si manifestavano mai realmente come tali, non osavano impegnarsi in un volto che fosse seriamente il loro, cioè non si impegnavano mai veramente allo scoperto, dove avrebbero dovuto esporsi a nudo perché vi si sarebbero dati fino in fondo. Per definizione, già dal principio dovevano scomparire, perché non avevano mai deciso di apparire in persona, né vi erano riusciti, cioè non erano mai riusciti ad apparire seriamente, veramente. Non perché 19.  Ivi, XV, v. 844. 20.  L. Brunschvicg, Mathématique et métaphysique chez Descartes, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 34, 1927, pp. 277-324: p. 323, diede origine alla nuova interpretazione della formula di Descartes «Ut comoedi moniti, ne in fronte appareat pudor, personam induunt; sic ego, hoc mundi theatrum conscensurus, in quo hactenus spectator existiti, larvatus prodeo – come gli attori, accorti a non fare apparire l’imbarazzo sul volto, vestono la maschera, così io, sul punto di calcare la scena del mondo, dove sinora sono stato spettatore, avanzo mascherato» (R. Descartes, Pensieri privati, in Id., Opere postume, cit., pp. 1061-1097: p. 1061). Sull’autentico significato di questo testo cfr. R. Descartes, Étude du bon sens, La Recherche de la Vérité et autres textes de jeunesse (1616-1631), PUF, Paris 2013, pp. 64‑65 e 81 ss. Anche gli dèi si arrischiano sul teatro del nostro mondo solo dissimulando il volto con una maschera, ma si tratta di un volto che indubitabilmente non hanno.

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fossero semplicemente dèi dissimulati (nascosti, inaccessibili, absconditi), ma perché offrivano solo maschere di dèi, tanto visibili quanto vuote. Dèi senza vero volto, come avrebbero potuto manifestare una vera divinità? Certo gli dèi greci «fanno segno» (come Eraclito dice dell’oracolo di Delfi) di essere qui, ma significano anche di non esserlo mai in modo definitivo, né di essere realmente presenti tra i mortali. Essi vengono solo per mostrarci di non condividere la nostra sorte, anche e soprattutto se parteggiano talvolta in nostro favore e spesso contro. La supposta familiarità di questi dèi non provoca alcuna prossimità con i mortali ma ne attesta l’assenza. Se ne ottiene conferma tramite l’ipotesi inversa: che cosa succederebbe se un dio si manifestasse come tale ma senza volto? Ancora una volta è Ovidio a rispondere alla questione: nessun mortale vi sopravvivrebbe, come manifesta il suo racconto della vendetta di Hera (in questo caso Giunone): Semele, figlia di Cadmo il Tebano, aveva concepito Dioniso dalla sua unione con Zeus; Era, gelosa come sempre, volle vendicarsi; prendendo l’aspetto e la voce di «una vecchia (simulavit anum)» ella finge di consigliare Semele, preoccupandosi del fatto che questo amante non sia in realtà Zeus, ricordando a giusto titolo che, molto spesso, «moltissima gente / sotto il nome di un dio si è infilata nei letti più casti» e le suggerisce quindi di esigere dal presunto dio «una prova d’amore, se è lui veramente»; più precisamente, suggerisce di chiedergli: come «la figlia di Saturno ti abbraccia nei lacci di Venere, così concediti a me», in breve di mostrarsi nudo, come tale. Ciò suppone che Zeus prenda un vero corpo di carne e faccia l’amore in persona, ma questo non può farlo, perché non ha corpo, né carne, né volto propri; se si fosse dovuto mostrare come tale, sarebbe stato senza di loro, ma immediatamente, senza forma umana, o, piuttosto, senza forma, tramite il suo fulmine, pura potenza distruttiva, accecante e invisibile, potenza che uccide: «il corpo mortale (corpus mortale) non resse la guerra celeste e avvampò del regalo

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di nozze (donisque jugalibus arsit)»21. Il dio come tale non ha più corpo o carne di quanto abbia un volto; se vuole darsi, non può che dare la morte, quindi non può manifestarsi in persona perché non può darsi in carne. Per questa stessa ragione l’evoluzione che condurrà ai culti misterici tende a non nominare più direttamente gli dèi e nella maggior parte dei casi a designarli tramite eufemismi ambigui, se non minacciosi (le Erinni delle Eumenidi sono chiamate «le benvolenti»)22. Infatti, il più perfetto corpo degli dèi, quello che non muore, il cui sangue non cola, che mangia senza aver bisogno di cibo, che vola nell’aria senza alcuno sforzo, in breve che si potrebbe chiamare un «super corpo», non lo è – esso offre il suppor21.  Metamorfosi, III, risp. vv. 275 e 277; vv. 281 ss. «multi / Nomine divorum thalamos iniere pudicos»; vv. 283 ss., «det pignus amoris, / Si modo verus est»; vv. 293 ss., «qualem Saturnia, dixit, / Te solet amplecti, Veneris cum foedus initis / Da mihi te talem» e vv. 308 ss.; è da notare che, prevedendo il disastro, il dio tenta di ridurre il suo fulmine in un levus fulmen, cosa che gli altri dèi chiamano levia tela, dei colpi di fulmine non letali per loro, ma ancora troppo violenti per un mortale, vv. 305 e 307. Vernant sottolinea perfettamente l’eccesso insopportabile della presenza del dio quando risplende subito: «il corpo del dio brilla di un fulgore tanto intenso che nessun occhio umano può sopportarlo. Il suo splendore acceca […]. Il paradosso del corpo divino è che per apparire ai mortali deve cessare d’essere se stesso, vestirsi di nebbia» (J.-P. Vernant, Corps obscur, corps éclatant, in Ch. Malamoud - J.-P. Vernant [éds.], Le Temps de la réflexion, vol. VII, Corps des dieux, Gallimard, Paris 1986, pp. 19-58: p. 39, da completare con C. Markschies, Gottes Körper. Jüdische, christliche und pagane Gottesvorstellungen in der Antike, C.H. Beck, München 2016). 22.  Cfr. Eschilo, Le Eumenidi. Cosa ben mostrata da Picard in un articolo fecondo, che ha aperto la questione della visibilità apparente degli dèi greci e ha insistito sul fatto che se la Grecia tenta di cogliere il dio o gli dèi come tali, infine ne conferma l’impossibilità tramite una «equivalenza che è stata ritrovata nelle antiche religioni d’Egitto e d’Israele» (Ch. Picard, θέοι έπιφανεις. Notes sur l’apparition des dieux, in S.P. Lampros, Xenia. Hommage international à l’Université nationale de Grèce à l’occasion du soixante-quinzième anniversaire de sa fondation (1837‑1912), Hestia, Athènes 1912, pp. 67-84: p. 84, cfr. anche pp. 36 e 72, nota 3).

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to provvisorio dell’apparire, è semplice apparenza, il segno di un nome che non dà accesso a nessuna carne, il sostituto di un volto che rifugge il faccia a faccia23.

L’idolo senza persona L’immagine e la figura che sono assunti dal divino non lo manifestano: il Gran Pan muore per non manifestarsi come tale e Zeus fa morire quando si manifesta come persona, più esattamente come assenza di volto la cui sola maschera protegge i mortali. L’immagine, la figura e la forma non manifestano niente degli dèi, né del divino. Le loro apparizioni rimangono soltanto apparenti perché ogni volta sono appaiate a figure e maschere (persona), in breve a personaggi che sebbene li indichino, non li identificano mai come tali. Se si vuole ancora parlare di teofanie, bisogna concepirle come manifestazioni anonime: «quasi sempre gli dèi appaiono in incognito»24, o 23.  Vernant, che gli attribuisce un «sovra-corpo», «corpo immortale, che ignora la fame» e il cui sangue «non è veramente sangue» (J.-P. Vernant, op. cit., pp. 35 e 27), per contrasto con il corpo oscuro dei mortali, non può evitare di chiedere, di fronte alla chiara equivocità del termine: «perché parlare di corpi degli dèi?» (ivi, p. 41). La sua risposta – perfettamente adeguata – corrisponde a mantener loro un corpo ipotetico, perché conservano quantomeno un nome; ma propriamente questo nome non gli dà più che il loro «sovra-corpo». E d’altronde, hanno veramente un nome, che gli consenta di dire «Io»? 24.  H.U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’antichità, cit., p. 73. Stessa formulazione in Vernant che parla di un «incognito di due tipi»: innanzitutto perché il dio dissimula agli uomini la sua apparenza coperto dalla nebbia, poi perché vuole soltanto «rendersi visibile sotto la figura di un corpo, piuttosto che del suo corpo» (J.-P. Vernant, op. cit., p. 37). Cfr. l’insistenza di Dietrich sugli dèi che si manifestano «anonimamente, cioè senza identità specifica», «visibili solo in un’identità temporale», «generalmente anonimi e non identificabili nei loro interventi», «che non coinvolgono alcuna reale parousia o presenza», che conclude: «l’idea di epifania divina come mezzo

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piuttosto come visioni che annichilano coloro che le guardano. Gli dèi non sono invisibili, ma non mirabili [invisables], perché senza corpo, quindi senza volto. Le apparizioni degli dèi rimangono apparenze di apparizioni perché le loro immagini (forme, figure, personae) non vi prendono veramente corpo, perché non si incarnano e non offrono in persona né il volto, né il nome del dio25. L’apparizione dona il dio perché non lo possiede più di quanto il dio non se l’appropri; egli la prende in prestito, la occupa, in breve la noleggia per un momento, al fine di poterla sgombrare e disertare appena vorrà. Pertanto, se questa apparizione apparente non apre alla faccia del dio, in fatto di visibilità, non può far altro che rinviarla alla faccia di colui che la vede. Infatti, essa non rinvia più a colui che la vede, perché costui non vi vede il volto di alcun altro divino, ma unicamente il riflesso di se stesso. Si tratta quindi proprio di un idolo: ciò che si vede, in modo permanente e ritualizzato, senza dare la presenza in persona del dio; ciò che misura, per interposta visibilità, il massimo di visibile sopportabile da uno sguardo umano, stabilendo così, sotto l’apparenza di un dio, lo specchio invisibile della sua mira26.

della rivelazione religiosa era oltre l’ordinario per Omero e di conseguenza meno familiare per la religione greca tradizionale» (B.C.Dietrich, Divine Epiphanies in Homer, in «Numen. International Review for the History of Religion», n. 30, 1983, pp. 53-79, risp. pp. 60, 66, 59, 62 e 67). 25.  Non si può che approvare l’analisi di Piettre: «a meno che non si scelga di prendere alla lettera la somiglianza, tanto frequentemente enunciata, degli dèi con gli uomini (è allora questione di eidos e demas); in questo caso, però, chi è modello dell’altro? Quando c’è travestimento e quando il dio si mostra in sé? E cosa fare degli uccelli e delle meteore? Il corpo degli dèi si comunica agli uomini come un non-corpo, un corpo che è sempre scomparso o il corpo di un altro» (R. Piettre, Le corps des dieux dans les épiphanies divines en Grèce ancienne, ANRT, Lille 1996, p. 153, sottolineature nostre). 26.  Per la definizione di idolo cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., cap. I, §§ 1‑7, pp. 21-36, e Id., Dato che, cit., § 23, pp. 282 ss. Qui assume tutto il suo

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L’esatta illustrazione di questa aporia – l’idolo che non manifesta nient’altro che lo sguardo stesso che lo mira – si trova nella geniale versione di Ovidio del mito di Narciso. Narciso non si smarrisce perché amerebbe troppo se stesso, ma perché si immagina di amare un corpo di carne mentre nel riflesso dell’acqua ama solo un’immagine, che è certamente la sua, ma senza corpo: «gli appare un riflesso bellissimo (visae correptus imagine formae), bevendo, e ne perde la testa: / lo coglie l’amore di un’ombra che è spoglia del corpo (sine corpore), la prende per corpo, ma è acqua soltanto. / Appare a se stesso un miracolo». L’immagine non ha corpo, quindi non apre ad alcuna alterità; da questa incorporeità dell’immagine segue l’adorazione di sé, l’idolatria nel senso comune: «e ammira ogni singolo tratto che rende lui stesso mirabile. / S’illude, e vagheggia se stesso; è attratto dall’altro e lo attrae (qui probat ipse probatur)». L’egocentrismo non provoca l’incorporeità dell’immagine che non mostra nessuno, ma ne consegue. L’immagine non mostra niente, quindi resta solo colui che la vede: «quello che cerchi non c’è (nusquam): quello che ami, lo perdi / solo a voltarti. Non è che un riflesso, quest’ombra che vedi. / Di suo non ha nulla (Nil habet ista sui)». La vacuità dell’immagine, che non manifesta più niente in sé, né di sé, la rinvia dunque a colui che la mira; egli se ne scopre l’origine: «ma sono io, questo tu! peso una segnalazione incidentale di Detienne: «i monumenti dell’arte greca sono tautegorici del pensiero religioso» (M. Détienne, Préface, a W. Otto, Les dieux de la Grèce, Payot, Paris 1981, pp. 7-19: p. 17). Vernant spiega perfettamente questo occultamento tramite lo stesso apparire: «corpo invisibile nel suo irraggiarsi, volto che si sottrae al faccia a faccia; più ancora che non rivelare l’essere del dio, l’apparizione lo dissimula sotto i travestimenti di un “apparire” adattato alla debole vista degli umani» (J.-P. Vernant, op. cit., p. 40). Donde la conclusione di Piettre: «queste immagini ci comunicano simultaneamente la grandezza degli dèi e la proibizione, l’impossibilità del faccia a faccia […]. Bisognerebbe quindi dire che i Greci non vedono mai, o quasi mai, i loro dèi», pertanto la religione greca «non ha molto a che fare con un faccia a faccia con gli dèi» (R. Piettre, op. cit., pp. 625 e 631).

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(Iste ego sum) Non mi abbaglia il riflesso, ho capito». In tal modo essa non conduce al benché minimo originale, perché, se sono io a produrla, se la bacio sempre la distruggo, che me ne distacchi o che la offuschi: «che voglia bizzarra, in amore, sperare che parta e si perda l’oggetto d’amore (vellem quod amamus abesset)»27. Perché l’immagine prenda corpo sarebbe quindi necessario che essa si distanzi da me? Per venire a me bisognerebbe che si distingua da me? Bisognerebbe che essa prenda corpo per aprirmi un faccia a faccia? Ma, in questo caso, si tratterebbe ancora di un’immagine o di un avvento che non sarebbe piuttosto in persona, da altrove? Se le cose stanno così, la manifestazione non si gioca innanzitutto su un’apparizione (né su un’apparenza di apparizione), ma sulla venuta nel visibile dell’altrove, e di un altrove che vi prenda corpo, in modo permanente.

Far apparire l’invisibilità Evidentemente l’intesa e la risposta a questi interrogativi si trovano nell’inversione dei termini proposta dall’Antico Te-

27.  Metamorfosi, III, risp. vv. 416‑418; vv. 424 ss.; vv. 433‑435; v. 463. L’aporia di Narciso nel campo del visibile corrisponde esattamente all’aporia di Eco nel campo della parola. Infatti, secondo Ovidio, per vendetta di Giunone Eco non poteva più né prendere la parola per prima, né trattenersi dal rispondere; non gli resta quindi altro che la possibilità di ripetere («nec reticere loquenti, / Nec prior ipsa loqui didicit – se c’è chi parla, non sa trattenersi, e per prima non parla», Metamorfosi, III, vv. 357 ss.) e di ripetere soltanto le ultime parole di una frase detta da un altro («reddere de multis ut verba novissima posset – non rendendo di frasi lunghissime che la chiusa», v. 361), a rischio di non arrivare mai a esprimere il suo preciso sentimento. Così, come il visibile lasciato a Narciso non mostra niente e riflette la sua immagine a vuoto, la parola lasciata a Eco la fa ri-suonare a vuoto; risuona, la risonante Eco («resonabilis Echo – fatta di voce, Eco», v. 358).

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stamento, o, più esattamente, le «sacre Scritture degli ebrei» (per riprendere una formula di Joseph Ratzinger). Qui emerge un paradosso cruciale, perché, per Israele, in contrasto con i Greci e forse con la maggior parte delle religioni dei popoli circostanti, si tratta di far apparire la radicale invisibilità di Dio: «il divieto veterotestamentario delle immagini, ben lungi dall’essere una verità religiosa universale, costituisce l’attacco più duro contro tale concezione di Dio [sc. secondo la quale la divinità è presente nell’immagine]»28. Perché qui, quando il divino si manifesta in persona (cosa che implica di passare dagli dèi dubbi al Dio certo), lo fa senza visibilità diretta e attesta in tutta visibilità il suo carattere specifico, l’invisibilità. Il divieto di visione diretta, che certo talvolta è già stato constatato tra le «nazioni», ormai può non valere più solo come constatazione di un’impossibilità di fatto, cioè che nessuno sguardo mortale può sopportare la gloria divina – «non ci parli Dio, altrimenti moriremo» (Es 20,19)29. Soprattutto, lo si può 28.  G. von Rad, Theologie des Alten Testaments, Kaiser, München 1957; tr. it., Teologia dell’Antico Testamento, vol. I, Teologia delle tradizioni storiche di Israele, Paideia, Brescia 1972, p. 249. Ciò non esclude che anche altre religioni abbiano proposto l’invisibilità di principio di un Dio supremo (cfr. H. Schrade, Der verborgene Gott. Gottesbild und Gottesvorstellung in Israël und im alten Orient, Kohlhammer Verlag, Stuttgart 1949, in part. pp. 128 ss.: «La figura nascosta di Dio»). Probabilmente non solo per YHWH, ma anche per Amon, si può riconoscere che è «allo stesso tempo una figura e senza figura, guardabile e non guardabile» (ivi, p. 129); rimangono comunque differenze essenziali rispetto a Esodo: innanzitutto Mosè può fare eccezione a questo divieto e a questa impossibilità, ma soprattutto YHWH parla e «la sua voce determina uno stare di fronte (die Stimme schafft ein Gegenüber)» (ivi, p. 135). Il divieto (noto a Omero tanto quanto agli Egizi) si ritorce così in apertura di uno stare di fronte, quindi in una possibilità di faccia a faccia, tramite la mediazione dell’invisibilità divenuta manifesta. 29.  Confermato da «Aronne non entri in qualunque tempo nel santuario, oltre il velo, davanti al propiziatorio che sta sull’arca, affinché non muoia, quando io apparirò in mezzo alla nube sul propiziatorio» (Lv 16,2). «Non entrino essi a guardare neanche per un istante il santuario, perché mori-

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anche intendere come la rivelazione di una possibilità a contrario: c’è gloria di Dio proprio perché oltrepassa la misura e l’arco del nostro sguardo, quindi appare nella sua invisibilità anche per noi. Molti testi lo confermano. Quando annuncia la sua manifestazione al Sinai, Dio precisa (sembrerebbe per la prima volta) il divieto: «il Signore disse a Mosè: “Scendi, scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine”» (Es 19,21, che riprende Es 19,12); questo divieto stabilisce anche la condizione che rende sopportabile la quasi-teofania: «il Signore disse a Mosè: “Ecco (‫)הנה‬, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta (‫)ישמע‬ quando io parlerò con te (‫ )בדברי‬e credano per sempre anche a te”» (Es 19,9). Non vedere a causa della nuvola consente a Dio di parlare a Mosè (e quindi anche a Mosè di «rispondere») e al popolo di «tremare» (Es 19,16) sentendo il tuono, il suono di una tromba; al punto che il testo arriva a dire che «il popolo vedeva (‫ )ראים‬i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide (‫)ירא‬, fu preso da tremore» (Es 20,18)30. rebbero» (Nm 4,20). Cosa che definisce bene anche il punto di partenza del Nuovo Testamento: «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18), cfr. «voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete visto il suo volto (eidos), e il suo logos non rimane in voi» (Gv 5,37-38). 30.  La maggior parte delle traduzioni moderne, in vista di una comprensibile semplificazione, omette l’originale «vide», che al contrario è mantenuto dal greco: «e tutto il popolo vide (eôra) la voce, i lampi, la voce della tromba e la montagna fumante» (Es 20,18, LXX). La felice approssimazione di una visione di suoni e di luce è da conservare, essi non si vedono certo in senso proprio, ma per così dire fanno vedere l’invisibilità di Dio che si manifesta tramite la parola – tramite il detto delle dieci Parole (Es 34,10-27) – e così stringe l’alleanza. Si può anche fare attenzione a una formula di Claudel: «la denominerò una voce che vede, una voce che con le stesse parole che Dio ci ha instillato nel cuore e sulla bocca continua a testimoniare, a sapere e a pregare» (P. Claudel, Discours de réception à l’Académie française, in

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D’altronde, Mosè aveva già proposto l’Alleanza al popolo mettendo sotto i loro occhi per così dire soltanto delle parole, ma parole pronunciate e anticipate da Dio: «pose davanti ai loro volti (‫ )וישם לפניהם‬tutte queste parole (‫ )הדברים‬come gli aveva ordinato il Signore» (Es 19,7). Qui vedere equivale a vedere ciò che si sente, dal momento che non c’è altro da vedere che la parola, quella che Dio prende, dà e mantiene (le tre azioni vanno insieme)31. Per conseguenza diretta, il racconto (insieme eloista e jahvista) di Es 19 si interrompe in modo brusco («Mosè scese verso il popolo e parlò loro», Es 19,25) per lasciare spazio al racconto (sacerdotale) della proclamazione del Decalogo (prima menzione in Es 20,1-17, che sarà ripresa in seguito da Es 34,10‑28): la manifestazione si realizza infatti nella parola delle Dieci Parole ed essa stessa si inscrive nello scambio di parole perché «Mosè parlava (‫ )ידבר‬e Dio gli rispondeva nel suono (‫[ )בקול‬del tuono]» (Es 19,19). La manifestazione si trasferisce quindi dalla vista all’udito, o più esattamente il faccia a faccia si realizza con uno scambio di parole che consente di dispiegare interamente la figura dell’appello e della risposta. Si può quindi comprendere la

Id., Œuvres en prose, Gallimard, Paris 1965, pp. 634-658: p. 636). Non solo l’occhio ascolta, ma anche, di ritorno, la voce che parla (e ascolta) vede a proprio modo. La distinzione tra epifanie parziali (con l’intermediazione di fenomeni naturali) e totali (in un corpo) introdotta da W.E. Pax, Epiphaneia. Ein religionsgeschichtlicher Beitrag zur biblischen Theologie, Karl Zinc, München 1955, perde di conseguenza molto della sua pertinenza. 31.  Cfr. A. Deißler, Gottes Selbstoffenbarung im Alten Testament, in J. Feiner - M. Löhrer (hrsg.), Mysterium Salutis. Grundriß Heilsgeschichtlicher Dogmatik, Benzinger Verlag, Zürich-Berne 1967; tr. it., L’autorivelazione di Dio nell’A.T., in J. Feiner - M. Löhrer (a cura di), Mysterium Salutis. Nuovo Corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, vol. III, La storia della salvezza prima di Cristo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 285344: pp. 292 ss.; si sottolinea che si tratta innanzitutto di un’«esperienza di ascolto (Hörerfahrung).

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portata della seconda alleanza (dopo l’episodio del vitello d’oro, Es 32), dove, ancora una volta, YHWH «parlava (‫ )דבר‬con Mosè» (Es 33,9), e anche «parlava con Mosè faccia a faccia (‫ )פנים אל פנים‬proprio come uno parla (‫ )ידבר איש אל רעהו‬con un amico» (Es 33,11). In questo incontro, tuttavia, Mosè formula ancora una volta una richiesta insostenibile: «mostrami la tua gloria» (Es 33,18), richiesta che, nuovamente, gli è negata, secondo il principio che «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Non si potrebbe forse supporre che il «faccia a faccia (‫אל פנים‬ ‫( »)פנים‬accordato in Es 33,11) implichi la scoperta della «faccia (‫( »)פנים‬rifiutata in Es 33,20)? Detto altrimenti: come può Mosè vedere in un certo modo faccia a faccia senza temere di morire davanti alla faccia, né esclamare come Isaia: «e dissi: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”» (Is 6,5)? Una prima risposta conclude esplicitamente il racconto: Mosè vede la faccia, ma senza vederla in faccia: la gloria di YHWH, velata dalla sua mano, passa accanto a Mosè, nascosto nella fessura della roccia, e Mosè vede la faccia, ma solo «di schiena»; quando YHWH toglierà la sua mano, vedrà la traccia e il riflesso della gloria, ma non la faccia in faccia; «il mio volto non si può vedere (‫( »)ופני לא יראו‬Es 33,23). Ma in che senso si può dire che Mosè ha visto Dio faccia a faccia, se non ha potuto vedere la faccia della sua gloria, ma solo la traccia della sua faccia – di schiena? Bisogna allora cercare una seconda spiegazione: essa si coglie legando la richiesta fatta da Mosè a YHWH di confermare la sua missione, quindi di condurre lui stesso il popolo accompagnandolo e camminando davanti a lui; detto altrimenti, la richiesta di venire in persona in testa al popolo. Proprio

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in persona, letteralmente con «il mio volto (‫( »)פני‬Es 33,14), YHWH risponde positivamente all’appello di Mosè che gli chiede di venire in persona, letteralmente con «il suo volto (‫( »)פניך‬Es 33,15). Qui la “faccia” non significa più un fenomeno visibile nel mondo, tra altri spettacoli accessibili e disponibili al potere dello sguardo; al contrario, essa rivela la presenza in persona, il coinvolgimento nella nostra presenza di colui che vi viene perché vi consente, che vi viene advenendovi da altrove32. Gli dèi pagani si manifestano solo facendosi vedere come fenomeni del mondo, presentandosi sotto forma mondana, quindi sempre sotto un’altra faccia rispetto alla loro (perché propriamente non ne hanno nessuna), in modo da indossarla solo per un periodo e da non restare con noi, i mortali, mentre YHWH in questo caso assume una faccia propria, non per darsi come spettacolo né per farsi vedere come un fenomeno del mondo, ma per manifestare il fatto che si coinvolge tra noi, suo popolo; per fare ciò egli si fa parola, dimora nella sua parola, la mantiene e vi si attiene. La faccia si dona in persona non mostrandosi come una cosa del mondo, ma facendosi parola, come una promessa venuta e mantenuta da altrove. Gli dèi pagani si mostrano manifestatamente nelle loro facce prese in prestito perché non si danno mai in persona; YHWH non manifesta mai la sua gloria come un fenomeno del mondo perché dà la sua faccia solo in persona (‫)פנים‬, solo come la sua persona, nella sua parola che dice, mantiene e dona. Egli si dà in persona (nella sua faccia) 32.  La LXX traduce seauton/autos, la Vulgata te/tu ipse e la Bibbia di Gerusalemme «me stesso, te stesso». La Bibel di Lutero trascrive letteralmente «faccia»: «Er sprach: Mein Angesicht soll vorangehen; damit will ich dich leiten» (conservando l’ambiguità su questo me stesso senza faccia visibile). La King James riconosce il paradosso: «my presence shall go with thee» e «thy presence», mentre Lemaître de Sacy utilizza in successione le due possibilità: «si j’ai trouvé grâce devant vous, faites voir votre visage» (Es 33,13), poi «si vous marchez vous-même devant nous» (Es 33,15).

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dando la sua parola. Tale spostamento della presenza in persona dalla visibilità manifesta all’invisibilità della parola data non dovrebbe sorprendere, perché potrebbe anche verificarsi una regola fenomenologica posta da Lévinas: un volto rivela l’altro solo se resta invisibile e, tuttavia, parla. Infatti, se questo volto si mostra direttamente come un altro fenomeno, incluso nel mondo visibile degli oggetti, l’altro non si fenomenizza nel suo volto; certo, presenta anche una visibilità di fenomeno mondano, tra gli altri, ma questa visibilità può anche mascherarsi o mentire, in breve: dissimularsi in una figura in prestito. L’altro non si fenomenizza come tale mostrandosi ma in quanto mi parla (tanto silenziosamente quanto con delle parole), mi interpella e si rivolge a me; soltanto allora il suo volto mi riguarda, solo allora questa faccia si apre e ciò mi riguarda. Dal momento che ciò mi riguarda, il suo volto, ormai invisibile come cosa del mondo, mi riguarda di fatto.

Di fronte al Nome Com’è possibile, allora, comprendere meglio che una «faccia», la cui «gloria» (Es 33,19) non può né deve vedersi (Es 33,20), consenta che Dio guardi Mosè, che Mosè guardi Dio e che Dio guardi Mosè? Che cosa scambiano Mosè e YHWH in questo «faccia a faccia» senza faccia? Il testo non lo nasconde, esso dichiara apertamente: YHWH conosce Mosè per nome: «Mosè disse al Signore: […] “eppure hai detto: ‘Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia (‫ )חן‬ai miei occhi’”» (Es 33,13 e Es 33,17). Si tratta di ciò che il greco intende con eudokia: il fascino che viene riconosciuto a qualcuno, ciò che lo rende seducente e ne fa desiderare il rapporto, come di un amico o di una sposa; infatti, si tratta del riflesso della stessa gloria di Dio su un

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uomo che viene preferito. La gloria di YHWH ormai diventa accessibile perché essa distingue e avvolge Mosè: entrando nella «gloria del Signore [che] appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante» (Es 24,17), «la pelle del suo viso era raggiante (‫( »)קרן עור פני‬Es 34,35). La sua faccia rifletteva la gloria della faccia invisibile di YHWH, al punto che anche lui doveva velare la sua faccia visibile. Questo favore risulta dal fatto che Dio si rallegra di conoscere e nominare Mosè, che rende un suo «amico», così possono passare insieme «quaranta giorni e quaranta notti» (Es 34,28)33. Ci si può chiedere, però, se non sia necessario che anche Mosè abbia accesso al Nome di Dio. Altrimenti, come comprendere che questo faccia a faccia senza faccia abbia potuto aver luogo secondo la modalità di un nome a Nome? Il racconto della vocazione di Mosè già aveva risposto alla questione e realizzato la transizione dalla vista all’ascolto, dalla visione al Nome. Infatti, tutto inizia da una manifestazione: un angelo «appare (‫ »)וירא‬e Mosè va per poter «guardare» (Es 3,2); si precipita con impaziente curiosità: «voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo (‫( »)ואראה את המראה‬Es 3,3); ma, al momento in cui avanza «per vedere (‫»)לראות‬, Dio gli «lancia un appello (‫( »)ויקרא‬Es 3,4) dal mezzo del roveto che brucia senza consumarsi: «non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). Ormai «i limiti»34 della santità esigono che la vista ceda il passo all’appello e la visione all’ascolto. La parola riporta alle parole («Mosè, Mosè! – Eccomi (‫( »)הנני‬Es 3,4) e le 33.  Qui «senza mangiare e senza bere», mentre Mosè, Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani che erano saliti sul monte, «videro Dio e poi mangiarono e bevvero» (Es 24,11)? 34.  H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Bd. III/2, Teil 1, Alter Bund, Johannes Verlag, Einsiedeln 1969; tr. it., Gloria. Una estetica teologica, vol. VI, Antico Patto, Jaca Book, Milano 1980, p. 42.

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parole riportano al Nome, perché YHWH si presenta e si dà in presenza riprendendo l’antico nome: «io sono (‫ )אנכי‬il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Non solo questo nome non lo identifica tramite una conoscenza neutra, ma non lo rivela per niente; piuttosto ricorda una precedente alleanza (Gn 17,19-21), di modo che la nuova parola segnala che qui Dio sta mantenendo una promessa fatta tempo addietro. Il Nome «sono colui che sarò (‫ »)אהיה אשר אהיה‬significa (segna e impegna) che YHWH si impegna in persona per il suo popolo – o piuttosto per coloro che stanno per diventare un popolo essendo chiamati da lui «mio popolo»: «così dirai agli Israeliti: “Io-sono” (‫ )אהיה‬mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Evidentemente questo nome non dice categoricamente l’essenza di Dio; non dice nemmeno soltanto e negativamente che Dio, tramite il nome di Dio, resta Dio; neppure che Dio è ciò che sarà, in segreto. Dice che Dio si dice, e si dice per promettere la salvezza al suo popolo. Dio si scopre e si annuncia nel suo Nome, come colui che viene in persona per salvare35. In cosa consiste dunque il privilegio che YHWH stesso riconosce a Mosè, «il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a te» (Dt 18,15, cfr. Dt 18,18)? Probabilmente non consiste nell’aver visto l’invisibile, piuttosto nell’averlo visto in quanto invisibile, quindi di aver inteso l’invisibile, il Nome. Certo egli «contempla l’immagine (‫ )תמנה‬del Signore», ma questa consiste nel fatto che il Signore «parla con lui (‫( »)אדבר בו‬Nm 12,8).

35.  Secondo Dirlmeier il contrasto con gli dèi pagani è impressionante perché «c’è un atteggiamento amichevole degli dèi nei confronti degli uomini – ma nessun amore (Liebe) di dio verso gli uomini, né alcun amore (Liebe) degli uomini per il dio» (F. Dirlmeier, Theophilia-philotheia, in «Philologus. Zeitschrift für das klassische Altertum», n. 90, 1935, pp. 57-77: p. 59). La definizione di theophilia è attribuita a Cirillo d’Alessandria.

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Inoltre, Mosè non si distingue per il fatto di aver parlato con Dio o averlo visto, ma perché Dio gli ha parlato e l’ha ricoperto con la sua gloria. D’altronde, il Pentateuco si conclude constatando che «non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva (‫ )ידעו יהוה‬faccia a faccia» (Dt 34,10), non tanto perché nessun altro ha conosciuto Dio faccia a faccia, ma perché nessun altro è stato conosciuto da Dio in persona fino a questo punto. In questo senso la situazione di Mosè non contraddice quella del popolo, al quale ripete che, davanti all’Oreb, «voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura (‫)תמונה‬, vi era soltanto una voce (‫( »)קול‬Dt 4,12)36. La Rivelazione non si scopre tramite il fenomeno di uno spettacolo, né tramite la visione di una forma, ma tramite l’apertura della parola e il dispiegamento del Nome. La parola e il Nome mi advengono da altrove, non provengono da me, né cadono sotto il mio sguardo. Mosè non ha visto il Signore, ma ha sentito il Nome andando a vedere il roveto. Così, il Nome l’ha chiamato e si è manifestato a lui. In un certo senso anche il Profeta non dice niente su Dio e non trasmette niente nel suo nome, in quanto lascia immediatamente la parola alla Parola, e tace. Non prende la parola per dire «io dico che egli dice, ecc.», ma si sbarazza della parola, subito restituisce la parola alla Parola, che lascia parlare da sé: «Parola dell’Eterno: “Io dico, dice l’Eterno»37. La Rivelazione non dice che «dio è…»,

36.  Ciò spiega perché quelli del popolo che «non credono» a Mosè, né ascoltano la sua parola, giustamente usano come argomento «non ti è apparso il Signore, ‫לא נראה אליך‬, ouk ôptai» (Es 4,1). Donde la risposta divina: segni completamente patenti e visibili (il serpente/bastone, la mano lebbrosa o sana, l’eloquenza di Aronne), che però, ancora una volta, possono convincere solo coloro che ascoltano ciò che vedono. Proprio la manifestazione non è sufficiente a realizzare lo svelamento di rivelazione. Ciò che questa non-rivelazione manifesta è lo svelamento della stessa invisibilità divina. 37.  F. Rosenzweig, op. cit., p. 183.

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né che «dio è Dio, nome di dio», ma «Dio parla e dice il suo Nome, quindi io ascolto».

L’appello di “Io” Poiché culmina nell’ascolto del Nome, la manifestazione inizia dall’intendere l’appello, come al Sinai, sul monte Moria, la «montagna del vedere»38. Innanzitutto bisogna intendere l’appello del Nome. La figura di Abramo (come quella di Giacobbe allo Iabbok) conferma questa questione: l’ordine del farsi fenomeno giunge a manifestare sempre e solo a partire da una parola, quindi da un appello: innanzitutto da un ascolto. Questo ascolto, però, fa vedere; quindi, per rendere possibile Mosè, è necessario Abramo prima di lui. Abramo inizia da un appello o, piuttosto, anche prima che lo stesso Abramo fosse, prima che diventasse «padre di una moltitudine di nazioni» (Gn 17,5), un appello lo convoca già, più esattamente lo evoca. L’appello evoca Abramo mettendolo in esilio, immergendolo nella situazione dalla quale gli uomini – come Ulisse – vogliono ritornare, più di ogni altra cosa – l’esilio: «vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre» (Gn 12,1). Solo dopo l’appello all’esilio, ascoltato e consentito, Dio «appare (‫וירא‬, ôphthê)» (Gn 12,7).

38.  P. Beauchamp, L’Un et l’autre Testament, vol. II, Accomplir les Écritures, Seuil, Paris 1990; tr. it., L’uno e l’altro testamento, vol. II, Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, p. 30. Infatti, si può leggere così anche la storia di Isacco (donato gratuitamente dal Signore ad Abramo, da Abramo ingiustamente rivendicato al Signore come proprio, infine restituito da Abramo al Signore, poi dal Signore restituito in modo infinito alla fede di Abramo tramite un’immensa discendenza), come un passaggio definitivo dalla visione alla promessa. Sul non-sacrificio di Isacco, cfr. le nostre indicazioni in J.-L. Marion, Certezze negative, § 21, pp. 185-190.

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Abramo parte per uno spazio senza luogo, totalmente nudo, in quanto parte «senza figli» (Gn 15,2); dal momento che ascolta e parte, però, egli riceve una «visione (‫»)מחזה‬, una visione che tuttavia non fa vedere niente; essa resta proprio la visione di «una parola (‫( »)דבר‬Gn 15,1), della promessa di una discendenza. La stessa logica comanda l’episodio dell’incontro di Mambre: certo il Signore «appare (‫וירא‬, ôphthê)» (Gn 18,1), ma forse appare solo per via indiretta, tramite l’entrata in scena di «tre uomini», come una manifestazione di dèi greci. E, poiché Abramo li vede «alzando gli occhi (‫וישא עניו‬, idou)» (Gn 18,2), prima di alzare gli occhi, a propriamente parlare, egli non vedeva ancora niente della supposta apparizione. Ciò che decide tutto proviene dal fatto che Abramo sperimenta che questo «Signore», di cui si professa il «servo», ripone in lui una «grazia (‫( »)חז‬Gn 18,3), come più tardi farà con Mosè. Ciò che segue (la promessa di un figlio fatta a Sara, il giudizio di Sodoma, la nascita di Isacco) consegue dall’ascolto di Abramo e dalla fedeltà alla parola di YHWH, costituisce la sola e imponente realtà di una manifestazione, che, rigorosamente parlando, è spogliata di ogni apparizione. La manifestazione non consiste nella conoscenza da parte di Abramo del Nome di Dio – che ancora conosce solo con il titolo di «io sono l’onnipotente, el-Shaddai» (Gn 17,1, al pari di Giacobbe in Gn 28,13); la manifestazione consiste nel fatto che Sarài riceve il nome di Sara (Gn 17,15), come Abramo aveva ricevuto il suo, Abraham, da YHWH e dal fatto che Isacco nasce come il Signore «aveva detto» (Gn 21,1). La presenza di Dio non è confermata da una teofania, ma dal segno e dalla promessa della nascita di Isacco (Gn 18,9). L’attestazione della scoperta dell’invisibile tramite l’ascolto senza manifestazione visibile, cioè della fede – come riconoscerà Paolo, Abramo «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gn 15,6 = Rm 4,3) – culmina senza dubbio nel non-sacrificio di Isacco. Qui tutto si svolge in termini di appello (parola) e

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di risposta (parola): «Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”» (Gn 22,1). La richiesta di sacrificare Isacco è stupefacente ma si può anche argomentare che qui Dio non fa altro che reclamare il suo dono (il figlio è stato miracolosamente donato al padre) e ciò che gli è dovuto (i primogeniti del popolo sono destinati al Tempio). In fondo, a stupire è soprattutto il silenzio di Abramo che non chiede a Dio alcuna spiegazione (mentre ne fornisce una a suo figlio) e non tenta alcun mercanteggiamento (come osa fare in Gn 18,22-32), tanto che non solo il Signore non si manifesta, ma anche tace (durante un’intera sequenza: Gn 22,3‑10). Così come un appello e una risposta avevano aperto l’esperienza della prova, un appello e una risposta (gli stessi) la chiudono: «l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”» (Gn 22,11 = Gn 21,1). Segue il «secondo» appello di Dio (a conferma che i primi due non sono altro che uno solo), sigillando definitivamente che «si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai ascoltato il mio appello (‫»)אשר ׁשמעת בקלי‬ (Gn 22,18). Non si può negare che ci sia Rivelazione – quella dell’elezione del popolo di Dio e di tutta l’umanità in Israele, ma questa Rivelazione si configura come alleanza, dove ciò che si mostra si mostra facendosi ascoltare («vedere la voce»), senza fare vedere la minima forma. Ciò che si mostra si dà, ma si dà dicendosi. Non viene scoperto niente di visibile, se non la manifestazione stessa dell’invisibile. Vedere l’invisibile significa intendere il Nome dell’invisibile come tale, e questo Nome non dice nient’altro che se stesso: «io sono YHWH, tuo Dio, ‫( )אנכי יהוה אלהיך‬Es 20,2 e Es 20,5). Si deve fare attenzione a non intendere «io, YHWH, io sono il tuo Dio», lasciando supporre che si conosca già ciò che “dio” vorrebbe dire, in questo caso YHWH rivendicherebbe solo l’esclusività del titolo e la promessa consisterebbe soltanto nel riconoscere come alleato un dio identificato con

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un certo YHWH. Al contrario bisogna sottolineare che colui che si dichiara apertamente come il Dio del popolo resta senza uguali o rivali, perché non si inscrive in alcun ruolo già riconosciuto, ma conserva un nome preservato e sconosciuto39. Il Nome, dal momento che dice e dà tutto, in una manifestazione mondana non mostra niente, si confonde con l’“Io”, di diritto l’unico “Io” possibile: «io – YHWH» (Es 3,6 e Es 16). Non si tratta tanto di una rivendicazione di esclusività, come se YHWH fosse geloso di eventuali rivali in divinità (per quanto alcuni tra i primi Ebrei abbiano potuto intenderla così, come farà più tardi Nietzsche), ma dell’affermazione che nessuno può, senza mentire, dire “Io”, può farlo solo colui che si dice in persona perché si dà in persona. «Io e non altri [sc. Io]»40. In questo senso bisogna seguire Rosenzweig: «l’“io” di Dio diviene la parola-matrice che attraversa tutta la rivelazione come una nota di pedale d’organo»41. Quando YHWH si rivela, non c’è niente da vedere, se non l’invisibile come tale, la parola in cui si dà il Nome.

39.  Zimmerli insiste su questo fatto: «uno che fino ad ora era sconosciuto, esce dal suo incognito, in quanto rende noto e nominabile il suo nome proprio» (W. Zimmerli, Ich bin Yahve, in W. Foxwell Albright et alii, Geschichte und Altes Testament. Albrecht Alt zum 70. Geburtstag, J.B.C. Mohr Siebeck, Tübingen 1953; tr. it., Io sono Jahvé, in Id., Rivelazione di Dio. Una teologia dell’Antico Testamento, Jaca Book, Milano 1975, pp. 19-44: p. 19; ugualmente A. Deißler, op. cit., pp. 310 ss.). Il nome si fa conoscere proprio come perennemente sconosciuto e tanto più inconoscibile in sé. 40.  Per esempio, Es 8,6; Es 9,14; Es 20,5; Is 41,4; Is 43,10; Is 46,5; Is 48,12; Is 51,12; Is 54,5. 41.  F. Rosenzweig, op. cit., p. 183. Cfr. P. Beauchamp, L’Un et l’autre Testament, vol. I, Seuil, Paris 1976; tr. it., L’uno e l’altro testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 1985, p. 326: «Dio nomina se stesso come soggetto: non dice “Io sono Dio”, ma “Io sono”. Ha “Io” per nome proprio. Osea mostra come questo valore sia stato chiaramente percepito. “Tu lo chiamerai ‘non-mio-popolo’, dice Jahvé, perché voi non siete il mio popolo, e per voi Io-non-sono”»; ancora una volta, cfr. A. Deißler, op. cit., pp. 312 ss.

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12 Ciò che scopre il «mistero» (Paolo)

Il presupposto del mistero «Io», altrimenti detto «Io sono» – nella nostra visibilità colui che si dice «con noi» e lo è realmente si scopre così, senza lasciarsi vedere direttamente. Il compimento di questa messa allo scoperto è rivendicato esplicitamente da Gesù quale suo unico attore. Inizialmente lo rivendica nei sinottici, per esempio nell’episodio della tempesta, nel quale cammina sulle acque andando verso i discepoli: «coraggio, sono io (sc. io sono, egô eimi), non abbiate paura» (Mt 14,27; Mc 6,50). Questa rivendicazione, tuttavia, si espone subito a una difficoltà: come distinguere questo egô eimi dalla pretesa dei falsi messia che a loro volta diranno «nel [suo] nome: “Io sono il Cristo”» (Mt 24,5, cfr. Mc 13,6 e Lc 21,8)? Evidentemente raddoppiando il presente delle parole tramite la presenza del corpo offerto in persona, addirittura nella carne glorificata, al punto da lasciare toccare il suo corpo risorto: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io (oti egô eimi autos)! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (Lc 24,39). Questo argomento, tuttavia, si rovescia nell’altro senso, ché com’è possibile tener stretta e toccare la carne risorta che deve ancora rimanere a distanza: «non mi

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(trat)tenere» (Gv 20,17)? Come resistere davanti alla gloria che risplende quando «Io sono» si dice – «disse loro “Sono io egô eimi”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6)? Di diritto, se Cristo può pretendere di dire «Io sono», non c’è che un’alternativa: o ci diventa impossibile da sostenere, come YHWH davanti a Mosè, oppure, come attesta il sommo sacerdote, egli bestemmia: «“Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. Gesù rispose: “Io lo sono (egô eimi)! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Dn 7,3 e Sal 110,1). Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia”» (Mc 14,61‑63). La rivendicazione di «Io sono» fatta da Gesù, quindi, non supera la tensione che struttura la scoperta del Nome da parte di Abramo e Mosè, ma la radicalizza: Gesù fu condannato a morte proprio perché rivendicava il Nome, non lo sarebbe mai stato se fosse stato percepito e accolto come un sapiente, moralizzatore e liberale (questo è l’errore ermeneutico delle letture del tipo di David Friedrich Strauss o Ernest Renan). Fu condannato perché tutti riconoscono in lui, chiara come il giorno, l’irruzione almeno possibile dell’assoluta e inconcepibile presenza di YHWH. Se Cristo compie tutto ciò che le Scritture ebraiche attendevano e descrivevano, non compie null’altro e nulla di meno di ciò che era da loro scandito; pertanto, non poteva che concentrare in lui tutte le esigenze apparentemente contrarie elaborate dagli annunci delle Scritture. Gesù non modifica i termini della scoperta di Dio messa in opera dalle Scritture ebraiche, egli pretende solo di compierli senza apportare altra novità che questo compimento stesso: egli innova perché «dà pieno compimento alla Legge» (Mt 5,17) alla lettera, senza aggiungere, annientare o modificare nulla, proprio perché la realizza totalmente nella sua persona. La sua unica innovazione riguarda il fatto che lui, per primo, la realizza: «cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta

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(peplêrôtai) questa [parola della] Scrittura che voi avete ascoltato”» (Lc 4,21), egli può pretendere di realizzarla, perché innanzitutto pretende che «tutte» le Scritture si riferiscano «a lui (peri heautou)» (Lc 24,27)1. La novità di Gesù non consiste 1.  Non bisogna intendere che Gesù, in questa lezione di ermeneutica biblica, scelga tra le Scritture i passi che lo riguardano, ma che le spiega tutte nella misura in cui tutte si riferiscono a lui, perché «proprio esse danno testimonianza di me (peri hemou)» (Gv 5,39). Tuttavia, non bisogna immaginare che le Scritture annunciassero autonomamente il loro compimento tramite Gesù, come se nel testo esplicito un sottotesto dicesse già altra cosa rispetto al senso letterale. Infatti, le Scritture dicono ciò che dicono e non predicono niente da se stesse, ma – una volta accaduto il compimento di Cristo – scoprono, a colui che le ri-legge, di aver detto ben più di ciò che esse dicevano. Esse offrono allora, immediatamente e retrospettivamente, un senso che non poteva esser concepito prima della loro realizzazione da parte di Cristo. «La storia qui raccontata non è semplicemente un’illustrazione delle antiche parole, bensì la realtà che le parole attendevano. Questa, nelle sole parole, non era riconoscibile, ma le parole raggiungono il loro pieno significato mediante l’evento in cui esse diventano realtà». Se «le antiche parole vanno al di là di loro stesse» è perché «rimangono, per così dire, ancora senza padrone» e si può, con Cristo, «assegnare il loro protagonista a queste parole “in attesa”» (J. Ratzinger, Jesus von Nazareth, Prolog, Die Kindheitsgeschichten, Herder, Freiburg i.Br.-Basel-Wien 2012; tr. it., L’infanzia di Gesù, BUR-Libreria Editrice Vaticana, Milano-Città del Vaticano 2012, pp. 24 e 26). Eccellenti analisi in M. Reiner, Bibelkritik und Auslegung der Heiligen Schrift. Beiträge zur Geschichte der biblischen Exegese und Hermeneutik, J.B.C. Mohr Siebeck, Tübingen 2007, p. 328; R. Swinburne, Revelation, Oxford University Press, Oxford 1992 (in particolare pp. 161 ss. e 188 ss.); J. Barton, Judaism and Christianity: Promise and Fulfillment, in «Theology», n. 79, 1976, pp. 260-266: p. 263: «la questione non è: “in che modo il nuovo testamento è legato al vecchio, al modo di un brano letterario?”, ma: “Gesù soddisfa le speranze di Israele (per il quale il vecchio testamento è semplicemente evidenza)”; non: “il significato di uno scritto è capace di reagire al significato sia delle prime che delle ultime opere?”, ma: “com’è il significato di un uomo (Gesù) relativo al suo contesto culturale e religioso e alla storia del suo popolo? Chi è Gesù; in quale contesto siamo per comprenderlo; egli crea il suo proprio contesto?”». Ireneo l’aveva già detto perfettamente: «Omnis enim prophetia, priusquam effectum, aenigmata et ambiguitates sunt hominibus; cum autem venerit tempus et evenerit quod prophetatum

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in un’aggiunta alle Scritture che lo preparano e alle quali egli est, tunc prophetiae habent liquidam et certam expositionem – perché tutte le profezie, prima che abbiano effetto, costituiscono degli enigmi e delle ambiguità per gli uomini; ma quando verrà il momento e si compirà ciò che vi è previsto, allora le profezie troveranno un’interpretazione chiara e certa» (Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., vol. II, V, 26, 1, p. 235 [SC 100**, p. 846]). Oppure Origene: «bisogna però riconoscere che il carattere divino degli scritti profetici e il significato spirituale della legge di Mosè si sono rivelati con la venuta di Gesù (epidêmêsantos Iêsou): infatti prima di essa (pro tês epidêmias tou Christou) non era possibile (ou panu dunaton) addurre argomenti evidenti sull’ispirazione del Vecchio Testamento. Invece la venuta di Gesù (Iêsou epidêmia) ha spinto quanti potevano dubitare del carattere divino della legge e dei profeti a riconoscerli chiaramente come scritti per grazia celeste. […] E la luce contenuta nella legge di Mosè, coperta da un velo (enapokekrummenon), risplendette alla venuta di Gesù, poiché fu tolto il velo» (Origene, Peri Archôn; tr. it., I princìpi, Opere di Origene, vol. XV, Città Nuova, Roma 2019, IV, 1, 6, pp. 501 e ss.). E ancora: «in risposta, si potrebbe dire che la Legge e i Profeti, precedenti all’avvento del Cristo, non essendo ancora giunto colui che avrebbe disvelato i misteri (mêdepô elêluthotos), non contenevano l’annuncio della definizione sul vangelo. Il Salvatore, infatti, dopo esser venuto e aver fatto in modo da incarnare il vangelo (epidêmêsas kai… poiêsas), ha reso ogni cosa, con il vangelo, come se fosse vangelo stesso (panta ôs euaggelion pepoiêken)» (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, Bompiani, Milano 2012, I, VI, 33, pp. 171-173). Quindi non sono le profezie a mostrare in anticipo la figura di Cristo, è la figura in atto di Cristo in persona a conferire retrospettivamente ai testi un senso più radicale di quello che quegli stessi testi offrivano fino a quel momento. Péguy lo spiega perfettamente: «insomma, appartiene all’ordine dell’uomo e all’ordine dell’avvenimento, il passaggio dalle profezie ai Vangeli appartiene all’ordine dell’uomo e all’ordine dell’avvenimento, e per nulla all’ordine della deduzione logica, matematica, fisica, apparentemente scientifica, per nulla all’ordine determinista e del moderno. / Insomma, i Vangeli non sono le profezie messe al passato, trasposte tali e quali, trasposte in blocco, trasposte di botto dal futuro al passato per tramite del presente. Non era richiesto, né è bastato che Gesù le facesse passare, le trasportasse, nel tempo, le rendesse passate. C’è voluto che le realizzasse, che le compisse» (Ch. Péguy, Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartésienne, in Id., Œuvres en proses complètes, cit., vol. III; tr. it., Cartesio e la filosofia cartesiana, Studium, Roma 2014, p. 168; tr. mod.). Solo qui può avere senso e trovare spazio la discussione con l’ebraismo contemporaneo. Infatti, si può

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continua a riferirsi; la sua novità consiste nella sua venuta, in lui stesso, nella sua novità che sola giunge a realizzarle, metterle in atto, compierle: «Il Signore, quando è venuto, cosa ha portato di nuovo? Sappiate che ha portato ogni genere di novità (omnem novitatem attulit), portando se stesso (seipsum afferens)»2. Le difficoltà, se non le aporie, dello svelamento del Nome e dell’«Io sono» non vengono quindi né attenuate, né spostate nella novità incarnata da Gesù, ma incorporate in lui e concentrate in una figura (Gestalt) perfetta che le radicalizza all’estremo. La medesima nuvola scura dalla quale si rivela YHWH quando dice il Nome, necessariamente avvolge sempre Gesù quando appare come Cristo. Al momento della anche dire, come Lévinas, che «l’Antico Testamento non prefigura il nuovo: riceve la sua interpretazione dal Talmud» (E. Lévinas, Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1963 [19952]; tr. it., Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, p. 202), ma la questione consiste nel decidere se il testo biblico si interpreta a partire da un sottotesto che si decifra in esso, o tramite un evento fuori testo che gli si aggiunge e gli viene da altrove. O i verba producono il loro verbo finale, o il Verbo rende finalmente leggibili i verba. E il nuovo testamento ri-figura l’antico a partire da Cristo, perché Cristo, come la carità in atto, non figura più niente, ma compie in persona ciò che si profilava in figura: «tutto ciò che non concerne la carità è figura» (B. Pascal, Pensieri, cit., n. 301, p. 2423). 2.  Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., vol.  II, IV, 34,  1, p. 270 [SC 100**, p. 846] e Agostino: «Quid est ergo Deus meus? […] numquam novus, numquam vetus, innovans omnia – cosa sei dunque, Dio mio? […] mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa» (Agostino, Confessiones, cit., I, 4, 4, p. 7). Cfr. Ratzinger: Gesù non ha portato nulla che nelle Scritture non fosse già enunciato a proposito di Dio perché «ha portato Dio» stesso (J. Ratzinger, Jesus von Nazareth, Bd. I, Von der Taufe im Jordan bis zur Verklärung, Herder, Freiburg i.Br.-Basel-Wien 2007; tr. it., Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, Rizzoli, Milano 2007, p. 67). E già Congar: «Gesù Cristo stesso non ha lasciato nulla per scritto, ci ha lasciato il cristianesimo» e «la scrittura (non) è (che) un segno della presenza attiva della Parola increata, un appello alla sua venuta, una specie di Parola istituzionalizzata che implica l’avvento» (Y. Congar, La Tradizione e le tradizioni, vol. II, Saggio teologico, cit., risp. pp. 216 e 315).

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trasfigurazione, sulla montagna di un Sinai definitivo, ancora e soprattutto qui, «venne una nube e li coprì con la sua ombra. […] E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”» (Lc 9,34-35, cfr. Mc 9,7 e Mt 17,5). Come sul Sinai, la visione si oscura per eccesso di luce e quindi vira in quell’ascolto che chiede di credere. Quando Mosè ridiscese dal Sinai portando tra le braccia le tavole della Legge e sulla faccia la gloria di YHWH, provocò la domanda circa la possibilità e la modalità con cui il popolo stava per riceverle; quando Gesù, come Cristo, porta in lui il «Regno di Dio» succede – in modo più elevato – la stessa cosa. La regola della s-coperta definisce che «nelle cose divine», per manifestarsi, il fenomeno non implica solo il suo svolgimento, ma la sua accettazione da parte del testimone destinato a vederlo, perché questo fenomeno si lascia vedere solo nella misura in cui lo si voglia ricevere (senza poterlo prevedere) (supra, cap. 10): l’attenzione governa per antonomasia la s-coperta di Cristo.

Il dono del mistero La tensione che si illumina proviene direttamente dal principio secondo il quale non si può vedere Dio senza morire (ripresa di Es 33,20 da parte di Gv 1,18) e si segnala per l’uso dei sinottici del termine mustêrion – uso tanto più significativo perché in alcuni di loro resta un hapax, che si applica solo al «Regno di Dio» (Mt 13,11; Mc 4,11 e Lc 8,10) e che coincide con il primo uso, allo stesso tempo, dell’insegnamento in parabole fatto da Gesù (infra, cap. 13). Tutto indica quindi che il «Regno di Dio» costituisce il mustêrion per antonomasia ed è sufficiente a dispiegarne il significato (senza ancora ricorrere alla sua polisemia, come nel corpus paolino). Come comprenderlo? Non si tratta di una ripresa dei «misteri occulti (kruphia mustêria)» (Sap 14,23), condannati come idolatrici,

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né delle «religioni misteriche» che in realtà si svilupperanno solo posteriormente alla redazione dei Vangeli. Bisogna piuttosto ritornare al raz (‫)רז‬, termine di origine persiana che inizialmente designa il gran consiglio segreto in cui il re, con i suoi ministri, prendeva le sue decisioni, successivamente il segreto del re e infine il mistero dei suoi sogni premonitori (Dn 2,18)3. Ma questi segreti vengono evocati solo perché solo il profeta di YHWH, in questo caso Daniele, ha potuto interpretarli e farli capire. Pertanto diventa chiaro che appare un altro segreto, superiore al segreto del re: il mistero di Dio, che può quindi svelare il segreto del re perché in un certo senso Dio si autoscopre, cosa che il re confessa esplicitamente: «rivolto a Daniele, gli disse: “Certo, il vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei re e il rivelatore dei misteri” (ho ekphainôn mustêria krupta monos)”» (Dn 2,47). Il mustêrion mette tutto allo scoperto s-coprendo se stesso. Esso indica, al di là di ciò che ancora era concepito come un segreto (umano), che è messo allo scoperto ciò che non era stato assolutamente concepito, l’inconcepibile per definizione – la venuta di Dio proprio in quanto invisibile, la sua presenza in persona proprio in quanto inaccessibile, il dono del suo Nome proprio in quanto impronunciabile, in breve i Musteria theou (Sap 2,22). Non solo si scopre, ma «si dà (dedotai)» (Mt 13,11 e Mc 4,11) ed «è dato conoscere (dedotai gnônai)» (Lc 8,10). Come si può concepire che ciò che non si vede possa darsi a conoscere? Qui si manifesta il paradosso del mustêrion del «Regno di Dio»: per quanto sia e resti totalmente segreto, esso è dato, messo allo scoperto da se stesso, in persona. Ciò conferma quanto abbiamo già visto: l’istanza della s-coperta (l’apokalupsis) ingloba e precede qualunque conoscenza di Dio, per quanto la si pre3.  Su questi aspetti seguiamo L. Bouyer, Mysterion. Du mystère à la mystique, L’Œil, Paris 1986; tr. it., Mysterion. Dal mistero alla mistica, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1998.

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tenda «naturale» e della «pura ragione». Ciò non implica però che il mustêrion si scopra in un’evidenza immediata, aperta ai quattro venti ed esposta a ogni sguardo. D’altronde, se non ci fosse nulla di ricoperto o di celato, non avrebbe luogo né bisogno di s-coprire. Qualcosa è stato quindi taciuto: mustêrion (il termine viene dal verbo mùô, chiudere la bocca) indica ciò che non si può o non si deve dire, ciò che deve rimanere taciuto e invisto, ciò che è conosciuto solo dagli iniziati di una confraternita (per esempio quella dei mustêria di Eleusi); così, esatto contrario del testimone che dice senza sapere tutto (supra, cap. 2), l’iniziato (mustês) sa, ma deve tacere, non deve dire nulla di ciò che sperimenta. Ora, i sinottici non menzionano la benché minima omertà che taccia o nasconda il mustêrion perché il fatto che nessuno lo conosce non dipende dal trattenersi dell’annuncio, ma dal rifiuto di conoscerlo e intenderlo come si dà. Il mustêrion non conserva nulla di segreto ma accade che alcuni uditori lo nascondano perché si nascondono da lui. Infatti, se Dio resta padrone di s-coprirsi a chi vuole, di modo che questo mustêrion in quanto tale può essere «annunciato a tutte le genti» (Rm 16,26), tuttavia può s-coprirsi solo a colui che può (e vuole) riceverlo. Donde l’inevitabile paradosso, per cui la sua infinita potenza di s-coperta non può e non deve liberarsi dall’impotenza finita della ricezione, perché la ricezione è parte integrante delle condizioni della s-coperta. Ne deriva una domanda propria all’apokalupsis cristiana: in che modo in linea di principio il mustêrion deve s-coprirsi a tutti e perché, però, non tutti possono riconoscerlo4? Perché questa resistenza si accresce tanto più quanto più questo 4.  Certo, tutti possono non ricevere e non – come almeno a partire dalla Riforma si ha tendenza a sottovalutare il problema – tutti non possono ricevere, come se la s-coperta fosse rifiutata a tutti ma riservata ad alcuni. Dio non trattiene nulla dei suoi doni e dona a tutti; è proprio per questa ragione, l’eccesso del dono, che tutti possono non voler ricevere ciò che comunque è dato a tutti senza riserva.

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mustêrion si fa pressante, insistente e vuole «darsi» in linea di principio a tutti; il «Regno» si mette in azione, in movimento, «si è avvicinato» (Mc 1,15; Lc 10,9), «è vicino» (Lc 21,31); il mustêrion viene verso di noi, viene su noi, sopravviene come l’avvenimento di un evento proprio perché si avvicina a tutti senza che lo prevediamo né lo sappiamo; può persino darsi che nessuno lo veda, lo attenda e soprattutto che nessuno lo voglia. Questa insorgenza senza ricezione prevista, quindi potenzialmente fuori luogo, conferma proprio il suo statuto di fenomeno, più precisamente di evento – detto altrimenti, di fenomeno imprevedibile, non ripetibile, ritenuto impossibile fino all’ultimo minuto, fenomeno che, una volta effettivo, rimane ancora impossibile, almeno nel senso secondo il quale non arriviamo a comprenderlo interamente come oggetto. La s-coperta del mustêrion può (e deve) rimanere sia per sempre pensabile sia mai completa; sia possibile sia impossibile, perché l’evento del «Regno di Dio» avviene come un avvenimento. Il primo avvenimento di questo evento si segnala già nel fatto, ambiguo e inquietante, che il mustêrion svela che esso avviene tra noi, prima che noi comprendiamo ciò che significa, nel fatto che di fatto adviene come ancora incomprensibile – compiuto troppo in fretta, già dato, non ancora compreso, in senso stretto conosciuto come sconosciuto. Calmo blocco caduto da un cataclisma oscuro5, mostra per sempre il segno di contraddizione per le nostre bestemmie e anche per le nostre future benedizioni. Il mustêrion del «Regno di Dio» esige quindi la sua s-coperta, esso implica il suo annuncio (il kerygma), chiede la sua ricezione (quindi la sua ermeneutica), l’una e l’altra si rispondono senza fine; soprattutto, conviene che l’una ritardi senza fine 5.  Qui Marion cita senza esplicitarlo il verso «calme bloc ici-bas chu d’un désastre obscur» (S. Mallarmé, Le tombeau d’Edgar Poe; tr. it., La tomba di Edgar Poe, in Id., Poesie, Feltrinelli, Milano 2017, p. 151) [n.d.t.].

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sull’altra. A partire dall’avvento del «Regno di Dio», il ritrarsi del «mistero» si raddoppia nel ritardo a riceverne la s-coperta, o anche solo ad ammetterla. Paolo si rivolge ai Romani constatandolo: da una parte Paolo ormai rende pubblico e proclama ai quattro venti proprio ciò che è stato taciuto: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mustêrion, perché non siate presuntuosi en heautois phronimoi» (Rm 11,25): ormai non solo gli ebrei, che avevano rifiutato la prima manifestazione di Dio («ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto, phaneron estin en autois; Dio stesso lo ha manifestato a loro autois ephanerôsen», Rm 1,19), ma anche i pagani ricevono la grazia (e il compito gravoso) di s-coprire ciò che restava taciuto e invisto: «nel mio Vangelo, che annuncia Gesù Cristo (kata to euaggelion mou kai to kêrugma Iêsou Christou), secondo la s-coperta del mustêrion, avvolto nel silenzio per secoli eterni (kata apokalupsin mustêriou […] sesigmenou), ma ora manifestato (phanerôthentos de nun) mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti (eis panta ta ethnê gnôristhetos) perché giungano all’obbedienza della fede» (Rm 16,25‑26). Il «vangelo», detto altrimenti la felice proclamazione – per esempio quella che è fatta da un imperatore ai suoi popoli in occasione dell’ascesa al potere – diviene universale, come un editto di Caracalla spirituale, che accorda a tutti la cittadinanza nel «Regno di Dio». D’altra parte, però, la conoscenza di questa novità è stata bloccata e offuscata dalla mancanza di riconoscimento: la manifestazione di Dio tramite la gloria del mondo creato, per quanto già patente, non era stata sufficiente a farlo riconoscere dagli uomini; infatti, «pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio (gnotes ton theon ouk ôs theon eudoxasan hê êukaristêsan), ma si sono perduti (emataiôthêsani) nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti (emôranthêsan)» (Rm 1,21-22). Il mustêrion fu dunque rifiutato perché si scopriva.

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È quindi necessario – ed è il punto di partenza di Paolo – rovesciare l’ordine delle operazioni di fenomenizzazione: poiché la manifestazione non può farsi conoscere senza che ci sia prima il riconoscimento, sarà necessario che il riconoscimento preceda la conoscenza, che la provochi e la ristabilisca in un secondo momento e, per questo motivo, che la manifestazione (phanerosis) si radicalizzi in s-coperta (apokalupsis) della totalità del mustêrion fino allora rimasto nel silenzio eterno. In questo caso si tratta di un cambiamento radicale dei modi della fenomenicità: quando si tratta del fenomeno di Dio la verità (alêtheia, dis-velamento) cede allo s-coprimento (apokalupsis) del fenomeno (supra, capp. 8‑10). La s-coperta del mistero sovradetermina l’apertura della verità. Identificato in tal modo l’orizzonte fenomenologico – un fenomeno s-coprentesi a partire dal mustêrion –, si profilano tre questioni, ancora indistinte e in attesa di conferma. La prima chiede di cosa il mustêrion permetta la fenomenizzazione: dallo sfondo di quale invisto emerge ciò che viene a mostrarsi a partire da sé in quanto sé (cap. 12)? La seconda questione chiede come si s-copra ciò che si dà: tramite quale operazione l’invisibile si fa riconoscere come visibile (infra, cap. 13)? La terza questione chiede ciò che si s-copre in quanto si dà: chi si mostra in quanto si dà, senza resto, né riserva (cap. 14)?

Il mistero della sapienza La prima questione è: di cosa il mustêrion permette la fenomenizzazione? Dallo sfondo di quale invisto emerge ciò che viene a mostrarsi a partire da sé in quanto sé? Il corpus paolino6 risponde alla questione in modo perfetto e in tre momenti. 6.  «L’Antico Testamento visto come il corpo senza testa; il Nuovo Testamento: la testa; le Lettere degli Apostoli: la corona sul capo. […] Ma una

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Il primo momento, realizzato da 1Cor, riconosce l’invisto dal quale il fenomeno emerge come il mustêrion della sapienza, «sapienza di Dio, che è nel mustêrion, che è rimasta nascosta (sophia en mustêriô, hê apokekrumennê)» (1Cor 2,7), di modo che inizialmente si definisce solo negativamente, per contrasto rispetto alla «sapienza di questo mondo (sophia tout aiônos toutou)» (1Cor 2,6), quella che è messa in atto dai dominatori (gli «arconti») di questo mondo. Infatti, la sapienza di Dio resta segreta, nella misura in cui si disconosce che essa si s-copre in sé tramite lo Spirito stesso di Dio: «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano (agapôsin)» (1Cor 2,9 che cita Is 64,3)7, ciò infatti non può che venire da Dio: «Dio le ha s-coperte (apekalupsen) per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1Cor 2,10). Solo Dio s-copre Dio ed è possibile «conoscere da Dio quanto riguarda Dio (ta para tou theou peri tou theou)»8. Le «profondità divine»9 corrispondono qui a ciò che Cristo scopre in parabole ai suoi discepoli: «a voi è stato dato il mustêrion del regno di Dio» (Mc 4,11)10, pertanto non è la nostra conoscenza, «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo» (Gv 1,13), «né la carne, né il sangue», ma il riconoscimento dato da nessuno se non dal «Padre mio che è nei testa non la penso necessariamente cinta di una corona» (L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984; tr. it., Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1988, p. 74). 7.  Cfr. anche 1Cor 1,19, che cita Is 29,14, secondo la LXX «distruggerò la sapienza dei sapienti e eclisserò (nasconderò, krupsô) il sapere di coloro che sanno». 8. Atenagora, op. cit., VII, 2, p. 47 [SC 379, p. 92]. 9.  E già: «profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio» (Rm 11,33) 10.  Si è già visto che «a voi è dato conoscere i mustêria del regno dei cieli» (Mt 13,11 e Lc 8,10).

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cieli che s-copre» (Mt 16,17), il mustêrion. Il riconoscimento, il solo a rendere possibile la conoscenza, adviene dal «Padre che è nei cieli», più esattamente da ciò che il Padre dà, cioè lo Spirito, «lo Spirito del suo Figlio, il quale grida “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6), secondo il fatto per cui «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5)11. Per vedere il mustêrion s-coperto è quindi necessario passare dal nostro spirito allo Spirito di Dio, spostarsi dall’uno all’altro al fine di vedere il mustêrion tale quale Dio lo dà a vedere. Si tratta di nulla di meno che di un rovesciamento di intenzionalità: quando emerge l’intuizione del mustêrion, si tratta di assumere lo sguardo intenzionale di Dio su Dio, anziché persistere ad accamparsi sulla nostra intenzionalità. Altrove abbiamo identificato questo rovesciamento o spostamento dell’intenzionalità come un’anamorfosi: trovare, su un fenomeno che si dà, il punto di vista che subito non corrisponde, né contraddice, a quello che assumeremmo mantenendo la posizione neutra di uno spettatore trascendentale, costituendolo come suo oggetto, spostando lo sguardo fino al punto di vista, dapprima incerto e stimato per approssimazioni successive, come a tentoni, a partire dal quale, secondo le esigenze di questo fenomeno, ciò che si dà arriverebbe a mostrarsi in un colpo solo e nel suo splendore più proprio12. Nel caso in cui ciò che tenta di fenomenizzarsi viene da Dio, compiere l’anamorfosi suppone uno sposta-

11.  Cfr. Rm 8,4‑9; e «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo spirito che rende figli adottivi (pneuma uiothesias), per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,15‑17). 12.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., III, § 13, pp. 150 ss. Haulotte, rapidamente ma in modo corretto, parla di un «uso ampio e incerto» della rivelazione (E. Haulotte, Le “texte” du Testament Nouveau. Ecriture et lecture d’une

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mento dello sguardo intenzionale così radicale da provocare niente di meno che una conversione dell’io che reca questo sguardo. La conversione dello spirito allo Spirito, nel caso del mustêrion di Dio, definisce l’anamorfosi. Altrimenti detto: per il mustêrion di Dio non è possibile nessuna visione, interpretazione o costituzione, se non tramite l’intenzionalità di Dio e tramite la costituzione del punto di vista di Dio del suo proprio fenomeno, perché può vedersi e riceversi solo come è dato. In questo senso, letteralmente, lo Spirito decide e «giudica ogni cosa, anakrinei panta» (1Cor 2,15). Contestualmente e in conseguenza del suo potere di portare alla luce il mustêrion di Dio, mette parimenti a nudo ciò che si nasconde nel cuore dei testimoni: «metterà in luce (phôtisei ta krupta) i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori (phanerôsie tas boulas tôn kardiôn)» (1Cor 4,5). Lo scarto tra gli sguardi intenzionali, tra il punto di vista trascendentale e l’anamorfosi, apre quindi il campo di un inevitabile conflitto delle interpretazioni. Paolo lo definisce come conflitto tra «la sapienza di questo mondo» e la «sapienza di Dio» (1Cor 2,6‑7 e 1Cor 1,21). Qui, la sapienza del mondo deve essere intesa con precisione come quella dei Greci: «i Greci cercano la sapienza» (1Cor 1,22). La sapienza, per loro, come per tutti i filosofi e a partire da qualsiasi atteggiamento naturale, consiste nel mettersi alla ricerca di qualcosa che è ancora ignorato per impadronirsene a partire da sé, per renderla, nel nostro proprio campo di conoscenza, da sconosciuta a conosciuta. Una tale «sapienza» si identifica con un altro termine, che è qui decisivo perché viene preso in prestito da Aristotele, dalla sua celebre definizione di ciò che il pensiero filosofico ricerca tramite il suo punto di vista globale e norma-

“Révélation”, in D. Coppieters de Gibson [éd.], La Révélation, Bruxelles, Facultés universitaires Saint-Louis 1977, p. 132).

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tivo: «ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca (to zetoumenon) e l’eterno problema “che cos’è l’ente (on)”, equivale a questo: “che cos’è l’ousia?”»13. Paolo, d’altronde, nel corso della sua discussione ad Atene con alcuni «filosofi epicurei e stoici», li caratterizza tramite un omaggio ambiguo con questo stesso termine: «cercano Dio, zêtein ton theon» (At 17,18 e At 17,27); probabilmente ciò suggerisce che essi lo cercano come un ente, alla maniera dei filosofi che sanno in anticipo ciò che vogliono trovare, secondo l’intenzionalità mai rimessa in questione del loro sguardo dominante. Potrebbe anche darsi che gli angeli che annunciano la resurrezione di Cristo implicitamente facciano alle donne lo stesso rimprovero: «perché cercate (zêtein) tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5, cfr. Mc 16,6); perché anch’esse sapevano in anticipo ciò che cercavano (un cadavere da imbalsamare) e in quale orizzonte cercarlo (quello della morte, che alla fine vince sempre) senza aver convertito il loro sguardo tramite l’anamorfosi che avrebbe fatto loro assumere il punto di vista di Dio: per Dio, colui per il quale «nulla è impossibile» (Lc 1,37), Gesù era colui che definiva se stesso come «la resurrezione e la vita» (Gv 11,25). Sintomo del fallimento dell’anamorfosi, del resto la «ricerca» riceve numerose menzioni negative, sottolineando che l’Io vuole prendervi possesso ed estendervi il suo potere sulle cose. Così con Erode che «cerca il bambino» per ucciderlo (Mt 2,13), o «cercava di vederlo [sc. Gesù]» (Lc 9,9), proprio come gli Ebrei

13.  Aristotele, Metafisica, cit., Z, 1, 1028b 2‑4, p. 289 (tr. mod.). Greeven nota che qui si tratta di un «termine tecnico indicante la ricerca filosofica», che «caratterizza l’aspirazione e l’orientamento della volontà dell’uomo in senso più ampio» (H. Greeven, ζητέω, in G. Kittel [hrsg.], Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Bd. II, Kohlhammer, Stuttgart 1935; tr. it., Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. III, Paideia, Brescia 1967, coll. 1529-1533: col. 1531).

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che «cercavano di ucciderlo» (Gv 5,18; Gv 7,1.19.25 e 30). Si tratta dunque proprio di possedere le cose ancora sconosciute per possedere se stessi: l’uomo perde la propria anima perché «cerca di salvare la propria vita» (Lc 17,33), mentre «l’amore […] non cerca il proprio interesse» (1Cor 13,5), sul modello di Cristo che «non cerca la [propria] volontà» (Gv 5,30), né la sua «propria gloria (Gv 7,18). Potrebbe darsi che questa «ricerca» sia sufficiente per condannare la «filosofia», perché essa segue «la tradizione umana, secondo gli elementi del mondo» a partire dal suo punto di vista intenzionale mai messo in discussione (Col 2,8), rifiutando o semplicemente non vedendo che il «riconoscimento del mustêrion di Dio» si trova in Cristo, nel quale «sono nascosti, apokruphoi, tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3). Va segnalato poi che il primato della «ricerca», quindi il rifiuto dell’anamorfosi, non caratterizza solo la «sapienza» dei Greci: anche gli Ebrei «cercano»; anche quando, anziché la «sapienza», «chiedono segni» (1Cor 1,22), infatti «chiedono dei segni» (Mc 8,11; Lc 11,16 e Lc 11,29; Gv 6,26). Tali segni restano in loro potere, nell’orizzonte della loro mira contro qualunque spostamento di intenzionalità e contro qualsiasi anamorfosi, ché quando non conviene loro si sentono autorizzati a rifiutare questi stessi segni. Così, neppure una resurrezione li farebbe convertire, perché già non hanno ascoltato né Mosè né i profeti: «è inevitabile che vengano scandali» (Lc 17,1). Il rifiuto dei segni da parte degli Ebrei ripete il rifiuto della sapienza di Dio da parte dei Greci: tutti rifiutano allo stesso modo l’anamorfosi delle loro intenzionalità, o, il che è lo stesso, la conversione dei loro sguardi.

Da un logos, l’altro Un tale conflitto delle interpretazioni arriva a un’opposizione radicale perché non si tratta soltanto di una divergenza d’opi-

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nioni, neppure di tesi rivali che si appoggiano su argomenti, ma di una rottura nella modalità della razionalità stessa che infrange lo spazio comune della comunicazione, anche di una comunicazione soltanto divergente. Certo, si tratta di opporre un logos, quello «della croce» – in cui muore e resuscita il Logos (1Cor 1,18) – all’«eccellenza del logos o della sapienza» (1Cor 2,1) del mondo, apparentemente una ragione contro una ragione, una razionalità contro l’altra. Ma non è questo il caso: ciò che fa la differenza tra questi due logoi riguarda infine la «potenza, dunamis» (1Cor 1,18) del logos che si oppone ai nostri, ai «logoi della sapienza umana» (1Cor 2,5) e ai «logoi vuoti» (Ef 5,6), del logos dotato di dunamis (1Cor 4,19‑20), di un «felice annuncio, euaggelion […] non soltanto per mezzo del logos, ma anche con la dunamis dello Spirito Santo» (1Ts 1,5). Da dove viene questa potenza in atto che fa di un logos il solo credibile? Essa emerge per il fatto che – secondo l’anamorfosi dell’intenzionalità, quindi la conversione del cuore – lo sguardo vede immediatamente – in questo logos – s-coprirsi il mustêrion. Questa vista (non diciamo troppo in fretta e inutilmente visione, termine che potrebbe essere frainteso, al di fuori di un approccio fenomenologico rigoroso), sarà precisata più avanti (infra, capp. 17‑18). Per ora è sufficiente segnalare ciò che provoca, per contrasto – la môria: «il logos della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza, dunamis, di Dio. […] Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo?» (1Cor 1,18.20). Qui non bisogna confondere il delirio ispirato (mania) con la môria, che designa piuttosto la lentezza spirituale, la pigrizia intellettuale, la stupidità, in breve la stupidità che non ritiene di dover cambiare davanti all’evidenza, alla chiarezza razionale e quindi alla verità. Questa stupidità, pur vedendo l’evidenza, la chiarezza e la verità, non ne ha cura, perché non cambia punto di vista, per così poco conserva le sue certezze incerte con un’impavida im-

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mobilità14. Gli esempi non mancano. Accade così con i saggi e istruiti filosofi di Atene: «quando sentirono [sc. Paolo] parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano “Su questo ti sentiremo un’altra volta”». Non è sbagliato capire che essi fanno orecchie da mercante, perché Paolo aveva argomentato razionalmente, almeno a sufficienza, se alcuni, tra cui Dionigi, «divennero credenti» (At 17,32‑34); si tratta quindi di «stupidità», di disinteresse ostinato e senza ragione. Accade la stessa cosa nel dialogo caricaturale tra Paolo e Festo e il re Agrippa: «sei pazzo (mainê), Paolo, la troppa scienza ti ha dato al cervello (eis manian)», dice Festo, a corto di argomenti e Paolo risponde: «non sono pazzo (ou mainomai)». Per confermare di rimanere razionale, Paolo argomenta correttamente suggerendo di prendere un altro punto di vista rispetto a quello della «stupidità», quello dei profeti: «credi, o re Agrippa, ai profeti? Io so che tu credi». Agrippa risponde a Paolo aggrappandosi alla «stupidità» di colui che non vuole comprendere ciò che tuttavia sa e vede: «ancora un poco e [con le tue ragioni] mi convinci a farmi cristiano!» (At 26,24 e At 26,27‑28). Soprattutto, come coronamento eccezionale di involontaria profondità, nel caso della risposta di Pilato a Cristo accade che Pilato lo condanna pur sapendolo innocente e replica «che cos’è la verità?» (Gv 18,38) a colui che diceva «io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per riconoscerlo come la verità, tuttavia, sarebbe stato necessario ammettere che egli ne fu la via; il rifiuto della verità in persona deriva dal rifiuto, ostinato e senza argomenti, di intraprenderne la via. Tutti sapevano che Paolo e Gesù non deliravano e che dicevano il logos; 14.  Così si è potuto accostare lo «stupido» a colui che è «testardo e ribelle, che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta» (Dt 21,18), o al «popolo insensato (‫ )נבל‬e senza intelligenza (‫( »)לא חכם‬Dt 32,28). Cfr. μωρως, in W. Bauer - F.W. Danker, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, Chicago University Press, Chicago 2003, p. 663.

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tuttavia, non volevano né potevano modificare il loro punto di vista, passare dall’intenzionalità dominante all’anamorfosi. Si capisce quindi l’avvertimento di Paolo: «nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto (môros) per diventare sapiente» (1Cor 3,18). Come intendere che «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini» (1Cor 1,25)? Nel senso che davanti a coloro che negano l’evidenza e non prendono in conto la verità che pure vedono, è necessario, secondo il consiglio di Aristotele, non discutere: contro chi nega i princìpi stessi della discussione razionale non si può far altro che indicare le sue contraddizioni o restare fermamente nell’evidenza della verità, accettando e anche sopportando che la stupidità del mondo consideri come stupidità la «sapienza per opera di Dio, sophia apo theou» (1Cor 1,30). Il chiasmo delle sapienze e delle stupidità si gioca unicamente nello scarto tra l’intenzionalità dominante e lo spostamento dell’anamorfosi.

Ciò che non è Lo scarto tra l’intenzionalità del mondo e quella che lo Spirito Santo insegna allo sguardo posto in anamorfosi dimostra di essere come infinito e traccia un’opposizione radicale tra due visioni, che talvolta possono riguardare gli stessi fenomeni. Per la sapienza del mondo, per esempio quella dei Greci che «cercano» la risposta alla domanda «che cos’è l’ente, ti to on?», va da sé che tutto ciò che si mostra si manifesta nell’orizzonte dell’essere; ne segue che, se la sapienza di Dio non vuole instupidirsi, allora bisognerebbe che essa si dispiegasse a propria volta in questo stesso e unico orizzonte. Dio, per farsi intendere e rispettare, dovrebbe rispettare e seguire i termini della fenomenicità imposti dall’orizzonte dell’essere – quindi, innanzitutto, ammettere la distinzione tra l’ente e il non ente,

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tra ciò che è e ciò che non è: «bisogna dire e pensare l’essere essente (eon emmenai): è dato infatti essere, mentre il nulla non è (esti gar einnai, mêden ouk estin)»15. Ora – è tanto più necessario sottolinearlo dal momento che le sue lettere, evidentemente, non hanno l’ambizione di fornire neppure lo schizzo di un trattato di ontologia – Paolo insiste ripetutamente che Dio de facto e de iure supera la distinzione tra l’ente e il non ente, la annulla e la squalifica in virtù della sua «potenza (dunamis)». In primo luogo lo fa nell’«elezione» dei credenti: «ma quello che è stolto (môra) per il mondo, Dio lo ha scelto (exelezato) per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono (ta mê onta ina ta onta katargêsê)» (1Cor 1,28). Detto altrimenti: Dio ha fatto vedere il suo fenomeno da un punto di vista assolutamente differente rispetto a quello del mondo, dal suo proprio punto di vista; secondo questa anamorfosi radicale, gli stessi fenomeni appaiono sub contrario, la sapienza come stupidità (e viceversa), la nobiltà come plebe (e viceversa), poi, infine e per rovesciare tutto, il non ente come ente e l’ente come non ente. C’è di più: secondo un altro testo l’indifferenza ontica di Dio (equivalenza tra ente e non ente) diventa anche un’indifferenza per così dire ontologica (equivalenza tra essere ed ente/non ente), dal momento che si capisce che «Dio dà vita ai morti e chiama i non-enti come e a titolo di enti (kalountos ta mê onta ôs onta)» (Rm 4,17). Infatti, se Dio fa vivere i morti, allora ripete nella resurrezione ciò che realizza con la cre-

15.  Parmenide, Frammento 6, in H. Diels - W. Kranz (hrsg.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Zurich-Berlin 1903; tr. it., G. Giannantoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1969, p. 272 (tr. mod.); si veda anche la traduzione e il commento di M. Conche, Parménide. Le Poème: Fragments, PUF, Paris 1986, pp. 100‑114.

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azione – far essere il non essere, vedere l’uno come l’altro – a titolo di maestro e Signore di tutto [tout chose], incluso ciò che non è una cosa. La differenza tra ente e non ente si annulla perché Dio si esclude dall’essere, quindi dalla stessa differenza tra l’essere e l’ente. Una formula un po’ strana potrebbe assumere qui tutta la sua importanza: «ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite (exousiais huperekhousais). Infatti non c’è autorità (exousia) se non da Dio: quelle che esistono (ousai) sono state stabilite da Dio (ousai upo theou tetagmenai eisin)» (Rm 13,1). Forse non deve essere intesa solo in senso politico, ma anche ontico (e d’altronde il politico non ha a in primo grado che fare con l’ontico?): qui le potenze (exousiai), nella misura in cui sono enti (ousai, quae sunt, dice la Vulgata), in ultima istanza non dipendono più da se stesse, dal loro proprio fondo [fonds] né da esse sole (da ciò che sono), ma, attraverso la loro ousia, dall’exousia di Dio. Ogni ousia viene dall’exousia e non il contrario. In questo senso, per quanto la tesi di Aristotele resti filosoficamente giusta16, dal punto di vista dell’anamorfosi del mustêrion bisogna dire che l’ousia rimane relativa all’exousia secondo la sapienza di Dio17. Visto dal punto di vista di Dio, assolutamente nulla non è assolutamente una ousia, cioè in sé e detta per sé. O, piuttosto, tutto ciò che è è per sé e si dice per sé, ma ciò non lo definisce in ultima istanza, perché quel qualcosa gli adviene ancora da altrove. Bisogna estendere a ogni ente e a ogni ousia l’avvertimento fatto all’uomo troppo sicuro di sé: «se infatti uno pensa di essere qualcosa (einai ti), mentre non è nulla (mêden ôn), inganna se stesso» (Gal 6,3). 16. «Nessuna ousia si dica far parte, come sembra, dei relativi (tôn pros ti)» (Aristotele, Categorie, in Id., Organon, cit., pp. 53-158: 7, 8a 13, b 21, p. 103). 17.  Cosa che conferma l’hapax di ousia in Lc 15,13 (cfr. il commento offerto in J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 127 e, per tutti questi testi, ivi, cap. III, § 4, pp. 113 ss.).

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Non che nulla non sia, né che ciò che è non sia nulla, ma tutto ciò che è lo è solo ricevendolo da Dio: «che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto, to ekheis ho ouk elabês?» (1Cor 4,7). Essere non proviene all’ente né da sé, né da lui, ma dal dono di Dio – anche e soprattutto se l’ente non conosce il dono di Dio. Così l’anamorfosi si estende fino a de-figurare e ri-­ figurare anche l’ente nel suo essere, al punto che l’essere non definisce il fondo [fonds] dell’invisto scoperto dal mustêrion, ma ne proviene, anche lui e tra gli altri. Per quanto questo risultato possa sembrare paradossale (o proprio per questo), non ha nulla di inevitabile: con quale diritto quel che sia del mondo potrebbe non dipendere dal «mistero della sapienza» e con quale diritto l’essere se ne escluderebbe quando gli enti ne sono inclusi (infra, cap. 20)?

Il mistero della carità Che anche l’ente nel suo essere e l’essere dell’ente si inscrivano nel «mistero della sapienza» viene dal fatto che la sapienza stessa mette in atto l’agapê e che «più grande di tutte [le virtù] è l’agapê» (1Cor 13,13). Il secondo momento è realizzato nell’Epistola agli Efesini. Qui Paolo indica l’invisto come il da dove emerge il fenomeno non solo in quanto mustêrion della sapienza ma anche come carità, e ciò tramite quell’elezione che è «prima della costituzione del mondo» (Ef 1,4). Non si tratta più dell’irruzione conflittuale del mustêrion ricevuto e rifiutato (come accade ancora nell’apertura di 1Corinzi), ma del mustêrion ormai ricevuto, se non concepito come tale, «in Cristo», «in lui» (Ef 1,3 e Ef 1,4). Il «mistero» non ci adviene come dall’esterno, ma si rivela come ciò in cui siamo, nel suo altrove nel quale «siamo» (At 17,23) ancor prima di entrare nell’essere come enti. La carità ci av-

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volge a partire dal «mistero della sua volontà (mustêrion tou thelêmatos autou», Ef 1,9), secondo «la attuazione del mistero nascosto, oikonomia tou mustêriou apokekrummenou, da secoli in Dio» (Ef 3,9). Come si è manifestato a Paolo, «per la scoperta mi è stato fatto conoscere il mistero (kata apokalupsin egnôristhê moi to mustêrion», Ef 3,3, cfr. Gal 1,11), «ora è stato s-coperto ai suoi santi apostoli e profeti, nun apekakupthê tois agiois apostolois autou kai prophetais» (Ef 3,5) e infine «manifestato ai suoi santi, ephanerôthe pasin agiois autou» (Col 1,26). La difficoltà si sposta: bisogna riconoscere come tale ciò che si è fatto conoscere tramite un fatto originario, immemoriale e definitivo. Bisogna riconoscere che «questo mistero è grande (mustêrion touto mega estin), io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Ef 5,32), grande perché si tratta dell’assunzione della Chiesa in Cristo, al punto che «tutti figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù», non siamo più «né Giudei né Greci, né schiavi né liberi; né maschio né femmina, ma tutti uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26‑29); è grande intrinsecamente, radicalmente e massivamente, perché dispiega le «impenetrabili ricchezze di Cristo, to anexikhiaston ploutos tou Christou» (Ef 3,8). Quale senso attribuire a questa ricchezza incommensurabile, immensa? Qui interviene la radicale sostituzione di un orizzonte con un altro, ma si può parlare ancora di orizzonte (horizon) dove ogni limite (horos) propriamente si cancella? Infatti, qui bisognerebbe quantomeno abbandonare l’orizzonte essenzialmente finito dell’essere e dell’ente, di cui si è vista la caducità in 1Corinzi, orizzonte che non può dissimulare l’invisto di Dio, quindi ancor meno s-coprirlo. Si tratterà di entrare dentro, o piuttosto di lasciarsi sommergere dall’orizzonte paradossalmente illimitato della carità, di una carità per definizione iperbolica ed eccessiva. Di fatto Paolo chiede, raccomanda e anche esige una sola cosa: prendere in considerazione e ammettere «la straordinaria ricchezza della sua grazia, to

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huperballon ploutos tês kharitos autou» (Ef 2,7). C’è solo una preghiera da rivolgere al Padre: affinché doni lo «Spirito di sapienza e di s-coperta per una profonda conoscenza di lui [sc. Cristo] (sophias kai apokalupseôs en epignôsei autou), illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere (eidenai) a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza (ti to uperballon megethos tês dunameôs autou), verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti» (Ef 1,17‑20). Alla domanda «che cos’è l’ente nel suo essere (ti to on)?», quella posta dalla «sapienza del mondo» e «ricercata» da Aristotele, se ne sostituisce un’altra, che si pone a partire da se stessa, che viene a cercarci: «qual è la straordinaria grandezza (ti to uperballon megethos)?» (Ef 1,19). L’iperbole della grandezza «della sua potenza» non deve essere intesa secondo l’orizzonte dell’ente (la dunamis verso una energeia), ma secondo l’orizzonte della carità, unica iperbolica nella sua potenza incondizionata e indescrivibile, di modo che «siate in grado di comprendere (katalabesthai) con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità (ti to platos kai mêkos kai upsos kai bathos), e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza (gnônai te tên uperballousan tês gnôseôs agapen tou Christou), perché siate saturi dell’intera saturazione di Dio (ina plêrôthête eis to pan to plêrôma tou theou)» (Ef 3,18‑19). Nell’orizzonte della carità, conoscere non consiste nell’identificare ciò che si mostra in un tale oggetto o in un tale ente, che potremmo costituire e individuare secondo la nostra intenzionalità, ma nel riconoscere l’eccesso che satura lo sguardo e lo sommerge della sua iperbole senza misura. Questa nuova «conoscenza della carità che supera la conoscenza» presenta infatti una strana caratteristica: la carità iperbolica è descritta in quattro dimensioni (larghezza, lunghezza,

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altezza e profondità), mentre per descrivere lo spazio la sapienza filosofica ha sempre fatto intervenire solo tre dimensioni (larghezza, lunghezza, altezza); l’aggiunta paolina (di fatto la divisione dell’altezza in altezza e profondità) costituisce forse un errore grossolano o una licenza poetica? Questa domanda (che gli esegeti non si pongono) consente al contrario una risposta chiara e precisa: la carità non deve essere concepita come uno spazio del mondo, in quanto non appartiene al mondo, ma può concepirsi come un «ambiente divino»18, per una volta inteso in senso stretto. Proprio un ambiente perché, se la considero come un orizzonte iperbolico, non posso assolutamente più descriverla come uno spazio che mi starebbe di fronte nel senso esterno (Kant) dove il mio sguardo dominante potrebbe costituire e interporre degli oggetti, ma devo lasciarmi situare nel mezzo della carità, nel suo ambiente, lasciarmi avvolgere in essa fino a perdermi e ritrovarmi; allora, in questa inclusione, la dovrò descrivere secondo le quattro dimensioni e non più secondo tre: nel mezzo della larghezza e della lunghezza, tra l’altezza e la profondità, secondo l’azimut dove volgerò il mio sguardo, senza oggetti di riferimento, ma inglobato in ciò che lo satura. Lo spazio tridimensionale permette di vedere solo ciò che si mostra di fronte a me come un oggetto, mentre l’ambiente a quattro dimensioni impone di sperimentarvi la saturazione, all’occorrenza quella della carità. La carità mi colma inglobando me, il vedente, dovendo sempre fenomenizzare ciò che si dà così diversamente proprio come ciò che si dà oltre tutto ciò che si mostra a uno sguar-

18.  Traduciamo con ambiente il termine francese milieu, che conserva anche l’accezione relativa al posizionamento nel mezzo; milieu divin indica quindi sia l’ambiente di Dio, che l’essere posizionati al suo interno, al centro di esso. Per quanto Marion non lo espliciti, questo sintagma ripete il titolo della nota opera di Pierre Teilhard de Chardin, a sua volta tradotta in italiano con L’ambiente divino [n.d.t.].

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do finito19. L’iperbole della «grazia che sovrabbonda, huper­ periseussen» (Rm 5,20) rimane sempre irriducibile a ciò che si mostra come un fenomeno per me. Essa attesta la «multicolore sapienza di Dio (polupoikilos sophia tou theou)» (Ef 3,10), che si moltiplica, per esempio, nelle «molte volte e in diversi modi, polumerôs kai polutropôs» (Eb 1,1) dei suoi annunci o nei «diversi carismi», che sono tuttavia una sola parola e «manifestazione dello Spirito» (1Cor 12,4.7). Però, se il mio sguardo, inglobato e saturato, non può fenomenizzare la sovrabbondanza di ciò che si dà e se nel mezzo dell’ambiente della carità non mi resta più alcun punto d’osservazione centrale per ricevere e vedere la pienezza di ciò che si mostra, allora come può veramente (nun) manifestarsi il mustêrion? Dove si s-copre e si mostra l’iperbole della carità che si dona, se satura ogni fenomenizzazione tramite uno sguardo umano finito? La risposta si impone, audace ma inevitabile e supremamente logica, ossia nel solo sguardo umano che non resta soltanto finito: quello di Cristo, istanza ultima e unica in cui tutto ciò che si dà si mostra, una volta per tutte ma in un’innovazione senza fine, «ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Per «farci conoscere il mustêrion della sua volontà» e al fine «di governare la saturazione degli eventi, eis oikonomian plêrômatos tôn kaiôn)», Dio ha «ricondotto al Cristo, unico capo, tutte le cose anakephalaiôsasthai ta panta en tô Christô, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,9‑10). Capo per la Chiesa ma 19.  Queste quattro dimensioni della carità iperbolica definiscono una croce, perché chi entra nella «carità iperbolica» si trova attaccato all’incrocio delle quattro, nel loro mezzo, come su una croce. Così il gesuita nella scena di apertura della Scarpina di raso: «ed è vero che sono legato alla croce, ma essa non è più attaccata a nulla. Galleggia sul mare. / Il mare libero a quel punto in cui il limite (horos) del cielo conosciuto svanisce / E che è a eguale distanza dal mondo antico che ho lasciato / E dall’altro nuovo» (P. Claudel, Le soulier de satin, in Id., Théâtre II, Gallimard, Paris 1965; tr. it., La scarpina di raso, Massimo, Milano 1956, p. 18).

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perché ricapitola nel (e come) suo corpo tutto ciò che si dà, «saturato della saturazione di tutte le cose in tutte, plêroma tou ta panta en pasin plêroumenou» (Ef 1,23). In Cristo si trova l’unico sguardo e l’unico punto di vista che possano far mostrare l’iperbole infinita della carità che si dà, egli è l’unico sguardo fenomenologico infinito, che però si trova nella nostra carne.

Il mistero di Cristo Per rispondere in modo completo alla prima domanda (di cosa il mustêrion permette la fenomenizzazione?), resta infine da concepire, in un terzo momento, ossia in quale maniera Cristo possa realizzare la funzione dello sguardo fenomenologico secondo la misura dell’iperbole della carità, in modo che tutto ciò che si dà possa anche, di fatto e di diritto, mostrarvisi. Infatti, il mustêrion della carità è in atto solo nello sguardo di Cristo e appare infine come il «mistero di Cristo, mustêrion tou Christou» (Ef 3,4). L’Epistola ai Colossesi riprende la formula «mistero di Cristo» (Col 4,3) e la radicalizza tramite l’assimilazione di Cristo a Dio (Padre) in rapporto alla possibilità di «conoscere» la carità, quindi l’iperbole supera la conoscenza: «una piena intelligenza per conoscere il mustêrion di Dio, che è Cristo» (Col 2,2). Qui si tratta probabilmente di una variante, al posto del semplice coordinamento («mustêrion di Dio e di Cristo»), se non si trattasse di un’altra identificazione del mustêrion alla persona stessa di Cristo: «a loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, ti to ploutos tês doxes tou mustêriou toutou en tois ethnesin, os estin Christos en umin» (Col 1,27)20.

20.  Seguiamo il testo di Nestle-Aland, Novum testamentum graece et latine, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuggart 201428, apparato critico p. 615. Questa

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Il mistero della carità, quindi, non solo è scoperto da Cristo, ma è scoperto in e come Cristo. Quale contenuto assegnare a questo mustêrion? Come visto, secondo Ef 1,10 consiste nell’apertura dell’accesso a Dio per tutti, Ebrei e Greci, grazie all’iperbole della carità, così da «ricapitolare (anakephalaiôsasthai) tutte le cose in Cristo». Rimane da esplicitare come si realizzi il fatto che Cristo è messo a capo di ogni cosa: infatti, Cristo ricapitola perché riconcilia, unifica perché riporta alla pace: «egli [sc. Cristo] infatti è la nostra pace (autos gar estin hê eirênê), colui che di due [sc. giudei e pagani] ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne (tên ekhtran en tê sarki autou […] katargêsas), la Legge fatta di prescrizioni e di decreti» (Ef 2,14-15). Fare la pace significa «eliminare in se stesso l’inimicizia, apokteinas tên ekhtran en autô» (Ef 2,16). Infatti, Cristo ha perfettamente compiuto (nei due sensi del termine) la Legge, sovvertendola mentre la ha portata a compimento; tramite l’iperbole della sua carità, che soddisfa la Legge senza consacrarla, egli apre a tutti la stessa pienezza iperbolica: fin nella sua carne, che è rimasta la nostra stessa carne, al contrario nostro, però, assunta «senza peccato (khôris amartias)»21; ha abolito la Legge – motivo del peccato e ha riunito coloro che a causa della Legge erano separati tra loro e che a causa del peccato erano separati da Dio. Cristo «ricapitola» tutte le cose perché compie il «servizio della riconciliazione (diakonia tês katallagês)» (2Cor 5,19), detto altrimenti, «ora vi ha riconciliati (nuni de apokatêllaxen) nel corpo della sua carne» (Col 1,22). Riconciliazione, pacificazione e ricapitolazione sono sigillate

lettura trova conferma in: «la manifestazione (epiphaneian) della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). 21. Cfr. Eb 9,28; Rm 8,3; 2Cor 5,21 e anche Gv 8,46; Gv 7,26.

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e manifestate nella sua risurrezione, che scopre Cristo come «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18), quindi anche «primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose» (Col 1,15-16). Questa «nuova creatura in Cristo» (2Cor 5,17) attesta la ricapitolazione di tutte le cose sotto il capo di Cristo, ma insieme ne discende, perché lo compie «pacificando» (Col 1,20) in lui. Da allora, «il mustêrion nascosto da secoli e da generazioni, ora (nun) è manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, ti to ploutos tês doxes tou mustêriou toutou […] os estin Christos en umin» (Col 1,26‑27). Pertanto, Cristo, fatto uomo, morto e resuscitato interamente visibile, per la prima volta – l’ultima e la sola (Rm 6,10) – manifesta il mustêrion di pace che egli stesso ricapitola. Egli appare come sé, come tale, cioè come l’unica fenomenizzazione del Padre, l’unico sguardo nel quale si mostra tutto ciò che si dà, il centro fenomenico della gloria di tutte le cose in quanto date. Ne consegue che ogni visibilità ritorna in lui (ricapitolazione) proprio come ogni donazione proviene da lui (creazione). Infatti, Cristo non rivela solo perché manifesta il mistero della carità, ma perché lo vede e lo vede perché lo fa, lo realizza nella sua persona, corporalmente. Il suo sguardo fenomenico vede e rende visibile, a partire dall’atto della croce, ogni possibile fenomenicità dell’invisibilità di Dio. Cristo è definito come «icona del Dio invisibile, eikôn tou theou tou aoratou» (1,15) o, in altro modo, come «irradiazione della sua gloria, apaugasma tês doxês e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). In una parola: appare stabilito così dal Padre che lo risuscita, come icona della sua propria invisibilità, come fenomeno iperbolico della carità. Allo sguardo del Padre appare istituito così perché il suo proprio sguardo, sulla croce, ha preso il punto di vista del Padre su ogni cosa, perché gli «consegnò (paredôken) lo spirito» (Gv 19,30). Trasponendolo in un linguaggio più fe-

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nomenologico, ciò equivale a dire che egli compie la perfetta anamorfosi dello sguardo, trasferito dal punto di vista di un uomo, Gesù, a quello del Padre; sguardo che in un colpo solo diventa quello del Figlio del Padre, il primo a vedere la gloria di Dio perché, per primo, la vede dal punto di vista di Dio. La formula che dice la «s-coperta del Signore Gesù, apokalupsis tou kuriou Iêsou» (2Ts 1,7)22 deve essere intesa in un doppio ma unico senso: la s-coperta del mustêrion che costituisce Cristo e anche la s-coperta del mustêrion stesso tramite lo sguardo di Cristo (genitivo oggettivo e soggettivo). La comunione della volontà del Padre e di quella di Cristo sulla croce vale come una coincidenza di sguardi, un’anamorfosi che, in un colpo solo, strappa il velo (Mt 27,51; Mc 15,38) e, in un lampo, fa rifulgere l’unico mistero della carità.

L’anamorfosi compiuta Paolo, con la maggior chiarezza possibile, descrive, annuncia e domanda questa anamorfosi che sposta la mira umana verso il punto di vista della mira stessa di Dio. L’anamorfosi si può realizzare solo a condizione che il nostro spirito ne venga investito, spostato e abilitato dallo Spirito: «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,15). Questo spirito, dato da Dio, è dato anche dal Figlio che a propria volta l’ha realizzato, in quanto Gesù Cristo sulla croce: «che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). Non sono io a gridare verso il Padre, ma lo Spirito di Dio in me; non sono io

22.  Cfr. «apokalupsis tou Iêsou Christou» (1Pt 1,7 e 4,13).

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a s-coprire il mistero, ma lo Spirito, l’unico a consentire al mio sguardo di percorrere l’anamorfosi, al fine di vedere secondo e a partire dal punto di vista dello Spirito. La conversione fenomenica dello sguardo si realizza solo tramite la conversione del mio spirito secondo lo Spirito e la regola fenomenologica si attua (se mai arriva a farlo) solo seguendo la regola teologica. L’identità degli sguardi implica un trasferimento degli idiomi, una divinizzazione della mira umana tramite la mira divina. Detto altrimenti, con le parole di Paolo: «non sono più Io che vivo (ouketi egô), ma Cristo vive in me (en emoi)» (Gal 2,20), o «per me (emoi) infatti il vivere è Cristo» (Fil 1,21)23. L’Io rea­ lizza se stesso, come punto di vista e di mira corretto, solo se diventa altro da sé; Io può diventare altro solo se lo diviene tramite un altro da sé. Questa esigenza, sperimentata da Paolo per proprio conto, vale anche per tutti coloro che vogliono diventare figli. Infatti, la vita dell’Io non si decide da se stessa, ma secondo il suo rapporto a Dio: «nessuno di noi, infatti, vive per se stesso (heautô) e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rm 14,7‑9); di conseguenza, «voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9). Pertanto si comprende, o almeno si intuisce, che se il mistero si s-copre anche per il nostro sguardo ormai in anamorfosi, lo vedremo solo perché si s-copre anche in e tramite noi. Il mistero si s-copre tramite lo Spirito venuto in noi e, nella stessa misura, ci ricopre e ci ospita in lui. «La vostra vita è nascosta (kekruptai) con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato (phenerôthê), allora anche voi apparirerete (phanerôthêsesthê) con lui nella gloria» (Col 3,3‑4), «carissimi, noi fin d’ora (nun) siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è ancora stato rivelato (oupô 23.  E «per me (emoi) vivere è Cristo» (Fil 1,23).

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ephanerôthê). Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1Gv 3,2). Così come non vedo la carità di fronte, secondo le modalità dell’oggetto, ma devo abitarla nel mezzo del suo ambiente, così non s-copro il mistero guardandolo in faccia, ma impiantandomi in lui ed esponendomi a lui. Il divieto di visione dell’invisibile qui raggiunge il suo senso autentico; non enuncia tanto un’impossibilità (Dio non si vede), quanto piuttosto una possibilità altra, esclusa da ciò che l’impedisce: non possiamo vedere Dio, ma Dio può metterci nel suo luogo, là dove entriamo nel mistero – lui ci vede. L’antico divieto si rovescia: se l’invisibile si sottrae dalla nostra mira e se, per anamorfosi, lo Spirito la conforma allo sguardo stesso di Dio, allora non moriremo per aver visto il mustêrion, ma ne risorgeremo: «ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un instante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati» (1Cor 15,51‑52). La s-coperta del mustêrion dipende quindi interamente dalla realizzazione o meno del percorso dell’anamorfosi dello sguardo. Pertanto, malgrado i numerosi dubbi che per noi rimangono, si può tentare di leggere anche il discorso di Paolo all’Areopago a partire dalla sua architettura interna, di fatto abbastanza chiara24. Si comincerà dalla fine, la cui interpretazione solleva

24.  Seguendo E. Norden, Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formgeschichte religiöser Rede, Teubner, Leipzig 1913, pp. 37‑55, e, tra gli altri, H. Conzelmann, The Address of Paul on the Areopagus, in L.E. Keck - J.L. Martyn (eds.), Studies in Luke-Acts, SPCK, London 1968, pp. 218-227, a lungo si è considerato il discorso di Atti 17 come una pura ricostruzione letteraria di Luca, sul modello dei discorsi di Tucidide, privo di alcuna base storica, seguendo la sola somiglianza supposta dall’autore, fino a vedervi «un discorso ellenistico sulla conoscenza di Dio […], stoico e non cristiano», non

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meno difficoltà: «ora Dio, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ordina (apegellei) agli uomini che tutti e dappertutto si convertano (metanoein), perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà “giudicare il mondo con giustizia” (Sal 9,9; Sal 96,13; Sal 99 e Sal 98,9) per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,30‑31). Queste righe segnalano due aspetti: innanzitutto che si tratta chiaramente di uscire dall’«ignoranza» del mistero25 tramite un annuncio universale, rivolto a tutti e dappertutto (secondo Mt 28,18‑20 o Eb 1,1‑2?) concernente la necessità di «convertirsi»; detto altrimenti: di passare da un punto di vista a un altro tramite un’anamorfosi, quindi di rovesciare (metanoein) lo sguardo (della mente, nous), di convertirlo per ottenere un nuovo angolo visuale, seguendo il quale il mistero, che era ignorato, potrà diventare manifesto a partire da sé. Queste righe consentono poi di riconoscere senza difficoltà il punto di mira finale, che Dio rende personalmente «credibile, pistin paraskhôn» risuscitando Cristo: si tratta della solo in contraddizione con l’insegnamento autentico di Paolo, ma formante addirittura «un corpo estraneo nel Nuovo Testamento» (M. Dibelius, Paulus auf dem Areopag [1929], in Id., Aufsätze zur Apostelgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1961 [19685], pp. 29-70: pp. 55, 59, 65). L’evoluzione dei lavori, significativamente sintetizzata da D. Marguerat, Les Actes des Apôtres (13-28), Labor & Fides, Gèneve 2015; tr. it., Gli atti degli apostoli, vol. II, At 13-28, EDB, Bologna 2015, arriva oggi a tutt’altra conclusione: Luca usa deliberatamente un «procedimento di ambivalenza semantica» (ivi, p. 163) per ottenere la «massima inculturazione» (ivi, p. 170) che permetta di presentare la chiamata evangelica in termini intelligibili per la cultura pagana; questo «magistrale esercizio di ambivalenza semantica» (ivi, p. 174) rimane però in accordo con gli altri discorsi di Paolo (in particolare Rm 1,18‑32) ed è nello spazio aperto dell’inculturazione che si gioca il percorso dell’anamorfosi che vogliamo ripetere. 25.  La sola differenza con Rm 1, dove gli uomini conoscono Dio senza riconoscerlo (e senza rendergli grazie Rm 1,19-21), è che qui i Greci onorano (At 17,22) senza conoscere (At 17,23 e At 17,30), ma nei due casi si espongono al medesimo giudizio (Rm 2,1 e At 17,31).

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resurrezione dei morti, la quale è evidentemente rifiutata dalla maggior parte degli uditori: «quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). Così facendo, come prima di loro i «filosofi epicurei e stoici», la maggioranza rigetta «Gesù e la risurrezione» (At 17,18)26. Per quale motivo alla sola parola “risurrezione” Ateniesi e filosofi, fino allora piuttosto benvolenti in quanto curiosi della «nuova dottrina (didakhê)» di Paolo (At 17,19‑22), in un sol colpo ne prendono le distanze? Rispondere alla questione consentirebbe di identificare il punto di vista iniziale che i filosofi vogliono mantenere e per il quale decidono di rifiutare l’anamorfosi. Qui la risposta si mostrerebbe in modo sufficientemente chiaro, purché non ci si basi sull’ipotesi della semplice captatio benevolentiae quando Paolo, per lodare la pietà (Eusebeia) degli Ateniesi (all’epoca leggendaria), invoca il riconoscimento di un «dio ignoto», il che non è riconducibile solo a un puro e semplice luogo comune. Non lo è innanzitutto perché Paolo/Luca trasforma l’intitolazione – che verosimilmente riportava «agli altri dèi ignoti», con il senso negativo della constatazione di ignoranza – in un singolare, che suppone la determinazione individuale di questo sconosciuto, rico­ nosciuto positivamente come tale27. Poi perché evocando tale 26.  L’ambiguità dei termini di metanoein, pistis ed ex enos, che si possono intendere sia alla greca sia al modo ebraico, si prolunga nell’utilizzo del termine kosmos (piuttosto che la terra e il cielo) e di kronos (piuttosto che kairos). Questa volontaria ambiguità di Luca potrebbe trovare il suo termine nel possibile controsenso di uditori che forse inseriscono nel numero delle «divinità straniere» l’anastasis stessa, intesa come nome proprio di una dea («annunciava Gesù e anastasis» At 17,18). 27.  Già san Girolamo segnalava che «in realtà, l’iscrizione dell’altare non diceva, come Paolo afferma: “Al Dio ignoto”, bensì “Agli dèi dell’Asia, del­ l’Europa e dell’Africa, dèi ignoti e stranieri”. Ma poiché Paolo non aveva bisogno di più dèi ignoti, bensì di un solo Dio ignoto, usò la parola al singo-

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non conoscenza si appoggia categoricamente all’inconoscibilità degli dèi presso i pagani e all’invisibilità di YHWH per gli Ebrei (supra, cap. 11); così, grazie a questo supposto punto d’accordo con gli uditori, poteva tentare per una seconda volta il suo «annuncio (katagellô)» (At 17,23, cfr. At 17,18). Questo annuncio, però, per enunciare ciò che i filosofi greci possono concepire (il o gli dèi non hanno bisogno che gli vengano edificati templi o statue), dice anche e innanzitutto ciò che invece non possono concepire: Dio ha creato il cielo e la terra, egli regge i tempi e lo spazio degli uomini, dà loro la vita e il soffio vitale. Come si è visto, gli dèi pagani, anche se non vivono con noi (Epicuro), vivono nel mondo, almeno nella nostra mente (Aristotele, gli stoici): «Prope est deus, tecum est, intus est»28, lare, per insegnare che proprio quello era il suo Dio, cui gli ateniesi avevano intitolato un altare: essi quindi, nel momento in cui lo avessero conosciuto correttamente, avrebbero dovuto rendergli culto, giacché già lo veneravano senza conoscerlo e non potevano quindi ignorarlo. Paolo però faceva così solo raramente, spinto non dal desiderio di ostentazione, ma dall’opportunità della circostanza – Inscriptio autem arae non ita erat ut Paulus asseruit “ignoto Deo”, sed ita “Diis Asiae et Europae et Africae, diis ignotis et peregrinis”. Verum quia Paulus non pluribus diis indigebat ignotis, sed uno tantum ignoto Deo, singulari verbo usus est, ut doceret illum suum esse Deum, quem Athenienses in arae titulo praenotassent; et recte eum scientes colère deberent, quem ignorantes venerabantur, et nescire non poterant. Hoc autem Paulus faciebat raro, et ut loci potius quam ostentionis opportunitas exigebat» (Origene, Commento alla lettera a Tito, Città Nuova, Roma 2010, I, 12, pp. 270-271 [PL 26, coll. 572-574]; cfr. D. Marguerat, Gli atti degli apostoli, cit., p. 172). 28.  Cicerone accosta gli uni e gli altri: «[Aristotele] ora attribuisce alla mente ogni divinità, ora afferma che il mondo stesso è dio, ora mette un altro a capo del mondo – modo enim menti tribuit omnem divinitatem, modo mundum ipsum deum dicit esse, modo alium quemdam praeficit mundi» (Cicerone, De natura deorum; tr. it., La natura degli dèi, in Id., Opere politiche e filosofiche, vol. II, UTET, Torino 1955, pp. 493-661: I, 13, 33, p. 507); o «l’uomo – come dice Aristotele – è nato, come se fosse un dio mortale, per due cose: il pensiero e l’azione – sic hominem ad duas res, ut ait Aristoteles, ad intelligendum et ad agendum esse natum quasi mortalem deum» (Cicerone,

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se non abitano nei templi – come pensa il popolo, dimorano nella nostra mente – come ritengono i filosofi. Ora, Dio, come è annunciato dall’apostolo, o piuttosto come si autoannuncia (At 17,30), non si trova né in un tempio, né nel mondo, né nella nostra mente in quanto tale, dal momento che, al contrario, «in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28a)29. Da qui viene un’alternativa: Dio dimora in noi di modo che noi condividiamo con lui il mondo e l’essere o, al contrario, siamo noi a dimorare in lui, dove riceviamo, come altrettanti doni tramite creazione, di vivere, muoverci al suo interno ed

De finibus; tr. it., I termini estremi del bene e del male, in Id., op. cit., pp. 47-259: II, 13, 39‑40, p. 99). Giamblico gli attribuisce la medesima tesi: «O nous gar emôn o theos – l’intelletto, infatti, è il nostro dio» (Giamblico, Esortazione alla filosofia, in Id., Summa Pitagorica, Bompiani, Milano 2006, pp. 299-483: p. 359). Ma Aristotele stesso la sostiene esplicitamente: «se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina (ei dê theion o nous), anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana» (Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2000, X, 7, 1177b30, p. 395). 29.  L’ipotesi (proveniente da Teodoro di Mopsuestia) che la formula di At 17,28a citi Epimenide il Cretese è ora abbandonata (cfr. D. Marguerat, Gli atti degli apostoli, cit., p. 172 – nonostante la menzione in Tt 1,12 –, e P. Courcelle, Un vers d’Épiménide dans le “discours sur l’Aréopage”, in «Revue des études grecques», n. 76, 1963, pp. 404-413), non fosse che perché si tratta di una ricostruzione a partire dal siriaco (cfr. M. Delage, Résonances grecques dans le discours de saint Paul à Athènes, in «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», n. 3, 1956, pp. 49-69). Al contrario At 17,28b cita proprio un verso da Arato: «sia il principio da Zeus […] E tutti noi che siamo la sua stirpe / in ogni luogo ricorriamo a Zeus» (Arato di Soli, Phaenomena; tr. it., Fenomeni, Garzanti, Milano 2018, vv. 1-5, p. 5), abbondantemente ripreso da Cicerone, Cesare, Cleante, Aristobulo, ecc. (cfr. D. Marguerat, Gli atti degli apostoli, cit., p. 172, e L. Legrand, Aratos est-il aussi parmi les prophètes?, in ICP - Département d’études bibliques [éds.], La Vie de la parole. De l’Ancien et du Nouveau Testament. Études d’exégèse et d’herméneutique bibliques offertes à Pierre Grelot, DDB, Paris 1987, pp. 241-258).

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essere30? Nel primo caso, l’unico mondo abitato da uomini e dèi consente un’unica mira, quella del mondo secondo l’essere; essa non richiede alcuna anamorfosi, perché non permette neppure di immaginare che «saremo trasformati» (1Cor 15,52 e 1Cor 15,53) tramite l’innovazione della resurrezione. Questo mondo è, gli è sufficiente essere e non aspira ad altro che a continuare a essere; ora, è proprio dell’essere ambire alla sua persistenza, l’essere si dispiega in enti – quindi non proviene mai da altrove31. Rimane il secondo caso, in cui il mondo nel quale viviamo e ci muoviamo, quindi anche l’essere in cui siamo degli enti, non «vive per se stesso e […] muore per se stesso (heautô)», ma «per e grazie al Signore» (Rm 14,7-8); detto altrimenti: il caso in cui Dio ha proprio «fatto il mondo e tutto ciò che contiene» (At 17,24), come dovrebbe convincerci la resurrezione di Cristo. In questo caso l’anamorfosi non appare più soltanto possibile, ma richiesta; il mustêrion può s-coprirsi

30.  Agostino descrive questa alternativa come un rovesciamento – Dio non è in me che perché, più originariamente, io sono in lui: «e poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? […] Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te – Quoniam itaque et ego sum, quid peto, ut venias in me, qui non essem, nisi esses in me? […] non ergo essem, nisi esses in me, an potius non essem, nisi essem in te» (Agostino, Confessiones, cit., I, 2, 2, pp. 5, 7). 31.  L’universalità provocata dal «vangelo» di Paolo (Rm 2,16) non può quindi astrarsi dal giudizio che provoca, separando coloro che compiono l’anamorfosi da coloro che la rifiutano. Questo scarto si instaura proprio per le stesse ragioni della scomparsa della differenza tra Giudei e Greci, uomini liberi e schiavi, maschi e femmine, ecc. Nulla fa più la differenza, se non la referenza a Cristo, come sottolineato perfettamente da T. Engberg-Pedersen, Paul and Universalism, in W. Blanton - H. de Vries (eds.), Paul and the Philosophers, Fordham University Press, New York 2013, pp 87-104: p. 102: «Badiou può intendere l’istanza religiosa di Paolo come universalista perché fallisce nella considerazione dei suoi contenuti e la intende solo in termini formali, come l’articolazione di una relazione tra un evento e un’istanza soggettiva rispetto a quell’evento. Questa è la posizione del militante della verità».

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come manifestazione della carità che supera ogni conoscenza. Il mustêrion non chiude, ma apre l’accesso all’altrove.

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13 La parabola e la professione di fede (sinottici)

Il principio di fenomenicità È ormai possibile passare alla seconda questione, relativa a come si s-copra ciò che si dà, o, detto in altro modo: quale sia l’operazione tramite la quale l’invisibile si fa riconoscere nel visibile, in quale visibile si manifesti come visibile. Infatti, la fenomenicità dell’apokalupsis può realizzarsi solo arrivando a manifestare il mustêrion, manifestando proprio ciò che in quanto tale deve rimanere conchiuso e taciuto. Per quanto a un primo sguardo possa sembrare sorprendente, l’apokalupsis si realizza proprio perché il mustêrion finisce sempre per manifestarsi; più ancora: il segreto stesso del mustêrion può concepirsi solo indicandosi, lasciandosi sempre intravvedere, non fosse che come celato e criptato. Il mustêrion – al contempo è nascosto ma anche già indicato come ciò che può (e deve) disvelarsi – non è quindi l’opposto dell’apokalupsis, né l’ostacolo che vi resiste, ma consiste nel suo sottofondo, il fondo [fonds] donde proviene; il mustêrion designa e consegna la riserva di invisto, riconoscibile in un secondo momento, per contrasto rispetto a ciò che la illumina e, senza annullarla, la consacra – l’apokalupsis stessa. Il mustêrion corrisponde più alla profondità di campo presupposta dall’apokalupsis che non

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al suo punto di partenza barrato. La s-coperta stessa si manifesta solo attestando il mustêrion, di cui diventa il principio medesimo; si tratta di un principio, per così dire, di fenomenizzazione – tanto più mustêrion, quanta più apokalupsis, che nell’ambito della teologia biblica fa eco al principio fenomenologico: tanta più riduzione, quanta più donazione. Ora, è possibile sostenere che questo principio di fenomenizzazione venga formulato per tre volte nei vangeli sinottici, o, meglio, quasi formulato. Poiché secondo l’opinione comune (che all’atto pratico si rivela errata) rispetto a Paolo e Giovanni i sinottici sarebbero meno concettuali, questa triplice formulazione attestata dai tre con pressoché gli stessi termini vi conferisce un’autenticità ancor più impressionante, che può far risalire a un’unica fonte comune (fino alle ipsissima verba)1. La triplice sequenza: Mt 10,26: «nulla vi è di nascosto (kekalummenon) che non sarà svelato (ho ouk apokaluthêsetai, revelabitur), né di segreto (krupton) che non sarà conosciuto (ho ou gnôsthêsetai)», dove si tratta esplicitamente di apokalupsis; poi Mc 4,22: «non vi è infatti nulla di segreto (krupton) che non debba essere manifestato (ean mê ina phanerôthê) e nulla di nascosto (apokrupton) che non debba essere messo in

1.  Ma in contesti differenti: se Mc 4,22 e Lc 8,17 enunciano questo principio a proposito della parabola della lampada, Mt 10,26 lo menziona nel mezzo di pericopi molto diverse e sparse, dove si tratta più di un catalogo che di una redazione. Anche Jeremias non ha torto a non vederci altro che «generalizzazioni», non «che questi logia siano di dubbia autenticità», ma solo «che essi originariamente non sono stati pronunciati come conclusioni delle parabole» che li attorniano (J. Jeremias, Die Gleichnisse Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1947; tr. it., Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 1967, p. 130). Parlando di un «terminus technicus» H. Dieckmann, op. cit., § 195, p. 135, giunge alla stessa astrazione, neppure lui rende conto delle ragioni per cui «l’affermazione sottolinea che l’occultamento è temporaneo e che il suo scopo ultimo è la divulgazione» (J.R. Donahue - D.J. Harrington, The Gospel of Mark, Liturgical Press, Collegeville 2002, p. 150).

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luce (elthê eis phaneron), qui si tratta esplicitamente del Regno di Dio (Mc 4,11); infine Lc 8,17: «non c’è nulla di segreto (krupton) che non sia manifestato (phaneron), nulla di nascosto (apokrupton), che non sia conosciuto e venga in piena luce (eis phaneron elthê)», dove chiaramente si tratta dell’ascolto (Lc 8,18)2. Nonostante una differenza sostanziale (solo Matteo lega il principio di fenomenicità all’apokalupsis stessa), o piuttosto in virtù della garanzia consentita da tale differenza, emerge un punto in comune: a essere in gioco è il principio della fenomenicità di Dio, secondo il quale non solo il manifesto risulta sempre vittorioso su ciò che è nascosto, ma anche ciò che è nascosto in ultima istanza è sempre destinato alla manifestazione. L’evento (e l’avvenimento) delle gesta Dei per Christum Iesum fa sperimentare la manifestazione di ciò che altrimenti risulterebbe nascosto e svela il mustêrion come tale – ciò che è nascosto in quanto rivelato.

2.  Altri testi confermano queste tre formule: «non c’è nulla di nascosto (sugkekalumenon) che non sarà svelato (apokaluhthêsetai), né di segreto (krupton) che non sarà conosciuto. Quindi ciò che avete detto nelle tenebre sarà udito in piena luce, e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne sarà annunciato dalle terrazze» (Lc 12,2‑3), qui ancora senza contesto redazionale preciso (se non la denuncia dell’ipocrisia dei farisei). Ma «il segno che contraddice il logos (sêmeion antilegomenon)» è dato proprio «affinché siano svelati (apokaluphthôsin) i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35). Allo stesso modo, «l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere (phaneron). Il giorno [del Signore] la farà conoscere (dêlôsei), perché con il fuoco si manifesterà (apokaluptetai) e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno» (1Cor 3,13, cfr. 1Cor 4,5) e ancora: «e ora voi sapete che cosa lo trattiene (to kathekon), perché non si manifesti (apokalêphthênai) se non nel suo tempo. Perché il mystêrion tês anomias è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio (ho anomos) sarà rivelato (apokaluphthêsetai) e il Signore Gesù “lo distruggerà con il soffio della sua bocca” (Is 11,15) e lo annienterà con lo splendore della sua venuta (epiphaneia tês parousias)» (2Ts 2,6‑8). Nonostante le apparenze, Gv 7,4 sviluppa una problematica inversa (cfr. infra, cap. 14).

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Che cosa indica questa rivendicazione di manifestare senza resto il mustêrion in quanto nascosto? Innanzitutto, come appena detto, che ciò che è nascosto, il mustêrion, dalla volontà divina è subito destinato alla manifestazione, della quale non costituisce il contrario e l’interdetto ma la riserva e il fondo [fonds] di invisto, la condizione di possibilità e il sottofondo di manifestazione. L’ingresso del mustêrion nell’apokalupsis (di ciò che è nascosto in ciò che è manifesto), però, sembra soprattutto indicare, in modo strano per quanto indiscutibile, il programma definito dall’intera fenomenologia contemporanea: il raggiungimento di ciò che si fenomenizza non raddoppia (né deduce) l’in sé della cosa, ma rende la cosa come tale e completamente manifesta; sia in termini husserliani: «tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” […] è da assumere come esso di dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»3; sia in termini heideggeriani: «fenomenologia significa dunque: apophainestai ta phainomena: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso (das was sich zeigt, so wie es sich von ihm selbst her zeigt, von ihm selbst her sehen lassen)»4. A partire da ciò che implica la cosa stessa la successione cronologica delle due determinazioni del fenomeno deve essere rovesciata e letta inversamente: se non nella realizzazione, almeno nelle intenzioni Husserl va a questo proposito più lontano di Heidegger. In un primo tempo il fenomeno è definito (contro Kant e la sua tradizione sviluppata a Marburgo) come ciò che si mostra a partire da sé, quindi in sé, come la cosa stessa, senza raddoppiamento né ri-presentazione fenomenica; in un secondo tempo il fenomeno si mostra come e nella misura in cui si dà, donde segue che il principio formulato nella sua interezza afferma (o dovrebbe affermare)

3.  E. Husserl, Idee, cit., p. 53. 4.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 7, p. 50.

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che il fenomeno si mostra in sé e per sé solo in quanto si dà in e da sé (supra, cap. 2). Tuttavia, qui si può formulare anche un’altra questione: quale fenomeno ha mai realizzato, senza resto e formalmente senza riserva, il programma fenomenologico? Quale fenomeno l’ha realizzato «fino alla fine, eis telos»? A questo punto la pretesa della teologia cristiana assume tutto il suo peso: solo colui che ha «amato i suoi fino alla fine, eis telos» (Gv 13,1), sino a dire in verità che in lui «è compiuto, tetelesthai» (Gv 19,30), ha manifestato e s-coperto il fenomeno in sé e a partire da sé. Questo fenomeno si mostra assolutamente perché lui, e lui solo, si dà assolutamente. Infatti, non soltanto Cristo si offre per essere visto come un fenomeno tra gli altri, realizzando il comune programma fenomenologico, ma per la prima e unica volta egli lo porta a compimento, in atto, nei suoi atti, diventando il fenomeno di tutti i fenomeni. Lui, agente completo e saturo della messa in evidenza dell’assoluto invisto, del mustêrion di Dio nascosto dall’origine dei tempi; lui, che «fu manifestato in carne umana, ephanerôthê en sarki» (1Tim 3,16), nello stesso tempo, ha fatto luce dappertutto intorno a sé, quindi ha provocato tutte le cose a divenire manifeste: «ho sempre insegnato (pantote edidaxa) nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto, en kruptô elalêsa ouden» (Gv 18,20)5. Ciò, tuttavia, non significa che Cristo provochi la manifestazione in ogni istante, a proprio piacimento6, perché la manifestazione finale dipende dal

5.  Cfr. Mt 26,55, Lc 16,26 (parrêsia lalei, palam loquitur), Lc 19,47‑48 e anche «non sono fatti accaduti in segreto (ou gar en gônia)» (At 26,26). Si veda il nostro J.-L. Marion, Remarques sur quelques remarques, in «Recherches de Science Religieuse», n. 99, 2011, pp. 489-498. 6.  Come l’ironia di Socrate, che si mette in scena a volontà sulle piazze, la stessa che i «suoi fratelli» applicavano a Cristo: «i suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che

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tempo e il tempo dipende dal Padre. Ciò significa che la parola di Cristo parla in nome del Padre, in quanto Parola del Padre. È stato anche rilevato che la formula «sì, amen» è di uso comune per approvare la conclusione di un discorso, ma, in particolare in Giovanni, Gesù ha inaugurato un uso “senza analogia” del doppio amen: «in verità, in verità, amen, amen, vi dico»7, dunque il mustêrion non fa dipendere la sua apokalupsis dalla volontà di Dio, perché nell’amen, amen di Gesù Cristo Dio continua ad autodarsi «una volta per tutte»; infine, paradossalmente, la scoperta dipende dagli uomini, a seconda che decidano o no di lasciar manifestare se stessi (quindi giudicare le loro opere e il loro cuore) in presenza dell’apokalupsis di Cristo che egli stesso compie. In un certo senso Cristo non fa nulla e non ha bisogno di fare null’altro se non attendere e ottenere la decisione degli uomini: colui per il quale «tutte le promesse di Dio in lui sono “sì”» (2Cor 1,20) attende il sì o il no dagli uomini: «sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”» (Mt 5,37). Di fronte a questo «grande Amen» (per dirla con Nietzsche, che lo sperava senza poterlo dire), per noi la questione diventa quella della capacità di poter dire, a nostra

tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente (zetei autos en parrêsia einai), agisce nel segreto (en kruptô). Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo! (phanerôson seauton en tô kosmô)”. Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto”» (Gv 7,3‑6). 7.  Cfr. J. Jeremias, Neutestamentliche Theologie, Teil I, Die Verkündigung Jesu, Gütersloher Verlagshaus G. Mohn, Gütersloh 1971; tr. it., Teologia del Nuovo Testamento, vol. I, La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1976, p. 47. L’amen, amen introduttivo appartiene esclusivamente a Gesù, in part. in Gv 1,51; Gv 3,3; Gv 3,5; Gv 3,11; Gv 5,19; Gv 5,24; Gv 5,25; Gv 6,26; Gv 6,32; Gv 6,47; Gv 6,53; Gv 8,34; Gv 8,51; Gv 8,58; Gv 10,1; Gv 10,7; Gv 12,24; Gv 13,16; Gv 13,20; Gv 13,21; Gv 13,38; Gv 14,12; Gv 16,20; Gv 16,23; Gv 21,18. L’amen dossologico di conclusione appartiene, al contrario, al fedele (cfr. Rm 1,25; Rm 11,36; Rm 15,33; Rm 16,27; Gal 1,5; 6,18; Ef 3,21; Fil 4,20, ecc.).

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volta, “sì”: Gesù domandò loro: «“Avete compreso tutte queste cose?” [sc. i discepoli, quindi noi] Gli risposero: “Sì”, nai» (Mt 13,51). Ma cosa vuol dire e quanto vale il nostro “sì”? Tutto dipende dal modo con cui rispondiamo alla questione, quindi dal modo in cui la questione ci si presenta – la parabola.

La parabola I primi tre capitoli di Marco annunciano l’«inizio del vangelo, di Gesù, Cristo» (Mc 1,1) menzionando il fatto che «insegnava» (Mc 1,21‑22; Mc 1,27.39); questi capitoli, tuttavia, non riportano ciò che Gesù ha insegnato, ma insistono sugli effetti prodotti dall’insegnamento (stupore, meraviglia, entusiasmo o contestazione, ecc.). Innanzitutto, la buona notizia si fa conoscere quasi esclusivamente tramite il processo verbale degli atti di Gesù, tramite le gesta Christi: miracoli di guarigione fisica (della suocera di Simone in Mc 1,29‑31; di un lebbroso in Mc 1,40‑44; di un uomo con la mano paralizzata in Mc 3,1‑5) o miracoli di guarigione spirituale (un posseduto da uno spirito impuro Mc 1,21‑28, Mc 1,34) o miracoli doppi (il paralitico guarito nel corpo dopo che gli sono rimessi i peccati Mc 2,1‑12). Quando Gesù si sceglie dei discepoli (Mc 2,16‑20; Mc 3,12‑19) il testo non riporta alcun insegnamento, così come quando si menziona il fatto che «annunciava loro la Parola» (Mc 2,2) non vengono riportare le parole che diceva. A proposito di insegnamento, Gesù annuncia un solo fatto e chiede in cambio una sola decisione: «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15, cfr. Mc 1,45). Quando parla non lo fa per enunciare una dottrina ma per rivendicare, contro coloro che la negano, l’autorità sovrana e la potenza originaria (l’exousia) dei suoi atti (Mc 2,6‑12) e della sua presa di parola (Mc 1,21 e Mc 1,27; Mc 2,10). Ciò che dice e ciò che fa coincidono in

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un’unica ‫דבר‬, dabar, un unico evento inaugurale. Ciò spiega perché nessuna parola discorsiva, nessun enunciato predicativo, nessun significato già repertoriato sia sufficiente per dire o far comprendere ciò che adviene al mondo. Marco conferma l’inevitabile mancanza di parole per esprimere ciò che viene insegnato quando precisa che Gesù «insegnava loro molte cose con parabole» (Mc 4,2, cfr. Mc 3,23), al punto che le parabole divengono il solo modo per enunciare la Parola: «con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola (logos), come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro» (Mc 4,33‑34). Cosa che va quasi da sé, giacché la parabola fa della parola e dell’insegnamento un atto – di linguaggio. La parabola non trasmette informazioni né racconta storie, neppure indirizza la parola, né apre una discussione pro et contra, in quanto agisce sul suo uditore costringendolo a capirla e a capirla comprendendo se stesso. Ancor più che atto di linguaggio, la parola attante secondo la parabola chiede in risposta un altro atto, un atto di comprensione che mette in gioco colui che la comprende – e che vi comprende se stesso. La parabola non apre una conversazione, ma provoca una modalità di conversione, essa inaugura e mette in atto la funzione originaria della parola – non è un caso che nella lingua francese [e italiana; n.d.t.] “parola” derivi da “parabola” e non il contrario. Per entrare più in profondità nella eccezionale funzione della parabola, conviene individuare tre caratteristiche, di cui ogni ulteriore spiegazione della parabola dovrà rendere conto. In primo luogo la parabola definisce lo stile esclusivo dell’insegnamento di Gesù, la sua «predilezione […] per il parallelismo antitetico», cioè per l’accostamento di due elementi contrastanti che si sviluppano a partire da uno stesso racconto. Infatti, come mostrato da Joachim Jeremias, «non hanno analogia di sorta»8, 8.  J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, cit., risp. pp. 29 e 41. Ugualmente: «per Marco il Gesù che insegna è il Gesù che parla in parabole» o

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al punto che si tratta di una forma letteraria che viene quasi inventata da Gesù e rimane sua propria: «in tutta la letteratura dell’antico giudaismo, sia dell’epoca anticotestamentaria che neotestamentaria, negli scritti essenici, in Paolo, negli scritti rabbinici, non si trova nulla che possa essere accostato alle parabole di Gesù»9. Non solo, come detto, lo stesso termine “parola” deriva dal termine “parabola”, ma, riconoscendo che qui la parabola viene dal logos stesso di Gesù, allora bisogna inferirne che essa costituisce per antonomasia il modo parlante del Logos fatto uomo e che lo stile di insegnamento coincide esattamente con ciò che è insegnato. In secondo luogo, la parabola opera direttamente lo scoprimento del mustêrion, all’occorrenza lo scoprimento del “Regno di Dio” che «si è fatto vicino, êggiken» (Mc 1,15), che ormai è già tra noi: «quando poi furono da soli, quelli che erano «il discorso in parabole è per Marco la forma obbligata della predicazione» (E. Cuvellier, Le Concept de παραβολη dans le second évangile. Son arrière-plan littéraire, sa signification dans le cadre de la rédaction marcienne, son utilisation dans la tradition de Jésus, Gabalda, Paris 1993, risp. pp. 205 e 119) che rimanda a D. Marguerat, La parabole, de Jésus aux évangiles: une histoire de réception, in J. Delorme (éd.), Les Paraboles évangéliques. Perspectives nouvelles, Cerf, Paris 1988, pp. 61-88. 9.  J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, cit., pp. 41-42, al punto da poter «risalire al significato originario delle parabole di Gesù, alla ipsissima vox Iesu» (J. Jeremias, Le parabole di Gesù, cit., p. 24; cfr. p. 104, per una volta d’accordo con A. Jülicher, Parables, in T.K. Cheyne - J. Sutherland Black [eds.], Encyclopaedia Biblica, vol. III, Macmillan, London 1902, pp. 35633567, riproposto con il titolo Gleichnisse, in W. Harnisch [hrsg.], Gleichnisse Jesu. Positionen der Auslegung von Jülicher bis zur Formgeschichte, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1982, pp. 1-10). Questo uso della parabola non si trova né nella grecità né nella latinità classiche, come conferma l’analisi molto dettagliata di E. Cuvellier, op. cit., capp. I-IV, che sottolinea anche, tra le varie, che l’ebraico ‫משל‬, mashal copre un campo molto più vasto ed equivoco di quello della parabola (favola, proverbio, massima, sentenza, pamphlet, canzone, poema, ecc.) e che, in molti casi, la LXX non traduce l’uno con l’altro (ivi, pp. 50 ss.).

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intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio” (humin to mystêrion dedotai tês basileias tou theou)» (Mc 4,10-11). Non è quindi un caso se la prima parabola, quella del seminatore (Mc 4,3‑20), dopo l’esempio della lampada esposta sul lucernario subito seguente (Mc 4,21‑23), venga esplicitata tramite ciò che abbiamo identificato come principio di scoprimento: «non vi è infatti nulla di segreto (krupton) che non debba essere manifestato (ean mê ina phanerôthê), nulla di nascosto (apokrupton), che non debba essere messo in luce (elthê eis phaneron)» (Mc 4,22); autorivelandosi, il Regno di Dio rende manifesta ogni cosa. Non è casuale che la parabola del seminatore si ritrovi anche negli altri due sinottici (Mt 13,4-9 e Lc 8,4-8), anche in quel caso inaugurando l’intero insegnamento in parabole: non consiste tanto in una parabola tra le altre, ma nella struttura dell’intero insegnamento in parabole: la venuta del regno instaura uno stato d’emergenza generale, tutti gli uomini sono obbligati a rendere manifesto ciò che vuole e vale il loro “cuore”. Inoltre, non è casuale che i tre sinottici realizzino tale insegnamento tramite la parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46; Mc 12,1-12 e Lc 20,9-19), essa infatti descrive cosa succede una volta lanciato il seme non più a partire dal seminatore e secondo le modalità di ricezione ma, al contrario, a partire dal suo rifiuto e dalle varie modalità del rifiuto10. Si può anche cogliere il fatto che l’ultima parabola comune ai tre sinottici, quella del fico sterile (Mt 24,32‑36; Lc 21,29‑32 e Mc 13,28‑32), insegni ancora che «il Regno di Dio è vicino, eggus» (Lc 21,31), ineluttabilmente vicino, malgrado il rifiuto degli uomini che sta per compier-

10.  Sulla prossimità tra le prime e le ultime parabole, cfr. I. Almeida, La structure conversationnelle de la parabole, in J. Delorme (éd.), Parole, figure, parabole, Presses universitaires de Lyon, Lyon 1987, pp. 61-84: pp. 78 ss.

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si sulla croce11, ineluttabilmente, perché «il terreno produce spontaneamente (automatê) frutto» (Mc 4,28-29). Così, la parabola non solo insegna la venuta del Regno di Dio, ma lo realizza in tutte le sue forme e con tutte le sue conseguenze. In terzo luogo, la parabola provoca una frattura tra i suoi uditori, che, a causa sua, si dividono in più modi. Innanzitutto, «l’insegnamento in parabole» (Mc 4,2) si conclude con una raccomandazione che annuncia, se non addirittura produce, una divisione: «chi ha orecchi per ascoltare, ascolti» (Mc 4,9). Non intendere, o piuttosto non capire ciò che si intende non ha quindi nulla di sorprendente, per Gesù al contrario si tratta di una delle inevitabili opzioni che deve affrontare ogni uditore. Egli parla in parabole affinché quelli che intendono comprendano o no. Questa pima inevitabile divisione definisce i possibili effetti della parabola, anche se opposti. Quando Gesù è «solo» tra «quelli che erano intorno a lui» (Mc 4,10) e quelli che restano «fuori» (Mc 4,11) interviene anche un’altra cesura, effettiva e non solo possibile: «per quelli che sono fuori (exô) invece tutto avviene in parabole, affinché “guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, affinché non/ché forse non/a meno che si convertano e venga loro perdonato” (Is 6,10)» (Mc 4,10‑12). La traduzione di mêpote è una croce

11.  Si può considerare che le parabole finali proprie a Matteo (il ladro di notte, Mt 23,43‑44, il servo fedele, Mt 24,45‑51 e le vergini sagge o stolte Mt 25,1‑13, o quella dei talenti Mt 25,14‑29) non fanno che insistere sull’uni­ ca problematica della iniziale parabola del seminatore. Si può parimenti considerare che le parabole proprie a Matteo (della zizzania, Mt 13,24‑30, del granello di senape Mt 13,31‑32 e del lievito Mt 13,33) sono riprese di quella, iniziale, del seminatore. Ad ogni modo, Jeremias ha ragione: «nelle parole di Gesù che trattano della basileia si trova una gran quantità di espressioni che non hanno parallelo di sorta nel modo di dire dei contemporanei, nemmeno nel vocabolario profano» (J. Jeremias, Teologia del nuovo testamento, cit., p. 45).

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per i traduttori, potendo oscillare tra “affinché non”, “ché forse non” e anche “a meno che”12. Tuttavia questa difficoltà non cambia nulla dell’essenza della cosa: questa parabola, come ogni parabola, non si comprende semplicemente ascoltandola, ma comprendendo ciò che si intende; ora, ciascuno la comprende solo secondo la propria misura, come può e vuole, o come accetta di volere. È proprio della parabola che ciascuno possa comprenderla come vuole perché nessuno può comprenderla senza volerlo bene o male; dal momento che la comprensione suppone la volontà di comprenderla, per definizione la parabola ammette la possibilità che non la si voglia comprendere. Infine, una volta ammesso il fatto che alcuni comprendono e altri no, bisogna considerare quale frontiera li separi: coincide con la distinzione tra i «suoi discepoli, idiois mathêtai» (Mc 4,34), che sono intorno (Mc 4,10) e gli «esterni, exô» (Mc 4,11)? Probabilmente no, per una ragione di prim’ordine, ovvero che non si dice mai che i discepoli comprendono le parabole: altrimenti, perché sarebbe necessario commentarle? Le spiegazioni fornite da Gesù sembrano anzi aumentare la loro perplessità e, alla fine, provocare le loro varie incomprensioni; perché, se accade (altrove, in Mt 13,51) che i discepoli pretendono di aver compreso le parabole, la maggior parte delle volte l’avvenimento prova che non significa nulla: anche loro, così come gli «esterni», hanno paura, si stupiscono, si scandalizzano, dubitano. Ma allora, perché sono favoriti ricevendo un insegnamento speciale a proposito del Regno di Dio? Perché ciò gli fu «dato» (Mc 4,11), perché furono scelti e chiamati da Gesù (Mc 2,16‑20; Mc 3,12‑19), perché lui, Gesù, «chiamò a sé quelli che voleva» (Mc 3,13). Il loro privilegio deriva dalla scelta di Gesù, come un dono, ma non implica ancora che essi

12.  Jeremias discute queste possibili traduzioni e privilegia “a meno che” per mêpote, a partire dall’aramaico dilema (J. Jeremias, Le parabole di Gesù, cit., pp. 18 ss.).

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abbiano pienamente accettato il dono né che comprendano pienamente ciò che intendono, neppure che resteranno «intorno a lui» (Mc 4,10). Qui ha valore la parola non scritta di Gesù: «chi è vicino a me è vicino al fuoco e chi è lontano da me è lontano dal regno»13. Al contrario, Marco si segnala perché riporta con insistenza tutte le mancanze e i tradimenti dei discepoli in generale e di Pietro in particolare. Si può semplicemente dire che il privilegio dei discepoli consiste nel fatto di provare, più di tutti gli altri uditori che sono al di fuori, la terribile esigenza delle parabole: nessuno le comprende se non nella misura in cui ne ha intenzione. Questa misura definisce l’unica frontiera: la parola che parla in parabole realizza perfettamente il logos «di contraddizione», tale da provocare «la caduta e la risurrezione di molti in Israele» e il fatto che in lui «siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34‑35).

Dire, non dire, scoprire È ormai possibile riconoscere che qualsiasi tentativo di definire la parabola dovrà rispettare le sue tre caratteristiche: innanzitutto far coincidere la modalità di insegnamento con ciò che deve essere insegnato; poi non solo descrivere il Regno di Dio, ma realizzarlo in tutte le sue forme e con tutte le sue conseguenze; infine, imporre che la si possa comprendere solo nella misura in cui se ne abbia intenzione, cioè comprendendovi se stessi.

13.  Riportate dal Vangelo di Tommaso, § 82 (a cura di M. Grosso, Carocci, Roma 2016, p. 97), Origene, Omelie su Geremia, Città Nuova, Roma 1995, II, 3, p. 53, e Didimo il Cieco, In Psalmum 88,8, PG 39, c. 1498d (citati da J. Jeremias, Le parabole di Gesù, cit., pp. 195 e 232, che commenta: «la vicinanza di Gesù è pericolosa»).

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Iniziamo con un punto di partenza abbastanza ovvio: la parabola praticata da Gesù non corrisponde a ciò che Aristotele descrive a titolo di parabolê. Aristotele la classifica rubricandola come similitudine (e eikôn), spiegando che quando Socrate vuole dimostrare che i magistrati non devono essere scelti tramite sorteggio, argomenta facendo il confronto con altre possibili estrazioni a sorte (quella degli atleti per i Giochi olimpici o per i Giochi istmici, quella di un capitano dell’equipaggio per armare una barca); poiché nei due casi simili la scelta casuale sarebbe evidentemente assurda, appare altrettanto assurda nel primo caso14. In questi esempi si tratta pur sempre di mettere a confronto casi simili, ma quando non si può fare il confronto con l’esempio di un evento storico (che, non potendo ripetersi in modo identico, non consente un approccio rigoroso), o non si vuole ricorrere a una favola troppo arbitraria (per esempio con animali) non resta altro che il ricorso alle parabole. È questo il senso del confronto di due casi simili, facendo capire il secondo tramite il primo e stabilendone la comune intelligibilità: l’uno finisce sempre per tradursi nell’altro e viceversa. Il miglior esempio è l’allegoria, quando si tratta di evocare e manifestare sotto altri tratti, sottratti all’accezione comune, un termine già conosciuto (per esempio qualificando Achille come “aquila”) o di spiegare tramite una storia inventata un’evidenza fino allora nascosta (le tre età dell’uomo indicate dai tre tipi di andatura). In questo caso la parabola consente di comprendere un’evidenza provvisoriamente ignorata tramite il confronto con un’immagine che è provvisoriamente enigmatica, ma alla fine entrambi i termini del confronto divengono ugualmente comprensibili15. 14.  Aristotele, Retorica, Bompiani, Milano 2014, II, 20, 1393b 3‑7, p. 249. La parabola, sotto il rapporto della similitudine, appartiene quindi allo stesso registro della metaphora (ivi, III, 4, 1406b20‑23, p. 329). 15.  Qui assume tutta la sua importanza la dimostrazione fatta da Jülicher della differenza tra le parabole originarie di Gesù e l’interpretazione redazionale dei sinottici, che le intendono come allegorie (A. Jülicher, Die Gleich-

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Nell’uso fatto da Gesù la parabola differisce in due punti essenziali rispetto al confronto e all’allegoria. Innanzitutto, essa non rimanda a un confronto fittizio o inventato ad hoc, ma a una situazione comune, quotidiana e verosimile, se non addirittura vera (il ricorso al mondo agricolo palestinese o ai fatti e ai costumi sociali di Gerusalemme non ha nulla di arbitrario, lo studio dello Sitz im Leben è del tutto legittimo)16, di modo che ciascuno sa molto bene ciò che la parabola vuol dire, perché essa «è sempre assegnata a un progetto che punta all’evidenza, lo stabilire una verità, che si tratti dell’argomentazione della prova, o della chiarezza dello stile. Il termine non designa mai, quantomeno volontariamente, un’illustrazione utilizzata al fine di nascondere qualcosa o di renderla meno intelligibile (nessuna connessione con il mistero, nessun legame con l’enigma)»17. Se si desidera mantenere un rapporto con l’u-

nisreden Jesu, 2 Bdd., J.C.B. Mohr, Tübingen 1888‑1889; cfr. Id., Parables, cit.). La debolezza di questa impostazione fu relativa soltanto all’impoverimento del significato delle parabole, ridotto al livello di evidenze morali che potevano essere accettate dalla teologia liberale protestante, ma Jeremias conferma il suo risultato principale (cfr. J. Jeremias, Le parabole di Gesù, cit., pp. 77‑106). 16.  L’esempio più stupefacente, contro l’interpretazione parenetica della parabola del seminatore (la generosità folle di Dio lo farebbe seminare proprio dove non può più crescere nulla, tra i rovi, le pietre o sulla strada), viene dalla ricostituzione (secondo Jeremias) delle modalità palestinesi di semina: prima si semina, per poi arare, perché i rovi e i sentieri spariranno e le pietre appariranno solo una volta rigirata la superficie. Il seminatore semina come si deve. 17.  E. Cuvellier, op. cit., p. 46 di cui seguiamo le analisi. È solo nella tarda letteratura escatologica e intertestamentaria che «il discorso illustrativo designato dalla parabolê diventa poco a poco un discorso enigmatico, poi completamente oscuro e misterioso, veicolando segreti divini che riguardano la fine dei tempi» (ivi, p. 79). Così la parabola si accosta all’enigma (Sir 1,25 e Sir 47,15; Pv 1,6; cfr. Dn 12,8). In questo senso, nell’uso di Gesù il «senso della divinità dell’ordine naturale è la premessa principale di tutte quante le parabole» (C.H. Dodd, The Parables of the Kingdom, James Nisbet and Co.

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so retorico della parabola nella sua accezione greca, sarebbe più conveniente ritornare alle argomentazioni per confronto o contro-confronto (ek parabolês o ex antiparabolês): confrontare un argomento all’altro grazie allo choc di un incontro spalla a spalla18. Tramite le sue parabole Gesù lancia ai suoi uditori, come all’arrembaggio, una verità evidente e comune per fargli presentire (ispirargli) in cambio, tramite lo choc del confronto, un mustêrion che gli risulta ancora inconcepibile, almeno nei termini in cui si aspettavano di intenderlo. Inoltre, a partire da un riferimento ben conosciuto («il seminatore uscì a seminare»), la parabola rinvia viceversa a un termine incomprensibile per gli uditori (il Regno di Dio), che tale resterà, perché essa non tenta di dire o di descrivere ciò che, almeno per un certo periodo, rimane inaccessibile al suo uditore o, piuttosto, perché tenta di fargli percepire un significato («il Regno di Dio») che non può ancora comprendere; la parabola deve innanzitutto e perlopiù far percepire (se non far toccare con mano) questa stessa inconcepibilità. Il miracolo non mostra ciò che pure vi si mette in atto (il «Regno di Dio» vicino in Gesù), ma comunque impone già un’intuizione fuori norma, come segno di un conferimento di senso che si ritrae, così da segnalare l’ingiustificabile eccesso del conferimento di senso tramite l’inconcepibile eccesso dell’intuizione; allo stesso modo la parabola non tenta di dire esplicitamente Ltd, Digswell 1935 [19613]; tr. it., Le parabole del regno, Paideia, Brescia 1970, p. 25), motivo per cui si distingue dall’apocalittica giudaica, a sua volta fortemente allegorizzante (ivi, pp. 100-103). 18.  Aristotele, Retorica, cit., III, 19, 1420a3-b1, p. 413. Nello stesso racconto di un combattimento navale Polibio distingue «ex upobolês, appena», «parabalein, colpire» e «ek parabolês […] promakhomenoi, combattendo di fronte e tutto intorno» (Polibio, Istoriai; tr. it., Storie, vol. III, Mondadori, Milano 1955, XV, 2, p. 22): l’aggettivo parabolos, correntemente è reso con audace, combattivo o ardito, quindi letteralmente significa colui che entra in contatto con l’avversario, che si coinvolge da vicino.

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un significato nascosto (il mustêrion), che deve restare ancora inintelligibile perché contraddice i conferimenti di senso che l’uditore dà per acquisiti, ma glieli dona nei fatti, incaricandolo di avvicinare quanto più gli sarà possibile il paradosso che si scopre, e di supportarlo. Nel caso di Marco la situazione che richiede la parabola può essere descritta senza difficoltà: «dalla Giudea e da Gerusalemme, dall’Idumea e da oltre il Giordano e dalle parti di Tiro e Sidone, una grande folla (polu plêthos), sentendo quanto faceva, andò da lui (êlthon pros auton)» (Mc 3,7‑8). Pressoché tutti, in quel tempo, erano in attesa del «Regno di Dio», tanto che molti vedevano (a giusto titolo) i miracoli compiuti da Gesù come il segno del suo avvicinarsi; pertanto, intendevano (a torto) questa venuta come il momento opportuno per Gesù per «ricostituire il regno per Israele» (At 1,6) ed è del tutto naturale che volessero «prenderlo per farlo re» (Gv 6,15). L’annuncio del «Regno di Dio», proprio in virtù della sua autenticità, provoca inevitabilmente anche un malinteso relativo al nuovo conferimento di senso: gli uditori interpretano questo regno secondo una regalità politica (almeno nei suoi effetti, se non per la sua origine), mentre Gesù proclama un altro significato, addirittura contrario, quello di un Messia che «doveva soffrire molto» (Mc 8,31). Tra questi due significati, quello di un re trionfante e di un Messia sofferente, c’è un’incompatibilità (skhisma) pari a quello che intercorre tra un vecchio ritaglio di stoffa e un pezzo nuovo, o tra un otre di pelle rabberciata e il vino nuovo (Mc 2,21‑22). Questo tanto più che il conflitto non oppone due conferimenti di senso compresi con chiarezza e distinzione, ma, da una parte, i conferimenti di senso che si suppongono ben conosciuti e comprensibili e, dall’altra, un conferimento di senso mancante, ancora inconcepibile19. La parabola tenta di evoca19.  Non si darà neppure troppa importanza alla questione dei titoli rivendicati o meno da Gesù (Figlio dell’uomo, Messia, figlio di Dio, figlio di Davide,

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re, di far emergere e di suggerire indirettamente il significato mancante, come davanti a un fenomeno saturo (infatti è uno di questi, per antonomasia), quando bisogna cercare il conferimento di senso mancante secondo la misura dell’intuizione che, eccessiva, oltrepassa il limite di tutti i significati già disponibili. La parabola non dice esplicitamente il significato nuovo ed eccessivo proprio perché in un primo tempo il suo eccesso lo rende inconcepibile, aprendo però il campo nel quale tale novità può essere intesa e sperimentata. Da ciò risultano le operazioni realizzate dalla parabola. Innanzitutto essa apre un campo alla possibilità di un ascolto che comprenda, letteralmente, un’intesa dal significato inconcepibile20. Nella parabola diventa possibile comprendere diversa-

Elia, ecc.). Innanzitutto, perché i suoi uditori e il suo pubblico forse non ne avevano una chiara né univoca comprensione, poi, e soprattutto, perché comunque stessero le cose Gesù non li intendeva nello stesso senso della folla. Si noterà anche che le spiegazioni della parabola che sono riservate a coloro che sono vicini (per esempio Mc 4,13‑20), non solo non spiegano tutto (chi è il seminatore, che cosa dice la Parola?) e non sono sufficienti a sollevare i discepoli della stessa incomprensione di cui fa mostra la folla d’exo. La proibizione fatta (per altro invano) ai discepoli e ai beneficiari di guarigioni di diffondere pubblicamente ciò che hanno visto e ricevuto si spiega per questo motivo: non possono ancora comprendere ciò che diranno, perché ragionano ancora a partire da conferimenti di senso antichi e ormai decaduti; solo la croce e la Risurrezione, interpretate a partire dallo Spirito, più tardi gli permetteranno di dire con conferimenti di senso adeguati ciò che hanno visto e sentito (cfr. E. Cuvellier, op. cit., p. 267: «la Croce permette di decifrare le parabole»). Quindi, se i sinottici riportano in parallelo le parabole e i loro significati non è per abolire le prime con i secondi (con un’interpretazione allegorica), ma per rinforzare il mustêrion delle une tramite il dettaglio degli altri: la parabola obbliga sempre a decidersi di fronte alla possibilità (o all’impossibilità) di un significato ancora incomprensibile. 20.  «In Marco [il concetto di parabolê] designa un mezzo di comunicazione che lascia uno spazio per la responsabilità umana dell’ascolto» (ivi, p. 223, sottolineature nostre). Infatti, la parabola dà un certo accesso al significato, ma non al suo possesso: «attraverso il discorso in parabole, l’uomo può

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mente da quanto lo fosse prima ciò che ancora viene annunciato con nomi antichi, con l’eventualità e anche il rischio di avere da intendere e da suppore ciò che, tuttavia, ancora non si comprende. In una parola, la parabola apre lo spazio del confronto con il fenomeno saturo per antonomasia, nel suo momento di crisi, in cui l’eccesso di intuizione (exousia di una parola del Logos, exousia della sua potenza miracolosa) oltrepassa e squalifica i conferimenti di senso tradizionalmente disponibili21. Ogni parabola provoca una crisi e, secondo la formula di Charles Harold Dodd diventa una «parabola della crisi» che inevitabilmente provoca il giudizio del suo ascoltatore, positivo o negativo, ma pur sempre approssimativo. Questo giudizio non resta tuttavia senza significato, perché molto significativamente s-copre in cambio ciò che ha nel cuore. La parabola funziona proprio come una parola contro-­dicente («antilegomenos») che «svela i pensieri di molti cuori» (Lc 2,35). La parabola, quindi, non insegna il significato del «Regno di Dio», ma lo fa advenire in ogni uditore, imponendogli di accettare o no l’evento che gli si rivolge realizzandosi nella persona di Gesù. La parabola compie ciò che dice e non dice altro rispetto a ciò che fa, ma solo colui che incarna tale annuncio (che è il «Regno di Dio») può fare ciò che dice; Gesù lo è, quindi dicendolo lo fa.

intendere la Parola (Mc 4,33), ma non possiede una conoscenza obiettiva. Questa parola necessita una spiegazione che sarà rimessa in questione: farà capire all’uomo che la Parola va incontro ai suoi desideri profondi» (ivi, p. 121, sottolineature nostre). Dodd sottolinea che la parabola sviluppa un «carattere argomentativo: invita l’ascoltatore a esprimere un giudizio», perché «l’interpretazione dipende dal giudizio sulla situazione che vien immaginata e non dal deciframento dei vari elementi della narrazione» (C.H. Dodd, op. cit., pp. 25 e 26). 21.  Marguerat parla giustamente di una «stravaganza della parabola» (D. Marguerat, Jésus le poète, maître de sagesse. Une rhétorique de l’excès, in A. Dettwiller [éd.], Jésus de Nazareth. Études contemporaines, Labor & Fides, Gèneve 2017, pp. 147-172: p. 152).

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Come condizione stessa della sua apertura, la parabola implica la possibilità del malinteso, ovvero che si abbiano le orecchie per non intendere. Non che la parabola abbia intenzione di oscurare e criptare (come fanno l’enigma, il sogno premonitore, l’immagine fantastica, che richiedono un’esegesi allegorica), ma poiché può soltanto limitarsi a suggerire ciò che annuncia e fa avvenire, ossia il mustêrion pensabile soltanto da Dio e pensato da Dio solo – questo per noi sarebbe impensabile. La parabola non può e non deve imporre un significato dominante che, per giungere a noi, dovrebbe farsi comprendere immediatamente, cioè ridursi al livello della nostra attesa spontanea e della nostra comprensione abituale, come un semplice slogan propagandistico, un idolo mondano. La parabola deve offrire il mustêrion come tale, quindi come un significato ancora inconcepibile e per questo motivo deve implicare la possibilità non solo di soggiacere a una comprensione confusa da parte di certi uditori, ma anche al deciso rifiuto da parte di altri di ammettere il minimo conferimento di senso che provenga da altrove. La negazione della scoperta del mustêrion è parte integrante dell’essenza della s-coperta, al pari del disaccordo che già appartiene all’annuncio. Quindi, Gesù doveva sia «congedare la folla» (Mc 6,45), sia esigere il silenzio dei miracolati (Mc 1,44), dei demoni (Mc 3,12) e anche dei «suoi». Infatti, gli exô facevano fronte alla medesima prova degli idioi: per tutti si tratta di cambiare i propri conferimenti di senso di riferimento o almeno di considerare la possibilità di cambiarli. Di diritto tutti meritano di essere messi in guardia come Pietro: «va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33)22. Una parabola

22.  Qui è necessario seguire la decisiva analisi di Chrétien: «la parola, la cui finalità è manifestare, come parabola viene a essere velata, cifrata, coperta, capace di manifestare solo sotto e tramite segreto. Però, ciò che questa parola cifrata comincia a dire è la sua cifra e il suo destino. […] La frontiera

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chiara e distinta non rivelerebbe nulla del mustêrion, invece provoca uno «stupore» radicale: «che è mai questo? Un insegnamento nuovo, didakhê kainê?» (Mc 1,27), che «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Come parola necessariamente indiretta23, la parabola dice senza dire nulla, senza dire alcun oggetto o ente, ma si rivolge all’uditore provocandolo a un’altra possibilità che quella che egli ritiene possibile. Essa dice ciò che non si può dire, l’impossibile e in tal modo lascia l’uditore libero di dire e dirsi in ciò che dice: lascia rispondere, lo obbliga alla risposta; suscita il giudizio24 perché il paradosso del mustêrion può dirsi solo in parabole e la parabola non può che scoprire un unico para-

dell’interno e dell’esterno non separa gli iniziati dai profani, ma attraversa il cuore di ciascuno di fronte a Gesù all’interno e tramite l’evento della crisi. […] Il verbo di Dio avanza in uno spazio di sordità e di mutismo, non in uno spazio che sarebbe tutto udito. Come incarnandosi in un doppio silenzio, il silenzio umano del peccato e il silenzio divino della collera. In questo primo senso, la rivelazione per definizione deve fare i conti con l’accecamento, questo accecamento che le è opposto frontalmente e che allo stesso tempo costituisce ciò che la richiede. Essa, però, deve fare i conti con esso anche in un altro senso: alla violenza di questo accecamento che l’attacca frontalmente e che cerca di impedirla, non vuole né deve rispondere con altra violenza. Non sa imporsi all’uomo, ma soltanto proporsi a lui. […] La rivelazione rischiara l’uomo in modo tale che in questa chiarezza possa accecarsi» (J.-L. Chrétien, Lueur du secret, Paris, L’Herne 1985, risp. pp. 51, 53, 55 e 56). 23.  «Quando il linguaggio proprio è bloccato, la parabola è una via indiretta» poiché in sé la «figura del Figlio dell’Uomo sofferente è un paradosso incomprensibile e scandaloso, non può essere veicolato che in modo indiretto e paradossale» (F. Bovon, Parole d’Évangile, parabole du royaume, in «Revue de théologie et de philosophie», n. 122, 1990, pp. 33-41: risp. pp. 122 e 239). Questo ricorso a un «discorso indiretto» rinforza esegeticamente la legittimità della «Rivelazione indiretta» portata avanti in teologia dogmatica da Pannenberg (cfr. supra, cap. 7). 24.  Ogni parabola provoca una crisi, Dodd la definisce come «una metafora o una similitudine tratta dalla natura o dalla vita quotidiana che colpisce l’ascoltatore con la sua vivezza (vividness) o originalità e lo lascia in quel

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dosso: il Messia deve soffrire e morire, al fine di resuscitare il terzo giorno. In ciò consistono la sua messianicità e il suo regno. Il paradosso costituisce la ratio videndi della parabola, la parabola offre la ratio cognoscendi del paradosso25. Essa emerge nell’orizzonte di un testo paradigmatico di Is 6,910: «ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere», donde l’avvertimento di Cristo che raddoppia la messa in guardia: «chi ha orecchi per ascoltare, ascolti» (Mc 4,9 = Mc 4,23). La parabola evidenzia quindi il mustêrion, che normalmente (senza Cristo) nessuno può comprendere, dal momento che nessuno può rendere manifesto il racconto se non può innanzitutto rendersi manifesto a se stesso. Lasciati alla loro doppia oscurità (rispetto a loro stessi e al discorso manifesto), gli uditori si ritrovano così «di fuori, exo» e tutto avviene loro in parabole, tutto resta per loro non intelligibile. Per i discepoli, al contrario, «è stato dato il mustêrion del Regno di Dio, mustêrion dedotai» (Mc 4,11; cfr. Mc 4,34); perché a loro e non agli altri? Perché loro, più o meno consapevolmente, hanno assunto il rischio e fatto la scelta di rispondere all’appello a diventare discepoli e dunque ha già avuto luogo una rottura epistemologica, dove si decide l’accordo (e dove quindi appare il disaccordo). La s-coperta si intravvede – certo ancora solo accennata – sullo sfondo del ricoprimento e della copertura del segreto, del mustêrion provato come tale, sveminimo dubbio riguardo il significato dell’immagine sufficiente a stimolare il pensiero» (C.H. Dodd, op. cit., pp. 19-20). 25.  Cfr. l’analisi di Le Guern, che riassume i punti decisivi: in prima istanza la parabola «serve per dire l’indicibile, cioè ciò che sfugge all’intelletto» (il significato mancante); poi ciò che racconta, «il verosimile, non è dell’ordine dell’oggetto, ma dell’evento» e non viene «presentato come ente, ma come ciò che accade»; infine resta «totalmente paradossale. Ma forse è importante spiegare che non si può veramente spiegare» (M. Le Guern, Parabole, allégorie et métaphore, in J. Delorme [éd.], Parole, figure, parabole, cit., pp. 23-35: rispettivamente pp. 31, 34 e 35).

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lato come non ancora s-coperto. Donde la regola formulata da Eberhard Jüngel: l’annuncio della venuta del Regno non si enuncia come una tesi insegnata da Gesù, ma succede come un atto di linguaggio che, in parabole, attende e provoca una risposta: «la ßασιλεία è espressa nella parabola come parabola. Le parabole di Gesù esprimono il regno di Dio come parabola»26. Il primo effetto di questo annuncio in atto consiste quindi in un pervasivo sentimento di paura: «furono presi da grande timore (ephobêthêsan phobon megan)» (Mc 4,41). Si tratta della paura provata di fronte a ciò che si può capire solo soddisfacendo una condizione ancora irrealizzabile – prendere il punto di vista di colui che lo dice e, soprattutto, quello di ciò che dice. Qui la paura identifica lo stato di colui che intuisce il mustêrion senza ancora poterlo intendere o comprendere, viene provato come un mustêrium tremendum, uguale a quello che sopraffà le donne alla tomba vuota (Mc 16,8), lo stesso del quale Paolo poteva parlare ai Corinzi solo «con molto timore e trepidazione, en phobô kai en tromô» (1Cor 2,3).

Ascoltare vedere, vedere l’ascolto Luca riprende la questione dove l’aveva lasciata Marco: anche per lui si tratta sempre delle prime parabole (del seminatore e della lampada, Lc 8,5‑18 = Mc 4,3‑23), del principio di scoperta che manifesta ciò che è rimasto nascosto (Lc 8,17 = Mc 4,22), del richiamo secondo il quale «a voi è dato conoscere i 26.  Nella conclusione della sua eccellente sintesi sull’evoluzione dell’interpretazione delle parabole, E. Jüngel, Paulus und Jesus. Eine Untersuchung zur Präzisierung der Frage nach der Ursprung der Christologie, J.C.B. Mohr Siebeck, Tübingen 1961; tr. it., Paolo e Gesù. Alle origini della cristologia, Paideia, Brescia 1978, p. 167, citato a partire da W. Harnisch (hrsg.), op. cit., p. 338.

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mustêria del Regno di Dio» (Lc 8,10 = Mc 4,11) e infine della citazione di Is 6,9 ss. «vedendo non vedano e ascoltando non comprendano», naturalmente accompagnata dallo stesso avvertimento: «chi ha orecchi per ascoltare, ascolti» (Lc 8,8 = Mc 4,9). Questo quadro comune giunge a una messa in guardia identica, o piuttosto quasi identica: dove uno scrive «fate attenzione (guardate) a quello che ascoltate (blepete ti akouete)» (Mc 4,23), l’altro corregge: «fate attenzione (guardate) dunque a come ascoltate (blepete pôs akouete)» (Lc 8,18)27. Il punto comune tra le due raccomandazioni non si espone ad alcuna ambiguità: bisogna considerare (guardare bene, guardare in faccia) ciò che si ascolta, soprattutto quando non si arriva a concepire ciò che si ascolta (e vede). Qui non si può evitare di considerare lo strano incrocio tra vista e udito sopravvenuto quando Mosè ha ricevuto la Legge: «tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno» (Es 20,18)28. Quando non si può più vedere ciò che si dovrebbe vedere o non si può concepire ciò che comunque si vede, di fatto si tratta di vedere e prendere in considerazione [prendre en vue] ciò che si è quantomeno inteso. O, piuttosto – la differenza tra le due formule emerge qui – non solo è necessario vedere ciò che (ti, Mc) si è inteso, ma soprattutto come (pôs, Lc) lo si è inteso. Tutti hanno inteso ciò che è stato detto in modo chiaro come il giorno, perché l’esperienza conferma che «il seme germoglia e cresce; come, egli stesso [sc. l’uomo] non lo sa (pôs ouk oiden autos)» (Mc 4,27), ma non tutti l’hanno inteso nello stesso modo. La differenza riguarda meno la divisione statica tra co27.  Conserviamo la traduzione letterale di blepete con guardate e non con fate attenzione, non fosse che per rispettare l’evidente riferimento al verbo blepein di Is 6,9, LXX citato in Mc 4,10 e Lc 8,2. Perché indebolire questo significativo rimando? 28. Cfr. infra, cap. 11, nota 31. In entrambi i casi, davanti al fenomeno che satura l’intuizione i sensi si incrociano e la loro differenza si annulla, di modo che si impone l’incomprensione, la mancanza di significato.

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loro che «sono interni» e coloro che restano «fuori (exo)» (Mc 4,11) e più lo scarto tra i modi di ascolto, scarto che attraversa il cuore di ciascuno. Questo spostamento dello scarto tra Mc e Lc è confermato da un’altra variante: all’oscuro e inquietante ossimoro per cui «a chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha» (Mc 4,25) viene sostituita una spiegazione logica (e non un addolcimento retorico): «perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere (ho dokei ekhein)» (Lc 8,18). Evidentemente a chi non ha sarà tolto non ciò che non ha, ma ciò che si immagina di avere. Che cosa, tuttavia, crede di avere? Crede di avere un significato adeguato a riguardo di ciò che ha inteso: grazie a ciò che conosce della Legge e della tradizione umana («abbiamo Abramo per Padre») (Lc 3,8) crede di sapere ciò che la parabola del seminatore, il Regno di Dio e l’identità di Gesù significano per lui e in sé («non è costui il figlio di Giuseppe?» Lc 4,22). Proprio questo conferimento di senso, conservato e posseduto (ekhein), lo chiude su di sé come un posseduto dal demonio, lo chiude alla possibilità di un altro conferimento di senso, quello che punta all’apertura non definita della parabola, quello che verrebbe da altrove. Chi non vede, in fondo, non vede il fatto di voler possedere ciò che ascolta all’interno del significato in suo possesso; non vede di non voler ricevere un nuovo significato (il lieto annuncio che inaugura un nuovo regno) che per definizione non può possedere all’interno del suo proprio fondo [fonds], ma deve ricevere da altrove. Paolo lo dice altrettanto chiaramente: «chi ti discerne (diakrinei)? Che cosa possiedi (ekheis) che tu non l’abbia ricevuto (ho ouk elabês)? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto (ôs ouk elabês)?» (1Cor 4,7). Tutto è in modo (ôs, pôs) tale da non possedere il suo proprio significato, nell’arte di ricevere da altrove un altro conferimento di senso, de-misurato e unico a essere adeguato all’apertura resa possibile dalla parabola del Regno di Dio: «a chi ha sarà dato

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e sarà nell’abbondanza (perisseuthêsetai)» (Mt 13,12). Detto altrimenti: sarà saturato da ciò che si scopre a lui, restando al di fuori della sua presa. La difficoltà della questione non corrisponde alla risposta, ma innanzitutto alla questione stessa, nel suo ascolto, dal momento che prima di rispondervi bisogna anzitutto ascoltarla e intenderla, entrare nella sua intenzione, cosa che si gioca sul mio modo (pôs) di porla, sia rifiutandola, sia accettandola. Dare ascolto al fatto di non sapere, ammettere di non avere significati disponibili: «che parola è mai questa (tis ho logos) […] con autorità (exousia) e potenza?» (Lc 4,36) o, come i discepoli del Battista che sono capaci di chiedere «sei tu colui che deve venire?» (Lc 7,19). Ammettere di «aver visto delle cose paradossali, eidomen paradoxa sêmeron» (Lc 5,26) senza rifiutare di vederle, cioè senza scandalizzarsene: «beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» (Lc 7,23), detto altrimenti: senza sottrarsi alla vista del «segno di contraddizione (antilegomenon)» (Lc 2,34), all’ascolto del «logos duro» che «scandalizza» (Gv 6,60 e Gv 6,62). Il riconoscimento di un fenomeno a tal punto manifestato ai quattro venti, tanto sovrabbondante di possibilità e potente di intuizioni, necessita innanzitutto di non aver paura di aver paura, cioè di assumere la paura (phobos) di fronte al miracolo di guarigione (Lc 7,16, il figlio della vedova di Nain); di dominazione della natura (Lc 8,25, la tempesta sedata); di potenza spirituale (Lc 8,35, la cacciata dei demoni)29. Ciò necessita inoltre la capacità di affrontare lo spavento nei confronti della santità di Gesù, quindi di resistere all’illuminazione, tramite il contrasto (per veritas redarguens) del proprio peccato; succede così a Simon Pietro che «si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo “Signore, allontanati 29.  Cfr. l’ekstasis e la paura davanti alla guarigione fisica e spirituale del paralitico, Lc 5,26 o della figlia di Giàiro, Lc 8,56. Beninteso, la Trasfigurazione suscita la stessa paura (phobein, Mt 17,7 e Mc 9,6).

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da me, perché sono un peccatore”. Lo spavento (thambos) infatti aveva invaso lui» (Lc 5,8‑9), con un atteggiamento che si ritrova in molti episodi veterotestamentari (Mosè, Isaia, ecc.).

Verso una pratica della s-coperta Poiché nessuno dei significati comuni è adeguato, il fenomeno di Gesù che annuncia il Regno di Dio appare come “aporia”: così Erode «sentì (êkoisen) […] tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare (era in aporia, diêporei)» (Lc 9,7). Più esattamente, essendo egli ben informato, fa esperienza più di chiunque altro della pluralità di significati disponibili applicabili a Gesù e, al medesimo tempo, della loro evidente inadeguatezza: in lui bisogna riconoscere Elia (Lc 9,8 e Mc 8,28), il Battista (Lc 9,9, cfr. Lc 3,15 e Mc 8,28), o Belzebù (Lc 11,15‑19 e Mc 3,22)? Questa confusione è sintomatica dell’anonimato (quindi della polinomia) del fenomeno saturo per antonomasia: quando Gesù legge Is 61 nella sinagoga di Nazaret e proclama che «oggi si è compiuta (peplêrôtai) questa Scrittura» (Lc 4,21), quasi nello stesso momento suscita da parte di tutti lo «stupore (ethaumazon)» (Lc 4,22) benvolente e lo «sdegno (eplêrôthêsan pantes thumou)» omicida (Lc 4,28), perché mette in crisi gli uditori stessi, che ammirano il realizzarsi del fenomeno saturo e si incolleriscono perché vedono che è ormai offerto oltre i limiti di Israele. La medesima ambivalenza relativa alla scoperta del Regno di Dio esplode quando «tutta la popolazione del territorio dei Gerasèni gli chiese che si allontanasse da loro (apelthein ap’autôn)» (Lc 8,37 e Mc 5,17) proprio perché era riuscito a guarire un posseduto dai demoni. Quelli che sono più vicini possono reagire ancor più brutalmente: «i suoi uscirono per andare a prenderlo, dicevano infatti: “è fuori di sé” (oti ezeste)» (Mc 3,21). Se si giunge al punto di immaginare che Gesù abbia «perso la testa», allora

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viene alla luce il fatto soprattutto di aver perso la benché minima concezione di «tutto ciò che è successo», come succede con «gli scribi e i farisei» che sono «fuori di sé (anoia)» (Lc 6,11) constatando la guarigione durante il sabato di un uomo con la mano paralizzata. Anche questa «stoltezza manifesta» (anoia ekdêlos)» (2Tim 3,9) attesta l’impotenza a ricevere un conferimento di senso venuto da altrove e, di rimando, l’ostinazione a combinare insieme significati antichi, per pensare o piuttosto per non pensare il paradossale fenomeno di Cristo. Questa mancanza di spirito (anoia) porta gli stessi discepoli a non cogliere (quindi a non accorgersi di, ovvero a non lasciarsi cogliere da) l’annuncio della Passione; Gesù gli chiede comunque di «mettersi bene in mente» l’unico significato di «Figlio dell’uomo» – cioè che «sta per essere consegnato nelle mani degli uomini», ma essi non possono: «non capivano queste parole; restavano per loro così misteriose (parakekalummenon)» (Lc 9,44‑45). Questa «demenza» continuerà fino ai pellegrini di Emmaus, «stolti (anoêtoi) [perché] lenti di cuore a credere» (Lc 24,25) ciò di cui tuttavia le Scritture ex eventu offrivano un significato patente. La sapienza di Dio riduce la sapienza del mondo non solo alla stupidità (môria), ma anche alla demenza (anoia)30. Da qui dipende il paradosso dell’interpretazione: i miracoli di Gesù, in tutta la loro effettività tanto manifesta da non essere negata da alcuno (né dalla folla, né dai farisei, né dai demoni), non convincono comunque quasi nessuno, ma, per riuscirci, coloro che si avvicinano a Gesù devono convertirsi, cioè credere; devono credere per vedere. Da qui deriva l’ammirazione di Gesù per il centurione: «neanche in Israele ho trovato una fede così grande» (Lc 7,9; cfr. Lc 5,20). La fede, l’atto di fede diventa il criterio – e criterio pratico – dello s-coprimento, la 30.  Cfr. «sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti» (Rm 1,14), «o stolti Galati!» (Gal 3,1).

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risposta all’annuncio. Se così si può dire, Gesù si limita a constatare che «la tua fede ti ha salvata» (Lc 7,50 e Lc 8,48) e ad arrabbiarsi per la sua fiacchezza: «dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25 e Lc 19,5‑6; Mc 6,5‑6). Il nodo della s-coperta (apokalupsis) non risiede infatti nell’intuizione, che in questo caso è patente e saturante (tramite segni o miracoli), ma nell’accettazione di un conferimento di senso proveniente da altrove, in netta rottura con quelli forniti dal mondo con piena semplicità, regolarità e familiarità. Ora, compiere l’anamorfosi dello sguardo, cambiare interpretazione, passare al punto di vista stabilito dal mustêrion, in breve entrare nel paradosso che sopporta la parabola al fine di concepire ciò che si vede è un’operazione teorica che illustra, in ultima istanza, una pratica teorica. Si tratta di un fare (poien) pratico: «perché mi chiamate: Signore, Signore! e poi non fate (ou poiête) ciò che dico? Chi viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica (kai poiôn), vi mostrerò a chi è simile» (Lc 6,46‑47) – a un uomo che costruisce la sua casa sulla roccia. Finché la fede non è a fondamento della comprensione, i significati corretti, come i miracoli effettivi, restano in sospeso, questo è il motivo per cui devono essere taciuti (Mt 17,9). Certo, già prima dell’anamorfosi compiuta in pratica, Gesù appare subito come Cristo, ma come Cristo ricusato, come il logos rifiutato, come la s-coperta del ricoprimento stesso della s-coperta, «segno di contraddizione (sêmeion antilegomenon) […] perché siano s-coperti (apôkalupthôsin) i pensieri che orientano (dialogismoi) molti cuori» (Lc 2,34‑35).

La professione di fede come s-coprimento Infine, Matteo svela l’aporia descritta da Luca spingendo fino all’estremo la logica dell’anamorfosi e sviluppando la confes-

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sione di Pietro in tutte le sue dimensioni; questa sequenza si segnala per molte caratteristiche significative. Innanzitutto, il riferimento all’apokalupsis è esplicito. Infatti quando Gesù riceve la confessione di Pietro la consacra come scoprimento, addirittura come uno s-coprimento eccezionale: «Gesù [disse]: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno s-coperto (apekalupsen), ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Mt 16,17). Questo carattere eccezionale deriva dal fatto che lo scoprimento fatto a Pietro riprende e realizza indiscutibilmente la formulazione matteana del principio di scoprimento: «nulla vi è di nascosto (kekalummenon) che non sarà s-coperto (ho ouk apokaluthêsetai, revelabitur), né di segreto (krupton) che non sarà conosciuto (ho ou gnôsthêsetai)» (Mt 10,26), questo fatto deve essere sottolineato tanto più che Matteo è il solo tra i sinottici a usare il registro dell’apokalupsis per questo principio31. La confessione di Pietro può anche essere riconosciuta con il culmine della sequenza (Mt 10‑17,10) dedicata alla descrizione e poi alla messa in opera dell’apokalupsis: a cominciare dall’elezione e dalla missione dei Dodici (Mt 10,1-41), il principio di svelamento (Mt 10,26), l’attenzione posta sull’ascolto («chi ha orecchi, intenda!», Mt 11,15), la condanna di Corazim, Betsaida e Cafarnao (Mt 11,20‑24), l’applicazione alla parabola del

31.  Al contrario di Mc 4,22: «non vi è infatti nulla di segreto (krupton) che non debba essere manifestato (ean mê ina phanerôthê), e nulla di nascosto (apokrupton), che non debba essere messo in luce (elthê eis phaneron)», qui si tratta esplicitamente del Regno di Dio (Mc 4,11). Ugualmente Lc 8,17: «non c’è nulla di segreto (krupton) che non sia manifestato (phaneron), nulla di nascosto (apokrupton) che non sia conosciuto e venga in piena luce (eis phaneron elthê)» e si tratta chiaramente dell’«ascolto» (Lc 8,18). Non è quindi un caso che Matteo sia anche l’unico a elaborare una versione ampia della confessione di Pietro, che deve essere intesa come il primo caso di s-coprimento realizzato da uno degli uomini ai quali Gesù annuncia la venuta del Regno di Dio.

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seminatore (Mt 13,12-23) e ad altre, viene provocata la confessione di Pietro che si completa con il primo annuncio della Passione, a cui risponde la Trasfigurazione (Mt 17,1-9). Questa lunga sequenza stabilisce esplicitamente che l’apokalupsis o s-coprimento propone la scena di ogni annuncio (come anche del rifiuto) del Regno di Dio in Galilea e infine permette il «supremo gioco» della sua realizzazione a Gerusalemme. Infatti, il principio di s-coprimento va di pari passo con la possibilità del rifiuto dell’ascolto: la professione di fede di Pietro è anche l’anticipazione del suo rinnegamento perché la Trasfigurazione anticipa la Resurrezione solo una volta che la passione è annunciata da Gesù, preparata da «scribi e farisei» e rifiutata dai discepoli. Per quale motivo, quindi, Pietro appare nel ruolo di «primo», come fosse la prua, il primo garante, il primo chiamato, il prototipo del discepolo32? Evidentemente perché dopo alcune risposte negative o incerte egli offre la prima risposta adeguata (se non perfetta) a una questione esemplare e già antica: «chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?» (Mt 8,27). In questo caso non bisogna dimenticare la regola secondo la quale ogni appello resta muto e sconosciuto fino a che non venga reso almeno in parte esplicito dalla risposta; l’appello non si intende che nella risposta che suscita e nella misura della ricezione che gli può essere data dalla risposta. Ora, in Matteo la confessione di Pietro è emessa secondo una formula più lunga e insieme più profonda: «tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (su ei ho Christos, ho uios tou theou tou zôntos)» (Mt 16,16). Si tratta di un hapax del Nuovo Testamento perché gli altri due sinottici restituiscono formule più corte e sommarie: «tu sei il Cristo» (Mc 8,29), «il Cristo di Dio» (Lc 9,20). Al 32.  Cfr. l’analisi di G. Claudel, La Confession de Pierre. Trajectoire d’une péricope évangélique, Gabalda, Paris 1988, pp. 382, 386 e 387, studio che seguiremo nonostante il suo approccio sia arido, cervellotico e poco teologico.

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contrario Matteo qualifica Gesù non solo con i titoli di «Cristo» e «Figlio di Dio», ma precisa che si tratta del «Figlio del Dio vivente» (cfr. Mt 26,63‑64). Tramite ciò Matteo riprende la prima professione di fede di Pietro dopo la camminata sulle acque: «davvero tu sei Figlio di Dio» (Mt 14,33), ma insieme anticipa la domanda solenne del sommo sacerdote: «ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio», alla quale Gesù risponde soltanto «tu l’hai detto» (Mt 26,63‑64); con ciò, soprattutto, viene annunciato il riconoscimento pressoché involontario da parte del centurione e di coloro che «osservavano da lontano» la morte di Cristo: «davvero costui era Figlio di Dio» (Mt 27,54-55). L’identità qui riconosciuta a Gesù rompe con i significati di origine vetero e inter testamentaria fino allora messi in competizione (e ricordati in Mt 16,14) per passare, in un colpo solo e per la prima volta, a un significato che è già direttamente riferito trinitariamente al Padre (cfr. Mt 28,19). Che cosa riesce a fare Pietro, con quanto dice? Nulla di meno che la rottura della differenza essenziale, la realizzazione di una frattura epistemologica: attraversare lo scarto tra i punti di vista sul mustêrion, passare da un’interpretazione (quella degli uomini del mondo, che vi vedono un falegname, un profeta redivivo, un discendente di Satana o un pazzo furioso) a quella che spera e attende Gesù, «il Cristo, il Figlio del Dio vivente». In breve: Pietro realizza l’anamorfosi per antonomasia richiesta dal mustêrion, il fenomeno saturo per antonomasia. Si può quindi comprendere la grande gioia di Cristo che realmente «esulta di gioia (hêgalliasato)» (Lc 10,21)33, di una «gioia» già menzionata in un altro passaggio redazionale, quello della parabola della scoperta del tesoro in un campo: «pieno di gioia (apo tês kharas)» (Mt 13,44) colui che lo trova vende tutto

33.  «La grande giubilazione di Mt 11,27/Lc 10,22» (ivi, p. 330).

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per acquistare quel campo. In Matteo questa gioia esplode già in una pericope anteriore alla confessione di Pietro, ma direttamente orientata all’apokalupsis: «in quel tempo Gesù disse: “Ti benedico (exomologoumai), o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste (ekrupsas) queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai s-coperte (apekalupsas) ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato (paradothê) dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia s-coprire (apokalupsai)”» (Mt 11,25‑27). Perché un tale giubilo? Non solo perché Pietro, con la sua professione di fede, realizza infine e per primo l’anamorfosi che Gesù attende già dall’inizio della predicazione del Regno di Dio in Galilea e al di là di essa, ma perché questa anamorfosi non dipende solo né innanzitutto da ogni uomo – che pure deve realizzarla – e neppure da Gesù, che deve comunque chiederla in tutte le direzioni, ma della grazia del Padre. Ciò è confermato dalla menzione della «carne e del sangue» (Mt 16,17), giacché quanto proviene «non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo» viene «da Dio» (Gv 1,13); quanto non è «dato dalla carne e dal sangue» proviene dalla «sua grazia [per] svelare (apokalupsai) a me suo Figlio» (Gal 1,15‑16). Pietro diventa il prototipo del discepolo non solo perché arriva a confessare «il Figlio del Dio vivente», ma perché non vi giunge da sé, in quanto ciò gli è donato dalla grazia e dalla volontà del Padre, quindi dallo Spirito Santo. Se Pietro – unico tra i discepoli in tutto il Nuovo Testamento – riceve una benedizione individuale e personale da parte di Cristo (Mt 16,17), per Gesù stesso ciò corrisponde a una grazia del Padre. Lui, Gesù, il Cristo, vede, in un certo senso senza avervi niente da fare, che alcuni uomini arrivano a definire la decisione di accogliere il dono del Padre, così come fa lui, sempre e perfettamente. Questa ricezione del dono del Padre può avvenire solo a partire dal Padre stesso, come Gesù sa per

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esperienza. Il riconoscimento che Pietro fa di Gesù come «il Cristo, Figlio del Dio vivente» per Gesù stesso corrisponde a un dono del Padre, una risposta del Padre all’attesa di Gesù, proprio come la «voce» al momento del battesimo, al momento della Trasfigurazione e al Tempio.

La professione di fede come benedizione Qui, però, potrebbe sorgere una domanda: ciò che Pietro scopre con la sua professione di fede, glielo fa s-coprire il Padre? La risposta adeguata a tale questione potrà essere solo trinitaria e fenomenica o, piuttosto, fenomenicamente trinitaria (infra, capp. 17‑18), ma già da questo momento vi si può riconoscere una mancanza. Innanzitutto, dal momento che la s-coperta della filiazione di Gesù, ormai riconosciuto come «il Cristo, Figlio del Dio vivente», implica che nulla separi il Padre dal Figlio, perché «tutto mi è stato dato (paradothê) dal Padre» (Mt 11,27)34, poi, soprattutto, perché la disposizione a ricevere caratterizza i «piccoli» e i «poveri» come se, dal punto di vista di Dio, fosse un loro privilegio. Infatti, solo loro dispongono di una capacità teologale proporzionale all’incapacità sociale: non possedendo la potenza non conoscono ciò che essa permette, quindi ignorano la perseveranza in sé e per sé: sanno, o almeno possono non ignorare ciò che riguarda l’altrove – sanno cosa vuol dire 34. Cfr. Lc 10,22, cosa che risulta dal fatto che «io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), di conseguenza «tutto quello che il Padre possiede è mio, panta osa ekhei o patêr ema estin» (Gv 16,15), «tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, ta ema panta sa estin kai ta sa ema» (Gv 17,10, letteralmente anche in Lc 15,31). La supposta mancanza di comunicazione tra i sinottici e Giovanni, per quanto rimanga ancor oggi quasi un dogma, appare fragile in molti punti.

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altrove perché ne dipendono quotidianamente. Quello che è chiamato macarismo di Gesù nei confronti di Pietro «beato te (ei), Simone, figlio di Giona» (Mt 16,17), infatti, corrisponde al prolungamento e all’esemplificazione in un caso concreto della prima beatitudine: «beati i poveri in spirito, perché di essi è (estin) il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il tempo presente del verbo (il solo caso in tutte le beatitudini)35, infatti, si verifica nel presente della confessione di Pietro, che corrisponde proprio a uno dei poveri di spirito che sono beati. Questa s-coperta, che deve venire da altrove, all’occorrenza dallo Spirito Santo e quindi dal Padre, si rivela impossibile per tutti coloro che sanno e che credono di saperne abbastanza da (non) decider(si), coloro che vogliono sapere solo a condizione di restare nella loro sapienza, che rimangono nella zona di sicurezza del loro punto di vista; la s-coperta, al contrario, diventa possibile per i «piccoli (nepoi)», coloro che sanno di non avere alcuna sapienza propria da opporre all’apokalupsis. Quest’ultimo momento diventa assolutamente decisivo: solo un «piccolo» – e lui per primo – arriva a compiere l’anamorfosi; ciò significa passare dai conferimenti di senso che si (da parte della «gente», di tutti) usano per identificare Gesù («Giovanni il Battista, Elia, Geremia o uno dei profeti») alla questione che identifica non solo Gesù, ma anche coloro che vi risponderanno, i discepoli («e voi, chi dite che io sia?»); significa che forse alla fine uno dei discepoli passa al punto di vista del Padre (della «voce» venuta dai cieli) su Gesù. Tuttavia, è proprio ciò che riesce a fare Pietro o, piuttosto, ciò che Pietro lascia che si faccia in lui. Primo tra tutti gli uomini, egli ha risposto giusto (si potrebbe dire musicalmente): «tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Egli percepisce, per primo, la s-coperta (apokalupsis) del mustêrion, in quanto si lascia posizionare nel luo35.  Confermato da Lc 6,20: «beati voi, poveri, perché vostro (êmeteran) è (estin) il Regno di Dio» (al presente).

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go stesso della sua fenomenizzazione, il sito trinitario aperto dallo Spirito tra il Padre e il Figlio. In risposta Gesù conferma questa realizzazione trinitaria e la nomina come tale: «questa s-coperta non ti è arrivata (ouk apokalupsen) né dalla carne, né dal sangue, ma dal Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17). Il primato di Pietro – che comunque subito dopo tenterà Gesù (Mt 16,23 e Mc 4,13) e più tardi tradirà la Resurrezione e la capirà più lentamente rispetto a Giovanni (Gv 20,8) – qui si decide definitivamente; esso riguarda unicamente il privilegio di aver professato per primo l’identità di Gesù come Figlio del Padre, di aver per primo saputo e potuto lasciarsi introdurre nel sito in cui la s-coperta diventa visibile e sopportabile da uno sguardo umano. Per questo motivo in cambio riceve il suo autentico nome proprio, quello che è visto ed è dato a partire dal punto di vista di Cristo – Pietro36. Rimane tuttavia un’ultima questione: se, confessando adeguatamente Gesù come Cristo, per la prima volta per un uomo Pietro realizza la s-coperta, allora perché Gesù raccomanda il silenzio agli altri discepoli (Mt 16,20; cfr. Mc 1,34 e Mc 9,9; Lc 8,56 e Lc 9,21)? Perché mantenere il «segreto messianico» (tanto più che molto frequentemente viene trasgredito)? Se non ci si vuole impantanare in incerte discussioni filologiche, 36.  Nome o cognome già menzionati in Mt 10,2, «Simone, detto Pietro». Verosimilmente il nome di famiglia Bar Jonah non rimanda al profeta Giona, ma a Yohanan, Giovanni. Il gioco di parole Pietro/pietra funziona tanto in greco (petra) quanto in aramaico (kepha) e probabilmente consacra un soprannome popolare «testa di pietra, rocky». Ma ormai si tratta della pietra angolare evocata da Is 51,1 ss. e dal Sal 118,12, applicabile innanzitutto a Cristo (1Cor 3,11), poi, sulla base della «pietra d’angolo» di Cristo, al «fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2,20), quindi al «fondamento della chiesa nei cieli» (Mt 16,16). Questo «fondamento (themelion)» evoca la roccia sulla quale il discepolo praticante costruisce la sua casa (Lc 6,48). Quanto al dibattito per sapere se il potere delle chiavi e la promessa di indistruttibilità della «chiesa» (Mt 16,18) si legano alla funzione di Pietro o alla sua persona singola, ha senso solo se si distingue l’una dall’altra, fatto che resta discutibile.

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ma si vuole cercare di seguire la logica della s-coperta, allora sembra che si imponga una risposta: anche dopo la Trasfigurazione e soprattutto in seguito alla Trasfigurazione, quando Pietro «non sapeva che cosa dire» (Mc 9,6), i discepoli non devono divulgare ciò che non possono ancora realizzare né comprendere, quindi non lo possono far conoscere a persone che, meno ancora, potranno mai farlo. Una conferma evidente proviene nuovamente dalla reprimenda di Cristo a Pietro: per quanto sia la pietra che sorregge la comunità di tutti coloro che, tramite lo Spirito, realizzeranno in loro la s-coperta, Pietro diventa subito la pietra d’inciampo e di «scandalo» e si fa trattare da «Satana» perché rifiuta l’idea che il Figlio dell’uomo debba subire la passione e morire a Gerusalemme (Mt 16,23; cfr. Mc 8,33). Gli annunci della passione furono mal ricevuti dai discepoli (il primo è qui in Mt 16,21 ss.) e addirittura rigettati (almeno nel caso del secondo, del quale «furono molto rattristati» Mt 17,23). Come Pietro, i discepoli si trovano in una situazione strana e instabile: hanno capito bene quale sia il conferimento di senso corretto, necessario per vedere Gesù come «Cristo», «Figlio del Dio vivente», ma non ne comprendono ancora il significato, cioè che per resuscitare egli debba soffrire e morire a causa dei peccatori; non capiscono che soltanto così si realizzerà la s-coperta, la completa apokalupsis. Essi hanno raggiunto nel modo corretto il conferimento di senso, ma non l’hanno ancora compreso nel modo giusto, manca loro ciò che solo l’evento ancora con difficoltà gli farà concepire: il gioco trinitario della filiazione implica che Gesù rimanga o divenga il Figlio «sino alla fine (eis telos)» (Gv 13,1), quindi che arrivi alla morte per ricevere la sua vita secondo la modalità del dono, soltanto dal Padre (Gv 10,18). Nessuno può arrivare a questa s-coperta se non Cristo in persona37.

37.  Paradossalmente, davanti alla confessione matteana di Pietro, anche l’esegesi più critica deve concedere, non fosse che a bassa voce che «sot-

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Ora è dunque possibile rispondere alla seconda questione, relativa a come si s-copra ciò che si dà: ciò che si mostra si dà al modo di un’anamorfosi, di uno spostamento del punto di vista sul mustêrion del testimone, di un superamento della frattura epistemologica – che fa vedere Gesù come «il Cristo, Figlio del Dio vivente», che lo fa mostrare come si dà, Figlio dal punto di vista del Padre. «Tutto mi è stato dato (paredothê) dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vorrà s-coprire (apokaluphthai)» (Mt 11,27) oppure «ogni cosa mi è stata data in mano (paredothê) dal Padre mio; e nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre; né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia s-coprirlo (apokaluphthai)» (Lc 10,22). Ci troviamo già al cospetto della parola giovannea: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui [per noi] ne ha fatto l’esegesi» (Gv 1,18).

tostante a Mt 16,18 c’è forse una parola autentica» (G. Claudel, op. cit., p. 373).

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14 Il «mistero» – di chi? (Giovanni)

Seguendo la logica dello s-coprimento è ormai possibile affrontare la terza questione, che vuole sapere non più ciò di cui c’è s-coprimento (supra, cap. 12), né come si opera (supra, cap. 13), ma infine ciò che vi si s-copre (cap. 14). Esaminando attentamente il fatto che il mustêrion si rivela (s-copre) dandosi, si dovrà precisare il nocciolo della questione: non si tratta solo di ciò che si scopre, ma ultimamente di colui che può darsi perfettamente, quindi si tratta di determinare chi (tis) è colui che chiede: «la gente, chi dice che io sia (tina me)?» (Mc 8,27; cfr. Mt 16,13 e Lc 9,18). Il vangelo di Giovanni, che non fa eco letteralmente a questa domanda, tuttavia consente di rispondervi in modo più diretto di quanto non lo facciano i sinottici, perché penetra più a fondo l’identità di Gesù, fino a manifestare il suo statuto trinitario di Figlio del Padre.

Lo spostamento dello s-coprimento Indichiamo una difficolta proseguendo in questo percorso: Giovanni non menziona il principio di scoprimento nei termini espliciti dei sinottici, innanzitutto di Matteo: «nulla vi è

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di nascosto (kekalummenon) che non sarà s-coperto (ho ouk apokaluthêsetai, revelabitur), né di segreto (krupton) che non sarà conosciuto (ho ou gnôsthêsetai)» (Mt 10,26, cfr. Mc 4,22 e Lc 8,17, supra, cap. 13). Dove si potrà trovare lo stesso l’equivalente dell’apokalupsis? La difficoltà è confermata nuovamente se si nota che in Giovanni il principio di s-coprimento non trova realizzazione nella confessione di Pietro, come in Matteo («né carne né sangue te lo hanno rivelato (ouk apekalupsen), ma il Padre mio che è nei cieli» Mt 16,17). Certo questa confessione accade anche in Giovanni: «gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,68-69), ma Gesù non la saluta con una benedizione né con un rallegramento, al contrario annuncia il tradimento di Giuda denunciando che «uno di voi è un diavolo» (Gv 6,70). Pertanto, il principio di s-coprimento e la professione di fede che lo realizza sembrano totalmente assenti. Ciò è tuttavia soltanto un’apparenza, innanzitutto perché la confessione di Pietro, al termine dello «scandalo» (Gv 6,61) provocato dalla «parola dura» (Gv 6,60) sul pane di vita, vale come un riconoscimento esplicito di Gesù come Cristo («noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio, ho hagios tou theou» Gv 6,69) o, più ancora, secondo una variante solidamente attestata («tu sei il Figlio del Dio vivente, ho uios tou theou tou zôntos»), riprende esattamente la formulazione che Pietro usa secondo Matteo («tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», Mt 16,16), la stessa che userà il sommo sacerdote (Mt 26,63). Così, in Giovanni Pietro confessa Cristo letteralmente con la stessa formulazione usata in Matteo e con pari nettezza. Dove si trova quindi lo scarto con Matteo e da dove viene la reticenza di Giovanni a invocare il principio di s-coprimento? La questione si complica ulteriormente se si riconosce un’evidenza contraria: contrariamente ai sinottici Giovanni ha la particolarità di menzionare numerose professioni di fede in

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Gesù molto prima di quella di Pietro, in modo tale che la s-coperta continua a realizzarsi. Citiamo i casi più stupefacenti: innanzitutto Giovanni il Battista riconosce che «questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34) e «l’agnello di Dio» (Gv 1,36), poi Andrea riconosce di aver «trovato il Messia – che si traduce Cristo» (Gv 1,41), come fa subito Filippo: «abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret» (Gv 1,45) e poi Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1,49), Nicodemo non esita più a lungo: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro» (Gv 3,2). Non si tratta però solo dei discepoli o dei quasi-discepoli che «hanno creduto in lui» a partire dal primo miracolo di Cana (Gv 2,11) perché, dopo la prima salita a Gerusalemme, «molti» altri «credettero nel suo nome» (Gv 2,23). Così la Samaritana (Gv 4,25‑26) e gli abitanti del suo villaggio, che «alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”» (Gv 4,42). Ugualmente, anche il funzionario del re «credette con tutta la sua famiglia» (Gv 4,53) e dopo la confessione di Pietro si succedono ancora altre professioni di fede: «molti credettero in lui» (Gv 7,31; Gv 10,42; Gv 11,45) a causa dei segni; il cieco nato, che «disse “Credo”» ne fornisce l’esempio più preciso (Gv 9,38). Bisogna quindi concludere che la difficoltà non proviene dalla confessione, nella misura in cui di fatto succede con frequenza. Ma allora, da dove proviene? Dal fatto che si tratta di pronunciare la professione di fede e, anche, di sapere ciò che significa realmente, il valore che ha nel fondo del cuore di coloro che la pronunciano dal momento che ogni volta che alcuni della folla credono e confessano a causa dei «segni», altri (i farisei, i “Giudei”), nello stesso momento e di fronte agli stessi segni di cui non mettono in dubbio l’autenticità, non credono. La questione, quindi, non riguarda soltanto né in primo luogo la

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differenza tra coloro che credono e confessano e coloro che non credono ma, più radicalmente, ciò che realmente credono coloro che credono e ciò che realmente confessano coloro che confessano. Forse è da intendere così la curiosa e in un certo senso sorprendente osservazione del redattore a proposito della riserva di Gesù nei confronti di coloro che «vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome» (Gv 2,23): «non si fidava (ouk episteuen) di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza (marturêsê) sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,24). Non solo l’uomo non può non confessare, ma, quando confessa, può anche non sapere ciò che confessa o ciò che significa la sua confessione; può anche non sapere fino a quale punto crede ciò che confessa, o ignorare ciò che vuol dire ciò che dice – come nel caso di Pietro al momento della Trasfigurazione, che «non sapeva che cosa dire» (Mc 9,6). Infatti, l’uomo non sa cosa dire perché non sa neppure chi sia e lo sa ancor meno quando deve decidersi a dire chi è colui che gli parla, Gesù1. Semplificando, si potrà dire che i sinottici fanno coincidere lo s-coprimento con la confessione (donde la funzione primaria della professione di fede di Pietro, paradigma di tutte le altre), mentre Giovanni sperimenta e spiega che nessuna confessione umana di Gesù come Cristo è sufficiente, in quanto tale, per realizzare lo s-coprimento, perché pronunciare da sé i significati della confessione non consente ancora di sapere 1.  Per capire questa riserva di Gesù rispetto all’effetto dei suoi segni non c’è alcun bisogno di immaginare, seguendo Bultmann, una ricostruzione laboriosa e arbitraria di Giovanni a partire da una supposta «fonte semeia», in seguito corretta con una collezione proto-gnostica di discorsi apocalittici. Qui il punto è che i segni non permettono ancora, o, meglio, che in quanto tali non permetteranno mai, lo s-coprimento (l’apokalupsis), anche e soprattutto se segnalano chiaramente che il momento dello s-coprimento (o della sua negazione) è venuto, che l’ora della crisi è al presente.

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ciò che si dice, di comprendere questi significati e soprattutto di vedere ciò che vi mirano. In questo senso la realizzazione della professione di fede fa emergere la vera difficoltà, in quanto manifesta ciò che ciascuno intende e può comprendere dei conferimenti di senso che mette in atto; dunque svela più «ciò che c’era nell’uomo» che li dice rispetto a ciò a cui essi mirano e che, il più delle volte, l’uomo non vede ancora; di fatto, potrà cominciare a intravvederli solo a partire dall’evento pasquale. Da sola la professione di fede non è sufficiente a manifestare in verità ciò che comunque già si s-copre. Non è sufficiente confessare «veramente (alêthôs)»2 Gesù come «Messia», «Rabbi», «re d’Israele», «Santo di Dio», «Figlio di Dio», «Figlio dell’Uomo» o «salvatore del mondo» per comprendere e per sapere ciò che si dice, ancora meno per vederlo apertamente. Per giungervi bisognerà intendere tutti questi titoli come sono intesi e realizzati da Gesù, bisognerà cioè intenderli a partire dal Padre, quindi riceverli come e tramite la volontà del Padre. Per i discepoli questa difficoltà cruciale rimarrà fino a Pentecoste: sicuramente per Tommaso («Mio Signore e mio Dio», Gv 20,28), che non solo deve imparare a vedere per credere, ma a credere per vedere, ma lo stesso vale per Pietro, che ha ancora bisogno di Giovanni per riconoscere il Risorto (Gv 21,7) e finisce per comprendere solo all’ultimo momento ciò che vuol dire amare (agapein/philein, Gv 21,15‑17) – anche se l’«ora» (Gv 17,1) pasquale aveva permesso a Gesù di dire, per prolessi, che «ora (nun) essi [sc. i discepoli] sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te» (Gv 17,7, cfr. Gv 17,25‑26). 2.  Vedere «veramente», giustapposto ai titoli applicabili a Gesù in Matteo (Mt 14,33; Mt 27,54) e Marco (Mc 15,39), che confermano Giovanni (Gv 4,42; Gv 6,14; Gv 7,26). L’autentico «veramente, alêthôs» interviene però solo quando Cristo in persona lo riconosce agli apostoli: «le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17,8).

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Si può quindi capire meglio che il principio di s-coprimento (Mt 10,26; Mc 4,22 e Lc 8,17) qui non può più imporsi come primo principio, senza condizioni. Infatti, poiché di fatto è possibile vedere senza credere («vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete» Gv 6,36), bisogna pur ammettere che una visione in piena luce non decide ancora dello s-coprimento (supra, cap. 10). Quindi non ci si stupirà se il testo di Giovanni più prossimo al principio di s-coprimento dei sinottici paradossalmente è attribuito a coloro che non credono e che, per questa medesima ragione, consigliano a Gesù di andare a compiere segni ancora più visibili sulla scena di Gerusalemme, per farsi riconoscere apertamente: «i suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli [sc. della Giudea e di Gerusalemme] vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente (en parrêsia), agisce di nascosto (en kruptô). Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo! (phaneroson seauton tô kosmô)”. Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui» (Gv 7,3‑5). I «fratelli» sono dei falsi fratelli che non fanno la volontà di Dio (Mc 3,35), ma si immaginano di ottenere uno s-coprimento compensando la loro mancanza di fede con la visibilità mondana. Infatti, essi sono un’anticipazione dei curiosi che, davanti a Gesù in croce, per sfida, ma anche per logica mondana, gli lanciano: «salva te stesso (sôson seauton)» (Lc 23,39). Quindi, non c’è da stupirsi se Gesù, che pure più tardi rivendicherà di non aver mai «detto nulla di nascosto (en kruptô)», ma di aver sempre «parlato apertamente (en parrêsia)» (Gv 18,20), e che Paolo affermerà che «ciò non è stato fatto in un angolo (en gônia) [in segreto]» (At 26,26), qui rifiuti quella rozza messa in scena, organizzata in un posto pubblico per farlo passare come un oggetto: allora «salì [sc. a Gerusalemme] anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto (en kruptô)» (Gv 7,10), non per farsi acclamare e per farsi vedere, ma per vedere il Padre pregandolo. Questo ri-

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fiuto riposa su un criterio decisivo, cioè la sua temporalità, la sua opportunità: «il mio tempo (ho kairos ho emos) non è ancora venuto (oupô parestin), il vostro tempo invece è sempre pronto (etoimos)» (Gv 7,6). Infatti, non si può organizzare il momento dello s-coprimento secondo la volontà umana, non più di quanto si «organizza un evento» (ossimoro!) nel mondo. Esso adviene a suo tempo (kairos), un tempo che non dipende da noi, ma sorge da altrove – dalla volontà del Padre. La manifestazione dello s-coprimento non solo non proviene dall’organizzazione mondana ma non proviene neppure dalla decisione di Gesù: essa adviene a Gesù a partire dal Padre, come a suo Figlio. Lo s-coprimento del Figlio, di Gesù come Figlio del Padre, dipende dal Padre e da lui solo, «quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Il criterio temporale della visibilità si approfondisce in un criterio trinitario dello s-coprimento, che assume, esso ed esso solo, il ruolo di un principio primo (infra, capp. 15‑18). Di questo rovesciamento sono testimonianza i dibattiti che seguono al primo rifiuto di Gesù di dare spettacolo di sé al Tempio, dal momento che «alcuni abitanti di Gerusalemme» (Gv 7,25) constatano che, malgrado la sua venuta nascosta, Gesù vi «parla liberamente (en parrêsia)» (Gv 7,26), arrivando a sospettare che i «capi» lo lasciassero fare perché «avevano riconosciuto (egnôsan) che egli è il Cristo» (Gv 7,25‑26). Tuttavia, un contro-argomento impediva di riconoscere Gesù come Cristo, la sua supposta origine: «sappiamo di dov’è (oidamen pothen estin), il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia (oudeis gignôskei pothen estin)» (Gv 7,27‑28). Di qui il dibattito relativo alla provenienza di Gesù: «alcuni fra la gente dicevano: “Costui è davvero il profeta!”. Altri dicevano: “Costui è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?” (Mi 5,1).

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E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui» (Gv 7,40‑43). Questa divisione (schisma) maschera ancora la questione di fondo, perché se gli abitanti di Gerusalemme ignorano Gesù come Cristo, non è soltanto né dapprincipio perché non hanno informazioni corrette relative alla sua nascita «a Betlemme di Giudea» e immaginano che sia nato a Nazaret, in Galilea, ma soprattutto perché tutti assumono di «sapere» bene che la sua origine è sulla terra, in questo mondo, in breve che, come tutti gli altri uomini, proviene dagli uomini. Da dove traggono questa certezza? La folla e i farisei invocano di fatto la Scrittura (Gv 7,43) e la Legge (Gv 7,49) per attribuirsi la posizione di soggetti che si suppone sappiano. Qui tutti sanno e sanno di sapere (gignôskein, Gv 7,26; eidenai, Gv 7,27-28; didaskein, Gv 7,28) e Gesù denuncia la loro illusione: «certo, voi mi conoscete e sapete di dove (pothen) sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete (on humeis ouk iodate)» (Gv 7,28). Infatti, se ci si attiene alle Scritture, o meglio alla loro interpretazione secondo un sapere certo, all’altezza dell’uomo, la questione può essere risolta: «studia!» (Gv 7,52) le Scritture, cade su Nicodemo. Tuttavia, c’è qualcosa, o piuttosto qualcuno, che è ignorato da tutti, l’origine (pothen estin) di Gesù come Cristo non risiede né a Betlemme, né a Nazaret (neppure a Gerusalemme! Gv 4,21), ma nell’altrove del Padre. Il conferimento di senso non si riassume in tale o talaltro titolo che verrebbe riconosciuto a Gesù e che sarebbe sufficiente per confessarlo correttamente e come tale; l’adeguamento della confessione, in ultima istanza, non dipende da tale o talaltro significato, ma dal rinvio di ogni conferimento di senso – di per sé inadeguato – a ciò che insieme lo qualifica e lo squalifica, cioè l’altrove che apre al Padre e ne proviene. Detto altrimenti: il conferimento di senso deve venire dall’alto, perché il suo adeguamento non può che venirgli da altrove: «chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete (on humeis ouk oidate)» (Gv 7,28). L’ori-

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gine segreta di Gesù, quella che fa di lui un Figlio, si trova nel mustêrion, il Nome del Padre.

Lo s-coprimento «dall’alto»: Nicodemo Il conferimento di senso corretto, quindi, non è situato in nessuno di quelli che alla lettera potrebbero essere conosciuti adeguatamente, ma nella sua localizzazione “veridica”, il suo rinvio alla profondità del Padre che lo dà: vengo da altrove rispetto a me stesso. Ciò è quanto Nicodemo, invano, ha tentato di far ammettere ai farisei (Gv 7,50-52) e dal momento che lui stesso aveva dapprima ascoltato Gesù (Gv 3,1-21) non si è arrischiato davanti a loro. Ormai il dialogo di Nicodemo con Gesù è leggibile retrospettivamente3: consiste in tre interrogativi di Nicodemo, ai quali vengono articolate tre risposte di Gesù; ciascuna è introdotta dal doppio amen, amen proprio di Gesù in Gv (qui 3,3; 3,5 e 3,11), che trasferisce la posizione di maestro insegnante da Nicodemo a Gesù (3,2 e 3,10) e per tre volte toglie l’interdetto dell’im-possibile, «come può avvenire questo?» (Gv 3,9, dopo 3,2; 3,4 e 3,5).

3.  Qui dipendiamo, tra gli altri, da I. de la Potterie, “Naître de l’eau et de l’esprit”. Le texte baptismal de Jn 3,5, in «Sciences ecclésiastiques», n. 14, 1962, pp. 417-443 (ripreso in S. Lyonnet - I. de la Potterie [éd.], La vie selon l’Esprit. Condition du chrétien, Cerf, Paris 1965; tr. it., La vita secondo lo Spirito, AVE, Roma 1967, pp. 35-74), che sposta il dialogo dalla sua tardiva interpretazione sacramentale verso la questione dello Spirito e da M. de Jonge, Nicodemus and Jesus: some observations on misunderstanding and understanding in the Fourth Gospel, in «Bulletin of the John Rylands Library», n. 53, 1971, pp. 337-359: p. 359, che descrive con precisione lo scarto tra i significati detti e la loro non comprensione: «l’incomprensione non corrisponde a una comprensione incompleta o poco accurata, ma rivela una fondamentale mancanza di comprensione».

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Nel primo momento Nicodemo viene a visitare Gesù, sebbene dissidente (è venuto di nascosto e di notte) di fatto egli rappresenta un «capo, archôn» dei Giudei (Gv 3,1), non appartiene (o non appartiene ancora) al numero dei discepoli4, ma riconosce a Gesù quella minima dignità concessagli dagli altri farisei: è un «maestro», come confermano i segni che compie (Gv 3,2), ma la coincidenza tra il suo insegnamento d’autorità (parrhêsia) e la potenza (exousia) che lo conferma, quando si incontrano, costituisce proprio il motivo della loro disputa: «come è possibile» che Dio sia con lui, mentre sembra proprio che contraddica la Legge (Gv 3,2)? Il dibattito porta infine sul punto relativo alla conoscenza di chi, in questo caso, insegnerà all’altro: sarà Gesù, che Nicodemo ha salutato a minima come «maestro, didaskalos» (Gv 3,2), o sarà Nicodemo, al quale Gesù rimanda ironicamente il complimento «tu sei maestro, didaskalos, in Israele e non conosci queste cose?» (Gv 3,10)? Ora, la prima risposta di Gesù modifica radicalmente la questione, spostata dall’insegnamento all’origine di colui che dona tale insegnamento: «se uno non nasce dall’alto (anothen), non può vedere (ou dunatai idein) il Regno di Dio» (Gv 3,3). Più ancora, non si tratta più soltanto di insegnare, ma di vedere; meglio, non si tratta più di vedere, ma della possibilità di vedere: la possibilità di vedere dipende dalla possibilità (o non possibilità) di «nascere dall’alto, anothen». Rinviando Nicodemo alla visione del «Regno di Dio» (utilizzo esclusivo in Giovanni, qui in accordo con i sinottici), Gesù lo rimanda all’ultima cesura, alla frontiera tra il possibile e l’impossibile: o appartiene al mondo e comprende tutto dal suo punto di vista, o tutto viene concepito «dall’alto», detto altrimenti da altrove. 4.  Quando Giuseppe d’Arimatea ottiene da Pilato di seppellire il cadavere di Gesù, viene qualificato come «discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei» (Gv 19,38). Questo vale anche per Nicodemo, menzionato appena dopo come «quello che in precedenza era andato da lui [sc. Gesù] di notte» (Gv 19,39)?

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La questione della gerarchia tra due «insegnanti» scompare, emerge la questione dell’impossibile e dell’altrove. Nel secondo momento Nicodemo tenta di concepire questo «in alto» ma ci riesce (o piuttosto non ci riesce) solo comprendendolo a partire dal mondo: egli intende anothen temporalmente, nel senso di nascere «una seconda volta (deuteron)»5, cioè di ritornare nel seno della propria madre e uscirne di nuovo tramite una sorta di palingenesi. Nascere dallo Spirito però non significa diventare un born again6, avere la «possibilità di entrare (eiselthein eis) nel Regno di Dio» (Gv 3,5) non consiste nel rinascere (ancora, una seconda volta) ma nel nascere per la prima volta «dall’alto, anothen»; detto in altro modo, di nascere finalmente e per la prima volta da altrove. Ciò non ha nulla «di stupefacente (thaumazô)» perché, nonostante non sappiamo «da dove viene (pothen erkhetai)», né «dove (pou) va» possiamo «sentire la voce del vento» dello Spirito (Gv 3,7‑8). La nostra ignoranza della provenienza e della direzione del soffio dello Spirito non significa che lo Spirito non soffi ma conferma e attesta che soffia proprio da altrove; 5.  Certamente questa distensione temporale si ritrova in Gal 4,9 (palin anôthen, iterum), ma si tratta di «ricadere nella schiavitù» del peccato, e non di nascere dallo Spirito. In Gv 19,11 il potere di Pilato proviene «dall’alto, anothen» ed evidentemente non «di nuovo» (cfr. M. de Jonge, op. cit., pp. 347 ss. e H. Leroy, Rätsel und Mißverständnis: ein Beitrag zur Formgeschichte des Johannesevangeliums, Hanstein, Bonn 1968, pp. 124‑136). M. Michel, Nicodème ou le non-lieu de la vérité, in «Revue des sciences religieuses», n. 55, 1981, pp. 227-236: p. 232, dimostra perfettamente che la «persona e l’opera di Gesù superano il sapere teorico di Nicodemo: per percepirlo bisogna essere posizionati altrove, questo luogo altro dove il sapere procede dal vedere e dall’appartenenza. L’errore di Nicodemo consiste nel non essere là dove si può vedere e, di conseguenza, sapere; il luogo della verità risulta essere un non-luogo» (sottolineature nostre). 6.  Così traduce la Vulgata (Gv 3,3 e 7, denuo; Gv 3,4, iterato), scelta infausta seguita da Lutero (Gv 3,3, vom neuen; Gv 3,3 e 7, wiederum; Gv 3,4) e dalla King James per Gv 3,7.

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se noi sapessimo da dove e verso dove soffia non si tratterebbe dello spirito da altrove, ma di un fenomeno mondano, per così dire oggetto delle previsioni metereologiche. L’impotenza nella quale ci troviamo a sapere «da dove (pothen)» venga Gesù, analoga a quella delle folle della Galilea e di Gerusalemme, trova qui il suo senso e la sua portata: si tratta di una felix ignorantia, necessaria all’esperienza dell’altrove che non si s-coprirebbe come tale se conoscessimo la sua direzione. Iniziamo a riconoscere Gesù come tale unicamente quando riceviamo ciò che egli dice a partire dal suo luogo proprio: «so da dove (pothen) sono venuto e dove (pou) vado. Voi invece non sapete da dove (pothen) vengo o dove (pou) vado. Voi giudicate secondo la carne» (Gv 8,14). Questa ignoranza positiva, che sola apre l’altrove, forse permette anche di concepire, in un certo modo (ma forse non l’unico), che Cristo viene verso di noi partendo: «avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”» (Gv 14,28)7. La partenza, infatti, apre alla distanza da dove emerge l’altrove, quindi s-copre l’origine paterna di Gesù in quanto Figlio. In un terzo momento la rottura tra ciò che il mondo può comprendere e ciò che non può comprendere viene rimarcata dall’esclamazione di Nicodemo: «come può avvenire questo? (pôs dunatai tauta genesthai)?» (Gv 3,9), smarrimento che

7.  La Vulgata traduce letteralmente: «vado et venio ad vos», come pure Segon «Je m’en vais et je viens à vous», Osty, «et je viens vers vous», Chouraqui «je viens vers vous». Cosa che va comunque meglio del quasi controsenso di Lutero «Ich gehe hin und komme wider», della King James «I go away and come again to you», di Lemaître de Sacy «Je m’en vais et je reviens à vous», della Bibbia di Gerusalemme «Je m’en vais et je reviendrai vers vous» e de La Bible, Bayard, Paris 2001 «Je pars et je vous reviens» [in lingua italiana si segnalano la traduzione della versione CEI 2008 «vado e tornerò da voi», della versione CEI 1974 «vado e tornerò a voi», della Bibbia Nuova Riveduta «me ne vado, e torno da voi», della Bibbia Interconfessionale, «me ne vado, ma poi tornerò da voi» n.d.t.].

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ne anticipa molti altri, tra cui quello di Pilato «che cos’è la verità?» (Gv 17,38)8. Nicodemo non ha potuto cogliere che anôthen rinvia all’altrove dello Spirito, fuori dal tempo e dal mondo, fuori dal tempo del mondo (perché non ce n’è un altro); non ha inteso nient’altro che ciò che è indicato dal mondo, nascere «una seconda volta». Egli si espone anche all’ironia di Gesù, che si stupisce che un maestro della Legge non sappia ciò che ne è dello Spirito (Gv 3,10), stupore pari a quello dei «Giudei» che si meravigliano (éthaumazon) che Gesù «conosce le Scritture, senza avere studiato (oiden mê memathêkôs)» (Gv 7,15) o di quello del cieco nato a riguardo dei farisei: «proprio questo stupisce (thaumaston), che voi non sapete di dove (ouk oidate pothen) sia» (Gv 9,30). Diventa così patente che non c’è altra via per accedere all’altrove che l’altrove stesso: bisogna entrarvi in un colpo solo, per anamorfosi, come si entra in un circolo ermeneutico. Come corollario ne consegue un altro risultato: qui potrebbe essere trovato il motivo dell’assenza in Giovanni del ricorso alle parabole: «se vi ho parlato di cose della terra (ta epigeia) e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (Gv 3,12). Ogni parabola, infatti, suppone – come si è visto con i sinottici (supra, cap. 13) – una continuità tra il punto di partenza del racconto, che segue da vicino la quotidianità, e il suo punto di arrivo nell’altrove, che espone l’uditore alla sua decisione di interpretazione; qui emerge un’insuperabile soluzione di continuità tra le «cose della terra» e le «cose del cielo» e questa rottura netta e franca, che prende il nome di crisi («chi crede in lui [sc. il Figlio] non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato», Gv 3,18), quindi non permette più di procedere in parabole: non resta che procedere 8. Cfr. Mt 19,10 e Mt 19,25; Mc 10,26; Lc 18,26‑27. In questa confusione si può riconoscere «l’ermeneutica cristiana che si confronta con l’ermeneutica ebraica» (M. Michel, op. cit., p. 231).

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per paradosso9. Il primo di tali paradossi è enunciato senza ambiguità: nessuno può salire al cielo, se non colui che ne discende (Gv 3,13). Nessuno degli uomini della prima Alleanza (né Abramo, né Mosè, né Elia, né Enoch, né «il profeta») è riuscito a mostrare l’altrove, realizzando un’ascensione finale; solo «il Figlio dell’Uomo» (Gv 3,15) può aprire i cieli, perché lui ne proviene e ne proviene perché ne fa parte, a titolo di «Figlio unigenito» (Gv 3,16) dell’unico Dio, pertanto gli uomini saliranno al cielo solo guardando colui che ne proviene, come il popolo guardava il serpente eretto nel deserto da Mosè (Gv 3,14‑15). E quindi, come ultimo punto culminante, l’altrove consiste nel primo dono del Padre – nel doppio senso di un dono fatto dal Padre e di un dono che consiste nell’accesso al Padre. Questo dono proviene «dall’alto» come «ogni buon regalo e ogni dono perfetto» (Gc 1,17), ma ne proviene per antonomasia e per primo. Il Figlio viene da altrove come ogni dono del Padre, come la «sapienza dall’alto» (Gc 3,15 e Gc 3,17), come colui che è donato dal Padre («Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito», Gv 3,16). Quindi, poiché loro «sono una cosa sola» (Gv 10,30; Gv 17,11), il Figlio viene da altrove come lo stesso «Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16) che dona. Perché il Padre, nella misura in cui dona, s-copre il Figlio; e il Figlio, nella misura in cui si dona, s-copre il Padre. Pertanto, ricevere Gesù in quanto tale, cioè riceverlo come

9.  Grosjean lo vede perfettamente (anche meglio di quanto non riesca a formulare): «questo versetto [Gv 3,12] che legittima gli indispensabili sinottici è allo stesso tempo la soglia che li separa dal testo giovanneo. I sinottici hanno perlopiù riportato come più urgente e forse più accessibile la faccia terrestre della vita cristiana, ma Giovanni ha paura che si finisca per impantanarsi ed evocherà sempre la sorgente celeste di questa vita. Egli pensa che l’affascinante relazione tra il Padre e il Figlio ci risucchierà poco a poco nell’abisso in alto» (J. Grosjean, op. cit., p. 65).

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Cristo, significa riceverlo come da altrove, come l’altrove stesso del Padre. Per meno di questo – che il Figlio proviene dal Padre, appare solo a partire da lui e fa anche dono del donato, il Padre – egli non si s-copre.

Ricevere il pane venuto da altrove In molte occorrenze si può rintracciare il passo che bisogna compiere per accedere al Figlio a partire dalla semplice visione di Gesù, ma da nessuna parte si trova in misura uguale come nel «discorso del pane della vita», in merito al quale non stupisce che la maggioranza di coloro che l’hanno udito lo abbiano recepito come una «parola dura (skleros)» (Gv 6,60). Non si tratta di una difficoltà cognitiva: come sempre, tutti, a un certo livello, hanno compreso ciò di cui si trattava, ma proprio per questo motivo la maggior parte non lo accetta; essi comprendono quel tanto che basta da rifiutare con cognizione di causa: «voi mi avete visto (con i vostri occhi, eôrakaté), eppure non credete» (Gv 6,36). Quali tappe bisogna dunque superare per arrivare, come Simon Pietro, a confessare che «noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,69), stessa formula di quella dello spirito impuro in Mc 1,24? Ogni tappa, sotto l’apparenza di una questione teorica (una domanda di informazione, la soluzione di un’aporia, la replica a un argomento), consiste in una decisione più o meno volontaria per accostarsi oppure no al punto di vista di Gesù – il che implica innanzitutto di concepire questo punto di vista, quindi di accedervi. Nel primo momento (Gv 6,24 ss.) si riconosce la fame; per «la folla» si tratta di sapere quando Gesù sia arrivato a Cafarnao. Gesù corregge subito i termini della questione: la folla non lo cerca per ascoltare l’insegnamento che era appena stato quali-

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ficato dai «segni» (la moltiplicazione dei pani) ma unicamente per mangiare di nuovo a sazietà (Gv 6,26). Egli li esorta quindi a cambiare nutrimento, passando dal pane deperibile a quello che dà la vita eterna, dato dal Figlio dell’uomo. Il secondo momento consiste nel cambiare fame, quindi nel riconoscere e confessare la vera fame, arrivando a ripetere, a proposito del pane («Signore, dacci sempre questo pane», Gv 6,34), la discussione sull’acqua viva con la Samaritana («Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua», Gv 4,15)10. Infatti, se Gesù vuole farsi riconoscere come colui che porta il «sigillo» del Padre (Gv 6,27), dando il pane moltiplicato deve far finta di mostrare un segno che sia almeno pari alla manna che Mosè aveva procurato al popolo; tuttavia, Gesù rifiuta questo illecito paradigma mosaico, ristabilendo che la manna fu un dono del Padre e non di Mosè; il pane di Dio, quindi, discende da Dio e da Dio solo. Il terzo momento (Gv 6,35‑40) consiste nel riconoscere Cristo stesso come questo pane e questo nutrimento: «io sono il pane della vita» (Gv 6,35 e Gv 6,51). In quale senso e con quale diritto Gesù può pretenderlo? Nel senso che lui stesso è dato al mondo per salvarlo, dato dal cielo come la manna che dal cielo Dio dette al popolo. Ancora una volta, però, con quale diritto Gesù può pretendere di dare al mondo nientemeno che il pane di Dio e quindi di dare se stesso come dono di Dio? In modo tale che, se per un verso la sua volontà vuole solo quella del Padre («sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» Gv 6,38), per altro verso fare la volontà del Padre è sufficiente per nutrirlo («io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete […]. Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato», Gv 4,32 e 34, di10.  La menzione di «chi crede in me non avrà sete, mai» (Gv 6,35) conferma questa allusione.

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ceva ai suoi discepoli in Samaria); pertanto non solo Gesù si nutre della volontà del Padre, ma, poiché agisce «allo stesso modo» (Gv 5,19) di quella volontà, al punto che essa diventa il suo «pane quotidiano» (Mt 6,11), egli stesso è diventato questo pane. Egli dà il pane che lo nutre, l’unico pane nutriente e al quale si è assimilato – la volontà del Padre, da fare e da mangiare. Si può ormai riconoscere che cosa ostacoli la possibilità di accogliere questo discorso: se la maggior parte «ha visto, ma non ha creduto» (Gv 6,36), non è perché non hanno visto (essi hanno certo visto i segni e udito gli insegnamenti), ma perché non hanno voluto credere (quindi vedere) ciò che vedevano con i loro occhi – che Gesù non era colui del quale conoscevano «il padre e la madre»; non accettano che, senza che si capisca «come (pôs)» (Gv 6,42), egli non appartiene al mondo così com’è. Per dire il vero bisogna realmente credere che egli venga da altrove: «nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44, supra, cap. 9). Nessuno può vedere Gesù come tale, quindi come il Figlio, se non crede che egli viene dal cielo, ovvero che vive solo della volontà del Padre. L’ultimo momento (6,45‑59) trae l’ultima implicazione del fatto che Gesù (si) dona (come) «il pane di vita» (Gv 6,33): lo può (e lo è) veramente solo perché si riferisce esclusivamente al Padre, in modo che egli dona vita solo nella misura in cui compie la volontà del Padre e ne proviene. Egli dona «il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51) solo nella misura in cui discende (si potrebbe rischiare di dire in modo permanente) dal cielo, ha visto il Padre e non fa altro che essere tutt’uno con lui: «non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (Gv 6,46). Solo a questa condizione Gesù può rivendicare secondo verità di apparire come il Figlio e di donarsi come il pane di vita. Qui credere fa vedere, perché credere che Gesù dà il pane di vita a partire dal Padre, che discende dal Padre in quanto ne proviene, consente di ve-

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derlo in tutta la sua profondità. Il volto di Gesù non fa più da schermo allo sfondo visibile perché, se lo crediamo, possiamo vedervi l’opera della sua volontà che fa la volontà del Padre (e non la propria), una volontà altra che egli rende tanto più la propria quanto più desidera approssimarsi al Padre; secondo la profondità filiale il suo volto si apre sul «mistero» della volontà del Padre. Interpretando il volto di Gesù come quello di un figlio perfetto, come quello del Figlio, noi vi vediamo lo sguardo del Padre su di lui e dunque su di noi: «chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44); in questo modo, rapportandosi nella volontà di Cristo a quella del Padre, sulla faccia di Cristo si vede l’unico volto del Padre: «chi ha visto me, ha visto il Padre (eôrakos eme eôraken ton Patera)» (Gv 14,9). Il dibattito sul pane dato da Dio come cibo (la manna) al suo popolo e al mondo intero (il «pane della vita») tramite altrettante tappe ermeneutiche conduce a identificare dapprima il pane con Cristo, poi Cristo con la volontà del Padre come suo pane quotidiano; infine la profondità del volto di Cristo con la mira stessa del Padre, invisibile, ma mirabile [visable] e che guarda-in-volto [envisage]. Da quel momento la confessione finale di Simon Pietro, che riconosce Gesù come «il santo di Dio» (Gv 6,69), assume, in misura maggiore rispetto ai sinottici, tutta la sua ampiezza trinitaria: Gesù appare proprio come il Santo di Dio perché in lui nulla differisce, diverge o devia dalla volontà del Padre; nell’ottica di Giovanni si comprende anche meglio perché dopo la sua professione di fede in Mt 16,17‑20 Pietro si faccia rimproverare duramente e trattare da «Satana» (Mt 16,23). Quale errore ha commesso? Ha rifiutato l’annuncio che Gesù fa della sua passione: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai»11. Il suo errore consiste 11.  Mt 16,22. Sovra-traduciamo intenzionalmente ileôs soi, letteralmente «che ciò ti sia favorevole», come se si trattasse della formula estesa: ileôs soi

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quindi nel non accettare di considerare la passione (Mt 16,21) dal punto di vista del Padre e di considerarla dal punto di vista umano: la comprende solo come una morte atroce e ingiusta e non arriva a concepirvi la realizzazione assoluta e perfetta della volontà di salvare gli uomini facendo la volontà del Padre. Pietro rifiuta niente meno che l’atto vincitore di Gesù, la gloria del Figlio, quella di aver detto «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39 = 43) e di averlo realizzato, quindi egli merita chiaramente che Gesù lo tratti come un’occasione di scandalo (Mt 16,23), lui che pure giurerà che se «tutti si scandalizzassero (scandalisthêsontai), lui no» (Mt 26,33). Ciò che bisogna sapere – che Gesù appare come Figlio quando il suo volto si apre alla profondità del Padre – può essere visto solo credendo ed entrando in questa profondità.

Vedere il Figlio come lo vede e lo invia il Padre Ormai si può riconoscere da dove provenga la difficoltà della fenomenicità di Gesù: per vederlo come tale, come Cristo, bisogna passare attraverso una decisione ermeneutica. Ossia, quando si tratta di riconoscere Cristo come «pane della vita» senza eliminarlo come un ostacolo («questo vi scandalizza?» Gv 6,61 e Mt 16,23), bisogna superare lo scarto tra il punto di vista della carne (sarx), che «non giova a nulla», e quello dello Spirito (pneuma, Gv 6,63)12. Questo superamento implica uno estô o theos. Appare lo sfondo pagano, cosa che dà alla reazione di Pietro un tono di bestemmia. 12. In Mt 16,17 si trova lo stesso dilemma. Non è il caso di stupirsi che la «carne» di Cristo sia da «mangiare», ma che «la carne» degli uomini non lo comprenda. La prima costituisce la «vita» (Gv 6,51 ss.) e, quando il Verbo vi arriva (Gv 1,14), non ci arriva a partire da quella degli uomini («quello che è nato dalla carne è carne»), né dalla propria volontà, ma a partire dallo

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spostamento del punto di mira dello sguardo, abbiamo detto, punto di anamorfosi, dove l’anamorfosi è qui così radicale che nessun uomo può realizzarla da sé. Perciò occorre ammettere che solo Dio può concedere di compiere l’anamorfosi che conduce dal punto di vista umano fino a quello divino: «nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato, ekmusê auton, traxerit (Gv 6,44, supra, cap. 9), o ancora: «nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre, dedomenon autô ex tou patros» (Gv 6,65). Se solo il Padre può far vedere Gesù come il Figlio, che cosa può sperare l’uomo comune? Non si tratta forse di un circolo che si chiude in se stesso, per cui solo Dio concede di assumere il punto di vista di Dio, cosa che permetterebbe in cambio di vedere Dio fenomenizzarsi in Gesù? Evidentemente bisogna riconoscere in quanto appena detto un’aporia ma, al contempo, l’apertura del cammino. Possiamo infatti capovolgere l’obiezione chiedendo: se da sé l’uomo non può percorrere l’anamorfosi, cosa c’è di più logico che l’inferenza del cammino che potrà aprirsi proprio solo a condizione che gli provenga da altrove, dall’altrove da cui proviene, da ciò (all’occorrenza da colui) che l’anamorfosi consente di mirare? Di più: ogni anamorfosi implica sempre che sia percorso lo scarto non solo in vista di un punto mirato che all’inizio rimane inaccessibile a causa del punto inizialmente mirato; essa percorre questo scarto solo in vista di un punto di mira sconosciuto, che si definisce poco a poco (o in un colpo solo) secondo un altrove che, come una stella, guida l’intenzionalità che si sposta («ecco la stella […] li precedeva», Mt 2,9). Infatti, in tutte le anamorfosi, anche nel caso di quella del mondo, il passaggio da un punto di mira all’altro si attiva

Spirito («quello che è nato dallo Spirito è spirito», Gv 3,6). Nuovamente, tutto dipende dall’origine da dove (pothen) proviene la carne. In una confessione perfetta, la s-coperta (apokaluptein) risulta dall’irruzione dello Spirito fino nella «carne» degli uomini (Lc 10,21).

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sempre a partire dal punto di mira finale, perché è la cosa stessa a farsi vedere nella misura in cui si dà; chi è chiamato a vederla può risponderle e seguirla, ma non potrà mai costituir­la o prevederla. Colui che compie l’anamorfosi (l’amante, il genio, l’adonato) non vi giunge perché può o vuole farlo, ma perché ha la forza di diventare abbastanza debole e docile da lasciarsi attrarre da un fenomeno saturo che si impadronisce di lui, guidandolo attraverso il deserto del percorso di anamorfosi, conducendolo finalmente verso la terra promessa – l’annunciata s-coperta. Così, per interrompere l’impotenza a vedere il fenomeno offerto da Cristo, non bisogna più aggrapparsi al suo punto di mira per schivare il circolo logico, piuttosto bisogna sforzarsi di entrare in un colpo solo (o poco a poco) – ma anche quanto più risolutamente possibile – nel circolo ermeneutico. Assumere il punto di vista corretto sul fenomeno che Dio dona a vedere (in Gesù Cristo), infatti, può provenire solo da Dio stesso (il Padre), che offre sia il fenomeno (ciò che si mostra) sia le condizioni della sua visibilità (ciò che si mostra in quanto si dà). Dal momento che ciò può provenire solo da altrove (dal Padre), per parte nostra non può essere oggetto di una volontà, di una decisione o di un’azione che potremmo o dovremmo produrre, ma solo di una volontà, una decisione e un’azione che ci rimane da dare, all’occorrenza da ricevere. Cristo, colui che si mostra, lo si vede solo mettendosi dallo stesso punto di vista di colui che lo dona, il Padre. Quindi si può vedere Cristo solo se il Padre dà accesso a questo punto di vista, «il Dio nostro, Gesù Cristo, stando nel Padre è ancora più visibile (en tô Patri mallon phainetai)» (Ignazio di Antiochia)13. Donde il paradosso per cui più Cristo va al Padre, più si manifesta come tale: «è bene per voi che io me ne vada» (Gv 16,7).

13.  Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, in C. dell’Osso (a cura di), I padri apostolici, Città Nuova, Roma 2011, III, 3, pp. 106-107 [SC 10bis, p. 110].

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La questione dell’identità di Gesù («chi dite che io sia?») trova quindi risposta corretta a partire dal punto di vista del Padre che ci dà da vedere colui che dona, più esattamente che ci dona che ciò che dona si mostri. Riconoscere Gesù come Cristo implica di riferirlo al Padre e questo a doppio titolo: innanzitutto perché Gesù merita il titolo di Cristo solo in quanto Figlio del Padre, quindi per riferimento essenziale al Padre che lo dà a lui stesso; in secondo luogo perché Gesù può mostrarsi, farsi vedere e riconoscere solo a colui che lo vede dal punto di vista del Padre. Il Padre stabilisce la condizione di Cristo in quanto lo dona e in quanto quest’ultimo si mostra. Il Padre costituisce quindi sia il fondo [fonds] di invisto del Figlio, l’invisto manifestato nella profondità del visibile di Cristo, il volto di Gesù; sia la condizione di s-coperta del Figlio come tale, a titolo di suo inviato. Da qui deriva la regola che regge la fenomenicità incrociata del Padre e del Figlio: «nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia s-coprire, kai hô ean boulêtai hô uios apokalupsaî» (Mt 11,27, cfr. Lc 10,22). Poi, dal momento che è possibile vedere Gesù come Figlio solo vedendolo nell’invio fatto dal Padre, a propria volta nell’invio del Figlio diventa possibile vedere il Padre come colui che lo invia. Detto altrimenti, seguendo Giovanni, «“Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” (ei egnôskeite me, kai ton patera mou an êideite, ap’arti ginôskete auton kai eôrakate). Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre” (ho heôrakôs eme, heôraken ton patera). Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”» (Gv 14,6‑10). Nulla più di una prova a contrario conferma che il Padre costituisce il fondo [fonds] (di

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ciò) che si dona nel Figlio e la forma perché il Figlio si mostri: senza il riferimento al Padre l’identità di Gesù – il suo statuto di Figlio – diventa immediatamente illeggibile: «voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio (ei eme êidete, kai ton patera mou êidete)» (Gv 8,19)14. Così «agiscono» (Gv 5,17) il Padre e il Figlio: il Padre dona colui che si mostra (come ratio donandi del Figlio), il Figlio mostra colui che si dona (come ratio manifestandi del Padre). L’anamorfosi si realizza, facendoci passare dal nostro punto di vista a quello del Padre su Gesù, come suo Figlio. Diventa così possibile attraversare la visibilità di Cristo fino all’invisibilità che vi si dona, quella del Padre.

L’obbedienza del Figlio Il percorso dell’anamorfosi stabilisce, per i discepoli, per noi e per tutti coloro che sono chiamati a vedere, la modalità per vedere Cristo in quanto tale; anche colui che possono vedere, però, si definisce, lui per primo, tramite il percorso dell’anamorfosi: vive e si dà a vedere (a riconoscere) solo nella misura in cui egli stesso continua a percorrere l’anamorfosi, realizzandola alla perfezione. Pertanto, se il percorso dell’anamorfosi permette di spostare il punto di origine della mira intenzionale fino al punto in cui potrà realmente mirare e vedere Gesù come Figlio e, nell’invio del Figlio, rinviare al Padre, eviden14.  La tesi affermativa, secondo la quale «così come il Padre conosce me io conosco il Padre» (Gv 10,15), è confermata a contrario: «chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora (nun) invece hanno [realmente] visto e hanno odiato me e il Padre mio» (Gv 15,23-24, cfr. Gv 9,41 e Rm 1,20); e «e faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me» (Gv 16,3).

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temente questo percorso non abolisce lo scarto tra il Figlio e il Padre, dal momento che si svolge in esso e lo attesta ancor di più. Pertanto il Figlio, tale che Gesù ne assume il ruolo come Cristo, non solo non si confonde mai con il Padre, ma tanto più vi rinvia quanto più riconosce di dipendere da lui, quanto più vi si sottomette e si rimette a lui senza misura. Il Figlio fa tanto più apparire il Padre quanto più agisce come suo vero Figlio, cioè designandolo come il suo altro, precedente e «più grande» di lui (Gv 14,18). La cosa emerge tramite vari paradossi. Il primo paradosso riguarda l’uguaglianza di Gesù con Dio. La condanna di Gesù, quantomeno quella religiosa, dipende dal fatto pubblicamente rilevato dal Sinedrio che alla questione «sei il Figlio di Dio?» Gesù risponde o affermativamente «io [lo] sono» (Mc 14,62), o lasciando che coloro che lo interrogano diano da sé l’evidente risposta positiva «tu l’hai detto» (Mt 26,64), «lo dite voi stessi: io lo sono» (Lc 22,70). Questa convergenza tra i racconti corrisponde proprio a ciò che i suoi uditori avevano capito autonomamente: poiché Gesù purifica il Tempio come la «casa del [suo] Padre» (Gv 2,16), autorizzandosi ad «agire» di Sabato come suo Padre (Gv 5,17), egli rivendica per sé un rango divino: «non solo violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio (ison eauton poiôn tô theô)» (Gv 5,18). Gesù lo conferma affermando «io e il Padre mio siamo una cosa sola» (Gv 10,30), pretendendo che «tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie» (Gv 17,10, cfr. Lc 15,31). O, piuttosto, lo quasi conferma, perché il dibattito sulla potenziale bestemmia dipende dal modo di intendere l’uguaglianza, che può avere accezioni totalmente differenti. Per gli avversari di Gesù (come per noi, oggi, in modo spontaneo), l’uguaglianza di Cristo con Dio dovrebbe intendersi come la possibilità di disfarsi almeno della precedenza di Dio, di sottrarsi alla potenza primordiale del Padre, in breve di ripren-

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dere possesso di sé, per «diventare come Dio» (Gn 3,5). Per Gesù, al contrario, diventare come Dio significa interpretare Dio come Padre, quindi diventare come il Padre – come chi dona tutto senza trattenere nulla o, meglio, significa corrispondere a Dio come Padre, quindi rispondere al suo dono senza riserva riconoscendo che nulla si «possiede che non si abbia ricevuto» (1Cor 4,7). Innalzarsi al rango di Dio significa quindi eguagliare il dono assoluto donato dal Padre grazie a un abbandono a questo dono ugualmente senza riserva da parte del Figlio. Per Gesù l’uguaglianza con Dio si gioca solo nel dispositivo in cui Dio si manifesta come tale, come Padre che dona tutto; quindi, si tratta certamente di eguagliare Dio, ma di eguagliarlo secondo la sua logica, la logica del dono. Per Gesù, come per Dio – per Cristo, come per suo Padre, essa significa soltanto l’uguaglianza nel processo del dono, ricevuto così come viene abbandonato, a fondo. Gesù riceve il titolo di Figlio, il «nome che è al di sopra di ogni altro nome», quello di «Gesù Cristo Signore» (Fil 2,10‑11) per una sola e unica ragione – ha eguagliato il dono fatto «irrevocabilmente» (Rm 11,29) dal Padre nel suo abbandono «sino alla fine» (Gv 13,1, cfr. Gv 19,30). Detto altrimenti: «pur essendo di forma divina (en morphê theou huparkhôn), non considerò [il fatto di] essere uguale a Dio come qualcosa a cui aggrapparsi (ouk arpagmon hêgêsato to einai isa theô)» (Fil 2,6). Per lui (ma non per i suoi accusatori, né per noi), l’uguaglianza permette il perfetto percorso della distanza, del Padre rispetto al Figlio e del Figlio rispetto al Padre, quindi implica innanzitutto di riconoscere la principale precedenza del Padre sul Figlio: «il Padre è più grande di me» (Gv 14,28) e poi implica che si ammetta che il Figlio per definizione debba ricevere tutto dal Padre: «da me, non posso fare nulla» (Gv 5,30). C’è di più: l’uguaglianza di Gesù con Dio non solo non contraddice la comunione del Figlio con il Padre, ma la rinforza tramite la distanza reciproca del dono, in cui il Padre abbandona tutto al Figlio al fine

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di realizzare la sua paternità e di consentirgli la realizzazione della sua filiazione; in tale distanza del dono il Figlio accetta tutto dal Padre per riconoscere la paternità e riceverne la sua propria filiazione, «tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie» (Gv 17,10)15. La parità delle condizioni divine permette la comunione tramite dono, abbandono e ridondanza del dono, senza fine. Il mondo (e quindi gli avversari di Gesù) non può vederlo: per loro la parità delle condizioni divine, come la parità di condizioni tra uomini, conduce solo alla rivalità mimetica e alla lotta mortale, si tratta del paradosso dell’uguaglianza come comunione. Da qui consegue un altro paradosso: nel momento stesso in cui chiede di essere riconosciuto come Cristo, Gesù sottolinea incessantemente di non dire mai nulla da sé, «le parole che io vi dico, non le dico da me stesso, ap’emeautou ou lalô» (Gv 14,10), o ancora: «non sono venuto da me stesso (ap’emeautou), ma lui mi ha mandato» (Gv 8,42). A prima vista Gesù compromette la sua richiesta di riconoscimento perché non parla «da lui stesso», non dice ciò che pensa e forse non pensa ciò che dice. Partendo da una tale ambiguità, come sarebbe possibile suscitare e ricevere la minima adesione? Come chiedere addirittura un franco coinvolgimento di fede, se lui stesso non parla chiaramente, né in buona fede? In questo senso (il nostro, quello del nostro tempo e della nostra ideologia) a Cristo manca la (buona) coscienza di sé, non è sé, parla e agisce a partire da una perfetta inautenticità. 15.  Qui si può notare nuovamente l’impressionante prossimità di questo versetto con Lc 15,31: «tutto ciò che è mio è tuo». L’identità quasi letterale delle formule, tuttavia, non porta alla loro equivalenza: in Luca la parabola suggerisce ciò che «il padre» anonimo promette al «figlio» primogenito e spera da lui, che non lo comprende; in Giovanni il Figlio conosciuto dice ciò che capisce perfettamente, perché lui stesso lo realizza altrettanto perfettamente quanto il Padre riconosciuto. L’ingiunzione immaginata si trasforma in realizzazione compiuta.

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A meno che si debba rovesciare tutto ancora una volta: dal punto di vista di Cristo il nostro modo di parlare con autenticità corrisponde a parlare a partire da sé, a non dire nulla che io non pensi da me e a partire da me solo, quindi a non pensare ciò che pensa il Padre. L’autenticità fa sì che io pensi e parli proprio a partire da me e dal mio solo punto di vista, quindi esclude qualsiasi anamorfosi; essa caratterizza proprio chi non dice ciò che il Padre vuole dire, colui il cui pensiero fa da schermo e maschera quello di Dio; in una parola, chi soffoca la parola di Dio con la propria. Si tratta proprio della postura di Satana: «quando dice il falso, dice ciò che è suo [sc. i suoi pensieri] (ek tôn idiôn lalei), perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Parlare a partire da sé, pensare dal proprio fondo [fonds] dicendo ciò che pesa sul cuore, i propri risentimenti, implica infatti di parlare a partire da ciò che si ha nel cuore, «dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15,19). Parlare a partire da sé, a cuore aperto, di buon cuore equivale ad accendere «la lingua [che] è un fuoco, il mondo del male», perché l’autenticità di Satana mette a fuoco la foresta (Gc 3,6). «Nel cuore» si installa «il diavolo» (Gv 3,2), «nella casa dell’uomo forte» che egli viene a «saccheggiare» (Mt 12,29) per «prendervi dimora» (Mt 12,45). È quindi necessario uscire dal proprio cuore, dalla propria autenticità, per parlare a partire dalla parola di un altro, dell’unico altro autentico, Dio in quanto Padre. Solo chi non parla da sé vi arriva perché soddisfa la condizione più esigente: Gesù parla da altrove, nella misura in cui «non cerca la [sua] volontà, ma la volontà di colui che [lo] ha mandato» (Gv 5,30, cfr. Gv 6,38). Gli uomini lo accettano con difficoltà perché non parla da sé come fanno loro, perché non ha i loro stessi pensieri, non vuole a partire dalla loro medesima cattiva volontà: «io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome (en tô

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onomati tô idiô), lo accogliereste» (Gv 5,44). Così compresa, l’inautenticità definisce il percorso dello scarto tra il punto di mira degli uomini e quello di Dio, l’unico percorso che permette di vedere Gesù come Cristo, quindi il Figlio del Padre. Intesa in questo senso eminente, l’inautenticità (letteralmente, la disappropriazione, l’improprietà) arriva a non appartenersi più, a rimettersi ad altro rispetto a sé, a esiliarsi altrove, al fine di lasciare che questo altrove si impadronisca di sé. In breve, ancora una volta l’inautenticità designa l’anamorfosi e la realizza. Gesù la fa riconoscere come tale – come la conformità della sua volontà a quella di colui che lo invia – facendo apparire ciò che lo separa totalmente dai suoi oppositori: «chi di voi può dimostrare che ho peccato?» (Gv 8,46)16. Lo scarto tra le due disposizioni, autentica e inautentica, definisce con precisione i due poli di intenzionalità possibili – il punto di vista dominante della postura trascendentale e il punto di vista a latere dell’anamorfosi: «chi parla da se stesso (ho aph’eautou lalei) cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia» (Gv 7,18). Di fatto nessuno compie l’anamorfosi così perfettamente come Cristo, perché lui, a titolo di Figlio, si riferisce assolutamente e senza resto al punto di vista del Padre. Gli uomini, e Pietro per primo, non fanno altro che camminare sui suoi passi, da un luogo mondano a un luogo trinitario e, nello stesso istante, fenomenicamente operativo. Si tratterebbe dunque del paradosso dell’inautenticità come carattere della filiazione. Probabilmente questi paradossi permettono di affrontarne un ultimo, o almeno di accennarlo: l’antica questione della co-

16.  La stessa rivendicazione di identificarsi, davanti agli uomini, come il solo a non avere parte con il peccato, si ritrova in negativo nella risposta agli accusatori della donna adultera: «chi di voi è senza peccato (amartêtos) getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Poiché nessuno è senza peccato, nessuno getta la prima pietra.

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scienza che Gesù aveva (o non aveva) della sua divinità. Innanzitutto è da notare che la serietà dell’incarnazione (o piuttosto della Menschwerdung, del diventare uomo) di Dio in Gesù implica che Gesù, come ogni uomo, non abbia avuto subito perfetta coscienza di chi fosse in quanto uomo, nel senso che non la ha mai raggiunta perfettamente, dal momento che l’uomo si definisce proprio dal non sapere esattamente chi sia, lungo tutto il corso della propria vita17. Tuttavia, conoscersi non consiste nel conquistare una chiara, definitiva e riflessa coscienza di ciò che si è, ma a non sbagliarsi relativamente a ciò che non si può essere e soprattutto a ciò che si può essere in quanto lo si deve. Fu così anche per Gesù: egli imparò chi fosse scoprendolo nella misura in cui lo faceva, ma ciò che fece glielo insegnò obbedendo a suo Padre, secondo gli incontri che gli capitavano – con la sua famiglia, i suoi «fratelli», i «dottori» al Tempio, Giovanni il Battista, il tentatore nel deserto, le folle, i discepoli, i demoni, i pagani di Galilea e gli scribi di Gerusalemme, il processo e la croce; ogni volta indovinando poco a poco e realizzando passo per passo la sua destinazione. «Spinto dallo Spirito Santo» (Mt 4,1; Mc 1,12; Lc 4,1) Gesù ha imparato ad agire come Cristo e a diventare, fin nella nostra condizione, ciò che era da tutta l’eternità: ha imparato a svolgere nella carne, tra noi, la sua funzione di Figlio eterno. Dal Battesimo all’agonia, dalla morte alla resurrezione, ha imparato chi fosse da sempre portandolo a compimento nei nostri termini, con i nostri atti e nelle nostre parole. Pertanto, non c’è la minima contraddizione tra questa presa di coscienza temporale di Gesù e la perfetta coscienza eterna del Figlio; la perfetta 17.  Nonostante il parere, in sé molto corretto, di Péguy: «perché a quarant’anni si sa cosa si è, da cinque anni» (Ch. Péguy, Cartesio e la filosofia cartesiana, cit., p. 25). Infatti, sa ciò che non è e non sarà mai (in carriera, in varie imprese, ecc.), ma non sa ancora ciò che è e sarà in fine. Tuttavia, è probabilmente un caso se il calcolo di Péguy quasi corrisponde all’età tradizionalmente attribuita alla morte di Gesù.

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coscienza trinitaria ha accettato di abbassarsi per prendere umanamente coscienza di se stessa assumendo la condizione umana, dal momento che la temporalità appartiene alla condizione creaturale e l’eternità a Dio. L’incarnazione di Cristo doveva quindi congiungere, senza separazione né confusione, l’una e l’altra. Questo apprendimento non risulta dalla necessità pedagogica di Gesù, in quanto tale accidentale (come vorrebbe una vecchia e rozza posizione scolastica), né dalla prolessi tra l’annuncio del regno e la sua giustificazione post-pasquale (secondo una recente e superficiale concezione scolastica), ma da ciò che il Figlio doveva s-coprire a noi realizzandolo per e tra noi: la filiazione eterna si gioca, umanamente e in situazione di peccato, nella forma dell’obbedienza, dell’obbedienza fino alla morte, ovvero all’obbedienza alla morte di un Figlio che s-copre il Padre: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui (esakoustheis apo tês eulabeias, pro sua reverentia), venne esaudito; pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza (upakoên, oedientiam) da ciò che patì e, reso perfetto (téleiôtheis, consummatus), divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (upakouousin, obtemporentibus)» (Eb 5,7‑8). Questo testo, tanto chiaro quanto preciso, dapprima espone i dettagli della Passione18 come tanti atti di pietà verso Dio che «può salvare» (cfr. «patêr, panta dunata soi» Mc 14,36); «salvare», tuttavia, non significa necessariamente salvare dalla morte (in questo senso Gesù non sarebbe stato esaudito)19, ma può anche indicare 18.  Il grido: Mc 15,34 e Lc 23,46; il sangue: Lc 22,44; le preghiere: Mc 14,35 e Mc 14,39; le suppliche: Mt 26,39 e Mt 26,41. 19.  Così lo interpretava von Harnack che qui, contro tutti i manoscritti, introduce una negazione, con conseguenze tanto filologicamente arbitrarie quanto teologicamente aberranti: «non (ouk) fu esaudito» (Nestle-Aland,

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salvare la reverenza nei confronti di Dio anche nella morte (in questo senso Gesù fu esaudito). Si può dunque riconoscere che il Figlio eterno realizza l’obbedienza al Padre anche nella condizione umana peccatrice e, nella misura in cui la ha assunta, ha pienamente «imparato, emathen, didicit» tra noi ciò che per il Padre egli è eternamente. L’obbedienza porta a compimento (upakoê e téleiôtheis), manifesta e conferma l’eterna filiazione trinitaria, questa volta nella nostra finitezza e in situazione di peccato. Il male e la morte sono vinti «una volta per tutte» perché non hanno potuto annientare l’eterno gioco trinitario; attraverso il prisma deformante del male l’umiliazione di Cristo sulla croce ripete l’umiltà del Figlio nella dimensione trinitaria. Nei due casi il Figlio come Figlio del Padre manifesta chiaramente di non rinviare mai a sé ma sempre e innanzitutto al Padre. Gesù si manifesta come Cristo, altrimenti detto: Cristo appare come Figlio solo tramite la perfezione della sua «obbedienza» (ascolto, akoêi) che causa la salvezza di «coloro che gli obbediscono» (ascoltano, tois upakouousin) nella misura in cui la imitano in quel modo. Si potrebbe anche concludere che il compito di Gesù non richiede che egli ottenga che tutti credano in lui o che tutti lo glorifichino (di fatto, non è proprio successo), ma richiede che sempre e in ogni caso (compresa la morte sulla croce) egli rinvii al Padre sia coloro che credono in lui sia coloro che non vi credono, affinché diventi patente che lui stesso rinvia al Padre e lo manifesta attraverso questo gesto. Tutto ciò che è provocato dalle sue parole è così rinviato a colui che l’ha inviato, al Padre: «chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato (ho pisteuôn eis eme ou pi-

Novum Testamentum graece et latine, cit., ad loc., p. 664). Che Dio possa tutto (Mc 14,26, e Lc 1,37) si può intendere certamente come la possibilità di dispensare dalla morte (ma in questo caso equivale a privilegiare la volontà umana), ma anche come il potere di dare liberamente la propria vita (Gv 10,17‑18) per fare, anche qui (nel peccato) la volontà del Padre.

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steuei eis eme alla ei ton pempsenta me); chi vede me, vede colui che mi ha mandato (ho theôrôn eme theôrei ton pemspenta me)» (Gv 12,44-45)20. Gesù attesta che egli è Cristo nella misura in cui, obbedendo fino alla fine, manifesta un altro rispetto a sé, il Padre – quest’altro che, quindi, lo qualifica come suo Figlio. La gloria di Gesù consiste nel confondersi con la gloria del Padre che l’avvolge.

La gloria di suo Padre La confessione di Pietro consiste dunque nel considerare Gesù a partire dal punto di vista da cui il Padre lo dona e lo vede – come «il Santo di Dio» che discende dal cielo per fare la volontà di un altro – il Padre e che, in questo modo, lo mostra mostrando come realizzare l’unica anamorfosi: per lui, prendere il punto di vista del Padre (fare la volontà del Padre e non la propria); per noi, prendere il punto di vista del Figlio facendo la volontà del Padre (e vedere quindi il Figlio come prove20.  Pannenberg, che ha una predilezione per questo versetto, ha insistito molto giustamente sul paradosso per cui l’obbedienza di Gesù a Dio (sottomissione alla volontà del Padre, ignoranza dell’ora, impotenza a non fare qualunque cosa esclusivamente da sé, ecc.), costituisce proprio la sua qualifica come Figlio e quindi la sua autentica divinità: «la distinzione che Gesù ha mantenuta tra sé e il Padre, fa parte della divinità di Dio» (W. Pannenberg, Grundzüge der Christologie, Gütersloher Verlagshaus G. Mohn, Gütersloh 1964; tr. it., Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana, Brescia 1974, p. 198). Ugualmente, a proposito di Mt 24,36 «quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre», cfr. At 1,7: «non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere» e a proposito di 1Ts 5,1, aggiunge che «la perfezione di Gesù raggiunge il vero compimento nell’abbandono al Dio del futuro escatologico. Questo non-sapere è addirittura la condizione dell’unità di Gesù con questo Dio» (ivi, pp. 463-464). «Gesù è il Figlio di Dio proprio nella sua particolare umanità» (ivi, pp. 476-477).

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niente dal e diretto al Padre). Nel momento in cui questi due atti di anamorfosi coincidono, quando la fede del discepolo si inscrive nel movimento dell’obbedienza del Figlio al Padre, allora chi crede così ottiene anche la vita eterna, perché vede il Figlio come Figlio del Padre, quindi entra nella visione del Padre: «questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, pan o theôrôn ton uion kai pisteuôn eis auton ekhê zôen aiônon» (Gv 6,40). Per vederlo è sufficiente credere perché l’anamorfosi della fede ricalca l’anamorfosi trinitaria che fa apparire Gesù come Cristo, Figlio nei confronti del Padre. Tuttavia, «tra voi vi sono alcuni che non credono (ou pisteuousin)» (Gv 6,64), detto altrimenti: alcuni che non realizzando l’anamorfosi tramite il loro sguardo, non possono vedere quella compiuta da Cristo; oppure si potrà dire che vedono senza credere (Gv 6,36, eôrakate kai ou pisteuete), e dunque vedono in Gesù solo «il figlio di Giuseppe» (Gv 6,42), cioè non lo vedono come si mostra perché non lo vedono come colui che gli è dato dal Padre. Gli uomini vengono così provocati a vedere ciò che si mostra nell’eccesso di ciò che si dà, ma dal momento che ciò che si dà a noi dapprima si dà tra il Padre e il Figlio, quanto se ne mostra ad extra per noi rileva la fenomenicità ad intra della Trinità con se medesima; o ancora: se ciò che si manifesta a noi in Cristo non consiste in nulla di meno che nella mira del Figlio verso il Padre e nella visione del Figlio tramite il Padre, allora bisogna ammettere che il gioco trinitario si apre anche alla nostra vista, anche in questo mondo. Non perché la Trinità si faccia mondana uscendo così da se stessa (si alienerebbe a se stessa) ma, al contrario, perché il mondo è aperto e innalzato al di fuori di se medesimo, in un supremo gioco che il mondo non può vedere perché lo ingloba, come attestato da Stefano: «io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56). Soltanto a partire da questa apertura le invocazioni pubbliche rivolte al Figlio dalla voce

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del Padre o quelle rivolte dal Figlio al Padre che scandiscono il vangelo di Giovanni21 si possono intendere e comprendere correttamente come altrettante provocazioni provenienti dalla Trinità e dirette agli uomini affinché credano per vederlo, come riprese di un unico avvertimento: «fate attenzione [vedete] a quello che udite» (Mc 4,24). Lo stesso si può dire del ringraziamento che Gesù rende pubblicamente al Padre prima della resurrezione di Lazzaro, per rendere manifesto alla «folla (to okhlos)» ciò che lui sa aver luogo «sempre (pantote)»: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato [esaudito] patêr, eukharistôsoi oti akousas mou» (Gv 11,41‑42)22. La preghiera di Gesù va direttamente al Padre e, in questo senso, è radicalmente diversa anche dalla professione di fede fattagli da Maria: «sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Gv 11,27), perché ella non lo ha visto nel Padre, né ha considerato il suo statuto di Figlio. Non si potrebbe suggerire con maggiore chiarezza il fatto che, per Giovanni, una professione di fede perfetta non riguarda solo il riconoscimento di Gesù come Cristo ma la s-coperta del Padre che ne attesta la filiazione. Lo stesso si può dire del momento dell’ultima uscita pubblica al Tempio per l’ultima Pasqua, quando «è venuta l’ora

21.  Parallelamente bisogna aggiungervi almeno la «voce» che, al momento del Battesimo che Cristo riceve da Giovanni, lo consacra come «il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17; Mc 1,11 e Lc 3,22). Se, al contrario, Gv 1,32‑34 non riporta tale e quale il battesimo di Gesù, gli sostituisce un insegnamento fatto direttamente al Battista dallo «Spirito disceso come una colomba», quello di riconoscere in Gesù «colui che battezza nello Spirito Santo» e quindi il «Figlio di Dio». Qui l’investitura trinitaria interviene subito come tale (come dappertutto in Giovanni), senza l’intermediazione del battesimo di Gesù. 22. Cfr. exomologoumai in Mt 11,25 e Lc 10,21.

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che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23), divenuto chiaro che il chicco di grano deve morire per produrre frutto (Gv 12,24) e che chi non perde la sua vita «nel mondo» non la salverà «per la vita eterna» (Gv 12,25), quando di fatto arriva l’istante supremo atteso sin dall’inizio («adesso (nun) l’anima mia è turbata», Gv 12,27)23, cioè l’istante della crisi (nun, Gv 12,31); in quel momento Gesù chiede pubblicamente al Padre di confermarlo nella sua funzione di Figlio, proprio «giunto a quest’ora» (Gv 12,27): Gesù dice «“Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo [dicendo]: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora (palin)”» (Gv 12,28). La conferma della gloria trinitaria si realizza nel mondo stesso, proprio perché «la folla» non «vede» né «da dove», né da quale altrove gli adviene ciò che ha comunque «ascoltato (ekousas)» (Gv 12,29, cfr. Mc 4,24): è un tuono o un angelo (Gv 12,29)? E tuttavia, malgrado o proprio a causa di questa incomprensione, Gesù avverte per un’ultima volta: «questa voce non è venuta per me, ma per voi» (Gv 12,30). Qui, nuovamente, non si tratta soltanto di vedere (o non vedere) Gesù come Cristo, ma di vedere l’origine e la legittimità trinitaria di questo titolo: «chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; [quindi] chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45). Gesù merita il titolo di Cristo solo se appare come Figlio del Padre, cosa che realizza proprio non facendo altro che la volontà del Padre, facendo propria la volontà del Padre, manifestando il Padre stesso nella volontà che dispiega come suo Figlio. Così è, infine, dell’ultima preghiera prima dell’arresto: davanti ai discepoli Cristo chiede di ricevere la gloria del suo eterno zenit, anche e soprattutto in questo nadir: «Padre, è venuta 23.  L’«ora (nun)» anticipato in Gv 4,23 e Gv 5,25 «in verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa» si realizza anche nun in Gv 13,31; Gv 16,5; Gv 17,7 e 13.

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l’ora: glorifica il Figlio [che è] tuo perché il Figlio glorifichi te (doxason sou ton uion, ina ho uios doxazê se)» (Gv 17,1) e «ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria (nun doxason me su) che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). Evidentemente si tratta nientedimeno che della gloria intra-trinitaria, che deve manifestarsi fino agli uomini «nel mondo», affinché si mostri in tutti i luoghi in cui si dona, cioè, propriamente, dappertutto, anche laddove la si rifiuta: «ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato (ephanerôsa sou to onoma tois anthrôpois ous edôkas moi)» (Gv 17,6). Tuttavia, una tale manifestazione trinitaria ad extra agli uomini (anche non credenti) non implica alcuna dispersione del mustêrion in una qualche negatività dello spirito o in una profanazione mondana, al contrario essa provoca la «folla» e più precisamente i discepoli a credere ciò che si mostra come si dona, quindi a entrare nella Trinità, lungi dall’alienare la Trinità nell’esteriorità. La s-coperta trinitaria si apre «perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre» (Gv 10,38). È ciò che si realizza in colui che rispetta i comandamenti, quindi in colui che ama Cristo ed è amato dal Padre come lo è Cristo; in questo modo Cristo si manifesta a lui (emphanisô autô emauton)» (Gv 14,20‑21); così, alla fine, «il Padre stesso infatti ama (autos gar ho patêr philei humas)» (Gv 16,27, cfr. Gv 14,21) coloro che di fatto e anche di diritto sono inclusi nella Trinità, «siano una sola cosa come noi (hen kathôs hêmeis)» (Gv 17,11), «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi [uno] in noi (ina kai autoi en hêin ôsin)» (Gv 17,21), «perché siano perfetti nell’unità (teteleiômenoi eis hen)» (Gv 17,23). Al punto che la Trinità diviene il luogo stesso della questione della s-coperta: possiamo vedere ciò che si mostra solo ricevendolo come si dà, cioè ricevendoci da colui che si dà e dà tutto – compreso il poterlo vedere.

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L’icona dell’invisibile Conoscere l’uno, il Padre, equivale quindi a conoscere l’altro, il Figlio e viceversa, a condizione di salvaguardare il loro scarto senza separazione, la loro unione senza confusione, dal momento che ciò che li lega riguarda proprio il rinvio dell’uno all’altro – del Padre che dona il Figlio al Figlio, del Figlio che in sé mostra il Padre. Solo con questa precauzione si potrà concepire che Cristo si definisce come l’«icona del Dio invisibile» (Col 1,15). Questa formula resta enigmatica, o quantomeno dovrebbe restarlo, senza dissipare la sua complessità e la sua forza con la traduzione banale e quasi universalmente accolta di «immagine del Dio invisibile». Innanzitutto, una comprensione di tal fatta finisce in un’aporia patente: come potrebbe mai un’immagine, per definizione visibile, far vedere l’invisibile? Come potrebbe l’in-visibile assomigliare al visibile? Ci sarebbe certo una contraddizione in termini a immaginare un visibile raddoppiato, che pretenderebbe di conservare direttamente le vestigia dell’invisibile per imitazione o per rappresentazione: dal visibile all’invisibile non c’è alcuna continuità, immagine o somiglianza. Ma c’è di più: altri usi neotestamentari di eikôn non implicano né la similitudine né la somiglianza ma la escludono. Ad esempio: quando Gesù, nella discussione sul pagamento della tassa ai Romani, mostrando il retro di una moneta dove è effigiato Cesare chiede «questa eikôn, di chi è?» (Mt 22,20; Mc 12,16 e Lc 20,24), la faccia non mostra nulla di identificabile24, perché la faccia di Cesare (Augusto, Claudio o chi al24.  Contrariamente all’uso fatto in Rm 8,29: «quelli che egli [sc. Dio] da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’icona del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» o in Eb 10,1: skia tôn mellantôn agathôn in opposizione a eikôn tôn pragmatôn. In questi due casi si può parlare di un’immagine, perché i due termini della somiglianza offrono una visibilità.

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tri) non è mai stata vista né da Gesù, né da nessuno dei suoi uditori (forse neppure da alcun Romano); tutti quelli che pagano l’imposta o si servono di quella moneta devono rimettersi a un’identificazione invisibile, sebbene riconoscibile per pubblica convenzione. È il motivo per il quale Gesù chiede anche di confermare l’identità della faccia sconosciuta tramite l’«iscrizione (epigraphê)», che identifica tramite un nome ciò che la faccia visibile lascia anonimo e invisibile. Anche nel caso banale (la moneta), l’eikôn non si riduce a un’immagine perché non presuppone alcuna similitudine del visibile con il visibile, supponendo invece la relazione di un visibile (l’iscrizione – che tuttavia non mostra nulla, ma designa semanticamente) con un invisibile (la faccia – che mostra, ma non designa nulla)25. Se ne può concludere che in questo caso è necessario comprendere, ancor più che con la moneta, l’eikôn tou theou tou aoratou come l’icona del Dio invisibile. Ed è tanto più necessario attenersi a questo paradosso dal momento che in Paolo si ritrova in altri due casi: «Cristo, che è l’icona di Dio, eikôn tou theou» (2Cor 4,4) e «secondo l’icona di Colui che lo ha creato, kath’eikona tou ktisantos» (Col 3,10). Non si tratta quindi di un invisibile raddoppiato (di visibile), ma di un visibile rovesciato, venuto dall’altrove invisibile: Cristo non riproduce l’anteriore visibilità del Padre, ancora sigillata e interdetta, perché «Dio nessuno l’ha mai visto», ma manifesta il Padre in prima istanza, per la prima e unica volta, in quanto gli presta visibilità sul suo volto di Figlio diventa-

25.  Le occorrenze dell’«icona della Bestia» (Ap 13,44; Ap 15,2 e Ap 16,2) si collegano al caso della moneta, perché si tratta del segno (kharagma) scritto sulla fronte o sulla mano, senza il quale «nessuno può comprare o vendere senza avere tale marchio» (Ap 13,17). Questo carattere, di fatto il numero del Diavolo, anticipa il codice a barre e il codice della carta di credito, le cui informazioni consentono di commerciare ma non mostrano nulla, soprattutto non un volto, né d’uomo né divino.

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to uomo. In quanto è donato dal Padre (manifestando il dono di Dio incarnandolo) e si dà come tale (come inviato dal Padre nel visibile), egli non consiste in altro che in questo invio e quindi, per rinvio del dato, in cambio arriva a manifestare il donatore invisibile. Vedere Cristo equivale a vedere ciò (o meglio colui) che il Padre manifesta donandolo e che consiste solo in questo dato visto (e da vedere) come donato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare (edôken) il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Che Cristo (si) mostri (come) il dono che dona l’invisibile (il Padre) in un’icona visibile, per uno sguardo umano significa vedersi visto dal Padre, nello sguardo di Cristo visto visibilmente e visto invisibilmente come Figlio. Si compie allora la messa in icona di Cristo, che propriamente definisce l’opera dello Spirito. Ciò che Col 1,15 permette di cogliere è esposto con rigore da un altro testo paolino: «noi tutti, a viso scoperto (anakekalummenô prosôpô), riflettendo come in uno specchio (katoptizomenoi) la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine (tên autên eikôna metamorphoumetha) di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18). Ciò può essere letto a partire dalla fine verso l’inizio: se compiamo l’anamorfosi, lasciando che lo Spirito ci sposti dal nostro punto di mira e lasciando la nostra mira di ego costituente per assumere il punto di vista del Padre su Gesù, allora il nostro volto, cioè la nostra mira intenzionale, si s-coprirà, si libererà delle sue mire calcolate a partire dal proprio poligono di tiro, regolerà la sua mira su ciò che si dà e finalmente penserà allo scoperto. Il nostro volto, esponendosi allo scoperto come un libero specchio, diventerà il luogo in cui si esporrà l’icona filiale del Padre proprio perché, lasciando compiersi in noi l’anamorfosi, compiremo l’anamorfosi trinitaria. Finalmente vedremo, perché ci assorbirà, ci trasformerà [métamorphosera] in essa e farà risplendere la sua visibilità sul nostro smascheramento.

V L’ICONA DELL’INVISIBILE

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15 Monoteismo e Trinità: un modello ontico

L’approccio fenomenico al «vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1) ha consentito di sviluppare i momenti della sua s-coperta. Infatti, si tratta proprio di una s-coperta, che si è lasciata dispiegare nella sua logica propria, distinguendo alcune tappe: innanzitutto, ciò che inizialmente restava necessariamente ricoperto, riservato e inaccessibile (il mustêrion del Padre), cioè l’iperbole della carità che supera ogni conoscenza, si può intendere come un fenomeno saturo per antonomasia (supra, capp. 11‑12). In secondo luogo, il fenomeno saturo si realizza secondo il principio per cui tutto, per quanto segreto sia, deve s-coprirsi nell’evidenza di Cristo e in vista del riconoscimento di Cristo come Figlio del Padre; questa scoperta della profondità di Cristo esige quindi che chi vuole vederla debba trasformarsi in testimone, giudicato da ciò che riferisce (supra, cap. 13). In terzo luogo, non si tratta solo di vedere Gesù, ma di considerare il suo volto guardandolo-in-volto [envisager] come quello di Cristo e di attraversare la superficie secondo la profondità del Figlio; si tratta cioè di conoscervi l’icona del Padre invisibile, vedendola sotto un certo angolo, in un fenomeno sia visibile che invisibile, un paradosso. Dalla messa in fenomenicità del volto di Cristo risulta eviden-

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te che ogni testimone può affrontarla solo percorrendone la profondità – quella che permette di mirare il Padre invisibile nella sua icona visibile (supra, cap. 14). Bisognerebbe quindi riconoscere che ciò che la teologia cristiana nomina come dogma della Trinità appartiene al campo fenomenico della s-coperta di Cristo, come paradosso del fenomeno saturo per antonomasia, la Rivelazione. Rimane quindi da svolgere il lavoro necessario a mostrarlo e concepirlo (infra, capp. 15‑18).

Della moltiplicazione dei modelli trinitari Per arrivare all’obiettivo è possibile iniziare nuovamente a partire dalla riflessione di Barth: «è Dio a rivelarsi. Egli si autorivela. Egli rivela se stesso»1. Detto altrimenti: la triplice dimensione dell’origine, della modalità e del risultato dell’unica rivelazione dell’unico Dio attesta che è «proprio nel fatto e nel modo di questa Rivelazione che si manifesta come quel Dio lì. Sì, quel Dio lì non vuole e non può manifestarsi che nel fatto e nel modo di quella rivelazione lì»2. Il carattere trinitario di Dio non consegue, come un’informazione (tra le altre), dalla manifestazione del mustêrion, ma definisce il modo stesso della manifestazione, cosicché la forma e il fondo [fonds] coincidono esattamente, la Trinità si scopre secondo una modalità trinitaria. «Non diciamo che la rivelazione è il fondamento della Trinità come se Dio fosse trinitario solo rivelandosi e in vista della sua rivelazione, ma diciamo proprio che la rivelazione è il fondamento della dottrina della Trinità; la dottrina trinita-

1.  K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 312 (cfr. supra, cap. 7). 2.  Ivi, p. 313; cfr. «la Bibbia ci risponde in modo tale da obbligarci a riflettere sul carattere trinitario di Dio» (ivi, p. 319).

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ria non ha altro fondamento che questo»3. L’audacia barthiana non consiste solo nel considerare che le tre dimensioni della rivelazione (la terna di origine, modalità e risultato) implicano già una triplicità di operazioni, ma nel fatto che tramite questa triplicità di manifestazioni la Trinità stessa si rivela e quindi si fenomenizza. La triplicità della manifestazione si impone perché dispiega la trinità stessa di Dio, la trinità di Dio si rivela tramite la triplicità della sua manifestazione. In quale senso intendere tutto ciò? Una cosa è arrivare a percepire (secondo i sinottici) che il Padre costituisce il fondo [fonds] a partire dal quale il volto di Gesù può essere riconosciuto come figura di Cristo, altra cosa è concepire che la figura di Cristo si scopre come quella del Figlio – dell’unica icona del Padre – perché apre alla distanza della filiazione in Dio, quindi, di rimando, alla sua paternità eterna (secondo Giovanni); ma è altra cosa ancora, radicalmente diversa, porre che queste dimensioni della manifestazione del Figlio e del Padre per noi scoprono in se stesse come Trinità «Dio che nessuno ha mai visto». Non è sufficiente lo svolgimento dei momenti della manifestazione per noi per esaurire ciò che un approccio fenomenico della rivelazione può assicurarci? Si può inferire una rivelazione della Trinità come tale da questo svolgimento e da questa realizzazione? Si dovrebbe pur farlo, perché «essenzialmente è la dottrina della Trinità a specificare dal principio il carattere cristiano del concetto di rivelazione della dottrina su Dio, in opposizione a tutte le altre dottrine su Dio»4. Abbiamo già constato a sufficienza l’inadeguatezza di qualunque concetto contrario al raggiungimento della logica dello scoprimento, ancor più dopo averne stigmatizzato le illusioni 3.  Ivi, p. 329; cfr. «la nostra regola permanente, cioè che le proposizioni dogmatiche sulla Trinità immanente devono essere tratte dalle indicazioni sui modi d’essere divini nella rivelazione» (ivi, p. 509). 4.  Ivi, p. 318.

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idolatriche (supra, capp. 6‑7), senza dimenticare il principio secondo il quale, quando si tratta di Dio, pretendere di comprenderlo non ha alcun senso, ma si tratta solo di comprendere il meglio possibile come si debba entrare e rimanere in una corretta incomprensibilità – se diventasse comprensibile, non si tratterebbe più di lui. Il pensiero migliore è da attribuire al miglior pensiero dell’incomprensibile. Per definizione, nessun modello trinitario è adeguato alla Trinità, ancor meno alla sua rivelazione, posto che si possa approcciare la Trinità a partire dalla scoperta della sua fenomenicità propria, la fenomenicità della carità. Un pensiero della Trinità sobrio e razionale, non delirante né idolatrico, può al più mirare a concepire in cosa e perché essa risulti accessibile solo tramite un atto di carità che vi mira la carità in atto. Questa riserva di principio non era sconosciuta allo stesso Barth, che seppe correggere la prima formulazione del legame tra rivelazione e Trinità, giudicato troppo sommario: «qui si tratta logicamente delle tre questioni del soggetto, del predicato e dell’oggetto contenute nella breve frase “Dio parla, Deus dixit”». Egli ha riconosciuto che evidentemente non intendeva dedurre un modello per intendere la Trinità dalla forma predicativa del giudizio, né «fondare grammaticalmente la Trinità, quindi fondarla in modo razionalista»5. Tuttavia, molto correttamente, ha mantenuto che anche la semplice formula grammaticale, una volta confrontata con la Parola di Dio, cioè a condizione di metterla in rapporto con la Scrittura, consente di ricostruire una certa logica trinitaria della sua rivelazione. Anch’essa, perché altre – forse molte altre – possono applicarvisi, proprio perché nessuna è pienamente conveniente al mustêrion. Sembra dunque legittimo introdurre una logica nuova, cioè il modello fenomenico della Trinità, che – forse meglio di altri,

5.  Ivi, p. 312.

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anche se per definizione in modo imperfetto – potrebbe offrire un qualche accesso alla manifestazione intrinsecamente trinitaria della scoperta del mustêrion. Al fine di renderlo più preciso e pregnante, ne offriremo uno schizzo tramite il contrasto con due altri modelli che nella tradizione sono stati più sviluppati (infra, cap. 17). L’uno, il modello ontico, è stato seguìto dalla prima dogmatica dei concili ecumenici, non senza che i teologi ne abbiano rilevato i limiti e che la metafisica (nel senso della metaphysica moderna, la sola che consideriamo a questo titolo) abbia tentato di criticarlo (cap. 15). L’altro, il modello economico (o, se si vuole, storico), spesso è stato privilegiato dalla teologia contemporanea, sia cattolica che riformata, non senza che assai rapidamente siano state riconosciute le sue possibili derive (infra, cap. 16). Questo percorso, sommario quel che basta per restare abbozzato, forse aprirà all’ultima difficoltà, che è tutt’uno con lo s-coprimento ultimo: il modello della comunione (infra, cap. 18).

La posta in gioco delle chiamate in causa Nella contemporaneità la questione della Trinità ritorna in tutta la sua urgenza; infatti, offre un sintomo dell’epoca nichilistica. Per alcune buone ragioni la questione di Dio oggi non risiede più in primo luogo nella questione della sua esistenza. Non solo la metaphysica non ci consente di definire l’esistenza altrimenti che come posizione, quindi consente ancor meno di provarla o dimostrarla: anche quando si tratta di un ente mondano non possiamo far altro che constatarla, per di più tramite un’esperienza vaga. Soprattutto, non è più possibile affermare con sicurezza e senza cautela che l’essere (in qualunque senso lo si intenda) abbia a che fare con la santità di Dio, né che possa svelarne quel che sia, a meno di incappa-

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re in un’idolatria sommaria, per quanto metafisica. C’è di più: forse, tra chi ammette e chi rifiuta Dio, a livello di conoscenza ontica e di esperienza psicologica non c’è alcuna differenza: l’uno e l’altro ne sanno in egual misura e differiscono solo per ciò che ne decidono e ne inferiscono. In breve, la questione di Dio vira dal dibattito sulla sua esistenza alla decisione sulla sua essenza o, piuttosto, sul fatto che anche questa essenza rimanga inaccessibile perché, nuovamente, se la conoscessimo non staremmo parlando di Dio. La questione decisiva si concentra ormai su questo punto: possiamo concepire qualche pensiero che meriti di essere attribuito a qualcosa come “Dio” o, piuttosto, possiamo concepire qualche pensiero che non sarebbe immediatamente squalificato rapportandolo a ciò che, senza comprenderlo, miriamo sotto il nome di “Dio”? La difficoltà del nostro tempo non consiste più innanzitutto né solamente nella «morte di Dio» ma nella mancanza di parole per dire e anche per maledire Dio, ossia consiste nella scarsità di parole divine. Proprio qui la rivendicazione cristiana circa la Trinità di Dio fa sentire tutta la sua autorità e potenza: essa corrisponde a uno dei rari, se non l’unico, seri tentativi per avvicinare, mirare e anche dire come tale l’incomprensibilità divina, quindi per liberarsi degli idoli, quelli sensibili e quelli concettuali. Questa eccezione e questa pretesa spiegano anche la dura contestazione dell’interpretazione trinitaria della manifestazione di Dio operata da due critiche, tra loro opposte ma alleate contro ciò che nei secoli gli resiste, come una piazzaforte talvolta accerchiata ma mai conquistata. Queste due opposte resistenze convergono perché, andando in due direzioni opposte, rifiutano ciò che la Trinità dà a pensare: che l’unicità di Dio dipende dalla modalità della sua unità, la comunione. In un primo senso, si può negare ciò che Atanasio ha difeso sotto il titolo di «venerabile predicazione concernente l’uni-

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cità divina, agion kerugma monarkhias»6. Nella sua forma più semplice si tratta dell’obiezione politica proveniente da Erik Peterson: l’interpretazione monarchica della Trinità, pensata a partire e a profitto del Padre (sia nella “teologia greca” che nell’arianesimo stretto) avrebbe portato alla confusione con la gerarchia del potere nella città degli uomini, cioè avrebbe avvallato e persino reso possibile le forme assolutiste, fino a quelle totalitarie, dell’autorità politica7. Questa obiezione politica si aggiunge al dubbio più antico e radicale relativo alla questione dell’unicità del Dio trinitario; infatti, con quale diritto il Dio degli Ebrei ha potuto assumere il rango di Dio unico – proprio lui che a lungo è stato in aperta concorrenza con gli dèi delle altre nazioni, soprattutto quando il popolo eletto prese possesso della terra di Israele e dovette combattere contro le divinità di Canaan, cioè confrontarsi con loro, spesso compromettendovisi e quindi riconoscendole? Con quale diritto squalificare come nulla e mai advenuta l’esperienza religiosa di coloro che di conseguenza vengono definiti pagani, nonostante l’abbondanza di testimonianze della loro pietà, delle loro preghiere, dei loro riti e addirittura della loro spiritualità? La costruzione del mito dell’“ateo virtuoso” fatta

6. Atanasio, Il credo di Nicea, Città Nuova, Roma 2001, 26, 1, p. 110 [PG 25, 46d], citando Dionigi di Roma. 7.  E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, Hegner, Leipzig 1935; tr. it., Il monoteismo un problema politico, Queriniana, Brescia 1983. Indiscutibilmente è ciò che successe nella storia occidentale durante l’era cristiana; con la differenza che questa deriva proveniva dall’interpretazione scorretta della Trinità come subordinazione del Figlio al Padre, riducendo la dignità di Cristo al livello della creatura e permettendo di assimilargli il sovrano: l’arianesimo e tutti i suoi sostituti moderni (tra cui la rivendicazione dell’imperium dei re contro l’autorità pontificia, poi degli Stati contro la Chiesa) danno ragione a Peterson, ma confermano a contrario che la Trinità nel senso ortodosso (non intendendo quello della supposta “teologia greca”) ha sempre resistito a questa deriva idolatrica.

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dai “libertini”, lo studio comparato delle religioni dell’Illuminismo, la rivalutazione della mitologia da parte dei romantici rinforzano il dubbio relativo all’unicità del divino. Nietzsche ha potuto evocare il sorriso divertito degli dèi dell’Olimpo di fronte alla pretesa esclusiva di YHWH, Hölderlin aggiungere Dioniso all’“Unico” Cristo come suo fratello di divinità, infine Heidegger sottomettere qualunque eventuale scoprimento del Dio unico al disvelamento degli dèi, ha potuto farlo sottolineando l’uno all’apertura del divino e l’altro all’orizzonte di ciò che è intatto, quindi dell’essere8. In ogni caso il divino diventa qualcosa di troppo serio – anche e soprattutto se si rifiuta l’altrove – per concedere a YHWH la sua esclusività. La rivelazione trinitaria è quindi chiamata in causa nel nome della pluralità del divino. Tale rivelazione è messa però in questione anche sul fronte opposto perché comprometterebbe l’unicità di Dio. Il Giudaismo successivo alla fine del Tempio e poi l’Islam hanno denunciato (e continuano a denunciare) l’elaborazione cristiana del dogma trinitario, del resto lenta e difficoltosa, come un ritorno all’idolatria e al politeismo: se Dio genera un Figlio che è a propria volta Dio, allora Dio non è più l’Unico, quindi non è più Dio. Infatti, la denuncia di poliarchia, compromessa dal diteismo, fino al triteismo imposto dalle altre due persone9, all’inter8.  Cfr. J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., § 11, pp. 115-126 e Id., Dio senza essere, cit., cap. II, §§ 4‑5, pp. 57-75; D. Franck, Nietzsche et l’ombre de Dieu, PUF, Paris 1998; tr. it., Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos, Roma 2002, parte VI, pp. 303-376, e Id., Le Nom et la chose. Langue et vérité chez Heidegger, cit., cap. XIX, § 1, pp. 211-215; cap. XX, § 1, pp. 219-224; C. Sommer, Mythologie de l’événement. Heidegger avec Hölderlin, PUF, Paris 2017, cap. III, §§ 5‑6, pp. 83-102. 9.  Gregorio Nazianzeno ricorre a questi termini per ritorcere contro i loro autori le obiezioni ariane e pneumatomache, all’interno della discussione trinitaria stessa (cfr. Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXXI, 13, p. 174 [SC 250, pp. 300-302]).

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no del dibattito cristiano scandisce tutte le tappe della disputa ariana, fino ai suoi ultimi prolungamenti, con la questione delle due volontà e la disputa relativa alle icone. La tentazione non si è mai esaurita ma prosegue lungo i secoli tramite l’evocazione, fatta da alcuni medievali o dalle diverse declinazioni del socinianesimo (fino a parecchi protestanti liberali), di una deitas ulteriore rispetto alla Trinità. L’attuale conflitto con il Corano, in fin dei conti troppo sommario per valere qualcosa più di un sintomo, è invece sintomo di un’altra difficoltà, ben più seria: se Dio rimane Dio solo a titolo di unico e come l’Uni­ co (i cristiani lo riconoscono tanto quanto gli altri, anche se lo intendono diversamente), rimane da intendere correttamente la modalità di questa unicità, o piuttosto da vedere se e fin dove l’unicità è sufficiente per definire l’unità di Dio con sé. In mancanza di ciò si arriva a un’approssimazione confusa che di fatto nasconde una soluzione semplicistica. Un’approssimazione confusa che sotto il vocabolo discutibile di “monoteismo” riunisce giudaismo, islam e cristianesimo, ritenuti confrontabili e addirittura compatibili a titolo – falso se attribuito al cristianesimo – di “religioni del Libro” oppure riunendoli sotto l’altro titolo, anch’esso discutibile, di “religioni abramitiche” (cfr. Gv 8, 39‑40). Così facendo si dimentica o si dissimula il fatto che la confessione di Gesù come Cristo implica necessariamente la sua s-coperta come Figlio del Padre, il quale, insieme, fa uno con lui e rimane, per ciò stesso, più grande di lui (cap. 15). Facendo così, infatti, non si ottiene alcuna reale conciliazione con il giudaismo e con l’islam perché viene eliminata la tesi specificamente cristiana10. Implicitamente, ma inevitabilmente, si arriva infatti a una soluzione semplicistica: 10.  Su questo punto seguiamo R. Brague, in particolare Du Dieu des chrétiens et d’un ou deux autres, Flammarion, Paris 2008; tr. it., Il Dio dei cristiani. L’unico Dio?, Cortina, Milano 2009; e Id., Sur la religion, Flammarion, Paris 2018; tr. it., Sulla religione, EDB, Bologna 2019.

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un arianesimo generalizzato (e polimorfo), che si illude di evitare il politeismo e di rispettare il monoteismo ma che in realtà non fa altro che adottare il modello emanazionista della filosofia (all’occorrenza del neoplatonismo, in cui dall’Uno seguono le ipostasi gerarchizzate e allo stesso modo il Figlio e lo Spirito), adattandolo a un subordinazionismo intra-trinitario («ci fu un tempo in cui il Figlio non era») e a un adozionismo cristologico («l’umano assunto» dal Verbo). Le più esplicite forme di rifiuto del cristianesimo condividono lo stesso presupposto con i giudizi favorevoli su Gesù di stampo umanistico: non può trattarsi, con Cristo, del Figlio del Padre; si può ammettere tutto, salvo che egli «si faccia uguale a Dio» (Gv 5,18). Quando si rifiuta Cristo lo si fa sempre perché se ne rifiuta lo statuto trinitario e quando lo si tollera è solo a condizione di destituirlo. In questo rifiuto, come nei dibattiti che vi conducono, è comunque in gioco una questione autentica: sotto il titolo di Uno, che si suppone essere divino, si confondono due nozioni differenti, se non addirittura divergenti: quella dell’unicità e quella dell’unità. Per quanto siano state presentate come opposte, le due forme di rifiuto della Trinità risiedono nell’identificazione della divinità con l’unità e ciò al fine di deplorarla o per rinforzarla; anche la discussione dei teologi (i più tradizionali o i più critici) sulla compatibilità dell’unicità (della sostanza) con la pluralità (delle persone) poggia su questa stessa identificazione. In qualsiasi caso si ammette, almeno implicitamente, che l’unicità definisca come tale qualcosa come l’essenza divina, esattamente come la non generazione (agennêsia) per l’arianesimo11. La teologia cristia-

11.  Cfr. Aezio: «crediamo che la condizione di ingenerato (agennêsia) sia la sostanza (ousia) del Dio dell’universo» (Aezio, Panarion, PG 42, II, c. 536, citato da Basilio di Cesarea, Contro Eunomio, Città Nuova, Roma 2007, I, 4, p. 59) ed Eunomio: «quando diciamo ingenerato (agennêtos), non pensiamo di dover onorare Dio soltanto di nome, secondo un concetto (epinoia) umano,

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na (qui intesa nel senso di dottrina trinitaria) deriva tanto la sua originalità quanto la sua difficoltà dal fatto di rompere con questa identificazione, per una ragione certamente negativa: essa suppone che l’essenza divina sia conoscibile per concetto, ma ciò è pura e semplice idolatria. Vi è però anche una ragione positiva: l’unità divina, così come viene scoperta dalla Trinità, proviene dall’unione e all’unione ritorna, quindi implica il gioco dei tre poli di tale unione. In base alla manifestazione di Cristo in quanto Figlio, come colui che fa esclusivamente la volontà del Padre e quindi corrisponde al suo compimento «fino alla fine» (Gv 13,1), l’unicità divina mette in atto la comunione dell’agapê. L’unicità di Dio non si chiude in sé, ma respira la carità, che diffonde e apre come l’altrove da dove sorgono tutte le cose. L’unicità non riduce Dio a un segreto irrimediabile (Deus absconditus)12, ma (si) scopre come una comunione che non solo ne assicura l’unione, ma la sviluppa e la dona (bonum diffusivum sui). In una parola, l’identità non proviene dalla pura e semplice unicità, né vi si riduce; essa proviene dall’unità e l’unità a sua volta proviene dalla realizzazione dell’amore – per comunione. Questa esigenza propriamente “teologica” ha una conseguenza per la comprensione fenomenica della Trinità: conviene che la fenomenicità della s-coperta non solo non contraddica ma addirittura corrobori l’unità della comunione del Dio unico. In questo caso significa che essa deve corroborarla rendendola manifesta a proprio modo – fenomenicamente, facendo apparire come un fenomeno l’unità della comunione dei termini trinitari.

ma di dover pagare in verità a Dio il debito più imprescrittibile di tutti: la confessione che egli è ciò che è (tou einai ho estin). Dio invece, […] era ed è ingenerato (agennêtos)» (Eunomio, Apologia, Città Nuova, Roma 2007, § 8, pp. 34-35 [PG 30, c. 841c]), che espone perfettamente la pretesa metafisico idolatrica dell’arianesimo più conseguente. 12.  Su Calvino cfr. supra, cap. 7, nota 10.

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La pluralità numerica, l’unicità È ormai possibile ritornare sulla prima difficoltà, quella propriamente filosofica, relativa al modello ontico della Trinità. Infatti, il privilegio esclusivo che in Dio è accordato all’unicità, riguarda un punto di partenza ontico: essere ente corrisponde a essere un ente e a sua volta un uomo uno equivale precisamente a uomo essente, perché «l’uno [ha] i medesimi significati dell’essere/ente (to on)»13. L’unicità si applica quindi a tutto ciò che a titolo di ente si inscrive nell’orizzonte dell’essere, essa realizza ciò che il sistema della metafisica stabilirà come suo primo principio, il principio di identità: nulla può essere identico a se stesso nello stesso momento e sotto il medesimo rapporto. Pertanto, poiché l’identità – compresa quella numerica – definisce l’ente, perché Dio sia (in qualunque maniera egli sia) è necessario che rimanga identico a sé, senza differire da se medesimo. La sua unità dipende dalla sua unicità: l’Unico deve innanzitutto essere uno. Possiamo quindi ritornare sulla prima obiezione, propriamente filosofica (supra, capp. 5‑6): se si affronta Dio a partire dalla sua essenza e dalla sua esistenza, allora le persone non possono intervenire senza compromettere la sua unità: di conseguenza, per che cosa la pluralità delle persone qualifica ancora l’essenza divina? Nel Conflitto delle facoltà Kant offre alla questione l’unica risposta corretta: poiché la Trinità non consente alcuna intelligenza di Dio in quanto tale, la questione de Deo uno deve essere esaminata davanti al tribunale della ragione, senza far riferimento al de Deo trino, l’eventuale pluralità delle persone non riguarda né essenzialmente né sostanzialmente la divinità di Dio. Detto altrimenti: «nel suo senso letterale la dottrina trinitaria, quand’anche si credesse di comprenderla, è sotto il profilo pratico del tutto inutile, e le cose van peggio

13. Aristotele, Metafisica, cit., I, 2, 1054a16 e 1053b25, p. 445.

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se ci si rende conto che essa oltrepassa assolutamente ogni nostro concetto. – Che nella divinità si debbano venerare tre o dieci persone il discepolo lo crederà con la stessa facilità sulla parola, perché egli non ha punto il concetto di un Dio in più persone (ipostasi), ma ancor più perché da questa diversità egli non può ricavare regole diverse per la sua condotta»14. Di fatto, se la pluralità delle persone non fa altro che aggiungersi a posteriori all’unità dell’essenza, non solo non insegna nulla a proposito del Dio unico (il solo che la metafisica possa considerare, perché essa si attiene esclusivamente alle determinazioni dell’ente, quindi alla sostanza o all’essenza), ma anche il numero di questa pluralità resta indeterminato, perché privo di validità teorica, così che non c’è nulla da fare con la pluralità delle persone. Evidentemente questa bestemmia (lo è letteralmente, perché qui Kant parla male del mistero della Trinità) attesta, contemporaneamente, sia un’evidenza, sia un fallimento: un’evidenza

14.  «Aus der Dreieinigkeitslehre, nach dem Buchstabe genommen, läßt sich schlechterdings nichts fürs Praktische machen, wenn man sie gleich zu verstehen glaubte, noch geringer aber wenn man inne wird, daß sie gar alle unsere Begriffe übersteigt. – Ob wir in der Gottheit drei oder zehn Personen zu verehren haben, wird der Lehrling mit gleicher Leichtigkeit aufs Wort annehmen, weil er von einem Gott in mehreren Personen (Hypostasen) gar keinen Begriff hat, noch mehr aber weil er aus dieser Verschiedenheit für seinen Lebenswandel gar keine verschiedene Regeln ziehen kann» (I. Kant, Il conflitto delle facoltà, cit., I, 1, appendice II, 1, Ak. A. VII, p. 99). Cfr. I. Schüßler, Religion rationnelle et philosophie révélée. L’interprétation pratico-morale de la Trinité chez Kant (avec un aperçu sur son dépassement chez Hegel et Schelling), in «Revue de théologie et de philosophie», n. 144, 2012, pp. 47-72. Schleiermacher rimane sulla stessa linea: «essi [sc. gli spiriti più poetici] mi mostrano le rivelazioni attraverso cui conoscono un tale Dio – uno o più: io, nella religione, non disprezzo nulla così tanto quanto il numero (einen oder mehrere, ich verachte in der Religion nichts so sehr als die Zahl)» (F.D.E. Schleiermacher, op. cit., pp. 273-275, cfr. supra, cap. 6, nota 25).

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perché non fa altro che trarre la conclusione pressoché inevitabile della divisione tra i trattati de Deo uno e de Deo trino, già ammessa a partire quantomeno da Tommaso d’Aquino e dalla maggior parte dei teologi moderni (torneremo); ma è anche un fallimento, perché Kant non sospetta neppure per un istante che la Trinità, proprio in quanto comunione di persone, contro la sua conclusione, possa s-coprire Dio più radicalmente per la stessa pratica («schlechterdings nichts für Praktische»). Per poterlo capire sarebbe però stato necessario riconoscere che la pluralità (il numero) delle persone non consiste in un’appendice facoltativa e arbitraria che si aggiunge all’unicità di Dio, ma nell’economia dell’apocalisse dell’amore, tale da costituire l’essenza – e l’essenza pratica – di Dio. Questo, nessuno meno di Kant, che elimina l’amore della teoria e soprattutto della ragion pratica, poteva neppure sospettarlo. Per questo motivo si rende necessaria una guida diversa15.

Monoteismo, politeismo Rimane il fatto che la tesi di Kant sull’inutilità della pluralità delle persone consiste in un momento decisivo della teologia

15.  Tillich rettifica correttamente il controsenso: «il monoteismo trinitario non è un problema che riguardi il numero tre. […] Il numero tre non ha un particolare significato in sé […]. Il problema trinitario non ha nulla a che fare con la domanda insidiosa su come uno possa essere tre e tre possano essere uno; ogni processo vitale risponde a questo interrogativo. Il problema trinitario è il problema dell’unità fra ultimità e concretezza nel Dio vivente» (P. Tillich, Teologia sistematica, cit., p. 262). Infatti, non fa che riprendere la messa a punto di Tommaso d’Aquino: «i termini numerici non pongono nulla, ma soltanto escludono qualcosa in Dio, nihil addunt nisi negationem»; infatti la quantità e la qualità si dicono propriamente solo delle cose materiali, ma soltanto metaphorice di Dio (Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 30, a. 3, resp., p. 374).

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metafisica, ancor più decisivo della sua tesi sull’impossibilità di provare l’esistenza del Dio unico. Infatti, così come dopo di lui quest’ultima tesi sarà ancora contestata, parimenti l’indeterminazione della Trinità fisserà l’orizzonte della questione di Dio, ancor oggi. Ciascuno a proprio modo, Hölderlin, Schelling e anche Hegel rimangono fedeli alla posizione (di fatto kantiana) delineata in comune a Tübingen con Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco: «Monotheismus der Vernunft und des Herzens, Polytheismus der Einbildungskraft und der Kunst, dies ist’es, was wir bedürfen – Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: ecco ciò di cui abbiamo bisogno»16. Non si poteva dirlo meglio: per la filosofia (e per la religione naturale che essa eventualmente consente), detto in altro modo per l’ambito tracciato dalle due prime Critiche kantiane (ragion pura, ragion pratica), bisogna attenersi al monoteismo, intendendo con ciò sia un Dio unico sia un Dio equivalente all’Uno, secondo ciò che la metafisica può dirne, dal momento che essa lo considera nell’orizzonte dell’essere/ente e secondo la propria logica. Questo modo di accostarsi a Dio, però, non è sufficiente quando si tenta di andare verso il divino tramite l’immaginazione e l’arte, cioè tramite l’ambito che viene appena delineato dalla terza Critica kantiana (la facoltà del giudizio): l’ambito del bello, del sublime e della finalità, quello che il più sovente si sviluppa «senza concetto» e che può essere accostato ai fenomeni saturi, quello che supera la ristrettezza astratta e vuota del monoteismo. Per Schelling e Hölderlin prima, e dopo 16.  G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Hölderlin (?), Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus; tr. it., Il più antico programma di Sistema dell’idealismo tedesco, ETS, Pisa 2007, p. 25; come già Goethe: «Wir sind naturforschend Pantheisten, dichtend Polytheisten, sittlich Monotheisten – noi siamo nell’investigare la natura panteisti, nel poetare politeisti e in morale monoteisti» (J.W. von Goethe, Maximen und Reflexionen; tr. it., Massime e riflessioni, Rizzoli, Milano 1992, § 807, p. 158).

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molti altri, si doveva ricorrere, tra le altre cose, a una rinnovata mitologia dell’Antichità, che riprendesse l’immenso campo della divinità e del sacro rifiutato e abbandonato dal sistema della metafisica. Il nostro tempo è ancora a questo livello, le sue nostalgie irrazionali e temerarie per supposte sapienze “altre” o per spiritualità indefinite attesta l’insufficienza radicale dell’approccio definito “monoteista” a Dio, che lo definisce come l’unico e il solo, colui che non si dona e quindi non si manifesta, che resta al riparo rispetto a noi. Successivamente, Schelling formulerà la questione con chiarezza: bisogna certo iniziare dal monoteismo, dal «concetto del monoteismo, cioè […] quel concetto che è il più alto di tutta la vera religione, e appunto per questo anche quello dal quale deve derivare una spiegazione della falsa religione», ma questo monoteismo può restare soltanto astratto, semplice unicità numerica di un’essenza perfettamente identica a se stessa; bisogna quindi distinguere «il monoteismo nel concetto dal monoteismo come dogma o dall’effettivo monoteismo. Quest’ultimo esiste là dove le potenze si escludono reciprocamente, quando dunque c’è in Dio una reale pluralità». Resta da vedere chi/che cosa, nel monoteismo effettivo, costituisca la verità di tale pluralità, a quale istanza affidare l’idea «che Dio non è (come nel puro e semplice teismo) il semplicemente unico, ma l’unico come Dio, ossia nel fatto che l’affermazione dell’unicità in Dio non può essere puramente negativa, ma soltanto positiva, cioè affermativa»17. Si tratterebbe infatti 17.  «Auf den Begriff des Monotheismus geführt, d.h. auf denjenigen Begriff, der der höchste aller wahren Religion ist – eben deshalb auch der, von welchem eine (objektive) Erklärung der falschen Religion auszugehen hat. […] Wir unterscheiden damals den Monotheismus im Begriff vom Monotheismus als Dogma oder dem wirklichen Monotheismus. Letzterer ist da, wo die Potenzen sich gegenseitig ausschließen, also eine wirkliche Mehrheit in Gott gesetzt ist. Denn vor der Spannung ist viele Mehrheit in Gott nur potentiell, und dies nannten wir den Monotheismus im Begriff. Diesem selbst

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di reintrodurre una pluralità quasi trinitaria nel monoteismo metafisico. Schelling, tuttavia – che, nonostante le apparenze, non pensa come un teologo cristiano – inizia a pensare questa unicità «affermativa» solo a partire dalle risorse metafisiche (all’occorrenza dialettiche e speculative), cioè a partire dalla differenza delle «potenze (Potenzen)», quindi dall’essere nei suoi momenti (negativi o positivi), in modo analogo a Hegel, il quale inizia a pensare a partire dalla differenza delle figure logiche (concetto, negativo), quindi ancora una volta dall’essere. Probabilmente anche Nietzsche rimane ancora in questo orizzonte, quando tenta di suscitare «nuovi dèi» dall’unica volontà di potenza e con Heidegger si prosegue ancor di più su questa via, attendendo dall’Ereignis, il cuore dell’essere, l’«ultimo dio», o quello nuovo. Bisognerebbe allora chiedersi se non fosse possibile superare i limiti del modello ontico della scoperta trinitaria rimanendo nei limiti dell’essere/ente (anche ricorrendo al negativo e alle «potenze»). Il che porta anche a chiedere come sia possibile per la filosofia superare il proprio destino metafisico, anche

aber liegt als letzter Gedanke zu Grund, daß Gott nicht (wie im bloßen Theismus) der schlechthin Einzige, sondern der als Gott einzige ist, oder daß die Behauptung der Einzigkeit in Gott nicht eine bloß negative, daß sie nur eine positive, d.h. affirmative sein könnte» (F.W.J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, cit., Lezione XIII, p. 471). Cfr. «se Dio è uno secondo la sua essenza, tuttavia nelle sue forme di esistenza è molti. Così il politeismo contiene le forme d’esistenza e il monoteismo che ne consegue per oltrepassamento del politeismo è l’unità conosciuta come risultato. Il vero monoteismo è un libero rapporto dell’uomo a Dio [inteso] come uno spirito assolutamente libero – Ist Gott seinem Wesen nach Einer, in seinen Existenzformen aber Mehrere, so enthält Polytheismus die Existenzformen, und der darauf folgende aus der Überwindung des Polytheismus hervorgehende Monotheismus ist die gewußte Einheit als Resultat. Der wahre Monotheismus ist ein freies Verhältnis des Menschen zu Gott als absolut freiem Geist» (F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung WS 1841/42 (J. Frauenstädt), Frankfurt a.M., Suhrkamp 1977, p. 381).

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e soprattutto a riguardo dei suoi ultimi tentativi speculativi, giacché non va da sé che la ragione filosofica possa apprendere in Dio qualcosa più della sua essenza (o della sua sostanza) o, detto altrimenti, qualcosa più della sua unicità pensata a partire da ciò che l’essere permette di capire. Né va da sé che la filosofia possa pensare tale unicità a partire da un’unità più radicale – l’unità di una comunione realmente «affermativa».

La distinzione dei trattati Tali questioni però diventano ancor più pericolose nella misura in cui emergono dallo sfondo di un’altra difficoltà, propriamente teologica, che si è già manifestata insieme all’interpretazione epistemologica della rivelazione (supra, capp. 4‑5): la distinzione tra la conoscenza naturale di Dio tramite il lumen della ragione e la conoscenza soprannaturale tramite la rivelazione divina si è infatti molto presto prolungata nella distinzione tra la conoscenza filosofica (cioè metafisica) dell’esistenza di Dio (quindi della sua unicità) e la conoscenza rivelata (soprannaturale, «teologica») della sua trinità. Nel pensiero cristiano ortodosso stesso (ivi compreso e in un certo senso soprattutto quello formulato dopo Calcedonia) la mancanza di articolazione tra la pluralità delle persone e l’unicità dell’essenza (o della sostanza) provoca una distinzione, apparentemente molto chiara, tra due modi di conoscenza, tra due scienze (o quasi scienze). Queste distinzioni che gli si aggiungono finiscono a far distribuire – in modo scolastico, ma anche concettuale – la rivelazione di Dio in due trattati separati, de Deo uno e poi de Deo trino. Già Tommaso d’Aquino riconosce questa distinzione ontica (Dio nella sua quasi-essenza e Dio che si dispiega nella Trinità), subito confermata da una distinzione epistemologica (ragione naturale, scienza soprannaturale): «la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appar-

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tiene all’unità dell’essenza e non alla pluralità delle persone. Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell’essenza, e non ciò che appartiene alla pluralità delle persone»18. La sovrapposizione di queste due distinzioni non poteva che produrre un effetto radicale al pari di quelli cui si è già accennato dell’interpretazione epistemologica della rivelazione. In Suarez questo effetto corrisponde a niente di meno che a dividere la sostanza divina (proprio nel Tractatus de divina substantia) in due parti nettamente distinte: «in quest’opera parliamo di Dio in quanto uno e in quanto trino; quindi ci saranno due parti principali, la prima che si può definire sull’unità di Dio, l’altra sulla Trinità»19. La sfida posta da questa divisione va oltre: non si tratta solo di distinguere due scienze, né di marcare la differenza tra l’unità e la pluralità, ma di decidere ciò che appartiene o no all’essenza divina, cioè

18.  «Virtus autem creativa Dei communis est toti Trinitati; unde pertinet ad unitatem essentiae, non ad distinctionem personarum. Per rationem igitur naturalem cognosci possunt de Deo ea quae pertinent ad unitatem essentiae, non autem ea quae pertinent ad distinctionem personarum» (Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 32, a. 1, resp., p. 338). Rahner sottolinea che «si può avanzare il sospetto che per il catechismo della testa e del cuore (a differenza del catechismo stampato), l’immagine dell’incarnazione non muterebbe affatto nel cristiano, se non ci fosse affatto la Trinità» (K. Rahner, Bemerkungen zum dogmatischen Traktat “De Trinitate”, in Id., Schriften zur Theologie IV, Benzinger Verlag, Einsiedeln 1960 [19644]; tr. it., Osservazioni sul trattato «De Trinitate», in Id., Saggi teologici, Edizioni Paoline, Roma 1965, pp. 587-634: p. 591); o ancora Bouyer: «persino nella nostra visione di Dio o anche del Dio-Trinità, il legame con la conoscenza di Cristo appariva così assottigliato, che si potevano scrivere trattati interi De Deo uno et trino senza menzionare l’incarnazione, se non di passaggio» (L. Bouyer, Le Fils éternel. Théologie de la Parole de Dieu et christologie, Cerf, Paris 1974; tr. it., Il Figlio eterno, Paoline, Roma 1977, p. 9). 19.  «Dicimus igitur in hoc opere de Deo, ut unus est, et ut trinus, et ita duas habebit partes principales, prior de unitate Dei dici potest, altera de Trinitate» (F. Suarez, Tractatus de divina substantia, Opera omnia, vol. I, cit., prologus, p. XXIII).

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di considerare la possibilità che Dio possa essere ed essere conosciuto come tale senza considerare la comunione trinitaria, «ho sempre preferito la tesi contraria, a partire dalla quale affermo che le relazioni, ovvero le personalità o le persone, non riguardano l’essenza divina, né Dio in quanto tale»20. Infatti, questa decisione ha origine a partire da Boezio: «quindi la sostanza contiene l’unità, al punto che la relazione moltiplica la Trinità»21. Detto altrimenti: le persone della Trinità non definiscono l’essenza di Dio, quindi la divinità di Dio si dispiega in quanto tale senza la comunione trinitaria, in un’unità che si riassume nell’unicità (ontica) e non scopre nulla dell’unione (di carità). Bisogna quindi chiamare in causa, se non mettere in dubbio, i termini ontici del discorso.

La sostanza e la persona, aporie ontiche Come va valutata questa sorprendente (e anche molto poco cristiana) conclusione? Si tratta ovviamente di una forma di monoteismo per sottrazione, riferita alla conoscenza rivelata, che si espone a due obiezioni parimenti critiche. In fon-

20.  «Contraria sententia mihi semper placuit, juxta quam assero relationes seu personalitates vel personas non esse de essentia divinitatis nec Dei ut Deus est» (ivi, IV, 5, 1, p. 628, sottolineature nostre). Rahner precisa che «una netta scissione dei due trattati succede […], per motivi non ancora veramente appurati, solo in S. Tommaso» (K. Rahner, Osservazioni sul trattato «De Trinitate», cit., p. 599). Questa constatazione, tuttavia, non vale soltanto per chi si affida al catechismo, ma anche e soprattutto per gli stessi teologi. Sulla storia di questa separazione cfr. A. Frigo, La Trinité indifférente. L’évolution moderne des traités De Deo uno et De Deo trino, in «Revue catholique internationale Communio», n. 45, 2020, pp. 117-132. 21.  «Ita igitur substantia continet unitatem, relatio multiplicat trinitatem» (Boezio, Quomodo Trinitas unus Deus ac non tres dii, PL 64, c. VI, 1255a).

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do, però, deriva da una decisione antica e univoca: pensare il mistero trinitario di Dio a partire da due concetti (o da un insieme di concetti) di origine decisamente ontica, da una parte ousia/phusis/substantia/essentia e dall’altra hupostasis/ prosôpon/persona. Il punto cruciale e da mettere in discussione non consiste nella supposta “ellenizzazione” dell’eredità biblica da parte dei primi pensatori cristiani, perché la traslazione dei libri biblici e del lessico ebraico era divenuta a tal punto inevitabile da iniziare ben prima dell’opera di tali pensatori, fin nell’antico giudaismo della diaspora: Giustino e Origene sono già degli eredi. Il punto in questione non riguarda tanto un trasferimento linguistico (perché tutto può essere tradotto e tradotto bene, anche e soprattutto gli intraducibili)22, quanto piuttosto l’orizzonte inevitabilmente ontico del lessico greco. La questione dell’essere si dice in greco e il greco dice spontaneamente la questione dell’essere. Il pensiero giudaico ha sempre fatto esperienza della difficoltà di dire in greco ciò che resiste al pensiero dell’essere (Lévinas) e neppure il pensiero cristiano vi è scampato; non poteva né doveva farlo. Assunto ciò, si possono precisare i termini della questione: fino a quale punto i concetti costruiti per pensare – o almeno per dire (in greco) l’essere/ente possono dire e pensare la scoperta (trinitaria) del mustêrion (del Padre)? Quali correttivi e quali precauzioni bisogna introdurvi, a partire da quale momento? Bisogna segnalare che furono anzitutto gli avversari ariani a imporre i termini del lessico ontico ai Padri di Nicea e Calcedonia; per esporre il mustêrion, gli ariani non ponevano alcuna

22.  Cfr. B. Cassin (éd.), Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Seuil-Le Robert, Paris 2004. Una buona diagnosi di queste difficoltà si trova in J.-Y. Lacoste, «Homoousios et homoousios». La substance entre théologie et philosophie, in Id., L’Intuition sacramentelle et autres essais, Ad Solem, Paris 2015, pp. 211-233.

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riserva all’uso del vocabolario filosofico. Essi utilizzavano senza esitare l’ousia, l’Uno, la processione delle ipostasi, la loro gerarchizzazione e la loro emanazione per derivarne senza scrupolo alcuno conseguenze ontiche, governate dalla subordinazione in “teologia”. La scelta ontica dei concetti portava quindi inevitabilmente – e a loro giudizio con evidenza – a versioni di neoplatonismo che si sono supposte essere cristiane. Beninteso: da Atanasio a Massimo il Confessore i Padri greci hanno saputo correggere i concetti di origine ontica per fa sì che servissero le esigenze ortodosse della “teologia”23, ma la questione del rapporto tra ellenismo e cristianesimo resta aperta, proprio perché si tratta di misurare la cristianizzazione dell’ellenismo, non l’ellenizzazione del cristianesimo; in questo caso Nietzsche e Heidegger sono stati più perspicaci di Bultmann. Rimane il fatto che si deve determinare, in ogni caso – e in particolare quando si considera la Trinità (infatti lo stiamo considerando dall’inizio), fino a dove possa funzionare un concetto di origine ontica e invece a partire da quale momento non sia più adeguato. Probabilmente sono stati i Padri latini, proprio perché rimanevano più distanti dall’evidenza della lingua greca, a vedere con maggiore chiarezza questi limiti, in almeno due casi, ousia/substantia/essentia e hupostasis/prosôpon/persona. Stranamente Boezio, che pure ha permesso di distinguere tra l’unità della substantia e la pluralità delle personae, ha consentito che solo la prima delle categorie dell’ente, la substantia, venisse applicata a Dio «nam substantia in illo [sc. Deo] non est vere substantia sed ultra substantiam – perché la sostanza non è in Dio, perché egli non è veramente sostanza, ma oltre 23.  È sufficiente consultare E. von Ivànka, Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Johannes Verlag, Einsiedeln 1964; tr. it., Platonismo cristiano. Ricezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica, Vita e Pensiero 1992, e tutti i lavori che ne derivano.

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la sostanza»24. D’altronde Boezio non fa altro che riprendere la posizione riluttante di sant’Agostino: «unde manifestum est Deum abusive substantiam vocari, ut nomine usitatiore intelligitur essentia, quod vere ac proprie dicitur; ita ut fortasse solum Deum dici oporteat essentiam – perciò è chiaro che Dio si chiama sostanza in senso improprio, per far intendere con un nome più corrente che è essenza, termine giusto e proprio, al punto che forse solo Dio si deve chiamare essenza»25. Infatti, la substantia deve sia il suo primato tra le categorie (ousia) sia anche il suo rango in quanto uno dei quattro sensi dell’ente al fatto di permettere, nel primo caso, che le si predichi una delle altre categorie (qualità, differenza, quantità, ecc.), nell’altro caso, che le si attribuiscano degli accidenti (sumbebêkota). Ora, in Dio non si trovano né predicati né attributi, secondo il principio per cui in Dio tutto è (di) Dio stesso. In Dio nulla è relativo perché nulla è Dio relativamente26. Quindi, rigoro24.  Boezio, Quomodo Trinitas unus Deus ac non tres dii, cit., c. IV, 1252. 25.  Agostino, De Trinitate, cit., VII, 5, 10, p. 315; e «substantiam, vel, si melius dicitur, essentiam Dei – sostanza o, se è meglio dire così, l’essenza di Dio» (ivi, III, 11, 21, p. 161). Cfr. i nostri rilievi in J.-L. Marion, Substantia. Note sur l’usage de substantia par saint Augustin et sur son appartenance à l’histoire de la métaphysique, in I. Atucha et alii (éd.), Mots médiévaux offerts à Ruedi Imbach, Brepols, Turnhout 2011, pp. 691-701, e quelli di A. Tisserand, op. cit., p. 53. La questione può diventare: si può intendere l’essentia univocamente e propriamente di Dio (è noto che Tommaso d’Aqui­no lo metterà in discussione)? 26.  A proposito della Trinità, infatti, i Padri greci non utilizzano molto spesso la categoria del pros ti (rapporto a), che d’altronde da Aristotele era considerata come ultima e quindi esonerava l’ousia «nessuna ousia fa parte dei pros ti» (Aristotele, Categorie, cit., 7, 8a13, b21, p. 103), ma ricorrono al termine skesis (rapporto, modo di rapportarsi): «mi sentirei veramente in difficoltà davanti alla vostra divisione [tra il termine ousia e quello di energeia], se fosse inevitabile accettare uno dei due corni del dilemma, e non si potesse, piuttosto, dichiarare vera una terza possibilità, evitando le due sopra dette, nel senso che il nome di “padre” non definisce l’ousia, mie saggissime persone, né l’energeia, ma una relazione (skhesis), cioè il

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samente parlando, Dio non si abbassa al rango della sostanza, neppure di sostanza prima, ma si pone oltre la sostanzialità (ultra substantiam), mentre l’arianesimo e tutte le sue derivazioni suppongono il contrario. Però, se sostanza non è termine adeguato a Dio, che cosa vuol dire mostrare la divinità come una sostanza e come può questa sostanza mostrare la divinità di Dio senza trinità di persone? Oppure, se le persone si aggiungono (per predicazione o per attribuzione, o in qualunque altro modo si vorrà) all’unica sostanza divina, come potrebbero costituirsi come Dio stesso? La stessa inadeguatezza si ripete per il concetto di persona. Agostino ha sottolineato che i Greci dicono hypostasis senza che si possa notare la differenza rispetto a ousia, di modo che la formula [credere in] mian ousian, tres hypostaseis in latino diventa abbastanza confusa: unam essentiam, tres substantias; pertanto, a questa formula è stata preferita quella unam essentiam vel substantiam, tres autem personas. Rimane da determinare ciò che persona possa significare esattamente: se vogliamo indicare che il Padre non si confonde né con il Figlio, né con lo Spirito, e che essi restano distinti nell’unica distanza, come si può qualificare questa distinzione? Senza poterla esprimere con un concetto la pensiamo e la diciamo: «tamen, cum quaeritur quid tres, magna prorsus inopia humanum laborat eloquium. Dictum est tamen: tres personae, non ut illud diceretur, sed ne taceretur – tuttavia se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza modo (pôs) in cui il Padre è in rapporto (pros) con il Figlio o il Figlio con il Padre» (Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXIX, 16, p. 118 [SC 250, p. 210]). Difficile da tradurre, lo scarto tra la relazione (pros ti), l’ultima e minima delle categorie aristoteliche dell’ente e la skhesis trinitaria gioca un ruolo essenziale: Dio non è un’ousia nel senso di ciò che riceverebbe degli accidenti, non è neppure refrattario alla relazione, che, ormai chiamata skesis, diventa essenziale, contro la tematica ontica.

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estrema dell’umano linguaggio. Certo si risponde “tre persone”, ma più per non restare senza dir nulla, che per esprimere quella realtà»27. Nessun «nome specifico o generico» consente di «dire qualcosa quando si chiede cosa o piuttosto chi siano questi tre, definiti tre dalla fede». Rispondendo tria personae, tre persone, non pensiamo il benché minimo concetto di ciò che condividono in comune i tre (perché condividono la loro comune divinità e questo è sufficiente), né in che modo essi lo condividono (perché lo condividono in quanto differenti, in quanto Padre, Figlio e Spirito e ciò è sufficiente). Quindi pensiamo ciò che non diciamo, perché ci manca il concetto. Proprio questo, ossia l’eccesso di ciò che c’è da pensare rispetto alle nostre risorse concettuali, concorda assolutamente con quanto si tratta di pensare28. A ben vedere, la definizio-

27.  Agostino, De Trinitate, cit., V, 9, 10, p. 251. Cfr. «è dunque evidente come sia opportuno, per ogni uomo, credere in una ineffabile trina unità e una trinità (in quandam ineffabilem trinam unitatem et unam trinitatem). Una e unità per l’essenza unica, invece trina e trinità per tre non so che cosa (trinam vero et unitatem propter tres nescio quid). Infatti, sebbene io possa dire “trinità” per il Padre, il Figlio e lo Spirito di entrambi, che sono tre, non posso tuttavia proferire, con un solo nome, ciò per cui sono tre (non tamen possum proferre uno nomine propter quid tres), per esempio dicendo “per tre persone” così come dico l’unità per l’unica sostanza. Non si devono infatti ritenere tre persone, perché tutte le diverse persone sussistono così separatamente tra loro, che è necessario vi siano tante sostanze quante sono le persone» (Anselmo, Monologion, Rusconi, Milano 1995, LXXIX, p. 227). 28.  «Et, dum intelligatur saltem in aenigmate quod dicitur, placuit ita dici, ut diceretur aliquid cum quaereretur quid tria sint, quae tria esse fides vera pronuntiat, cum Patrem non dicit esse Filium et Spiritum sanctum quod est donum Dei, nec Patrem dicit esse nec Filium. Cum ergo quaeritur quid tria, vel quid tres, conferimus nos ad inveniendum aliquod speciale vel generale nomen, quo complectamur haec tria, neque occurrit animo, quia excedit supereminentia divinitatis usitati eloquii facultatem. Verius enim cogitatur Deus quam dicitur, et verius est quam cogitatur – e perché si intenda almeno in enigma ciò che si dice, ci si è accontentati di queste espressioni per rispondere qualcosa quando si chiede che cosa sono i Tre; questi Tre di

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ne (diventata proverbiale) di persona di Boezio «naturae rationalis individua substantia – sostanza individuale di natura razionale»29 si limita a aumentare le difficoltà. Innanzitutto, una sostanza è individuale solo se si tratta di una ousia prôtê, di un’essenza primaria, in questo caso, tuttavia, il principio della sua individuazione resta indeterminato e una natura; se si tratta di una ousia seconda (genere, specie) non è subito sufficiente a individualizzarla. Inoltre, posto che venga attinta in questo mondo, è possibile che questa individuazione si trasferisca in Dio e lì si moltiplichi? Per conservare persona in quanto concetto, Tommaso d’Aquino lo dovrà sovradeterminare tramite le dottrine della relazione e della missione, in un certo senso dovrà quindi abbandonarlo30. Questo abbandono

cui la fede ortodossa afferma l’esistenza, quando dichiara che il Padre non è il Figlio e lo Spirito Santo, che è il dono di Dio, non è né il Padre né il Figlio. Quando si chiede dunque che cosa sono queste tre cose e questi Tre, ci affanniamo a trovare un nome specifico o generico che abbracci queste tre cose, ma non si presenta allo spirito, perché l’eccellenza sopraeminente della divinità trascende la capacità del linguaggio abituale. Quando si tratta di Dio il pensiero è più vero della parola e la realtà più vera del pensiero» (Agostino, De Trinitate, cit., VII, 4, 7, p. 307). 29.  Boezio, De persona et duabus naturis, PL 64, III, 1343), ripreso in grande stile da Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 29, a. 1, pp. 358 ss. Sulle difficoltà portate da questa definizione cfr. M. Nédoncelle, Les variations de Boèce sur la personne, in «Revue des sciences religieuses», n. 29, 1955, pp. 201-238 che vi distingue almeno sei accezioni di persona e vi riconosce «un metafisico che la logica ha invaso e scacciato, tuttavia senza annientarlo» e E. Housset, La vocation de la personne. L’histoire du concept de personne, de sa naissance augustinienne à sa redécouverte phénoménologique, PUF, Paris 2007, in part. capp. III e IV, pp. 101-154. 30.  Tommaso, Summa Theologiae, cit., Ia, q. 29, a. 3, pp. 363 ss. Già Girolamo era reticente nell’uso di hupostasis, «perché qualcosa di velenoso si nasconde in quelle sillabe (nescio quid veneni in syllabis latet)» (Girolamo, Lettre XV au pape Damase, n. 3, in Id., Lettres de saint Jérôme, éd. J. Labourt, vol. I, Belles Lettres, Paris 1947, p. 47). Barth espone chiaramente le sue riserve a un uso sistematico di persona, preferendo parlare con rigore

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indica però (fortunatamente!) che egli fa un passo indietro rispetto al modello ontico della Trinità. Si possono (e forse devono) utilizzare i concetti destinati a «ricercare» l’essere/ente, ma bisogna anche essere capaci di non utilizzarli fino al punto di rottura, o piuttosto di inadeguatezza. Non si può che sottoscrivere la constatazione di Bouyer: «bisogna dire di più […]: quando si parte dalla visione delle tre persone eguali, coeterne, inseparabili, checché si faccia non si può non cadere in un inevitabile triteismo, a meno che si abbia già alle spalle la visione dell’unica essenza nella quale esse sono come incapsulate a priori. Di qui l’inevitabilità, per coloro stessi che preferiscono lo schema trinitario “greco”, di ricadere presto o tardi nel cosiddetto schema “latino” e di scontrarsi di nuovo con le sue insolubili aporie»31. Per la teologia moderna, che succede alla sacra doctrina, è possibile disfare, correggere e superare ciò che ha inizialmente consentito, ossia la distinzione tra l’unità (essenza/sostanza) e la pluralità (persone) in Dio e poi provocato, un Dio pensabile senza la comunione trinitaria, un’unicità senza unità né comunione32? La cosa è da intendere anche in senso contrario: la

di tre «modi di essere di Dio» (cfr. K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., pp. 368‑388). 31.  L. Bouyer, Le Père invisible. Approches du mystère de la divinité, Cerf, Paris 1976; tr. it., Il Padre invisibile, Paoline, Roma 1979, p. 269. 32.  Come concludono senza esitazione o dubbio alcuno certi tomisti tanto tradizionali quanto eterodossi: «per concludere, la dottrina della Trinità deve ricondursi all’unità. L’unità è per noi la verità primaria, la Trinità la verità secondaria» (B. Bartmann, Lehrbuch der Dogmatik, Herder, Freiburg 1905 [19328]; tr. fr., Précis de théologie dogmatique, Salvator, Mulhouse 1941, p. 243) [righe omesse dalla traduzione italiana B. Bartmann, Manuale di Teologia Dogmatica, vol. I, Rivelazione e fede – Dio – Creazione, Edizioni Paoline, Alba 1950, p. 301; n.d.t.], e J.-H. Nicolas, Synthèse dogmatique. De la Trinité à la Trinité, Éditions universitaires de Fribourg-Beauchesne, Fribourg-­Paris 1985 (19913), pp. 74‑78, entrambi citati da J. Wolinski, Trini-

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Rivelazione fonda la Trinità, perché lo stesso modo della s-coperta (apokalupsis, oikonomia) del mustêrion tou Theou (della Trinità «economica») rimane articolato trinitariamente sui tre della Trinità come tale («immanente»); se la Rivelazione rivela la Trinità e soprattutto la rivela trinitariamente, il modo di s-coperta della Trinità resta a tal punto perfettamente e integralmente trinitario che solo la Trinità arriva a rivelare la Trinità e non vuole rivelare altro che la Trinità stessa. La Trinità offre così non solo il contenuto della s-coperta, ma anche il suo modo di manifestazione, o meglio: il modo di manifestazione (il wie fenomenico) coincide esattamente con ciò che si manifesta (il Sich-selbst-zeigende). Tuttavia, questa messa in guardia e questa sostituzione non sono ancora sufficienti a stabilire il luogo e la logica dell’unità per comunione che, in Dio, definisce la sua unicità. Fosse anche indiscutibile, non basta fare appello all’esigenza (la s-coperta della Trinità si produce trinitariamente) perché essa venga soddisfatta: parlando della Rivelazione economica bisogna ancora determinare di quale economia si tratti.

tà. Teologia storica, in J.-Y. Lacoste (a cura di), Dizionario critico di teologia, cit., pp. 1388-1397: p. 1396.

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16 Immanenza ed economia: un modello storico

L’inadeguatezza del modello ontico della Trinità non deve stupire: perché stupirsi del fatto che i concetti elaborati avendo intenzione di affrontare la questione dell’ente nel suo essere (specificamente l’ousia) non siano adeguati a concepire con precisione il mystêrion dell’agapê? Questi aspetti inadeguati non vanno nemmeno sottovalutati: né l’unicità dell’Uno, né la determinazione dell’ente tramite l’unità, né le complicazioni della monarchia tramite l’emanazione, la processione o la moltiplicazione, possono sostenere in ultima istanza l’approccio teologico alla Trinità. Era quindi necessario chiamare in causa la decisione che bloccava la ricerca, cioè la distinzione tra il trattato de Deo uno (governato dalla logica dell’ente nel suo essere, quindi dall’equivalenza dell’ousia con l’unità) e il trattato de Deo trino (alla ricerca di un’unione tramite la comunione, quindi della pluralità dei termini di questa unione).

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Economia e immanenza trinitarie Bisogna accogliere la tesi posta da Rahner: «la Trinità “economica” è la Trinità immanente, e viceversa»1. Questo principio era già stato proposto, tra gli altri, da Barth: «tutte le nostre tesi relative alla Trinità cosiddetta immanente sono apparse come conferme, o meglio, come le inevitabili premesse logiche della Trinità cosiddetta economica o manifestazione»2. Si tratterebbe di pensare le forme e i momenti della rivelazione di Dio agli uomini nella loro storia, a partire dalle dimensioni e dalla figura di ciò (di colui) che si manifesta, in modo tale che Dio si scopra proprio in quanto tale nelle azioni della sua scoperta e in modo tale che le azioni della scoperta non siano meri mezzi di comunicazione di ciò che si scopre, ma la loro realizzazione manifesta. Si tratta di pensare il fatto che l’economia illumina e mette direttamente in scena l’immanenza 1.  K. Rahner, Osservazioni sul trattato «De Trinitate», cit., p. 606. Si consideri anche «partiamo dall’affermazione che la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa (und umgekehrt)» (Id., Einzigkeit und Dreifaltigkeit Gottes im Gespräch mit dem Islam, in Id., Schriften zur Theologie, Bd. XIII, Benziger Verlag, Einsiedeln 1978; tr. it., Unicità e Trinità di Dio nel dialogo con l’Islam, in Id., Dio e Rivelazione. Nuovi Saggi VII, Paoline, Roma 1980, pp. 155-177: p. 167). 2.  K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., p. 503. Cfr. i suoi riferimenti pertinenti: «i nostri concetti di “unità indistruttibile” e di “diversità inalterabile”, il nostro concetto di un’unica essenza divina in tre persone o di tre modi d’essere da distinguere in questa essenza, infine la nostra accusa ancora provvisoria e leggermente polemica che la Trinità divina non esiste soltanto nella rivelazione, ma in Dio stesso e di conseguenza che non dobbiamo considerarla come solo “economica”, ma come “immanente” – tutto ciò costituisce una dottrina della Chiesa e non una dottrina direttamente biblica, cioè formulata esplicitamente dalla Bibbia. Ci siamo limitati a stabilire questo: la dottrina biblica della rivelazione indica implicitamente e, in alcuni passi, esplicitamente la dottrina trinitaria. A grandi linee deve essere interpretata come uno schizzo di questa dottrina. Se è possibile giustificare e sviluppare la dottrina trinitaria lo è perché tra questa e la rivelazione c’è un rapporto reale e necessario» (ivi, pp. 351 ss.).

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divina a sé; lo stile della scoperta dovrebbe coincidere con la scoperta del mustêrion. Tuttavia, è sufficiente enunciare tale esigenza per metterne in luce la difficoltà. Infatti, lo stile della scoperta è differente dalla scoperta del mustêrion, quantomeno per due aspetti: innanzitutto perché l’economia della manifestazione si dispiega secondo le gesta Dei; le azioni di Dio si inscrivono, cioè, nei momenti di una storia che, per quanto resti santa (e proprio per diventare santa) si distende temporalmente ed è quindi necessario che l’immanenza di Dio a sé si trasferisca e si traduca nella nostra temporalità ossia, in modo indissociabile, nella nostra finitezza che ad ogni buon conto oltrepassa. Certo non sappiamo che cosa possa significare concettualmente il termine eternità e, nella migliore delle ipotesi, vi intuiamo solo una contraddizione (un istante permanente in modo indefinito); tuttavia, anche intendendolo come una pura e semplice negazione della temporalità, anche attenendosi al paradosso secondo il quale «per Dio mille anni sono come un giorno», dobbiamo almeno considerare che il solo tempo che conosciamo, il nostro, non riguarda Dio in quanto tale. Ora, l’identità tra l’immanenza della Trinità e la sua economia esigerebbe che Dio entrasse in questa temporalità finita nello stesso modo con cui entra nella nostra condizione carnale, cosa che tuttavia possiamo intendere solo in modo oscuro oppure non intenderlo affatto. Questo primo scarto, che separa il tempo dell’economia dal­ l’immanenza a sé di Dio, fa tuttavia emergere un’altra difficoltà: tra l’uno e l’altro, da dove proviene e dove si situa l’altrove che ormai sappiamo caratterizzare ogni Rivelazione in quanto tale (supra, capp. 1‑2)? Si deve considerare che questo altrove può essere inteso in due sensi opposti: nel primo caso si dirà che la Trinità cosiddetta immanente, che da sé rimane in sé, si esteriorizza nell’economia e quindi esce da sé entrando nella storia. In tal caso si dirà quindi che la storicità dell’im-

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manenza a sé della Trinità diviene l’altrove in cui si dispiega la sua scoperta. La temporalità apre l’altrove della Trinità, allo stesso modo della finitezza assunta dal Figlio in e come Gesù. Per contrasto con l’immanenza trinitaria, la storia appare come l’altrove in cui si inscrivono le azioni di Dio, che si scoprirebbe fuoriuscendo altrove rispetto a sé, cioè si manifesterebbe solo esteriorizzandosi. L’obiezione si fa subito strada: dove si esteriorizzerebbe? Questo altrove sarebbe solo in se stesso? Eppure, se Dio è Dio, la sua infinità non lascia spazio ad alcun altro altrove al di fuori di sé, ogni altrove deve risiedere ancora solo in lui. Propriamente parlando, in quanto tale Dio non ammette alcuna esteriorità al di là dei suoi limiti perché non ammette alcun limite. A fortiori questa impensabile esteriorità non può realizzarsi tramite una minima alienazione o alterazione (Entäußerung) perché a Dio, se merita questo titolo, nulla rimane estraneo, soprattutto non lui rispetto a se medesimo. Quindi, se la Trinità immanente coincide con la Trinità economica, bisognerà che l’economia resti interna alla Trinità immanente; ma allora come è possibile pensare seriamente l’altrove della scoperta trinitaria? Oppure, si dovrebbe ammettere il secondo caso, contrario al primo: lungi dall’essere la Trinità economica a dispiegare la Trinità immanente altrove da se stessa, nell’altrove temporale che la nostra finitezza le risparmierebbe al di fuori di sé, sarebbe proprio l’economia ad aprire, nella nostra temporalità e nella nostra finitezza, la scena in cui la Trinità immanente si scoprirebbe direttamente. Pertanto, la Trinità immanente – Dio in sé – apparirebbe come l’altrove a partire dal quale l’economia aprirebbe le azioni di Dio tra noi. La qual cosa ricondurrebbe a pensare la Trinità economica da altrove, quindi a partire dalla Trinità immanente. In sintesi, si tratterebbe di pensare l’economia a partire dalla Trinità stessa e non il contrario – a partire da altrove rispetto al nostro punto di vista sull’economia. Compiere la Rivelazione significherebbe vede-

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re l’economia in cui Dio si rivela non solo dal nostro punto di vista e dunque tramite un’anamorfosi radicalmente trinitaria, come la vede Dio, vedere Gesù come il Padre lo vede – come il Figlio. Questo rovesciamento, per coerente che sia, sembra superare definitivamente le possibilità di concezione dell’intelletto finito e postulare un’anamorfosi ancor più estrema, più rovesciante di quella già postulata dall’esame dei testi biblici (supra, capp. 11‑14). E tuttavia, ci sarebbe ancora veramente una Rivelazione se ciò (o colui) che si scopre non ci adviene da altrove, se viene tra noi solo diventando altro rispetto a sé, alterandosi da sé? Occorre dunque tentare di pensare da altrove ciò che viene tra noi solo per farci vedere e vivere da altrove rispetto al nostro punto di vista. Non c’è dunque da stupirsi se la formula di Rahner, proprio perché giunge al cuore dell’aporia, non evita l’ambiguità. È certo indiscutibile che «la Trinità “economica” è la Trinità immanente», così come è indiscutibile che «dottrina trinitaria e dottrina economica […] non si possono distinguere adeguatamente», perché la nostra relazione alla Trinità in sé non si riduce a una «immagine o un’analogia (ein Abbild oder eine Analogie)» e che, al contrario, «la Trinità è un mistero, il cui carattere paradossale risuona (anklingt) in quello dell’esistenza umana». Ma la regola secondo la quale «la Trinità “economica” è la Trinità “immanente”» può per questo essere complicata senza riserva, aggiungendo «e viceversa (umgekehrt)»3? Si potrebbe infatti pensare tale ritorno senza reintrodurre subito proprio i concetti ausiliari che dovrebbero essere superati al fine di non conservare la cesura che si vuole colmare – l’«uscita fuori di sé (Entäußerung)» dell’«intradivino 3.  K. Rahner, Der dreifaltige Gott als transzendenter Urgrund der Heilsgeschichte; tr. it., Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in J. Feiner - M. Löhrer (a cura di), Mysterium Salutis, vol. III, cit., pp. 401-507: rispettivamente pp. 415, 416, 426, 437, 414.

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(innergöttich)» nel «non-divino (in das Nichtgöttliche)»4? L’equivalenza tra le due versioni (se così si può dire) della Trinità implica anche che quella immanente debba temporizzarsi senza resto in quella economica, fino a disperdersi in essa, rischiando che la realizzazione della manifestazione di Dio la allinei e la marginalizzi insieme al compimento della storia universale? Questa è la prima riserva, chiaramente espressa da Balthasar5 e corrispondente alla prima difficoltà precedentemente recensita. Resta la seconda interrogazione, per noi più decisiva: aggiungere «e viceversa» alla regola dell’indiscutibile identità tra le due versioni della Trinità non maschera e annulla completamente l’altrove che caratterizza lo scoprimento e quindi anche l’anamorfosi senza la quale lo scoprimento teologico s’inabissa nel disvelamento teologico, di fatto metafisico o filosofico?

4.  Ivi, p. 423. 5.  È ciò che molto giustamente viene stigmatizzato da Balthasar: «cristianamente parlando, la Trinità economica appare certo come un’esplicitazione (Auslegung) della Trinità immanente, questa però, come fondo portante della prima, non può essere propriamente e semplicemente identificata con la prima. Giacché altrimenti la trinità immanente ed eterna di Dio rischia di risolversi (auszugehen) nella economica; in parole più chiare, Dio rischia di essere ingoiato nel processo del mondo e di non poter ritornare a se stesso che attraverso questo processo» (H.U. von Balthasar, Theodramatik, Bd. II, Die Personen des Spiels, Teil II, Die Personen in Christus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1978; tr. it., Teodrammatica, vol. III, Le persone del dramma: l’uomo in Cristo, Jaca Book, Milano 1983, p. 468; tr. mod.). La medesima discussione sulla reciprocità dei termini (umgekehrt) è condotta da G. Lafont, Peut-on connaître Dieu en Jésus-Christ?, Cerf, Paris 1969, pp. 190 ss. Si tratta infatti di concepire l’economia stessa della Trinità immanente come ciò che dà luogo a un’interpretazione, che non si riassume nello svolgimento cronologico della storia del mondo.

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Hegel e il primato della Trinità economica Se non venisse da lontano e non avesse un peso considerevole, questa doppia difficoltà non tornerebbe a galla in un autore a tal proposito tanto consapevole. Sia la sua origine sia il suo orientamento finale rinviano a Hegel, che, già in anticipo, aveva pensato tutte le implicazioni dell’«e viceversa (und umgekehrt)» di Rahner. Per vederlo meglio seguiremo l’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1830)6, che cristallizza la declinazione economica della Trinità in un senso anche più potente rispetto alle Lezioni sulla filosofia della religione (dal 1821 al 1831). Più precisamente considereremo i §§ 564‑571, che riuniscono l’intera dottrina della Rivelazione in tre sillogismi, da tutti gli interpreti salutati come un vertice del pensiero. Il primo momento (§ 564) poggia su una base che abbiamo già sondato (supra, capp. 5‑6): l’equivalenza tra la manifestazione e la Rivelazione di Dio. Infatti, «nel concetto della religione vera, cioè di quella il cui contenuto è lo spirito assoluto, è essenzialmente implicito ch’essa sia rivelata (geoffenbart), anzi rivelata da Dio»; come però questa rivelazione della «sostanza» divina sia messa sul conto dello spirito (secondo il principio posto a partire dalla Fenomenologia dello spirito, secondo cui bisogna «concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come soggetto»7) e come lo spirito determini se stesso, questa rivelazione «è un manifestare assoluto (schlechthin manifestieren)», che «manifesta se stesso (sich selbst manifestiert)». Non c’è Rivelazione senza ma-

6.  G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundriße, III Aufl., Die Philosophie des Geistes; tr. it., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte III, La filosofia dello spirito, UTET, Torino 2000. 7.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes; tr. it., Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 67.

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nifestazione, quindi senza il concetto attraverso cui lo spirito comprende e si comprende8. Di conseguenza, la conoscenza di Dio chiede di superare «le semplici rappresentazioni della fede» per andare verso «il pensiero concettuale (begreifendes Denken)» (§ 564), perché la risoluzione dello spirito con se stesso non è «soltanto nella semplicità della fede e nella devozione del sentimento, ma anche nel pensiero» (§ 571). In caso contrario la «religione che prende espressamente il nome di rivelata» diventerebbe una «religione nella quale di Dio nulla sarebbe manifesto (nichts offenbar), nella quale egli non si sarebbe rivelato (nicht geoffenbaret hätte)» (§ 564). Donde a contrario una conseguenza inevitabile: ogni teologia che non miri alla manifestazione di Dio sapendosi e facendosi sapere per concetto giungerà al fatto che «l’uomo non sa nulla di Dio». Bisogna legare tra loro tre proposizioni indissociabili: «Dio è Dio solo nella misura in cui (nur insofern) sa se stesso; il suo sapere di sé è, inoltre (ferner) la sua autocoscienza nell’uomo; e (und) il sapere che l’uomo ha di Dio, che procedendo diventa (fortgeht) il sapere di sé dell’uomo in Dio»9. La

8.  Cfr. i testi citati supra, cap. 6, note 54‑56. 9.  G.W.F. Hegel, La filosofia dello spirito, cit., § 564, p. 420, nell’ultima citazione sottolineature nostre. Secondo l’edizione di F. Nicolin e O. Pöggeler (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundriße, Meiner, Hamburg 19596, pp. 446 ss.), confermata dalla traduzione francese e dalla nota ad opera di B. Bourgeois (Encyclopédie des sciences philosophiques, vol. II, Philosophie de l’esprit, Vrin, Paris 1988, pp. 354‑355), nel 1830 Hegel termina il § 564 rinviando a Göschel, che, infatti, riprende senza alcuna riserva la sua tesi del 1827: «l’essere e la conoscenza di Dio fanno tutt’uno (Eins), cioè Dio è effettivo solo nella misura in cui conosce sé: la sua esistenza (Dasein) avviene e scompare con la sua coscienza. […] Così come il sapere di Dio in sé e l’essere di Dio in sé fanno tutt’uno, anche il sapere e l’essere di Dio sono tutt’uno in me, cioè Dio è effettivo in me solo nella misura in cui mi viene effettivamente alla coscienza. […] L’essere e il sapere di Dio in me, quindi, non contengono solo la conoscenza che Dio ha di me, ma anche la conoscenza che io ho di lui» (C.F. Göschel, Aphorismen

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transitività delle tre proposizioni si basa su un unico presupposto: che si tratti del sapere di Dio tramite se stesso, tramite se stesso nell’uomo o tramite l’uomo, in ogni caso tale sapere rimane sempre nello stesso senso un sapere di sé. L’univocità di questo sapere di sé a propria volta si appoggia sull’univocità del «pensiero per concetto» dello spirito: Dio e l’uomo si conoscono in sé e l’uno tramite l’altro secondo la sola logica possibile, secondo «il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero», il cui «contenuto» non sarebbe nulla di meno che «la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»10. La scienza della logica determina tutto, quindi ingloba Dio e la sua Rivelazione nella manifestazione per concetto. Questo presupposto porta a due osservazioni: innanzitutto, bisogna notare che ciò che spesso viene definito come tre «sillogismi» (§§ 567‑569), evidentemente non riprende la formula aristotelica (che si suppone riguardare la logica dell’intelletto); più precisamente si tratta di «tre ragionamenti (Schlüße)» (§ 571) che sviluppano i «distinti momenti del concetto» (§ 566) e quindi realizzano in tre volte (come le personae e le hypostaseis) l’essenza ormai concettuale di Dio. Bisogna concluderne che l’insieme della questione trinitaria passa sotto il dominio della logica, quindi della filosofia, o anche del compimento della metafisica: «in questa forma della verità, la verità è oggetto über Nichtwissen und absolutes Wissen im Verhältnisse zur christlichen Glaubenserkenntnis. Ein Beitrag zum Verständnisse der Philosophie unserer Zeit, Franklin Verlag, Berlin 1929, p. 65). 10.  G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik; tr. it., Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 2004, vol. I, p. 31. Hegel argomenta (Enciclopedia, § 564) che Dio si manifesta in sé all’uomo nel sapere stesso che l’uomo ha di sé, perché non è un Dio «invidioso (aphthonos)». Ma l’argomento si smentisce da sé: ciò che Dio rivela in tal modo resta, al più, un Dio per noi (quoad nos), che manifesta solo ciò che noi rendiamo a noi stessi manifesto, quindi che si riserva gelosamente il suo proprio segreto.

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della filosofia (der Gegenstand der Philosophie)» (§ 571). L’eventuale scoprimento (Offenbarung) della Trinità immanente ormai si gioca esclusivamente nell’orizzonte economico della manifestazione secondo la logica del concetto11. Da qui deriva la seconda critica, avanzata da Michel Henry: il trasferimento dell’autorità trinitaria al concetto e allo spirito presuppone che «la negatività è l’essenza della manifestazione»; come da lui dimostrato, però, la negatività non apre alcuna regione, alcuna fenomenicità e nessun modo d’essere, restando una semplice «categoria» logica, che al più permette solo di descrivere «l’essenza della manifestazione a partire dal processo fondamentale dell’oggettivazione». Infatti, «l’uomo non ha nell’hegelismo essere peculiare», e «il Soggetto non ha un essere peculiare, esso è l’essere della sostanza»12. L’ambizione hegeliana – pensare l’assoluto non come sostanza ma come soggetto – secondo Henry fallirebbe subito, assumendo, contro qualunque evidenza fenomenologica, che la negatività e il negativo siano sufficienti a definire l’uomo, definendolo come spirito. E, di fatto, si potrà anche sostenere che la migliore filosofia posteriore a Hegel si è sforzata di non pensare più l’ego a partire dalla negatività logica (salvo l’infelice eccezione di Sartre). Si può almeno con11.  Questa conclusione si impone tanto più se si considera che Hegel riprende i tre «momenti» della tavola dei giudizi di I. Kant, Critica della ragion pura, cit., A70/B85, p. 193. 12.  M. Henry, Messa in luce dell’essenza originaria della rivelazione in opposizione al concetto hegeliano di manifestazione (Erscheinung), in Id., L’Essence de la manifestation, PUF, Paris 1963 (19902); tr. it., L’essenza della manifestazione, Orthotes, Salerno 2018, risp. pp. 709, 707 (e 709 ss.); pp. 726 (e 715, 742); pp. 708 (p. 713, 732 ss., ecc.); p. 707; («non vi è in Hegel nessuna ontologia della soggettività», p. 712), «la soggettività è l’oggettività in quanto tale», p. 714). La critica formulata da Henry a Hegel è stata presa sul serio da J.-F. Courtine, Temporalité et révélation, in J.-F. Courtine - J.-F. Marquet (éds.), Le dernier Schelling. Raison et positivité, Vrin, Paris 1994, pp. 9-30, che sottolinea perfettamente anche il rovesciamento della tesi hegeliana a proposito della Rivelazione.

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testare il fatto che la negatività dello spirito, già imperfetta per caratterizzare lo spirito finito, sia adeguata allo spirito infinito, al Dio trinitario del quale si tratta di pensare lo scoprimento.

Hegel, i tre momenti dell’economia secondo il concetto La dottrina trinitaria, giunta a questo punto della sua ripresa tramite il concetto, subisce una doppia trasformazione. Da una parte la distinzione tra l’immanenza e l’economia della Trinità svanisce completamente nell’unico «oggetto della filosofia», dal momento che il sapere umano di Dio è tutt’uno con il sapere di Dio tramite sé; dall’altra, poiché ormai la Trinità ricalca i momenti del concetto e poiché il concetto si dispiega nella discorsività dialettica, allora la non distinzione tra l’economia e l’immanenza gioca a favore dell’economia, ormai ridotta alla storia della coscienza assoluta. Il trattato de Deo uno ricapitola filosoficamente tutto ciò che era stato salvaguardato della Rivelazione biblica dal trattato de Deo trino. Qui, pertanto, il mustêrion del Padre (§ 567) appare ormai solo come «momento dell’universalità (Allgemeinheit)»; certo è già spirito, ma ancora astratto, presupposto e sostanziale, non ancora soggetto. Si tratta soltanto di una «potenza sostanziale (substantielle Macht)», che esercita la propria «causalità» come «creatore (Schöpfer) del cielo e della terra». In questa differenziazione astratta il Figlio «permane in identità originaria con questa entità differente». In termini cristiani si potrà dire che la monarchia del Padre non sviluppa ancora una relazione di paternità, che il Figlio non riceve ancora la relazione di filiazione e che la sua distanza dal Padre ancora si confonde con la distanza tra la creazione e il creatore. Il figlio, quindi, diventerà tale solo nel «momento della particolarità del giudizio» (§ 568), quando «la creazione del fenomeno (Erschaffung der

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Erscheinung)» introdurrà un «disgregarsi (Zerfallen) […] del figlio» in una doppia «opposizione (Gegensatz) indipendente (selbstständige)», dal momento che l’opposizione che provoca la «negatività in sé essente» non assicura la singolarità del Figlio approfondendola tramite la sua relazione di filiazione e la sua missio; al contrario, «autonomizzandosene», essa raddoppia l’opposizione all’universale, inizialmente come natura («il cielo e la terra»), ma poi fino all’«estremo (Extrem)», fino al «male (zum Bösen)», poiché solo queste due opposizioni consentono finalmente di radicalizzare la filiazione in una «relazione esteriore (äußerliche Beziehung)». Approfondirla o sopprimerla: la Trinità diventa effettiva solo opponendosi a sé, annullando la comunione unificante con l’opposizione alienante. Il «momento della singolarità» (§ 569) può finalmente intervenire, ma sempre «a titolo (nämlich) della soggettività e del concetto». Infatti, il Figlio «traspone (versetzt) la sostanza astratta universale […] in un’autocoscienza singolare», in sé egli supera l’alienazione della creazione e l’opposizione del male tramite un «ritorno assoluto (absolute Rückkehr) ed [una] unità universale dell’essenzialità universale e di quella singolare». Appare così la «testimonianza dello spirito» (§ 570), tramite un doppio rilievo (§ 571) che «dà effettiva realtà (verwirklicht)» (§ 569) all’idea dello spirito, questa volta dello spirito «eterno, ma vivente e presente (gegenwärtig) nel mondo» (§ 569). Questo ritorno tuttavia non si effettua che a una condizione: che il concetto «trasponga nella temporalità (in die Zeitlichkeit versetzt)» l’«alienazione» (§ 570), tramite una mediazione riconosciuta con molta precisione, cioè la prova del «dolore della negatività (Schmerz der Negativität)» (§§ 569 e 570). Ora, questo dolore sviluppa il lavoro della negatività, cioè sviluppa il fondo [fonds] dello spirito: l’istanza della negazione. Bisogna concluderne che l’intera ripetizione della Trinità cosiddetta immanente significa non solo la sua trasposizione nel tempo e nel mondo (e in questo senso anche il suo assorbimento nella

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Trinità cosiddetta economica), ma soprattutto che spostamento e sostituzione riposano sulla sostituzione della comunione trinitaria con la potenza logica del concetto e del «dolore della negatività». A questo punto emerge un’altra domanda: è sufficiente la negatività secondo il concetto, pur indurita come «dolore» nell’implicita imitazione di Cristo «entrato in agonia» (Lc 22,44) con «forti grida e lacrime» (Eb 5,7)? Permette di «ricapitolare» (Ef 1,10) dal fondo dell’economia, la comunione della Trinità in sé, oppure bisogna attenderne una «superiore» (Gv 5,36)?

Hegel, il serio e l’insulso La questione si pone in modo tanto più considerevole dal momento che al termine dei tre «ragionamenti», quindi dopo il «risultato», dopo «lo spirito per sé essente, nel quale ogni mediazione si è superata (aufgehoben)» (§ 571), Hegel ammette anche che possa risorgere la «soggettività infinita, […] l’autocoscienza soltanto formale, che si sa in se stessa come assoluta». In una strana anticipazione dell’obiezione che gli rivolgerà Kierkegaard egli la nomina «ironia (Ironie)» e la definisce «accidentale ed arbitraria», ma capace di «annientare e vanificare (zunichte, zu einem eitlen) ogni contenuto oggettivo» (§ 571). Si potrebbe forse pensare che questa ironia consentirebbe di dubitare, se non addirittura di rifiutare, che la negatività logica sia sufficiente a realizzare la Trinità a partire dal solo concetto, o che sia sufficiente il concetto e la negatività, anche nel suo «dolore», per mettere in atto (nell’economia) la Trinità stessa (nella sua immanenza). Ponendo la questione in altro modo: è sufficiente, per oltrepassare le aporie di un’interpretazione proposizionale della Rivelazione, rettificare semplicemente la proposizione dell’intelletto in una proposizione ormai «speculativa»?

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In questo caso bisogna tornare al presupposto che guida la «trasposizione» della Trinità nella logica della proposizione «speculativa». Hegel lo dice nel famoso testo di una celebre prefazione, del quale i pensatori cristiani avrebbero dovuto considerare con maggiore precisione il carattere ultimamente scandaloso. «È dunque possibile esprimere la vita di Dio e la conoscenza divina come un gioco dell’amore con se stesso (als ein Spielen der Liebe mit sich selbst). Questa idea rischia però di degradare a mera edificazione e di divenire persino insulsa, se le mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo (der Ernst, der Schmerz, die Geduld und die Arbeit des Negativen). In sé, quella vita è certo l’imperturbata uguaglianza e unità con se stesso (Ernst mit dem Anderssein und der Entfremdung), senza alcun impegno serio con l’esserealtro e con l’estraneazione, né con il superamento (Überwindung) di questa estraniazione»13. La tesi si declina chiaramente

13.  G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69; e anche: «il fatto di distinguerlo è stato determinato in modo che la distinzione sia immediatamente scomparsa, che questo sia un rapporto di Dio, dell’idea soltanto con se stessa. Questo distinguere è solo un movimento, un gioco dell’amore con se stesso (ein Spiel der Liebe mit sich selbst), in cui non si giunge alla serietà dell’essere-altro (nicht zur Ernsthaftigkeit des Andersstehens kommt), della separazione e della scissione. L’altro è pertanto determinato come figlio, e ciò che è in sé e per sé è determinato come amore (Liebe) in base alla sensazione – in una determinazione più alta è determinato come lo spirito che è presso se stesso, che è libero. Nell’idea, però, in questa determinazione la determinazione della distinzione non è ancora giunta a compimento; è soltanto la distinzione astratta in generale. Non siamo ancora alla distinzione nella sua peculiarità» (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., p. 226). Schelling, tuttavia, ha disapprovato questo testo: «tutto questo è tanto teosofico quanto qualcosa può esserlo in J. Böhme, con la sola differenza che tale elemento fantastico in J. Böhme è qualcosa di originario e di realmente prodotto da una grande intuizione, mentre qui è legato a una filosofia il cui indubitabile carattere è di essere la più pura prosaicità e un’insipidezza assolutamente priva di intuizione. Si perdona a chi è veramente ebbro di intuizione, se egli barcolla, ma non a chi, in realtà

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in tre momenti. In primo luogo, la vita di Dio in sé (Trinità immanente), se si vuole, può ben essere concepita secondo l’amore (in un senso indeterminato), come l’unione per comunione di termini distinti; tuttavia, si tratta semplicemente della rappresentazione della fede. In secondo luogo, una tale «via di Dio» resta astratta e indeterminata, perché alla concezione religiosa dei termini della Trinità immanente (Padre, Figlio, Spirito) non consegue in sé un’alterità effettiva, cioè una differenza radicalizzata fino all’opposizione, alla scissione, all’antagonismo; questa richiederebbe la negatività, che implica che il divino vada fuori di sé e che si alieni da sé, non soltanto in un altro sé (il Figlio), ma in un altro da sé (il mondo, la temporalità, la finitezza), se non un non sé (il male). Pertanto, la Trinità in quanto tale si rivela e si scopre solo quando trova il suo vero altrove fuori di sé. E ancora, la Trinità immanente si dispiega in sé solo quando acquisisce il suo sé plurale tramite l’unica effettività capace di differenziare, quella del negativo, l’ultimo operatore dell’economia. I due modi della Trinità coincidono ma a beneficio dell’economia, a sua volta ridotta all’esteriorità rispetto a sé, come l’alienazione di un altrove straniero. In terzo luogo, questa mutazione della Trinità suppone che, nella sua immanenza, essa non raggiunga una reale comunione, perché in questo «gioco dell’amore con se stesso» non mette ancora in gioco una pluralità effettiva; la sua pluralità rimane astratta e vuota, non conduce ad alcuna riconciliazione perché le fanno difetto i termini stessi da riconciliare: non separando, l’amore non ha nulla da mettere in comunione. Il primato dell’altrove economico e della negatività implica l’impotenza dell’amore a produrre un altrove tramite il solo amore. Dio, quindi, si scopre solo venendo da altrove, «venne dai suoi, eis ta idia êlthen» (Gv 1,11); egli viene a cercare in ciò che non è digiuno per natura, abbia una gran voglia di apparire barcollante» (F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione VII, p. 203).

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suo l’altrove che gli fa difetto in sé. L’altrove si rovescia e l’anamorfosi diventa quella di Dio che prende su di sé il punto di vista e il punto di mira che non sono suoi. L’intera interpretazione hegeliana della Trinità si basa quindi su questo ultimo momento: l’altrove si situa al di fuori di Dio perché «il gioco dell’amore» non ne apre alcuno, neppure per Dio. Il cuore dell’argomento non risiede neppure nel rovesciamento dell’altrove, ma in ciò che per Hegel lo rende ineluttabile: l’insulsaggine e l’edificazione dell’amore, incapace di raggiungere, realizzare e mantenere «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo (der Ernst, der Schmerz, die Geduld und die Arbeit des Negativen)». Nella misura in cui resta in sé presso di sé, Dio sogna la sua trinità nel sentimento e nella sensazione, ma senza effettuarla: bovarizza14. Si tratta di un controsenso dell’amore, che, in fondo, deriva da una bestemmia dalla quale Nietzsche stesso si è astenuto: «non ho mai profanato il sacro nome dell’amore (den heiligen Namen der Liebe niemals entweiht)»15 perché potrebbe anche darsi che l’amore, inteso come agapê, realizzi proprio le quattro operazioni che Hegel pensa di poter ritrovare solo al «negativo». Infatti, secondo Paolo, l’amore «tutto scusa (panta stegei), tutto crede (panta pisteuei), tutto spera (panta elpizei), tutto sopporta (panta upomeinei)» (1Cor 13,7). Ci si può arrischiare nel tentativo di far corrispondere le due liste parola per parola: l’amore soffre tutto il «dolore»; crede tutto con «serietà», spera tramite il «travaglio» e sopporta con «pazienza».

14.  Nel senso in cui l’amore non dice e non fa niente: «addio, non ho assolutamente nulla da dirti, se non che ti amo» (G. Flaubert, Lettera a Louis Bouilhet, 2 agosto 1855). 15.  F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, cit., I [216], p. 47. Su questo punto alcune indicazioni si trovano in J.-L. Marion, D’un phénomène érotique, in «Alter. Revue de phénoménologie», n. 20, 2012, pp. 129-142.

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Potrebbe darsi che l’amore, lungi dall’essere mancante di ciò che la negatività presumibilmente rivendica (a modo suo), lo realizzi sovrabbondantemente. In modo sovrabbondante e non negativo, perché l’amore non nega mai, né cede di fronte ad alcuna negatività, dal momento che niente può opporsi a lui, non ammettendo alcuna condizione di possibilità per arrivare ad amare. Senza alcuna condizione di possibilità, neppure l’identità a sé né la ragion sufficiente, diventa impossibile che quel che sia gli risulti impossibile. Poco più su ci siamo chiesti se non fosse il caso attendere un aiuto «più grande» (Gv 5,36) del negativo e qui arriva la risposta: «ora (nuni) dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte (meizôn) è la carità» (1Cor 13,13). Pertanto, le aporie dell’interpretazione ontica della Trinità immanente (supra, cap. 15) non si dissipano con l’interpretazione logica della sua economia secondo la negatività (Hegel), e occorre che facciano un passo «più in alto» affinché la Trinità sia pensata a partire da ciò che essa scopre di sé. «Nessuno ha un amore più grande (meizona agapen) di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), il Figlio l’ha fatto per i suoi fratelli adottivi nell’economia solo perché con il Padre lo fa eternamente nell’immanenza a sé della Trinità. Si può comprendere questo, tuttavia, solo rovesciando l’intera impresa hegeliana.

Schelling, l’a priori e l’a posteriori Si può rischiare di affermare che, quando nell’inverno 1841‑­ 1842, sulla cattedra che già Hegel aveva occupato a Berlino, Schelling ha tenuto le lezioni sulla Filosofia della Rivelazione, ha intrapreso proprio questo rovesciamento. Lo avvia con uno sforzo solenne (davanti a Kierkegaard, Friedrich Engels,

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Jacob Burckhardt, Michail Bakunin, ecc.), che forse corrisponde all’ultima tappa positiva intrapresa dall’idealismo tedesco per portare a compimento la metafisica16. Certo era destinata al fallimento, non solo perché arrivava troppo tardi rispetto alla chiusura hegeliana, ma soprattutto perché, per portare a compimento la metafisica contro se medesima, sarebbe stato necessario ridefinire ancora più radicalmente la questione dell’essere o, piuttosto, pensare senza l’essere. Anche se tardivo e incompiuto, tuttavia questo sforzo rimane una tappa decisiva in vista di un approccio alla Rivelazione teologicamente libero. Si è già stato notato che Schelling aveva rovesciato i termini del dibattito: non bisogna più chiedersi come interpretare la Rivelazione cristiana affinché risulti sensata in campo metafisico (supra, cap. 6), ma, al contrario, bisogna domandarsi quale forma di filosofia sia necessaria per riconoscere il senso della Rivelazione17. Questa decisione, realmente eroica in quanto forse è impossibile da realizzarsi in questo momento, consente tuttavia a Schelling di oltrepassare una frontiera, di uscire dal mare chiuso della metaphysica e di entrare nelle acque libere dell’oceano. Ripercorriamo dunque brevemente i passi da lui compiuti. Il primo passo fa passare dalla filosofia negativa alla filosofia positiva. Per filosofia negativa bisogna intendere la metaphysica, che non «consiste in una deduzione degli ogget-

16.  Marquet sostiene che «si può anche dire che qui abbiamo l’ultima grande somma sistematica dell’Occidente […], grandiosa leggenda dei secoli di cui la redazione, continuamente ricominciata, ha occupato Schelling durante più di quaranta anni, per sfociare in una sorta di “capolavoro sconosciuto” che, nel momento della sua pubblicazione postuma, giunse in un mondo diventato ormai irrimediabilmente estraneo» (J.-F. Marquet, Présentation alla traduzione francese di F.W.J. Schelling, Philosophie de la Révélation, vol. I, PUF, Paris 1989, pp. 5-17: p. 6). 17. Cfr. supra, cap. 8, nota 10.

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ti stessi», senza più rinviare all’esperienza come ancora nel caso di Locke e Hume che, a loro modo, seguono Aristotele: a partire da Kant (in realtà da Descartes), questi concetti furono «abbassati a forme semplicemente soggettive della facoltà conoscitiva, alle quali corrisponde qualcosa negli oggetti in quanto essi siano oggetti della nostra esperienza, ma non negli oggetti in sé (Objekten, sofern sie Gegenstände unserer Erfahrung sind), indipendentemente dall’esperienza». L’essere dell’ente si riduce al processo che stabilisce e riconosce delle realizzazioni del cogitabile e la verità si limita a dedurre, tramite concatenazioni logiche, un cogitabile da un altro, in un sistema. Riferita a Dio, la metaphysica non può ottenerne che un’idea, certo suprema, ma anche privata d’esistenza come ogni altro cogitabile: «con questa idea, [la ragione] la quale non può fare in alcun modo da inizio di un sapere. Teoreticamente, con questo risultato negativo era fondamentalmente superata ogni religione effettiva. Ogni religione effettiva, infatti, può fondarsi soltanto su un Dio reale e, in quanto tale, Signore della realtà (Herr der Wirklichkeit); un Essere (Wesen), infatti, che non sia tale, non può mai divenire oggetto di una religione, e neppure di una superstizione. […] La religione rivelata presuppone un Dio che si rivela, epperciò agente e reale (wirkend und wirklich). […] Di un dio che è soltanto la più alta idea della ragione, invece, si poteva dire soltanto in un senso sommamente improprio che Egli si rivela alla coscienza, in un modo totalmente diverso da quello in cui il credente nella Rivelazione parla della Rivelazione stessa». La filosofia negativa si caratterizza tramite ciò di cui è mancante o ciò che vuole ignorare – la perenne impotenza del concetto a ottenere l’esistenza effettiva – in quanto si limita a essenze e rappresentazioni d’oggetti. Sotto il titolo di esistenza essa non concepisce l’essere effettivo, che propriamente non si mostra per concetto, ma «non può raggiungere l’ente stesso (von dem, was das Seyende selbst ist), se non attraverso l’e-

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sclusione di tutto ciò che non è l’ente stesso»18, quello della possibilità logica, della non contraddizione, della proprietà di non essere un non ente. Poiché l’esistenza non si dimostra più di quanto non si rappresenti e quindi non si può finire con il raggiungerla, bisogna o rinunciarvi (come fa la filosofia negativa), oppure cominciare dall’esistenza; solo la filosofia positiva ha i mezzi per un inizio effettivo. Cominciare dall’esistenza non consiste tuttavia nell’immaginarsi di constatarla nell’esperienza già data e disponibile, come vorrebbe l’empirismo classico, perché in tal caso si confonderebbe ancora una volta il quod dell’esistenza (che, daß) con il quid (quiddità, tale essenza, Wesen, ousia, ente). Ora, se qui c’è essere, allora deve intendersi verbalmente, non attributivamente: «l’esistenza, che in ogni altro appare come accidentale, è qui l’essenza (Wesen). Il quod è qui nel posto del quid», bisogna quindi ammettere che la «ragione è posta fuori di sé (außer sich)» in questa «idea rovesciata (umgekehrte Idee)»19. Il pensiero non trova da sé l’esperienza effettiva, perché in quel caso corrisponderebbe ancora all’inizio. «Se la filosofia positiva non parte (ausgeht) dall’esperienza, nulla impedisce che essa si diriga verso (zugehe) l’esperien-

18.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione III, pp. 67, 79, 75 e Lezione IV, p. 115; cfr. anche: «Kant aveva determinato Dio come il concetto supremo necessario per la conclusione della conoscenza umana. […] In questa filosofia, certamente, ogni momento seguente era fondato su quello precedente, ma anche soltanto come un semplice concetto. Essa era una filosofia a carattere immanente dall’inizio alla fine, procedente cioè nel mero pensiero, e in nessun modo trascendente. Se essa perciò, in definitiva, chiedeva una conoscenza di Dio, mentre aveva provato Dio soltanto come idea necessaria della ragione (questo soltanto era stato garantito [versichert] in Kant), la conseguenza necessaria di questo era che Dio, privato di ogni trascendenza, rinchiuso in questo pensare logico, si riduceva a mero concetto logico, all’idea stessa» (ivi, Lezione IV, pp. 119, 121). 19.  Ivi, Lezione VIII, p. 269.

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za, e provi così a posteriori ciò che essa deve provare, che il suo Prius è Dio», quindi perché sostenere il paradosso secondo il quale «essa non parte dall’esperienza, ma va all’esperienza (nicht von der Erfahrung aus, aber der Erfahrung zugeht»20?

Senza il concetto, l’imprepensabile Ciò accade per un motivo evidente: iniziare dall’inizio presuppone che si inizi da ciò che non si deduce da nient’altro, da un fatto che sia un fatto assoluto; quindi non da un a priori in cui la ragione stessa si troverebbe già in prima posizione, concependolo per concetto: «a priori, infatti, ciò da cui essa parte non è Dio a priori: Dio è solo a posteriori. Che Dio sia, non è una res naturae, qualcosa che si capisca di per sé; è una res facti, e può di conseguenza venir provato anche soltanto attraverso i fatti. C’è Dio. Questa proposizione non significa: il concetto di quel Prius è = concetto di Dio. Il suo significato è: quel Prius è Dio, non secondo il concetto, ma in realtà»21. Si tratta di un evento, succede, Dio arriva [arrive], o meglio: avviene [arrive] Dio (ein Geschehen)22. La filosofia positiva

20.  Ivi, Lezione VII, pp. 211 e 213. 21.  Ivi, Lezione VII, p. 213. 22.  Ivi, Lezione V, p. 147. Cfr. «è facile riconoscerlo: soltanto deliberazione e azione possono fondare un’autentica esperienza. Se infatti, per esempio, nella geometria l’esperienza non trova alcun posto, questo accade appunto perché qui tutto può venire compiuto attraverso il puro pensare, perché qui non si deve presupporre nessun accadere (kein Geschehen)», perché «tutto ciò che non va posto attraverso il puro pensare, in cui cioè io ammetto l’esperienza, dev’essere qualcosa che è fondato attraverso un’azione libera» ed è «al di là del mondo sensibile che trovano spazio un evento effettivo, una decisione e un atto» (ivi, Lezione VI, p. 189; tr. mod., sottolineature nostre).

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«non parte da qualcosa di essente nel pensiero, e dunque in generale non dal puro pensiero, essa partirà da ciò che è prima e al di fuori di ogni pensare (ausgehen von dem, was vor und außer allem Denken ist), dunque dall’essere, ma non da un essere empirico […]. Se la filosofia positiva parte da ciò che è fuori di ogni pensiero, essa non può partire da un essere trovabile solo relativamente fuori del pensiero, ma da uno assolutamente fuori del pensiero. […] Ora, questo essere fuori di ogni pensiero è sopra ogni esperienza, così come precede ogni pensiero: è dunque l’essere assolutamente trascendente (schlechterdings transcendente Seyn) quello dal quale parte la filosofia positiva». È necessario che l’inizio sia assoluto e accada assolutamente. Esso, dunque, può manifestarsi solo assolutamente a posteriori. Quanto alle altre situazioni di a posteriori nell’esperienza corrente del mondo, esse non producono a posteriori autentici perché la ragione di diritto vi rimane a priori, a titolo di concetto e della rappresentazione che essa mette in atto, di modo che essa sa a priori che tutto ciò che le accadrà, le diverrà oggetto per concetto. Ma qui, dove si tratta del prius assoluto, al contrario è in gioco un a posteriori anch’esso assoluto – «das absolute Prius […] nur a posteriori Erkenntbares – l’assoluto Prius, conoscibile solo a posteriori»23. Ponendosi come primo in sé, esso può conoscersi solo a posteriori. «Venir conosciuto a priori significa appunto: venir conosciuto a partire da un prius; viene dunque conosciuto a priori ciò che ha un prius, partendo dal quale venga conosciuto. […] Essere il Prius assoluto significa, dunque: non essere conosciuto a priori»24. Ormai il prius da conoscere non coincide più con l’apriori della conoscenza, lo precede e quindi lo rovescia in un a posteriori irriducibile.

23.  Ivi, Lezione VII, p. 211. 24.  Ivi, Lezione VII, p. 215.

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Quindi, quando Schelling stabilisce che «l’intera storia della filosofia mostra una lotta tra filosofia negativa e positiva»25, formula proprio ciò che avevamo di mira con la nostra insistenza polemica contro l’a priori (supra, capp. 6 e 8‑10). Schelling addirittura radicalizza tale polemica, perché da una parte Dio si impone come un prius assoluto, concepibile solo assolutamente a priori, e d’altra parte l’autorità metafisica del concetto mantiene la pretesa di stabilire l’a priori a partire dal nostro punto di vista trascendentale, motivo per cui l’evento e il fatto di Dio che si rivela squalificano ogni concetto, precedendoli tutti. Se può e deve conoscersi, si conoscerà così com’è: «l’essenza più alta, se essa esiste, può essere l’essente solo a priori, dunque essa dev’essere il necessariamente esistente, l’esistente che è prima del suo concetto, dunque di ogni concetto (das seinem Begriff, also allem Begriff voraus seyende sein)»26. Pensare senza iniziare dal concetto – solo a questa condizione si potrà pensare Dio, e Dio in quanto tale, cioè disvelantesi a partire da sé solo. Dio inizia prima che il concetto lo pensi. Pensare la manifestazione di Dio richiede di pensare questo ritardo originario che definisce propriamente l’origine. L’inizio inaugura solo se precede tutto, ivi compreso ogni concetto che vorrebbe pensarlo; il “concetto” di inizio consiste nel ritardo che è imposto a ogni concetto in riferimento al suo 25.  Ivi, Lezione VII, p. 241. 26.  Ivi, Lezione VIII, p. 279; cfr. anche «l’essenza più alta, se essa esiste, può essere l’essente solo a priori, dunque essa dev’essere il necessariamente esistente, l’esistente che è prima (voraus seyende) del suo concetto, dunque di ogni concetto» (ivi, Lezione VIII, p. 279); «incominciare dall’essere senza il concetto […] Dio […] ciò dinanzi al quale la ragione rimane ferma» (ivi, Lezione VIII, p. 271); «lascia cadere il concetto, den Begriff fallen lassen» (ivi, Lezione VIII, p. 267); «come prius ancora privo di concetto» (ivi, Lezione VIII, p. 277); «opposto a ogni concetto – das allem Begriff Entgegengesetzte» (ivi, Lezione VIII, pp. 281, 283). La ragione «pone l’essere senza concetto per giungere da esso al concetto» (ivi, Lezione VIII, p. 283).

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inizio. Il concetto differisce dall’inizio perché questo ritardo differisce il concetto. Schelling ha formulato il ritardo essenziale del pensiero sull’inizio, quindi del creato su Dio, con un neologismo molto efficace: Dio si fa conoscere come imprepensabile (unvordenklich), come ciò che il concetto non può anticipare, né prevedere, né pre-pensare27. Lo si può anche chiamare «il nuovo, l’inatteso (Neues, Unerwartetes)»28. Si tratta di ciò che, dall’inizio (supra, capp. 1‑2), abbiamo designato come l’altrove, ciò che emerge da altrove e permette (o

27.  Cfr. anche «die Notwendigkeit seines unvordenklichen Seyns – la necessità del suo essere immemorabile» (ivi, Lezione XIII, p. 449) e «inizio della filosofia positiva è dunque l’essere che non è mai stato potentia, ma sempre actu. Si potrebbe dire: ciò che precede (kommt zuvor) ogni potenza precede anche ogni pensiero! E certo l’essere che precede ogni potenza dovremo necessariamente denominarlo anche l’essere immemorabile, imprepensabile (unvordenkliche Sein), in quanto precedente (vorausgehend) ogni pensiero» (F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung 1841-1842; tr. it., Filosofia della rivelazione 1841/42, Bompiani, Milano 2016, Lezione XXII, p. 893) e ancora: «l’essere immemorabile (das unvordenkliche Sein) è il realmente primo» (ivi, p. 897); o «signore dell’essere immemorabile (Herr des unvordenklichen Seins)» (ivi, p. 901). «Im-pre-pensabile», questa traduzione di unvordenklich, per quanto sia ruvida, resta la sola possibile per trasporre l’immemoriale, «un passato che non è un antico presente» (X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, vol. I, Vrin, Paris 1970, p. 509), un passato in cui «non ha un prima di sé, ma solo un dopo di sé, cioè non ha passato, ma soltanto futuro» (L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in G. Riconda et alii [ed.], Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 137-180: p. 155). 28.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione 1841/1842, cit., Lezione XXII, p. 901. Sul contesto di questa questione capitale, cfr. J.-L. Marion, De surcroît, cit., cap. VI, Au Nom ou comment le taire, pp. 155-195. Non possiamo far altro che approvare una precisazione di Courtine: «la filosofia positiva non è una fondazione sublime dell’ente nella sua totalità, ma il contrario stesso di una fondazione, la prova di un pensiero dossologico, cioè fenomenologico a proposito del divino» (J.-F. Courtine, Extase de la raison. Essais sur Schelling, Galilée, Paris 1990; tr. it., Estasi della ragione. Saggi su Schelling, Rusconi, Milano 1998, p. 220).

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esige) un’anamorfosi. Qui l’anamorfosi di un prius il cui fatto spiazza ogni conoscenza dall’a priori all’a posteriori, che rigira la filosofia negativa in filosofia positiva, che apre anche il possibile di una Rivelazione. Infatti, quando conclude affermando che «l’Uno […] non è per sé conosciuto, esso non ha alcun concetto attraverso il quale designarlo, ma soltanto un nome (keinen Begriff, durch den es zu bezeichnen wäre, sondern nur einen Namen) – di qui l’importanza che viene attribuita ai nomi –, del nome è Egli stesso, l’unico, che non ha il suo uguale»29, Schelling si ritrova al cuore della Rivelazione biblica. Dio, colui che tutti conosciamo almeno di nome, ma unicamente di Nome.

Schelling, l’essere oltre l’essere? Non si dovrebbe sottovalutare ciò che la Filosofia della Rivelazione ha realizzato, rovesciando l’a priori del concetto e liberando la possibilità di un altrove del pensiero, quindi aprendo il luogo di una Rivelazione come tale. Ma questo risultato, nonostante porti il titolo di filosofia positiva, in un altro senso, resta soltanto negativo: il riconoscimento dell’imprepensabile riguarda infatti unicamente la questione de Deo uno, senza 29.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione VIII, p. 289. Contrariamente a Hegel: «è per questa ragione che può essere utile evitare, per esempio, il nome “Dio”, in quanto tale parola non è immediatamente, anche concetto, ma è puro e semplice nome, è cioè la rigida quiete del soggetto che sta a fondamento; al contrario, “l’essere”, per esempio, o “l’uno”, “la singolarità”, “il soggetto”, ecc., sono espressioni che indicano a un tempo anche dei concetti» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 133). Hegel, però, suggerisce Schelling (prima di Marx), cammina a testa bassa: «cominciare la filosofia dall’essere significa addirittura capovolgerla» (F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie; tr. it., Il monoteismo, Mursia, Milano 2002, Lezione II, p. 43).

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dire ancora nulla de Deo trino. Rimane da vedere che cosa il riconoscimento di Dio come «Signore dell’essere» permetta di cogliere del mustêrion della carità che sta in lui. Per avviare una risposta alla questione va innanzitutto precisato come, fino a dove e da quale «signoria» l’essere sia oltrepassato. Il passo avanti dal negativo al positivo in filosofia si trova significativamente esposto in un passaggio della Lezione V. «Una qualche volta, per esprimermi così, in un qualche punto del suo sviluppo, lo spirito umano sentirà pure l’esigenza di andare quasi dietro l’essere (hinter das Seyn zu kommen) […], si avrebbe piacere, come si dice, di arrivare dietro una cosa (hinter der Sache kommen). Ma cos’è questo “dietro la cosa”? Non l’essere; questo, infatti, è piuttosto la parte scoperta della cosa (das Vordere der Sache), ciò che cade immediatamente dinanzi agli occhi, e che qui viene già presupposto; se, infatti, io voglio arrivare dietro a una cosa, per esempio, dietro a un avvenimento (Ereignis), questa cosa (nell’esempio: l’avvenimento, Ereignis) deve essermi già data (schon gegeben sein). Dietro la cosa non c’è dunque l’essere, ma l’essenza (Wesen), la potenza, la causa (Ursache) (questi sono, in fondo, tutti concetti equivalenti). E così raggiungerà il punto del suo sviluppo più alto la tendenza, così profondamente connaturata nell’uomo e da lui inestirpabile, a capire, ad arrivare non semplicemente dietro questa o quella cosa, ma dietro l’essere in generale (hinter des Seyn überhaupt zu kommen), per vedere non ciò che è sopra (questo è tutt’un altro concetto), ma ciò che è al di là dell’essere». Che cosa si incontra al di là di questa frontiera? Che cosa vi è «dato», che cosa apporta di nuovo l’«evento»? Qui si trova un’indicazione: «fuggire in un completo deserto di tutto l’essere (in eine völlig Wüste alles Seyn)»; poi un’altra, positiva: «quell’interno organismo delle potenze l’una all’altra susseguentisi in cui essa [sc. la ragione?] trova la chiave per ogni essere, e che è l’interno organismo

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della ragione»30. Ma la o meglio le potenze articolano ancora «l’ente (das Seyende)», che «anch’esso […] esiste», anche se «al di sopra (über) di questo essere»31. L’uso, ambiguo ma costante, degli stessi termini (seyn e Seyende), uso talvolta negativo secondo il concetto di ente, talaltra positivo secondo l’effettività del fatto che adviene, separa solo dalle esplicitazioni polemiche spesso imprecise tradendo l’indeterminazione dell’oltrepassamento «dietro» e «al di là» l’essere che le «potenze» pretendono di compiere. Detto altrimenti: colui che ha signoria sull’essere può semplicemente definirsi in rapporto a questo essere, come «non più meramente l’ente (bloß das Seyende), […] ma il Sovraessente (das Überseyende)»32? L’essere al di là dell’essere resta, come il Dio senza essere, compreso, ma solo negativamente, a partire da ciò che vorrebbe e crede di superare. Per andare oltre occorrerebbe lasciarsi alle spalle ciò che si trasgredisce. Non è però questo il caso.

Schelling, l’impotenza delle potenze Si tratta quindi di valutare se «la teoria delle potenze», dopo esser stata «già sufficiente per la spiegazione della Mitologia», consenta anche di «porre il fondamento (den Grund zu legen) per la futura filosofia della Rivelazione» spiegando «l’idea della Triunità in Dio»33. In un primo momento, le potenze giocano nell’opposizione dell’essere in sé all’essere per sé e, in un senso quasi hege-

30.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione V, pp. 125, 127. 31.  Ivi, Lezione V, p. 131. 32.  Ivi, Lezione VII, p. 219. 33.  Ivi, Lezione XV, p. 529.

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liano, determinano «lo spirito assoluto» o «perfetto»34. Sia innanzitutto «lo spirito che è in sé», mai oggetto neppure per sé, «l’assolutamente non oggettivo»: in sé, cioè che non «va oltre sé», un «per sé, nel completo autodileguarsi, nell’assoluta ignoranza di se stesso». Si può notare che il primato di questa prima potenza (di fatto il Padre) si definisce inizialmente in termini di conoscenza (di sé), di pensiero (di sé), ma facendo in tal modo, certo per contrasto, ancor più riferendosi alla logica della filosofia negativa. Ne segue che «la più pura “aseità”» si definisce ancora come ciò «dal quale l’intelletto nulla può cavare»; donde anche il «silenzio», il «riposo», «massima profondità e penetrazione, e, per così dire, quell’isolamento» nella divinità, in breve «nascosta» e «invisibile». Non si può evitare di concludere che questa determinazione dell’esserein-sé come in-sé non manifesta, non indica e non dice nulla della paternità di Dio. Sia poi «lo spirito che è per sé». Essendo per sé non è insé quindi, evidentemente, esso è «fuori di sé, von sich weg». Come già Hegel, Schelling deve accettare che può trovare uno spazio (quale, dove?) che permetta allo spirito di prodursi come «l’esterno, das Äußere». Questa esteriorità, il per-sé, la produrrebbe per così dire a partire da sé, perché non è più necessariamente «presso sé, bei sich» di quanto non sia «fuori, weg» da sé; è uno e l’altro liberamente, per la proprietà (opposta a quella dell’in-sé) di «uscire da sé, von sich weggehen». Si potrebbe quindi concludere che una tale indeterminazione dell’essere per-sé non manifesta, non indica e non dice niente della filiazione in Dio, il che potrebbe essere detto se non si notasse tuttavia che qui, talvolta, è all’opera un altro vocabolario; per esempio, quando Schelling segnala «la natura dello spirito essente per sé è appunto soltanto quella di essere per sé, cioè per lo spirito essente in sé, di darsi (sich geben) tutto 34.  Seguiremo ivi, Lezione XII, pp. 403 ss.

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a esso. Così come, d’altra parte, potremmo dire che la natura dello spirito essente in sé è di essere soltanto quello per il quale l’altro esiste. L’uno si riversa in qualche modo nell’altro. Nessuno dei due è, per così dire, in virtù di se stesso: quello essente in sé è soltanto per avere se stesso come essente per sé, quello essente per sé (dunque non in sé) è soltanto per darsi (geben) a quello (all’essente in sé)». Come comprendere che la dottrina delle potenze e l’antinomia dell’ente in-sé con il per-sé operano immediatamente con l’aiuto della logica del dono? Evidentemente, appartenendo a registri totalmente differenti, non possono confondersi. Possono gerarchizzarsi e organizzarsi? O dovrebbero opporsi ed escludersi? Infine, viene «lo spirito presso sé (bei sich)». Si definisce come «ciò che può essere fuori (weg) di sé, uscire da sé (von sich weggehen), esternarsi (sich äußern, alienarsi), senza essere con ciò meno in sé, e, viceversa, ciò che è in sé senza per questo poter meno uscire da sé (von sich weggehen)». Resterebbe da mostrare come lo spirito giunga allo status di «spirito perfetto». Ma la fondazione di questa unità «nel concetto, im Begriff» sembra nella migliore delle ipotesi quella più fluida e debole, nella peggiore una regressione nella filosofia negativa. Ricorrere allo «spirito libero anche da se stesso», alla «libertà che è il nostro punto più alto, la nostra divinità» non fa che riproporre la difficoltà: come e da dove si esercita questa libertà anche verso di sé? Qui non si può non chiedere che cosa faccia difetto alla ricostituzione della vita trinitaria a partire dalla dottrina delle potenze.

Schelling, l’amore mancato e l’indecisione del dono Per rispondere alla domanda bisognerebbe ripercorrere tutta la cristologia di Schelling, lavoro che va oltre il nostro propo-

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sito e che già altri hanno fatto con acribia35. Ci basterà insistere su un punto, che definisce l’intera dottrina della Trinità. Schelling ha infatti commentato l’inno citato dall’Epistola ai Filippesi (2,6‑8): «Gesù Cristo, che sussisteva (uparkhôn) nella forma di Dio (en morphê theou), non ha considerato come un bene da possedere (ouk arpagmon êgêsato) l’essere uguale a Dio (to einai isa theô), ma si svuotò (ekenôsen) [di] se stesso, prendendo forma di servo (morphên doulou labôn) diventando simile all’uomo; trovato come un uomo, si abbassò diventando obbediente fino alla morte e alla morte di croce». Per comprendere l’inno, Schelling cerca di misurare lo scarto economico tra Gesù e il Padre, presumendo che fissi anche la norma della relazione del Figlio al Padre nella Trinità immanente. Questa interpretazione, che procede tramite alcuni argomenti abbastanza discutibili, arriva a una conclusione deleteria36. Per Paolo si tratta evidentemente di sottolineare il parallelismo tra la relazione trinitaria immanente del Figlio eterno al Padre (nello Spirito) e la ripetizione economica di questa stessa relazione fatta da Cristo nella finitezza (diventa-

35.  Cfr. X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, cit. vol. II, in part. parte IV, cap. 3, pp. 435-488, e Id., La christologie idéaliste, Cerf, Paris 1990; tr. it., La cristologia idealista, Queriniana, Brescia 1993; Id., La semaine sainte des philosophes, Cerf, Paris 1992; tr. it., La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 20222; J.-F. Marquet, Liberté et existence. Étude sur la formation de la philosophie de Schelling, Gallimard, Paris 1973; Th. F. O’Meara, Christ in Schelling’s Philosophy of Revelation, in «Heythrop Journal», n. 27, 1986, pp. 275-289, e Id., Philosophie et révélation dans l’itinéraire de Schelling, Vrin-Peeters, Paris-Louvain 1989 e la sintesi di J. Greisch, Le buisson ardent et les lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, vol. I, Héritages et héritiers du xixe siècle, Cerf, Paris 2002, I, cap. 3, pp. 175-205. 36.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione XXV, pp. 945953. Gli argomenti sono: morphê e uparkhein indicherebbero sempre una situazione provvisoria e contingente, quindi una divinità incompiuta; kenoô (ekenôsen) equivarrebbe a entäussern, alienare. Cosa che esegeticamente non è per nulla sostenibile.

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re uomo), nell’obbedienza e infine nella morte; soltanto presupponendo questa similitudine tra la situazione trinitaria del Figlio e la situazione economica di Cristo si può capire perché l’apostolo raccomandi alla comunità dei credenti di avere «in voi lo stesso pensiero (touto phroneite en humin) che si trova in Gesù Cristo» (Fil 2,5). Ora, Schelling sostiene al contrario che la morphê theou definisce qui «una terza [situazione], perché Cristo è posto come Personalità extradivina, senza perciò essere già uomo»37. Perciò prima dell’incarnazione e a fortiori della morte in croce, il Figlio sarebbe essenzialmente differente dalla divinità «essenziale», e ciò secondo una «separazione (Abgeschnittenheit) del Figlio dal Padre, […] in una totale libertà e indipendenza dal Padre»38. La libertà nei confronti dell’essere renderebbe il Figlio libero nei confronti della propria divinità fino nella Trinità immanente, quindi lo renderebbe autonomo nei confronti del Padre. Il Figlio sarebbe divino ma senza, se non addirittura «di fronte, gegenüber», al Padre, e dunque «non internamente, ma esternamente, äußerlich»39.

37.  Ivi, Lezione XXV, p. 945, si veda anche «stato intermedio, in quanto egli era indipendente dal Padre, Signore dell’essere estraniatosi (entfremdeter) da Dio e dal Padre» (ivi, p. 947); «situazione intermedia di una Signoria indipendente dal Padre, che il Figlio aveva prima dell’apparizione come Cristo» (ivi, p. 949); «l’esistenza esterna, indipendente totalmente dal Padre […] esistenza extra-divina (außergöttliche Existenz)» (ivi, p. 963). 38.  Ivi, Lezione XXV, p. 943; cfr. «ripeto: l’intero Nuovo Testamento è incomprensibile se non si attribuisce al Figlio, e invero da quando è il mondo (perché non appena il mondo è, è il rovesciamento), un’esistenza fuori del Padre (extra Patrem) e indipendente dal Padre» (ivi, p. 959); qui si ritrova lo stallo, costante in Hegel, tra la generazione del Figlio, la creazione e il male; sempre per la stessa e unica ragione: non c’è che un principio di differenziazione, lo scarto logico (negativo, in sé/per sé, libertà, ecc.), l’agapê come distinzione nella comunione (distanza) resta ignorata; per concepire la Trinità non resta quindi che mondanizzarla e istoricizzarla. 39.  Ivi, Lezione XXV, p. 941; cfr. «è questo il mistero dell’amore eterno: ciò che appunto potrebbe essere assolutamente per sé, pur non considerando

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Donde una questione inevitabile: perché la Trinità immanente deve essere compresa come una scissione, mettendo il Figlio al di fuori del Padre? Perché senza questa scissione la distinzione delle persone trinitarie non potrebbe veramente realizzarsi. E perché non potrebbe? Perché non viene considerata nessun’altra differenziazione tra il Padre e il Figlio, perché l’agapê non è mai vista come una logica che consente la distanza, come una distinzione tramite e in vista della comunione. La distinzione logica impone a Schelling (come già a Hegel) di introdurre nella Trinità immanente il solo principio che essi possano tenere in considerazione per riuscire nel loro scopo, ossia la scissione, poco importa che essa resti opera del solo concetto, poco importa che questa scissione provenga dal negativo nella proposizione speculativa (Hegel), dalla libertà dello spirito o dal gioco dell’in-sé/per-sé (Schelling), a patto che resti opera del concetto e mai dell’agapê. Questa mancanza grammaticale – voler pensare la Trinità secondo la logica del concetto e mai secondo quella dell’agapê – si ritrova in Schelling, come prima in Hegel, a causa della totale incomprensione di ciò che talvolta è comunque salutato come «miracolo dell’amore, Wunder der Liebe»40. Più precisamente tramite la totale non comprensione del dono nella sua funzione trinitaria. Almeno un testo lo indica chiaramente: «viene il momento in cui la potenza mediatrice si è di nuovo fatta nella coscien-

una privazione [preda da possedere, Raub, quindi arpagmon] l’essere per sé, tuttavia è soltanto in e con gli altri. Se ciascuno non fosse un tutto, ma solo una parte del tutto, non ci sarebbe amore; vi è invece amore proprio perché ciascuno è un tutto, e purtuttavia non è e non può essere senza l’altro» (F.W.J. Schelling, Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie [1806]; tr. it., Aforismi sulla filosofia della natura, EGEA, Milano 1992, § 163, p. 67). 40.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione XXXI, p. 1209.

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za umana [di Cristo] Signora di quell’essere in cui essa nuovamente ha una Signoria ed è con ciò anche (esternamente) di nuovo Personalità divina. Ma essa è Personalità divina in quanto Signore sopra l’essere che il Padre non le ha dato (das nicht der Vater gegeben hat) – l’essere che essa possiede indipendentemente dal Padre. Con ciò la Personalità divina è a propria volta indipendente dal Padre, e perciò in questo momento, secondo il suo essere, dovrà essere determinata come personalità divina-extradivina (außergöttlich-göttliche): come divina, perché è Signora dell’essere, come extradivina, perché possiede questo essere come uno che non le è dato da Dio (von Gott nicht gegeben), che è dunque indipendente dal Padre, con cui essa può dunque anche incominciare ciò che vuole, e lo potrebbe padroneggiare senza più interruzioni come qualcosa di indipendente dal Padre. In ciò sta la sua libertà. Questo si deve sapere, per intendere quell’obbedienza di Cristo, della quale tanto si discorre (Fil 2,8; Eb 2,9 e Eb 5,8, ecc.) e che è tanto importante. Il Figlio potrebbe esistere indipendentemente dal Padre nella sua propria (eigner) Signoria, egli potrebbe certamente essere, fuori dal Padre, non il vero (wahre) Dio, ma potrebbe fuori e senza del Padre essere Dio, cioè Signore dell’essere, non Dio secondo l’essenza (Wesen) ma actu. Questa Signoria, che egli potrebbe avere indipendentemente da Dio, il Figlio invece la disprezzò, e in ciò egli è Cristo. Questa è l’idea base del Cristianesimo»41. Lo si vede chiaramente: il Padre dà la divinità al Figlio (e Cristo così la comprende) come una semplice divinità in actu, ma non come essenziale; questa divinità, proprio perché data, rimane indipendente dal Padre e quindi limitata: il Figlio «non può possedere la vera divinità (wahre Gottheit)», ma solo un essere «accidentale (zufällig)», una divinità «inessenziale, unwesentliche», se non

41.  Ivi, Lezione XXV, pp. 939-941.

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addirittura una «falsa (falschen) divinità»42. Non si dovrebbe dire piuttosto che il Padre non dona la divinità al Figlio, o almeno non la sua? E non si dovrebbe dire quindi che non gli dà neppure l’indipendenza di Figlio, per il quale «tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie» (Gv 17,10, cfr. Lc 15,31)? Il dono del Padre dà o riserva l’essere, la sovranità e l’indipendenza che darebbe senza darli veramente? Dopo due pagine Schelling sembra esitare o percepire la difficoltà, quando, dopo aver menzionato «l’essere che il Padre non ha donato» al Figlio, scrive che il Figlio «possiede l’essere […] non come il Padre, cioè originariamente, bensì lo possiede come qualcosa che gli è dato (als ein ihm gegebenes), cioè in quanto Figlio»43. La questione diventa chiara: il Padre dona tutto a suo figlio, come si dà paternamente – totalmente e senza ritorno – o dà senza dare tutto (tutta la divinità, tutta l’indipendenza, tutta la libertà) quindi senza donare? Dà con la riserva del concetto, secondo il quale ciò che è fuori dal Padre si trova fuori di Dio, ciò che è differente da Dio Padre si aliena da lui, in breve dove la differenza è concepita solo nella scissione? Oppure dona nella comunione dell’agapê, dove la distinzione dei poli dell’amore accresce l’unione, dove il Figlio si abbandona tanto più al Padre quanto più il Padre gli ha abbandonato tutto donando senza riserva, in modo che questa non-riserva stessa appare come il loro Spirito? Schelling non ignorava quest’altra ipotesi e talvolta l’ha fatta ben più che affiorare. Così, un magnifico inciso lascia intravvedere che «se con “essere” si intende soltanto quell’essere che si dà (wenn man unter dem Seyn bloß das sich gebende), che è palese, fuori di sé, che esce da sé (das offenbare, das

42.  Ivi, risp. Lezione XXX, p. 1147 e Lezione XXXI, p. 1191. Cfr. X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, cit., vol. II, p. 456. 43.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione XXV, p. 941.

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außer sich, von sich weggehende), allora lo spirito essente per sé è quello puramente essente»44. L’essere potrebbe o avrebbe potuto concepirsi a partire dal dono che lo distacca da sé e lo consegna in quanto tale, come ente d(on)ato? Anche se alla fine l’ha mancato, a questo punto almeno Schelling si è molto avvicinato, scorgendo forse che oltrepassare questo limite avrebbe condotto di diritto al luogo in cui un pensiero teologico della Trinità diventava possibile, o almeno avrebbe potuto diventarlo. Lo suggerisce anche un altro testo, che sembra rinunciare alla mera dottrina delle potenze: «con le personalità la nostra considerazione si solleva a un grado più alto, possiamo anzi dire a un altro mondo. Nelle potenze, finché sono in tensione, noi vediamo soltanto il lato naturale del processo (lo vediamo soltanto come processo di formazione del concreto). Con le personalità si apre invece un altro mondo, quello del Divino come tale, e appare proprio così anche per la prima volta il più alto significato, il significato divino del processo. Rispetto alla Divinità, infatti, questo ha il senso seguente: quell’essere che originariamente è soltanto nel Padre, e che il Padre possiede come pura possibilità, viene dato (gegeben) al Figlio e allo stesso modo reso comune allo Spirito; al Figlio, infatti, l’essere è dato dal Padre, ma allo Spirito [sc. è dato (gegeben)] dal Padre e dal Figlio»45. Faremo quindi credito a Schelling delle sue in-decisioni.

44.  Ivi, Lezione XII, p. 423. 45.  Ivi, Lezione XV, pp. 561-563, sottolineature nostre. Commentando Gv 5,26 («come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso»), Schelling cancella subito il dono, precisando innanzitutto che «questa vita il Padre l’ha come qualcosa di non dato», ma posseduta originariamente tramite la «potenza paterna»; poi «al Figlio il potere, la potenza, deve prima essere data» (ivi, Lezione XV, p. 543). Bisogna comprendere il dono a partire dalla potenza, o il contrario? Qui Tilliette parla di un «mezzo fallimento», «perché Schelling era per così dire

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Schelling, la storia più alta Un’unica scissione conforme al concetto, quindi, regge tanto la Trinità immanente quanto la Trinità economica. Hegel e Schelling giungono allo stesso risultato e alla stessa aporia lasciata affiorare dal giudizio di Rahner e di conseguenza l’economia include la storia, anche se questa non si riduce al concetto comune (metafisico) di storia dal momento che non si tratta di una successione di un insieme di oggetti ma di una discontinua diacronia di eventi. Tuttavia, invocare qui una «storia più alta»46 non dissipa l’aporia, giacché per concepire (o piuttosto ricevere) correttamente degli eventi non è sufficiente sostituire ai logia di un’interpretazione proposizionale della Rivelazione (capp. 4 e 15) le gesta Dei di un’interpretazione storica imprecisa (lineare, cronologica) della Rivelazione (cap. 16). D’altronde, rigorosamente parlando, la Rivelazione non appartiene alla storia (né nel senso della Historie degli storici, né in quello della Geschichte filosofica), ma si inscrive in o piuttosto tramite eventi, cioè fenomeni saturi, inoggettivabili per concetto, il cui avvenimento (tramandamento, arrivage) di conseguenza impone ai loro testimoni un’ermeneutica indefinita. In mancanza di questa precisazione fenomenologica, l’interpretazione storica della rivelazione non oltrepassa le aporie della sua interpretazione proposizionale ma ne ripete l’idolatria – non più quella dei concetti, ma quella dei “fatti”

bloccato dalla sua istanza iniziale» (X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, cit., vol. II, pp. 483 e 482). 46.  «Il contenuto della Rivelazione non è altro che una storia più alta, che ritorna fino all’inizio delle cose e si spinge fino alla loro fine. La filosofia della Rivelazione vuole soltanto chiarire questa più alta storia» (F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione XXV, p. 929). Une tale storia più alta non sarebbe più alta della storia comune e lo sarebbe solo se non si scrivesse più seguendo la logica del concetto, ma da altrove (cfr. infra, cap. 19).

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o peggio del “senso della storia”. Del resto questa tentazione non ha nulla di moderno, né di post-moderno. Quando Schelling conclude la Filosofia della Rivelazione facendo corrispondere alle tre persone della Trinità le tre Chiese che si sono succedute («Pietro è l’apostolo del Padre […], Paolo è propriamente l’apostolo del Figlio, Giovanni quello dello Spirito»47), non solo cede a un’interpretazione storica debole (perché soltanto cronologica) della funzione rivelatrice della Trinità; non solo manca assolutamente l’identità tra il rivelato e il modo della rivelazione (tra il fenomeno e il «come, wie» della sua fenomenizzazione); ma soprattutto ritrova, facendo certamente eco a Gioacchino da Fiore, una celebre interpretazione di Gregorio Nazianzeno, già allora insufficiente: «l’Antico Testamento annunziò in modo esplicito l’esistenza del Padre, mentre l’esistenza del Figlio fu annunziata in modo più oscuro. Il Nuovo Testamento manifestò l’esistenza del Figlio, mentre fece intravvedere la natura divina dello Spirito. Ora (nun) lo Spirito è presente in mezzo a noi e ci concede più distintamente la propria manifestazione»48. Presa alla lettera, la temporizzazione strettamente storica della Trinità schiaccia l’economia sulla cronologia, anziché affermare la storia come trinitariamente rivelatrice. Nessuna oggettività può definire ciò che si mette in atto nell’economia, ancora meno se questa economia deve potersi dispiegare trinitariamente, nel suo dato fenomenico, come anche e forse innanzitutto nel suo modo di fenomenizzazione.

47.  Ivi, Lezione XXXVII, p. 1423. 48.  Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXXI, 26, p. 188 [SC 250, p. 326].

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17 La Trinità come icona: un modello fenomenico

Due insufficienze I due principali modelli interpretativi della Trinità mostrano quindi le loro mancanze: non si tratta dell’incapacità di «parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero» (1Cor 2,7), che è un’incapacità inevitabile, indispensabile, e che anzi rende autentiche tutte le concezioni corrette di ciò che si può comprendere solo senza comprenderlo (seguendo una regola teologica che non fa eccezioni). Si tratta invece della loro doppia pretesa di comprendere il mistero trinitario più di quanto non sia possibile, perdendone così alcune determinazioni decisive e tali perché indicano le vie d’accesso a ciò che non può né deve essere concepito per concetto. Il primo modello tenta di riportare entro l’orizzonte dell’essere/ente i tre nescio quid della Trinità, imponendo loro il lessico dell’ente, quindi innanzitutto il principio della sua identità. Volendoli pensare secondo l’ousia (prima o seconda), porta a disarticolare l’unità per comunione in una triplicità e in un’unicità mal giustapposte, e quindi, mal conciliate. La mancanza deriva dalla considerazione della Trinità a partire da un punto di vista altro rispetto al suo proprio e dall’allontanamento dal suo centro per posizionarla altrove; più precisamente, essa

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viene espulsa in un luogo interpretativo adeguato alla nostra metafisica (spontanea o sofisticata poco importa), che però le resta estraneo. Considerata al di fuori di sé, la Trinità si allinea alla nostra prospettiva, che quindi la conduce altrove, ma un altrove che rovescia proprio ciò che viene definito di qualunque rivelazione: advenire a colui che la riceve da altrove. Il primo modello di Trinità annulla onticamente l’altrove del suo scoprimento e il secondo tenta di dispiegare l’unità per comunione della Trinità nell’orizzonte logico della concatenazione dei concetti. O secondo la proposizione speculativa, seguendo il legame del soggetto e del predicato, quindi tramite l’operazione del negativo (Hegel), o secondo l’articolazione dello spirito tra il suo in-sé e il suo per-sé, quindi tramite la potenza della sua libertà nei confronti del suo proprio essere (Schelling). Così, in entrambi i casi l’unità non si basa più sulla comunione dei nescio quid nell’unico atto di carità, ma consegue da un dispiegamento discorsivo, per dipendere infine più dalla storia che non dall’«economia» trinitaria. Anche il compimento della comunione resta incoativo, perché si attesta solo nel suo svolgimento, per non dire nella disarticolazione storica nel corso del mondo. Ancora una volta il problema è considerare la Trinità a partire da un punto di vista altro rispetto al suo proprio, un punto di vista che si allontana dal suo centro, rovesciando l’altrove. Considerata a partire dalla logica dello spirito o (il che vi equivale) a partire dalla proposizione speculativa nella sua accezione metafisica, la comunione trinitaria è separata dal mistero della carità e, apolide di sé, è spostata in un deserto d’amore, registrata sotto altri nomi e altri cieli, altrove, nell’immanenza della nostra logica mondana. Quest’altro luogo, il nostro, le impone di abitare un altrove che non è più il suo, che l’aliena: non è casuale il fatto che l’alienazione (Entäußerung) divenga l’operatore per antonomasia di recuperi e denigrazioni di tal fatta della Trinità, perché si tratta di annullare in essa il suo autentico altrove – quello donde deve

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provenire per advenirci nel suo s-coprimento – in modo che non si scopra più, ma tra noi si ricopra: «e i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). L’errore comune a questi due modelli diventa quindi patente: essi neutralizzano l’altrove dal quale la Trinità si rivela, portandola fuori dalla carità, nella nostra temporalità e nel nostro mondo – pretendendo così di salvarla, ma di salvarla alle nostre condizioni. Neutralizzare l’altrove, rifiutare l’anamorfosi – ecco la questione. Come uscire da questa prigionia? Facilmente possono essere individuate due condizioni negative: contro il primo modello bisogna ammettere che l’essere/ente, anche se può anche denominare Dio, lo può fare solo rinunciando alla sua intenzione di fondo: conoscere adeguatamente per concetto; detto altrimenti: bisogna rispettare scrupolosamente l’avvertimento di Tommaso d’Aquino, per cui «poiché la sostanza [di Dio] ci è ignota, lo stesso vale anche per l’essere (sicut Dei substantia ignota, ita et esse)»1. Contro il secondo modello bisogna trarre le conseguenze di un avvertimento di Basilio di Cesarea: «noi pronunciamo come unica (monakhôs) ciascuna ipostasi: qualora sia necessario connumerarle, non lasciamoci portare da una numerazione inintelligente (apaideutô arithemêsei) a una concezione politeistica»2. A queste due ingiunzioni negative se ne devono però aggiungere altre due, positive: innanzitutto quella già formulata da Barth (supra, capp. 7 e 15): le dimensioni della Trinità devo1.  Tommaso d’Aquino, De Potentia; tr. it., La potenza divina. Questioni 6-10, in Id., Le questioni disputate, vol. IX, ESD, Bologna 2003, q. 7, a. 2, ad 1m, p. 183; si vedano altri testi in J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., cap. VIII, pp. 241-285. 2.  Basilio di Cesarea, Sullo Spirito Santo, Città Nuova, Roma 1998, XVIII, 44, p. 151 (tr. mod.) [PG 32, 148a].

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no governare gli atti della sua rivelazione e le azioni della rivelazione devono corrispondere alle dimensioni della Trinità; detto altrimenti: è bene che i tre termini della comunione (immanente) si ritrovino in gioco anche nei momenti della sua manifestazione (economica), cioè che la comunione e la manifestazione operino proprio la stessa logica della carità. L’unità immanente della comunione quindi non dovrà manifestarsi economicamente tramite il suo dispiegamento, disarticolandosi in momenti da lei differenti o addirittura rispetto a lei contraddittori. La Trinità si deve sviluppare in momenti che appartengano sempre all’unione di comunione e che assicurino, in questa stessa comunione, le condizioni e le dimensioni della sua manifestazione. È necessario che i tre nescio quid siano intimamente implicati nell’esercizio della manifestazione al punto da trovarsi uniti nella comunione immanente: soltanto così si realizzerà correttamente l’«e viceversa (und umgekehrt)», ossia non tramite una manifestazione triplice (in cui l’economia contraddirebbe l’immanenza), ma trina (in cui la manifestazione segue l’esatto ritmo della comunione). La Trinità immanente e la Trinità economica restano isomorfe perché la carità si dà quando si realizza e proprio perché si realizza in sé come dono – dando revelat, revelando dat. Infine rimane un’ultima ingiunzione, appena formulata a contrario: dal momento che i modelli precedenti falliscono annullando l’altrove della Trinità con l’imposizione del loro altrove (il punto di vista dell’ego e del suo concetto guida), poiché rifiutano la possibilità stessa dell’anamorfosi e quindi di una rivelazione, allora sarà necessario che un terzo modello ristabilisca il cardine e la svolta dell’altrove; dell’altrove nella sua più netta radicalità, come ciò che non proviene dal nostro ambiente, né usa le parole della nostra tribù, ma resta per noi impraticabile come tale, come la condizione per noi sempre a posteriori della manifestazione dell’altro a priori.

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Lo Spirito e l’altrove Come è possibile giungere a un modello trinitario di tal fatta? Forse, riconoscendo un tratto comune agli altri due modelli; un tratto o piuttosto il loro comune ritrarsi davanti allo Spirito. Infatti, inizialmente essi sono stati formulati per concepire la relazione di Gesù con Dio, quindi del Padre con il Figlio e, di fatto, fin qui la Trinità è stata appena evocata, nominando solo il Padre e il Figlio. Così sembrerebbe che dei tre della Trinità lo Spirito arrivi solo in ritardo, come complemento e ripetizione di ciò che prima di lui avviene tra i due protagonisti; questo fatto è stato deplorato abbastanza di frequente, fino alla polemica, ma lo stupore rivela una certa ingenuità. Non solo la storia dei dogmi mostra che il dibattito trinitario è stato provocato dalla questione dell’uguaglianza (o non uguaglianza) del Figlio al Padre e che solo dopo un secolo di latenza l’arianesimo (soprattutto i sostenitori di Macedonio) ha messo in gioco lo Spirito e ha chiamato in causa la sua divinità. La reticenza o il ritardo nei confronti del terzo termine si spiegano tanto più con il fatto che nelle testimonianze bibliche lo Spirito appare solo lateralmente, come Spirito di Dio (Mt 3,16; Rm 8,14; 2Cor 3,3; Ef 4,30), Spirito del Padre (Mt 10,20), Spirito del Figlio (Gal 4,6) o Spirito di Gesù Cristo (Fil 1,19); senza poi menzionare il fatto che appare in forma dissimulata, dal momento che la sua divinità non è attestata esplicitamente: se «Dio è spirito» (Gv 4,24), da nessuna parte si legge la sua reciproca. Dove è dunque possibile situare lo Spirito in Dio, nella Trinità o in qualche margine? Quale? La conclusione che si trarrebbe in modo immediato da ciò, ossia che lo Spirito non è rivelato come Dio, sarebbe tuttavia un totale controsenso. Lo Spirito si pone nella Trinità immanente perché egli la pone nella sua economia. Lo Spirito appartiene a ciò che si rivela trinitariamente perché opera rivelando trinitariamente ciò che si rivela. Ciò distingue la sua funzione

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divina da quelle del Padre e del Figlio, «carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio […]. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1Gv 4,1‑3). La sua funzione trinitaria non consiste nel rivelarsi direttamente, ma nel rivelare il Padre in Gesù Cristo manifestato come Figlio. Lo Spirito partecipa intrinsecamente alla rivelazione della trinità in quanto suo rivelatore (nel senso per cui senza rivelatore l’immagine fotografata, per quanto già impressionata, non si esporrebbe, quindi non apparirebbe). «Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: “Gesù è anatema!”; e nessuno può dire “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). Lo Spirito fa professare Cristo come Figlio del Padre, questa professione di fede è realizzata solo in lui e tramite lui, anche e soprattutto se il compito di realizzarla appartiene a un uomo, in quanto professando Cristo come Figlio del Padre, quest’uomo riconosce al contempo (per quanto prodigioso possa apparire il salto) questo Padre, quello del Figlio, come il suo: «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta (auto to pneuma summarturei tô pneumati) che siamo figli di Dio» (Rm 8,15‑16). Lo spirito rivela il Padre nel Figlio facendo diventare anche noi Figli del Padre – la Trinità economica coincide con la Trinità immanente perché si realizza in essa e secondo il suo unico Spirito, «che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò (exapestelilen) nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio (dia theou)» (Gal 4,6‑7). Lo Spirito ci rende figli non solo perché ci fa osare la confessione di Dio come Padre

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e ci consente di arrivare a ciò, ma anche perché ci introduce nella posizione e nella condizione filiale di Cristo; infatti, ciò che ci conferisce lo prende in prestito direttamente dal Figlio: «quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà (odêgêsei) a tutta la verità […]. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,13‑14). Lo Spirito rende così manifesta la paternità di Dio, facendo riconoscere Gesù come il Figlio tramite uno stesso e unico gesto che, al contempo, glorifica la Trinità (immanente) come tale, la svela economicamente a noi e finalmente ci consente, ancora imprigionati nell’economia trasudante di peccato, di attuare la filiazione nel nome di Cristo, perché ciò si dà secondo un altro paradosso, enunciato da Cristo stesso: «chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Gv 14,12). Ne farà di più grandi perché Cristo, ritornato al Padre, ristabilendo tutto e realizzando la Trinità (immanente) in modo definitivo, assorbe definitivamente in lei il gioco (economico) dei figli adottivi.

La possibilità di un’anamorfosi Il fatto che lo Spirito Santo venga a dire «Abbà, Padre!» in noi e che manifesti in noi la Trinità (immanente) facendoci prendere parte alla sua economia può e deve sorprendere, come un paradosso. È però necessario che questo paradosso sia ricevuto correttamente, in quanto non si tratta di un’esaltazione iperbolica, da mettere in conto alla Schwärmerei o a una supposta “mistica”. Si tratta, questa volta in termini sobriamente biblici, dell’operazione che abbiamo già descritto a titolo di anamorfosi, perlomeno offrendone uno schizzo. L’anamorfosi indica il trasferimento dal punto di ancoraggio della mira intenzionale di un luogo (punto zero, Nullpunkt) a un altro, distante e diffe-

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rente; indica lo spostamento dell’ego intenzionale da un punto di vista all’altro, secondo le esigenze del fenomeno che si dà a vedere – esigenze che la maggior parte delle volte sono mute ma tanto più vincolanti. Alcuni fenomeni, infatti, si danno in modo tale da mostrarsi solo se chi pretende di vederli accetta di posizionarsi (e quindi di spostarsi) fino al sito in cui la molteplicità dell’intuizione, fino allora sparsa, caotica e confusa, si organizzerà a partire da sé (e non più a partire dai nostri concetti a priori) in una figura coerente, organica, nata da sé, e in un senso (il suo e non il mio). In questo caso la fenomenicità di Cristo si dà, ma senza che degli sguardi, rinchiusi nella loro storia, nel loro destino e nel loro imbarazzo, possano immediatamente riceverlo, prevederlo o vederlo come il Figlio del Padre; potranno vedere ciò che si dà solo rinunciando a prevedere, quindi spostandosi da un punto di vista (religioso, culturale, politico, ecc.) a un altro, a questo altro che, in un colpo solo, gli aprirà la possibilità di confessare Gesù come Cristo, quindi come Figlio del Padre (supra, capp. 13‑14). Dunque, si tratta proprio di un’anamorfosi, ma qui capiamo che il luogo richiesto dall’anamorfosi è definito esclusivamente dallo Spirito, che «fa e produce il cammino (odêgei)» (Gv 16,13). Aprire la strada consiste nel guidare il cammino di chi non sa in anticipo dove andare e si rimette alla guida (odêgos) che, sola, sa dove bisogna andare. Un guidare (odêgia) di questo tipo apre un cammino che certo porta da qualche parte, senza però che chi cammina sappia dove porta, né se vi porta. La guida che apre la via procede (avanza e si fa avanti) proprio in modo contrario rispetto al metodo (methodos), che invece sa in anticipo dove va (e va avanti senza mai avanzare, senza arrischiarsi). Aprire una via in montagna – o una pista sciando, non consiste nella costruzione di un cammino segnato, che trasforma la parete o il pendio in una via ferrata o express, che potrà poi essere percorsa a proprio piacimento, ma nell’operare per vedere la montagna o la pista come via possibile in

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questo momento, quindi ad andare a vedere sul posto come posizionarsi nel punto di vista dove (meglio, da dove) tali vie mostreranno il cammino che già offrono, pur se dissimulato, in quanto non le si mira a partire dal punto corretto; non appena questo punto è raggiunto, allora la via e la pista si aprono chiaramente allo sguardo. Il fenomeno della via ha compiuto il suo percorso, ciò che si dava ha finito per mostrarsi perché sono arrivato al suo punto di vista, perché mi sono arreso a lui. L’anamorfosi richiede di arrendersi a ciò che si dà per permettergli di mostrarsi, mentre il metodo lo rifiuta. L’ego metodico si sforza di mantenere lo stesso punto di vista sul proprio viaggio, procede da un luogo conosciuto verso un altro luogo, subito previsto per poter essere ancora (ri)conosciuto dallo stesso sguardo che manteneva sul precedente; l’ego ha cartografato il suo viaggio, progredisce dal conosciuto al conoscibile, cioè al conosciuto per anticipazione. Egli sa dove va e va solo dove sa e potrà sapere; salvaguarda il suo sguardo ed esplora per non esporsi. In una seria anamorfosi, al contrario, si tratta di camminare allo scoperto, senza cartina, «alla stella» (Mt 2,2), tenendo lo sguardo all’erta e chiedendosi a ogni passo se non sia qui, o piuttosto là, in ogni caso altrove, che «improvvisamente (exaiphnês)» sta per mostrarsi il fenomeno dato, sorgendo come «una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio» (Lc 2,13), come un padrone ritornato all’improvviso (Mc 13,36), come una luce accecante sulla via di Damasco (At 9,3 e At 22,6). Lo Spirito, guida di anamorfosi, conduce quindi l’ego al di fuori dal proprio sito, dalla sua zona di sicurezza (come si suol dire) o, meglio, al di fuori dalla sua certezza metodica lungo un altrove che, in un primo tempo, gli appare come un esilio, una terra incognita, soltanto promessa. Questa uscita da sé è segnata dalla perdita della parola, come nel caso di Pietro, che «non sapeva quello che diceva» (Lc 9,33); non sappiamo più parlare e quindi lo Spirito parla al nostro posto. Non ci toglie

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le parole di bocca, né noi uomini cessiamo di essere definiti come «dotati di logos», ma riceviamo un altro logos, dal momento che il suo logos rimpiazza il nostro; parla per noi come un avvocato di rinforzo (paraklêtos), chiamato per prestarci una voce capace di dire ciò che non siamo in grado di dire: «non preoccupatevi prima (mê promerimnate) di quello che direte, ma dite ciò che in quell’ora (ho ena dothê) vi sarà dato: perché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo (to pneuma to agion)» (Mc 13,11), «è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,20). Questo logos, che non proviene da noi, tuttavia ci fa comprendere coloro che non parlano nella nostra madre lingua: «cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava (edidou) loro il potere di esprimersi […] ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,4.6). Non è possibile mostrare in modo più chiaro che, quando si tratta della scoperta in cui si rivela Dio, l’anamorfosi arriva a trasferire l’ego in un sito dato da Dio stesso, fino a farlo parlare e vedere dal punto di vista dello Spirito. Perché il nostro ego si situi nello Spirito è inoltre necessario che «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (tou dothentos hêmin)» (Rm 5,5). L’effusione dello Spirito Santo qui ha quindi una funzione propriamente fenomenica: consente l’anamorfosi nella misura della fenomenizzazione economica della Trinità. Ci si potrà chiedere, però, se una tale anamorfosi possa realizzarsi veramente, o se non rimanga piuttosto un’ipotesi estrema, a rigore possibile solo per qualcuno in occorrenze eccezionali, ma così tanto marginale da non entrare certo nel campo della fenomenicità comune. Qui non dobbiamo compiere il passo che conduce dalla possibilità all’effettività, ma almeno corroborare questa stessa possibilità e corroborarla così come si dà, teologicamente – quindi, tramite argomenti che siano a propria volta teologici, in breve argomenti biblici.

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Partiamo dalla situazione cui fin qui siamo giunti: l’anamorfosi proviene dallo Spirito Santo che diffonde in noi «l’amore di Dio» (Rm 5,5) e il «più grande» altrove si consegue solo a questo prezzo, nulla di meno che l’amore o la carità: «ora (nuni) dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e l’amore. Ma la più grande di tutte è l’amore» (1Cor 13,13). È quindi necessario che la fede e la speranza siano subordinate all’amore per poi, infine, sparire? Tuttavia «ora», nell’economia, esse restano, ma restano già in rapporto alla carità, della quale dispiegano le operazioni. Certamente «ora» nessun ego, se non Cristo, arriva a realizzare «fino alla fine (eis telos)» (Gv 13,1) l’anamorfosi – e questo basta. Per noi, in un approccio che continuamente deve essere ripreso e continuato, la carità resta imperfetta e, quando la prestiamo alla voce dello Spirito, la nostra lingua balbetta; la nostra anamorfosi si arena e quindi deve ricorrere alla fede. La fede, tuttavia, non si definisce semplicemente come una credenza arbitraria e priva di certezza (un non sapere, dice la metafisica), ma come «fondamento di ciò che si spera (upostasis tôn elpizomenôn), prova di ciò che non si vede (pragmatôn elegkos ou blepomenôn)» (Eb 11,1). Per noi l’amore deve certo credere in ciò che non ama ancora abbastanza per averlo visto, ma crede ciò che ancora ignora perché conosce ciò di cui ha fatto esperienza e ciò che ha realizzato in fatto di amore; ne ha già fatto esperienza a sufficienza e ne ha visto realizzare abbastanza in lui, perché Dio «ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Cor 2,22); abbiamo già toccato e ricevuto abbastanza, in anticipo sull’eredità, per sapere con sicurezza che il resto seguirà3. La fede ha quindi

3. Cfr. Ef 1,14: «avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria» (cfr. 2Cor 1,22: Cristo «ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori»). Lo Spirito non promette, ma dà anticipazioni sull’eredità

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delle speranze, la fede spera e nel nostro ambito l’amore crede, perché non ignora più e vede già. L’anamorfosi della carità rimane in corso, ma procede e progredisce; la carità sa già che le è donato ciò che ancora non vede e non le si mostra: «siamo stati santificati […] una volta per sempre» (Eb 10,10). Forse vediamo ancora solo «in modo confuso, come in uno specchio» e non ancora «faccia a faccia», ma comunque «vediamo (blepomen)» (1Cor 13,12). Il noema non raggiunge il suo perfetto riempimento, ma il nucleo noematico si è sviluppato, ha preso forma; la noesi non raggiunge ancora l’adaequatio e la cosa stessa non appare ancora come tale, ma la noesi si costituisce di continuo, «dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile (to mê ek phainomenôn to blepomenon gegonenai)» (Eb 11,3). Possiamo quindi ammettere la possibilità di un modello fenomenico della Trinità, costituito a partire dallo Spirito, capace di soddisfare, meglio dei due precedenti, le condizioni negative e positive dell’identità formale, nella Trinità, tra l’economia e l’immanenza4.

Basilio di Cesarea e il modello fenomenico Accanto ai modelli più conosciuti (ontico, storico, ecc.), sembra possibile esporne un altro, rimasto più marginale, ma or-

promessa; cfr. V. Carraud, La foi n’est pas une croyance dans la Lettre aux Hébreux, in Id., Ce que sait la foi, Parole et silence, Paris 2020, pp. 15-38. 4.  Rimane ancora un’evidente difficoltà, cioè concepire come la discontinuità dell’altrove, che si realizza nell’immediatezza (exaiphnês) di ciò che si svela «una volta per tutte», possa prodursi in un’anamorfosi che «ora (nuni)» deve ancora credere e sperare, cioè progredire. L’articolazione dell’economia temporizzata della Trinità con l’immanenza intemporale sarà quindi affrontata, se non esposta, nelle conclusioni (cfr. infra, cap. 20).

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mai più pertinente. Il più chiaro sforzo per sviluppare questo modello consiste probabilmente nel trattato Sullo Spirito Santo di Basilio. Esso può certo essere letto come una difesa del modello ontico (così come i Discorsi teologici di Gregorio Nazianzeno e il Quod non sint tres dii di Gregorio di Nissa), ampliato illustrando la divinità dello Spirito Santo; lo si può anche interpretare come un saggio del pensiero della Trinità immanente a partire dalla sua economia venuta da altrove, il cui scopo era rompere quanto più radicalmente possibile con il logicismo e l’emanatismo degli ariani, ossia con il loro delirio a priori; per farlo, tuttavia, Basilio fa il tentativo di concepire questa economia come l’istituzione del processo di scoperta fenomenica della Trinità. Questa svolta fenomenica della Trinità tenta di ricalcare il processo della manifestazione economica sulle dimensioni e sulle condizioni della comunione immanente. Questa stessa coincidenza è resa possibile dall’intervento di un concetto cruciale tanto per l’economia quanto per l’immanenza, quello di icona: la Trinità immanente si realizza iconicamente, così come iconicamente si manifesta la Trinità economica. Lo Spirito Santo, se deve intervenire, allora interverrà come operatore fenomenico di questa unica icona. La tesi è annunciata in particolare da un testo: «non contiamo infatti addizionando quando procediamo dall’uno al più: dicendo uno e due e tre, e neppure primo e secondo e terzo. “Io, Dio, sono il primo e io ancora l’ultimo” (Ap 1,8). Di un secondo Dio fino ad oggi non abbiamo mai sentito parlare. Quando adoriamo Dio da Dio (theon ek theou), noi confessiamo il carattere proprio (to idiazon) delle ipostasi e restiamo fedeli alla monarchia divina, senza disperdere la teologia [sc. Trinità] in una molteplicità divisa. Perciò (dia) in Dio Padre e in Dio unigenito si contempla, per così dire, una sola e stessa forma (mian […] tên oionei morphên theôreisthai) messa in icona (eneikonizomenên) dallo [specchio] (aparallacto) inalte-

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rato della divinità. Il Figlio è nel Padre, il Padre è nel Figlio: dal momento che questi è tale qual è quello, e quello è tale qual è questo, e in ciò sta la loro unità»5. Questa successione richiede una precisazione: infatti, se ci si vuole liberare dal modello aritmetico della Trinità (presupposto da coloro che, in nome della loro concezione di «monoteismo», non vogliono o piuttosto non possono vedervi che una gerarchia, un’emanazione e quindi un politeismo), bisogna passare a un modello nel quale si tratti di icona, o più esattamente di «per così dire una sola e stessa icona». Di quale icona si tratta? L’intera difficoltà riguarda questa implicita riserva: come potrebbe una sola e stessa forma (morphê) essere valida per il Padre e per il Figlio? Che ne sarebbe allora dello Spirito? Subito si trovano varie conferme del fatto che qui si tratta essenzialmente dell’icona, quindi della fenomenicità. Innanzitutto, nella discussione che segue subito dopo, per sapere se il Padre e il Figlio sono uno o due; essi sono e uno e due, a seconda che si consideri la persona (prosôpon) o la natura (phusis), o anche a seconda che si consideri «l’icona (eikôn)» di un re, per esempio la sua immagine su una moneta o su una statua; infatti, nell’icona del re, non si vede un secondo re, ma «l’autorità è una sola (hê exousia mia)». Questa argomentazione classica allude forse all’«icona» di Cesare che Cristo chiede venga restituita a Cesare (Mt 22,15‑22), l’icona designa così la visibilità fenomenica di un’ipostasi. Ne segue una seconda conferma del concetto, perché Basilio conclude la sua argomentazione introducendo una formula che molti secoli più tardi diventerà decisiva, quando il Concilio di Nicea II la riprenderà per risolvere la disputa iconoclasta: «poiché l’onore reso all’icona trapassa al prototipo, hê tê eikonos timê epi to prôto-

5.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., XVIII, 45, p. 151 (tr. mod.) [PG 32, c. 149b].

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tupon diabanei»6. Se la formula di Basilio non riguardasse il concetto preciso di icona, si giustificherebbe con difficoltà il fatto che i Padri di un concilio così meticoloso e sapiente ne abbiano invocato l’autorità, quindi è indubitabile che in questo caso si tratti proprio di tale concetto. Ci si domanderà però come faccia l’onore a passare dall’icona al suo originale e perché lo faccia, dal momento che, da un punto di vista fenomenico, la visibilità dell’icona si distingue grazie a una proprietà importante: non vale solo per sé, ma porta anche, se non innanzitutto, su un altro. Come una sorta di doppio visibile, di visibile a doppio effetto, l’icona ha in proprio di non appropriarsi da sola della sua propria visibilità, di non mostrarvi esclusivamente se stessa, di non far vedere ciò che ogni altro visibile si limita a mostrare, cioè un visibile che mostra solo se stesso e fa numero con tutti gli altri. Per contrasto, la visibilità conservata dall’icona la rinvia a un altro termine, la mette in conto e al servizio di ciò che, senza di essa, resterebbe invisibile, ciò che si lascia vedere e mirare soltanto per suo tramite; questo altro termine appare come certo, senza tuttavia mostrare direttamente, tramite se stesso, perché prende in prestito la sua visibilità dall’icona, con la quale comunque non si identifica. Tale dispositivo fenomenico (il modello iconico) può intervenire qui, in «teologia», perché corrisponde formalmente al modello trinitario della manifestazione del Padre nel Figlio, inteso egli stesso come Cristo: egli «che è l’icona del Dio invisibile, eikôn tou theou tou aoratou» (Col 1,15, cfr. Rm 8,29). Cristo appare come l’icona visibile del Padre che resta invisibile perché guardando il suo volto come conviene, il credente non solo vede Gesù, il figlio

6.  Ivi, XVIII, 45, pp. 151-152 [PG 32, c. 149c], si ritrova nel canone di Nicea II del 987 (DH 601), che commenta: «chi venera l’immagine [l’icona], venera la realtà [l’ipostasi] di chi in essa è riprodotto».

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del falegname di Nazaret, come Cristo, ma anche vede Cristo come il Figlio, quindi infine il Figlio come il Padre. Il Padre e il Figlio, poiché condividono lo stesso volto – per essere precisi la stessa icona a doppia visibilità – non solo si manifestano «per così dire in una sola e stessa forma», ma la loro identità trinitaria si s-copre nel processo della loro comune manifestazione o, piuttosto, della loro comunione nella manifestazione. Si compie così, iconicamente e trinitariamente, ciò che si tratta di concepire nel paradosso fondatore della Rivelazione intesa come s-coperta: «chi vede me, vede il Padre, ho heôrakôs eme heôraken to patera» (Gv 14,9). Vedere il Padre consiste nel vedere nel Figlio, vedere nel Figlio la filiazione (verso il Padre), quindi, indissolubilmente, la paternità che mi vede (a partire dal Padre).

La messa in icona Da qui viene una terza conferma della funzione del concetto di icona. Infatti, «per così dire una sola e stessa forma» per contemplare il Figlio e il Padre è approntata per essere una «messa in icona (eneikonizomenê) dallo specchio inalterato della divinità». Questo termine, di cui rendiamo il participio letteralmente tramite i termini di «messa in icona»7, è utilizzato in pochi luoghi8, e poiché dunque questa traduzione non

7.  L’edizione curata da B. Pruche, Basile de Césarée, Sur le Saint-Esprit (SC 17bis), Cerf, Paris 1968 p. 406 (cfr. pp. 234 ss.), mantiene questa lezione, attestata dai principali manoscritti, contro enizomenên (ricondotto all’unità) scelta da Johnston, nell’edizione Saint Basil the Great, On the Holy Spirit, Clarendon, Oxford 1892. 8.  Il Greek Patristic Dictionary di G.W.H. Lampe non dedica alcuna voce a eneikonizô e A. Bailly, Dictionnaire grec-français, Hachette, Paris 1895, s.v., p. 675, menziona solo due occorrenze, tra cui Stobeo: «l’idea sussi-

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può essere confermata da altre occorrenze, essa non va da sé. Le difficoltà stanno tuttavia nella decisione che concerne la forma verbale eneikonizomenê, ovvero se la si debba intendere a partire dal concetto di eikôn. Si può ritenere di no e parlare di una «forma che si riflette come in uno specchio» o di una «condizione riflessiva»9, ma allora ci si espone a obiezioni patenti: da una parte il § 45 non menziona mai degli «specchi, katoptron», dall’altra l’icona non procede per riflessione, ancor meno per riflessione reciproca tra le ipostasi, perché l’icona «si rapporta – diabainei» unilateralmente all’archetipo, senza che questo rinvii a essa, soprattutto non tramite una riflessione intesa nel suo senso soggettivo e moderno. Basilio suggerisce piuttosto che la «forma» del Figlio e del Padre rimaga «una e

stente per sé mette in icona (eneikonizousa) delle materie senza forma» (Stobeo, Eclogarum physicarum et ethicarum libri II, vol. I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1792, p. 326). Più attenta Vasiliu, che lo ritiene un «vocabolo tardivo e specialistico nel linguaggio neoplatonico […], non usato prima del II secolo, prima di Plutarco, Massimo di Gerusalemme e Metodio Olimpo» (A. Vasiliu, Images de soi dans l’antiquité tardive, Vrin, Paris 2012, p. 241). Senza dimenticare Proclo, Elementi di teologia, in Id., I manuali, Rusconi, Milano 1985, pp. 73-230: § 152, pp. 189-190, «ogni principio […] immette per donazione ai suoi derivati la processione generatrice e si riflette (eneikonizetai) in loro imprimendovi il carattere infinito» (ivi, p. 190). 9.  Così Pruche traduce con «una sola forma che si riflette come in uno specchio» (Basile de Cesarée, Sur le Saint-Esprit, cit., p. 407), soluzione confermata, con argomenti teorici più stringenti, da Vasiliu: «Basilio descrive la relazione tra il Padre e il Figlio aiutato dal verbo eneikonizomai (eneikonizein): essi si riflettono reciprocamente nell’intimità della loro relazione iconica (XVIII, 45)» (A. Vasiliu, Penser Dieu. Noétique et métaphysique dans l’antiquié tardive, Vrin, Paris 2018, p. 282). Oppure, si potrà dire che si tratta di un «atto comune, quello di entro-riflettere reciprocamente senza separarsi» (ivi, p. 134), di una «condizione riflessiva» (ivi, p. 137). Ma allora, si può arrivare fino a commentare il § 45 sostenendo che «i tre si entro-riflettono (eneikonizô) perfettamente» (A. Vasiliu, Images de soi, cit., p. 132), nonostante nessun termine greco indichi la minima riflessione e qui appaiano solo due e non tre ipostasi?

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unica (mia)» perché funziona come un’icona, perché si mette in una situazione iconica (en-eikonizomenê). Il Padre e il Figlio offrono una forma unica purché questa forma assuma lo statuto di un’icona e che il Padre si proietti nella figura (Gestalt) del Figlio, proprio perché Cristo si comporta perfettamente secondo la filiazione e, per contraccolpo, rende manifesta la paternità, quindi il Padre. Basilio evoca anche «una trasmissione di volontà (thelêmatos didosin) che avviene in una forma divina, fuori dal tempo (akhronôs), dal Padre al Figlio, come l’immagine di una forma che si riflette in uno specchio (tinos morphês emphasin en katoptrô)»10. Questa «messa in icona» non mette i due visibili in interazione, né in riflessione, ma i due vi entrano in un’unica visibilità, quella della profondità del rinvio dell’icona; detto altrimenti: «l’immagine non è una copia, ma l’incorporazione di una forma, il modellamento o la strutturazione di ciò che non ha forma»11. Per vedere il volto del Figlio come volto del Padre invisibile, bisogna infatti smettere di guardare il volto di Gesù semplicemente come tale, ma bisogna vederlo in un certo modo, secondo una doppia visibilità, come ciò che porta alla vista [met en vue] l’invisibilità del Padre. La messa in icona dell’immagine, come descritta da Basilio, non consiste dunque solo nel qualificare come icona il volto del Figlio, ma viceversa nell’inscrivere nella stessa icona l’invisibilità del Padre. Questa è esplicitamente l’interpretazione di Giovanni Damasceno quando difende la formula di Nicea II rinviando proprio a questo testo di Basilio: «il prototipo è ciò che è messo

10.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., VIII, 20, p. 115 (tr. mod.) [PG 32, c. 104c]; cfr. «la bontà del volere» (ivi, VIII, 21, p. 116 [PG 32, c. 105a ]) o «l’unità del volere» (ivi, VIII, 21 p. 117 [PG 32, c. 105c]). 11.  Secondo un’altra formula, molto convincente, di A. Vasiliu, Penser Dieu, cit., p. 134; cfr. altre formule in Ead., Eikôn. L’image dans le discours des trois Cappadociens, PUF, Paris 2010, pp. 194‑202.

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in icona (to eneikonizomenon) e da cui nasce colui che orienta (to paragogôn)»12. Si può quindi dire che sia il Padre sia il Figlio sono messi in icona, proprio perché c’è bisogno solo di uno solo per entrambi, di una sola e stessa forma per due, una visibilità a doppia entrata. Basilio si inscrive così in una persistente interpretazione del passo «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (apokalupsai)» (Mt 11,27). Anche Ireneo ha formulato perfettamente la funzione trinitaria dell’icona: «invisibile etenim Filii Pater, visibile autem Patris Filius»13. Infatti, «e il Padre, che per noi è invisibile e indeterminabile (indeterminabilem quantum ad nos), il suo proprio Verbo lo conosce; e, quantunque [il Padre] sia inesprimibile (inenarrabilis), egli stesso [il Figlio] ce lo racconta; ma anche il suo Verbo, solo il Padre lo conosce: queste due verità, il Signore le ha manifestate in questo modo (utraque autem haec sic se habere). Ecco perché il Figlio rivela la conoscenza del Padre per mezzo della sua stessa manifestazione (Agnitio enim Patris est Filii manifestatio): infatti la conoscenza del Padre è la manifestazione del Figlio, perché tutte le cose sono manifestate per mezzo del Verbo»14. Ugualmente 12.  Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, Città Nuova, Roma 1998, IV, 16, p. 383 (tr. mod.) [SC 540, p. 236]; e il commento di Basilio di Cesarea, Contro Eunomio, Città Nuova, Roma 2007, II, 16, pp. 26-27 [SC 540, p. 64]. 13.  «Quantunque fosse invisibile il Padre del Figlio, era visibile il Figlio del Padre» (Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., vol. II, IV, 6, 6, p. 164 [SC 100**, p. 442]). 14.  Ivi, IV, 6, 3, p. 163 [SC 100**, p. 442]. Cosa che permette di comprendere un’altra formula: «agnitio enim Patris Filius, agnitio autem Filii in Patre et per Filium revelaverit – nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio lo voglia rivelare» (ibidem) e anche «agnitio enim Patris Filius, agnitio autem Filii in Patre et per Filium revelata – nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio lo rivelerà» (ivi, IV, 6, 7, p. 166 [SC 100** p. 452]); lo si accosterà al Cusano: «es, Jesu, revela-

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sant’Agostino: «la Trinità invisibile ha prodotto il personaggio visibile del Figlio soltanto (visibilem namque Filii solius personam invisibilis Trinitas operata et)»15. Ma lo Spirito partecipa a questa messa in icona del Padre nel Figlio?

Le funzioni dello Spirito Rimane ancora una questione, se non addirittura un’obiezione decisiva: né il testo citato di Basilio, né l’argomentazione che ne traiamo, menzionano lo Spirito Santo, contrariamente a sant’Agostino, che aggiunge che «questa azione manifestatasi visibilmente (operatis visibiliter expressa) ed offertasi agli occhi dei mortali […] è stata chiamata missione dello Spirito Santo»16 e anche contrariamente a Origene, che precisava che «ogni conoscenza del Padre si ha per rivelazione del Figlio (revelante Filio) nello Spirito Santo»17. Sebbene la comunione trinitaria del Figlio e del Padre si s-copra nella visibilità dell’unica «forma», lo Spirito Santo non resta forse assente dal motio Patris. Nam Pater est omnibus hominibus invisibilis et tibi Filio ejus solum visibilis – tu, Gesù, sei la rivelazione del padre. Il padre, infatti, è invisibile a tutti gli uomini ed è visibile soltanto a te, che sei suo figlio» (N. Cusano, De visione Dei, cit., p. 1127). 15.  Agostino, De Trinitate, cit., II, 10, 18, p. 97. Cosa che è necessario precisare dicendo che «il Padre invisibile insieme col Figlio anch’esso invisibile, ha fatto che lo stesso Figlio fosse visibile, […] il Padre e il Figlio, senza apparire, produssero quello che doveva apparire nel Figlio, ossia che l’invisibile Padre e l’invisibile Figlio mandarono il Figlio stesso in forma visibile (idem ipse Filus visibilis mittetur)» (Agostino, De Trinitate, cit., II, 5, 9, p. 83). 16.  Ibidem. 17.  Origene, che prosegue: «così bisogna intendere che come il Figlio, che solo conosce il Padre, lo rivela a chi vuole (revelat cui vult), così anche lo Spirito Santo, che solo scruta anche le profondità di Dio, rivela Dio a chi vuole (revelat Deum cui vult)» (Origene, I princìpi, cit., I, 3, 4, pp. 121 e 123).

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dello fenomenico dell’icona? È possibile assegnare a questo modello una funzione realmente trinitaria, dal momento che mette in atto solo una doppia visibilità (del Figlio come del Padre), dove lo Spirito, al contrario, rimane non-visibile (né direttamente come il Figlio, né indirettamente come il Padre)? Abbiamo visto che i testi biblici suggeriscono un’altra conclusione (supra, capp. 13‑14): spinto da Gesù a rispondere alla questione «e voi chi dite che io sia?», Pietro confessa: «tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; detto in altro modo: egli arriva, primo tra tutti i discepoli, a realizzare la doppia visibilità iconica di Gesù, verificando la regola «chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,7). Gesù riconosce che questa professione di fede è come una grazia, perché la sua identità trinitaria «né carne né sangue te lo hanno rivelato (s-coperto, apekalupsen), ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,15‑17). Ciò indica che per realizzare la funzione fenomenica dell’icona oltre alla doppia visibilità è necessaria la grazia, cioè il dono, l’abilità e la modalità per considerarla [prendre en vue]: bisogna saper vedere l’icona come tale. Sono questa grazia, questo dono e questa abilità a essere ricevuti e sperimentati da Cristo stesso sotto l’azione dello Spirito Santo: «in quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché tu hai ricoperto (apekrupsas) queste cose per i sapienti e i dotti e le hai s-coperte ai piccoli» (Lc 10,21). L’icona fa vedere il Figlio come il Padre solo se Dio dona la grazia, l’abilità e il modo per vederla come è conveniente; li dona come Spirito Santo, come colui che rimane invisibile nell’icona perché la fa vedere: «quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede (ekporeuetai) dal Padre, egli darà testimonianza di me» (Gv 15,26). Ora, contrariamente a ciò che lasciava supporre il primo testo analizzato, la dirompente originalità di Basilio nel trattato Sul-

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lo Spirito Santo consiste nel mostrare nel modello fenomenico della Trinità la funzione indispensabile dello Spirito Santo in quanto invisibile. A confronto con la reticenza di alcuni a riconoscere la divinità dello Spirito (perché, di fatto, le Scritture non gli attribuiscono mai letteralmente il titolo di “Dio”), egli inizia a risolvere la difficoltà del suo statuto nella Trinità immanente (lo statuto ontico, se si può osare affermarlo) dimostrando il suo ruolo nella divinizzazione degli uomini tramite l’incarnazione del Figlio (secondo l’«economia»); in particolare, stabilendo la sua funzione fenomenica di messa in luce di Gesù come Cristo e come Figlio, quindi la sua messa in icona come istanza rivelatrice del Padre. Bisogna assolutamente ammettere la divinità dello Spirito, innanzitutto perché esso divinizza – in particolare nel battesimo, ma anche perché divinizza facendo vedere il Padre nel Figlio – mettendo in scena l’icona del Padre, il Figlio come Cristo, sul volto di Gesù. Lo Spirito, «sorgente e postulato (aitia) dei beni»18, lo è in quanto «postulato per il completamento (aitia teleutike)»19 di questa divinizzazione tramite la messa in icona del volto di Cristo come volto guardante del Padre. Lo Spirito si impone come la via di accesso fenomenica alla visione iconica del Padre nel Figlio, nella funzione di regista della s-coperta trinitaria di Dio, la sola economia della teologia. Questa funzione viene descritta e spiegata in vari momenti. In primo luogo, bisogna riconoscere che senza lo Spirito non si può realizzare alcuna visione o rivelazione: «a colui che ri-

18.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, XVI, 37, p. 139 (tr. mod.) [PG 32, c. 133d]. [Qui e nelle occorrenze che seguono abbiamo reso aitia non con requisito, come proposto dalla tr. it., ma con postulato, seguendo l’indicazione del traduttore di J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., p. 195, che suggerisce così la possibilità di intendere tanto la dimensione giuridica quanto quella liturgica; n.d.t.]. 19.  Ivi, XVI, 38, p. 139 (tr. mod.) [PG 32, c. 136b].

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cevette l’ordine di annunciare i misteri della visione “all’uomo dei desideri” (Dn 10,11), da dove venne la sapienza per insegnare le cose nascoste, se non dallo Spirito Santo? Allo Spirito, infatti, conviene propriamente la rivelazione dei misteri (tês apokalupseôs tôn mustêriôn idiôs tô Pneumati prosêkoúsês) […]. Ma questa visione non può aversi senza lo Spirito (to de blepein, ouk aneu tou Pneumatos)»20. In secondo luogo, lo spirito permette in se stesso di far vedere (s-coprire, rivelare) Cristo come potenza e sapienza del Padre; lo Spirito fa vedere Cristo come Dio perché agisce come un rivelatore (nel senso fotografico del termine) – con lui, in lui, improvvisamente il volto di Cristo appare come impronta del Padre, di cui porta visibilmente il carattere: «quindi egli solo [sc. lo Spirito Santo] glorifica degnamente il Signore. “Egli mi glorificherà” (Gv 16,14) dice [Cristo], non come la creazione, ma come Spirito di verità, che fa risplendere chiaramente in sé (tranôs ekphainon en heautô) la verità; e come Spirito di sapienza, che rivela nella sua grandezza (en tô heautou megethei apokalupton), il Cristo [come] Potenza di Dio e [come] Sapienza di Dio. E come Paraclito egli porta in sé l’impronta (en heautô kharaktêrizei) della bontà del Paraclito che lo ha inviato e nella sua propria dignità manifesta la grandezza stessa di colui dal quale procede»21. Lo Spirito assicura l’assunzione dell’«unica forma» e quindi l’ingresso del Padre nella figura (Gestalt, nel senso di Balthasar, supra, cap. 7) di Cristo. In terzo luogo – soprattutto, è possibile descrivere la messa in luce e la considerazione [prise en vue] dell’icona di Cristo come uno sguardo del Padre, in un modo per così dire ottico, se non addirittura fenomenologico. «Quando, per una forza illuminante (dunamis phôtistikê), fissiamo gli occhi sulla bel-

20.  Ivi, XVI, 38, p. 142 [PG 32, c. 137c]. 21.  Ivi, XVIII, 46, p. 153 (tr. mod.) [PG 32, c. 152ab].

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lezza dell’“icona del Dio invisibile” (Col 1,15) e, per suo tramite, ci eleviamo fino alla visione oltremodo bella (uperkalon […] theama) dell’Archetipo, lo Spirito della conoscenza è inseparabilmente presente (parestin akhôristôs), lui che dona in se stesso […] a coloro che amano vedere la verità la forza di fare vedere dell’icona (tên epoptikên tês eikonos dunamin), non facendone la [di]mostrazione da fuori, ma in se stesso (en heautô) conducendo a conoscerla. […] Così è in se stesso (en heautô) ch’egli mostra la gloria dell’Unigenito, e ai veri adoratori in sé dona la conoscenza di Dio [sc. il Padre]»22. Si può comprendere anche così: il visibile manifesta il volto di Gesù nel mondo, allo sguardo umano, ma la s-coperta (la rivelazione) consiste nell’apprendere questo volto visibile come quello di Cristo, come quello del Figlio; questa apprensione del volto visibile del Figlio, a propria volta, deve permettere di mirarvi, a titolo di «icona», lo sguardo invisibile del Padre. In breve: si tratta di mirare l’invisibilità iconica del Padre nel volto visibile di Gesù. Nessun uomo può realizzare questa ermeneutica (cfr. Lc 24,27) o piuttosto questa esegesi (Gv 1,18), perché, in sé, «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18). E tuttavia, rimane la regola per la quale «chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9) e nessuno vede il Padre se non tramite il Figlio. Come può succedere? Perché nulla è impossibile a Dio (Lc 1,37), all’occorrenza allo Spirito, che «guida» (Gv 16,13) o, detto altrimenti, che offre il metodo trinitario della messa in icona. Basilio riassume tutto ciò in una formula: «il nostro spirito, illuminato dallo Spirito Santo, fissa lo sguardo sul Figlio (pros Uion ana-

22.  Ivi, XVIII, 47, p. 153-154 (tr. mod.) [PG 32, c. 153ab]: non forza di vedere l’icona, ma forza ottica [di far vedere] dell’icona. In termini simili: «egli, come un sole, riconoscendo un occhio purificato, ti mostrerà in se stesso (en heautô) l’icona dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’icona tu vedrai l’indicibile (arrêton) bellezza dell’Archetipo» (ivi, IX, 23, p. 119; tr. mod. [PG 32, c. 109b]).

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blepei) e, nel Figlio, come in un’icona (ôs en eikoni), contempla il Padre»23.

L’unica forma trinitaria Lo Spirito dispone infatti lo sguardo umano nell’esatto punto di vista e nel preciso allineamento dove il volto visibile di Cristo (Gesù come Figlio) può, in un sol colpo e con una precisione perfetta (una definizione) scoprirsi come l’asse stesso in cui passa lo sguardo del Figlio sul Padre e anche quello del Padre sul Figlio; luogo di mira e punto di vista restano tuttavia inaccessibili per l’uomo, sempre prigioniero del suo modo di organizzare il visibile il quale non è solo finito, ma soprattutto chiuso. Infatti, il modo in cui domina il visibile lo condanna a restare al centro di uno spettacolo che, da quel momento, gli offre solo oggetti, fenomeni di diritto comune e specchi invisibili del suo proprio e unico sguardo. Ottenere punto di vista e asse di sguardo diversi rispetto a questa prospettiva necessariamente idolatrica implica un rovesciamento dell’intero dispositivo fenomenico: il passaggio a un’anamorfosi completa. Anamorfosi o, detto in altro modo, il dispositivo in cui lo sguardo dell’uomo si pone nel sito esatto che l’icona stessa esige per farsi riconoscere in piena manifestazione; bisognerebbe posizionarsi nell’asse dello sguardo iconico che, improvvisamente e in un sol colpo, scaturisce dal volto di Cristo appreso finalmente come Figlio, quindi come manifestazione del Padre. Solo lo spirito può porre lo sguardo di un uomo in questo

23.  Basilio di Cesarea, Lettera 226, 32 [PG 32, c. 849a], citata da Bouyer come il vertice della riflessione di Basilio (cfr. L. Bouyer, Le Consolateur. Esprit saint et vie de grâce, Cerf, Paris 1980; tr. it., Il Consolatore, Paoline, Roma 1983, p. 186).

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punto di anamorfosi: lo Spirito «guida» e orienta, «conduce» e pone lo sguardo umano nel luogo preciso in cui (come un’immagine a due dimensioni che, posta in un angolo preciso dello sguardo con la luce riflessa, improvvisamente emerge in tre dimensioni) la sua «potenza ottica» e «illuminatrice» «mette in icona» una volta per tutte il volto visibile e vi fa risplendere, in profondità, «la visione oltremodo bella dell’Archetipo». Lo Spirito Santo mette in scena, porta alla vista [met en vue] la gloria filiale del Padre nella gloria paterna del Figlio, in breve la s-copre e la fa sgorgare. Gli avversari della sua divinità non capivano che lo Spirito Santo non appare come un terzo spettacolo nel dispositivo iconico della Trinità perché, giustamente, non lo deve, anche in ragione della essenziale funzione fenomenica che vi assume. Questo almeno per due ragioni: innanzitutto perché non ci sono due spettacoli, dal momento che il Figlio e il Padre sono «messi in icona in una sola e stessa forma», costituiscono un solo visibile in profondità – quello del Padre attraverso o piuttosto come Figlio, Figlio e Cristo, unica, insuperabile e compiuta «irradiazione della gloria e impronta della sostanza, apaugasma tês doxês kai kharaktêr tês hypostaseôs» (Eb 1,3) del Padre. Inoltre, lo Spirito non appare direttamente, perché «come Paraclito egli porta in sé l’impronta (en eautô kharaktêrizei)»24: non una seconda impronta, ma l’unica impronta, quella del Padre nel Figlio, di cui lui solo, lo Spirito, fa ricevere il sigillo e di cui sigilla l’uomo con il battesimo. «È impossibile (adumaton) infatti vedere l’“icona del Dio invisibile” (Col 1,15), se non nell’illuminazione (en tô phôtismô) dello Spirito. Chi fissa gli occhi sull’icona, è incapace (amêkhanon) di separare la luce dall’icona (da esse): il postulato del

24.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, XVIII, 46, p. 153 (tr. mod.) [PG 32, c. 152b].

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vedere (tou oran aition) necessariamente si vede insieme alle cose viste (aition tou oran sugkathoratai). Così giustamente dunque per (dia) l’illuminazione dello Spirito noi vediamo lo splendore della gloria di Dio»25. Quindi lo Spirito non si vede, perché fa vedere, e solo lui può farlo. Già il Padre, però, non si poteva vedere in altro modo che nell’unica icona, quella offerta dal volto di Gesù come Cristo e quindi come Figlio. Non c’è che una sola visibilità nella manifestazione della Trinità, la quale si mostra unica in quanto lo fa tramite il triplo lavoro del nescio quid. La messa in scena tramite lo Spirito – il suo lavoro, dal momento che lui stesso rimane invisibile, si chiama santificazione, realizzata dall’operatore fenomenico della santità in persona: «non è santificato, ma santificante (oukhi agiazomenon, all’agiazon)»26. Così come non si vede, ma fa vedere, allo stesso modo non si santifica ma santifica, il che è detto anche da Gregorio Nazianzeno: «lo Spirito è veramente santo (to Agion) […] santità in sé (autoagiotês)»27. Basilio 25.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, XXVI, 64, p. 180 (tr. mod.) [PG 32, c. 185bc]. 26. Ivi, XIX, 48, p. 156 [PG 32, c. 156a]. Si veda anche «niente infatti viene santificato, se non per la presenza dello Spirito» (Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi e altre omelie esegetiche, Peter Lang, Frankfurt a.M. 2017, Salmo 32, p. 255 [PG 60, c. 333c]). 27.  Gregorio Nazianzeno, Orazione 25, in Id., Tutte le orazioni, Bompiani, Milano 2000, pp. 619-620. La comune origine è verosimilmente da riconoscersi in Atanasio: «se lo Spirito fosse una creatura, l’essere in lui non ci porterebbe nessuna partecipazione d’essenza (metousia) a Dio; saremmo semplicemente uniti a una creatura ed estranei alla natura divina, non avendo alcuna partecipazione a essa. Ora, invece, quando noi siamo detti partecipi di Cristo e di Dio (metekhoi Kristou kai metekhoi theou), ciò significa chiaramente che l’unzione e il sigillo che sono in noi non appartengono alla natura delle cose create, ma a quella del Figlio, il quale ci unisce al Padre mediante lo Spirito che è in lui. […] Ecco perché divinizza coloro nei quali si fa presente. Se divinizza, non vi può essere alcun dubbio che la sua natura sia quella di Dio» (Atanasio, Lettere a Serapione, Città Nuova, Roma 1986, I, 24, p. 86 [PG 26, c. 584bc]).

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giunge a elaborare la sua uguaglianza d’onore (iotimia, homotimia) proprio perché la sua preoccupazione per l’unità della Chiesa, volente o nolente, l’ha trattenuto dall’innovare contro gli Pneumatomachi, evitando di raddoppiare la disputa dell’omo[i]ousios a proposito della divinità dello Spirito Santo. Lo Spirito riceve tanto onore e gloria quanto il Padre e il Figlio perché lui solo dona di vedere l’uno nell’icona dell’altro. Con questa formula, che sarà ripresa letteralmente dal concilio di Costantinopoli I, si inscrive quindi nella tradizione (ricordata infatti al capitolo XIX) che inizia quantomeno con Ireneo: «senza lo Spirito non è dato vedere il Verbo di Dio e neppure può alcuno, senza il Figlio, accostarsi al Padre. Giacché il Figlio è la sapienza del Padre (cognitio enim patris Filius), e la scienza del Figlio è per virtù dello Spirito santo (cognitio autem Filii Dei pers sanctum Spiritum). Ma il Figlio dispensa lo Spirito, secondo piace al Padre, in modo di ministero carismatico, a quelli ch’ei voglia e come voglia il Padre»28 e si prolunga almeno fino a Giovanni Crisostomo: «se non c’è lo Spirito, non c’è neppure Cristo (ou gar esti pneumatos parontos, mê kai Christon pareinai)»29.

Il modello fenomenico come professione di fede Il passo avanti compiuto dal modello fenomenico appare ormai chiaramente: la Trinità si può scoprire solo nel modo in cui si dà, cioè la sua santità si rivela solo alla santità, quella che

28.  Ireneo di Lione, Esposizione della Predicazione Apostolica, Libreria di Cultura, Roma 1923, VII, p. 59 [SC 284, p. 92]. 29.  Giovanni Crisostomo, Commentaire de l’Épître aux Romains, PG 60, XIII, 8, c. 519b. [Frase non riportata nella tr. it., Commento alla lettera di s. Paolo ai Romani, vol. II, Cantagalli, Siena 1971, p. 48; n.d.t.].

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la riceve, quindi quella che lo Spirito «diffonde nei nostri cuori». Questo avanzamento allontana il dibattito dai presupposti dei due modelli anteriori, innanzitutto dal modello ontico. Si è infatti notato che Basilio, forse perché non voleva ravvivare le dispute sull’omo[i]ousios, mostra «una certa reticenza a usare il termine ousia», per non dire addirittura che egli pratica un’«elusione del vocabolario dell’ousia»; in ogni caso, gli preferisce la relazione e «si serve […] della relazione per desostantivizzare in qualche modo lo statuto delle ipostasi in rapporto all’essenza divina»30. Accade lo stesso con il modello storico: lo Spirito Santo dimora in Dio e quindi, come Dio, non dimora in alcun luogo del mondo; lui stesso è un fuori-luogo (akhorêtos) che nulla contiene31 e si erge come «luogo (khôra) dei santificati […] il luogo proprio della vera adorazione»32. Da ciò consegue che coloro che lo ricevono vi si ricevono e che chi si scopre a loro – la Trinità – non si scopre nel mondo, dal momento che essi stessi si trovano nello Spirito. L’immanenza della Trinità, nello Spirito, sommerge la sua economia e la rilocalizza in essa, perché ormai tutto adviene nell’unico Spirito. I primi due modelli perdono quindi i loro princìpi, o piuttosto devono sottometterli allo Spirito, che soffia dove vuole, al di

30.  Rispettivamente B. Pruche, Introduction, in Basile de Cesarée, Sur le Saint-Esprit, cit., p. 188 e A. Vasiliu, Penser Dieu, cit., p. 282, poi p. 274. Deve «evitare a ogni costo ousia» (ivi, p. 273), contrariamente a Mario Vittorino (ivi, p. 286), per presentare «una Trinità determinata esclusivamente dalla relazione» (p. 280, cfr. p. 276). Tenendo bene a mente che qui la relazione non rimanda alle categorie ontiche di Aristotele (pros ti), ma si determina come skhesis (ivi, p. 274). 31.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, VII, 18, pp. 111-112 [PG 32, c. 100a]; cfr. XXII, 53, p. 166 [PG 32, c. 168c]; XXIII, 54, p. 167 [PG 32, c. 169a]. Cfr. Gregorio Nazianzeno: «lo Spirito è colui nel quale noi adoriamo e per mezzo del quale noi preghiamo Dio» (Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXXI, 12, p. 172 [SC 250, p. 298]). 32.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, XXVI, 62, p. 177 [PG 32, c. 181c].

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fuori dell’ousia come al di fuori dalla storia mondana. Questi due princìpi restano ma sono ripresi in «una gloria che viene da altrove (exothen)»33, messi fuori gioco da questo fuori-luogo. Tale conclusione può risultare sorprendente perché nella strategia di Basilio l’intera dimostrazione della divinità dello Spirito Santo passa attraverso la sostituzione della particella in con la particella con (sun), per inscrivere lo Spirito nella Trinità: «Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, con lo Spirito Santo». Non porta forse a compimento ciò in cui la Trinità si scopre, lui che è la khôra della santificazione? E perché appare come ciò con cui essa si scopre? Per capirlo bisogna ritornare sulla sostituzione, nel caso della divinità dello Spirito, dell’uguaglianza d’onore all’identità d’ousia. Come e quando si rende il medesimo onore allo Spirito e al Padre e al Figlio? Passando dalla conoscenza (supposta) teorica della Trinità alla sua messa in opera pratica, cioè all’atto del battesimo che si realizza pronunciando sul catecumeno, con la sua piena approvazione la formula battesimale, originariamente trinitaria: «fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Lodare e onorare Dio come Dio significa confessare il suo Nome e il suo Nome trinitario. Scoprire la Trinità consiste nel realizzarla confessandola nel suo gioco completo – vedere il Figlio come l’icona del Padre grazie allo Spirito e con lo Spirito che dona di vederlo secondo la corretta anamorfosi della carità. Così «la fede e il battesimo sono i due modi della salvezza, l’uno all’altro congiunto e inseparabili. La fede, infatti, si perfeziona col battesimo, il battesimo si fonda sulla fede e l’una e l’altro raggiungono il compimento perfetto mediante gli stessi nomi. Come infatti crediamo (eis) nel Padre e Figlio e Spirito Santo, così anche siamo battezzati nel (eis) nome del

33. Ivi, XVIII, 46, p. 153 (tr. mod.) [PG 32, c. 152c].

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Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»34. La Trinità si scopre in sé quando si realizza nel nostro battesimo e l’economia ne dona l’immanenza, perché si dà a vedere donandosi in sé. «La professione di fede (omologian tês pisteôs), poi, noi l’abbiamo assunta come origine e madre della dossologia (oion arkhên tina kai mêtera tês doxologian)»35. La Trinità, il mustêrion theou, non si scopre soltanto tramite l’anamorfosi dello Spirito in noi, ma con l’atto di questa anamorfosi.

34.  Ivi, XII, 28, p. 126 [PG 32, c. 117b]. Cfr. «l’argomento della sentenza vera è di non separare il Padre dal Figlio (perché è necessario che siamo battezzati così come l’abbiamo ricevuto e credere così come siamo battezzati, e glorificare Dio così come lo crediamo» (Basilio di Cesarea, Lettera 125, PG 32, c. 549b). Stesso argomento in Gregorio Nazianzeno: «se lo Spirito non merita la nostra adorazione (ou proskunêton), come può rendermi divino per mezzo del battesimo (pôs eme theoi dia tou baptisma)? Se, invece, la merita, come può non essere oggetto del nostro culto (septon)? Se è oggetto del nostro culto, come può non essere Dio?» (Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., XXXI, 28, p. 191 [SC 250, p. 332]). 35.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., XXVII, 68, p. 490 [PG 32, c. 193c].

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18 La Trinità come fenomenicità del dono

La ripresa del modello fenomenico in sant’Agostino Nel punto in cui è arrivata la ricerca – la scoperta della Trinità si produce tramite lo Spirito Santo che diffonde l’agapê nei nostri cuori, di modo che possiamo mirare il Padre nella sua unica icona, il Figlio – sorgono subito due difficoltà. Innanzitutto, ci si può chiedere come lo Spirito giunga a realizzare in noi (o meglio, a farci realizzare in lui) l’atto di anamorfosi (si potrà anche dire la professione di fede, il battesimo). Si tratta della questione relativa alla possibilità per noi dell’anamorfosi, che può realizzarsi solo da altrove. Poi, si può chiedere come lo Spirito Santo possa permettere questa anamorfosi in modo tale che una stessa e unica prestazione economica (per noi) coincida esattamente con lo svolgimento immanente (in sé) della Trinità. Si tratta quindi della questione relativa all’univocità dell’agapê, insieme questione della Trinità e operatrice della sua scoperta, perché il principio patristico, secondo il quale «quello che non è stato assunto da Cristo è rimasto non sanato, mentre quello che ha formato un’unione con Dio, quello è stato anche salvato»1, implica la reciproca: quello che 1.  Gregorio Nazianzeno, Prima lettera al presbitero Cledonio, in Id., I cinque discorsi teologici, cit., pp. 201-216: p. 207 [PG 37, c. 181c].

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è assunto rimane univocamente quello che è salvato. Queste due questioni probabilmente non sono che una: come fa la possibilità della messa in icona per noi tramite lo Spirito Santo a provenire dalla realizzazione in sé della Trinità nello stesso Spirito Santo? Riassunto in altro modo da Ambrogio, che evoca esplicitamente il battesimo: «ciò che è impossibile all’uomo (impossibilia […] apud homines), è possibile a Dio (possibilia sunt apud Deum) e Dio, quando vuole, ha il potere di perdonare (donare) i peccati, anche quelli che pensiamo non possano essere assolti (concedi); e perciò a Dio è possibile donare (Deo donare possibile est) ciò che a noi sembra impossibile da ottenere»2. L’atto di anamorfosi permette la mira dell’unica icona solo perché lo Spirito Santo lo dona, perché il dono donato (economia) rimane esattamente lo stesso dono donatore (immanenza), proprio quando si dona a un altro da sé. Legare la possibilità dell’anamorfosi alla necessità del dono è stato già ben più che abbozzato da Basilio: «nessun dono (Oude […] olôs dôrea tis) senza lo Spirito Santo»3. Ma, posto che non ci si attenga alla vulgata relativa al dissenso tra «teologi» latini e greci, si può riconoscere a sant’Agostino il merito del recupero di questo modello fenomenico, fino a pensare l’assunzione di figura del Padre nel Figlio (icona) come il dono stesso che li unisce – Agostino, infatti, conoscendo Basilio, lo segue da vicino e prolunga il suo ragionamento4. 2.  Ambrogio, De Poenitentia; tr. it., La penitenza, Opera omnia di sant’Ambrogio, vol. XVII, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1992, pp. 171-283: II, 2, 2, p. 237. 3.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., XXIV, 55, p. 169 [PG 32, c. 172b]. 4.  Lo cita in Agostino, Contra Julianum, cit., I, 5, 15‑18, pp. 455-461 (cfr. S. Salaville, La connaissance du grec chez saint Augustin, in «Revue des études byzantines», n. 127‑128, 1922, pp. 387-393; B. Altaner, Augustinus und die griechische Patristik, in «Revue bénédictine», n. 62, 1952, pp. 201215). Pruche ne conclude che «la teologia greca dello Spirito santo giunge fino al monastero di Ippona sia da Ambrogio, il cui De Spiritu Sancto, nutrito

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Ciò succede in più maniere: innanzitutto Agostino riprende da Basilio il modello fenomenico della Trinità. Infatti, facendo eco alla «messa in icona» del Padre nel Figlio in «per così dire una sola e stessa forma», sottolinea che la visibilità del Figlio si identifica con quella del Padre, che la convalida a propria volta: «cum Pater ostenditur, et Filius ostenditur qui in illo est; et cum Filius ostenditur, etiam ostenditur Pater qui in illo est – allorché si manifesta il Padre è manifestato anche il Figlio che è in lui, e quando si manifesta il Figlio è manifestato anche il Padre che è nel Figlio»5. Per manifestare l’intera Trinità c’è ed è necessaria una sola visibilità, quindi un solo fenomeno: la persona di Cristo, «visibilem namque Filii solius personam, invisibilis Trinitas operata est – infatti la Trinità invisibile ha prodotto il personaggio visibile del Figlio»6. Solo il Figlio può mostrarsi a noi, perché lui solo ha preso un corpo per noi visibile: «solus in Trinitate corpus accepit – l’unico nella Trinità che ha assunto un corpo»7. Egli precisa inoltre che nel modello iconico della Trinità occorre distinguere e congiungere non solo il Figlio e il Padre (entrambi ugualmente invisibili nella Trinità immanente), ma anche, da una parte il Figlio (invisibile quanto il Padre) e, dall’altra, il Figlio diventato visibile: «perciò il Padre invisibile insieme col Figlio anch’esso invisibile, ha fatto che lo stesso Figlio fosse visibile, cioè, com’è stato detto, lo ha mandato. […] Ma poiché la forma di servo fu assunta in modo che la forma divina non subisse alcun cambiamento (Fil 2,7 e Fil 2,6), ne consegue che il Padre e il Figlio, senza

di linfa greca, portò a Ippona, senza dichiararlo, le idee dell’ultimo maestro del Didascalico [sc. Didimo il cieco] e quelle di Basilio sullo Spirito Santo; sia direttamente, tramite la traduzione di san Girolamo – fedele, anche se non sempre letterale» (B. Pruche, Introduction, cit., p. 222). 5. Agostino, De Trinitate, cit., I, 9, 18, p. 39, sottolineature nostre. 6.  Ivi, II, 10, 18, p. 97, sottolineature nostre. 7.  Ivi, XIV, 18, 24, p. 609, sottolineature nostre.

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apparire, produssero quello che doveva apparire del Figlio, ossia che l’invisibile Padre e l’invisibile Figlio mandarono il Figlio stesso in forma visibile»8. La comunione invisibile (immanente) del Padre e del Figlio si estende così in una comunione (economica) tra l’invisibile (dove evidentemente con il Padre dimora anche il Figlio) e il visibile (dove il Figlio appare in carne e corpo, scoprendovi così il Padre): nel corpo di Cristo fatto visibile il visibile diventa l’unico luogo di manifestazione di tutta la Trinità, senza che il passaggio dall’invisibile al visibile gli infligga la minima extraterritorialità, esteriorità o alienazione. Cristo, Figlio visibile, fa vedere l’invisibile del Padre (e del Figlio eterno) perché lui stesso lo vede: «l’azione [comune] del Padre e del Figlio è inseparabile, ma […] per il Figlio ha origine da colui da cui ha origine il suo essere, cioè dal Padre, e che il Figlio vede il Padre in modo che il vederlo sia per lui la stessa cosa che essere Figlio. Infatti per lui aver origine dal Padre, cioè nascere dal Padre, non è altra cosa che vedere il Padre; come il vederlo agire non è altra cosa che agire con lui»9. Per il Figlio il potere di far vedere il Padre è fondato esclusivamente nella filiazione, che consiste nel vederlo; ne consegue che la Trinità (economica) si fa vedere solo come esatta conseguenza del fatto di consistere nel vedere il Padre nell’immanenza filiale. Lo scarto, o piuttosto l’arco di ogni fe-

8. «Quapropter Pater invisibilis, una cum Filio secum invisibili, eundem Filium visibilem faciendo misisse eum dictus est. […] Cum vero sic accepta est “forma servi “ut maneret incommutabilis “forma Dei”, manifestum est quod a Patre et Filio non apparentibus factum sit quod appareret in Filio, id est, ut ab invisibili Patre cum invisibili Filio, idem ipse Filius visibilis mitteretur» (ivi, II, 5, 9, p. 83). 9.  «Inseparabilis est operatio Patris et Filii, sed tamen ita operari Filio de illo est, de quo ipse est, id est de Patre; et ita videt Filius Patrem, ut quo videt, hoc ipso sit Filius. Non enim aliud illi est esse de Patre, id est nasci de Patre, quam videre Patrem; aut aliud videre operantem, quam pariter operari» (ivi, II, 1, 3, p. 73).

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nomenicità, cioè la transizione tra il visibile e l’invisibile viene così ripreso e compreso all’interno stesso della Trinità, che per fenomenicizzarsi non è per nulla costretta a esteriorizzarsi (in quale altro luogo oltre sé potrebbe mai andare Dio?); ricapitolando in sé lo spazio e l’apertura della visibilità dell’invisibile, rifiuta dunque il modello storico, in forma anticipata ma definitiva. Agostino, in egual modo se non ancor più chiaramente rispetto a Basilio, stabilisce quindi la possibilità e la necessità dell’approccio fenomenico alla Trinità, secondo l’unica visibilità del Padre nel Figlio (e viceversa) secondo la modalità della loro stessa e unica icona.

Il modello compiuto della fenomenicità trinitaria Agostino, forse meglio di Basilio, in seguito conferma ed espone le ragioni per cui conviene che lo Spirito, in questo modello iconico di fenomenicità rimanga necessariamente invisibile: esaminando la missione dello Spirito e la sua manifestazione sempre indiretta (come una colomba o come un tuono), Agostino spiega e insiste sulla sua essenziale inapparenza: «è questa azione manifestatasi visibilmente ed offertasi agli occhi dei mortali che è stata chiamata missione dello Spirito Santo. Non al fine di fare che apparisse (ut appareret) la sua stessa sostanza per la quale anche lui è invisibile ed immutabile come il Padre ed il Figlio, ma si trattava di toccare il cuore degli uomini con una dimostrazione esteriore (exterioribus visis) per condurli dalla manifestazione temporale (a temporali manifestatione) di colui che veniva, alla misteriosa eternità di Colui che è sempre presente»10. Il modello fenomenico della Trinità

10.  «Haec est operatio visibiliter expressa, et oculis oblata mortalibus, missio Spiritus sancti dicta est; non ut appareret ejus ipsa substantia, qua et ipse

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qui si completa e radicalizza perché ormai ingloba esplicitamente i tre momenti della s-coperta (dell’apokalupsis). Innanzitutto il Padre, sempre invisibile, che prende figura (sempre invisibile) nel Figlio eterno (invisibile), il quale trae l’intera sua filiazione da ciò che il Padre invisibile vede (essendo verso di lui). Poi, l’«icona del Dio invisibile» in cui il Figlio si fa mirabile e visibile in Gesù Cristo. Infine, lo Spirito, che resta invisibile, perché la sua operazione consiste interamente nel farci mirare (secondo la giusta anamorfosi, quindi secondo l’esatto orientamento dell’intenzionalità) l’«icona del Dio invisibile» per vedervi, nella figura umana del Figlio, il Padre invisibile. Detto altrimenti: secondo il gioco di visibile e invisibile il modello della Trinità sviluppa, in stretta fenomenicità, in un solo dispositivo e quindi in un sol colpo, il Padre sempre invisibile, ma mirato dal Figlio; il Figlio, invisibile ma visibile come «icona del Dio invisibile», come Gesù Cristo nella misura in cui sarà visto come il Figlio che mira il Padre ed è visto da lui, dunque come trasparente (facente trasparire in lui il Padre, lasciandolo vedere in trasparenza); e lo Spirito Santo, sempre invisibile, perché permette agli sguardi che realizzano l’anamorfosi di mirare l’invisibile Padre nell’icona visibile offerta dal Figlio, in quanto ne regola la mira. Insomma, la Trinità si scopre secondo le tre dimensioni di una sola fenomenicità: come invisibile mirato, come visibile trasparente fino all’invisibile e mirato come icona dell’invisibile e come invisibile mirante. Il suo modello fenomenico si realiz-

invisibilis et incommutabilis est, sicut Pater et Filius; sed ut exterioribus visis hominum corda commota, a temporali manifestatione venientis ad occultam aeternitatem semper praesentis converterentur» (ivi, II, 5, 10, p. 83; tr. mod., sottolineature nostre). A suo modo anche Tommaso d’Aquino sottolinea che «lo Spirito Santo invece non assunse in unità di persona la creatura in cui apparve», e si manifesta nelle creature solo come «la realtà rappresentata si trova nel segno» indirettamente (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 43, a. 7, ad 1 et ad 5, p. 513).

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za così in una formulazione più completa, se non completamente adeguata.

Lo Spirito come dono Certo lo Spirito stesso, la cui funzione è quella di mirare il Padre attraverso l’icona del Dio invisibile, ossia il Figlio, può non apparire. Il regista può infatti evitare di salire sulla scena, di mostrarsi e di recitarvi; ugualmente l’istruttore di tiro può restare dietro a chi tira, per regolare il rialzo, ma essi possono anche venire a salutare alla fine della rappresentazione o a togliere i bersagli e i punteggi alla fine di ogni tiro. Per lo Spirito le cose stanno diversamente: a giusto titolo ci si può domandare perché non debba apparire anche lui, dal momento che fa vedere proprio ciò che può apparire. Per quale motivo la sua relazione al Padre e al Figlio (la sola relazione a identificarlo, secondo Agostino) non appare neppure nel suo nome, Spirito Santo, quando invece le relazioni di paternità e di filiazione appaiono in modo manifesto nel nome di Padre e di Figlio («ipsa relatio non apparet in hoc nomine»)? La stessa frase precisa subito il motivo di tale particolarità: «appare (apparet) nell’appellativo dono di Dio (donum Dei, dôrea tou theou) (At 8,20)»11. Strana risposta: la relazione, che non appare, tuttavia appare nel titolo “dono”; se non si tratta di una contraddizione, bisogna allora supporre che qui il “dono” appaia come motivo della non apparizione dello Spirito Santo? 11. Agostino, De Trinitate, cit., V, 11, 12, p. 253. Tommaso d’Aquino osserva che la processione dello Spirito Santo «rimane senza un nome particolare, sine speciali nomine» (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 27, a. 4, ad 3, p. 347), così come la processione dell’amore (ivi, q. 28, a. 4, resp. e q. 36, a. 1, resp., pp. 356 e 420), ma non vi vede altro che una «deficienza di vocaboli, vocabulorum inopiam» (ivi, q. 37, a. 1, resp., p. 434).

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In fondo che cosa significa lo spostamento che fa passare dal nome “Spirito” a quello di donum Dei? Si impone un’osservazione preventiva: il testo di At 8,20 a cui si è fatto riferimento riguarda l’economia, dal momento che si tratta della reprimenda che Pietro fa a Simon Mago, che credeva di poter «comprare con i soldi il dono di Dio»; si tratta dello Spirito nella misura in cui dona agli uomini di accedere a Dio e testimonia questa possibilità conferendo loro la facoltà di compiere dei segni (miracoli). Ora, qui Agostino intende il termine donum Dei in riferimento all’immanenza del Padre al Figlio, riferendolo a Gv 15,26: è dono del Padre e del Figlio perché «procede dal Padre (para tou patros ekporeuetai)». Dobbiamo vedervi un atto di forza? Probabilmente, ma a questo livello un atto di forza denota un avanzamento decisivo – la perfetta identificazione della Trinità immanente con la Trinità economica che, grazie allo Spirito come dono, dona agli uomini il dono stesso nel quale Dio consiste e, donandolo, lo rivela, «at vero dando Spiritum per quem revelat, etiam ipsum revelat: dando revelat et revelando dat – ma dando lo Spirito, per mezzo del quale rivela, [sc. il Figlio] rivela certamente anche lo stesso Spirito: dando lo rivela e rivelando lo dà»12. Quindi, se mai potremo concepire l’invisibilità economica dello Spirito (invisibile, perché dona di mirare per consentire di mirare ciò che si mostra), ciò avverrà pensandola a partire dalla Trinità immanente, dove lo Spirito assicura, come dono e a titolo di dono, «una specie di ineffabile comunione tra il Padre ed il Figlio – ineffabilis […] quaedam Patris Filioque communio»13. La logica del dono nella Trinità farebbe dunque luce sul rapporto della visibilità con l’invisibilità? O forse accade il contrario, cioè che in un dono, anche il più comune, l’intreccio 12.  Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, cit., VIII, 3, p. 180 (cfr. supra, cap. 2). 13. Agostino, De Trinitate, cit., V, 11, 12, p. 253.

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così complesso della visibilità e dell’invisibile si possa concepire completamente solo a partire dalla comunione trinitaria. Questa sarà la nostra ipotesi. Agostino rimane nuovamente sulla linea tracciata da Basilio14, che rendeva già in termini di dono la questione della visibilità (o delle invisibilità) dello Spirito Santo: «quando riceviamo dei doni (ta dôra), ci imbattiamo per primo con chi li distribuisce, poi pensiamo a chi li invia, finalmente spingiamo la nostra mente alla sorgente e alla causa dei beni (agatha) [donati]»15. In Agostino si ritrova una simile distinzione delle modalità di visibilità del dono: se «uno sposo fabbricasse l’anello destinato alla sposa e questa amasse di più l’anello che non il suo sposo che lo costruì; forse che attraverso quel dono non risulterebbe che la sposa ha un cuore adultero anche se essa ama ciò che è dono del suo sposo? […] tu che sei la sua sposa, ami l’oro, ami un anello»16. Tentiamo allora di comprendere l’invisibilità

14.  Ma Agostino è anche cosciente della necessità di prolungare e approfondire la determinazione dello Spirito Santo come dono: «intorno allo Spirito Santo invece ancora non si è ricercato (disputatum) da parte dei dotti e dei grandi commentatori delle divine Scritture con tanta ampiezza e profondità, che si possa facilmente comprendere ciò che è suo proprio (proprium, quo proprio fit), e in virtù di cui succede che non possiamo chiamarlo né Figlio né Padre, ma soltanto Spirito Santo. Di lui non affermano altro che è il dono di Dio (eum donum Dei praedicant), ma in modo che crediamo che Dio non può fare un dono inferiore a se stesso» (Agostino, De Fide et Symbolo; tr. it., La fede e il simbolo, in Id., La vera religione, Opere, vol. VI/1, Città Nuova, Roma 1995, 9, 19, p. 281). Non si tratta soltanto di definire lo Spirito Santo come dono, ma di definire ciò che significa dono, in sé e propriamente a proposito dello Spirito Santo. 15.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., XVI, 37, p. 139 [PG 32, c. 133d]. Donde l’obiezione degli Pneumatomachi: «un dono [lo Spirito], non si onora dei medesimi onori che si attribuiscono al donatore [il Padre]» (ivi, XXIV, 57, p. 170). 16. Agostino, In Epistolam Ioannis; tr. it., Commento alla Prima Epistola di san Giovanni, in Id., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di san

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(o la visibilità indiretta e a contrario) a partire dal dono dello Spirito. L’innovazione di Agostino relativa allo Spirito Santo come dono è formulata chiaramente: «sia egli infatti l’unità delle due altre (unitas amborum) Persone, o la loro santità, o il loro amore, sia la loro unità perché è il loro amore, e sia il loro amore perché è la loro santità, è chiaro che non è affatto una delle due prime (non aliquis duorum) Persone, in cui si attua il vincolo della loro mutua unione. […] Lo Spirito Santo è dunque qualcosa di comune al Padre e al Figlio, qualsiasi cosa sia (commune aliquid est Patris et Filii, quidquid illud est)»17. Se il Padre dona tutto al Figlio e se il Figlio, che si riceve totalmente, in cambio (si) dona senza resto al Padre, la loro comunione si realizza tramite il dono e in un’unione per comunione, «lo Spirito Santo è dunque una specie di ineffabile comunione tra il Padre e il Figlio (ineffabilis […] quaedam Patris Filoque communio)», o ancora «la stessa comunione consustanziale ed eterna (ipsa communio, consubstantialis et aeterna); se il nome di amicizia le si addice, la si chiami così, ma è più esatto chiamarla carità (sed aptius charitas)»18. Comunione di carità tramite il dono, il Dio trinitario si realizza nel dono reciproco e «dono designa solo lo Spirito Santo (donum quod non dicitur nisi Spiritus sanctus)»19. La realizzazione del dono compete infatti allo Spirito Santo perché lui solo dona il suo risultato (il Giovanni, Opere, vol. XXIV/2, Città Nuova, Roma 1968, II, 11, p. 1681 (cfr. la nostra analisi in J.-L. Marion, Certezze negative, cit., § 20, pp. 176 ss.). 17. Agostino, De Trinitate, cit., VI, 5, 7, p. 277. 18.  Ivi, V, 11, 12 poi VI, 5, 7, pp. 253 e 277. 19.  Ivi, VII, 6, 12, p. 321; cfr. «nec donum Dei nisi Spiritus sanctus – dono di Dio lo Spirito Santo solo» (ivi, XV, 17, 29, p. 675) e «rectissime Spiritus sanctus, cum sit Deus, vocatur etiam donum Dei – lo Spirito Santo, essendo Dio, è chiamato nello stesso tempo molto giustamente anche Dono di Dio» (ivi, XV, 18, 32, p. 681); ancora «donum, quod est Spiritus sanctus – dono, che è lo Spirito Santo» (ivi, XV, 19, 34, p. 685) o anche «Donum Dei esse Spiritum sanctum, in quantum datur eis qui per eum diligunt Deum – lo Spirito Santo

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dono, in questo caso la carità), ma anche il processo completo del dono. Lo Spirito «si chiama il dono di entrambi (vocatur donum amborum)» perché in loro congiunge le due dimensioni del dono, «dono del donatore [il Figlio] e donatore del dono [il Padre] (donum ergo donatoris et donator doni)»20. Lo Spirito Santo dona in forma eminente perché non dona solo ciò che dona (come un corriere, semplice intermediario tra donato e destinatario, che si libera di ciò che consegna), ma dona donandosi e così dona di saper donare, dona di praticare il dono secondo la logica della donazione. Questo privilegio unico è segnalato esplicitamente da un’altra precisazione introdotta da Agostino: la donabilità del dono21. Infatti, si potrebbe obiettare che in ultima istanza lo Spirito Santo non è un dono, perché dal Padre (e dal Figlio) ha preso innanzitutto il fatto di essere, poi di essere prima di essere donato; la funzione donatrice gli avverrebbe in un secondo

è il Dono di Dio, in quanto è dato a coloro che per mezzo di lui amano Dio» (ivi, XV, 19, 35, p. 687). 20.  Ivi, V, 11, 12, p. 253. Forse bisognerebbe moderare il giudizio di Bouyer, secondo il quale «è senz’altro possibile spigolare negli scritti dei Padri anteriori infinite espressioni secondo le quali lo Spirito è per eccellenza il dono che Dio fa a noi. Ma Agostino sembra proprio essere il primo ad averlo considerato come il dono in sé; ciò gli sembra derivare direttamente dalla dottrina di Mario Vittorino sullo Spirito come legame del Padre e del Figlio», quindi, se questa è l’«intuizione senz’altro più geniale» (L. Bouyer, Il Consolatore, cit., p. 255), è esonerata dalla critica di Nygren (ivi, pp. 445 ss., cfr. la nostra discussione in J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., § 42, pp. 352 ss.), pertanto forse non è necessario ritenerla responsabile delle «più inestricabili controversie tra Oriente ed Occidente» sul Filioque (ivi, p. 226); altre impostazioni si possono trovare in A. Papanikolaou - G.E. Demacopoulos (eds.), Orthodox Readings of Augustine, Fordham University Press, New York 2008. 21.  Sulla donabilità come carattere del dono ridotto alla donazione (cioè del dono donato, che però non è né una cosa, né un oggetto), cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., § 11, pp. 125-138.

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tempo, in modo avventizio e accidentale, solo una volta che è eventualmente donato. Lo Spirito diventerebbe dono solo a termine, mentre il Figlio è Figlio per il fatto stesso di nascere (essere) dal Padre, così come il Padre è eternamente tale. Dello Spirito si potrebbe dire quasi correttamente che ci fu un tempo in cui non era – ovvero non era donato. Si tratta tuttavia di una risposta che, anche se viene presentata come congettura, cancella l’ambiguità: lo Spirito procede eternamente come dono perché da tutta l’eternità si costituisce come donabile, perché si occupa essenzialmente ed esclusivamente di donar(si), ancor prima di trovarsi a donar(sé) come dono donato: «o forse lo Spirito Santo procede sempre e non nel tempo, ma dall’eternità? Ma allora, poiché procedeva per essere dato (donabilis), era già dono, prima che esistesse qualcuno al quale darlo (antequam esset cui daretur)? Infatti una cosa si intende quando si dice “dono” (donum), un’altra quando si dice “donato” (donatum). Perché può esserci un dono (donum) anche prima che sia stato donato (et antequam detur), ma non si può parlare assolutamente di “donato” (donatum), senza che il dono sia stato effettivamente fatto (nisi datum)»22. In altri termini, la differenza tra tempo ed eternità implica la radicale modifica della comprensione del dono. Mentre gli altri doni, 22.  Agostino, De Trinitate, cit., V, 15, 16, p. 259, sottolineature nostre. Tommaso d’Aquino lo spiega molto bene: «il dono viene così denominato non perché è dato (actuale datur), ma perché è atto a essere dato (aptitudinem ut possit dari). Quindi da tutta l’eternità una persona divina è detta Dono, quantunque venga data nel tempo (licet ex tempore datur)» (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 38, a. 1, ad 4, p. 440; cfr. il commento offerto da K. Barth, Kirchliche Dogmatik, I/1, cit., pp. 494 ss.). Inoltre, lo Spirito è dono in quanto donabile prima di donar(si) nell’economia, come il Figlio è Figlio prima di apparire nell’economia mondana («Non ergo eo ipso quod de Patre natus est, missus dicitur Filius, sed ex eo quod apparuit huic mundo Verbum caro factum […]; vel ex eo quod ex tempore cujusquam mente percipitur» (Agostino, De Trinitate, cit., IV, 20, 28, p. 223, sottolineature e modifiche nostre).

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temporali, si realizzano solo nell’atto contingente del loro donatore, di modo che il donato essenzialmente non si identifica con lo stesso donabile e il donato non rilascia tutto il donabile ma una parte del dono resta in sé refrattario alla donazione, lo Spirito Santo (si) attesta eternamente (come) un dono per antonomasia nel fatto di organizzarsi senza riserva per la donazione e nel fatto per cui il donato dona completamente il donabile senza che rimanga nulla da donar(si): essenzialmente donabile, non lascia sussistere nulla dietro di sé – né ente, né sostanza – che non possa succedere, trasformarsi, in un dono. In lui ciò che dona (donum come datum) coincide esattamente con il processo stesso del dono (donum donabile): non solo realizza il dono, ma manifesta anche il principio della donazione; quindi l’identità in lui del dono donato con la donazione stessa conferma, in una sola «comunione», le altre due dimensioni della Trinità immanente, il «donatore del dono» – il Padre e il «dono del donatore» – il Figlio. Lo Spirito Santo si autodona e non consiste che in questo – donarsi: «egli è dunque Dono di Dio, in quanto è dato a coloro ai quali egli è dato (in quantum dature eis quibus datur). Ma in se stesso egli è Dio, anche nel caso che non sia dato ad alcuno (etsi nemini detur), perché era Dio coeterno al Padre e al Figlio prima di essere dato a chiunque (antequam cuiquam daretur). E sebbene essi lo diano ed egli sia dato, non è per questo a loro inferiore. Infatti, egli è dato come Dono di Dio in modo tale che è anche lui, in quanto Dio, a darsi (datur sicut donum Dei, ut etiam se ipsum det sicut Deus)». Perché lì (illic), nella Trinità, lo Spirito Santo è in una condizione per cui «non esiste dipendenza per colui che è dato (conditio dati et dominatio dantium), ma intesa perfetta tra colui che è dato e coloro che danno (concordia dati et dantium)»23. Quindi, se 23.  Agostino, De Trinitate, cit., XV, 19, 36, p. 689. Tommaso d’Aquino riprende queste due distinzioni, inizialmente «il dono viene così denomi-

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lo Spirito Santo non dispiega soltanto un dono, ma il principio di donazione nella Trinità immanente (la comunione dei due, la concordia dei donatori), allora quando viene (a) dona(rsi) fin nell’economia della nostra temporalità, altrettanto vi dona non solo un dono, ma il principio di donazione, perché non può donare l’uno senza manifestare l’altro.

Il dono nella sua invisibilità Rimane un’ultima difficoltà, o piuttosto un altro paradosso: bisogna chiedersi il motivo del fatto (a questo punto non più negabile) per cui lo Spirito Santo si realizza perfettamente donando insieme non solo il dono donato, ma anche il principio di donazione – non solo il donum datum, ma anche il processo, l’abilità e la modalità di donare – gli impedisce di apparire anch’egli nell’«unica e sola» forma iconica della Trinità. Se si dona in modo tanto assoluto, perché non può anche mostrarsi? Le risposte più evidenti (l’inevitabile incompiutezza dell’anamorfosi, la saturazione del fenomeno e lo scarto mai riducibile tra ciò che si mostra e ciò che si dona) non sono sufficienti. Innanzitutto perché tutte presuppongono una mira dell’invisibile, una mira che sia guidata, orientata dallo Spirito; poi perché l’invisibilità dello Spirito non costituisce un ostacolo nato non perché è dato, ma perché è atto a essere dato (aptitudinem, ut possit dari). Quindi da tutta l’eternità una persona divina è detta Dono, quantunque venga data nel tempo» (Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 38, a. 1, resp. ad 4, p. 440), poi, contro l’obiezione secondo la quale «il dono comporta una certa subordinazione sia al soggetto a cui viene dato, sia a quello dal quale è dato, quamdam subiectionem ad eum, cui datur, et ad eum, a quo datur», risponde che «il Dono, in quanto è il nome di una persona divina, nei riguardi del donatore (in comparatione ad dantem) non comporta subordinazione alcuna, ma soltanto derivazione» (ivi, q. 38, a. 1 3 e ad 3, pp. 439 e 440).

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né una limitazione della mira dell’«unica forma» iconica, ma la sua condizione ultima; pertanto, per concepire questa impossibilità bisogna spingere più avanti, fino alla fenomenicità stessa del dono, poi fino alla fenomenicità del dono trinitario. Come già esposto più nel dettaglio in altre occasioni24, il proprium del dono ridotto alla donazione consiste nel fatto che quanto più si realizza in modo completo – cioè quanto più rilascia ciò che dona senza ritorno e in perfetto abbandono, così che il dono datum, in modo irreversibile, è rimesso a disposizione del donatario – tanto più il donatore e con lui il processo di donazione devono ritirarsi dalla presenza. Questo paradosso ha due motivazioni: la prima, evidente e di esperienza quotidiana, riguarda il fatto che un dono che conservasse sullo sfondo la figura ancora visibile del donatore, come fosse una sorta di scrigno o di incastonatura, non sarebbe assolutamente donato, né realmente abbandonato al donatario. Infatti la figura del donatore, anche attenuata, resterebbe sporgente rispetto al dono donato, domandando (anche in silenzio e forse tanto più se in silenzio) un contro dono, non fosse che nella forma di un riconoscimento di debito o di un segno di gratitudine, se non di una (cattiva, probabilmente) consapevolezza di dipendenza. Poiché la visibilità del donatore rimane dietro al dono, essa lo rende un dono al condizionale, ancora concesso grazie a un favore, in breve: ne impedisce l’appropriazione da parte del donatario, il dono pertanto ritorna a essere il suo contrario, un contro dono, uno scambio (proprio ciò che il senso comune intende con il nome di dono). Il dono che rimane sotto l’ombra visibile del donatore, il dono che si dice grazioso, manca proprio della grazia dell’abbandono. Un dono veramente realizzato può venire solo da altrove e quindi, come un miracolo, deve advenire senza causa, senza origine conosciuta, senza 24.  In particolare in J.-L. Marion, Dato che, II, § 10, pp. 115-125 e Id., Certezze negative, cit., IV, §§ 19‑24, pp. 169-216; cfr. anche supra, cap. 10.

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donatore visibile. Il donatore rende il suo dono visibile solo diventando lui stesso invisibile; dona il dono solo abbandonando completamente il suo uso (quindi anche l’abuso) nelle mani del donatario. La seconda ragione di questo paradosso riguarda l’approccio più concettuale: infatti, il dono si appoggia su un ente, una cosa o un oggetto che sono – insieme – sia disponibili sia utilizzabili, trovando lì il suo supporto; a prima vista dono sempre qualcosa e chi riceve il mio dono la maggior parte delle volte lo accetta molto volentieri, proprio perché riconosce la disponibilità e l’utilità di quel particolare ente. Poiché la maggior parte delle volte a prima vista il dono è un ente d(on)ato, sembra ricevibile e viene ricevuto soprattutto perché si presenta come un ente presente. Questo ente vale meglio che niente (disponibilità), perché anche un nonnulla può sempre servire a qualcosa (utilità, utilizzabilità). La visibilità del dono si concentra inevitabilmente nella sua evidenza ontica; non solo l’evidenza del dono lo dissimula in quanto dono, offrendolo a una presa di possesso in cui la sparizione dell’antico possessore (donatore) libera tanto meglio il diritto del nuovo (donatario) a vedervi e ricevere solo un ente da possedere: soprattutto, però, questo ente d(on)ato da possedere occupa ormai l’intera scena del visibile e si appropria di ogni visibilità – cattura tutti gli sguardi, attrae tutta la luce. A propria volta, che cosa dissimula e mette fuori scena l’evidenza dell’ente che quindi è donato per essere posseduto? Offusca l’ente stesso in quanto d(on)ato, in quanto supporto ontico del dono, che il dono ha elevato al possibile rendendolo donabile. L’evidenza della cosa donata offusca ben di più: essa rende invisibile la donazione stessa, il processo di messa in scena del dono, la logica che sovradetermina l’ente in ente d(on)ato e lo trasmuta in un dono abbandonato dal donatore al donatario, in modo tale che la de-possessione diventa la ragione (in)sufficiente del trasferimento di possesso. Inoltre, si rende possibile il fatto che il dono non susciti più un contro

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dono (cosa che lo degraderebbe a scambio), ma, al contrario, un abbandono, una comunione. L’evidente visibilità del dono in quanto tale rende così invisibile il processo di donazione. Per queste due ragioni la fenomenicità del dono ha la capacità di provocare l’invisibilità (almeno la possibilità dell’invisibilità) dei suoi termini e più ancora di implicare l’invisibilità della logica di donazione. In quale misura ciò che vale in generale per la fenomenicità del dono e per la logica della donazione si può estendere alla fenomenicità del dono trinitario? O non potrebbe essere invece che solo nel caso del mustêrion trinitario l’agapê permetta di situare, correggere e realizzare l’invisibilità del dono?

Il posto invisibile dello Spirito Santo La conclusione dell’argomentazione è data: lo Spirito Santo non si vede perché fa vedere, cioè permette di mirare per anamorfosi «l’icona del Dio invisibile», quindi non si lascia mirare, ma, mirando, resta non mirato e quindi invisibile. Nel modello fenomenico della Trinità lo Spirito realizza il dispositivo di visione mettendo colui che deve vedere – spostandolo – nel posto esatto (per anamorfosi) in cui il volto di Cristo sarà visto come volto del Figlio, quindi come icona del Padre. Per lo Spirito, non più che per il Figlio, non si tratta di farsi vedere, dal momento che tanto l’uno quanto l’altro sono ordinati all’unica manifestazione del Padre, l’uno come volto trasparente, l’altro come mirante, punto di mira invisibile. L’invisibilità dello Spirito dipende inesorabilmente dalla sua funzione di promotore, produttore e protettore. Chi mette in scena non sale sulla scena, chi dirige l’illuminazione non è colpito dalla luce, chi mette le parole in bocca all’attore non le pronuncia. Nell’economia lo Spirito Santo ci pone proprio nel posto giusto per confessa-

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re e vedere, ci pone lì spostandoci: «mettiti più in alto! [alzati in piedi]» (Lc 14,10). Allora, spostàti, ri-posizionati e posti in modo perfetto, vediamo e professiamo dove e da dove vuole lo Spirito – dello Spirito, noi non sappiamo «dove va» (Gv 3,8), ma ce lo mostra facendoci andare. Vediamo ciò che vuole farci vedere, operiamo come lui, al suo posto o piuttosto in suo luogo. Compiamo il suo ufficio quando parliamo e la nostra bocca pronuncia le sue parole, quando i nostri occhi vedono ciò che lui mira – lui, che ci fa mirare, «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15), o ancora: «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). Se lo Spirito Santo è «Dono di Dio, in quanto è dato a coloro che per mezzo di lui amano Dio – in quantum datur eis, qui per eum diligunt Deum»25, allora arriviamo ad amare Dio solo perché egli si dona a noi in modo assoluto, perché ci trasferisce il suo privilegio (la grazia dell’anamorfosi che ci sposta) fino al punto da riposizionarci in modo sufficiente perché in cambio (umgekehrt) noi lo sostituiamo: ispira a tal punto le nostre parole che parliamo come lui, in suo luogo e al posto suo. Pertanto, la sua invisibilità risplende e paradossalmente diventa manifesta; lo Spirito si fa invisibile perché ci ha posto in avanti, per così dire ci ha posto davanti a lui, spingendoci fino al primo rango, al posto migliore per mirare e poi vedere «l’icona del Dio invisibile», finalmente per glorificare il Padre attraverso la trasparenza del Figlio. Certo non vediamo lo Spirito, ma egli ci diventa positivamente invisibile, dal momento che la sua invisibilità significa che siamo finalmente messi in un posto che non guardiamo più e del quale ci dimentichiamo, perché è a partire da esso che viviamo, miriamo e vediamo: non più in noi, ma nell’icona stessa, «non vivo più io (ouketi

25. Agostino, De Trinitate, cit., XV, 19, 35, p. 687.

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egô), ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), oppure «se noi viviamo, viviamo per il Signore» (Rm 14,8). Questo spostamento dell’ego, finalmente realmente altro in Cristo – suo vero posto, ci mette nella situazione di svolgere il ruolo di Cristo nello Spirito: «voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9). L’invisibilità dello Spirito ci introduce nella visibilità dell’icona e quindi anche nella sua tensione escatologica: «la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, nostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3,3-4). Tramite lo Spirito non solo siamo introdotti in Cristo (Verbo fatto uomo), come se l’economia si richiudesse sulla sua semplice incorporazione, ma siamo anche introdotti nel posto stesso dello Spirito, nel posto, nella Trinità immanente – perché, vivendo la vita di Cristo, comunichiamo alla comunione eterna del Figlio con il Padre, anche lì e innanzitutto lì, nel posto del loro dono comune: «la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità (teteleiômenoi eis hen) e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me (egapêsas)» (Gv 17,22-23). La Trinità immanente viene all’economia affinché l’economia ritorni alla Trinità immanente, questa è l’opera dello Spirito invisibile. Si può allora comprendere che anche la carità, in noi, deve restare a suo modo invisibile. Essa dona senza rendere visibile, può anche avvertire l’uomo che la sua mano sinistra non sappia quello che faccia la mano destra, «perché la tua elemosina resti nel segreto» (Mt 6,4); la preghiera rimane per antonomasia «nel segreto», invisibile agli uomini, mentre «il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). In un certo senso non si sa né si vede come venga ricevuto ciò che si dona, lo Spirito opera tramite la carità e così rimane invisibile, la qual cosa indica che almeno in un senso anche la carità rimane in-

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visibile. Qui bisogna considerare alla lettera un’osservazione decisiva di Ilario di Poitiers: «dello Spirito poi non si deve tacere e non è necessario parlare. Eppure noi non possiamo tacere a causa di coloro che lo ignorano. Non occorrerebbe parlare di colui che si deve confessare come originato dal Padre e dal Figlio (Patre et Filo auctoribus). Certo, penso che si deve spiegarne l’esistenza (an sit). Esiste infatti in quanto è donato, ricevuto, posseduto (donatur, accipitur, obtinetur); e lui che è legato (connexus) alla confessione del Padre e del Figlio non può essere separato quando si confessano il Padre e il Figlio»26. Lo Spirito appare nella sua stessa invisibilità perché, in questo unico caso, il suo ufficio consiste nel fare e nel far fare: appare facendo mirare e vedere il Padre invisibile nella trasparenza del Figlio. Non solo egli non si fa vedere e sparisce in ciò che fa vedere, ma fa anche vedere la logica di donazione manifestandosi nel dono, che è donato, ricevuto e restituito. Non c’è niente da dire dello Spirito Santo, c’è da lasciarlo fare: «null’altro esporrò al di là dell’intelletto umano circa il tuo Santo Spirito se non che è il tuo Spirito»27. Giustamente bisogna lasciarlo fare e all’occorrenza farci mirare, farci dire (e quindi fare dicendolo) ciò che da noi non sapremmo dire. Ne deriva questa formula di Ilario di Poitiers – magnifica, ma pressoché intraducibile: «il tuo Santo Spirito, secondo quanto dice l’Apostolo, scruta e conosce le tue profondità (1Cor 2, 10‑11) e, come intercessore al tuo cospetto in mio favore (interpellator pro me tuus), ti dice quanto io non potrei esprimere (inenarrabilia a me tibi loquuntur)»28.

26.  Ilario di Poitiers, De Trinitate; tr. it., La Trinità, vol. I, Città Nuova, Roma 2011, II, 29, pp. 168-169 [SC 443, p. 322]. 27.  Ivi, vol. II, XII, 56, p. 313 [SC 443, p. 468]. 28.  Ivi, XII, 55, p. 312 [SC 443, p. 466].

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La ridondanza del dono È significativo il fatto che Tommaso d’Aquino giunga alla stessa conclusione con un registro totalmente diverso: infatti, dopo aver tortuosamente convalidato concetti (relazione sussistente, persona, modo della volontà, ecc.) forse poco appropriati per concepire il «nome specifico» che manca per lo Spirito Santo, in un ultimo sforzo finisce per designarlo come dono. Di quale dono si tratta? Di un dono preso «personalmente (personaliter)», in un senso che si trova solo nelle «cose divine» e giunge all’amore: «il dono è un “dare senza resa” (datio irreddibilis), cioè un dare senza pensare a una retribuzione: e così indica una donazione gratuita (gratuitam donationem). Ora, il motivo di una donazione gratuita è l’amore (ratio autem gratuitae donationis est amor): infatti diamo una cosa gratuitamente a qualcuno perché vogliamo per lui il bene (volumus ei bonum). La prima cosa che gli diamo è l’amore con il quale vogliamo a lui il bene. Quindi è chiaro che l’amore ha natura di primo dono (amor habet rationem primi doni), da cui provengono tutti i doni gratuiti. Ora, si è già visto che lo Spirito Santo procede come amore, quindi procede come primo Dono»29. Nonostante l’amore caratterizzi l’intera Trinità, propriamente denomina lo Spirito Santo, perché donando per amore consente ogni dono, cioè: ogni dono nella Trinità immanente e nella Trinità economica, ogni dono fatto agli uomini, quindi anche quello che è da loro compiuto – dona il dono di donare. Egli ama in modo tale da far amare, detto altrimenti: non appare solo come dono, né come colui che dona i doni (i “sette doni” dello Spirito), ma soprattutto come colui che

29.  Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia, q. 38, a. 2, resp., p. 441, che curiosamente si appoggia a un inciso di Aristotele che definisce la particolarità del dono (dôrea) come dosis anapodotos (Aristotele, Topici, cit., IV, 4, 125a18, p. 1355). Su questo tema ci si può riferire a L.-M. Rineau, «Celui qui donne». Le don d’après saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 2019.

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dà inizio alla donazione. Dona i doni perché la sua donazione dona il primo dono, dona per primo e soprattutto in primo luogo. Dona rilasciando e aprendo «il motivo di una donazione gratuita (ratio autem gratuitae donationis)». Fa apparire la donazione stessa in ogni dono, mentre, nell’esperienza delle cose umane, come visto, la manifestazione del dono donato fa scomparire la manifestazione della donazione. Lo spirito è denominato come dono perché solo lui fa apparire la logica del dono. L’opera rivelatrice dell’unica Trinità – della Trinità immanente e persino della Trinità economica, in atto tra gli uomini – si definisce non mascherando più il processo della donazione tramite l’evidenza del donato come nell’esperienza del mondo (disvelamento, alêtheia), ma ristabilendo ogni volta la manifestazione del processo di donazione nell’evidenza del dono (scoprimento, apokalupsis). Il modello fenomenico della Trinità compie così l’intero s-coprimento di cui eravamo alla ricerca. Si può tematizzare questo rovesciamento fenomenico come ridondanza del dono30 dove, per dirla quasi come Riccardo di san Vittore, «nel Padre risiede la pienezza dell’amore gratuito, nello Spirito Santo la pienezza dell’amore dovuto, nel Figlio la pienezza dell’amore dovuto e, contemporaneamente, di quello gratuito»31. Quasi e non esattamente così perché, come stiamo per vedere, «la pienezza dell’amore dovuto e, contemporaneamente, di quello gratuito» alla fine caratterizza lo Spirito Santo. Riprendiamone i tre momenti, di fatto simultanei in qualunque donazione compiuta.

30.  Cfr. J.-L. Marion, Certezze negative, cit., cap. IV, §§ 19‑24, pp. 169-216. 31. «In Patre, plenitudo amoris gratuiti, in Spiritu sancto, plenitudo amoris debiti, in Filio plenitudo amoris debiti simul et gratuiti» (Riccardo di san Vittore, De Trinitate; tr. it., La Trinità, Città Nuova, Roma 1990, VI, 14, p. 230 [PL 196, c. 978c]).

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Innanzitutto lo s-coprimento della ratio donationis a partire dal Padre: come visto, questo dono appare nel dono secondo il mondo solo se occupa l’intera scena della visibilità e vi si dispiega come tale – autonomo, senza condizioni né restrizioni; quindi, solo se tramite la sua evidenza offusca la figura del donatore. Al contrario, nelle «cose divine» (dunque anche nell’economia ripresa dalla Trinità) il donatore mette tra parentesi il primo dono, che poteva fare opposizione al processo della donazione e alla sua s-coperta; questa messa tra parentesi, però, non corrisponde a sopprimerlo, riprenderlo o annullarlo, ma a ri-donarlo. Tutto ciò è chiamato perdono. Il perdono ri-dona e, in questa ridondanza, per la prima volta il dono donato una seconda volta appare completamente gratuito (plenitudo amoris gratuiti), dal momento che il donatore non lo controlla, né lo mantiene sottomano, non lo dona più sotto l’apparenza di una depossessione che in realtà è ancora nell’orbita del possesso. Lo ri-dona proprio per niente, non per manifestare la depossessione del dono o sé come donatore, ma per s-coprire la ratio donationis stessa. La ridondanza del perdono dona per amore della sola donazione. Poi, di conseguenza, lo s-coprimento della ratio donationis a partire dal Figlio: nel dono secondo il mondo, come è noto, il dono appare al donatario che lo riceve solo se occupa l’intera scena della visibilità e vi si dispiega senza condizioni né restrizioni, come un ente da possedere; quindi solo se con la sua evidenza offusca il fatto che è stato donato, cancellando così la donazione. Al contrario, nelle «cose divine» (quindi anche nell’economia della Trinità), il donatario mette o può mettere tra parentesi il primo dono, l’ente in sé, che poteva annullare la s-coperta del processo di donazione; questa messa tra parentesi, però, non consiste nel rifiuto o nel disfarsi del dono, ma nel suo riconoscimento come donato. Tutto ciò si chiama sacrificio. Il sacrificio riconosce l’ente apparentemente disponibile, privo di dominio ed esposto a qualunque presa di pos-

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sesso – in breve la cosa senza origine né donatore, come un bene nullius, un dono che è stato donato e lo rimane. Il dono sacrificato ri-appare, o piuttosto appare come tale per la prima volta, come un dono che ormai è visto secondo la logica della donazione, è tanto più ricevuto come dono quanto più il donatario lo riceve come deve, come un dono dovuto (plenitudo amoris debiti). Il sacrificio non sopprime nulla e non distrugge niente; ugualmente non restituisce nulla e non ristabilisce alcuno scambio, perché fa ben di più e lo fa meglio: ri-dona un dono che non era stato ricevuto come tale, al fine di riconoscerlo e quindi di manifestarlo come donato. Il sacrificio realizza per niente la ridondanza del dono, neppure per testimoniare al donatore una gratitudine tardiva, ma solo per s-coprire la ratio donationis stessa. La ridondanza del sacrificio dona per amore della sola donazione. Resta infine lo s-coprimento della ratio donationis a partire dallo Spirito Santo: proponiamo di concepirlo a partire da ciò che Riccardo di san Vittore attribuiva al Figlio, «la pienezza dell’amore dovuto e, contemporaneamente, di quello gratuito (plenitudo amoris debiti simul et gratuiti)». Sono due ragioni per cui ci si può forse permettere una tale audacia. Innanzitutto perché, come regola generale, nelle appropriazioni trinitarie bisogna conservare qualche riserva apofatica. Così di diritto l’amore «dovuto e contemporaneamente gratuito» può qualificare i tre della Trinità, per l’eccellente ragione che la ratio donationis mobilita sempre queste due qualifiche: da qualunque punto di vista la si consideri (dono donato, donatore o donatario), la donazione implica la gratuità e la gratitudine; note che quindi si possono applicare allo Spirito Santo. Inoltre, soprattutto, forse consentirebbero anche di risolvere una difficoltà che riguarda sia il dono donato sia lo Spirito Santo. Il dono donato secondo il mondo confisca chiaramente l’intera scena del visibile, senza riserve né condivisione, come un ente in sé, offerto al possesso, all’usus et abusus; in caso con-

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trario, del resto, semplicemente non sarebbe donato. Di conseguenza, per il fatto stesso che è stato donato, cancella in sé la traccia della donazione. Si può evitare questa conseguenza? Avevamo già proposto una risposta in termini fenomenologici, che rimane valida32. Ancora una volta si ricorre a una messa tra parentesi: il dono donato è solo provvisoriamente un ente, una cosa o un oggetto. Infatti, contrariamente allo scambio commerciale, il dono non si riduce a un ente che cambia possessore passando di mano. Certo, la maggior parte delle volte accade che il processo di donazione mobiliti qualcosa che sussiste e resta a disposizione (per il consumo, l’uso, il patrimonio, ecc.) in favore del suo beneficiario, ma in questo caso si tratta o di una pura relazione economica (un atto notarile, contabile, monetario) – che non ha a che fare con il dono né con la donazione, oppure, se almeno in parte si ha a che fare realmente con dono e donazione, l’ente messo in gioco è solo un pretesto e svolge un ruolo secondario; infatti, esso fornisce l’occasione di un processo molto più ampio, un segno o un simbolo immateriale del dono autenticamente donato. Più il dono ha importanza, meno è importante l’ente che mette in atto; l’impegno del matrimonio non consiste nello scambio degli anelli, né in un contratto davanti al notaio; l’investitura del potere non si riassume in ciò che lo segnala (il cordone della Legion d’Onore, il codice nucleare, il giuramento sulla Bibbia, ecc.); la presa di possesso di un bene immobiliare o di un’impresa non si identifica con la firma di un accordo, né nell’“avere” la firma su un conto. Quindi in cosa consiste realmente il dono, se non equivale a nulla di reale, ad alcuna cosa, ad alcun oggetto? Consiste nella modifica della fenomenicità di ciò che diviene un dono: avviene, improvvisamente o dopo un calcolo, che un oggetto o una cosa non appaiano più statici e sussistenti in sé, ma virino nell’aspetto di ciò che si propone 32.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., cap. II, § 11, pp. 125-138.

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da donare o da ricevere: si mostrano sotto l’aspetto della donabilità o dell’accettabilità. Nei due casi essi stessi si propongono a donatore e donatario potenziali sollecitando di entrare nella fenomenicità della donazione, di diventare dei doni. Essi richiedono agli altri termini del dono di apparire come un dono donato. La non realizzazione dell’ente d(on)ato diventa il carattere stesso del suo ingresso nella donazione. Questo paradosso ha conseguenze notevoli, in quanto consente di comprendere perché il dono, anche reso così come è stato donato, anche raddoppiato nella ridondanza, non ristabilisce mai uno scambio. Quando, tramite la loro triplice messa tra parentesi, i tre termini del dono sono ridotti alla donazione, non si produce mai uno scambio, perché – letteralmente – niente, nessuna cosa né nessun oggetto passa da una mano all’altra e viceversa, come la navetta di un tessitore. La ratio donationis gratuitae non mette in gioco un qualcosa di intermedio, ma suscita le due intenzioni di donare e ricevere; esse si incrociano, ma non si compensano né si annullano. D’altronde, quando il dono volge all’abbandono, una delle due intenzioni può compiersi perfettamente senza che l’altra faccia altrettanto, ma il dono resta comunque valido – un dono non ricevuto o negato rimane un dono donato realmente, come un’attesa vana rimane nella logica del dono. Il dono donato appare in modo pieno, non più come il contenuto o il nocciolo di un processo eventualmente reciproco, ma come il movimento stesso, che manifesta e fenomenizza la donazione. La ridondanza del dono, proprio perché rende non realizzato ciascuno dei termini, manifesta la logica della donazione. Se si passa alle «cose divine», alla Trinità immanente e quindi anche alla sua economia, che cosa ne è di questo risultato? Vediamo subito come lo Spirito Santo risponda alla sua denominazione in quanto plenitudo amoris debiti simul et gratuiti. Qui intendiamo l’amore dovuto e gratuito come ridondanza del dono, dove i tre termini sono messi tra parentesi per po-

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ter finalmente apparire come tali – puri fenomeni di sé stessi, senza oggettivazione. Lo Spirito realizza il dono del donatore (del Padre) tramite la ridondanza del perdono (dono gratuito); realizza il dono del donatario (del Figlio) tramite la ridondanza del sacrificio (dono dovuto); e lui stesso realizza l’unione dei due, non imponendosi come loro somma, centro o fondo [fonds], ma, a propria volta tra parentesi, scopre il suo nome all’apparenza mancante: comunione. Anche la questione tradizionale relativa a conoscere se il dono qualifichi l’unione del Padre e del Figlio, oppure l’intera Trinità, o in particolare lo Spirito Santo, trova qui risposta. Solo perché lo Spirito Santo si caratterizza per il compimento del dono del Figlio e del Padre nella sua pienezza, accade che realizzando questo «primo dono», manifesta non tale o talaltro dono, ma la donazione stessa. Ancora una volta, «nessun dono (oude […] olôs dôrea) senza lo Spirito Santo»33. Detto altrimenti: nessun dono manifesta così la logica della donazione. L’uni(ci)tà della Trinità si fa vedere solo in tre punti, tre operatori della sua manifestazione, tre operai della sua rivelazione: il Padre invisibile, da s-coprire nella trasparenza del Figlio, visibile come «icona dell’invisibile», secondo un punto di vista definito dall’anamorfosi (lo spostamento del punto di intenzionalità), dove conduce solo la mira secondo lo Spirito invisibile. La Trinità si manifesta come comunione non “nonostante essi siano” tre, ma proprio perché si dispiega in questi tre operatori della ratio donationis. Il cammino della conoscenza di Dio si apre «a partire da (apo) l’unico Spirito, attraverso (dia) l’unico Figlio, in direzione de (epi) l’unico Padre […] senza disgregare il sacro dogma della monarchia»34. Queste tre preposizioni 33.  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, cit., XXIV, 55, 172b, p. 169 [PG 32, c. 172b]. 34.  Ivi, XVIII, 47, 153b, p. 154 (tr. mod.). Sulla disputa sulle particole cfr., tra gli altri, i capp. I, II e XXIX [PG 32, c. 153b].

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non accostano la Trinità a partire dal Padre, attraverso il Figlio e nello Spirito (secondo la formula ontica più abituale) ma (secondo l’ordine fenomenico delle operazioni) a partire dal punto di mira dell’uomo che contempla, dal punto di vista, se si può dire, della sua vista, ancora più esattamente dalla sua venuta alla mira secondo l’economia dello s-coprimento. «La glorificazione offerta da noi nello Spirito non è una confessione della sua dignità, ma un’ammissione della nostra debolezza. Noi dimostriamo infatti che non siamo capaci da noi stessi di rendere gloria, ma che la nostra capacità (ikanotês, 2Cor 3,5?) è nello Spirito»35.

35.  Ivi, XXVI, 63, 184c, p. 179 [PG 32, c. 184c].

VI L’APERTURA

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19 L’essere messo allo scoperto da altrove

L’elaborazione, almeno in forma di abbozzo, del modello fenomenico della Trinità consente di mettere all’opera un concetto propriamente teo-logico di Rivelazione: l’invisibile (il Padre) visualizzabile nella trasparenza del visibile (l’icona, il Figlio) viene s-coperto dall’invisibile mirato accordato dallo Spirito Santo a colui che ne compie l’anamorfosi. Alla fine, tutta la s-coperta si gioca con l’anamorfosi, lo spostamento del punto di intenzionalità. Se non gli fosse consentito, insegnato e ripetuto dallo Spirito Santo, nessun uomo potrebbe realizzare un tale spostamento, lo Spirito guida l’ego lontano da se stesso, lo conduce in esilio da sé, verso l’eremitaggio dell’altrove richiesto per la nuova mira. Detto altrimenti, come è già stato visto, per noi la s-coperta secondo la Trinità economica non potrebbe prodursi se il nostro altrove non coincidesse con l’altrove che lo Spirito Santo continua a ricondurre nella Trinità immanente: miriamo correttamente l’invisibilità del Padre perché lo Spirito Santo ci introduce nell’esatto posto del Figlio, che a propria volta è situato eternamente nell’altrove, egli va al Padre perché ne proviene. Possiamo ormai dire che la Trinità economica ritorna alla Trinità immanente e si può accogliere l’avverbio “e viceversa”, perché si è constatato che

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queste due specifiche condividono lo stesso e unico altrove: la logica della s-coperta per noi della Trinità secondo il modello fenomenico individua la comunione della Trinità in se stessa. Non è la Trinità immanente che viene a trascriversi nella nostra supposta logica ma è l’economia del suo dispensare che viene a sviluppare tra noi l’unico altrove della sua comunione. Entriamo nel posto trinitario del Figlio, da dove lo Spirito Santo fa mirare l’invisibilità del Padre – vi entriamo ripetendo lo stesso percorso dell’altrove, il percorso dello stesso altrove percorso da Gesù, tra noi, quando ci ha mostrato come e perché era Figlio del Padre nello Spirito.

L’avvento dell’altrove Rimane quindi da individuare quali siano le esigenze che riguardano i nostri concetti fondamentali dell’anamorfosi richiesta dallo Spirito Santo e il cammino verso l’altrove da lui consentito. Con concetti fondamentali intendiamo proprio quelli che, quando li assumiamo senza alcuna precauzione né critica come degli a priori, impediscono di concepire persino la possibilità della Rivelazione (supra, capp. 3‑6). Questi concetti (o forme) a priori devono allora decentrarsi, in virtù della regola fenomenologica secondo la quale il donato si impone a posteriori1, ma soprattutto in conseguenza del contrasto tra il disvelamento (alêtheia) e la s-coperta (supra, cap. 10). O, ancora, si potrebbe dire che il tentativo di pensare a partire dall’altrove implichi di ripensare ogni fenomenicità possibile e anche impossibile, ivi compresa quella di Dio, secondo un a posteriori assolutamente radicale. Se tutto viene da altrove, allora ne consegue necessariamente la possibili1.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., § 1, pp. 3-20.

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tà di Dio; quindi, per riceverlo o per percepirlo è necessario semplicemente assumerne il punto di vista, esiliarsi dal nostro e percorrere la distanza dell’altrove. Per riceverlo o per percepirlo, inoltre, bisogna tentare di ripensare a posteriori l’essere e il tempo a partire dall’altrove, l’unico a priori originario. Qui, in conclusione, ci arrischieremo in questo compito pressoché inimmaginabile (capp. 19‑20). L’essere, innanzitutto: seguendo Heidegger (supra, capp. 10 e 17) abbiamo visto quale aporia gravi sulla fenomenicità dell’essere, anche quando si smette di pensarlo seguendo la sussistenza persistente (come ousia e parousia) e si inizia a concepirne la venuta a partire dal dispiegamento del «si d(on)a, es gibt». Infatti, anche e soprattutto in questo caso, la fenomenicità di ciò che si d(on)a – all’occorrenza dell’ente che emerge nel visibile e ne occupa l’intera scena – non può far altro che ridurre all’invisibile non solo ciò o colui che (a volte ma non sempre) lo d(on)a (il donatore), ma anche il processo stesso che ne ha permesso l’apparizione. Il motivo sta nel fatto che ciò che adviene, l’adveniente, colui che “è avvenuto [arrivé]” (Ankunft), l’ente d(on)ato come dono del fenomeno, può manifestarsi senza riserva né trattenendo “qualcosa” per sé solo rigettando e offuscando il tramandamento (Überkommnis) attraverso cui si è fatta avanti la sua venuta [arrivée]. La fenomenicità dell’essere implica che l’ente d(on)ato tramite la sua sola visibilità rinvii a me al di fuori della presenza il processo dell’essere che gli ha d(on)ato di advenire: tanta più manifestazione dell’ente d(on)ato, tanta meno manifestazione dell’essere che d(on)a. Questa aporia ha condotto lo stesso Heidegger a rinunciare a un pensiero della fenomenicità a partire dall’“essere”, termine provvisorio e decettivo, che impedisce l’acceso a ciò di cui rimane comunque l’indice. Al di là o a lato dell’“essere” si profila allora l’Ereignis, più come un punto oscuro che come una schiarita; esso indicherebbe almeno una venuta (Ankunft) che nella sua visibilità conserva il processo del suo tramanda-

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mento (Überkommnis), un fenomeno che dispiega la sua profonda capacità di emergere anziché disfarsene – che insieme attesta il suo proprio evento (Ereignis nel senso corrente di ciò che si produce, che adviene) e si lascia appropriare a ciò di cui adviene (Ereignis come appropriazione, ri-appropriazione dell’avvento)2. Più di chiunque altro, Heidegger ha riconosciuto l’aporia, per giungervi ha dovuto intraprendere niente di meno che la «distruzione dell’ontologia», fino a suggerire di superare la stessa «questione dell’essere», dal momento che la Seinsfrage smaschera certo l’ontologia che caratterizza la metafisica ma, ancor di più, maschera ciò di cui è semplicemente sintomo senza avervi accesso – l’Ereignis. L’essere accenna – e con difficoltà – una questione alla quale non sa rispondere in quanto per rispondervi bisognerebbe che l’essere fosse realmente in grado di intendere l’appello. Non l’appello di sé tramite sé (come quello che giunge al Dasein da se medesimo), ma un appello che proviene da altrove. Nessun appello si intende se non da altrove: ciò non ha nulla della tautologia o della banalità, in quanto l’autismo trascendentale dell’ego gli accorda innanzitutto solo di estendersi in un’eco, la maggior parte delle volte gli impedisce la prova dell’altrove e infine lo chiude a ogni appello. Intendere un appello da altrove: qui si apre un’altra via, in quanto si intende un’altra voce – la voce dell’altro per antonomasia. A questo punto conviene ricorrere alla teologia, più precisamente alla teologia trinitaria (pleonasmo per indicare i Padri greci), perché niente più della Trinità ci parla dell’altro in modo così sorprendente. Infatti, abbiamo raggiunto il risultato secondo cui l’immanenza a sé della Trinità implica che il suo altrove, nella sua economia, divenga anche il nostro; que2.  Sullo stato attuale della possibile interpretazione dell’Ereignis nessuno è giunto al punto di D. Franck, in particolare in Le Nom et la chose. Langue et vérité chez Heidegger, cit. Qui lo seguiamo a nostro modo.

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sto altrove, inoltre, si gioca nel dono, il nome della comunione del Padre e del Figlio, alla quale siamo associati dallo Spirito Santo. Tuttavia, di quale dono si tratta qui? In un certo senso si tratta del dono descritto da etnologi e sociologi (Marcel Mauss e il MAUSS) e anche del dono secondo l’“es gibt” fenomenologico (Heidegger), ma si tratta soprattutto del dono secondo la Trinità (immanente ed economica) che reinterpreta e realizza ciò che intendiamo come dono a partire dall’altrove, in quanto si è visto (supra, cap. 18) che la logica della Trinità non considera solo i termini del dono per noi (il donatore e la sua donazione, il donatario e la sua ricezione, il dono nella sua presenza) e, di conseguenza, non si sottomette alle aporie che non possono far altro che provocare (la simbolica ripresa di possesso del dono da parte del donatore, la negazione della donazione da parte del donatario assente o ingrato e l’oscuramento del processo di donazione tramite la presenza del dono donato). Qui, nel dono accolto a partire dall’altrove trinitario, intervengono almeno tre nuovi termini, più precisamente tre nuovi atti, che realizzano pienamente il dono e insieme realizzano la fenomenicità in generale come tale. Il primo di questi atti si chiama sacrificio: il Figlio riceve il dono in modo tale da riconoscerlo sempre e assolutamente come ciò che gli adviene in quanto donato, senza mai pretendere o rischiare di appropriarselo, e che implica che il dono donato venga messo tra parentesi affinché non faccia più da schermo alla manifestazione del donatore. Così, Abramo non restituisce Isacco a Dio uccidendolo ma legandolo, impedendosi di possederlo, cioè riconoscendo la dura verità: Isacco non è suo figlio naturale, non è suo ma proviene da un puro dono (un miracolo) di Dio; Dio provvede alla sorte di Isacco non solo nel momento del sacrificio rituale (sostituendolo con un ariete) ma già con la promessa (mantenuta) della sua nascita da una donna sterile. Allo stesso modo Gesù continua a proclamare che tutto gli deriva da suo Padre, che questo Padre è

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più grande di lui (supra, cap. 13) e che lui non si nutre d’altro che della sua volontà (supra, cap. 14). Qui il donatore appare come tale perché il donatario sospende il dono donato, pertanto, tanto quanto il dono, tale messa tra parentesi manifesta il donatore nel dono, quindi l’avvento in lui della donazione. Il donatario non riceve più il dono donato cancellando il donatore e il processo di donazione, ma valorizzandoli tramite la cancellazione del dono, sacrificato. Il secondo atto è il perdono: il Padre dona il dono assolutamente senza ritorno, in modo tale da non trasparire mai in esso e da non esserne più il proprietario (tramite il riconoscimento del debito o, simbolicamente, con una richiesta di gratitudine, ecc.); vi giunge mettendo tra parentesi il primo dono visibile e qualsiasi richiesta di riconoscenza, donando nuovamente il dono a colui che non voleva riconoscerlo (il figlio prodigo), non lo vorrà mai riconoscere (il nemico) o non lo potrà mai riconoscere (lo sconosciuto); il donatore appare in piena luce perché si dispensa da qualsiasi ritorno sul dono. Egli fa vedere la donazione privandosene una seconda volta, conferma di aver donato per nulla ri-donando per nulla, perdonando. Il terzo atto denomina il dono come null’altro che pura e semplice comunione. Si è già visto che, a partire dall’esperienza mondana, solo in apparenza il dono coincide con una cosa o un oggetto: più il dono dona, meno si ricapitola nel trasferimento di possesso di qualche cosa o di quel che sia e più simboleggia un’altra realtà che non è oggettivabile e talvolta non è neppure essente. Che cosa si può donare più del proprio tempo, della propria vita, della propria fede e del proprio amore? Per dire le cose come stanno, tutto ciò è niente, niente che sia né che possa servire come oggetto; al contrario, donano solo donandosi come altrettante promesse a venire; infatti, non donano altro che l’assicurazione, ancora da confermare, che si doneranno e che tra donatore e donatario resterà una comunione; donano il fatto che i due attori resteranno in comunione e che ricevono tale comunione solo

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a condizione di non confonderla mai con ciò (oggetto o ente) che potrebbe simbolizzarla: la messa tra parentesi del dono diventa la condizione di manifestazione della comunione. Così, considerato da altrove, il dono si realizza nella sua ridondanza. Contrariamente al dono praticato dal mondo, il dono secondo la Trinità evita l’aporia della dissimulazione del processo di tramandamento (Überkommnis) tramite l’evidenza del dono (Ankunft). Il tramandamento della donazione si manifesta quanto più la ridondanza del dono mette tra parentesi la sua presenza soffocante; tuttavia, se qui e qui soltanto il processo di apparizione stesso appare nell’apparire del fenomeno, allora bisognerà forse dedurne che l’altrove trinitario condurrebbe a qualcosa come l’Ereignis? Non è possibile rispondere a questa questione senza ritornare almeno su ciò di cui è sintomo, la “questione dell’essere”. È possibile, a partire dalla ridondanza del dono, intravvedere il sintomo (l’“essere”) e ciò di cui è l’indizio (Ereignis)? Vi si può leggere o indovinare un’anti- o contro-ontologia, in breve un approccio alla questione dell’essere a partire dall’altrove? Per quanto questa ipotesi possa sorprendere, forse è possibile seguirla.

La ridondanza dell’essere In modo ancor più sorprendente, è possibile seguirla leggendo uno dei testi che per antonomasia illustrano ciò che abbiamo chiamato ridondanza del dono, dove la piena fenomenicità del dono si realizza a partire da altrove, sotto il titolo di kenosi, in Fil 2,6‑11. Infatti, si tratta precisamente di ridondanza del dono perché Paolo ai Filippesi propone Cristo come esempio, dal momento che Cristo ha messo tra parentesi il dono ottenuto dal Padre, quindi l’ha sacrificato e l’ha dunque ricevuto tramite la ridondanza del dono del Padre, manifestando

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tra loro la perfetta comunione dello Spirito. I primi due versetti (Fil 2,6‑7), tuttavia – questo punto è molto importante per la nostra ipotesi – fanno intervenire numerosi termini del lessico filosofico, inteso in senso ampio: «egli, pur essendo nella forma di Dio (en morphê theou huparkhôn), non ha considerato come un possesso da trattenere e difendere (arpagmon) l’essere uguale a Dio (to einai isa theô), ma svuotò se stesso (heauton ekenôsen), assumendo una forma di servo (morphên doulou), diventando a somiglianza degli uomini (en homoiôùati anthrôpôn genomenos). Dall’aspetto riconosciuto come uomo (skêmati euretheis ôs anthrôpos)». Le discussioni – spesso vivaci e forse destinate a non finire – attorno alla traduzione corretta di questi termini (forma o condizione, esistere o sussistere, essere uguale o uguaglianza, somiglianza, aspetto, figura, ecc.) probabilmente hanno una certa importanza, ma i problemi che considerano rimangono circoscritti in quanto le eventuali differenze hanno senso solo presupponendo la legittimità di distinzioni posteriori e metafisiche, che risultano anacronistiche e quindi inadeguate; in particolare, si tratta di distinzioni che devono essere ridefinite da altrove. Inoltre, quale che sia il modo con cui vengono tradotte le due occorrenze di morphê, l’essenziale non cambia: la morphê tou theou viene sempre messa tra parentesi dalla kenosi e sia che questa kenosi riguardi solo l’incarnazione o anche la morte di croce, in ogni caso deriva dall’«obbedienza» (v. 8), quindi riguarda ancora la ridondanza del dono tramite la messa tra parentesi del dono donato (in questo caso del sacrificio). Alla ridondanza tramite il donatario (il Figlio e il sacrificio) risponde poi la ridondanza tramite il donatore (il Padre e il perdono), «Dio l’ha super esaltato (huperipsôsen) e gli ha fatto il dono grazioso (ekharisato) del nome al di sopra di ogni nome, perché in questo nome, Gesù, ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua confessi (exomologêsêtai) “Gesù Cristo – Signore” a gloria di Dio Padre» (vv. 8‑11). Alla

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kenosi (v. 7) che sacrifica il dono dell’uguaglianza con Dio risponde la «grazia» che ri-dona (perdono) il nome di Signore (Kyrios), cioè il nome stesso del Padre; l’uno e l’altro momento (sacrificio e perdono) si realizzano nella stessa e unica «obbedienza». La «gloria» di Dio corrisponde al fatto che la doppia ridondanza del dono è fatta nell’unica «obbedienza», detto altrimenti nell’unica comunione. Pertanto, la ridondanza del dono struttura l’intero inno di Fil 2,6‑11, ma più in particolare due suoi termini: la kenosi e l’obbedienza consistono innanzitutto nel non ritenere il dono come un bene da possedere e difendere (arpagmon), ma come qualcosa da mettere tra parentesi perché appaia la grazia che lo (ri)dona e, inoltre, questo bene (donato, sacrificato e ri-­donato) consiste a essere o, più precisamente, a «essereuguale-a-Dio». Questi due punti devono essere esaminati nel dettaglio.

Uguale a Dio Che cosa significa einai isa theô? Consideriamo innanzitutto einai in quanto tale: l’uso all’infinito è estremamente raro nel Nuovo Testamento3, la maggior parte delle volte ha ancora 3.  Per questo esame ci siamo affidati a K. Aland et alii, Vollständige Konkordanz zum griechischen Neuen Testament, De Gruyter, Berlin-New York 1983, pp. 323-324. D’altro canto, non ci si può appoggiare su ciò che comunque resta uno dei rari tentativi di studiare einai in questo contesto, L. McGaughy, Toward a Descriptive Analysis of ειναι as a Linking Verb in New Testament Greek, University of Montana Press, Missoula 1972; come indica il titolo, si tratta solo dell’uso del verbo come copula, mentre l’occorrenza di Fil 2,6, to eina isa theô, indica la posizione assoluta, in senso “esistenziale” e verbale, confermata da un’espressione dal valore avverbiale, to einai isa theô.

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funzione di copula: «essere senza alcun motivo di scusa – to einai autous anapologêtous» (Rm 2,1) o «risultare giusto – einai dikaion» (Rm 3,26)4 e, quando si tratta della posizione, il verbo è coniugato: «in lui [sc. Dio] infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (esmen)» (At 17,28)5. Talvolta si trova la forma all’infinito: «prima che il mondo fosse – pro ton kosmon einai» (Gv 17,5), «dice di essere nella luce – legôn en phôti einai» (1Gv 2,9), ma anche con valore di copula: «è bello per noi essere qui – kalon estin hêmas ôde einai» (Mt 17,4 = Mc 9,5) o «la gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? – tina […] einai» (Mt 16,13 e 15). L’occorrenza di Fil 2,6 risulta tanto più significativa perché essa, probabilmente unica, rinforza la posizione assoluta dell’infinito, anzitutto tramite l’articolo to einai, poi con la locuzione avverbiale isa theô – il fatto di essere uguale a Dio. Si tratta del fatto di essere in senso assoluto (donde le due occorrenze di huparkhein), ma anche di un modo d’essere molto particolare, che consiste nel rivendicare di essere-uguale-a-Dio. Questo modo d’essere si ritrova solo in qualche altro raro testo; così, Eracle è onorato del titolo di «uguale agli dèi – isa thois», ma Filone ritiene che questa pretesa contrassegni un uomo «che ama [troppo] sé stesso e ateo»6. Ma non è pro4. Cfr. Rm 4,11; Rm 4,16; Rm 8,29: einai auton prôtotokon; Rm 15,16: to einai me leitourgon Christou; cfr. 1Cor 10,6; Ef 1,12; Fil 1,23; ecc. 5.  Cfr. 1Cor 15,12: «non vi è (ouk estin) resurrezione» (ma la posizione assoluta anastasis mê einai in Mt 22,23; Mc 12,18 e At 28,8). Certamente anche l’opposto «[Dio] è, estin» (Eb 11,6), e «ho ôn epi pantôn theos» (Rm 9,5), o «ho ôn» (Ap 1,4; 1,8; 4,8; 11,17 e 16,5). 6.  «Vieni, come un dio ti onoreranno gli Achei – son gar se theôi » (Iliade, IX, v. 603), ugualmente Castore e Polluce «onore come gli dèi hanno in sorte, isa theoisi» (Odissea, XI, v. 304) o Eurimaco «a cui gli Itacesi ora guardano come a un dio, isa theô » (Odissea, XV, v. 520); Filone, tuttavia, denuncia che «l’intelletto amante di sé e ateo è quello che ritiene di essere uguale a Dio, isos einai theô» (Filone d’Alessandria, Legum allegoriae; tr, it., Le allegorie delle leggi, in Id., La filosofia mosaica. La creazione del mondo secondo Mosè. Le allegorie delle leggi, Rusconi, Milano 1987, pp. 97-230: I,XV, p. 128). Cfr.

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prio questa uguaglianza con Dio a essere costantemente rivendicata da Gesù, «io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)? Cristo non è stato accusato proprio di appropriarsi del rango di Dio? Si è cercato di ucciderlo proprio «per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio – su anthrôpos ôn poieis seauton theon» (Gv 10,33), per un crimine che viene formulato quasi negli stessi (e rari) termini utilizzati in Fil 2,7: «per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio – ison heauton poiôn tô theô» (Gv 5,18). D’altra parte, ci si può stupire per il fatto che la scienza esegetica non sottolinei questa vicinanza, che tuttavia è evidente: tutto succede (nonostante le supposte incompatibilità dei dati) come se l’inno di Filippesi rispondesse letteralmente all’accusa mossa contro Gesù – confutandola, dal momento che è indiscutibile il fatto che Cristo abbia proclamato di essere su un piano di uguaglianza con il Padre, di essere Dio: «noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Dio (oti uion theou heauton epoiêsen)» (Gv 19,7). Sempre e in ogni luogo non si tratta d’altro che di questa pretesa: «tutto è stato dato a me dal Padre» (Mt 11,27 = Lc 10,22) e «ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”» (Mt 27,43) o «le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”» (Gv 4,26, cfr. Gv 4,42), ancora: «io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,10, che conferma Gv 10,30). L’accusa è decisamente valida, il crimine è stabilito, tuttavia la condanna si rivela ingiusta. La ragione si trova nel fatto che la questione non consiste nel conoscere se Cristo sia Figlio di Dio e «uno» con il Padre, ma di sapere come si trovi su questo piano d’uguaglianza con Dio: W.A. Meeks, Equal to God, in R.T. Forton - B.R. Gaventa (eds.), The Conversation continues. Studies in Paul and John. In Honor of J. Louis Martyn, Abington Press, Nashville 1990, pp. 309-321, che tra gli altri cita Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 14.

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tutto dipende dal modo. Gli accusatori del Tempio, gli scribi e i farisei comprendono questo modo solo secondo la loro modalità di comprendere ciò che si è – come una presa di possesso, un possesso da trattenere e soprattutto da mantenere, un’appropriazione all’occorrenza violenta e in ogni caso rivendicativa; in breve, come un’appropriazione tramite la gelosia (verso Dio), che suppone un Dio a propria volta geloso, secondo le modalità della tentazione diabolica: «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste [del frutto dell’albero] si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3,4). D’altronde, quando i suoi antagonisti rivendicano alto e forte il loro essere «discendenti di Abramo», Cristo gli rimprovera non solo di intendere tale rivendicazione come una «ricerca di gloria», ma soprattutto di farne un possesso di origine diabolica: «voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri (epithumias) del padre vostro» (Gv 8,33; Gv 8,50 e Gv 8,44). I suoi avversari interpretano del tutto naturalmente la rivendicazione che Cristo fa della filiazione divina allo stesso modo di come intendono il loro discendere da Abramo – come una presa di possesso e mai come un dono, che appare tanto più quanto più ci si lascia da esso espropriare7.

7.  Questo fraintendimento si ritrova, per un certo verso ancor più chiaramente, con i discepoli, perché pensano come pensano tutti gli uomini: se Gesù è Cristo, il Santo di Dio, e loro ne sono i discepoli, si pone subito la questione di sapere ciò che possederanno, cosa che ritengono coincidere soltanto con un’appropriazione da rivendicare, un privilegio da possedere. Donde la questione lancinante, inizialmente posta da una madre possessiva, che voleva promuovere la carriera dei propri figli (Mt 20,20‑21), ripresa parecchie volte tra tutti gli interessati come «discussione (dialogismos)», se non come «negazione (philoneikia)» (Lc 9,46 e Lc 22,24): «in quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”» (Mt 18,1); o ancora: «quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,33‑34). I discepoli si considerano spontaneamente come i «re delle

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Essere per possesso, essere per espropriazione Pertanto, la questione si trasforma: per capire l’unica occorrenza di to einai isa theô bisogna comprenderla opponendola a ciò che significa per gli avversari di Cristo, cioè un possesso tramite l’appropriazione caratterizzata da gelosia. Ora, l’inno di Filippesi riconosce con molta precisione ciò che, nel caso di Cristo e del suo modo d’essere, del suo to einai, non significa l’uguaglianza con Dio. Per dirlo utilizza il termine significativo ma enigmatico harpagmon, che nelle Scritture ricorre solo qui e nella grecità è assai raro. Appoggiandosi a due altri sostantivi neotestamentari, harpax (il rapitore) e harpagé (la preda, il bottino) e sul verbo harpazein (impadronirsi, rapire) ci si può avvicinare a una traduzione verosimile: può trattarsi positivamente di strapparsi dalle fiamme (Gd 23), di un rapimento che porta al cielo Paolo (2Cor 12,2) o i fedeli (1Ts 4,17) o il bambino minacciato alla nascita dalla Bestia (Ap 12,5), oppure della sottrazione di Filippo dagli sguardi dell’eunuco (At 8,39). Negativamente, può anche trattarsi di impadronirsi di Gesù per farlo re (Gv 6,15) o di Paolo per metterlo in prigione (At 23,10). Nella maggior parte delle occorrenze si tratta però di una spoliazione (Eb 10,34), di lupi rapaci (Mt 7,15, cfr. Lc 10,12), della cupidigia dei malvagi (1Cor 5,10; 1Cor 6,10; Lc 18,11), del ladro (Mt 12,29), di colui che si impadronisce di ciò che è stato seminato (Mt 13,19), di «avidità e intemperanza, harpagé kai akrasia» (Mt 23,25) o di «avidità e cattiveria, harpagé kai ponêria» dei Farisei (Lc 11,39). Quale che sia la mira ultima della formula «il regno dei cieli subisce violenza», è chiaro in ogni caso che «i violenti se ne impadroniscono (harpazousin)» (Mt 11,12). L’harpagmon designa dunque ciò di cui ci si impadronisce con la violenza, per possederlo e pernazioni» che le «governano» e «coloro che hanno potere (exousiazontes) su di esse sono chiamati benefattori» (Lc 22,25). Anch’essi vogliono potere da possedere.

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severare nel possesso tanto a lungo quanto se ne avrà la forza. Quindi, non si tratta semplicemente di una «usurpazione» che può essere fatta solo con la forza, né si tratta di «procacciare», perché il possesso è già bello che acquisito, né di «conservare gelosamente» ciò che è omesso dal primo gesto, cioè l’appropriazione violenta8. Qui risiede il motivo del dissidio: per gli avversari di Gesù si tratta di possedere il suo rango, cioè – per loro – la discendenza di Abramo con i privilegi che vi sono legati; per i discepoli si tratta di possedere i posti di potere nel Regno a venire, con i privilegi che vi afferiscono; per gli uni come per gli altri per Cristo non potrebbe andare diversamente, si immaginano che egli possieda la filiazione che lo eguaglia al Padre con i privilegi corrispondenti. Gesù considererebbe questa filiazione come un possesso, se non da rapinare, almeno da conservare e difendere – come senza dubbio farebbero loro, se potessero. Per risolvere questo conflitto delle interpretazioni alla sua acme, proprio discutendo con i discepoli relativamente al loro rango nel Regno dei cieli, Cristo pone il principio contrario: «chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4), d’altronde in questa occasione usa il verbo preciso «umiliarsi (tapeinôsei)», che nell’inno viene applicato a lui («abbassare se stesso, etapeinôsen eauton») (Fil 2,8). Non solo «se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti» (Mc 9,35), ma l’inversione dei valori esige un abbassamento radicale, che comincerà a realizzarsi, tra le varie azioni, alla lavanda dei piedi: «capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,12-14). Così, il primato nel Regno di 8.  Rispettivamente le traduzioni di Lemaître de Sacy, Vigouroux e della TOB; cfr. la voce άρπαγμός di W. Bauer - F.W. Danker, op. cit., pp. 133-134.

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Dio non risiede nel possesso, ma nell’espropriazione, non nella conservazione, ma nell’abbandono (la ridondanza del dono tramite il sacrificio). Al punto che qui, al principio di conservazione (metafisica) del suo essere tramite ogni ente (conatus in suo esse perseverandi), un principio che mette effettivamente in atto il principio di non contraddizione (nessuna cosa può differire da se stessa), si oppone ciò che si potrebbe chiamare principio della contraddizione di sé: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso (haparnêsasthô heauton), prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare (sôsai) la propria vita, la perderà (apolesei); ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà»9. Per salvare e quindi per ritrovarsi eventualmente salvati, conviene proprio non tentare di salvarsi a ogni costo, contrariamente al parere istintivo di coloro che sfidano Cristo in croce perché scenda: «salva te stesso (sôson seauton)» (Mt 27,40 e Mc 15,31). Salvare se stessi – ecco principalmente ciò che sulla croce Cristo non dove tentare di fare, perché doveva manifestare che qualunque resurrezione proviene solo dal Padre, che ha creato de nihilo. Il salvatore non è colui che si salva, ma colui tramite il quale altri sono salvati e anche colui che viene salvato da un altro, in questo caso il Padre. Gesù, colui che salva, ha salvato altri solo perché, salvandoli, non ha fatto la sua volontà, ma quella del Padre, al quale si è rimesso; detto altrimenti: perché salvando gli altri non ha innanzitutto o in sovrappiù salvato se stesso, ma ha reso testimonianza al Regno che viene e ai segni che l’accompagnano. Colui che fu salvato e permette di salvare gli altri appare come colui che non ha voluto salvarsi da sé, conservando il possesso del suo 9.  Mt 16,24‑25; cfr. Mt 10,38; Mc 8,34‑35 e Lc 9,24. È da notare che qui si tratta della stessa imitatio Christi di Fil 2,5 e che «rinnegare (aparnêsasthô heauton) se stesso» corrisponde a «svuotò se stesso, eauton ekenosên» (Fil 2,7) o a «abbassò se stesso, etapeinôsen eauton» (Fil 2,8).

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essere ma che «offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo (to dunamenon sôzein auton) da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito (exakoustheis). Pur essendo Figlio, imparò da ciò che patì (emathen aph’ôn epathen) l’obbedienza (upakoên) e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (tois hupakouousin)» (Eb 5,7). Cosa significa qui obbedienza? In greco equivale all’ascolto dell’appello, quindi alla ricezione del dono. La salvezza adviene come un dono, ricevuta come tale (per ridondanza del dono, sacrificio), non posseduta con la violenza dell’appropriazione10. Si può quindi arrivare fino a «odiare la propria anima – misei […] tên psuchên eautou» (Lc 14,26 e Lc 17,33) o «chi odia la propria anima in questo mondo la conserverà per la vita eterna – ho misôn tên psuchên autou entô kosmô eis zôên aiônion phulaxei autên» (Gv 12,25). A condizione di non confondere l’«io odioso» con il risentimento dato dall’odio di sé, ma di concepirlo come l’opposto dell’amore di sé, fino al disprezzo di Dio. Amare Dio fino al disprezzo di sé – fino a lasciare a Dio la cura di sé. Davanti a Dio sono più responsabile di mio fratello che di me stesso. Infatti, posso fare molto per salvare il fratello, ma nulla per salvarmi – niente, se non attendere che lo faccia Dio. Transitare verso l’anamorfosi, non verso l’altrove ma a partire da esso. Si può così comprendere la frase «si manifesta proprio con la discesa fino all’infermità della nostra natu-

10.  Per osare correggere questo versetto aggiungendovi una negazione (ouk) bisogna supporre – come Harnack – che l’obbedienza non fu esaudita. Qui la scienza esegetica obbedirebbe alla logica della metafisica. Al contrario, Paolo concepisce l’obbedienza esattamente come principio di interpretazione (Rm 5,19; 2Cor 2,9; 2Cor 7,15) che rovescia i modi d’essere: «distruggendo i ragionamenti (logismous) e ogni arroganza (upsôma) che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza (pan noêma) [per condurla] all’obbedienza (eis upakooên) di Cristo» (2Cor 10,5).

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ra, per cui ciò che è eccelso si realizza in ciò che è basso e in esso si manifesta senza discendere dalla propria elevatezza»11. Rinunciare a salvarsi diventa la condizione stessa e l’unica condizione per ricevere la salvezza. La conquista della propria salvezza tramite se stessi, come d’altronde qualsiasi presa di possesso per autoappropriazione, maschera – è la sua tara e il suo fallimento originario – il fatto che l’essenza della salvezza consiste nel dono, nel fatto che avviene, almeno se viene a me da altrove rispetto a me. Questo dono può avvenire solo se può lasciarsi ricevere dal suo destinatario; quindi solo se l’eventuale destinatario ha rinunciato all’illusione mortale di produrlo da sé. La salvezza non può che venire da altrove, venire a me come un dono; suppone dunque che le abbia abbandonato la possibilità e la cura di avvenirmi. Posso ricevere solo ciò che non possiedo, non produco, non conservo. Non posso ricevere che nella misura in cui abbandono il potere su ciò che ricevo e rimetto al dono stesso la misura della salvezza; di conseguenza si può ricevere il dono solo nella misura dell’abbandono che gli consente colui che lo riceve – che lo riceve proprio come ciò che non possiede, ma gli avviene come da altrove. Senza che advenga nella possibilità non arriva nessun dono; la possibilità apre l’attesa, permette la ricezione e quindi anche la decezione; suppone che io mi esponga e non la rinchiuda tramite la mia presa di possesso, la mia pretesa di possesso (harpagmon). Il dono dona e non domanda nulla – se non di abbandonarvisi. L’abbandono alla possibilità del dono definisce l’unica misura per ricezione del dono: secondo la misura di Cristo che «si è svuotato di lui stesso», «si è abbassato» – cioè si è abbandonato alla possibilità al punto da esporsi tre volte, innanzitutto all’umanità («prendendo la forma di servo, passando nella figura

11.  Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2016, XXIV, p. 273 [PG 45, c. 65].

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d’uomo»), poi all’obbedienza («si è fatto obbediente fino alla morta»), infine alla croce («alla morte di croce») –, il suo abbandono totale ha aperto lo spazio di un dono immenso: «Dio l’ha esaltato e gli ha fatto la grazia (echarisato) del nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9). Ciò che si possiede si perde con colui che se ne è appropriato, perché ciò che non finisce in qualcosa di donato – e di donato ricevuto – si perde con il suo possessore. Solo ciò che è donato è salvo. Salvato da colui che lo dona in favore di colui che lo riceve nella misura in cui vi si abbandona. Attraverso la morte di Cristo si rivela – fino nell’abisso che scava al fondo del mondo lo spessore fossile del peccato – il principio che tutto si perde salvo ciò che viene donato; che niente sopravvive se non si trasforma in dono; che solo il dono salva dall’abbandono perché solo il dono fa dell’abbandono la condizione paradossale del dono. Cristo in croce prova, per sempre, che solo colui che conserva la propria anima la perde, che colui che la abbandona la salva.

Essere a partire dall’altrove Questo rovesciamento del modo d’essere, più esattamente del modo in cui l’essere (qui to einai) adviene, nel caso della kenosi di Cristo può essere inteso come una presa di posizione sulla “questione dell’essere”? Lo spossessamento nei confronti di to einai, come quello compiuto da Cristo, può seriamente riguardare ciò che la metafisica concepisce come l’essere dell’ente, se non addirittura ciò che l’Ereignis raggiunge al di là dell’essere? Non riuscendo a rispondere direttamente a questa questione, ci troviamo almeno nella posizione di poterla intendere da altrove, quindi di sostenere che la questione della differenza ontologica non dipende dall’essere, ma dal dono: infatti, così come il nascondimento del tramandamento (Überkommnis)

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dell’essere tramite la venuta (Ankunft) dell’ente, si concepisce tramite la logica del dono (es gibt), allo stesso modo anche la piena liberazione della logica della donazione si produce solo tramite la ridondanza del dono12. Ripreso economicamente nel modello fenomenico della Trinità, il dono dispensa l’essere perché lo precede e quindi se ne dispensa. Del resto, la differenza detta (supposta) ontologica dell’ente con l’essere non può pensarsi, ancor meno dispensarsi né illuminarsi a partire da se stessa. Infatti, per una conseguenza cui obbliga la definizione dell’ente nel suo essere (dell’entità) come presenza persistente (Kant diceva Beharrlichkeit), questo ente maschera e nasconde l’essere; così l’essere scompare dalla scena del visibile, come di fatto è stato confermato dal destino della metafisica. Al livello dell’essere dell’ente, così come esso è colto dal «livello della ragione», l’ente bandisce l’essere perché, più originariamente, il dono censura la donazione. Rispondere alla “questione dell’essere” quindi non riguarda più l’essere né l’ente d(on)a­to come tale, ma ormai richiede che l’ente si privi della visibilità di cui si impadronisce; innanzitutto, dunque, richiede che il dono abbandoni la sua evidenza e la renda al processo di donazione. A suo modo Schelling l’aveva ben più che intravvisto: se Dio, come Figlio, si rivela «Signore dell’essere», lo può fare non perché se ne impadronisce (come ogni ente banalmente vorrebbe), ma perché se ne disfa13. Se ne disfa in modo tale e al fine che un tale essere appaia finalmente come ciò che è, nella «piena creaturizzazione di questo essere, in quanto esso è extradivino»14. È necessario niente di meno 12.  Su questo punto altre analisi sono contenute in J.-L. Marion, Dieu et l’ambivalence de l’être, in «Transversalités. Revue de l’Institut Catholique de Paris», n. 125, 2013, pp. 149-173; tr. it., Dio e l’ambivalenza dell’essere, in J.-L. Marion - É. Tardivel, Fenomenologia del dono, cit., pp. 15-42. 13.  F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., Lezione VII, p. 207. 14.  Ivi, Lezione XXX, p. 1173.

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che «rinunciare alla Signoria (entherrlichen) di questo essere, abbassarsi» – e non (come pensa Schelling) «in rapporto a uno ancora più alto»15, ma perché al di sotto dell’essere non si trova alcun altro essere, nessuna altra maniera d’essere, se non la ridondanza trinitaria del dono senza essere. Bisogna «designoreggiare l’essere» perché è opportuno denunciare la sua irriducibile finitezza. La finitezza dell’essere lo destina alla finitezza dell’uomo e quindi si cancella davanti all’infinito santo di Dio. Il Figlio si svuota del suo essere, dell’essere (to einai) affinché «l’essere si spogli della sua divinità»16 e la santità di Dio si liberi dall’essere. La kenosi – altrimenti detta la messa tra parentesi dell’«essere uguale a Dio, to einai isa theô» – non ha altro scopo e significato che manifestare che il Figlio può liberamente rinunciare alla sua divinità (ed eventualmente conservare il possesso del suo essere di ente) e di rivelare che non deve la sua filiazione divina né al suo essere, né all’essere (to einai), né al benché minimo possesso (harpagmon) o persistenza legati alla sua sostanza (ousia), ma alla ridondanza trinitaria del dono paterno. Per attestare che il Padre gli dona tutto, il Figlio non ricorre all’essere – l’essere non può letteralmente niente – ma all’«iperbole del dono di grazia (tên hyperballousan kharin) di Dio» (2Cor 9,14). La kenosi svuota il Figlio del suo essere, mette tra parentesi fino all’Essere, al fine di manifestare che solo la grazia dona – e con ridondanza – il rango che lo eguaglia a Dio. Il Figlio s-copre che

15.  Ivi, Lezione XXX, p. 1165. 16.  Ivi, Lezione XXXI, p. 1234. Il limite della corretta e potente impresa schellinghiana, caratterizzata dall’intento di rompere la totalità hegeliana, risiede essenzialmente nel fatto di volersi mantenere ancora nell’orbe dell’essere (certo un essere supposto superiore, divino o libero), che presumibilmente oltrepasserebbe l’essere inteso dalla “filosofia negativa”, cioè la metaphysica. Egli non oltrepassa la frontiera: ciò che oltrepassa l’essere che intendiamo e sperimentiamo non si chiama un altro essere, ma altrimenti che l’essere.

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il suo essere uguale a Dio gli viene da altrove; a lui, come primogenito di tutta la filiazione, poi a tutti; ma sempre da altrove.

Il rovescio dell’ente Ne segue una determinazione rovesciata dell’ente: esso non trova il suo sito nel proprio essere, né nell’essere ma ormai si situa nello sguardo di Dio. L’ente si scopre sempre qualificato e sovradeterminato teologicamente. Per ogni ente la questione ultima (o prima) non riguarda se è o non è, ma come e in quale modo ciò che è (o non è) si s-copra alla luce di Dio. Numerose occorrenze dell’«ente, on» contraddistinguono questo nuovo corso, dove il qualificativo teologico si aggiunge al participio presente e quasi sostantivo ente, di fatto diviene il sostantivo. Così «ponêroi ontes, che siete cattivi» indica dei cattivi, che tali sono (Mt 7,11); «amartalôn ontôn, essendo peccatori» designa innanzitutto un peccatore, che lo è (Rm 5,8); «eravamo nemici, ekhthroi ontes» identifica dei nemici, che si trovano a essere tali (Rm 5,10); coloro che si dice «kata sarka/en sarki ontes, sono secondo/nella carne» si segnalano come agenti secondo la logica del mondo ed essenti al suo interno (Rm 8,5; Rm 8,8). Al contrario, se «chi non è con me è contro di me, ho mê ôn met’emou kat’emou estin» (Mt 12,30 = Lc 11,23) non riguarda ciò che lo definisce e la sua entità, ma innanzitutto la sua decisione a riguardo di Gesù. L’entità diviene indifferente quando si tratta di s-coprire «ho ôn ex tou theou, chi è da Dio» (Gv 8,47) o «ho ôn ek thês alêtheias, chiunque è dalla verità» (Gv 18,37). L’aggettivo qualifica più del participio sostantivato d’essere; “essere” diventa l’aggettivo, l’aggiunto, il legato della qualificazione, originariamente teologica. La neutralizzazione dell’essere e dell’ente (to einai, to on) viene confermata dall’uso di ousia e dei suoi derivati e composti.

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Non è ora il caso di ritornare sull’unico uso neotestamentario di ousia, già analizzato (Lc 15,12-13)17 – se non per segnalare che si tratta di un bene fondiario, di un fondo terriero da possedere, senso che sussiste nella sostanza (ousia prôtê) di Aristotele come prima determinazione dell’ente. Quando il figlio minore la reclama come sua parte di eredità e il padre gliela dona «realizzandola» in moneta sonante, la spende subito e la perde. Qui la perdita non riguarda tanto la vita dissipata del figlio, quanto piuttosto la sua presa di possesso: la sostanza (ousia), contrariamente alle attese e alle apparenze, nel tempo non tiene, non permette di persistere nella presenza e neppure di restare in vita. La perdita pura e semplice, il suo detrimento e annullamento, risultano dall’illusione che essere un ente da possedere possa salvare. Infine, ciò che importa, ciò che restituisce la vita al figlio perduto, non proverrà da un altro possesso, né da un’altra ousia, ma dal perdono, cioè dalla ridondanza del dono, dove il padre gli restituisce non questa ousia, ma il rango di figlio. Il figlio non ha mai potuto contare sull’ousia, semplicemente perché essa non conta nulla, è illusoria perché indifferente. Al contrario è da notare l’estraneità, più discreta ma non meno significativa, della parousia. Talvolta Paolo la usa nel senso corrente di presenza fisica di qualcuno (quella di Stefano, 1Cor 16,17; di Tito, 2Cor 7,6; la sua, 2Cor 10,10‑11), ma almeno una volta la specifica: «quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente, ma molto più ora nella mia assenza (mê ôs en tê parousia mou monon, alla nun en tê apousia mou)» (Fil 2,12). Si vede chiaramente che l’assenza (apousia) produce o può produrre più obbedienza della presenza (parousia) e quindi l’immediata insistenza sull’ousia (perché nella parousia si tratta proprio di ciò) non solo non fa sempre effetto (gli incontri di Paolo con i 17.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., cap. III, § 4, pp. 113 ss. e Id., Certezze negative, cap. IV, § 24, pp. 208 ss.

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Corinzi ne furono la prova tangibile), ma può fare meno effetto dell’assenza; non si tratta di un aneddoto trascurabile, ma della definizione dell’autorità e di una constatazione utile per tutti gli apostoli. Quanto all’uso della parousia per evocare la presenza escatologica del Signore risorto che ritorna nella gloria, interviene sempre e per definizione secondo la modalità dell’assenza ora, come ciò che la «speranza» (1Ts 2,19) attende e ciò che richiede che si diventi «irreprensibili» (1Ts 5,23). Infatti, la parousia dipende solo da Dio: «lo splendore della sua parousia» (2Ts 2,8) metterà fine al regno dell’«empio, o anomos». Quindi anche la parousia di Dio e soprattutto lei si sottrae a qualunque presenza sussistente e persistente dell’ente nel suo essere, ma sorge (o sorgerà) come una «folgore, astrapê» che brilla da Oriente in Occidente (Mt 24,27), né presente né assente, ma adveniente18. Qui, alla presenza persistente dell’ente si sostituisce il raggio (secondo un’immagine già prediletta da Nietzsche)19, cioè un evento senza ousia. La questione, quindi, non è essere o non essere, perché la differenza tra i due stati d’essere si annulla davanti a un’altra differenza, il riconoscimento o meno della donazione del dono e della sua ridondanza. Non si tratta di privilegiare sommariamente l’essere contro l’avere (o il contrario), né di giocare a lascia o raddoppia il non essere contro l’essere, ma di misurare la vanità del criterio d’essere (o non essere) davanti 18.  Altri termini connessi confermerebbero la squalifica della presenza persistente dell’ente nel suo essere. Così il pane epiousios (Mt 6,11; Lc 11,3), che è allo stesso tempo quotidiano e dato di giorno in giorno, di modo che non si possa farlo durare, né se ne possa conservare il possesso; superessentialis, se si vuole, ma nel senso di ciò che supera l’essenza. Pertanto, non c’è exousia «se non da Dio», perché tutte le exousiai come «ente (ousai) sono stabilite da Dio (hupo theou tetagmenai eisin)» (Rm 13,1); esse sono e il loro essere si trova nella condizione di Dio. 19.  F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 2 [84], p. 92; cfr. il commento offerto in J.-L. Marion, Certezze negative, cit., V, § 27, pp. 242 ss.

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alla s-coperta dell’iperbole della carità; mancare «il mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3) fa apparire ogni cosa, ricca o miserabile poco importa, come una mancanza, quindi un possesso in pura perdita. Porre la propria vita sotto il regime dell’essere, del possesso persistente di un ente presente o della ricerca ossessiva di un ente assente, equivale a svenderla: «quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero (kerdêsas ton kosmon olon), ma perderà la propria vita (zêmioôtheis)?» (Mt 16,26, cfr. Lc 9,25). In un argomento che segue da vicino l’inno della Lettera ai Filippesi, Paolo applica a sé la logica manifestata dalla kenosi, identificando molto esplicitamente ciò di cui essa si spoglia con la perdita, dal momento che la kenosi consiste in una perdita della perdita, una liberazione di ciò che fa perdere la s-coperta del «mistero della carità», cioè di ciò che è nel suo essere: «ma queste cose, che per me erano guadagni (hên moi kerdê), io le ho considerate una perdita (zêmia) a motivo di Cristo (dia ton Christon). Anzi, ritengo tutte le cose che sono essere una perdita (panta zêmian einai) a motivo dell’eccesso (huperekhon) della conoscenza [di e tramite] Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere (ezêmiôthên) tutte queste cose e le considero spazzatura (skubala), per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui» (Fil 3,7‑9). Anche l’essere (metaphysica generalis?), insieme a tutti gli enti e con la totalità dell’ente (metaphysica specialis?), diventa spazzatura, una perdita rispetto a trovarsi nel dono, o piuttosto nell’eccesso (huperekhon) della ridondanza del dono.

Altrove rispetto all’essere L’Essere come spazzatura? Paolo non esagera, non è in errore, e perdipiù anticipa Nietzsche che, prendendo atto del fatto

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che l’ente (ens) è stato definito tramite il concetto ed esclusivamente come ciò che il concetto concepisce senza contraddizione, secondo la misura finita della sua definizione, constata che in questo stato d’essere l’ente si riduce al puro e semplice pensabile (cogitabile)20. A proposito dell’ente, seguendo questo essere (il solo conosciuto), Nietzsche (dopo alcuni altri, tra cui Hegel) riconosce l’«inganno dell’essere (Täuschung des Seienden)»21. Questo ente, pensato come puro pensabile, non pensa più niente dell’essere, dell’essere che si mette da parte da sé, riducendosi a «idolo», a scarto di sé; così accade con «i “concetti sommi”, cioè i concetti più generali e più vuoti, l’ultimo fumo della svaporante realtà (letzten Rauch der verdunstenden Realität)»22. Quest’ultimo respiro, dove la metafisica espira tutto ciò che gli rimane d’essere e dell’essere – come confermato con uno splendore funereo dalla sua condizione contemporanea – si esaurisce per averlo voluto conquistare apprendendolo come un bottino da possedere, conservare e riprodurre. La metafisica ha perso e sconfitto l’essere, la sussistenza persistente nella presenza, come visto perfettamente da Nietzsche: «al rappresentare appartiene il mutamento, non il movimento: sì il perire e il nascere; e nel rappresentare 20.  Su questo punto, ancora una volta, cfr. J. Clauberg, Metaphysica de ente, quae rectius Ontosophia, cit., I,II, § 6, p. 285: «ens est quicquid quovis modo est, cogitari ac dici potest – l’essere è tutto ciò che in qualsiasi modo può essere pensato e detto» e «nam eo ipso quo quid apprehendimus, jam est intelligibile, et per consequens Ens in prima significatione – per il fatto stesso che abbiamo appreso qualcosa, ciò è già intelligibile e di conseguenza Essere nel primo significato» (ivi, § 10). 21.  F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente; tr. it., Frammenti postumi 18871888, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano 1971, 9 [89], p. 41 (tr. mod.), non semplicemente illusione, ma inganno. 22.  F. Nietzsche, Götzendämmerung; tr. it., Il crepuscolo degli idoli, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano 1970, p. 71. Questa diagnosi del concetto (metafisico) di essere si ritrova letteralmente in apertura di M. Heidegger, Essere e tempo, cit.

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stesso manca ogni elemento permanente (des Beharrendes). Al contrario, esso pone due elementi permanenti (zwei Beharrende), crede al permanere (Beharren) 1) di un io, 2) di un contenuto»23. Detto altrimenti: l’illusione di essere come ciò che resta-persistendo riposa sull’illusione che l’io possa persistere e che possa fare lo stesso anche la cosa conosciuta. Paolo denuncia brevemente e con chiarezza queste due illusioni. Alla rappresentazione, cioè a ciò che l’uomo crede di possedere pensandolo, manca la persistenza dell’Io: «se infatti uno pensa di essere qualcosa (dokei einai ti), mentre non è nulla (mêden ôn), inganna se stesso» (Gal 6,3). Il mio pensiero non è sufficiente a pensare da sé, ma pensa ciò che riceve da pensare; pensa da altrove: «non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa (ikanoi esmen logisasthai ti) come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio (hê ikanotês hêmôn ek tou theou)» (2Cor 3,5)24. Più ancora: poiché non pensa a partire da sé, il pensiero dell’Io non può pensarsi. Nessuno ottiene la propria conoscenza, né l’esistenza, solo tramite il proprio pensiero: «per grazia di Dio, però, sono quello che sono, khariti theou eimi ho eimi» (1Cor 15,10). L’anamorfosi sposta l’Io dall’approccio di sé, non può ottenersi come una presenza identica a sé, dove persevererebbe in sé, ma adviene solo da altrove. Detto altrimenti, «ti basta la mia grazia» (2Cor 12,9). Riguardo al contenuto, chi non si dissipa come l’ousia del figlio perduto e perdente, può tenersi e donare quel che sia solo se anch’egli viene donato da altrove. Non solo perché ciò che non è donato è perduto, ma perché nulla può apparire a meno che non venga ricevuto: «che cosa possiedi che tu non 23.  F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente; tr. it., Frammenti postumi 18811882, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, Adelphi, Milano 1965, p. 286. 24.  A ciò si può unire «se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere» (1Cor 8,2).

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l’abbia ricevuto? ti ekheis ho ouk elabês» (1Cor 4,7); «nessuno può prendersi (lambanei) qualcosa se non gli è stata data (dedômenon) dal cielo» (Gv 3,27). Questi paradossi si possono ammettere solo se vengono ricevuti, ma è ragionevole riceverli solo concependoli a partire da altrove rispetto all’essere, cosa che consiste nel non ricevere, ma nel mantenersi nella presenza persistente. Questo altrove deve quindi provenire dal fuori dell’essere, dal sito dove la differenza tra ciò che è e ciò che non è non ha più nulla di decisivo né di evidente. Questo sito ha un solo nome, che da sempre conosciamo di nome ma rifiutiamo dal fondo del cuore – da «Dio che dà vita ai morti e chiama i non-enti come enti – theou tou zôopoiountos tous nekrous kai kalountos ta mê onta ôs onta» (Rm 4,17)25. Forse, alla fine, pensiamo tutti come Parmenide: «bisogna dire e pensare l’essere essente: è dato infatti essere, mentre il nulla non è – Krê to legein te noien t’eon emmenai; esti gar einai mêden d’ouk estin» (Frammento VI). E tuttavia, potrebbe darsi che sia vero anche che «[Dio ha scelto] i non enti per ridurre al nulla gli enti – ta mê onta ina ta onta katergêsê» (1Cor 1,28). Bisogna pensare l’ente da altrove rispetto all’essere.

25.  Cfr. H.A. Meyer, Kritischer exegetischer Kommentar über das Neue Testament, Bd. II/4, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1836, pp. 102 ss., che sottolinea che è «una caratteristica costante di Dio» quella di considerare, tramite la sua parola, ciò che non esiste come se esistesse, «sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32,39); «il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1Sam 2,6, cfr. Tob 13,2) «tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte» (Sap 16,13) e soprattutto «come il Padre rialza (egeirei, ri-suscita) i morti e dà la vita (zôopoiei), così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (Gv 5,21).

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20 Il tempo messo allo scoperto da altrove

L’indagine era iniziata con la ricerca di ciò che potrei trattenere, conservandolo come un punto fermo e stabile nello spazio, nel flusso incessante di ciò che procede trasportandomi e superandomi; sarebbe quindi un punto che resta indimenticabile nella corrente della coscienza. L’indimenticabile si è subito imposto come figura, quantomeno abbozzata, di ciò che si rivela e dunque la rivelazione si è scoperta temporalmente (supra, cap. 1). Resta ora da vedere a partire da quale presente e quindi da quale temporalità lo faccia. Inoltre, fin da quando si è tentato di precisare l’uso teologico della Rivelazione, alcuni tratti fondamentali (il testimone, la resistenza, il paradosso) hanno segnalato lo scarto fenomenico tra ciò che si dà e ciò che si mostra. Infatti, se tutto ciò che si mostra si dà, non tutto ciò che si dà si mostra, perché tutto si mostra solo nella misura in cui è ricevuto. Questo scarto dipende da una certa temporalità, perché ciò che si dà si dà già, mentre ciò che si mostra non si riceve ancora (supra, cap. 2); resta da vedere secondo quale passato e quale avvenire, quindi secondo quale temporalità. Si pone allora, a proposito del tempo, la stessa questione che si poneva a proposito dell’essere: a partire da quale altrove de-

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vono essere intesi? Infatti, poiché essere e tempo vanno insieme (non solo nel legame dell’e, ma soprattutto nell’unico «si dà, es gibt» che li elargisce), l’altrove da cui l’essere si distacca dovrebbe ritrovarsi in un altrove del tempo. Eppure, per molti motivi, non va da sé che il tempo possa ammettere un altrove.

La morte del presente L’analisi comune (cioè metafisica) della temporalità si caratterizza innanzitutto per lo sforzo ostinato di sottrarla a qualunque altrove possibile. Infatti, la preoccupazione di separare, nell’essere dell’ente, ciò che succede (l’accidente, l’attributo, il predicato) da ciò che rimane (sostanza o essenza) porta a pensare l’ousia secondo la misura della parousia, più esattamente secondo la misura della presenza ridotta al presente. Che cosa, però, dà il presente, quanto è inteso senza altrove? Il tempo, per definizione, passa come una continua tensione verso altro: continua a emergere da un’impressione originaria per poi superarla, più esattamente continua a farsi ricoprire da un’altra impressione, più originaria e altrettanto passante; nella banda passante della presenza, ciascuno dei presenti si presenta solo non durando – il tempo presente non dura né un giorno, né un’ora, né un minuto, né un secondo, né una frazione di secondo; rigorosamente parlando, e parlando secondo la fisica, il tempo è solo nella misura in cui continua a scomparire. La metafisica, tutt’al più, consegna questo presente come un istante; istante, atomo di presenza concentrato nel suo nucleo, atomo evidentemente divisibile in modo indefinito. Di conseguenza il presente ridotto all’istante può instaurarsi come un possesso da conservare (harpagmon) solo colonizzando ed erodendo le altre due estasi temporali, perché – nei confronti del presente – esse non sono, dal momento che il futuro non è ancora e il passato non è più; di conseguenza non solo il presente si ato-

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mizza nell’istante, ma annulla anche le sue altre dimensioni. Il tempo intero scompare non soltanto perché trascorre come flusso ma anche perché sfugge a ogni definizione inabissandosi in ciò che doveva assicurarne un possesso. Ridotto al presente atomico, kronos non divora solo suo figlio (il futuro), ma anche il suo precursore (il passato). Donde questa strana situazione, per cui il tempo non ha alcuna durata (nulla mora), né la pur minima durata – nulla morula, dice sant’Agostino1. Questo tempo, ridotto al «presente ristretto» (Mallarmé)2 della temporalità comune (di fatto la sua comprensione metafisica, da Aristotele a Hegel a Bergson), si rinchiude nel suo nulla ed esclude che niente gli venga da altrove. Incapace di indimenticabile, non può rivelare niente. Rimane ciò che comunque, lo si voglia o no, arriverà – e perciò propriamente da altrove, la mia morte. Non la morte in generale, quella che constato quando attorno a me scompaiono altri umani, spettacolo inspiegabile (dove vanno?) e familiare (ci passiamo tutti perché “c’est la vie”, come dicono coloro che non sono ancora morti). Non quella, ma la morte in quanto mia morte, la mia, quella di cui nessuno farà esperienza al mio posto. Quella morte costituisce la mia ultima possibilità, che è sia assolutamente inevitabile, sia indeterminata a riguardo della data e delle modalità. Qui sta la mia ultima possibilità, ma anche, in un senso paradossale, il mio unico possesso di un tempo presente, perché in articulo mortis, in questo lasso

1.  Agostino, Confessiones, cit., XI, 15, 20, p. 385; cfr. J.-L. Marion, Sant’Ago­ stino. In luogo di sé, cit., §§ 31‑32, pp. 257‑271. 2.  S. Mallarmé, Fatti d’alta cronaca, in Id., Opere, cit., p. 317 (tr. mod.); infatti, «non vi è Presente – no, un presente non esiste» (ivi, L’azione limitata, p. 266). Si tratta della diagnosi di partenza di Lacoste: «la presenza non è la parusia. Questo è forse il dramma della filosofia» (J.-Y. Lacoste, Note sur le temps. Essai sur les raisons de la mémoire et de l’espérance, PUF, Paris 1990, p. 156), qui incroceremo alcune analisi di Lacoste.

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di durata del quale non so neppure se duri (e che forse, visto che alla fine non ne so nulla, potrebbe aprire l’eternità), sarò finalmente ciò che sono, per la prima volta, perché non ce ne sarà un’altra. Sarò ciò che sono salvo che, in un certo senso, lo sono già, perché a partire da ora la possibilità di morire governa retrospettivamente le mie parziali effettività e mi attrae verso di lei. Posso dunque osservare che questa morte – morte possibile e certa che già sono – costituisce l’approccio meno distante alla presenza del tempo. La mia morte offre quantomeno un momento privilegiato di tempo: nessun altro verrà a sostituirvisi, ad abolirlo, a completarlo; si potrebbe anche ritenere che esso riassuma tutti gli altri mettendo fine al loro flusso fino allora impressionate; esso, quantomeno, appare sicuramente l’unico tempo senza secondo. Bisognerà concluderne che l’indimenticabile, il momento di rivelazione, si situerebbe nella mia morte?

La mia morte al presente Tuttavia (secondo la metafisica del concetto), la morte del presente non consente ancora di accedere al presente della mia morte. E ciò per un motivo fin troppo evidente perché debba essere esposto a lungo: la mia morte, di cui non so ancora nulla, potrebbe advenire senza che ne provi o ne apprenda nulla. Se si suppone perlomeno che la morte distrugga il vivente, corpo e spirito, allora, quando interverrà, mi impedirà qualunque esperienza di questa morte. Una tale definizione della morte di diritto resta una semplice supposizione, un pregiudizio da intendersi secondo il senso più rigoroso del termine, un giudizio dato prima dell’esperienza da cui nessuno ha mai potuto ritornare per farcene rapporto. Rimane il fatto che questo pregiudizio conserva abbastanza verosimiglianza da impedire di formulare una qualunque ipotesi su ciò che la

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morte potrebbe insegnarmi del mio tempo, di ciò che fu, di ciò che alla fine è. Molti saranno testimoni o spettatori della mia morte, ma potrebbe darsi che io sia il solo a non vederne e saperne nulla, a non farne alcuna esperienza; esattamente come per la mia nascita, evento del quale solo io non ne so nulla. Donde la conclusione normalmente condivisa dalla filosofia: della morte non c’è nulla da temere perché non ne farò mai esperienza, dal momento che finché posso fare esperienza di qualcosa, essa non c’è e, quando ci sarà, non ci sarò più per poterne fare esperienza. Si tratta tuttavia di un argomento debole e illusorio: illusorio innanzitutto perché, ancora una volta, nulla ci assicura che la morte, la mia morte, abolisca in me lo spirito o il corpo (né la sua materialità, che potrebbe, per quel che se ne sa, mutare «in un battere d’occhio», 1Cor 15,52). Debole soprattutto perché non descrive la morte per me ma considera la morte in generale, quella di tutti e quindi di nessuno. Infatti, non ho alcun bisogno di sperimentare la morte effettiva (supponendo, ancora una volta, che essa comporti un’effettività, cosa che ignoro assolutamente): basta che io ne sperimenti la possibilità3. Molto prima che io scompaia dai radar di questo mondo, la mia morte mi determina, in ogni istante, come possibilità; è anche la ragione per la quale questi istanti scompaiono a partire dal loro emergere. Dover morire indica il destino di tutto il mio tempo, dall’inizio, perché se l’articolo della mia morte rimane indeterminato, la certezza di morire è indubitabile, nonostante – paradossalmente – niente me la dimostri nei fatti, almeno fino adesso. Non morirò perché un giorno morirò, non morirò nel giorno della mia morte, ma morirò perché da subito la mia stessa vita fu mortale, perché sono in quanto destinato a morire (moriturus): la vita deve essere intesa come la possibilità indeterminata, ma certa, di morire; oppure, più volgarmente, come una malattia gene3.  Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §§ 46‑53, pp. 284-319.

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tica, incurabile e sessualmente trasmissibile. Non c’è dunque altra definizione né accesso alla vita che la sopravvivenza4. La finitezza del mio essere (soprattutto la finitezza dell’essere stesso) si segnala perché la morte regge la mia vita come possibilità originaria e ultima, vissuta in ogni istante, presa in un flusso del quale il passaggio ostinato, incessante e assurdo reca il sigillo. È pertanto necessario concludere che anche la mia morte non offre alcun accesso al presente, niente di indimenticabile, ma chiude una storia insensata senza che ci sia neppure un idiota per raccontarla. Il tempo non dà accesso ad alcun altrove. A questo risultato si potrebbe obiettare: la mia morte, questa volta considerata proprio come una possibilità, non mi resterebbe inaccessibile né sorda. Mi resterebbe la possibilità di assumermi questa possibilità, anticipando su di lei; non lascerei più la morte venire verso di me, senza che vi possa vedere nulla venire né venire a vedere, anticiperei questa possibilità incontrollata per farne la mia. Questa anticipazione sulla morte certa e indeterminata, ormai ammessa come apertura di una pura possibilità (senza oggetto, senza obiettivo raggiungibile, libera della supposta effettività del presente) conferirebbe la sua libertà al Dasein che finalmente diverrei in verità: decidere se stessi, decidere di questa possibilità come ciò che deve advenirgli, temporizzarsi non più tramite il presente (secondo l’aporia metafisica), ma tramite l’avvenire (seguendo una temporalità fenomenologicamente corretta). Qui non discuteremo la forza né le difficoltà di questo passo in avanti di Heidegger,

4.  Cfr. il nostro saggio J.-L. Marion, La vie comme survie: le don, in D. Cohen-Lévinas - P. Simon-Nahum (dirs.), Survivre. Résister, se transformer, s’ouvrir. Nouveau colloque des intellectuels juifs, Hermann, Paris 2019, pp. 211-220, o anche la conclusione di Arbib sul «carattere profondamente a-storico dell’escatologia» (D. Arbib, Le Juif: la vie comme survie, ivi, pp. 195-209: p. 207).

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che evidentemente è decisivo5. Per il nostro intento – l’accesso a un altrove nel tempo – è sufficiente concentrarsi su una sola difficoltà. Quale che sia l’avvenire verso cui si slancia questa anticipazione (si può giustamente dubitare che Heidegger l’abbia mai definito o stabilito), a questa anticipazione serve una decisione; sarà quella del Dasein e contemporaneamente dell’ego (che si tratti delle sue variazioni secondo Descartes, Kant o Nietzsche). L’anticipazione riappropria l’ego della possibilità della morte e la tramuta nella sua possibilità libera proprio perché si tratta della sua decisione. Questa decisione anticipatrice apre anche a due obiezioni: innanzitutto, quando e come posso mai prendere questa decisione? Quale contenuto e quale altro scopo assegnargli se non proprio la mia stessa libertà, quindi la spontaneità della sua anticipazione? In altri termini, se la mia decisione permette la mia libertà, la mia libertà sarà sufficiente per attivare la mia decisione? Soprattutto, per quanto tempo potrò mantenere questa anticipazione? Ovvero: poiché di fatto la decisione anticipatrice non anticipa su niente, proprio perché il niente di ogni ente lo introduce all’essere, come ciò di cui ne va nel Dasein, allora bisogna concludere che il Dasein anticipa solo su sé e tramite sé. Da questo risultato, positivo per l’analitica esistenziale, consegue per noi una seconda obiezione: soprattutto, se io non giungo mai ad anticipare sulla mia morte come possibilità dell’essere mio, allora questa temporalità estatica, orientata quanto si vorrà verso l’avvenire, non apre ancora alcun altrove, perché essa proviene da me, mi ritorna e mi fa ritornare senza fine a me stesso, nell’autenticità che mi appropria a me stesso (seguendo il doppio senso dell’Eigentlichkeit). Questa temporalità certo definisce il presente e il passato a partire dall’avvenire, ma l’avvenire resta inaccessibile, perché lo anticipo ancora a 5.  Per una ripresa critica della risoluzione anticipatrice cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., §§ 36‑37, pp. 235-249.

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partire da me stesso, nell’istante (necessariamente presente) della mia decisione6. Se lo anticipo, allora controllo anche l’avvenire e chiudo la possibilità di un avvenire che mi avviene da altrove, giacché per noi non si tratta di anticipare sull’avvenire per ridefinire la presenza ma si tratta ormai di lasciare che l’avvenire aspiri il presente e anche che gli inspiri la presenza. Sarebbe necessaria una manna proveniente da altrove rispetto alla parousia, come il pane epiousios7. È noto che le diverse interpretazioni di questo raro termine non si contraddicono ma si declinano le une nelle altre. Ben inteso, il pane quotidiano viene per sovvenire al mio essere presente (il pane necessario all’ousia) che non può farne a meno, salvo trapassare. Viene però per il giorno che è oggi, per questo giorno (epi tên ousan êmeran), come il pane di un giorno (kathêmeros artos); in definitiva questo pane supera la mia ousia perché mi arriva, di giorno in giorno, una volta al giorno e per il giorno venturo. L’essenziale, o piuttosto il sovraessenziale del pane riguarda il suo avvento, il pane mi avviene, mi eviene direbbe Péguy.

6.  In questo senso, qui Heidegger indietreggia rispetto a Husserl, per il quale il punto dell’impressione originaria del tempo mi avviene prima della mia coscienza del tempo e la suscita, in quanto, lungi dal potervi anticipare nulla, mi precede nella «autoapparizione del flusso, Selbsterscheinung des Flußes […] che si costituisce in se stesso, konstituiert er sich in sich selbst» (E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, Niemeyer, Halle 1928; tr. it., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1981, § 39, p. 109). Non si potrebbe intendere il “prima, precedente, vorher” donde proviene il flusso (cfr. ivi, § 36, p. 102) come un altrove? 7.  Epiousios (Mt 6,11 e Lc 11,3) è tradotto con superessentialis (Vulgata), ma innanzitutto con quotidianus (Itala). Origene menziona anche un senso temporale della variante huperousion: «dirà qualcuno che epioúsio è formato da epiénai (sopraggiungere) […] cosicché noi siamo invitati a chiedere il pane adatto al secolo che verrà affinché Dio, anticipandolo, già ce lo dia, in modo da elargirci ciò che ci sarà dato in un domani» (Origene, De oratione; tr. it., La preghiera, Città Nuova, Roma 1997, XXVII, 13, p. 142 [PG 11, c. 517a]).

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In questo senso mi apre un altrove. Bisognerebbe ricevere il proprio momento indimenticabile, la propria morte, come si mangia il pane quotidiano.

Morte in attesa di altrove Affinché un’altra morte mi advenga da altrove, non dovrei anticipare la sua possibilità tramite la mia risoluzione ma sarebbe necessario che essa mi advenisse da sé. Pertanto, non si dovrebbe transigere nell’affrontare la morte come la possibilità dell’impossibilità e nel riceverla veramente come il «gran forse»8. Dove trovare una tale morte, che riguarda l’altrove? La morte di Cristo e la sua temporalità possono offrire qui un paradigma nuovo, perché Cristo opera nel mondo a titolo di Figlio che riceve tutto dal Padre, quindi come colui al quale tutto adviene da ciò che lo precede, dall’altrove del Padre. Di conseguenza, l’obbedienza del Figlio rifiuta di principio qualsiasi risoluzione anticipatrice dell’ego o del Dasein. Proprio ciò che gli ariani stigmatizzano come ignoranza di Cristo indica e conferma la filiazione del Figlio: «quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Per Cristo innanzitutto qui non si tratta di rinunciare a conoscere l’avvenire (il suo e quello

8.  Rabelais: «me ne vado in cerca di un gran forse, tirate il sipario, la farsa è finita» (in P.-A. Motteux, Life of Rabelais in F. Rabelais, The Works of Mr. Francis Rabelais Doctor in Physick Containing Five Books of the Lives, Heroick Deeds & Saying of Gargantua & His Sonne Pantagruel, London 1694). Senza dubbio Stendhal se ne ricorda quando mette queste parole sulla bocca di Julien: «così, fra tre giorni, a questa stessa ora saprò che cosa pensare del gran forse» (Stendhal, Le rouge et le noir. Chronique du XIXe sieècle; tr. it., Il Rosso e il nero. Cronaca del XIX secolo, Garzanti, Milano 2011, parte II, cap. XLI, p. 487).

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del mondo), né si tratta di riconoscere al Padre il potere sul tempo ma di manifestare che questo tempo, dato dal Padre, deve essere ricevuto così come egli lo dà, da altrove. Il tempo non si anticipa ma si riceve. Cristo lo dimostra rinunciando a ogni decisione o anticipazione sulla morte, in modo tanto più divino nella misura in cui vi rinuncia filialmente, come solo il Figlio può riuscire a fare. Così, anche quando dà liberamente la sua vita conservando il potere di riprenderla, non la dà di sua iniziativa e non la riprende tramite una sua decisione ma, in entrambi i casi, si tratta dell’obbedienza al Padre: «per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita (la mia anima, psukhê), per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17‑18). Bisogna insistere su due punti: innanzitutto, Cristo resta libero di dare la sua vita, proprio perché la riceve dal Padre: «come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26); Cristo dà ciò che ha, ma lo dà in quanto l’ha ricevuto. Inoltre, questa ricezione della vita fino alla morte costituisce, proprio come il potere di resuscitare («come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole», Gv 5,21), un ascolto del comandamento del Padre; il Figlio non anticipa su nulla, ma si comporta da Figlio, cioè obbedisce. Cristo quindi si distingue radicalmente da Socrate, perché dà la sua vita, non si dà la morte, né si abbandona a essa. La Croce non ha nulla a che fare con un suicidio, in cui la decisione anticipa sulla morte per appropriarsela da dietro e prendere possesso del proprio avvenire sopprimendone la possibilità. Nella sua morte Cristo non vuole la morte, ma vuole la volontà del Padre: non anticipa niente e non anticipa su di essa, ma la riceve come «cibo» (Gv 4,34) nella possibilità che gli è aperta dal Padre. Riceve questa morte proprio come dal Padre rice-

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ve la vita, non perché la vuole, ma perché l’accoglie come una volontà da altrove; mantiene, fino nella morte, la possibilità dell’altrove, dello scambio trinitario al di fuori del mondo e della storia (supra, cap. 16), l’altrove assoluto, quello del Padre: «cadde in ginocchio e pregava dicendo: “Padre, se vuoi (ei boulei), allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo» (Lc 22,41‑43)9. Ciò che «viene dal cielo» sono «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì» (1Cor 2,9, a partire da Is 64,3). Nel gioco di questo dramma si tratta di manifestare sulla terra e temporalmente ciò che si compie al di fuori del tempo in cielo, tramite una grazia di Rivelazione che oltrepassa tutto ciò che l’umanità poteva e potrà mai sperare, perché «ecco si aprirono i cieli» (Mt 3,16) e da allora si aprono anche per uomini come Stefano (At 7, 55‑56). Tuttavia, in questo momento in cui l’intendiamo, ciò che qui risplende nella visibilità del mondo per pura grazia fatta ai discepoli, non appartiene più al mondo, ma all’impensabile e inimmaginabile comunione trinitaria: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. […] E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. […] Io non sono più nel mondo […]. Ma ora io vengo a te […] come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,1.5.11.13.21). Per Cristo viene l’ora del Padre e la riceve come tale «viene (erkhetai) l’ora ed è ades-

9.  Tra i paralleli, certamente Mc 14,35‑36 non mette la scena sotto la presidenza di questo nun, ma si riferisce a «quest’ora» (Mc 14,35, che così chiarisce Mc 14,37 e Mt 26,40 «vegliare un’ora»). D’altro canto Gv 17 è interamente costituito da un dialogo intratrinitario sulla terra (come anche Gv 18,9: «non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato»). A proposito di tale dialogo a-storico e trinitario, cfr. i nostri rilievi in J.-L. Marion, Givenness and Revelation, cit., pp. 87 ss.

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so (nun)» (Gv 4,23; cfr. Gv 5,25 e Gv 16,32). Il mondo riceve la realizzazione della gloria divina, o forse, al contrario, la gloria divina invade e satura finalmente visibilmente la scena del mondo; la possibilità adviene da altrove. Anziché presentificare il futuro tramite un’anticipazione venuta dal presente, l’avvenire futurizza il momento presente e vi ristabilisce una presenza ricevuta. La volontà del Padre così compiuta nella volontà di Cristo stabilisce quindi, nella dispersione della nostra storia, il solo momento temporale che tenga, il solo nunc stans mai instaurato nel tempo inconsistente della finitezza e addirittura della morte. Detto altrimenti, nel tempo ci è possibile soppesare la potenza di un momento (nun) che fa eccezione al tempo comune, intessuto di nulla instabili e ripetuti. Il nun in cui Cristo realizza il suo atto volitivo nel nome del Padre fa per così dire risuonare la Trinità sulla terra, ritrova l’ephapax nel tempo perso, come attestato potentemente dall’episodio del dialogo trinitario reso pubblico prima della Passione a Gerusalemme: «“adesso (nun) l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”. […] Disse Gesù [rispondendo ai pareri della folla circa l’origine di quella voce]: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora (nun) è il giudizio (krisis, messa in giudizio) di questo mondo; ora (nun) il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”» (Gv 12,2728.30-32). In questo caso è evidente che lo stesso momento (nun), come attraverso due facce della medaglia, rinvia a due ambiti: uno, strettamente trinitario, in cui il Figlio e il Padre si uniscono nell’admirabile commercium della comunione delle volontà (lo Spirito), unione che trascende la nostra storia e la dispersione del suo tempo insensato – in questo caso nun designa la decisione («per sempre»). L’altra faccia mostra, que-

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sta volta nella nostra storia – nella quale la decisione (la crisi) fa perennemente difetto – che nonostante ciò «una volta per tutte» si compie una decisione che decide della storia e nella storia, tanto che la decide più di quanto non vi prenda posto – infatti, proprio in questo momento il «principe di questo mondo» ne viene espulso. Il tempo perso della storia e il momento della decisione trinitaria si incrociano indissolubilmente e vengono determinati proprio dal nun.

I due giudizi in uno Ci si chiederà tuttavia che cosa ci sia in comune tra lui e me, tra il momento assoluto del Figlio – l’ora ricevuta dal Padre e la mia morte, che rimane innanzitutto chiusa in se stessa, il più delle volte non apre su alcuna decisione da altrove. Si tratta proprio di questo: che la morte e la temporalità di Cristo, procedendo da altrove (dal Padre, per filiazione e obbedienza), si oppongono radicalmente al mio progetto di risoluzione anticipatrice – non gli oppongono una decisione a partire da sé e dalla sua intenzionalità (centrifuga), ma una decisione (centripeta) in risposta a un «comandamento» da altrove. Questa opposizione basta per provocare la crisi: «ora è la crisi di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,31). Questa crisi sottopone a giudizio la mia temporalità incoerente che vorrebbe cogliere la presenza appropriandosi invano del presente, tramite la temporalità abbandonata “all’ora” che il Padre dà da altrove. Si tratta di una crisi della mia temporalità davanti al primo reale nun, il primo ora advenuto in essa. Ora avviene la crisi, ma perché ora avviene il primo nun, il primo “ora”, che resta, che non passa, che nessuno dimenticherà, in quanto adviene da altrove. Questo giudizio raggiunge «per davvero» (l’altro senso del nun) il mondo al cuore della sua apostasia, solo perché lo raggiunge «una volta

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per tutte» (ephapax), dal fondo dell’ora (nun) della glorificazione definitiva e originaria: «ora (nun) il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (Gv 13,31, cfr. Gv 4,23). Davanti a questa gloria dobbiamo deciderci, perché si tratta già, in eterno e per sempre, del momento in cui «ogni lingua proclamerà Gesù Cristo [come] Signore nella gloria di Dio Padre» (Fil 2,11), cioè del momento fuori dal tempo (non cronologico), in cui il Figlio può e deve dire da sé, a nome del Padre, «Io sono, nun egô eimi» (Lc 22,69‑70, cfr. Mt 22,44). Lo stesso nome, il Nome del Padre, manifesta tra noi, per sempre, il Figlio. Infatti, se Cristo proclama «io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25), può farlo perché lo riceve sempre e ancora dal Padre: «quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io sono (egô eimi) e che non faccio nulla da me stesso» (Gv 8,28): merita il nome stesso del Padre proprio perché compie interamente la sua volontà e mai la propria10, per questo egli non pronuncerà più questo egô eimi fino al momento del suo arresto (Gv 17,5-6). La morte e la resurrezione costituiscono quindi il nun incondizionato e intemporale (eterno, se lo si vuole esprimere astrattamente), ma ancorato nel tempo, l’ephapax assoluto dell’apertura e della manifestazione del «mistero nascosto da secoli in Dio» (Ef 3,9), «mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato (phanerôthentos de nun)» (Rm 16,25-26)11.

10.  Questo consentirebbe forse di illuminare il difficile versetto di Gv 8,25: «Gesù disse loro: “ten arkhen ho ti kai lalô humin”». Certo, a minima non si può che intendere «io sono ciò che vi dico dall’inizio»; ma è anche possibile seguire la Vulgata (Principium, qui et loquor vobis) nel senso di «il principio, così come io vi dico», l’egô eimi così com’è ricevuto dal Padre, «io sono di lassù; […] io non sono di questo mondo» (Gv 8,23). L’egô eimi non è attribuito a Cristo provenendo dal mondo (Gv 18,36), anche se attraverso di lui viene nel mondo. 11. Cfr. Ef 3,5 e Ef 5,8; Col 1,26.

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In questa crisi in cui devo decidermi davanti all’ora venuto da altrove e compiuto una volta per tutte, si può parlare di qualcosa come di un giudizio individuale, manifestato in questa fine individuale: quando mi deciderò davanti alla morte di Cristo sarò colui che sono. Lo specifico della visione cristiana della fine concerne l’attesa del momento in cui «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui (Zc 14,5), siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri» (Mt 25,31). Si tratta di una fine per tutti, di un giudizio che «riconduce al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10). Durante questa ricapitolazione globale sapremo ciò che il mondo è, ciò che merita e ciò che ne sarà salvato, una ricapitolazione che si può concepire come una universalizzazione di ciò che la mia morte per me significa e quindi si può chiamare giudizio universale e definitivo. Rimane il fatto che qui le risposte si sdoppiano: ciascuno viene messo in crisi davanti alla morte di Cristo – a seconda che vi veda o no la vita ricevuta da altrove, ma la presenza finale di Cristo risuscitato esercita un giudizio globale su tutti gli uomini e sul mondo intero. Ciò basta a rendere manifesta un’indecisione: non va da sé né la possibilità di far coincidere i due giudizi, né la necessità di armonizzarli (ancor’oggi il dibattito a questo proposito divide i migliori teologi)12. Questo sdoppiamento potrebbe sottendere una concezione discutibile e pericolosa dell’economia della salvezza: c’è accordo pieno circa il riconoscimento dell’ingresso di Dio nella storia, dalla Creazione fino all’Incarnazione (questo non è in discussione), ma spes-

12.  A proposito di questo punto, così come di molti altri che ne dipendono e vi si legano, la migliore introduzione e discussione critica si trova in J. Ratzinger, Eschatologie – Tod und ewiges Leben, Putser, Regensburg 1977; tr. it., Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 2008.

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so se ne conclude che Egli stesso diventi storico (e questa cosa, al contrario, va discussa). Infatti, se Dio, per assumere completamente l’umanità in tutta la sua radicalità e portare la «somiglianza in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), in Gesù assume realmente una storia (quella che lui stesso ha provocato eleggendo il suo popolo) e, in definitiva, l’intera storia (quella dell’universo creato) – quindi se, facendosi istorico [historial], egli assegna a questa storia il suo senso, ciò non implica per nulla che il senso così conferitole risulti esso stesso istorico [historial]13. Al contrario, Dio entra nella storia solo per darle un altro senso rispetto a quello che essa immagina di avere o, più semplicemente, per darle il senso che da sé non ha14, perché la nostra storia resta determinata dal tempo comune e dalle sue inevitabili aporie; senza potervi più scorgere una fine essa non può conoscere il suo inizio. Come tale, resta storica solo nel suo senso, chiusa su di sé, condannata a un flusso indefinito di istanti incoerenti se non (nella migliore o peggiore delle ipotesi), a una ripetizione del simile. Né

13.  Sono queste le uniche due occorrenze nelle quali Marion propone il termine historial. Abbiamo preferito tradurle genericamente secondo il calco della lingua francese, rifacendoci alla classica differenza proposta da Marion stesso tra la storia nel senso della storiografia – Historie e la storia alla quale è attribuito valore filosofico – Geschichte (supra, p. 356); quella differenza potrebbe anche venire sviluppata all’inverso, facendo eco al rapporto stabilito da Heidegger tra geschichtlich, reso nella traduzione francese di Sein und Zeit condotta da Emmanuel Martineau con il termine historial, e historisch, reso con il termine historique [n.d.t.]. 14.  «Nulla di più facile che credere che l’attualità storica “voglia dire” qualcosa e di credere devotamente che l’Assoluto voglia dirci qualcosa. Il tema di una manifestazione divina coestensiva alla storia universale è un tema banale della nostra koiné teologica» (J.-Y. Lacoste, Note sur le temps, cit., § 66, p. 145), che rimanda sicuramente alla tesi di Rahner «noi pertanto partiamo dal fatto che la stessa trascendenza ha una storia e che la storia a sua volta è sempre l’evento di tale trascendenza» (K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit., p. 192).

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l’una né l’altra possono ambire a un qualunque senso. Oppure, che poi è lo stesso, credendo di liberarsi da qualsiasi senso (Eterno ritorno) o nella pretesa di definirlo procrastinando senza fine la meta finale (ideologie del progresso, della crescita, ecc.). Malgrado il fatto che gli ultimi due secoli si sono vantati oltre ogni misura di agire in virtù del senso della storia, il nichilismo ci ha almeno convinto che, se anche fosse possibile invocare un senso globale per la condizione umana, non è certo la storia a offrirne il luogo. Il senso non ha luogo nella storia perché la storia non ha senso, non più di quanto ne abbia il tempo. Quindi, se Dio viene nella nostra storia, egli non viene per trovarvi il senso della storia, ancor meno per trovare il suo proprio senso grazie a quello (supposto) della storia; al contrario, egli viene per donare alla storia il senso che essa non può dare né darsi. Attraverso la Creazione e l’Incarnazione Dio viene a dare un senso alla storia degli uomini, storia di per sé insensata; si tratta del suo senso, un senso divino e non storico, che si può definire «senso della storia» solo intendendolo come senso a- o trans-storico di Dio stesso. La Trinità (la teologia dei Padri greci, la logica dell’agapê divina) costituisce l’unico senso (detto altrimenti, l’unico logos) della Redenzione (l’oikonomia dei Padri greci), quindi della nostra storia. Tutto il dibattito moderno tra l’escatologia “conseguente” – in cui l’attesa imminente della fine ultima ritarda fino a scomparire – e l’escatologia “realizzata” – in cui di fatto l’irruzione di Cristo compie in sé il regno di Dio – suppone al contrario che la storia, intesa nel senso della nostra concezione lineare della storia, resti per Cristo il luogo del senso e dell’effettività. Per questo motivo tale dibattito non è in grado di condurci oltre. In questa ottica si semplificano le risposte alla questione – tanto diffusa quanto al contempo imprecisa – circa la relazione che c’è tra il giudizio individuale (che accade nel momento della mia morte biologica) e il giudizio collettivo (che accadrà alla fine della storia). In realtà «biblicamente non vi sono due

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giudizi e due giorni del giudizio, ma uno solo, e […] perciò dobbiamo vedere il giudizio particolare dopo la morte in una connessione dinamica con il giudizio finale»15. Come intenderlo? Si può avanzare l’ipotesi che il primo giudizio sia ancora limitato alla sola anima, mentre solo l’ultimo si estenderà al corpo carnale; oppure che il primo, in quanto individuale, possa compiersi veramente solo inglobando la comunità che ha vissuto con l’individuo, la qual cosa implica il Giudizio finale; o che la creazione intera debba passare per una decisione globale. Quali che siano gli argomenti a favore di una conciliazione dei due giudizi, che in realtà non sono altro che uno solo, essi dipendono tutti dal presupposto che il tempo della storia globale continui dopo la morte individuale. Questo presupposto non tiene di fronte a una considerazione, evidente e più radicale: una volta avvenuta la mia morte uscirò subito dal tempo della nostra storia, quindi lo scarto tra il giudizio individuale e il Giudizio definitivo, se ce n’è uno, non si può esporre

15.  H.U. von Balthasar, Umrisse der Eschatologie, in F. Böckle et alii (hrsg.), Fragen der Theologie heute, Benziger Verlag, Einsiedeln 1957, ripreso in H.U. von Balthasar, Verbum caro. Skizzen zur Theologie I, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965; tr. it., Lineamenti dell’Escatologia, in Id., Verbum Caro. Saggi Teologici I, Jaca Book, Milano 2005, pp. 259-280: p. 269, che cita Agostino: «colui che ci protegge nel luogo di questa vita, sia egli stesso il nostro luogo dopo questa vita» (Agostino, Enarratio in Psalmum XXX; tr. it., Esposizione sul salmo 30, in Id., Esposizioni sui salmi, Opere, vol. XXV, Città Nuova, Roma 1982, II, 3, 8, p. 497) e «ecco, Dio stesso è divenuto il luogo del tuo rifugio, egli che prima ti incuteva timore e ti spingeva a fuggire» (Agostino, Enarratio in Psalmum LXX; tr. it., Esposizione sul salmo 70, in Id., Esposizioni sui salmi, Opere, vol. XXVI, Città Nuova, Roma 1990, I, 5, p. 729). Balthasar conclude «solo lì dove si è riusciti a interpretare gli eschata fino in fondo in senso pienamente ed esclusivamente cristologico, il che significa, se si scende in profondità, in senso trinitario, […] solo là l’escatologia sarà decosmologizzata (entkosmologisiert) a sufficienza, non conterrà più alcun residuo non rielaborato […] di una filosofia della religione inferiore al cristianesimo» (H.U. von Balthasar, Lineamenti dell’escatologia, cit., p. 273).

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in alcun modo nei termini della temporalità mondana, secondo una differenza cronologica16. A questo punto è insensato chiedersi che cosa succeda tra la fine del mio tempo e la fine dei tempi (in cui per l’appunto non ha più luogo alcun tempo), non ha senso come la domanda circa cosa facesse Dio prima di creare il mondo (perché anche il tempo fu creato con e per il mondo). Lo scarto “tra” i due giudizi, se ce n’è uno, in ogni caso non riguarda il nostro tempo. Se essi coincidono non si tratterà né di una coincidenza temporale (che vale solo per la creatura), né eterna (poiché troppo astratta per significare qualunque cosa). Interrogarsi su questo scarto implica asso-

16.  Rahner ha mostrato con lucidità la fragilità teologica dell’intermezzo temporale tra i giudizi (K. Rahner, Über den “Zwischenzustand”, in Id., Schriften zur Theologie, Benzinger Verlag, Einsiedeln 1975, pp. 455‑466; tr. it., A proposito dello “stadio intermedio”, in Id., Teologia dell’esperienza dello Spirito. Nuovi saggi VI, Paoline, Roma 1978, pp. 557-570). Tuttavia, egli tenta di superarla solo modificando (con uno stile tommasiano, cfr. Tommaso, Summa contra Gentiles, cit., IV, 79 p. 359 o la Summa Theologiae) il rapporto anima/corpo, ridefinendo la relazione dell’individuo con la comunità, distinguendo il tempo della decisione dal tempo seguente la decisione, ripensando l’assunzione di Maria, ecc.; tutte analisi assai chiarificatrici, che però mancano di ciò che sembra comunque essenziale: non è neppure possibile parlare di due giudizi «gleichzeitig, contemporanei» (K. Rahner, A proposito dello “stadio intermedio”, cit., p. 557), perché la morte dell’individuo (quindi il giudizio individuale) annulla la temporalità del mondo e così l’ephapax eterno di Dio riprende la mano: non c’è più scarto (temporale) possibile, che obbligherebbe ad attendere, con un qualche ritardo, il compimento escatologico – perché tutto è già compiuto. Buoni rilievi sono fatti da Kessler: «questa concezione di uno stato intermedio (Zwischenzustand) dell’anima senza vita è un infelice (unglücklich) modello di rappresentazione», perché Dio resta «il fondamento portante, sempre già presente (schon immer allpräsente tragende Grund), che resta immediatamente adiacente al presente (unmittelbar gegenwärtig), nei pressi della persona, anche nel suo impegno e nella sua morte» (H. Kessler, Personale Identität und leibliche Auferstehung? Systematisch-teologische Überlegungen, in G. Gasser et alii [hrsg.], Handbuch für analytische Theologie, Aschendorff Verlag, Münster 2008, pp. 641-666: pp. 658 e 660).

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lutizzare a tal punto la nostra storia da imporre la sua aporia cronologica alla sapienza divina. Di fatto, lo scarto apparente tra i due giudizi indica che noi stiamo aspettando17 (così Rm 8,22) la crisi: soffriamo di dover ancora aspettare il completamento della decisione (come una lettera già spedita, ma non ancora ricevuta; una sentenza già pronunciata, ma non ancora pubblicata; una legge già votata, ma ancora senza decreti attuativi; ecc.). Questa sofferenza riflette, nella nostra finitezza e nella nostra temporalità instabile, le due dimensioni di ciò che, dal punto di vista di Dio, risulta come una stessa e unica crisi – la decisione di ogni creatura e dell’intera creazione pro o contro la sua ricapitolazione in Cristo; secondo questo punto di vista sin da ora (nun) il principe di questo mondo è rigettato e Cristo giudica tutte le creature una volta per tutte (ephapax). Detto altrimenti: «Cristo giudice, sulla base di un unico giudizio semplicissimo e imparziale, in un solo istante comunica a tutti gli esseri (secundum unicum simplicissimum atque indiversum judicium in uno momento omnibus)»18.

La storia come idolo Forse, però, si potrà obiettare che la nostra storia potrebbe produrre da sé un senso, o scoprirlo al suo interno. Ora, tra la teologia e l’escatologia bisogna scegliere (come, a contrario e suo malgrado, ha dimostrato Teilhard de Chardin) perché, volendo appiattire l’escatologia sulla teleologia – tendenza coltivata più del dovuto dalla teologia dogmatica dell’ultimo secolo – si finirebbe senza dubbio con l’intendere il giudizio 17.  Nel testo originale il lemma francese être en suffrance rende evidente la duplice dinamica del patire insito nell’attesa [n.d.t.]. 18.  N. Cusano, La dotta ignoranza, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, cit., pp. 3-307: cap. III, § 9, p. 273.

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universale e finale in modo assurdo e idolatrico. Assurdo perché sarebbe necessario che, nella storia cronologica, sorgesse un’interruzione temporale totalmente inconcepibile a partire dal suo concetto (comune) di temporalità: aprirebbe semplicemente a un’eternità parimenti indeterminata, vuota sospensione di un tempo che non esiste. La storia si interromperebbe in una permanenza astratta, tanto contraddittoria quanto il presente nell’istante che vorrebbe integrare19. Esso sarebbe soprattutto idolatrico, dal momento che anche il Giudizio finale accadrebbe nella storia (e nella temporalità) da cui prenderebbe in prestito e quindi convaliderebbe il supposto senso. Coronando il “senso della storia” (coronamento il cui carattere divino resterebbe completamente indeterminato), Cristo, glorioso di una gloria ormai mondana, inscriverebbe il suo ambiguo trionfo (Dio solo sa fino a che punto i millenarismi hanno alimentato questa ambiguità!) nella temporalità comune, simile, al massimo, all’ultimo trionfo dell’ultimo imperator, realizzando in tal modo il sogno di ogni Grande Inquisitore. Senza arrivare a evocare l’Anticristo, si può riconoscere un pericolo molto più vicino e incombente che minaccia tutti i credenti, soprattutto i più fedeli: se il trionfo finale di Cristo Re deve inscriversi nel «senso» della nostra storia, allora non è ancora advenuto; la seconda Parusia resta a venire e senza di quella la prima risulta fragile e provvisoria, in pratica ancora in attesa di una conferma definitiva. Ammettendo due giudizi bisogna anche ammettere che il mio – legato alla mia morte individuale – non decide più del­ l’intera storia, che la morte individuale di Cristo (persino la sua Resurrezione puntuale nella nostra storia) non ricapitola

19.  Non è certo che l’escatologia definita “esistenziale”, di Barth e soprattutto di Bultmann, sia riuscita a sfuggire a questo pericolo. Al contrario, Lacoste suggerisce di concepire il tempo della Chiesa come “preescatologico” (cfr. J.-Y. Lacoste, Note sur le temps, cit., pp. 176 ss. e 185).

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ancora la totalità e di conseguenza è necessario aspettare un altro giudizio, collettivo e riepilogativo, che accadrà alla fine della storia, dopo di me. Solo quest’ultimo, infatti, porterà a compimento tutte le cose e deciderà della fine, cioè della vittoria di Cristo sul male. La seconda parusia sarebbe la sola vera e la fine del mondo porterebbe a termine l’economia della salvezza che, tanto quanto durerà la nostra storia, resterà incerta. Durante «questo strano rinvio del Victory Day»20 si dovrebbe continuare a combattere e lottare perché il Cristore finisca di portare a compimento un suo regno terreno e istaurare per davvero il suo Regno. Ritorna inevitabilmente la domanda ossessiva e piena di angoscia che i discepoli, in nome di noi tutti, hanno rivolto al Risorto: «Signore, è questo il tempo (en tô chronô toutô) nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Questa domanda solleva due osservazioni: innanzitutto, «in questo tempo» si può riferire non solo al momento presente, ma anche al tempo inteso secondo la temporalità comune, la questione quindi sarebbe: il Regno di Dio può e deve ristabilirsi nella temporalità cronologica, nel presente non-essente dell’istante, nel non-senso della nostra storia? Inoltre, dal momento che questa domanda non proviene dagli zeloti o dai farisei, né da avversari sospettosi, ma dagli apostoli (i migliori tra i credenti, le colonne della Chiesa, proprio nel momento in cui si rivolgono al Risorto riconoscendolo come tale), allora bisognerebbe concludere che per loro, in quel momento (prima dell’effusione dello Spirito), il regno di Dio non si sia ancora ristabilito, il compimento rimanga ancora di là da venire, la Resurrezione non sia sufficiente. 20.  J. Ratzinger, Escatologia: morte e vita eterna, cit., p. 71. Anche in questo caso ci si può chiedere se l’escatologia «che si realizza» in una teologia della speranza, nonostante tutta la precisione e la forza esplicativa che la caratterizzano, non ricada nelle aporie precedenti.

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Tutto è compiuto nei cieli e sulla terra Se così fosse, tuttavia, come concepire che a partire dalla Passione «tutto è compiuto, tetelesthai» (Gv 19,28-30)? Se l’ultimo «forte grido» di Cristo (Mt 27,50 e Mc 15,36) non proclama che già «sono compiute (gegônen)!» (Ap 12,10 e Ap 21,6) tutte le cose, che egli ha già «compiuto l’opera che [il Padre gli] ha dato da fare» (Gv 17,4), allora la sua «morte sulla croce» non è ancora sufficiente perché «Dio lo esalti e gli doni il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9), né perché da quella croce egli possa annunciare «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine (telos)» (Ap 21,6 e Ap 22,13)21. Certamente se Cristo non è resuscitato «vuota è la nostra predicazione» (1Cor 15,14), ma se la sua Resurrezione non porta tutto a compimento, se deve essere ratificata, confermata e convalidata da una seconda venuta, «è vuota anche la nostra fede» (1Cor 15,14). La risposta di Paolo a questa difficoltà è tanto netta quanto sorprendente: se la Resurrezione di Cristo accadesse senza la resurrezione finale dei morti, allora a propria volta non sarebbe effettiva (1Cor 15,12-13.16). A una buona teologia rimane soltanto da ammettere che la Resurrezione di Cristo – essa ed essa sola già compiuta nel nostro tempo – implica, ingloba e comprende già la resurrezione dei morti, che – nel nostro tempo – resta a venire: «ora, invece (nuni), Cristo è risorto (rialzato, egêgertai) dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). È necessario comprendere il doppio senso dell’avverbio: sia [da] ora sia di fatto (nuni) Cristo risorto inaugura e comincia (ap-arkhê) il risveglio e l’innalzamento di quelli che si sono ad-

21.  Cfr. «li amò fino alla fine, eis telos êgapêsen autous» (Gv 13,1) e «deve compiersi in me questa parola della Scrittura, peri emou telos ekhei» (Lc 22,37). La questione della venuta o meno del Messia, quindi anche la sua estrapolazione (messianismo senza Messia secondo Lévinas, Derrida e molti altri) può intervenire solo sullo sfondo dell’ipotesi della nostra storia, a propria volta concepita come una successione di momenti eterogenei, senza senso né telos.

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dormentati nella morte. L’unico e medesimo momento (nun) comprende più dell’istante presente (quindi assente) del tempo cronologico, esso disciplina e comanda (arkhein) la nuova vita – se si vuole, in anticipo (apo) – al di fuori dal tempo cronologico. Ciò che per noi (nel tempo cronologico della nostra storia insensata) rimane ancora a venire (la resurrezione dei morti) fin da ora (sempre nel tempo cronologico della nostra storia senza senso) viene compreso in ciò che Paolo chiama ricapitolazione. Questa anakephalaiôsis (Ef 1,10) andrebbe forse intesa alla lettera: rimettere sotto una sola testa, ovvero ribaltare (ana-) la gerarchia mettendo la testa in alto22 o meglio mettendo la testa a capo del corpo, ordinando i molti sotto una sola arkhê, così che ciò che vale per la testa (la Resurrezione di Cristo) allo stesso tempo valga anche per tutto ciò che ne segue (la resurrezione dei morti). Questo intestamento innesta l’insensata storia dei viventi e dei morti nel momento (nun) portato a compimento di Cristo, salvandola dalla dispersione cronologica. Per rispondere alla questione iniziale – come concepire il fatto che, a partire dalla Passione, «tutto è compiuto, tetelesthai» (Gv 19,28-30) –, bisognerebbe quindi delucidare questo momento (nun) in cui Cristo ricapitola una volta per tutte (ephapax) ciò che egli porta a compimento da un capo all’altro della nostra storia frammentata. Riusciamo appena a concepirlo, per di più confusamente, innanzitutto perché la fede e la sua intelligenza ci risultano ir-

22.  Ritroviamo qui, evidentemente, la tesi centrale di H.U. von Balthasar, Lineamenti dell’Escatologia, cit. (cfr. nota 14) e l’intera conclusione di Id., Theodramatik, Bd. III, Die Handlung, Johannes Verlag, Einsiedeln 1980; tr. it., Teodrammatica, vol. IV, L’azione, Jaca Book, Milano 1982, in part. parte II. Cfr. la breve ma pertinente presentazione di G. Wainwright, Eschatology, in E.T. Oakes s.j. - D. Moss (eds.), The Cambridge Companion to Hans Urs von Balthasar, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 113-127.

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revocabilmente deficitarie, sempre che abbiamo accettato di arrischiarci: «stolti e lenti di cuore a credere!» (Lc 24,25) e inoltre perché la cognizione comune (di fatto metafisica) del tempo, come già è stato notato, ci frena, tramite un vincolo filosofico, onde impedircelo: infatti, se il nostro tempo è l’unico teatro dell’economia della salvezza, la ricapitolazione una volta per tutte (ephapax) risulta impossibile, nessuna decisione (nessuna crisi) può prodursi in una temporalità tanto priva di permanenza (l’istantaneo non offre alcuna durata secondo un nunc mai stans) quanto senza conseguenza (nulla vale for ever perché nulla avviene veramente ever). Poiché il tempo inteso dalla concezione comune è lontano dal poter offrire il minimo luogo all’economia della salvezza, bisogna innanzitutto salvare il tempo dalla sua dispersione, letteralmente insensata, perché esso sia in grado di ospitare la possibilità di una decisione. Se nulla è deciso nel tempo, nulla è salvato nel tempo; al contrario, è necessario salvare il tempo dalla sua incertezza. Per giungervi bisogna partire da una morte in cui un momento presente autentico realizzerebbe la decisione definitiva, quindi in cui un momento (nun) faccia scaturire un evento (ephapax)23. Per questo motivo è necessario lasciarsi guidare dalla morte e dalla Resurrezione di Cristo.

Una volta per tutte Ormai lo scarto non è più tra tempo ed eternità, né tra giudizio particolare e giudizio universale, ma tra il tempo che passa e succede senza mai decidersi e il tempo – o piuttosto il momento, ancor più esattamente l’“ora” – che consente la decisione, 23.  Per scrupolo di chiarezza si potrebbe opporre l’istante (ristretto, senza presenza stabile, quindi assente) al momento (che esercita un momentum, pesa sul tempo e vi resta).

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perché essa favorisce e apre a una possibilità. Detto altrimenti: tra il tempo della ripetizione e il momento della decisione, tra la speranza mondana (che attende ciò che potrebbe succedere) e la speranza teologale (che attende affinché una cosa avvenga e poiché essa è già avvenuta), tra ciò che passa e l’indimenticabile. Per caratterizzare Cristo, le Scritture usano quasi esclusivamente l’avverbio ephapax/hapax, i suoi atti si producono «una volta per tutte» e – inseparabilmente – «per davvero», in modo definitivo. Di conseguenza egli appare «a più di cinquecento in una sola volta» (1Cor 15,6), «morì per il peccato una volta per tutte» (Rm 6,10), «è morto una volta per sempre per i peccati» (1Pt 3,10). Questo termine svolge un ruolo a tal punto significativo che il redattore della Lettera agli Ebrei ritiene di doverlo commentare come segue: «l’ephapax vuole indicare che le cose scosse (saleuomenôn), in quanto create (ôs pepoiêmenôn), sono destinate a passare (metathesis), mentre rimarranno intatte quelle che non subiscono scosse (ta mê saleuomena)» (Eb 12,26-27)24. Non si tratta più di un istante, ma di un momento che, anziché iniziare a svanire fin da quando si manifesta nella vana pretesa di durare, arriva a decidere: que24.  Appoggiandosi sul testo di Ag 2,6 «ancora un po’ di tempo e io scuoterò il cielo e la terra, il mare e la terraferma» dove il termine greco della LXX eti hapax (per l’ebraico ‘alhat) si può tradurre sia con “ancora una volta” sia enfaticamente con “una sola e unica volta”; l’autore della lettera tuttavia lo modifica: «ancora una volta io scuoterò non solo la terra, ma anche il cielo» (seguiamo le indicazioni di M. Casevitz et alii, nella notevole edizione della Bible d’Alexandrie, vol. XXIII/10‑11, Les douze prophètes. Aggée Zacharie, Cerf, Paris 2007, pp. 54 ss. e 81 ss.). Egli insiste, così, nell’ottica del Nuovo Testamento, su una trasposizione (metathesis) definitiva, quindi unica, del mondo ripreso da altrove. Infatti, l’intero argomento si basa sull’opposizione tra il sommo sacerdote, che «ogni anno» ripete il suo sacrificio ed entra invano nel santuario, e Cristo, che «una volta sola [per tutte], nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,25-27; Eb 10,2). In questo senso si veda l’irreversibilità dell’apostasia dei battezzati (Eb 6,4-6).

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st’«ora» ha l’ultima parola [fait la décision], come attraverso una riduzione teologica, per dissipare ciò che muta e vacilla, al fine di lasciare in gioco solo ciò che non vacilla, «come una canna sbattuta (saleuomenon) dal vento» (Mt 11,7), non trema, non batte ciglio. Cristo, diversamente dal sommo sacerdote che ogni anno ripete il proprio sacrificio, in virtù di quest’operazione e del suo carattere di riduzione, può compiere un unico sacrificio, valido una volta per tutte. Egli perviene a tale unicità pagando in prima persona, offrendosi senza riserve, fino in fondo, «per davvero»: «lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso» (Eb 7,27)25. Cristo (ci) tira fuori dalla nostra storia proprio per salvarci. Ma com’è possibile che una volontà umana possa volere in modo decisivo, completo e irreversibile, «una volta per tutte»? Non è forse sottomessa senza rimedio alla dispersione cronologica della nostra storia, in cui ogni istante deve ripetersi perché non porta mai nulla a compimento? La volontà può forse sperare qualcosa di più della ripetizione dell’uguale? La volontà di Cristo vi riesce, nonostante tutto, perché non vuole ciò che, nel tempo ripetitivo e vano della nostra storia, non si può evitare di volere, ovvero affermare la propria volontà ripetendola finché si può, sforzandosi di reiterarla in modo identico per cercare di persistere nel flusso distruttore del niente presente – in breve, volendo la propria volontà. Cristo, al contrario, arriva a volere ephapax perché non vuole la propria volontà umana, impotente nel vano flusso della nostra storia, ma vuole la volontà del Padre, venuta da altrove rispetto al nostro tempo disperso, l’unica a essere per sempre. Egli si decide a non volere secondo una volontà instabile, inconsistente e quindi freneticamente ripetitiva, ma secondo quella venuta da altrove, prima di tutti i secoli, prima che Abramo 25.  L’avverbio si riferisce, infatti, a entrambi i verbi, cfr. Eb 9,12 «egli entrò una volta per sempre nel santuario».

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fosse, quella del Padre «fin dai secoli eterni», che «non mente» (Tt 1,2). Solo la decisione di passare da una volontà vana a una volontà altra – in quanto proveniente da altri, dal Padre, altro per antonomasia – dà la profondità del campo e l’affidabilità totale di cui è priva la banda passante dell’istante, nullità in se stesso. La volontà che Cristo vuole e attraverso la quale vuole si addentra così profondamente nel nostro tempo (al punto da dividerlo in due, Mt 27,51) solo perché cade dall’alto, dalle alture del Padre celeste, definitivamente «efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12 cfr. Is 55,11). Dal momento che Dio non vuole sacrifici materiali (cose o animali, ecc.) né sacrifici formali, fatti per interposta persona, tali da non impegnare in prima persona chi li offre, conviene che qualcuno venga di persona a compiere un sacrificio, cioè che egli vi si dedichi in prima persona, corpo e anima. Il che è possibile solo in un modo: darsi in prima persona equivale a realizzare una volontà altra rispetto alla propria, la volontà di colui al quale ci si vuole dedicare, «allora ho detto: “Ecco, io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà» (Sal 40,7-8, LXX). Il Regno di Dio viene in mezzo a noi nella misura in cui sulla terra è fatta la volontà del Padre (nella nostra vana dispersione); così come è fatta, fuori dal tempo, nei cieli; solo Cristo compie ciò che chiediamo in suo nome nella preghiera che egli ci ha insegnato. Solo lui è riuscito a volere una volta per tutte e «per davvero» (ephapax) la volontà altra del Padre, così «mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre (ephapax)» (Eb 10,10). Sotto i nostri occhi, al fondo della nostra storia vana, cronologicamente destituita da ogni decisione volontaria, fino nei bassifondi del nostro peccato, si compie una volontà perfetta, la sola assolutamente libera ed efficace, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), così nella «piena conoscenza della sua volontà» si trova «ogni sapienza

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e intelligenza spirituale» (Col 1,9). Finalmente, di fatto per la prima volta, uno dei nostri, che però era Dio, ha veramente voluto una volta per tutte, quindi anche noi con lui: «Cristo è morto hapax per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (1Pt 3,18). Per derivazione, anche noi viviamo volendo: «Cristo, risorto dai morti, non muore più (ouketi); la morte non ha più (ouketi) potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte (ephapax); ora invece vive, e vive per Dio» (Rm 6,10).

Fare il mio tempo Se quindi io – anch’io – posso volere abbastanza realmente perché la mia volontà decida quel che sia «una volta per tutte», bisognerà che io voglia nell’unico momento (nun) in cui, a mia conoscenza, una tale decisione sia mai stata presa – nel momento di Cristo: «ora (nuni), invece, Cristo è risorto dai morti, primizia (aparckhé) di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Qualsiasi altro momento decisivo si inserisce qui come nel suo principio e Cristo offre il solo posto e l’unico momento in cui occorre essere se si vuol prendere una decisione, giacché «non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo (nun) nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Se situarsi in questo momento è possibile, si intravvede la possibilità di accedere al punto preciso in cui la nostra storia si trova risucchiata e tramutata nell’Alfa e l’Omega, nella comunione trinitaria che il Figlio compie senza fine. Qui sta la crisi, ossia il momento in cui la facciamo finita con la nostra storia ma a condizione di riceverla come tale: «il mio giudizio (krisis) è vero» (Gv 8,16), cioè come ricevuta dalla volontà del Padre, che apre lo spazio per una decisione «una volta per tut-

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te» permettendo di non volere la propria volontà: «il mio giudizio (krisis) è giusto perché io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30). Questa crisi diventa subito, in potenza, anche la nostra, sia perché Cristo stesso non «condanna il mondo» (Gv 3,17), non più di quanto «il Padre non giudica nessuno» (Gv 5,22) e soprattutto perché «la parola (logos) che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno» (Gv 12,48). Infatti, giudicherò me stesso a partire da ciò che avrò deciso nei confronti della crisi che provoca in me la parola del Logos. La crisi, vera e giusta in quanto proveniente dalla volontà del Padre, insiste solo su di me: io mi decido, in perfetta cognizione di causa, una volta per tutte e per la prima volta veramente, e in tal modo bisogna intendere l’avvertimento «non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio (krisis) con il quale giudicate sarete giudicati voi (en gar krimati krinete krithêsesthe) e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Mt 7,1-2). Sarebbe un controsenso immaginare di poter decidere qualsiasi cosa autonomamente, senza che una crisi lo permetta da altrove. Il buon senso consiste nel ricevere la crisi da altrove, dalla volontà del Padre, data nella parola del Figlio e vista nell’obbedienza di Cristo, per decidersi, finalmente e secondo verità. Solo allora si spalanca il momento decisivo, quello che consente la profondità della dimensione aperta dalla Trinità, i cieli aperti sulla nostra storia, nel nostro tempo vano. È il momento determinante, che può trasformare i peccatori in pescatori di uomini, «d’ora (nun), in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10); consentire che Simeone veda la salvezza, «ora (nun) puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, […] perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30) o rendere beati coloro che piangono, fin da ora (nun, in Lc 6,2-21 e 25), in un unico presente («Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», Mt 5,3); ma anche il nun irrimediabile della crisi nelle famiglie divise (apo tou nun, Lc 12,25

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e Mt 10,30) o dell’abisso tra il povero Lazzaro e l’uomo ricco (nun dê, Lc 16,25). Il momento che dà la crisi, il nun di cui la nostra storia si mostra incapace, ci offre l’occasione unica di compiere una decisione «una volta per tutte (ephapax)» (Eb 12,26 ss.). Il nun, una volta ristabilito dalla temporalità cristica, può sopportare l’ephapax della crisi escatologica, cioè della decisione che fa apparire ciò che resterebbe nascosto; non l’eternità atemporale, ma l’ephapax della questione che nel nostro tempo è sempre rimasta non decisa; il nun, il momento, che consente la decisione pro (o contro) lo s-coprimento di questo «mistero». Non si tratta più, quindi, dello slancio verso il termine, dello strappo della fine, in cui «dimenticando (epilanthanomenos) ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte (emprosthen epekteinomenos), corro verso la mèta» (Fil 3,13-14). Ciò che vale per ciascuno vale allo stesso modo anche per tutta la creazione: «l’ardente aspettativa (apokaradokia) della creazione, infatti, è protesa verso (apekdetai) la rivelazione (apokalupsis) dei figli di Dio» (Rm 8,19)26. Ormai tutto è in gioco qui e ora, «ora (nun) il mio regno non è di quaggiù (entehthen)», da Pilato o al Sinedrio, ovvero in questo mondo (Gv 18,36), ma proprio «in mezzo a voi» (Lc 17,21). Questo momento diviene pertanto un “qui e ora” che ci posiziona e ci mantiene nella crisi, di fronte alla decisione di deciderci. Decidere di deciderci, ecco la crisi, la possibilità dell’ephapax; è qui e ora che bisogna dire sì o no, affinché la crisi non ci faccia fallire, cioè che non falliamo per mancanza di crisi, «il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no” no, per non incorrere nella condanna (krisis)» (Gc 5,12). Non facciamo altro che conformarci al 26.  Alla lettera, il testo compie un raddoppiamento: «l’attesa attende», perché è proprio tutta la creazione ad attendere, «sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto arkhi tou nun» (Rm 8,22).

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paradigma di Cristo, «in lui vi fu il “sì”. Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono “sì”. Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria» (2Cor 1,19-20), per noi la Resurrezione ha inizio in questo risveglio, «consapevoli del momento (touto […] ton kairon): è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso (nun) la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,11-12). Il seguito non sarà altro che lo sviluppo di ciò che, sin d’ora, è compiuto: «noi fin d’ora / in realtà (nun) siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato (oupô)» (1Gv 3,2). La risultante della nostra storia orizzontale e della crisi verticale (ephapax) traccia la diagonale del nun27. In conclusione: il mio giudizio personale è tutt’uno con il giudizio globale, perché il mio nun personale si decide per, nei confronti di e nell’ephapax di Dio, contemporaneo a ciascuno dei nostri momenti. Tutti questi momenti costituiscono altrettante occasioni per una decisione della volontà da altrove. L’escatologia trapassa il nostro tempo senza lasciarvisi inglobare svanendo nell’astrazione dell’eternità. Secondo la diagonale del nun ogni istante può (e deve) essere vissuto come l’ultimo – come l’occasione della decisione pro o contro Cristo, come l’opportunità di farla finita con il tempo dell’indecisione. Il giudizio finale può sopraggiungere in ogni momento in cui si può prendere questa decisione, ovvero in qualunque 27.  «Quando con la resurrezione del Figlio la forma economica della Trinità è superata (aufgehoben) in quella immanente, in ultima analisi nulla ha bisogno di essere revocato o ancor meno “rovesciato”, ma è necessario soltanto che la forma verticale-temporale venga innalzata ed elevata (zurück-und emporgehoben) nella forma eterna-orizzontale» (H.U. von Balthasar, Teodrammatica, vol. III, Le persone del dramma: l’uomo in Cristo, cit., p. 482; tr. mod.). La stessa e unica Trinità oscilla, per così dire, dalla verticalità secondo la quale si immerge nella nostra temporalità e risale all’orizzontalità della sua eterna comunione. Il fulcro resta sempre il Padre.

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istante del nostro tempo insensato, «ecco ora (nun) il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2Cor 6,2, cfr. Is 49,8). A partire dalla mia morte, subito, sono introdotto nell’assoluto, in cui tutto si è già giocato.

Rinnovare, portare alla luce Tra la teleologia e l’escatologia bisogna scegliere: o includere l’assoluto nella storia, o inscrivere la storia stessa nell’assoluto, l’unico, la Trinità, perché «durante la vita terrena di Gesù, nella sua persona divina incarnata, il secolo futuro si trovava a coesistere sul secolo presente. […] Invece nella chiesa, che è il suo corpo e a cui egli ha inviato il suo Spirito, il secolo futuro è già realmente presente sotto le apparenze del secolo attuale che continua a esistere, un po’ come avveniva nel Cristo stesso prima della sua passione»28. Se è permesso osare questo neologismo, diremo che non bisogna presentificare (rendere eternamente presente) il futuro, ma futurizzare (orientare verso l’avvenire, l’avvenimento) il presente, o almeno evenemenzializzarlo verso l’innanzi29, perché per ciascuno di noi l’eternità sarà costituita da ciò che ci attende. Ciò che mi attende, in fondo, non è nient’altro che ciò che mi atten28.  L. Bouyer, Eschatologie, in Id., Dictionnaire théologique, DDB, Paris 19902; tr. it., Escatologia, in Id., Breve dizionario teologico, EDB, Bologna 1992, pp. 142-143: p. 142. 29.  Cfr. la formula simile di Lacoste: «il presente è quindi costruito come il ricordo di un avvenire» (J.-Y. Lacoste, Note sur le temps, cit., p. 187). Detto altrimenti: il presente trova la presenza solo se si lascia aspirare dall’altrove (la filiazione nel gioco trinitario) così come gli adviene dall’indimenticabile ephapax di Cristo. Donde la definizione della fede come l’ipostasi delle cose sperate, cioè come il loro possesso anticipato, possesso reale perché anticipato, come anticipi dell’eredità, la prima riscossione di un credito già concesso, di un deposito già registrato.

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do. Non si tratta per nulla di un’altra storia, ma di un’uscita dalla storia, in modo tale che entra nella storia e la attraversa solo ciò che può uscirne, poiché viene da altrove, «nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo» (Gv 3,13), nessuno esce dalla nostra storia, né ci tira fuori da tutta questa storia, salvo colui che non ne proviene, ma le avviene come l’ephapax assoluto. Rinnovando tutto [mettre à jour], in me e nel mondo, la scoperta porta tutto alla luce [au jour].

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D’ailleurs – il rigore di un’opera Postfazione di Carla Canullo

“Il rigore di un’opera” riecheggia il titolo degli entretiens che Jean-Luc Marion ha condotto con Dan Arbib e il cui titolo è La rigueur des choses1. Marion vi descrive la sua opera in questo modo: «tutta la mia vita è stata un lavoro intellettuale e posso darne conto soltanto in questo modo: sarò quindi letto in questa prospettiva. Mi colpisce oggi, a posteriori, la coerenza dell’insieme, che in definitiva è dominato dalla questione dell’evento, l’approccio alla presenza dal presente inteso come dono. Così emerge il rigore, ma il rigore delle cose, non quello che noi imponiamo loro o immaginiamo di poter imporre loro»2.

1.  J.-L. Marion, La rigueur des choses. Entretiens avec Dan Arbib, Flammarion, Paris 2012. 2.  Ivi, p. 11: «toute ma vie fut de travail intellectuel et je n’en peux rendre compte que comme telle: on me lira donc dans cette optique. Me frappe aujourd’hui, rétrospectivement, la cohérence de l’ensemble, que domine finalement la question de l’événement, l’approche de la présence à partir du présent entendu comme don. Ainsi se dégage la rigueur, mais la rigueur des choses, non celle que nous leur imposons ou imaginons pouvoir leur imposer».

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Il libro che oggi è inviato ai lettori italiani si introduce in questo quadro la cui coerenza viene anche da quel d’ailleurs che risuona nel suo titolo e che s’impone già in ricerche che precedono quest’ultima pubblicazione. D’ailleurs che dunque tratteggia anch’esso, con l’evento e il dono, il rigore dell’opera di Marion. L’insieme di quest’opera, ormai ben nota, non ha certo bisogno di essere riassunto, né un censimento dei luoghi in cui d’ailleurs ricorre favorirebbe il coglimento del rigore che si dà nell’opera. Perciò, anziché un censimento di questi luoghi, saranno proposti pochi nuclei in cui d’ailleurs si espone. E esso innanzitutto lo fa nelle domande in cui ne Le phénomène érotique si articola la riduzione erotica che la vanità inaugura. Vanità che, colpendo l’ego, sospende quest’ultimo avviandolo alla più radicale delle riduzioni, quella che ne mette in dubbio persino la certezza di essere quando essa è riferita dall’ego a se stesso; una certezza che neppure l’essere può garantirgli quando la vanità gli fa chiedere “à quoi bon?”, ossia a che giova ogni cosa e, persino, essere. Ma c’è di più, ché la vanità, sospendendo e destituendo questa certezza, destituisce anche la chiusura solipsistica dell’ego, chiusura alla quale esso è sottratto soltanto quando un’altra domanda si pone, ovvero quella domanda che inizia ad aprirlo ad altro quando egli chiede «m’aime t-on”? sono amato?»3 e quando incalza questa richiesta con una terza domanda che definitivamente lo disloca da sé: «m’aime t-on d’ailleurs?; sono amato da altrove?»4. È questa terza domanda a portare l’ego fuori da sé esponendolo all’unica assurance che può sottrarsi alla vanità perché non gli viene da sé ma d’ailleurs; assurance nella quale ne va di sé e del “proprio sé” che si scopre non perché si autopone ma, ap-

3.  J.-L. Marion, Le phénomène érotique, Grasset, Paris 2003, p. 38. 4.  Ivi, pp. 51 ss.

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punto, in quanto è amato da altro e da altrove. Ed è proprio su questo sé che nelle opere successive si metterà di nuovo in gioco l’altrove/ailleurs confermando quanto già nella fenomenologia della donazione di Dato che si profilava. In quest’opera, nelle pagine dedicate alle determinazioni del dato, il “venire da altrove” come determinazione del fenomeno in quanto dato, ossia il suo adveniens extra5 in quanto determinato dall’anamorfosi e in quanto incidente, era già banco di prova della donation, ché l’incident/incidente incide nel fenomeno da fuori, d’ailleurs. Di più, «poiché l’ousìa non permette di definire l’incidente, vale meglio definirlo separandosene; allora, dal punto di vista di una fenomenicità di ciò che si dà, l’incidente non viene tanto ad aggiungersi accidentalmente all’ousìa, ma, inversamente, l’ousìa può, nel migliore dei casi, venire a coincidere (dall’esterno e non senza scarto), con l’incidente, tale che si mostra da se stesso, senza di essa e unicamente a partire dalla sua sola irruzione»6. In seguito proprio questo adveniens extra e dunque d’ailleurs (determinazione del dato) si rimetterà alla prova, come anticipato, nel sé che Marion interrogherà nella lettura di Agostino che, nell’interior intimo meo, suggella il paradosso di un’interiorità dell’estraneità più abissale dell’intimità stessa. E proprio quando Agostino parlerà di Dio come di ciò che è interior intimo meo, non farà che attestare l’apertura dell’ego all’ailleurs, aprendo un varco nella breccia che già Il fenomeno erotico aveva aperto. Se infatti l’Io è là dove è amato, là 5.  Rosaria Caldarone, in Adveniens extra. Au lieu de soi e la fenomenologia della donazione, in C. Canullo (a cura di), Jean-Luc Marion. Fenomenologia della donazione, Mimesis, Milano 2010, pp. 57-73, traccia in modo preciso ed efficace questo tema dell’opera di Marion. 6.  J.-L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997; tr. it., Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, p. 190.

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dove ama, allora questo là diventa più interiore e più incisivo dell’intimità stessa che in qualche modo precede l’Io – intimità derivata da una topografia ancora ontica, dove ci sono un dentro e un fuori contrapposti. Il paradosso del comparativo che oltrepassa il superlativo, scrive invece Marion, «indica un luogo che io non ritrovo né fuori di me né in me, perché egli mi trova in un sé che non gli appartiene, ma a cui io appartengo e dove devo finire per giungere. Dio mi oltrepassa con la sua alterità assoluta, solo in quanto, grazie a quella stessa distanza che apre, definisce ciò che amo, dunque ciò che mi identifica nel mio sé»7. E persino quando, come in Agostino, il lieu de soi diventa Dio, questo luogo non può essere considerato un’essenza ma un «luogo ad imaginem»8, un luogo nella differenza, in quanto, nel caso di Dio, l’originale dell’immagine è nella distanza infinita. Non soltanto, allora, il fenomeno si riceve da altrove ma anche il sé, il quale a ben vedere non è altro dal sé dell’adonato9. L’ailleurs, perciò, si conferma in quell’intimità che percorre la sua lettura di Agostino: «io sono il luogo in cui confesso, scrive il nostro autore; ma non riposo in questo luogo se non perché il mio amore mi ci spinge e mi ci pone come un peso. Ma un peso volontario, perché attraverso di esso io amo, e se amo, io vi sono come nel mio sé»10. Marion ricorda che l’amore pesa perché «esercita una pressione, che spinge solo a partire da se stessa»11 senza farlo, tuttavia, come lo fa il conatus in suo esse perseverandi, ma facendolo come un amore che

7.  J.-L. Marion, Au lieu de soi. L’approche de saint Augustin, PUF, Paris 2008; tr. it., Sant’Agostino. In luogo di sé, Jaca Book, Milano 2014, p. 136. 8.  Ivi, p. 403. 9.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., Libro V, L’adonato, pp. 304-390. 10.  J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., p. 349. 11.  Ibidem.

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incrocia il sé attirandolo altrove, ovvero un amore «che mi spinge da altrove che da me»12. E ancora: «la fatticità dell’amore mi fissa e mi stabilizza, come ogni fatticità; ma operando come amore, non mi consegna a me stesso, né mi ci fissa, poiché consiste proprio nel rinviarmi a un altrove irrecuperabile. La sola possibilità, cui mi apre la pressione del pondus amoris, consiste semplicemente nella determinazione di questo altrove»13. Con ciò l’intimità del sé si scopre in quanto “altro in sé” – altro che è «in luogo di sé» perché «ciò che io sono non si trova in me, ma in un luogo che presenta una duplice caratteristica»14. E questo luogo da una parte «è più in me di me, dunque più in me (o io in lui), che sono fuori luogo (salvo che in lui)»15, dall’altra, «in quanto luogo che mi sfugge assolutamente, in quanto interiorità che mi manca, si rivela superiore alla mia massima capacità di coglierla. Il più intimo di me, il mio luogo, si trova altrove che in me, superiore. Io trovo dunque il mio luogo intimo soltanto fuori di me. […] Io non divento me stesso (se stesso) se non andando verso un altro e trovandovi il mio primo luogo»16. D’ailleurs/da altrove, allora, viene all’ego l’assurance che risponde all’attacco della vanità, d’ailleurs è l’intimità del sé e, va ora aggiunto, d’ailleurs si ritrova anche nel testo dedicato alla passività nel pensiero di Descartes, dove addirittura l’unione dell’anima e del corpo «vient d’ailleurs»17 e dove le passions

12.  Ivi, p. 350. 13.  Ibidem. 14.  Ivi, pp. 366-367. 15.  Ivi, p. 367. 16.  Ibidem. 17.  J.-L. Marion, Sur la pensée passive de Descartes, PUF, Paris 2013, p. 140.

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de l’âme permettono di «definire la cogitatio che la res cogitans può pensare solo lasciando che le avvenga d’ailleurs»18. Infine, d’ailleurs apre la questione-Dio, e lo fa senza uscire dall’uomo ma facendo apparire ciò che è dell’uomo senza essere “il suo”, ossia la sua immagine. È quanto Marion mette a tema nel § 40 del libro Sant’Agostino. In luogo di sé, paragrafo il cui titolo è La somiglianza senza definizione, dove l’immagine di Dio, a immagine del quale l’uomo è fatto, «non consiste che nella tensione di rapportarsi a ciò a cui essa intende rassomigliare. Essa appare solo come questo movimento verso, e solo questa intentio ad, le conserva una rassomiglianza»19. Non un’impossibile rassomiglianza sensibile, tuttavia, ma un andare verso l’immagine «attraverso la somiglianza: l’uomo porta l’immagine di Dio nella misura in cui abbandona la rassomiglianza a se stesso (ad suum genus, ad suam similitudinem) e corre il rischio di non assomigliare a niente, a niente di cui possa avere l’idea […]. L’uomo infatti non assomiglia a Dio assomigliando a qualcosa di visibile o intelligibile, ma non assomigliando in primo luogo a niente di visibile, né di intelligibile, in breve, non assomigliando ad alcuna immagine, soprattutto non a una pretesa imago di Dio ma portando la rassomiglianza allo stile di Dio»20. E per concludere: «l’indefinizione dell’uomo, questo privilegio, implica che io non abiti nessuna essenza ma che, al contrario, assomigli a ciò che non ha somiglianza, Dio, senza figura né eidos, indescrivibile, incomprensibile, invisibile, in altre parole, che io non assomigli

18.  Ivi, p. 233: «définir la cogitatio que la res cogitans ne peut penser qu’en la laissant lui arriver d’ailleurs». Al solo scopo di mostrare come la radicalizzazione del d’ailleurs jalonne quest’opera si vedano le pp. 140, 213, 233, 244, 245. Ancora, con speciale sottolineatura del senso che acquisisce il pensiero passivo: pp. 133, 128, 164, 168. 19.  J.-L. Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, cit., p. 331. 20.  Ibidem.

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a niente. O, più esattamente, che rassomigli, che sembri per riflesso, che io appaia nel rimando del rapporto alla somiglianza a Dio, ad similitudinem Dei»21. Non soltanto, allora, l’amore è il medesimo per l’uomo e per Dio, secondo la celebre conclusione de Le phénomène érotique22, ma anche l’indefinizione dell’immagine è la medesima per l’uomo e per Dio. Se, infatti, l’idolo e l’icona sono fenomeni saturi, come Dato che ma anche De surcroît23 ci ha appreso, allora in ogni immagine – soprattutto nell’immagine di Dio – si dà colui che fa l’immagine quale essa è senza mai esaurirsi in essa e che, al contrario, la satura per arrivare fino al libro che oggi si invia per essere letto in una lingua altra da quella in cui è stato per la prima volta scritto – lingua che è un altro “altrove” al quale esso ora si espone e ci espone per continuare a pensare. Di inizio in inizio, secondo inizi che non avranno mai fine.

21.  Ivi, pp. 352-353. 22.  Cfr. J.-L. Marion, Le phénomène érotique, cit., pp. 340-342. 23.  Cfr. J.-L. Marion, De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, PUF, Paris 2001.

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Indice delle citazioni bibliche

Genesi 3,4: 612. 3,5: 455. 12,1: 350. 12,7: 350. 15,1: 351. 15,2: 351. 15,6: 351. 17,1: 351. 17,5: 350. 17,15: 351. 17,19-21: 347. 18,1: 351. 18,1-15: 305. 18,2: 351. 18,3: 351. 18,9: 351. 18,14: 87 n. 18,22-32: 352. 21,1:  351, 352. 22,1: 352. 22,3-10: 352. 22,11: 352. 28,13: 351.

22,18: 352. Esodo 3,2: 347. 3,3: 374. 3,4: 347. 3,5: 347. 3,6:  348, 353. 3,14: 348. 4,1: 349  n. 8,6: 353 n. 9,14: 353 n. 16: 353. 19: 343. 19,7: 343. 19,9: 342. 19,12: 342. 19,16: 342. 19,19: 343. 19,21: 342. 19,25: 343. 20,1-17: 343. 20,2: 352. 20,5:  352, 353 n.

672 20,18:  163 n., 342 e n., 416. 20,19: 341. 24,11: 347 n. 24,17: 347. 24,28: 347. 32: 344. 33,9: 344. 33,11:  155, 344. 33,13:  345 n., 346. 33,14: 345. 33,15:  345 e n. 33,17: 346. 33,18: 344. 33,19: 346. 33,20:  327, 344, 346, 360. 33,20-23: 72. 33,23: 344. 34,10-27: 342 n. 34,10-28: 343. 34,35: 347. Levitico 16,2: 341.

Giosuè 8,24-26: 188. 1Samuele 2,6: 627 n. Tobia 13,2: 627 n. Salmi 35,8-10: 262. 36,4: 262. 40,7-8: 656. 79,18: 281. 96,13: 387. 98,9: 387. 99: 387. 110,1:  313 n., 356. 102,17: 281. 118,12: 428 n. Proverbi

Numeri

1,6: 407 n.

4,20: 342 n. 12,8: 348.

Sapienza

Deuteronomio 4,12: 349. 18,15: 348. 18,18: 348. 21,18: 372 n. 32,28: 372 n. 32,39: 627 n. 34,10: 349.

2,22: 361. 13,5: 159 n. 14,23: 360. 16,13: 627 n. Siracide 1,25: 407. 47,15: 407.

673 Isaia

Michea

6,5: 344. 6,9:  416 e n. 6,9-10: 414. 6,10:  298, 403. 7,9:  250, 267 e n. 11,15: 395 n. 29,14: 366 n. 40,3-5: 320. 41,4: 353 n. 43,10: 353 n. 46,5: 353 n. 48,12: 353 n. 49,8: 661. 51,1: 428. 51,12: 353 n. 54,5: 353 n. 55,9: 216. 55,11: 656. 61: 419. 64,3:  366, 639.

5,1: 437.

Geremia 3,14: 113 n. Baruc 3,38:  155, 156. Daniele 2,18: 361. 2,47: 361. 7,3: 356. 7,13: 313. 10,11: 561. 12,8:  72, 407 n.

Abacuc 2,4: 157. Aggeo 2,6: 654 n. Zaccaria 14,5: 643. Matteo 2,2: 547. 2,9: 450. 2,13: 369. 3,11: 313. 3,16:  543, 639. 3,17:  206 n., 464 n. 4,1: 459. 4,19: 308. 5,3:  427, 658. 5,6: 260. 5,13: 285 n. 5,16: 444. 5,17: 356. 5,37: 398. 6,4: 589. 6,6: 589. 6,11:  447, 623 n., 636 n. 7,1-2: 658. 7,2: 297. 7,11: 621. 7,14: 212 n. 7,15: 613.

674 8,27: 423. 10,1-41: 422. 10,2: 428 n. 10-17,10: 422. 10,20:  543, 548. 10,26:  43 n. 307 n., 394 e n., 422, 432, 436. 10,30: 659. 10,34: 80. 10,38: 615 n. 11,7: 655. 11,12: 613. 11,15: 422. 11,20-24: 422. 11,25-27: 425. 11,25: 464 n. 11,27:  424 n., 426, 430, 452, 557, 611. 12,29:  457, 613. 12,30: 621. 12,45: 457. 13,4-9: 402. 13,11:  360, 361, 366 n. 13,12-23: 423. 13,12: 418. 13,14: 298. 13,19: 613. 13,24-30: 403 n. 13,31-32: 403 n. 13,33: 403 n. 13,44:  293 n., 424. 13,51:  399, 404. 14,27: 355. 14,33:  424, 435 n. 15,19: 457. 16,13:  431, 610. 16,14: 424. 16,15-17: 559.

16,15: 610. 16,16:  423, 428 n., 432. 16,17-20: 448. 16,17:  367, 422, 425, 427, 428, 432, 449 n. 16,18:  428 n., 430 n. 16,20: 428. 16,21:  429, 449. 16,22: 448 n. 16,23:  428, 429, 448, 449. 16,24-25: 615 n. 16,26: 624 n. 17,1-9: 423. 17,2: 305. 17,4: 610. 17,5:  306 n., 360. 17,6: 305. 17,7: 418 n. 17,9: 421. 17,23: 429. 18,1: 612 n. 18,4: 614. 19,10: 443 n. 19,25: 443 n. 19,26: 87 n. 19,30: 313. 20,20-21: 612 n. 21,33-46: 402. 22,5: 293 n. 22,6: 293 n. 22,15-22: 552. 22,20: 467. 22,23: 610 n. 22,37-40: 301. 22,44: 642. 23,25: 613. 23,43-44: 403 n. 24,5: 355.

675 24,27: 623. 24,32-36: 402. 24,36:  437, 462 n., 637. 24,45-51: 403 n. 25,1-13: 403 n. 25,14-29: 403 n. 25,31: 643. 26,26: 308. 26,33: 449. 26,39:  449, 460 n. 26,40: 639 n. 26,41: 460 n. 26,43: 449. 26,55: 397 n. 26,63-64: 424. 26,63: 432. 26,64:  313 n., 454. 27,40: 615. 27,43: 611. 27,50: 651. 27,51:  384, 656. 27,54:  312 e n., 435 n. 27,54-55: 424. 28,18-20: 387. 28,19:  424, 568. Marco 1,1:  399, 473. 1,7: 313. 1,11:  306 n., 464 n. 1,12: 459. 1,15:  363, 399, 401. 1,21-22: 399. 1,21-28: 399. 1,21: 399. 1,24: 445. 1,27:  399, 413.

1,29-31: 399. 1,34:  399, 428. 1,39: 399. 1,40-44: 399. 1,44: 412. 1,45: 399. 2,1-12: 399. 2,2: 399. 2,10: 399. 2,6-12: 399. 2,16-20:  399, 404. 2,21-22: 409. 3,1-5: 399. 3,7-8: 409. 3,12-19:  399, 404. 3,12: 412. 3,13: 404. 3,21: 419. 3,22: 419. 3,23: 400. 3,35: 436. 4,2:  400, 403. 4,3-20: 402. 4,3-23: 415. 4,9:  403, 414, 416. 4,10-11: 402. 4,10-12: 403. 4,10:  403, 404, 405, 416 n. 4,11:  360, 361, 366, 395, 403, 404, 414, 416, 417, 422 n. 4,13-30: 410 n. 4,13: 428. 4,21-23: 402. 4,22:  307 n., 394 e n., 402, 415, 422 n. 432, 436. 4,23:  414, 416. 4,24:  464, 465. 4,25: 417.

676 4,27: 416. 4,28-29: 403. 4,33-34: 400. 4,33: 411 n. 4,34:  404, 414. 4,39-41: 305 n. 4,41: 415. 5,17: 419. 5,35-43: 89 n. 6,5-6: 421. 6,45: 412. 6,50: 355. 8,11: 370. 8,27: 431. 8,28: 419. 8,29: 423. 8,31: 409. 8,33:  412, 429. 8,34-35: 615 n. 7,7: 305 n. 9,3: 305. 9,5: 610. 9,6:  305, 418 n., 429, 434. 9,7:  306 n., 360. 9,9: 428. 9,33-34: 612 n. 9,35: 614. 9,43 ss.:  212 n. 10,26: 443 n. 12,1-12: 402. 12,16: 467. 12,18: 610 n. 13,6: 355. 13,11: 548. 13,28-32: 402. 13,36: 547. 14,22: 308. 14,26: 461 n.

14,35-36: 639 n. 14,35:  460 n., 639 n. 14,36: 460. 14,37: 639 n. 14,39: 460 n. 14,61-63: 356. 14,62:  313 n., 454. 15,31: 615. 15,34: 460 n. 15,36: 651. 15,38: 384. 15,39: 435 n. 15,40:  312 e n. 16,6: 369. 16,8:  89 n., 305 n., 415. Luca 1,37:  87 n., 369, 461 n., 562. 2,13: 547. 2,29-30: 658. 2,34-35:  395 n., 405, 421. 2,34:  309, 418. 2,35: 411. 3,4-5: 320. 3,8: 417. 3,15: 419. 3,16: 313. 3,22:  306 n., 464 n. 4,1: 459. 4,21:  357, 419. 4,22:  417, 419. 4,28: 419. 4,36: 418. 5,4: 39. 5,8-9: 419. 5,10: 658. 5,20:  89, 420.

677 5,21: 89. 5,22: 89. 5,24: 90. 5,26:  89, 323, 418, 418 n. 6,2-21: 658. 6,11: 420. 6,20: 427 n. 6,46-47: 421. 6,48: 428 n. 7,9: 420. 7,16: 418. 7,19: 418. 7,23: 418. 7,50: 421. 8,2: 416 n. 8,4-8: 402. 8,5-18: 415. 8,8: 416 8,10:  360, 361, 366 n., 416. 8,17:  307  n., 394  n., 395, 415, 422 n., 432, 436. 8,18:  395, 416, 417, 422 n. 8,25:  418, 421. 8,35: 418. 8,37: 419. 8,48:  402, 421. 8,56:  418 n., 428. 9,7-9: 306. 9,7: 419. 9,8: 419. 9,9:  305, 369, 419. 9,18: 431. 9,20: 423. 9,21: 428. 9,24: 615 n. 9,25: 624. 9,29: 305. 9,33:  305, 547.

9,34-35: 560. 9,35: 306 n. 9,44-45: 420. 9,46: 612. 10,12: 613. 10,21:  424, 450 n., 464 n., 559. 10,22:  424, 426 n., 430, 452, 611. 10,9: 363. 11,3:  623, 636. 11,15-19: 419. 11,16: 370. 11,23: 621. 11,29: 370. 11,39: 613. 12,2-3: 395 n. 12,25: 658. 14,10: 588. 14,18: 293 n. 14,26: 616. 14,34: 285 n. 15,12-13: 622. 15,13: 275 n. 15,31:  426 n., 454, 456 n., 534. 16,25: 659. 16,26: 397 n. 17,1: 370. 17,21: 659. 17,33:  370, 616. 18,11: 613. 18,26-27: 443 n. 19,5-6: 421. 19,47-48: 397 n. 20,9-19: 402. 20,24: 467. 21,8: 355. 21,29-32: 402. 21,31:  363, 402. 22,19: 308.

678 22,24: 612. 22,25: 613 n. 22,37: 651 n. 22,41-43: 639. 22,44:  460 n., 513. 22,69-70:  313 n., 642. 22,70: 454. 23,39: 436. 23,46: 460 n. 23,47:  312 e n. 23,48: 313 n. 24,5: 369. 24,25:  307, 322, 420, 653. 24,27:  93, 357, 562. 24,31: 94. 24,35: 307. 24,39: 355. Giovanni 1,1: 285. 1,1-2: 212 n. 1,1-3: 94. 1,2:  207, 212 n. 1,10: 230. 1,11:  515, 541. 1,12: 230. 1,13:  366, 425. 1,14:  94, 225, 230, 449 n. 1,18:  72, 93, 230, 299, 342  n., 360, 430, 562. 1,30: 313. 1,32-34: 464 n. 1,34: 433. 1,36: 433. 1,41: 433. 1,45: 433. 1,49: 433.

1,51: 398 n. 2,3: 300. 2,9: 610. 2,11: 433. 2,16: 454. 2,23:  267 n., 433, 434. 2,24:  267 n., 434. 3,1-21: 439. 3,1: 440. 3,2:  212 n., 386, 433, 440, 457, 660. 3,3:  398 n., 440, 441 n. 3,4: 441 n. 3,4 ss.:  275 n. 3,5:  398 n., 441. 3,6: 450 n. 3,7-8: 441. 3,7: 441 n. 3,8:  231, 588. 3,9:  439, 442. 3,10:  440, 443. 3,11: 398 n. 3,12:  275 n., 443, 444 n. 3,13:  444, 662. 3,14-15: 444. 3,15: 444. 3,16:  444, 469. 3,17: 658. 3,18: 443. 3,27: 627. 3,34: 296. 4: 278. 4,1-3: 544. 4,3-42: 273. 4,7: 274. 4,9:  212 n., 274, 275. 4,10: 275. 4,11:  275, 278.

679 4,12:  220, 276. 4,13-14: 276. 4,14: 275 n. 4,15:  276, 278, 446. 4,17:  274, 277. 4,18: 277. 4,19:  278, 301. 4,20-21: 301. 4,21: 438. 4,23:  276, 465 n., 640, 642. 4,24:  278, 543. 4,25-26: 433. 4,25: 278. 4,26:  278, 611. 4,27: 274. 4,29: 277. 4,31: 277 n. 4,32: 446. 4,33: 277 n. 4,34-38: 278 n. 4,34:  277 n., 446, 638. 4,39: 278. 4,42:  278, 433, 435 n., 611. 4,53: 433. 5,8: 212 n. 5,12-13: 73 n. 5,17:  453, 454. 5,18:  370, 454, 482, 611. 5,19:  398 n., 447. 5,21:  627 n., 638. 5,22: 658. 5,24: 398 n. 5,25:  398 n., 465, 640. 5,26:  398 n., 535 n., 638. 5,30:  370, 455, 457, 658. 5,36:  513, 517. 5,37-38: 342 n. 5,39: 357 n.

5,44: 458. 6,14: 435 n. 6,15:  409, 613. 6,24 ss.:  445. 6,26:  370, 398 n., 446. 6,27: 446. 6,32: 398. 6,33: 447. 6,34: 446. 6,35-40: 446. 6,35:  313, 446 e n. 6,36:  436, 445, 447, 463. 6,38:  313, 446, 457. 6,40: 463. 6,42:  447, 463. 6,44:  260 e n., 261, 268, 447, 450. 6,46: 447. 6,47: 398 n. 6,51 ss.:  449 n. 6,51:  446, 447. 6,53: 398 n. 6,60:  418, 432, 445. 6,61:  432, 449. 6,62: 418. 6,63: 449. 6,64: 463. 6,65: 450. 6,68-69: 432. 6,69:  432, 445, 447. 6,70: 432. 7,1: 370. 7,3-5: 436. 7,3-6: 398 n. 7,4: 395 n. 7,6: 437. 7,10: 436. 7,15: 443. 7,18:  370, 458.

680 7,19: 370. 7,25-26: 437. 7,25:  370, 437. 7,26:  382 n., 435 n., 437, 438. 7,27-28:  437, 438. 7,28: 438. 7,30: 370. 7,31: 433. 7,40-43: 438. 7,43: 438. 7,49: 438. 7,50-52: 439. 7,52: 438. 8,7: 458 n. 8,14: 442. 8,16:  78 n., 657. 8,17: 78 n. 8,18: 78 n. 8,19: 453. 8,23:  314, 642 n. 8,24: 314. 8,25: 642 n. 8,28: 642. 8,33: 612. 8,34: 398 n. 8,39-40: 481. 8,42: 456. 8,44:  312, 457, 612. 8,46:  382 n., 382 n., 458. 8,47: 621. 8,50: 612. 8,51: 398 n. 8,58:  220, 398 n. 9,9: 73. 9,11: 73. 9,12:  73, 312. 9,15: 73. 9,20-21: 73 n.

9,21-22: 312. 9,22: 74. 9,25:  73, 74. 9,28-29: 76. 9,28: 74. 9,29:  73, 74. 9,30-31: 74. 9,30:  306, 312, 443. 9,32: 74. 9,33: 75. 9,34:  75, 77. 9,36-37:  75, 312. 9,37-38:  9,38: 433. 9,39: 75. 9,41: 453 n. 10,1: 398 n. 10,7: 398 n. 10,10: 297. 10,15: 453. 10,17-18:  461, 638. 10,18: 429. 10,30:  426, 444, 454, 611. 10,33: 611. 10,38: 466. 10,42: 433. 11,25:  369, 642. 11,27: 464. 11,41-42: 464. 11,45: 433. 12,23: 465. 12,24:  398 n., 465. 12,25:  465, 616. 12,27-28: 640. 12,27: 465. 12,27-28: 306. 12,28: 465. 12,29: 465.

681 12,30-32: 640. 12,30: 465. 12,31:  465, 641. 12,44: 448. 12,44-45:  462, 465. 12,48: 658. 13,1: 296, 397, 429, 455, 483, 549, 651. 13,12-14: 614. 13,16: 398 n. 13,20: 398 n. 13,21: 398 n. 13,31:  465 n., 642. 13,33: 297. 13,38: 398 n. 14,6-10: 452. 14,6:  239 n., 372. 14,7: 559. 14,9:  448, 554, 562. 14,10:  312, 456, 611. 14,12:  398 n., 545. 14,18: 454. 14,20-21: 466. 14,21: 466. 14,28:  442, 455. 15,9: 282. 15,13: 517. 15,15:  75, 155. 15,23-24: 453 n. 15,26:  559, 578. 16,3: 453 n. 16,5: 465 n. 16,7: 451. 16,12:  297, 322. 16,13-14: 545. 16,13:  322, 546, 562. 16,14: 561. 16,15: 426 n.

16,20: 398 n. 16,23: 398 n. 16,27: 466. 16,32: 640. 17: 639 n. 17,1:  435, 466, 639. 17,4: 651. 17,5-6: 642. 17,5:  466, 610, 639. 17,6: 466. 17,7:  435, 465 n. 17,8: 435 n. 17,10:  426 n., 454, 456, 534. 17,11:  444, 466, 639. 17,13:  465 n., 639. 17,21:  466, 639. 17,22-23: 589. 17,23: 466. 17,25-26: 435. 17,38: 443. 18,5-6: 305 n. 18,6: 356. 18,9: 639 n. 18,17: 308 n. 18,18: 308 n. 18,20:  397, 436. 18,36:  642 n., 659. 18,37: 621. 18,38: 372. 19,7: 611. 19,8: 306. 19,11: 441 n. 19,28: 220. 19,28-30:  651, 652. 19,30:  383, 397, 455. 19,34: 276. 19,38: 440 n. 19,39: 440 n.

682 20,8: 428. 20,14: 307 n. 20,16: 307 n. 20,17: 356. 20,25: 94 n. 20,28: 435. 20,29: 80. 20,30: 322. 21,1: 307. 21,3: 308. 21,4: 308. 21,5: 308. 21,6: 308. 21,7:  308 e n., 435. 21,9: 308. 21,12:  308, 309. 21,13: 309. 21,14: 307. 21,15-17:  308 n., 435. 21,18: 398 n. 21,25: 322.

17,19-22: 388. 17,22: 387 n. 17,23:  376, 387 n., 389. 17,24: 391. 17,26: 221. 17,27: 369. 17,28a:  390 e n. 17,28b: 390 n. 17,28: 610. 17,30:  387 n., 390. 17,30-31: 387. 17,31: 387 n. 17,32-34: 372. 17,32: 388. 22,6: 547. 23,10: 613. 26,24: 372. 26,26:  397 n., 436. 26,27-28: 372. 28,8: 610 n. Romani

Atti 1,6:  409, 650. 1,7: 462 n. 2,4: 548. 2,6: 548. 2,23: 221. 3,10: 89 n. 4,20: 95 n. 5,20: 212 n. 7,55-56: 639. 7,56: 463. 8,20:  577, 578. 8,39: 613. 9,3: 547. 17,18:  369, 388 e n., 389.

1: 387 n. 1,4: 221. 1,14: 420. 1,16-18: 157. 1,18-20: 158 n. 1,18-32: 387 n. 1,19-20:  156, 157. 1,19-21: 387 n. 1,19: 364. 1,20:  150, 453 n. 1,21-22: 364. 1,25: 398 n. 2,1:  387 n., 610. 2,16: 391 n. 2,28: 188 n.

683 2,29: 188 n. 3,26: 610. 4,3: 351. 4,11: 610 n. 4,16: 610 n. 4,17:  574, 627. 5,5:  244, 266, 367, 548, 549. 5,8: 621. 5,10: 621. 5,19: 616 n. 5,20: 380. 6,10:  383, 654, 657. 8,3: 382 n. 8,4-9: 367 n. 8,5: 621. 8,8: 621. 8,9:  385, 589. 8,14: 543. 8,15-16: 544. 8,15-17: 367 n. 8,15:  266, 384, 588. 8,19: 659. 8,22:  648, 659 n. 8,29:  553, 467, 610 n. 9,5: 610 n. 10,17: 119. 11,25: 364. 11,29: 455. 11,33: 366 n. 11,36: 398 n. 12,2: 656. 13,1:  375, 623 n. 13,11-12: 660. 14,1: 208 n. 14,7-8: 391. 14,7-9: 385. 14,8: 589. 15,16: 610 n.

15,33: 398 n. 16,25-26:  364, 642. 16,26: 362. 16,27: 398 n. 1Corinzi 1,18:  285, 371. 1,19: 366 n. 1,20-21: 285. 1,20: 371. 1,21: 368. 1,22:  285, 368, 370. 1,25: 373. 1,28:  374, 627. 1,30: 373. 2,1: 371. 2,3: 415. 2,5: 371. 2,6: 366. 2,6-7: 368. 2,7:  366, 539. 2,9:  366, 639. 2,10-11: 590. 2,10: 366. 2,15: 368. 3,11: 428 n. 3,13: 395 n. 3,18: 373. 3,19: 285 n. 4,5: 368. 4,7:  376, 417, 455, 627. 4,19-20: 371. 5,10: 613. 6,10: 613. 8,2: 626 n. 10,6: 610 n. 12,3: 544.

684 12,4: 380. 12,7: 380. 13,5: 370. 13,7: 516. 13,12: 550. 13,13:  128, 376, 517, 549. 14,30:  105, 266 n. 15,6: 654. 15,10: 626. 15,12-13: 651. 15,12: 610 n. 15,14: 651. 15,16: 651. 15,20:  651, 657. 15,51-52: 386. 15,52:  391, 633. 15,53: 391. 16,17: 622. 20,24: 285. 2Corinzi 1,19-20: 660. 1,20: 398. 1,22: 549 n. 2,9: 616 n. 2,22: 549. 3,3: 543. 3,5:  598, 626. 3,18:  155, 469. 4,2: 219. 4,4:  93, 468. 5,17: 383. 5,19: 382. 5,21: 382 n. 6,2: 661. 7,6: 622. 7,15: 616 n.

9,14: 620. 10,5:  250, 616 n. 10,10-11: 622. 12,2: 613. 12,9: 626. Galati 1,5: 398 n. 1,11: 377. 1,15-16: 425. 2,20:  385, 589, 657. 3,1: 420 n. 3,26-29: 377. 4,6-7:  384, 544. 4,6:  367, 543, 588, 266. 4,9: 441 n. 6,18: 398 n. 6,3:  375, 626. Efesini 1,3: 376. 1,4: 376. 1,9-10:  377, 380. 1,9: 154. 1,10:  220, 382, 513, 643, 652. 1,12: 610 n. 1,14: 549. 1,17-20: 378. 1,19: 378. 1,23: 381. 2,7: 378. 2,14-15: 382. 2,16: 382. 2,20: 428 n. 3,3: 377. 3,4: 381. 3,5:  377, 642 n.

685 3,7: 297. 3,8: 377. 3,9:  377, 642. 3,10: 380. 3,17-19: 323. 3,18-19: 378. 3,19:  206, 297. 3,21: 398 n. 4,30: 543. 5,6: 371. 5,8:  377, 642 n. 5,32: 377.

1,18: 383. 1,20: 383. 1,22: 382. 1,26-27: 383. 1,26:  377, 154, 377, 642 n. 1,27: 381. 2,2: 381. 2,3:  370, 624. 2,8:  76, 285, 370. 3,3-4:  385, 589. 3,10: 468. 4,3: 381.

Filippesi

1Tessalonicesi

1,19: 543. 1,21: 385. 1,23:  385 n., 610. 2,5:  531, 615. 2,6:  455, 573, 609 n., 610. 2,6-7: 608. 2,6-11:  607, 609. 2,7:  286, 573, 611, 615. 2,8-10: 615. 2,8:  230, 533, 614. 2,9:  618, 651. 2,10-11: 455. 2,11: 642. 2,12: 622. 3,7-9: 624. 3,13-14: 659. 4,20: 398 n.

1,5: 371. 2,19: 623. 4,17: 613. 5,1: 462 n. 5,23: 632.

Colossesi

3,9: 420.

1,9: 657. 1,15:  73, 93, 226, 467, 469, 553, 562, 564. 1,15-16: 383.

2Tessalonicesi 1,7: 384. 2,6-8: 395 n. 2,8: 623 n. 1Timoteo 1,17: 93. 3,16:  94, 154, 397. 6,16: 93. 2Timoteo

Tito 1,2: 656. 1,12: 390 n.

686 2,11: 94. 2,13: 382 n. Ebrei 1,1: 380. 1,1-2:  151, 387. 1,3:  73, 226, 383, 564. 2,9: 533. 4,12: 656. 4,15: 644. 5,7:  513, 616. 5,7-8: 460. 5,8: 533. 6,4-6: 654 n. 7,27:  220, 655. 9,12:  220, 655 n. 9,25-27: 654 n. 9,26: 212 n. 9,28: 382 n. 10,1: 467 n. 10,2: 654 n. 10,10:  220, 550, 656. 10,34: 613. 11,1: 549. 11,3:  287, 550. 11,6: 610. 12,26-27: 654. 12,26 ss.:  659. Giacomo 1,17:  96, 301, 444. 2,17-18: 301. 3,6: 457. 3,15: 444. 3,17: 444. 5,12: 659.

1Pietro 1,7: 384 n. 1,20: 212 n. 3,10: 654. 3,18: 657. 4,13: 384 n. 1Giovanni 1,1-2: 212 n. 1,1-3: 94. 1,2: 212 n. 2,3: 300. 2,9: 610. 3,2:  212 n., 386, 660. 4,1-3: 544. 4,9: 212 n. 4,12: 220. 4,19: 301. 4,20-21: 301. 5,8: 212 n. Giuda 20,3: 613. Apocalisse 1,4: 610 n. 1,8:  220, 551, 610 n. 4,8: 610 n. 11,17: 610 n. 12,5: 613. 12,10: 651. 13,17: 468 n. 13,44: 468 n. 15,2: 468 n. 16,2: 468 n.

687 16,5: 610 n. 21,5:  380, 413. 21,6:  220, 651. 22,8: 95 n. 22,13:  220, 651.

689

Indice dei nomi*

Abelardo Pietro: 104 n., 134. Achella Stefania: 195. Aezio: 482 n. Agostino d’Ippona: 103 n., 109 n., 110 n., 132, 172 n., 208, 244 n., 259 e n., 269 n., 276 n., 391 n., 496, 571, 572, 573, 575, 578, 579 e n., 580, 581 n. Aland Kurt: 381 n., 460 n., 609 n. Alessandro di Hales: 279 n. Alloa Emmanuel: 314 n., 236 n., 314 n. Almeida Ivan: 402 n. Alquié Ferdinand: 186 n. Altaner Berthold: 572 n. Althaus Paul: 205 n. Ambrogio di Milano: 572 e n. Anselmo d’Aosta: 145, 497 n. Arato di Soli: 390 n. Arbib Dan: 634 n.

Aristobulo: 390 n. Aristotele: 106, 113 n., 115, 127, 139 n., 160, 167, 185 n., 247, 248, 285, 286 n., 368, 369 n., 373, 375 e n., 378, 389 e n., 390 n., 406 e n., 408 n., 484 n., 495 n., 519, 567 n., 591 n., 622, 631. Atanasio: 478, 479 n., 494, 565 n. Atenagora: 271 n., 283 n., 366 n. Audinet Jacques: 150 n. Bacon Francis: 172 n. Badiou Alain: 391 n. Bailly Anatole: 554 n. Bakunin Michail: 518. Balthasar Hans Urs von: 77 n., 83 n., 118  n., 154  n., 222, 223  n., 225  n., 226, 226  n., 227  n., 229, 230  n., 232,

*  Sono registrati in questo indice solo gli autori citati dal testo di Marion, non quelli riportati nell’Introduzione, nella Postfazione e nella Nota alla traduzione.

690 331 n., 337 n., 347 n., 506 e n., 561, 646 n., 652 n., 660 n. Bardout Jean-Christophe: 141 n., 142 n. Barth Karl: 39 e n., 85 n., 153 e n., 206 e n., 207, 210 e n., 211, 212, 214, 217, 219, 222 e n., 310, 311 n., 319, 320 n., 474 e n., 476, 498 n., 499 n., 502 e n., 541, 482 n., 649 n. Bartmann Bernhard: 499 n. Barton John: 357 n. Basilio di Cesarea: 482 n., 541 e n., 550, 551, 552 e n., 553, 555 e n., 556 e n., 558, 559, 560 n., 562, 563 n., 564 n., 565 e n., 567 e n., 568, 569 n., 572 e n., 573 e n., 575, 579 e n., 597 n. Baudelaire Charles: 47 n., 62. Bauer Walter: 372 n., 614 n. Beauchamp Paul: 350 n., 353 n. Benoist Jocelyn: 314 n. Bergier Nicholas-Sylvestre: 101 e n. Bergson Henri: 631. Bernardo di Chiaravalle: 96 n., 104  n., 134, 225  n., 288  n., 578 n. Berrouard Marie-François: 260 n. Betz Johannes: 146 n. Blanton Ward: 391 n. Böckle Franz: 646 n. Boezio: 106, 492 e n., 494, 495 e n., 498 e n. Bonaventura da Bagnoregio: 143. Bordeyne Philippe: 205 n. Bouillard Henri: 150 n., 205 n. Boulnois Olivier: 116 n.

Bourgeois Bernard: 508 n. Bouyer Louis: 491 n., 499 e n., 563 n., 581 n., 661 n. Bovon François: 413 n. Brague Rémi: 481 n. Brito Emilio: 182 n. Brown Stephen F.: 116 n. Brunschvicg Leon: 334 n. Bultmann Rudolf: 27 n., 211 e n., 213, 216 n., 222, 434 n., 494, 649 n. Burckhardt Jacob: 518 Busa Roberto: 117 n. Büttgen Philippe: 159 n. Caietano: 117 e n. Calvino Giovanni: 210 n., 483 n. Camilleri Sylvain: 93 n. Capelle-Dumont Philippe: 116 n. Carraud Vincent: 142 n., 550 n. Casevitz Michel: 654 n. Cassin Barbara: 493 n. Char René: 91 n. Charlier Louis: 321 n. Chenu Marie-Dominique: 115 n., 148 n. Cherbury Herbert of: 169 e n., 170 n., 171. Chesterton Gilbert Keith: 311 n. Chiarini Gioacchino: 333 n. Chouraqui André: 442 n. Chrétien Jean-Louis: 412  n., 413 n. Ciani Maria Grazia: 328 n. Cicerone: 315 e n., 389 n., 390 n. Cipriano di Cartagine: 266 n. Cirillo d’Alessandria: 348 n. Clauberg Johannes: 117 n., 625 n.

691 Claudel Gérard: 423 n., 430 n. Claudel Paul: 342 n. Clavier Paul: 160 n. Clay Jenny: 330 n. Cleante: 390 n. Clemente d’Alessandria: 265 e n., 271 n. Coch Ludovica: 333 n. Cohen-Lévinas Danielle: 634 n. Conan Doyle Arthur: 311 n. Conche Marcel: 374 n. Congar Yves Marie-Joseph: 123 n., 124 n., 146 n., 47 n., 202 n., 359 n. Conzelmann Hans: 386 n. Coppieters de Gibson Daniel: 368 n. Corbin Michel: 109 n. Courcelle Pierre: 390 n. Courtine Jean-François: 273 n., 303 n., 510 n., 524 n. Cusano Niccolò: 43 e n., 159 n., 240 e n., 557 n., 558 n., 648 n. Cuvellier Elian: 401 n., 407 n., 410 n. Danker Frederick William: 272 n., 614 n. Davy Marie-Magdeleine: 251. Déchanet Jean-Marie: 251 n. Deißler Alfons: 343 n., 353 n. Delage Marc: 390 n. Delorme Jean: 401  n., 402  n., 414 n. Demacopoulos George E.: 581 n. Derrida Jacques: 651 n. Descartes René: 82, 85, 142 e n., 145 e n., 166, 168 e n., 170 n.,

179, 183 n., 185 n., 186, 235, 236, 237 e n., 241 e n., 242, 243, 245  n., 246, 250, 273, 290 e n., 300 n., 334 n., 519, 635. Détienne Marcel: 339 n. Dettwiller Andreas: 411 n. Devaux Michaël: 237 n. Dibelius Martin: 387 n. Didimo il Cieco: 537 n., 405 n. Dieckmann Hermannus: 39 n., 124 e n., 134 n., 135 n., 144 n. Diels Hermann: 374 n. Dierse Ulrich: 203 n. Dietrich Bernard C.: 337  n., 338 n. Dirlmeier Franz: 348 n. Dionigi Areopagita: 78, 79  n., 143, 227 n. Dionigi di Roma: 479 n. Dodd Charles Harold: 411 e n., 413 n., 414 n. Dohmen Christoph: 203 n. Donahue John R.: 394 n. Downing Francis Gerald: 205 n. Duke Paul D.: 75 n., 275 n. Dulles Avery: 102, 103 n., 153 n., 182 n., 205 n. Duns Scoto: 283 n., 284 n. Dupuy Bernard-Dominique: 153 n. Düring Élie: 146 n., 236 n., 314 n. Engberg-Pedersen T.: 391 n. Engels Friedrich: 517. Enrico di Gand: 116 n. Epimenide il Cretese: 390 n. Eschilo: 336 n.

692 Esposito Costantino: 142 n., 237 n. Esposito Elena: 316 n. Eunomio: 482 n., 483 n. Fédier François: 60  n. Feiner Johannes: 343  n., 505 n. Feuerbach Ludwig: 180, 181 n. Feuillet André: 159 n. Fichte Johann Gottlieb: 173, 178, 190 e n., 192, 193 e n., 194 n., 196 n., 197 e n. Filone d’Alessandria: 610 e n. Flaubert Gustave: 62, 516  n. Flew Anthony: 86 n. Fortna Robert T.: 611 n. Fowler Robert: 332 n. Franck Didier: 239  n., 480  n., 604 n. Frauenstädt Julius: 489 n. Fries Heinrich: 102, 103 n., 146 n. Frigo Alberto: 492 n. Gaffiot Félix: 86 n. Garaventa Roberto: 195 n. Garrigou-Lagrange Réginald: 135 n. Gasser Georg: 647 n. Gauchet Marcel: 205 n. Gaventa Beverly R.: 611 n. Geiselmann Josef Rupert: 147 n. Geyer Paul: 84 n., 317 n. Ghellinck Jean de: 260 n. Giamblico: 390 n. Giannantoni Gabriele: 374 n. Gilberto Porretano: 87, 88  n., 247 n., 248 n.

Gilson Étienne: 115 n., 117 e n., 118 n., 160 e n., 161. Gioacchino da Fiore: 537. Giovanni Crisostomo: 566 e n. Giovanni Damasceno: 271  n., 556, 557 n. Giovanni della Croce: 210 n. Girolamo: 240 e n., 288 n., 388 n., 498 n., 573 n. Giulio Cesare 390 n. Giustino: 493. Goethe Johann Wolfgang von: 487 n. Goffredo di Fontaines: 116 n. Gogarten Friedrich: 221, 222 n., 320 n. Göschel Carl Friedrich: 508 n. Greeven Heinrich: 369 n. Gregorio di Nissa: 283 e n., 551, 617 n., Gregorio Magno: 242 n., 243 n., 251 n., 271 n., Gregorio Nazianzeno: 255  n., 271 n., 480 n., 496 n., 537 n., 551, 565 e n., 567 n., 569 n., 571 n., Gregorio XVI, papa: 150 n. Greisch Jean: 530 n. Grosjean Jean: 275  n., 307  n., 444 n. Grosso Matteo: 405 n. Guern Michel le: 414 n. Guglielmo di Saint-Thierry: 88 n., 136 n., 159 n., 242 e n., 244 e n., 248 n., 249 e n., 250 n., 251 n., 252 n., 258 e n., 266, 267 n., 268, 269 e n., 270 n., 281 e n., 283.

693 Guillet Jacques: 202 n. Guitmondo d’Aversa: 153 n. Gumbrecht Hans Ulrich: 316 n. Hagenbüchel Roland: 84 n., 317 n. Hagendahl Harald: 262 n. Halloix Pierre: 271 n. Haring Nikolaus M.: 248 n. Harnack Adolf von: 460 n., 616 n. Harnisch Wolfgang: 401 n., 415 n. Harrington Daniel J.: 273 n., 394 n. Haulotte Edgar: 367 n. Hegel Georg Wilhelm Friedrich: 143, 194, 195 e n., 196  n., 197 n., 204, 232, 487 e n., 489, 507 e n., 508 n., 509 n., 510 e n., 511, 513, 514 e n., 516, 517, 525 n., 528, 531 n., 532, 536, 540, 625, 631. Heidegger Martin: 66 e n., 85, 136 n., 232 e n., 237 e n., 329 e n., 240  n., 243  n., 258  n., 289 n., 294 e n., 319, 320 n., 396 e n., 480, 489, 494, 603605, 625 n., 633 n., 634, 635, 636 n. Henry Michel: 510 e n. Héring Jean: 92  n., 93  n. Hobbes Thomas: 170 e n., 171 n., 172 n. Hofer Johannes: 103 n. Hölderlin Friedrich: 37 n., 63, 64 e n., 95 e n., 305, 480, 487 e n. Housset Emmanuel: 498 n. Hugo Victor: 48 n.

Hume David: 79, 174 e n., 175 e n., 176 e n., 311 n., 519. Husserl Edmund: 65, 66 n., 83, 92 n., 289 n., 290, 306 n., 310, 396 e n., 636 n. Ignazio di Antiochia: 451 e n. Ireneo di Lione: 271 n., 283 n., 288 n., 375 n., 358 n., 359 n., 557 e n., 566 e n. Ivànka Endre von: 494 n. James William: 93 n., 278, 279 e n., 280 e n., 281 n. Jaspers Karl: 85 n. Jeremias Joachim: 394 n., 398 n., 400 e n., 401 n., 403 n., 404 n., 405 n., 407 n. Joest Wilfried: 318 n. Johnston Charles F.H.: 554 n. Jonge Marinus de: 439 n., 441 n. Jülicher Adolf: 401 n., 406 n. Jüngel Eberhard: 415 e n. Kant Immanuel: 61, 66, 67 n., 83, 85, 144, 164, 167, 173, 178, 180 n., 181 n., 183 n., 186 e n., 187 e n., 188 n., 189 e n., 190, 191, 194 n., 196 n., 224, 237 e n., 256 n., 257 n., 279, 287 n., 288 n., 289 n., 300 n., 310, 379, 396, 484, 485 e n., 486, 510 n., 519, 520 n., 619, 635. Kasper Walter: 203 n. Kearns Emily: 332 n. Keck Lander E.: 386 n.

694 Kessler Hans: 647 n. Kierkegaard Søren: 204, 314 e n., 513, 517. Kittel Rudolf: 369 n. Kranz Walther: 374 n. Lacoste Jean-Yves: 103, 104 n., 227 n., 244 n., 493 n., 494 n., 500 n., 631 n., 644 n.,649 n., 661 n. Lafont Ghislain: 506 n. Lamanna Marco: 237 n. Lamartine Alphonse de: 48 e n. Lampe Geoffrey William Hugo: 554 n. Lampros Spyridon Paolou: 336 n. Langlois Luc: 286 n. Latourelle René: 104 n., 150 n., 151 n., 153 n., 156 n., 259 n. Legrand Lucien: 390 n. Leibniz Gottfried Wilhelm von: 169 n., 239 e n., 242. Lemaitre Christophe: 54 n. Lemaître de Sacy: 345 n., 442 n., 614 n. Léonard André: 104 n. Leroy Herbert: 441 n. Levering Matthew: 153 n., 171 n., 188 n. Lévinas Emmanuel: 41, 58  n., 67 n., 162 n., 163 n., 258 n., 346, 359 n., 493, 651 n. Lochbrunner Manfred: 154 n. Locke John: 81 n., 138, 139 n., 168 n., 172 e n., 173 e n., 174, 175, 176, 519. Lohff Wenzel: 203 n. Löhrer Magnus: 343 n., 505 n.

Longino: 330, 331 n. Lubac Henri de: 110, 111  n., 144 n., 153 n., 188 n., 318 e n. Lutero Martin: 210  n., 345  n., 441 n., 442 n. Lyonnet Stanislas: 439 n. Mahé Jean-Pierre: 85 n. Maimonide: 112 n., 113 n., 184 n. Malamoud Charles: 336 n. Malebranche Nicolas: 100 e n., 101 n., 141 n., 175, 176. Mallarmé Stephane: 83 e n., 363 n., 631 e n. Mangenot Eugène: 121 n., 124 n. Marguerat Daniel: 387 n., 389 n., 401 n., 411 n. Marion Jean-Luc: 39 n., 40 n., 57  n., 64  n., 66  n., 72  n., 76 n., 87 n., 88 n., 94 n., 95 n., 110 n., 143 n., 145 n., 149 n., 159 n., 162 n., 177 n., 193 n., 208 n., 211 n., 224 n., 225 n., 232 n., 236 n., 237 n., 243 n., 252 n., 262 n., 269 n., 274 n., 276 n., 286 n., 287 n., 294 n., 299 n., 302 n., 303 n., 305 n., 306 n., 309 n., 320 n., 321 n., 338 n., 350 n., 367 n., 375 n., 397 n., 480 n., 495 n., 516 n., 524 n., 541 n., 560 n., 580 n., 581  n., 585  n., 592., 595  n., 602 n., 619 n., 622 n., 623 n., 631 n., 634 n., 635 n. Markschies Christoph: 336 n. Marquet Jean-François: 510 n., 518 n., 530 n. Martyn J. Louis: 386 n.

695 Marx Karl: 525 n. McGaughy Lane: 609 n. MacIntyre Alasdair: 86 n. Meeks Wayne A.: 611 n. Metz Johann-Baptist: 219. Meyer Heinrich August: 627 n. Michel Marc: 441 n., 443 n. Mitchell Basil: 205 n. Moloney Francis J.: 273 n. Moltmann Jürgen: 39 n., 219. Montaigne Michel de: 100 e n., 168 n. Montesquieu (Charles-Louis de Secondat): 101 e n. Moss David: 652 n. Motteux Peter-Anthony: 637 n. Muncunill Ioannes: 135 n. Narbonne Jean-Marc: 286 n. Nault François: 205 n. Nédoncelle Maurice: 259  n., 498 n. Nestle Eberhard: 381 n., 460 n. Nicola di Lira: 188 n. Nicolas Jean-Hervé: 499 n. Nicolin Friedhelm: 508 n. Nietzsche Friedrich: 193 e n., 353, 398, 480, 489, 494, 516 e n., 623 e n., 624, 625 e n., 626 n., 635. Norden Eduard: 386 n. Nuovo Victor: 81 n. O’Meara Thomas F.: 530 n. Oakes Edward T.: 652 n. Ockham Willem: 134 e n., 135 e n. Olivetti Marco Maria: 182 n.

Origene: 188 n., 358 n., 407 n., 493, 558 e n., 636 n. Osty Émile: 442 n. Otto Walter: 331 e n., 339 n. Ovidio: 333 n., 335, 339, 340 n. Pannenberg Wolfhart: 205  n., 217, 218  n., 219  n., 220  n., 221  n., 222, 318  n., 413  n., 462 n. Paolo VI, papa: 155, 156 e n. Papanikolaou Aristotle: 581 n. Pareyson Luigi: 524 n. Parmenide: 374 n., 627. Pascal Blaise: 78 e n., 139, 243 e n., 243  n., 244 e n., 246, 271 n., 275 n., 284 n., 359 n. Patočka Jan: 162  n. Pax Wolfgang Elpidius: 343 n. Pecina Bjorn: 197 n. Péguy Charles: 59, 60 e n., 358 n., 459 n., 636. Peterson Erik: 479 e n. Pfeiffer Karl Ludwig: 316 n. Picard Charles: 336 n. Piettre Renée: 338 n., 339 n. Pio IX, papa: 150 n. Pirot Louis: 202 n. Platone: 160, 247, 255 e n. Pöggeler Otto: 508 n. Polibio: 408 n. Potterie Ignace de la: 439 n. Pouivet Roger: 146 n. Pradelle Dominique: 92 n. Privitera Giuseppe Aurelio: 327 n. Proclo: 555 n. Pruche Benoît: 554  n., 555  n., 567 n., 572 n., 573 n.

696 Quine Willard Van Orman: 316 n. Rabelais: 637 n. Rad Gerhard von: 341 n. Rahner Karl: 103 n., 147 n., 214 e n., 217 e n., 219, 220  n., 222, 224, 491 n., 492 n., 502 e n., 505 e n., 507, 536, 644 n., 647 n. Ramelow Anselm: 146 n. Ratzinger Joseph: 147 n., 203 n., 214  n., 341, 357  n., 359  n., 643 n., 650 n. Rauzy Jean-Baptiste: 159 n. Reiner Marius: 357 n. Renan Ernst: 356. Riccardo di san Vittore: 592 e n., 594. Riconda Giuseppe: 524 n. Rimbaud Arthur: 51 e n., 62. Rineau Louis-Marie: 591 n. Riquier Camille: 146 n. Ritter Joachim: 194 n., 202 n. Rivière Jean: 103 n. Robert André: 202 n. Rosenzweig Franz: 162 e n., 349 n., 353 e n. Rousseau Adelin: 271 n. Roustang François: 278 n. Russell Bertrand: 316 n. Ryan Dermot: 203 n. Salaville Sévérin: 572 n. Scheler Max: 243 n., 269 n. Schelling Friedrich Wilhem Joseph: 82, 181 n., 204, 234, 487 e n., 488, 517, 518 e n., 523, 524, 525 e n., 528, 530, 531,

532, 534, 535 e n., 536, 537, 619. Schleiermacher Friedrich Daniel Ernst: 179 e n., 180 e n., 181 n., 182 n., 233 e n., 279, 485 n. Schmaus Michael: 147 n. Scholtz Gunter: 194 n. Schrade Hubert: 341 n. Schröer Henning: 84 n. Schüßler Ingeborg: 485 n. Scoto Eriugena: 143, 158 n., 159 n. Scrima André: 276 n., 277 n. Serban Claudia: 92 n. Sesboüé Bernard: 103 e n., 150 n., 151 n. Simon Fritz B.: 317 n. Simon Joseph: 84 n. Simone de Tournai: 248 n. Simon-Nahum Perrine: 634 n. Söding Thomas: 203 n. Sommer Christian: 480 n. Spinoza Baruch: 164, 168 n., 182 e n., 183 e n., 184, 185 n., 186, 187, 242 n., 247, 289 n. Sponde Jean de: 48 n. Stendhal (Marie-Henri Beyle): 637 n. Stobeo Giovanni: 554 n., 555 n. Strauss David Friedrich: 356 Stroup George W.: 205 n. Suarez Francisco: 123, 126 e n., 127 n., 128 e n., 129 n., 131134, 137 e n., 139, 141 n., 142, 152, 168, 175, 491 e n. Swinburne Richard: 146 n., 357 n. Synave Paul: 112 n.

697 Tardivel Émilie: 162 n., 619 n. Teilhard de Chardin Pierre: 379 n., 648. Teodoro di Mopsuestia: 390 n. Tertulliano: 85 e n. Theobald Christoph: 103 n., 150 n., 151 n., 153 n. Tillich Paul: 201 e n., 214, 215 n., 222, 486 n. Tilliette Xavier: 182  n., 524  n., 530 n., 534 n., 535 n., 536 n. Tindal Matthew: 172 n. Tisserand Axel: 495 n. Toland John: 172 n. Tommaso d’Aquino: 99, 105, 106 e n., 108 n., 109 e n., 110 n., 111 e n., 112 n., 114 e n., 115 e n., 116, 117  n., 118, 119 e n., 120 e n., 121 e n., 123, 125, 133, 134, 137, 138, 139, 142, 143 n., 145, 150, 151, 161 e n., 183, 185 n., 203, 208 n., 486, 490, 491  n., 492  n., 495  n., 498, 541 e n., 576 n., 577 n., 582 n., 583 n., 584 n., 591 e n., 647 n. Torrell Jean-Pierre: 115 n., 116 n., 121 n. Tucidide: 386 n., 611 n. Ugo di san Vittore: 136  n. Vacant Alfred: 121 n., 124 n., Vasiliu Anca: 555 n., 556 n., 567 n. Veer Albert de: 259 n. Verlaine Paul: 55 n.

Vernant Jean-Pierre: 336 n., 337 n., 339 n. Vigouroux Fulcran: 614 n. Vioulac Jean: 240 n., 285 n. Vries Hent de: 391 n. Vuillemin Laurent: 205 n. Weber Dominique: 171 n. Weil Simone: 318 n. White Thomas Joseph: 146 n. Wieland Wolfgang: 205 n. Wiles Maurice: 205 n. Williams Bernard: 86 n. Wilmart André: 112 n. Wittgenstein Ludwig: 90 n., 233 e n., 316 n., 318 n., 366 n. Wolinski Joseph: 499 n. Zaguri-Orly Raphael: 58 n. Zimmerli Walther: 353 n.

Indice

In-fine, la teologia Introduzione di Sergio Ubbiali

p. 9

Nota alla traduzione di Francesca Peruzzotti

p. 19

Prefazione

p. 39

I Invio 1.  Il privilegio di una questione L’oblio e ciò che mi resta Il gesto sportivo Il gesto erotico L’indimenticabile e l’altrove Figura Mostrarsi, d(on)arsi 2.  Il privilegio di una nozione: la Rivelazione Il testimone Resistenza Il paradosso Una questione di fenomenicità

p. 47 p. 48 p. 51 p. 54 p. 58 p. 62 p. 65 p. 69 p. 71 p. 76 p. 83 p. 92

II Costituzione dell’aporia 3.  Tommaso d’Aquino e l’interpretazione teologica Il punto cieco «Theologia sive scientia» Subalternazione Lo scarto 4.  Suarez e la sufficienza della proposizione Una scienza senza fede Una teologia senza fede Il rovesciamento della subalternità in subordinazione «Notio metaphysica revelationis» 5.  Il riserbo del magistero Un’assenza Il passo avanti Le cose visibili e la «collera» divina Creazione Che cosa merita una Rivelazione? 6.  L’origine metafisica del concetto comune di Rivelazione Condizioni Miracolo e possibilità Secondo l’intuizione Secondo l’immaginazione Secondo la volontà Secondo il concetto Manifestazione o rivelazione

p. 99 p. 100 p. 105 p. 113 p. 118 p. 123 p. 126 p. 134 p. 139 p. 144 p. 149 p. 150 p. 152 p. 156 p. 160 p. 164 p. 167 p. 168 p. 172 p. 179 p. 182 p. 186 p. 190 p. 194



III Restituzione di un concetto teologico 7.  Possibilità e aporie di un concetto teologico di Rivelazione Un concetto inappropriato La Parola come rivelazione Rivelazione per semplice chiamata Rivelazione per correlazione La storia come rivelazione indiretta L’amore e la figura 8.  Disvelamento o scoperta Una questione di logica Che cosa comprende il concetto Disvelare o scoprire Un rovesciamento pascaliano La sentenza dei santi Conoscere l’amore amando 9.  «Ista revelatio, ipsa est attractio» Non attraverso volontà Attrazione Sensus mentis Conoscere il dono Pragmatismo 10.  L’altra logica e le sue determinazioni   L’una e l’altra logica   Omogeneità, eterogeneità   Ritrarsi interno, ritrarsi esterno   Il ripiegamento e il dispiegamento della piega   Verifica e menzogna   Saturazione e trasfigurazione   In luogo di sé, il testimone   Il paradosso e l’iperbole della carità

p. 201 p. 202 p. 206 p. 211 p. 213 p. 217 p. 224 p. 229 p. 230 p. 234 p. 238 p. 243 p. 246 p. 249 p. 255 p. 256 p. 259 p. 266 p. 272 p. 278 p. 283 p. 285 p. 288 p. 291 p. 293 p. 298 p. 303 p. 309 p. 314

IV Cristo come fenomeno 11.  Manifestazioni senza persona   L’evidenza degli dèi   L’evidenza senza persona   L’idolo senza persona   Far apparire l’invisibilità   Di fronte al Nome   L’appello di “Io” 12.  Ciò che scopre il «mistero» (Paolo)   Il presupposto del mistero   Il dono del mistero   Il mistero della sapienza   Da un logos, l’altro   Ciò che non è   Il mistero della carità   Il mistero di Cristo   L’anamorfosi compiuta 13.  La parabola e la professione di fede (sinottici)   Il principio di fenomenicità   La parabola   Dire, non dire, scoprire   Ascoltare vedere, vedere l’ascolto   Verso una pratica della s-coperta   La professione di fede come s-coprimento   La professione di fede come benedizione 14.  Il «mistero» – di chi? (Giovanni)   Il principio di fenomenicità   Lo s-coprimento «dall’alto»: Nicodemo   Ricevere il pane venuto da altrove   Vedere il Figlio come lo vede e lo invia il Padre   L’obbedienza del Figlio

p. 327 p. 328 p. 330 p. 337 p. 340 p. 346 p. 350 p. 355 p. 355 p. 360 p. 365 p. 370 p. 373 p. 376 p. 381 p. 384 p. 393 p. 393 p. 399 p. 405 p. 415 p. 419 p. 421 p. 426 p. 431 p. 431 p. 439 p. 445 p. 449 p. 453

  La gloria di suo Padre   L’icona dell’invisibile V L’icona dell’invisibile 15.  Monoteismo e Trinità: un modello ontico   Della moltiplicazione dei modelli trinitari   La posta in gioco delle chiamate in causa   La pluralità numerica, l’unicità   Monoteismo, politeismo   La distinzione dei trattati   La sostanza e la persona, aporie ontiche 16.  Immanenza ed economia: un modello storico   Il presupposto del mistero   Hegel e il primato della Trinità economica   Hegel, i tre momenti dell’economia secondo il  concetto   Hegel, il serio e l’insulso   Schelling, l’a priori e l’a posteriori   Senza il concetto, l’imprepensabile   Schelling, l’essere oltre l’essere?   Schelling, l’impotenza delle potenze   Schelling, l’amore mancato e l’indecisione del  dono   Schelling, la storia più alta 17.  La Trinità come icona: un modello fenomenico   Due insufficienze   Lo Spirito e l’altrove   Il mistero della sapienza   Basilio di Cesarea e il modello fenomenico   La messa in icona   Le funzioni dello Spirito

p. 462 p. 467

p. 473 p. 474 p. 477 p. 484 p. 486 p. 490 p. 492 p. 501 p. 502 p. 507 p. 511 p. 513 p. 517 p. 521 p. 525 p. 527 p. 529 p. 536 p. 539 p. 539 p. 543 p. 545 p. 550 p. 554 p. 558

  L’unica forma trinitaria   Il modello fenomenico come professione di fede 18.  La Trinità come fenomenicità del dono   La ripresa del modello fenomenico in sant’Ago stino   Il modello compiuto della fenomenicità trinitaria   Lo Spirito come dono   Il dono nella sua invisibilità   Il posto invisibile dello Spirito Santo   La ridondanza del dono VI L’apertura 19.  L’essere messo allo scoperto da altrove   L’avvento dell’altrove   La ridondanza dell’essere   Uguale a Dio   Essere per possesso, essere per espropriazione   Essere a partire dall’altrove   Il rovescio dell’ente   Altrove rispetto all’essere 20.  Il tempo messo allo scoperto da altrove   La morte del presente   La mia morte al presente   Morte in attesa di altrove   I due giudizi in uno   La storia come idolo   Tutto è compiuto nei cieli e sulla terra   Una volta per tutte   Fare il mio tempo   Rinnovare, portare alla luce

p. 563 p. 566 p. 571 p. 571 p. 575 p. 577 p. 584 p. 587 p. 591

p. 601 p. 602 p. 607 p. 609 p. 613 p. 618 p. 621 p. 624 p. 629 p. 630 p. 632 p. 637 p. 641 p. 648 p. 651 p. 653 p. 657 p. 661

D’ailleurs – il rigore di un’opera Postfazione di Carla Canullo

p. 663

Indice delle citazioni bibliche

p. 671

Indice dei nomi

p. 689

Au dedans, au dehors

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da: Giuseppe CANTILLO, Danielle COHEN-LEVINAS, Jean-François COURTINE, Elio MATASSI †

1. Jean-François Courtine, Levinas. La trama logica dell’essere. 2. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. 3. Miguel Abensour, Emmanuel Levinas. L’intrigo dell’umano. 4. Emmanuel Levinas, Gli imprevisti della storia. 5. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. II edizione ampliata: Materiali per un pensiero neocritico. 6. Felix Duque, Contro l’umanismo. 7. Philippe Capelle-Dumont, Pensare la religione. 8. Miguel Abensour, L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin. 9. Rosaria Caldarone, Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza. 10. M. Barale, R. Bonito Oliva, G. Cantillo, P. Capelle-­ Dumont, D. Cohen-Levinas, J.-F. Courtine, G. Dalmasso, S. Mancini, G. Mascia, C. Meazza, F. Miano, B. Moroncini, A. Nasone, Filosofia dell’avvenire. L’evento e il messianico.

11. Giuseppe Cantillo, Il tormento della modernità. Religione, etica, filosofia della storia. Studi un Ernst Troeltsch. 12. Jean-François Courtine, Schelling tra tempo ed eternità. Storia e preistoria della coscienza. 13. Daniela Calabrò, Dario Giugliano, Rosalia Peluso, Anna Pia Ruoppo, Luca Scafoglio (a cura di), Humanity. Tra paradigmi perduti e nuove traiettorie, volume primo. 14. Jean-Luc Marion, Da altrove, la rivelazione. Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione.

Au dedans, au dehors

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da: Giuseppe CANTILLO Danielle COHEN-LEVINAS Jean-François COURTINE Elio MATASSI †

Nella stessa collana Jean-Francois Courtine, Schelling AA. VV Humanity. Tra paradigmi perduti e nuove traiettorie Jean-François Courtine

Levinas. La trama logica dell’essere Emmanuel Levinas

Gli imprevisti della storia Carmelo Meazza

L’evento esposto come evento d’eccezione Philippe Capelle-Dumont

Pensare la religione Miguel Abensour

L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin Felix Duque

Contro l’umanismo

Au dedans, au dehors 14

Quest’opera corrisponde a una tappa decisiva del percorso di Jean-Luc Marion: il nesso tra fenomenologia della donazione e rivelazione non è più affrontato definendo le competenze della filosofia e della teologia, ma tramite l’abbandono al campo aperto della speculazione, senza ulteriori caratterizzazioni. L’autore intesse un serrato dialogo con la Scrittura e con la storia del pensiero filosofico e teologico, fino a determinare la fenomenicità della rivelazione quale modalità privilegiata del fenomeno, caratterizzata come adveniente da altrove. L’abbandono delle categorie elaborate dalla metafisica è definitivo: la rivelazione è s-coperta (apokalypsis) e non mero disvelamento (aletheia), di conseguenza anche i concetti classici di Dio, essere, tempo, storia e soggetto vengono riconsiderati. La fenomenologia della donazione dispiega tutta la sua forza speculativa definendo la plausibilità della manifestazione trinitaria del divino e la forma testimoniale dell’umano che vi si lega. Radicalizzando i temi grazie ai quali si è inserito nel dibattito contemporaneo, Marion si conferma un autore capace di contribuire al pensiero interpellandolo con nuovi e decisivi motivi di riflessione.

€ 15,00

ISBN ebook 9788855293327