Storia e fede 8842025852

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Storia e fede
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UtlVERSALE LATERZA

Storia e fede Karl Lowith

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Universale Laterza

669

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1985, Gius. Laterza & Figli

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Karl Lowith

STORIA E FEDE

Editori La terza

19 85

Finito di stampare nel marzo 1985 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-2585-X ISBN 88-420-2585-2

STORIA E FEDE

SKEPSI E FEDE

Con il titolo Skepsis und Glaube, questo saggio del 1951 fu pubblicato nel volume di K. Lowith, Wissen, Glaube und Skepsis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1956. La traduzione italiana qui riprodotta è quella di C. de Roberto e H. Walde apparsa in K. Lowith, Fede e ricerca, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 32-57.

La skepsi * filosofica e la fede cristiana differiscono dal comune dubbio e dal credulo ritener per vero. Il mero dubitare se sia possibile diventar certi della verità è lontano dalla skepsi filosofica, allo stesso modo che la fede autentica è lontana da una fede puramente pragmatica. D'altronde la fede cristiana non è neanche il possesso libero dal dubbio di una certezza di fede sempre disponibile: « Credo, Signore, soccorri la mia incredulità » (Marco 9, 24 ). La fede quale è in Giobbe e Paolo, in Agostino, Lutero, Pascal e Kierkegaard, è una fiducia incondizionata che si conquista a fatica e si perde con facilità. E come fiducia assoluta essa può aver senso solo se riferita a qualcosa di cui non sia discutibile la capacità di riscuotere fiducia. Sarebbe stolto fidarsi del tutto di un mercante che vuol vendere la sua merce, e non sarebbe prudente dar assoluta fiducia ad un maestro che non possieda una sapienza assoluta, e sarebbe magnanimità riporre una fiducia incondizionata in un amico. Tale fiducia potrebbe più tardi dimostrarsi infondata, ma allora ad esser screditato

* Skepsi, dal greco crxÉ~1.ç, significa ad un tempo dubbio e indagine, perciò è preferibile usare tale termine, con maggior aderenza all'originale tedesco, che non quello, che può esserne sinonimo, di dubbio metodico (N.d.T.). 5

non sarebbe colui che ha avuto fiducia, bensl chi ne ha abusato. Una fiducia assoluta che volesse prima accertarsi della sua giustificazione sarebbe un controsenso. Solo al Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento si crede come ad un essere in cui si può confidare assolutamente, come in nessun altro. Ma una fede autentica e totale è altrettanto rara quanto uno scetticismo filosofico radicale che metta tutto in questione. Solitamente non siamo né radicalmente scettici, né radicalmente credenti. Dubitiamo e crediamo generalmente soltanto sino ad un certo punto, e soltanto di rado ci chiediamo se le nostre abitudini intellettuali, morali, e sociali possano sopportare la critica della skepsi filosofica e della fede religiosa. In quanto atteggiamenti radicali, sia la skepsi che la fede sono di sfida alla prevalente fiducia nella certezza delle scienze. E siccome oggi la maggior parte della gente crede per lo più nei metodi e nei risultati scientifici, può essere lecito metter in dubbio con gli scettici la certezza del nostro sapere e prendere in considerazione coi credenti la possibilità di una fiducia incondizionata in cose che non si possono sapere. Il significato originario della parola skepsi non è mania di dubbio e non significa neanche, come poi in Cartesio, un metodo del dubitare per giungere ad una verità assolutamente sicura attraverso l'esclusione di ogni cosa dubbia. La skepsi non si esaurisce nemmeno nel dubbio coltivato di Montaigne, in quello stato di sospensione dello spirito libero, che vuole in ogni cosa considerare ugualmente e equanimamente la duplicità del pro e del contro senza decidersi in un senso o nell'altro. Kant chiamò perciò gli scettici « nomadi » dello spirito che frustrano 6

qualsiasi coltura continuata. Però non si può affatto disprezzare la skepsi di Montaigne che paralizza soltanto gli spiriti deboli e apre agli altri la possibilità di vedere principalmente quel che nelle cose sorprende e stupisce. Essa apre inaspettate prospettive su tutto ciò che pare ovvio e cancella la differenza convenzionale tra ragione e non-ragione, tra verità ed errore; essa sa che non c'è niente di tanto improbabile, di cui il pensiero e l'azione umani non siano capaci. Ed è a questo dubbio di Montaigne che apre ma non decide, che hanno risposto Cartesio e Pascal: l'uno con la filosofia come scienza, l'altro con la certezza della fede. Con la loro risposta al dubbio di Montaigne essi si vengono a trovare in un rapporto indiretto con la skepsi classica; poiché Montaigne parte proprio dalla skepsi classica presa generalmente alla lettera. Una tra le fonti principali di questo originario scetticismo classico si trova in un'opera del medico e filosofo Sesto Empirico scritta verso la fine del II secolo. Sesto Empirico è un contemporaneo di Tertulliano, che era un avversario appassionato della skepsi fi]osofica e un apologeta della fede cristiana. Per Tertulliano gli scettici e i filosofi sono addirittura tutt'uno poiché ciò che distingue i filosofi dai cristiani sarebbe che gli uni continuano a cercare scetticamente, mentre gli altri hanno trovato la verità nella fede. Nella filosofia classica skepsi ha lo stesso significato di spiare, guardarci da vicino, cercare, ricercare. Ciò che la skepsi cerca però non è il dubbio, ma la verità. La skepsi pertanto è ricerca di verità, ma fatta in modo che il ricercatore continua a cercare finché non abbia trovato ciò che elimina in modo indubitabile il suo dubbio. Si tratta dunque di una 7

scuola o meglio di una formazione filosofica molto apprezzabile. Sesto Empirico 1 comincia a classificare i filosofi secondo il rapporto tra il cercare e il trovare. Tutti cercano la verità e cosl il cercatore o giunge a trovar quel che cerca, e allora conosce la verità; o abbandona la ricerca perché non può trovare quel che cerca; o persiste nel cercare. I primi sono filosofi dottrinari o dogmatici, tra i quali Sesto Empirico annovera Aristotele, gli stoici e gli epicurei, ma non Platone che egli stimava fosse piuttosto uno scettico. I secondi formano la cosiddetta nuova accademia, postplatonica. I terzi sono i veri scettici, che ricercano guardandosi attorno, e si astengono da una prematura decisione di giudizio. Essi sono scettici tanto radicalmente che l'obiezione consueta, cioè che una affermazione scettica sia tuttavia insieme una asserzione dogmatica e pertanto contraddica se stessa, non li colpisce. Poiché l'autentico scettico relativizza anche la propria predicazione: egli non asserisce che qualcosa sia in un modo o nell'altro, ma enuncia soltanto quel che gliene paia in un dato momento, e fino a che non abbia cambiato opinione. Egli è per sua volontà non conclusivo e non deciso, quindi in posizione contraria a quella di chi voglia comunque decidersi, e mancando di una certezza obiettiva, tenda a decisioni perentorie. Lo scettico conosce che tutto esiste soltanto in una molteplice correlatività con altre cose, e con se stesso come soggetto che distingue e conosce. Il mondo è il nostro mondo e presumibilmente a noi uomini appare diverso che agli animali, e diverso appare 1 Sesto Empirico, Ipotiposi Pirroniane, ed. crit. di R. G. Bury, 3 voli., London-Cambridge 1933-35; cfr. trad. it. di O. Tescari, Bari 1926.

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anche a uomini e ad animali diversi. Tutto è " in-relazione-a ". La grandezza, per esempio (fisica, morale, storica), è relativa a ciò che ci pare piccolo. Non si può dunque decidere che cosa sia la grandezza storica in sé, in relazione a se stessa, secondo la sua propria natura. La buona salute è relativa alla malattia, la bontà alla cattiveria, ecc. Questo relativismo scettico non si ferma neanche davanti alla relatività dei concetti teologici. Sesto Empirico discute le dottrine dogmatiche sull'essenza e sull'esistenza di Dio. Su tutt'e due i filosofi non sono d'accordo perché Dio evidentemente non è « totalmente manifesto » e richiede pertanto una prova. Voler provarlo basandosi su qualche cosa d'altro da lui e del tutto manifesto, sarebbe controsenso. Voler provarlo da qualche cosa di altro da lui ma non del tutto manifesto, sarebbe impossibile. E siccome poi assieme al concetto di Dio si pensa anche una provvidenza divina, ma siccome la provvidenza provvede o per tutto o soltanto per certe cose e siccome in questo mondo ci sono molti mali e sarebbe empietà attribuire anche tutti i mali alla provvidenza di Dio allora, quando si affermi con sicurezza dogmaticamente che Dio è provvidente, si rischia di parlare empiamente! Di fronte a consimili opinioni e discorsi contraddittori lo scettico si astiene, mentre nella vita pratica egli segue la corrente: rispetta gli dèi come fanno tutti ed è pio nel modo tradizionale; poiché si può ragionevolmente persistere in una astensione cosl radicale dal giudicare soltanto nel campo del sapere teorico, ma non nella pratica quotidiana, dove, senza certezza teorica, si deve decidere in un modo o nell'altro. Uno che ricerchi in modo scettico non può decidere quale religione sia la vera, e se il mondo sia 9

creato da Dio oppure sia senza principio e senza fine, o esista soltanto per caso e chissà fino a quando. E dato che la filosofia nasce dallo stupore, anche questo è relativo riferendosi a cose cui si sia abituati. Provare per la prima voi ta un terremoto, vedere per la prima volta il mare, una prima trasvolata delle Alpi, una prima guerra-lampo: sono certamente cose molto straordinarie, ma presto perdono il carattere della loro prima apparizione quando ci si abituati a esse - e a che cosa l'uomo non si abitua? A causa di questa correlazione tra tutte le cose e circostanze interiori ed esteriori, e costumi, leggi, dottrine e dogmi differenti, lo scettico non prenderà l'iniziativa di decidere quello che una cosa sia in sé, ma ad ogni opinione e affermazione unilaterale opporrà opinioni e affermazioni contrarie parimenti forti e persisterà nella ricerca invece di giungere tosto ad un giudizio con l'assenso o il rifiuto. Una tale astensione dal giudizio equivale ad una pausa dell'intelligenza cui corrisponde naturalmente anche una quiete dell'animo, il " silenzio dello spirito ", l'equanimità dell'atarassia: dunque un'imperturbabilità morale. Il traguardo finale del pensiero scettico è I 'imperturbabilità riguardo a ciò di cui ci si può liberamente giudicare e la relativa sopportazione in quel che ci è imposto dalle circostanze. Rientra nella sapienza della skepsi classica l'usare anche argomenti deboli. Sesto Empirico conclude i suoi princìpi della skepsi osservando che lo scettico, come un medico, impiegherà medicine di forza differente, secondo la costituzione del paziente da curare. Cosl anche gli argomenti dello scettico devono essere più leggeri o più forti in rapporto alla più o meno superficiale o radicata follia dei dogmatici. L'indagine di tutte queste relativizzazioni o con10

dizionamenti è già stata condotta in modo cosl completo dalla skepsi classica che poco resta ancora da aggiungere. È un pregiudizio ritenere che soltanto il relativismo moderno, storicistico abbia fatto vacillare tutte le dottrine consolidate. Naturalmente ognuno, nonostante la skepsi, in una data situazione deciderà, cioè avrà da decidere e dovrà decidere in un modo o nell'altro. Anche chi sia scettico deve, nella vita, prendere delle decisioni, ma tali decisioni non lo impegnano e sarebbe stoltezza ritenere che tale comportamento nella vita pratica sia il risultato di una scelta obiettiva, quando invece le decisioni derivano proprio dall'incertezza, e, non avendo alcun fondamento nella conoscenza indubbia del vero e del retto, ignorano quella skepsi che è propria del sapere. Ci si può domandare fino a dove si sia giunti nella sapienza se persino nella filosofia si credeva di poter sostituire la mancanza di conoscenza con " decisioni ", e se si sia diventati cosl dottrinari che non ci resti nemmeno tanta skepsi quanta ne vive ancora nella filosofia critica di Kant 2 ; Kant, in effetti, credeva nel suo processo critico di aver lasciato indietro sia lo scetticismo che il dogmatismo e di aver trovato una via d'uscita tra i due. E Hegel 3 credeva di avere, con la sua dialettica del saper assoluto, dove la skepsi è soltanto un momento dissolventesi nella conoscenza dell'assoluto, superato il criticismo di Kant. Nel sapere assoluto di Hegel la relatività di ogni 2 Dopo Kant soltanto G. E. Schulze, con lo pseudonimo scettico classico Aenesidemus, ha cercato di rinnovare la antica skepsi in una Kritik der teoretischen Philosophie, Hamburg 1801-02. Questo scritto ha mosso Hegel a discutere particolarmente il significato positivo della skepsi per la filosofia. 3 Hegel, W erke, 1834, XVI, pp. 70 sgg., Ueber das Verhciltnis des Skeptizismus zur Philosophie.

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consapevolezza apparente è " superata ,, pos1t1vamente. Il processo della « fenomenologia dello spirito » è « costituito da uno scetticismo che si sviluppa esaustivamente ». Lo scetticismo classico costituisce per Hegel soltanto il lato negativo del sapere assoluto. Questo scetticismo è in facoltà di minare il dogmatismo delle determinazioni dell'intelletto « astratte », cioè unilaterali; ma il suo torto sta nel fatto che esso non va oltre la dimostrazione della contraddizione delle determinazioni unilaterali per giungere al superamento razionale del principio meramente intellettualistico della contraddizione. L'incerto presupposto dell'apparente superiorità di Hegel sullo scetticismo si basa sulla sua concezione della ragione che, quale « percezione » dell'assoluto, si identificherebbe con la fede. Anche se siamo ben lontani dall'aver trovato la indubitabile verità, nessun grande scettico filosofico ha più saputo, dopo Socrate, affascinare la gioventù o, come dissero i suoi accusatori, corromperla. Non si trovano filosofi che cerchino ancora scetticamente senza fissarsi su di un presunto risultato della loro ricerca, sia pur soltanto nella forma di una problematica ben fissata e saggiamente garantita contro obbiezioni. Se seguissimo Socrate nelle sue intrecciate vie dirette e indirette di ricerche e di tentativi, di domande e di interrogativi, allora ci si dovrebbe rassegnare al fatto che non esiste neppure un dialogo socratico che porti i problemi a conclusioni che siano più che provvisorie. Ciò risulta già dalla forma stessa del dialogo platonico con le contraddicenti prospettive dei vari interlocutori, dove tutte le domande mantengono aperto un orizzonte e terminano senza una decisione, così come in ogni autentico dialogo nessuno ha in conclusione l'ultima parola. 12

L'ironico Socrate infatti non sapeva effettivamente che cosa fosse egli stesso, che cosa fosse l'uomo, che cosa fosse la morte, e tanto meno che cosa fosse l'essere. E neanche era certo se la vita valesse sempre la pena d'esser vissuta. Nel Gorgia, Socrate si domanda se si debba esser grati al timoniere che attraverso molti pericoli ci porti da lontano con moglie, figlio e averi in un porto sicuro. Lo stesso timoniere valuta modestamente la sua fatica e chiede per il suo servizio soltanto qualche dracma, presumibilmente - pensa Socrate - perché è molto incerto se abbia reso un buon servizio ai viaggiatori preservandoli dall'annegamento. Nessuno dei viaggiatori dopo lo sbarco sta meglio d'animo e di corpo che prima di imbarcarsi, e se uno era afflitto da un'incurabile malattia del corpo o dell'anima, sarebbe stata per lui piuttosto una sventura l'essere salvato e non morto. Soltanto un ironico come Socrate poteva permettersi di scherzar così seri amen te. Kierkegaard, che si vantava di essere un « Socrate cristiano », canzonò ogni volontà di insegnamento diretto della verità, ma la sua stessa « comunicazione indiretta », svolta con un mero richiamo dell'attenzione, non a caso terminò in una fanatica testimonianza che Socrate - abbastanza ironicamente accettò la sentenza di morte per una verità a lui ignota. Il daimonion, che diede a Socrate la sua suprema sicurezza, evidentemente non era conoscitivamente spiegabile 4 • Ben altrimenti l'ironia di Kierkegaard si conclude nel sarcasmo del suo ultimo attacco contro il cristianesimo del suo tempo in Danimarca, ed è fin dal principio profondamente non-ironica perché egli ha 4

K. Kerényi, Der grosse Daimon des Symposion, 1942.

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radicalizzato l'ironia socratica già nella sua tesi di laurea riducendola a una « negatività assoluta >>. Un'ironia totale e radicale però non è più ironica, e un Socrate cristiano sarebbe una contraddizione. Già dopo Socrate le scuole scettiche non sono più ironicamente illuminanti ma sono sistemi-dottrinali negativi e come tali legati al dogmatismo. Lo strano fatto che Socrate sia rimasto tanto inimitabile e la sua skepsi filosofico-ironica si sia poi estinta può essere spiegato dalla serietà cristiana che, se può esser paradossale nelle sue formulazioni intellettuali, non può però essere ironica. La ricerca della verità e la certezza di fede cristiana non possono accordarsi con l'ironia classica, con la astensione dal giudizio e con l'atarassia. Anche il dubbio è diventato, attraverso il cristianesimo, più totale e più intenso che non fosse nell'antichità. Agostino, Pascal, Lutero e Kierkegaard, tutti dubitano e cercano in modo molto diverso, con una passione disperata. La skepsi classica discuteva contraddizioni razionali riguardanti la verità e la falsità di enunciati, mentre il dubbio cristiano e moderno tocca il problema se e come l'uomo peccatore possa essere totalmente " nella verità ''. Filosofare scetticamente significa girar con la ricerca attorno a tutte le risposte possibili, ma non esser consapevoli di una verità rivelata. Pensare cristianamente vuol dire pensare sulla base della fede, e chi crede veramente in fondo non cerca più, ma ha trovato nel verbo e nell'appello di Dio la verità che lo libera e salva, anche se egli deve crederla sempre di nuovo. Il filosofare nel senso socratico e scettico cessa dove comincia la fede perché l'indagine della skepsi cessa quando si sia trovata la verità. Sulla base di questa differenziazione fra cercare 14

e trovare, che è più illuminante che non il contrasto tra ragione e rivelazione o tra sapere e fede, Tertulliano ha considerato il rapporto tra skepsi filosofica e la fede cristiana. Ma anche se questa differenza è radicale, resterebbe tuttavia da porsi la domanda se esiste una apertura o persino una legittima coesistenza tra la skepsi del sapere e la certezza della fede. Queste tre domande: se vi sia differenza radicale, e possibile apertura o possibile compatibilità possono esser chiarite nel modo più evidente in Tertulliano e Agostino, in Kierkegaard e Pascal. Non è un caso che il rapporto tra skepsi e fede si presenti soltanto in tali pensatori cristiani, e pertanto si tratta veramente di un rapporto tra fede e ske psi e non viceversa, poiché lo scetticismo filosofico non ha, in quanto tale, un rapporto proprio con la fede. La conoscenza scettica e critica dei limiti del sapere, e il conoscere l'incertezza del nostro sapere, non bastano da soli a portare oltre tali limiti verso la fede. La fede invece non può far a meno di rendersi conto delle possibilità del sapere e del dubitare, dato che essa è diventata credente ad un certo momento, ed anche, come fede, si trova sempre e continuamente nella possibilità di ricadere nel dubbio. Tertulliano 5 combattendo la skepsi filosofica ha combattuto la filosofia in quanto tale, ed ha anche spiegato tutte le eresie cristiane come derivanti dalle scuole filosofiche che si riferivano alla skepsi. Per lui c'è soltanto la alternativa " Atene " o " Gerusalemme ,, , essere o filosofo o cristiano. « Per conto mio non conta ci sia un cristianesimo stoico o platonico o dialettico. Dalla venuta di Gesù Cristo noi non 5 Tertulliano, De praescriptione haer., c. 7, 9, 11, 12, in « Corpus Christianorum », series latina, voli. I-Il, Turnhout 1954.

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abbiamo più bisogno di ricercare. Se crediamo, allora non desideriamo altro oltre la fede. Poiché questo è appunto la prima cosa che crediamo: che non esiste più niente da cercare, da trovare, e da credere oltre alla fede ». Tertulliano interpreta le note parole del Vangelo di Matteo: « Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; domandate e riceverete». Egli intende dimostrare come questa ricerca, se era, in quel tempo, ancora necessaria per i Giudei, non serviva più per coloro cui era giunto il messaggio di Cristo. Cristo ha insegnato senza ambiguità che cosa si debba credere, e che si deve cercare soltanto per poterlo credere. La ricerca cristiana non è infinita. « Si deve cercare finché si trova e credere quando si sia trovato, e poi non c'è altro da fare che restar saldi nell'oggetto della propria fede ». La vera fede pone termine all'ulteriore continuazione della ricerca e al rinvenimento di altre soluzioni. Solo chi non ha mai creduto veramente o ha abbandonato la fede cercherà ancora qualcosa. Cerca soltanto chi non ha niente o ha perduto qualche cosa. Ma il ricercare perché non si trova nulla equivale a cercare dove non c'è niente e a bussare dove non c'è nessuno. Inoltre il rivolgersi senza fiducia, cioè senza fede, ad altri che non siano degni di fiducia è contro il senso del cercare e del domandare. Ciò significa che il cercare e il trovare si muovono necessariamente nell'ambito di ciò che è presupposto alla fede. « Indaghiamo dunque in ciò che è nostro, fra noi e sulle nostre basi ». Per un cristiano non ha senso consultarsi con uomini che devono confessare di star ancora cercando e di essere pertanto nell'incertezza. Se si fa come coloro che cercano eter16

namente sempre dubitando si cadrà, come loro, sempre dubitando, nel fosso. Per Agostino, come per Tertulliano, i filosofi scettici si differenziano dai cristiani credenti come la vana ricerca si differenzia dal ritrovamento beatificante. Ma lo stesso Agostino, prima di trovare la verità della salvezza cristiana nella fede, aveva sperimentato lo scetticismo per poi atteggiarsi in posizione critica nei suoi confronti. Il dubbio su ogni verità dogmaticamente fissata e inalterabile è un ostacolo essenziale per la fede nella verità cristiana, e perciò la confutazione degli argomenti scettici è un passo che si deve fare inevitabilmente per giungere alla vera certezza della fede. La profondità della ricerca di Agostino di una verità certa e salutare ci fa intendere quanto profonda fosse la sua disperazione vedendo che le scuole filosofiche non gli davano la verità e la certezza. La fede nella redenzione attraverso la rivelazione divina in Cristo rispose alle domande che la precedente ricerca filosofica lasciava irrisolte. Agostino dice che il suo stato d'animo prima della conversione era come un barcollare cosl insopportabile e angoscioso che egli era pronto a seguire qualsiasi maestro filosofico gli promettesse la verità. « Spesso mi sembrava che la verità non potesse venir trovata del tutto e l'accavallarsi precipitoso dei miei pensieri mi portava a dare il favore alle dottrine degli scettici » 6 • M·a uno spirito che cerchi con tanta passione come può accontentarsi dell'atarassia e della astensione dal giudizio scettiche? Agostino, per liberarsi dall'incubo della skepsi che gli bloccava la via verso la fede, scrisse Contra Academicos. Trentacin6

De utilitate credendi, c. 8, ed. cit.

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que anni dopo, nelle Retractationes, egli dice come questo scritto gli sarebbe servito per rimuovere il dubbio radicale sulla possibilità di trovare la verità. Nel dialogo che si svolge tra uno scettico e lo stesso Agostino la prima domanda è se la mera ricerca della verità possa bastare di per se stessa. Agostino lo nega, poiché un cercare senza fine e senza risultato equivarrebbe ad errare. Chiamare sapienza un domandare e un cercare senza risultato sarebbe un inganno, e come il confondere una luce che vacilla miseramente con un fuoco che illumina e riscalda. Astenersi dall'assenso e dal rifiuto non è prova di una superiore sapienza ma è una confessione di ignoranza. Il nostro sapere sarà sempre sospeso nell'incertezza fino a che non si possa decidere consapevolmente se, per esempio, tutto consista in un ciclo di eterno nascere e perire senza origine e senza fine o non vi sia stato invece, una volta, un atto creativo. Un'astensione dal giudizio sarebbe pur sempre meglio di una affermazione non fondata che il mondo esista in un modo o nell'altro, ma siccome può essere vera una soltanto delle due opposte opinioni, si deve cercare di trovare quale sia la vera, se la pagana o la cristiana. Se non si potesse sapere del tutto cosa sia la verità, allora non si potrebbe nemmeno parlare di errore e di verosimiglianza, poiché questi si dovrebbero intendere come tali solo alla luce di una verità loro presupposta. Per rifiutare definitivamente il dubbio radicale sulla possibilità di trovare la verità, Agostino cerca di provare che sia nel campo del giudizio logico, che in quelli dell'azione etica e dell'apprezzamento estetico, esistono verità indubitabili perché di per sé evidenti. Nemmeno uno scettico può, per esempio, mettere in dubbio certe verità matematiche o negare che il mondo sia o una unità o una pluralità, che 18

l'anima sia o mortale o immortale, o che noi mentre diciamo questo si sia svegli o si dorma. Ma si può inconfutabilmente dimostrare come siano validi anche altri giudizi contenutistici che non si basano soltanto sul principio formale dell'identità e della contraddizione. Chi potrebbe negare che l'uomo desidera vivere felicemente e che esiste differenza tra il meglio e il peggio nonché tra bello e brutto, anche se si può non essere d'accordo su che cosa comunque sia migliore e preferibile? La skepsi è dunque confutabile già sul suo stesso terreno. Poiché anche chi dubita sa con sicurezza che egli pur dubitando esiste, vive e ama vivere, e capisce l'una cosa e l'altra. È vero che anche una pietra esiste e che anche l'animale vive, ma la pietra non vive come l'animale e nessuno dei due può, come l'uomo, penetrare conoscitivamente la propria esistenza 7 • Ma da dove ci viene questa certezza della verità che è già implicata nel dubbio stesso? Evidentemente da una luce che non è stata accesa da noi, ma che ci illumina e ci dà intelligenza. Chi dubita se esista la verità presuppone già con ciò che ci sia in lui qualcosa di vero e illuminante, di cui non può ragionevolmente dubitare. Presunte verità, in singoli casi, possono, si intende, rivelarsi false, ma se non ci fosse una verità come tale sarebbe impossibile che qualsiasi cosa singola fosse vera 8 • Questa verità che è presupposta nell'atto del dubitare è triplice: colui che dubita sa che egli esiste, contemporaneamente ha coscienza del suo essere, ed egli ama il suo essere e la coscienza che ne 7 De libero arbitrio II, c. 7 e 8; I, 16; De Trinitate X, 10, ed. cit. Cfr. K. Schon, Skepsis, Wahrheit und Gewissheit bei Augustinus, dissertazione, Heidelberg 1954. 8 De vera religione, c. 73, ed. cit.

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ha. Anche chi sia tanto stanco di vivere da preferire di non essere e si uccida, non vuole in realtà semplicemente non essere e non sapere niente di se stesso, ma vuole soltanto esser liberato dalla sua miseria e dalla sua coscienza di essa proprio perché egli ama l'esistenza come tale. Chi crede di preferire il nulla all'esistenza non vuole affatto il nulla, ma qualche cosa di positivo, cioè la tranquillità, la pace e la felicità di una migliore condizione d'essere 9 • Tutto ciò che è vuole affermarsi nell'essere e nessuno preferisce l'inganno alla verità, il dubbio alla certezza e l'ignoranza al sapere. Quantunque questi argomenti colpiscano la skepsi nel suo stesso terreno della riflessione razionale, tuttavia non bastano per la certezza di fede che si appoggia su una autorivelazione divina della Verità attraverso un'autorità assoluta, ma rimuovono soltanto un ostacolo filosofico alla fede. Agostino conclude dunque il suo scritto contro gli scettici con la fiducia che non si debba disperare della scoperta della verità anche se la confutazione della skepsi non è sufficiente. « Noi veniamo spinti verso il sapere della verità da una duplice potenza: la potenza dell'intelletto e la potenza dell'autorità divina poiché io non ho trovato niente più potente che l'autorità di Cristo ». Per Agostino costituisce una esperienza decisiva il fatto che la vacillante luce della ricerca filosofica non possa commisurarsi con la luce e la verità del Vangelo e dell'azione dello Spirito Santo. Però, diversamente da Tertulliano, per Agostino tra cercare e trovare non esiste un semplice rapporto di scambio dove il trovare si sostituisce una volta per sempre al cercare,

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De civitate Dei XI, 26 sgg.; De libero arbitrio III, 18 sgg.

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anzi per lui la vera ricerca comincia propriamente e di nuovo quando si sia trovato e si sia nella verità 10 , poiché ciò che si può cercare e trovare in Dio è inesauribile. « Cerchiamo colui che dobbiamo trovare, cerchiamo colui che abbiamo trovato ». Quel che è stato trovato allarga le esigenze di chi l'ha trovato affinché cerchi sempre di nuovo. Una ricerca cristiana, che ami la verità che è Cristo, non può concludersi come non può trovar termine l'amore. « Quando si dica ad uno che sia presente: non ho chiesto di te, vuol dire che non lo si ama. Perché quando si ama qualcuno lo si vuol avere sempre vicino, poiché lo stesso amore teme che egli sia assente. Quando si ama qualcuno, si vuole sapere che egli è presente, anche se non lo si vede, e ciò senza stancarsi. Questo significa il " cercate sempre il suo volto ", cosi che il trovare non ponga termine alla ricerca interiore che caratterizza l'amore, così che con il crescere dell'amore cresca anche la ricerca nell'intimo della persona amata» 11 • Nonostante la differenza radicale tra skepsi e fede può esserci però tra l'una e l'altra un'apertura, anche se il passaggio dal dubbio alla fede non è agevole perché è l'aumento del dubbio sino a diventar disperazione che prepara alla fede. Chi cerca e dubita con tanta passione da disperare non ricerca più nel senso della skepsi classica che si svolge in modo da giungere al suo culmine nell'imperturbabile equanimità dell'atarassia spassionata e non ad una passione pronta a ribellarsi. Per Kierkegaard, tale brusco passaggio costitul il principio della fede. Come per nessun altro pensatore cristiano prima 10

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In lohannis Evangelium 62, 1, ed. cit. Ep. 104, 3.

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di lui, Kierkegaard 12 , nelle sue Tesi di e su Lessing, ha, dapprima apparentemente d'accordo con Lessing, difeso la skepsi e dunque dubitato che noi si possa mai diventar certi della verità. Egli cita approvandola la nota proposizione di Lessing che, se Dio nella sua destra tenesse rinchiusa tutta la verità e nella sua sinistra la viva esigenza di ricerca della verità, ed egli, Lessing, dovesse scegliere, egli chiederebbe allora la semplice ricerca della verità perché la verità pura appartiene effettivamente a Dio soltanto. Kierkegaard sottolinea questa preminenza della ricerca della verità attuata per prove ed esperimenti e riconosce titolo d'onore per Lessing che questi, contrariamente a tutti i maestri filosofici dogmatici, abbia posseduto abbastanza « atarassia scettica >> e « senso del religioso >> per tenere ironicamente sospesi i presunti risultati dei pensatori troppo seri. Difatti, non si potrebbe mai ben sapere, negli scritti di Lessing, se egli abbia attaccato o difeso il cristianesimo, poiché egli sapeva usare la reciprocità socratica di serietà e di scherzo. Lessing terrebbe « la ferita del negativo >> aperta, ferita che sarebbe proprio salvezza, mentre coloro che vogliono esser troppo positivi la lasciano rimarginare prematuramente. Egli avrebbe anche compreso come non ci sia nessun passaggio diretto da una verità sensibile o storica (per esempio sul Gesù storico) alla fede (in Gesù come Cristo) - a meno che ciò non avvenga con un audace salto, cioè una decisione rischiata, che Lessing, in una conversazione sulla religione con Jacobi, ha rifiutato ironicamente di fare dicendo che la sua testa pesante e le sue vecchie gambe non gli permettevano un tale « salto mortale ». 12 S. Kierkegaard, Werke, 1911 sgg.; VI, 152 sgg.; dr. ed. orig. dan. Samlede Vaerker, a cura di A. B. Drachmann, J. L. Heiberg e H. O. Lange, 14 voll., Copenaghen 1901-06, ovvero 1920-27.

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K.ierkegaard ha insistito sul valore di tale salto e s'è staccato dunque da Lessing in quanto questi avrebbe fatto l'esperimento del dubbio, mentre egli faceva quello della religiosità. Questo sperimentare il salto richiede il coraggio di una decisione di fede. Si rischia qualcosa. Ma arrischiarsi nel salto ha senso soltanto quando, continuando a cercare attraverso il dubbio, si sia capitati in un vicolo cieco senza uscita, nel fondo del quale sta la disperazione. E a determinare Kierkegaard a questo salto nella fede non fu ultimo motivo il disperare della filosofia. Ma anche così l'incontro con Dio rimane una certezza di fede elevantesi « sul mare infinito dell'incertezza », poiché « il punto di Archimede del religioso >> è proprio soltanto un punto, su cui non si può stare comodamente a proprio agio. Questa immagine del punto di Archimede ricorda Cartesio che cercava parimenti un tale punto fisso sulla sua via del dubbio e credeva di averlo trovato nella soggettività autocosciente. Kierkegaard radicalizzò il dubbio teorico di Cartesio della apparenza sensibile del mondo in una appassionata disperazione dell'essere-nel-mondo come tale. L'Io che dubita di tutto è diventato per Kierkegaard non un Io razionale, sicuro di sé, ma un Sé esistente. Il dubbio non gli serve per una costruzione razionale del mondo, ma per diventar sé nella passione della disperazione, e questa gli serve come trampolino verso la fede che è essa stessa una « passione». Si dovrebbe, dice Kierkegaard contro Cartesio, dubitare sul serio e cercare di esistere come scettico 13 • 13 lvi, VII, 50; II, 179 sgg.; Tagenbiicher, ed. Th. Haecker, 1923, Brenner-Verlag, lnnsbruck, vol. I, p. 183; De omnibus dubitandum est, ed. W. Struve (1948) e, relativo a questo: Spinoza,

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Ma se si può dubitare senza scegliere il dubbio, non si può essere lasciati nell'arbitrio di disperare poiché la disperazione si costituirebbe come totalità di quanto il dubbio teoretico sarebbe soltanto partialiter. II dubbio si muoverebbe cioè dentro la « differenza » tra la sfera teoretica e quella etico-pratica mentre la disperazione si muoverebbe nel tutto. In Kierkegaard il dubbio (Zweif el) giunge a radicalizzarsi sino alla disperazione (Verzweifiung) perché egli non stimava più la teoresi o la contemplazione filosofica, e solo quel che era pratico ed essenziale era importante, ed aveva abbandonato come di poco peso la distinzione classica cartesiana tra ciò di cui si può dubitare teoricamente e praticamente. Si dovrebbe, dice Kierkegaard, prendere lo scettico nel piano etico, poiché sarebbe molto più grave fare qualcosa su cui si sia nell'incertezza, che non lo stabilire teoreticamente il dubbio. Sarebbe una grave contraddizione che ad una skepsi profonda per quanto riguarda la certezza del sapere corrispondesse un comportamento superficiale sul piano pratico, determinato dalla mera consuetudine o dalla probabilità. Che questa contraddizione fosse sopportata dagli scettici antichi e anche da Cartesio, Kierkegaard lo spiega col fatto che questi pensavano di esser certi almeno del comportamento pratico e quindi in definitiva avevano qualcosa di certo. Questo mancato riconoscimento della differenza essenziale tra teoria e pratica, tra una teoria scettica incondizionatamente indagante ed una prassi di fatto condizionata, ma praticamente valida, fa che in Kierkegaard il dubbio sia totale e radicale. Perciò secondo De intellectus emendatione, ed. Gebhardt (1907), p. 37; cfr. trad. it. di O. Bianca, Torino 1942.

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lui non esiste nemmeno una relazione positiva tra la skepsi conoscitiva e la fede cristiana. Soltanto come disperazione (V erzweifiung) il dubbio (Zweif el) ha relazione con la fede e questa disperazione viene interpretata come una « malattia mortale » dal punto di vista della fede. Pascal 14 , come Tertulliano e Agostino, ha stabilito il rapporto tra la fede cristiana e la skepsi filosofica in base alla differenza tra cercare e trovare (Pensées §§ 419, 421, 423). Egli valuta però la relazione tra la fede e la skepsi e sapere in modo del tutto differente da Kierkegaard, perché nella sua persona si incontravano un uomo di scienza, cioè un matematico con le sue dimostrazioni esatte, uno scettico deciso in tutto ciò che riguardava le cose umane, e, non ultimo, un credente che misurava l'importanza del sapere e della skepsi alla luce della certezza di fede offerta dalla rivelazione. Come scienziato egli sta alla pari con i grandi matematici e fisici del suo tempo; come scettico è un discepolo di Montaigne e, attraverso questi, della skepsi classica; come credente è nella tradizione di Paolo e di Agostino. Nessuno di questi tre elementi della costituzione spirituale di Pascal disturba l'altro, al contrario essi sono reciprocamente complementari. « Si deve dubitare quando è necessario; esser certi dove è necessario; e assoggettarsi, cioè assoggettare il proprio dubbio e il proprio sapere, dove è necessario ». Tutt'e tre: dubbio, certezza scientifica e soggezione di credente, si riuniscono in Pascal, scettico, matematico e cristiano. Solo chi non capisca nulla del dimostrare può affermare che tutto sia dimostrabile; 14

Cfr. D. G. M. Patrick, Pascal and Kierkegaard, London 1947,

2 voll.

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soltanto colui che non sa quando ci si deve sottomettere può dubitare di tutto; e soltanto colui che non sa quando si debba giudicare può sempre piegarsi all'accettazione. Tutti i tre atteggiamenti sono, nel loro campo, ragionevoli (§§ 268 sgg.). Si deve capire che c'è un'infinità di cose che la ragione non riesce ad afferrare e che niente è tanto proprio alla ragione quanto il suo stesso auto-superamento(§§ 267, 272). Si deve giungere al punto di capire che all'uomo non è consentito di giungere ad una verità del tutto sicura e totale, che tutti i princìpi sono in parte veri e in parte falsi, e che queste mezze verità non si integrano in una verità intera ma si annullano reciprocamente (§§ 385, 394 ). In un particolare frammento ( § 4 34) Pascal parla di quel che costituisce la forza principale della skepsi, cioè della incertezza dei nostri presupposti e delle decisioni fondamentali. Di fronte a ciò perdono d'importanza tutte quelle incertezze che sono state già messe in luce dalla skepsi classica, e cioè la relatività dei nostri giudizi come conseguenza di diversità di educazione, abitudine, costume, e simili, dottrine che per Pascal sono seguite dalla maggioranza degli uomini, perché non fanno altro che dogmatizzare queste basi fragili. È più essenziale il fatto che in mancanza di verità rivelata non vi è alcuna certezza assoluta della verità dei nostri princìpi, a meno che non la si senta certa in un modo naturale. Ma il sentimento naturale che adesso, per esempio, si sia svegli e non si sogni non è una prova persuasiva della verità e non è in grado di respingere un ragionamento scettico portato agli estremi. A parte la certezza di fede non esiste alcun 'altra certezza se l'uomo esista per opera di un creatore buono o di un demonio cattivo o soltanto per caso. Questa incertezza fondamentale sulla nostra 26

origine comprende anche però l'incertezza sulla nostra natura, e i dogmatici della certezza naturale non potranno mai darci una risposta che resista poiché basta un soffio di skepsi perché il dogmatico della certezza naturale sia costretto a lasciar andare la sua presunta conquista. In questa guerra tra i dogmatici e gli scettici tutti siamo impegnati, poiché chi pensa di poter rimanere neutrale si trova, solo per questo, dal lato degli scettici, il cui vantaggio consiste appunto nel fatto che chi non è contro di loro è con loro. « Che cosa farà l'uomo in questa situazione? ». Dubitare completamente se è sveglio o sogna, se veramente dubita, se persino esiste? In questa situazione senza uscita l'uomo si rivela in tutta la sua contraddizione. Egli si presenta come una strana mostruosità: l'unica creatura che è cosciente di sé stesso e sa che cos'è l'essere, ed è nello stesso tempo un nulla nell'universo, « un amministratore della verità e nello stesso tempo una cloaca dell'errore, la gloria e la feccia dell'universo» (§§ 430 sgg.). Qui non resta altro che l'umana ragione e skepsi si umilino e affermino « che l'uomo trascende infinitamente l'uomo»: da Dio e verso di Lui. L'uomo deve imparare a sperimentare la sua vera situazione non da quel che può provare da se stesso ma nell'ascoltare la parola del Creatore. Ci sono innanzi tutto due posizioni dottrinarie cristiane delle quali egli deve acquistar la certezza nella fede per poter capire la sua enigmatica situazione: la corruzione dell'umana natura causata dal peccato, e la sua redenzione per opera di Gesù Cristo. Sono entrambi dei misteri superrazionali che trascendono il nostro naturale intendimento, ma soltanto essi possono spiegare la nostra situazione. Senza il mistero del peccato e quello della remissione del peccato l'uomo sarebbe più incomprensibile di quanto 27

non lo sia questo mistero stesso. Così, per Pascal, l'enigma della situazione umana si risolve per mezzo della fede grazie alla skepsi che, scalzando tutte le altre presunte certezze, predispone l'uomo a trovare la certezza della fede. Al tempo stesso Pascal è abbastanza realistico da riconoscere che soltanto assai pochi cristiani sono veramente credenti ( § 256) e che l'uomo è troppo debole per poter credere esclusivamen te sulla base di una convinzione interiore. Egli è anima é corpo e deve dunque stabilirsi nelle sue convinzioni anche corporalmente, mediante delle abitudini di fede, e dunque esercitarsi nelle usanze cristiane ( § 24 5). La skepsi dunque non conduce alla fede perché urta contro i confini del sapere. Essa porta soltanto al confìne della fede e questo confine si può varcare solo quando alla volontà dell'uomo vengono incontro la grazia e la rivelazione di Dio. Perciò Pascal riferendosi alla skepsi classica prima di Cristo può dire che il pirronismo è nel vero (§ 432) poiché prima di Cristo gli uomini difatti non sapevano ancora dove fossero. Ma anche dopo Cristo, la skepsi rimane la estrema sapienza di chi ricerchi, quando questi non accetti la rivelazione che si è attuata in Cristo. Si può, è vero, concepire anche una filosofia dopo il cristianesimo, quando un filosofo sia diventato cristiano, ma allora il suo rapporto col cristianesimo non è più quello di un filosofo scettico, ma di un pensatore cristiano. In effetti ci sono dunque soltanto tre possibilità spirituali: credere nella verità rivelata, o rinnegarla, o dubitare con rettitudine. Questi tre modi di pensare, dice Pascal, sono per l'uomo ciò che il correre è per il cavallo (§ 260). E in relazione a ciò egli distingue tre tipi d'uomo; quelli che servono Dio perché lo hanno trovato; essi sono ragionevoli e fe28

lici; quelli che ancora lo cercano perché non lo hanno trovato; essi sono ragionevoli e infelici; quelli che non lo cercano e pertanto non possono nemmeno trovarlo; essi sono stolti e infelici (§ 257). Ma c'è un'ultima domanda: perché gli uni trovano mentre gli altri cercano invano? La risposta che ci dà Pascal è tanto semplice quanto persuasiva. Egli semplicemente non crede a quelli che affermavano di aver cercato, con tutta la serietà e di tutto cuore, tuttavia non hanno trovato (§ 194). Pascal pensa che questa insistente ricerca della verità, che però non trova in nessun luogo la verità, in realtà sia il risultato di una negligenza, poiché non ci sono soltanto quelli che credono solo per abitudine ma anche coloro che non credono soltanto per negligenza. Se il dubitante avesse chiaro intendimento, concluderebbe che non potendo trovare la verità nella direzione in cui egli rivolge intenzionalmente la sua ricerca dovrà voltarsi indietro, pentirsi, e cioè cercare in una direzione che non è quella già prefissata col suo dubbio. In questo punto si conclude, almeno per il credente, la possibilità di discussione tra la fede che ha trovato e la skepsi che continua a cercare. Di un uomo che si accontenti di fare dell'incertezza la sua concezione filosofica, Pascal dice: « le parole mi mancano per denominare una creatura talmente stravagante ». La disposizione spirituale e la Weltanshauung di tale uomo è così descritta da Pascal: « Non so chi mi ha messo al mondo né che cosa sia il mondo né che cosa sia io stesso a parte il fatto che io sono qui, in qualche angolo dell'universo, senza sapere da dove e per dove e perché proprio qui e adesso. Tutto ciò che so è che io sono finito e che la mia esistenza ha un termine, ma non so che cosa sia la morte. Perciò sono pronto a guardare verso quest'ultima senza paura 29

né speranza e, vista la vanità della mia esistenza, a non prendermi preoccupazioni inutili sopra l'eternità» (§ 194; cfr. §§ 205, 434, 469). La creatura che Pascal giudica stravagante non è altro che il notissimo esistenzialista medio, scaraventato nella esistenza, che fa tacere la sua skepsi elaborando un projet fondamenta[ e impegnandosi per qualche cosa. Pascal pensava anche che non si potesse aver per amico uno che pensasse in tal maniera poiché sarebbe enorme essere in tal modo insensibile per la perdita finale dell'esistenza nella morte e per la salute dell'anima, ed esser al tempo stesso così sensibile per la minima diminuzione di onore, libertà e possesso. Ma anche la certezza di fede non dà nessuna sicurezza: « Se uno dovesse sforzarsi soltanto per cose sicure, non dovrebbe allora sforzarsi per la religione. Poiché essa non è sicura. Ma quante cose non si fanno nella vita d'ogni giorno che hanno in sé l'incertezza e presuppongono la fede, come per esempio fare un viaggio in mare o combattere delle battaglie. Ritengo perciò che non si dovrebbe intraprendere niente se si volesse esser sempre sicuri, come ritengo anche che della religione si sia più sicuri che non d'esser vivi domani. Poiché se non è certo che si sarà vivi domani è certamente possibile che non si viva. L'incertezza della religione non va fino a questi estremi. Non è certo, infatti . che essa sia la verità, ma chi oserebbe affermare che sia certamente possibile che essa non lo sia? » (§ 234 ). Al di là e sopra del dubbio e del riconoscimento pascaliano dell'incertezza nel sapere e nella fede, sta un desiderio assoluto di una ultima certezza. La forza e la portata della skepsi in Pascal, come in Carte30

sio 15 , si misura dalla volontà di conseguire la verità come vera certezza. Il Memoria[ di Pascal comincia con una separazione rigorosa del Dio biblico personale dal Dio dei :6.loso:6. e immediatamente, nella seconda proposizione, aggiunge due volte la parola certitude e soltanto dopo le parole « pace e gioia », che si basano sulla propria esperienza di una certezza indubitabile. Questo desiderio della verità come certezza si fonda nel presupposto della verità come vera certezza di salvezza. Se la verità non avesse rapporto con la salvezza, la sua certezza sarebbe esigenza di secondaria importanza. È su questo abissale desiderio di certezza che si fonda il passaggio di Pascal dallo scetticismo filosofico alla fede dogmatica ed anche l'utilità indiretta della skepsi per la fede, utilità il cui grado si misura su di essa ( § § 421, 424). E da questo radicalismo della skepsi e della fede

15 La critica di Pascal su Cartesio non deve far perder di vista che nella struttura del suo pensiero egli è cartesiano. Anche per Pascal la totalità dell'Essere è divisa in res extensa e res cogitans, poiché soltanto lo spirito umano saprebbe di se stesso e del mondo, mentre tutto il mondo fisico non saprebbe niente di sé e dell'uomo (Pensées, §§ 793 e 347, in ed. crit. di L. Lafuma, Paris 1951, ovvero di Brunschvicg, ivi 1897). Cartesiana è anche la spiegazione che Pascal dà della vita animale come di un meccanismo (§ 252). Se tuttavia Pascal s'annota (§§ 76 sgg.) che si debba scrivere contro Cartesio, lo fa perché questi avrebbe reso assoluta la pretesa di sapere della scienza naturale matematica e avrebbe fatto del metodo del dimostrare, dell'esprit géométrique, il metodo unico ed esclusivo per poter cosl fare a meno di Dio. Chi, come Cartesio, s'appoggi sulla dimostrazione è « inutile e incerto». La filosofia di Cartesio è inutile per l'uomo, che non è soltanto un essere pensante, ed è incerta perché la certezza del cogito trascura le ragioni del cuore e dell'anima. Se Cartesio avesse tratto l'ultima conclusione dalla ragione avrebbe dovuto comprendere come ci sia un'infinità di cose che non sono dimostrabili e che nulla è più conveniente alla ragione del suo autosuperamento (Selbstaufhebung).

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cartesiana deriva anche la critica della sua analisi della posizione umana. Le osservazioni marginali di Voltaire alle Pensées di Pascal negano che l'uomo si trovi in una situazione tanto estrema tra i due abissi della totalità infinita e del nulla, e di conseguenza Voltaire dubita anche che sia necessaria una certezza di salvezza. Si può benissimo, dice Voltaire, capire la miseria e la grandezza dell'uomo anche senza un presupposto tanto radicale come quello del peccato originale. Che l'uomo non sia né perfetto e sapiente, né completamente misero e ignorante, non basta a indicare necessariamente la sua caduta da un'origine divina, ma prova soltanto che egli è un uomo. Pascal era troppo certo non soltanto della verità del cristianesimo, ma anche di ciò che è il vero cristianesimo. Pochi anni dopo l'esperienza della certezza di fede egli entrò a fianco dei Giansenisti in una polemica appassionata contro i loro avversari, per testimoniare la verità. In questa controversia era fatale che egli diventasse ingiusto e si impigliasse nell'errore. Una assoluta verità superumana non può esser, in alcun modo, difesa dall'uomo, e meno ancora ancora quando si tratta della verità del peccato e della remissione del peccato. Lo stesso Pascal infine lo capì. Egli scrisse in una lettera 16 che, se Dio davvero agisce in un uomo, questi deve riconoscere anche ciò che gli è avverso come qualcosa che promana dalla stessa volontà di Dio che dà all'uomo le sue passioni e permette la resistenza dei suoi avversari. Più essenziale che l'aspetto polemico delle Lettres à un Provincia! è la inconsueta ampiezza, chiarezza e spregiudicatezza della apologia di Pascal. Il suo unico pregiudizio è,

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B. Pascal, Lettre à Doma!, ed. crit. Brunschvicg, pp. 245 sg~.

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come ha osservato F. Overbeck 17 , il cristianesimo stesso e la convinzione che soltanto la fede cristiana risolva l'enigma di tutta la natura dell'uomo. Egli difende il cristianesimo di fronte alle gente di mondo senza ridurre le richieste della dottrina cristiana; e non semplifica nemmeno il suo compito interessandosi al solo problema della decisione, ma difende tutto intero il cristianesimo come uomo di mondo contro la gente di mondo scettica, e con ciò egli spezza i limiti della tradizione cattolica. Ma egli difende il cristianesimo con un intelletto così acutamente indagatore da non abbattere soltanto il dubbio nella verità del cristianesimo, ma da correre anche il pericolo di svegliarlo e stimolarlo. La sua skepsi credente è l'opposto del dubbio filosofico di Montaigne. Nelle sue Pensées Pascal dice che l'uomo trascende l'uomo infinitamente, venendo da Dio e andando verso Dio. Con questa proposizione egli probabilmente si riferisce alla conclusione della ambigua Apologie de Raymond Sabunde di Montaigne 18 , dove Montaigne cita da Seneca la proposizione: o quam contempla res est homo nisi supra humana surrexerit. In questa proposizione tolta dalla prefazione a Questiones naturale s di Seneca la trascendenza non si volge verso il Dio cristiano ma verso il cosmo fisico. Perché se l'uomo, è, secondo l'opinione stoica, un paziente nell'ospedale dell'umanità, egli deve però come medico e come saggio elevarsi, oltre i suoi limiti troppo umanamente ristretti in se stesso, verso una libera contemplazione del mondo dell'universo naturale che trascende e circonda l'uomo. Montaigne spiega in 17 Christentum und Kultur, ed. di C. A. Bernoulli, Basel 1919, pp. 126 sgg. 18 Essais II, 12 fine; cfr. III, 13 in ed. di F. Strowski e altri. Bordeaux 1906-33, 5 voII.

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modo ambiguo con presupposti cristiani questa proposizione classica che sarebbe una « affermazione ricca di significato » e un « desiderio utile », ma anche « assurda ». Assurda, perché sarebbe impossibile voler trascendere la nostra misura umana quale ci è stata assegnata dalla natura. L'uomo non può vedere che con i propri occhi e non può afferrare che con le sue proprie mani, e lo stesso si deve dire di fronte alla pretesa che l'uomo debba porsi fuori della sua naturale umanità. Sarà un pio desiderio quello di alzarsi sopra se stesso, aggiunge Montaigne, se Dio gli presta forze soprannaturali e se egli rinnega le sue proprie facoltà per affidarsi interamente alle forze celesti perché lo portino e lo sollevino. Non dalla nostra virtù stoica, ma solo dalla fede cristiana si può ottenere una « metamorfosi » tanto miracolosa della umana natura. Ma la virtù filosofica e la sua forza vengono seriamente messe in dubbio non da Montaigne, ma solo da Pascal 19 , perché per il cristiano credente le virtù filosofiche sono vizi brillanti e la saggezza del mondo è una follia davanti a Dio. Il sapere filosofico umano non può fare a meno dell'elemento vivificante della skepsi come dall'altra parte la skepsi filosofica deve restare uno scandalo per la fede cristiana. Les philosophes, ils étonnent le commun des hommes - les chrétiens, ils étonnent les philosophes (§ 443 ). 19

Entretien avec M. de Sacy, ed. Brunschvicg, pp. 146 sgg.

SAPERE E FEDE

Con il titolo Wissen und Glaube, questo saggio del 1954 fu pubblicato nel volume di K. Lowith, Wissen, Glaube und Skepsis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1956. La traduzione italiana qui riprodotta è quella di C. de Roberto e H. Walde apparsa in K. Lowith, Fede e ricerca, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 7-31.

1. L'antico problema del rapporto tra sapere e fede pare oggi superato. Già 150 anni or sono Hegel, nel suo trattato Fede e sapere, aveva eliminato dialetticamente la possibilità di una alternativa tra le due cose. Egli afferma che « la nostra progredita educazione » si sarebbe talmente elevata al di sopra dell'antico contrasto tra filosofia e religione, che questa differenziazione rientrerebbe nell'ambito della filosofia stessa come differenza tra il pensiero meramente concettuale e il pensiero speculativo-razionale; mentre d'altra parte la ragione si sarebbe talmente affermata entro la religione che la critica alla fede nei miracoli avrebbe perso terreno e interesse. La transustanziazione del pane e del vino in corpo e sangue di Gesù Cristo, si leggeva già negli scritti filosofico-teologici giovanili di Hegel 1 , è un miracolo inconcepibile soltanto se il pane e il vino sono intesi esternamente, come due oggetti morti. Se però li si intende interiormente nel nostro rapporto spiritualereligioso verso di essi, e per quello che significano, allora questi oggetti morti e privi di significato si trasmutano in realtà sensibili-soprasensibili che si possono sia credere che concepire razionalmente. 1 Theologische ]ugendschriften, Tiibingen 1907, pp. 230 sgg., 297 sgg.

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Quel che Hegel aveva per primo meditato filosoficamente nei suoi primi lavori sullo spirito del cristianesimo, costituì poi nella sua Fenomenologia dello Spirito argomento particolare di un apposito capitolo sulla « lotta dell'illuminismo contro la superstizione ». Il contrasto tra fede e illuminismo è solo apparente poiché le due cose si contagiano l'un l'altra seppur inavvertitamente, e si muovono entrambe in un campo comune. Il sapere illuminato e la fede religiosa, che per l'illuminismo è una superstizione oscura, si risolvono entrambi, per Hegel, in ciò che egli chiama l'assoluto sapere dell'Assoluto, e in cui la ragione propria della filosofia, e la fede propria della religione cristiana vengono ad equivalersi come un « intendimento », diverso soltanto nella forma, dello stesso contenuto assoluto. Anche nel campo cattolico F. von Baader 2 ha fatto risalire la responsabilità della decadenza della nostra società religiosa e politica alla divisione tra sapere e fede, e ha tentato di dimostrare che l'antagonismo tra sapere e fede è in fondo soltanto una lotta tra una fede e un'altra. Ma ci si deve chiedere se la riduzione (operata da Baader) della ragione in fede cristiana, e la inclusione, operata da Hegel, della fede nella filosofia abbiano effettivamente abolito la differenza essenziale tra sapere e fede. Ciò non è avvenuto, e lo dimostra anche storicamente il fatto che proprio la mediazione hegeliana tra filosofia e religione portò a far rinascere l'antico 2 F. v. Baader, Ueber den Zwiespalt des reli[!,iosen Glaubens und Wissens, in Werke, ed. in 16 voll., a cura di Hoffmann, Hamberger, Von Seaden, Lutterberg, Schliiter, Von Ostensacken, Leipzig 1851-60, I, pp. 357 sgg.; Ueber Religions- und religiose Philosophie, ivi, I, pp. 321 sgg.

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contrasto. B. Bauer e Feuerbach 3 scoprirono nella filosofia della religione di Hegel il nascosto ateismo, e Marx e Kierkegaard trassero dalla critica della religione degli hegeliani di sinistra due conclusioni opposte, ma egualmente radicali. Infatti il materialismo ateistico di Marx, che attribuisce carattere di rivelazione soltanto alla dialettica della storia profana, presuppone una determinata incredulità in una salvazione soprannaturale, mentre la fede paradossale di Kierkegaard, in contrasto con la teologia filosofica di Hegel e con tutto il cristianesimo come si presenta nella storia umana, si appoggia alla rivelazione unica di Dio in Cristo e abbandona tutto il resto. Kierkegaard ridusse tutti i tradizionali contenuti della fede al solo punto della decisione per la fede secondo la rivelazione, rendendo chiaro ancora una volta che la fede cristiana non si fonda su nessun sapere che si attui per indagine razionale e sia pertanto « scettico », ma che essa è uno skandalon per ogni sapere secolare. L'incertezza dell'indagine filosofica e la certezza della fede cristiana devono esser di scandalo l'una all'altra, e soltanto cosl potranno esser di reciproco stimolo. Ma non possono livellare la loro diversità essenziale in un movimento generale del « trascendere verso la trascendenza » o in un « pensiero dell'essere ». La fede paradossale di Kierkegaard ha avuto un effetto scandalizzante e risvegliante, ma la sua azione non ha determinato essenzialmente quello sviluppo teologico e filosofico, che pur, nella terza decade del nostro secolo, ha condizionato. L'attacco condotto da Kierkegaard contro il « cristianesimo » contemporaneo ha portato nella teologia protestante ad un ri3 Cfr. K. Lowith, Von Hegel zu Nietzsche, pp. 350 sgg.; dr. trad. it. Torino 1949.

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torno alla dogmatica ecclesiastica, e il suo attacco al « sistema » filosofico ha portato ad una filosofia dell'esistenza verso ]a trascendenza, che al posto della fede in Dio escogita « cifre della trascendenza » o medita « l'essere ». Nell'opera di Jaspers 4 la differenza tra filosofia e religione cristiana svanisce in una « fede filosofica » che interpreta il rapporto tra l'anima e Dio come un procedere dell'esistenza. Heidegger5 vorrebbe allontanare la « disgrazia dell'essere » che fece decadere la problematica speculativa da una parte nella conoscenza scientifica e dall'altra nella fede, dicendo che il pensiero essenziale è già di per se stesso un devoto « pensare a qualche cosa », e il porsi problemi è la « pietas del pensiero ». La filosofia tedesca contemporanea non vuol né sapere quel che può esser vero, e dare pertanto lo spazio che spetta di diritto all'incertezza della skepsi, né attenersi alla fede cristiana tradizionale, ma si ritira in una vaga religiosità che preferisce ci tare poeti e supplisce alla mancanza di sostanza religiosa chiedendo troppo alla filosofia. Non si può e non si vuole più distinguere tra la mera opinione (doxa), il vero sapere (epistème), e la autentica fede (pistis). La critica che Hegel ha fatto dei romantici suoi contemporanei 6 vale ancora, o nuovamente, oggi: lo spirito del tempo è diventato tanto povero che invece di intelligenza di ciò che è - non ora o nell'avvenire, ma sempre - si chiede 4

K. Jaspers, Der philosophische Glaube, Zi.irich 1948. M. Heidegger, Ueber den Humanismus, Frankfurt 1949, p. 42; Holzwege, ivi 1950, p. 325; Vortriige und Aufsiitze, Pfulligen 1954, p. 44. · 6 Phiinomenologie des Geistes, Vorrede, in H.s Werke, a cura di Lasson-Hoffmeister, Leipzig 1920 sgg., 26 voll., Il; cfr. trad. it. di E. De Negri, Firenze 1933-36, 2 voll. 5

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edificazione e « si confondono assieme le distinzioni del pensiero » per compiacersi di questo vago sentimento dell'essenziale e di una intensità senza contenuto, ritenendo di sommergere in tal modo la soggettività nell'essenza dell'essere. Ma, come dice Hegel, può esser profondo anche ciò che non ha fondo, e pare misterioso e nascosto soltanto perché non contiene dentro nulla che si possa render evidente, e la filosofia dovrebbe evit'..Ue di voler essere edificante e di abboccare all'esca del sacro. Hegel però non avverte quanto egli stesso, nonostante la sua dimostrazione del concetto di differenziazione, abbia contribuito a questa vuota profondità, abbandonando il pensiero meravigliosamente sobrio di Kant, e ne fa colpa soltanto ai suoi avversari. 2. Kant, nella Critica della Ragion pura 1 distingue tra opinare, credere, sapere, come differenti modi del ritener per vero. L'opinare può esser inadeguato sia soggettivamente, come un mero azzardarsi ad avere una opinione, sia obiettivamente, in riferimento alla verità cui si tende. Il credere, se può esser valido soggettivamente, come certezza, è però insufficiente rispetto alla verità obiettiva di ciò che si crede. Soltanto il sapere scientifico è valido sia soggettivamente, per quanto riguarda la propria certezza, che obiettivamente, per quanto riguarda la verità di ciò che si sa. Sarebbe un controsenso opinare o credere verità che sono scientificamente dimostrabili. Non opino che 2 +2 4, e nemmeno lo credo, ma lo so. In contraddizione con questi tre differenti gradi

=

1 Transzendentale Methodenlehre II, 3, in Kritik der reinen Vernunft, in K.'s Werke, 22 voli., Berlin 1902-55, III; cfr. trad. it. di Colli, Torino 1957.

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del ritener per vero teoretico, Kant considera diversi modi pratici del ritener per vero: la credenza dottrinale, morale, e pragmatica. Credenza dottrinale è, ad esempio, quella in un saggio creatore del mondo, che, se non può esser mai dimostrabile partendo dal mondo materiale, è ben più che un'opinione poiché si può appoggiare alla fede nell'ordine dimostrabile della natura. Fede morale è quella in un Dio giudice delle nostre azioni e in una vita futura. Nemmeno questa fede può esser dimostrata, ma si può assumerla come presupposto della nostra ragione etica. Ma, se non si può arrivare a saper nulla nemmeno di ciò, si può però aver certezza morale: non si potrebbe dar per certo che non ci sia nessun Dio e nessuna vita futura. La fede prammatica si ha quando un medico stabilisce una cura per un malato senza saper con certezza quale sia la vera causa della malattia. Una pietra di paragone per la certezza di un ritener per vero sarebbe la conclusione di una scommessa. Invero, quanto più elevata è la posta, tanto più si rivela incerta la nostra fede. Ma per quanto riguarda Kant, bisogna chiederci se si possa determinare la fede cristiana come credenza « dottrinale » e « morale » e includerla nel concetto generale del ritener per vero, e si possa pertanto metterla in qualche modo allo stesso livello del sapere e dell'opinare. Chi crede veramente nel senso cristiano della parola, non soltanto ritien per vero, ma è certo della sua fede e di quel che crede. La fede, quale parla per bocca di Giobbe e Paolo, di Agostino, di Lutero, di Pascal, consiste in una fiducia assoluta arduamente conquistata, che è ben più e ben altro che un ritener per vero dottrinale o morale. La fede cristiana non è un mero ritener per 42

vero se non altro perché essa, nella sua essenza originaria, non si riferisce affatto a qualcosa che si possa ritener per vero in quanto stato di cose obiettivo, ma è una fede personale in una persona. Credere in una persona non è la stessa cosa che credergli. Agostino ha chiarito questa differenza 8 : anche i demoni credettero a Gesù, però non credettero in lui. Chi crede in Dio gli crede, ma non per questo chi gli crede crede in 1ui. Il cristiano, per esempio, crede alle parole dell'apostolo Paolo, ma non crede in lui. Credere in uno vuol dire rivolgersi incondizionatamente a lui, essergli devotamente soggetto, amarlo con abbandono confidente, e attendersi tutto da lui. Questa fede che spera senza condizioni è di per se stessa un dono di Dio ed è, ad un tempo, anche un atto di volontà dell'uomo, poiché l'adempimento volontario della volontà di Dio fa parte della fede concepita cristianamente. La distinzione di Kant tra ragione teoretica e ragione pratica, nonché tra opinare, sapere e credere, non è oggi più attuale. Il suo concetto della ragione è stato messo in disparte da Hegel come un concetto meramente intellettuale. La differenza tra opinare, sapere e credere si è poi obliterata a causa del concetto di " capire " che è diventato prevalente dopo Dilthey. Si può, in un certo modo, capire tutto, ma si può sapere soltanto pochissimo. La differenza razionale tra opinare, sapere e credere si è annullata. E fa parte del carattere del nostro tempo che coloro che non possono sostenere la skepsi che è propria del sapere siano pronti ad accettare tutte le varie forme della 8

In Iohannis Evangelium, 2, 6.

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religiosità e si servano della filosofia come di un surrogato della religione. 3. Se tentiamo di staccarci da questa situazione storica che risale al romanticismo e alla sua lotta contro l'illuminismo e se tentiamo di porci in una situazione che la superi per considerare il problema del rapporto tra sapere e fede, allora saremo riportati al sorgere della filosofia occidentale e all'inserirsi del cristianesimo nel mondo antico. La filosofia cominciò, in Grecia, quando il logos, aspirando a conoscere la natura di tutte le cose, si liberò dalla tirannia del mito. Essa ricominciò ancora una volta dentro la tradizione cristiana quando la nuova filosofia della natura si liberò dalla fisica di Aristotele e dall'autorità del dogma cristiano. Si può anelare di ritornare al mito greco e ai suoi dèi, ed anche alla ricchezza dei simboli del dogma cristiano, ma non si può restaurare né il mito né il dogma una volta che si sia fatto il passo verso la volontà di sapere e con ciò si sia anche entrati nella skepsi dell'indagine. Ma è difficile restare su questa strada proprio perché dopo l'evento del cristianesimo ogni ricerca e pensiero filosofico avvertono di esser condizionati e intersec:.1ti dall'esigenza cristiana della rivelazione. Se la filosofica clas5ica conosceva soltanto la differenza tra sapere e opinare, la filosofia postcristiana conosce anche la differenza tra sapere e fede. Tutta la filosofia postcristiana è soggetta al fatale tormento di non poter esser cristiana, perché allora non sarebbe più filosofia, e di non poter esser precristiana come se ignorasse del tutto la rivelazione cristiana. Ed è perciò che essa passa, in una situazione particolarmente ambigua, dalla prova di Dio cartesiana alla 44

filosofia della religione di Hegel e dal « Venerdì Santo speculativo » di Hegel all'Anticristo di Nietzsche, e poi al trattato di Heidegger 9 intorno al detto di Nietzsche sulla morte di Dio. Quest'equivoco comincia già col tentativo di Cartesio di provare, partendo dalla coscienza di sé, l'esistenza di Dio, con mezzi puramente razionali, senza la fede, e di dedicare questa sua dimostrazione ai miscredenti della facoltà di Teologia di Parigi. Se la sua prova filosofica di Dio può esser considerata come un appoggio per la fede cristiana, essa può esser parimenti considerata come una critica a questa fede, e in tutta la storia della filosofia moderna non si può mai chiarire se l'essersi essa appropriata della tradizione cristiana sia per quest'ultima una offesa o una difesa. Quel processo, che si iniziò con Cartesio e Spinoza 10 come critica razionale della rivelazione e portò alla strana inversione operata da Kant che, trattando della religione, dice che la « fede » vera, cioè quella morale e razionale, non ha bisogno di nessuna fede, giunge poi nel XIX secolo con Dilthey ad una critica storica della ragione, per concludersi finalmente con Heidegger in un pensiero essenziale per il quale sia la razionalità scientifica che la fede costituiscono un « decadimento del pensiero » . Si pone qui l'interrogativo: c'è una strada aperta che conduca fuori da questo impaccio del pensiero moderno che, se ha concluso ed esaurito la via della ricerca razionale, non riesce però a venirne a capo con la fede? Forse questa strada deve ripartire da 9

Cfr. K. Lowith, Heidegger, Denker in durftiger Zeit, Frank-

furt 1953, pp. 93 sgg. IO

Cfr. L. Strauss, Die Religionskritik Spinozas, 1930, pp. 93

sgg.

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quell'incrocio * sul quale la speculazione filosofica e la fede cristiana si incontrarono per la prima volta nella storia. 4. Quando ci si chiede quale rapporto esista tra fede e sapere, si presuppone già che il sapere filosofico stabilisca di per se stesso una relazione con la fede. Però in tutta la filosofia greca, dalla quale deriva ogni filosofia successiva, tale presupposto non esiste ed esso si attua soltanto nella filosofia posteriore al cristianesimo. Dunque è necessario partire dalla fede per determinare il rapporto che esiste tra questa e il sapere. Il divergere del sapere e della fede è, come pure il tentativo di ricongiungerli, un fatto interno al cristianesimo. Decisiva a questo proposito è la teologia di Paolo che distingue il sapere filosofico, come sapienza di questo mondo, dalla vera saggezza della fede per la quale la saggezza di questo mondo è, di fronte a Dio, una follia. Nel Nuovo Testamento la stessa fede è chiamata « certezza di fede », ma ciò non avviene sulla base di una evidenza teoretica, bensl su quella di una fiducia assoluta in cose che non si possono né vedere né capire. L'alternativa tra la comprensione intellettuale di evidenza mondana e la fiducia per fede nell'invisibile e inconoscibile, continua a vivere non soltanto nella teologia e nel suo concetto della fede, ma anche nella filosofia e nel suo concetto del sapere. La filosofia fino nel XVIII secolo si è chiamata saggezza del mondo, per differenziarsi da una saggezza di natura totalmente altra, che non è di questo mondo. Il pensiero classico precristiano non si muove * In tedesco, Kreuzweg, che ha il significato ambivalente, particolarmente qui, sia di «crocevia» che di « via crucis» (N.d.T.). 46

dentro questa alternativa tra il sapere mondano e la fede ultramondana. La fìlosofìa greca vuol sapere che cosa sia - anche che cosa sia Dio o il Di vino. Ma ove c'è il sapere ci devono essere delle prove e così ci devono essere anche prove di Dio, che non presuppongono nessuna fede ma dimostrano il divino nella sua relazione col mondo visibile, o immediatamente nel cosmo. La teologia antica consiste dunque prevalentemente in ontologia e cosmologia teologiche, ma non è affatto una teologia della fede. Ciò che distingue le antiche prove di Dio da quelle cristiane è che le antiche si pongono come problema non tanto l'esistenza quanto l'essenza del Divino, la natura dearum 11 , mentre l'esistenza degli dèi si dà generalmente per presupposta. La natura degli dèi si manifesta nel mondo naturale e può dunque venir colta con una teologia naturale. Tutte le prove cristiane di Dio invece, da Anselmo a Pascal, si pongono soprattutto il problema di Dio poiché il Dio cristiano è il creatore di tutto ciò che è, posto al di sopra del mondo e del sensibile. La sua esistenza deve esser provata poiché in ciò che esiste non ci sono le possibilità di coglierla ostensivamente. Non si può riuscire a riconoscere il Dio biblico dalla sua creazione poiché per poter vedere come creazione tutto il mondo visibile, il cielo e la terra, si dovrebbe prima poter conoscere il suo creatore, e la sola conoscenza che si possa aver di Lui è data dalla fede nel suo verbo manifestato nella Sacra Seri ttura 12 • Le prove di Dio propriamente cristiane non vogliono giustificare la fede in Dio con nessun argo11 Cicerone, De natura deorum Il, 2, 5, 7, 8, 11 sgg., 17, 37; III, 8, in Opera Omnia, a cura di C. F. Miiller e G. Friedrich, 15 voll., Leipzig 1878 sgg. 12 Cfr. nel seguito, il saggio Creazione ed esistenza.

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mento estraneo, esse piuttosto la presuppongono, per renderla poi intelligibile anche per la ragione naturale 13 • E quando esse vollero provare più di ciò, furono giustamente soggette alla critica filosofica. Le prove di Dio dei teologi credenti, come pure la loro critica da parte della filosofia, presuppongono che il sapere filosofico e la fede cristiana siano due cose differenti. Nell'antichità la teologia si trova tanto poco opposta alla filosofia da esser anzi la sua più autentica creazione e ciò avviene particolarmente in contrasto con la religione popolare della polis. La teologia antica costituisce parte essenziale della filosofia in quanto conoscenza suprema dell'Ente supremo. Il problema non era posto nei termini di: si può conoscere Dio o si deve prima credere in Lui, ma di: si può conoscere il Divino meglio di quanto non si supponga nella religione popolare? La filosofia greca, che doveva far fronte ad una mitologia popolare, si trova in posizione ben diversa di fronte al sapere di quanto non accada con la filosofia postcristiana la quale deve far fronte alla pretesa dogmatica di una fede rivelata o cercare un modo d'accordo con essa. La filosofia classica non si muove entro l'aut-aut di sapere e fede ma entro la differenza tra epistème e doxa. Doxa può significare sia opinione che fede ed è a quest'ultimo significato che ci si riferisce quando si parla di ortodossia. Ma, se la si compara all'epistème come al vero sapere, la doxa non è una fede nel senso della pistis del Nuovo Testamento ma piuttosto un mero ritener per vero. Ma ciò che la doxa ritiene per vero è in effetti una mera apparenza, 13

K. Barth, Anselms Beweis der Existenz Gottes, Ziirich 1931.

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una apparente verità. Si pensa o si crede di sapere ciò che qualcosa sia ma non lo si fa veramente. Questa differenza tra doxa ed epistème, fondamentale per ogni pensiero filosofico, non è però altrettanto radicale quanto quella che esiste tra la fede cristiana e tutti i gradi del sapere. Non si può passare dalla fede in cose invisibili al sapere di ciò che si può mostrare e indicare, ma esiste invece una ascesa da ciò che si opera al vero sapere. Socrate in tutta la sua vita non fece altro che condurre i suoi interlocutori al sapere genuino o alla confessione della loro ignoranza cominciando con l'interrogarli sulle loro opinioni. Al contrario la fede cristianamente concepita non è un mero ritener per vero ed una forma inferiore del sapere, e non può verificarsi un simile passaggio da essa al sa pere evidente proprio perché la fede cristiana non è una manifestazione embrionale di un sapere ostensibile. Il concetto neotestamentario della fede non esisteva nel pensiero greco, e in Platone pistis ha il valore di forma subordinata della doxa e per lui il muoversi entro la pistis è ancora un muoversi nell'ambito dell'intelletto ch'è in immediatezza col senso. Soltanto con Proclo, nell'era postcristiana, la pistis vien posta sopra la gnosis, ma anche qui è intesa come una forma superiore di intelligenza. Per Platone sarebbe stato assurdo supporre che la fede precedesse la penetrazione intellettiva e aprisse l'accesso ad una verità superiore. Se è esatto che per la filosofia classica non esisteva la questione di un rapporto problematico tra sapere e fede, ma esisteva il problema del rapporto tra conoscere e opinare ché entrambe sono specie differenti del sapere, allora si può supporre che tra i filosofi greci non vi fossero degli increduli in un senso affine a quello dell'ateismo postcristiano. Nell'antichità non 49

si trova un corrispettivo alla differenza tra ortodossi, miscredenti e increduli. Possono esserci delle eresie soltanto dove ci siano delle ortodossie e ci possono essere degli atei soltanto dove vi siano anche dei credenti. Nell'antichità l'ateismo non è una differenziazione religiosa rispetto alla fede, ma è un tipo politico di eresia in rapporto ai fondamenti religiosi della polis 14 • L'ateismo era asèbeia e questa era un oltraggio che la polis puniva. Socrate fu accusato di asèbeia perché non venerava gli dèi della polis ma altre divinità nuove e, poiché tali innovazioni nel campo religioso partivano spesso dai filosofi e dai poeti, l'interpretazione poetica e filosofica del Divino non entrava in conflitto con la Chiesa e i suoi teologi (che non esistevano), ma con la religione politica pubblicamente riconosciuta. Protagora, Anassagora, Aristotele, Teofrasto furono tutti accusati di asèbeia e preferirono emigrare o starsene in disparte per un certo tempo. Non si concepisce facilmente che dei filosofi come Sartre, a causa del suo ostinato ateismo, Jaspers a causa della sua fede filosofica non ortodossa, o Heidegger a causa del suo discorso sul sacro, possano esser tratti in giudizio di fronte ad un pubblico tribunale con l'accusa di introdurre innovazioni pericolose per lo Stato; seppur si può concepire che i loro scritti vengano posti all'indice ecclesiastico. 5. L'innovazione decisiva si presentò nel mondo pagano soltanto con l'avvento della fede cristiana, 14 Cfr. Fuste! de Coulanges, La Cité Antique, Paris 1864; H. Maine, Ancient Law, London 1861; G. Sorel, Le Procès de Socrate, Paris 1889.

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assolutamente nuova e non politica, e nei primi secoli, i cristiani furono considerati e chiamati, ancora in senso politico, atei dai pagani religiosi: innova tori pericolosi per lo stato, in quanto non credevano nei vecchi dèi della polis e del kosmos. D'altronde nemmeno gli apologisti cristiani consideravano i pagani come atei, ma come superstiziosi che credevano in troppi dèi e demoni, e furono perciò chiamati paradossalmente « atei politeisti » 15 • Un vero ateismo divenne possibile soltanto in seguito alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo religioso e all'abolizione dei culti pagani e al discredito dei molti dèi pagani che avevano sino allora reso sacri il mondo e ogni azione umana. Soltanto quando si perde la capacità di credere con la fede esclusiva cristiana, nell'unico Dio creatore che sta sopra il mondo, il mondo - del kosmos e della polis - può presentarsi come privo di Dio e " mondano ", dissacrato in un modo tale quale non era mai stato per i greci e per i romani e come nessuno dei loro filosofi, nemmeno Epicuro, l'aveva pensato. Allo stesso modo che l'ateismo acquista un senso diverso se si presenti in un'epoca precristiana ovvero postcristiana, e diverse allo stesso modo solo la religio antica e la fede cristiana, così anche il dubbio è divenuto, attraverso il cristianesimo, più totale e intenso di quanto non lo fosse mai stato nell'antichità. Contemporaneamente alla skepsi filosofica e al suo acuirsi fino al dubbio cristiano è diventata più pressante anche la ricerca della certezza, soprattutto nella dimensione della certezza di fede. Il problema della verità come certezza vien riallacciato generalmente a 15 Cfr. A. Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den ersten drei ]ahrhunderten, « Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur », Neue Folge (1905), XIII, 4.

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Cartesio perché fu lui a fondare la verità scientifica sulla certezza del sapere e cercò con il dubbio metodico di escludere ogni conoscenza incerta per giungere ad una verità non dubitabile. La determinazione operata da Cartesio della verità obiettiva attraverso la certezza soggettiva del sapere giunse poi ad una conclusione dialettica nella fenomenologia di Hegel. Nel sapere assoluto si presentano unite quella che è la certezza per me e quella che è la verità in sé. Ma sia Cartesio che Hegel agiscono nell'àmbito della tradizione cristiana successivamente alla riforma, e la esigenza della verità come certezza precede di molto la nuova scienza cartesiana. La richiesta della verità parte dal presupposto cristiano di essa come di una verità di salvezza riguardante l'unum necessarium e la certezza che questo esige. Da ciò deriva il fatto che Tertulliano e Agostino, Lutero e Pascal non sopportano ske psi filosofica. Tutti essi si sono cimentati di fronte al dubbio filosofico: Tertulliano ed Agostino a quello classico, Lutero alla professio sceptica di Erasmo, Pascal al dubbio di Montaigne, che da parte sua si ricollega agli argomenti classici. Questa lotta della certezza della fede col dubbio filosofico si presenta come tema costante nella storia dello spirito europeo ed una delle sue manifestazioni contemporanee è data dalla corrispondenza di Paul Claudel con André Gide. Fra tutti i pensatori cristiani Pascal è quello che ha concesso maggior margine alla ske psi ed ha costruito la sua prova di Dio come un calcolo di probabilità matematica al fine di far meglio fronte alle obiezioni degli scettici. Poiché nemmeno la certezza della fede dà all'uomo sicurezza alcuna. Ma se Pascal ammette l'incertezza in materia di 52

sapere e di fede, sovrasta pero m lui un incondizionato desiderio di una certezza finale che rende relativo tutto ciò che si può sapere e dimostrare perché essa cerca la certezza della salvezza dell'anima. Anche per Lutero la certezza della fede ha tanta importanza poiché essa determina la beatitudine o la dannazione; infatti, come si legge nell'opuscolo contro Erasmo « che cosa più dell'incertezza assomiglia alla dannazione e alla infelicità, e che cosa ç'è di più beato della certezza? ». Lutero giudica lo scritto di Erasmo sul libero arbitrio un libro incerto e pertanto pericoloso. Occorre però chiederci se anche la certezza di fede di Lutero non abbia i suoi pericoli e ciò tanto più in quanto egli a giustificazione della sua certezza non si appella alla propria intelligenza, capace d'errore, ma allo Spirito Santo come a suprema e indiscutibile istanza. « Lo Spirito Santo non è scettico. Esso non ha scritto nel nostro cuore una illusione incerta, ma una possente e grande certezza che è più certa e ferma del fatto che ora viviamo come creature e che due più tre fanno cinque ». Lutero considera anche la dottrina del libero arbitrio tra le cose di cui è necessario esser totalmente certi, poiché quando non si sappia esattamente di che sia capace e non capace la libera volontà, allora non si può nemmeno sapere di che cosa sia capace la volontà divina. E sulla questione del libero arbitrio occorre soprattutto una decisione chiarissima per un univoco sì o no, poiché ove su tale argomento vi fosse incertezza non si sarebbe cristiani. Lutero chiama questa certezza assertio fidei; asserere vorrebbe significare l'insistere fermamente su una dottrina, e confessarla nella fede di fronte a Dio e di fronte agli uomini. Ciò difatti può esser necessario per una confessione dell'unum necessarium; ma una tale confessione, o 53

parlando in termini di filosofia esistenziale un tale engagement, che cosa ha da fare con il conoscere? L'esistenzialismo offre meno e domanda di più della filosofia perché, invece della volontà di sapere, e della possibilità di sapere, e dei loro limi ti, pone delle decisioni di fede, anche se non cristiane. Di solito l'esistenzialista vuol decidere su ciò che non può essere conosciuto, ed è caratteristico di tale volontà l'irrompere verso la fede con un salto al di fuori dell'incertezza del sapere. Chi metta in dubbio questa certezza esistenziale e luterana della decisione della fede, e chi, come fece Erasmo, veda sempre anche nella Bibbia incertezza e oscurità e non voglia dunque decidere apoditticamente è, secondo Lutero, posseduto da Satana che vuol sottrarre gli uomini alla Bibbia con la filosofia e con al tre dottrine umane. La conseguenza e la forma estrema della decisione per la certezza della fede sono riscontrabili nel cristiano che si lascia uccidere come testimonio di verità della sua fede. Se non si fosse assolutamente certi della dottrina cristiana, chiede Lutero, come si potrebbe esser capaci di sacrificarsi per essa? Si può però obiettare che non basta la capacità di sacrificarsi per la fede a dimostrare la verità di ciò che si crede. Gli uomini che hanno seguito Cromwell, Napoleone, Lenin, Hitler, non erano meno certi della loro fede e hanno sacrificato se stessi e soprattutto gli altri, hanno ucciso e si sono lasciati uccidere. D'altra parte non è certo un caso che la filosofia non abbia martiri. Neppure Socrate morì come un martire precristiano, ma come un filosofo scettico e cittadino ateniese che rimase ironico sino alla fine. I filosofi, quando siano veramente dei cercatori della verità e non abbiano soltanto delle convinzioni consolidate, non sono mai tanto certi di quel che affermano da lasciarsi uccidere 54

per la verità o da uccidere altri che pensino diversamente. Generalmente in caso di contrasti essi si ritirano dalla vita pubblica o distinguono tra un senso esoterico e uno essoterico dei loro seri tti. E ci si può domandare se mai sia possibile che un pensatore speculativo abbia convinzioni così ferme come le hanno i testimoni della verità, cristiani anche non cristiani. Platone e Aristotele riconobbero che esistono delle gradazioni di quel che è vero e di quel che è certo, ed anche in filosofia non disdegnarono di parlare del probabile, e, appunto perché sapienti, conoscevano come non tutto il sapere sia egualmente vero e certo.

6. Il problema del rapporto tra sapere e fede si è chiarito quando risultò che le possibilità del sapere nonché della certezza e dell'incertezza sono, a causa della loro relazione con al fede e la sua certezza, di genere diverso da come erano prima del cristianesimo. Pare che il rapporto tra sapere e fede sia insuperabilmente difficile ma proprio a causa di questa difficoltà del sapere nei confronti della fede successivamente all'avvento del cristianesimo, il sapere non può esimersi dalla verifica se tuttavia non vi sia una strada razionale sulla quale esso, investigando nella sua incertezza, non possa avvicinarsi in modo naturale alla certezza che è propria della fede. Tale strada fu indicata con esemplare chiarezza da Agostino nel suo scritto De utilitate credendi. Agostino intende la fede allo stesso modo di come essa è intesa nell'Epistola agli Ebrei, cioè come una assoluta fiducia in cose che non si possono vedere e sapere come le cose visibili 16 • 16

Le seguenti esposizioni si riferiscono a De utilitate credendi

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La tesi sostenuta nel trattato agostiniano è quella del primato della fede sulla intelligenza conoscitiva. Egli vuol dimostrare come la soggezione previa alla fede non sia affatto irragionevole, ma si possa anzi mostrare ragionevole l'atteggiamento in cui la fede creda prima di ogni sapere. Se la decisione di credere fosse irragionevole, allora non si tratterebbe più di fede ma di pura credulità. Agostino chiarisce la differenza tra la vera fede e la fatua credulità richiamandosi alla differenza tra studiosum esse e curiosum esse. Entrambi, sia l'uomo semplicemente curioso come lo studioso serio, vogliono sapere qualcosa, allo stesso modo che entrambi credono: il credulo e il credente. La differenza però è che il primo vuol sapere molte cose che non lo riguardano, mentre il secondo vuol sapere soltanto ciò che gli è utile e salutare per la salvezza dell'anima. Ma anche quando si convenga che credulitas e fides non sono la stessa cosa, nondimeno entrambi questi due modi di credere potrebbero trarci in errore quando si tratta di una cosa di tanta importanza come il sapere con assoluta certezza cosa ci serva per la salvezza eterna dell'anima, dato che si tratta qui della verità della religione cristiana. Quanto sarebbe mal riposta la salvezza dell'anima se credulitas e fides si differenziassero soltanto come, per esempio, una ubriacatura occasionale dalla ubriachezza abituale! Se così fosse, dice Agostino, allora davvero non soltanto sarebbe impossibile credere in senso religioso, ma nemmeno si potrebbe più avere un amico o fidarsi dei propri geni tori, anzi neppure fare mai affari con gli altri, poiché tutta la vita e la convivenza umana e De fide rerum quae non videntur, in Migne, P.L., Paris 1845-49, o in « Corpus Vienn. », Wien 1896 sgg.

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sono fondate sulla mutua fiducia, sulla fiducia in cose che non si possono né vedere, né sapere. Come esempio della utilità e ragionevolezza della fede prima di ogni vedere, di ogni sapere, di ogni comprendere, Agostino si richiama al fatto che non si possono amare i propri genitori e aver fede in loro, se non si crede che essi siano i nostri genitori. Che lo siano davvero non lo si può mai dire con certezza. Come si sa, non si può esser sicuramente certi del padre, e nemmeno basta quel che ci dice la madre, cui crediamo per quel che ci dicono i parenti, i domestici, e i dottori. Ma quando, per il fatto che non c'è certezza, uno concludesse di non essere neanche tenuto ad amare i suoi presunti genitori ed a obbedire loro, non solo agirebbe da stolto ma anche in modo estremamente immorale. Chi invece soddisfa lealmente ai suoi doveri filiali, anche se poi risulta che quelli che egli credeva fossero i suoi genitori non erano affatto tali, avrebbe sempre agito moralmente bene. Ma se ragionevolmente la fiducia, cioè la fede in cose che non si possono vedere né sapere, è opportuna anche dove si tratta soltanto dei rapporti umani, in cui forse è fuori luogo una fiducia assoluta e senza riserve, quanto più non si dovrà credere in Dio prima che in qualsiasi altra cosa per stabilire un rapporto con Lui. Però per accedere alla fede cristiana e per la sua predicazione nella chiesa, è anche necessario e fondamentale il rapporto di naturale fiducia tra uomo e uomo. Ovviamente l'uomo conosce il messaggio cristiano soltanto perché esso viene proclamato da altri che già vi credono. Per diventar credente occorre innanzi tutto esser pronto ad ascoltar altri che credono, ed essere disposto ad apprendere e lasciarsi istruire nella religione cristiana da uno che sappia. 57

In questo rapporto iniziale tra allievo e maestro si deve presupporre che tra maestro e allievo esista una fiducia reciproca. Il maestro deve credere che chi vuol farsi istruire nella fede cristiana non sia soltanto curioso o voglia ingannarlo. Chi per sapere se può fidarsi di lui mettesse criticamente alla prova colui nel quale deve aver fiducia, dimostrerebbe di non fidarsi, ma anzi diffiderebbe appunto della sua propria fiducia. Ma non si può ottenere la fiducia attraverso la sfiducia. Qui ci si incontra con una notevole difficoltà che Agostino esamina dettagliatamente: come potrà lo stolto incredulo, che però si presume cerchi la verità ma non ha ancora trovato la fede, scoprire chi sappia e possa insegnargli in merito alla religione? Per far questo lo stolto dovrebbe esser un savio per poter riconoscere come tale un altro savio. Ma come si potrà impedire che nella ricerca di un buon maestro non si cada sotto false autorità dato che sono tante le scuole filosofiche e le sette religiose che pretendono di avere una stessa autorità e che affermano di possedere la verità? Come ci si può accertare che la fides in una auctoritas non sia una mera credulitas in una autorità falsa? Tale problema, riconosce Agostino, è di tanta difficoltà da metterci in gravissimo imbarazzo. Anche segni visibili della verità cristiana, quali le conversioni e i miracoli, non servono poiché come potrebbe esser possibile riconoscere tali segni come manifestazioni divine quando non si conosca prima quello di cui essi offrono testimonianza? Un indicatore stradale non si può riconoscere come tale se non si sa prima cosa sia una strada. Agostino afferma che la difficoltà è tanto grave da poter esser risolta soltanto dallo stesso Dio, che può porre l'uomo stolto sulla giusta via verso la fede e con ciò verso la pene58

trazione intellettiva per fede nella verità della religione cristiana. Nemmeno si potrebbe porsi il problema e indagare sulla vera religione se Iddio non esistesse e non ci aiutasse già nella ricerca. Deve esser la stessa autorità divina, cui debbo accordare la mia fede, a concedermi tale fede in se stessa. Ma anche se la fede non è soltanto una decisione, un mero salto, ed è ispirata da Dio stesso, essa resta nondimeno un audace rischio: il rischio, cioè, di lasciarci andare mentre non ci si può accertare in anticipo quel che tale impegno significhi e quale possa esserne l'esito. Quello che esistenzialmente è un rischio, un azzardo, teoricamente analizzato è un circolo chiuso nel quale si presuppone sempre ciò che si deve giustificare: cioè Dio, la sua rivelazione, e la fede in essa. E una specie di circolo di movimento inverso ci presenta anche l'ultima affermazione di Agostino sul rapporto tra fede e sapere (Epist. 120, 3 ). Non c'è contraddizione se egli, pur insistendo contro i Manichei che la fede deve precedere la conoscenza, si rifiuta per altro di considerare il salto nella fede come un atto irrazionale, poiché è appunto ragionevole che la fede preceda la ragione. Fin qui giunge la spiegazione filosofica che Agostino dà dell'utilità e della razionalità della fede. Ma non occorre dilungarci oltre per far vedere come, essendo come presupposto connaturata all'uomo, la fede nei suoi rapporti con i genitori, maestri, amici, medici, giudici, essa non costituisca puramente una introduzione, dalla quale si potrebbe senz'altro ascendere alla fede nella rivelazione di Dio in Cristo. Così come, partendo dal riconoscimento delle autorità naturali (nei rapporti tra figli e genitori, tra allievi e maestri, tra ammalati e medici), non si giunge da sé al riconoscimento del Dio biblico quale autorità su59

prema, parimenti non basta la fede naturale per arrivare alla fede cristiana in senso formale 17 • Quel che la fede e la speranza cristiane hanno di non naturale è che esse si presentano come comandate: dobbiamo credere e dobbiamo sperare, anche se il credere una cosa quale è l'unica storia della rivelazione divina in un determinato uomo è in contraddizione con la nostra incredulità naturale. Tra la fede naturale e quella cristiana c'è di comune soltanto l'aspetto negativo: che entrambe si presentano come una fede in cose che non si possono vedere. Guardando l'uomo Gesù non si poteva vedere se egli fosse o no il Cristo e il Figlio di Dio, allo stesso modo che guardando Hitler non si poteva vedere se fosse un capo mandato dal destino e un salvatore politico, o un perfido seduttore. In un caso come nell'altro si tratta di credere e di non credere. Sia in un caso che nell'altro coloro che credono in se stessi trovano chi crede e chi non crede in loro. Né bastano le conseguenze delle azioni di chi creda a dimostrare se egli sia stato o no ingannato dalla sua fiducia. Se per ipotesi la fede in Cristo non avesse portato a quelle conseguenze nella storia del mondo, che ora chiamiamo cristianesimo, e se il cristianesimo fosse rimasto solo una setta senza alcuna importanza nella storia universale, tale insuccesso visibile non proverebbe nulla, come parimenti nulla mostra un evidente successo, a pro o contro la fede in Gesù come Cristo. Si sa che il successo storico parla sempre di per sé perché nulla più del successo ha efficacia su successi ulteriori, ma esso può servire a dimostrare qualcosa soltanto quando già si creda nella 17 Cfr. G. Kriiger, Das Problem der Autoritat, « Festschrift 'OfTener Horizont' fiir K. Jaspers », 1953.

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storia in quanto tale, cioè si abbia già fede nella storia. Se però non esiste un passaggio graduale dalla fede naturale nella autorità naturale alla fede cristiana nell'autorità cristiana, pur esistendo qualcosa di comune in senso negativo in ogni fede, come potranno allora legittimarsi e fondarsi, di fronte alla ragione naturale, la autorità cristiana e la fede in essa? Anche qui Agostino può esserci di guida. Egli aveva inizialmente cercato la verità nella filosofia e in varie sette religiose, ma senza trovarla. Al culmine di un periodo di crisi della sua vita egli decise di lasciarsi istruire nella religione cristiana spontaneamente sottomettendosi per ritornare nella via della salvezza ad una autorità cui credette provvisoriamente. Non avendo trovato, nonostante la sua appassionata ricerca, quel che cercava, egli si pose la fondamentale domanda se fino allora avesse cercato la verità seguendo il modo adatto e la giusta direzione. Fu dunque una questione di giusto metodo o di modus quaerendi. Ma ancora ci si può chiedere: da dove ci verrà l'indicazione della via giusta da prendere per ricercare, da chi la avremo se non in virtù di una autorità divina, di una auctoritas intesa nel duplice senso di istanza decisiva e di potere originariamente fondante dal quale deriva la conferma? Occorre dunque che la vera autorità che si cerca dia una convalida alla fede che si ha in essa. Poiché una autorità diventa invero tale soltanto quando vi si creda riconoscendola e assentendovi anche se si pensa sia un'autorità autentica e credibile di per se stessa. Ma come può determinarsi questo accreditamento? Evidentemente ciò è possibile soltanto quando sia la stessa autorità cui si deve credere a darci la fede in essa. Dunque si è ancora una volta in un 61

circolo chiuso che esclude il ricorso a qualsiasi forma di valutazione esterna. Ma per Agostino, è vero, la necessità e la razionalità della fede in una autorità si giustifica se si considera che la ragione umana è corrotta dal peccato originale ed abbisogna, da allora, di una autorità per la sua restaurazione. D'altra parte il peccato e la remissione si possono riconoscer come tali solo quando ci si fondi già sulla fede cristiana. Nessuna forma di riflessione critica a posteriori può equivalere alla accettazione delle fede presupposta e provvisoria in una autorità divina. Ma proprio per questo sarebbe molto grave l'errare riguardo a ciò cui si riconosce l'autorità di dirigerci. Quando si tratta di un sostanziale mutamento di indirizzo dei nostri orientamenti nella ricerca e del nostro modo di vivere per volgerci al vero Dio, come alla saluberrima auctoritas, sarebbe miserevole ingannarsi in merito alla autorità cui credere. Ma, aggiunge Agostino, « ancora più miseranda cosa sarebbe se nessuna autorità affatto ci muovesse ». Infine egli si basa sul fatto che Dio presiede a tutto, e dunque anche alla nostra ricerca di lui, ed egli ammette che senza tale cerchio chiuso la fede religiosa cristiana non potrebbe altrimenti fondarsi, in quanto non si può avere la fede religiosa se non è proprio Iddio a offrircene la convalida.

7. Sulla base dell'analisi heideggeriana della circolarità di ogni processo di comprensione (Sein und Zeit, § 32) ci siamo accontentati troppo facilmente dell'ipotec;i che questo circulus vitiosus non costituisca un difetto e che non si tratti di uscirne, ma piuttosto di immettervisi entro nel giusto modo. A questa sua giustificazione contraddice però il fatto che il 62

circolo della presupposizione di fede è chiuso e quindi rimane inaccessibile ad altri presupposti soltanto finché si resti nella fede una volta che la si sia conquistata. Ma poiché nessuno nasce cristiano credente né diventa cristiano per via naturale, ma con una rivoluzione e una rinascita, allora il circolo chiuso della presupposizione di fede si presenta aperto, prima della conquista e dopo la perdita della fede, nell'atto del passaggio decisivo dalla posizione di domanda, di ricerca e di investigazione, a quella di cristiano credente, o da questa ancora alla ripresa del dubbio. E soltanto in questo punto chi vuol sapere e chi è pronto a credere possono effettivamente incontrarsi e non soltanto fronteggiarsi reciprocamente separati da una divisione insuperabile. Se Jaspers lamenta che non c'è vera comunicazione con i teologi e ogni colloquio con loro si blocca improvvisamente in certi punti per la mancanza di comprensione, bisogna rispondere che in effetti non ci si può attendere che un credente il quale creda di aver trovato la verità nella fede cristiana, sia anche aperto in una comunicazione illimitata alle incertezze della filosofia. Però pare che l'unico possibile punto d'attacco della filosofia risieda nel semplice fatto che anche la fede ha una storia e che anch'essa già di per sé ha una ricerca e un modo di dubitare. Lo spirito di problema e di ricerca proprio della filosofia, spirito che vuol sapere, è preordinato temporalmente e realmente alla certezza della fede, poiché anche chi diventa credente e testimone della sua fede era, prima, uno che cercava la verità, uno che filosofava. D'altra parte è anche vero che chi filosofeggia può giungere alla fede e convertirsi persino con l'aiuto della skepsi e della filosofia, come dimostrano Pascal e Agostino, 63

ma ciò non avverrà mai sul f andamento della filosofia. Non ci può essere, a rigor di termini, una « filosofia cristiana ». Se si può concepire bensl una filosofia dopo il cristianesimo, dopo cioè che il filosofo sia diventato cristiano, la relazione tra filosofia e cristianesimo non è però più un rapporto tra la fìlosofìa come tale e il cristianesimo, ma invece tra la fede cristiana e la conoscenza cristiana 18 • Il massimo che la fede cristiana possa esigere dalla fìlosofìa è che essa non escluda la possibilità d'una verità divina che riveli se stessa. Poiché se esiste una autorivelazione divina della verità e se l'uomo è in grado di intenderla come tale, indubitabilmente allora essa è di per se stessa originariamente superiore ad ogni umana ricerca della verità. Fino a qui, fino a tale comprensione però era giusto anche Socrate. Nel Pedone Socrate parla coi suoi amici e discepoli della sua prossima fine, ponendo interrogativi cui non è in grado di rispondere. Uno dei suoi discepoli gli dice: « A me sembra, come forse pure a te, che una sicura conoscenza su tali fatti, finché dura questa vita, sia impossibile o del tutto difficile. [ ... ] Né è bene interrompere la ricerca prima che indagando e cercando in ogni maniera siano state esaurite tutte le possibilità. In realtà, su questo problema si può ottenere press 'a poco una di queste risoluzioni: o apprendere da qualche altro come stanno le cose; o trovar per proprio conto; o se ciò è impossibile, accogliere la migliore e la meno contestata tradizione d'origine umana, e su questa 18

S. Kierkegaard, Die Tagebucher (1832-39), nell'ed. curata da

H. Ulrich (1930), pp. 128 sgg. e 463 sgg.; cfr. trad. it., a cura di C. Fabro, Brescia, 3 voll., I 1948, II 1949, III 1951.

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lasciarsi trasportare, quasi fosse di varcar su quella il mare della si possa, con maggior sicurezza attraversare il pelago su più divina rivelazione».

una zattera; cercando vita; a meno che non e con minor periglio, salda nave: qualche

CREAZIONE ED ESISTENZA

Con il titolo Schopfung und Existenz, questo saggio del 1955 fu pubblicato nel volume di K. Lowith, Wissen, Glaube und Skepsis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1956. La traduzione italiana qui riprodotta è quella di C. de Roberto e H. Walde apparsa in K. Lowith, Fede e ricerca, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 79-100.

Il simbolo apostolico nel primo articolo dice: « Credo in Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della terra ». Questa professione di fede costituisce

un punto fondamentale e centrale non soltanto per ogni teologia cristiana ma anche, seppur indirettamente, per ogni filosofia postcristiana quando essa si domanda quali siano la ragione e il senso di ciò che esiste, da dove esso provenga e dove vada, perché e a qual fine. Se per " mondo " intendiamo il cielo e la terra uniti, la fede nella creazione nega che tutto il mondo visibile, e la totalità di ogni essere, compreso l'uomo, esistano per natura. La dottrina della creazione svolge la funzione critica di sottrarre alla natura la physis e il kosmos, riducendo ad absurdum la scoperta della natura nella sua naturalità. La Bibbia non si inizia come la fisica e la metafisica greche con lo stupore di fronte alle meraviglie visibili, ma comincia con una testimonianza di fede in un prodigio invisibile: la creazione dell'essere dal nulla. Tutti gli altri miracoli del Vecchio e Nuovo Testamento sono una conseguenza della originaria onnipotenza di un Dio trascendente. Questa fede pone come inizio una manifestazione di una volontà divina, che non è di questo mondo. Una physis che scaturisca da se stessa e un kosmos 69

che sussista da se stesso o anche si formi dal caos - questo primo ed ultimo tema di ogni filosofi.a naturale - è annullato fin dall'inizio dalla fede nella creazione. Nel secolo XIX Feuerbach ha capito questo molto acutamente. Egli cita dal Duteronomio (4, 19): « Alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna e le stelle del cielo, sedotto dall'errore, che tu non ti prostri ad adorare, o render servizio a quelle cose che il Signore tuo Dio ha create per servire a tutte le genti che sono sotto il cielo » 1 • L'ammirazione e deificazione pagane del mondo, della sua grandezza e potenza, del suo ordine e della sua bellezza, impediscono che l'uomo si alzi sopra il mondo per giungere al riconoscimento del Creatore. La Bibbia non conosce un kosmos greco che sia in se stesso una verità visibile, e una proposizione come quella di Anassagora, che l'uomo sia nato per guardare il sole, la luna e le stelle, è incompatibile con lo spirito della dottrina biblica della creazione. Quando nei Salmi si esalta la bellezza del mondo, queste lodi non sono rivolte al mondo per se stesso, ma si guarda al suo Creatore invisibile. Ma se il mondo naturale non è quello che è per legge di natura, ed è una peritura creazione dal nulla, allora esso di per se stesso ha insidente il nulla e il suo inizio è inizio della fine. Nella creazione non si tratta affatto della verità del mondo ma della verità del suo creatore, la cui onnipotenza è posta in contrasto con la impotenza che è propria del mondo. L'aspetto positivo di questa svalutazione del mondo naturale sta nell'affermazione di una inten1 Wesen des Christentums, capp. 11 e 12, in Si:imtliche W erke, a cura di F. Jodl e W. Bolin, Stuttgart 1903-11, 10 voli.

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zione ongmaria e creativa e pertanto di un fine. Se il mondo deve la sua esistenza a una volontà divina che ne ha costituito il progetto, allora esso ha una sua ragione d'essere, ha un fine, e, di conseguenza, un significato. Con la sua creazione il Creatore del cielo e della terra mirava a qualcosa, aveva un suo intento, e si trattava di qualche cosa di buono, e non di cattivo o di indifferente. Il Creatore onnipotente è un padre amoroso, benevolo con le sue creature. Ma questo Creatore buono e paterno è invisibile nella sua creazione; considerandola e studiandola non si può capire se essa abbia o no un creatore, che è in effetti invisibile e infinitamente trascendente la sua creazione. Il mondo è di Dio, ma Dio è il suo signore e non p~rte del mondo. Agostino ha formulato in un modo, che più chiaro non si potrebbe, questa proposizione di fede che è decisiva per il problema dell'esistenza creaturale nel suo De civitate Dei (XI, 4): « Di tutto ciò che si vede la cosa più grande è il mondo, di tutto ciò che non si vede la cosa più grande è Dio. Che esiste un mondo, lo vediamo; che esiste un Dio, lo crediamo. Ma che Dio abbia creato il mondo, 10. crediamo con la maggior certezza allo stesso Dio. Dove abbiamo sentito Dio? In nessun luogo meglio che nella Sacra Scrittura dove il suo profeta dice: in principio Dio creò cielo e terra ». Si può indagare cielo e terra e tutto ciò che vive sulla terra, nel mare e nell'aria, e domandare di Dio, tutti rispondono: « Non noi facemmo noi, ma noi fece colui che permane in eterno » (Con/. X, 6). Per comprendere la loro qualità di creature occorre innanzi tutto la fede nel Creatore il quale originariamente non si manifesta in alcunché di visibile, ma di udibile, nel verbo della Sacra Scrittura. Una parola, un'affermazione garantisce la penetrazione del carat71

tere fondamentale onto-teologico di ogni esistente in quanto tale e della totalità. Per questa comprensione non c'è bisogno di vedere i fenomeni visibili del mondo. Anche un cieco può comprendere quando ascolti soltanto obbedientemente ciò che il Verbo di Dio dice asserendo la sua autorità assoluta. K. Barth nella sua Dogmatik (III, 1) ha esposto in modo convincente come e perché la dottrina biblica della creazione non sia una cosmologia, ma una teologia che come teologia cristiana considera l'uomo come una immagine di Dio. La creazione del cielo e della terra è soltanto il fondamento « esteriore » del patto tra Dio e l'uomo, il motivo « interiore » della creazione è in questo stesso patto. Il segreto del mondo creato da Dio è l'uomo, perché Dio stesso si fa, per amore dell'uomo, creatura nel suo Figlio, creatura che in quanto tale chiama Dio suo padre. Dio non si è rivelato in un animale sacro o in un kosmos eterno e divino, ma in Cristo e umanamente. Egli ha creato per l'uomo il cielo e la terra, ed egli li ricreerà nell'avvenire per farne un nuovo cielo e una nuova terra. Se, come Barth, si aderisce alla fede tradizionale nella creazione ma la si interpreta nei suoi diversi aspetti, se si mantiene questo articolo di fede e non lo si vuota completamente di contenuto sensibile rendendolo astratto ma lo si riconosce quale la protostoria di ogni divenire soprannaturale e non-naturale, tale che di tutto è fondamento, e se di conseguenza non si ritiene la storia della creazione quale una interpretazione puramente mitica del mondo (Bultmann) o come « cifra » non impegnante (J aspers ), allora non si potrà far altro che acconsentire all'affermazione paradossale di Bart che l'esistenza di ogni esistente è garantita e certa soltanto per il fatto 72

che essa è creata e che senza la fede nella creazione fattuale di un mondo fattuale l'esistenza del cosiddetto uomo e del cosiddetto mondo è una ipotesi estremamente contestabile. « Chi rischia, ciò che non è del tutto privo di interesse, [ ... ] di attribuire esistenza ed essenza al cielo e alla terra e a se stesso (in opposizione a Dio, per esempio senza di lui, ovvero prima di lui o anche al lato di lui), chi ha l'audacia di pensare che egli stesso e con lui anche il cosiddetto mondo è e non non è, costui dovrà capire che questa è una ipotesi contestabile e che egli dovrà decidersi a pensare, a vivere e a morire sulla base di questa ipotesi, a meno che egli, con tutto il mondo cristiano, non confessi la fede che nel principio Dio ha creato cielo e terra e lui stesso e dunque che Dio ha dato fattualmente al mondo una realtà incontestabile ». Soltanto Dio e nient'altro garantirebbe che il mondo e noi stessi siamo e non non siamo. Ciò che è apparentemente la cosa più evidente di per se stessa, cioè l'esistenza fattuale, reale del mondo e di noi stessi, diventa per la fede nella creazione la cosa più problematica di tutte, quando si astragga da questa fede e si abbia fiducia soltanto nel mondo visibile, i cui fenomeni possono sempre essere anche mera apparenza. Che la dottrina della creazione resti operante anche in tutta la filosofia postcristiana può dimostrarlo la posizione di questa di fronte alla propria esistenza come tale e il concetto universale d'esistenza della filosofia moderna. E per questo basta prender inizio dall'unica determinazione cristiana di ogni esistente come di un ens creatum. L'estrema possibilità di una presa di posizione di fronte alla propria esistenza come tale la si trova nel 73

suicidio. La parola suicidio, che suona come atto criminale, è altrettanto problematica che la parola troppo innocua di « morte libera » (Freitod) che ha per il vantaggio di porre l'accento sull'elemento della libertà nella decisione dell'autodistruzione. In e per se stessa la libertà di autodistruzione della propria esistenza è una possibilità specificamente umana. Un essere necessariamente esistente quale è Dio non può distruggersi e parimenti un animale non può uccidersi come esso non può voler entrare nella vita. Esso può soltanto cessare naturalmente di vivere. (Un cane che non mangia più dopo la morte del suo padrone e poi muore non commette suicidio.) È vero che nemmeno l'uomo si è da se stesso posto nell'esistenza, ma egli può compiere l'atto dell'autodistruzione perché può di fatto staccarsi da tutto ciò che è, compresa anche la sua propria esistenza naturale. In questa capacità di « prendere distanza » sta la possibilità dell'oggettivazione e della astrazione. Benché la possibilità della autodistruzione sia propria dell'essenza dell'uomo, non esiste però un « suicida cristiano ». Il Vecchio Testamento, effettivamente, conosce anche la disinvoltura pagana di fronte al suicidio 2 • (Saul dopo una sfortunata lotta con i Filistei si lascia cadere sulla spada, il consigliere di Assalonne si impicca, e il Nuovo Testamento narra il suicidio, unico del genere, di Giuda Iscariota, ma Saul, il consigliere di Asalonne e Giuda Iscariota non sono cristiani.) Per il cristiano il dono della libertà ha un limite ben definito da Dio che gli ha dato la libertà assieme con la esistenza. Valutata in rapporto alla creaturalità, la libertà che vuole l'autodistruzione costituisce una 2 K. Barth, Kirchliche Dogmatik, Mi.inchen, 8 voll., 1932-51, III, 4, pp. 459 sgg.

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ribellione contro il proprio Creatore e un atto temerario. Il suicida Kirilov nei Demoni di Dostoevskij vuole con l'atto dell'autodistruzione dimostrare a se stesso con una consequenzialità assurda la sua propria volontà e restituire a Dio il « biglietto di entrata». La libertà di autodistruzione è giudicata riprovevole comunque e in tutte le circostanze da Agostino, con la sua spietata critica al suicidio di Lucrezia e di Catone, e anche di Giuda Iscariota (De Civ. Dei, I, c. 17 sgg.), fino a Tommaso, e da Lutero a Kant, il quale sostituisce Dio con l'idea dell'umanità e giudica immorale il suicidio poiché il suicida svaluterebbe l'umanità nella sua persona disponendo di sé come di una mera cosa. Anche secondo Kant, Lucrezia avrebbe dovuto difendersi dall'attacco al suo onore femminile finché fosse stata ammazzata. È vero che Kant ammette che il dovere all'autopreservazione sia valido soltanto fino a che la vita vale essere vissuta, poiché, a giudicare moralmente, non sarebbe necessario vivere, ma bensl vivere onorevolmente finché si vive. Ma Kant pensava, ed è notevole, che questo vivere onorevolmente fosse possibile sempre e in ogni circostanza purché si compissero nella propria persona i doveri verso l'umanità, senza far violenza contro se stessi. Sembrerebbe che fosse un privilegio morale dell'uomo la sua possibilità, in virtù della propria libertà, anche del sottrarsi al mondo, come un libero cittadino può emigrare dal suo paese. Ma questa libertà apparentemente estrema sarebbe capovolta, poiché essa ha come condizione immutabile che io non devo usarla per la distruzione di se stessa. Se si potesse usarla anche a tal fine, comincerebbero allora a vacillare anche tutti i doveri verso gli altri, poiché per chi non stima l'umanità nella 75

propria persona non c'è niente che gli impedisca di disprezzarla anche in altre persone e dunque, per esempio, di commettere un assassinio. Per questa considerazione etico-sociale anche per Kant, come già per Agostino, il suicidio è effettivamente un delitto. Il presupposto finale degli argomenti di Kant non è però l'idea della moralità ma una fede secolarizzata nella creazione. L' « umanità » sarebbe qualcosa di « sacro », che ci è « affidato », il suicidio contraddirebbe con le « intenzioni » del « Creatore », anche se Kant, in effetti, nella successiva proposizione parla, invece che del Creatore, della saggezza della « natura » e delle sue intenzioni naturali di conservazione cui l'uomo non deve opporsi. Come ad un servo, secondo il diritto romano, non era lecito sottrarsi al servizio del suo padrone col suicidio, cosl anche l'uomo libero (cristiano) non avrebbe il diritto di sottrarsi a Dio come a suo proprietario. Si tratta di un debole riflesso della concezione cristiana del carattere di prova della vita terrestre nell'imitazione di Cristo, e senza questo fondo teologico a malapena si potrebbe giungere a trovare persuasivi gli argomenti di Kant. Quando, dopo l'idealismo tedesco, programmaticamente e nella forma più estrema con Stirner, anche l'umanità divenne immeritevole di fede, e non fu più considerata come fondamento dell'obbligazione all'esistenza, si riaperse la via alla legittimazione del suicidio senza però che si riacquistasse la antica disinvoltura nella valutazione della vita. La posizione estrema di fronte alla propria esistenza come tale, accompagnata alla critica della umanità cristiana, divenne ambigua. Lo Zarathustra di Nietzsche insegna, sl, la volontà d'un eterno ritorno in ogni esistente, ed egli 76

vuole superare se stesso fino ali' accettazione di questo >, ec-staticamente, senza centro di riferimento, « nel mezzo di>> questo mondo, che non è più a lui collegato. Come è avvenuto questo mutamento? Forse in seguito a una trasformazione interiore, acosmica, nell'esistenza dell'uomo? È presumibilmente in tal modo che il mondo cielo e terra - è cessato di essere per noi quello che era per Aristotele e Tommaso. Ma che cosa ha a che fare con noi il mondo naturale? Moltissimo e pochissimo! Dopo che Cartesio, Galileo e Newton l'hanno interpretato in modo diverso, esso si è per noi mutato restando tuttavia sempre lo stesso. Ciò che mutò fu, inizialmente, soltanto l'immagine mondana del mondo. Ma che cosa ci garantisce che la moderna immagine del mondo offerta dalla fisica matematica comprenda la physis meglio della fisica, diciamo, di Aristotele o di Paracelso? Esiste, sì, una scienza naturale moderna ma non una natura moderna e non si può misurare dogmaticamente il problema della natura delle cose con una scienza storica, che la intenda con mentalità storicistica. È vero che la parola kosmos corrisponde a una esperienza del mondo propriamente greca, ma chi potrebbe senz'altro affermare che noi non si viva più in un kosmos perché tutti i passeri filosofici cinguettano dai tetti che siamo senza dimora e che il mondo è una specie di esplosione in 79

cui non si riesce nemmeno a sapere che cosa propriamente sia esploso? Tutti i biologi moderni non presuppongono forse ancora oggi, trovando il loro presupposto sempre riconfermato, che il mondo naturale è meravigliosamente ordinato e sorprendentemente razionale e che esso include anche l'uomo, il quale soltanto per questa ragione può anche trarsene fuori? Comunque stiano le cose riguardo all'essere e alla comprensione dell'essere, alla natura e alla scienza naturale, nonché riguardo alla scienza e alla storia, una cosa resterà incontestabile, cioè il fatto storicamente dimostrabile che il moderno concetto del mondo e la nuova posizione dell'uomo che ne deriva, prendono piede e prevalgono sol tao to con le scoperte astronomiche del XVI e XVII secolo. Fin dallo scorcio del XVII secolo numerosi scrittori e predicatori inglesi si dilettano in una cosmologia letteraria della perdizione. L'universo appariva loro decaduto dal suo ordine prestabilito e di conseguenza l'uomo non aveva più un posto dove stare. Una radicale instabilità e capricciosa mutabilità si estesero dalla terra al cielo, e l'uomo si smarri in questo mondo che non era più né ordinato né a lui coordinato. Il poeta e predicatore inglese John Donne espresse con molta efficacia questo sentimento nella sua Anatomy of the World (1611), e l'Anatomy of Melancholy (1621) di R. Burton ne trasse le seguenti conseguenze esistentive: « La nuova filosofia mette tutto in dubbio. / L'elemento del fuoco è spento; / Non c'è sole né terra, e nessuna mente / mostra all'uomo dove ritrovarli. / E francamente l'uomo dichiara che questo mondo / è tutto consunto, se nei pianeti e nel firmamento / se ne cercano di sempre nuovi, e se si vede che in atomi / tutto cade, in fran80

turni. / Tutto è in pezzi, non c'è coerenza alcuna ». It's all in pieces, alt coherence gane. Quel di cui l'uomo avrebbe bisogno sarebbe dunque « una nuova bussola per il suo cammino ». Alcuni esempi presi a caso illustrano questa esperienza della contingenza dell'Esserci umano nella totalità dell'essere attraverso tre secoli. Li prendiamo da Pascal e Kant, Kierkegaard e Nietzsche, Heidegger e Sartre. Tutti mostrano con sempre maggior evidenza come l'uomo moderno sia privo di patria fisica e metafisica. Pascal ha per primo tratto dalla nuova filosofia della natura le conseguenze esistentive cercando di mettere nuovamente in accordo la vecchia bussola cristiana con il mutato mondo dell'età moderna. Pascal era egli stesso un matematico e un fisico moderno, e non per caso nella sua apologia del cristianesimo l'ordine tradizionale della creazione non ha più un significato fondamentale. Il suo cristianesimo non si regge sulla fede in una creazione comune del mondo e dell'uomo, ma riceve il suo più forte impulso dalla corruzione della natura umana e dalla speranza della redenzione attraverso Cristo. La sua nuova comprensione della condition humaine, come si dice da allora invece di « natura dell'uomo », non può essere separata dalla nuova concezione dell'universo il cui carattere fondamentale è l'infinità senza termine nello spazio e nel tempo. L'uomo con la matematizzazione della natura ha perduto anche la sua stessa natura. Pascal paragona la situazione umana a un punto di incontro tra !'infinitamente grande e !'infinitamente piccolo. Nel frammento 205 delle Pensées (cfr. §§ 194 e 469) si legge: « Se penso alla breve durata della mia vita consunta dall'eternità che la precede e la segue, se penso al pezzettino di spazio che occupo 81

e persino a quello che vedo inghiottito dall'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, allora mi spavento e mi stupisco di esser qui e non là, poiché non esiste una ragione perché io sia proprio qui e non là, perché adesso e non allora. Chi mi ha posto qui? Per ordine e volontà di chi mi è stato assegnato questo posto e quest'ora? ». La teoria di Kant dello spazio e del tempo come forme di intuizione soggettive si presenta come una tranquillizzante risposta allo sbigottimento di Pascal davanti alle inafferrabili infinità del tempo oggettivo e dello spazio oggettivo. Ma anche Kant sperimentò la contingenza radicale dell'esistenza umana, anzi, della creazione nel suo complesso. La conclusione della sua Critica della Ragion pratica contiene le ben note frasi sul « cielo stellato sopra di me » e « la legge morale dentro di me ». Entrambi i mondi, quello della natura e quello interiore dell'esistenza morale, si presentano, sì, collegati nella nostra coscienza, ma nondimeno sono in sé due mondi completamente incommensurabili. Di fronte all'infinita estensione dell'universo l'uomo come parte della natura è un nulla, - però riferito a se stesso come persona morale egli è tutto e il mondo naturale è niente. Nella Critica della Ragion pura Kant va ancora più lontano. Egli riconosce, proprio come un esistenzialista radicale moderno, l'impossibilità di fondare la necessità intrinseca di tutta la creazione esistente. Poiché per poter far questo si dovrebbe sapere che c'è un ultimo principio di ogni esistenza che di per se stesso esisterebbe necessariamente e per esigenza della sua essenza. Ma noi non possiamo nemmeno rappresentarci l'esistenza di Dio come necessaria: questo, secondo Kant, sarebbe un vero abisso per la ragione umana. « Non si può fare a meno di pensare ma neanche si può sopportare tale 82

pensiero, che un essere, che noi ci immaginiamo come supremo fra tutti gli esseri possibili, possa dire a se stesso: Io sono dall'eternità all'eternità, fuori di me non c'è nulla, se non per mia volontà; ma da che cosa viene il mio essere? Qui tutto si sprofonda sotto di noi e la perfezione più grande come quella più piccola rimangono sospese senza sicurezza alcuna di fronte alla ragione speculativa, cui è facile far sparire l'una come l'altra senza il minimo ostacolo ». Ciò che resta è la casualità radicale e totale dell'esistenza, di una esistenza senza base su cui reggersi, e Kant sentiva che la ragione umana non poteva sopportare tale pensiero, mentre il suo contrario, la necessità intrinseca, restava indimostrabile. La differenza tra Kant e l'esistenzialismo moderno sta nel fatto che questo è speciosamente riuscito a ritenere sopportabile e persino liberatrice la contingenza radicale e a ritenere superflua la dimostrazione di una necessità intrinseca. Kierkegaard dichiara che l'interesse all'esistenza è in contrasto dichiarato con un interesse possibile alla legge del mondo naturale. Interesse precipuo per « il pensatore esistente » non è né la legge cosmica né quella morale ma soltanto l'esistenza umana isolata come tale nel suo singolarizzarsi religioso. Colpito dalla casualità assoluta di questa nostra esistenza Kierkegaard pone interrogativi perentori: « Chi sono io? Come sono venuto qui? Che specie di faccenda è questa cosa chiamata mondo? Come mai sono parte interessata in questa grande impresa? E se sono costretto a parteciparvi, dov'è il direttore di questa impresa? Mi piacerebbe dirgli qualcosa ». Nonostante la somiglianza di questa proposizione tolta dalla Ripresa di Kierkegaard con la domanda di Pascal: « Per ordine e volontà di chi mi è stato 83

assegnato questo posto e quest'ora? », si può osservare facilmente una differenza evidente nel tono e nell'intenzione. Per Pascal il mondo non era ancora una mera « impresa », che non ha proprio nulla a che fare con me, ma soltanto la incombente realtà dell'universo entro il quale la condition humaine è ciò che è. La situazione angosciosa dell'esistenza umana si trova con lui ancora inserita in una struttura, sebbene inafferrabile perché discontinua: quella dell'infinità temporale e spaziale dell'universo fisico. In Kierkegaard e nell'esistenzialismo moderno questo universo della scienza naturale matematica è diventato apparentemente insignificante per l'interesse al1'ipseità, all'Esserci, all'esser-pour-soi. Nietzsche infine, volendo riportare il mondo perduto del cosmo greco nell'esistenza dell'uomo, ha tratto da questo nichilismo cosmologico della soggettività moderna le ultime conseguenze. Il suo punto di partenza è però ancora quello moderno, in quanto riconosce come l'uomo sin da Copernico « cade da un centro verso una X >> e sia divenuto un « caso » e un « frammento ». In una notazione giovanile sulla « verità e menzogna nel senso extra-morale (cioè cosmico) » si legge che l'uomo assieme con la sua consapevolezza sarebbe smarrito in qualche angolo dell'universo effuso in innumerevoli sistemi stellari e avrebbe perduto la chiave d'accesso alla natura. Per riconquistare la verità del mondo, e con ciò dell'esistenza umana Nietzsche fece il suo grande esperimento di « ritrasferire » l'uomo « nella natura », cioè nella legge del cosmo, vale a dire nell'eterno ritorno dell'uguale, d che significa del sempre uguale nascere e sparire. Oltre a ciò Nietzsche è anche l'unico filosofo moderno che cerchi di superare radicalmente il problema 84

della significanza come finalità e intenzione, per rientrare dal nulla del nichilismo moderno nell'essere che egli, secondo il modello classico, identificava con l'essere del mondo come natura. Nietzsche è fallito filosoficamente non perché abbia visto la modalità temporale d'essere del cosmo come un eterno ritorno del medesimo, ma perché egli voleva che questa verità fosse come egli la vedeva e pertanto la concepiva come « volontà di potenza ». L'esistenzialismo moderno in nessuno dei suoi rappresentanti è giunto tanto lontano quanto Nietzsche. Heidegger, è vero, pone l'estrema domanda: « Perché mai c'è l'ente e non piuttosto il nulla? ». Nella sua Introduzione alla Metafisica, egli dice che questo è l'interrogativo più largo, più profondo e più fondamentale, ma egli non può dargli una risposta con i suoi propri mezzi. Pur restando aperto il problema del " perché ", viene decisamente rifiutata la risposta della fede cristiana, poiché chi credesse nella creazione e in quella avesse apparentemente trovato la risposta, non avrebbe nulla a che fare con questo problema filosofico. Quello che il pensiero filosofico domanderebbe con questo interrogativo sarebbe per la fede una « follia », e in questa follia consisterebbe la filosofia 6 • Bisogna tuttavia domandarci se questo estremo interrogativo del perché di ogni essere possa davvero richiamarsi a la filosofia e non soltanto alla filosofia postcristiana. Per Aristotele la questione del « principio » ultimo di ogni essere, in quanto esso puramente è, non era una follia e non era neanche negata ad ottenere una risposta, ma le si poteva rispondere con una 6

Ein/uhrung in die Metaphysik, Tiibingen 1953, p. 6.

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sapienza teoretica altissima. Egli però non ha posto questo problema nel senso postcristiano moderno, ma al contrario non ha preso in alcuna considerazione il suo presupposto: la contingenza di ogni esistente, perché qualsiasi filosofia seria potrebbe interessarsi soltanto a ciò che è " sempre " così come è, o, se non sempre, come è per lo più e di regola. Questa esclusione dell'esistente contingente dall'interesse della filosofia fu valida da Aristotele fino a Hegel e fu rovesciata nel suo opposto soltanto dal pensatore cristiano Kierkegaard. Il pensiero naturale e la concezione cosmologica di Aristotele non si sarebbero mai posto il quesito e l'interrogativo se l'esistenza dell'uomo e di ogni altro essere non potesse esser in conclusione che un mero caso o una creazione arbitraria, e dunque qualcosa che potrebbe, egualmente bene, anche non essere, così che si possa domandare perché un essere ci sia e non ci sia. Da qui la polemica centenaria tra i sostenitori della dottrina della creazione e della dottrina dell'eternità senza principio del mondo. Però se Heidegger osa la « follia » di domandare il perché di ogni essere e rifiuta la risposta della dottrina della creazione, egli dimostra allora con ciò come egli, pur pensando in senso contrario alla tradizione cristiana, tuttavia vi sta dentro. Quanto poco però anch'egli potesse accontentarsi dell'impenetrabile casualità dell'essere gettato fattualmente proprio dell'Esserci umano, è reso evidente già in Sein und Zeit dall'appello al destino, e ultimamente ad una « sorte dell'essere », secondo la quale appunto il proprio Esserci sarebbe rigettato dall'essere, e così si farebbe accadimento. Il caso viene elevato a istanza suprema sotto il nome di destino e sorte (Schicksal e

Geschick). 86

Sartre ha rinunciato alla sublimazione del caso in destino e a causa di questa sobrietà egli ha reso evidente tutta l'assurdità del moderno concetto dell'esistenza. Dio non è per lui né una realtà metafisica né un postulato morale né una lontana possibilità di un avvento futuro. Nel suo scritto programmatico sull'esistenzialismo e l'umanismo egli spiega il senso fondamentalmente ateistico del concetto radicale dell'esistenza, il cui opposto aspetto positivo consiste nell'auto-responsabilità assoluta dell'uomo. Se né un Dio creatore né la natura determinano tutte le cose, allora l'uomo deve determinare se stesso esistentivamente. L'uomo è soltanto ciò che egli può essere, e non c'è nulla cui egli non potrebbe o dovrebbe decidersi. Egli non può neanche appellarsi a una natura d'uomo che gli sia stata data e affidata, ma esclusivamente alla responsabilità libera cui è condannato. Egli è totalmente responsabile di ciò che egli è, o più correttamente: di come egli è, eccetto questa responsabilità stessa, poiché egli non è responsabile del fatto che egli simpliciter ci sia e abbia da decidere se e come egli vuole essere. Se né un Dio né una natura umana gli dicono che cosa egli deve essere, allora gli è permesso tutto ciò che egli può permettersi. Egli è « lasciato a sé », senza appoggiarsi a qualcosa o potersi scusare con qualcosa. Egli deve progettare se stesso e scoprirsi da se stesso. La natura per Sartre è un opaco « essere in sé » contrapposto a un « essere per sé » dell'esistenza senza essenza, ed è accessibile all'uomo soltanto nelle concupiscenze naturali del corpo. Sartre descrive la sua esperienza fondamentale dell' " esistenza " nel romanzo La nausée. Essa gli sopravviene come una illuminazione improvvisa quando si accorge per caso delle radici di un castagno. 87

Sta seduto in un parco su una panchina e scorge davanti a sé le radici nodose attorcigliate come serpi. Vedendole gli si chiarisce all'improvviso che cosa voglia dire " esistere ", un nudo e puro esserci e nient' altro. L'esistenza c'è sempre in noi e attorno a noi, seppure ci resti generalmente nascosta perché badiamo innanzi tutto all'albero e alle sue radici invece che alla loro mera esistenza. L'esistenza si manifesta in ogni " è " che noi si dica, ma veramente non nel1' "è " predicativo che afferma qualcosa di qualcosa. Ciò che meramente è, non è più la radice nota di un albero, che è così e cosl e appartiene a un albero, ma qualcosa del tutto astratto e tuttavia concreto al massimo, la sostanza di tutte le cose che sono, dalle quali è caduta la vernice delle loro abituali correlazioni di significato: si tratta di un esserci in « nudità oscena », qualcosa di completamente assurdo, la chiave dell'esistenza e della nausea che si manifesta di fronte ad essa. Di solito qualcosa è assurdo soltanto in modo relativo, in relazione ad altro, come il discorso di un pazzo in rapporto a quello di una persona normale. L'esperienza dell'esistenza però non è più in alcun modo relativa ad altro, ma è l'assoluto, l'assolutamente assurdo, che non si lascia dedurre da nessun'altra cosa e non si può spiegare con nulla poiché non è affatto un qualcosa in rapporto a qualcos'altro. Non ha qualità definita, ma tutte le particolarità diventano superflue e ciò che rimane è esistenza pura in quanto tale. Quel che in essa è essenziale è il casuale del nudo quod est. Sartre conclude la sua descrizione con l'osservazione che ci sarebbe, sì, della gente che avrebbe capito questa assoluta contingenza di ogni cosa che esiste, ma costoro avrebbero fino ad oggi tentato sempre 88

di dominare questa contingenza inventando in pm un Essere necessariamente esistente. Un tale Essere necessariamente esistente è, secondo la definizione tradizionale, Dio come ens causa sui. Ma persino se esistesse un tale Essere, esso non basterebbe a spiegare l'esistenza poiché questo factum brutum sarebbe in se stesso l'ultimo e l'assoluto e quel che è completamente senza scopo. Se ciò diventasse evidente, lo stomaco si rovescierebbe, tutto comincerebbe ad ondeggiare e provocherebbe nausea. Nell'ultimo capitolo dell'Etre et le néant Sartre ha tratto le ultime conseguenze del suo punto di partenza dall '« essere-per-sé » dell'esistenza umana che per via indiretta riconducono, non a caso, al concetto tradizionale di Dio. Egli prende avvio entro lo svolgimento della filosofia moderna, con Cartesio, dal fatto che ci sono due modi di essere radicalmente differenti, l'esser-pour-soi e l'esser-en-soi. L'auto-cosciente essere per sé dell'esistenza umana non è mai semplicemente e direttamente ciò che esso è, ma è essenzialmente nullificante, cioè l'uomo non è propriamente ciò che egli è già, ma è sempre in atto di progettare ciò che ancora egli non è. Egli esiste come progetto di se stesso e del mondo attraverso una appropriazione attivamente nullificante di ciò che già è in sé e che egli stesso ancora non è. Egli è soltanto un per-sé come nullificazione di un in-sé. Visto dalla prospettiva dell'essere positivo, questo nullificante per-sé si presenta come un « buco » nell'interno dell'essere, come una nullificazione apparentemente minima, ma che però basta perché lo in-sé sperimenti un rovesciamento totale: e questo sovvertimento è il « mondo », inteso, si vuol dire, come concetto esistenziale. Ma poiché l'essere per-sé è però inevitabilmente e costantemente riferito in modo nullificante 89

a un in-sé, la sua assolutezza è priva di una propria sostanza: è un assoluto che non è per sé, in quanto non è il fondamento di se stesso. La sua realtà è meramente interrogativa, esso rivolge degli interrogativi al mondo e a se stesso, poiché esso stesso è sempre in questione, e quanto più esso desidera rispondere al problema della sua esistenza - perché mai è tanto meno esso vi riesce. L'uomo, proprio perché sa di esser del tutto e interamente come un Esserci contingente, indaga nella direzione d'una possibilità di autofondamento. Questo tentativo di fondarsi su se stesso, deve necessariamente fallire e tuttavia non può venir trascurato. Il pour-soi, è, sl, essenzialmente la nullifìcazione di un en-soi, ma anche nel modo della nullifìcazione esso non può fare a meno di essere e in particolare di essere in una unione presupposta con la sua controparte. E siccome Sartre per buone ragioni rinuncia alla soluzione hegeliana della contraddizione dell'essere in sé e dell'essere per sé in un « essere in sé e per sé », e ritiene inattuabile e contraddittorio il concetto di un ens causa sui, non gli resta altra alternativa che aggrapparsi al fatto che, in effetti, ci sarebbe la passione dell'essere-per-sé umano di voler diventare fondamento di se stesso, ma questo appassionato progetto dovrebbe fallire ogniqualvolta fosse intrapreso. Tutto, dice Sartre, procederebbe come se il mondo, l'uomo, e il suo esserenel-mondo riuscisse soltanto a realizzare un Dieu manqué. Poiché il fine di ogni ricerca e aspirazione umana sarebbe la perfetta unione del pour-soi e dell'en-soi, cioè il raggiungimento di una integra totalità col superamento dell'iniziale scissione nella quale l'uomo esistente come autocoscienza si trova in rapporto alla totalità dell'essere altro da sé. Questo appassionante 90

tentativo è condannato al fallimento fino a che l'uomo non è Dio. Comunque gli uomini pensino, operino e progettino, in fondo tutte le attività umane si equivalgono poiché tutte in estrema analisi portano a sacrificare l'uomo per far prevalere la causa sui, senza poterla mai realizzare. Che uno si ubriachi o diriga i destini dei popoli, è la stessa cosa, e questa è una proposizione niente affatto soltanto meramente cinica ma che potrebbe essere stata detta ed è stata detta più di una volta anche da un cristiano 7 • L'autosufficienza e perfezione ontologica dell 'ens causa sui in un caso come nell'altro dà la misura con la quale si valuta l'imperfezione e l'insufficienza dell'esistenza creata, ossia finita. Dal punto di vista dell'uomo: proprio l'esistenza consciamente casuale e inessenziale non può fare a meno di misurarsi secondo il paradigma di una esistenza necessaria e essenziale. Sotto questo aspetto l'ateismo di Sartre è un ateismo autentico, quale cioè poteva sorgere soltanto dalla fede cristiana in Dio, dopo la sua perdita. La tesi di Sartre che l'existentia precederebbe I'essentia e la assorbirebbe è però già, anch'essa, d'origine cristiana. Non la filosofia e l'onto-teologia greche, ma la teologia della fede cristiana comincia a porsi il problema dell'esistenza di Dio. Nel De natura deorum di Cicerone, come già dice il titolo, si indaga invece innanzi tutto sull'essenza della natura degli Dei, essendo l'esistenza del divino presupposta quasi come ovvia. Questo spostarsi del peso della prova deriva dal fatto che il Dio cristiano è un Dio invisibile della 7

B. Pascal, Pensées, § 139.

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fede, la cui esistenza non si può intus-legere e cogliere attraverso un quid visibile contenuto nel mondo. Ma per ciò che riguarda il mondo della creazione, esso è stato prodotto in virtù della volontà di Dio dal nulla. Il problema dell'esistenza ha dunque, una priorità necessaria anche in rapporto al mondo creato. Secondo questa duplice priorità del problema dell'esistenza come tale, Tommaso distingue ens e essentia da esse o ipsum esse, il quale esse è la radice verbale di ens e essentia. Un ente già esistente è una quidditas che è comprensibile e definibile attraverso il suo essere quid. Ma di tutte le cose esistenti nulla esiste per sé; soltanto Dio esiste essenzialmente, e cioè è proprio alla sua essenza l'essere o esistere. Questo problema dell'essere fondato sulla fede nella creazione, nel senso del quod est, non poteva essere posto da Platone e da Aristotele con tanta radicalità. A loro mancava la assolutezza o, per dir altrimenti, la assurdità cristiana, post-cristiana e non-cristiana del concetto d'esistenza condizionato dall'idea della creazione. Nel Timeo di Platone il cosmo potenzialmente c'è già sempre sebbene nella forma di un caos ancora informe. Quel che Aristotele ci mostra sono i princìpi immanenti di un qualcosa già esistente ma non un principium nel senso di un cominciamento assoluto. Aristotele, come Platone, si interessa poco al problema dell'esistenza come tale poiché il suo stupore filosofico non si rivolge verso il miracolo della creazione, ma alla meraviglia dell'essere in quanto esso già è, potenzialmente o attualmente. Dunque in rapporto al problema greco dell 'essere, il salto da Tommaso a Sartre è relativamente modesto. Per Sartre, è vero, quel che c'è di meraviglioso nell'esistenza, l'ipsum esse, è una assurdità nauseabonda; per Tommaso esso è il segno visibile 92

di quella bontà e perfezione che è inclusa nell'atto della creazione, ma per quanto questa e quella esperienza differiscano in sentimento e contenuto, tuttavia concordano in una cosa: entrambe non solo distinguono, come già fece Aristotele, il quod est e il quid est riguardo alla loro determinabilità e comprensibilità, ma per tutt'e due l'ipsum esse o quod est è la categoria che ha priorità decisiva, in contrapposto al quid est. Quali che siano gli aspetti platonici e aristotelici del pensiero di Tommaso, egli però pensa innanzi tutto come un cristiano credente, e pertanto credente nella esistenza di fatto di Dio e della sua creazione. L'esistenza non è soltanto per Sartre, ma già per Tommaso, qualcosa che accidit irripetibilmente. Gli aristotelici arabi ed ebrei del X e XII secolo 8 appoggiarono già la tesi che l'esistenza è un puro caso. Anche Tommaso più di una volta dà delle formulazioni che s'avvicinano molto a ciò, e se egli prende una posizione critica verso gli altri aristotelici, lo fa perché per lui come dogmatico cristiano questa apparente casualità dell'esistenza è il cuore di tutte le cose create. L'esistenza, egli afferma contro gli aristotelici arabi, appare, sl, come un mero caso se la si confronta all'essentia, ma se si parte dalla totalità dell'essere in quanto essere allora l'esistenza si rivela non soltanto come una categoria eccezionale ma come l'ordine incondizionatamente più alto. Poiché senza l'ipsum esse non ci sarebbe né un ens né essentia. Cosl sotto questo aspeto si può dire che il concetto moderno dell'esistenza come si è sviluppato e decristianizzato da Pascal a Sartre sia una ontologia cristiano-tomistica senza però la dottrina della creazione. 8

Cfr. É. Gilson, L'étre et l'essence, Paris 1948.

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