Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche

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Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche

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ELVIO FACHINELLI E LA DOMANDA DELLA SFINGE Documento acquistato da () il 2023/09/20.

Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche a cura di Nestore Pirillo

LIGUORI EDITORE

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Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

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Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche a cura di Nestore Pirillo

Liguori Editore

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Il presente volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni culturali dell’Università degli Studi di Trento

Comitato scientifico: Giuseppe Ferraro, Umberto Galimberti, Ran Lahav, Edoardo Lombardi Vallauri, Nestore Pirillo, Pier Aldo Rovatti

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2011 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Gennaio 2011 Pirillo, Nestore (a cura di): Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche/Nestore Pirillo (a cura di) Phronesis Napoli : Liguori, 2011 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5235 - 4 1. Filosofia contemporanea 2. Psicoanalisi I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

1

Nota introduttiva

5

Prefazione

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di Goffredo Fofi

Prima sezione - L’uomo, l’opera, i testi 9

“Wo Es war soll Ich werden” nel pensiero di Elvio Fachinelli di Anna Ferruta

23

Elvio Fachinelli tra psicoanalisi, filosofia e politica di Francesco Conrotto

27

Psicoanalisi e pratica politica di Goffredo Fofi

35

Margini per Elvio Fachinelli. Tempo del desiderio, tempo dell’immagine di Antonio Prete

41

Fachinelli: il dialogo con Freud di Marco Conci

Seconda sezione - Psicoanalisi della domanda. Testimonianze e studi 75

La “ripresa” estatica di Elvio Fachinelli di Sergio Benvenuto

89

Gruppo chiuso o gruppo aperto? di Ambrogio Cozzi

99

Fachinelli e il caso dell’uomo col magnetofono di Nestore Pirillo

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viii 121

INDICE

Dinamiche temporali dell’accadere psichico di Franco Scalzone

133

Fachinelli e la vocazione ek-statica di Cristiana Cimino

141

Anticlaustrofilia di Diego Coelli

Terza sezione - Psicoanalisi della domanda e pratiche filosofiche Documento acquistato da () il 2023/09/20.

151

Spiritualità laica e mistica filosofica. Intorno alla ‘mente estatica’ di Romano Màdera

169

Un esercizio di pensiero di Pier Aldo Rovatti

175

Formazione e dinamiche emancipative della pratica filosofica nella “comunità di ricerca” di Antonio Cosentino

181

Limiti della psicoanalisi e prospettive della Praxis filosofica. Osservazioni sulle pagine di Elvio Fachinelli di Neri Pollastri

203

A proposito della domanda alla Sfinge. Una lettura filosofica di Maria Luisa Martini

213

Praticare il pensiero debole. Un colloquio con Gianni Vattimo tra autobiografia e filosofia a cura di Francesco Azzolini e Carlo Brentari

Appendice 229

Messaggio del Presidente della Società Psicoanalitica Italiana Stefano Bolognini

231

Iniziative a Trento in memoria di Elvio Fachinelli Una lettera di Micaela Bertoldi

233

Per una nuova edizione degli scritti di Elvio Fachinelli di Lea Melandri

237

Gli autori

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Nota introduttiva

Nei giorni 27 e 28 marzo 2009 si è tenuto a Trento un Convegno di studi in ricordo di Elvio Fachinelli, psicoanalista di origine trentina, nato a Luserna nel 1928 e scomparso nel 1989. Promosso dal Corso di Laurea in Filosofia e dal Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni culturali dell’Università di Trento, il Convegno ha visto la partecipazione di psicoanalisti, filosofi, storici, docenti universitari, testimoni e studiosi vicini all’avventura di questo singolare esponente della psicoanalisi italiana, che ha segnato un’importante stagione nell’ambito del rinnovamento dello statuto epistemologico della disciplina e della pratica di cura. Ha aperto il convegno il messaggio inviato dal Presidente della SPI Stefano Bolognini che ha voluto ricordare la complessità delle tematiche di Fachinelli. Questo volume che propone gli Atti del Convegno, tenta di rendere ragione non solo della ricchezza di quelle tematiche ma anche del dibattito e dell’ampia articolazione di problemi che quelle stesse tematiche oggi suscitano. Da parte della Società Psicoanalitica Italiana hanno partecipato col loro contributo di riflessione e di discussione Anna Ferruta del Centro di Milano, Francesco Conrotto e Franco Scalzone del Centro di Napoli, Cristiana Cimino del Centro di Roma. Dalla parte dei filosofi hanno partecipato Pier Aldo Rovatti (Università di Trieste), Romano Màdera (Università di Milano Bicocca), Antonio Cosentino (Università della Calabria), Neri Pollastri (Phronesis, Associazione italiana per la consulenza filosofica), Maria Luisa Martini e Nestore Pirillo (Università di Trento). Hanno quindi portato il loro contributo di eccellenza Sergio Benvenuto, psicoanalista membro della SGAI, Società Gruppo-analitica italiana, responsabile per l’Istitut des Hautes Etudes en Psychanalyse e ricercatore del CNR; Marco Conci dell’Associazione di studi psicoanalitici di Milano e membro della Deutsche Psychoanalitische Gesellschaft, nonché docente presso l’Università di Trento; Ambrogio Cozzi, psicoterapeuta di scuola lacaniana; Antonio Prete, professore ordinario di Letteratura comparata presso l’Università di Siena. Articolato in più sessioni, a cui si aggiungeranno i contributi di Goffredo Fofi e di Lea Melandri, impossibilitati a prendere parte di persona ai lavori (la lettera della Melandri è riportata in appendice del presente volume),

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2

NOTA

INTRODUTTIVA

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il Convegno ha consentito innanzitutto di ripercorrere la biografia di Elvio Fachinelli illuminandone momenti meno noti ma significativi, come la presenza presso la Facoltà di Sociologia di Trento nel Sessantotto, voluta dagli studenti dell’Università critica. Nelle diverse sessioni è stato soprattutto possibile cogliere la figura intellettuale di Elvio Fachinelli su un piano transdisciplinare e in rapporto con la storia della psicoanalisi. In ciascuna sessione sono stati ricostruiti nodi tematici specifici dello psicoanalista trentino, intrecciati con l’appassionato rigore delle sue iniziative nel campo non solo della psicoanalisi, ma anche dell’educazione antiautoritaria, della critica letteraria e filosofica, dell’editoria militante. Nella ricostruzione degli studiosi, Fachinelli è apparso una figura pienamente legata al suo tempo, espressiva, come Franco Fornari, del vivace insegnamento di Cesare Musatti, e quindi dell’evoluzione della psicoanalisi intrecciata al dibattito epistemologico, filosofico e politico che caratterizzò i decenni successivi alla morte di Freud. A seguito della discussione post-crociana del secondo dopoguerra, l’opera dello psicoanalista trentino è sembrata, oggi, per il linguaggio, i concetti e i riferimenti della sua scrittura, poter documentare le modalità attraverso le quali è stato ripensato il compito della disciplina, con l’impetuosa affermazione delle scienze umane – pressoché incomprese dalla psicoanalisi “classica”, e secondo prospettive richiamanti l’intreccio di clinica, epistemologia, antropologia, ermeneutica e storia. Come è stato da più parti sottolineato (si vedano, ad esempio, gli interventi di Ferruta, Conrotto e Conci), la figura di Fachinelli evoca con forza la psicoanalisi “critica” di metà Novecento, che in alternativa alla psicoanalisi “applicata” si impegnava, in Europa e in Italia, sul terreno della crisi della cura, dell’efficacia terapeutica e sulla questione del divario tra conoscenza e realtà dell’uomo. Non a caso, due tesi che hanno avuto la loro origine nel tempo di Fachinelli sono di nuovo venute a confronto: la tesi epistemologica dell’uomo oggetto di osservazioni/conoscenze terapeutiche, e la tesi storica e ontologica dell’uomo soggetto preriflessivo, testimone della propria storia che richiede, per guarire, di ri-conoscersi fin dall’inizio della relazione di cura. Per questo aspetto Fachinelli non può non evidenziare, oggi, alle sue spalle, riferimenti determinati: le riflessioni della psicoanalisi esistenziale, le ricerche foucaultiane sull’origine della sragione, la lettura ermeneutica di Paul Ricoeur e dell’antropologia storica di Ernesto De Martino, e infine, ma non per ultimo, lo spostamento della “critica” filosofica nella pratica psichiatrica di Ronald Laing e David Cooper in Inghilterra, di Franco Basaglia in Italia nonché del «ritorno a Freud» di Lacan in Francia. Su

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NOTA

INTRODUTTIVA

3

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questo sfondo, tra filosofi e psicoanalisti si è accesa una discussione circa il rapporto tra pratiche filosofiche e pratiche psicoanalitiche, a proposito della “inattualità” di Fachinelli e di una declinazione debole del paradigma psicoanalitico (si vedano gli interventi di Romano Màdera e Pier Aldo Rovatti). Questo confronto si è arricchito di un’intervista, condotta a margine del Convegno, al filosofo Gianni Vattimo che, attraverso una meditata riflessione sul proprio itinerario intellettuale, segnala il senso, oggi, di una intersezione continua tra esercizio del pensiero, impegno politico ed esplorazione autobiografica. Tra i temi cari a Fachinelli sono stati ripresi soprattutto quelli legati a Claustrofilia, alla Freccia ferma e a La mente estatica. In particolare su quest’ultimo testo, a cui era già stata dedicata particolare attenzione da Cecilia Albarella per l’osservazione degli aspetti primitivi della mente1, si sono soffermati Màdera, Rovatti, Cimino e Benvenuto. Il riferimento al caso dell’uomo con il magnetofono comparato con la vicenda di Ron Colemann (di recente presentata in Italia da Furio di Paola)2 ha avuto la funzione di mettere a fuoco lo snodo postfreudiano riguardante i rapporti tra paradigma epistemico e pratica di cura. È stata ampiamente discussa la “divaricazione storica” dell’analisi (“psicoanalisi della risposta” e “psicoanalisi della domanda”: si vedano gli interventi di Ferruta e Scalzone) a proposito della quale Fachinelli parlava di una parola “contaminata” in grado di mettere in questione la “traducibilità” e “l’equivalenza verbale”, e dunque il problema di una “semiotica psicoanalitica”, che poteva giungere fino a delineare un “codice della normalità” attraverso il quale annettersi, con l’“intersoggettivo” e il “consenso”, la sfera del singolare3. Su questo ambito problematico si è misurata l’“inattualità” di Fachinelli: il pericolo di una psicoanalisi troppo categoriale e, a sua correzione, il ricorso ad «una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola» ma ‘pratica’ (si veda l’intervento di Maria Luisa Martini sulla domanda rivolta da Fachinelli alla sfinge). Secondo l’esperienza di cura di Fachinelli, la parola dell’analista doveva mantenere un contatto tra lume della conoscenza e realtà umana analizzata. Ciò che resisteva all’interpretazione, la realtà che non si faceva ricondurre tutta a linguaggio, era la

1

Albarella C., «L’individuo ed il gruppo: aspetti primitivi della mente» in Albarella C., Pirillo N., a cura di, L’incognita del soggetto e la civilizzazione, Napoli, Liguori 1993. 2 Coleman R., Guarire dal male mentale, Roma, Manifestolibri 2001. 3 Cfr. la nota di Elvio Fachinelli, «L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicanalista», in L’erba voglio, Milano 1977.

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NOTA

INTRODUTTIVA

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storia vissuta del soggetto – questa sì storia naturale, svolta senza sostegno di un paradigma. La pubblicazione di questa discussione tenta di rendere ragione di alcuni tratti con i quali l’opera di Fachinelli può trovare oggi una rilettura feconda, nell’assunzione di una molteplicità di paradigmi e di una pluralità di pratiche e di scritture. Rivendicando frontiere più mobili e agili, flessibili, tra saperi e soggettività, tra scienza e professione, tra riflessione e vita, Fachinelli sembra aver preannunciato l’affermazione di una visione non riduttiva della psicoanalisi, fondata su un complementare rapporto tra dimensione di cura, letteratura, arte, miti e pensiero filosofico.

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Prefazione

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di Goffredo Fofi

A distanza di qualche anno, occorre rileggere le opere di Fachinelli e discuterle alla luce di quanto ci è accaduto. Il “desiderio dissidente” – analizzato e difeso in un testo che fu fondamentale per la mia generazione o almeno per una parte minoritaria di una generazione che fu molto animosa e dinamica – potrebbe essere messo in rapporto con la “politica ridefinita” di un contemporaneo articolo di Carlo Donolo, sempre sui “Quaderni Piacentini”, altrettanto provocatorio e intelligente. Privato e pubblico vi si intrecciavano, e fu su quelle basi che molti di noi intrecciarono le loro sorti… Cose di ieri, ma forse anche di domani, benché certamente, e purtroppo, non cose d’oggi. Ho letto su un recente numero di “Una città” un’intervista con Lisetta Carmi. Chi era costei? Una grande fotografa, di vita libera e di interessi plurimi, di rara acutezza e moralità dello sguardo, in ritiro da anni, che firmò un’impresa editoriale di Elvio Fachinelli precedente a “L’erba voglio”, una sua documentazione fotografica sui trans di Genova, in un’epoca in cui di queste cose non si poteva o doveva parlare (tant’è vero che una personalità d’eccezione e, si pensava, priva di pregiudizi come Cesare Musatti, racconta Lisetta, invitato da Elvio a scrivere una prefazione al libro rifiutò, e se ne disse scandalizzato). E mi viene in mente come potrebbero reagire oggi gli intellettuali italiani “di governo e di opposizione” di fronte a tante convinzioni di Elvio, considerando “di governo” quelli appartenenti all’area del potere, da padroni o da mediatori (una volta si sarebbe detto da servi), con funzioni non meno importanti dei politici, in un’epoca in cui i media (editoria compresa) contano quasi quanto la politica, e sono in ogni caso non meno importanti, considerando quanto conta la “stampa e propaganda” nella gestione del potere, quanto conta la “manipolazione del consenso” (e dell’inconscio), quanto contano le “sovrastrutture” ideologiche. Come Fachinelli capì prima e meglio di tanti. L’inattualità di Fachinelli è ciò che lo rende attualissimo; e che pochi lo leggano, non è un caso. Pochi, nonostante le occasionali scadenze celebrative, conoscono oggi il pensiero di Morante e Ortese, Pasolini e Calvino, Fortini e Castoriadis? Il mondo è certamente cambiato, e anzi dagli anni

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PREFAZIONE

’80 la mutazione ha travolto tutti, l’era del post-moderno si è decisamente imposta su tutto, e coloro che vi comandano hanno tutto l’interesse a rendere il passato qualcosa di monocorde e di nero, in cui si consiglia o si impone di non scavare. Qualcosa da demonizzare per giustificare lo stato presente delle cose. Il pensiero di molti di quegli anni si è rivelato decisamente caduco, soprattutto quello più ideologico. Ma il pensiero di altri, provando a frequentarlo di nuovo, riserva non poche sorprese per la sua capacità di vedere in quel presente i semi di un futuro in cui, nonostante si siano affermate in esso le tendenze più negative, almeno in parte lucidamente previste da alcuni, e ne siano esplose di nuove, hanno più senso che mai le indicazioni di una possibile liberazione, l’irrequieto e mai del tutto addomesticabile serpeggiare del “desiderio dissidente”. All’apprezzamento che ho espresso su Fachinelli in una mia raccolta di scritti e di ritratti, Le nozze coi fichi secchi (1999, aperto da due versi di Auden che hanno qualcosa a che vedere con la nostra storia, e la storia degli intellettuali migliori di quegli anni, e di prima, e di dopo: “…in viaggio e tormentati, / dialettici e bizzarri…”), non mi sembra di avere altro da aggiungere. O meglio, ci sarebbero da aggiungere mille altre cose, ma ripercorrendo gli scritti di Elvio; e per questo bisognerebbe essere meno “in viaggio e tormentati”…

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Prima sezione

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L’uomo, l’opera, i testi

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“Wo Es war soll Ich werden” nel pensiero di Elvio Fachinelli

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di Anna Ferruta

Elvio Fachinelli (1989), in La mente estatica, sua ultima opera, parlando di stati della mente che comunicano in diretta, senza la percezione delle barriere che separano io e altro, osserva che le città della civiltà minoica erano senza fortificazioni, aperte verso il mare, al contrario di quelle che poi costruirono gli invasori Achei che non trovarono ostacoli ad approdare alle rive di Creta. Fachinelli scrive: «Un’analisi basata sistematicamente sullo smantellamento delle difese incontra ad ogni passo quel pericolo che le ha fatte erigere. Da ciò un rinnovato impulso a difendersene. Come un demolire e costruire di nuovo, continuamente dighe, barriere. (…) E neppure si tratta di saltare oltre le barriere, di sorpresa, o astutamente. (…) Rendere conscio può significare allora soltanto delineare, prima e dopo, il posto occupato dal sistema vigilanza-difesa. Non pretendere di fare passare attraverso di esso ciò che non gli appartiene.» (pp. 20-21) Intendo ripercorrere le principali opere psicoanalitiche di Elvio Fachinelli, per comprendere come e in che termini egli è andato elaborando e trasformando la famosa asserzione freudiana “Wo Es war soll Ich werden”, che a lungo è stata indicata come la formula esplicativa del lavoro analitico. Arrivato a La mente estatica, Fachinelli sembra individuare come compito dell’analista non il lavoro di “rendere conscio” ciò che è inconscio e sottoporlo al governo dell’Io, ma un altro lavoro, teso ad ampliare i territori del soggetto, aperto verso ciò che viene da un’altra parte, apertura che può incorrere in rischi di annientamento e in arroccamenti difensivi. Si tratta di uno sviluppo della psicoanalisi che in questi ultimi venti anni è andato molto avanti, se pensiamo all’elaborazione del pensiero di Bion e degli apparati per pensare esperienze inconsce non simbolizzate da parte di autori come Ogden, Ferro, Grotstein, e all’elaborazione del pensiero di Winnicott da parte di Bollas, orientati ad ampliare i territori del soggetto. Ma andiamo per ordine.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

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1. Come è stata intesa la formulazione freudiana “Wo Es war soll Ich werden” Antonio Alberto Semi (2000) osserva che su questa frase è necessario fare un’approfondita riflessione: «Wo Es war soll Ich werden. Con questa semplice frase, difficilmente traducibile in italiano, che gioca sulla possibilità di leggere la seconda parte in prima persona singolare o in terza («Dov’era, devo diventare» oppure «Dov’era Es, deve diventare Io» o addirittura «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io»), in altri termini che pone il problema non dell’oggettivazione dell’Io ma della soggettivizzazione dell’apparato psichico e, più radicalmente, dell’individuo, Freud conclude la 31a lezione di “Introduzione alla psicoanalisi” (1932). Su questa frase, nella storia del movimento psicoanalitico, ci siamo soffermati un pò tutti, noi psicoanalisti, proprio per quella mancanza dell’articolo (soll Ich werden, non soll das Ich werden) che indica la volontà di Freud di non oggettivizzare Es o Io, anzi che indica la precisa intenzione di far dire “Io”, senza alcun articolo che lo determini.» (p. 111.) Nel numero della «Rivista di Psicoanalisi» che celebra i 150 anni di Freud (2006, 3, 611-613), una interessante rassegna descrive il senso assai diverso che la formulazione freudiana assume nelle differenti traduzioni. Ne citerò solo alcune, facendo riferimento ai testi ivi citati, per evidenziare la complessità del problema, che è meno di traduzione e più di elaborazione del pensiero psicoanalitico. La traduzione italiana delle Opere Boringhieri intende l’asserzione freudiana in senso strutturale, come dominio dell’istanza egoica sulle altre istanze: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io.» (tr. it. M. Tonin Dognana e E. Sagittario, OSF, 11, 1979). Invece quella precedente di Edoardo Weiss suona in senso più dinamico e trasformativo: «Dove c’era Es deve diventare Io» (tr. it. E. Weiss, Napoli: Casa Ed. V. Idelson, 1922). La traduzione inglese della Standard Edition appare più strutturale: «Where id was, there ego will be» (SE, XXII, p. 80). Mentre quella dello statunitense Hans Loewald appare più dinamica: «Where id was, there ego shall become» (H.W. Loewald, Psychoanalytic Study of the Child, 1970, p. 25). In Francia, la traduzione di Freud è rimasta a lungo un problema aperto e su questa frase molti si sono cimentati, con esiti multipli: indefiniti sono i confini nella traduzione PUF (1995): «Là où était du ça, du moi doit advenir». Aperta all’impersonale è quella di J. Lacan (1966): «Là où fut ça, il me faut advenir». Dinamica quella di Laplanche (1994): «Là où il y avait du ça, doit venir du moi» (J. Laplanche, Paris, PUF).

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“WO ES

WAR SOLL ICH WERDEN” NEL PENSIERO DI

ELVIO FACHINELLI

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L’analisi delle diverse traduzioni della formula freudiana, riportate dalla «Rivista di Psicoanalisi», apre la riflessione sull’ampliamento della concezione del funzionamento mentale introdotta dalla seconda topica freudiana (Es, Io, Super-io), che propone il concetto di un Io che affonda le sue radici nell’Es, un Io non più affidabile come struttura di governo della personalità, ma sottoposto a tutte le oscillazioni e tempeste che nessun apparato difensivo può tenere a bada. Si pone la concezione di un soggetto che emerge dal lavoro analitico dotato di competenze atte a entrare in contatto, nominare, rappresentare, territori inesplorati, oscuri, non simbolizzati, che inevitabilmente destabilizzano organizzazioni egoiche continuamente in fieri e in cambiamento. In questa direzione si svilupperano le trasformazioni bioniane, i problemi posti dai pazienti che non sono capaci di sognare di Ogden, le emozioni da evitare o da incontrare di Ferro, il raggio illuminante di oscurità di Grotstein, il conosciuto non pensato di Bollas.

2. Fachinelli: dalla freccia ferma alla contemplazione estatica È interessante approfondire l’anticipazione di questi sviluppi contenuta nel pensiero di Fachinelli, che dedica i suoi libri di psicoanalisi più interessanti ai meccanismi di difesa e al modo di trattarli in analisi: La freccia ferma (1979) sui meccanismi ossessivi e Claustrofilia (1983) sui meccanismi di isolamento, per arrivare a La mente estatica (1989) nel quale analizza le situazioni emozionali che provocano la caduta delle difese e lasciano fluire la relazione senza ostacoli. La vita e il pensiero di Fachinelli sono stati rivolti a liberare il desiderio asintotico inconscio e a farlo emergere alla superficie della vita quotidiana, là dove cambia di accento e si declina in forme socialmente condivise ma porta la traccia delle forze originarie che lo hanno mosso. Ne sono ampia testimonianza le diverse iniziative tese a raggiungere le radici inconsce del desiderio infantile (la rivista «L’erba voglio», l’asilo autogestito di Porta Ticinese di cui parla nello scritto “Masse a tre anni”, compreso nel libro Il bambino dalle uova d’oro, 1974), e le esperienze relative alle dinamiche tra individuo e gruppo a cui attinge per irrigare i terreni inariditi della vita quotidiana (il controcorso all’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, il lavoro “Gruppo chiuso o gruppo aperto”?, compreso nello stesso volume del 1974). Nella pratica analitica Fachinelli si incontra e si scontra con la difficoltà a procedere nel lavoro di liberazione delle forze inconsce, nella direzione dall’Ich all’Es: la freccia resta ferma, il claustrum chiuso, l’analisi interminabile.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

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La sua riflessione sulla interpretazione delle difese approda a riconoscere la sconfitta, a ritrovarsi di fronte alla coazione a ripetere o alla ricostituzione di nuove difese. Proviamo a seguire il suo percorso. In «Il paradosso della ripetizione» (1974), Fachinelli osserva che un’attenzione eccessivamente concentrata sull’apparato di dominio volto al controllo delle masse, caratteristica degli anni intorno ai movimenti del 1968, ha messo in secondo piano l’analisi della tendenza alla passività e alla soggezione presente negli individui. La sua attenzione si focalizza sulla relazione tra il bambino piccolo e il caregiver: il passaggio del bambino, da essere biologico a essere inserito nell’universo biologico proprio dell’uomo, avviene sulla base di una inter-relazione tra il bambino e l’altro, rappresentante dell’ordine simbolico, vicenda individuale e generale, che contribuisce a dare forma definita e spesso definitiva al rapporto dell’individuo con il desiderio e con la morte. Questa tendenza si riscontra nel lavoro analitico come coazione a ripetere, all’immobilità, «alla riproduzione tale e quale nel transfert, la stessa urgenza cieca; il transfert rischia di ridursi a totale Agieren, pura opposizione al riconoscimento e al ricordo. Di qui la tentazione di attribuire all’analista un ruolo illuministico, una posizione di intelletto che lotta contro i sensi» (p. 223). Fachinelli studia questa area della formazione della psiche e questo fenomeno di ripetizione e immobilità: il soggetto, una volta operanti in lui certe regole di costruzione acquisite nelle prime relazioni con l’ambiente-madre, tende a ritagliare l’esperienza della realtà in base al suo specifico funzionamento. L’episodio traumatico è il risultato dell’incontro tra una particolare realtà e quella particolare individualità: è determinato e non determinante, è traumatico in quanto difforme da quelle prime esperienze relazionali. Poi in La freccia ferma (1979) riprende lo studio dei fenomeni di blocco nell’analisi e di ripetizione: si assiste all’annullamento del tempo lineare dello sviluppo e all’affermazione del tempo ciclico che ritorna su se stesso e tenta di annullare quanto avvenuto. Per illustrare questo fenomeno propone il caso di un paziente ossessivo (“L’appuntamento difficile”, pp. 9-10): il paziente chiede all’avvocato a cui deve portare i documenti di spostargli di un’ora l’appuntamento, dalle 18.30 alle 19.30, perché deve andare dallo psicoanalista. A questo punto viene colto da una paralizzante incertezza sulla natura di un’azione (spostare un giornale supplemento della domenica, giorno del Signore, sotto al quale stavano i documenti da portare), considerata peccato mortale, il che gli impedisce di prendere i documenti necessari. Alla fine riesce ad emergere dall’incertezza e compie l’azione peccaminosa spostando

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“WO ES

WAR SOLL ICH WERDEN” NEL PENSIERO DI

ELVIO FACHINELLI

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il giornale e prendendo i documenti, ma solo perché si determina poi a rifare al contrario tutti i gesti compiuti: «A quel punto l’azione peccaminosa sarà stata ‘annullata’» (p. 10). Fachinelli, analizzando il caso, individua la radice del postulato ossessivo: «Questo postulato è costituto dalla persistenza, a partire dal primo anno di vita, di una relazione di parziale appartenenza tra il soggetto che diventerà ossessivo e chi si prende cura di lui. (…) Ogni qual volta tenta di distaccarsi, avverte il suo tentativo come un attacco distruttivo al rapporto con l’adulto che, in base alla sua debolezza, gli appare come l’unica garanzia di sopravvivenza. (…) Il bambino è rimasto fissato al rapporto di appartenenza, vale a dire al rapporto di sicurezza passiva, di delega ad altri delle proprie responsabilità» (pp. 83-85). Il rituale ossessivo appare come una difesa dall’angoscia di separazione. Con Claustrofilia (1983) Fachinelli va oltre, e sonda un’area non ancora individuata del funzionamento psichico, facendo precedere il suo lavoro da un’Avvertenza, in cui cita Locke e il Saggio sull’intelletto umano, relativa all’interesse clinico e non speculativo della sua ricerca. Queste osservazioni si ricollegano a un recente lavoro di Stefania Turillazzi Manfredi (2008) sugli scopi non metapsicologici ma clinici dell’analisi, che sono il terreno da cui possono emergere ipotesi sul funzionamento della mente, di cui darò illustrazione più avanti. Riprende l’osservazione di Locke sull’uso dello scandaglio in mare: per evitare le secche nel suo viaggio, è di enorme utilità per il marinaio conoscere la lunghezza della fune con cui raggiunge il fondo, ma lo scopo per cui lancia la fune-sonda non è scandagliare tutte le profondità dell’oceano: «Il nostro compito non è quello di conoscere tutte le cose, ma solo quelle che concernono la nostra condotta» (p. 12). Rilegge il Freud di Analisi terminabile e interminabile (1937), e osserva che «l’Io alterato sembra ripetere senza possibilità di modificazioni procedimenti difensivi appresi nell’infanzia» (p. 34). Prende allora in esame il caso di una paziente, “La ragazza della casafortezza” (p. 55), che per difendersi dall’angoscia persecutoria si ritira in casa, e sogna di trovarsi in una casa-fortezza dove chiede alla sorella di andare a prenderle dell’acqua. La casa ha due aperture, una da cui si precipita e un’altra da cui si scende in un giardino: «L’ansia persecutoria da cui Ada veniva invasa al momento di uscire di casa mi apparve un evento che aveva la sua più profonda radice nell’uscita dal corpo della madre, un’esperienza neonatale a cui Ada sfuggiva ritirandosi nella sua casa-fortezza. (…) Era come se non fosse mai stata tagliata la corda che univa Ada a sua madre; nei momenti in cui si annunciava un distacco, uno strattone bastava a farla tornare dentro» (p. 62).

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Fachinelli raccoglie anche una serie di sogni perinatali, e li interpreta come rappresentazioni di una vita psichica emergente dal chiuso di un contenitore, e infine giunge a formulare l’ipotesi dell’esistenza di un’area claustrofilica: «Un’area caratterizzata, a livello inconscio, da indistinzioni nel rapporto madre-figlio e dal collegamento con quell’immagine di terrore e di fascinazione chiamata “scena primaria”. In quest’area, le differenze proprie della vita adulta, tra madre e bambino, tra gravidanza e vita intrauterina, tra nascita e parto, si sciolgono in un continuum bivalente, indicato nel modo più chiaro dall’elemento acqua» (pp. 93-94). Coglie anche in altri casi clinici la ricerca di aree di comunanza con l’analista: ad esempio nel caso del paziente Andrea, che avverte il profumo di mandarino mangiato appena prima dall’analista come un segno di abitudini comuni (p. 118), oppure in fenomeni di coidentità o di percezione extrasensoriale: «In esso si trovano, oltre ai sogni e alle fantasie di nascita-parto, gravidanza-soggiorno intrauterino e scena primaria, fenomeni particolari che si connettono a: 1) situazioni di predominanza percettiva; 2) rapporti di co-identità; 3) coincidenze inquadrate di solito nella cosiddetta percezione extrasensoriale» (p. 142). Nell’analisi si forma un’unità duale simile a quella del bambino nel grembo della madre e il futuro diventa una minaccia di separazione: «Solo un’analisi che tenga conto esplicito e operi direttamente nell’area di relazioni qui chiamata claustrofilica può sperare di superare internamente quella situazione di impasse che molti oggi avvertono in psicoanalisi» (p. 196). Con La mente estatica (1989) Fachinelli va oltre, dichiara di volere analizzare «uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un Io personale, ben individualizzato. (…) [Si chiede] se la temuta abolizione dell’Io nelle esperienze estatiche non significhi in realtà contribuire a salvare questo stesso io dal rischio impellente di essere assorbito nella Ragione tecnica, scientifica, burocratica» (pp. 11-12). Siamo così arrivati al punto che ci riporta alla rilettura della frase di Freud: Wo Es war, soll Ich werden. Per fare muovere la freccia, in che direzione andare? In questo libro Fachinelli analizza diverse dimensioni dell’esperienza estatica. Si rifà alla condizione delle regge di Crosso e Festo «potenze aperte sull’orizzonte marino» (p. 23), senza difese, come raffigurazione dell’atteggiamento mentale di chi è disposto a Accogliere chi? Un ospite-interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco

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e alla fine forse più efficace della prudenza di chi edifica muraglie. (…) Il concetto di difesa definiva all’inizio le difficoltà e le impasses di un comportamento alterato; rapidamente è diventato normativo, capace di stabilire leggi e criteri, anche per il comportamento non alterato. (...) [Accogliere] le cose che vengono da un’altra parte: come un accento imprevisto che muta, che sposta l’intera figura. Da questo punto di vista, limiti ben evidenti della psicoanalisi. E limiti ben evidenti dell’antropologia fondata su di essa (pp. 23-24).

Fachinelli propone in analisi un funzionamento mentale dell’analista aperto al non ancora conosciuto, che destabilizza anche il suo assetto mentale, e che apre orizzonti nuovi di pensabilità e di riorganizzazione delle strutture psichiche del soggetto. Non può non venire in mente, leggendo queste parole, l’inizio del lavoro di Winnicott “La sede dell’esperienza culturale” (1967, 165), l’area del gioco e del pensiero creativo che non si chiude per difendersi da, ma crea mondi e crea il soggetto, come canta l’esergo di Tagore: «Sulla spiaggia di mondi senza fine, /i bambini giocano (…) il mare e la spiaggia rappresentano infiniti rapporti tra uomo e donna, e il bambino emerge da questa unione ed ha un breve momento prima di diventare a sua volta adulto e genitore. Poi, come studioso del simbolismo inconscio, seppi (uno sa sempre) che il mare è la madre e sulla riva del mare il bambino nasce» (pp. 165-166).

3. Vent’anni dopo Vent’anni sono passati e la ricerca psicoanalitica è andata avanti nella direzione descritta da Fachinelli come «la fase precoce dello sviluppo individuale (...) il continuum madre bambino che ha il suo prototipo nello stato di gravidanza» (1989, p. 106); i «fenomeni che ho chiamato di risonanza, presenti già nel neonato e che sembrano costituire un momento ben distinto, diverso dall’empatia vera e propria. È suggestivo collegarli, per vari motivi che sono emersi via via nell’esposizione precedente, con i fenomeni di coincidenza notati in alcuni momenti dell’analisi» (p. 124). Fachinelli si ferma alla soglia di quest’area, descritta con straordinaria intelligenza euristica sulla base dell’esperienza clinica, delle comunicazioni dirette non verbali tra inconsci, sperimentate nelle fasi precoci di sviluppo e ripetute in analisi e in situazioni particolari di co-identità e comunicazione telepatica. Sul finire de La mente estatica, si mostra esposto alla fascinazione del verbo lacaniano e alla sua lettura della formula freudiana che sposta l’accento sulla funzione del significante: «In Freud desiderio e superio sono collegati: è a partire dall’energia dell’Es che si costruisce l’istanza di control-

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lo. (…) Là où c’était, dois-je advenir. Partendo quindi dall’accenno freudiano, Lacan costruisce un’istanza regolativa del desiderio che nasce dalla radicale divisione originaria del soggetto ad opera del significante» (p. 189). Fachinelli individua la funzione dinamica delle difese incontrate nella pratica analitica: «Il cerimoniale ossessivo e la costruzione religiosa come modi per circoscrivere e salvaguardare il “roveto ardente” della gioia eccessiva» (p. 195). La psicoanalisi di questi vent’anni è andata nella direzione che mette al centro del trattamento gli scopi clinici della psicoanalisi, piuttosto che l’attenzione all’architettura strutturale dei rapporti tra istanze e difese. Tale direzione è stata preannunciata da uno psicoanalista che si è occupato della relazione precoce madre-bambino e di come la mente emerge dal corpo e dalla relazione con la madre: Eugenio Gaddini (1984) nel suo lavoro “Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni”. Stefania Turillazzi Manfredi (2008), nel lavoro presentato al XIV Congresso della SPI di Roma su “Identità e cambiamento. Lo spazio del soggetto”, sintetizza il problema del cambiamento da ricercare in analisi, relativo non più ad aspetti strutturali, ma a riorganizzazioni continue di assetti relazionali introiettati nel rapporto con l’analista come rappresentante dell’altro: L’idea del cambiamento strutturale mi sembra un’idea “sopravvissuta” per quanto utile possa essere stata in passato. (…) Le strutture sono gruppi di funzioni che sono persistenti, ripetitive, relativamente automatiche ed hanno un basso tasso di cambiamento. Le macrostrutture (Es, Io e Superio) sono quindi concetti metapsicologici, mentre le microstrutture (parti componenti come le difese) sono considerate implicitamente in una prospettiva clinica. (…) Penso che l’esperienza clinica ci insegna che perfino modesti cambiamenti in un’area possono portare a cambiamenti in altre aree e che quadri di sofferenza che durano da molto tempo possono essere modificati. Sarebbe interessante poter capire i motivi del passaggio da ciò che può essere descritto sotto la voce “scopi clinici” a ciò che può essere descritto sotto la voce “scopi metapsicologici” dell’analisi. Certamente tutto questo ha avuto a che vedere con la preoccupazione di stabilire una demarcazione tra la psicoanalisi e le psicoterapie. (…) Credo che non si introiettino oggetti ma interazioni. Detto in altro modo, se l’analista ha un buon rapporto con alcuni aspetti del paziente, il paziente introietta questo suo buon rapporto: questa è la riparazione.

Stefania Turillazzi Manfredi abbandona l’attenzione alla prevalenza strutturale dell’Io per un’analisi che interiorizzi convivenze tra oggetti e soggetti diversi.

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Lo sviluppo del pensiero bioniano è andato nella direzione di concepire la psicoanalisi come una sonda che amplia l’area che esplora e nell’usare la mente dello psicoanalista per rendere pensabili e alfabetizzabili esperienze emotive in attesa di un interprete. Osserva Ferro (2008): Grotstein in modo forte nel libro che citavo (A Beam of Intense Darkness) conviene con altri autori che con Bion si apre una terza era della psicoanalisi, dopo Freud e dopo Klein, dopo una psicoanalisi più orientata alle pulsioni, agli istinti, si apre una psicoanalisi delle emozioni, intese come aspetti invarianti di tutte le trasformazioni. A convergere verso la funzione alfa sono sia gli elementi β1 (un-repressed unconscious), sia i β2 (the sense impressions of emotional significance). I β2 sarebbero trasformati nel ciclo verso elementi alfa, i β1 nel ciclo da preconcezioni a realizzazioni. Con Bion abbiamo una psicoanalisi che guarda alla possibilità di espandere continuamente l’emotivo per avvicinarci il più possibile all’inconscio, meglio ad ‘O’ (p. 23).

Ci troviamo qui sulla soglia di quella che Fachinelli chiamava la mente estatica. Lo sviluppo del pensiero sull’empatia psicoanalitica e sulla risonanza, ha visto in Stefano Bolognini (2002) un acuto esploratore dei fenomeni di rispecchiamento, visualizzati poi da Rizzolatti e Sinigaglia (2006) e Gallese (2007). Bolognini propone una definizione dell’empatia psicoanalitica, interessante perché congiunge esperienze di indistinzione tra soggetto e oggetto e difese: «La vera empatia è una condizione di contatto conscio e preconscio caratterizzato da separatezza, complessità e articolazione; esso comporta uno spettro percettivo ampio in cui sono comprese tutte le tonalità di colore emotivo, dalle più chiare alle più scure; e soprattutto un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarietà oggettuale, con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, non meno che con la sua soggettività egosintonica» (p. 134). Autori di modelli molto diversi sono andati nella stessa direzione, quella di favorire nella relazione analista-paziente lo svilupparsi della comunicazione dinamica tra inconsci, oltre le difese e l’interpretazione delle difese. André Green (2000, 3, 429-451) nel suo magistrale lavoro The central phobic position presenta un caso clinico, nel quale un paziente blocca il dispiegarsi delle associazioni libere e tiene l’analisi in stallo, come il paziente della freccia ferma, per evitare di incontrare nella relazione analitica un’area che lo angoscia. Il movimento delle libere associazioni si arena in silenzi e intellettualizzazioni. Green osserva che qui il Superio non svolge il ruolo che Freud gli attribuisce, di punire le trasgressioni: «Questo paziente appartiene a quel gruppo di coloro che non hanno mai accettato la separazione dalla

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madre, una situazione che la follia vorrebbe perpetuare. È possibile parlare di un diniego della realtà psichica al punto che questi pazienti possono concepire il loro mondo interno come formato solo dalle reazioni e azioni degli altri verso di loro» (p. 448). L’immagine dell’albero come ramificazione associativa verso la formazione di nuove inclusioni simboliche collega Green singolarmente a un’analoga concettualizzazione di Bollas (1999): «Se il significato è senza dubbio una ramificazione, lo è nel senso che uno può andare da un ramo dell’albero a un altro attraverso una strada ricorsiva, poi tornare alla successiva ramificazione del ramo da cui uno è partito» (pp. 444-445). Siamo nella direzione di concepire il lavoro analitico come un’espansione della capacità e dei contenuti di pensabilità, un’apertura verso ciò che viene da un’altra parte. Bollas con il suo concetto della disseminazione mostra in atto questo processo di espansione del sé attraverso l’avventurarsi in aree inconsce del conosciuto non pensato. In Cracking up (1995) descrive il processo attraverso il quale si va incontro alla proliferazione dei pensieri e delle emozioni (i rami, le fronde i fiori e i frutti di un albero) e il processo attraverso il quale si ricompongono unità provvisorie ma consistenti. Ripensa al modello topografico freudiano, per il quale l’ideale sarebbe che l’idea spostata si avvicinasse alla sua fonte latente originale. Osserva invece il movimento che ogni logica di spostamento mette in atto, dando luogo a concetti e interessi nuovi: «La decostruzione di un desiderio fa parte del processo di pensiero. L’inconscio scompone e divide il proprio desiderio. (…) La libertà mentale (la necessità di associare liberamente e di disseminare i propri desideri e i propri bisogni in una catena di idee prive di un punto finale, ma dotate di intelligenza estetica) è una forma di desiderio che avvalora e nello stesso tempo rinnega i desideri specifici guidati dalla vita istintuale» (p. 46). Da questo punto di vista Bollas (1999) pensa all’analisi come a un processo di continua decostruzione e costruzione, ma si chiede anche «quanto può andare lontana la coscienza nel suo tentativo di comprendere l’inconscio? Non molto, soprattutto quando sia l’analista che il paziente vedono la comprensione, distrutta da nuovo materiale, che risospinge l’uno verso la disconnessione delle libere associazioni e l’altro verso l’attenzione fluttuante» (p. 36). Si può sentire qui l’eco delle parole di Fachinelli sul sistema resistenze e difese da non demolire o aggirare, ma semplicemente da delineare.

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4. Delineare il posto occupato dal sistema vigilanza-difesa per esplorare il Far-West Ma allora il problema che si pone è quello di riconoscere la necessità e utilità delle difese come presidio dei confini tra diversi stati della mente e tra soggetto e oggetto. Non smantellare le difese, ma riorganizzare continuamente gli assetti acquisiti tramite l’incontro con la mente di un altro che permette nuove esplorazioni di territori del proprio inconscio, un’espansione della vita psichica: accogliere l’altro. E riorganizzare continuamente e dinamicamente gli assetti difensivi costruiti che vengono poi dinamicamente distrutti. Il problema è quello della dinamizzazione dei funzionamenti psichici e della valorizzazione di assetti difensivi forti, ma resi provvisori dalla capacità di associare liberamente nell’incontro con l’altro, accogliendo «le cose che vengono da un’altra parte». La rigidità delle organizzazioni mentali, difensive e non, è la malattia: per illustrare questo concetto, e per concludere, ricorro al sogno di un mio giovane paziente, un collega, che ha appena iniziato l’analisi, e che mi permette di confermare ancora una volta che noi analisti impariamo dai nostri pazienti da cui apprendiamo continuamente aspetti del funzionamento inconscio. Un giovane uomo in analisi sogna di trovarsi in un grande letto a fare giochi erotici con una sua bella collega senior vestita da prostituta di un saloon western; insieme a lui ci sono un altro giovane collega e due ragazze. A un certo punto il letto si mette a scivolare su due binari lungo una china e si schianta. Questo sogno mi appare come la rappresentazione di una scena interna in cui nel saloon-analisi si incontrano desideri liberi e incongruenti. È raffigurata una scena di incontro multiplo aperto a diversi significati e sviluppi, presenti in un ampio territorio sconosciuto ancora da esplorare, come il Far West per i pionieri (siamo all’inizio dell’analisi). Invece di sostare nello scenario del saloon con le mezze porte aperte e oscillanti in cui tutti possono entrare e giocare, a un certo punto il sogno cambia ambiente mentale e prende la direzione obbligata di rigidi binari da seguire, con esito catastrofico (sono i binari già tracciati della attesa-temuta interpretazione di transfert erotico verso l’analista-prostituta). Il sogno fallisce nel suo intento di esplorare zone oscure e sconosciute dell’inconscio-Far West. Si incanala invece nei binari della teoria psicoanalitica già nota, con l’edipico scontro tra i rappresentanti dell’esercito federale posti a protezione della ferrovia in costruzione e gli indiani a cavallo...dei sogni. Si può procedere sviluppando ulteriormente il pensiero di Fachinelli,

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che invita a non abbattere difese che continuamente, come è naturale, si ricostruiscono, ma ad aprirsi per accogliere un ospite interno prima di esaminarlo-respingerlo.

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Bibliografia Bion W.R., 1965, Transformations, London, Heinemann; [tr. it. Trasformazioni, Roma: Armando, 1973]. Bollas C., 1995, Cracking up, London, Routledge; [tr. it. Cracking up. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996]. Bollas C., 1999, The Mystery of Things, London, Routledge; [Il mistero delle cose. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001]. Bolognini S., 2002, L’empatia psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri. Fachinelli E., 1974, “Il paradosso della ripetizione”, in: Il bambino dalle uova d’oro. Milano, Feltrinelli. Fachinelli E., 1979, La freccia ferma, Milano, Edizioni L’erba voglio. Fachinelli E., 1983, Claustrofilia. Milano, Adelphi. Fachinelli E., 1989, La mente estatica, Milano, Adelphi. Ferro A., 2007, Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Milano, Raffaello Cortina Editore. Ferro A., 2008, “Transfert e trasformazioni in sogno”, in: Ferruta A. (a cura di), I transfert, Roma, Borla. Freud S., 1932, Introduzione alla psicoanalisi (Nuove lezioni introduttive), OSF, 11. Freud S., 1937, Analisi terminabile e interminabile, OSF 11. Gaddini E., 1984, “Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni”, in Scritti (1953-1985), Milano, Raffaello Cortina Editore 1989 Gallese V., 2007, “Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività”, «Rivista di Psicoanalisi», 1, 197-208. Green A., 2000, “The central phobic position: a new formulation”, «International Journal of Psychoanalysis », 81, 3, 429-452. Grotstein J., 2007, A beam of intense darkness, London, Karnac. Ogden T. H., 2005, This Art of Psychoanalysis: Dreaming Undreamt Dreams and Interrupted Cries, London and New York: Routledge [L’arte della psicoanalisi. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008]. Rivista di Psicoanalisi, 2006, “Nota Editoriale: Centocinquant’anni di Freud: Wo Es War, Soll Ich Werden”, «Rivista di Psicoanalisi», 3, 611-613. Rizzolatti G., Sinigaglia C., 2006, So quel che fai, Milano, Raffaello Cortina Editore.

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Semi A.A., 2000, “L’Io e il soggetto indefinito”, in: AA.VV. L’inconscio: prospettive attuali, Milano, Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi, 4, 111-121. Turillazzi Manfredi S., 2008, Cambiare rimanendo se stessi, Relazione tenuta a Roma: XIV Congresso della Società Psicoanalitica Italiana “Identità e cambiamento – Lo spazio del soggetto”. Winnicott D.W., 1967, “La sede dell’esperienza culturale”, in 1971, Playing and Reality, London, Tavistock [tr. it. Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974].

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Elvio Fachinelli tra psicoanalisi, filosofia e politica

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di Francesco Conrotto

Non è possibile parlare di Elvio Fachinelli senza collocare la sua figura nel tempo storico nel quale ha vissuto e, quindi, in quel particolare contesto culturale, filosofico e politico del quale, egli stesso, è stato sia espressione che protagonista. Infatti, Fachinelli, da un lato, è stato uno psicoanalista che ha condiviso l’essenziale del discorso teorico di Freud e dei più significativi esponenti della psicoanalisi post-freudiana, dall’altro, è stato molto vicino al Marxismo e, negli anni ’60-’70 dello scorso secolo, ha condiviso le posizioni del movimento della contestazione giovanile e la critica radicale delle istituzioni sociali, dette, “borghesi”. Questa appartenenza plurale impone di inquadrare il suo pensiero e la sua opera in questo speciale contesto. Non ci sarebbe possibile, altrimenti, intendere il senso del suo progetto, sintetizzato nella formula: ricercare “una via democratica all’inconscio”. Questa formula, oggi, lascerebbe interdetti non pochi psicoanalisti. Infatti, senza il riferimento alla lotta politica, intesa come ideologia della “liberazione”, essa non sarebbe comprensibile in quanto pone non pochi problemi rispetto all’impianto teorico-clinico della psicoanalisi che, soprattutto con la formulazione da parte di Freud della teoria della pulsione di morte e con la seconda topica, afferma la sostanziale e ineliminabile dipendenza dell’uomo dal funzionamento pulsionale e dai suoi aspetti indomabili (Freud 1920, 1922). Infatti, se è vero che, come dice Benvenuto, Fachinelli realizzò abbastanza presto che la “Speranza Comunista” non aveva futuro”, (Fachinelli 1998, p. 47) pure, allo stesso tempo, condivise la prospettiva di un Marxismo antiautoritario, in parte legato alle posizioni della Scuola di Francoforte che si proponeva di legare insieme, in un’ottica antiautoritaria, la critica Marxista e la sovversione concettuale operata da Freud. Questo lo indusse a sentirsi molto vicino ai movimenti della contestazione giovanile ed ad impegnarsi in prima persona, sia a livello educativo – si pensi all’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese – che nella critica all’istituzione psicoanalitica di cui pure faceva parte e che mai volle lasciare. A questo riguardo va ricordata l’organizzazione, insieme a Berthold Rothschild, del

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Contro-Congresso a Roma nel 1969. Certamente, questa doppia o plurima referenza lo induceva ad indulgere a certe visioni della psicoanalisi in contrasto con i principi fondamentali di questa disciplina, come, ad esempio, gli faceva immaginare una “psicoanalisi aperta alla storia” (Fachinelli 1998, p. 14), cosa che è un evidente controsenso rispetto all’impianto stesso della disciplina di cui egli era un fine conoscitore e della quale è rimasto un convinto sostenitore, come possiamo verificare ricordando che ha scritto che la psicoanalisi è “una disciplina che a differenza del Marxismo e dello Strutturalismo si è costruita in connessione con la biologia e la storia ma non si riduce ad esse” (Fachinelli 1994, p. 215) ma, viceversa, crea un’antropologia fondata sul mondo interno di cui c’è bisogno per chiarire il problema sociale e non viceversa come credono coloro che ritengono che il problema sociale può chiarire il funzionamento del mondo interno. Ma curiosamente, a volte, egli stesso è sembrato indulgere proprio a questa visione delle cose e a pensare in questi termini. Non possiamo certo dimenticare che Fachinelli ha valorizzato quello che gli sembrava essere l’essenziale del messaggio di Freud e cioè che questo consisterebbe nel “penetrare gli aspetti irrazionali della vita e di trasformarli in categorie assimilabili del pensiero”. In questa stessa prospettiva non si può non apprezzare il suo riconoscimento della psicoanalisi come “sapere inquietante” e “sapere dell’inquietante”, così come la distinzione, assai ben colta, tra bisogno e desiderio e l’ammissione dell’impossibile soddisfacimento di quest’ultimo per cui esso rimane necessariamente “desiderio dissidente”. Questa formula deriva da quella lacaniana che recita che il desiderio è “desiderio di niente” ma possiamo vedere che nella versione fachinelliana si determina un evidente shift che deriva dall’ideologia politica alla quale egli era legato. Comunque, poiché il desiderio appartiene alla dimensione del soggetto, la sua conversione nel sociale, a sostegno dei movimenti di contestazione giovanile, tradisce l’impianto teorico iniziale. Infatti, il desiderio per rimanere tale deve restare individuale. Fachinelli ammette che quella di Freud è una scienza dell’individuo e dei nessi che si costituiscono tra essi (Nexologia) e anche le interpretazioni del sociale e della cultura che provengono dalla psicoanalisi partono dall’ammissione dell’esistenza di processi psichici inconsci per cui, nella prospettiva psicoanalitica, l’arte e la filosofia sono interpretabili alla luce della psicoanalisi e non sono “occasioni per liberarsi della psicoanalisi”. Il punto è che l’attaccamento al mito della liberazione dell’uomo ha condizionato il pensiero di Fachinelli che, come dice Amodio, è restato “vittima del mito dell’impegno” (Fachinelli 1998, p. 233) per cui, a proposito dei funzionamenti collettivi, propone l’ideale dell’“accomunamento”, senza accorgersi di quanto questa aspirazione sia in-

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TRA PSICOANALISI, FILOSOFIA E POLITICA

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genua in quanto rimuove la dimensione della rivalità fraterna. Questi aspetti si manifestarono nella sua critica all’istituzione psicoanalitica ove quella che aveva definito “degradazione della dottrina di Freud a strumento interno al sistema” rischia di scivolare in una critica che è figlia di un’ideologia politica. Infatti, non è sostenibile che la formazione psicoanalitica sia assoggettante in quanto, secondo la psicoanalisi, la dimensione del transfert che è il motore della cura è universale e ineliminabile. Ovviamente, questo non esclude che vi siano degli aspetti della formazione psicoanalitica che possono sempre essere riveduti e corretti come ha affermato lo stesso Kernberg che pure è stato presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi. D’altra parte lo stesso Fachinelli ammette che la pratica della “passe” che è quella che, secondo Lacan, avrebbe dovuto sostituire le procedure stabilite per la qualifica di psicoanalista non risolve i problemi ma li peggiora. Il punto è che Fachinelli, come altri intellettuali del suo tempo tra i quali spicca un altro grande pensatore quale è stato Foucault, aveva il terrore del “potere” che, ai suoi occhi, diventava un mostro che si insinua in tutte le istituzioni sociali e culturali distruggendole dall’interno. Io credo che è alla luce di queste contraddizioni che possiamo vedere come, accanto a lucide intuizioni, convivono delle interpretazioni delle varie forme delle organizzazione sociali piuttosto ingenue come la definizione del Fascismo come “negazione del crollo dell’ideale nazionalistico avvenuto dopo la prima guerra mondiale” o l’interpretazione del ’68 come un “innamoramento collettivo”, trascurando quanto esso sia stato anche espressione di odi radicali che sono poi esplosi a livello politico e sociale negli anni ’70 e specialmente nel movimento del ’76-’77. Credo che si possa concludere questa breve riflessione dicendo che, preso tra psicoanalisi, filosofia e politica, egli spesso, tra la dimensione vitalistica e spontaneistica dell’esperienza e l’orientamento rigoroso della teoria ha fatto vincere l’entusiasmo spontaneista.

Bibliografia Fachinelli E. (1994), Il bambino dalle uova d’oro. Milano, Feltrinelli. Fachinelli E. (1998), Intorno al ’68. Un’antologia di testi, Conci M. e Marchioro F. (a cura di), Bolsena, Massari. Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere. O.S.F., 9. Freud S. (1922), L’Io e l’Es. O.S.F., 9.

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Psicoanalisi e pratica politica

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di Goffredo Fofi

Il nome di Elvio Fachinelli non compare spesso nelle enciclopedie o sui nostri media. D’altronde sugli anni che lo videro più attivo si è stesa una patina di menzogna e di falsa coscienza, alimentata da molte specie di “pentiti”. Se è giusto che i terroristi “si pentano” (ma c’è da dubitare spesso della loro sincerità), per aver distrutto vite e avere svilito tutto un movimento e una storia; se è giusto che “si pentano” i leader dei gruppi, tutti più o meno autoritari e “Leninisti” e verticisti, interessati più al potere che alla trasformazione o alla resistenza efficace, a quella che Pasolini chiamava mutazione, spingendosi fino a parlare di “genocidio” di una cultura e di un popolo. Se è giusto che tutti coloro che ebbero parte attiva in quel vasto movimento di confusa rivolta facciano i conti con il proprio passato, è certamente aberrante la quantità di falsificazioni sulla storia degli anni tra il ’68 e i primi anni ’80 alimentata da “ex” che tentano disperati o funzionali riciclaggi per restare “qualcuno”. Essi presentano di solito, di quegli anni, o una visione edulcorata e puberale, dimentica delle contraddizioni, a cominciare dalle proprie, o – specialmente oggi nel grande trionfo della Destra – una visione efferata e fosca, dove sembra che non si debba salvare niente e nessuno e che il ’68 sia all’origine di tutti i mali. Visioni falsate, che non saranno certo gli storici a saper correggere perché anche loro portatori di pregiudizi, se non altro quelli della loro esperienza diretta, se c’erano, o di quelli che emanano gli umori del tempo in cui scrivono, se non c’erano. Come stupirsi dunque, in questo grande scialo di piccole e grandi falsificazioni, del silenzio su alcune esperienze che non erano precisamente nella linea dei vincenti di allora (dentro il movimento), e più in sintonia semmai con l’aurorale ’68 e con il confuso ’67, che non con quanto ci fu in mezzo e poi dopo? Non so molto di psicoanalisi e di psichiatria, quel tanto d’obbligo e quel tanto che ho imparato dalla frequentazione di alcuni psicoanalisti psicologi e psichiatri (meglio: antipsichiatri, secondo le prospettive di quegli anni) tra i quali, appunto, ci fu Fachinelli. Non sono in grado di giudicare l’originalità delle sue posizioni teoriche e professionali dentro il magma delle correnti scientifiche (ed epistemologiche) e delle pratiche terapeutiche cui

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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egli si rifaceva. Sono meglio in grado, però, di giudicare il suo apporto al movimento di quegli anni, al dibattito culturale e di conseguenza politico di tempi in cui scienza, cultura e politica ebbero la fortuna, per un tratto, di incontrarsi e fondersi in una tensione pratica, attiva, di intervento e di cambiamento. In questo senso, anche Fachinelli – d’ora in avanti lo chiamerò Elvio, come è giusto per una persona che si è conosciuta da vicino e di cui si è stati amici – è un uomo di “prima del ’68”, si è formato e presentato dentro quella ricchezza di discussioni e proposte che possiamo genericamente dire, oggi, nouvelles vagues. Mentre il boom produceva quella “mutazione” di cui oggi portiamo tutte le conseguenze e che solo Pasolini (con Volponi e Morante suoi sodali) seppe vedere con tanta immediatezza proprio perché vissuta sulla sua pelle e sul suo “corpo”, c’era però una mutazione più positiva, di cui si era – i giovani artisti e intellettuali del tempo – coscienti e portatori, chi più chi meno, sia pur confusamente, ed era quella che chiamo appunto nouvelles vagues: dell’insorgenza del soggetto, di una nuova soggettività che dalle arti e da certi settori della cultura e della scienza (la psicoanalisi e la psichiatria tra i primi, e pour cause!) doveva trasferirsi nei movimenti giovanili degli anni ’60, prima negli Usa e poi altrove, proprio perché riguardava complessivamente tutta una generazione finalmente liberata dai ricatti della guerra fredda e dello schieramento rigido dentro logiche ideologico-partitiche aridissime e paralizzanti, che rispondevano a logiche di potere e non di verità. Conculcata dagli anni ’50, la soggettività giovanile esplose via via dalla seconda metà degli anni ’50 in espressioni artistiche dentro le quali il singolo sapeva di far parte di un più grande movimento, e volentieri cercava i propri simili e convinceva i propri fratelli trascinandoli in avventure dove il rapporto tra le sue singolari pulsioni e la sua singolare coscienza potesse finalmente entrare in un rapporto di sintonia e di scambio con qualcosa di meno brutale e soffocante della “forma partito”! In Italia questo fenomeno ebbe una storia che a me pare oggi altrettanto o più interessante di quella del ’68. La mia convinzione, oramai condivisa da tanti, è che il ’68 morì giovanissimo, e si tornò con i leader e i gruppi, pressoché tutti di tradizione Marxista-Leninista (compresa “Lotta continua”, più abile nella sua alterazione ideologica che in quella organizzativa, verticistica quanto le altre), a una chiusura restauratrice e a una conseguente nuova sudditanza del soggetto, nuova tirannia sulla soggettività. In modi assai meno limpidi, se estremizzati, questa tirannia (con la conseguente figura del militante, che riproponeva le antiche alienazioni) produrrà la rivolta del ’67, che fu anche – non dimentichiamolo – rivolta contro i gruppi esistenti, e che prenderà la doppia strada: dell’estremismo “stalinista” delle Br e del terrorismo da un

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PSICOANALISI

E PRATICA POLITICA

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lato, e dell’estremismo soggettivistico del ’77 degli “indiani” e “bolognese” dall’altro. Ma torniamo alla storia del “prima del ’68”, o degli antecedenti del ’68. Per esempio, all’esperienza dei «Quaderni rossi» torinesi. Contemporanea all’esperienza dei «Quaderni piacentini», quando io rientrai da Parigi chiamato da Bellocchio e Cherchi a condividere la responsabilità della rivista, scoprii un’altra piccola rivista, milanese, appartata e assai curiosa, che si chiamava «Il corpo» (un titolo controcorrente, e in deciso anticipo sui tempi) e che aveva una curiosa struttura redazionale. La facevano uno storico (Caprioglio) dedito soprattutto alla miglior valutazione di Gramsci; un filosofo, Amodio; un poeta, Majorino; e uno psicoanalista, Fachinelli. Ed era come se ognuno di loro si fosse ricavata una propria sezione, concordata con le altre ma con un forte grado di autonomia. Più che Amodio e Caprioglio, io venni attratto da Fachinelli e da Majorino. In Fachinelli soprattutto avvertivo una sintonia su molte delle cose che avevo appreso a Parigi, che circolavano nella vivacissima cultura francese di quegli anni, gli anni di Godard, di Barthes e di Foucault, emergenti, e di Lacan, che per Elvio era un referente diretto e importante. (Un’altra figura minoritaria importante su cui bisognerà tornare a ragionare era quella di Danilo Montaldi, che era stato assai vicino al gruppo di “Socialisme ou barbarie”, e sappiamo l’importanza che il pensiero di Castoriadis va oggi assumendo, con il quale avevo avuto contatti, e prima ancora lo scambio era stato notevole tra «Communications» e «Ragionamenti», e c’era insomma tutta una storia – ripeto, minoritaria – di rapporti tra cultura italiana e francese che non era, a Dio e a Marx piacendo, solo quella dei rapporti tra Sartre e il comunismo rossandiano). Di Lacan Elvio stava preparando l’edizione italiana delle opere principali, nella cui traduzione tentò vanamente di coinvolgermi. Pur essendo molto partecipe delle tensioni e speranze che si muovevano attorno al movimento antipsichiatrico (Basaglia, Jervis, Pirella: Gorizia, Trieste), Elvio seguiva un proprio percorso, pacatamente ironico nei confronti di quello che molti dei “piacentini” chiamavamo “Marxismo critico” e che fu in fondo ben poco critico, o assai meno critico di quanto avrebbe dovuto. In definitiva, e per esser chiari, allora e più tardi negli anni delle battaglie del ’68 e seguenti, noi avevamo in molti – non certo Elvio – una sorta di Super-io che volentieri incarnava Fortini, contro il quale prima o poi tutti ci ribellammo quando se ne vennero scoprendo i limiti. Ebbene, per quel che mi riguarda, l’oscillazione era forte tra, diciamo, la mia vocazione libertaria, che trovava pastura nel confronto con Elvio e ovviamente nell’assiduità con un certo cinema e teatro (da Buñuel al Living), con una certa letteratura

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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(dagli hippies a Genet), con una certa musica (dai Beatles a Dylan) e così via – tanto più che prima dei «Quaderni rossi», la mia pratica sociale era stata meridionalista pedagogica nonviolenta, influenzata da Salvemini, da Capitini e da Neill (su cui tornerò) e Freinet ... – e un Super-io più operaista che Marxista, di un operaismo che gli operaisti veri (i Tronti, Asor Rosa, Negri eccetera) accusavano (giustamente!) di “populismo” ... Fortini ci servì a incontrare certi autori (per esempio Weil, Adorno, Victor Serge, lo stesso Brecht) che forse capimmo, alla lunga e nelle loro conseguenze (cioè nelle conseguenze che da quelle frequentazioni era doveroso trarre) meglio di lui. Ma allora oscillammo (almeno io, il più “oscillante” di tutti), e per molto tempo, tra il “dover essere” politico e una certa idea di sinistra, da un lato, tutto sommato tradizionale e tutto sommato meno “critica” di quanto avrebbe dovuto essere, e un’altra idea, più libera e però più vaga, più incerta, più nuova, che tanto ci attraeva quanto ci intimidiva nella sua radicalità e nelle sue risultanze, nelle conseguenze che se ne sarebbe dovuto trarre. Oscillanti, imprecisi, confusi furono, a ben vedere, i «Piacentini» di quegli anni (e dei successivi ancor più), in un interminabile passaggio, determinato forse, direi oggi, da un estenuante timore del “disordine”, quel disordine che Elvio non temeva affatto quando ci rimproverava benevolmente, ma a volte in modo più brusco, la nostra presunta “saggezza”, il nostro non osare rotture che avrebbero dovuto essere facili e congeniali. Con il ’68, Elvio, finita da tempo l’esperienza de «Il corpo» per la spontanea e indolore divisione delle posizioni, visse la sua stagione migliore, quantomeno dal punto di vista delle sue espressioni pubbliche. (Del ’68 ricordo con gratitudine, perché fu all’origine di una delle più grandi e nutrienti amicizie della mia vita, che fu Elvio a segnalarci, anzi a imporci, la lettura del poemetto morantiano Il mondo salvato dai ragazzini quando uscì su «Nuovi argomenti»). C’era stato don Milani, c’era il Vietnam, c’era la Fiat, c’era l’Est, c’era l’Africa, c’era soprattutto il movimento statunitense, e ci furono palazzo Campana e il dilagare del movimento degli studenti, e il Maggio e tutto il resto. Ricordo un viaggio in treno con Elvio da Milano a Torino, per assistere a palazzo Campana alla messa sotto accusa del rettore da parte di un Guido Viale, biondo angelo vendicatore, davanti a un corpo accademico esterrefatto e a giovani entusiasmati: da non credere ai propri occhi, diceva Elvio. Ci incontrammo allora in alcune “battaglie” specifiche, che riguardarono non a caso l’educazione. Fui io a far pubblicare da un piccolo editore avventuroso Summerhill di Neill, manifesto di pedagogia antiautoritaria, nella traduzione di un comune amico, Marco Amante, e la traduzione, mano a mano che procedeva, servì di base a un “controcorso” fachinelliano in una Statale non

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ancora del tutto “katangata” dal neo-togliattiano Capanna; un corso che esaltò e coinvolse giovani aspiranti educatori e fu all’origine dell’esperienza dell’asilo antiautoritario ospitato, se non ricordo male, proprio nell’ambito (o ai margini) della Statale occupata. Ricordo ancora un convegno, appunto nella Statale occupata, su questi temi e su queste persone, con una bellissima relazione di Elvio sull’esperienza dell’asilo, nel quale alcuni interventi citarono in modo infuocato anche un infuocato articolo (non firmato, come allora si usava) che avevo appena pubblicato su un «Lotta continua» già settimanale (o solo quindicinale?) che riguardava pressappoco “i bambini e la rivoluzione”! Ci furono poi L’erba voglio, libro e rivista. E Il bambino dalle uova d’oro e gli altri importantissimi scritti teorici. E ci fu l’esperienza della casa editrice, che ebbe il merito non solo di scegliere il meglio del nuovo che, soprattutto con il ’77, andava nascendo – talora forse con qualche errore di prospettiva più che giustificato – , ma anche di riproporre testi fondamentali per una visione libera e libertaria dell’intervento sociale, culturale, pedagogico. Ricordo con particolare emozione almeno due libri che mi furono cari: quello di Deligny sui bambini autistici, perché Deligny, con il suo Vagabondi effìcaci che avevo letto in francese, era stato uno dei miei “maestri” attorno agli anni ’60; e un piccolo sfogo letterario del ’77, certo sopravvalutato, Boccalone di Palandri, che è però all’origine di tutta la giovane letteratura successiva, l’esile fratello maggiore di ancor più esili seguaci, di un “soggettivismo” già ambiguo e dentro quel “narcisismo di massa” – ben oltre la “teoria dei bisogni” – di cui ebbe a parlare Christopher Lasch. Seguaci e amici, sedicenti “buoni” e “semplici” quelli di oggi, addirittura insopportabili. Ma allora Boccalone era il primo segnale di un ritorno della letteratura nella vita, e dei giovani con sensibilità e gusti nati nel movimento e trasportati nella letteratura. Ma molti altri titoli dovrei ricordare. È di quegli anni, non saprei datarlo a memoria, un episodio sgradevole e significativo che riguarda, appunto, le differenze tra l’anima di un Marxismo assai poco razionale e molto “religioso”, sostanzialmente “catto-comunista”, della cultura cui appartenevamo, rappresentata da Fortini, e quella “libertaria” rappresentata da Fachinelli. Un giorno Fortini, che Fachinelli era andato a trovare, poco dopo la pubblicazione sui «Quaderni» del suo saggio radicale e bellissimo Il desiderio dissidente, nel mezzo di tutt’altri discorsi si era alzato in piedi improvvisamente e imprevedibilmente e, irato e sovreccitato, aveva intimato a Fachinelli di uscire dal suo appartamento, cosa che Elvio fece sbalordito e divertito. Perché? Non c’erano spiegazioni, se non quella di un soggiacente conflitto e dei fantasmi di Fortini sulle idee, per lui troppo libertarie, elaborate e divulgate da Fachinelli.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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Noi, purtroppo, continuammo nel nostro barcamenarci, ma oggi, io almeno, sono convinto che Elvio mi servì molto di più di Fortini, e tra un “padre” che non riuscì mai a proporsi davvero in quanto tale (e da cui fu un bene liberarsi) e un “fratello” che lo fu pienamente, e con tutte le disparità e le divaricazioni, le affinità e le discrepanze, l’accordo e il contrasto che caratterizzavano le solidarietà più produttive, la scelta, almeno retrospettivamente, mi è chiara (finalmente). Nel ’72 lasciai Milano per Napoli, dove godetti di un “rinvio” della decadenza e morte di un movimento e di una speranza. Rividi Elvio solo occasionalmente, qualche cena con Grazia, qualche incontro pubblico. Si pensò per un certo tempo a iniziative editoriali comuni, dopo che, per un certo periodo, i rapporti si erano raffreddati a causa della defezione di alcuni collaboratori di «Ombre rosse» verso «L’erba voglio», che a partire dalla teoria dei bisogni erano finiti a teorizzare solo i propri, di bisogni. Stava proprio qui la permanenza di una certa distanza: in una visione che spesso, in lui e nei suoi seguaci, abbandonava il terreno della liberazione di “tutti” per quello di “pochi”, certo più borghesi che proletari, con il rischio di agire in funzione dei bisogni dei privilegiati, che non difettano di strade per affermarli, nella strabordante retorica dei “diritti” sulla quale tutti in Italia sono andati a nozze e continuano ad andarci. E se mai più si devono rinviare le istanze di liberazione che ci è dato di realizzare qui e ora, l’unico loro controllo sta nel vederle dentro un processo agente da subito per la liberazione di chi ha più bisogno di essere aiutato a liberarsi (gli emarginati, gli oppressi, e in prima istanza gli emarginati e oppressi a causa della soddisfazione dei nostri bisogni...). I “pochi” non egoisti, le minoranze etiche rette, malatestianamente, dalla saldezza del loro “volontarismo etico”, sono chiamati con più urgenza che mai a dover difendere i propri spazi e a dover difendere coloro i cui bisogni, anche primari, sono offesi e negati da maggioranze che, di fatto, a null’altro pensano che alla soddisfazione dei propri bisogni e che costruiscono, in Paesi come l’Italia, la “società dei due terzi”, e anche di più, cui noi stessi apparteniamo. In questo programma che vede al suo centro il “qui e ora” delle pratiche comunitarie più avvertite, nel contribuire alla produzione di una nuova socialità, l’opera di Elvio Fachinelli (e di altri “minoritari” come lui), va studiata e diffusa per due fini: la riappropriazione dei suoi contenuti scientifici (e pedagogici) – e allora si tratta di divulgare e studiare le sue opere – e la riflessione sulla portata del suo pensiero e del suo modello di intervento dentro una più vasta riflessione sul nostro passato, fuori dai miti di ieri e dalle falsificazioni di oggi, e sul nostro presente e futuro. Da Elvio, come da altri, dobbiamo prendere quello che ci può servire; ragionare sui

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dilemmi che possono ancora essere gli stessi nostri e su quello che invece è, come di ogni passato, da ridiscutere e approvare e, se necessario, anche da disapprovare in funzione dell’intervento presente. I principi restano, le situazioni cambiano, le teorie si devono confrontare con il presente e con le scelte che esso suggerisce.

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Margini per Elvio Fachinelli. Tempo del desiderio, tempo dell’immagine

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di Antonio Prete

Nella scrittura di Fachinelli oggetto del discorso e procedimento del dire si contaminano, si fanno prossimi l’uno all’altro, si sovrappongono. La questione del tempo, che è assillo della ricerca teoretica e psicanalitica di Fachinelli, nel corso dell’indagine si addensa, per così dire, nella domanda sul tempo proprio della scrittura: del resto i modi della scrittura sono, sempre, forme temporali. E il tempo è sostanza e ragione della narrazione e di quella messa in forma del tempo che è il ritmo, essenza propria del linguaggio poetico. Quella linea, o miraggio, che via via si mostra come l’altro dal tempo dell’analisi, ad esso soggiacente o sovrastante, oltretempo che traluce talvolta nel racconto del sogno, nella percezione improvvisa, nella coincidenza inattesa, negli interstizi stessi dell’interpretazione, quel tempo insomma osservato dal suo confine – vertigine o silenzio o enigma – diventa, nell’ultimo Fachinelli, scrittura abitata dal frammento. Pensiero che nel suo svolgersi non disperde i silenzi. Sospensione del dire. Esposizione della mente alla visita dell’improvviso, dell’illuminazione. Persuasione che la metafora è luogo d’un déplacement incessante del senso, e dunque segnale, o indizio, di quel mutamento, di quella metanoia, che da lontano manda nella scrittura qualche bagliore. Zerografie chiamò Fachinelli a un certo punto i suoi frammenti. Ovvero, scrittura come siepe di un recinto vuoto, margine che appiana le ondulazioni collinari del discorso, che appiana la trincea difensiva del sapere. Per un’esposizione alla luce. Per un abbandono. È la mente estatica: pensiero che indugia con sorprendente profondità sul tempo proustiano, sul trasumanar dantesco, sull’abbagliante e abissale teologia del nulla di Meister Eckart, sull’impossibile di Bataille. In analogia a questo suo cammino le domande sul tempo che la poesia novecentesca modula, nei suoi momenti alti, come insorgenza del vuoto, della cancellazione, del silenzio – tra Celan e Jabès per citare solo due momenti- portano a loro volta nel vivo del linguaggio la ferita della storia, l’abisso del tragico, e l’impossibilità del discorso, l’impotenza della parola poetica stessa. È la certezza difensiva, tutta umanistica, del sapere, e delle sue pratiche disciplinari e disciplinate, è questa certezza a essere messa in questione.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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Da questo punto d’osservazione le domande di Fachinelli, a partire dai saggi pubblicati sulla rivista “Il corpo” e su “Quaderni piacentini”, appaiono come il tentativo di abbattere, o perlomeno rendere meno rassicuranti, i bastioni di un sapere già definito in fonti, modelli, pratiche, legami, consuetudini, convenzioni. Un lavoro paziente: consapevole, freudianamente, che altro da quel che si cerca sarebbe affiorato, e altrove dal luogo dove si cerca, e forse neppure riconoscibile. Di fatto, di saggio in saggio, quel che affiora nella scrittura, è una lama di luce che si allarga, ma non per dilagare come luce – illuministica chiarificazione, ermeneutica comprensione – ma per mostrare meglio il suo proprio confine, cioè l’oscuro, il segreto, l’impensato, l’impossibile. Eppure questo paese dell’ombra, che si fa respiro e obiettivo della ricerca, non si acquieta in una ontologia del nulla, né subisce la fascinazione dell’invisibile. La ricerca di Fachinelli non è assimilabile a nessuna delle vagues teoriche dell’epoca. Un confronto che a me accadeva di fare era con la coeva ricerca, d’ordine filosofico e poetico e narrativo, di uno studioso italiano come Ferruccio Masini, per il quale il varco verso l’estremo doveva attingere un pensiero della leggerezza che non nascondesse il tragico dell’epoca, un pensiero affidato infine ai modi aforistici e frammentari della scrittura. Certo, è possibile, nel percorso di Fachinelli scorgere le posizioni per dir così conquistate, ricomporre il movimento di un pensiero. Ma da quell’avventura – avventura nel senso che contiene in sé l’attesa e la necessità del miraggio – muove, per quanto mi riguarda, più un invito alla replica dialogica che alla sistemazione dottrinaria e consuntiva. Con questa disposizione d’ascolto, e non di giudizio, ho riletto gli scritti di Fachinelli. Poiché l’affrontamento del tempo, della sua estensione al paese dell’anima, o, diciamo più accortamente, all’atemporalità dell’inconscio, e la sua declinazione come tempo del desiderio e tempo dell’imagine è il grande campo della critica e della pratica analitica di Fachinelli (critica, baudelairianamente, “partiale, passionnée, politique”), da questa singolare e strenua vicenda muovono i pensieri che seguono. Che dispongo qui come altrettanti margini, dunque frammenti, nati in certo senso sui fogli di guardia dei libri di Fachinelli, nello spazio accogliente del silenzio e del bianco che circonda e segue la scrittura. Il “desiderio dissidente”: è accaduto che una generazione non si sia insabbiata nelle secche del rifiuto e della soggettiva indignazione, ma abbia voluto dimostrare quanto fragile e insieme violenta fosse la corazza dell’autorità e come la lingua delle istituzioni fosse pervasiva, multiforme, metamorfica. Eppure in quella stessa generazione hanno preso corpo, fin da subito, i fantasmi dei piccoli e grandi poteri, i vessilli delle esteriori appartenenze,

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MARGINI

PER

ELVIO FACHINELLI. TEMPO

DEL DESIDERIO, TEMPO DELL’IMMAGINE

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il mimetismo d’una politica che non sa guardare la sua impotenza, le sue astrazioni, i suoi vizi. Così la speranza è ridiventata progetto, il desiderio s’è pacificato nello schieramento, il riconoscimento dell’altro s’è cancellato nell’alleanza. La geografia amministrativa del sentire ha sventolato, vincente, la sua mappa. “Contro la mia perdita e dissipazione, ho scritto questo. E anche contro la mia nostalgia” (Fachinelli, Uma tentativa de amor). Lo sguardo su una rivoluzione – Portogallo, estate 1975 – comporta adesione e malinconia, curiosità e svagamento. Ma, soprattutto, può seguire il dispiegarsi di una vita che l’affanno politico non sa né accogliere né designare: com’è possibile sorprendere i pensieri individuali che il gesto collettivo non riesce a riassumere, i silenzi che la parola politica non sa raccogliere? La luce d’un azulejo, che appare mentre si risalgono i becos dell’Alfama, ti può scuotere molto più della luce dell’avvenire scintillante nel canto rivoluzionario. In Fachinelli il passaggio che Freud ha compiuto dal tempo ancora semifeudale e discontinuo degli Studi sull’isteria al tempo dell’analisi che è cronometrico, monotono, suddiviso, scandito, è un passaggio che assimila l’attività analitica al tempo-lavoro protoindustriale. La vita, fuori, ha un altro ritmo, un altro tempo. Pensiamo a un’opposizione benjaminiana: da una parte il tempo altro che l’“éclair”, il lampo, della passante baudelairiana nella “rue assourdissante” fa intravvedere – tempo di una invissuta e vera vita – e dall’altra parte il tempo dell’ “intérieur” borghese, dove si nascondono le tracce del delitto, tempo-spazio chiuso, che è all’origine del racconto poliziesco. Anche il tempo recintato dell’analisi separa dal tumulto della strada per dare avvio al racconto poliziesco dell’esperienza nascosta, indicibile? Esergo della Freccia ferma sono i versi di Paul Valéry, tratti dalla sestina del Cimetière marin, dedicati a Zenone: “Zénon! Cruel Zénon! Zénon d’Elée! / M’as-tu percé de cette flèche ailée / Qui vibre, vole, et qui ne vole pas!”. Nel rituale ossessivo di chi cancella i segni visibili d’un tempo trascorso, c’è, inconsapevole, l’affrontamento, quasi eroico, dell’essenza del tempo stesso, che è l’irreversibilità. Anche la poesia muove da questo affrontamento: ma per dare all’irreversibile la parvenza di un ritorno che è, ancora, tempo, tempo fatto ritmo, ripetizione che irraggia dallo specchio dell’immagine. Leopardi fa di questo irreversibile, sul fondo di un desiderio che è sempre bianco, vuoto, aperto, la materia che dall’oblio si libera per tornare come parvenza in un altro tempo, il tempo della poesia: la poesia come colloquio con queste parvenze che giungono dal tempo irreversibile. Baudelaire fa dell’irrever-

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ELVIO FACHINELLI

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sibile quel perduto che la poesia ospita nella sua lingua, nell’epoca in cui si dispiega una modernità che è dimenticanza, cancellazione, esclusione di tutto quel che è straniero e lontano. Valéry, in questa meditazione estrema sul tempo, ha tentato di scorgere i barbagli del nesso vita-morte, respiro-cenere. Il mare era, allo stesso tempo, materia e ritmo di questa meditazione. Traducendo Le cimitière marin la questione del ritmo da preservare è la prima questione: insieme ermeneutica e formale. Was einfallt: ciò che passa per la mente. Fachinelli ritrova il senso proprio dell’Einfall: caduta nella mente. Oltre il metodo delle libere associazioni. Se l’analisi ha avuto il compito di stendere una mappa per segnalare il vuoto, si tratta di andare oltre, seguire le percezioni che cadono in quel vuoto. Questa caduta dell’immagine nella mente rinvia alla mistica medievale. Ma anche il leopardiano canto Il pensiero dominante appartiene alla stessa arrischiata esposizione: “Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente”. È la profunda profunditas di cui dice Agostino nelle Confessioni. La poesia ha dato un tempo, una lingua, a quel che cade nella mente, nella mente che ha fatto il vuoto dentro di sé. Perché la parola possa fiorire. Perché anche la pietra possa fiorire: Es ist Zeit, dass der Stein sich zu blühen bequemt (È tempo che la pietra accetti di fiorire) (Paul Celan, Corona). Per una critica del simbolo. La dispersione del simbolo psicanalitico nel simbolo antropologico e culturale o l’assimilazione del simbolo nella metafora sono vie abbreviate che sottraggono all’immagine la sua energia evocativa (cfr. Claustrofilia). È l’immagine il cuore delle riflessioni di Fachinelli. Sulla scorta, forse, di Benjamin, il quale ha seguito dell’immagine sia il suo addensarsi iconico, sia il suo spingersi verso una figurazione dell’infigurabile sia la sua energia che le permette di raccogliere un tempo altro, un oltretempo, Fachinelli ha dato all’immagine, al tempo dell’immagine, il respiro di una lingua che costantemente mette in gioco l’oltre della lingua, il confine del discorso, il silenzio, il vuoto. Per Fachinelli l’evento evocato sta nell’immagine come il cielo riflesso nel fiume. L’oscillazione tra parvenza e realtà non intacca tuttavia il senso proprio dell’esperienza. Il passaggio dall’immagine al simbolo è il passaggio a un sapere che ha la sua propria lingua, i suoi codici: passaggio dalla trasparenza all’opaco, dall’apparenza al visibile. Ma il raccontare, anche il raccontare un sogno, implica questo passaggio. Il simbolico potrebbe definirsi, da questo punto di vista, come la messa in forma dell’immagine. Una messa in forma che pretende di tenersi stretto il senso, con le sue diramazioni. Per questo, e può sembrare un paradosso, proprio la poesia detta simbolista, a partire da Baudelaire, ha

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MARGINI

PER

ELVIO FACHINELLI. TEMPO

DEL DESIDERIO, TEMPO DELL’IMMAGINE

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cercato in tutti i modi possibili di rompere la prigione del senso, e intravvedere, oltre il simbolico, la fuga del senso, la sua frantumazione, e perdita, il suo inabissamento. Sullo sfondo il profilo della madre. L’immagine del suo sorriso è più forte dell’immagine della scena primaria? O sono, misteriosamente, la stessa cosa? L’inspiegabile cui diamo il nome di coincidenza e l’accadimento che lascia trasparire una correlazione, una telepatia, una consonanza -proprio laddove esse non sono supposte né dovute- hanno sul loro sfondo la prima “unità duale”, l’unità con la madre? L’esistenza come l’odissea di una lontananza: lontananza dalla madre. Forse proprio per questo il “parlar materno” del poeta è appartenenza ma in una lontananza: incessante e splendente ripetizione di un addio. Eppure la soppressione di questa lontananza, l’attenuazione di questo addio, comporterebbe la morte della poesia. Ambiguità produttiva della nostalgia. Affacciarsi su quella regione – desertica, silenziosa – dove l’esperienza del sentire avverte l’estremo, e nell’estremo la possibilità del mutamento. Il trasumanar dantesco, l’amore “libero da Dio” di Meister Eckart, l’inpressione di Proust, hanno attraversato questo tempo estatico e sovvertitore: unità di estraneo e proprio, di percezione e abbandono. La ricerca di Fachinelli costeggia queste isole, richiamandosi al lavoro di Kafka e di Benjamin, i quali hanno cercato di sorprendere l’estatico non nella convenzione del religioso, ma nel tumulto delle esistenze individuali, non nello stato di contemplazione ma nel rumore della metropoli. In questa ricerca, alla quale certo non è estranea l’arte e la tecnica della cura analitica, il pensiero fa esperienza dei suoi propri confini. E non per opporre l’ignoto alla ragione, ma perché possa darsi una resurrezione della ragione al di fuori delle fortezze difensive. Non è il non-sapere l’approdo, ma un sapere che sa guardare il suo incavo, il suo vuoto, e sa incontrare la vertigine. Quale trasognata comunità traluceva, per Fachinelli, in questo azzardo, in questo miraggio? Forse quella che Blanchot definiva una comunità inavouable? Certo è che la scrittura di Fachinelli, rivisitata oggi – qualche decennio dopo quel tumultuoso dibattere e cercare intorno al sapere e al desiderio e al loro rapporto che animava la ricerca tra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’80 – mostra con quale affinità e forse inconsapevole complicità l’interrogazione di uno psicanalista costeggiasse i luoghi più infocati e estremi della ricerca poetica e filosofica, quei luoghi che facevano dell’apertura del desiderio non una deriva ma una risorsa, del tempo dell’immagine non una dispersione ma un atto conoscitivo, del silenzio non un limite ma una fonte e una sostanza del linguaggio.

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Fachinelli: il dialogo con Freud di Marco Conci

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1. Il mio dialogo con l’opera di Fachinelli Comincerò il mio intervento con una serie di fotografie del mio album dei ricordi, al quale premetto che purtroppo non ho conosciuto Fachinelli di persona, e che ho cominciato ad apprezzarne e poi ad approfondirne l’opera soltanto dopo la sua morte, avvenuta a Milano il 21 dicembre del 1989 – otto giorni prima di compiere 61 anni. Il primo mio ricordo riguarda la visita che con Francesco Marchioro facemmo, in una giornata d’autunno della metà degli anni ’90, ad Herma Trettl Fachinelli, nella sua casa di Milano. Si erano sposati nel 1962, l’anno in cui Elvio aveva cominciato la sua analisi didattica con Cesare Musatti (1897-1989), e nel 1966 avevano firmato insieme la traduzione italiana della Traumdeutung di Freud, L’interpretazione dei sogni, che usciva come primo dei dodici volumi delle Opere Complete dirette da Musatti per l’editore Paolo Boringhieri. Se a Francesco Marchioro sono molto riconoscente, perché fu lui a destare in me l’interesse per la figura e l’opera di Fachinelli, ricordo quella visita come il punto di partenza di quel lungo cammino, di studio e approfondimento della sua opera, che oggi mi ha portato fin qui – al convegno e alla relazione di oggi. Per non parlare di Herma, che ricordo come una persona molto intelligente e coraggiosa e molto devota ad Elvio, nonostante tutta la sua originalità e il suo anticonformismo. “Ogni tanto gli piaceva cambiare studio!”, ci disse ad esempio, ovvero: cambiare quartiere, abitudini e punti di riferimento, come ad esorcizzare, a porre rimedio a quella “costanza del setting” così importante per il nostro lavoro, ma che Elvio evidentemente avvertiva come un limite al suo desiderio di mobilità, di novità – e di creatività. Già allora Herma si stava preparando a tornare nel natio Sudtirolo, a Castelrotto, vicino a Bolzano – dove mi risulta che sia morta qualche anno fa. Nonostante il trasloco in vista, fu con una certa riluttanza che ci affidò non solo un volume – curato da Giovanni Bonoldi nel 1976 – con tutti i numeri della rivista Il corpo, la prima grande avventura intellettuale di Elvio, tra il 1965 e il 1968, ma anche una serie di lettere, che passammo qualche

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pomeriggio ad esaminare e che rimasero poi in possesso di Marchioro. Fu così che ci mettemmo al lavoro e che nel settembre del 1998 potè uscire il volume da noi curato Elvio Fachinelli. Intorno al ’68. Un’antologia di testi, testi accompagnati da due interviste (di Francesca Oldrini, del 1988, e di Sergio Benvenuto, del 1990); da cinque testimonianze: Luciano Amodio, Enrico Palandri, Mario Perniola, Enzo Morpurgo e Sergio Benvenuto; e da “Un tentativo di ricostruzione bibliografica”, da noi stessi realizzato. La grande energia che da questo progetto si era andata sprigionando era comunque stata tale che nel corso della preparazione di quest’antologia, avevano avuto luogo i tre seguenti fatti importanti. In primo luogo, domenica 15 dicembre 1996, a Luserna, la presentazione del “Fondo Fachinelli” della Biblioteca Comunale, ossia del catalogo dal titolo Frutti della claustrofilia, della sua biblioteca, consistente di 3.072 volumi, da Elvio a suo tempo donata al suo paese natio. Catalogata a cura della Provincia Autonoma di Trento, da un gruppo di lavoro coordinato da Luisa Pedrini, il catalogo era accompagnato da una mia breve introduzione, in cui sottolineavo come il multilinguismo (il 20% dei testi sono in lingua straniera) e l’interdisciplinarietà ne fossero i caratteri peculiari. Il secondo fatto importante fu che tale presentazione era avvenuta nell’ambito di un piccolo convegno (il sabato 14, mattina e pomeriggio e la domenica mattina) che la Società Psicoanalitica Italiana aveva organizzato insieme col “Centro Gradiva” di Lavarone. Ad esso erano intervenuti con una relazione gli psicoanalisti Glauco Carloni e Silvia Molinari Negrini (Bologna), Mario Bertolini (Milano), Gabriel Levi (Roma) e Livia Di Cagno (Torino); la storica Anna Maria Accerboni (Trieste), il sociologo Antonio Scaglia (Trento) e il neuropsichiatra infantile Antonio Condini (Padova). In questo ambito io stesso avevo presentato una breve relazione su “Elvio Fachinelli a Trento”, ossia sulla sua esperienza nell’ambito della stagione del 1968 trentino, che l’aveva portato a produrre l’originale contributo “Gruppo chiuso o gruppo aperto” – pubblicata nel 1998 sulla rivista trentina Uomo città territorio. In terzo luogo, la preparazione dell’antologia aveva consentito, a Francesco Marchioro e a me, di entrare in contatto con Sergio Benvenuto, che nella sua coraggiosa rivista, il Journal of European Psychoanalysis, aveva pubblicato il brano di Fachinelli “Lacan and the thing” (l’ultimo capitolo de La mente estatica), nella traduzione di Gianmaria Senia e Claudia Vaughn, preceduto da un mio contributo in lingua inglese dal titolo “Elvio Fachinelli. A profile”. Un ulteriore importante ampliamento dei miei orizzonti e contatti, che Fachinelli andava promuovendo nella mia vita, coincide quindi con il con-

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IL DIALOGO CON

FREUD

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vegno “Il desiderio dissidente. Il pensiero e la pratica di Elvio Fachinelli”, che si tenne a Milano la sera dell’11 dicembre e la giornata di sabato 12 dicembre 1998, organizzato da Lea Melandri e da tutta una serie di gruppi ed istituzioni, tra cui anche il Centro di Psicoanalisi “Cesare Musatti”. Quattro le sessioni del convegno: “L’intinerario culturale”, coordinato da Giancarlo Majorino, e al quale fui invitato ad intervenire per presentare l’antologia curata con Francesco Marchioro appena uscita; “L’itinerario psicoanalitico”, sessione coordinata da Anna Ferruta, e con una relazione di Nestore Pirillo su “Fachinelli nella storia della Società Psicoanalitica Italiana” (più tardi pubblicata sulla Rivista di psicoanalisi); “L’itinerario politico e sociale”, sessione coordinata da Lea Melandri, e alla quale partecipava anche Goffredo Fofi; e infine la sessione “Le opere, la filosofia, la scrittura”, coordinata da Massimo Bonfantini, e con interventi di Sergio Benvenuto, Antonio Prete e Michele Ranchetti. Ora, se cito questi fatti e questi nomi, non è soltanto per la grande nostalgia per tempi in cui l’interesse per i temi che avevano entusiasmato Fachinelli era molto più facilmente e largamente condivisibile, ma anche per un’ulteriore doppia serie di motivi. Ma prima di enunciarli, permettetemi di citare le parole di invito al pubblico, poste nel programma del convegno milanese, con cui Majorino caratterizzava la figura di Fachinelli: Con Elvio Fachinelli e pochi altri assume consistenza sin dagli anni Cinquanta a Milano il sogno, ma anche la realizzazione, di una cultura altra e oltre. Altra, da quella inquinata ideologicamente e da quella dell’establishment, oltre i parametri consentiti, incapaci di felicità e giustizia. Una lunga opera leale, capace di sconvolgere ambiti anche illustri: dalla psicoanalisi alla politica, dalla letteratura alla filosofia, alla pedagogia, ai media dell’immagine.

Vengo ora al primo motivo di cui sopra: è dal convegno di allora che Nestore Pirillo ed io abbiamo reclutato buona parte delle relatrici e dei relatori del nostro convegno di oggi e di domani, con cui da allora non abbiamo mai perso il contatto, ovvero che con entusiasmo hanno tutti risposto al nostro invito. Ad eccezione di Lea Melandri (che nel 1998 aveva pubblicato, con Baldini e Castoldi, l’antologia Il desiderio dissidente. Antologia della rivista “L’erba voglio”, 1971-1977), costretta a rinunciare ad essere con noi per motivi di salute. Secondo motivo: direi che è stato proprio il comune interesse per Elvio Fachinelli ad unire Nestore e me, ovvero a permetterci di conoscerci e quindi di lavorare insieme qui, nell’ambito dell’Università di Trento, dove, da qualche anno a questa parte, collaboriamo nell’introdurre (insieme a Maria Luisa Martini, che ha organizzato con noi questo convegno) gli studenti trentini alla psicoanalisi – così come aveva fatto Fachinelli

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stesso, insieme a Franco Fornari (1921-1985) ormai quarant’anni fa! Ed è così, grazie a Fachinelli, che oggi siamo qui a cercare di indagarne l’eredità culturale – e a godere del calore che è ancora in grado di trasmetterci. Certo, la nostra gioia oggi sarebbe stata più piena, se avessimo potuto avere in mano – come ci aspettavamo tutti di poter fare – i due volumi delle Opere di Elvio Fachinelli, preparate dalla casa editrice Bollati Boringheri, ossia da Lea Melandri, Giuditta Fachinelli e Giovanni Niccoli – e formalmente curate dalla Melandri stessa. Un’intricatissima vicenda editoriale ha prima di Natale bloccato la stampa e la distribuzione di un’opera ormai pronta e il rilancio dell’opera di Fachinelli si trova ora nelle mani dell’editore Roberto Calasso – la cui casa editrice, Adelphi, aveva pubblicato i tre ultimi volumi di Fachinelli. Un vero peccato! Per mia fortuna, Giovanni Niccoli – che qui voglio ringraziare per la sua professionalità e simpatia – mi ha trasmesso per posta elettronica gli indici dei due volumi, che mi sono tornati molto utili nella preparazione di questa mia relazione. Per questo ringrazio qui anche la figlia di Fachinelli, Giuditta – che è qui oggi insieme alla madre, Magda Esposito – per aver contribuito a raccogliere tutta una serie di scritti del padre sparsi in giornali e riviste.

2. Il dialogo di Fachinelli con Freud È così che vengo ora al tema della mia relazione di oggi, ovvero Fachinelli e Freud. A costo – di fronte ad un autore così polifonico – di rischiare di suonare unilaterale, propongo di rivisitare l’opera di Fachinelli – alcune delle sue tappe principali – alla luce del suo dialogo con Freud! La prima chiave di questo accostamento l’ho trovata dentro di me, identificandomi con Fachinelli come traduttore di Freud. Anche io sono stato traduttore, ho tradotto lavori di Johannes Cremerius (1918-2002) dal tedesco, lavori di rivisitazione della storia del “movimento psicoanalitico” e di riforma degli istituti di psicoanalisi. Nonché, dall’americano, lavori di Stephen Mitchell (1946-2000), lavori di rivisitazione del punto di vista interpersonale promosso da H.S. Sullivan (1892-1949) e di formulazione del punto di vista relazionale. E so quanto il confronto con questi lavori e con questi autori affrontati come traduttore, abbia dato luogo ad un dialogo interno con costoro che tuttora mi accompagna. Lo stesso presumo dunque sia successo con Fachinelli, traduttore dell’Interpretazione dei sogni (che usciva, lo ripeto, nel 1966). Come cercherò di mostrare in questo mio contributo, il discorso è piuttosto complesso: nel corso di più di trent’anni, dal 1966 (che è an-

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IL DIALOGO CON

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che l’anno di pubblicazione di un importante ritratto di Freud, ovvero del primo scritto psicoanalitico di Fachinelli) fino all’ultimo suo scritto del 1989, “Uno psicoanalista a Milano” (l’ultimo scritto del secondo volume delle Opere sopra citate), vediamo Fachinelli impegnato in tutta una serie di operazioni, riconducibili al suo dialogo con Freud: lo presenta al lettore italiano, ovvero contribuisce ad introdurlo nel nostro Paese, lo adotta a modello del proprio lavoro di scrittura, anzi si identifica con lui, forse addirittura lo imita, e poi, nel corso del tempo, comincia anche a criticarlo, a riempire con il suo pensiero le lacune di Freud, ad integrarne l’opera, a correggerla, e, infine, in qualche modo a superarla. Conto dunque di cercare in questo lavoro di mostrare via via questa complessa serie di aspetti del dialogo di Fachinelli con Freud. Freud, che peraltro Fachinelli continuò a tradurre per anni. In effetti, all’epoca dello sforzo comune di ricostruzione della sua opera e della sua figura fatto con Francesco Marchioro, ci ponemmo anche il problema del “Fachinelli traduttore di Freud”, che affrontammo molto brevemente nella nostra introduzione all’antologia sopra citata. Avevamo scoperto non solo che a Fachinelli si doveva anche la traduzione di scritti freudiani come “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” del 1910 e dei primi quattro dei sei scritti freudiani sulla tecnica della psicoanalisi (1912-1914), ma che, con il suggestivo pseudonimo di “Ezio Luserna”, egli aveva tradotto anche vari scritti minori, tra cui, ad esempio, “Il significato opposto delle parole primordiali” (1910). Se “Luserna” era il suo paese natio (in provincia di Trento), “Ezio” – ci aveva detto Herma – stava per il suo migliore amico d’infanzia. Anche questa è dunque una ricerca che resta da completare: dato che, purtroppo, l’ultimo volume, il volume 12, delle Opere di Sigmund Freud non contiene una lista dei traduttori, per stabilire quali altri scritti di Freud Fachinelli abbia tradotto, bisognerebbe andare a vedere, scritto per scritto, il nome del traduttore. Una volta fatta una lista completa delle sue traduzioni, varrebbe poi la pena farne oggetto di un’indagine filologica, relativa ai modelli da Fachinelli adottati per la terminologia freudiana, ai problemi da lui incontrati e alle soluzioni da lui adottate. Ovvero, varrebbe la pena cercare di entrare in un campo poco coltivato in Italia, ossia perseguire un interesse che condividevo con Michele Ranchetti, un grande amico di Elvio, purtroppo scomparso improvvisamente all’inizio di febbraio del 2008 – altrimenti anche lui sarebbe oggi qui con noi. Naturalmente, è al citato lavoro di composizione e preparazione dei due volumi delle Opere di Elvio Fachinelli che devo ora la possibilità di sviluppare il tema del suo dialogo con Freud in modo ottimale, ovvero in senso crono-

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logico. Nonché quella di poter utilizzare scritti che ancora non conoscevo, come appunto la voce “Freud”, del 1966, di cui ora mi occuperò. Si tratta di un ritratto tuttora valido, scritto per l’enciclopedia I protagonisti della storia universale della Compagnia Edizioni Internazionali, che occupa le pagine 778-812 del secondo volume delle Opere, dal titolo Scritti e interviste 1958-1989. Esso rappresenta anche – come dicevo – il primo scritto psicoanalitico di Fachinelli, ovvero il suo quarto in assoluto – dopo un primo scritto del 1958 dedicato al grafico Abe Steiner e due lavori psichiatrici, uscito il primo, sull’uso del test di Rorschach in psichiatria, sulla Rivista sperimentale di freniatria (1961), e il secondo, sull’uso dell’arte-terapia in psichiatria, sull’Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria (1964). La prima cosa che colpisce, di questo ritratto di Freud, è la grande accuratezza della ricostruzione cronologica della sua vita ed opera, che copre le prime 9 (778-787) delle 34 pagine di questo scritto, nonché – naturalmente – la qualità della lingua italiana usata dall’autore, e, last but not least, l’identificazione con Freud. Essa emerge ad esempio dal ricorso a tutta una serie di citazioni del suo stato d’animo raccolte dalla sua corrispondenza – che l’autore riesce ad includere pure in una presentazione così schematica. Un esempio per tutti, le parole che Freud scriveva a Sandor Ferenczi dopo la morte della madre, il 16.9.1930: “Non m’era permesso di morire finché viveva lei, ora invece posso farlo”. Esaurita la parte cronologica, Fachinelli ci propone tutta un serie di angoli visuali dai quali guardare a Freud – nel merito di alcuni dei quali ora entrerò – a partire da Freud come conquistador. Se così si era definito, “nient’altro che un conquistador per temperamento – un avventuriero”, nella lettera a Wilhelm Fliess dell’1.2.1900, attraversando la Manica, nel giugno del 1938, Freud aveva sognato di essere sbarcato a Pevensey, esattamente dove era sbarcato Guglielmo il Conquistatore nel 1066. Perché non vedere in questa prima caratterizzazione di Freud, la prima che a Fachinelli viene in mente, un’identificazione con Freud che apre nuovi fronti del sapere, che conquista al discorso psicoanalitico nuovi territori, come Fachinelli stesso riuscì a fare – come vedremo nel corso di questo scritto – nella sua opera? La caratterizzazione immediatamente successiva ha per titolo “L’archeologia del banale”: in essa Fachinelli cerca di trasmettere al lettore l’essenza dell’eredità di Freud, di cui illumina la figura paragonandolo ad Heinrich Schliemann, l’archeologo dilettante scopritore di Troia, a cui Freud stesso si era paragonato in due lettere a Fliess del 1899. Freud – scrive Fachinelli – corse lo stesso rischio veramente folle, ai nostri occhi: a un certo punto della sua vita, dall’interno di una formazione cultu-

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rale fra le più rigide, cominciò a prestar fede ai residui preistorici della sua infanzia, a quella parte condannata di noi che torna nei sogni e nelle fantasie (ivi, p. 789; corsivo nell’originale).

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Qui possiamo riscontrare il carattere di domanda, di interrogazione che la psicoanalisi pone alla vita, alla quale Fachinelli rimase sempre fedele. E che definizione dà Fachinelli della psicoanalisi stessa, di quella che Freud aveva creato? Trovare nel presente il passato e viceversa, nella passività l’elemento aggressivo e viceversa, cogliere insomma i due termini antitetici di un conflitto radicato nell’uomo – questo costituisce forse il nucleo del metodo psicoanalitico. ... C’è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà di ‘collocarla’ positivamente tra le altre scienze. La cosa che Freud ci ha lasciato non è catalogabile con facilità, non rientra negli schemi consueti, anche se spesso si richiama ad essi (ivi, p. 788; corsivo nell’originale).

Anche qui abbiamo dunque a che fare con due caratteri della proposta di Freud, che rimarranno sempre al centro dell’opera di Fachinelli: la psicoanalisi come disciplina sui generis, eccentrica, che coglie gli aspetti conflittuali e antitetici della vita. Un quinto aspetto di Freud che Fachinelli sottolinea in questo scritto del 1966 è la forma estrinseca, borghese, della sue vita, apparentemente così antitetica rispetto al carattere rivoluzionario, o comunque innovatore, della disciplina da lui fondata. In questione è quello che l’autore chiama “un modello vittoriano”: C’è un aspetto per così dire eminentemente vittoriano ... un modello di vita che fu dei suoi maestri anatomisti e fisiologi e che sarà ancora di molti uomini di scienza venuti dopo di lui, non esclusi taluni suoi discepoli. Non si allude qui soltanto alla operosità veramente instancabile e al significato che essa assume come norma etica nella vita individuale, ma allo stile di vita, alla morigeratezza persino fanatica, all’uso parco e ‘schivo’ dei beni della vita, d’altronde cautamente valutati (ivi, p. 791).

Per quanto riguarda questo aspetto in Fachinelli stesso, posso per esempio immaginare quanto importante sia stato per lui mettere insieme una bibliotca di 3.072 volumi e donarla al Comune di Luserna. Ed è proprio su questa lunghezza d’onda che si realizza quella che abbiamo buoni motivi di chiamare l’identificazione di Fachinelli con Freud, che troviamo al paragrafo successivo di questo ritratto, “Dickens, l’infanzia”: in questione è il ritratto del giovane Freud – costruito da Ernest Jones nella

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sua biografia – come “il primogenito ... di una famiglia ebrea semipovera, semiborghese, che punta tutto su di lui” (ivi, p. 792). Ed ecco il commento – a carattere, oserei dire, al tempo stesso autobiografico – di Fachinelli:

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C’è qui, in uno stile dickensiano, il nucleo eroico di un ragazzo che sa di poter contare soltanto sulla cultura per compiere domani le sue gesta (ibidem; corsivo nell’originale).

Vengo ora al penultimo aspetto di questo – come detto – tuttora molto valido ritratto di Freud stilato da Fachinelli nel 1966, ossia al ruolo cruciale dell’autoanalisi di Freud, sia nella genesi della psicoanalisi stessa che come garanzia del mantenimento del suo statuto disciplinare, che l’autore così sintetizza: Non è la minuziosa ricerca e datazione del passato che di per sé ne dà la chiave e consente di superarne i punti morti, sopravvissuti nel presente; ma il lavorare insieme, quasi alla cieca: [da qui origina; aggiunta mia, M.C.] il discorso, dapprima indistinto, poi sempre più chiaro e vicino che sorge tra il malato e il suo medico e nel quale confluiscono e si riconoscono tutte le voci del passato. Io penso di dover cercare nel sottosuolo il mio museo archeologico privato – e a poco a poco mi avvedo che esso si spalanca in piena luce nel presente mio e del mio testimone (ivi, p. 806).

E così che il passato si sostanzia nel presente, ovvero nel rapporto terapeutico senza il quale una tale ricerca non sarebbe stata possibile. Si tratta di un aspetto importante, perché anche l’opera di Fachinelli, come quella di Freud, è fondata sulla clinica, ovvero sul lavoro coi suoi pazienti, e quindi sul lavoro su se stesso. E da questo deriva direttamente l’ultimo aspetto, della grande affinità di Fachinelli con Freud, ossia l’aver Freud prodotto, attraverso libri come L’interpretazione dei sogni e La psicopatologia della vita quotidiana, un libro “consustanziale al suo autore” irripetibile (ivi, p. 807), scriveva Fachinelli, puntando, al tempo stesso, a quello che penso ambiva potesse rappresentare anche il carattere della sua propria opera. Dell’opera che ci ha lasciato e che qui oggi insieme rivisitiamo: un’opera consustanziale al suo autore. Un autore trentino – direi, da trentino quale io stesso sono – ossia “tutto d’un pezzo”! Se questo è il modo in cui, con questo ritratto del 1966 – coevo all’uscita della traduzione italiana de L’interpretazione dei sogni – il dialogo di Fachinelli con Freud, e la sua identificazione con lui, cominciarono, vediamo ora di ricostruire nei paragrafi che seguono – non più in così grande dettaglio, ma

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per sommi capi – il modo in cui tale dialogo, ossia le sue successive variazioni e svolte, caratterizzano l’opera complessiva di Fachinelli. Ovvero, come da una parte il tipo di identificazione che abbiamo appena visto rimarrà attiva, senza peraltro impedirgli di rivisitare l’opera di Freud in maniera creativa, ossia di integrarne le lacune, oppure di aggiungere ad essa nuove voci e nuovi capitoli.

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3. Il bambino dalle uova d’oro, 1974 Cominciamo dunque da quello che è forse stato il suo libro più letto, l’antologia Il bambino dalle uova d’oro, del 1974, dedicata “A Herma”, che raccoglie “quasi tutto ciò che ho scritto e pubblicato – scriveva l’autore nella premessa – dal 1965” (1974, p. 5). Fachinelli stesso ne parla come di “un libro di viaggio attraverso la psicoanalisi, e oltre. Un libro in cui alla descrizione di nuovi paesaggi si accompagna il resoconto dei mutamenti intervenuti in quello di partenza” (ibidem). O meglio ancora, in termini del suo tentativo di proporre, in relazione a quella che considera la “crisi irrimediabile [di] quella psicoanalisi pronta alla risposta ... l’esigenza di un sapere che proponga altre domande, altri interrogativi. Un sapere inquietante, e sapere dell’inquietante (das Unheimliche), come fu quello di Freud rispetto alla coscienza della società occidentale del suo tempo; un sapere che, come quello, scopra e dica l’inquietante in ciò che in apparenza ci è più familiare e consueto” (ibidem; corsivo nell’originale). Siamo qui dunque di fronte ad un Fachinelli, che rimanendo fedele alla lezione di Freud, intende rivisitarla per permetterle di incontrare le esigenze del nostro tempo – e, al tempo stesso, per consentirle di non perdere lei stessa il peculiare ed eccentrico statuto che abbiamo visto nel paragrafo precedente. Come sappiamo, identica era la parola d’ordine di Jacques Lacan (1901-1980), di cui Fachinelli fu uno dei primi simpatizzanti italiani, ossia il tanto da lui auspicato “ritorno a Freud”. Per inciso – prima di passare ad esaminare alcuni dei capitoli di quest’antologia – sottolineo come Fachinelli, con la parola “inquietante” per il tedesco Unheimlich, trovi una parola più aderente alle intenzioni di Freud che non l’italiano “perturbante”, con cui il suo articolo del 1919 è entrato nella tradizione freudiana italiana. Non è un caso che il primo capitolo di quest’antologia sia rappresentato dalla traduzione di Fachinelli di un inquietante – e senz’altro molto affascinante – testo di Freud, “La negazione”, “Die Verneinung”, uscita nel 1925 sulla rivista Imago, e dal suo commento ad esso, “L’ipotesi della distruzione

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in Sigmund Freud” – tratti entrambi dal primo numero della rivista Il corpo, del marzo 1965. Per inciso, questa traduzione di Fachinelli fu poi recepita anche da Musatti come curatore delle Opere di Sigmund Freud, e si trova alle pp. 193-201 del decimo volume. Si tratta di uno scritto molto breve – e molto sofisticato – in cui, così Fachinelli ci spiega:

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Freud ci dice: la verità emerge, qui [nel lavoro coi pazienti; M.C.], come negazione della verità ed è anzi questa negazione che consente il suo emergere (1974, p. 18).

Potendosi, sullo scritto di Freud e sul commento di Fachinelli, articolare un intero convegno, mi limito qui a citare gli aspetti più importanti nell’economia del mio discorso. In questo scritto sento Fachinelli impegnato non solo nella introduzione di Freud nel nostro Paese, ma anche nella valorizzazione – la massima possibile – del suo grande spessore intellettuale. È così che per quanto riguarda il primo aspetto, egli da una parte mette in evidenza la natura fenomenologico-clinica dello spunto di partenza di Freud, e dall’altra punta subito alla chiave che questo scritto di Freud ci dà per decodificare un’eventuale recezione superficiale ed intellettualistica della parola freudiana – non solo da parte del paziente, ma della società nel suo insieme. In concreto, a Freud che inizia il suo scritto con le parole “Il modo in cui i nostri pazienti presentano le loro associazioni durante il lavoro analitico ci fornisce lo spunto per alcune osservazioni interessanti” (OSF, vol. 10, p. 197), fa eco l’affermazione di Fachinelli che questo scritto “ripete in nuce uno svolgimento comune ai suoi scritti: rilevazione, che è spesso scoperta, di una sfumatura del comportamento tipica nella sua marginalità e passaggio elittico, quasi perentorio, a una serie di considerazioni che investono la centralità del soggetto” (1974, p. 17). E qui non è difficile intuire (anche sulla base del dettagliato esame a cui ho sottoposto il suo ritratto di Freud del 1966) che Fachinelli stesso prese a modello questo tipo di incipit, ovvero adottò lui stesso questa chiave di analisi e di scrittura. Basti pensare – rimanendo dentro a quest’antologia del 1974 – agli scritti “Il desiderio dissidente” e “Gruppo chiuso o gruppo aperto?”. Vengo ora alla preoccupazione di Fachinelli per la recezione della parola freudiana, quella stessa preoccupazione che lo porterà quattro anni più tardi a scrivere “Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?”: Freud indica in questo modo con chiarezza – scrive l’autore – uno dei più comuni vicoli ciechi della psicoanalisi: l’accettazione intellettuale della parola dell’analista, che diventa parola sovrapposta alla verità del soggetto, con essa

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non coincidente anche nella coincidenza formale. E in un senso più generale coglie uno stato intellettualistico, letteralmente dissociato, della verità individuale e di gruppo (ivi, p. 19).

In altre parole, una situazione per cui la psicoanalisi “è passata ... da tecnica volutamente demistificante applicata essenzialmente all’individuo a spiegazione semi-magica ad uso del gruppo, con funzioni di rinforzo e di razionalizzazione di ciò che, nella realtà, è intrinsecamente irrazionale” (ibidem). Ed è proprio qui che Fachinelli punta tutto sullo spessore intellettuale della psicoanalisi, che affianca da una parte – sulla scia di Hyppolite – alla dialettica hegeliana, e dall’altra – sulla scia di Adorno – al “giovane Marx” del 1844, e questo nella misura in cui il valore del suo pensiero [così come quello di Marx; M.C.] sta nella tensione anticipatrice cui sottopone la realtà, in quella ‘distanza dalla continuità del noto’, sulla quale ha insistito in particolare Adorno (ivi, p. 25).

Dal nostro punto di vista di psicoanalisti, vediamo qui Fachinelli anche nel suo ruolo di cultore della metapsicologia freudiana, della polarità di Eros e Thanatos, e delle sue potenzialità cliniche, che non solo Melanie Klein (che Fachinelli pure cita in questo scritto del 1965), ma anche tutta una serie di autori contemporanei – pensiamo ad esempio al francese André Green – non hanno mancato di coltivare. Ma per quanto riguarda l’esito del suo tentativo di promozione della psicoanalisi, ecco quanto egli scrisse nel 1979, nella premessa alla terza edizione de Il bambino dalle uova d’oro: Quando uscì nella rivista ‘Il corpo’ la traduzione della Verneinung di Freud, insieme al mio commento, un giovane filosofo Marxista, al cui giudizio tenevo molto, mi disse di averli trovati incomprensibili. Non disse, ma si capiva, che per lui erano anche superflui, forse dannosi. Oggi la Verneinung, attraverso Lacan e i suoi seguaci italiani, è entrata nella nostra cultura e non c’è forse giovane filosofo, militante o no, che non si senta in dovere di averla sott’occhio, un po’ come alcuni non riescono a dormire se non hanno un bicchier d’acqua sul comodino (1979, pp. 7-8).

Ebbene, questo è vero anche di altri scritti di quest’antologia, di cui ci occuperemo tra poco, ovvero subito dopo aver ricordato la prefazione di Fachinelli al libro di Edward Glover Freud o Jung, uscito da Sugar (Milano) nel 1967, e antologizzata con il titolo “A proposito di Jung”. Se mi soffermo su questo scritto, saltando i due contributi che lo precedono, è non solo

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perché esso è molto più semplice di “Sul tempodenaro anale”, e molto più attuale della rivisitazione fatta dall’autore della posizione di Wilhelm Reich, ma anche perché da esso si può evincere sia la profonda identificazione con Freud che anima la critica che Fachinelli fa a Jung, che la grande cognizione di causa su cui egli la costruisce.

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Se egli non è uno psicologo del conscio, come sostiene Glover, è certamente uno psicologo dell’inconscio prefreudiano, nella linea Carus-von HartmannSchopenhauer” (1974, p. 74), sostiene Fachinelli, che vede in Jung un “magopastore, Seelsorger” (ibidem). E che lo porta anche a criticare aspramente quello che altrimenti passa per uno dei contributi più originali di Jung, l’“inconscio collettivo”: “la falsa opposizione individuo-società, che Freud supera ... dall’interno del suo lavoro, è in Jung semplicemente elusa (ivi, p. 75).

Veniamo ora ai famosi contributi suscitati in Fachinelli dalla sua esperienza e partecipazione alla “svolta politica del 1968”: “Il desiderio dissidente” e “Gruppo chiuso o gruppo aperto?” del 1968, e “Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?” del 1970, tutti e tre pubblicati sull’allora prestigiosa rivista Quaderni piacentini (cfr. i numeri 33, 36 e 40). Vediamo così come l’ assimilazione da parte del suo autore non solo della lezione freudiana, quanto anche la coniugazione di essa con tutta un serie di letture pluridisciplinari e di esperienze personali e professionali, inclusa la sua dimestichezza con autori post-freudiani quali Melanie Klein, Wilfred Bion e Alexander Mitscherlich, gli permetta di costruire una nuova cornice “bio-psico-sociologica” (1974, p. 108). Ovvero una cornice che da una parte lo porta a realizzare l’originario progetto di una “psicoanalisi applicata alla società” in maniera più compiuta di Freud stesso, e dall’altra gli consente di elaborare le permesse teoriche di quel “lavoro senza fissa dimora” (ivi, p. 156; corsivo nell’originale), nel quale si impegnerà negli anni successivi, a partire dalla creazione della rivista L’erba voglio – il cui primo numero esce nel luglio 1971. Che dire dunque de “Il desiderio dissidente”? In questione è l’orizzonte psicologico in cui si muove la contestazione giovanile di quegli anni, al tempo stesso fragile nei contenuti e resistente negli atteggiamenti di dissidenza di fondo, nella cornice di una società capitalistica avanzata dalla dinamica peculiare. In questione è cioè una immagine o fantasma di società – scrive Fachinelli – che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale. Cioè abbina un’offerta di sicurezza immediata a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio. La liberazione dal bisogno sembra anzi avere come sua condizione la rinuncia al desiderio (ivi, p. 110; corsivo nell’originale).

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Da qui la nascita di quello che l’autore chiama “gruppo di desiderio”, retto da un leader che assicuri ai suoi membri la partecipazione ad uno “stato di desiderio”, contrapposto al desiderio che si declina in una serie di oggetti, che può essere prerogativa soltanto della persona matura, autonoma e responsabile. “E perché questo [stato di desiderio; M.C.] permanga – prosegue Fachinelli – bisogna perder l’illusione di un’incarnazione definitiva del desiderio: il desiderio appagato è morto come desiderio, e alla sua morte fa seguito la morte del gruppo” (ivi, p. 112). Da qui il particolare statuto, “dissidente”, di questa forma di desiderio. E fu proprio allo studio di queste dinamiche di gruppo che Fachinelli potè dedicarsi nell’inverno 1967/1968, qui a Trento, presso quello che allora si chiamava Istituto Superiore di Scienze Sociali, nell’ambito di un cosiddetto “controcorso” intitolato “Psicoanalisi e società repressiva”, ai partecipanti del quale egli propose “di costituirsi in gruppo di analisi, allo scopo di verificare concretamente, di sperimentare nel gruppo stesso le modalità di repressione, autoritarismo, esclusione e così via che fino ad allora erano state considerate e criticate in modo più o meno ideologizzato” (ivi, p. 114). In pratica – come apprendiamo dal paradigmatico contributo “Gruppo chiuso o gruppo aperto?” – nel lavoro del gruppo, su quello che Fachinelli aveva chiamato “processo di accomunamento” – tramite il quale poter mantenere il gruppo aperto – era prevalso “il processo di settarizzazione”, lo stesso processo che di lì a qualche anno, nella società reale, avrebbe portato alla polverizzazione della Sinistra extra-parlamentare in tutta una serie di gruppuscoli in lotta tra loro. Se Wilfred Bion, muovendosi in maniera analoga a Fachinelli, ossia cercando di capire come la dinamica di gruppo formulata a tavolino dal Freud di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), poteva incarnarsi in un gruppo di lavoro reale, aveva scoperto i tre assunti di base della dipendenza, dell’attacco-fuga e dell’accoppiamento, Fachinelli lo affiancava, chiamando in causa “il processo di accomunamento”. Con questo egli propone di non cogliere nell’altro, nel diverso, nell’estraneo al gruppo un nemico, da cui difendersi, ma “l’uguale, il comune a noi” (ivi, p. 134); in questo modo “al posto di un insieme di persone dipendenti dal leader – scrive Fachinelli – sempre sul punto di divenire oggetto della sua riprovazione, si avranno soggetti che, condividendo una stessa tensione all’esterno, andranno man mano conquistando la propria autonomia” (ivi, p. 135). Originariamente presentato a Milano nel dicembre 1969, nell’ambito del convegno internazionale “Psicoanalisi Psichiatria Antipsichiatria”, l’ormai classico scritto “Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?” ruota attorno alla presentazione e definizione della cosiddetta “psicoanalisi della risposta” e

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alla formulazione di un’alternativa ad essa, all’insegna di quel “ritorno a Freud” che Fachinelli era andato elaborando negli anni precedenti – seguendo il percorso che abbiamo visto finora. Apre questo lavoro il richiamo alla sfinge che interroga Edipo, che l’autore paragona alla “sfinge psicoanalitica”. Mentre nel caso di Edipo, “per diventare uomo, ha bisogno che la sfinge gli ponga ... [la; M.C.] domanda sull’uomo, fra tutte la più rischiosa e temuta”, così stanno le cose nel caso della “Sfinge psicoanalitica”: “se una volta, con Freud e alcuni altri, essa ha veramente posto all’uomo delle domande, e delle domande essenziali, oggi, in tutto il mondo occidentale, e con la partecipazione di molti, essa gli dà quasi esclusivamente delle risposte” (ivi, p. 147; corsivo nell’originale). In questione è cioè “il compito di dare ragione all’esistente, cioè di razionalizzare le irrazionalità, prevenirne le difficoltà, tamponarne i conflitti” (ibidem; corsivo nell’originale). Ed ecco l’alternativa di Fachinelli: L’ascolto analitico deve manifestarsi in primo luogo come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, e quali che siano, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate; rientra in quest’ordine di idee, mi pare, quell’auscultazione dell’acting out sociale di cui parlava ieri il dottor Tosquelles; in più deve anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi. Se infatti è vero, come ritengo, che la crisi della psicoanalisi della risposta sia cominciata, e sia destinata ad aggravarsi, a livello della secessione giovanile, allora il primo e unico luogo privilegiato della psicoanalisi interrogante sarà dato dalla giovane generazione (ivi, pp. 155-156; corsivo nell’originale).

Una formulazione ancora più pregnante ed affascinante del modo in cui la complessa operazione di rivisitazione dell’opera di Freud condotta da Fachinelli gli permetta di trovare un nuovo vertice da cui guardare – con nuovi occhi – sia alla psicoanalisi clinica che alla psicoanalisi come istituzione è quella contenuta nell’ultimo capitolo de Il bambino dalle uova d’oro, “Il paradosso della ripetizione”. Come sottolinea anche Lea Melandri – che lo considera uno dei contributi più importanti di Fachinelli – la struttura stessa di questo scritto, consistente in tre articoli usciti in tre diversi fascicoli della rivista L’erba voglio (N. 1, luglio 1971; N. 5, aprile 1972; N. 10, marzo-aprile 1973), ne riflette ed esemplifica il contenuto stesso. Ossia quello legato al concetto di “ripresa”, definita come – scrive la Melandri – “ritorno a qualcosa di già dato, ma come modificazione e arricchimento” (2009, p. 1). A questo concetto, del tutto originale e di grande interesse, l’autore perviene

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partendo dal concetto freudiano di “coazione a ripetere”, ossia scomponendolo nei tre nuovi termini seguenti: replica, ripresa e riduzione. Ma sentiamo Fachinelli: Vediamo dunque chiaramente come la ripetizione sia solo un termine generale – e come tale, facilmente fuorviante – per indicare varie possibilità, varie modalità distinte. Da un punto di vista didascalico e astratto, può essere utile denominarle differentemente. La prima, allora, la chiameremo replica, per rappresentare una riproduzione senza originalità, un facsimile per così dire, come si parla della replica di un’opera teatrale, di un quadro. La seconda, ripresa, per indicare un ricominciamento aperto verso l’avanti, modificatorio, come si parla della ripersa di una commedia, della ripresa di un motore, di una partita, di una gara ... Chiameremo infine riduzione una ripetizione più schematica e povera dell’originale, come si parla della riduzione cinematografica di un romanzo; e, anche, e non meno importante, come si parla di riduzione all’obbedienza, con tutto ciò che questo atto comporta di violenza e di sopraffazione. Per questi motivi, e per evitare ogni idea di uno spostamento (mitico) al passato, preferisco questo termine a quello abusato di regressione (ivi, p. 236; corsivo nell’originale).

Sta di fatto che in questo suo importantissimo lavoro, ritroviamo non solo il “Fachinelli traduttore” – con lo pseudonimo di “Ezio Luserna” – dei primi quattro dei sei scritti freudiani sulla tecnica della psicoanalisi (“L’impiego dell’interpretazione dei sogni nella psicoanalisi”, 1911; “Dinamica della traslazione”, 1912; Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, 1912; e “Inizio del trattamento”, 1913), rielaborati in maniera così creativa dal “Fachinelli psicoanalista”, ma scopriamo anche il Fachinelli psicoanalista quale pioniere italiano del punto di vista intersoggettivo, ossia di tutta una serie di autori che vanno da Loewald a Klauber, e da Jacobs a Greenberg. Di Jay Greenberg – per tagliare corto un discorso molto più lungo – ricordo ad esempio la famosa formula, in linea con il punto di vista di Fachinelli, per cui “Un’analisi può iniziare soltanto se il paziente percepisce l’analista come un ‘oggetto nuovo’ (o meglio, un misto di nuovo e vecchio), e può finire soltanto al compimento della parabola contraria, da nuovo a vecchio” (cfr. J. Greenberg, 1986). Ed è proprio il concetto di “replica” che consente a Fachinelli non solo di mettere in guardia i suoi colleghi al lavoro coi loro pazienti, ossia dal non “spostare l’intero processo analitico dalla parte della replica” (ivi, p. 242; corsivo nell’originale), ma anche di muovere una critica radicale all’istituzione psicoanalitica, troppo spesso impegnata a produrre giovani analisti “too respectful, per usare l’espressione di Michael Balint, cioè troppo ossequiosi, conformisti e sottomessi” (ivi, p. 243; corsivo nell’originale).

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A questo punto, gettate le basi del discorso, relative al dialogo di Fachinelli con Freud, basi relative alla sua esperienza di traduttore, alla sua attività di introduzione della sua opera in Italia, e quindi di rivisitazione della stessa alla luce della sua attività clinica e di “ricerca sociale”, rivisitazione culminante in un tentativo di “ritorno a Freud”, col carattere della “ripresa”, così come lui stesso la definiva, siamo pronti per il passo successivo. Ossia quello di vedere in che modo, col suo libro del 1979, La freccia ferma, Fachinelli pose mano a quella rilettura di Freud, che gli consentì di iniziare a coglierne e a riempirne lacune, ovvero di iniziare ad integrarne l’eredità col proprio personale contributo, conquistando così al tempo stesso alla psicoanalisi anche nuovi ed affascinanti territori. I territori legati a nuovi concetti come “l’area claustrofilica” e “la mente estatica”.

4. La freccia ferma, 1979 Quali sono dunque i temi freudiani de La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo? Come Freud, anche Fachinelli riconduce la stesura di questo libro al suo lavoro coi pazienti, ossia all’esperienza “di sorpresa provocata in me dal comportamento di colui che qui chiamo ‘l’uomo che annullava il tempo’” (1992, p. 15). Nella premessa l’autore ci avverte di volersi con questo occupare del “tempo dell’analisi e nell’analisi” (corsivo nell’originale), che definisce come “un argomento... centrale per il futuro della psicoanalisi e per il suo intervento ... finora abbastanza tralasciato” (ibidem). Per inciso, posso dire che con Francesco Marchioro avevamo a suo tempo scoperto che il tema del tempo a Fachinelli si era imposto perlomeno dall’epoca in cui, studente liceale, lavorava l’estate per mantenersi agli studi, “come ‘marcatempo’ alle acciaierie di Bolzano, ossia cronometrava il tempo che gli operai impiegavano a compiere determinate operazioni” (Conci e Marchioro, 1998, p. 9). È così che nel primo dei sette capitoli del libro (una cui prima stesura era già uscita nell’antologia Il tempo in psicoanalisi, a cura di Andrea Sabbadini) incontriamo proprio “L’uomo che annullava il tempo” (come suona il titolo del capitolo), un paziente nevrotico ossessivo grave. Ossia talmente grave da fare molta fatica a rispettare il normale regime degli impegni ed appuntamenti quotidiani, e da riuscire ad aiutare l’autore ad introdurci nella tematica del mondo e del tempo in cui egli vive, “del tutto slegato e autonomo rispetto a quello comune” (ivi, p. 38), cercando con questo di andare al di là di come Freud stesso aveva trattato questo tema. Per inciso, di questa patologia l’autore già si era occupato nella sua seconda pubblica-

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zione, “Il contributo del test di Rorschach all’analisi strutturale della nevrosi fobico-ossessiva” del 1961. La dimensione di vita di questi pazienti è per Fachinelli, ovvero “per chi ... la vive giorno per giorno dall’interno ... una situazione tremenda e fascinosa insieme, una situazione che in termini codificati potremmo tranquillamente chiamare sacra” (ivi, p. 43; corsivo nell’originale). È così che l’autore presenta la psicodinamica di questa condizione in maniera molto affine – senza rendersene apparentemente conto – a quella che H.S. Sullivan ci propone nei suoi Studi clinici, ossia a partire dalla situazione interpersonale del soggetto, situazione di sottomissione ad un’autorità che gli impedisce di trovare la propria identità autonoma, e dal suo conseguente tentativo – inconscio – di evadere tali problemi trasformando il suo conflitto da un “conflitto interpersonale” ad un “conflitto impersonale” – come scrive Fachinelli stesso (cfr. ivi, pp. 32-34). In altre parole, Fachinelli finisce col criticare Freud esclusivamente per le conseguenze del suo punto di osservazione, legato alla cornice teorica della teoria della libido – che non per il limite intrinseco di questa sua teoria. “Per Freud ... non si pone il problema di un mutamento di qualità – scrive l’autore a conclusione di questo primo capitolo – di un salto, nel passaggio da un conflitto personale alla sua trascrizione ossessiva” (ivi, p. 42). Se nel secondo capitolo, “Battito, ruota, freccia”, che si apre con “il bambino del rocchetto” di “Al di là del principio di piacere” (1920) di Freud, l’autore ci mostra come “l’uomo ossessivo ... cerca, si direbbe, di comportarsi come un arcaico ma, per ragioni che dovremo vedere, non vi riesce” (ivi, p. 65), nel capitolo successivo, “La ferocia degli antenati”, Fachinelli, adottando l’approccio interdisciplinare che era proprio di Freud stesso, ci accompagna nell’esplorazione di un tema antropologico, “La morte e il gruppo arcaico”. Qui egli ci mostra come in esso “il morto non è morto, continua a vivere” (ivi, p. 79; corsivo nell’originale), e questo tramite l’“eternizzazione del morto nel gruppo degli antenati e la sua contemporanea incorporazione nel gruppo dei viventi” (ivi, p. 92). La conclusione a cui l’autore perviene è che il mito è superiore al rituale e che “la religione come insieme organizzato di atti rituali si fa ossessiva non perché sia tale in partenza (come riteneva Freud ...) ma perché entra in crisi il rapporto col dio oggetto del culto” (ivi, p. 99). Così Fachinelli rivisitava il Freud del 1907, il Freud di “Azioni ossessive a pratiche religiose”. È così che nel quarto capitolo, “L’assicella ossessiva”, Fachinelli ritorna al mondo dei nostri pazienti, di cui è ora in grado di mostrarci con chiarezza la “struttura bipolare”, ovvero: “enigmatico a se stesso, l’uomo

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ossessivo è nello stesso tempo generatore della propria enigmaticità” (ivi, p. 104). Vittima di “un arresto di sviluppo nella fase transizionale secondo Winnicott”, che si sostanzia in quello che l’autore chiama “il postulato ossessivo”, ossia il persistere di una parziale indistinzione tra il bambino (che diventerà ossessivo) e l’adulto (da cui dipende), nel caso del paziente ossessivo “ogni movimento di distacco e di autonomia si accompagna al sorgere di insopportabili angosce di distruzione dell’altro e, correlativamente, di se stesso” (ivi, p. 105 e 106). Ed è così che, alla pagina seguente (p. 107), che rientra nel paragrafo “Autonomia e morte dell’altro”, Fachinelli fa finalmente i conti con i limiti della teoria pulsionale di Freud e la rilevanza del punto di vista interpersonale di Sullivan, senza peraltro citarlo per nulla. Ma vediamo questo passaggio con calma: dopo aver sostenuto che “non è necessario postulare alcuna particolare accentuazione, innata o acquisita, dell’aggressività”, l’autore ci chiarisce che per Freud, all’origine della nevrosi ossessiva, vi è “un desiderio di morte dell’altro, che viene successivamente sostituito dall’angoscia per la sua morte”, ovvero “una vicenda puramente pulsionale, che rimanda tutt’al più ad una determinazione costituzionale, organica, della pulsione stessa”. Per Freud, ma non più per lui, Fachinelli. Infatti: “Il postulato che abbiamo indicato [il postulato ossessivo; M.C.] riconduce invece essenzialmente all’idea di una rete costituiva, una rete interpersonale di rapporti e desideri” (corsivo nell’originale), afferma l’autore, sempre a p. 107 de La freccia ferma. Da qui la spiegazione della “posizione d’indecidibilità” che porta l’ossessivo ad incarnare il dilemma filosofico dell’“asino di Buridano”. È così che la sua posizione “di appartenenza e partecipazione al polo onnipotente della diade costituisce ... un’assicella sospesa su due abissi antitetici: l’adeguazione totale alla figura adulta, con scomparsa di sé, e l’autonomia totale da essa, con analogo pericolo immediato” (ivi, p. 109). E da qui il passo è breve per arrivare alla “soluzione ossessiva”, ossia quella che Fachinelli già aveva chiamato “la spersonalizzazione di un conflitto interpersonale”, ossia: “il soggetto effettua uno spostamento del dilemma che lo occupa in un ambito diverso da quello che chiamiamo reale, in un mondo cioè di equivalenze e di corrispondenze simbolico-magiche, aperto appunto all’onnipotenza” (ivi, p. 113; corsivo nell’originale). Ed è così, infine, che Fachinelli è in grado di collegare la psicodinamica del paziente nevrotico ossessivo con il discorso interdisciplinare di più ampio respiro fatto nel libro fino a quel momento, introducendo il concetto della “(con)fusione col morto”, che chiude questo quarto capitolo. Con le sue parole: “Attraverso la ripetizione dei gesti o delle formule, l’ossessivo osan-

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na l’autorità, che nello stesso tempo minaccia di distruggere” (ivi, p. 117), ovvero: “L’ossessivo non riesce ad allontanarsi dal morto, in ogni momento ne ripete l’assassinio e l’espiazione” (ivi, p. 118), e quindi: “In questo senso la sua vita, se si può chiamare vita quella frenesia meccanica di gesti di morte accompagnati da gesti di salvazione, finisce per ridursi unicamente a (con)fusione col morto. La relazione di appartenenza onnipotente si compie col sacrificio ad essa della vita intera” (ibidem; corsivo nell’originale). In altre parole, è proprio su questa base che nel capitolo successivo, “Una microsocietà arcaica”, l’autore rivisita il classico saggio di Freud Totem e tabù (1912-1913), cercando di valorizzare in maniera nuova il tema che lo animava, ossia quello delle “concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici”. Vale a dire il tentativo di Freud, non raccolto dalla ricerca psicoanalitica successiva, di illuminare la patologia fobico-ossessiva, andando al di là dei soli dati clinici, e attingendo ai dati offerti dalle scienze umane, con particolare riguardo per l’antropologia. Ebbene, anche qui Fachinelli si trova ad andare al di là della teoria pulsionale freudiana e a proporci di vedere l’ossessivo in termini di una “microsocietà arcaica”, in cui – a differenza che nella società arcaica in senso stresso – “fallisce una delle operazioni fondamentali dell’economia della morte” (ivi, p. 125). Mentre nella società arcaica “il morto ha una posizione chiaramente isolabile rispetto al resto del gruppo”, nell’ossessivo “il morto è stabilmente compresente nell’individuo” (ivi, p. 132; corsivo nell’originale). A monte di queste conclusioni sta il discorso condotto nel paragrafo centrale di questo capitolo, “Identità di movimenti e differenze di risultati”, che suona nel modo seguente: “Da questo breve riassunto risulta chiaro che i movimenti fondamentali di costituzione della comunità degli antenati negli arcaici, da un lato, e di costituzione di una Legge o Norma rigorosa negli ossessivi, dall’altro, sono gli stessi. Negli arcaici ... chi trasgredisce muore e viceversa; nell’ossessivo il trasgressore non può morire, perché esso è vitalmente unito all’osservante nella stessa persona” (ivi, p. 124; corsivo nell’originale). Se nel sesto e penultimo capitolo, “Il fenomeno fascista”, Fachinelli ci propone di rileggere quest’ultimo, sul piano psicologico, in termini di quella che chiama – mutuando il termine dallo storico Angelo Tasca – “la specifica ‘bivalenza’ fascista” (ivi, p. 147), ossia un conflitto tra amore ed odio per la Patria analogo a quello del paziente ossessivo nei confronti dell’Autorità che ne condiziona la vita, nell’ultimo capitolo, “Spunti e conclusioni”, ci troviamo di fronte a quella che l’autore chiama la “configurazione germinale comune” a ossessivi, arcaici e fascisti (ivi, p. 156)! In questione è quella che Fachinelli chiama “catastrofe del sacro”, intendendo per “catastrofe” – rifacendosi alla teoria della catastrofe di René

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Thom – il salto di qualità, la trasposizione di un elemento su un terreno diverso con sua conseguente trasformazione; e per “sacro”, la coesistenza di orrore e fascinazione. Ed ecco, in concreto, come questo accostamento funziona:

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Se negli ossessivi il sacro pervade gli svolgimenti di una vicenda puerile, in sostanza una storia individuale bloccata ai suoi primordi, col fascismo si è avuto un tentativo, forse il più netto dell’epoca moderna, di sacralizzare la storia di molti uomini, il tentativo di destituirla di una logica propria, immanente, solo parzialmente prevedibile, e di inserire la loro vita in un altro tempo (ivi, p. 166; corsivo nell’originale).

Ma è soltanto nelle ultimissime pagine dell’ultimo capitolo che l’autore perviene a quella sintesi della ricerca condotta in questo libro che prelude già al successivo, Claustrofilia: in questione è il modo in cui pazienti ossessivi, società arcaiche e regime fascista si pongono nei confronti del tempo, che diventa “la cellula genetica” che hanno in comune, in forma dunque di un “cronotipo particolare” (ivi, p. 187). Ma ecco le considerazioni conclusive di Fachinelli stesso, formulate proprio in termini di quel dialogo con Freud che ho promosso a chiave di lettura della sua opera complessiva: Torniamo per un momento indietro: Freud raccolse e perfezionò un sapere sugli ossessivi che era proprio, nel suo tempo, della psicopatologia individuale. Ciò facendo, si avvide che questo sapere interagiva, in modi sorprendenti, con quello raccolto dagli antropologi intorno alle società arcaiche. A questo punto egli tentò una sintesi o unificazione che, mentre apparve sostanzialmente estranea agli psicoanalisti, suonò incongrua o mitologica agli antropologi. Era invece, secondo il mio parere, per un verso prematura, per un altro verso manchevole di un principio fondante incontestabile ... il tempo; attraverso l’esame della sua elaborazione giungiamo infatti a qualcosa che è comune ad ossessivi ed arcaici, e comprendiamo perchè; non soltanto: [giungiamo anche; M.C.] a qualcosa che ci consente di gettare un ponte verso l’esperienza storica di una società contemporanea (ibidem).

Se con La freccia ferma Fachinelli trovò il modo – come aveva fatto nei tre scritti che compongono “Il paradosso della ripetizione” – di andare al di là di Freud, e di rammendarne le lacune, nel libro successivo lo vedremo prendere in mano aspetti della psicoanalisi che Freud stesso non era proprio riuscito, o aveva rinunciato ad approfondire.

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5. Claustrofilia, 1983 Accompagnato dal sottotitolo Saggio sull’orologio telepatico in psicoanalisi, ed uscito anch’esso da Adelphi, questo libro si compone di nove capitoli divisi in tre parti: “L’orologio di Freud” (tre capitoli), “L’area claustrofilica” (cinque capitoli), e “Il ritorno del tempo” (un capitolo). In complesso, si tratta di un libro in cui la scrittura di Fachinelli si distende ed è più facile seguirlo, nelle evoluzioni del suo pensiero, che nel libro precedente. Godibilissimo è ad esempio il primo capitolo, “La cura d’anime nel tempo delle macchine”, in cui l’autore, fondandosi di nuovo sul suo lavoro di traduttore degli scritti di Freud sulla tecnica, ci presenta Freud stesso al lavoro coi suoi pazienti, da Emmy von N. degli “Studi sull’isteria” al musicista Gustav Mahler, fino ai princìpi da lui impartiti in “Inizio del trattamento” del 1913. In questione è quello che l’autore chiama “un mutamento epocale” nell’uso del tempo, che da “ancora semifeudale e nettamente discontinuo” diventa “cronometrico”, un mutamento di cui “nemmeno lo stesso Freud sembra essersene accorto, sul momento” (1983, p. 23). È così che nel secondo capitolo, “La cura diventa interminabile”, ci troviamo davanti al modo in cui, da una parte, le indicazioni di Freud, “ancora cautamente personali, diventarono ... le regole chiamate ‘classiche’” (ivi, p. 29), e, dall’altra, “impressionante” – ci spiega l’autore – è “il prolungamento della durata del trattamento psicoanalitico dall’inizio del secolo” (ivi, pp. 3031). Nel frattempo la psicoanalisi è diventata “un’istituzione riconosciuta e di notevole prestigio” (ivi, p. 38). Che fare dunque? “Occorre ... riprendere lo scritto del 1937 sull’Analisi terminabile e interminabile – scrive Fachinelli – e interrogarlo” (ivi, p. 39). È così che nel terzo capitolo, “Tempo definito e tempo indefinito”, l’autore non solo traduce per noi, dal punto di vista etimologico, il termine freudiano di Einfall, che diventa “una caduta dentro la mente” (ivi, p. 45), caduta a carattere puntuale e del tutto unica, ma introduce anche la dimensione opposta, quella che chiama “la trasformazione dell’analisi in un rapporto abituale” (ivi, p. 51), soprattutto da parte di quei pazienti che mostrano “una difesa del tempo analitico che supera quella di qualsivoglia analista” (ivi, p. 52). Di che cosa si tratta? È a questo punto che entriamo nella seconda parte, “L’area claustrofilica”, nella quale ci introduce “La ragazza della casa-fortezza”, che dà il titolo al quarto capitolo, e i cui sogni perinatali ci portano appunto in questa nuova area dell’esperienza analitica, che Fachinelli ci dice di aver coniato “per sottolineare l’intensità e la forza della spinta al claustrum, al chiuso” (ivi, p. 63; corsivo nell’originale). Di che si tratta? Nel quinto capitolo, “Soggiorno intrauterino, nascita, scena pri-

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maria”, troviamo un ricco materiale clinico, proveniente direttamente dal lavoro terapeutico dell’autore, inteso a documentare ed illuminare questa nuova dimensione del rapporto analitico. Trattasi forse di una dimensione che a Freud stesso era sfuggita? Proprio questo è quanto apprendiamo nel capitolo successivo, “Le acque si mescolano”, ovvero “come la negazione pregiudiziale di un’esperienza psichica prenatale abbia messo Freud in difficoltà insormontabili” (ivi, p. 88). Per inciso, qui Fachinelli cita un importante lavoro di Mauro Mancia, sull’inizio della vita mentale nel feto, “On the beginning of mental life in the foetus”, uscito nel 1981 sull’International Journal of Psychoanalysis. È così che approdiamo al capitolo centrale del libro, “I dintorni del magico”, in cui l’autore, per chiarire il suo pensiero, ricorre alla presentazione di sequenze di analisi di suoi pazienti. Incontriamo così la paziente Lorenza e il paziente Andrea, ovvero il modo in cui nel lavoro terapeutico con loro condotto realtà e fantasia vengano a mescolarsi al punto da porre a Fachinelli il problema della telepatia. Si tratta di un problema che Freud stesso aveva affrontato in un breve scritto del 1921, che aveva poi sottratto alla pubblicazione, avvenuta solo dopo la sua morte. Chiude questa seconda parte il capitolo ottavo, “L’assorbimento dell’altro”, il più lungo del libro (Fachinelli, 1983, pp. 141-182), in cui l’autore cerca di pervenire ad una visione d’insieme della nuova dimensione clinica da lui individuate, l’area claustrofilica. Accompagnata da sogni e fantasie di nascita-parto, gravidanza-soggiorno intrauterino e scena primaria, in essa si riscontrano anche: fenomeni di predominanza percettiva, rapporti di co-identità e coincidenze inquadrabili nella cosiddetta percezione extrasensoriale (cfr. ivi, p. 142). Se a proposito dei fenomeni di predominanza percettiva, Fachinelli si appoggia in parte sul lavoro di Melanie Klein e dei suoi allievi (come per esempio, il Meltzer di Stati sessuali della mente, tradotto in italiano nel 1975 da Giuseppe Di Chiara, citato nella nota 2 delle pp. 148-149), per quanto riguarda i fenomeni di co-identità in questione è sia il tema del doppio, originariamente introdotto in psicoanalisi da Otto Rank, che l’approfondimento della conoscenza della dimensione narcisistica legato al lavoro di Heinz Kohut (cfr. la nota 2 di p. 156). Analogamente al transfert speculare identificato da quest’ultimo, l’autore descrive “una ricerca di identità-partecipazione con una madre-analista in individui separati da me” (ivi, p. 159). Per quanto riguarda infine la dimensione della percezione extra-sensoriale, Fachinelli la approfondisce in relazione alla tematica del cosiddetto “trauma della nascita”, introdottta da Otto Rank: a suo avviso, le nuove scoperte sulla vita psichica del feto ci permettono di superare l’artificiale spartiacque

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della nascita stessa, e ci impongono di postulare una continiuità tra vita psichica fetale e neonatale. È così che approdiamo all’ultimo capitolo di Claustrofilia, il capitolo nono, “Freud, Lacan e il discontinuo”, l’unico capitolo della terza parte, a cui Fachinelli mette mano partendo dalle seguenti considerazioni conclusive: La tesi generale alla quale siamo arrivati è dunque la seguente. Se la psicoanalisi vive ancora oggi in prevalenza della partecipazione di persone che ad essa chiedono, consapevolmente, una modificazione rispetto a difficoltà che incontrano nella loro vita, è però vero che la struttura temporale dell’analisi, così come si è istituita e codificata, favorisce in queste persone il passaggio o il ritorno a un livello evolutivo dei rapporti in cui domina un’unita duale con la figura dell’altro. In quanto non viene riconosciuto, questo stato agisce nascostamente, in modo mascherato, all’insaputa dell’analista e della persona in analisi, e produce quale suo sintomo quel prolungamento indefinito dell’analisi a cui assistiamo da decenni. L’esclusione dall’analisi del livello o area claustrofilica si accompagna necessariamente all’esclusione quasi totale della problematica temporale, sia in termini generali, sia nella sua incidenza concreta in ogni svolgimento analitico, perché questa problematica ha come premessa l’uscita dall’unità duale (ivi, p. 185).

Se con Claustrofilia Fachinelli andava dunque ben al di là di Freud, questo gli riusciva ancora meglio nel suo ultimo libro, che ora prenderemo brevemente in esame.

6. La mente estatica, 1989 Dedicato alla figlia Giuditta (nata nel 1983), La mente estatica esce all’inizio del 1989, l’anno della prematura morte dell’autore, il cui dialogo con Freud fa segnare, in questo suo ultimo libro (uscito a distanza di sei anni dal precedente), un’interessantissima ulteriore evoluzione. In esso Fachinelli non solo annette alla psicoanalisi un nuovo territorio, quello che nel Medioevo veniva attribuito al cosiddetto apex mentis, ma riesce addirittura a giustificare questa operazione riprendendo in mano l’autoanalisi di Freud – su cui aveva tanto insistito nel suo scritto del 1966 – di cui modifica il corso e l’esito. Ma ecco come l’autore parla, di questa sua ricerca, nella premessa del libro: Si tratta di superare, in definitiva, il nostro generale disconoscimento dell’estatico, cogliendo in esso un momento originario di molteplici esperienze; probabil-

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mente delle esperienze più creative della vita umana. L’apex mentis, l’apice della mente secondo la definizione medioevale, ne è anche alla base, e non può essere ridotto alla situazione mistica, che è soltanto una delle sue forme. Abbiamo dunque davanti un’esigenza antropologica, che sta a noi non perdere né sciupare” (1989, p. 12; corsivo nell’originale).

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È così che, dopo aver confermato come anche in questo caso prioritaria sia per lui la dimensione e la rilevanza antropologica della psicoanalisi, che non la sua portata terapeutica, egli così ci propone la dimensione autoanalitica, mutuata da Freud: In alcune parti di questo scritto, è sorta la necessità di coinvolgermi ed espormi in prima persona; di dover insomma usare me, in alcuni territori, come unica bussola dell’esplorazione. Strumento imperfetto, fragile: non ne avevo altri. Sua verità: modesta. Suo uso: paziente e senza fine (ibidem).

È così che Fachinelli inizia la sua ricerca “Sulla spiaggia”, come suona il titolo del primo capitolo, in cui lo troviamo a San Lorenzo al Mare, in un “pomeriggio ventoso di settembre” (ivi, p. 15), a meditare intorno alla psicoanalisi costruita fin dall’inizio intorno all’ “idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno” (ivi, p. 16), ed incapace di cogliere “ciò che si potrebbe chiamare l’ipernormale, il comportamento infrequente, talvolta raro, talvolta persino eccezionale, che però riempie e feconda il comportamento medio, statistico” (ivi, p. 24; corsivo nell’originale). Date queste premesse, è nel secondo capitolo, “Zerografie”, che l’autore precisa il tema specifico del libro: Se ne potrebbe concludere che tra noi l’estasi è ammessa come esperienza diffusa e partecipabile soltanto nell’ambito dei sentimenti e dell’estetica. Non riconosciuta o cancellata, o ridotta a formula d’uso, altrove – dove è stacco rapinoso, estraniante. Forse si tocca qui una resistenza di fondo della nostra cultura, il rifiuto di una potenza antropologica avvertita come incompatibile e dissolvitrice ... Affrontare l’estatico nelle sue punte supreme, o baratri: è giusto e necessario (ivi, pp. 41-42).

È dunque nel terzo capitolo, “Percorsi con tratti comuni”, che Fachinelli ci offre un quadro di come la dimensione estatica abbia svolto un ruolo così importante nell’opera di un mistico come Meister Eckhart, un poeta come Dante e uno scienziato come il matematico Poincaré. Se nel quarto capitolo, “Resoconti”, ci troviamo confrontati con la sintesi della sua personale esperienza con la psilocibina (lui che aveva cominciato la sua professione

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medica lavorando nel laboratorio di una casa farmaceutica), nel capitolo successivo troviamo Fachinelli impegnato a fare il punto sul tema del suo libro precedente, “L’area perinatale”. E qui l’autore non soltanto si trova a ricusare, sulla base della ricerca più recente sulla vita psichica del feto e del neonato, il concetto freudiano di “autismo primario normale” (cfr. ivi, p. 119), ma anche a valorizzare la linea di ricerca portata avanti da Daniel Stern, sulla scia della tradizione interpersonale inaugurata da H.S. Sullivan. Essa ci permette infatti di riconoscere nel neonato stesso stati emotivi di natura estatica, collegati alla condizione di profonda unione con la madre, e alternantisi a stati di distinzione dalla madre stessa. Di grande attualità sono quindi le considerazioni che Fachinelli pone a conclusione di questo capitolo: Restano da considerare i fenomeni che ho chiamato di risonanza, presenti già nel neonato e che sembrano costituire un momento ben distinto, diverso dall’empatia vera e propria. È suggestivo collegarli, per vari motivi che sono emersi via via nell’esposizione precedente, con i fenomeni di coincidenza notati in alcuni momenti dell’analisi. Si tratta di un ambito di ricerche e riflessioni che è finora rimasto una sorta di ‘terra di nessuno’ dal punto di vista scientifico. Non è un caso però che la psicoanalisi lo incontri inevitabilmente, nello sviluppo della relazione analitica. Da questa inevitabilità dell’incontro nasce, io credo, la necessità di un’ulteriore investigazione da parte dei ricercatori più sensibili e coraggiosi (ivi, p. 124).

Se il punto di vista adottato dall’autore in questo libro ci richiama il modo in cui Hans Loewald cercò di rivisitare il rapporto tra processo primario e processo secondario, queste ultime considerazioni ci fanno pensare alla più recente ricerca neurofisiologica, sui “neuroni specchio”, portata avanti in Italia dalla Scuola di Parma – ovvero da ricercatori sensibili e coraggiosi con cui Fachinelli avrebbe collaborato molto volentieri. Ma veniamo ora all’ultima parte del libro, dal titolo “Essi temevano la gioia eccessiva”, che l’autore presenta come “uno scavo in alcuni scritti di Freud e Lacan, da cui è emerso ciò che si è letto prima” (ivi, p. 127), ovvero scritti e riflessioni di Fachinelli su di essi che rappresentano “antecedenti indispensabili, che si è preferito posporre al resto per accentuare la cesura tra il prima e il dopo del percorso” (ibidem; corsivo nell’originale). In questione è dunque il fatto di come, anche nel caso di questa sua ricerca, la riflessione sulla e la rivisitazione dell’opera di Freud avessero rappresentato il punto di partenza del suo lavoro. Con l’unica differenza che ne La mente estatica Fachinelli parte dall’opera di Freud per entrare nel merito, ovvero

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nel cuore della sua stessa autoanalisi, facendo dunque riferimento non solo alle sue opere, ma anche al corpo intero delle sue lettere. Nelle sue parole:

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Qui mi propongo di mettere in luce un elemento di singolare innovazione contenuto – in modo dissimulato, ma alla fine, mi sembra, ben evidente – in alcuni scritti ... dell’ultimo periodo: elemento dal quale può prendere spunto una ricerca più ampia e a prima vista estranea al freudismo come lo si intende comunemente (ivi, p. 128).

Naturalmente, qui è facile farsi venire in mente anche il concetto fachinelliano di “ripresa” – presentato sopra – nel senso di ritornare sui propri passi per poi cambiare direzione di marcia. È così che l’autore accompagna Freud nell’evoluzione del suo rapporto col cosiddetto “sentimento oceanico”, citato per la prima volta ne “Il disagio della civiltà” (1929) e messo poi definitivamente a fuoco nel “breve frammento autoanalitico del 1936, l’ultimo pubblicato da Freud” (ivi, p. 134), ossia “Un disturbo di memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland”. Anzi ... lo accompagna nel viaggio ad Atene e nella visita di essa compiuta col fratello Alexander nel 1904, venendo a scoprire come dietro alla figura del padre, nel frammento del 1936, sia percepibile quella del grande amico Wilhelm Fliess, il “compagno segreto” (ivi, p. 153) di Freud. E qui, Fachinelli non solo coglie – sulla scia di Sartre – il “momento di affascinamento, di innamoramento iniziale” (ivi, p. 155: corsivo nell’originale)) tra i due, ma anche la “struttura di combaciamento o completamento reciproco” (ivi, p. 157; corsivo nell’originale) del loro rapporto, fino ad arrivare a presentarcelo come “l’autentico DAIMONIOS di Freud” (ivi, p. 161). In altre parole: Si può dire senza esagerazione che Fliess dà a Freud, col suo esempio, il permesso di fantasticare senza limiti, nell’ambito ben circoscritto e riservato della loro unione: al limite, il permesso di delirare (ivi, p. 162; corsivo nell’originale).

È così che, dopo aver criticato il modo in cui Ernst Kris ridimensionava nel 1950 questa relazione – estremamente rilevante – per la scoperta della psicoanalisi, Fachinelli riconduce quest’ultima alla dimensione estatica vissuta da Freud nel rapporto con Fliess, che nella lettera del 21 maggio 1984 aveva definito il suo “unico altro” (cfr. ivi, p. 179). Ma ecco le precise parole dell’autore: Non c’è dubbio che il momento fecondante fu dato dai ‘congressi’ tra i due amici – le notazioni di Freud in proposito sono assolutamente univoche – e questo momento annega in una gioia “immensa”, smisurata (ibidem, p. 180).

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E ancora: se proprio nella visita all’Acropoli ateniese in Freud si affacciò “una gioia smisurata”, una gioia tale “da mettere in pericolo il senso della propria identità e far sorgere l’immagine di un riassorbimento nell’oceano materno”, ovvero una gioia smisurata “contigua al terrore dell’annichilimento” (ibidem), è proprio questo il punto a partire del quale possiamo tentare di operare il cambio di direzione insito nel concetto di “ripresa”. Nelle parole di Fachinelli:

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Ci affacciamo a questo punto su una zona di incrocio aperta alla ricerca psicoanalitica attuale, che coinvolge nello stesso tempo territori antropologici finora ai margini della psicoanalisi. È una zona, una ‘terra promessa’, che tormentò il pensiero di Freud negli ultimi anni ... ma che a lui fu vietato di raggiungere (ibidem).

7. Scritti e interviste, 1958-1989 Vengo infine al secondo volume delle Opere di Elvio Fachinelli, curate da Lea Melandri per Bollati Boringhieri, volume dal titolo Scritti e interviste, 19581989, al quale già ho accennato sopra – compreso il fatto che si tratta di un opera per ora destinata a rimanere inedita. Scorrendo l’indice del volume alla ricerca di articoli contenenti il nome di Freud nel titolo – come era il caso della voce di enciclopedia del 1966 di cui mi sono occupato in dettaglio nella prima parte di questa relazione – sono arrivato alla somma di cinque articoli, di cui gli ultimi quattro usciti negli anni 1982, 1986 e 1989. Se molti altri sono i lavori riuniti in questo volume in cui Fachinelli si occupa di un tema psicoanalitico, Freud come figura e come tema specifico rimase sempre al centro della sua ricerca. In altre parole, anche da questo punto di vista troviamo confermata l’ipotesi della mia relazione: il dialogo con Freud va visto come una dimensione portante, costante e cruciale della sua opera. Vediamo dunque di dire due parole su questi quattro scritti. Molto in sintonia con il nostro convegno di oggi e domani in sua memoria – oltrechè col filo della mia relazione – è l’ultimo paragrafo dello scritto “Sulla scena dell’inconscio. Sigmund Freud e Cesare Musatti davanti allo specchio”. Si tratta di uno scritto che prende lo spunto dalla pubblicazione, da parte di Musatti, di uno dei suoi cosiddetti “libretti” più famosi, Mia sorella gemella la psicoanalisi, e che unisce la breve recensione che Fachinelli aveva scritto per il settimanale L’Europeo e il testo (finora inedito) del suo intervento alla presentazione del libro avvenuta a Milano, alla Casa della Cultura, il 3 aprile 1982 – presenti, oltre a Musatti, Enzo Funari, Riccardo Luccio e Renato Sigurtà.

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Ed eccone l’ultimo paragrafo: A questo punto, giacchè siamo su un terreno personale, vorrei concludere con un episodio singolare. Quanti hanno letto questo libretto sanno che Musatti vi racconta una sua fantasia basata sulla vicinanza temporale e spaziale tra Freud che viaggia in Italia e lui che sta nascendo vicino a Venezia, la fantasia di essere gemello della psicoanalisi, e insomma figlio di Freud. Ora questa fantasia mi ha richiamato alla mente un fatto molto personale della mia analisi: nell’ultima seduta, proprio negli ultimi minuti, Musatti mi disse che durante tutta l’analisi aveva desiderato dirmi – ma non l’aveva mai fatto – che era sorto tra me e lui un elemento di intimità: egli aveva trascorso buona parte degli anni di infanzia in un paese vicino a Folgaria, a pochi chilometri dal paesino di montagna dove sono nato io, Luserna, non lontano dall’Altopiano dei Sette Comuni. Ecco, devo ammettere che la rivelazione di questa contiguità spaziale mi toccò molto: e con ciò, lo ripeto, non intendo dire di sentirmi figlio di Musatti come egli si sente di Freud, ma certo mi sento, vorrei essere, parente o amico di questo maestro folletto che è passato vicino a Vienna, Venezia, Padova, Milano, e anche vicino a Luserna (op. cit., p. 1126).

Il dialogo con Freud che caratterizza l’opera di Fachinelli si arricchisce di una tappa ulteriore con l’articolo “E le chiacchiere di Freud diventarono racconto”, uscito sul Corriere della sera del 1° maggio 1986, prendendo spunto dalla pubblicazione da parte di Stefano Ferrari di un prezioso volume dal titolo Psicoanalisi, arte e letteratura. Bibliografia generale 1900-1983. In esso egli fa il punto del rapporto tra psicoanalisi e letteratura, che conclude proponendo che, accanto all’applicazione della psicoanalisi alle scienze umane, prenda corpo lo studio della psicoanalisi da parte di queste ultime. Nelle sue parole: Ma proprio la consapevolezza di ciò che è radicalmente nuovo e diverso nell’esperienza analitica – e che per certi versi è anche arcaico – potrebbe dare senso e fecondità a quella ampia fascia di studi che coinvolge psicoanalisi e arte o letteratura. A condizione però di operare un rovesciamento vero e proprio dell’oggetto d’esame. Non più (o non soltanto) disseminazione dell’analisi negli sconfinati territori della letteratura, dell’arte e della varia ‘umanità’; ma piuttosto, curiosità, scrutinio retorico, interesse scientifico verso un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la ‘nobile sofistica’ di Protagora e Socrate (ivi, pp. 1210-1211).

È ricorrendo all’identificazione di Freud con Mosè, il Mosè di Michelangelo di San Pietro in Vincoli, che Fachinelli inquadra il tema “Freud e i processi collettivi”, un tema propostogli nel 1989 da Francesco Marchioro:

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L’ambivalenza che Freud prova di fronte alla statua di Mosè è causata dal fatto che da un lato si sente figlio e dall’altro padre: in quanto ‘figlio’ egli avrebbe preferito non rinunciare alla sua impetuosa passione, ma ne viene impedito dal “padre” Mosè sotto minaccia di punizione; in quanto “padre” deve dominare la sua ira verso i “figli” ribelli che disprezzano le sue regole proprio per non compromettere questi stessi dettami (ivi, p. 1276).

Costruito intorno al dialogo tra Freud e il grande poeta Rilke – da cui prende le mosse lo scritto freudiano del 1915 “Caducità” – lo scritto “Freud, Rilke e la caducità”, uscito sul manifesto della domenica del 22-23 gennaio 1989, ci pone di nuovo in contatto col Fachinelli che, partendo da Freud, è in grado di andare al di là di Freud, di riprendere il discorso freudiano e di imprimergli una nuova svolta. “Se però guardiamo le cose più da vicino, tutto si complica”, scrive l’autore, dopo aver spiegato come mai Freud nel suo dialogo con Rilke contrapponga alla tristezza del poeta la sua “speranza fondata, fondata sulla capacità di elaborare il lutto della perdita, anche se immane” (ivi, p. 1280). Infatti, a detta di Fachinelli: Il mondo solido e duraturo che Freud si augurava sorgesse dalla catastrofe, non sorse affatto. Al contrario, in Europa sorsero nazismo e fascismo e con essi scoppiò una guerra ancora più spaventosa della prima. Non solo! Lo stesso Freud, attraverso la costruzione teorica della pulsione di morte, giunse a dubitare della possibilità di opporsi alla distruttività generalizzata. In modi certo molto diversi, pervenne a una visione piuttosto vicina a quella del giovane poeta incontrato anni prima. Si potrebbe persino pensare, senza forzatura, che la voce di questi, rifiutata con tanta sicurezza, corrispondesse a una voce segreta in lui. Ma una voce che sarebbe emersa più tardi (ivi, pp. 1280-1281; corsivo nell’originale).

8. Il dialogo con Freud: considerazioni conclusive Nel suo scritto “Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano”, redatto allo scopo di introdurre il lettore ai due volumi delle Opere di Elvio Fachinelli preparate da Bollati Boringhieri, Lea Melandri insiste sul ruolo cruciale svolto nell’opera del nostro autore dal concetto di “ripresa”. Ebbene, come ho cercato di dimostrare questo concetto ben si applica anche al suo dialogo con Freud, un dialogo che pervade l’opera del nostro autore in maniera sistematica e che gli permette di rivisitarne la complessa eredità in maniera estremamente creativa ed attuale. Con questo voglio anche dire che ritengo opportuno che Fachinelli sia

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ricordato, prima ancora che come il grande intellettuale che senz’altro era, per l’attività che quotidianamente svolgeva, quella di psicoanalista. Un’attività di ricerca coi suoi pazienti e di approfondimento e revisione di questa affascinante disciplina nella quale eccelleva, e che gli consentì di sviluppare tutta una serie di fertili spunti, sui quali vale tuttora la pena di ritornare.

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Bibliografia Bonoldi, G. curatore (1976). Il corpo, 1966-1968. Milano, Moizzi. Conci, M. (1996). Introduzione. In: Catalogo bibliografico trentino, a cura di, Frutti della claustrofilia. Catalogo del Fondo Fachinelli della Biblioteca Comunale di Lucerna. P.A.T., Trento, pp. III-VII. Conci, M. (1996-1997). Elvio Fachinelli. A profile. Journal of European Psychoanalysis, Spring 1996-Winter 1997, pp. 157-162. Conci, M. (1998). Fachinelli a Trento. Uomo città territorio, N. 271-272, pp. 31-38. Conci, M., Marchioro, F. curatori (1998). Elvio Fachinelli. Intorno al ’68. Un’antologia di testi. Roma, Massari Editore. Conci, M., Marchioro, F. (1998). Introduzione. In: Elvio Fachinelli. Intorno al ’68. Un’antologia di testi. Roma, Massari Editore, pp. 7-51. Fachinelli, E. (1966). Freud. In: I protagonisti della storia universale N.52. Milano, C.E.I., pp. 365-391. E in: Opere, vol.2, pp. 778-812. Fachinelli, E. (1974). Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thé. Milano, Feltrinelli. Fachinelli, E. (1979). Premessa alla terza edizione. In: Il bambino dalle uova d’oro. Milano, Feltrinelli, pp. 7-9. Fachinelli, E. (1979). La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo. Milano, Adelphi, 1992. Fachinelli, E. (1982). Sulla scena dell’inconscio. Sigmund Freud e Cesare Musatti davanti allo specchio. In: Opere, vol. 2, pp. 1122-1226. Fachinelli, E. (1983). Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi. Milano, Adelphi. Fachinelli, E. (1986). E le chiacchiere di Freud diventarono racconto. In: Opere, vol. 2, pp. 1207-1211. Fachinelli, E. (1989). Freud e i processi collettivi, In: Opere, vol. 2, pp. 1272-1276. Fachinelli, E. (1989). La mente estatica. Milano, Adelphi. Fachinelli, E. (1989). Freud e i processi collettivi. In: Opere, vol. 2, pp. 1272-1276. Fachinelli, E. (1989). Freud, Rilke e la caducità. In: Opere, vol. 2, pp. 1277-1282. Fachinelli, E. (1996-1997). Lacan and the thing. Journal of European Psychoanalysis, Spring 1996-Winter 1997, pp. 163-172.

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FACHINELLI:

IL DIALOGO CON

FREUD

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Seconda sezione

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Psicoanalisi della domanda. Testimonianze e studi

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La “ripresa” estatica di Elvio Fachinelli

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di Sergio Benvenuto

«Quale cosa tra le cose, ogni cosa è ugualmente insignificante; quale mondo, ognuna è ugualmente significante. Se ho contemplato la stufa e mi si viene a dire: ma adesso non conosci che la stufa, certo il mio risultato sembra esiguo. Così infatti la si mette come avessi studiato la stufa tra le molte, molte cose del mondo. Ma se ho contemplato la stufa, essa era il mio mondo, e di contro tutto il resto scoloriva». L. Wittgenstein1 «Ogni cosa è in se stessa, isolata, staccata da tutto il resto. In una sfera. Il mio sguardo è questa sfera». E. Fachinelli2

1. Molti interventi in questo convegno si riferiscono all’ultima parte del pensiero di Elvio Fachinelli, in particolare a La mente estatica. Segno dei tempi. Sfortunatamente una nube giornalistica, e in parte storiografica, circonda Fachinelli e lo caricatura: quella dello “psicoanalista del ’68 e dintorni”. Certo l’impegno politico-culturale di Fachinelli, soprattutto negli anni ’60 e ’70, fu vistoso, denso, attraente, ma andrebbe riletto come ripresa di alcuni grandi movimenti di pensiero mitteleuropei della prima metà del secolo3. Cercava di trovare, in italiano, una scrittura di cui i Minima Moralia di Adorno, la Parigi capitale del XIX secolo di Benjamin, certe opere di Bataille – e più di recente di Baudrillard gli offrivano il modello. Anche se ovviamente “la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del

1 Wittgenstein L., 1961, Notebooks 1914-1916, Oxford: Basil Blackwell [tr. it. Quaderni 19141916, Torino: Einaudi, 1964], 8-X-1916. 2 E. Fachinelli, 1989, La mente estatica, Milano: Adelphi, p. 75. 3 Come io stesso ho cercato di fare: Benvenuto S., “La ‘gioia eccessiva’ di Elvio Fachinelli” in Fachinelli E., 1998, Intorno al ’68. Un’antologia di testi, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Roma: Massari Editore, pp. 249-278. http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto.htm

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

fuoco”4. I suoi interventi giornalistici, in apparenza reazioni adesive all’attualità, riprendevano la riflessione critica sulla contemporaneità di Walter Benjamin. Ovvero, voleva guardare il mondo che si trasforma sotto i nostri occhi non con le lagnose lenti fumées della spocchiosa denuncia dell’oggi, ma con una distanza che svelasse, del proprio tempo, la gioia e l’orrore. Gioia e orrore: proprio i termini che illustrano l’esperienza estatica. Ha egli cercato di guardare estaticamente la contemporaneità? In ogni caso, la sua si voleva una riflessione sul presente. nei cui confronti si intrecciavano ironicamente simpatia e diffidenza. I suoi interventi preannunciavano l’effervescenza, nei campus anglo-americani, dei Cultural Studies – che però, ne sono sicuro, avrebbe canzonato per il loro schematismo. Non amava quella Arcadia nazional-popolare che negli anni ’70 dominò il gusto delle masse di sinistra: passione erudita per le canzoni popolari, per vecchie feste contadine, per il folklore delle ‘culture subalterne’. Fachinelli non si crogiolava nel rimpianto agro-pastorale. Una volta andò a seguire una serie di performance organizzate da Eugenio Barba – all’epoca uno dei maestri indiscussi del “teatro povero” – in una zona rurale del bergamasco. Ne tornò molto deluso. Mi disse più o meno: “Barba ci ripropone le balere e le mazurche, e non si rende conto che questo mondo bucolico ormai esiste solo nelle menti degli intellettuali delle metropoli. Gli ex-contadini sono acculturati dalla televisione, la cultura popolare oggi è Mike Bongiorno non le danze in costume. Vidi nella folla F.5 e mi avvicinai per manifestargli le mie perplessità: ma vi rinunciai ben presto, lo vidi così estasiato per lo spettacolo…”. Indubbiamente Fachinelli non era un conservatore, soprattutto non un conservatore di sinistra. La prima volta che mi parlò di sua figlia Giuditta, che aveva allora pochi mesi, trovò importante dirmi questo: che la bimba, maneggiando lo zapping della TV, aveva capito la relazione tra pulsante e cambiamento di programma. Non mi parlò affatto del suo rapporto col seno materno, con l’oggetto transizionale, ecc.: era la sua precoce iniziazione alla tecnologia che lo affascinava. E aggiunse: “Una bambina che già fa così, da grande la penserà diversamente da noi.” Ora Giuditta è grande, la conosco bene, e pensa davvero così diversamente da suo padre e me? Probabilmente sì (anche se forse non lo ammetterebbe). Fachinelli non pensava alla tecnologia come al Bau Bau, all’orrore che ci devasta, ma come al brodo dolce-amaro nel quale dobbiamo vivere. Credo che suo modello fosse L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di 4 5

E. Fachinelli, “Sulla spiaggia”, in La mente estatica, cit., p. 24. Celebre critico teatrale d’avanguardia.

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LA “RIPRESA”

ESTATICA DI

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ELVIO FACHINELLI

Benjamin6, un inno alle nuove tecnologie di riproduzione (foto, cinema, ecc.) allora nuove: forse pensava che sua figlia fosse nell’Epoca dello Spettacolo come Variabilità Tecnica. Oggi la riproducibilità dell’opera non ci fa né caldo né freddo: sappiamo che tutto è riproducibile – persino la vita biologica. Quello che invece ci assilla e ci turba è la fulminea obsolescenza, la caducità, di ogni prodotto. Viviamo nell’epoca dell’opera – anche letteraria e scientifica – usa-e-getta. Nulla resta, panta rei. Il futuro continuamente divora non solo il passato, ma anche il presente, che perde la sua stasi estatica. Ma non a caso Fachinelli, così già sensibilizzato alla volatilità tecnologica – alla società liquida, come si usa dire oggi – conclude la sua opera parlando di estasi. Rivendica cioè una passività fondamentale come controcanto ad un mondo tecnologico sfrenatamente attivistico. Da una parte il remote control della bimba che cambia le immagini a suo piacimento, dall’altra invece un no control passivo, anti-pragmatista, con la natura che ci attraversa.

2. Negli anni ’70 alcuni – di sinistra – mi rimproveravano “ma come fai a collaborare con quell’estremista di Fachinelli?” In effetti, avevo da tempo abbandonato gli astratti furori del radicalismo Marxista, e propendevo verso progetti politici più moderati, meno sublimi. Eppure il radicalismo libertario di Fachinelli non mi irritava perché non aveva nulla del dogmatismo presuntuoso di tanti allora, non era certezza spocchiosa e ingenua nelle proprie interpretazioni: vi vedevo piuttosto un bisogno dionisiaco, quasi infantile, di giocare… Il formicolio dei movimenti di allora, il loro variopinto bailamme, lo divertiva. Sentivo che la sua sensibilità quasi estetica allo Zeitgeist era sempre più forte delle sue convinzioni, dalle quali potevo dissentire senza che per questo mi tenesse il muso. Ad esempio, gli dissi di non condividere affatto la sua simpatia per i comunisti portoghesi nel loro attacco al socialista Soares, dopo la Rivoluzione dei Garofani7. Il suo sinistrismo – fin quando è durato – non è mai stato torvo, escludente. Di fatto bersaglio preferito della sua ironia era invece un certo autocompiacimento predicatorio degli “extra-parlamentari”. Elvio era satirico, disincantato. 6

W. Benjamin, 1936, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino: Einaudi, 1966. 7 Di cui parla in E. Fachinelli, 1976, Uma tentativa de amor, Roma: Cooperativa Scrittori.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

Negli anni ’70 parlammo di Dario Fo, all’epoca all’apice della popolarità e della militanza. Mi confidò che si annoiava ai suoi recitals: “Fo è bravo ma esige la complicità politica del pubblico – disse più o meno – per cui si deve ridere come atto militante. Se non ridi, sei quasi un nemico di classe.” Non lo incantavano i giullari virtuosi e costruttivi. Elvio non voleva essere affatto un predicatore nel deserto, la mondanità gli piaceva, non mancava di una certa vanità: amava scrivere sui grandi media come “L’Espresso”, parlare a folle – certo selezionate, ma sempre folle. Voleva convincere tante persone intelligenti, non la cerchia dei pochi e cari allievi che ascoltano con la bocca aperta il Maestro che pontifica dalla sedia a dondolo. Dopo aver trascritto la nostra conversazione sulla SPI8, Elvio pensò subito di farla pubblicare su un periodico diffuso. Io proposi il prestigioso trimestrale Psicoterapia e Scienze Umane, al che Elvio replicò “Così sarebbe seppellirla”. Fu contento invece quando uscì, anche se in forma ridotta, su “L’Espresso”. Ma credo che anche se la avessi proposta all’International Journal of Psychoanalysis – la rivista dove qualunque psicoanalista SPI sogna di pubblicare – avrebbe preferito “L’Espresso”. Perché il suo pubblico di riferimento non era solo quello di psicologi e psicoanalisti. Come tutti gli intellettuali veramente generosi, non voleva rinchiudersi nel ghetto confortevole ma angusto dei professionals. E si divertì quando gli feci sapere che – dopo la pubblicazione della conversazione su “L’Espresso” – Francesco Corrao, uno dei massimi leader della sezione italiana dell’IPA, ne era infuriato, dato che Elvio vi aveva criticato a fondo il sistema di training della SPI. Si capiva che mandare in bestia i majores della sua stessa società era uno dei suoi più deliziosi – e affatto segreti – piaceri. Elvio pensava insomma che i grandi media fossero il veicolo indispensabile a un mutamento culturale. Temeva ma non disprezzava l’inconscio collettivo, un vero analista non disprezza mai l’inconscio. Un matrimonio difficile ma indissolubile quello di Fachinelli con la SPI. Pensò anche di proporre un modello di formazione degli analisti alternativo a quello SPI, di cui mi parlò a lungo: la sua idea era che una scuola di psicoanalisi non dovesse essere monologica, imperniata su una sola teoria e su un solo tipo di pratica, ma dovesse iniziare a una moltitudine di prospettive. All’epoca tanti analisti SPI erano terrorizzati dalla fortuna della psicoterapia sistemico-relazionale, applicata soprattutto alla famiglia: Fachinelli invece diceva “ma come si può essere psicoanalisti oggi senza conoscere Gregory Bateson?” Probabilmente quella sua estrema apertura era 8

Pubblicata poi in S. Benvenuto e O. Nicolaus, a cura, 1990, La bottega dell’anima, Roma: Franco Angeli. http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto-facchinelli.htm

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LA “RIPRESA”

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utopistica: i giovani hanno bisogno di una scuola, di entrare in un sistema di Pensiero Unico – si può solo sperare che poi, invecchiando, si pluralizzino. Lui voleva anticipare drasticamente l’apertura che una certa maturazione (ahimè, non tutti maturano) produce. Alla metà degli anni ’70, quando Marco Pannella lanciò le sue campagne politiche a suon di digiuni, Fachinelli ne colse l’importanza. Mi lasciai sfuggire con lui un commento ingenuamente banale: “Pannella è il nuovo Danilo Dolci”. Elvio si mise a ridere: “Ma no! Dolci era un santo laico che si faceva utilizzare, non capiva la politica che si tesseva alle sue spalle. Pannella invece non è un ingenuo, sa usare i media, capisce la società dello spettacolo”. La sua simpatia andava più all’abile agitatore che sa comunicare con le masse inventando tattiche inedite, che non alla mera testimonianza solitaria dell’ “anima bella” hegeliana. Il concetto così cristiano di “testimonianza” – di martirio – non gli piaceva proprio. Scommetto che, se avesse conosciuto Berlusconi, ne avrebbe odiato la retorica e l’arroganza da Uomo del Destino, ma ne avrebbe ammirato il talento nell’usare i media per raggiungere i suoi scopi. Parlando di Mussolini, mi disse che la sinistra italiana non aveva capito nulla del suo fascino, innanzi tutto erotico. Secondo lui, un libro come Eros e Priapo di Gadda, in apparenza un’invettiva anti-mussoliniana, era invece documento del suo difficile distacco dalla seduzione omosessuale che il Duce aveva esercitato su di lui. Fachinelli non disprezzava i suoi antagonisti che capivano bene l’inconscio delle masse. Sono addirittura convinto che la sua vena caustica e satirica oggi avrebbe preso di mira – alla Nanni Moretti – soprattutto i politici di sinistra, così separati dall’ “inconscio collettivo”, patetici boy scouts in cerca della buona azione quotidiana, lontani dall’immaginario così scorretto e “freudiano” che agita la gente, ignari degli effetti prodotti dal dominio dei media e dell’entertainment. Avrebbe detto che la sinistra italiana appartiene ad una vecchia epoca, nella quale il contenuto delle idee – che la massa della gente non capisce, anche perché non sa pensare – appariva più importante dello spettacolo mediatico, di cui invece Berlusconi è maestro. Negli anni ’80 si staccò nettamente dal mondo radical. In una telefonata nel 1981 (molto prima quindi del 1989) mi sorprese dicendomi: “Gli intellettuali non si sono ancora accorti della catastrofe del secolo: la fine del comunismo!” Aveva capito che il secolo sarebbe stato breve. Mi rallegrai del suo cambiamento, ora eravamo sulla stessa lunghezza d’onda politica. Per un breve periodo si avvicinò persino – horribile dictu! – al partito socialista. Andò anche ad un congresso nazionale socialista, credo verso il 1985, ma ne tornò disgustato: il culto della personalità di Craxi gli apparve una riedizione dello Stalinismo del PCI di un tempo.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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Storicista appassionato, viveva intensamente il presente, ma capiva anche che il presente fugge sempre via, altrove9.

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3. Ogni tanto, qualcuno mi dice “Ma tu hai una ambivalenza nei confronti della psicoanalisi! Come fai ad esercitare come analista?” È vero. E mi rendo conto che questa ambivalenza mi viene proprio da Fachinelli. Lui credeva molto nell’esperienza psicoanalitica, molto meno nella Psicoanalisi – e ancor meno nelle istituzioni psicoanalitiche, di qualsiasi indirizzo. Perciò, quando Lacan gli propose di divenire il leader della nuova società lacaniana in Italia, Fachinelli respinse il lusinghiero invito: “A che pro fondare un’istituzione? A che pro ripetere l’errore di Freud?” Una volta fu intervistato per televisione in un programma di Nelo Risi dedicato alle psicoterapie. Qui citò Karl Kraus, uno dei più brillanti sbeffeggiatori della giovanissima psicoanalisi: “Hanno la stampa, hanno la Borsa, ora hanno anche l’inconscio!”10 Uno psicoanalista che parla della psicoanalisi in questi termini! Tuttavia citando quell’aforisma non mimava certi “psichiatri democratici” allora in auge, che denunciavano la psicoanalisi come una tecnica borghese subdolamente al servizio del Capitale. Piuttosto egli intendeva denunciare un polo della pratica psicoanalitica, che probabilmente vedeva profilarsi persino nella propria pratica: quella che porta ad integrare la soggettività anomala, debordante, nei comodi binari di una normalità – non certo apollinea, ma grigia. Integrazione nel doppio senso: che (1) integra in un Sé coeso (come si dice oggi sulla scia di Kohut) le parti scisse e bislacche del Sé, e che (2) così integra l’individuo nella funzionante coesione collettiva. Ma sapeva che questa ricaduta integrativa dell’analisi era, in qualche modo, inevitabile. La doppia faccia della psicoanalisi consiste nel fatto che da una parte essa rafforza certe difese e quindi di fatto integra il paziente in uno scambio sociale accettabile (lo emancipa autonomizzandolo) e dall’altra lo aiuta a cedere le difese e a regredire nel transfert, ad abbandonarsi perdutamente all’Altro perdendo – almeno per 9 Non è un caso che per volontà testamentaria eleggesse come curatore postumo delle sue opere Roberto Calasso, un intellettuale mai stato di sinistra, che certo non ama la psicoanalisi, affascinato piuttosto dalle origini ancestrali delle grandi civilizzazioni dell’Oriente e dell’Occidente. La sua stima per Calasso – e per Bobi Bazlen, mi disse che voleva riprendere la sua concisione di scrittura in una nuova rivista (che non uscì) – era certo segno della sua conversione a una dimensione più lungimirante, meno attualista, della vita e della storia. 10 K. Kraus, 1972, Detti e contraddetti, Milano: Adelphi.

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LA “RIPRESA”

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un tempo – la sua autonomia. La psicoanalisi ha avuto sempre una doppia faccia: trasgressiva e integrativa, dionisiaca e apollinea. È un errore credere che sia solo una cosa, o l’altra. Così, il suo ultimo libro, La mente estatica, si conclude con una doppia critica ai suoi due principali maestri in psicoanalisi: Sigmund Freud e Jacques Lacan. Una presa di distanza dalla psicoanalisi in cui si era formato? Un tentativo di superare – da allievo ambizioso – i padri-maestri proponendo qualcosa di “suo” che andasse oltre? Tendo piuttosto a pensare che egli volesse mettere a nudo quell’ambiguità costitutiva della psicoanalisi, anche di quella migliore, anche della propria. In termini molto crudi: la psicoanalisi inevitabilmente ci difende da una pericolosa “gioia eccessiva”, certo per evitarci guai. Ma così facendo ci fa mancare qualcosa di vitale. L’analisi protegge troppo dalla ubris che essa stessa scatena. Potremmo mostrare che questa ambiguità – una sorta di auto-ambivalenza – scandisce lo sviluppo storico della psicoanalisi. Basti pensare alle vicissitudini di concetti cruciali come transfert prima e contro-transfert poi. Freud scopre il transfert come una nevrosi iatrogena, come un increscioso eccesso che si frappone alla serena illuminazione analitica: ma poi egli stesso deve convenire che questo ostacolo alla cura è una condizione fondamentale della cura stessa. Evoluzione simile con il contro-transfert: all’inizio esso è il cadere dell’analista nella trappola transferale, il suo non riuscire a mantenere la posizione distaccata e apatica che gli si addice. Poi, grazie alla ripresa kleiniana, diventa uno strumento di insight, un “errore” per il quale è essenziale che l’analista passi, perché senza questa caduta egli non potrebbe cogliere fino in fondo ciò che il transfert, come ripetizione, attualizza e rivela. Fachinelli stesso rivivrà questa doppia faccia – negativa e positiva – del processo psicoanalitico attraverso il concetto da lui stesso proposto: la claustrofilia. Da una parte – all’inizio – egli denuncia la claustrofilia (il rapporto esclusivo analista-analizzante) come fuga dal tempo storico per rifugiarsi nello spazio chiuso e regressivo del duo analitico. D’altra parte – in una ripresa dialettica successiva – questa regressione all’atemporalità diventa l’apex del processo analitico, che così quasi si interrompe per diventare compartecipazione estatica a un’esperienza di Gelassenheit, come in Meister Eckart, di abbandono all’altro. Fachinelli aveva visto questa doppiezza della psicoanalisi nel concetto stesso di ripetizione, nell’articolo “Il paradosso della ripetizione”11. Il soggetto ripete in modo “buono” rimemorando, vive il transfert reinserendo il suo passato in uno sviluppo storico. Ma ripete anche in modo “cattivo”, nel11

In E. Fachinelli, 1974, Il bambino dalle uova d’oro, Milano: Feltrinelli, pp. 212-247.

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l’acting out, nella coazione a ripetere, nella pulsione di morte come tendenza a tornare allo stato inorganico. Fachinelli tentava allora di discriminare i due orientamenti – progressivo e regressivo – della ripetizione: distingueva la semplice replica (mero riprodurre senza originalità) dalla riduzione (“una ripetizione più schematica e povera dell’originale... e anche, ..., come quando si parla di riduzione all’obbedienza”)12, e infine dalla ripresa, che riprendeva dal Gjentagelsen di Kierkegaard. La ripresa è un rilancio del passato nel futuro che si espone alla conferma e alla modificazione. Il nevrotico invece ripete sempre gli stessi errori – in lui la forza vitale si riduce a replica. Ma c’è anche una ripetizione propulsiva, che ri-presentando il passato mette in atto la vita. Non basta rammemorarsi, occorre rendere il passato di nuovo presente perché ci sia ripresa. In una prima fase, quindi, Fachinelli si pone come paladino della temporalità come valore; si fa promotore dell’Eros come tensione al futuro – come “progetto” avrebbe detto Heidegger –, come uscita dalla ripetizione-replica e apertura al nuovo e all’impensato, insomma alla storicità. Legge la psicoanalisi come strenuo progressismo. La figura di questa emancipazione è la fallica freccia – appuntita, penetrante, proiettante e progettante, insomma trasgressiva. Eppure, in una seconda fase – già presente però nella prima come sua piega – all’ideale della freccia progressista subentra invece l’immagine muliebre, matriciale, del Claustrum. Questo slittamento – che coincide con l’abbandono del sinistrismo radicale – è anche stilistico. Nei suoi due ultimi libri – Claustrofilia e La mente estatica – assistiamo piuttosto ad una sorta di fuga sia dei concetti che della scrittura: prevale un passare per contiguità da un tema all’altro, come nell’associazione libera, in un procedere dove la meta di volta in volta sembra profilarsi per poi perdersi. Non è più chiaro dove Fachinelli voglia arrivare… A differenza della freccia, che punta in una direzione precisa, la sua scrittura ora procede per onde, come il mare, ci si sente in una barca che si lasci andare ad una corrente senza senso univoco. Di questa seconda fase – di deriva estatica più che di progressione futuristica – lo scritto più commovente è “Sulla spiaggia”13. Mentre lui se ne sta accanto al mare, in uno stato di dolce passività, un’illuminazione, ad un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: “un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare... Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento”14. In un darsi squisitamente femminile, Fachinelli, 12

Ivi, p. 236. Inserito in La mente estatica, cit., pp. 15-25. 14 Ivi., pp. 17 e 19. 13

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come Nausicaa, accoglie. Egli finalmente accetta la modalità femminile di essere-nel-mondo, da qui “gioia con senso di gratitudine”15. Dalla sua accusa agli analisti di de-temporalizzare l’analisi, sottraendo nella ripetitività della routine analitica il soggetto alla spinta vitale della storia, Fachinelli slitta verso l’idea che piuttosto l’analista debba lasciarsi svegliare da un richiamo atemporale, folgorante, pre-natale. Anche se dono e accettazione sono qualità femminili che la nostra società – compresa la società psicoanalitica – ha scotomizzato, puntando tutte le carte sulle funzioni maschili della difesa, del controllo, dell’attacco-fuga. Elvio proclama questa femminilizzazione citando S. Giovanni della Croce nel suo incontro quasi carnale con Dio: “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza mi infuse saporosa – ed io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e gli promisi allor d’esser sua sposa”. Questa conversione trans dell’analista non era un’abile manovra per cavalcare la tigre del movimento femminista. Credo piuttosto che la molla di quella “femminilità estatica” fosse proprio la sua attrazione per le donne concrete, la sua inclinazione a sedurre donne, talvolta fragili e un po’ tristi – all’ombra di una fedeltà indistruttibile, astorica, alla moglie Herma Trettl. In effetti, molti uomini esprimono nell’inclinazione a conquistare più donne una sorta di attrazione ontologica – tinta anche di invidia – per la mulier, un loro struggente desiderio di essere essi stessi, almeno di tanto in tanto, femmine. Come se la conquista sessuale ripetuta, di loro maschi pieveloci, fosse il rincorrere asintotico un essere la donna tartaruga che comunque sempre, all’identificazione dell’uomo con essa, si sottrae.

4. Il passaggio dalla Freccia fallica all’Accoglimento matriciale, femmineo, è anche un passaggio di focalizzazione da un primato del tempo ad un primato della spazialità. Il Fachinelli de La freccia ferma reinterpretava una serie di forme di vita – nevrosi ossessiva, fascismo, certi riti primitivi – come strategie per fermare il tempo, per negare il divenire in nome di una reversibilità astratta che nega il mutamento e la storia. Un’analisi che sarebbe piaciuta ad Ilya Prigogine, il quale aveva denunciato la stessa negazione tra i fisici teorici. Più tardi, invece, Elvio mette tutto l’accento sull’area claustrofilica: non su una fase o stadio appunto. È uno spazio atemporale Unheimlich (non familiare, inquietante) che viene a costituirsi tra analista e analizzante. Pensa 15

Ivi, p. 18.

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la claustrofilia non tanto come un passaggio temporale, quanto piuttosto come uno spazio, un’area, nel quale il tempo è sospeso. Ma questo passaggio dalla sfrecciante temporalità all’estatica spazialità non è un rovesciamento semplice, lineare di una posizione nell’altra. Esso non rinnega certo l’apertura lacerante alla storia, al futuro. La ricerca etico-teorica di Fachinelli, presa complessivamente, ci dice in fondo che non c’è progressione, e progresso, senza regressione mistica. Che la “ripresa” del passato come rilancio nel futuro implica un’interruzione estatica, ripetibile, in uno spazio di compenetrazione tra corpi e menti. L’accettazione del tempo storico apparirà allora – in modo ambiguo (come sempre in psicoanalisi) – il prodotto di una recettività a qualcosa di atemporale e pre-storico. In questo modo egli restava comunque fedele a quel che me lo rende ancor oggi così caro: la sua vocazione dionisiaca a rompere gli equilibri conclusi, il chiudersi in Sé. In un primo tempo questa vocazione era trasgressione dell’arroccamento individualista attraverso una partecipazione “tarantolata”16 ai movimenti sociali; in un secondo tempo fu sbriciolamento delle difese dell’Io verso un accoglimento inerme della nuda vita.

5. Questo nuovo primato della spazialità claustrofilica – minaccia micidiale alla psicoanalisi, e allo stesso tempo esperienza che la psicoanalisi inevitabilmente deve riprendere – sfocia in una ripresa rapsodica e conclusiva delle esperienze estatiche. Un filosofo certo molto lontano dalla dieta culturale di Fachinelli, Moritz Schlick17, membro eminente del Wienerkreis. Amico di Wittgenstein, filosofo in odore di misticismo, scrisse qualcosa sulla mistica. Disse che la conoscenza è sempre esprimibile. Le proposizioni cognitive ci dicono che qualcosa è come un’altra: è mettere in relazione cose dall’esterno. Ma la nostra mente opera anche in modo non conoscitivo: anziché confrontare una cosa con l’altra, punta ad identificarsi ad una certa cosa. Anziché dire cognitivamente che un oggetto è blu, possiamo voler identificarci al blu, siamo il blu. Qui non si tratta più di conoscenza ma di intuizione – come è 16

Alludo qui al suo articolo “Il magistrato e la tarantola” in Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., pp. 76-80. 17 M. Schlick, 1979, “Form and Content”, in Schlick, Philosophical Papers, H.L. Mulder & B.F.B. van de Velde-Schlick eds., Dordrecht: Reidel, pp. 285-369; [tr. it. Forma e Contenuto, Torino: Bollati Boringhieri, 1987].

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LA “RIPRESA”

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la percezione. Questa identificazione intuitiva appartiene non al piano del pensiero ma del godimento: “L’intuizione è godimento, il godimento è vita, non conoscenza”, scriveva Schlick. Fachinelli non parlava esplicitamente di identificazione alla cosa, ma negli stati estatici vedeva in gioco proprio un rapporto diverso, non appuntito ma poroso, alle cose. Ekstasis significa essere fuori di sé: non pura contemplazione delle cose, ma uscire dall’Io per inabissarsi nelle cose stesse, godendone. Per entrare in una sorta di comunione con le cose e con l’altro, il soggetto deve abbandonare le difese che ne proteggono l’integrità (e l’integrazione), non deve più resistere ad un gioioso orrore connesso ad un piacere dis-individualizzante, eccessivo. Ma questa deriva estatica non segna un’involuzione – un “riflusso”, come si diceva allora – del pensiero di Fachinelli? Non passa egli da una lucida “critica della cultura” di stampo francofortese a un nebbioso richiamo a vissuti ineffabili? Ormai rapito dalle Sirene, non indulge ad ipotesi irrazionaliste come la lettura telepatica del pensiero tra analista e analizzante? In La mente estatica si rifà addirittura a Nostradamus per spiegare alcune anticipazioni del futuro che si producono nel corso di un’analisi. Non era egli avviato sulla china della paccottiglia New Age e della facile scorciatoia del paranormale? Anch’io avvertivo questo pericolo. Ma credo che i fenomeni sorprendenti e visionari che accadono nell’ “area claustrofilica” lo interessassero non come prove di percezione extra-sensoriale, ma come il ritorno nella vita adulta, heimisch, familiare, di brandelli di un funzionamento psichico in cui non si è affermata ancora la distinzione netta, categorica, irriducibile, tra sé e l’altro. Al di là dell’“Ego autonomo” così caro alla filosofia dell’individualismo liberale (e a certa psicoanalisi ad essa convertita), Fachinelli intravvedeva qualcosa che la psicoanalisi non avrebbe dovuto più temere: raggiungere uno stato mentale trans-individuale, che possiamo supporre perinatale, in cui avvengono processi di pensiero senza proprietà privata. Certo già molta psicoanalisi aveva cercato di ricostruire i supposti stati mentali precocissimi, in una supposta unità simbiotica originaria tra madre e bambino. Solo che di solito queste ricostruzioni psicoanalitiche, seguendo una logica di psicologia evolutiva, aderiscono ad un progetto etico per cui lo shrink dovrebbe promuovere i processi di differenziazione, separazione, individuazione, insomma di emancipazione da uno stato simbiotico primitivo. Ma in Fachinelli la direzione dell’evoluzione sembra invertirsi eticamente: lo stadio originario della simbiosi con l’altro non è qualcosa da cui dobbiamo uscire definitivamente, ma qualcosa a cui sarebbe meglio, almeno di tanto in tanto, tornare. Gli stati estatici gli appaiono non come

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regressioni pericolose ad una confusione mortifera, ma come accettazione di una dimensione di gioia eccessiva, matrice creativa, dimensione da cui siamo portati a difenderci. Già Winnicott situava la capacità creativa – il gioco, la psicoanalisi, le arti, la religione, la scienza originale – in uno spazio di transizione, di ambigua oscillazione tra Sé e non-Sé. Fachinelli situa questa capacità creativa in un’abissale rinuncia all’Io, in un lasciarsi occupare dalla natura.

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6. Fachinelli cita un brano di Herzog di Saul Bellow18. Qui Herzog, accompagnandosi alla seconda moglie Madeleine, si ferma come folgorato di fronte a un negozio di pesce. “Il pesce era ammassato, i dorsi si arcuavano come se nuotassero in quel ghiaccio tritato, fumante, bronzo sanguinolento, verdenero melmoso, oro-grigio – le aragoste erano tutte pressate contro il vetro, le antenne piegate”. Alle rimostranze di Madeleine spazientita dal contrattempo, Herzog replica dicendo che a sua madre – morta vent’anni prima – il pesce piaceva moltissimo. Ad una madre “morta e stramorta”. Commenta Fachinelli: “Evidentemente, è la madre viva nel protagonista del romanzo, Moses Herzog, che si ferma sulla soglia del montacarichi ed è colpita dal negozio del pesce – insieme al bambino Herzog”. Interpretazione acuta, ma non obbligatoria. Potremmo in effetti far appello proprio alla dis-individualità dello stato estatico, e dire che Herzog si identifica da una parte alla madre come soggetto guardante, ma anche (nel senso di Schlick) alla cosa guardata. Quei pesci morti hanno una cromatura ripugnante, viscida, sono immersi in un ghiaccio estraneo al loro habitat fluido da vivi, anche se “sembrava che i pesci, nel ghiaccio bianco, macinato, spumoso, si fossero fermati all’improvviso, nell’atteggiamento di quando erano vivi”. Herzog, che si arresta in uno stato di attonito dormiveglia, vede questo arresto improvviso negli stessi pesci che lui guarda: come se il suo sguardo li restituisse ad una vita repentina ed effimera. Lui è il pesce morto. Ma non sono essi stramorti eppur vivi, proprio come la madre lo era per Herzog? Quella sostanza vivente gelatinosa non è oggetto di quell’orrida gioia in cui consiste la climax estatica? Si accenna qui ad un assorbimento in una carnalità materna, da cui siamo ad un tempo attratti e che attraiamo a noi. 18

La mente estatica, cit., pp. 70-2. È un caso che Herzog sia un intellettuale deluso da tutti i pensatori che ha letto, e in particolare da Freud?

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LA “RIPRESA”

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Non a caso Fachinelli è sedotto da una folgorazione connessa a pesci – ancora il tema marino. Nei suoi ultimi scritti abbondano figure acquatiche. Da qui l’importanza che dà al “sentimento oceanico” di cui parlava Romain Rolland a Freud. Elvio, nato tra le montagne, era affascinato dal mare. Esprimeva allora egli, attraverso quelle metafore talattiche, un ritrovamento di un rapporto originario con sua madre? Chi può dirlo! Certamente viveva una riscoperta della natura, di cui mi parlava spesso in quegli anni. È come se, dalla sua passione metropolitana sulla scia di Benjamin, col tempo slittasse verso un atteggiamento di naturalismo estatico. Come se ciò che occorre accogliere non fosse tanto l’altro umano, ma qualcosa più simile alla massa gelatinosa di quei pesci ammassati nella bara di ghiaccio. È come se, sapendosi malato, tenesse a risalire a un evento quanto mai naturale, alla “nuda vita” – per usare i termini di Giorgio Agamben – della nascita e del rapporto bagnato, vischioso con la nutrice.

7. Negli ultimi anni si stava dando da fare per trovare una vecchia cascina, in Lombardia o altrove. Per ristrutturarla e impiegarla come luogo dove accogliere giovani con qualsiasi problema, dalla psicosi alla tossicodipendenza. Un’operazione che non riuscì a portare in porto. Aveva già fatto un esperimento di questo tipo, per poco tempo, con alcuni giovani in una fattoria toscana, e mi disse che “il luogo stesso, splendido, si rivelò terapeutico”. Affermazione in apparenza banale – all’epoca si diceva che le cliniche psichiatriche svizzere, molto apprezzate, curavano proprio grazie al maestoso paesaggio alpino che offrivano ai pazienti. D’altro canto, non mi pare che egli volesse semplicemente riapplicare la formula della comunità terapeutica, resa famosa da Maxwell Jones, Basaglia e Napolitani. Mi pareva che il suo progetto fosse piuttosto di riportare dei giovani, smantellati dalla vita urbana, ad un contatto nuovo, indifeso, con la natura. Stava progettando l’estasi naturalistica come una nuova prospettiva di cura? E non a caso scriveva “Come nella vita di certe antiche dame di corte giapponesi, attente più alla brina della notte che alla vita stessa… Ma quell’attenzione alla brina è vita, vita di intensità prodigiosa”19. La frase forse più famosa di Fachinelli è “non analisi come risposta, ma analisi come domanda”. Sembra niente, eppure quanti analisti l’hanno recepita? Ben pochi. Tempo fa Woody Allen, intervistato su Freud – su un 19

La mente estatica, cit., p. 22.

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autore ormai del tutto squalificato nella cultura americana – disse qualcosa di simile: “Forse le sue risposte non sono soddisfacenti, ma le sue domande erano acute!” L’analista per Fachinelli funziona nella misura in cui contagia l’analizzante con le sue domande. Il vero analista non dice mai “è così”, dice “ti sei chiesto se quello di cui parli non potrebbe essere detto altrimenti?” Non sopportava analisi troppo lunghe, forse perché non gli piacevano rapporti troppo densi, troppo coniugal-familiari, che durano una vita o quasi. Non gli piacevano rapporti molto lunghi nemmeno con le sue donne. Eppure è come se, col tempo, l’inquietudine interrogativa in lui si fosse placata: le domande sono pur sempre solo linguaggio. Paradossalmente, il primo – e forse unico – analista SPI che abbia davvero preso sul serio Lacan, sfocia in una visione niente affatto “linguistica”. È come se al posto del domandare emergesse qualcosa che lui stesso, rifacendosi alla Bibbia, chiamerà – a conclusione del suo ultimo libro – “il roveto ardente”. Alla fine, sembra aver preso alla lettera la formula che gli era tanto cara: l’erba voglio.

Bibliografia Benjamin W., 1936, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino: Einaudi, 1966. Benvenuto S., “La ‘gioia eccessiva’ di Elvio Fachinelli”, in Fachinelli E., 1998, Intorno al ’68. Un’antologia di testi, a cura di Conci M. e Marchioro F., Roma: Massari Editore, pp. 249-278. Ristampa: Benvenuto S., 1998, “La ‘gioia eccessiva’ di Elvio Fachinelli”, «Psicoterapia e Scienze Umane», XXXII, 3, pp. 53-73. http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto.htm Fachinelli E., 1974, Il bambino dalle uova d’oro, Milano: Feltrinelli. Fachinelli E., 1976, Uma tentativa de amor, Roma: Cooperativa Scrittori. Fachinelli E., 1989, La mente estatica, Milano: Adelphi. Fachinelli E., Benvenuto S., “Sull’impossibile formazione degli analisti. Una conversazione”, in Benvenuto S.e Nicolaus O., a cura, 1990, La bottega dell’anima, Roma: Franco Angeli. http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto-facchinelli.htm Kraus K., 1972, Detti e contraddetti, Milano: Adelphi. Schlick M., 1979, “Form and Content”, in Schlick, Philosophical Papers, H.L. Mulder & B.F.B. van de Velde-Schlick eds., Dordrecht: Reidel, pp. 285-369; [tr. it. Forma e Contenuto, Torino: Bollati Boringhieri, 1987]. Wittgenstein L., 1961, Notebooks 1914-1916, Oxford: Basil Blackwell [tr. it. Quaderni 1914-1916, Torino: Einaudi, 1964].

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Gruppo chiuso o gruppo aperto? di Ambrogio Cozzi

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1. Il lavoro di Fachinelli su “Gruppo chiuso o gruppo aperto?” fa riferimento ad un contro-corso cui partecipò l’autore nella primavera del 1968 proprio qui a Trento. In questo lavoro appaiono già in filigrana elementi che avrebbero portato negli anni successivi all’implosione del movimento, con la nascita di settarismi violenti che di fatto si risolsero nella sua scomparsa. Ma il lavoro di Fachinelli ha una sua attualità che prescinde dall’occasione in cui fu steso, si interroga sui rapporti all’interno di un gruppo, sui conflitti e le tensioni che lo attraversano e che, in definitiva, attraversano tutti i legami sociali. Lo scritto si situa a ridosso dell’altro lavoro, “Il desiderio dissidente”, e a nostro parere lo completa, indicando i pericoli sempre presenti che possono portare alla «morte del gruppo di desiderio, la minaccia sempre presente in esso e continuamente differita». Nel primo articolo Fachinelli scriveva: ...il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. E perché questo permanga, bisogna perdere l’illusione di un’incarnazione definitiva del desiderio… Infatti il modo meglio codificato di appagare il desiderio del gruppo è quello di incarnarlo nella figura del leader.

La distinzione tra gruppo di desiderio e gruppo di bisogno trova il suo fondamento in una tensione verso il futuro, in una tensione utopica che tende a negare i limiti del presente. Ma i problemi che questa distinzione cercava di superare si ripresentano con una consapevolezza diversa nel secondo scritto. Qui aleggia una prospettiva differente, invece di una tensione utopica si incontra la ripetizione, invece del contagio verso l’esterno ipotizzato nel primo articolo, si ritrova la chiusura, quel superamento del limite che veniva indicato come liberatorio nel primo articolo diviene misconoscimento del limite, l’idealizzazione dell’oggetto la si ritrova incarnata nelle figure dei leaders, il desiderio si trasforma in ideale sacrificale, in deriva verso l’obbedienza e l’uniformità e mostra di non tenere.

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Cominciano ad intravedersi le contraddizioni della ricerca di una purezza che sfugga ogni contaminazione, purezza che non viene garantita neanche dalla chiusura iniziale. Qualcosa si è rotto, qualcosa torna a ripetersi, a ripresentarsi, forse quella prospettiva angosciante della dissoluzione della individualità dei componenti del gruppo, che veniva ottimisticamente posta in superamento nel primo scritto, ritorna, sotto altre forme, più insidiose, che interrogano in modo diverso l’autore. Infatti, creato il gruppo chiuso, il processo di differenziazione dagli estranei, o dagli elementi di estraneità presenti nel gruppo, continuò con quasi intatta violenza; e parallelo ad esso, intimamente collegato, il processo di progressiva adeguazione a un’immagine di gruppo omogeneo, perfettamente fuso nella unità dei suoi membri. L’estraneo, il diverso, concreto, tangibile (fin troppo tangibile), doveva essere eliminato, così pareva, per far posto a un uguale sempre più perfetto, e dunque sempre più intangibile quanto più vicino a chi lo ricercava. Si venne così chiarendo la modalità privilegiata per raggiungere questo scopo; una modalità che, seppur presente e attiva nella discussione riportata, risultava in quel momento ancora velata e attutita.

Seguendo queste righe vediamo la capacità di Fachinelli di evidenziare un tema centrale che ancora oggi, come allora, trama la vita dei gruppi, quella fantasia di fusione totale, di unione nell’uguaglianza che annulla ogni possibilità di differenza, dove l’uguale si riduce all’identico. Ma questo identicità non viene riconosciuta come problematica, anzi diviene nell’idealizzazione la vera radice dell’identità, la fonte di esclusione della diversità, Non riconosciuta, trama oscuramente la vita del gruppo, lo accompagna verso la dissoluzione. Proviamo a seguire il movimento dal tangibile all’intangibile: è tangibile ciò che è diverso e lontano, intangibile ciò che è uguale e vicino, il richiamo alla tangibilità va contrapposto al riferimento all’ideale, questo secondo costituisce la via di fuga dal primo. La prospettiva cambia completamente se ci spostiamo dall’esterno all’interno, dove la rilevazione di una differenza diviene riconoscimento di una estraneità che ci abita e quindi ci è troppo vicina, e l’uguaglianza diviene riconoscimento di questa alterità interna, propria, rinvenuta all’esterno, riconosciuta come familiare e pertanto insopportabile nell’altro. Se l’estraneo che ci abita è insopportabile, riconoscendolo nell’altro, la presa di distanza diventerà inevitabile. Del resto lo stesso Freud scriveva ne Il perturbante: Succede spesso che individui nevrotici dichiarino che l’apparato genitale femminile rappresenta per loro un che di perturbante. Questo perturbante

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GRUPPO

CHIUSO O GRUPPO APERTO?

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(Unheimlich) è però l’accesso all’antica patria (Heimat) dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora. “Amore è nostalgia”, dice un’espressione scherzosa, e quando colui che sogna una località o un paesaggio pensa, sempre sognando: “questo luogo mi è noto, qui sono già stato”, è lecita l’interpretazione che inserisce al posto del paesaggio l’organo genitale o il corpo della madre. Anche in questo caso, quindi, Unheimlich è ciò che un giorno fu heimisch (patrio) famigliare. E il prefisso negativo “un” è il contrassegno della rimozione.

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Questo rinvio alla rimozione segna un troppo vicino, che per questo viene rimosso. Quale ruolo possa giocare in tutto questo il riferimento all’ideale diviene evidente qualche riga più avanti: Di questo dato, nell’atto stesso della sua rilevazione, viene data un’interpretazione che è unicamente negativa – perché essa si basa sullo scarto esistente tra il dato concreto di difformità e il modello ideale di gruppo, di comportamento e così via. Se il confronto fosse tra il dato concreto, da un lato, e la norma concreta del gruppo dall’altro, l’interpretazione non potrebbe più essere totalmente negativa, in quanto chi fornisce l’interpretazione dovrebbe anch’egli in un certo senso entrare nell’interpretazione, dovrebbe tener conto del suo essere egli stesso concreto, parziale, difforme dunque rispetto al modello ideale. L’interpretazione sarebbe allora costretta a integrare in sé una maggiore o minore ambiguità o bivalenza, del dato rilevato. Si otterrebbe un giudizio più giusto, più ragionevole, o meno spietato – ma in ogni caso un giudizio che non riuscirebbe mai a creare nel gruppo la tensione specifica creata dal giudizio che appare facilmente ingiusto e spietato agli occhi di chiunque non appartenga al gruppo.

Ci sembra rilevante questo richiamo alla contrapposizione tra concretezza ed ideale, dove la rilevazione di concretezza comporta un rinvio alla parzialità, all’ambivalenza, al reperirsi come elemento che entra nell’interpretazione stessa. Il riferimento all’ideale comporta una totalizzazione, un escludersi dall’interpretazione, una separazione netta tra un dentro e un fuori, una demarcazione dell’appartenenza. L’interpretazione può così trovare un oggetto che suppone di poter conoscere in modo esaustivo, di vincere l’impossibilità della parola a contornare l’oggetto, la conoscenza avverrà senza residui, chi conosce è esentato dal conoscersi. Quello dell’appartenenza era il nodo centrale che segnava il sorgere del gruppo, tra il chiuso e l’aperto si segna chi appartiene e chi no. Lo individua bene nelle pagine iniziali di commento Fachinelli, quando sottolinea la fatica di arrivare ad una decisione. Ma questa decisione non si riduce a elementi burocratici, non rileva solo paure, si chiede che cosa spinga alcuni a resi-

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stere, sia pur debolmente, a orientarsi per un gruppo aperto, per poi cedere all’apparente ragionevolezza della chiusura. L’accettazione della soluzione di chiusura appare essere dotata di buon senso, ma subito svela ciò che la trama a sua insaputa: nella chiusura si ritrova una sicurezza, una protezione. L’appartenenza fa tutt’uno con una istituzionalizzazione del gruppo, con la nascita di leader e folle che hanno come tratto fondante del loro legame il rifiuto reciproco della castrazione. Questo impedisce di scendere nella concretezza, la concretezza porrebbe il problema di una divisione soggettiva, il rifiuto di un’estraneità che è tanto più intima quanto più viene allontanata, e proiettata all’esterno diviene cemento del gruppo. Il nemico è all’esterno, le barriere erette si rivolgeranno però verso l’interno, attraverso la ripetizione di processi espulsivi sempre uguali, mai ripresi ma sempre replicati. Un esterno che si scopre interno e che si tenta di allontanare, di esorcizzare attraverso separazioni e scissioni, che si ripetono quasi a mimare un rito purificatorio. Nel concorso simultaneo e violento di ciò che si può chiamare la fuga dall’estraneo e la ricerca dell’uguale si manifestava un’esigenza profonda, che sembrava costretta, si sarebbe detto, a consumare il gruppo dopo averlo creato […] Se nell’estraneo al gruppo non viene colta l’ostilità ma il suo contrario […] allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo […] si svolge con un senso diverso».

Ma cosa impedisce questo scarto, questo mutamento di prospettiva? Per cercare una risposta dobbiamo tornare sull’appartenenza, soprattutto come viene affrontata in un passaggio dell’articolo precedente: […] questa condizione sembra il ripetersi, nella realtà adulta, di una situazione angosciante che è stata quella del rapporto con la madre. Dall’esperienza psicanalitica ne conosciamo i termini fondamentali: la madre buona e gratificante è nello stesso tempo la strega malefica e divoratrice. Il nutrimento e l’amore che essa ci dà sono continuamente minacciati, nella fantasia infantile, dalla sua capacità distruttiva. Il cibo che ci offre è quindi pagato con la dipendenza totale.

Riprendendo questo passaggio Lea Melandri commenterà: Tra le “potenze interne”, rimosse, che possono riemergere impreviste nel cuore della modernità, un rilievo particolare prende, negli scritti intorno al ’68, quel fantasma di “madre saziante e divorante” che Fachinelli aveva visto profilarsi dietro la società dei consumi. Il “fattore molesto” della civiltà, il tempo immobile dell’Eterno ritorno, in cui vanno a confondersi Eros e Thanatos, la vita e la morte, diventerà, alla luce di una “consapevolezza” che si fa

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GRUPPO

CHIUSO O GRUPPO APERTO?

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strada lentamente lungo tutto l’arco della ricerca di Fachinelli, l’“indicatore” di esperienze umane “tra le più creative”, l’ingresso in una dimensione antropologica sinora rifiutata o temuta o assimilata tout court all’impostazione religiosa.

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È questo forse il passaggio centrale, la ricerca di questo lato notturno delle esperienze umane, ma soprattutto l’intreccio tra lato notturno e razionalità, tra aspetti arcaici e aspetti attuali che coesistono nella storia del soggetto, la prossimità della pulsione di morte che si intreccia alla vita. Il fantasma fusionale appare sullo sfondo come un antecedente della storia, una preistoria in cui l’altro era abolito; scrive Freud: In nessun altro caso Eros svela così chiaramente il nucleo della sua essenza, l’intento di fare, di più d’uno, uno.

Il rapporto con la madre verrà ripreso da Fachinelli in Claustrofilia, dove l’individuazione di un’area non interrogata dalla psicoanalisi, quella del rapporto prelinguistico con la madre, diventerà l’occasione per mettere in guardia da una deriva dell’analisi stessa che rischia di divenire veramente interminabile, senza fine, perché riproduce al suo interno quel rapporto claustrofilico, nel momento in cui si rifiuta di problematizzarlo. È proprio a partire da qui che possiamo individuare nell’appartenenza totale, un’area poco interrogata, che ripete il rapporto con la madre come fonte di protezione, come avvolgimento in uno stato di soddisfazione che di per sé appaga e il cui prezzo è la dipendenza. Allora il rischio di perdita della propria individualità non è più avvertito con angoscia, la propria individualità si fonde in un noi protettivo e consolatorio, quasi rassicurante perché evita il rischio che la libertà e l’autonomia comportano. Se sostituiamo a rischio desiderio, il cerchio si chiude. C’è un passato che tende a riproporsi per una sorta di nostalgia che paradossalmente spinge all’agire: sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso di un tentativo di uscirne.

Ma il desiderio può anche subire un altro destino, quello di trasformarsi in sacrificio, in ideale sacrificale, dove la parte distruttiva viene rivolta verso se stessi, portando ad un annullamento del soggetto, a non riconoscersi più nel proprio desiderio, ad abbandonare ogni prospettiva di autonomia per realizzarsi tramite un altro. Scriveva Freud nel carteggio con Einstein: […] amore e odio, conservazione e distruzione sono meno polarizzate di quanto sembro […].

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È singolare che in anni in cui si tuonava contro il padre/padrone, l’attenzione di Fachinelli si rivolgesse invece alla figura della madre, trovando lì, nella nostalgia/terrore verso quel rapporto prelinguistico, la radice di una possibile autodistruzione. Poche le parole sul padre, più che altro un breve riferimento sulla sua eclisse derivata dai lavori di Adorno e Horkheimer. Eppure il padre nella psicoanalisi è stato posto come colui che introduce all’ordine simbolico, al registro della parola, che sottrae all’indistinto e alla confusione permettendo di nominare il mondo. La scelta di Fachinelli è diversa, intuisce che la soluzione non consiste nell’abolizione dell’autorità, ma è preoccupato da un altro aspetto, forse con un potenziale distruttivo maggiore, che comunque va almeno indicato. Il riferimento alla figura materna va visto in questa luce, una messa in guardia rispetto a questa nostalgia dell’origine. Non è questa la via, la nostalgia regressiva porta ad una diminuizione di libertà, ad una perdita di autonomia. L’ambivalenza che Freud individuava nella figura paterna, Fachinelli la riprende per la figura della madre. Non c’è scampo, la strada dell’autonomia deve fare i conti con l’ambiguità, deve imparare a riconoscere le dipendenze. Ogni fuga in avanti, se non tiene conto di questi aspetti diviene una rovinosa caduta nel passato.

2. Fachinelli stesso, in una nota aggiunta nel 1973, a commento di questi scritti, diceva: «Tira aria del ’68 in questi due articoli…». Oggi ci chiediamo come possiamo attualizzare queste tematiche, in una situazione in cui, come scrive Manuela Fraire: Oggi tuttavia ci si riferisce spesso al padre come ad un “Edipo casto”, castrato cioè nella sua funzione principale di terzo incomodo\necessario che permette la differenziazione del bambino dalla madre. Il padre dei nostri giorni è sempre più marginale ed emarginato dalla relazione della madre con il figlio, sicché è spinto verso forme di rivalsa violente sia verso la madre che verso i figli. Il fenomeno crescente di ciò che viene definito “pedofilia” può essere letto anche come il sintomo di una crescente perdita di autorità da parte dell’uomo\padre che si ri-appropria violentemente del corpo del figlio\a. Simmetricamente la violenza sociale, le guerre, la distruttività sembrano alimentate da fantasie fratricide e soprattutto parricide. Voglio dire che la crescente funzione sociale della madre relega l’uomo ad essere e sentirsi il fratello maggiore dei propri figli, più che il loro padre. Aumenta però anche un senso di impotenza e fallimento verso il proprio padre

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che non ha trasmesso autorità e potere. Cresce così nel mondo la tirannia di pochi uomini su tutti, uomini e donne, e al tempo stesso aumenta la regressione maschile che conduce molti alla sottomissione ad un capo assoluto (su che poggiano i fondamentalismi di ogni colore e provenienza?) da cui è possibile differenziarsi solo con l’assassinio pratico e simbolico (vedi la caduta dei regimi ed anche la caduta a ripetizione dei governi.) L’impiego delle energie vitali, la libido, va di conseguenza per il verso del controllo crescente dell’uno sull’altro con un effetto sulle relazioni umane che spinge i due sessi verso una crescente desessualizzazione. Intendo dire che la rottura della “solidarietà erotica” tra madre e padre, condanna la donna all’ipertrofia della funzione di cura estesa metaforicamente anche alla funzione sociale femminile, mentre favorisce nell’uomo un ritiro di stampo autistico. Mentre nell’immaginario collettivo cresce l’autorevolezza delle donne\madri, quello stesso immaginario si raffigura l’uomo\padre offeso, marginalizzato, castrato.

Per capire questi legami tra appartenenza, obbedienza e potere, tra folle – o popolo – e capi, questa paura/desiderio dell’aperto e questa nostalgia/timore del chiuso, possiamo fare un passo indietro, al racconto La tana di Kafka, scritto nel 1923, dopo che la prima guerra mondiale aveva devastato l’Europa, cambiando anche il modo di percepire la violenza. L’incipit è agghiacciante: Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede solo un gran buco che non porta in nessun luogo […].

L’interno non porta in nessun luogo, ma la tana è necessaria per difendersi dai nemici: Il nemico mi si avvicina da qualche parte scavando lento e silenzioso. Non dico che abbia un fiuto migliore del mio, può darsi che sappia di me tanto poco quanto io di lui. Esistono però predoni appassionati […] e poi io invecchio, molti sono più robusti di me e i miei avversari sono innumerevoli.

Il dilemma si ripropone tra chiusura e sicurezza e apertura e rischio, la grandezza di Kafka consiste nel lasciare aperto il problema, sarà nel tentativo di sfuggire ad un sibilo che si uscirà dalla tana, perché solo all’esterno il sibilo cessa. Che cos’è il sibilo, se non la percezione di qualcosa di perturbante, che inquieta e a cui non è possibile sfuggire perché interno alla tana, a quel rifugio così abilmente costruito? Il sibilo costituisce l’insopportabile di una presenza interna che si placa all’aperto. Possiamo decidere di sostare sulla soglia, oppure incuriositi muoverci nel mondo. Muoverci nel mondo significa però abbandonare la vicinanza della tana, fare i conti con una perdita.

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Se la parola dell’Occidente si fonda su una cesura, così ben rappresentata da Platone nel Fedone, quando all’ingresso di Santippe e dei figli il discorso si ferma, si tratta di mutare la cesura in una perdita. La perdita lascia tracce di una presenza passata, segna attraverso questa traccia una temporalità, un dopo che si differenzierà da un prima, che non permette ritorni, ma segna i ricordi. Perdere la figura della madre per incontrare una donna, non la donna che abbiamo ridotto a madre, ma una donna che marchi una differenza, ma soprattutto ci rimandi all’ambivalenza che ci segna come soggetti. Se la differenza non rimanda e non ha echi nell’ambivalenza, si ricade nel discorso del materno mutandolo solo di segno, questa è l’operazione della materializzazione. Incontrare la sessualità significa incontrare un limite che, nel mentre la ricorda, dà senso alla perdita, ne permette l’elaborazione attraverso la parola che ci ha sottratto all’indistinto. In quell’indistinto, in quella confusione, abbiamo incontrato un corpo che non era nostro. Si tratta di averlo il nostro corpo, per poterlo essere, ma non lo si può avere senza accettare di esserlo, in un distacco che nel mentre segna una perdita permette l’ingresso nel mondo. Nel riconoscimento di queste perdite, incontriamo un’ambivalenza che regola e trama anche il desiderio, ne segna un confine inesplicabile. Oggi è impensabile riproporre l’accomunamento che indicava Fachinelli, ma già allora lui segnalava i pericoli presenti in quell’accomunamento non interrogato, come fosse presente al suo interno un’ambiguità che lo sabotava. Fare i conti oggi con il fatto che il desiderio non può essere cieco, che da qualche parte incontra una regolazione, un venire a patti con il mondo, ci porta al problema del limite che l’incontro con l’altro segna sia esternamente attraverso la presenza dell’altro, sia internamente attraverso l’ambivalenza e l’alterità che ci abitano e che non padroneggiamo interamente. L’enigmaticità di queste presenze ci fa incontrare la domanda, ed evocare nella domanda quel che la eccede, che impedisce di ridurla a richiesta. Ma la domanda rinvia alla presenza dell’altro, all’autorevolezza, alla responsabilità come capacità/possibilità di rispondere e di cogliere nella risposta qualcosa che va oltre il suo contenuto e rimanda ad una presenza che ci limita e ci sottrae alla ricaduta nell’indistinto. L’originalità di Fachinelli sarà nel riprendere, nel senso proprio che lui conferisce al significante “ripresa” contrapposto e interno alla ripetizione, in tutti i suoi lavori successivi, tornandoci sopra nel tentativo di capire e andare oltre. Quasi che l’apertura indicata come possibilità in questi lavori

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sul gruppo, fosse divenuta necessità di ripensare e riprendere alcuni assunti del legame sociale. Il suo primo saggio è dedicato proprio alla negazione, a quell’assunzione cognitiva che cancella il soggetto stesso. Ma l’invito che Fachinelli stesso ci rivolge nel suo scritto “Che cosa chiede Edipo alla Sfinge” rimane ancora attuale, come rivolto a noi per assumerci le nostre responsabilità: […] per incontrare Edipo bisogna trovarsi sulla strada di Tebe; bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica […] L’ascolto analitico deve manifestarsi come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, e quali che siano, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate […] in più, deve però anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi.

Riflettere sul legame sociale significa oggi muoversi lungo un crinale in cui il nesso tra natura e cultura va tenuto, pena il ricadere nell’assenza di socialità o nell’ideale che ci ha portato a tante tragedie.

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Fachinelli e il caso dell’uomo col magnetofono di Nestore Pirillo

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«Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una ‘scienza dell’individuo’ [… ] non è stata una ricerca di psicologia, [ma] una rilevazione dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo». Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, p. 217

1. Il paziente come ponte tra psicoanalisi, filosofia, psichiatria e letteratura L’uomo col magnetofono documenta pubblicamente un caso singolare Già al suo nascere supera i confini tecnico-professionali per investire quelli del potere, del sapere, della “scienza”1. Tra i suoi lettori e commentatori troviamo filosofi, psicoanalisti, letterati, psichiatri. La sua eco può essere evocata, nel suo nocciolo, con le parole di un grande psichiatra italiano, Franco Basaglia: “Uno psicoanalista che volesse tenere col proprio paziente una relazione diversa, alternativa, sosteneva Basaglia nel 1977, dovrebbe mettere in questione il suo potere in ogni seduta. Su questo problema, diceva ancora Basaglia,…[si] discute in un testo famoso, L’uomo col magnetofono. Un giorno, racconta Basaglia, un paziente va dallo psicoanalista con il registratore e dice: ‘Questa volta chi fa la psicoanalisi sono io, lei è il paziente e io sono lo psicoanalista’. Lo psicoanalista resta sorpreso, racconta ancora Basaglia, cerca di discutere, […] di convincere il paziente a riprendere, come era normale, il suo posto e, siccome il paziente si rifiutava e insisteva a continuare la registrazione della seduta, lo psicoanalista prese il telefono e chiamò la polizia”2.

1 Un nesso che coinvolge sicuramente Kant e la fenomenologia. Nelle Critiche ma anche nell’Antropologia pragmatica Kant, distingue il sapere tecnico-pratico da quello della scienza e della morale. Sul sapere tecnico-pratico discutono Franco Basaglia e J.-P. Sartre. Cfr. Crimini di pace: ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, a cura di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro, Torino Einaudi, 1975 (ora Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009). 2 Conferenza tenuta a San Paolo il 22 giugno 1977. Cfr F. Basaglia, Conferenze brasiliane (a cura di F. Ongaro Basaglia e M. G. Giannichedda), Milano Cortina, 2000, p. 101.

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Basaglia con la sua versione “un po’ romanzata”3 si riferiva ad un caso, il cui testo era comparso in Francia, nell’aprile del 1969 ed era stato pubblicato, con il disappunto degli psicoanalisti, una prima volta sul numero 274 della rivista diretta da Jean-Paul Sartre Les Temps Modernes, poi nel 1972 in Situations IX, uno dei volumi che raccoglieva gli scritti di Sartre; successivamente nel 1976 in una nuova edizione voluta dal suo autore, Jean Jacques Abrahams; infine in Italia, nel gennaio del 1977, lo stesso anno della conferenza di Basaglia, nelle edizioni L’erba voglio fondate per iniziativa di Elvio Fachinelli.4 In questa edizione Fachinelli comparava il caso ai resoconti clinici freudiani considerati come romanzi e lo proponeva, nella sua singolarità, aldilà di un sapere tecnico-professionale, come documento più appropriatamente vicino ad una teatralizzazione della malattia mentale5. La scena sulla quale agiva il malato si costituiva nel theatrum mundi e per discuterla Fachinelli la 3

Ibidem. J.J. Abrahams, «L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicanalista», tr. di Pinni Galante e Mariolina Bertini, Milano, L’erba voglio, 1977. Tra il 1976 e il 1982 appaiono in queste edizioni; Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakowskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva, Edizioni L’Erba voglio, Milano, 1976; Enzo Mari, Francesco Leonetti, Atlante secondo Lenin: carte dello scontro di linea, oggi, Milano: L’erba voglio, 1976; Lea Melandri, L’infamia originaria, Milano: L’erba voglio, 1977; André Glucksmann, La cuoca e il mangia-uomini: sui rapporti tra stato marxismo e campi di concentramento, traduzione di Sciana Contri. Milano: L’erba voglio, 1977; Fernand Deligny, Una zattera sui monti: stare accanto a bambini che non parlano: cronaca di un tentativo, traduzione di Mariolina Bertini, Milano: L’erba voglio, 1977; Antoine e Philippe Meyer, Storie per seicento anni: quando i muri hanno orecchi, le strade hanno bocche: battute, storielle e altre manifestazioni politiche dai paesi dell’est, Milano: L’erba voglio, 1978; Enrico Palandri, Boccalone: storia vera piena di bugie, Milano: L’erba voglio, 1979; Pietro Beltrani, Parlammo di Cézanne sul Nilo bianco: viaggio attraverso i detriti di una colonizzazione, Milano: L’erba voglio, 1980; Lewis Carroll, Viaggio in Russia: Alice nel bagaglio del reverendo Dodgson, traduzione di Lia Guerra, a cura e con un saggio di Tomaso Kemeny e dodici disegni di Luciana Morpurgo, Milano: L’erba voglio, 1980; Nicolò Ferjancic, Polonia: romanzo nomade e non casuale, Milano: L’erba voglio, 1981; Mario Botta, La casa rotonda, con contributi di Edoardo Sanguineti e fotografie di Gabriele Basilico, a cura di Robert Trevisiol, Milano: L’erba voglio, 1982. 5 Sulla storia della malattia mentale e le sue tematizzazioni filosofiche e psichiatriche, Cfr. O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, Genova, Tilgher, 1982; E. Stumpo, Bambini innocenti. Storia della malattia mentale nell’Italia moderna (secoli XVI-XVIII), Firenze, Le lettere 2000; D. Cosenza et al. (a cura di), La cura della malattia mentale, Milano: ESBMO, 1999-2001; M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, edizione italiana a cura di F. Polidori, Milano: Cortina, 1997. Sulla teatralizzazione e sul tema del teatro del mondo cfr. ID., Theatrum philosophicum, “aut aut”, 277-278, 1997. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio (1938), Torino, Einaudi, 2000; cfr. J.-P. Cavaillé, Theatrum mundi: notes sur la theatralité du monde baroque, Badia Fiesolana (FI), European university institute, 1987; A. Cascetta, Il corpo in scena. La rappresentazione del corpo nella filosofia e nelle arti, Milano: Vita e Pensiero, 1983: 4

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portò fin dentro la Società di Psicoanalisi. Alcuni mesi successivi alla pubblicazione del testo, lo psicoanalista discusse il caso in un seminario multiplo simultaneo, tenutosi su iniziativa della SPI, a Bologna nell’ottobre del 1977. Come risulta dal resoconto, il seminario ebbe un inizio imprevisto. Poiché la maggior parte dei partecipanti non conosceva il testo, Enzo Morpurgo ed Elvio Fachinelli lo recitarono, il primo nella parte di Abrahams e il secondo nella parte dell’analista. Nella discussione furono ripresi il tema della “violenza” denunciato da Abrahams, la “rilevazione critica di certi elementi ‘tecnologici’ alienanti, presenti nella situazione” e infine considerazioni “sul setting analitico, sulla parola interpretante, sul rapporto tra analista e paziente”.6 Secondo le prospettive sorte nei trent’anni successivi alla morte di Freud (1856-1939) il caso richiamava, nell’autointendimento degli stessi analisti, l’espansione della psicoanalisi e lo sviluppo delle scienze dell’uomo (filosofia, psichiatria, psicoanalisi). In questo scorcio di secolo, la discussione dei “casi” analitici, redatti da psicoanalisti di professione, aveva superato raramente il “segreto professionale”7. L’uomo col magnetofono, e questo è un indicatore di assoluto rilievo storico, aveva invertito la tendenza. Con la sua trasgressione (non era uno psicoanalista il suo autore ma il paziente) aveva permesso alla psicoanalisi di fare da ponte con le scienze umane e la filosofia, di comparare, di valutare e di discutere pubblicamente, secondo una consegna fenomenologica del sapere aude, l’interrogativo che cos’è l’uomo8. In questa discussione si tenevano insieme il problema della cura, dell’efficacia terapeutica e della conoscenza, il problema del “sapere” e del “potere”. Il tratto “concettuale” che nell’episodio veniva posto clinicamente in rilievo, riguardava la nozione del passaggio all’atto: la rottura del processo relazionale condotto e costituito attraverso la parola, il linguaggio, il simbolo. Ciò che si poneva in questione era se l’Agieren freudiano, l’acting out, doveva essere considerato sempre privo di senso e impedimento all’interpretazio6 La discussione a cui presero parte insieme a Morpurgo e Fachinelli, anche Carlo Ravasini, Eugenio Gaburri, Gianni De Renzis e Sergio Bordi, continuò “nell’assemblea generale con successivi brevi interventi” “sul potere, nelle sue specificazioni di ‘logo-crazia’ e setting-crazia”. Cfr. il resoconto di E., Fachinelli, G. De Renzis, L’uomo col magnetofono. Seminario tenuto da E. Fachinelli in «Rivista di Psicoanali», 24, n. 3 1978, pp. 436-437. 7 Un caso celebre tradotto in Italia nel 1971 e certamente esemplare di questi trent’anni è il caso del bambino analizzato da Melanie Klein. Cfr. M. Klein (1961), Analisi di un bambino: il metodo della psicoanalisi dei bambini esaminato attraverso il trattamento di un fanciullo di dieci anni, Torino Boringhieri, 1971. 8 Ci si chiedeva se l’uomo, animale simbolico, dovesse essere solo “oggetto” dell’osservazione riflessiva-terapeutica oppure anche “soggetto” preriflessivo, testimone della propria storia.

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ne/relazione oppure se poteva essere ripreso e ri-conosciuto all’interno di un processo di senso, relazione e parola9. Il problema, posto nei termini dei concetti psicoanalitici (che richiedono per la certificazione della loro diffusione l’approccio storico) riguardava da vicino la “realtà umana”, i temi antichi della passività e della soggezione, connessi al vertice epistemologico dei fondamenti della conoscenza psicoanalitica. Non a caso Basaglia, la cui formazione era «nettamente segnata dal pensiero di Sartre»10, riprendeva l’intera questione, articolandola fino alla sua istituzionalizzazione pratica. Basaglia teneva conto anche di un altro testo che aveva fatto da battistrada a questa discussione, la Storia della follia di Michel Foucault – uno studio seguito e presentato da due compagni di Sartre all’École Normale, Georges Canguilhem e Daniel Lagache11. Foucault vi sosteneva che la storia della sragione, incorporata alla psichiatria del XIX secolo convergeva verso Freud, il primo ad accettare nella sua serietà la realtà della coppia medico-paziente. La figura del medico, del terapeuta, costituiva per Foucault la chiave della psicoanalisi e del senso della relazione analitica12.

9 Sul tema è interessante consultare i materiali del convegno della SPI in occasione del quale Fachinelli nel 1977 presentò a Bologna il seminario L’uomo col magnetofono. Cfr. «Rivista di Psicoanalisi», 1978 cit., pp. 425-454. Inoltre cfr. E. Fachinelli, Il paradosso della ripetizione in Id., Il bambino, pp. 212-247. Bisogna ricordare che sul tema era intervenuto nei primi anni sessanta Lacan (cfr. J. Lacan, Il seminario, libro X: l’angoscia, 1962-1963 Torino: Einaudi, 2007). 10 Cfr. F. Basaglia, L’utopia della realtà, (a cura di F. Ongaro Basaglia; intr. di M. G. Giannichedda) Torino: Einaudi 2005 (Introduzione, p. XII). 11 Michel Foucault (1961) Storia della follia nell’età classica, Milano Rizzoli 1963 e 1972 con diverse prefazioni. In Italia il testo ha raggiunto la 9a edizione (Rizzoli 2008). Basaglia lo cita già nello scritto La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (1965). Le tesi presentate da Foucault per il titolo di professore erano due. La seconda, dedicata a Kant e l’antropologia pragmatica, era stata presentata da Jean Hyppolite. Cfr. D. Eribon, Michel Foucault (1926-1984), Paris, Flammarion 1989. 12 Per questa tematizzazione bisogna risalire da Foucault a Binswanger e intrecciare le posizioni fenomenologiche e freudiane riguardanti la professione del terapeuta nelle società di psicoanalisi. La questione tematizzata da Freud nel 1926 (Il problema della analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale, OSF, vol. 10), ha una sua storia sulla cui base andrebbe ripensata la questione in tutta la sua complessità. Cfr. in proposito la lettera a Pfister del 1928 in S. Freud, Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister: 1909-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. Inoltre cfr. G.P. Lombardo, F. Fiorelli, Binswanger e Freud: malattia mentale e teoria della personalità, Torino: Bollati Boringhieri, 1989; V.P. Babini, La vita come invenzione: motivi bergsoniani in psichiatria, Bologna: Il mulino, 1990.

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2. Ironie diverse Va sottolineato in questo contesto che Fachinelli pubblica L’uomo col magnetofono dopo che l’autore, Abrahams, come si è accennato, nel 1976 aveva raccolto e pubblicato, con altri scritti “teatralizzanti” e tutti intorno ad Edipo, il testo apparso sulle pagine di Les Temps modernes13. Inoltre, bisogna ricordare che qualche anno prima era stato tradotto in italiano Ragione e violenza il testo di Laing e Cooper, (autori che Fachinelli conosce e cita14). Il senso della malattia psichica, posto a suo modo da Abrahams, veniva ripreso in questo celebre scritto dell’antipsichiatria, come problema della presenza del “soggetto” nella pratica della cura e nella determinazione stessa della malattia15. Il caso che Fachinelli pubblicava in Italia diventava emblematico perché essendo scritto dallo stesso paziente con la “partecipazione” dello psicoanalista, offriva, da parte filosofica, da parte psicoanalitica e da parte dello stesso “malato mentale” una dimensione critica ravvicinata, oggi storicamente documentabile aldilà dei nodi polemici. Venivano a contrasto due vertici, quello della serietà scientifica del “malato mentale” e quello che invece insisteva ironicamente sulle nozioni filosofiche di realtà, reciprocità, soggetto, dialogo etc. I materiali riguardavano le possibilità situate della cura, un problema 13 J.J. Abrahams, L’homme au magnetophone, Paris, Le Sagittaire 1976, tr. it. L’uomo col magnetofono. Milano: Bompiani, 1979. In questa edizione otto scritti portano nel titolo il riferimento ad Edipo (Edipo e Tiresia, Edipo e Laio, Edipo re, Edipo e Antigone etc.). Viene inoltre pubblicata una lettera a firma di Jean-Paul Sartre (5 maggio 1969) concernente le note di Abrahams “per una rappresentazione critica dell’Edipo re”. Sul tema della teatralizzazione cfr. la nota di Fachinelli nella pubblicazione italiana del 1977 (L’uomo col magnetofono cit., pp. 61-63) e inoltre il Programma per un teatro popolare di bambini di Walter Benjamin in E. Fachinelli Il bambino dalle uova d’oro, Milano: Feltrinelli, 1974. pp. 158-168. Sulla storia del testo di Edipo rimando al noto lavoro di Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re: Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino: Einaudi, 1994. Per alcune letture psicoanalitiche sul tema cfr. il saggio di C. Albarella e M. Donadio, “Edipo e le illusioni della ragione”, in C. Albarella, N. Pirillo (a cura di), L’incognita del soggetto e la civilizzazione, Napoli, Liguori, 1993 e gli scritti raccolti in P. Campanile (a cura di), Parricidio e figlicidio. Crocevia d’Edipo, Borla, Roma 2008. 14 Cfr. R.D. Laing, D.G. Cooper, Ragione e violenza (1964), Presentazione di Jean-Paul Sartre, Roma: Armando, 1973; E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., p. 246. 15 R.D. Laing, D.G. Cooper, Ragione e violenza, cit., pp. 77-105. Si riferiscono esplicitamente a Sartre o sono associati a lui per l’analisi della condotta patologica studiosi diversi. Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1956), Bologna: Il mulino, 2007; Id., Asylums: le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), con prefazione di A. Dal Lago, postfazione di Franco e Franca Basaglia, Torino, Einaudi, 2003; M. Schatzman, La famiglia che uccide, Milano, Feltrinelli, 1973; Th. S. Szasz (1961), Il mito della malattia mentale, Milano, Spirali, 2003. Ma cfr. B. Cannon, Sartre and Psychoanalysis, Lawrence University Press of Kansas, 1991.

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che anche Sartre aveva cominciato a descrivere a proposito di Genet16, ma che risale alla storia degli intrecci tra tradizione europea della psichiatria, fenomenologia e diffusione ed espansione della psicoanalisi freudiana17. Dall’originario terreno fenomenologico e neocartesiano che aveva semplicemente opposto la psicoanalisi degli psicoanalisti e la psicoanalisi dei filosofi, la pubblicazione voluta da Fachinelli, consentiva di avvicinare anche in Italia la critica fenomenologica, penetrata nella pratica psichiatrica, alla storia della psicoanalisi e di sottolineare all’interno di questa storia, il nesso tra scienza e professione, o se si vuole, il problema del rapporto tra episteme psicoanalitico e dimensione tecnico-pratica della professione terapeutica, dimidiata del senso preriflessivo dell’interpretazione18. In consonanza con l’orizzonte europeo del secondo Novecento, l ’episodio segnalava in Italia come in Francia, l’intreccio della composizione concettuale tramite la quale era stata vissuta e pensata storicamente la terapia del malato mentale. Jean-Jacques Abrahams, autore/paziente del caso aveva reincontrato il proprio ex analista, il dott. Van Nypelseer, nel 1967 e aveva registrato l’incontro con tutta la sua violenta tensione. L’episodio, esito di una relazione analitica durata per tutto il decennio degli anni ’50 e interrotta nel 1964, dopo14 anni, documentava, come proponeva ironicamente Abrahams, un “dialogo psicoanalitico” che non aveva nulla di “dialogico”. Un paziente si prefiggeva di presentare all’analista alcune “riflessioni” sullo “scacco” di ciò che era stata la sua “interminabile relazione analitica (sott. mia)” – un tema dunque contiguo agli interessi del Fachinelli autore della “psicoanalisi della domanda” e di Claustrofilia19. 16

Il Saint Genet è del 1952 ed è tradotto in italiano nel 1972. Cfr J.-P. Sartre, Saint Genet: comédien et martyr, Paris: Gallimard, 1952, tr. it. con intr. di P. A. Rovatti, Milano: Il saggiatore, 1972. 17 Anche Franco Basaglia i cui scritti toccavano le stesse tematiche, sottolineava nella condotta del malato psichico la possibilità di un’arte di vivere con cui determinare la propria sofferenza (arte che sfuggiva all’osservazione riflessiva/scientifica occupata nel mettere a fuoco quelle determinazioni): cfr. F. Basaglia, Scritti, vol. I e II, Torino, Einaudi, 1981 e 1982. Come documentazione dell’intreccio filosofia-psichiatria e dell’interesse filosofico per questi temi nell’Italia di quei decenni cfr. la rivista aut aut 1969 n. 113 dedicato alla schizofrenia e l’articolo di D. De Salvia Antipsichiatria: critica della sua critica in «Psicoterapia e scienze umane» 4 1977, pp. 1-17; Id., Per una psichiatria alternativa (Prefazione di G. Minguzzi), Milano, Feltrinelli, 1977. 18 Un problema che in Italia si era allargato al di là della critica fenomenologica e dalle pagine di L’essere e il nulla (1943) (e dalla sua “applicazione” nel Saint Genet) si era spostato nella pratica psichiatrica di Franco Basaglia. Nel Dictionnaire Sartre è sorprendentemente assente ogni riferimento a Basaglia (cfr. Dictionnaire Sartre, sous la direction de F. Noudelmann et G. Philippe, Paris: Champion, 2004 s.v. Antipsychiatrie). 19 La registrazione di Abrahams è pubblicata col titolo “Dialogo psicoanalitico”. Per la relazione tra agire e claustrofilia cfr. E. Fachinelli (1983), Claustrofilia: saggio sull’orologio telepatico

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Il testo italiano nella elegante traduzione di Pinni Galante e Mariolina Bertini metteva come primo scritto quello del “dialogo psicoanalitico” e successivamente quelli degli studiosi che l’ avevano accompagnato. Come è noto tra gli studiosi compariva Jean-Paul Sartre; lo psicoanalista, collaboratore di Daniel Lagache, Jean-Bertrand Pontalis, il quale aveva già pubblicato con Jean Laplanche il Vocabulaire de la psychanalyse (1967) e si accingeva a dare inizio alle pubblicazioni della Nouvelle Revue de Psychanalyse20; e lo scrittore saggista, anche lui proveniente dall’École Normale, collaboratore di Les Temps Modernes, Bernard Pingaud21. A questi interventi, Fachinelli aveva aggiunto una nota di commento, preannunciata da un sottotitolo che mostrava come lo psicoanalista trentino si accostasse all’episodio. Invece che “dialogo”, L’uomo col magnetofono era un “dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista”. Dall’interno della pratica psicoanalitica, Fachinelli riprendeva le “convergenze” psichiatria-psicoanalisi, “teatralizzandole” e leggendole ironicamente non solo come problema dell’interpretazione (ermeneutica) e dei dispositivi di sapere-potere, ma come problema “ontologico”del conflitto nella relazione analitica, e quindi della traducibilità in parola della condotta malata. Invece che emettere una sentenza sul protocollo e l’illegalità dell’agire da parte del paziente, Fachinelli metteva l’accento sulla possibilità di un nuovo inizio, di una nuova alleanza o complicità22. in psicanalisi. Milano, Adelphi, 1998, pp. 188 e passim. Nel “dialogo” l’ironia di Abrahams ha accenti “socratici”: Abrahams sottovaluta se stesso e sopravaluta il suo interlocutore. Nella lettura di Pontalis la posizione di Sartre sul “dialogo” è riportata invece all’ironia del “romantico” che fa prevalere sulla “realtà” dell’analisi il “gioco” del soggetto. A partire dalla posizione peculiare di Kierkegaard, Fachinelli mette l’accento sulla realtà, ma non rinuncia all’ironia. 20 La rivista inizia le sue pubblicazioni nel 1970 e le cessa nel 1994. 21 Per l’interesse alla psicoanalisi nei romanzi di Pingaud cfr. B. Pingaud, L’Amour triste, 1950; Id., La Scène primitive (1965) e Id., Adieu Kafka, (1989). Per l’autobiografia dello scrittore cfr. B. Pingaud, Une tâche sans fin, 1940-2008, Paris, Le Seuil, 2009. 22 Per dirla con Kierkegaard, un autore caro allo psicoanalista trentino (v. Il bambino dalle uova d’oro cit., p. 238), Fachinelli sembra pensare che nell’agìto, la “libertà soggettiva tiene ad ogni istante in suo potere la possibilità di un cominciamento senza l’intralcio di legami anteriori” (cfr. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, a cura di D. Borso, Milano, Rizzoli, 1995 p. 196). Un filosofo inquietante come Rorty ripropone il tema dell’ironia nel suo testo del 1989, Contingenza, ironia e solidarietà (cfr. Id., La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà, pref. di Aldo G. Gargani; Roma Bari, Laterza, 2001). Rorty confronta la psicoanalisi con la filosofia e la considera come medium ametafisico di trasformazione. La sua posizione si lascia comparare con quella della cura di sé avanzata da Michel Foucault. Cfr. R. Rorty, «Freud e la riflessione morale», (1986) in Id., Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari, 1993. Sul tema dell’ironia (e per risalire all’ironia romantica e all’ironia socratica cfr. V. Jankélévic, “L’Ironie ou la bonne conscience” (1936), tr. it.

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3. Implicazioni di un passaggio all’atto La prospettiva del passaggio all’atto, variamente valutata, era posta in evidenza da tutti i commentatori del caso (Sartre, Pontalis, Pingaud, Fachinelli ma anche Basaglia) per la costellazione di riferimenti che implicava. In effetti nel “dialogo” Abrahams focalizzava col suo agìto una rete di problemi a cui attribuire o meno “senso”: il “problema” della responsabilità dell’analista (p. 14); il “problema” del fondamento “scientifico” della relazione analitica (p. 14), il problema della cura/guarigione (p. 17, p. 24), il problema della realtà e della parola (p. 19), il problema della professionalità del terapeuta nella relazione col paziente (pp. 23-30)23. Si può dire che il caso faceva esplodere alcune strutture teoriche della psicoanalisi, tracciate in Europa nel dopoguerra – strutture che riguardavano i nessi tra scienza e terapia e i rapporti tra paziente e analista24. L’accento sull’inconsistenza tecnico-pratica della professione nel reggere l’indagine sull’uomo aperta da Freud si legava alla richiesta di una riflessione sui materiali che l’esperienza della relazione analitica poteva fornire. Vorrei citare nella loro crudezza i “problemi” come li vede e li dice Abrahams: “Mi sono affidato ad un uomo di scienza, si legge nel ‘dialogo’ e vorrei sapere in definitiva di che si tratta, perché non sono del tutto convinto che questa ‘scienza’ non sia roba da ciarlatani” (p. 14) ... “Lei ha abusato molto di me, si legge un po’ più avanti, … mi ha un po’ truffato … lei non mi ha affatto guarito, dice Abrahams all’analista, … non sa guarire la gente; lei non sa che renderla un poco più pazza … quelli che vengono a cercare un po’ d’aiuto … ricevono solo attesa” (p. 17). E si legge ancora: “È molto importante, sa, occuparsi di guarire la gente, essere dottore … si scrivono molti libri sulla psicoanalisi; questo merita che … tentiamo … di comprendere francamente ciò che è accaduto tra di noi, perché forse possiamo ricavarne qualcosa per altre persone” (pp. 30-31). Questi problemi, tutti riducibili al nocciolo della relazione scienza-professione, sono posti da Abrahams per mettere in trappola l’analista (p. 17); la L’ironia, Genova, Il nuovo melangolo 2006 e M. Merleau-Ponty, Éloge de la Philosophie, Leçon inaugurale faite au Collége de France, Le jeudi 15 janvier 1953, tr. it. a cura di C. Sini, Milano, SE Studio Editoriale, 2008. 23 Le pagine richiamate si riferiscono, anche in seguito, all’edizione di Fachinelli de L’uomo col magnetofono, cit. 24 Nel Convegno di Bologna del 1977 il problema era tematizzato in un seminario tenuto da Luciana Nissim Momigliano: cfr il resoconto in «Rivista di psicoanalisi» cit. p. 454-455 e inoltre L’esperienza condivisa: saggi sulla relazione psicoanalitica, a cura di L. Nissim Momigliano e A.Robutti, Milano, Cortina 1992.

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stessa trappola epistemologica nella quale egli si era sentito condotto e che faceva perno, come rileva Fachinelli, sulla “realtà” (p. 19) diventata “estranea” secondo Abrahams alla verbalizzazione analitica (p. 27) e che veniva reintrodotta con la “violenza” della registrazione (sentita dall’analista, pp. 27, 31, 32), opposta alla “violenza” del divano (p. 30). La reintroduzione della realtà è considerata da Abrahams “un eccellente capitolo della psicoanalisi” (p. 39), quello che, come dice Sartre nella sua nota, una “nuova generazione di psichiatri” aveva aperto in Italia e in Inghilterra a partire dalla questione della reciprocità (p. 51). In questo capitolo il terapeuta invece che professante una scienza, veniva considerato agente di una morale di malafede, nascosta dietro gli ideali positivistici25. Al posto della psicoanalisi dei filosofi e degli epistemologi Abrahams sembrava voler proporre una psicoanalisi della realtà umana: una psicoanalisi, cioè, potremmo dire oggi, non solo scienza e non solo ermeneutica, non solo linguaggio e non solo narrazione o relazione o dialogo, o edificazione, pratica psico-medica o filosofica. Fachinelli riprendendo alla radice questo motivo, sostiene polemicamente che se il rifiuto di pubblicazione del caso avanzato da Pontalis avesse avuto esito, Abrahams si sarebbe visto respingere nella realtà quello che era stato il suo più importante tentativo di entrarci (p. 59). Il punto di partenza di Fachinelli in relazione al caso era non la risposta dello psicoanalista, bensì la “domanda (sott. mia) parziale se si vuole ma pungente [posta da Sartre], quella della violenza (o del potere) che sta dentro la relazione psicoanalitica” (p. 58).

4. Il “soggetto ferito” Il senso della domanda posta da Sartre, con cui Fachinelli si confronta, si può riassumere con le stesse parole con le quali Sartre aveva presentato nel 1964 il lavoro di Laing e Cooper. “Sono del parere, scriveva Sartre, che non sia possibile comprendere le turbe psichiche dal di fuori, partendo dal determinismo positivista, né credo si possa ricostruirle attraverso una combinazione di concetti che restano all’esterno della malattia vissuta. E credo, inoltre, che non si possa né studiare né guarire una nevrosi senza un rispetto radicale per la persona [sott. mia] del paziente, senza uno sforzo costante per cogliere la situazione di base e riviverla, senza che ci si ado25

Cfr., infra, i par. Il paziente come altro e La parola del filosofo.

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peri per rintracciare la risposta della persona [sott. mia] a questa situazione… Considero la malattia mentale come la via d’uscita che l’organismo libero, nella sua unità totale, si inventa per poter vivere una situazione invivibile”26. Per “persona” Sartre non intendeva una “maschera” spiritualistica, copertura di forze energetiche “materiali” (biologiche o psichiche), esterne al vissuto del paziente, ed opposte ad un’“idea” di uomo. Sartre intendeva con “persona” il progetto stesso (riuscito o meno) del paziente che significava, secondo un senso singolare, quelle stesse forze che lo facevano espressione di una malattia e che solo per astrazione potevano essere considerate prescindendo dal senso che le faceva apparire 27. Il problema del malato psichico (o del malato mentale28) come persona è il contenuto del caso dell’uomo col magnetofono, discusso da Sartre, Pontalis, Pingaud e infine da Fachinelli con diverse argomentazioni. Non a caso, nella sua nota a L’uomo col magnetofono, Sartre, dopo aver sottolineato che il “dialogo” veniva pubblicato a seguito di un “compromesso” tra la sua posizione e quella di altri redattori della rivista, espone i motivi per i quali è dell’avviso di pubblicare il caso “a titolo di scandalo benefico e benigno” (p. 51). L’incontro registrato, egli dice, avviene nell’ “ambito di una relazione analitica”, nella quale è tematizzata e documentata «l’irruzione del soggetto nello studio dell’analista, o meglio il capovolgimento del rapporto univoco che lega [nel paziente]… il soggetto della propria ferita al malato oggetto dell’osservazione terapeutica» (p. 47). Il soggetto del caso Abrahams era un uomo incompiuto. Non un “soggetto perfettamente libero e sano”, ma il soggetto “bisognoso di aiuto”, che intravvedeva attraverso la “parola detta” (cioè la voce dell’analista, come sottolineerà Fachinelli), la scoperta e la costruzione di un altro mondo. Proprio perciò, nel dialogo, i ruoli, secondo Sartre, si invertivano e appariva che il soggetto in questione non era il “quasi-oggetto”, l’Io, l’Ego dell’osservazione/riflessione psicoanalitica ma l’“agente”, il “soggetto della storia” (p. 45). Secondo Sartre, col suo irrompere questo soggetto metteva a fuoco: 1) la “situazione di abdicazio26

Laing e Cooper, Ragione e violenza, cit., p. 7. Questo problema del senso, dell’autodeterminazione, della scelta, dell’appartenersi come essere per sé, si pone oggi con la medesima problematicità discussa da Fachinelli. Il caso di Ron Coleman (R. Coleman, Guarire dal male mentale a cura di F. di Paola, Roma, Manifestolibri, 2001 e 2005), conosciuto qualche anno fa anche in Italia, ripropone a partire da uno scenario inglese la critica filosofica nella psichiatria e nella psicoanalisi. Sul richiamo dei due casi v. l’articolo di A. Pirella, Le voci di dentro, «Il Manifesto» 31 luglio 2001. 28 Sulla dizione cfr. il resoconto del seminario sul dolore mentale tenuto da Eugenio Gaddini nel 1977 in «Rivista di psicoanalisi» cit., pp. 440-446. 27

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ne dell’analizzato a favore dell’analista”; 2) l’ “impossibile reciprocità” tra i due; 3) un’interpretazione /spiegazione che proveniva al malato come “una parola di pietra” la quale non consentiva il riconoscimento del “soggetto ferito”. Abrahams non aveva scelto, scrive Sartre, tra la psicoanalisi e l’essere soggetto ma aveva tentato di essere, nella relazione analitica, un “testimone” della propria soggettività invece che un “oggetto pietrificato da un pensiero sovrano”. Nell’acting out, nel passaggio all’atto, polemizza ancora il filosofo, “l’atto che dà un senso al senso che a noi è giunto, gli analisti non si sono preoccupati fino ad ora di rendercene conto” (p. 51). Con l’accento sul “soggetto” e il “passaggio all’atto”, Sartre poneva insieme il problema dell’analisi-terapia che non riesce e il problema di un’interpretazione meramente epistemologica e/o ermeneutica, ( “scientifica”o “narrativa”), produttiva di “effetti” esterni alla condizione umana, spontanea, del paziente29. Il filosofo fa riferimento, in particolare, a quella parte di “dialogo” nella quale tra analista e analizzato si parla della “realtà” e del “pericolo” che essa implica (pp. 19, 49 e passim ). Significativamente Sartre evoca la “Unheimlichkeit” freudiana e l’ “estrangement” di Lacan per rendere visibile la debolezza di una discussione meramente tecnico-deontologica della professione senza nesso col retroterra metapsicologico30. La pratica psicoanalitica di cura, isolata dalla consapevolezza critica di questo retroterra, secondo Sartre (Basaglia, e Fachinelli) poteva accogliere la “realtà” solo se già costituita in una “visione del mondo” (p. 49).

29

Il problema del costituirsi della soggettività sia per l’ “agente della terapia” sia per il “quasi oggetto”, l’Io, l’Ego guardato nell’osservazione/riflessione analitica, coinvolge l’interpretazione , la parola, etc. Secondo Sartre il problema di questo nesso era affrontato “in Inghilterra, in Italia, … [dove] una nuova generazione di psichiatri cerca di stabilire con le persone che cura un legame di reciprocità. Senza rinunciare all’immenso apporto psicoanalitico, questi psichiatri rispettano prima di tutto in ogni malato l’agente, il soggetto, la libertà deviata di agire” (Ragione e violenza, p. 51) Per una documentazione del tema in questo decennio cfr. A Sabbadini, Le comunità antipsichiatriche inglesi, aut aut 135, 1973, pp. 59-74. 30 S. Freud, Il perturbante (1919) in OSF 9. Sull’“estrangement” di Lacan ripreso da Sartre Cfr J.-P. Sartre, L’idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857, Paris: Gallimard 1971, p. 24 e passim, e il lavoro di Grégory Cormann, «L’indisable sartrien entre Merleau-Ponty et Lacan», Recherches & Travaux, 71, 2007. Sul termine-concetto cfr. Graziella Berto, Freud, Heidegger, lo spaesamento, Milano: Bompiani, 1999 e inoltre Ernesto De Martino, La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), a cura di Clara Gallini, introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Torino: Einaudi, 2002.

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5. Il paziente come altro Prontamente nel suo intervento Pontalis ironizza anche lui sul “passaggio all’atto” e sugli esiti straordinari della “reciprocità” e del “soggetto”. Riprendendo il problema sollevato da Sartre dell’“Unheimlichkeit”, dell’ “estrangement”, della esteriorità della violenza nella coppia analitica, sottolinea che lo stesso Sartre non aveva mai celebrato la salvezza dell’uomo con il “dialogo”. Altrimenti, egli scrive, Sartre “non avrebbe saputo dare testimonianza, come ha fatto, dello scacco di ogni reciprocità né conferire a quelle che ha definito ‘situazioni-limite’ – tra le altre la follia – il loro valore esemplare” (p. 53)31. Pontalis cita come esempio di questa “testimonianza” di situazioni-limite, tre testi di Sartre: un racconto, La camera e due opere teatrali, A porte chiuse, e I sequestrati di Altona – considerato “dramma mirabile nel quale su un altro teatro, un magnetofono già serviva a fissare le tracce di un ‘dialogo interiore’ ” (p. 53). I tre testi richiamati da Pontalis hanno come è noto, un tema comune: la segregazione e il giudizio. Il racconto La camera (1938), ripreso in Il muro (1939) descrive la solitudine e la “sragione” nel rapporto col folle. A porte chiuse (1944) descrive l’inferno come rapporto intersoggettivo nel quale ogni soggetto è segregato sotto lo sguardo dell’altro. I sequestrati di Altona (1959) mette in scena sullo sfondo della rinascita della Germania uscita dal nazismo, la segregazione di soggetti vittime e responsabili della loro impotenza etico-civile32. Insieme i tre testi sono indicatori della “patologia della libertà” esplicitano una situazione in cui i soggetti entrano in rapporti di “malafede” e si incontrano secondo “una alterità seriale” (che esclude progetti di reciprocità). Più che un impossibile reciprocità o “dialogo”, il filosofo mette in evidenza il problema del riconoscimento del soggetto. Nelle situazioni narrate e teatralizzate nei tre testi richiamati da Pontalis o nella situazione di Abrahms, egli sottolinea lo scacco a priori del dialogo tra il soggetto della conoscenza/o dell’interpretazione e il suo oggetto così come, nello stesso tempo, sottolinea la possibilità e il problema della “reciprocità” tra soggetti imperfetti. Nella relazione analitica il filosofo vede un soggetto imperfetto perche supposto

31 A differenza di Pontalis, va rilevato che nel seminario tenuto da Fachinelli a Bologna, Carlo Ravasini sottolinea la “‘violenza’ insita nella non reciprocità del rapporto che Abrahams, a differenza dell’analista, vuole e riesce a mettere efficacemente in discussione” Cfr. il resoconto di L’uomo col magnetofono, in «Rivista di psicoanalisi», cit. p. 437. 32 Cfr. J.-P. Sartre, Il muro, Torino, Einaudi 1995, pp. 33-64; Id., A porte chiuse, Milano, Bompiani 1991; Id., I sequestrati di Altona, Milano, Mondadori 1988.

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“sovrano” e ignaro della propria fattità (lo psicoanalista), e un soggetto imperfetto perché “ferito” (paziente/interpretato). Secondo Sartre la relazione di “reciprocità” non è riconducibile a “qualcosa” da conoscere soltanto, o ad un testo da interpretare; né si svolge nella comunicazione tra un soggetto che conosce e parla, e un altro che non conosce e che perviene alla soggettività tramite una parola/conoscenza, purificata dai fantasmi dell’immaginazione. La reciprocità, secondo Sartre, richiede, fenomenologicamente, il “progetto” di un rapporto tra soggetti incompiuti – la stessa incompiutezza che l’analista di Abrahms non poteva accettare. Sartre vi fa riferimento quando accenna ai “validi interlocutori” che “in Inghilterra e in Italia”, “senza rinunciare all’immenso apporto psicoanalitico”, cercavano di rispettare nella persona in cura, “l’agente, il soggetto, la libertà deviata di agire (p. 51)33. Paradossalmente la lettura di Pontalis pone in evidenza la differenza di profilo tra prospettiva dialogica e prospettiva di reciprocità, tra una “parola” ermeneutica o scientifica che cura avendo sciolto il “vissuto” in un “linguaggio”, in un sistema preordinato di segni da interpretare; e una parola che intanto può diventare terapeutica in quanto non traduce in pensiero/ categoria la “babele dell’inconscio”34. Come scriveva Basaglia nel 1964, l’incontro terapeutico può svolgersi, paradigmaticamente, “sia in un comportamento di malafede… sia in un comportamento di scelta”. Il comportamento di malafede è quello che intende la presenza a sé del malato come determinazione altra. Il “comportamento di scelta” è quello per cui “medico e paziente si pongono in un rapporto nel quale l’esistenza di entrambi viene posta in gioco… in maniera che la reciproca libertà venga rispettata come presupposto necessario in vista del fine insieme scelto”35

6. Le due psicoanalisi La posizione di Pingaud è ancora più ostile allo sfortunato Abrahams. Pone l’accento sull’ineluttabilità di una terapia/violenta e sull’impossibile convergenza tra terapia psicoanalitica e critica psichiatrica. Per Pingaud il “testo di 33 Per la lontananza tra la reciprocità considerata da Sartre e l’essere-con di Heidegger cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), tr. it. di G. Del Bo, revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Milano: Net, 2002, pp. 290-295. In merito cfr. F. Basaglia, Ansia e malafede (1964). 34 J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, La Babele dell’inconscio: lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Milano, Cortina 2003. 35 Cfr. F. Basaglia, Ansia e malafede (1964) ora in Id., L’utopia della realtà, cit., pp. 10, 15-16 e passim.

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Abrahms… non va oltre il passaggio all’atto” (p. 57). La sua pubblicazione interviene “con molta leggerezza in un rapporto tra ‘medico’ e ‘malato’ di cui non sappiamo nulla o quasi” (p. 54)36. “Non c’è bisogno di essere grandi esperti di psicoanalisi, dice lo scrittore, per capire che questo ‘passaggio all’atto’ fa parte di quella stessa cura che si suppone contesti” (ivi). Merito del compromesso raggiunto nella rivista con la pubblicazione del “caso”, era stato quello di aver messo in evidenza “una terapeutica della reciprocità” diversificata da “una terapeutica della ‘violenza’” (p. 57). Dopo aver fatta propria la tesi secondo la quale Freud non nega il soggetto ma lo “decentra” e lo deriva nel suo costituirsi dal non soggetto, Pingaud conclude che in un certo senso il soggetto è sempre presente e sempre da conquistare (p. 57). Sartre secondo Pingaud forzava il contenuto del “dialogo” in favore della sua “personale concezione del soggetto” (p. 56). Il rimando agli “psichiatri italiani e inglesi” (p. 55) rivelava ambiguamente la proposta di “un’altra psicoanalisi fondata su di un’altra concezione dell’uomo” (p. 55). In sostanza per Pontalis e per Pingaud, il problema della “reciprocità” e del “soggetto” nella relazione analitica restavano inconcepibili. Entrambi focalizzano l’attenzione esclusivamente sull’agito di Abrahams e non riprendono mai a guardare l’altro polo della coppia, come fa Sartre e, ironicamente, Fachinelli. Il fatto che Von Nypelseer non riesca ad interpretare e tenga del tutto fuori dalle proprie considerazioni la sofferenza dell’ex paziente, non solleva nessun dubbio tecnico sulla possibile “perversità” della posizione dell’analista37.

7. Oltre il problema del soggetto Di fronte a questi interventi, bisogna dire subito che il commento di Fachinelli è molto denso, pieno, difficile. Fachinelli non fa il filosofo, né l’epistemologo, né – come fa Pontalis e come aveva fatto l’analista di Abrahams – si chiude nella sua presunta sovranità, rifiutando il confronto e i problemi 36

Più articolatamente, secondo Gianni De Renzis che partecipa al seminario tenuto da Fachinelli a Bologna e interviene a questo proposito, «Il setting è interno alla pratica e alla teoria analitica e nello stesso tempo è rappresentante dell’esterno, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti». Cfr. Rivista di Psicoanalisi cit., p. 437. 37 Nel seminario tenuto da Fachinelli il problema non sfugge a Enzo Morpurgo che pone in evidenza invece “come il carattere drammatico della seduta” permetteva di cogliere sia “il senso della vita dei singoli” sia “il senso della parola interpretante dell’analista”. Cfr. Rivista di psicoanalisi cit., p. 437.

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posti dal “paziente ferito”. Come analista, Fachinelli si confronta con tutte le posizioni. Riporta in un contesto analitico, la critica filosofica di Sartre: il problema della persona/libertà, il problema della scrittura e la protesta del paziente. Mette da parte la “psicoanalisi della risposta” e gli stessi presupposti fenomenologici da cui parte Sartre, per evidenziare la domanda sollevata all’interno della relazione analitica. La messa in atto di Abrahams e la critica filosofica, il problema del linguaggio teatrale con la stessa citazione di Kierkegaard, sono riportate dentro la pratica dell’interpretazione. Il titolo della nota, “La parola contaminata”, indica il senso di marcia. Fachinelli sembra rinviare ancora una volta al problema che preme nella storia della psicoanalisi in Italia: che cos’è l’uomo sulla base e in relazione all’esperienza analitica? Come si compone in questa esperienza il prendersi cura? Il caso de L’uomo col magnetofono non spingeva ad una discussione dottrinaria di teorie epistemologiche o di visioni del mondo ma ad una discussione della psicoanalisi in atto, nella pratica della professione – considerata non solo come esercizio tecnico e deontologico, ma in un nesso strettissimo con la “scienza” che la produceva. Fachinelli adopera la professione per sperimentare l’illuminarsi di strutture, relazioni etc. tramite le quali la realtà umana, la persona, passa e si forma, originariamente, nella sua singolarità. Nello svolgersi della relazione analitica, l’uomo, per lo psicoanalista trentino, non è sempre lo stesso preordinato animale simbolico con una storia/arbitrio spiegabile attraverso una svolta linguistica e “l’adeguazione mimetica alla linea traduttoria-interpretativa dell’analista” (p. 60). Nel caso Abrahams, scrive Fachinelli, “qualcosa che è nato dentro e intorno alla relazione analitica viene respinto dai due analisti” (Von Nypelseer, l’analista di Abrahams e lo stesso Pontalis) “i quali in questo modo semplicemente rifiutano il movimento in atto. A questo punto, conviene Fachinelli, è ovvio che ritorni insistente l’inquietante domanda di Abrahams: “ma che cos’è la realtà’?” (p. 60). Il problema della “realtà” dell’uomo, prima del conflitto delle interpretazioni, fa da discrimine alle diverse scuole epistemologiche. Più che una posizione di metodo, la nota di Fachinelli, con la sua tematizzazione, riprende la critica di Sartre (le posizioni svolte da Basaglia) e per così dire le chiose di Pontalis e Pingaud. Per Fachinelli, Sartre aveva posto il problema della “reciprocità” in analisi, Pontalis quello del suo scacco, Pingaud quello della sua conquista. Questi tre commenti producevano una “curiosa immobilità”: non facevano digerire alla psicoanalisi il “sasso”, costituito dal caso di Abrahams – il quale Abrahams rimobilitava la questione con la pubblicazione nel 1976 della registrazione messa insieme ad altri scritti. Con più evidenza si vedeva in questa edizione, secondo Fachinelli, come il problema della “persona”, del soggetto, si poneva insieme a quello della

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“realtà”. Persona e realtà che la psicoanalisi rischiava di rifiutare e che da Abrahams erano stati “messi in scena” e “teatralizzati” (p. 60-61). Fachinelli sostiene che Abrahams “rovescia” la relazione e mira, come aveva sottolineato anche Basaglia, a prendere “esattamente il posto dell’analista”: è lui che interpreta, mentre l’analista non ci riesce (p. 64). Ma, sostiene ancora Fachinelli, quello di Abrahams non è solo e non è più il problema di un atto che fuoriesce da un “processo cieco” e capovolge il potere dell’interpretazione, come aveva rilevato Sartre, ma è un movimento che va oltre il potere della parola interpretante, oltre il problema della violenza/esteriorità e lo statuto di oggetto analitico. È un movimento che “apre oltre il problema del soggetto” (pp. 67-68) – consentendo alla psicoanalisi di digerire il sasso sartriano e le sue remote radici.

8. La parola del filosofo Gli argomenti con cui Fachinelli legittima questa “digestione” (la “digestione” da parte della psicoanalisi del problema filosofico del soggetto) sono connessi intimamente con la tematica della teatralizzazione e della messa in scena presente negli scritti di Abrahams38. Già nell’edizione francese del 1976 figura una lettera di Sartre, datata 1969 (p. 282), nella quale il filosofo a proposito delle “Note per una rappresentazione critica di Edipo re”, uno scritto inviatogli da Abrahams (pp. 97-108), si dice colpito dalla “rappresentazione critica” tra attore e spettatore, descritta dallo stesso Abrahams. In questa rappresentazione, scrive il filosofo, è indicata una relazione tra due soggetti: l’attore e lo spettatore. L’attore che sulla scena conduce da solo l’indagine su di sé, provoca una catarsi nello spettatore. Secondo Sartre, Abrahams delineava nelle sue Note l’opposizione di due registri di analisi. Da una parte l’analisi di un attore che indagando se stesso si mostrava allo spettatore, gli consentiva di interiorizzare silenziosamente l’indagine e di 38

Bisogna dire che il “Dialogo” diviso in due atti unici che componevano un unico spettacolo andò in scena nel novembre del 1977, il mese successivo alla “teatralizzazione” messa in atto a Bologna da Morpurgo e lo stesso Fachinelli. Annunciata a gennaio, nella nota dello psicoanalista che accompagnava la pubblicazione del testo, la messa in scena ebbe due repliche: una sulla scena dei seminari della SPI e un’altra sulla scena del teatro di avanguardia, al Teatro Flaiano di Roma per la regia di Mario Ricci. Gli attori erano Luigi Vannucchi e Giovanni Poggiali; le scene di Claudio Previtera; i costumi di Angela Diana. (Comunicazione di Sandro Piccioni, Centro Studi Associazione Teatro di Roma). Cfr. W. Pedullà (a cura di), Il Teatro Argentina. 1732-2001, Roma, Editore Gangemi, 2001. Sul teatro di avanguardia di Ricci cfr. L. Franco e E. Zaccagnini, a cura di, La luce solida. Il teatro di Mario Ricci, Roma Unmondoaparte editore 2010.

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riapprendere ad affrontare Edipo, affrontando se stesso; dall’altra l’analisi di un attore, il paziente, che si denudava utilizzando un linguaggio impostogli dall’esterno, mentre l’analista taceva senza farsi vedere. La rappresentazione di Abrahams tendeva a restaurare, secondo Sartre, senza perdere l’acquisizione delle conoscenze apportate dalla psicoanalisi, “il rapporto umano di soggetto e soggetto”, rendeva visibile la funzione liberatrice del teatro. Sarebbe interessante, concludeva il filosofo, concepire, una scuola teatrale nella quale nuovi attori prendono coscienza della loro “funzione catartica” e consentono allo spettatore di ottenere la trasformazione del proprio statuto, il passaggio dalla passività all’azione. Nell’analisi, annota Sartre è in questione la “presenza a sé” – un fine non solo proprio della messa in scena che Abrahams chiamava “teatroterapia”, ma della stessa filosofia che tematizza l’apparire del soggetto (la presenza, la messa in scena). Sartre riconduceva sul piano filosofico, la messa in scena del soggetto. Fachinelli che riprende il problema e lo porta su un piano analitico, discute che cosa significa la messa in scena di ciò che originariamente nella psicoanalisi è presenza. A questo proposito egli rileva che tra gli scritti aggiunti al Dialogo psicoanalitico si trovavano non solo “riflessioni sul linguaggio e la scrittura, d’intonazione lacaniana” ma anche “veri e propri atti unici con Edipo… e Laio, Tiresia, Giocasta, in veste di protagonisti” (p. 61). Si fa avanti, nota lo psicoanalista, attraverso brusche rotture un “linguaggio scenico” condensato in tratti sempre più poveri di “finzione” e orientati verso “una messa in scena personale”: Abrahams si rappresenta un paradiso originario da cui è continuamente espulso” (p. 60), simile a quello descritto dalle religioni, dalle letterature, dai miti, ma che qui è il paradiso del “rapporto primordiale madre-bambino”. “Da questa esigenza senza limiti di una ‘pienezza originaria’ (p. 157), scrive Fachinelli, nasce per Abrahams l’ambiguità delle parole”. Le parole possono rappresentare la presenza totale assente e nello stesso tempo, proprio perché rappresentante di essa, possono finire per farla accettare come assente e sanzionare il fallimento della ricerca. Di qui, nella teatralizzazione operata da Abrahams, conclude Fachinelli, il rifiuto “di una conversione in parole di ciò che manca e che deve avvenire non essere detto” (p. 67).

9. La parola dell’analista In effetti Fachinelli si chiede con Sartre: chi è, che fa l’uomo col magnetofono, qual è il senso del passaggio dalla passività all’azione – e così risponde: Col magnetofono Abrahams intendeva “appropriarsi della voce dell’anali-

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sta” (p. 62). Il magnetofono catturava e riproduceva a piacere quella voce (pp. 64-65). Consentiva [come una specie di rocchetto] di poter tentare un nuovo “inizio di ‘lavoro scientifico’ comune. L’insistenza sulla voce, proprio sul suo aspetto fonico, come mezzo fondamentale per cercare di ristabilire ‘l’accordo perfetto’ primordiale del rapporto madre-bambino o di ciò che Abrahams chiamava tale era [nel libro] piuttosto chiara” (p. 65). Il senso più urgente della registrazione stava, secondo Fachinelli, nella “capacità tecnologica di afferrare e ricreare … una (parziale) presenza fisica delle persone assenti” (p. 65). Abrahams, come altri soggetti borderline, psicotici, sostiene lo psicoanalista, cercava di far valere con “un movimento diverso [da quello del rocchetto], di cui occorre sottolineare insieme “la problematicità e la positività” (p. 70), una presenza parziale (la voce) per la persona intera (p. 66). Questa presenza (parziale) consentiva di ricostituire un legame essenziale, nel momento in cui la realtà lo dichiarava distrutto. Per un momento, dice Fachinelli, la verità del rapporto nega la morte (p. 67) e porta ad espressione (con la problematica del lutto, della crisi della presenza e dell’angoscia della storia), una “divaricazione storica dell’analisi” (p. 68): la “traducibilità” in parole di ciò che accade, l’ “equivalenza verbale” (p. 68) [tra vissuto e interpretazione], il problema di una “semiotica psicoanalitica” (p. 69) con cui delineare un “codice della normalità” (p. 69) e annettersi l’ “intersoggettivo”, il “consenso” e la sfera del singolare (p. 69)39. Per Fachinelli, Abrahams, da una parte tentava di conquistare la “parola analitica” pura, incontaminata: una parola-semiotica; dall’altra cercava sulla base di questa conquista di prospettare col magnetofono una parola complice, contaminata, avvinghiata alla realtà, imperfetta (p. 70) – “estetica”. Cercava un’alleanza attraverso l’imperfezione. Mentre l’analista di Abrahams, il dott. Van Nypelseer e lo stesso Pontalis tendevano in qualche modo a ricondurre la realtà ad interpretazione “sovrana” (puro linguaggio, ermeneutico o scientifico), Fachinelli sostiene che la parola dell’analista, invece, dovrebbe mantenere un contatto con la realtà di ciò che viene analizzato. Secondo Fachinelli, non si può tradurre tutto in parola. La realtà che non si fa ricondurre tutta alla costruzione di un racconto, è la storia del corpo/soggetto. La parola dell’analista è duplice come i due corpi del re. È sovrana ed è finita, è pura e contaminata.

39 Problema affrontato in quegli anni in Italia da Fornari: cfr. F. Fornari, Genitalità e cultura, Milano: Feltrinelli, 1975, p. 24 e passim. Fornari criticava in questo studio le letture “estetiche” della psicoanalisi svolte da Marcuse e Lacan. Cfr. anche F. Fornari, Simbolo e codice, Milano, Feltrinelli 1976; Id., Il codice vivente, Torino, Bollati Boringhieri 1981.

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10. Kierkegaard, l’Eros e il diavolo Ha senza dubbio un suo rilievo soffermarsi sull’autore e il testo a cui Fachinelli rimanda per argomentare la propria posizione, riguardante la “parola contaminata” senso dell’acting out di Abrahams. In effetti il rinvio è peculiare. L’autore citato, caro a Fachinelli e a tutta la psichiatria fenomenologica, è Kierkegaard. Il testo citato, però, non sta tra quelli più discussi nella tradizione fenenomenologica. Non riguarda infatti né l’ “angoscia” né la “malattia mortale” bensì un tema più propriamente psicoanalitico e filosofico: la natura dell’Eros in tutta la sua ambiguità. Il titolo del testo di Kierkegaard, citato, è pertanto già significativo: “Gli stadi erotici immediati ovvero il musicale erotico”40. Guardando alla grecità Kierkegaard vi sosteneva una tesi “paradossale”, che consente a Fachinelli di svincolare dall’impianto evoluzionistico e naturalistico la dimensione “storica” del paradigma psicoanalitico e di riproporlo in una dimensione più complessa, che già Marcuse nello stesso decennio della tragica analisi di Abrahams aveva affrontato, guardando alla modernità41. Riporto alcuni passaggi dello scritto che possono contribuire a contestualizzare, secondo la lettura dello psicoanalista trentino, la funzione estetica di una parola contaminata col “mondo”, col “corpo”, differenziata se non opposta ad una parola-pura/semiotica, etica. La tesi di Kierkegaard è la seguente: il cristianesimo ha introdotto nel mondo, la “sensualità” come demoniaco; cioè “come principio, come forza” estetica, “spiritualmente determinata” in quanto esclusa (rimossa) dallo spirito e comunicabile, comprensibile, “musicalmente” come “la potenza della natura, il demoniaco”. Contrariamente al mondo antico, dove la sensualità non si dava come “una pericolosa nemica da soggiogare”, “una pericolosa ribelle”, il mondo cristiano, scrive Kierkegaard, pone il principio della sensualità come forza “da tenere a disciplina” (p. 125). Risultante dei “dissidi tra la carne e lo spirito”, la sensualità richiede un’espressione immediata sottratta alla determinazione etica della parola. Se nella “grecità” l’amore è “psichico… sempre in armonia con la sensualità”, nel cristianesimo sostiene Kierkegaard, l’“amore non è psichico ma sensuale … privo di fede … sempre e solo una ripetizione”. 40 «Gli stadi erotici immediati ovvero il musicale erotico» (1845) in S. Kierkegaard, Enten-Eller: un frammento di vita, a cura di Alessandro Cortese, Milano: Adelphi, 2000, pp. 105-212. 41 H. Marcuse, Eros e civiltà (1955) Torino: Einaudi, 2003; S. Kierkegaard, Don Giovanni: la musica di Mozart e l’eros (1945), Introduzione di Remo Cantoni, Milano: Mondadori, 1997.

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Kierkegaard pensa all’interno del cristianesimo occidentale e della storia della cultura europea. La figura del Don Giovanni di Mozart esprime, per lui, questo Eros/vitalità/sensualità/estetica. “Don Giovanni, scrive,… non è carattere ma essenzialmente vita” (p. 193); “non ha… la potenza della parola … [e non] cade sotto determinazioni etiche … La forza con cui … seduce [sott. mia] … è quella del desiderio. L’erotico è … seduzione”42. “L’energia del desiderio sensuale … questa forza [che] … la parola non … può esprimere[e che] … per la riflessione … è indicibile … può essere espressa solo dalla musica”43. Come si vede il saggio a cui rinvia Fachinelli è arduo e può essere piegato secondo più vertici di lettura, letterario e filosofico44. Il problema però qui è comprendere il vertice proposto dallo psicoanalista. A tale proposito si può dire, forse, senza pretese fondamentaliste, che Fachinelli accenna alla dimensione “storica” delle problematiche estetiche ed etiche di Eros e Agape per riprendere il senso (“estetico”) di marcia che propone. In merito al paradigma freudiano della sessualità e alla funzione interpretante dell’analista nello stadio erotico “cristiano”45, il “caso” Abrahams

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«Allorché la sensualità si mostra come ciò che deve essere escluso, come ciò con cui lo spirito non vuol avere a che fare… Allora la sensualità assume questa forma, è il demoniaco nell’indifferenza estetica» (p. 158). Demoniaco, estetico sono associati da Kierkegaard alla non parola, al silenzio, al non concetto. Don Giovanni è la figura estetica del demoniaco opposta a Faust. Don Giovanni è l’uomo dell’ontologia; Faust è l’uomo della gnoseologia. La seduzione di Don Giovanni è presenza tramite la ripetizione; la seduzione di Faust è presenza tramite la conoscenza. Cfr. A. Clair, «Le mythe de Faust et la pensée du démoniaque», in Id., Kierkegaard. Penser le singulier, Paris, Cerf, 1993, cap. IV pp. 117-144; M. Praz «Le metamorfosi di Satana», in Id., La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Milano, Rizzoli 2008; e il lavoro di Enrico Castelli recentemente ristampato, Il demoniaco nell’arte: il significato filosofico del demoniaco nell’arte, a cura di E. Castelli Gattinara; introduzione di C. Bologna. Torino Bollati Boringhieri, 2007. Come è noto, per Freud gli stati di possessione demoniaca corrispondono alle nevrosi: cfr. S. Freud (1922), Una nevrosi demoniaca nel secolo decimo settimo, in OSF 9. 43 “La musica è adattissima a far questo perché… dice l’universale in tutta la sua universalità… non nell’astrazione della riflessione ma nella concrezione dell’immediatezza”. Cfr. Gli stadi erotici immediati ovvero il musicale erotico cit., p. 164, inoltre pp. 124, 125, 127, 128, 161, 153, 162, 169-172, 193. Per uno studio sul rapporto psicoanalisi e musica cfr. F. Barale, V. Minazzi, «Sentieri interrotti: Freud, il sonoro, la musica. Posizione di un problema», in M. Conci, M. L. Martini (a cura di), Freud e il Novecento, Prefazione di N. Pirillo, Roma, Borla, 2008, pp. 181-204. 44 Il rimando novecentesco più vicino, che concerne la figura di Faust “un’idea storica” richiamata da Kierkegaard, è forse quello del Dottor Faustus, con le evocazioni di Thomas Mann e Theodor Wiesengrund Adorno. 45 Cfr lo studio di Anders Nygren, Eros e agape: la nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Introduzione di Franco Bolgiani, Bologna: Il mulino, 1971. Dall’interno della storia

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mostrava che è possibile interpretare con “una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola”. La parola non scissa è lo stesso linguaggio-musica, impregnato di realtà umana, in parte ineffabile, che riguarda il “corpo”, il supporto “fonico e affettivo” della parola stessa, “i correlati passionali, gestuali, dialettici” (p. 70). Era la parola-voce che Abrahams avrebbe voluto carpire al suo malcapitato analista – parola che secondo Fachinelli si perde o si cancella “per il rifiuto interpretante (corsivo mio) di molti analisti, se non della loro maggioranza”46. È vero, avverte l’analista trentino, che in questo procedere “si corrono molti pericoli” come quello di cadere nella “sottoesistenza tragica” (nella solitudine e nell’agìto della non parola) indicato dallo stesso Abrahams. Ma avere indicato questo procedere e il suo pericolo, dice ancora lo psicoanalista trentino, costituisce comunque il merito di Abrahams. Per Fachinelli, Abrahams, paziente e soggetto, era giunto se non proprio a comprendere, comunque ad afferrare che, come nella tragedia greca, rappresentare la minaccia di morte significa cominciare già a guarire (p. 70)47.

della psicoanalisi in Italia va messo in evidenza che Fachinelli riprende il vertice “estetico”, rifiutato invece da Fornari (supra, n. 10) e rivendicato da Meltzer (infra n. 45). 46 La “musica della voce” che toglie alla relazione analitica “la mistificazione dell’apparente onniscienza” e rende il processo analitico un “oggetto estetico” è tematizzato da Donald Meltzer. Cfr. Id., Riflessioni sui mutamenti nel mio metodo scientifico, in «Psicoterapia e Scienze Umane», 1986, XX, 3: pp. 260-269. 47 Fachinelli rinvia a J.J. Abrahams, L’homme au magnetophone cit., p. 96.

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Dinamiche temporali dell’accadere psichico di Franco Scalzone

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Premessa Scrive Freud: “La rappresentazione astratta che noi abbiamo del tempo pare derivare interamente dal metodo di lavoro del sistema P-C e corrispondere alla percezione che questo metodo ha di se stesso. Questo modo di funzionare può forse costituire un’altra forma di protezione contro gli stimoli. So che tali affermazioni suonano molto oscure, ma devo limitarmi a questi cenni.” (1920a, 214). Il solo fatto che lo stesso autore dichiari le sue affermazioni “molto oscure” sfidano il lettore a cercare di chiarirle. Freud quando parla della “percezione che questo metodo ha di se stesso” allude all’autocoscienza? Al dialogo della coscienza con sé stessa? Credo che egli parli della natura ricorsiva del processo autopercettivo, caratterizzato dalla forte autoreferenzialità, con cui si genera e si struttura il tempo interiore. In altri termini egli sottolinea la natura fortemente soggettiva della percezione del tempo perché, infatti, non è possibile uscire dal sistema-psiche nel quale abitiamo e nel quale si costituisce la nostra esperienza individuale: a questo proposito Jung diceva che la psiche non può essere un acrobata che tenti di saltare oltre la propria testa. L’emergere della soggettività, peraltro, è il nocciolo del problema della nascita della coscienza e quindi della nascita della temporalità del soggetto, ma questa soggettività non si pone in una posizione contrapposta al tempo condiviso con gli altri, ma in una relazione complementare e dialettica. La costruzione del tempo nella relazione con l’oggetto esterno e con quello interno fanno parte entrambe del nostro mondo e con esso coemergono. Se ora esaminiamo il momento logico, non cronologico, della nascita del tempo nella psiche, possiamo notare che esso deve riguardare contemporaneamente anche la nascita della coscienza – un doppio “incidente catastrofico” per l’emergenza di nuove funzioni mentali (vedi Jaynes, 1976) – nonché la conseguente separazione tra sistema Inc e P-C. Il tempo e la coscienza coemergono dal caos pulsionale dell’inconscio e dal caos della realtà esterna, essendo ciascuna funzione dell’altro. Possiamo anche dire che il ritmo, il pulsare

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periodico dei neuroni della “matrice ϕψω” (vedi Freud, 1895) dà origine contemporaneamente al tempo e alla coscienza. In questo senso il tempo è una funzione della coscienza che a sua volta è una funzione del tempo e si sviluppano ricorsivamente in un percorso ciclico: la percezione del flusso del tempo è comunque una rappresentazione soggettiva della mondanità. In questo lavoro intendo analizzare alcuni aspetti dell’eterocronia, concetto squisitamente freudiano – di cui il tempo fermo di Fachinelli ne è un aspetto – con particolare attenzione al primo Freud. Il fil rouge del mio elaborato, pertanto, è costituito dalla relazione esistente tra il funzionamento dei sistemi mnestici e le temporalità umane in quanto strutture/processi dinamici, che possono essere rappresentati come immagini complementari. Possiamo anche dire che i fantasmi originari (Urphantasien) – base innata fuori-tempo designata dal prefisso Ur – la memoria individuale e la temporalità interna (elementi acquisiti) funzionano come una struttura triadica autoreferente in grado di generare e dar significato ad un mondo. L’après coup ne è il principale meccanismo che con il suo continuo funzionamento, al pari della spoletta di un telaio, ne “rettifica” continuamente la trama e ne traccia il disegno con un movimento di va-e-vieni temporo-spaziale del filo del desiderio, costruendone così l’armatura. Questa dinamica è visibile anche nel ben noto gioco del rocchetto, descritto da Freud, in cui il bambino controllava l’assenza della madre con un ritmico va-e-vieni in due tempi per negare il tempo della separazione.

Il tempo fermo e il diniego della percezione Ora cercherò di collegare i concetti di “tempo fermo” e di “diniego” della castrazione e della morte, che appaiono accoppiati nel libro di Fachinelli La freccia ferma (1979), con alcune osservazioni sulla ricaduta di questi concetti nella eziopatogenesi delle perversioni. A questo proposito ricordo che il modello paradigmatico che sottende il funzionamento psichico perverso è quello definito da una triade formata dal meccanismo difensivo del diniego, dalla successiva scissione dell’Io e dalla conseguente creazione del feticcio. Il “diniego della castrazione” della donna(madre) può essere dovuto proprio all’eccesso dell’attenzione selettiva che distorce la percezione (soprattutto visiva e olfattiva). È chiaro che non si sarebbe soddisfatti se si scoprisse una donna con il pene perché il pene sarebbe trovato nel registro della realtà, mentre lo si desidererebbe nei registri dell’immaginario e del simbolico, dei significanti: questa discrepanza potrebbe diminuire, o contemporaneamente aumentare, l’attrazione per i travestiti.

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DINAMICHE

TEMPORALI DELL’ACCADERE PSICHICO

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Il feticcio è quell’oggetto assoluto che, nell’immaginario del soggetto, gli manca e manca nella realtà e, idealizzato, ne prende il posto. Il diniego inoltre esprime il modo in cui lo psichismo difende il proprio assetto narcisistico – secondo il principio del piacere del processo primario – dall’ingerenza della pressione delle perturbazioni provenienti dalla realtà esterna: cioè dalle percezioni. Il complesso processo percettivo – in cui entra anche il funzionamento della funzione-setaccio dello scudo antistimolo (Reizschutz) (Freud, 1924) – viene minato dal diniego della castrazione della madre e si trasforma, a causa della scissione dell’Io, da “semplice” disturbo percettivo a vero e proprio disturbo del pensiero che esita in costruzioni cripto-deliranti, come quelle del perverso che crea una propria realtà privata ed esclusiva per difendersi dal frustrante riconoscimento della realtà condivisa. Per la Chesseguet-Smirgel, inoltre: “La creazione del feticcio permette [...], di abolire il tempo, cioè la differenza tra il bambino e l’adulto, l’uomo e la donna.” (1988, 21-22). Di conseguenza anche il processo della negazione della morte, collegato alla negazione dello scorrere del tempo, permette al soggetto di affermare in fantasia un assetto onnipotente a coloritura narcisistica. Il meccanismo del diniego però non cancellerebbe la rappresentazione, ma si limiterebbe a colpirla con una specie di non significanza, di non-valore sul piano simbolico, a differenza di come opera la scotomizzazione (vedi Freud, 1923), o, peggio, la preclusione (Verwerfung) psicotica. Questa operazione di diniego della realtà è perciò pericolosissima perché più ‘lavora’ e più aumenta anche la scissione tra l’intellettivo e l’affettivo, e più aumenta la morte psichica collegata alla perdita di significato della realtà interna e della realtà esterna, e più il soggetto accresce il suo odio per le realtà. Per questo motivo l’individuo attiva la relativa “legittima difesa” che può portarlo sia a fenomeni di iperlibidinizzazione – allo scopo di contrastare gli impulsi distruttivi – sia a fenomeni auto o eterodistruttivi di estrema violenza, specie quando teme il crollo del proprio sistema difensivo nei confronti del riconoscimento della realtà con conseguente irruzione da parte di quest’ultima nella psiche. Tutto ciò può accadere anche in corso di terapia. Il fallimento del sovvertimento libidico darebbe luogo, oltre che a turbe del pensiero che nascono dai saperi elementari del corpo, anche all’impossibilità di provare sofferenza per sé e per gli altri. Troviamo pertanto in questi pazienti la possibile comparsa di un pensiero operatorio (Marty P. 1980; Marty P., De M’uzan M., David C. 1963), come perdita del simbolico, l’alexitimia (Apfel e Sifneos, 1979) quale incapacità di esprimere l’emozione con le parole e l’anedonia quale incapacità di provare piacere.

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Il diniego della castrazione femminile, pertanto, non costituisce un “semplice” fatto percettivo che si limita a negare un aspetto della realtà, ma organizza una difesa attiva che sviluppa una complessa modalità di pensiero e di funzionamento mentale che, accoppiata ad un disturbo della temporalità, alla scissione dell’Io e dell’oggetto, e alla regressione verso un punto di fissazione ad una fase libidica anteriore al primato genitale, nonché alla costruzione del feticcio, va a costituire una sorta di complessa Weltanschauung. Se pensiamo che tutti i fattori della maturazione sessuale sono fondati sulla differenziazione dei sessi – in quanto modello somatico di assetti mentali generativi – possiamo capire come la realtà denegata sia in grado di far saltare l’assetto mentale tout court, perché questo si fonda proprio sull’organizzazione della stessa sessualità, distorcendone i significati e la “teoria” che ne stanno alla base. Pertanto questa apparente “piccola revisione della teoria sessuale”, quale “piccolo mutamento nelle condizioni iniziali”, comporterà enormi conseguenze caotiche: in primis la scissione dell’Io, di cui pertanto una parte resta cosciente e l’altra inconscia. Freud ci dice infatti che con il diniego: “Il successo è stato raggiunto a prezzo di una lacerazione dell’Io che non si cicatrizzerà mai più, che anzi si approfondirà col passare del tempo.” (Freud, 1938, 559). Tutto ciò può nel tempo condurre a sconvolgimenti catastrofici della psiche fino a sviluppare una perversione, una somatosi o anche una psicosi.

Alcuni aspetti della temporalità: eterocronia e ritardo Le dinamiche intrapsichiche che sostengono l’accadere psichico attraverso il funzionamento delle istanze, dei meccanismi di difesa, delle strutture e dei processi psichici, ecc., avvengono all’interno di una psiche estesa – benché si tratti di un’estensione virtuale in uno spazio astratto immaginario – la quale si muove in un tempo a più dimensioni e secondo differenti cronotipi (vedi Fachinelli, 1979) che costituiscono altrettanti ordinatori. Il tempo è un principio organizzatore delle strutture psichiche: esso è una funzione fondante e caratterizzante lo sviluppo e il funzionamento della psiche, la quale a sua volta lo struttura soggettivandolo. Infine, le strutture psichiche sono temporali. Le quantità di energia sessuale (libido) che entrano in funzione nel corso dello sviluppo sessuale dell’individuo non possono che avere cariche differenti e, pertanto, i processi evolutivi nei quali sono implicate saranno condizionati – nella loro velocità evolutiva e nella loro forza – dalle differenti quantità delle relative cariche energetiche: quelle che poi daranno origine anche alla qualità della sessualità adulta. Ciò comporterà necessariamen-

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DINAMICHE

TEMPORALI DELL’ACCADERE PSICHICO

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te nella discontinua sequenza delle fasi evolutive – causata dalle differenti velocità di sviluppo sia in serie che in parallelo – processi di desincronizzazione delle linee evolutive stesse e relativi disfunzionamenti rispetto ad uno ideale sviluppo “normale”. L’armonia globale del sistema presenterà, perciò, sia consonanze che dissonanze, causate anche dal carente funzionamento dinamico dell’attività sintetica dell’Io. A questo punto userò in modo analogico il concetto di eterocronia preso dall’ambito biologico. Questo fenomeno riguarda i tempi di accadimento relativi tra compartimenti all’interno dello stesso organismo. L’eterocronia tra la a-temporalità dell’inconscio e le temporalità della coscienza è un cardine concettuale della psicoanalisi freudiana, che poi si articola nelle sue varie espressioni sia nella teoria che nella clinica. Essa comporta alterazioni dovute a spostamenti temporali che possono provocare una dissociazione tra i tassi di sviluppo di parti differenti dello psichismo. Abbiamo in primis la prematurazione dell’essere umano, e relativo pedomorfismo – con conseguente immaturità psicofisiologica rispetto ai complessi compiti da affrontare, l’Hilflosigkeit (inermità) e la dipendenza dall’adulto – la dissociazione tra la maturazione dell’Io rispetto a quello della libido che hanno tempi e dinamiche sfalsate tra loro; inoltre l’effetto Nachträglichkeit, l’inizio in due tempi della sessualità, il ritardo della pubertà, la latenza ecc. L’eterocronia che esiste tra sviluppo emozionale e sviluppo sessuale predispone l’individuo alle situazioni sessuali traumatiche quali agenti causali delle nevrosi, cosa che Freud stigmatizzò nella sua teoria della seduzione e poi nell’Edipo, proprio perché capì che al momento del trauma non sono mature quelle strutture psichiche che dovrebbero risentire gli effetti del trauma stesso; strutture che compariranno in un periodo successivo, dopo la pubertà, e che renderanno possibile l’effetto di una ri-significazione après coup. Da un punto di vista evolutivo poi, dobbiamo considerare vari fenomeni che riguardano la dimensione temporale introdotta dai processi di sviluppo e di crescita biologici e psicologici: il passaggio dalla dimensione a-temporale dell’area della fusione a quella temporale della separazione/individuazione – dopo la “rottura della simmetria temporale” con conseguente nascita della psiche e “nascita psicologica” del bambino – la comparsa dell’‘angoscia di perdita di sé’ e l’inizio dello sviluppo evolutivo, l’ingresso sulla scena della differenza dei sessi e perciò dello sviluppo della sessualità ecc. Vorrei ora rivolgere una particolare attenzione ad un altro fenomeno della temporalità: il ritardo, e la relativa neotenia, perché anch’esso espressione dell’eterocronia che vige nello sviluppo dell’essere umano, nonché della discontinuità tra processi maturativi. Il “ritardo” dello sviluppo globale dell’uomo si associa ad un precoce sviluppo della sessualità nei termini di pulsione,

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e del relativo desiderio sessuale. Contemporaneamente è anche presente l’impossibilità di appagare questo desiderio a causa dell’immaturità della sua organizzazione psico-somatica. Per l’essere umano esiste una naturale spinta verso lo sviluppo, ma contemporaneamente esistono dei punti in cui i comportamenti restano il più a lungo possibile nel minimo stabile originario – quasi “congelati” – come avviene ad esempio nel caso della fissazione della libido. In tal caso resterebbe anche un controinvestimento che stabilisce un punto di fissazione; una quota di energia latente che comunque attende di essere elaborata in un qualche modo. Esisterebbe così un tempo potenziale, un tempo che è “sempre già qui” allo stato latente, che non chiede che un fenomeno di fluttuazione per attualizzarsi (cfr. Prigogine, 1988). Dice Anna Freud: “La cronologia è disturbata se le specifiche zone del corpo che forniscono la stimolazione erotica non seguono l’ordine temporale che corrisponde alla sequenza normale dello sviluppo libidico. A parte le ben note regressioni in epoche successive, ognuna di queste zone può conservare per un periodo insolitamente prolungato il ruolo di fonte di piacere, senza scomparire in favore di quelle che subentrano in base alle leggi della maturazione.” (1965, 175). Da parte sua Freud, in base all’idea delle due sequenza evolutive parallele – quella dell’Io e quella della sessualità – formulerà l’ipotesi sul problema della scelta della nevrosi per cui ogni tappa di questo processo, ogni scarto nella sincronizzazione delle due serie, fornisce il germe (fissazione) di una disposizione nevrotica la cui forma dipende dal momento dell’impatto patogeno del trauma. Inoltre, benché esista nell’uomo una tendenza spontanea a completare lo sviluppo, i processi e le strutture che maturano prima possono poi retroagire sugli altri processi più lenti e, ad esempio, ritardarli ulteriormente. In sintesi l’idea di Freud era che la rimozione fosse dovuta alla mancanza di sincronizzazione tra l’attività inibitoria dell’Io, ulteriormente regolata dalle associazioni del linguaggio, e le eccitazioni interne dovute ai processi sessuali. L’argomentazione nel Progetto di una psicologia (1895), invece, si era basata soltanto su una discontinuità temporale nel livello delle eccitazioni sessuali introdotta dalla soglia della pubertà. In altri termini, si pensava che la discontinuità offrisse l’occasione per il sorgere della vulnerabilità specifica dell’apparato mentale dimostrata dalla rimozione, il che predisporrebbe alla nevrosi. Aggiungiamo che nell’accadere psichico la coscienza è in ritardo temporale rispetto alle sensazioni e rispetto alla mente emotiva, mentre le funzioni “superiori” del cervello sono in ritardo rispetto alla mente emotiva: la coscienza entra in scena ‘a cose già fatte’, cioè après coup (vedi Gazzaniga, 1998; LeDoux, 1983, 1996; Libet, 1979). È proprio sul ritardo originario che

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si fonda l’asservimento dell’essere umano alla memoria del passato e, perciò, al senso della caducità e alla nostalgia del tempo perduto. L’uomo è costretto alla memoria dall’assenza dell’oggetto perduto.

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Osservazioni conclusive A questo punto dobbiamo assumere come paradigma che la sessualità infantile nel bambino è primariamente perversa polimorfa. Esiste cioè una sorta di perversione originaria, motivo per cui Freud nei Tre saggi sulla sessualità (1905) iniziò proprio dalle aberrazioni sessuali. Questo fa sì anche che in questo periodo le espressioni sessuali siano molto più simili tra loro di quanto non lo saranno in seguito. Esiste però una differenza tra polimorfismo e perversione. Il polimorfismo è la condizione normale della sessualità infantile – o meglio dell’infantilismo della vita sessuale – perché quest’ultima non sarebbe perversa in senso clinico ma solo in un senso psicodinamico, costituendo la normale psicologia infantile, anche se esistono stadi infantili precursori della patologia adulta. “Perversa” può essere la sessualità adulta, la quale però di solito è monomorfaperversa, stereotipata e ripetitiva. Possiamo dire che all’inizio anche la scissione dell’Io è uno stato normale – prima cioè che si realizzi l’integrazione delle varie parti dell’Io – per cui all’inizio la scissione non è ancora una difesa, ma solo uno dei tanti meccanismi di funzionamento psichico. Freud dice che: “Di qui possiamo ricavare un indizio che forse la stessa pulsione sessuale non è qualcosa di semplice, bensì è composta di elementi che nelle perversioni se ne distaccano. La prassi clinica avrebbe pertanto attirato la nostra attenzione su “fusioni” che nel comportamento uniforme normale sono andate perdute di vista.” (1905, 474-475. Corsivo mio). Pertanto, se invertiamo anche temporalmente il modello del noto fenomeno per cui un fascio di luce bianca passando attraverso un prisma ne esce suddiviso in tanti fasci che coprono tutto lo spettro cromatico, possiamo dire che le singole condotte sessuali che entrano nel periodo della latenza-pubertà, al pari di singoli fasci separati, escono nella vita adulta come un unico fascio sotto il primato genitale. Questo significa che le forme polimorfe della sessualità infantile “se ne distaccano” e si pongono sotto il primato genitale; in questo modo si strutturano anche le differenze sessuali individuali – nonché la capacità di “amare” – e ogni soggetto ‘costruisce’ la propria sessualità che acquista la propria caratteristica, come una sorta di impronta digitale ... si ha così una miscela sessuale sui generis. Questo è

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anche il motivo per cui persino ogni perversione, come d’altra parte ogni “normalità”, è differente dall’altra e bisogna sempre analizzare il singolo soggetto come un individuo a sé stante. Dobbiamo precisare che le condizioni psichiche iniziali di ciascuno non sono mai note in ogni particolare e perciò, una volta che si giungerà a successive biforcazioni evolutive, non si potrà sapere in anticipo quale via prenderà il sistema né in quale regime si stabilizzerà. Al solito si potrà solo cercare di ricostruire a posteriori il percorso evolutivo che, pur partendo da condizioni iniziali simili, avrebbe potuto evolvere in tutt’altro modo da quello che noi in seguito osserveremo. Sappiamo infatti che la psicoanalisi non è pre-dittiva ma solo post-dittiva (cfr. Freud, 1920b). All’interno della situazione antropologica fondamentale (vedi Laplanche, 2004) la patogenesi delle perversioni potrebbe essere connessa ad una dissociazione negli schemi emozionali per un disturbo strutturale causato dalla mancanza di sincronizzazione tra i vari processi maturativi all’interno del soggetto, causata a sua volta dal ritardo tra lo sviluppo dell’Io e quello della pulsionalità sessuale, conseguenza di una modularità neuro-psichica – motivo per cui l’Io si scinde – accoppiata con la seduzione precoce traumatica che ne impedisce la completa rimozione (vedi Scalzone, 1996; Scalzone e Zontini, in corso di stampa). La maturazione della libido è in ritardo – cioè non ancora ben organizzata – rispetto alla maturazione dell’Io, e la maturazione fisica in toto è in ritardo rispetto alla maturazione sessuale espressa, non dal bisogno ma, dal desiderio del soggetto. Ciò comporta anche che l’uomo non è sufficientemente attrezzato per realizzare i propri desideri sessuali e che egli, d’altra parte, deve sviluppare una “morale” per imbrigliare e controllare la propria libido. Questi fatti comporterebbero il ricorso a vari meccanismi di difesa quali la fissazione, la regressione e il diniego. Secondo Katan (1969), ad esempio, la regressione ad una fase libidica anteriore al primato genitale è una difesa dell’Io dal doversi arrendere alla completa dissoluzione interna. L’eterocronia che esiste tra sviluppo emozionale, sviluppo sessuale e maturazione psico-fisica in genere, e il “[...] ritardo con cui si compie l’educazione della pulsione sessuale rispetto alla realtà e inoltre [dal]le condizioni che rendono possibile questo ritardo.” (Freud, 1911, 457), predispongono l’individuo alle situazioni traumatiche, in particolare sessuali e separative che, a loro volta, lo predispongono alla nevrosi (e ad altre patologie), perché sempre la “realtà” e l’oggetto si impongono, limitando l’appagamento del “pieno” soddisfacimento pulsionale. Fachinelli, il quale sottolinea il tentativo dell’ossessivo di fermare il tempo, accenna anch’egli alle perversioni. L’eziologia delle stesse perversioni potrebbe collegarsi al tentativo, non solo di negare la differenza dei sessi e

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delle generazioni, ma anche di negare la morte negando il fluire del tempo, come avviene per l’ossessivo. In questo senso la creazione del feticcio – in quanto oggetto assoluto, sostituto del pene materno, che non necessita più dello psichico (scissione), accoppiato alla totale dipendenza da questo e alla continua minaccia di catastrofe incombente qualora l’“oggetto” venga perso – occuperebbe una posizione centrale quale tentativo di fermare il tempo proprio nell’istante crono-logico che precede la scoperta della mancanza del pene nella donna (cfr. Katan, 1969), in modo da difendere il soggetto da un trauma per lui devastante. Notiamo che la scelta, ad esempio, dei vestiti o degli indumenti intimi come feticci, avviene perché questi sono ciò che il soggetto vede subito prima della visione traumatica del corpo nudo che mostra la mancanza del pene della donna(madre) e lo sostituiscono – il terrore della visione della testa della Medusa (Freud, 1922) – scelta che contemporaneamente lo difende dalle conseguenze del suo eccitamento e perciò dal trauma. Ci possono essere anche altri feticci come gli stivaletti, le protesi ortopediche o una parte del corpo divenuto un vero e proprio oggetto parziale autonomo come il piede o, per citare un esempio letterario, il braccio della ragazza dell’omonima novella di Kawabata (1965). D’altra parte anche la perversione gerontofilica, e più ancora quella necrofilica, rappresentano un aspetto particolare della fantasia di denegare onnipotentemente la morte denegando la sua realtà (vedi Tomasi Di Palma 1956, Segal 1981). Questa dinamica prevede molte varianti sul tema. Possiamo averne un esempio ancora nel romanzo di Kawabata Le casa delle belle addormentate (1961). Qui, da una parte la verginità “immobile” delle giovani. e dall’altra il sonno quasi-morte in cui esse sono avvolte, devono servire ai clienti per negare la vecchiaia e la paura della morte incombente; senza trascurare che le “dormienti” in questo modo si deresponsabilizzano dissociandosi dai loro comportamenti sessuali ‘perversamente’ passivi. Si conoscono molte altre miscele di corpi quasi-vivi/quasi-morti, organismi amenti e perciò privi di coscienza, in una sequenza di figure reali o immaginarie come il golem, gli zombi, le bambole meccaniche, i fantasmi, fino a giungere a varie macchine come gli automi, i robot, gli androidi ecc. Fachinelli (1979, 122), ad esempio, parla degli eroi “grandi morti-viventi” eterni che dovevano alludere, nelle cerimonie commemorative hitleriane, alla presunta durata millenaria del Terzo Reich nazista. Anche nell’articolo di Freud Il perturbante (1919) ci imbattiamo nella bambola Olimpia, figlia di Spallanzani, “misteriosamente laconica e immobile” che altro non è che un automa. Il fatto che Nathaniel, protagonista del racconto di Hoffmann, se ne innamori, ci mostra il fascino che una macchina, per di più fornita di sembianze femminee, può esercitare sugli altri.

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Tausk (1919), da parte sua, parla di struttura mistica a proposito della struttura della “macchina influenzante”. L’area delle macchine influenzanti e delle macchine pensanti (calcolatori) permettono infatti di fare un collegamento tra la concezione animistica (mitologica e magica) – che per Freud è una teoria psicologica – e la concezione scientifica del mondo, “saltando” in un certo senso la concezione religiosa (cfr. Freud, 1912-1913, 83). Le macchine pensanti, dunque, cioè i calcolatori, possono essere vissute persecutoriamente alla stregua di una “macchina influenzante” tauskiana (o macchina suggestionante) che ci può privare dei nostri poteri assumendoli su di sé, rendendoci in questo modo totalmente inermi e ad essa assoggettati. Si passa allora da una tollerante svalutazione del calcolatore fino ad una vera e propria computerfobia delirante di cui la computerfilia, che si appoggia invece sull’onnipotenza “protettiva” della macchina, costituisce l’altra faccia della medaglia. Il progetto di trasferire l’attività psichica su di un calcolatore – dopo averla digitalizzata – in modo da ottenere l’immortalità, o la costruzione di vere e proprie macchine per vivere come quelle “inventate” dall’attività delirante di alcuni bambini autistici (es. il “caso di Joey” di Bettelheim, 1967), ne sono un ulteriore esempio. Comunque non possiamo dimenticare che anche qui bisogna considerare il ruolo svolto dalla sessualità e dagli organi sessuali, proiettati sulla macchina, per rintracciare un corretto percorso interpretativo. Va peraltro notato che la macchina può diventare nella fantasia di qualcuno sia un feticcio, che lo aiuti a negare le angosce di castrazione e di morte abolendo il tempo o, peggio, può trasformarsi in un oggetto autistico che come un’armatura aiuti a proteggersi dalle impensabili angosce di frammentazione e separazione e dalle sue tragiche conseguenze. Le minacce che ci vengono dalle macchine pensanti – così come quelle che ci provengono dai mostri – non derivano pertanto da una loro “disumanità”, al contrario, sono il prodotto della tendenza “umana, troppo umana” che noi vi abbiamo proiettato, e che queste macchine/mostri, quando ne siano capaci, provvedono per parte loro a sviluppare e a potenziare. Il fatto è che lo scontro non è fra l’uomo e la macchia/mostro, ma fra l’uomo e l’uomo o, meglio, tra l’uomo e il suo mondo interno.

Bibliografia Apfel R.J., Sifneos P.E., 1979, “Alexithymia: concept and measurement”, «Psychother. Psychosom.» 32, pp. 180-190. Bettelheim B. (1967). La fortezza vuota. Milano, Garzanti, 1990.

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Chesseguet-Smirgel J., 1988, “Introduzione all’edizione francese”, in I due alberi del giardino, Milano: Feltrinelli, 1991. Fachinelli E., 1979, La freccia ferma, Milano: L’erba Voglio. Freud A., 1965, Normalità e patologia del bambino, Milano: Feltrinelli, 1969. Freud S., 1895, Progetto di una psicologia, O.S.F., 2, Torino: Boringhieri. Freud S., 1905, Tre saggi sulla teoria sessuale, O.S.F., 4, Torino: Boringhieri. Freud S., 1911, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, O.S.F., 6, Torino: Boringhieri. Freud S., 1912-1913, Totem e Tabù, O.S.F., 7, Torino: Boringhieri. Freud S., 1919, Il perturbante, O.S.F., 9, Torino: Boringhieri. Freud S., 1920a, Al di là del principio del piacere, O.S.F., 9, Torino: Boringhieri. Freud S., 1920b, Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile, O.S.F., 9, Torino: Boringhieri. Freud S., 1922, La testa di Medusa, O.S.F., 9, Torino: Boringhieri. Freud S., 1923, L’organizzazione genitale infantile, O.S.F., 9, Torino: Boringhieri. Freud S., 1924, “Nota sul ‘notes magico’”, O.S.F., 10, Torino: Boringhieri. Freud S., 1938, La scissione dell’Io nel processo di difesa, O.S.F., 11, Torino: Boringhieri. Gazzaniga M.S., 1998, La mente inventata, Milano: Guerini e Associati, 1999. Jaynes J., 1976, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Milano: Adelphi, 1984. Katan M., 1969, “The link between Freud’s works On Aphasia, Fetishism and Constructions in analysis”, «Int. J. Psychoanal.» 50, pp. 547-553. Kawabata Y., 1961, “La casa delle belle addormentate”, in La casa delle belle addormentate, Milano: Oscar Mondadori, 1995, pp. 1-126. Kawabata Y., 1965, “Il braccio”, in La casa delle belle addormentate, Milano: Oscar Mondadori, 1995, pp. 161-197. Laplanche J., 2004, “Tre accezioni del termina «inconscio» nella cornice della Teoria della seduzione generalizzata”, «Riv. Psicoanal.» 1, 11-26. Libet B., 1979, “Neural processes in the production of conscious experience”, «Brain» 172, pp. 96-110. Libet B., Gleason C.A., Wright E.W., Pearl D.K., 1983, “Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (readiness potential): the unconscious initiation of a freely voluntary act”, «Brain» 106, pp. 623-642. LeDoux J., 1996, Il cervello emotivo, Milano: Baldini & Castoldi, 1998. Marty P., 1980, L’ordine psicosomatico, Torino: Centro Scientifico Torinese, 1986. Marty P., De M’uzan M., David C., 1963, L’indagine psicosomatica, Torino: Boringhieri, 1971. Prigogine I., 1988, La nascita del tempo, Roma-Napoli: Theoria.

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Scalzone F., 1996, “Note sul concetto di seduzione”, in «Riv. Psicoanal.» 2, pp. 273-294. Scalzone F., Zontini G., “Psychoanalysis time - Time in Psychoanalysis” (in corso di stampa). Tausk V., 1919, “Sulla genesi della macchina influenzante nella schizofrenia”, in Scritti psicoanalitici, Roma: Astrolabio, 1979. Tomasi Di Palma A., 1956, “Necrofilia e istinto di morte”. «Riv. Psicoanal.» 3, pp. 173-186. Segal H., 1981, “Una fantasia necrofila”, in Scritti psicoanalitici, Roma: Astrolabio, 1984.

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Fachinelli e la vocazione ek-statica di Cristiana Cimino

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«L’estremo, l’eccessivo, è disponibile in ciascuno di noi». Elvio Fachinelli1

Non ho avuto il privilegio di conoscere Elvio Fachinelli ma ho egualmente, forse la presunzione, di considerarlo un maestro, un riferimento a cui guardare costantemente, fondante della mia formazione di analista. Ricordo l’incontro con “Claustrofilia”: per una specializzanda in psichiatria già in analisi e fortemente orientata al mestiere di psicoanalista, fu una specie di folgorazione. Mi era chiaro – e non ero certo digiuna di letture – che stavo avendo a che fare con qualcosa e con qualcuno di speciale, di differente, almeno in ambito italiano. Coglievo, anche se ancora confusamente, la forza eversiva di quello che scriveva, il coraggio di addentrarsi – che avrei capito chiaramente solo più tardi, soprattutto praticando la psicoanalisi – in territori semisconosciuti, impervi, “vietati”. Avevo l’impressione di avere incontrato qualcuno che mi era più familiare di tanti che conoscevo e frequentavo. Ai più Fachinelli è noto soprattutto per l’impegno politico e sociale, per le sue posizioni apertamente critiche nei confronti dell’istituzione, prima fra tutte quella psicoanalitica. Anche in tempi nei quali l’onda lunga dei movimenti di contestazione era esaurita, quando il conformismo ed il rifugiarsi nelle istituzioni ricominciavano a farla da padroni, Fachinelli non ha mai receduto dalle sue posizioni. Le sue dichiarazioni erano sempre un (salutare) pugno nello stomaco. Ricordo l’intervista (l’intervistatore era Sergio Benvenuto) comparsa sull’Espresso nell’aprile del 19892 (Fachinelli si sarebbe spento a dicembre), che ebbe il potere di scatenare un aspro dibattito fra noi specializzandi in psichiatria, già in analisi cosiddetta didattica o con interessi in ambito analitico. Credo che Fachinelli di quegli effetti sarebbe stato

1

E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi 1989, p. 103. Pubblicata in seguito in La bottega dell’anima, di S. Benvenuto e O. Nicolaus, Roma, Franco Angeli, 1990. 2

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contento, lo avrebbe considerato un movimento di Eros. In quell’intervista Fachinelli sferrava un attacco al cuore stesso della psicoanalisi istituzionale, mettendo in discussione almeno due dei suoi capisaldi: l’analisi didattica ed il riconoscimento da parte dell’istituzione della funzione di psicoanalista. Chi conosce Fachinelli conosce il suo rigore concettuale, la sua capacità di formalizzazione che nulla sottrae al saper emozionare senza essere, tuttavia, “emozionato” o “emozionale”, senza tentare suggestioni che oscurano la visuale: la sua era chiara, nonostante ponesse più domande che risposte. Forse tanto chiedeva al proprio rigore perché in fondo sapeva, come sarà ad un certo punto evidente, di essere animato da istanze mistiche, ispirate. Facilmente suggestive. Quello che oggi vorrei sottolineare è un Fachinelli forse meno frequentato, un suo aspetto più occulto e notturno che, come una corrente non sempre sotterranea, attraversa molti dei suoi scritti, per toccare, questa volta assai esplicitamente, un apice in “La mente estatica”. La vocazione, appunto, all’ek-stasis, allo andare fuori di sé, condizione necessaria forse non solo per esercitare il mestiere di psicoanalista (e non credo di interpretare in modo inappropriato il pensiero di Fachinelli), ma intanto certamente necessaria per quello. Tutto ruota attorno al problema del tempo. Fachinelli è stato uno dei pochi analisti – assieme a Lacan, peraltro – ad occuparsi del problema del tempo in analisi e non solo. Secondo Fachinelli, almeno fino a un certo punto della sua elaborazione teorica, esiste un tempo in movimento, in continuo divenire, lungo il quale si declinano le vicende umane. Un tempo storicizzato, nell’ambito del quale si intrecciano i movimenti di vita e di morte. A questo tempo attengono le possibilità di rinnovamento creativo, sia intra che extra-analitiche, ogni tipo di movimento individuale e collettivo al suo nascere, ed in generale ogni istanza autenticamente vitale. Di contro esiste un altro tempo, un tempo fermo, non più freccia scoccata ma arrestata, pietrificata. Questo è il tempo delle istituzioni – compresa e forse prima fra tutte quella psicoanalitica –, il tempo della ripetizione che non è foriera di nuove possibilità ma che semplicemente, indefinitamente rappresenta sé stessa. Secondo Fachinelli l’arresto del tempo è un tentativo di frenare il movimento della vita stessa, di Eros, insomma, poiché esso minaccia di portare a vivere un’esperienza intollerabilmente gioiosa, “la gioia eccessiva”. Sembra che qui Fachinelli si riveli assai poco freudiano nel suo credere ed auspicare la possibilità di poterla, invece, sostenere questa gioia, questo “dono della vita”. Non si accontenta, infatti dell’interpretazione che Freud (1936) stesso fornisce circa l’episodio di derealizzazione verificatosi sull’Acropoli: in sostanza l’angoscia per essere arrivato là dove il padre non

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aveva potuto. “Conclusione un po’ magra”3, commenta Fachinelli. La sua interpretazione, che diverge dal classico paradigma edipico tutto centrato sulle dinamiche di colpa e di espiazione, si orienta invece verso il pensare che Freud, in quella circostanza, avesse finalmente sperimentato e si fosse quindi difeso proprio da quell’intollerabile vissuto di gioia. Tesi apparentemente ingenua perché le due ipotesi, almeno a prima vista, non si escludono necessariamente a vicenda, potrebbero, anzi, essere complementari. La gioia non può dunque essere a lungo o forse per niente tollerata e viene così pietrificata in un tempo immobile. Ne Il magistrato e la tarantola (1967) emergono già i temi che saranno cari a Fachinelli, primo fra tutti quello del tempo e la sua relazione con il desiderio. E se la crisi di vertigine che coglie il magistrato in procinto di tradire la moglie viene equiparata (alla maniera di De Martino) ad un tentativo di rottura, di lasciare che il desiderio emerga, finalmente (una forma di autoterapia, insomma), d’altro canto questo tentativo viene respinto dal soggetto che lo imbriglia e lo pietrifica (in sogno) tra le pietre del Palazzo di Giustizia dove appare scritto il nome di un ministro della giustizia-padre: Di Pietro. È qui facilmente rintracciabile il tema del tempo che in questo caso deve essere fermato, “pietrificato” per difendersi dall’irruzione del desiderio, pericoloso perché porta in sé la gioia, troppa gioia. Desiderio che, ci dice Fachinelli, è in fondo quello passivo che spinge il magistrato verso il padre. Potremmo forse dire che il desiderio sia proprio quello di passività, quella passività che molto più tardi Fachinelli considererà elemento necessario agli stati estatici. Ancora più esplicitamente in La freccia ferma (1979), nel consueto sforzo di interfacciare la dimensione clinica con quella politica e sociale, Fachinelli mostra come i rituali ossessivi e quelli religiosi, nel loro tentativo di arrestare il tempo, siano equivalenti di ideologie totalitarie, fasciste, nell’ambito delle quali un tempo fermo e sempre uguale a sé stesso provoca, in senso propriamente freudiano, il diniego della realtà. Quella che viene denegata, in effetti, è l’esistenza della morte, con modalità più o meno simili alla scissione feticistica. Ne risulta il ripristino (o perlomeno il tentativo di effettuarlo) di un tempo arcaico dalla circolarità chiusa, ripetitiva. In Claustrofilia (1983) si respira un’aria diversa rispetto agli scritti precedenti. Fachinelli, questa volta a proposito del tempo in analisi, mette in guardia nei confronti di un possibile indefinito protrarsi del trattamento. Egli mette qui in discussione lo stesso dispositivo psicoanalitico: la struttura 3

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 133.

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del setting favorirebbe nei pazienti un movimento regressivo che si indirizza verso quella che egli chiama “area claustrofilica” o “area perinatale”, caratterizzata da una relazione di unità duale tra paziente ed analista che rimanda a quella madre-bambino alla nascita “se non prima di essa”4. L’area claustrofilica si manifesta nei sogni e, talvolta, anche fuori dal setting analitico, in stati di coscienza alterata di varia natura, sia nel paziente, che nel terapeuta. Fachinelli insiste sulla vivacità sensoriale, e soprattutto su una predominanza percettiva visiva (la coppia buio-luce che allude alle altrettante coppie nascita/permanenza nel claustrum, al parto/nascita, alla vita/morte) a sottolineare la forte partecipazione corporea nello sperimentare l’area claustrofilica. E questo è, come molte cose in Fachinelli, inusuale, perché gli psicoanalisti difficilmente parlano di corpo. Fachinelli descrive fenomeni di “assorbimento dell’altro”, di “coidentità” e di “sorellanza” (l’area claustrofilica è sempre declinata “al femminile”) vissute nelle dinamiche di transfert e di controtransfert, nell’ambito delle quali si verrebbe a creare la situazione paradossale di essere al tempo stesso due persone e la medesima. Condizioni nel corso delle quali è potente la sensazione di sospensione temporale, possono verificarsi coincidenze o sogni telepatici tra paziente e analista. Ma soprattutto si apprezza la tendenza alla co-identità, ossia la ricerca da parte del paziente “di affinità intima e comunanza”5 con il terapeuta. Questa “ricerca di correlazione puntuale, di identità al limite”6 in cui consiste la co-identità avrebbe come sua meta l’identità della madre: è quella che si cerca di raggiungere nell’analista. Tuttavia, al di là di quello che Fachinelli sembra presentarci come un rischio da sorvegliare costantemente, è piuttosto evidente, soprattutto nei capitoli dedicati alla descrizione di alcuni frammenti di analisi da lui condotte, non solo la fascinazione che su Fachinelli esercita l’area claustrofilica, ma anche, se pure non detta esplicitamente, l’idea che sia un’area, una condizione – ci tiene a specificare che non si tratta né kleinianamente di posizione, né di fase – a cui abbandonarsi, nell’ambito della quale si deve lasciare che qualcosa accada. Nella diade (ma è chiaro che Fachinelli non ha mai perso di vista il terzo analitico) i confini identitari si fluidificano all’estremo, la comunicazione tra gli inconsci è facilitata e di conseguenza l’accoglimento di contenuti profondi che, forse, in altre condizioni non emergerebbero. Tutto questo provoca una sorta di risveglio improvviso, un’illuminazione: si entra in un registro altro. Sebbene non esplicitato, qui il tema dell’estasi, si direbbe, 4 5 6

E. Fachinelli, Claustrofilia, Milano, Adelphi, 1983, p. 13. Ivi, p. 156-157. Ibidem.

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è nell’aria. Estasi che qui si declina nella ricerca ma soprattutto nel “lasciare che accada” un contatto immediato con l’altro (con l’inconscio dell’altro), un tentativo di colmare la distanza che dall’altro ci separa. L’iniziale dicotomia tra tempo fermo e tempo in movimento si confonde, risulta sempre più sfocata. Le due forme di tempo si intersecano, il tempo in movimento sembra quasi quello che è l’usuale tempo analitico, mentre il tempo “fermo”, quello nell’ambito del quale la claustrofilia esercita la sua potenza attrattiva, il tempo in cui accadono i fenomeni del continuo, diventa un tempo in cui poter – o dover – stanziare passivamente, ricettivamente nell’ambito della dualità, permeabili all’inconscio proprio e dell’altro. Sembra quindi che il monito all’esercizio di una vigilanza che eviti l’indefinito stanziare nel claustrum non sia che l’altra faccia dell’attrattiva (come dargli torto?) che su Fachinelli esercita la possibilità della estrema fluidificazione dei confini, della tendenza a fare Uno. Viene qui implicitamente riproposta la figura del mistico che tenta di colmare l’abisso che si é venuto a formare ad un certo punto tra uomo e Dio, al suo tentativo di ricostituire l’unità perduta in un contatto assoluto, immediato. Riproposizione quanto mai coraggiosa visto l’alone di sospetto e di imbarazzo che sempre nella cosiddetta “comunità scientifica” suscitano i termini che si riferiscono alla mistica, subito in odore di religiosità. Lo stesso Freud da questo non era stato immune. Fachinelli è dunque sempre più attore, oltre che spettatore vigile, degli stati estatici, e questo è ancora più evidente (e dichiarato) nel suo ultimo straordinario libro, La mente estatica (1989), in cui egli invita al superamento di un “generale disconoscimento dell’estatico”, che nel corso del tempo si è andato via via radicalizzando e generalizzando, a favore del mantenimento di un “io personale, ben individualizzato”7. Risulta molto chiara la sua urgenza (forse perché di tempo non gliene restava più molto) di recuperare la fondamentale esperienza antropologica dell’estasi, “probabilmente una delle esperienze più creative della vita umana”8. Nel bellissimo testo iniziale “Sulla spiaggia”, poetico e rigoroso, Fachinelli si abbandona ad un vero e proprio lavoro di libera associazione attraverso territori impervi, dal quale emergono, forti, alcuni elementi dell’esperienza estatica che ci appare in presa diretta. La iniziale dicotomia temporale risulta del tutto sconvolta: qui il tempo si espande, fluttua, è sospeso, come già veniva in parte descritto in Claustrofilia. Ma soprattutto l’accento posto sulla capacità di femminilizzarsi, di rendersi ricettivamente

7 8

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 11. Ivi, p. 12.

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passivi e “nuotare nella corrente”9. “Né meditazione, né raccoglimento, ma accettazione, accoglimento di qualcosa che viene, in un certo senso, dall’esterno”10, del dono della gioia, potremmo dire, della possibilità di tollerarla e goderla. Tutto questo potrebbe persino suonare un inno ingenuo al recupero di una bontà e bellezza perdute con l’avanzare della cosiddetta civiltà, il che in parte è anche vero. Del resto lo stesso Freud (1929) ci metteva in guardia dai rischi di un eccesso di sublimazione. Ma Fachinelli non è affatto ingenuo, perchè sa che questa “fluidità impareggiabile”11, questo smarrire i propri confini fino alle estreme conseguenze, fino a far sorgere immagini di riassorbimento nel ventre materno, sa che la smisurata gioia che arreca – certo, intrisa di perturbante – si situa al di là del piacere, ossia nei dintorni di quel punto in cui le tensioni si azzerano, e si incontra Thanatos. Sa che Freud sull’Acropoli ha sperimentato l’estasi, l’abbandono a quel sentimento oceanico rispetto al quale egli si è sempre detto estraneo emotivamente, edotto solo cognitivamente. E non l’ha sostenuta, quella gioia eccessiva troppo vicina a Thanatos, se ne è difeso. Effettivamente siamo altrove rispetto al più rassicurante, se non altro perché più conosciuto, registro edipico. Il lavoro di Fachinelli si situa qui in un vero territorio di frontiera tra vita e morte, tra gioia eccessiva e annullamento di tutto. Territorio nell’ambito del quale si risveglia la tendenza umana a colmare la mancanza, a fare Uno, rischiando di spingersi troppo in là, oltre la (presunta, mitica) “Piena Felicità” dell’Origine, dove tutte le tensioni si azzerano, le nostalgie si placano. Dunque, verso la fine della sua ricerca (e purtroppo della sua vita) Fachinelli appare fortemente orientato a pensare che sia possibile e necessario raggiungere un luogo mitico, primigenio, una sorta di “fonte sacra”12 da cui origina ogni altro movimento. Luogo di estrema regressione che ekstaticamente si raggiunge in modo improvviso, imprevisto, effimero: in un momento creativo, quando si scopre qualcosa, se ne ha l’evidenza come un’illuminazione, quando in seduta si tocca l’area claustrofilica. Quando i confini si fluidificano al punto tale da venire riassorbiti nell’altro e così si torna, in qualche modo, fugacemente, all’origine di tutto, per inaugurare 9

Ivi, p. 21. Ivi, pp. 17-19. 11 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 99. 12 S. Benvenuto, «La gioia eccessiva di Elvio Fachinelli», in E. Fachinelli, Intorno al ’68. Un’antologia di testi, a cura di Marco Conci e Francesco Marchioro, Roma, Massari editore, 1998, pp. 249-278. Ripubblicato in «Psicoterapia e Scienze Umane» 1998, XXXII, 3, pp. 33-73. 10

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qualcosa di nuovo che diverge dalla ripetizione come coazione, e rilancia una nuova possibilità. Sembra che Fachinelli pensi ad un “ripetere” che nel trattamento assume una forma estrema, quasi allucinatoria, in cui il passato sia davvero di nuovo qui, adesso, per poter andare avanti, spezzando la coazione, per far sì che nell’analisi accada veramente qualcosa. Sempre più tutto questo somiglia effettivamente ad un cammino iniziatico. Eppure penso, come egli pensava, che sono questi i territori sui quali la psicoanalisi (e forse l’essere umano in generale) deve ancora interrogarsi, condurre la sua ricerca. Abbandonarsi, femminilizzarsi, lasciarsi attraversare, come una pelle porosa, da ciò che viene dall’esterno o da un “ospite interno”13, rinunciare alle difese che rendono più appuntiti e virilmente penetranti. Rischiare di smarrire continuamente i propri confini per trovarne altri e perderli di nuovo, senza, tuttavia, abdicare alla fascinazione della dimensione claustrofilica – che è potente, soprattutto con alcuni pazienti – al cattivo claustrum che intrappola e paralizza. Del resto la frontiera, il transito, sono elementi insiti nel bagaglio dello psicoanalista, consapevole della transitorietà del legame analitico che, legame d’amore, nasce tuttavia all’insegna della fine (Gill 1982), e questo era molto chiaro a Fachinelli, che sembra non amasse le analisi troppo lunghe. Questa sembra, in sostanza, l’indicazione di Fachinelli, la posizione etica (e non meramente tecnica) a cui egli guarda nell’ambito dell’analisi per accedere alla nuda vita dell’altro (Agamben 1995, 2002), per donare, attraverso una regressione estrema che si muove lungo un crinale tra gioia e inquietudine, una nuova possibilità di vita. O semplicemente per trascorrere sulla spiaggia di un “pomeriggio ventoso di settembre un momento di dolce torpore”14, fuori dalla “foresta appuntita delle difese”, e “invece in accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte”15. Credo che il pensiero di Fachinelli sia ancora tutto da capire, tutto da scoprire veramente. Ma credo pure che egli sia stato in un certo senso “veggente” nel connotare una posizione etica che va ben oltre i confini della psicoanalisi: passivizzarsi, farsi femmine (e per farsi femmine ci vuole coraggio), rinunciare alle difese, alle politiche falliche ed alla propria cosiddetta “identità” per accogliere l’altro. Veggente perché in questa contemporaneità in cui le (pseudo)-identità si fanno sempre più chiuse, – pietrificate, avrebbe 13 14 15

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 15-16. Ibidem.

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detto Fachinelli – arroccate nelle loro difese verso l’altro che appare sempre più diverso, incomprensibile e pericoloso, eppure ci chiama ed è una chiamata a cui non si può non rispondere, la posizione che Fachinelli ci mostra può essere, forse, l’unica via di uscita, di salvezza.

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Bibliografia Agamben G. (1995), Homo Sacer, Torino, Einaudi. Agamben G. (2002), L’aperto, Torino, Bollati Boringhieri. Fachinelli E. (1967), Il magistrato e la tarantola, in “Il bambino dalle uova d’oro”, Milano, Feltrinelli. Fachinelli E. (1979), La freccia ferma, Milano, Adelphi. Fachinelli E. (1983), Claustrofilia, Milano, Adelphi. Fachinelli E. (1989), La mente estatica, Milano, Adelphi. Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, OSF 10, Torino, Bollati Boringhieri. Freud S. (1936), Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland, OSF 11, Torino, Bollati Boringhieri. Gill M. (1982), Analysis of the transference. Theory and technique, International University Press, New York.

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Anticlaustrofilia

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di Diego Coelli

Vorrei utilizzare la nozione di claustrofilia, che Fachinelli elabora a proposito della cura analitica, per tematizzare il fatto che la ricerca e la riflessione che egli attiva a partire dall’esperienza terapeutica, sono decisamente anticlaustrofiliche. Ed utilizzo questa categoria interpretativa in senso volutamente improprio, come sinonimo di apertura a saperi diversi, e non sempre di “nobili origini”. Farò riferimento al trittico delle ultime tre opere (La freccia ferma, Claustrofilia, La mente estatica), legate da un comune iter di ricerca, pur presentando la terza, a mio parere, un elemento di decisa discontinuità, di cesura, come ci indica lo stesso autore. La fuoruscita dall’ambito claustrofilico avviene in La freccia ferma (1979) con l’apertura nei confronti dell’antropologia. Essa è stimolata dal comportamento di un paziente ossessivo, in lotta permanente contro il male, il peccato. I quali creano, in un certo senso, il tempo, estendendo la loro influenza da un attimo all’altro, da un pensiero all’altro, da un’azione all’altra. Tale influenza, che peraltro adombra la possibilità per l’ossessivo di una storia personale, cioè di una evoluzione autonoma come individuo, e quindi del distacco dalle figure genitoriali, e della paventata possibilità di misurarsi con i loro irraggiungibili modelli, viene da lui combattuta frammentando il tempo in una serie di istanti, di qui ed ora, che possono essere percorsi a ritroso, come le azioni del paziente, in una logica rituale nella quale ogni evento, compiuto alla rovescia, annulla la quota di male presente in esso. Allo stesso modo gli arcaici usano il rituale, in connessione con il loro mondo mitico, per ripristinare l’ordine turbato, per riattualizzare, in una logica di permanente ritorno circolare, il mondo delle origini, ed attingere forza ed energia alla sua dimensione di purezza primordiale. Non c’è spazio, nel mondo arcaico, per l’avventura individuale, per la ricerca autonoma, quelle che la scienza cerca di esplicitare sul piano della ricerca delle regolarità fenomeniche (incredibile paradosso: anche nel mondo scientifico la regolarità è indice di verità, e ciò che è idiografico va ricondotto all’interno delle categorie del conosciuto). Come non c’è, questo spazio, nel mondo dell’ossessivo. Va rilevato che, contrariamente a Freud, pensiamo a Totem e tabù, che opera con i suoi scritti “un primo tentativo di applicare

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punti di vista e risultati della psicoanalisi a problemi ancora non risolti della psicologia dei popoli”1, analizzando il comportamento degli arcaici alla luce delle dinamiche del nevrotico, e conseguendo risultati assai fragili dal punto di vista antropologico, come sottolineato dallo stesso Fachinelli, il nostro invece fa l’operazione contraria dal punto di vista epistemologico: lascia a Cesare quel che è di Cesare, ossia cerca nell’antropologia dei riferimenti che gli consentano di spiegarsi i comportamenti del proprio paziente ossessivo; in altri termini Fachinelli ammette la possibilità di residui filogenetici, o meglio di “configurazioni germinali comuni” ad arcaici, ossessivi, fascisti. Nell’ossessivo però, come nel fascismo del resto, la ritualità arcaica viene riprodotta in modo degradato e privo di efficacia, perché se ne è perso l’orizzonte mitico e l’ambito collettivo: l’ossessivo ha il proprio mondo interiore, il proprio culto dei morti, il timore sacro di infrangere divieti, in una logica di fatto patologica di autoesclusione dal mondo della vita; il Fascismo, tale orizzonte mitico, tenta insistentemente di riprodurlo, attraverso la ritualistica dei raduni di massa, la parola del duce, ed infine la guerra, terribile ultimo tentativo di riattualizzare in un enorme sacrificio rituale il tempo perduto del mito. A questo punto della sua riflessione Fachinelli dichiara di trovarsi costretto ad affrontare il tema del sacro, che forse è l’ambiente di costituzione di queste configurazioni germinali; egli stesso, rendendosi conto di esplorare un campo, esso sì, tabù, almeno nei tempi in cui scriveva, afferma: “Sono sicuro che l’introdurre la parola sacro in questa ricerca desterà sorpresa” (p. 157). Egli sottolinea con forza e più volte l’autonomia delle categorie e dell’esperienza del sacro, nelle sue varie e divergenti estrinsecazioni, “dal numinoso al repellente, dal maiestatico e dall’energico fino al terrificante” (p. 60), dall’ambito della religione come istituzione separata e specializzata nelle cose divine. L’ossessione è dunque una modalità di esperire il sacro,un sacro privato, non comprensibile da nessuno al di fuori del soggetto che lo sperimenta, ma la cui tonalità affettiva ed emozionale è assolutamente pari a quella del sacro arcaico. Possiamo constatare qui la “laicità” di Fachinelli che, anche nel caso del sacro, va a ricercare in una disciplina “profana” rispetto alla psicoanalisi la strumentazione più adeguata a comprendere ed esplicare l’esperienza del suo paziente. Non senza rilevare, in ogni caso, la sordità di Freud al tema del sacro, a fronte di un interesse esplicito da parte del padre della psicoanalisi, per la religione. Il tema della cura, della valenza terapeutica della psicoterapia analitica in particolare, è al centro di Claustrofilia (1983). L’individuazione di que1

S. Freud, Totem e tabù, in Opere, Vol. VII, Bollati Boringhieri,Torino, 1992, p. 7.

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sta categoria esplicativa di certa prassi analitica (atemporalità del processo, quantificazione dell’ora di seduta, eccetera) è anche frutto del contatto con una fenomenologia inquietante, che non a caso è rubricata nel capitolo settimo sotto il titolo “I dintorni del magico”. Fachinelli parla qui di “situazioni intriganti e, diciamolo pure, imbarazzanti ... vicende che al primo momento suscitano grande interesse e poi si cacciano via, addirittura si dimenticano o si sminuiscono...” (p. 100). Si tratta di alcuni eventi che possono essere ascritti al variegato mondo della parapsicologia: alcuni casi di precognizione onirica da parte di un paziente (previsione della passeggiata di un’amica col cane al parco Forlanini); la singolare somiglianza fra il quadro fatto dalla nipote di una paziente, e quello che Fachinelli ha nel suo studio; il fatto che il sogno di un paziente comprenda elementi di un altro sogno, raccontato a Fachinelli il giorno prima da un altro paziente, stante il fatto che i due non potevano assolutamente conoscersi né essersi incontrati; c’è un paziente che addirittura cattura in un proprio sogno una parola in lingua straniera (che si rivelerà essere il tedesco), che Fachinelli aveva effettivamente discusso al telefono il giorno prima che il sogno venisse riferito, col suo editore tedesco di La freccia ferma. Gli eventi intriganti si concludono con Fachinelli che decide, come racconta, di andare da una chiromante, scelta tra decine di annunci, che, guarda caso, egli scoprirà risiedere di fronte al piazzale dove abitava da piccolo il suo paziente sognatore della “Freccia”. E Fachinelli così commenta: “La cosa era troppo enorme, troppo impensabile, e scoppiai a ridere” (p. 139). Né sappiamo se egli andò poi dalla chiromante, e quale fu, eventualmente, l’esito dell’incontro. L’esame di questo materiale gli permette di arrivare a certe conclusioni: i fenomeni di percezione extrasensoriale (precognizione onirica, telepatia, coincidenze eccetera) compaiono in una certa congiuntura nel percorso analitico, ossia quando si produce un intenso rapporto con la figura “materna” dell’analista, con cui si cerca di attuare, più che un’esperienza fusionale,un processo di co-identificazione; crisi, per i motivi più svariati, di questo rapporto (la figura materna può essere perduta, o diviene minacciosa, o deve venir condivisa con altre persone); tentativo di ripristino del rapporto suddetto attraverso la fenomenologia paranormale. Ciò che inquieta, al di là della fenomenologia suddetta in quanto tale, e che ci interroga in quanto uomini di scienza, è che (parafraso dal testo, p. 172): 1) queste prestazioni conoscitive si svolgono fuori dalla coscienza vigile, in condizione onirica o in stati oniroidi (meditazione profonda, trance, assunzione di sostanze...), o in condizioni improvvise di “strappo” della coscienza stessa. E ciò, dice Fachinelli, “dovrebbe dar da pensare a coloro che ne negano radicalmente l’esistenza”;

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2) essi sembrano presupporre una condizione contraddittoria: l’esistenza di una relazione tra due persone che siano nello stesso tempo, per una certa parte, la stessa persona; 3) il fatto che questa relazione sembra non tener conto della separazione temporale e spaziale esistente tra individui distinti. C’è quanto basta per attivare difese e rifiuti recisi, dimenticanze e lapsus... Fachinelli sottolinea, in una nota, alcuni contributi dati in area psicoanalitica sia sull’argomento, sia su esperienze simili a quelle da lui incontrate (vedi p. 178). Egli ha sicuramente frequentato ed annotato alcuni classici della parapsicologia scientifica, come ho constatato personalmente avendo potuto utilizzare la sua biblioteca, depositata presso la Biblioteca comunale di Luserna, per approfondire proprio l’argomento dell’emergenza di fenomeni di telepatia in analisi, a cui ho dedicato una parte di un mio lavoro che aveva peraltro per oggetto alcuni aspetti della figura e dell’opera di Emilio Servadio, uno dei quattro pionieri, con Musatti, Weiss, Perrotta, della psicoanalisi italiana. Ben presente è dunque nel processo di ricerca, di analisi, di valutazione stimolato dall’esperienza con i pazienti, in Fachinelli, l’apertura ad altre discipline, ad altri saperi, anche quelli più osteggiati dall’establishement scientifico, come è il caso della parapsicologia. La mente estatica (1989) è suddiviso in due parti, ossia una introduzione, che costituisce di fatto la seconda parte del libro, e si propone come “resoconto di uno scavo in alcuni scritti di Freud e Lacan”. Tale excursus non sembra motivato da necessità cliniche, o almeno Fachinelli non vi fa cenno. Si può essere perciò indotti a pensare che esso sia frutto di una avventura voluta, forse indotta dalla frequentazione di quelle discipline nelle quali egli sembra, come abbiamo visto, cercare strumenti per l’analisi di alcuni enigmi clinici, o forse che esso sia il prodotto di una naturale evoluzione verso territori sconosciuti, ma dotati di una potente energia attrattiva, quella che costrinse Freud a dichiarare la propria estraneità all’esperienza estatica, al sentimento oceanico che in lui hanno sempre un’accezione religiosa, della quale Fachinelli aveva già messo in luce i limiti, discutendo del “sacro” in La freccia ferma. Ma anche Fachinelli, tessendo fili e percorsi, a volte tortuosi, tra dati familiari, biografici, cronologie, prefazioni ecc. sembra quasi, insieme al suo autore d’elezione, volersi allontanare qui, per eccesso di volontà interpretativa, da questa gioia eccessiva, come del resto accade in Lacan dove la mistica ed i mistici, afferma Fachinelli, sono “interpellati direttamente, ma nello stesso tempo rinviati a sottomettessi ad altro” (p. 195). Nella seconda parte dell’opera, che di fatto la apre, il tono cambia:

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cessa il lucido argomentare ed il complesso indagare: l’ambito estatico richiede l’abbandono del processo secondario, o meglio un suo uso diverso, più rarefatto, più ritmico, pena la perdita, la scomparsa dall’orizzonte della mente ordinaria, di ciò che per eccellenza è indicibile. Fachinelli si premura di sottolineare, in alcune righe premesse alla seconda parte del libro, di fatto cronologicamente la prima, l’elemento di “cesura tra il prima e il dopo del percorso”. Qualcosa dunque è accaduto. Ne fanno fede le indicazioni sulla propria condizione (stato di torpore, semisonno) che favoriscono il “pensiero sintetico venuto da un’altra parte” (p. 17); solo la remissione della coscienza vigile gli consente di ascoltare “ciò che mi venne da non so dove”. Questa condizione di ricezione richiede la solitudine, il sottrarsi alla logica del rapporto, del desiderio. Le annotazioni sono intessute di dettagli sulla luce, sul mare, sui colori, sul paesaggio che Fachinelli non vede più, ma del quale si sente parte (“me stesso paesaggio” p. 19). Anche il tempo muta qualità: “Tempo espanso. Non immobile ma fluttuante in immobilità... – e più avanti – “il tempo, mi sembra, non passa... un tempo senza centro, vibrante” (p. 23). Pure i suoni mutano qualità: “scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio; diventano voci singole, con timbri e grana diversa” (p. 25). In questa esplorazione, l’unica bussola è l’esperienza individuale, l’unica guida il corpo, il suo fidarsi, accogliere, aprirsi, al di là del movimento di difesa, delle barriere costruite contro l’inconscio, di cui “la coscienza sembra essere uno dei bastioni più forti” (p. 22). Il nostro “viaggiatore” occidentale ricorre anche ad uno strumento antico, il fungo sacro... o meglio la sua più prosaica versione, la psilocibina Sandoz, con le sue alterazioni percettive, pallido surrogato, in assenza di un contesto mitico iniziatico, dei grandi viaggi sciamanici, che gli consente tuttavia la “gioia e sgomento e certezza di aver raggiunto l’essenziale”, ossia “splendore della vita, pulsare della vita, nel suo fondo senza centro, tutto centro” (p. 79). Qualcosa è cambiato, e la cesura sottolineata dall’autore, l’esserci un prima e un dopo, si può ipotizzare avvenga proprio qui, in questo inizio di esperienza estatica che si intravede al di là delle riflessioni indotte dal processo secondario, e volte paradossalmente a smantellarlo, che si fanno comunque anch’esse intermittenti e puntiformi. Zerografie, ossia descrizioni dello zero, di ciò che di per sé è il nulla, è indicibile: sotto questo titolo sono raggruppate una serie di aforismatiche riflessioni sull’estasi... Fachinelli sembra qui oscillare tra la molteplicità di statuti dell’estatico: potenza antropologica, esperienza religiosa, paradosso epistemologico dove soggetto e oggetto della conoscenza scompaiono,dimensione temporale di un “ora” assoluto che sospende il tempo della caducità. L’estasi, l’estatico sono tutto questo, e altro ancora; lo possono essere contemporanea-

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mente, ma anche articolatamente, gradualmente. Ma da quest’esperienza, come da quelle che la introducono, emerge una interrogazione radicale sullo statuto della coscienza, sugli orizzonti della psiche, su ciò che è personale e su ciò che non lo è più in ogni individuo. Ad essa non c’è risposta nella nostra cultura; forse la possiamo trovare in quegli altrove che hanno indagato a fondo la fenomenologia della coscienza, tracciando percorsi di conseguimento dell’estasi (penso all’induismo Vedanta, allo yoga di Patanjali, allo zen, al sufismo, alle estasi sciamaniche...), sottratti alle strette maglie del controllo da parte dell’istituzione religiosa, come è avvenuto nel monoteismo cristiano. Non c’è quasi traccia, stranamente, nella riflessione di Fachinelli, su di esse. Del resto ciò è forse inevitabile poiché la categoria interpretativa che egli sceglie per dar conto della possibilità dell’esperienza estatica è quella dell’area perinatale. Utile certo, e rassicurante, ma nel contempo limitante e riduttiva perché l’esperienza della gioia eccessiva può essere fatta solo da un soggetto cosciente che la sperimenta, perde la propria identità, ma la mantiene nella misura in cui ricorda e tenta di riportare e descrivere ciò che gli è accaduto. Di fronte a questo evento, mostrano i propri limiti le cartografie tradizionali della psiche, come quella freudiana, e quelle più aggiornate, magari di matrice neurobiologica. Diciamo che, in via di ipotesi, sembra possibile ammettere, come confermano le indagini antropologiche e l’analisi di esperienze estatiche nell’ambito delle religioni, che l’individuo possa aver accesso in determinate circostanze, e secondo percorsi definiti culturalmente, ma anche a volte in maniera casuale,come sottolinea Maslow a proposito di peak experiences, a una sfera della psiche, quella della gioia eccessiva, della perdita di sé, e rigenerazione di sé, alla quale ha probabilmente accesso anche l’individuo in stato perinatale. Perciò l’estasi può essere ricordo, ritorno, ma anche esplorazione di un continente psichico e di coscienza che l’individuo possiede, ma l’accesso al quale è frutto soprattutto delle determinanti culturali entro cui egli vive, cioè dello o degli stati di coscienza che ogni cultura prescrive come leciti, proscrivendone altri, che magari in altre temporalità storiche, o in ambiti specifici di quella cultura, sono stati o sono ammessi. La possibilità di un transito, sia pur minimale, una transe verso sfere di coscienza inusuali è sotto gli occhi e l’esperienza di tutti: pensiamo al mondo onirico, alle sincronicità junghiane, o alla telepatia quotidiana. Non è un caso che anche in La mente estatica, riemergano attraverso il resoconto dell’esperienza con una paziente, possibilità inquietanti come la capacità di “penetrare uno spazio mentale altrui o, in altri termini, di muoversi con libertà in uno spazio mentale interindividuale” (p. 88), o “l’enigma del tempo sovvertito, invertito, in cui ciò che accade dopo è conosciuto prima”

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ANTICLAUSTROFILIA

(ibidem). E qui Fachinelli evoca la possibilità di un “mondo parallelo al nostro abituale, in cui il tempo può scorrere in direzione inversa” (p. 89). Forse sarebbe tempo di, come ci sollecita più e più volte Fachinelli, abbandonare difese e bastioni, ed ammettere la possibilità di esplorare stati di coscienza, che comprendono l’estatico ma non si identificano in esso, che al momento attuale non possiamo che definire non ordinari; essi sono presenti in ogni cultura antropologica ed in ogni civiltà benché in alcune allo stato interstiziale mentre in altre in maniera più strutturata. Essi sono una risorsa che “è stata messa da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile” (p. 11). Non possiamo, a mio giudizio, che concordare con Fachinelli, cercando di individuare, nelle forme adeguate al nostro tempo, la possibilità di accedere a questa “risorsa antropologica”, superando il “disconoscimento dell’estatico” e “cogliendo in esso un momento originario di molteplici esperienze”; tra esse, non ultima la possibilità di una sua valorizzazione in chiave psicoterapeutica, secondo modalità e percorsi adeguati, ma non certo estranei ad esperienze già conosciute e spesso codificate in varie culture umane.

Bibliografia di riferimento Couliano I.P., Esperienze dell’estasi, Laterza, Bari 1989. Couliano I.P., I viaggi dell’anima, Mondadori, Milano 1991. Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma 2005. Fachinelli E., La freccia ferma, Adelphi, Milano 1992. Fachinelli E., Claustrofilia, Adelphi, Milano 1998. Fachinelli E., La mente estatica, Milano 1989. Grof S., Oltre il cervello, Cittadella, Assisi 1997. Grof S., La mente olotropica, Red Edizioni, Milano 2007. Lapassade G., Dallo sciamano al raver, Urra, Milano 2008. Lapassade G., Transe e dissociazione, Sensibili alle foglie, Roma 1996. Lattuada P.L., Oltre la mente, Franco Angeli, Milano 2004. Maslow A., Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971. Tart C., Stati di coscienza, Astrolabio, Roma 1977. Wilber K., Lo spettro della coscienza, Crisalide, Saturnia 1993. Wilber K., Oltre i confini, Cittadella, Assisi 1995.

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Terza sezione

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Psicoanalisi della domanda e pratiche filosofiche

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Spiritualità laica e mistica filosofica. Intorno alla ‘mente estatica’

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di Romano Màdera

La mente estatica esce nel 1989, l’anno della morte di Elvio Fachinelli1. A metà del libro un resoconto di un viaggio con l’“Amica Psilo”, la sostanza psichedelica isolata dal teonanacatl, fungo sacro messicano. Il tempo rallenta: “Costante sorpresa di fronte all’orologio – dubbio che si sia fermato, com’è possibile che sia passato così poco tempo. Vivo fitto, a lamine sottili sovrapposte … gioia e sgomento e certezza di aver raggiunto l’essenziale … Splendore della vita, pulsare della vita – nel suo fondo senza centro, tutto centro”2. Il presente si carica di una capacità di senso inusitata e si dilata. E si avverte qualcosa come un’anticipazione di morte: “sono trascinato, riluttante, vittima forse di un presagio di morte”3. A queste pagine fa seguito uno strano paragrafo “I ricordi di Nostradamus” dedicato a un divertissement di Dumézil sull’interpretazione della quartina nella quale sembra divinata la fine di Luigi XVI, arrestato a Varennes mentre stava fuggendo, località della quale parla appunto Nostradamus. Nel suo commento Fachinelli si ferma soprattutto sull’idea di Dumézil che questi testi “acrobatici” volteggino sul tempo, mescolando piani cronologici diversi. Ed è evidente che questo è il suo interesse teorico principale in queste pagine. Si aggira di nuovo intorno ai temi di Claustrofilia4, come dice poche pagine più avanti: “È lo stesso tipo di particolari che si trovano a volte, insieme a vari dislocamenti spaziali e temporali, in alcuni sogni raccontati in analisi. Quando, precisamente, un rapporto singolarmente stretto tra i due interlocutori, caratterizzato da una sorta di immobilità senza tempo … è minacciato di interruzione. I sogni di questo tipo sembrano allora un tentativo parzialmente riuscito di riafferrare la relazione unitaria in pericolo”5. Tuttavia il tema principale è 1

Pubblicato da Adelphi. Ivi, pp. 78-79. 3 Ibidem. 4 Adelphi, Milano, 1983. 5 La mente estatica, cit., p. 83. Questa precisazione della situazione nella quale occorrono questi fenomeni, del tutto interna al rapporto analitico, costituisce la specificità della inter2

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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intrecciato con un altro tema, secondario in questi paragrafi, ma che fa da cornice a tutto il libro. Luigi XVI a Varennes inizia il suo viaggio verso la condanna a morte. Dumézil, insieme all’interpretazione della quartina di Nostradamus, aveva pubblicato un altro piccolo saggio sulle famose parole di Socrate a Critone “siamo debitori di un gallo ad Asclepio”, parole famose perché cento volte interpretate, dagli antichi fino a Nietzsche e oltre. Parole che dovrebbero rivelarci qualcosa dell’atteggiamento di Socrate nei confronti della morte e della vita, insieme a quanto già ha detto nelle pagine precedenti del Fedone. Ma a Dumézil interessa il nesso di queste parole con il sogno “che gli ha preannunciato la morte e lo ha evidentemente confermato nella sua decisione di filosofo”6. Anche qui Fachinelli sembra seguire il filo di Dumézil e interessarsi al rapporto fra la percezione abituale dello spazio-tempo e l’irruzione di una sorta di invisibile che la interseca e la interrompe, scompigliandone la sequenza ordinata per portare alla luce una diversa trama. Il passaggio puntuale a una vicenda analitica sembra confermare la preminenza di questo interesse, teorico e clinico: “In una fase delicata di distacco dalla situazione analitica, distacco insieme temuto e desiderato, Luisa è turbata bruscamente da un sogno…”7. La situazione clinica della fine analisi, il riattivarsi della condizione di co-identità, certo. Il climax drammatica, a questo punto, è raggiunto dal contenuto del sogno, la morte annunciata della madre di un’amica, raddoppiata, il giorno dopo, dalla conferma che effettivamente di questo si tratta anche nella realtà della veglia. L’interpretazione vira, come di consueto in questi casi, sull’angoscia di morte come equivalente dell’angoscia di separazione di fine analisi. La fine vissuta da Luisa “come (messa a) morte dell’analista”8. Il tema parallelo e subordinato della messa a morte del re e di Socrate prende il sopravvento. In contrappunto si sentono avvisaglie che travalicano le rappresentazioni di pretazione di Fachinelli. Lui stesso aveva evidentemente avvertito l’estrema vicinanza con i fenomeni sincronistici rilevati da C.G. Jung, tanto da dedicare una nota, in Claustrofilia, alla differenza fra l’ipotesi junghiana e la sua. In sostanza quella di Jung gli appariva una interpretazione generale (nessi acausali di senso che traversano le usuali dimensioni spaziotemporali e connettono fenomeni psichici e fenomeni fisici) che non metteva in connessione lo spostamento degli assi spaziali e temporali con le condizioni che si configurano quando si attiva l’area claustrofilica, legata a una “connotazione essenzialmente clinica” (p. 106 de La mente estatica, cit.) come ho detto sopra, ma riconducibile, nella ricostruzione, al “periodo perinatale della vita, vale a dire a quella fase di parziale e relativa co-identità del bambino con la madre che comprende gli ultimi mesi di gravidanza e i primi dopo la nascita” (Ivi, p. 104). 6 Ivi, p. 82. 7 Ivi, p. 83. 8 Ibidem.

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SPIRITUALITÀ

LAICA E MISTICA FILOSOFICA. INTORNO ALLA ‘MENTE ESTATICA’

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traslazione e mettono in gioco direttamente, in prima persona e per conto di se stesso, Fachinelli. Piccoli disturbi fisici, un vecchio intervento chirurgico. Dopo due settimane altri due sogni vengono a insistere sul pensiero di morte: “La mano rinvia alle dita nodose, gialle di nicotina, del suocero, che ha assistito nella sua ultima malattia … È soverchiata dall’angoscia. Come del resto io. Il giorno dopo il suo sogno, verso sera, mentre stavo seduto in soggiorno, avevo udito qualcuno aprire senza suonare la porta d’ingresso, cosa del tutto insolita, e dei passi venire verso la stanza in cui mi trovavo. Turbato, dall’arco9 con cui questa stanza comunica col corridoio avevo visto spuntare un’amica medico, che mi portava il risultato di un’analisi da me compiuta pochi giorni prima – un’analisi il cui risultato non mi era benevolo. Mentre ascoltavo il racconto del sogno della mano, non potei fare a meno di ritrovarmi confitto, «fotografato», in quella mano monca, portatrice di cicatrici, una mano invasa per intero dal giallo della nicotina – che di solito si limita alle dita. Era di nuovo un accenno di morte riferito a una figura parentale, questa volta il padre – ma di questa figura io non ero soltanto il rappresentante nel transfert; ne ero in modo diretto l’incarnazione, ed era la mia perdita che la faceva sentire in pericolo di vita, seduta precariamente su un pianerottolo di scale precipitate”10. Così si annodano la messa a morte del re, la condanna a morte di Socrate, la morte del padre, la fine dell’analisi come messa a morte e l’annuncio della malattia mortale dell’autore. Al centro del libro si apre la cornice che lo contiene, lo scenario del dramma. Diventa facile allora collocare il testo sullo sfondo di un topos della letteratura classica: il Fedone platonico. Lì Socrate discorre con gli amici della vita e della morte, del corpo e dell’anima e del destino che le può occorrere dopo la morte. Così le letture si sono spostate sul concetto di anima e hanno per lo più lasciato in ombra che “corpo” è un termine che raccoglie qui la vita condotta dalle passioni – schiava del desiderio di ricchezze, di potere e di fama – e che l’anima è vivente oltre la morte innanzitutto perché può vivere mortificando, conducendo a morte queste passioni. Non si spiegherebbe altrimenti la frase secondo la quale filosofare consiste nell’arte, o meglio nella meditazione11, della morte e del morire. Meditazione oggi 9 L’arco dell’ingresso dello stabile era comparso in uno dei sogni della seduta del cui seguito sta qui parlando. 10 Ivi, p. 85. 11 Cfr. Fedone 64-68c, dove il termine è μελέτη, traducibile più che con “arte” con “meditazione”, secondo l’indicazione di P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1987), Einaudi, Torino, 1988, p. 36, nota 30.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

della morte e del “morire”, quindi non solo di un fatto, ma di un processo. L’intero Fedone è la messa in scena nel teatro filosofico dell’esercizio di morte. E questo esercizio non è solo uno degli esercizi spirituali antichi: “È chiaro dunque, che la presa di coscienza di sé, che avvenga nel movimento di concentrazione verso di sé o nel movimento di espansione verso il Tutto, richiede sempre l’esercizio della morte che è, da Platone in poi, l’essenza stessa della filosofia”12. Il libro di Fachinelli è una gemma dell’esercizio spirituale della morte e dell’attimo presente, come nella tradizione della filosofia antica, rinnovata per noi a cominciare dalle opere di Pierre Hadot. Ma l’autore non ne ha consapevolezza, l’esercizio è lo stesso ma non lo sa: è dunque ancora più importante perché attesta autonomamente che dall’esperienza psicoanalitica si giunge, quando l’urgenza della vita ci travolge, sugli stessi sentieri che la vita filosofica aveva aperto duemilacinquecento anni fa. Vicino alla vetta inevitabilmente le vie diverse devono coincidere. Ma quanto diverse sono le vie! Si potrebbe dire opposte, in modo paradigmatico in questo caso. Tanto più che anche la psicoanalisi, secondo Fachinelli, si costruisce su una strategia militare, difensiva. E mentre annuncia il motivo conduttore del suo esperimento, quello di portare la psicoanalisi al di là di se stessa, verso i territori ancora poco esplorati della mente estatica e dell’antropologia che da essi si può cominciare a tratteggiare, ecco che gli torna in mente la metafora dei cavalli platonici del Fedro: “Dopo lo squarcio iniziale, la psicoanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare … Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato. E l’essenziale, ovviamente, è che le armi siano ben fatte, adeguate. Se non sono tali in partenza, bisogna renderle adeguate: con la psicoanalisi, appunto. Altrimenti disarcionamento, se non disastro”13. Quel “disarcionamento” dice il suo, più o meno consapevole, riferimento: l’auriga platonico, l’anima razionale, può essere rovesciato dal suo posto di guida dagli strappi del cavallo nero della passione. “Una ragazza ha sognato schifosi scarafaggi che si accoppiano, le salgono sui piedi... «Che ci sia in me una forza sessuale come nelle bestie?» Insomma una strenua difesa, un lungo battagliare contro qualcosa che non riesce ad accogliere. Alla fine, i suoi impulsi sono trasformati in scarafaggi”14. Accogliere, allentare le difese, diminuire la vigilanza, come “nel sogno, nel 12 13 14

P. Hadot, Che cosa è la filosofia antica? (1995), Einaudi, Torino, 1998, p. 200. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 16-17. Ibidem.

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fantasticare, nell’inventare, nell’usare droghe – insomma in questa phantastica umana dove, a tratti, passa un messaggio inatteso”15. Questo è il contesto del resoconto del viaggio con l’“amica Psilo”. Elvio – la conoscenza personale mi consente di chiamarlo per nome – non aveva paura degli stereotipi, non aveva ceduto alla minaccia normalizzatrice che imponeva a tutti di vergognarsi e di nascondere il passato speso a trasgredire il soffoco delle doppie morali e del cosiddetto “rispetto umano” per ogni idiozia che avesse dalla sua gli stereotipi della maggioranza. Così evoca – quando anche la trasgressione delle porte della percezione ha esaurito la sua intenzione, si è appiattita nella coazione pedissequa dello sballo e si è definitivamente accomodata nell’indifferenza del consumo universale – l’esperimento psichedelico, non a caso unito al sogno, al fantasticare e persino all’inventare. Insomma alla capacità, distintiva dell’umano, di immaginare altrimenti e di vivere delle sue invenzioni16. Proprio qui sta il riscatto della contestazione globale degli anni sessanta del Ventesimo secolo. In un rilancio, o in un ripresa, cioè nel ritornare di una certa dinamica ma con un nuovo senso possibile, in una metamorfosi tesa verso differenti sviluppi. Questo concetto di ripresa è concepito da Fachinelli come distanziamento e ripresa, appunto, della coazione a ripetere, come un diverso sviluppo possibile della ripetizione (non so quanto fosse consapevole del fatto che ripresa è un termine importante nel pensiero di Kierkegaard). Ritorna dunque all’espansione del campo della coscienza, alla fantasia psichedelica della tentata e spesso abortita sovversione culturale di qualche decennio prima, ma le intensifica e le estende fino a delineare un nuovo, e insieme originario, stato della mente, ritrovato nelle possibilità estatiche che riguardano fantasie, sogni, arte, scienza, invenzioni. Una condizione dell’umano e della sua cultura. I richiami evidenti al passato appena prossimo sono peraltro quasi sottaciuti – Fachinelli li aveva frequentati criticamente in tutti i sensi, partecipandovi attivamente e spregiudicatamente – per coglierne appieno la portata nella lunga durata: i “percorsi con tratti comuni”, titolo del terzo blocco di pensieri raccolti nel libro, avvicinano Eckhart, Dante, Proust, Poincaré, Bataille, Bellow, ma si sarebbe potuto fermare su un riferimento più scontato, lo sregolamento di tutti i sensi che Rimbaud aveva posto a insegna della sua poetica vivente. Rimbaud sarebbe stato più scontato perché può essere preso come immagine-simbolo di quella eruzione antiplatonica della grande cultura che, dall’ultimo terzo del Diciannovesimo secolo, si sarebbe rovesciata periodicamente, come lava 15

Ivi, p. 20. Ho trattato di questa base antropologica in un testo di “sintesi intuitive”, L’animale visionario, Il Saggiatore, Milano, 1999. 16

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fiammeggiante e distruttrice, su ogni pretesa di ordinamento e di regolamentazione in ogni campo della vita, della storia e dell’arte. Ma la dimensione cosmopolitica del nostro tempo non può essere raggiunta e sfidata sul terreno già pregiudicato di una estensione, o anche intensificazione, del desiderio quale immediatamente – nella immediatezza mistificata dalla sua manipolazione consumatrice e spettacolarizzata – si presenta. Che non basta affatto rivendicare che è proibito proibire, perché questo slogan rivoluzionario è già diventato acquiescenza impensata allo stato di cose presenti. Secondo invece la traccia psicoanalitica si tratta di muovere verso l’Acheronte, di solcare ancora, e con l’esperienza dei pionieri già assorbita, il mare immenso della dimenticanza, per cercare quel viatico della speranza che solo un riaffiorare, in diverse condizioni, di una possibilità antropologica, può forse offrire: la dimensione antropica delle capacità estatiche della mente.17 Detto in modo più specifico: il tentativo di Fachinelli non è niente di meno del tentativo di proseguire l’opera della psicoanalisi rovesciandone la prospettiva antropologica. Dalle difese dall’oceano ribollente e caotico dell’Es, da sostituire con altre e più mature difese, all’accettazione, a un supplemento di femminile. “Bisogna rovesciare la prospettiva… Non inibizione, rimozione, negazione, eccetera: i diversi stratagemmi, le difese parziali di un’impostazione difensiva generale. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte”.18 Non si tratta però di cambiare le parti per ritrovarsi in una unilateralità opposta. Si tratta di “un’altra logica”. Qualcosa di diverso da una non-logica, da una condizione avversa al pensiero e alla ragione. Sarebbe difficile qui evitare di ricordare “le due forme del pensare”, il secondo 17 Scrive Fachinelli nella “Premessa” de La mente estatica: “Si tratta di superare, in definitiva, il nostro generale disconoscimento dell’estatico, cogliendo in esso un momento originario di molteplici esperienze; probabilmente delle esperienze più creative nella vita umana. L’apex mentis, l’apice della mente secondo la definizione medioevale, ne è anche la base, e non può essere ridotto alla situazione mistica, che è soltanto una delle sue forme. Abbiamo dunque davanti un’esigenza antropologica, che sta noi non perdere né sciupare. È sicuro che questo movimento sarà da taluni, e forse da molti, interpretato come un ricorrente tentativo di distruggere o indebolire la Ragione, e forse l’io stesso, e di tornare così a un indistinto originario. È forse venuto il tempo che chi pronuncia tali sentenze si chieda piuttosto se non sia in lui questa debolezza, o questa paura di debolezza; e se la temuta abolizione dell’io nelle esperienze estatiche non significhi in realtà contribuire a salvare questo stesso io dal rischio impellente di essere assorbito nella Ragione tecnica, scientifica, burocratica. Dalla risposta a tali domande potrà venire, io spero, un radicale cambiamento di atteggiamento” (p. 12). In quell’ “io spero” e in quel “radicale cambiamento di atteggiamento” sta la prova della continuità essenziale fra questo suo ultimo libro e tutta la sua opera – e intendo con “opera” non solo l’opera scritta, ma tutta la sua attività, di analista e di politico rivoluzionario. 18 Ivi, p. 16.

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LAICA E MISTICA FILOSOFICA. INTORNO ALLA ‘MENTE ESTATICA’

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capitolo, la cui prima versione è del 1912, di Simboli della trasformazione di Jung, l’inizio dell’allontanamento da Freud. Fachinelli non lo cita, e forse anche per questo la concordanza ha una cera importanza. Non si tratta evidentemente di una confluenza di pensiero incontrata nello studio, ma di qualcosa di ben più profondo e decisivo. Nonostante l’ampiezza della svolta che le ricerche di Freud hanno preparato al pensiero, la sua impostazione rimane ancora sul terreno di una monologia uniforme, secondo la quale il pensiero si dà nel modo del senso comune o della elaborazione teorico-concettuale delle scienze e della filosofia, così sarebbero anche formulati i pensieri latenti del sogno. Le creazioni della fantasia sarebbero invece affette da una presenza del processo primario, del tutto differente dal processo secondario che dà accesso al pensare. La straordinaria intuizione di una diversa grammatica e sintassi del linguaggio onirico – e quindi di ogni phantastica – rimane per lui un lavoro di deformazione, sulla base, nascosta, delle consuete forme del pensare. Un’impostazione che risente della tradizionale soggezione dell’immaginazione al pensare logicamente controllato. Jung, probabilmente anche appoggiandosi alla linea poetico-filosofica schilleriana che riprenderà esplicitamente nei decenni seguenti, osa il passo della equiparazione del pensare simbolico-figurale con quello teorico-concettuale, chiamandole le due forme del pensare: il pensare indirizzato (a un oggetto o a un fine determinato) e il pensare non-indirizzato19 tipico della fantasia e del sogno. Se si volessero peraltro prendere in considerazione attenta anche i dettagli della sua formulazione, si troverebbe che qualche segno di “minorità” permane anche in Jung circa il pensare non- indirizzato, che sarebbe per sua natura più arcaico e più infantile. Anche in Jung, a vedere bene, qualche, forse inevitabile, traccia della storia valutativa delle forme del pensiero, ereditata dalla filosofia e dalle scienze, permarrebbe a intaccare una concezione della unità strutturale e dinamica delle due forme nell’elaborazione del pensiero. Con ciò voglio dire che ovviamente esistono forme più arcaiche e infantili, ma esse fanno parte dello sviluppo di entrambe le forme e non riguardano né solamente, né specificatamente, la forma simbolico-figurativa. In Fachinelli questa apertura di una diversa via teorica dipende direttamente da un atteggiamento di accoglimento, da una diversa prospettiva nei confronti dell’apparato di smontaggio e rimontaggio delle difese: “Ma l’accoglimento non è simmetrico alla difesa. C’è un funzionamento diverso, un’altra logica. L’afasia non procede secondo gli stessi modi della parola intatta – e proprio Freud ne ha trattato. Se l’afasico torna a parlare, la sua 19

Sulle due forme del pensare vedi il mio C. G. Jung. Biografia e teoria, Bruno Mondadori, Milano, 1998.

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parola potrà risultare simile, quasi indistinguibile, rispetto alla parola intatta. Ma non sarà mai questa parola”.20 Un’altra logica e un altro atteggiamento, ma non simmetrici, piuttosto complementari. È qui che la trasformazione dell’atteggiamento incrocia un grande tema dell’epoca, la crisi del patriarcato. Fachinelli per anni aveva lavorato in campo politico-educativo con Luisa Muraro e Lea Melandri,21 è stato quindi uno dei primi intellettuali italiani maschi ad avere un rapporto formativo con il femminismo nascente. Un’esperienza biografica, e quindi anche politica e intellettuale, oltre che psicologica, che ha lasciato il segno: “L’insistenza sulle difese è sempre, implicitamente, insistenza sull’offesa, sulla capacità di offendere. Collegamento del sistema vigilanza-difesa con la più affermata impostazione virile. E allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore, di molte e diverse esperienze. E anche di questa mia esperienza. Al momento di diventare sciamani, si dice, gli uomini cambiano sesso. È così posta in rilievo la profondità del mutamento necessario. Il femminile come atteggiamento ricettivo non abolisce però il maschile, gli propone un mutamento parallelo. Il maschile si delinea allora come un paziente, faticoso, a volte quasi cieco operare che precede e segue l’atto creativo. Scegliere, disporre materiali, ispezionare, scrutare, scavare. Seminare. E più tardi raccogliere, sviluppare, trasformare. Alternanza ritmica del maschile e del femminile. In questa prospettiva, difesa e offesa come distorsione o perversione del maschile. A volte necessaria; sempre secondaria”.22 Lo sciamano-analista conosce ormai questi mondi, per ostinate frequentazioni. E ha raccolto, al tramonto del suo viaggio, le tracce del disegno di una diversa antropologia che riguarda inevitabilmente una trasformazione dell’assetto relazionale tra femminile e maschile, insieme alle forme del pensare e, quindi, alla disposizione di fisiologia e patologia, di psicologia generale e psicopatologia. Con Fachinelli – ma si potrebbe anche qui trovare importanti precedenti in Jung, Bowlby e Bion – la ricerca psicoanalitica esaurisce la vena che estende i risultati della clinica applicata alla psicopatologia per rivolgersi decisamente a una psicologia generale e, quindi, ancor più decisamente in Fachinelli, a una antropologia della quale la psicopatologia diventa un ambito specifico, caratterizzato da un diverso funzionamento. In parti diverse del suo libro ritorna su questa questione capitale23 a sottolinear-

20

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 20. E. Fachinelli (con L. Muraro e G. Sartori) L’erba voglio, Einaudi, Torino, 1971 e, a cura di L. Melandri, Il desiderio dissidente, Baldini & Castaldi, Milano, 1998. 22 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 21-22. 23 Cfr. ivi, pp. 23-24 e pp. 99 e sgg. 21

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ne lo snodo decisivo. Le situazioni alterate, ossia patologiche, non possono essere il metro di indagine del normale funzionamento della mente24. Forse quell’uso della parola “alterate” ha anche qualcosa di ironico: gli stati di coscienza alterati comprendono, nell’uso comune e scientifico, proprio gli stati psichedelici, peraltro spesso usati per indagare sia gli stati estatici sia le modalità di funzionamento schizofrenico. Qui si propone invece di pensare al normale fondo e vetta della mente come pervasi dalla dimensione estatica, concependo l’alterazione come psicopatologia e criticando l’idea psicoanalitica di procedere da quest’ultima per risalire alla dimensione più generale, non alterata, diciamo pure antropologica. È impressionante mettere in fila alcune delle critiche più nette al maestro di una vita, a Freud, e insieme seguire l’autore in un percorso che esplicitamente si propone come continuazione delle promesse più implicanti di quel tentativo. Critiche e promesse nascono entrambe da un testa a testa, da un confronto e da un amore intensi, le pagine sono pervase di riconoscimenti e di segnalazioni di lacune e di errori: il gusto della ricerca sul testo freudiano occupa un terzo del libro ed è un antecedente “da cui è emerso”25 ciò che contiene intuizioni e innovazioni sulla dimensione estatica della psiche. Il capitolo ha un titolo meraviglioso per capacità evocativa: “Essi temevano la gioia eccessiva”, dove per “essi” si intendono Freud e Lacan. Quella gioia eccessiva che appare nascosta in innovazioni dissimulate e lasciate ai margini di alcuni scritti freudiani dell’ultimo periodo. Il movimento delle pagine, costruito per labirintiche e inaspettate rotture di prospettiva, si getta nel vortice dei nessi attorno al “sentimento oceanico” e si dirama dall’infanzia di Freud, e dalle seduzioni infantili della doppia madre, fino al rapporto col doppio maschile, Fliess, che evoca in Freud la sua sensibilità femminile: sono gli incontri con l’amico che lo inondano di una gioia “immensa”, “smisurata”26 e gli fanno sentire quel “desiderio prei24

“Nell’inventario originale freudiano questi «meccanismi» sono còlti, con grande precisione, in situazioni alterate (nevrosi, perversione, psicosi), come procedimenti vicari o di emergenza. Sono per così dire i modi di camminare dello zoppo. L’immensa fortuna della psicoanalisi ha fatto sì che essi venissero estesi al chiarimento di situazioni non alterate, immaginando un loro dispiegamento per così dire riuscito. Come se chi cammina senza difficoltà fosse uno zoppo così ben equilibrato da non manifestare più il suo difetto. Uno zoppo nascosto, ma riuscito… Il movimento non alterato si svolge invece attraverso modalità proprie ed è dalla crisi di queste, e dal loro venir meno, che si generano modalità «meccaniche» sostitutive – dal momento che la vita continua. Ma non è vero l’inverso: non è da questi automatismi di supplenza che può generarsi il movimento normale. Esso è sempre di un altro livello”. Ivi, pp. 99-101. 25 Ivi, p. 127. 26 Ivi, p. 178-180.

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storico” che, secondo lui, è l’unico capace di generare felicità. Nel risucchio del gorgo felice il centro dello sprofondo nel vortice è un punto vuoto, un buco nero che pone il sigillo della pulsione di morte sul più intenso piacere, sull’evocazione dell’estatico: “Qui si affaccia in Freud una gioia smisurata, tale da mettere in pericolo il senso della propria identità e far sorgere l’immagine di un riassorbimento nell’oceano materno. Tale gioia si situa chiaramente al di là del piacere come è comunemente inteso, ed è invece prossima al lato più inquietante del piacere in Freud: vale a dire, a quel momento in cui la riduzione della tensione, perseguita per evitare il dispiacere, declina verso un punto zero, verso la cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa. In termini di pulsione, è il Todestrieb, la pulsione di morte. In termini di vissuto psichico, questa gioia smisurata è contigua al terrore dell’annichilimento. Ci affacciamo a questo punto su una zona d’incrocio aperta alla ricerca psicoanalitica attuale, che coinvolge nello stesso tempo territori antropologici finora ai margini della psicoanalisi. È una zona, una «terra promessa», che tormentò il pensiero di Freud negli ultimi anni … che forse egli «vide da lungi» … ma che a lui fu vietato raggiungere”.27 Il rapporto fra l’allievo e il maestro qui raggiunge il suo diapason, il riconoscimento più partecipe indica anche la via che è compito futuro percorrere. In questo modo la fedeltà si può accompagnare alla critica più severa. Che cosa infatti vietò a Freud l’ingresso nella “terra promessa”? Una interpretazione immediata sarebbe quella del parallelo con Mosè, cioè, in definitiva, il peccato, il tradimento del suo popolo. In altri termini risuonerebbe qui, accentuata proprio dalla messa in sordina, la sdegnosa e sarcastica contestazione di Fachinelli alle istituzioni psicoanalitiche e alla loro storia. Ma è troppo poco e troppo triviale per un testo come questo e per la posizione di lascito estremo che rappresenta. No, che vieta a Freud il passo verso la terra promessa dell’estatico, e quindi verso le sue regioni particolari, dalla creatività artistica a quella scientifica e mistica, è proprio la sua povertà teorica. Sono giudizi netti, duri. Forse Fachinelli se li poteva permettere proprio perché aveva amato fino ai dettagli il testo freudiano e aveva immaginato l’apertura di nuove vie per la sua eredità. Forse lo scadere del tempo di vita imprime una certa assenza di riguardi per tutto ciò che è accorgimento accademico. Progetto infantile, miseria incurabile, assoluta inadeguatezza del modello di mente! Raro che gli avversari di Freud osino queste stroncature. Ma è così, con Fachinelli, in vita e in morte, le circonlocuzioni collaudate dai custodi delle associazioni analitiche diventano risibili. Bisogna decidere se 27

Ivi, p. 180.

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prendere sul serio le sue critiche o se sbarazzarsi con un gesto deciso della sua opera. Trasformarlo in santino della storia freudiana è improbabile, e costerebbe un alto prezzo di comicità. Ascoltiamo: “Rendere conscio può significare allora soltanto delineare, prima e dopo, il posto occupato dal sistema vigilanza-difesa. Non pretendere di far passare attraverso di esso ciò che non gli appartiene. Progetto infantile: svuotare il mare con un secchiello… Anche il progetto di Freud – prosciugare l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuidersee – è infantile”.28 Se è infantile il progetto di asciugare il mare dell’inconscio con il cucchiaino del sistema vigilanzadifese – ed è evidente qui la citazione di Agostino alle prese con il mistero di Dio – è una “miseria incurabile” la “teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime fin dal principio”.29 A fronte della “fluidità impareggiabile” che costituisce la psiche e che dà luogo alle possibilità di ripresa vitale del tempo dell’esperienza “non si potrebbe più parlare di «meccanismi difensivi»… nel senso dei procedimenti rilevati da Freud… L’assoluta inadeguatezza di questo modello per ciò che si riferisce alla psiche o alla mente non ha bisogno di commenti”30. Il modello dei meccanismi è dunque assolutamente inadeguato a esprimere la vita psichica, esso può spiegare, nel caso, soltanto i tentativi patologici di sostituirsi alla fisiologica fluidità della mente. Che non ci sia bisogno di commenti, questo dobbiamo metterlo in questione: se la psicoanalisi riuscisse a procedere nella direzione auspicata da Fachinelli, allora i commenti sarebbero una necessità. La dimensione estatica della mente suppone una situazione umana “in cui vi sia un’ampia disponibilità di tutte le esperienze di vita, o di gran parte di esse, una capacità di far uso dei propri momenti di sviluppo non solo evocandoli nel ricordo, ma vivendoli, rivivendoli, attraversandoli in più direzioni. Del resto, è una situazione che si manifesta in alcune personalità di eccezione”.31 Alcune di queste sono, abbiamo visto, l’oggetto di annotazioni del capitolo intitolato “Percorsi con tratti comuni”: Eckhart, Dante, Proust, Poincaré, Bataille, Einstein, Bellow… per dare l’idea dell’emergere a tratti di una dimensione affine che circola filtrando attraverso ogni barriera settoriale e ideologica. Dalla religione, all’arte e alla scienza, da S. Paolo a Dioniso. Il centro della questione sta proprio in questa diffusività che impedisce il 28 29 30 31

Ivi, p. 21. Ivi, p. 24. Ivi, p. 99. Ibidem.

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sequestro da parte della religiosità istituzionale (ma anche da parte della riserva indiana per personalità mistiche d’eccezione) di questa possibilità di attingere alla dimensione estatica della mente: “Vi è insomma una diffusione profana dell’estasi, dell’excessus mentis descritto dai mistici medioevali… e prima ancora da Plotino e Dionigi l’Aeropagita”.32 Questo ek-stare, questo andar fuori dal sé abituale implica “un’attenuazione o abolizione dell’io cosciente, cui si accompagna nello stesso tempo il senso di un inglobamento, di un’immersione o dissoluzione in uno stato altro, più grande o più bello o più vero dell’io stesso… Se il suo io cosciente era attenuato o addirittura soppresso, come nel sonno profondo o nell’anestesia, non per questo era assente un soggetto altro, spiazzato abitualmente rispetto all’io, ma divenuto centrale nella nuova situazione. Altrimenti non potrebbe esserci alcun resoconto, per quanto dichiaratamente inadeguato, dell’accaduto”.33 Dall’esperienza psicoanalitica della rottura, nella claustrofilia, dell’ordinamento spazio-temporale, causale e identitario, all’esplorazione delle regioni dell’estasi, dalle radici perinatali dell’esperienza alla sua ripresa ai vertici della creatività umana. Qui un soggetto al di là del soggetto, periferico fino a quando ci troviamo nelle frequenze dominanti della percezione abitudinaria, prende il centro dell’evento. È un tema colossale della discussione intorno alla psicologia dell’illuminazione e della mistica, a sua volta ripreso dal confronto fra diverse teologie e filosofie della mistica. Jung, che anche in questo campo era stato un pioniere e si era avventurato in comparazioni fra occidente e oriente,34 avrebbe chiamato questa soggettività al di là del soggetto-io, l’emergere del Sé. Il sacrificio delle pretese dell’io o, come lo chiama Fachinelli, l’allentamento del sistema vigilanza-difesa e lo scarto verso un più femminile accoglimento, ne è la condizione. Condizione per aprire quale dimensione? “Ciò che si genera nel vuoto, nell’estrema rarefazione, è ciò che si è cercato. Si trova ciò che in noi qualcuno, al di là dell’io, cercava: Dio, l’arte, la scienza; o anche, immediatamente, semplicemente, la sospensione del tempo della caducità. In generale: una nuova figura del mondo. Il rinvenimento è sempre singolare, e rimanda alla singolarità del cercatore. Ma questa sorge dal «fondo comune» del corpo, se è vero che il passaggio dal vuoto al pieno presuppone il corpo come mediatore indispensabile”.35 Quando rileggo questa frase mi vengono i brividi perché ascolto in essa le

32

Ivi, p. 102. Ivi, pp. 102-3. 34 Basta confrontare gli scritti contenuti nel volume 11 delle Opere di C. G. Jung. Psicologia e religione e nei Seminari sul Kundalini Yoga (1932), Bollati Boringhieri, Torino, 2001. 35 Fachinelli E., La mente estatica, cit., pp. 30-31. 33

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risonanze sinfoniche di quanto ho cercato e ho trovato e ho provato a rielaborare: innanzitutto si sentono, non volute, e quindi ancor più significative, le concordanze con la filosofia intesa come modo di vita e “trasformazione della percezione del mondo”36 – avvicinando quindi la concezione hadotiana della filosofia antica come tensione alle trascendenze dell’io verso il discorso vero37 e autentico, gli altri, il mondo – con una accezione dell’estatico che comprendendo religione, arte e scienza, inevitabilmente riporta a quelle affinità che la mistica filosofica rintraccia in formulazioni di diversi saperi e di diverse tradizioni.38 La liberazione della potenzialità estatica della mente dal riduzionismo psicoanalitico, dalla diffidenza razionalistica e dall’esclusiva religiosa: questo è il lascito più importante dell’opera di Fachinelli che, con lo stesso movimento, apre un campo nuovo alla ricerca, alla sperimentazione e alla teoria. Ma soprattutto rafforza – al di là delle sue intenzioni – la possibilità di rinnovare l’impresa di una filosofia che sia uno stile di vita. Sembra infatti adeguato, a una tale apertura di orizzonti, solo un fare e un pensare dinamico, attento alle specificità dei saperi e della prassi richiesta ma, insieme, libero di passare ogni frontiera per inseguire il suo scopo – o, forse e ancor meglio, per lasciarsi inseguire dal suo scopo. Ovviamente si tratta di una vera e propria ripresa dell’orientamento alla trascendenza come specifico di una disposizione alla vita filosofica, quindi di un rinnovamento, di una sonda gettata in nuove direzioni. La nuova figura del mondo che si affaccia alla percezione estatica è infatti espressione, come non mai – questo è il sigillo della modernità e dei suoi sviluppi – della “singolarità del cercatore” e la singolarità è a sua volta radicata nella corporeità come suo “fondo comune”. Risuona per me, ancora più distintamente, un accordo essenziale con quanto abbiamo formulato come filosofia biografica in rapporto con la centratura nella consapevolezza corporea39. Così si presentano anche nuove forme di 36

Hadot P., La filosofia come modo di vivere (2001), Aragno, Torino, 2005. Cfr. il passo già citato: “Diciamo che ci troviamo di fronte a un’attenuazione o abolizione dell’io cosciente, cui si accompagna nello stesso tempo il senso di un inglobamento, di un’immersione o dissoluzione in uno stato altro, più grande o più bello o più vero dell’io stesso – e anzi, spesso: il più grande o più bello o più vero in assoluto”. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 102. 38 Cfr. K. Albert, Einführung in die philosophische Mystik, Wissenschaftsbuchgesellschaft, Darmstadt, 1996; ma non può non venire in mente Hegel e lo Spirito Assoluto il che, a sua volta, trascina con sé una catena di rimandi che finisce per comprendere gran parte della storia della filosofia. 39 Il rimando è qui ai miei testi, a quelli di Luigi Vero Tarca, a quelli di Ivano Gamelli (vedi in particolare il suo Sensibili al corpo, Meltemi, Roma, 2005 e a quelli di diversi autori raccolti in Adultità. Le pratiche filosofiche nella formazione, n. 27, 2008. 37

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trascendenza, alcune osservabili e forse suggerite proprio dalla pratica analitica, come quella del desiderio di desiderio. La figura del desiderio trova qui un suo paradossale compimento nel riconoscimento che la sua potenza è, in definitiva, ineguagliabile da qualsiasi oggetto: è nel suo fallimento la sua espressione più riuscita. Il desiderio “può essere bloccato, per cause interne o esterne – e sempre rinasce, anche se distorto. E a cui si può rinunciare, per impossibilità di appagamento – o proprio per la possibilità di appagamento. Che può confondersi col bisogno più elementare, a cui conferisce in ogni caso una forma particolare, e può essere senza oggetto, desiderio di infinito, di assoluto. Che si rivolge al futuro – ma anche, in molti casi, al passato. E che può coincidere con un «istante di eternità»”.40 In questo laico – non perché contrario al religioso, ma come contiguità di senso che attraversa spiritualità e pratiche diverse, in ogni direzione e appartenenza – itinerarium mentis in Deum, in quel divino che si può anche nominare come abolizione di Dio, si deve affrontare qualcosa di simile alla notte oscura dei mistici: rinunciare alle pretese dell’io ci sprofonda nell’angoscia, nella paura dell’annichilimento.41 Anche i processi creativi passano per qualcosa di simile, per una sorta di malattia.42 Come abbiamo già visto Fachinelli accosta questo terrore dell’annichilimento alla freudiana pulsione di morte, per leggerla come il rovescio e il passaggio alla gioia smisurata. “Essi temevano la gioia eccessiva” e per questo la psicoanalisi non ha potuto vedere in essa che il precipitare verso la morte. La cessazione della tensione, “al di là del piacere come è comunemente inteso”, designa un punto zero, l’azzeramento della vita stessa (“Zerografie” si intitola il secondo capitolo). È impressionante vedere come questa esperienza e questa tematica del piacere al di là del piacere siano state illuminate nella luce placida – accompagnate dalle metafore della tranquillità del mare e dell’ampiezza azzurra del cielo – della filosofia di Epicuro. Infatti proprio Epicuro ha fatto di questo piacere al di là del piacere la cifra del suo insegnamento sulla vita felice. È l’ευ¹στάθεια, il bene-stare della assenza di dolore (o comunque del prevalere dell’assenza di dolore) una condizione di stabilità comunemente non percepita, data per scontata e pertanto anestetizzata, che non si può guadagnare senza dedicarsi continuativamente all’ascesi dei desideri, alla condotta saggia e alla filosofia. 40

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 35. Ivi, pp. 29, 33, 102, 180. 42 Cfr. per esempio H. F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio (1970), Bollati Boringhieri, Torino, 1976. 41

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“Noi infatti abbiamo bisogno del piacere quando, il piacere non essendo presente, soffriamo dolore, non abbiamo più bisogno del piacere”.43 Quello che ci distanzia enormemente da Epicuro è proprio l’apparente assenza di angoscia. Cosa ben diversa dall’angoscia è il continuo ricorrere, il lui come in tutta la filosofia antica, dell’esercizio spirituale della morte. L’esercizio rinforza l’acuta presenza a se stessi nel presente, così acuta da estenderla e approfondirla al di là delle cadenze temporali abituali all’io della vita quotidiana, così aperta da farla approdare al senso dell’eternità, all’istante eterno. “Una e la medesima è la meditazione del ben vivere e del ben morire”, così ancora Epicuro nella Lettera a Meneceo, intesa a indicare la via per la vita felice. Dove è chiaro che si tratta dell’arte del ben morire adesso, nel pieno della vita, e non soltanto dell’estremo risultato della vita e della pratica. Morire ai desideri né naturali né necessari che si rincorrono vanificandosi, ripetendosi coattivamente, alzando la soglia della sensazione fino a precipitare sempre di nuovo nel dolore. Penso che l’angoscia per l’io sia enormemente accresciuta dallo sradicamento moderno – quanto meno l’io è ben piantato nel riconoscimento di convivenze sociali costruite da vincoli parentali, prossimali e politici immediatamente esperibili, quanto più l’autoidentificazione diventa incerta e discontinua. Tanto più l’angoscia del suo niente può irrompere da ogni evenienza. Anche per questo il percorso indicato dagli antichi costituisce per noi un orientamento ancora decisivo solo se viene integrato dall’attenzione alle variazioni che le condizioni mutate hanno rese necessarie. Proprio in questo senso l’analisi, se orientata filosoficamente, può venire considerata una nuova pratica filosofica, può quindi avviare il percorso verso le trascendenze facendosi però carico delle difficoltà, delle debolezze e delle paure che affondano nella biografia e in tutti i vissuti psichici ad essa connessi. Prendersi cura dell’individualità moderna e delle angosce di annientamento che la sua solitudine evoca, questa è la peculiarità dell’analisi biografica – tanto nella pratica dell’analista quanto in quella dell’analizzato – nel corso degli esercizi filosofici. Ma essa apre la via anche ai bisogni spirituali che non trovano più contenimento nelle religioni tradizionali, oppure che, pur rimanendo nell’alveo di quelle istituzioni, cercano un dialogo e un confronto senza pregiudizi di appartenenza e di superiorità, con altre espressioni spirituali, religiose e non religiose. La dimensione ampia della estaticità della mente offre un campo attraversabile in ogni direzione, dalla scienza 43

Lettera a Meneceo, 128; per un possibile approfondimento della tematica del piacere al di là del piacere cfr. il mio Il nudo piacere di vivere, A. Mondadori, Milano, 2006.

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alla mistica, cogliendone i momenti possibili di confluenza. Si apre così lo spazio di un convivio accogliente, laico per la sua inclusività, di ogni forma di umana creatività che rimanga fedele alla sua vocazione al piacere e alla felicità, alla celebrazione dell’esistenza. Inevitabile la domanda: che ne è della dissidenza del desiderio, della sua costituzione e della sua destinazione politica? La nostra via estatica non ha forse il retrogusto di un più raffinato oppiaceo che offre fughe e supplementi d’anima al mondo disanimato del capitalismo globale (e integrale, poiché sta penetrando e condizionando la psiche profonda, la conformazione stessa del desiderio)? Penso che la via della spiritualità laica e della mistica filosofica – o della dimensione estatica, nel lessico di Fachinelli – debba essere confrontata con i fallimenti dei tentativi rivoluzionari del Novecento, perché in quelle storie si trovano domande inevase che, più o meno consapevolmente, continuano a riproporsi e a fornire l’energia vulcanica necessaria alla ricerca di nuove risposte. Credo si possa cominciare con qualche semplice, ma anche sintetica, considerazione. È un fatto che molto spesso la costruzione del Socialismo, di fronte alle resistenze e alle contraddizioni che suscitava – per esempio il fallimento del progetto di ridurre significativamente il divario economico fra il centro del sistema e le sue periferie44 – virava verso una sorta di invocazione morale, la costruzione del mitico “uomo nuovo”, con risultati a volte grotteschi a volte tragici, in tutti i casi miserrimi. In altri termini la rivoluzione, per disperazione e per speranza, ha dovuto caricarsi di un significato più ampio e più profondo, concependo l’idea che non ci sarebbe stata costruzione del Socialismo senza che si procedesse sulla via di una sorta di rivoluzione antropologica che accompagnasse e rafforzasse la trasformazione sociale e politica. In secondo luogo la contestazione radicale della seconda parte del Novecento, critica non solo del Capitalismo ma di ogni pseudo-Socialismo esistente, ha troppo facilmente esaltato ogni rottura delle legalità istituzionali date, in ogni settore della vita associata e della vita privata. La miscela delle bandiere che proclamavano “vietato vietare” e “il personale è politico”, ha contribuito certamente a demolire i cascami, spesso finti e ipocriti, della morale patriarcale, ma il risultato storico, guardato a distanza, è stato quello di aver lavorato, inconsapevolmente, per l’avvento di una configurazione culturale effettivamente adeguata al dispiegarsi del Capitalismo globale. Ho

44

Cfr. G. Arrighi, ‘World Income Inequalities and the Future of Socialism’, New Left Review, I/189, Sept.-Oct. 1991.

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chiamato questo fenomeno “licitazionismo”45, via libera senza limiti al desiderio funzionale alla bulimia spettacolizzata, consumistica e accumulatrice che ci possiede. L’unico vero divieto colpisce chi non sta al gioco, così la legge rovescia i suoi rapporti col desiderio e ne diventa garante. Questo, al contrario di quanto speravamo, è il destino dell’erba voglio: quando l’abbiamo assaltato, il giardino del Re era già stato trasformato in parco giochi e la sua erba tossica è diventata l’oppio dei popoli. Si deve dunque andare molto più a fondo e lontano se non si vuole finire assunti come utili idioti asserviti allo stato di cose presenti. In terzo luogo nell’alveo storico della rivoluzione sociale, e proprio per la sua capacità egemonica in certi momenti storici e in certe regioni del mondo, sono confluite varie e intense aspettative di trasformazione psicospirituale. Queste tre ragioni portano a riformulare il percorso possibile di una trasformazione sociale e culturale radicale del Capitalismo globale, inevitabilmente deviato verso l’esplorazione di una nuova antropologia e di un orizzonte di spiritualità laica. Qui la strada ultima si ricongiunge con le vie originarie, religiose e filosofiche, riprendendone i significati, mai del tutto cancellati, di critica di ogni convivenza umana finora realizzata. Che questa speranza utopica sia irrealistica è davvero probabile: se una strada futura ritrova una strada del passato, questo vuol dire che attraversa il tempo e non si dispone verso un traguardo che ci sta davanti. Piuttosto si può riconoscere che, nella traversata del tempo, si va costellando una via dell’onore e della bellezza che può cercare di compensare e di giustificare l’insensato mattatoio e gli scopi deludenti che le affollatissime e divinizzate vie del potere, della ricchezza e della fama hanno costruito per ripararsi dall’angoscia del loro stesso vuoto.

Nota conclusiva Alla fine della lettura si può anche pensare che questo capitolo conclusivo sarebbe potuto essere l’inizio del libro. In effetti è così: questa conclusione, e in specifico questa parte dedicata al nesso che la dimensione estatica intrattiene con la critica radicale, è il primo movente di tutta la mia ricerca,

45

Su questa configurazione culturale vedi i miei Dio il Mondo, Coliseum, Milano 1989; L’animale visionario, Il Saggiatore, Milano, 1999 e, con L. V. Tarca, La filosofia come stile di vita, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

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E LA DOMANDA DELLA

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ed è così disposto anche nella mia biografia, secondo contenuti diversi ma profondamente affini a quelli di Elvio Fachinelli.

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La dimensione estatica accoglie in un istante, ma ha preparato la vita e infine la corona, come se tutto le avesse girato intorno. La sua indicibilità crea le vie della sua espressione. Parole e idee che dicono altro si rivelano alla fine sue creature.

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Un esercizio di pensiero

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di Pier Aldo Rovatti

Ringrazio gli organizzatori di questo Convegno perché mi permettono di dire una parola su Elvio Fachinelli. Ho scritto in passato qualcosa sulla sua figura, l’ho conosciuto di persona. Mi scuso d’altra parte per il fatto che torno su temi su cui ci si è fermati stamattina e forse anche ieri. Ringrazio anche a nome della direzione della rivista «aut aut». Noi abbiamo avuto un incontro – l’unico nella redazione della rivista – con Fachinelli. Chi l’ha conosciuto sa che non era sulle ali dell’entusiasmo che ti riconosceva e ti si affratellava, perché era innanzitutto ed in primo luogo sospettoso. E ci diceva: “Voi scrivete le vostre considerazioni su La mente estatica (cosa che poi abbiamo fatto in un fascicolo della rivista) e poi io le leggerò con calma, vedo e se mi viene replico”. In quell’occasione, che fu molto interessante, ci disse anche che stava pensando ad una genealogia della questione del desiderio passando soprattutto attraverso il pensiero di Spinoza. Fachinelli era già nel ’68 – io l’ho conosciuto in quegli anni, poi l’ho frequentato negli anni ’70 e anche negli ’80 – uno che pensava in un modo inattuale. Ma è ancora più interessante che il suo radicalismo aveva a che fare con questa inattualità, con questo non acconsentire alla banalità. Certo, bisognerebbe accertare quello che sto proponendo, e cioè che ancora oggi Fachinelli è un pensatore inattuale. Questo la dice lunga su quello che credo sia la cultura in cui siamo. Penso che abbiamo fatto molti passi indietro e che non c’è più proposta teorica – la chiamo così perché non sono uno psicoanalista, sono un simpatizzante della psicoanalisi, ho cercato di leggere persino Lacan, non ho capito bene cosa diceva ma ho continuato poi a leggerlo, ho invece capito abbastanza di quello che scriveva Fachinelli. Non so come lo giudicate questo. Fra un po’ leggerò dieci righe molto note perché voglio che la voce di Fachinelli, di come scrive, accompagni il suo pensiero. Dico pensiero in un senso lato, nel senso in cui tutti noi abbiamo bisogno di un orizzonte di pensabilità. Vogliamo dire una pratica di pensiero? Quella che ha messo in moto Fachinelli l’abbiamo analizzata? L’abbiamo tradotta? Ce ne siamo impadroniti? Io penso che questo non sia avvenuto. Perciò io non ho dovuto andare ai piani alti della mia libreria per riprendere i suoi scritti.

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E LA DOMANDA DELLA

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Fachinelli è rimasto giù, La freccia ferma e La mente estatica erano lì, me ne ero servito e me ne servo. In che cosa consiste questa inattualità? È chiaro che la parola potrebbe indurci in una serie di ghirigori nietzschiani, ma lasciamo perdere. Questa inattualità consiste nel fatto che il modo di pensare proposto da Fachinelli – e La mente estatica è una bella palestra alla quale possiamo rivolgerci – lo troviamo pochissimo praticato. Quella situazione di pensiero è giocata su vari elementi, ma soprattutto ha a che fare con l’ascolto. L’ascolto è già una rottura in una metafisica del vedere, che è quella che ha dominato, che predomina ancora oggi e passa attraverso i nostri modi di intendere e di pensare. Quindi l’operazione della contromossa dell’ascolto – e qui la psicoanalisi ha molto da dire, ma se ne è parlato anche recentemente in filosofia: Nancy, faccio un esempio, lo stesso Deridda e molti altri – è un’operazione cominciata nella cultura contemporanea a cui Fachinelli ha dato un contributo notevolissimo. Tuttavia credo che questa operazione sia rimasta spesso a livello di un primo timido entrare nel campo, di una affermazione un po’ di principio, quasi che non si potesse lavorare tanto su questa questione. Se invece aggiungiamo l’altro elemento – perché l’ascolto di cui parla Fachinelli è l’ascolto dal punto di vista del silenzio – cadiamo in un enigma filosofico. Eppure siamo lì dentro, dobbiamo passare per di lì. Passare per di lì significa, per esempio, passare attraverso quello che Fachinelli chiamava la casualità. Finché diciamo che questo pensiero è intermittente, o ritmicamente intermittente, siamo più tranquilli, ma dire che è casuale ci spiazza. Eppure questo è ciò che Fachinelli dice: questo pensiero ha a che fare con la casualità, ha a che fare con una situazione di disagio – si parte dal disagio di Freud durante la sua visita al Partenone –, questo pensiero ha a che fare con una perdita di sé. Possiamo poi cercare di correggere la parola ‘derealizzazione’, che può essere pronunciata abbastanza facilmente, e in fondo indicare che non avviene nessuna derealizzazione, perché la realtà che si guadagna è più reale di quella che si è supposta perdere. Però ci sono delle mosse. Se noi comparassimo queste mosse con le mosse che una certa fenomenologia (che vedo molto vicina all’ispirazione filosofica dell’ultimo Fachinelli) ha fatto sotto una bandiera sulla quale era scritto epochè, il piatto della bilancia che pesa dalla parte delle considerazioni che Fachinelli propone con una chiarezza impressionante, quel piatto scende molto e ci indica che le cose che riguardano l’ascolto, per esempio l’epochè husserliana, ancora fortemente irretita nella filosofia della luce, non ci apre, così come non siamo aperti alla scrittura. Fachinelli scriveva magnificamente. Andiamolo a leggere. Ci annoiamo

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UN

ESERCIZIO DI PENSIERO

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spessissimo a leggere saggistica. Fachinelli ha una straordinaria capacità di costruzione, di inventiva, di creatività di scrittura. Ecco l’inizio di La mente estatica:

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San Lorenzo al mare. Pomeriggio ventoso di settembre, nuvole rapide, sfilacciate. Dal limite della spiaggia dove mi trovo, con le spalle verso il paese, il mare è un nastro viola che si arrotola e si srotola senza fine. Sono fermo da più di un’ora, forse. Nel punto in cui ho messo la sdraio al riparo, non c’è vento, soltanto una folata ogni tanto. Sono scivolato in uno stato di torpore. Invece vorrei essere lucido, attivo, produttivo... Riprendere le idee di questi mesi, scavare gli appunti, i libri. Scavare l’insoddisfazione. Mi ci vorrebbe qualcosa che vincesse questo stato di inerzia, qualcosa che facilitasse l’attività intellettuale... Continuo a guardare affascinato il nastro del mare.

Questo è l’incipit di un discorso in cui qualcosa si pone come compito – la lucidità, la progettualità – e qualcos’altro si impone come l’unico modo per poterci tornare. Ecco, secondo me, dove sta l’inattualità. Siamo ammaestrati, lo sappiamo fare questo esercizio? Forse ne sappiamo fare soltanto una piccola parte. Non voglio dire che Fachinelli lo facesse interamente, ma ci dà la via perché tutti noi possiamo fare l’esercizio. Aveva saputo farne una parte. Noi sappiamo farne qualcosa? Vado alla fine del capitolo che si intitola “Sulla spiaggia”. Finisce così: “Ora il rombo del mare è un respiro calmo, profondo. Chiudo gli occhi. Non c’è bisogno di vigilare.” È avvenuta una trasformazione radicale. Là c’era bisogno di vigilanza, adesso non c’è più bisogno di vigilare. “I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio; diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia.” In questo esercizio qualcosa si allarga. Si allarga l’esperienza. Si allarga la comprensione delle cose. Si allarga il nostro modo di pensare. O si passa per questo allargamento, sembra dirci Fachinelli, o non si transita dal raccoglimento all’accoglimento. Per non fare tante chiose filosofiche, bisogna pensare attraverso quello che importanti filosofi contemporanei – e faccio un nome solo, Lévinas – hanno chiamato passività, dando a questa passività un’importante connotazione di apertura. È questa l’attualità che hanno le pagine di Fachinelli. Chissà che queste pagine finali dell’esperienza di pensiero e di vita di Fachinelli non possano essere collegate a pagine che invece stavano molto prima. Una sospensione del tempo perché il tempo diventi fluttuante nella sua immobilità, tempo espanso della sospensione: questo modo di trattare il tempo come si collega a La freccia ferma?

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E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

È interessante, perché l’idea di un’evoluzione del pensiero di Fachinelli va bene, ma c’è anche una sorta di continua embricazione. È come se fossero le due facce di una stessa medaglia, di una sospensione che non funziona, che non produce, e di un’altra sospensione, che invece è quella che non solo produce ma apre, che è la condizione di apertura. Che cosa ha a che fare questo discorso della vigilanza con tutto l’attraversamento dell’esperienza non autoritaria che ha fatto Fachinelli? L’esperienza che ha fatto intorno al ’68 e che poi ha continuato a sviluppare, in cui si è posto il problema di cosa ci stava lì a fare quell’adulto accanto ai bambini. Ci vuole l’adulto, ma in che modo lui sta lì? Lo dice nelle prime pagine del suo intervento ospitato nell’antologia L’erba voglio. E questo non autoritarismo che cosa ha a che fare con la vigilanza? Io credo che si potrebbe rispondere: non ha niente a che fare, non sta né in cielo né in terra. Secondo me sta in terra – il cielo mi interessa di meno – e sta con i nostri turbamenti rispetto ad una società autoritaria entro la quale di giorno in giorno noi stiamo ritrovandoci senza avere gli anticorpi non dico per uscirne, ma soltanto per descriverne la natura o le caratteristiche. Ci serviamo di Michel Foucault, ma perché allora non andare a disseppellire i dimenticati anni Settanta in ciò che questi anni avevano di inattuale e quindi di importante per noi? Osservo che proprio in queste pagine, più che altrove, Fachinelli si interroga sul fatto della casualità, che sembra essere quello che ci mette più in crisi. I chiari del bosco, scriveva Maria Zambrano, non bisogna cercarli. È l’inizio della sua opera maggiore. Non bisogna cercarli. Cosa bisogna fare? Se non dobbiamo progettare, se non dobbiamo cercare, se non dobbiamo mettere l’obiettivo lì e cercare di colpirlo con qualche tipo di strumento appuntito, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo sprogrammare, e infatti tutta l’esperienza dello sguardo di Fachinelli sulla spiaggia è una sprogrammazione. Voglio sapere come arrivare ai nodi di questo, questo e questo, sto pensadoci da mesi e da anni. Se non mi metto in questa situazione non accade nulla. Devo sprogrammare, ma lo sprogrammare non è, ovviamente non può essere, il mi rilasso, mi rilascio. Ma poi cosa vuol dire: mi rilascio? Come si fa a rilasciarsi? Come posso dire: difese, brutte, andate via? C’è una preparazione a questo accoglimento. L’opera inattuale di Fachinelli la possiamo leggere in tanti modi. È giusto e interessante leggerla dal punto di vista del rapporto-apporto alla psicoanalisi. A me ha permesso di leggere criticamente Freud e Lacan. Chiaramente, per chi lavora in psicoanalisi c’è qualcosa di più, di altro, di specifico. Però poi c’è il discorso che riguarda il pensiero e questa necessaria preparazione alla sprogrammazione è la situazione in cui noi oggi stiamo

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UN

ESERCIZIO DI PENSIERO

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cominciando a trovarci. Questa sezione del convegno, che riguarda le cosiddette pratiche filosofiche, ci orienta a mettere in evidenza una sorta di pensiero che ci introduca alla pensabilità del nostro rapporto con le cose e che comporti un’operazione su di noi. Come avete visto non ho pronunciato neanche una volta la parola “indebolimento”, ma cos’altro è l’esercizio di Fachinelli se non la messa a rischio di sé stessi – e lo dice lui stesso – facendo il vuoto dentro di noi?

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Formazione e dinamiche emancipative della pratica filosofica nella “comunità di ricerca”

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di Antonio Cosentino

L’oggetto che sarà al centro del mio contributo è la “comunità di ricerca” (CdR). L’uso di questa espressione ricorre sempre più spesso. La sua provenienza e il suo significato rinviano al progetto della cosiddetta “Philosophy for children” (P4C)1. Partendo dalla P4C, per CdR si intende non un modello teorico progettato a tavolino a partire da costrutti psico-sociologici e epistemologici, ma una “forma di vita” in cui si sviluppa in modo privilegiato, rispetto alle altre possibili, la pratica della ricerca. Se accade, poi, che questa ricerca assume determinate qualificazioni rispetto alle sue modalità, alle sue procedure e ai suoi oggetti, allora non è escluso che volga in una direzione che può legittimamente dirsi “filosofica”. In un dato momento della mia vita io mi sono trovato “gettato” in una certa pratica di formazione, senza tanti preamboli, da subito in una situazione in cui dovevo decidere se mettermi in gioco oppure no. Avendo deciso di entrare nel gioco, io per più di 10 anni ho abitato la pratica che si chiama P4C. Solo in un secondo momento ho imparato anche ad uscire dal campo di gioco e a guardarlo da un punto di vista esterno. È successo solo allora

1

Per un orientamento sul tema si veda, limitatamente alla letteratura in italiano, M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano 2005; M. Lipman, Pratica filosofica e riforma dell’educazione, in “Bollettino SFI”, n° 135/88 (ripubblicato in A. Cosentino, a cura di, Filosofia e formazione, cit.); Id., Orientamento al valore (caring) come pensiero, in “Comunicazione filosofica”, n° 3, maggio 1998 (ripubblicato in A. Cosentino, a cura di, Filosofia e formazione, cit); A. Cosentino (a cura di), Pratica filosofica e professionalità riflessiva. Un’esperienza di formazione con operatori psico-socio-sanitari, Liguori, Napoli, 2006; M. Santi, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe, La Nuova Italia, Firenze, 19951 (2a ed. Liguori, Napoli 2006); M. Santi, (a cura di), Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare. (Atti del Convegno Internazionale di Padova, Settembre 2003), Liguori, Napoli, 2005; M. Striano, Quando il pensiero si racconta, Meltemi, Roma, 1999; Id., Insegnare a pensare. Un’esperienza di formazione a pensare il pensiero, in “Adultità”, Milano, Guerini e Associati, ottobre 1997; A. Volpone (a cura di), Filosofare, politica e società, Liguori, Napoli 2008.

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E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

che ho dato a quel gioco il nome di pratica filosofica. Si è, così, aperto il cammino della riflessione, delle classificazioni e delle comparazioni; un diverso gioco di pensiero che richiede definizioni, criteri per stabilire differenze e somiglianze, modelli a cui fare riferimento, legittimazioni, argomentazioni a sostegno di un esercizio che agli occhi di coloro che lo praticano si giustifica da solo ma non parimenti ad occhi esterni. Ed eccomi, allora, ad impugnare gli attrezzi dell’analisi, a cercare di separare e distinguere, con fare cartesiano, ciò che nella realtà, tuttavia, è olisticamente impastato senza dualismi (tra mente e corpo, tra logos e pathos, tra conoscere e agire, tra dire e fare), senza ordini gerarchici, ipertestuale e imprevedibile, in una parola, complesso. Allora “Comunità”, per cominciare. Termine quanto mai rischioso per il suo potere evocativo di ambientazioni settarie e di inclinazioni alla chiusura e all’autoreferenzialità. La “comunità” non è un “gruppo” (questo, sì, corrispondente ad un costrutto teorico che lo definisce, lo articola in tipi e sotto-tipi, ne riconosce le regole di funzionamento). Le scienze sociali non hanno molto da dire sulla “comunità” nonostante che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, sia nata e cresciuta una cosiddetta “Psicologia di comunità”2, un settore di ricerca che, adottando prevalentemente metodi quantitativi, concentra la sua attenzione sulla comunità territoriale ed esclude dal campo di indagine la micro-comunità basata sulla relazione. Abbiamo, allora, una prima distinzione e un orientamento: è la piccola comunità che ci interessa. Ma quanto piccola? Sembra esserci una misura, una soglia quantitativa oltre la quale la comunità di frammenta in sotto-gruppi ed ha difficoltà a mantenere la sua identità. La pratica indica questa misura: tra 10 e 15 componenti. E non sarà un caso che in questo range ricade, per esempio, il numero degli Apostoli, quello dei compagni di San Francesco, quello dei giocatori di una squadra di calcio, e di tutti quei raggruppamenti in cui deve essere forte il senso di coesione. La “comunità”, inoltre, si forma e si conserva in un rapporto col tempo e con lo spazio, condividendo, cioè, storie e memorie e abitando spazi comuni segnati simbolicamente dai corpi che in essi si relazionano e comunicano. L’ordine dell’interazione, per dirla con Goffman3, è quello della relazione faccia a faccia, in cui prevale la comunicazione orale, e acquista peso notevole la dimensione pragmatica della comunicazione, con tutto il 2

S.B. Sarason, The psychological sense of community: prospects for a community psychology, Jossey Bass, Oxford 1974; P. Amerio, Psicologia di comunità, il Mulino, Bologna 2000. 3 E. Goffman, L’ordine dell’interazione, Armando, Roma 1998.

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FORMAZIONE

E DINAMICHE EMANCIPATIVE DELLA PRATICA FILOSOFICA

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coinvolgimento che ne consegue della sfera delle emozioni, della socialità, dei “giochi linguistici” attivabili. Comunità così fatte esistono in vari luoghi (del lavoro, del tempo libero, dell’associazionismo), ma nessuna di esse si costituisce sulla base di un interesse comune verso la pratica della ricerca, anzi. In realtà le “comunità” tendono ad escludere dal loro corpo l’attività riflessiva. La avvertono come elemento che disturba lo spontaneo scorrere delle attività, delle ritualità e delle implicite regolazioni che danno sicurezza e senso di appartenenza. “Ricerca”, siamo all’altro termine da analizzare. Possiamo già intravedere la sua relazione con “comunità”. Non è una relazione di continuità, è piuttosto di sfida. Non lo sarebbe se avessimo a che fare con una “comunità di apprendimento” in cui si va alla ricerca di risposte. Se, invece, sono le domande che vogliamo imparare a fare, allora l’apertura verso la ricerca rappresenta il rischio di mettere a repentaglio un’identità; la ricerca si mette in moto se c’è un domandare che affiora negli interstizi delle pratiche in corso, negli spazi di confine tra un gioco e l’altro, nei momenti esitazione. Non è ingiustificato dire che la ricerca inizia quando ci si rende conto che il mondo in cui stiamo vivendo è soltanto una caverna. Nel momento in cui questa presa di coscienza è scattata, niente può più trattenerci dall’intraprendere il cammino verso l’uscita, verso la luce che i nostri occhi stropicciati intravedono in lontananza: l’eros/desiderio ci riempie e ci rende inquieti: ci spinge a trascenderci. I prigionieri della caverna platonica possono essere, in qualche senso, la metafora di una comunità che è chiamata a vivere l’esperienza drammatica di trasformarsi da comunità chiusa in comunità aperta; da comunità regolata dal regime dei bisogni a comunità animata dal fervore del desiderio, direbbe Fachinelli. In realtà quella platonica è una suggestione molto attraente, ma la CdR della pratica filosofica modellata sulla P4C non si muove nella traiettoria della metafisica platonica. C’è, piuttosto, da aggiungere una riflessione che va in una direzione della presa d’atto dello scacco a cui il tentativo dei “cavernicoli” platonici vanno incontro, se è vero che, nella realtà storica che in quella metafora si rispecchia, è Socrate colui che, per primo, si è liberato dalle catene per guardare verso una diversa verità; se è vero che è sempre lui che dedica la sua vita a punzecchiare i suoi concittadini, sperando di aprire loro gli occhi ed è sempre lui che, per questo, viene condannato al silenzio della morte. In altre parole, nella metafora platonica il filosofo che cerca di insegnare la via dell’emancipazione ai suoi concittadini, non solo fallisce nel suo scopo, ma provoca anche una divaricazione sempre più netta tra mondo della vita e filosofia. Platone, lo sappiamo, dovrà trasferire il senso di tutto in un Iperuranio, un piano ontologico tanto più vero ai suoi occhi

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E LA DOMANDA DELLA

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quanto più eterogeneo rispetto al mondo dell’esperienza, ma anche tanto più inutile: l’inutilità di una filosofia contemplativa. “Gruppo chiuso o gruppo aperto?” Vorrei qui riprendere e utilizzare il contributo di Fachinelli4 su questo tema; non prima di aver sottolineato, tuttavia, alcune differenze di prospettiva. La prima è quella del posizionamento storico: il clima del ’68, per quanto possa appartenerci come memoria particolarmente significativa ed anche esaltante, ci appare distante e privo di sostanziale continuità con le condizioni del presente. In particolare, della sua caratterizzazione fortemente politica non rimane nulla nelle generazioni più giovani del terzo millennio. La rivoluzione del ’68 – lo aveva colto subito Fachinelli – “non è stata vittoriosa”5. I processi di democratizzazione allora reclamati e avviati si sono via via svuotati nel corso degli ultimi due decenni del secolo scorso fino a giungere allo scenario che abbiamo oggi sotto gli occhi. Una seconda differenza di prospettiva è data dal fatto che la mia non vuole essere una lettura strettamente psicanalitica dei termini usati da Fachinelli. Se è vero – come egli afferma – che “la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni”6, allora, storicizzando queste categorie e aprendole a più chiavi di lettura, possiamo farci questa domanda: quale forma può assumere oggi l’impegno a ricercare “nell’impossibile del momento il possibile del futuro”? La questione dell’autoritarismo che nel ’68 aveva a che fare con una certa simbologia del potere ha cambiato volto oggi. Le analisi di Foucault possono darci una mano a cogliere questi mutamenti, a farci vedere lo spostamento del potere rispetto ai suoi luoghi rappresentativi tradizionali: da quelli che si stagliavano come i “nemici principali” (lo Stato, la Chiesa, la borghesia e il capitale) a luoghi meno visibili, più distribuiti e dissimulati, quelli in cui si esercita un controllo della salute, della sessualità, della morte e della vita, dell’informazione e della comunicazione, da un piano di esteriorità al piano dell’interiorizzazione attraverso processi etero-diretti della soggettivazione. La domanda sul potere oggi ha la forma: “Perché sono così come sono?”, “Cosa mi fa essere quello che sono?”: è una domanda, dunque, sui processi di costruzione dell’identità in un determinato contesto. Ciò che è in gioco è essenzialmente l’individuo e la sua costituzione nella rete delle 4 E. Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto?, in “Quaderni piacentini”, n° 36/1968; ripubblicato in E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974. 5 Ivi, p. 141. 6 Ibidem.

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FORMAZIONE

E DINAMICHE EMANCIPATIVE DELLA PRATICA FILOSOFICA

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relazioni di potere, per cui le resistenze da attivare – cito Foucault – “non sono esattamente a favore o contro ‘l’individuo’, ma si oppongono piuttosto al ‘governo dell’individualizzazione’”7. È questo, allora, il terreno su cui, oggi, si può ridare voce al “desiderio” e alla “rivoluzione”. Si tratta di un terreno già delimitato, localizzato: non più la grande rivoluzione, ma tante piccole rivoluzioni, magari anche dissimulate rispetto al loro potenziale eversivo, oasi di pensiero riflessivo nel frastuono incessante dei granelli di sabbia agitati dal vento nel deserto. Le CdR possono essere queste oasi, fragili e mobili, ma sempre più preziose8. Gruppi chiusi o aperti? Prodotti di quel processo di “settarizzazione” al quale Fachinelli vedeva corrispondere la chiusura e l’appiattimento sul regime dei bisogni o dell’utopia dell’ “accomunamento” che egli vedeva come l’esplosione del “desiderio dissidente” proiettato verso sviluppi rivoluzionari? Fachinelli ha interpretato l’opzione per il gruppo chiuso9 come fallimento, nei termini di una implosione del desiderio dissidente. Afferma, infatti: “La setta, di per sé, proprio perché setta, soltanto di rado riesce ad aprirsi. Rimane, ed è questo il suo significato, come testimonianza della rivoluzione fallita e come promessa di quella futura”10. Come intendere “chiusura” e “apertura” rispetto alla CdR? Cito ancora Fachinelli: “il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio”11. Quello che emerge dagli scritti di Fachinelli è che lo stato di desiderio corrispondente alla “esperienza compiuta dalla dissidenza giovanile … è stata … breve, intensa, esclusiva. Il regime del desiderio, sorto dal lungo dominio del bisogno, si è dimostrato reale e intransigente, ma transitorio”12. L’analogia che trovo evidente rispetto all’orizzonte più apertamente cognitivo in cui si muove la CdR è la seguente: la ricerca tende ad esaurire la sua forza di radicalizzazione della domanda nel momento in cui si compiace delle risposte, quando intende il cammino euristico come un sentiero che porta alla luce e considera l’uscita dalla caverna come la frontiera tra doxa e episteme, tra contingenza di un contesto e necessità della contestualizzazione iperuranica. Nell’ottica di una epistemologia postmetafisica di 7

M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, nel vol. Dreyfus H. L.-Rabinow P. (a cura di), La ricerca di M. Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 240. 8 A. Cosentino, Filosofia come pratica sociale, Apogeo, Milano 2008. 9 Ci si riferisce all’esperienza del contro corso “Psicoanalisi e società repressiva” presso l’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, 1967-68. 10 E. Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto?, cit., p. 137. 11 E. Fachinelli, Il desiderio dissidente, nel vol. Bambino dalle uova d’oro, p. 112. 12 E. Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto?, cit., p. 141.

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ELVIO FACHINELLI

E LA DOMANDA DELLA

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stampo costruttivista, l’uscita dalla caverna appare, contemporaneamente, come entrata, entrata in un’altra caverna. Siamo consapevoli che l’alternativa all’abitare con innocenza una sola caverna è soltanto il passare da una caverna ad un’altra, più o meno contigua. Solo da questa consapevolezza si può alimentare uno stato di desiderio permanente, una ricerca senza fine.

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Limiti della psicoanalisi e prospettive della Praxis filosofica. Osservazioni sulle pagine di Elvio Fachinelli

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di Neri Pollastri

In questo mio intervento vorrei far interagire le acute riflessioni di Elvio Fachinelli, nate nell’alveo di un’esistenza dedicata alla psicoanalisi, con le mie personali, nate invece dall’esperienza e dalla ricerca nell’ambito della Praxis filosofica1. L’interazione, che in alcuni momenti potrà apparire faticosa a causa della talora marcatissima diversità di sguardo, proprio per quest’ultima ragione può a mio parere produrre interessantissimi e originali snodi su alcuni dei “punti caldi” di entrambe le discipline, oltre che offrire rilevanti spunti di approfondimento dal più generale punto di vista della ricerca non solo filosofica ma, come vedremo, anche sociale. Quella di Fachinelli è una riflessione estremamente ricca e sfaccettata, mossa da un forte spirito critico e da una grande curiosità intellettuale. Per questo la mia attenzione dovrà giocoforza concentrasi su alcuni suoi aspetti peculiari e interpretarli in modo che potrà forse apparire unilaterale. È il gioco dell’ermeneutica, un gioco che lo stesso Fachinelli mi sembra abbia affrontato ripetutamente nel corso della sua vita, assumendosene tanto l’onere della responsabilità – più volte venne attaccato e contestato – quanto l’onore dell’originalità. Credo pertanto di rendergli omaggio nel modo a lui più gradito proprio “tradendone” alcuni contenuti e reinterpretandoli in un modo diverso, ma non alieno, rispetto a quello da lui sviluppato. Gli aspetti che toccherò riguardano in particolare tre questioni ricorrenti nelle sue riflessioni e, come vedremo, tra loro connesse. La loro analisi permetterà di porre in luce alcuni forti elementi di discontinuità tra la tradizione analitica e l’approccio della Praxis filosofica, discontinuità che – almeno sotto determinate condizioni – costituiscono anche il valore aggiunto che quest’ultima può vantare nei confronti della psicoanalisi. 1

Uso il termine originale tedesco di quella che oggi perlopiù viene chiamata in Italia “consulenza filosofica” per sfuggire alle molteplici ambiguità che l’espressione italiana reca purtroppo con sé.

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Il Desiderio dissidente Il primo elemento che prenderò in considerazione è il desiderio o, per meglio dire, il modo in cui Fachinelli lo interpreta e che si può simbolicamente riassumere citando il titolo del suo noto saggio della fine degli anni ’60: Il desiderio dissidente2. In quel breve lavoro, Fachinelli – all’epoca, febbraio 1968, attento osservatore delle nascenti vicende politiche studentesche – proponeva una lettura su base psicoanalitica del dissenso giovanile. Una lettura che partiva dall’idea che nella cultura diffusa di quegli anni fossero «intervenuti mutamenti generali nella funzione e nel significato della figura paterna»3, tali che alla tradizionale «relazione triangolare (padre, madre, bambino), tende sempre più spesso a sostituirsi la relazione bipolare madre-bambino»4. Ciò avrebbe secondo Fachinelli comportato la prefigurazione di «una immagine o un fantasma di società che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale» e il manifestarsi di «una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio. La liberazione dal bisogno sembra anzi avere come sua condizione la rinuncia al desiderio»5. Una situazione che, prosegue Fachinelli, dal punto di vista individuale «sembra il ripetersi, nella realtà adulta, di una situazione angosciante che è stata quella del rapporto con la madre»: quella di una «dipendenza totale», che non viene più compensata dalla figura del padre «sempre più labile e impotente»6. Fachinelli unisce a questa riflessione un’analisi dei gruppi, soggetti centrali nel movimento studentesco, nei quali egli identifica un principio unificante e una tensione dialettica: quelli, appunto, del desiderio. Origine stessa dell’aggregazione degli individui, il desiderio si sposta sempre più avanti ogni volta che sia stato raggiunto: ciò che era richiesto ieri ed è concesso oggi, non basta più; chi offre viene a sapere che la sua offerta, anche se accettata, sarà seguita da un’altra richiesta. (…). Il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio7.

2 Il desiderio dissidente, in Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano, 1974. 3 Op. cit., p. 109. 4 Op. cit., p. 108. 5 Op. cit., p. 110. 6 Op. cit., p. 110. 7 Op. cit., pp. 111-112.

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LIMITI

DELLA PSICOANALISI E PROSPETTIVE DELLA

PRAXIS

FILOSOFICA

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Un desiderio, cioè, che non è mai appagato, perché se lo fosse sarebbe «morto come desiderio» e provocherebbe anche la morte del gruppo che su esso si basa. Ne segue allora che «il modo meglio codificato di appagare il desiderio del gruppo è quello di incarnarlo nella figura del leader», anche se nel momento in cui questi «esaurisce in sé il desiderio collettivo, il gruppo cambia carattere»8 e si trasforma da “gruppo del desiderio” in “gruppo di bisogno”, nel quale riemergono tutti i problemi che la sua costituzione voleva risolvere. Ciò svela il fatto che «la pratica delle decisioni e proposte d’azione sempre presi in comune (…) non è una “esigenza democratica”», bensì «l’intuizione della condizione di base necessaria per il sopravvivere e l’estendersi di questo tipo di gruppo»9. Una condizione fondata su quella «tensione utopica» che è essa stessa «la sola possibilità efficace di negazione di questo presente»10, una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio»11 che mette in mora ogni tentativo di ricondurre al principio di realtà la dialettica della negazione. È essa a svelare la pretesa assolutistica di una società che «pretende di abbracciare ogni possibile realtà»12 e che respinge come inesistente o cattivo tutto ciò che insiste a negarla13. Per costruire questa lettura, Fachinelli fa leva sulla distinzione tra desiderio e bisogno, che effettua (più o meno esplicitamente) su una definizione dei termini derivata dal loro orizzonte psicoanalitico, ben più che da quello filosofico e politico: il bisogno è qualcosa di appagabile, mentre il desiderio è per sua natura inappagabile, legato lacanianamente alla mancanza e perciò – come spiega Silvia Vegetti Finzi – kleinianamente alla figura della madre come «struttura psichica profonda»14. In tal senso, i due termini non vengono analizzati da Fachinelli nel loro contenuto – cioè cercando di comprendere il valore da assegnare ai bisogni e al desiderio a partire da strutture etiche 8

Op. cit., p. 112. Ibidem. Si noti che questa osservazione svela il fatto che non sono i contenuti etico-ideologici ad essere centrali nei gruppi, bensì le dinamiche relazionali che vi vanno in gioco: una situazione che mina l’effettiva “politicità” dei gruppi stessi. 10 Ibidem. 11 Op. cit., p. 113. 12 Ibidem. 13 Fachinelli riprende questo quadro interpretativo in un articolo comparso nel novembre dello stesso anno, Gruppo chiuso o gruppo aperto? (in Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., pp. 114 sg.), nel quale mostra con chiarezza come il fenomeno studiato nell’articolo precedente si manifesti in concreto nel corso di uno dei tipici gruppi di lavoro degli anni della contestazione giovanile. 14 Cfr. S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, in “Iride”, n° 27, 1999, p. 364. 9

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condivise o condivisibili argomentativamente – bensì solo nel loro significato dinamico-relazionale, a partire da determinati assunti psicologico-psicoanalitici. E, fra questi, il ruolo della madre come “struttura psichica” gioca ai suoi occhi una funzione portante, solo in parte valutata alla luce dei processi culturali in corso nella società (come la mutata funzione del padre). È per questo che, già a questo stadio della sua riflessione, si affaccia in Fachinelli l’idea dello “spazio chiuso” caratteristico del rapporto madre-figlio, che qui ha una funzione di reazione dissenziente rispetto alla relazione con il padre, ma che negli anni successivi riemergerà sotto forma di “claustrum”, con conseguenze diverse nell’ambito delle sue riflessioni sulla pratica analitica. Va tuttavia notato fin da adesso un particolare importante: quella con la madre, che Fachinelli utilizza per la sua lettura, ha l’impianto di una relazione duale ed è perciò allo stato minimo di intersoggettività – ove con questo termine si intenda l’interazione di soggetti, pur anche in via di progressiva determinazione, ma comunque già relati cognitivamente all’universo plurale degli esseri umani dialoganti, immersi nel discorso universale, nel logos. Per giunta, i due termini del rapporto madre-figlio non si comportano ancora neppure come soggetti compiuti: in essa abbiamo infatti a che fare da un lato con un soggetto e, dall’altro, con un essere la cui soggettività è ancora embrionale, e talvolta neppure tale. Così, chi dei due è soggetto (la madre) si fa carico in modo preminente del rapporto, anzi in qualche modo lo “crea” per conto dell’altro (il figlio), il quale infatti non ne è compiutamente partecipe, nella misura in cui chiede senza dare (dinamica che si ripete nei gruppi “dissidenti”, sia verso l’esterno, sia nei confronti della figura del leader), come dimostra il fatto che in esso sia prevalente il desiderio, con tutti i paradossi dovuti alla sua inappagabilità. È proprio la particolarità di questo rapporto – che, come vedremo, a rigore forse non è neppure corretto chiamare “relazione” – a far sì che lo spazio in cui esso accade sia un claustrum: perché tale spazio è “creato” da uno dei due relati e da esso viene “protetto” dalle intromissioni di quegli “esterni” che potrebbero richiedere ad entrambi di essere già “soggetti” – ovvero richiedere da un lato alla madre di essere l’altro non solo del figlio ma anche della indefinita pluralità di soggetti presenti nella società15, dall’altro al figlio quella capacità di interazione intersoggettiva che è propria di una relazione tra soggetti, mentre egli ancora soggetto non è. Ovviamente, si aprirebbero qui considerazioni critiche sul valore del “dissenso” prodotto dal desiderio nei gruppi giovanili di quegli anni, che però rimandiamo al termine dell’analisi. 15

Si noti che, nella cultura femminile di massa, il ruolo di madre è non a caso uno dei principali ostacoli per l’assunzione di ruoli e responsabilità di tipo sociale e politico.

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Claustrofilia La tematica del claustrum viene elaborata specificamente da Fachinelli qualche anno più tardi, in Claustrofilia16, lavoro nel quale lo spunto è dato da una ricerca sul problema del tempo nel trattamento psicoanalitico, che già lo aveva occupato alcuni anni prima ne La freccia ferma17. Egli vi osserva come la durata dell’analisi abbia subito già in Freud un’interessante modificazione. In una prima fase, che Fachinelli definisce “feudale”, il tempo del trattamento è “di servizio”, è «il tempo dell’indagine medica, della ricerca clinica: il tempo necessario a capire per poter agire, cioè “guarire”»18. In una seconda fase, che viene definita “utopica”, «il rapporto si avvicina, senza esserlo, a quello di una reciprocità amichevole»19, tanto che, nell’esempio riportato, è perfino dubbio che sia mai intercorso un pagamento della prestazione. In una terza fase, che viene definita “barbarica” e che Fachinelli afferma essere «quella psicanalitica»20, il tempo cambia nuovamente e Freud lo paragona «a quello di “un insegnante di musica o di lingue”»21, ma secondo Fachinelli è facile notare come in questo modo un tempo esteso, un tempo si direbbe spazializzato, fornito di precise e monotone distinzioni interne, diventi il padrone assoluto della situazione, determinante in sé, sia per l’analista che per l’analizzato22.

Quest’ultimo sviluppo fa sì che da un lato l’attività psicoanalitica diventi per la prima volta «un lavoro proto-industriale, dove il “lavoro” è formalmente separato dalla “vita”, ma dove la “vita” è inglobata dal “lavoro”»23, da un altro che il pagamento si trasformi da onorario (compenso in forma di dono, concesso in modo medioevale «al maestro di scienza per vivere»24) in «pagamento regolare e continuativo»25, da un altro ancora innesti un processo che fa sì che la cura diventi interminabile. 16

E. Fachinelli, Claustrofilia, Adelphi, Milano, 1983. E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’Erba Voglio, Milano, 1973 (poi ripubblicato da Adelphi, Milano, 1992). 18 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 19. Il riferimento è a un caso descritto in Studi sull’isteria, del 1895. 19 Op. cit., p. 20. Il riferimento è a un incontro con Gustav Mahler, descritto da Jones. 20 Ibidem. Il riferimento è a Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, del 1912-13. 21 Op. cit., p. 21. 22 Ibidem. 23 Op. cit., p. 25. 24 Op. cit., p. 26. 25 Op. cit., p. 27. 17

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Le riflessioni critiche di Fachinelli sono su questo punto molto stimolanti. Egli si chiede perché il mutamento presente in Freud sia stato accettato in modo così acritico dai suoi seguaci, se ciò dipenda da una istituzionalizzazione della pratica analitica e da un suo inglobamento nella pratica produttiva socialmente istituita, se esso non possa perfino costituire «una sicurezza» per l’analista, un «salvagente a portata di mano per chi non sa nuotare tanto bene»26. Ciò è ai suoi occhi ancor più inquietante perché lo stesso Freud, al termine della sua esistenza27, aveva problematizzato il prolungamento della durata dell’analisi, fino a giungere a sostenere che «psicanalizzare risulta essere una professione in fin dei conti impossibile»28, ma già nel 1913 scriveva: Nei primi anni della mia attività psicoanalitica trovavo enormi difficoltà nell’indurre i malati a perseverare nell’analisi; questa difficoltà si è da tempo spostata: ora devo darmi gran pena per costringerli a smettere29.

Ciononostante, nella percezione contemporanea degli psicoanalisti tale problematizzazione pare smarrita e sembra invece prevalente la giustificazione della lunga durata attraverso il riferimento alla complessità delle situazioni psichiche. Una cosa sorprendente, specie se si tien conto che ciò è «in stridente contrasto con uno stereotipo privilegiato della nostra epoca: quello della rapidità e della efficacia di ogni modo d’agire»30. Viceversa, in Analisi terminabile e interminabile Freud già sosteneva che ciò che spingeva al prolungamento dell’analisi, cioè le difficoltà della processo di guarigione, fossero «condizioni psicobiologiche»31 esterne e preesistenti all’analisi stessa. Condizioni tali da far sì che il «gigantesco dispositivo» analitico, «uno straordinario dispositivo, di cui ogni movimento è stato predisposto con cura e precisione, ogni meccanismo registrato e controllato»32, si riduca a un dispositivo fermo. Studiando dall’interno questo dispositivo, Fachinelli vi ritrova una dinamica paradossale analoga a quella del desiderio, che lo aveva colpito nello studio dei gruppi studenteschi: il tempo della relazione, interno ad essa, si scontra con il tempo cronometrico33, esterno e imposto; se il secondo riduce 26 27 28 29 30 31 32 33

Op. cit., p. 32. Il riferimento è ad Analisi terminabile e interminabile, del 1937. E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 35. Op. cit., p. 37, citato da Sigmund Freud, Inizio del trattamento (1913). Op. cit., p. 38. Op. cit., p. 39. Op. cit., p. 37. Cfr. op. cit., pp. 48-49.

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la seduta, il primo la «sposta nel futuro»34, prolungando il trattamento in modo indefinito. Avviene così che

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in alcune persone l’analisi può essere nutrita, per anni e anni, del miraggio di un rapporto futuro, non frustrante, o addirittura unico ed esclusivo, con l’analista. (…) È l’analisi stessa che per la sua indefinitezza viene a costituire, in un presente senza fine, un risarcimento, e talora più che un risarcimento, rispetto ai limiti delle singole sedute, soprattutto se l’analista è persona dotata di qualche prestigio sociale. Essere in analisi con… è spesso usato come una moneta forte rispetto a quella, debole, di altri35.

In tal modo «i valori impliciti di regolarità e continuità della coppia analitica vengono ad occupare il primo posto rispetto a quelli di trasformazione e mutamento di ciascuno dei suoi componenti»36 e il rapporto finisce per fondarsi su una storia propria, la storia dei due personaggi direttamente presenti, e solo in parte sul dispiegarsi delle situazioni transferali (…). L’analisi si pone sempre più come un rapporto istituzionale diretto (…). Esiste di per sé e, come ogni altro rapporto “naturale”, non si preoccupa della propria fine, non se la prescrive37.

È qui che Fachinelli, anche elaborando esperienze concrete38, (ri)approda alla tematica del claustrum, inteso – più che come “spazio chiuso” – come «atto del chiudersi, del serrarsi, dello sbarrarsi dentro», ovvero come «ricerca del chiuso»39. Nella pratica analitica esso produce quella che egli chiama “area claustrofilica” e che riconduce alla relazione con la madre, così come avveniva nell’analisi dei gruppi de Il desiderio dissidente. Ed è a suo parere a causa de «l’esclusione dall’analisi del livello o area claustrofilica» che si è verificata l’«esclusione quasi totale della problematica temporale, sia in termini generali, sia nella sua incidenza concreta in ogni svolgimento analitico»40. 34

Op. cit., p. 48. Op. cit., pp. 59-50. 36 Op. cit., p. 51. 37 Op. cit., pp. 51-52. 38 Dalle quali egli trae fenomeni diversi, riconducibili a tre ambiti: «1) situazioni di predominanza percettiva; 2) rapporti di co-identità; 3) coincidenze inquadrate di solito nella cosiddetta percezione extra-sensoriale» (op. cit., p. 142). A queste ultime, in particolare, Fachinelli dedica molta attenzione. Non sarà quindi un caso che esse tornino, come vedremo, nella sua ultima opera, La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989. 39 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 64. 40 Op. cit., p. 185. 35

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Il tempo dell’analisi è, secondo Fachinelli, sospeso, e «nulla si attende dal futuro»41. Ciò varrebbe tanto per l’analizzato, quanto per l’analista – e ciò sarebbe testimoniato dai disagi di quest’ultimo, che spesso rimandano al suo bisogno di un supervisore, di un “superanalista” che si faccia a sua volta carico delle angosce professionali ed esistenziali dell’analista, ma anche dalle modalità di esclusione e neutralizzazione dell’area claustrofilica messe in atto, in modi diversi, da Freud e da Lacan. Fachinelli ne conclude così che

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soltanto un’analisi che tenga conto esplicito e operi direttamente nell’area di relazioni qui chiamata claustrofilica può sperare di superare internamente quella situazione di impasse che molti oggi avvertono nella psicanalisi42.

È Fachinelli stesso, tuttavia, a ritenere «problematica» quest’apertura, a suo parere a causa «dello strumento principe dell’analisi, vale a dire dell’interpretazione». Se il dispositivo analitico è ancorato a una dimensione temporale che mima l’atemporalità, può sorgere il dubbio che nell’analista tendano a prevalere gli elementi discorsivi che assicurano o fondano la costanza, gli elementi in cui il prima si salda al dopo, che privilegiano il continuo al posto del discontinuo. L’interpretazione tenderebbe allora a presentarsi come un raccordo ininterrotto, come un utensile sacro che salda in un cerchio ciò che dovrebbe essere, alla fine, disgiunto43.

Dal claustrum allo spazio aperto dell’intersoggettività Le sopraosservate considerazioni di Fachinelli appaiono illuminanti per il loro aspetto critico, ma destano perplessità per quello propositivo. Il processo analitico si mostra incentrato sulla figura dell’analista, il quale – per esprimersi con le parole di Silvia Vegetti Finzi – «assumendo la posizione della madre, avvolge intorno alla sua disponibilità un desiderio fluidificato, che trova nel materno la sua rappresentazione e nel setting il suo contenimento»44. Ciò produce una «struttura temporale dell’analisi» che favorisce «il passaggio o il ritorno a un livello evolutivo dei rapporti in cui domina

41 42 43 44

Op. cit., p. Op. cit., p. Op. cit., p. S. Vegetti

188. 196. 197. Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 371.

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un’unità duale con la figura dell’altro»45, una «tensione verso il passato che ripresentifica l’area perinatale»46 e che perciò, diversamente da quanto riteneva Freud, riattiva «il preedipo»47. Analizzata più in dettaglio, l’“area claustrofilica” risulta avere le seguenti caratteristiche: – lo spazio è “chiuso”, a cagione del «movimento centripeto verso il claustrum materno»48, nel quale «analista e analizzante risultano speculari e intercambiabili»49; – il tempo si ferma, perché – essendo costrutto intersoggettivo, sociale – non trova sviluppo in un’area privata qual è quella claustrofilica, nella quale la relazione intersoggettiva non ha luogo (ove, come Fachinelli osservava ne Il desiderio dissidente, l’altro è visto come uno straniero da escludere); – le identità cessano di distinguersi, anzi producono fenomeni (osservati da Fachinelli) di co-identità, che ostano allo sviluppo di ciascuna soggettività, offrendo anzi loro lo spunto per un angosciante e paralizzante “rimpianto” di un “perduto” stato di “con-fusione”; – i soggetti non vi agiscono dunque come compiutamente tali, in quanto l’analizzante – sospinto affettivamente verso un ritorno alla fusione con la madre – viene invitato ad assumere una posizione analoga a quella in cui era ancora privo di una soggettività, mentre l’analista, a sua volta sospinto ad assumere il ruolo di tutore di un minore, viene privato della sua libertà non solo d’azione, ma anche di pensiero e di parola (è impossibile trattare da pari un bambino che si affida alla madre); – la relazione stessa, pertanto, non è più degna di questo nome, perché essa è tale solo se i suoi membri hanno ciascuno identità distinte, la qual cosa richiede che entrambi facciano riferimento a relazioni plurali e non solo al “questo altro” che hanno di fronte – cosa che nel claustrum del rapporto madre-figlio non avviene; – infine, la situazione che si instaura tra analista e analizzato – definita non più come relazione ma come semplice rapporto – è marcatamente asimmetrica (come mostrano le amare considerazioni di Fachinelli in merito al “risarcimento” offerto dall’essere in analisi con un terapeuta dall’elevato prestigio sociale) e perciò è inevitabilmente di ostacolo al mutamento di se stessa, dato che la mancata (o depauperata) interazione la rende unilaterale e nella maggior parte dei casi conservativa. 45 46 47 48 49

E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 185. S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 370. Op. cit., p. 371. Ibidem. Ibidem.

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In breve, il setting analitico appare come una fuga dalla relazione intersoggettiva, quella nella quale si sviluppa – e solo ove si può sviluppare – la costruzione di identità e la soggettività stessa. Sostando nel preedipo, i due interlocutori si ripiegano interamente su loro stessi, si isolano dall’esterno e, poggiando ciascuno solo sull’altro, evitano di connettersi con la ricca rete di significati che gravita loro attorno e che potrebbe, se attinta, produrre il senso delle loro identità e della loro stessa relazione duale. Si tratta del medesimo fenomeno osservato da Fachinelli nello studio dei gruppi studenteschi, guidati da una dinamica relazionale che li faceva vivere solo in forma chiusa, escludente, fino al punto da far perdere ad essi il senso “politico” della loro esistenza. Queste considerazioni evidenziano il limite del lavoro che è possibile svolgere attraverso un approccio e un setting che favorisca la riproduzione dell’area claustrofilica: da esso restano fuori quasi necessariamente l’esplorazione, la considerazione critica e l’elaborazione dell’universo aperto dei significati, dei valori e del senso – inteso come costruzione cognitiva di identità in relazione intersoggettiva con l’universo del discorso. Quell’universo che è invece il campo nel quale si muove la Praxis filosofica. L’altra faccia della distinzione è quella che invece sembra stare a cuore a Fachinelli e, ancor più, ad alcuni suoi interpreti: la possibilità che proprio il sostare in un’area nel quale vengono sospese le condizioni di possibilità dell’argomentare intersoggettivo permetta di produrre qualcosa di altrimenti inattingibile. Per esprimersi con le parole di Tito Perlini, di «offrirsi all’aperto, a qualcosa che viene da un’altra parte, da chissà dove»50, di riattivare fenomeni percettivi altrimenti smarriti nella nostra ordinaria esperienza51. Una possibilità che non credo sarebbe sensato escludere a priori: ho infatti spesso sottolineato il valore generativo che, fin da Platone, ha per la filosofia la follia52 e l’importanza di superare l’ottusità di un certo tipo di “razionalismo” che tende a distinguere da sé in modo manicheo l’“extra-razionale”, privandolo di valore e mettendolo al bando. Quel che si tratta di capire è in che modo il lavoro sull’area claustrofilica – dunque, nell’ottica di Fachinelli, il lavoro psicoanalitico – sia connesso con l’universo dei significati e dei valori che – almeno apparentemente – elude, fino a che punto rischi esso stesso di ricadere in distinzioni manichee e – soprattutto – se esso sia di fatto compatibile con un lavoro che si svolge nell’area del logos.

50 51 52

T. Perlini, L’altra parte, in “Iride”, 27, 1999, p. 334. Op. cit., p. 333. Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano, 2004, pp. 134 e sg.

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Agli occhi di chi, come il sottoscritto, si muova all’esterno della cultura psicoanalitica, le risposte a questi interrogativi paiono problematiche almeno quanto allo stesso Fachinelli appariva problematica l’apertura del lavoro analitico dopo le sue considerazioni critiche. Certo non appare sufficiente quanto afferma Silvia Vegetti Finzi, e cioè che l’incentramento della relazione sullo «spazio amniotico del transfert»53 offerto da un’area claustrofilica modellata sulla relazione madre-figlio «favorisce la sua continuazione»54: ciò infatti appariva già agli occhi dello stesso Fachinelli più un suo incatenamento a se stessa, che ne impedisce lo sviluppo e la conclusione, che non una sua forza propulsiva. È il modo in cui tale struttura temporale, mimando «l’atemporalità dell’inconscio in quanto non iscrizione del tempo»55, può favorire l’attivazione di facoltà andate perdute con l’evoluzione che ha condotto alla differenziazione dell’individuo, ma soprattutto il valore e il significato che queste ultime possono assumere a posteriori, all’interno di un contesto cognitivo, che diventa dirimente. Anche perché, di nuovo, significato e valori non sono più cose che si situino nell’area claustrofilica, bensì nello spazio più ampio dell’intersoggettività, e perciò non riguardano la psicanalisi, ma la filosofia.

A confronto con la Praxis filosofica Com’è noto, la Praxis filosofica nasce nei primissimi anni ’80 in diretta contrapposizione con la psicoanalisi. Una contrapposizione che, come è stato giustamente osservato, ha talvolta ecceduto nei toni polemici ed è incorsa in alcune semplificazioni critiche, ma che confronti diretti con posizioni concrete come quella esposta da Fachinelli mostrano di avere ragioni e significati chiari: siamo al cospetto di approcci profondamente diversi tra loro. Infatti, tra le motivazioni critiche che portarono alla nascita della Praxis filosofica56 spiccava l’intenzione di (re)impostare interamente sul discorso il rapporto tra chi volesse affrontare le proprie difficoltà esistenziali e colui che si mettesse a sua disposizione, lasciando da parte ogni lavoro sulle dinamiche relazionali, sugli affetti, sulla storia biografica della psiche (intesa nel senso 53

S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 371. Op. cit., p. 370. 55 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 190. 56 Senza riportare qui testimonianze dirette, mi limito a rinviare a G. Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano, 2004, a D. Miccione, Consulenza filosofica, Xenia, Milano, 2007, a R. Lahav, Comprendere la vita, Apogeo, Milano, 2004, e ai miei Il pensiero e la vita, cit., e Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano, 2008. 54

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della psicologia e non in quello, più ampio, di “anima”57), sull’interpretazione dell’inconscio, sul transfert. Riaffermare la centralità del discorso significava in concreto mirare all’instaurazione di un setting che avesse le caratteristiche del dialogo filosofico, ovvero che tenesse fede alle parole pronunciate da entrambi i dialoganti (senza cioè ipotizzare ragioni altre, di natura psicologico-causale, da quelle espresse esplicitamente nel discorso stesso), che facesse costantemente riferimento all’universo intersoggettivo dei significati che il discorso porta con sé (attingendo momento per momento al patrimonio filosofico di cui il consulente filosofico è il tramite), che mirasse a produrre chiarezza attraverso l’uso della differenza (dei termini, dei contesti, in ultimo dei due dialoganti stessi tra loro), che si determinasse come idealmente paritetico58 e perciò in nessuna forma “fusionale”. In breve, un setting del tutto opposto a quello descritto da Fachinelli. Non sembra quindi casuale che, pur senza averlo mai tematizzato in modo diretto ma per sola conseguenza del tipo di lavoro impostato, la Praxis filosofica non sia mai incorsa nel problema della “interminabilità”: è comune esperienza internazionale che la durata di un ciclo di consulenza oscilli perlopiù tra i dieci e i venti incontri, dopo i quali si interrompe, di solito con biunivoca spontaneità. Ma non è il vantaggio sul piano del decorso della pratica ciò che desta maggior interesse nella Praxis filosofica, quanto il fatto che, impostata come un dialogo filosofico, essa di fatto si muove come s’è visto su territori ben diversi da quelli della psicanalisi: lungi dall’aver luogo nell’area del claustrum, essa si produce invece nello spazio libero e aperto dell’intersoggettività plurale, allargata cioè ben oltre quello dei due dialoganti. Il suo luogo è il logos, così come si è costituito e si costituisce nel mondo umano nella sua interezza. Il filosofo non assume – non può assumere, per la struttura del dialogo – il ruolo della madre, né quella del padre: è un mero partner dialogico qualunque. L’unico ruolo “specialistico” che egli ricopre è quello di tramite verso l’universalità del discorso, di “porta” sul mondo umano esterno, di “valvola di sfogo” per la tensione sollecitata dalla relazione stessa. Egli “apre” la relazione, fa volatizzare ogni eventuale desiderio di “fusione” dell’ospite con il consulente così come 57

Questo significato di “psiche”, che rinvia al modo in cui il termine era usato nell’antichità, viene sovente ripreso nell’ambito della Praxis filosofica. Non affronteremo qui una disamina di una tale ripresa, che contiene molti spunti interessanti, ma al tempo stesso anche numerose ambiguità. 58 Per una più precisa determinazione del senso di tale “pariteticità” ideale rinvio a quanto ho scritto in Consulente filosofico cercasi, cit., e in Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi, in “Giornale storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura”, n° 6, Aprile 2008, pp. 181-213.

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svapora il gas da una bottiglia lasciata aperta. Il suo ruolo lo sottrae a ogni “presa in carico” e a ogni “fusione”, lo muove sistematicamente e spontaneamente nella direzione di esorcizzare ogni tendenza verso il claustrum. In tal modo, prendendo parte al setting filosofico l’ospite viene rinviato alla propria responsabilità – prima di pensiero, poi di scelta e di decisione. Una responsabilità non “già data” e imposta dalle forme istituzionalizzate della società, ma da ri-costruire attingendo al fluido universo del discorso, del quale ciascun individuo è un singolare e non duplicabile nodo d’intersezione. È la forma della relazione (che richiede ai dialoganti di essere entrambi individui – per quanto frammentari – relati al mondo esterno, o essa viene meno fin dal primo incontro) a far sì che l’ospite passi da quel “collo di bottiglia” e si confronti con ciò che il logos ha da dire sul suo pensiero, sul suo sentire, sul suo essere. Essa fa cioè sì che egli cerchi il senso del proprio esistere non all’interno di se stesso, ma guardando e ascoltando l’esterno, nel quale ha la necessità di trovare una collocazione per esser se stesso; non attraverso l’equilibrio delle proprie dinamiche psichiche, ma attraverso la coerenza del proprio pensiero con quello della moltitudine umana con la quale condivide l’esistenza e dalla quale può e deve ottenere un riconoscimento vasto e non limitato al rapporto duale. Non è perciò un caso che nelle consulenze filosofiche si parli poco dei due individui che ne sono materialmente protagonisti e si parli invece molto del mondo circostante: della contemporaneità, di storia, di cultura, di scienza, delle ipotetiche opzioni che si possono aprire nella vita di ciascun uomo e, soprattutto, di etica e di politica. Perché il senso dell’esistenza, essendo intersoggettivo, è un senso etico e politico. Quel senso che rischia di sfuggire se ci si fa risucchiare dall’approccio psicoanalitico claustrofilico, viceversa così maternamente privato.

La “mente estatica” come esito privato L’ultima considerazione mi appare confermata proprio dagli esiti della riflessione di Fachinelli, presenti nel suo lavoro di commiato, La mente estatica. E la cosa assume ai miei occhi una significato particolarmente pregante, dato che della prospettiva disegnata da Fachinelli in quel lavoro condivido il “manifesto”, ma non la realizzazione. Condivido, cioè, l’intenzione di «superare (…) il nostro generale disconoscimento dell’estatico, cogliendo in esso un momento originario di molteplici esperienze»59, dato che, come già 59

E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 12.

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accennavo, ritengo che il cosiddetto “irrazionale” non possa e non debba esser bollato con il marchio dell’infamia e messo al bando dall’esperienza e dalla ricerca: è da esso, e solo da esso, che possiamo trarre quei nuovi elementi e quelle inaudite esperienze indispensabili per ampliare la nostra stessa comprensione razionale. E condivido anche l’idea che ciò «possa contribuire a salvare questo stesso io dal rischio di essere assorbito dalla ragione tecnica, scientifica, burocratica»60: seguendo Günther Anders e Umberto Galimberti, osservo spesso come la ragione tecnica sia il pericolo più grande cui va oggi incontro il pensiero libero e, perciò, il pensiero filosofico. Il problema, a mio parere, sta in ciò che si chiede e ci si attende da l’estatico e l’esperienza mistica, dato che tali aspettative pre-determinate finiscono inevitabilmente per strutturarne, esplicitamente e implicitamente, il progetto e il significato possibili. Detto diversamente, cosa vogliamo fare dell’esperienza “extra-razionale”, estatica, che lo si voglia o meno è di nuovo affare del razionale e, perciò, riguarda la filosofia, la quale – come diceva Platone – è «una scienza fatta in questo modo, che il fare coincida con il sapersi servire di quello che si fa»61. Da questo punto di vista, mi appare già assai significativo che Fachinelli senta fin dall’inizio l’esigenza di avvertire che la sua proposta possa essere «da taluni, e forse da molti, interpretata come un ricorrente tentativo di distruggere o indebolire la Ragione, e forse l’io stesso, e di tornare così a un indistinto originario»62: un tale avvertimento manifesta infatti la sua personale insoddisfazione per una certa ragione, quella che egli, non a caso, scrive con l’iniziale maiuscola, così come faceva Dostoevskij nei Ricordi dal sottosuolo. Una Ragione pensata come rigida e istituzionalizzata, che viene sentita come un vincolo, una prigione per l’individuo. Una Ragione che, così pensata, effettivamente si pone a ostacolo rispetto alla possibilità di cogliere qualcosa di importante, anzi di vitale – il senso non individualistico dell’esistenza – che perciò si è obbligati a cercare altrove: nell’extra-razionale dell’esperienza mistica, dell’estasi, della “gioia eccessiva”. Scrive Silvia Vegetti Finzi che, «ne La mente estatica (…) la ricerca si volge a oltrepassare la separazione io-mondo per cogliere l’illimitato, l’oceanico, l’immobile, sotteso al movimento e al cambiamento»63. Giunto al termine della sua vita, consapevole della malattia che lo condurrà alla morte, «all’estasi Fachinelli chiede di sottrarlo all’individualità, alla mistica di salvarlo 60 61 62 63

Ibidem. Platone, Eutidemo, 289b. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 12. S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 374.

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dalla caducità»64. Egli cerca, in altre parole, «elementi di eternità»65, che non possono giacere nell’individuo. Certo – prosegue Vegetti Finzi – per lui tali elementi consistono «nell’impegno sociale»66. Perché, allora, non è semplicemente appagato dall’aver avuto concreta parte nel consesso sociale umano, come realmente è avvenuto e come dimostra il fatto che noi siamo qui, a vent’anni dalla sua morte, a parlare del suo lavoro? A questa domanda la stessa Vegetti Finzi risponde dicendo che «Elvio non poteva trovare consolazione in questa dimensione storica perché non ha mai creduto nelle istituzioni: per lui la formalizzazione delle aggregazioni, la stabilizzazione dei rapporti, la contrattualizzazione dei legami, la ritualizzazione del libro separato dalla prassi, erano processi sostanzialmente devitalizzanti e mortiferi»67. Ma questa risposta appare debole, o quantomeno incompleta, perché ad essa si può opporre un’ulteriore domanda: perché mai Fachinelli considerava il “sociale” qualcosa di “istituzionale”? Perché vedeva “il libro” come qualcosa di “separato dalla prassi”? La mia personale risposta a quest’ulteriore domanda è: perché la “prassi” a cui egli aveva preso parte era già separata dalla “teoria” del libro, perché vedeva nel “sociale” solo l’aspetto formale e istituzionalizzato, dimenticando che questo aspetto ne presuppone necessariamente un altro – quello fluido e in divenire dell’interazione dialogica tra gli uomini. Ciò accade a Fachinelli proprio in conseguenza del suo pensare la Ragione – con la maiuscola iniziale – già come una “istituzione” che si oppone all’individuo, come un “padre” rigido contrapposto alla fluidità indistinta della diade madre-figlio. Pensata così, la Ragione avrebbe potuto appagarlo solo se realizzata integralmente; ma Fachinelli non poteva cadere nella fascinazione di questo antico sogno razionalista, che egli sapeva bene esser stato distrutto dalla critica freudiana ai “prosciugamenti dello Zuidersee”. Quel che gli serviva era altro, e le alternative erano solo due: o l’“extrarazionale” della mistica, dell’estasi, della “gioia eccessiva”; oppure una ragione senza maiuscole, che restituisse il pensiero alla sua originaria libertà dalle istituzioni. Al termine del suo cammino esistenziale, Fachinelli s’è proteso verso quest’alternativa, ma la sua storia gli ha permesso di imboccare solo la strada dell’estatico: non è stato capace di abbassare le pretese della Ragione, togliendole la maiuscola. Scrive Sergio Benvenuto che «in fondo, Fachinelli è stato sempre un 64 65 66 67

Ibidem. Ibidem. Op. cit., p. 375. Ibidem.

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anarchico individualista»68. Tito Perlini afferma che egli cercava di riportare la psicoanalisi alla sua originaria «ambizione di condurre ad una liberazione radicale»69 operando «su individui depauperati per riattivare la loro energia antropologica sopita»70. Pier Aldo Rovatti, commentando La mente estatica, parla di «liberazione dall’intoppo coscienziale»71. Questa tensione verso la libertà dell’individuo – quella che Fachinelli vedeva nei movimenti giovanili – deriva dalla centralità che l’individuo, isolato nella dualità, ha nell’approccio psicoanalitico claustrofilico, dalla sua contrapposizione ad ogni “terzo” che invada quello spazio, in primo luogo alla figura “istituzionale” del padre. Una logica che, però, rende impossibile fuoriuscire dall’individualità con la ragione e, per salvare l’uomo dal vuoto di senso dell’isolamento individuale, è costretta a rinviare a un’utopia mistica che riproponga su un piano assolutizzato la dinamica fusional-affettiva propria della diade materna. Distruggendo, in tal modo, anche i fondamenti politici del sociale, che poggiano sulla relazione intersoggettiva del logos. È ad esempio assai significativo che manchi in Fachinelli ogni accenno a stati di “gioia”, di superamento dell’individualità e della caducità che non siano di tipo mistico-estatico. E questo vale anche se si tenga conto della differenza tra i due tipi di esperienza estatatica di cui parla Perlini, perché anche in quella che rimanga «a questa vita e a questo mondo»72, senza mirare al superamento dei sensi, al centro c’è ancora l’esperienza individuale privata e manca la considerazione di quella “gioia” – che può ben essere spesso anche “eccessiva” – ch’è data dal sentirsi parte caduca e transeunte di una totalità certo indominabile, ma per nulla mistica, qual è lo spirito umano, inteso in un senso post-hegeliano del termine73. Quella gioia che è data non già dal sentirsi “eterni”, bensì dal sapersi finiti, non dal sentirsi “liberi”, ma al contrario proprio dal sapersi legati. Perché solo il legame – come c’insegnano ad esempio le riflessioni sul paradigma del dono74 – conferisce senso all’esistenza, e il legame non è solo quello costruitosi nella percezione disancorata

68

S. Benvenuto, L’ultima spiaggia di Elvio Fachinelli, in “Iride”, 27, 1999, p. 313. T. Perlini, L’altra parte, cit., p. 349. 70 Op. cit., p. 350. 71 P. Aldo Rovatti, L’esercizio del silenzio, Raffaello Cortina, Milano, 1992, p. 92. 72 T. Perlini, L’altra parte, cit., p. 344. 73 Rimando qui al mio L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano, La Città del Sole, Napoli, 2002, ma anche, in generale, al lavoro di Vittorio Hösle. 74 Tra i tanti lavori successivi al classico apripista di M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 1965 (ed. or. Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris, 1950), merita ricordare J. Godbout, Lo spirito del dono, Einaudi, Torino, 1993 (ed. or. L’Esprit du don, La Decouverte, Paris, 1992). 69

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dal pensiero – che rimanda alle figure parentali – ma è anche, soprattutto, quello che unisce gli uomini nell’interazione dialogica di pensiero, che solo poi e proprio per questo tramite si fa anche legame affettivo75. Quel che mi sembra mancare in Fachinelli è in altre parole l’idea di un individuo che stia e cada solo nella relazione che ha – come identità pensata e vissuta – con l’intera totalità di ciò che lo circonda, che dia senso a se stesso e alle proprie percezioni attraverso il costante, inesauribile – e dunque sempre meravigliosamente precario – sforzo di comprensione dialogica dei/con i propri simili, di posizionamento e riposizionamento nella realtà che con essi condivide e co-costruisce. Un individuo che concepisca la ragione come qualcosa di non istituzionalizzato, come l’universo mobile entro il quale inter-agire con i propri simili, come il terreno sociale e politico entro il quale trovare se stesso attraverso la fuoriuscita da se stesso. E tutto questo manca, alla fin fine, a causa di un semplice presupposto: che l’individuo sia e non possa non essere radicalmente ancorato alla propria egoità dalle sue strutture psichiche profonde, in ultima analisi rimandanti alla propria storia affettiva, che lo imprigionano ai rapporti “significativi” – in primo luogo quelli parentali – allontanandolo dalla “gioia” delle relazioni universalistiche, dal valore, dal senso e dalle potenzialità emozionali della sua esistenza pensata – un’esistenza ch’è di per sé sociale e politica. Le profezie, si sa, spesso si autoverificano, e questo è uno di quei casi: una volta che si sia presupposta «la diade primaria madre-figlio» come una «dinamica in un livello di funzionamento mentale primitivo e quasi corporeo», cioè come una «struttura psichica profonda»76, ci si autovincola a un’immagine dell’uomo iperindividualizzato e ci si preclude ogni possibilità di reperire sensi non autistici, con esiti disperanti dal punto di vista cognitivorazionale: l’unica speranza residua è l’“oceanico”, la fusione mistica con un extra-individuale astratto, cui attingere attraverso altre sfere – extra-razionali, extra-sensoriali, mistiche, da ultimo religiose77. Certo, non politiche. Ma tutto ciò non è fatale: è solo la conclusione, forse necessaria, di determinati presupposti. Cambiandoli, anche il quadro cambia: tutto – e non solo il mistico – rimane aperto, la claustrofilia diventa un ricordo biografico (una mera «prospettiva evolutiva»78) e il superamento dell’angusto spazio-tempo individuale diviene possibile sul piano politico. Dove con questo 75

Su questo punto rinvio a quanto scritto nel mio già citato Consulente filosofico cercasi. S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 364. 77 Vale la pena menzionare il fatto che Umberto Galimberti, filosofo e psicoanalista, ha più volte osservato come la psicoanalisi porti con sé una sorta di “secolarizzazione” delle motivazioni altrimenti soddisfatte dalla religione. 78 S. Vegetti Finzi, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, cit., p. 364. 76

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termine non si intende niente di “istituzionale”, bensì l’universo di un convivere che è cooperazione di pensiero e di prassi, ovvero – per tornare alla prospettiva della Praxis filosofica – è con-filosofare79.

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Praxis filosofica e politica In un mio recente lavoro, Prospettive politiche della pratica filosofica80, ho cercato di mostrare in che senso la riscoperta dell’approccio filosofico all’esistenza e il suo rilancio su scala sociale possa avere per conseguenza la rinascita della politica, nel senso antico, greco, del termine, e non in quello istituzionalizzato e burocratizzato in cui, purtroppo, oggi lo intende la cultura di massa. Ivi ho anche cercato di mostrare come questo antico, ma ancora attualissimo concetto di politica sia oggi marginalizzato anche – sebbene non esclusivamente – dal predominio della cultura psicologistica, che pone al centro della scena l’individuo isolato con le sue vicende personali e private, le quali finiscono per trovare – quando lo trovino – solo in seconda battuta un significato etico-sociale. La lettura che ho fatto della vicenda personale di Elvio Fachinelli mi sembra confermare quell’analisi: solo tornando a considerare l’individuo come costitutivamente intersoggettivo (e perciò sociale e politico), solo disancorandolo da pretese costituzioni psichiche primarie, è possibile farlo uscire dal suo isolamento ontologico e aprirgli quel “collo di bottiglia” verso l’alterità plurale che può conferire senso tanto alla sua vita, quanto alla sua morte. In caso contrario, ogni lettura “politica” odorerà di costrizione, suonerà come una frustrazione della sua libertà, fallirà nell’individuazione di un senso – che è sempre, necessariamente, un costrutto intersoggettivo. Mi pare altresì evidente che il mutamento di sguardo, necessario affinché ciò sia possibile, renda incompatibili l’approccio della psicoanalisi e quello della Praxis filosofica, sia perché i presupposti cognitivi dei due sono diversi, sia – soprattutto – perché la loro traduzione pratica è impossibile contemporaneamente. Aut… aut…: o l’attenzione è all’area claustrofilica, all’individuo, alla sua libertà, ai suoi privati affetti, alla percezione distaccata dalla coscienza; oppure è rivolta agli spazi aperti del logos, all’intersoggettività, al legame che unisce tutti gli esseri dialoganti, al nesso tra pensiero e 79 Si osservi come l’espressione “confilosofare”, che trova probabilmente la sua prima formulazione in Karl Jaspers, sia oggi assunta da un gran numero di protagonisti delle moderne Pratiche Filosofiche. 80 In “Humana-mente”, n° 7, 2008, pp. 19-34 (l’articolo è reperibile in formato pdf presso il sito Internet http://www.humana-mente.it/Neri%20Pollastri%20-%20Settimo%20Numero. pdf).

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vita. Il primo sguardo può certamente favorire nuove scoperte e percezioni, ma solo il secondo potrà ricondurle al loro senso e conferire ad esse un valore etico e politico. E proprio la mancanza – o quantomeno la sottovalutazione – del significato etico e politico delle dinamiche individuali mi pare il rischio più grande che può correre l’approccio claustrofilico. Da questo punto di vista, mi sembra interessante gettare un breve sguardo retrospettivo sulla lettura data da Fachinelli ai fenomeni politici giovanili degli anni ’60. Fenomeni che egli interpretava, come s’è visto, con modelli psicanalitici, ma che erano di fatto anche permeati da quel tipo di cultura, in una misura che oggi appare quasi sorprendente: chi mai potrebbe immaginare un gruppo di lavoro di tipo psicoanalitico all’interno dei movimenti studenteschi contemporanei? Ebbene, se prendiamo sul serio le considerazioni di Fachinelli sul “desiderio dissidente” e le consideriamo, oggi, qualcosa che, in certa misura, era parte della cultura politica di quegli anni, possiamo affermare che il dissenso giovanile, proprio perché imperniato sul desiderio (incarnato dalla relazione materna) e volto contro la società (istituzionalizzata sulla falsariga della figura del padre), avesse in realtà ben poco di realmente politico e, viceversa, fosse qualcosa di molto, molto privato. Fosse, cioè, la rivolta di mere aggregazioni di individui, non interamente coscienti della loro costituzione sociale e non molto attenti alla misura del loro posto nella realtà intersoggettiva – quel posto che, invece, sta così a cuore ad esempio a Platone – nei confronti di una società nella quale faticavano, per difetto di identità pensata, a trovare luogo. Non si scambi questo tipo di lettura per una presa di posizione “di parte”, perché essa, pur nella sua approssimazione (non c’è dubbio che sarebbe necessario un più ampio dibattito sul tema per valutarne la portata), vuol solo provare a dar conto – oggi, a distanza di oltre trent’anni certo non passati invano – dello stato disastroso della cultura politica non solo italiana, all’interno della quale quei “dissidenti” sembrano aver dato risposta – almeno in parte e sempre privatamente – ai loro desideri, i quali però, trasformatisi in bisogni, hanno finito per travolgere le esigenze generali della società. È sotto gli occhi di tutti il fatto che i protagonisti di quegli anni hanno avuto qualche successo nel prendere il posto dei loro padri nei ruoli istituzionali della società, senza tuttavia modificarne significativamente la struttura: la “madre” a cui si sono inconsapevolmente appoggiati in gioventù ha favorito la messa in moto della dialettica paradossale del loro desiderio, ma quest’ultima ha oscurato la presenza, nel contesto della relazione intersoggettiva allargata, di altri soggetti: i loro fratelli. Già il primo movimento politico giovanile che seguì il ’68 mostra gli effetti di questa dinamica: quello ben diverso e ben più disincantato del

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’77 – non a caso, assai negletto e ben poco celebrato – è un movimento che, assieme alla sua generazione, ha subìto l’individuale invadenza dei suoi fratelli maggiori, che di fatto hanno “occupato militarmente” le istituzioni – burocratiche, lavorative, culturali, universitarie, finanche politiche – senza lasciare alcuno spazio a chi veniva dopo. Oggi, i sessantenni abbondano nelle istituzioni, mentre i quaranta-cinquantenni latitano. Poiché, statisticamente, è molto difficile addebitarne la responsabilità alla carenza di talenti, sembra sensato cercarne la causa proprio nella struttura ideologica (nel senso più lato e ampio del termine) dei movimenti stessi. E qui, la lettura fachinelliana dei gruppi giovanili del ’68 appare illuminante: la loro struttura, il loro focus sulle dinamiche relazionali private, l’ancoraggio forte alle strutture individuali offrono spunti esplicativi piuttosto efficaci. E ci dicono che all’interno di quei movimenti covava quantomeno qualcosa di assai poco politico, perché la loro struttura dinamica rimandava a modelli egoico-individualistici. Per responsabilità – anche, sebbene non esclusivamente – della cultura psicoanalitica che li attraversava. Alla luce di questa osservazione – che, ripeto, apre un terreno di ricerca e di confronto qui appena accennato – si spiegano il “riflusso” degli anni ’80 (gli anni in cui, almeno in Italia, la psicoanalisi ha davvero vissuto un periodo di marcata istituzionalizzazione, come testimoniano anche le amare considerazioni di Fachinelli), la parabola discendente della politica (vieppiù trasformatasi in mera professione, vale a dire in quanto di più istituzionale possa esservi in ambito sociale) e lo stesso declino della riflessione filosofica (che oggi trova l’acme nel suo progressivo abbandono perfino da parte degli studenti). Ma trova una spiegazione anche la tendenza – marcata negli anni successivi allo stesso ’68, ma tuttora assai presente – alla ricerca di fuoriuscite dal “politico” attraverso una moltitudine, spesso di discutibile qualità, di pratiche mistiche (il pensiero religioso e spirituale orientale, le medicine alternative, la superstizione astrologica, le più diverse pratiche psicofisiche), tutte incentrate sulla “crescita personale” piuttosto che sulla ricerca di un’identità e di un senso politici. Esiti certo superficiali e perversi, ma altrettanto certamente mossi dalla stessa insoddisfazione che spingeva Fachinelli sulla via della “mente estatica”: la ricerca di un senso che la malintesa “Ragione” rendeva inattingibile, perché vincolata concettualmente all’individuo. La risposta – o forse potremmo dire l’alternativa – a tutto questo è il recupero del politico. E, come mostravo in precedenza, quest’ultimo passa dalla filosofia. Che non necessariamente vuol dire abbandono di ogni prospettiva diversa – sia essa psicoanalitica, mistica, o d’altro genere – ma che certo significa la sua riconduzione a un universo di senso, che è materia della filo-

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sofia, cioè del pensiero razionale senza maiuscole. Il quale, consapevole della sua finitudine, ma anche della vanità di ogni tentativo di eluderla attraverso improbabili scorciatoie per giungere a forme di “oceanico” Assoluto, conferisca anche alle altre prospettive il loro stesso senso. Probabilmente meno maternamente consolatorio di quanto non sia stato sperato in passato, ma non per questo meno capace di permettere a ciascun uomo di vivere la propria breve e limitata esistenza con gioia e pienezza.

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Bibliografia Achenbach Gerd, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano, 2004. Benvenuto Sergio, L’ultima spiaggia di Elvio Fachinelli, in “Iride”, 27, 1999. Fachinelli Elvio, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’Erba Voglio, Milano, 1973 (poi ripubblicato da Adelphi, Milano, 1992). Fachinelli Elvio, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano, 1974. Fachinelli Elvio, Claustrofilia, Adelphi, Milano, 1983. Fachinelli Elvio, La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989. Godbout Jacques, Lo spirito del dono, Einaudi, Torino, 1993 (ed. or. L’Esprit du don, La Decouverte, Paris, 1992). Lahav Ran, Comprendere la vita, Apogeo, Milano, 2004. Mauss Marcel, Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 1965 (ed. or. Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris, 1950). Miccione Davide, Consulenza filosofica, Xenia, Milano, 2007. Perlini Tito, L’altra parte, in “Iride”, 27, 1999. Pollastri Neri, L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano, La Città del Sole, Napoli, 2002. Pollastri Neri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano, 2004. Pollastri Neri, Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano, 2008. Pollastri Neri, Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi, in “Giornale storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura”, 6, Aprile 2008. Pollastri Neri, Prospettive politiche della pratica filosofica, in “Humana-mente”, 7, 2008 (www.humana-mente.it). Rovatti Pier Aldo, L’esercizio del silenzio, Raffaello Cortina, Milano, 1992. Vegetti Finzi Silvia, Claustrofilia tra nostalgia e utopia del materno, in “Iride”, 27, 1999.

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A proposito della domanda alla Sfinge. Una lettura filosofica

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di Maria Luisa Martini

Buona parte dei testi di Elvio Fachinelli degli anni ’60 e ’70, ad esempio le raccolte di articoli e saggi brevi L’erba voglio (1970) e Il bambino dalle uova d’oro (1974)1, suscitano oggi un’impressione ambivalente. Da un lato hanno in sé molto del clima di quegli anni, il fermento culturale, la tensione al rinnovamento e alla trasformazione profonda dell’esistente. In questo senso sono testi “datati”, che rivelano il comune sentire di tutta una generazione e l’impegno a sperimentare forme nuove di pensiero e di relazione. Eppure questi testi parlano anche di problemi attuali, ancora oggi al centro del dibattito culturale, e forniscono strumenti critici e interpretativi degni di attenzione perché aprono piste di lavoro non del tutto esplorate. Lo stesso stile di ricerca di Fachinelli, indipendente e spesso polemico, che segnala l’urgenza di uscire dal formalismo di scuola per dar vita a un sapere non compromesso con le reti del potere, ma aderente alla complessità della condizione umana, costituisce ai nostri giorni un insegnamento da ricordare e da mantenere vivo. La sua battaglia da psicoanalista contro la psicoanalisi istituzionalizzata e chiusa in difesa del proprio corpus fisso di pratiche, va ben al di là della disputa interna a una specifica professione, per investire una questione ancora oggi ben viva circa il ruolo non solo della psicoanalisi, ma di tutte le 1 Entrambi i testi raccolgono articoli e saggi brevi. In particolare il volume L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, a cura di E. Fachinelli, L. Muraro e G. Sartori (Einaudi, Torino 1970) pubblica le relazioni e i materiali di un convegno tenutosi a Milano nel 1970 dal titolo “Esperienze non autoritarie nella scuola”. La prima parte del volume contiene la presentazione e la discussione di una esperienza di un asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, a cui Fachinelli aveva personalmente collaborato, sia nell’organizzazione sia nella supervisione. Il volume di E. Fachinelli Il bambino dalle uova d’oro (Feltrinelli, Milano 1974) ripropone invece materiali scritti e pubblicati per lo più su riviste tra il 1965 e il 1973 (“Il Corpo”, “Quaderni piacentini” e “L’erba voglio”). Per completare l’esame degli scritti di Fachinelli di questi anni si veda anche il volume a cura di M. Conci e F. Marchioro, Intorno al ’68. Un’antologia di testi, Massari, Bolsena (VT) 1998.

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pratiche che operano nel campo della ‘cura’ e dell’aiuto esistenziale: dalle psicoterapie nei loro più diversi indirizzi, fino al counseling e alla consulenza filosofica.2 Ancora più esplicito di allora è, infatti, il mandato loro assegnato di contenimento del disagio in funzione della prevenzione del malessere e soprattutto del conflitto sociale. Mandato di cui Fachinelli ha saputo scorgere i primi segnali, richiamando l’attenzione sul pericolo insito nell’espansione della ‘nebulosa psicoanalitica’ in funzione di stabilizzazione sociale.3 Questo processo, previsto da Fachinelli con largo anticipo, ha determinato uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo, in cui la ‘cultura terapeutica’ si è insinuata in ogni aspetto della vita come modalità diffusa di rappresentazione delle esperienze personali quotidiane. Come descrive puntualmente Frank Furedi nel suo saggio critico Therapeutic culture.Cultivating vulnerabilità in an uncertain age recentemente tradotto in italiano4, stiamo assistendo alla penetrazione pervasiva dell’approccio terapeutico in ogni momento dell’esistenza, fenomeno che viene puntualmente registrato dal linguaggio quotidiano e dai media, dove i termini legati al campo psicologico vengono impiegati continuamente, anche al di fuori di specifiche competenze. Questo fenomeno è strettamente correlato con una percezione diffusa di fragilità emotiva e di incapacità di far fronte da sé con autonome risorse alle difficoltà della vita. Gli esiti, insomma, di una persistente attenzione per i risvolti emotivi sono paradossali: l’estensione sul territorio di presidi terapeutici, anziché irrobustire gli strumenti personali degli individui, aiutandoli a saper gestire le situazioni conflittuali o dolorose e i momenti difficili che l’esistenza inevitabilmente comporta, incoraggia piuttosto un’immagine vulnerabile di sé, segnata dalla 2

Sulla questione della ‘cura’ e sul dibattito in atto si vedano i seguenti riferimenti bibliografici: L. Mortari, La pratica dell’aver cura, B. Mondadori, Milano 2006; F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (2004), tr. it. di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 2008. Nel campo delle pratiche filosofiche si vedano: P.A. Rovatti, La filosofia può curare?, Cortina, Milano 2006; M. Montanari, La filosofia come cura. Percorsi dell’autenticità, Unicopli, Milano 2007; il numero monografico dei “Quaderni di pratica filosofica” del CRIF (Centro di Ricerca per l’Insegnamento della Filosofia) settembre 2009. 3 Si veda la seguente affermazione che Fachinelli fece nell’ambito della sua relazione al Convegno internazionale «Psicanalisi, Psichiatria, Antipsichiatria» tenutosi a Milano il 13-14 dicembre 1969: «Oggi la psicoanalisi è una nebulosa in continua espansione, che tende a penetrare in ogni zona di vuoto, in ogni frattura della società industriale avanzata, sollecitata appunto a fornire una risposta psicologizzante che chiuda quel vuoto e nasconda quella frattura». Il testo dell’intervento, pubblicato con il titolo «Che cosa chiede Edipo alla sfinge» in “Quaderni piacentini” n° 40, aprile 1970, e riedito nel volume Fachinelli, Il bambino, cit., pp. 145-157, sarà tra breve oggetto di una più approfondita analisi. 4 Ho riportato il titolo in inglese che permette di comprendere meglio il contenuto del volume rispetto alla versione italiana: F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, 2004, tr. it. di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 2008.

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PROPOSITO DELLA DOMANDA ALLA

SFINGE. UNA

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fragilità emotiva e dal bisogno di aiuto, anche in situazioni che nulla hanno a che vedere con una reale patologia psichica né richiederebbero una terapia clinica. Esiti paradossali, che tuttavia a una più avvertita coscienza critica non possono non apparire funzionali ai processi di gestione sociale in ragione del contenimento dei conflitti. Possono ben essere letti come una nuova forma di ‘governo delle anime’, analoga nella strategia, ma ancora più efficace negli esiti, di altri ‘dispositivi’ di soggettivazione, e che si legittima, come ha insegnato Michel Foucault5, nel nesso soggetto-verità-sapere6. In posizione critica nei confronti del movimento psicoanalitico, che non sa più trarre ispirazione dalla passione di Freud per la ricerca e dalla sua capacità di interrogare in modo radicale la natura umana, ma si attiene in modo dogmatico alla teoria e la interpreta come un prontuario per fornire risposte7, Fachinelli segnala la tendenza in atto e il rischio a cui si espone la pratica psicoanalitica a cui «viene sempre più devoluto un compito generale, il compito di dare ragione dell’esistente, cioè di razionalizzarne le irrazionalità, prevenirne le difficoltà, tamponarne i conflitti». In questo processo, l’analisi non funziona come strumento di consapevolezza e di emancipazione, ma «al posto dell’atteso “irrobustimento” della personalità, essa conduce a un suo indebolimento duraturo, che richiederà anni di lavoro per essere superato, se mai sarà superato»8. Contrastare questa tendenza significa lasciar emergere l’impulso vivo della domanda, aver cura di quell’arte di interrogare che ha guidato l’indagine di Freud e che ancora oggi è necessaria per orientare l’uomo verso la 5

Mi riferisco soprattutto alle lezioni di M. Foucault pubblicate con il titolo L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, 2001, tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003 e al Seminario tenuto nel 1982 presso l’Università del Vermount, Tecnologie del sé, tr. it. di S. Marchignoli, Bollati, Boringheri, Torino, 1992. 6 Si noti la prossimità con Foucault nel seguente passo: «È chiaro che questa nebulosa psicanalitica si espande attraverso la penetrazione in ogni “operatore culturale”, ben al di là della stretta cerchia degli psicanalisti in senso proprio. Ma l’importanza di questa cerchia è tutt’altro che secondaria, giacché è al suo centro che viene collocato, immaginariamente, il punto del sapere-verità, il punto da cui vengono diramate le risposte giuste. Che una buona parte degli psicanalisti scambi questo punto immaginario per un punto reale e si prenda quindi come depositaria e proprietaria di un sapere-verità da diffondere liberamente fino agli estremi confini della nebulosa – questo è un dato che non ha bisogno di dimostrazione» («Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?», in Fachinelli, Il bambino, cit., pp. 147-148). 7 «Se una volta, con Freud e alcuni altri, essa [la psicoanalisi] ha veramente posto all’uomo delle domande, e delle domande essenziali, oggi, in tutto il mondo occidentale, e con la partecipazione di molti, essa gli dà quasi esclusivamente delle risposte»: così si legge nell’intervento «Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?», in Fachinelli, Il bambino, cit., p. 147. 8 E. Fachinelli, «Il paradosso della ripetizione», in “L’erba voglio” n° 10, marzo-aprile 1973, ora riedito in Il bambino, cit., p. 244.

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SFINGE

conoscenza di sé. L’arte della domanda, assieme all’oracolo delfico “Conosci te stesso”, rimanda alle origini dell’interrogazione filosofica, a cui Fachinelli si appella come correttivo critico necessario ad ogni disciplina umanistica che intenda sottrarsi a una vuota ripetizione dei propri modelli. Il senso della proposta di Fachinelli trova espressione nella sua rilettura di un mito centrale nella teoria come nella clinica freudiana: il mito di Edipo. Rovesciando specularmente – e provocatoriamente – il canovaccio della fabula, non è più la Sfinge nella sua natura ibrida di animale sacro rappresentativo della sfera dell’inconscio (e che Fachinelli vede come immagine dell’analista «che aspetta al varco il viandante – immobile, impenetrabile, parco di parole»9) a porre il quesito sulla natura umana, sollecitando il suo interlocutore a intraprendere un percorso di autoconsapevolezza. La Sfinge viene piuttosto interrogata da Edipo, che diventa così simbolo della problematicità della condizione umana. Pur sottoponendo a rivisitazione uno dei riferimenti portanti dell’edificio analitico, da sempre considerato, assieme al transfert, nucleo non riducibile della teoria e della clinica freudiana, Fachinelli procede a un suo ampliamento di senso, collocandolo entro una più vasta prospettiva interpretativa. Può così cogliere, dentro l’unità del mito, una stratificazione di significati, mettendo in luce il suo carattere sovradeterminato. Come hanno segnalato gli studi di antropologia e di storia delle religioni10, nelle narrazioni mitiche il significato trasmesso va sempre colto nel suo carattere insaturo, che lo espone a una continua risignificazione e lo fa crescere continuamente su se stesso. Il mito, finché è vivo e proprio perché è vivo, è suscettibile di essere risignificato. Per questo l’esegesi dei miti è in qualche modo interminabile – come l’esplorazione psicoanalitica di sé –. Se seguiamo le indicazioni di Paul Ricoeur, il contenuto mai del tutto esplicabile della narrazione mitica è ciò che fornisce la linfa al lavoro dell’interpretazione e “dà a pensare”, aprendo alla riflessione la possibilità di “pensare di più e dire altrimenti”.11 Teniamo presente che è proprio tale aspetto del mito a consentire anche a Freud di reinterpretarlo, prendendo le distanze dalle esegesi classiche, le quali leggevano tradizionalmente la tragedia di Edipo come espressione 9

Fachinelli «Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?», in Fachinelli, Il bambino, cit., p. 147. Ricordando solo i più noti, cfr. R. Graves, I miti greci, 1955, Longanesi, Milano 1983; K. Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, 1951-1958, Garzanti, Milano 1976; J.-P. Vernant, Mito e tragedia nell’antica Grecia, 1972, Einaudi, Torino 1977; H. Blumenberg, Elaborazione del mito, 1979, Il Mulino, Bologna 1991. 11 P. Ricoeur, La metafora viva, 1975, Jaca Book, Milano 1981; la trilogia Tempo e racconto, 1983-1985, Jaca Book, Milano 1986-1988 e ll simbolo dà a pensare, 1959, Morcelliana, Brescia 2002. 10

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una contraddizione universale dell’umano: il conflitto tra libertà e destino, che traccia i limiti del nostro concreto esistere. Com’è noto, Freud risale a monte della vicenda narrata da Sofocle, interpretando gli antefatti della fabula, e precisamente l’uccisione del padre e l’incesto con la madre. Ciascuno di noi, anche se in modo inconsapevole, riconoscerebbe nella sorte di Edipo il proprio destino e gli esiti funesti della realizzazione dei desideri infantili. La scena si accompagna a un sentimento di orrore. Il phobos tragico esprime la carica emotiva negativa con cui prendiamo le distanze, inorriditi, da questa vicenda, sotto l’effetto della censura e con tutta la forza che dobbiamo impiegare contro la riviviscenza dei nostri desideri infantili, sottoposti a rimozione.12 Ma per sviluppare questa interpretazione, Freud deve fare più di un passo indietro. Innanzitutto rispetto alle vicende narrate da Sofocle, il quale mette in scena i momenti in cui Edipo è costretto a prendere coscienza della realtà del suo passato. Il dramma del parricidio e dell’incesto è già avvenuto quando la tragedia ha inizio: il culmine della rappresentazione, che segna la metabolè (rovesciamento) dell’intera vicenda, avviene quando Edipo, grazie al messaggero che proviene da Corinto, è costretto ad aprire gli occhi di fronte a ciò che fino a quel momento aveva solo vagamente intuito e a cui si era sottratto, ossia accettare la verità circa le sue origini. Ma questo passo indietro compiuto da Freud caratterizza in realtà tutto il metodo psicoanalitico, che si costituisce come una sorta di ‘archeologia del soggetto’ (secondo una felice espressione di Ricoeur), nella passione per il sempre anteriore. Emblematicamente è la parola ‘passato’ che chiude il capolavoro di Freud, L’interpretazione dei sogni13 ed è sempre questa parola che esce per ultima dalla penna di Freud, quando nel riparo londinese si dedica a redigere l’ultimo suo scritto, il Compendio di psicoanalisi.14 L’ermeneutica freudiana, così come si delinea nella lettura del mito di Edipo, ma anche più in generale nell’interpretazione delle opere letterarie e dei prodotti culturali della vita psichica, procede sempre prendendo a modello l’esegesi dei sogni, estendendo la chiave di lettura dell’appagamento del desiderio per decifrare le dinamiche intrapsichiche che presiedono la produzione degli oggetti artistici. Il percorso è sempre regressivo e ci conduce 12 Per il complesso di Edipo nell’interpretazione di Freud, si veda soprattutto S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Freud Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1966, vol. III, tr. it. di E. Fachinelli e H. Trettl, pp. 242-245. 13 «Il sogno, mentre ci rappresenta un desiderio come realizzato, ci porta verso il futuro; ma questo futuro, che il sognatore considera presente, è modellato dal desiderio indistruttibile a immagine di quel passato» (ivi, p. 565). 14 S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, p. 634.

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E LA DOMANDA DELLA

SFINGE

agli arcaismi infantili che sarebbero alla radice delle espressioni poetiche, svelando meccanismi analoghi a quelli in atto nel lavoro onirico. Eppure il racconto mitico, così come la simbolica che ad esso soggiace e che è momento sorgivo della poiesis artistica, non contengono in sé solo le tracce dell’arcaico, ma portano a espressione una tensione che può condurci fuori dalla ripetizione del passato e dalla proiezione di uno schema emotivo sempre uguale, per fornire una direzione di senso aperta al gioco dei segni del futuro.15 Anche nel mito di Edipo, dunque, accanto a un’ermeneutica regressiva, che esplora l’enigma delle origini, è possibile articolare una diversa pista interpretativa, garantita dalla densità di senso e dalla plurivocità simbolica, che mostra un andamento progressivo, sostenuto e direzionato dalle istanze ‘diurne’ della natura umana. La tragedia di Edipo è anche la tragedia dell’autocoscienza, in cui viene fatta esperienza del limite e in cui si apprende, attraverso il patire (pathei mathos) la distanza dell’umano dal divino. La colpa di Edipo non è solo connessa alla libido e radicata in profondità ancestrali. È anche una colpa ‘adulta’, implicata nella violazione non tanto del tabù dell’incesto, quanto dei limiti assegnati all’uomo. Questa hybris, che dà inizio alla tragedia, è anche il punto di avvio del lavoro della verità e del percorso promosso dal detto ‘Conosci te stesso’ con cui l’oracolo indica all’uomo la strada dell’autoconsapevolezza. Il rovesciamento dei ruoli tra Edipo e la Sfinge, proposto da Fachinelli, conserva intatto il senso della domanda che, oggi come allora, ripropone l’enigma dell’uomo. Alla domanda: ‘Chi sono io?’ non ci sono risposte già formulate, non c’è una decifrazione univoca del senso del nostro esistere. Edipo, da questo punto di vista, rappresenta l’ambiguità e la contraddittorietà dell’uomo, di ogni uomo, nell’inestricabile commistione di innocenza e colpevolezza, di slancio e di presunzione, di aspirazioni e di conflitti. Ma, appunto, solo affrontando questa problematicità, restando nel buio e nell’incertezza della domanda, possiamo assumere consapevolezza della condizione umana, dove ciascuno è chiamato a rispondere di persona al problema di come essere pienamente uomo. L’identità personale non è 15

Mi richiamo in questa argomentazione allo studio di P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, 1965, tr. it. di E. Renzi, Il Saggiatore, Milano 1966. Mi sembra degno di nota il fatto che questo volume sia stato posseduto Fachinelli non solo in tr. it., ma anche nella versione originale, come dimostra il catalogo della sua biblioteca personale. Il lascito si compone di ben 3.072 volumi, donati al Comune di Luserna, paese natale di Elvio Fachinelli. Sono stati catalogati, a cura del Servizio Biblioteche della Provincia Autonoma di Trento, da M. Conci e sono a disposizione di chiunque desideri consultarli, presso la Biblioteca del Comune di Luserna.

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mai data. L’oracolo non dà mai una soluzione, ma solo segni da decifrare (semainein). L’enigmaticità dell’oracolo indica l’enigmaticità del mondo, così come Edipo raffigura l’enigmaticità dell’uomo a se stesso. La sua ricerca è incerta, ambigua. Infatti, di fronte alla risposta vaga dell’oracolo, che non gli fornisce spiegazioni circa ciò che effettivamente egli cercava (ossia la verità sulla sua stirpe), Edipo non riformula la domanda, non si impegna a cercare la propria verità, ma disattende il motto di Delfi e fugge precipitosamente: fugge soprattutto da se stesso e così si perde. Aggira i segni, invece di fermarsi a decifrarli. Teme di conoscere fino in fondo il suo destino, che potrebbe mettere in forse i suoi privilegi. La tragedia si consuma perchè Edipo non vuole guardare fino in fondo il luogo oscuro da cui proviene. La prima scena di Sofocle rappresenta Edipo pieno di sé, che afferma con arroganza: «aut’egò fanó – io farò piena luce»16. È questa presunzione che gli impedisce di guardare con coraggio verso l’oscurità delle origini e di conoscere se stesso, accettando i vincoli del già stato, là dove affondano le radici dell’identità. Saper sostare nella domanda, mantenendo la sua radicalità, è la premessa di un autentico percorso di conoscenza di sé. Per questo Fachinelli chiede di tornare a una ‘psicoanalisi della domanda’ e propone una problematizzazione della pratica analitica. Se si leggono i suoi saggi teorici, scritti in quello stesso periodo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, si trova anche il quadro di pensiero che giustifica la sua diversa lettura non solo dell’Edipo, ma anche di altri capisaldi della vulgata psicoanalitica. Una rivisitazione che risponde sempre all’istanza di ripristinare il potenziale critico della psicoanalisi delle origini, quale «sapere inquietante, e sapere dell’inquietante».17 Si veda l’articolo apparso sul primo numero della rivista «Il Corpo» che propone la traduzione di uno scritto poco noto di Freud, La negazione (1925)18, a cui segue un commento dal titolo L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud19, in cui Fachinelli interpreta questo testo come una tappa significativa della elaborazione freudiana dell’istinto di morte. Collocato a metà strada tra Al di là del principio di piacere (1920), opera in cui viene per la prima volta enunciato il Todestrieb come elemento originario della vita psichica, e il Disagio della civiltà (1929), in cui Freud esplora il contraddittorio nesso tra progresso civile, sublimazione e tendenze aggressive che provocano l’intensificarsi del senso di colpa, il breve saggio La

16

Sofocle, Edipo re, v. 132. Così Fachinelli nella “Premessa” alla terza edizione del volume Il bambino, cit., 1979 (p. 5) 18 Ora in Freud Opere, cit., vol. X, pp. 195-201. 19 «Il Corpo», n° 1, marzo 1965, ora in Fachinelli, Il bambino, cit., pp. 16-29. 17

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negazione permette di cogliere le tappe dell’evoluzione del pensiero freudiano, che, pur in una sostanziale continuità, modifica progressivamente il quadro teorico della psicoanalisi a partire da nuove osservazioni cliniche. Il lavoro di Fachinelli sui testi freudiani si compie entro una direzione precisa, che rivela l’intenzione di approfondire una questione di più ampia portata, che inscrive la Verneinung nel campo della “coazione a ripetere”. Che l’obiettivo ultimo di Fachinelli sia questo, si evince dalla lettura di un secondo studio, pubblicato pochi anni dopo in tre parti successive sulla rivista “L’erba voglio” e in seguito edito nella sua interezza con il titolo «Il paradosso della ripetizione» nel volume Il bambino dalle uova d’oro.20 In questo testo viene in luce con chiarezza lo sfondo clinico entro cui Fachinelli medita e rielabora il patrimonio teorico della psicoanalisi freudiana, non disgiunto dal più ampio contesto storico e dai fermenti di rinnovamento culturale di quegli anni. Accanto a importanti chiavi di lettura per riesaminare la teoria freudiana nel suo insieme, che emergono anche da un confronto con lo strutturalismo, e in particolare con Lévi-Strauss e Lacan, Fachinelli propone una riflessione approfondita del fenomeno della ripetizione, che sta alla base non solo del processo del transfert, ma anche della coazione a ripetere. La ripetizione si caratterizza come fenomeno psichico estremamente complesso e ambivalente, che può manifestarsi in forma ‘utile’, quando permette di far rivivere il rimosso, consentendone una rielaborazione nel setting analitico all’interno dei processi del transfert. Ma (analogamente allo studio della storia per Nietzsche, che può essere utile o dannoso in riferimento al presente e alla vita) la ripetizione può essere dannosa quando si esprime come ‘transfert agíto’ e si sottrae alla rielaborazione e all’integrazione degli affetti sotto la guida del terapeuta – come il caso di Dora mostra in modo emblematico21 –. Insomma, è dannosa se si manifesta come ‘eterno ritorno dell’uguale’ senza comportare consapevolezza e cambiamento. La nozione di ripetizione, pur restando un concetto fondamentale lungo tutto lo sviluppo della teoria freudiana, amplia via via il proprio campo semantico, intrecciandosi, dopo il 1920, con l’analisi della coazione a ripetere. Fachinelli rileva come essa assuma sempre più nei testi di Freud un carattere unilaterale, esponendo solo il suo lato ‘cattivo’, ossia la sua modalità di pura replica o riproduzione del passato e degli schemi affettivo-relazionali. Lo sguardo di Freud, in particolare nelle ultime opere22, è 20

Si trova ora nella sua interezza nel volume Fachinelli, Il bambino, cit., pp. 212-247. S. Freud, Frammento di una analisi di isteria (caso clinico di Dora), in Freud, Opere, cit., vol. IV, pp. 299-401. 22 Fachinelli sottolinea il pessimismo di Freud nelle opere dell’ultimo periodo (cfr. Il bambino, 21

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SFINGE. UNA

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orientato da una visione pessimistica dell’esistenza che, in analogia con il pensiero di Sören Kierkegaard23, coglie solo «il lato cattivo della ripetizione, la ripetizione come replica o riduzione». Per questo «entrambi finiscono per ritrovare, sembrerebbe, la ripetizione del negativo, quella che richiama precisamente la morte propria e delle cose». In Freud il presente viene a essere soffocato dal passato e «in questo modo quasi non esiste di per sé, non incide; […] il reale presente sbiadisce di fronte al passato […] perché ne costituisce una semplice eco».24 In profonda sintonia con l’interpretazione di Paul Ricoeur, che rileva in Freud «una passione per il sempre anteriore», proponendo di integrare l’archeologia del soggetto con la dimensione teleologica progressiva, anche Fachinelli suggerisce di scoprire la complessità della nozione di ripetizione, cogliendo in essa anche la componente semantica della ‘ripresa’. Il presente certamente richiama vissuti ancestrali e schemi remoti che hanno improntato le nostre modalità comportamentali; però nell’affrontare una situazione attuale, si delinea anche la possibilità di riaprire i giochi. La ripetizione avviene anche sotto la spinta del desiderio di esporre la nostra organizzazione comportamentale a un possibile cambiamento. La tendenza a ripetere è ambivalente e in essa è presente un altro lato, in direzione teleologica, che segnala come il presente non sia sempre e solo ripetizione del passato, ma «parte in causa della ripetizione stessa; come un’alternativa che si apre – anche se spesso per chiudersi istantaneamente. Il “pessimismo” freudiano e kierkegaardiano riceve ogni giorno troppe conferme; non si tratta di negarlo, in nome di un euforico ottimismo verbale, sostenuto dai conforti di qualsivoglia ideologia; cit., p. 225). Ma parla anche più in generale del «pessimismo kiekegaardiano e freudiano» (ivi, p. 239), stabilendo un confronto puntuale tra i due autori, come vedremo tra breve. 23 Fachinelli prende in esame S. Kierkegaard (e in particolare Timore e tremore e La ripresa, ed. Comunità 1971: cfr. «Il paradosso della ripetizione» in Il bambino, cit., p. 237, nota 3), rilevando una stretta analogia con il pensiero di Freud: «[…] entrambi finiscono per ritrovare, sembrerebbe, la ripetizione del negativo, quella che richiama precisamente la morte propria e delle cose. Chiediamoci il perché di questa coincidenza. […] In entrambi i casi, il reale presente sbiadisce di fronte al passato, sia perché non riesce mai a sostituirlo (Constantius di Kierkegaard), sia perché ne costituisce la semplice eco (Freud). Ecco la ragione della coincidenza, pur nella radicale diversità delle premesse» (ivi, pp. 238-239). 24 Ibidem. Queste riflessioni preludono al percorso che Fachinelli compirà a partire dalla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, dove la sua ricerca si concentrerà sull’osservazione clinica e sui nessi tra rielaborazione teorica della psicoanalisi e ricadute sul piano della prassi terapeutica. La questione della ripetizione è osservata in connessione con l’analisi del tema del tempo in campo psicoanalitico. Tema caro all’A., a cui dedicherà riflessioni sempre più approfondite in stretta correlazione con le osservazioni cliniche. Si vedano, a questo proposito, i saggi E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di cancellare il tempo, L’erba voglio, Milano 1979 e Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicoanalisi, Adelphi, Milano 1983.

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E LA DOMANDA DELLA

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ma piuttosto di sciogliere la difficoltà concettuale e pratica, che impedisce di afferrarlo alla radice»25. Il presente costituisce dunque per la nostra storia personale – come per ogni storia del mondo – una alternativa possibile e permette che lo schema relazionale arcaico, se pure nella consonanza, venga ripetuto in modo differente. La ripetizione, come realtà ambivalente, espone sia alla cogenza della conferma, sia alla realtà del cambiamento. L’arte della domanda, da sempre coltivata dalla filosofia, insegna a saper colloquiare con la Sfinge, ma anche a saper affrontare il monito dell’oracolo delfico. Conoscere se stessi significa saper guardare verso il proprio passato più arcaico, consapevoli dalla vischiosità del già stato, e della tendenza alla ripetizione, all’eterno ritorno dell’uguale. Processo necessario, che porta ad accettare consapevolmente le proprie radici; orientato però da un senso e uno scopo, da un telos diurno che permette di abitare più serenamente il presente.

Bibliografia Fachinelli E., Muraro L., Sartori G., a cura di, L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, Torino 1970. Fachinelli E., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974. Fachinelli E., Intorno al ’68. Un’antologia di testi, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Massari, Bolsena (VT) 1998. Foucault M., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, 2001, tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003. Foucault M., Tecnologie del sé, 1982, tr. it. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Freud S., L’interpretazione dei sogni, 1899, OSF 3. Freud S., La negazione, 1925, OSF 10. Freud S., Compendio di psicoanalisi, 1938, OSF 11. Furedi F., Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, 2004, tr. it. di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 2008. Montanari M., La filosofia come cura. Percorsi dell’autenticità, UNICOPLI, Milano 2007. Mortari L., La pratica dell’aver cura, B. Mondadori, Milano 2006. Ricoeur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, 1965, tr. it. di E. Renzi, Il Saggiatore, Milano 1966. Rovatti P.A., La filosofia può curare?, Cortina, Milano 2006.

25

E. Fachinelli, Il bambino, cit., p. 239.

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Praticare il pensiero debole. Un colloquio con Gianni Vattimo, tra autobiografia e filosofia

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a cura di Francesco Azzolini e Carlo Brentari

Con la pubblicazione di Credere di credere (1996) l’itinerario speculativo di Gianni Vattimo ha subito una importante mutazione sia sotto il profilo stilistico che nei suoi contenuti. Come è noto, a partire dalla metà degli anni ’90 il filosofo torinese ha dato il via ad una nuova fase del proprio pensiero dedicandosi alla rilettura del Cristianesimo e all’interpretazione degli aspetti politici e giuridici del nichilismo nella sua accezione debole. In questa nuova fase Vattimo ha sposato uno stile di scrittura quasi sempre poco formale e poco accademico; le sue opere più recenti, oltre ad essere scritte in prima persona, sono composte da un insieme di articoli in cui trovano spazio moltissimi temi autobiografici e suggestioni di natura tradizionalmente non filosofica. Il cambiamento stilistico che accompagna il mutamento dei contenuti della filosofia di Vattimo ci parla del processo di autocomprensione dell’autore ma, soprattutto, ci parla della figura di intellettuale-filosofo che il teorico del pensiero debole immagina e vuole incarnare. La necessità di fare chiarezza su questi temi sembra essere divenuta già da tempo un problema piuttosto sentito dallo stesso Vattimo che, non a caso, aveva dedicato alla questione la parte conclusiva del volume Vocazione e responsabilità del filosofo (2000)1. In questo testo troviamo importanti punti di riferimento per sviluppare un’analisi intorno alla fase più recente dell’autore: Vattimo esplicita i motivi che stanno alla base di questa svolta facendo intendere quale dovrebbe essere il ruolo del filosofo nella società e, quindi, rivendica la legittimità della sua proposta di militanza filosofico-politica. Negli ultimi anni il crescente impegno giornalistico e politico dell’autore si è riversato sul piano teorico invadendolo e trasformandolo in modo

1

Cfr. G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo (a cura di F. D’Agostini), Genova: Il nuovo melangolo, 2000, pp. 107-125.

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significativo2. Anche sulla scorta di queste esperienze la proposta filosofica di Vattimo si è progressivamente lasciata contaminare da una miriade di elementi politici, problemi etici e religiosi venendo ad assumere un carattere radicalmente impuro ed eterogeneo. Si pensi, ad esempio, a pubblicazioni come Nichilismo ed emancipazione (2003) e Il socialismo ossia l’Europa (2004), per quanto riguarda la sfera della politica e del diritto, oppure a La vita dell’altro (2006), dedicato ai delicati temi della bioetica, per finire con Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era (2007) e Addio alla verità (2009), due testi dove speculazione filosofica, analisi e polemica politica risultano quasi completamente fuse in un unico discorso. In questo contesto già piuttosto variegato si inserisce non casualmente anche la stesura dell’opera autobiografica Non Essere Dio (2006). A questo punto tentare di ripulire il pensiero dell’autore da tutto ciò che non è considerabile filosofico in senso stretto risulterebbe un’operazione impossibile, nonché metodologicamente sbagliata: ogni sforzo in questa direzione comporterebbe una semplificazione eccessiva ed impedirebbe una piena comprensione della prospettiva dell’ultimo Vattimo. In primo luogo consideriamo l’immersione nell’attività giornalistica e nella politica come frutto di una spiccata esigenza di rapportarsi più concretamente con la quotidianità e i suoi problemi specifici. Ciò detto, va rilevato che, in questo caso, non si tratta di una mera mossa compensativa, ma di una vera e propria proposta filosofica. La continua commistione tra politica e filosofia che caratterizza gli ultimi scritti di Vattimo deve essere inquadrata come una conseguenza diretta di un modo non metafisico, bensì dialogico-argomentativo, di pensare l’esperienza della verità. Infatti, parzialmente in linea con la visione di molti degli autori che hanno effettuato il cosiddetto linguistic turn, anche la proposta del filosofo torinese si basa sulla convinzione che le uniche verità perseguibili siano quelle che hanno origine nel dialogo e nella prassi comune, e quindi nell’agire sulla scena politica in senso lato. Ne consegue l’idea – di certo non nuova, ma capace di sorprendere quanti hanno lungamente accusato il pensiero debole di propugnare un atteggiamento lassista e disimpegnato – che l’ingresso e la partecipazione dell’intellettuale-filosofo nella sfera pubblica non debbano essere intese come attività collaterali od opzionali al lavoro accademico. 2

Dal 1999 al 2004 Vattimo è stato eurodeputato al parlamento di Strasburgo per i Democratici di Sinistra e nel 2004 è stato ricandidato senza successo nelle fila del Partito dei Comunisti Italiani. Oggi Vattimo siede nuovamente al parlamento europeo come indipendente nelle fila dell’Italia dei Valori. Per quanto riguarda la sua attività di editorialista ricordiamo la sua collaborazione con La Stampa, L’Unità, Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, Clarin, El Pais.

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PRATICARE

IL PENSIERO DEBOLE.

UN

COLLOQUIO CON

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È interessante accostare a questo discorso l’idea di “ontologia dell’attualità”, un’idea che il filosofo torinese aveva ripreso da Michel Foucault già sul finire degli anni ’80 e che ultimamente ha utilizzato per descrivere la propria prospettiva. In aperta polemica con l’ontologia classica e con quella sperimentale, Vattimo mira a proporre un’ontologia alternativa che sia capace di porsi del tutto fuori da una prospettiva oggettivistica. Più esattamente possiamo dire che nell’ottica del nostro autore l’ontologia dell’attualità – intesa come un’ontologia che heideggerianamente accetta di svilupparsi dentro l’evento – non si limita ad analizzare il suo oggetto di studio, ma deve necessariamente interagire con esso ponendosi l’obiettivo esplicito di modificarlo. Chi scrive crede che tutta la produzione recente di Vattimo, e soprattutto gli articoli di Ecce comu, vada compresa in questa prospettiva ontologico-militante, pena una lettura limitata e distorta dei significati impliciti ed espliciti di quegli scritti3. Alla luce del suo recente e inusuale approdo al Marxismo e tenendo ben presente il contesto entro cui Vattimo ha portato avanti la riflessione intorno al concetto di ontologia dell’attualità e alla questione della “filosofia militante”, possiamo dire che il suo pensiero si è avvicinato sensibilmente a quella modalità di praticare la filosofia che è stata propria di una parte della tradizione marxista e che solitamente va sotto il nome di “teoria concreta” (o “filosofia concreta”)4. Siamo dunque di fronte ad un tentativo, volutamente ben poco ortodosso, di ripensare e riproporre con forza il problema permanente del Marxismo circa il rapporto tra teoria e prassi. Del resto anche per Vattimo – che non è mai stato pienamente marxista – l’articolazione di questo rapporto rappresenta uno dei temi più sentiti e frequentati. Da sempre il teorico del pensiero debole rifiuta nettamente l’idea di lasciare riposare il discorso filosofico su un piano di completa astrazione e si spende per una sua traduzione in pratica. Su queste basi oggi Vattimo propone una filosofia che, senza lasciarsi cadere in una prospettiva post-filosofica, accetta di mettersi al servizio del vivere quotidiano e vuole rendersi strumento di una concreta emancipazione. Se è vero che il discorso vattimiano, a causa delle sua estrema ramificazione, ha perso precisione e rigore da un punto di vista teoretico, va però rilevato che il suo pensiero pone il lettore di fronte ad una serie di elementi che non 3 Per una spiegazione più approfondita dell’interpretazione vattimiana dell’ontologia dell’attualità si rimanda a G. Vattimo, Dalla fenomenologia a un’ontologia dell’attualità in G. Chiurazzi, (a cura di), Pensare l’attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo, Milano: Bruno Mondadori, 2008, pp. 173-179. 4 Su questo punto si rinvia anche a F. D’Agostini, Dialettica, differenza, ermeneutica, nichilismo: le ragioni forti del pensiero debole in G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo, cit., p. 41.

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sono certo estranei alla pratiche filosofiche e che, almeno implicitamente, sembrano in grado di aprire interessanti prospettive in quella direzione. Prima di tutto va posto l’accento sul dato biografico che, a partire dalla metà degli anni ’90, si è fatto largo in diversi modi nelle opere dell’autore. Come abbiamo già detto, la proposta di Vattimo si costruisce in larga parte instaurando un legame di interdipendenza e complementarità tra lavoro teorico ed esperienza quotidiana, ponendosi come obiettivo principale un ripensamento del ruolo dell’intellettuale all’interno della sfera pubblica. Dall’altro lato, si prende atto dell’aumentata presenza di elementi puramente biografici, cioè di elementi che fanno parte di un vissuto strettamente personale. La già citata opera autobiografica Non Essere Dio sembra rientrare appieno nell’ottica che pensa la ricostruzione del proprio passato non nei termini di un esercizio letterario fine a se stesso, ma come un’importante possibilità di autocomprensione e autointerpretazione del proprio presente intellettuale e privato5. Su questa linea sembra svilupparsi anche gran parte dell’intervista che qui si propone: eventi storici e momenti privati si intersecano a più riprese con la riflessione filosofica, il sentimento religioso, le tensioni etiche e la passione politica andando a formare un racconto unitario che è destinato ad essere nuovamente reinterpretato. In seconda battuta non pare troppo azzardato immaginare un possibile, anche se probabilmente solo generico, ricorso ai concetti cardine del pensiero debole – consumazione delle nozioni di verità ed oggettività, moltiplicazione delle Weltanschauungen, politeismo e interscambiabilità dei valori, ironia verso se stessi, predilezione della caritas sulla veritas, ecc. – all’interno di diversi campi d’azione delle pratiche filosofiche, specialmente quelle che mirano, come il counseling, ad una chiarificazione razionale dei contesti e a un aiuto alla persona nella ricerca di senso6. Un’eventuale trasposizione di questi concetti sia sul piano della vita pubblica sia sul piano dell’esperienza individuale dovrebbe avere come obiettivo primario l’avvio di un

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È bene sottolineare che questa operazione di ricostruzione, anche se realizzata a quatto mani (con Piergiorgio Paterlini) sulla base di sedute periodiche registrate, resta ancora tecnicamente piuttosto distante da una pratica come l’analisi biografica a orientamento filosofico. Circa il metodo di lavoro e le finalità dell’analisi biografica a orientamento filosofico si rinvia a R. Màdera, Che cos’è l’analisi biografica a orientamento filosofico? in C. Brentari, R. Màdera, S. Natoli, L.V. Tarca (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano: Bruno Mondadori, 2006, pp. 81-103. 6 A sostegno dell’idea dell’esistenza di una certa vicinanza tra il pensiero debole e la consulenza filosofica si è espresso anche Pier Aldo Rovatti, già co-curatore del volume collettaneo Il pensiero debole (1983). Cfr. T. Possamai, “Un’intervista con Pier Aldo Rovatti”, in «Phronesis. Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche», IV, n° 6 (2006), pp. 94-95.

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liberatorio processo di dissoluzione degli assoluti metafisici che, secondo il filosofo torinese, impediscono di vivere positivamente gli esiti della riflessione nietzscheana e heideggeriana sulla “morte di Dio” e sulla “fine della metafisica”. Nella prospettiva del pensiero debole, l’impossibilità di comprendere e governare razionalmente tutto il reale, la grave difficoltà nel dotarlo di significati universalmente valevoli, la perdita di punti di riferimento stabili e assoluti, non sono più percepiti negativamente, ma rappresentano il punto di partenza per progettare e praticare con ironia percorsi di emancipazione e realizzazione personale e politica. A partire da queste premesse l’uomo contemporaneo può intendere la condizione postmoderna non più, o comunque non solo, come fonte di nevrosi, ma soprattutto come momento di una potenziale liberazione che si concretizza in un nuovo modo di rapportarsi con la questione dell’individuazione del senso dell’agire quotidiano e, più in generale, del senso dell’esistenza. Ricordiamo che il pensiero debole, come era stato concepito originariamente, lavorando quasi esclusivamente in modo critico-distruttivo, si presentava nei termini di una proposta pratico-filosofica formale, cioè non contenutistica. Anche durante questo colloquio si torna più volte a sottolineare il carattere negativo della teoria dell’indebolimento e, citando un celebre passo di Wittgeinstein, si ricorda che “tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli”. Dunque non si suggerisce l’assunzione di specifici significati né di determinati stili di vita; l’obiettivo è invece quello di porre le basi per restituire la capacità di caricare di significato le diverse modalità di stare nel mondo. Quindi, pur essendo cosciente della contingenza storico-culturale di ogni riferimento valoriale e di ogni presa di posizione (etica, politica, religiosa), il filosofo torinese chiede di cogliere appieno la sfida del nichilismo e di sfruttare al massimo la libertà di interpretare che una certa lettura del pensiero di Nietzsche e Heidegger è riuscita a mettere in chiaro. Attraverso il suo impegno pubblico da un lato, e l’apertura autobiografica dall’altro, l’ultimo Vattimo ha voluto rinnovare, esemplificandolo, questo invito a vivere compiutamente il nichilismo come (unica) chance positiva. In questo modo diviene possibile liberarsi sia da un approccio di tipo metafisico assoluto alla questione del senso sia dal rischio di rimanere impantanati in una sorta di relativismo immobilista. La pubblicazione del volume collettivo sul pensiero debole fu seguita da una lunga polemica sulla presunta incapacità di quella prospettiva di incidere sulla realtà e sul suo presunto disimpegno politico. In qualche modo quel volume chiedeva di voltare pagina rispetto a quello che era stato il Marxismo nel Novecento sia a livello teorico sia a livello pratico, al

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contempo però voleva farsi carico delle istanze di emancipazione che in quella tradizione risiedevano. È d’accordo? Direi di sì. Se io devo ricostruire il mio atteggiamento politico in quel momento era quello che allora qualcuno chiamava l’autonomia, una sorta di post-Sessantotto deluso dall’organizzazione e dalle illusioni leniniste della rivoluzione. Io non avevo mai creduto tanto a quel tipo di rivoluzione perché implicava dal punto di vista della costruzione della soggettività una sorta di prosecuzione delle vecchie strutture repressive del Comunismo classico. Mi ricordo che uno shock per molti di noi che credevano largamente nella possibilità di trasformare profondamente la società italiana era stato nel 1977 l’omicidio di Carlo Casalegno (allora vicedirettore de “La Stampa” nonché padre di un noto esponente di “Lotta Continua”). Quell’evento ha dato luogo a tutta una riflessione sulla violenza che per molti è diventato un limite, un paletto etico da non superare. Non si proponeva un ritorno all’ordine puro e semplice, ma una sorta di atteggiamento apolitico attivo, un ritiro su una specie di Aventino, una scelta di non collaborazione col sistema stando ai margini. E questa era l’intima ispirazione, se posso pensarla in termini etico-politici e anche religiosi, dell’epoca. C’era questa ispirazione diciamo riduttivista di opporsi alla volontà di potenza, alla volontà di vivere a tutti i costi, e aveva questa specie di coloritura politico-sociale che effettivamente non era una sorta di “ritiro da tutto”. In quella situazione l’unica via d’uscita era quella di ridurre le pretese di influenza del pensiero sulla realtà. Effettivamente in quel senso il pensiero debole riconosceva una propria debolezza di efficacia storica, come se dicesse “non ce la sentiamo di partecipare alla rissa in questo momento, però ce ne tiriamo fuori polemicamente”. Questa era l’idea di autonomia che Toni Negri reinterpretava in modo un po’ più attivo. Ne facevano un po’ di tutti i colori: svaligiavano i supermercati, facevano la spesa proletaria, etc. A me non sembrava una violenza tanto grave, ma metteva in ogni caso contro le forze dell’ordine e quindi esigeva poi degli scontri. Quindi semmai l’autonomia per me era più rappresentata dall’esperienza delle comuni, uno starsene per i fatti propri tentando di sfiorare il meno possibile il sistema. C’era dunque un proposito emancipativo – forse legato anche all’idea gandhiana della non violenza – che però non veniva immediatamente tradotto in una proposta programmatica. Si aveva un po’ tutta questa mentalità della riduzione delle superfici di shock, anche perchè ci eravamo convinti che non c’era niente da fare: la rivoluzione non sarebbe mai riuscita. Un po’ perché l’altra parte era più forte, un po’ perché molti di noi non avevano

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voglia di vedere scorrere il sangue. Mi dispiace la violenza, psicologicamente preferisco evitarla, e soprattutto sono convinto che tatticamente, strategicamente, non porta a niente se non ad un aumento della repressione. Bisogna inventare delle forme di azione dannose al sistema ma non sanguinarie.

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Come può spiegare il passaggio dall’idea di emancipazione, per certi versi simile a quella marcusiana, che Lei aveva avanzato ne Il soggetto e la maschera (1974) a quella del pensiero debole? Adesso queste due posizioni le vedo abbastanza connesse, perché anche quell’idea un po’ marcusiana della liberazione del simbolico era un’idea abbastanza debolista. Certo, Marcuse aveva avuto sicuramente tra i suoi cultori anche le Pantere Nere, ma fondamentalmente lui stesso non si era mai pronunciato per una prospettiva rivoluzionaria attiva. L’idea era piuttosto quella di sgretolare la società capitalista dall’interno, ad esempio vivendo di rifiuti. Io in quegli anni ogni tanto andavo negli Stati Uniti; quando andai a Santa Cruz mi resi conto che lì si può veramente vivere ai margini: gli avanzi sono abbondanti e per lo più in buono stato, il clima è ottimo, non occorre quasi mai avere un cappotto, piove poco… Io ne Il soggetto e la maschera speravo che una simile condizione potesse essere istituita dalla rivoluzione proletaria. Il proposito principale di quel saggio era quello di mettere insieme la rivoluzione borghese di Nietzsche con le forze trasformative che venivano dal movimento del proletariato. E questo era molto polemico anche nei confronti dell’etica ufficiale sovietica. Tra la pubblicazione de Il soggetto e la maschera e la fine degli anni settanta ho capito, attraverso la conoscenza diretta di alcuni allievi che erano implicati dentro il movimento terroristico, che il rivoluzionario professionale leninista non sarebbe mai potuto essere l’oltreuomo nietzschiano. Questo mi ha condotto a rivedere un po’ la speranza nella rivoluzione, e quindi ho sviluppato l’idea di una forma di emancipazione per sottrazione. Ancora una volta abbiamo a che fare con una specie di preferenza del debolismo per il negativo e questa preferenza dipende anche dalla mia lettura del cristianesimo. Durante le conferenze che tenevo negli anni ’80 ripetevo spesso che il demone socratico dice quello che non si deve fare, non quello che si deve fare; e questo era un altro modo di spiegare la negatività del pensiero debole. Questo non si poneva nei termini di una costruzione positiva, ma piuttosto lavorava in modo critico-distruttivo. Mi viene in mente una frase di Wittgenstein che dice: “Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli”. Insomma, la filosofia non ci può mai dire cosa fare, ma ci può aiutare a liberarci delle verità metafisiche.

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Recentemente è tornato ad esplicitare delle posizioni apertamente marxiste rideclinando il pensiero debole nei termini di un “pensiero dei deboli”. Questo è il segno che la prospettiva del pensiero debole oggi non è più adeguata e necessita di un’integrazione? Durante la mia esperienza al parlamento europeo talvolta mi è stata posta la domanda “ma scusa, tu, come politico, col pensiero debole, cosa proponi?”. Per un periodo ho soprattutto sottolineato il carattere negativo della proposta, cioè suggerivo di post-modernizzare i programmi politici eliminando le componenti metafisiche. Effettivamente, quello che potevo fare da debolista era, per esempio, lottare contro le pretese vaticane di impedire la fecondazione assistita sulla base di una presunta legge naturale oppure tentare di contrastare la concezione dell’economia politica come scienza naturale. Tutto questo mi sembrava un buon prodotto del pensiero debole poiché distruggeva gli idoli in cui la nostra società è imbragata. Insomma, sul piano dell’azione politica ero portato a spiegare il pensiero debole come un pensiero critico nei confronti di tutte le rigidità etico-politiche-filosofiche che impediscono una umanizzazione del mondo e della società. A partire da qui si apre un’altra questione che per me ora è fondamentale, e cioè la riflessione sul perché della metafisica: perché noi pensiamo metafisicamente? Su questo punto mi sento oggi più nietzschiano che heideggeriano. Ciò che sostiene Heidegger lo ritroviamo più rozzamente detto in Nietzsche: la metafisica è il pensiero dei forti contro i deboli, è la volontà di imposizione. A partire da questa idea sono diventato una sorta di teorico della metafisica intesa come discorso strettamente legato al potere. Conseguentemente è inutile dire che dobbiamo cercare di uscire dell’oggetivismo metafisico del pensiero, noi dobbiamo cambiare la struttura di potere della società. Quindi perché un “pensiero dei deboli”? Qui c’entra molto il Benjamin delle Tesi sulla filosofia della storia: tu hai un dovere di vendicare, di dare la parola a quelli che sono stati tacitati. E questo è un discorso di amore del prossimo, perché non è detto che quelli che hanno sempre taciuto nella storia avessero delle cose meno interessanti da dire di quelli che hanno parlato. Allora io rifiuto la metafisica non perché è oggettivamente falsa, ma perché da un punto di vista pratico risulta oppressiva rispetto ad un gruppo di cui sento di far parte. Se non fossi un semi-proletario non avrei ragione di preferire l’anti-metafisica alla metafisica. È un meccanismo di questo genere che spinge il pensiero debole a diventare un pensiero dei deboli: il pensiero debole si rende conto che quella metafisica contro cui si sente impegnato a combattere è il pensiero dei forti, è il pensiero dei dominanti. Se il pensiero debole vuole stare fuori dalla metafisica non è perché vuole pensare l’essere

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in maniera più veritiera, ma perché vuole pensare all’essere in termini di esistenza umana più aperta e più progettuale. E questo lo fanno i deboli, i ricchi stanno tranquilli dove sono.

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In che misura queste sue posizioni poggiano su valutazioni di tipo etico? In fondo molte delle teorie del postmoderno sembravano prendere le mosse da un rifiuto anche etico della modernità storica e filosofica. Uno dei pungoli che ho avuto costantemente dagli anni ottanta in poi sono state proprio le domande di carattere etico. Questo anche perché molti hanno letto il pensiero debole come se fosse guidato dall’idea “Dio è morto, dunque tutto è permesso”, come se fosse un cedimento etico rispetto al neo-capitalismo. Non è così. Il pensiero debole, lavorando per una liberazione dalle verità metafisiche, lavora in nome della carità intersoggettiva. Ho sempre pensato che, per esempio, le parole d’ordine della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità, potevano essere messe in pratica con maggiore efficacia da un pensiero debole che da una metafisica forte. Questa posizione si spiega anche in virtù della mia permanente vicinanza col Cattolicesimo, che ancora oggi non so come misurare. Io credo che soltanto con un’interpretazione debolista del cattolicesimo si possa liberare il terreno per applicare la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Invece l’insegnamento delle gerarchie ecclesiastiche è sempre stato: caritas, ma prima di tutto veritas. Ebbene io penso che si possa essere cristiani rovesciando questo rapporto, cioè ponendo prima di tutto il principio della carità. Ciò che limita gravemente la libertà, l’uguaglianza, la fraternità verso l’altro, è l’ostacolo costituito dall’imposizione delle verità metafisiche. Questo ostacolo si presenta anche sotto forma di atti di potere, perché metafisica e potere sono la stessa cosa. E il tentativo del papa di obbligare ad una certa condotta sulle questioni eticamente sensibili è una conferma del nesso che lega il pensiero metafisico alla volontà di imposizione. La capacità di scegliere un valore, di prendere una parte, pur restando nella prospettiva del pensiero debole può essere considerata come il terreno su cui misurare la capacità del singolo di vivere il nichilismo in modo compiuto? Ovvero: è possibile interpretare il pensiero debole come una sorta di piattaforma da cui partire per praticare quella libertà di interpretazione che è propria dell’Übermensch nietzscheano? Quando mi sento liberato dalla verità assoluta posso scegliere di stare con gli operai piuttosto che con i capitalisti. È proprio arbitrario. È come decidere tra gli spaghetti al pomodoro e quelli con le vongole. Se preferi-

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sco stare con una classe o con un partito io lo giustifico, ma mai in base all’assoluto; lo posso invece giustificare storicamente: dato che mio padre faceva il poliziotto, veniva dal sud, ho meno soldi di quelli che vanno a fare shopping in Via della Spiga, etc. allora scelgo di stare con una parte piuttosto che con un’altra. Non chiedetemi di più. Si potrebbe obiettare che questa è “solo” un’interpretazione. Appunto! Sennò cos’è? Io argomento storico-culturalmente, penso che all’interno della situazione in cui mi trovo la scelta più ragionevole per me è quella di scegliere un partito di sinistra, vivere nel mondo occidentale, etc. In questo senso il nichilismo può essere inteso come base per una scelta positiva di valori, ma i valori che scelgo positivamente sono sempre storicamente dati. È un po’ come l’etica kantiana: non dice quello che devi fare, devi fare quello che ti si presenta sul momento solo come valore, come bene e non come vantaggio, ma i contenuti cambiano in continuazione. In questo modo quindi assumo degli impegni storici molto più francamente di quanti ne assumerei se fossi un metafisico per cui il principio etico non cambia mai. Dato che i valori che mi si presentano come assoluti sono in realtà solo dei falsi assoluti, io mi impegno per dei valori che so che sono puramente storici, ma, in realtà, mi impegno in quel senso per solidarietà. Io faccio delle scelte storico-solidaristiche, non metafisico-assolute. E questo, in effetti, implica un’apertura anche in direzione della costruzione di valori, dalla produzione di simboli: sono finalmente libero di inventarmi dei modi di vita, degli stili di vita. Ho riconosciuto il carattere provvisorio dei cosiddetti valori eterni, ho riconosciuto che la metafisica è solo un gioco di potere. Una volta riconosciuto questo, sono aperto a giocare anche nell’area del potere. Io non sono assolutamente contro la guerra, devo solo scegliere che guerra fare. Sto coi deboli anche perché io sono debole e, in quanto debole, ho capito il rapporto che sussiste tra potere e metafisica. Scoprire che la metafisica è un gioco di potere è una caratteristica dei deboli: è la classe operaia, la classe proletaria che capisce la verità della storia, perchè non avendo niente da difendere riesce a vedere le cose come sono. Io faccio – detto un po’ brutalmente – soltanto delle scelte di classe. Siccome non credo più in assoluto al criterio del vero e del falso, alla ragione umana con la R maiuscola, scelgo di stare dalla parte di quelli con cui sono storicamente legato. Il difficile per un pensiero non metafisico è riuscire ad essere fedele alla propria vocazione storica senza assolutizzarla al punto da voler distruggere le altre. Ovviamente anche chi non pensa in modo metafisico è portato a scontrarsi con quelli che non la pensano come lui, ma secondo me ha più probabilità di rispettare le altre posizioni.

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Nella presentazione al volume introduttivo alle sue opere complete in corso di pubblicazione Lei scrive che «la politica che il “debolismo” e l’ermeneutica vogliono ispirare è radicalmente realistica, fino agli estremi del machiavellismo». Può precisare in che senso ritiene possibile intendere la sua adesione al marxismo come una posizione politica realista e pragmatica? Partiamo dal fatto che scelgo la parte con cui si stare non in base al fatto che è la parte più buona, più giusta, più vera, ma in base al fatto che è quella in cui mi sento più immediatamente spinto. Questa è una posizione pragmatica nel senso che non ha limiti di tipo etico assoluto che non sia la solidarietà con gli altri; tra l’altro è solidarietà con una classe che ha il vantaggio di essere la classe non classe. In un certo senso Marx aveva ragione circa il Gattungswesen, l’essenza generica del proletariato. Il proletariato non ha collocazione, non ha quasi niente, soltanto la capacità di riprodursi. Quindi è una scelta totalmente pragmatica, totalmente dipendente dagli interessi di quelli con cui sto. Però gli interessi di quelli con cui sto non sono astrattamente universali, ma tendono ad universalizzarsi. È un’universalità che parte da una appartenenza, l’appartenenza non ha limiti perché è come stare con un gruppo che non è mai ben definito e chiuso: di fatto sono spinto ad allargare la comunità. Perché secondo Lei oggi non è sufficiente invocare semplicemente una diversa distribuzione della ricchezza, delle risorse del pianeta, maggiori diritti, in una prospettiva riformista ma è necessario tornare ad agitare lo “spettro del comunismo”? Prendiamo ad esempio la questione ambientale: secondo i calcoli preventivi pare che tra qualche tempo non ci sarà più acqua da bere, non ci sarà più aria pulita, etc. Questo è un problema universale o è un problema sindacale? Beh, prima di tutto è un problema sindacale, in un mondo dove non si può più respirare non camperò più nemmeno io. Per vivere in un mondo dove si può respirare devo fare una campagna per l’aria pulita. Questa campagna può avere successo solo se si eliminano gli agenti di inquinamento che sono legati all’iperproduttivismo capitalistico. Io desidero che la politica riformista abbia successo, ma non ci credo tanto avendo visto tutto quello che è successo fino ad adesso. Quindi idealizzo la possibilità di una trasformazione complessiva che mi sembra soltanto pensabile in termini comunisti, cioè in termini di abolizione della proprietà privata, socializzazione dei mezzi di produzione, socializzazione della nostra vita in tanti sensi.

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Una delle ragioni per cui credo di essere diventato comunista senza esserlo mai stato è la forza che hanno assunto i sistemi di controllo come Echelon di cui mi sono occupato quando ero eurodeputato. Oggi i sistemi di controllo sono talmente potenti che se non vengono messi nelle mani di un governo solidale, socialista, comunista, si rischia di aprire le porte ad una sorta di schiavitù. Quando Nietzsche sostiene che l’uomo del futuro o diventa un superuomo o diventa uno schiavo lo pensa certamente in termini mitologici, ma io credo che sia quello che sta accadendo oggi. Per una pura sopravvivenza abbiamo bisogno del Comunismo come programma politico di trasformazione radicale dei rapporti di proprietà e dei rapporti di potere. Può spiegare cosa intende oggi quando parla di “ontologia dell’attualità” e in che modo questa espressione è legata al Suo modo di concepire il ruolo dell’intellettuale-filosofo nella società? Negli ultimissimi tempi mi rendo conto di aver parlato meno di ontologia dell’attualità; quell’espressione era inizialmente un modo di sostenere che se voglio non dimenticare l’essere, non posso studiarlo come se fosse una struttura metafisica eterna, devo studiarlo come si dà nella mia contingenza. L’essere se non è struttura metafisica eterna è accadimento. “Ontologia dell’attualità” era anche il titolo di un’opera che volevo scrivere. Se a un certo punto ho scelto di non proseguire in questo progetto è perché mi sono posto il problema: dove la vado a cercare questa ontologia dell’attualità? Leggo grandi studi sociologici sul presente? Come costruisco una bibliografia? Una volta in Spagna durante un seminario all’Escorial l’avevo chiamata anche periodismo ontologico. Oggi preferisco mettere l’accento sul termine “attualità” rispetto al quello di “ontologia”. Questo dipende soprattutto dal fatto che si è affermata l’idea che l’ontologia sia una disciplina meramente descrittiva. Si crede che l’ontologia sia la descrizione delle cose come stanno, ma fare un’ontologia delle cose come sono mi sembra la cosa più vacua del mondo. Siamo di fronte a una sorta di ritorno all’ordine della filosofia attuale che dipende anche dal fatto che i filosofi devono trovarsi un lavoro: lo sviluppo dell’ontologia sperimentale che ho spesso criticato dipende anche da questa necessità pratica. Nell’espressione “ontologia dell’attualità” c’è sempre il pericolo che si abbia a che fare con una forma di osservazione oggettiva. In fondo ciò che distingueva l’approccio di Heidegger da quello della fenomenologia risiedeva nel fatto che lui si sente coinvolto nel gioco. Per me è questo il problema che

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continuamente si ripropone: come ontologo dell’attualità non posso essere un osservatore esterno? Io ritengo che quello che costituisce una possibile ontologia dell’attualità è anche il fatto di essere impegnato direttamente nella modificazione dell’accadimento dell’essere.

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Bibliografia D’Agostini F., 2000, “Dialettica, differenza, ermeneutica, nichilismo: le ragioni forti del pensiero debole” in Vattimo G., Vocazione e responsabilità del filosofo (a cura di D’Agostini F.), Genova: Il nuovo melangolo, pp. 11-44. Màdera R., 2006, “Che cos’è l’analisi biografica a orientamento filosofico?” in Brentari C., Màdera R., Natoli S., Tarca L.V. (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano: Bruno Mondadori, pp. 81-103. Possamai T., 2006, “Un’intervista con Pier Aldo Rovatti”, «Phronesis. Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche» IV, n. 6, pp. 71-97 http://www. phronesis.info/rivista/ph_6_IV_06.pdf. Vattimo G., 2000, Vocazione e responsabilità del filosofo (a cura di D’Agostini F.), Genova: Il nuovo melangolo. Vattimo G., 2008, “Dalla fenomenologia a un’ontologia dell’attualità” in Chiurazzi G. (a cura di), Pensare l’attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo, Milano: Bruno Mondadori, pp. 173-179.

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Appendice

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Messaggio del Presidente della Società Psicoanalitica Italiana

Questo Convegno in memoria di Elvio Fachinelli riapre lo studio sul suo contributo al pensiero psicoanalitico, caratterizzato da un profondo radicamento nel testo freudiano e da una capacità straordinaria di anticipazione di temi oggi oggetto della clinica. La sua traduzione dell’Interpretazione dei sogni e la sua analisi dell’area claustrofilica, delle comunicazioni non verbali all’interno delle relazioni precoci, sono indicatori di una polarità di grande valore euristico. Possiamo e dobbiamo imparare molto dal suo pensiero, ispirato dal desiderio di libertà profonda di un soggetto radicato nei vincoli dell’inconscio. In un momento sociale che sembra potere indebolire e mettere a tacere la capacità di interrogarsi sulle zone oscure del funzionamento psichico, il suo pensiero illumina la necessità di comprendere e trasformare l’inerzia al cambiamento che si attiva nella relazione analitica e nelle istituzioni, anche psicoanalitiche. Ringrazio gli studiosi che offrono a tutti noi questa opportunità. Stefano Bolognini

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Iniziative a Trento in memoria di Elvio Fachinelli

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Messaggio della Presidente della Commissione Cultura del Comune di Trento Micaela Bertoldi

Portare un saluto in questo convegno mi è gradito, per vari motivi. In primo luogo per esprimere pubblicamente l’apprezzamento per il lavoro serio di approfondimento e ricerca che il Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni Culturali conduce da anni, lavoro che ho personalmente avuto modo di constatare in più occasioni. Ricordo in particolare il percorso di riflessione “I filosofi e la città” che ha visto una fertile collaborazione tra Università e Comune di Trento quando ho potuto personalmente dialogare con l’intelligente proposta dei professori Nestore Pirillo e Maria Luisa Martini, organizzata insieme al Museo storico di Trento. In secondo luogo ho piacere di informare che sul nome di Elvio Fachinelli è stata richiamata l’attenzione della Commissione consiliare per la Cultura, Istruzione, Formazione permanente e Toponomastica del Comune di Trento. E ciò risulta essere merito del Convegno odierno, che offre l’occasione di una messa a fuoco della personalità di Fachinelli, figura di primo piano nel panorama culturale e politico italiano del secondo Novecento. Nella riunione del 5 marzo scorso ho riportato nella Commissione consiliare competente le indicazioni emergenti dall’intenso programma del Convegno stesso; è emersa con chiarezza l’importanza dell’apporto culturale di Elvio Fachinelli alla società del nostro tempo. Si è colta in particolare l’esigenza di una maggiore conoscenza diffusa dell’operato di illustri pensatori che hanno avuto i natali in terra trentina, che tuttavia risultano essere poco noti e soprattutto troppo poco valorizzati. Se si pensa alla capacità di Fachinelli di interagire da protagonista con il pensiero più avanzato a livello nazionale ed europeo, appare chiaro che egli si pone come un prosecutore di quella linea – proveniente dal Settecento, mai interrotta – di intellettuali trentini per origine, ma europei per importanza, del tutto inseriti nella rete internazionale di relazioni culturale/sociale: a smentita di qualsivoglia lettura del Trentino in chiave esclusivamente conservativa, di ripiegamento o chiusura su se stesso. La Commissione consiliare ha deciso con parere unanime di inserire il nome di Elvio Fachinelli nell’elenco di persone a cui la città potrà dedicare

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una via o una piazza, indicandone il profilo di medico e psicoanalista e riportandone le date di nascita e morte (1928-1989). Ci auguriamo così che anche questo piccolo atto, istituzionalmente significativo, possa concorrere a mantenerne il ricordo. Personalmente mi unisco a questo augurio sottolineando la forza politico-culturale dell’opera di Elvio Fachinelli. Ha mostrato l’importanza di cogliere nelle fasi della vita delle persone, ma anche nella dimensione più collettiva e sociale, le potenzialità connesse con i turbamenti emozionali e con le spinte provenienti dal disagio socio-esistenziale. Ci ha insegnato che sono fasi aperte a un possibile cambiamento, alla ridefinizione di nuovi assetti dell’io e della società. Sono situazioni di difficoltà, criticità e dolore che tuttavia possono preludere ad assetti più avanzati o, per meglio dire, forieri di realizzazione dell’identità stessa e delle aspirazioni individuali e sociali. Quello che ne deriva è quindi un messaggio fortemente positivo e penso che di positività ci sia bisogno, sia nel nostro vivere quotidiano sia nell’impegno formativo di quanti hanno responsabilità educative e di cura. Micaela Bertoldi

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Per una nuova edizione degli scritti di Elvio Fachinelli

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Una lettera di Lea Melandri

Purtroppo non mi trovo nelle condizioni di poter partecipare al Convegno in memoria di Elvio Fachinelli, da voi promosso e da me fortemente desiderato. Quando ne parlammo, più di sei mesi fa, ero convinta che l’intervento all’anca e la successiva riabilitazione sarebbero avvenuti in tempi compatibili con la mia venuta a Trento, ma così non è stato e mi scuso con tutti i partecipanti. Nel frattempo, come sapete, sono avvenuti altri imprevisti, riguardanti l’uscita presso l’editore Bollati Boringhieri delle Opere di Fachinelli, che mi hanno addolorato non poco, e di cui avrei voluto riferire a voce. Non potendo farlo, vi mando questa lettera rivolta, oltre che a voi, a tutti gli amici, conosciuti o sconosciuti, che saranno presenti in questi giorni all’incontro. L’idea di raccogliere in un unico volume gli scritti di Elvio mi è venuta una decina di anni fa quando, in occasione del Convegno a lui dedicato, che si tenne a Milano nello Spazio Gucciardini l’11-12 dicembre 1988, ebbi modo di constatare che, dei suoi cinque libri, alcuni erano di difficile reperibilità, altri decisamente esauriti. Con molta insistenza riuscii infine a far ristampare dall’editore Feltrinelli Il bambino dalle uova d’oro, e dall’Adelphi La freccia ferma. Ben sapendo che la dimenticanza in cui è caduto il pensiero di un ricercatore geniale come Fachinelli ha ragioni più profonde, legate alla cultura del nostro Paese, restia a cogliere i nessi tra individuo e collettività, infanzia e storia, psicanalisi e politica, non ho mai sottovalutato neppure l’incidenza che poteva avere, soprattutto per generazioni più giovani, il fatto di non vedere più in circolazione i suoi libri, e tanto meno iniziative che lo ricordassero. È per questo che, poco più di un anno fa, ho deciso di parlare della mia idea a Francesco Cataluccio, allora responsabile editoriale dell’editore Bollati Boringhieri, convinta che, per le Opere di Fachinelli, non potesse esserci collocazione migliore: accanto a quelle di Freud e di Jung. Nel momento in cui Cataluccio si è detto disponibile a portare avanti il progetto, ho creduto di aver finalmente realizzato un sogno coltivato a lungo, ma non nascondo neppure il fatto che a motivarmi in questa iniziativa ci sia

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stato anche un intento polemico nei confronti dell’editore Adelphi, Roberto Calasso, che, pur essendo stato nominato da Fachinelli nelle sue volontà testamentarie come ‘curatore’ dei suoi libri, non sembrava aver dato alcun seguito a tale consegna. C’è da aggiungere che, pensando all’Opera omnia, avevo in mente, oltre ai libri, la raccolta di tutti gli articoli, saggi, interviste usciti nel corso di oltre trent’anni, un materiale prezioso di cui esisteva già una traccia bibliografica nel libro Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, curato da Marco Conci e Francesco Marchioro (Massari editore, Bolsena 1998). Riconosco oggi che è stato imprudente avviare il progetto editoriale senza informare Calasso, con cui le eredi, Giuditta Fachinelli, Michela Mazzia e la sorella di Herma Trettl, avevano ancora contratti aperti per i tre libri editi dall’Adelphi. Avendo letto la lettera, inviata da Giuditta Fachinelli a Francesco Cataluccio, in cui venivano riportate le motivazioni addotte da Calasso per fermare la pubblicazione delle Opere, ho tuttavia ragione di pensare che non si sarebbe ottenuto in ogni caso il suo consenso. A parte il comprensibile risentimento per non essere stato messo al corrente del progetto, la contrarietà maggiore veniva ricondotta al fatto che, non essendo Fachinelli un pensatore “sistematico”, non avrebbe senso raccogliere i suoi scritti. Non era chiaro se questa affermazione fosse da riferirsi anche ai libri, ma sicuramente riguardava gli scritti sparsi, destinati pertanto a restare sepolti nelle biblioteche o negli archivi dei giornali. La mia opinione, formatasi nel corso di una ormai quarantennale frequentazione del pensiero di Fachinelli, è decisamente diversa. A parte il fatto non trascurabile che, stando al principio della ‘sistematicità’, non avremmo neppure le Opere di Freud, Nietzsche, Benjamin e altri grandi, in generale di tutti gli autori che fondano il loro pensiero sull’esperienza viva, relazionale, per quanto riguarda nello specifico la ricerca di Fachinelli ci sono dichiarazioni sue, inequivocabili, sia di contenuto che metodologiche: il tema del tempo, indicato fin dai suoi primi lavori come il filo conduttore che sarà poi mantenuto con una continuità sorprendente, e il concetto di ripresa, enunciato con chiarezza nei tre articoli pubblicati sulla rivista “L’erba voglio”, tra il ’71 e il ’73, e poi riuniti in un unico saggio, Il paradosso della ripetizione, nel libro Il bambino dalle uova d’oro, edito da Feltrinelli nel 1974, un libro che è, di per se stesso, una raccolta di scritti usciti precedentemente su riviste e collegati tra loro da brevi annotazioni in corsivo, che ne ricostruiscono il percorso. Nelle righe finali, Fachinelli scriveva: A questo punto non posso fare a meno di comunicare al lettore l’impressione che si è venuta chiarendo nel corso della stesura di questo articolo: che cioè quest’articolo sulla ripetizione sia esso stesso una ripetizione, e che le tre parti

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APPENDICE

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che lo compongono non siano capitoli di uno scritto, disposti in bell’ordine uno dopo l’altro, ma formulazioni reiterate dello stesso tema.

E poi, in conclusione:

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Mi affretto a sopprimere il (continua) che tenevo già pronto per collocarlo accanto alla firma, salvo riprendere il tutto in un’altra occasione o contesto.

A riprova di questo profilo che Elvio dà di se stesso, e a cui, pur con svolte, scarti, mutamenti, resterà comunque fedele, basti pensare al suo ultimo lavoro, La mente estatica (Adelphi 1989), che si apre con uno scritto, «Sulla spiaggia», già pubblicato in “Lettera Internazionale”, nel 1985, per concludersi con un ampio saggio su «Alcuni scritti di Freud e Lacan», definiti “antecedenti indispensabili”, rispetto ai capitoli centrali del libro, che aveva preferito “posporre per accentuare la cesura tra il prima e il dopo del percorso”. La raccolta degli scritti e delle interviste, pubblicati nel corso di oltre trent’anni su riviste, giornali, Atti di convegni, non fa eccezione. Intanto devo premettere che la quantità e l’interesse del materiale che è stato possibile assemblare sono stati di gran lunga superiori a quanto si pensava inizialmente, e questo grazie all’impegno della figlia di Elvio, Giuditta, e di altri amici che si sono appassionati alla ricerca, come Giovanni Niccoli, redattore della Bollati Boringhieri, a cui va il merito di gran parte del reperimento di scritti a me sconosciuti e di un ricco apparato di note, Marco Pappalardo, bibliofilo, grande estimatore di Fachinelli, Ambrogio Cozzi, Lamberto Boni. Ma ciò che più conta è che il risultato – un volume di circa settecento pagine, che avrebbe dovuto aggiungersi a quello contenente i cinque libri, già pronto per la stampa e ‘ibernato’, per così dire, negli archivi della Bollati Boringhieri, per il veto dell’Adelphi e per la mancata firma delle eredi, che evidentemente l’hanno fatto proprio – è una straordinaria narrazione che percorre trent’anni di storia italiana, visti da uno sguardo originalissimo e unico nel panorama culturale nostrano, quale era quello di Fachinelli, psicanalista attento, come pochi, ai movimenti sociali e politici. Ma, aggiungerei, anche una inedita ‘autobiografia’, per la puntuale, ricorrente riflessione che Elvio porta sulla sua pratica clinica, sul rapporto critico e controverso con la Società di Psicanalisi, sulla sua formazione, sui suoi maestri, le sue origini. Particolarmente interessanti sono, sotto questo aspetto, le numerose ampie interviste rilasciate nel corso del tempo, in coincidenza con l’uscita dei suoi libri o con le sue iniziative pubbliche. Ora, questa raccolta di scritti, nata, come ho detto, a posteriori per

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interesse e per iniziativa di chi, come me e altri, ha conosciuto e seguito la ricerca di Fachinelli in tutte le sue manifestazioni nel corso degli anni, non poteva essere nei pensieri dell’autore e quindi nemmeno nelle volontà testamentarie. Affidando a Roberto Calasso la cura dei suoi “libri” è evidente che il riferimento era agli unici libri pubblicati, per cui non si capisce con quale mandato e autorità l’editore Adelphi possa impedire la pubblicazione di una raccolta che va semplicemente ad aggiungersi e a completare l’opera di un pensatore originale proprio per la varietà e complessità del suo campo di osservazione, esteso, fuori da astratti dualismi – biologia/storia, individuo/società, ecc. – ai “nessi” che già esistono, come ha ripetuto spesso, tra un polo e l’altro, e che ancora hanno bisogno di essere esplicitati. Inutile dire che, dopo l’amarezza di veder ostacolato proprio da chi dovrebbe avere più che mai a cuore la memoria di Elvio Fachinelli un progetto che l’avrebbe restituita in modo degno, io continuerò, come ho fatto finora, a occuparmi del suo pensiero, che ha avuto tanta parte nella mia formazione umana e intellettuale, così come continuerò a insistere perché almeno il volume degli scritti sparsi sia pubblicato dall’editore che si è fatto carico, anche economicamente, della preparazione. Agli amici che sono presenti al convegno chiedo di condividere la mia preoccupazione e il mio impegno, convinta che un’azione collettiva di intellettuali, psicanalisti, estimatori della ricerca di Elvio Fachinelli, presso le eredi e l’editore Adelphi, possa portare questa triste vicenda editoriale a un esito meno distruttivo di quello che si è profilato. Ringrazio del paziente ascolto e auguro buon lavoro. Un caro saluto. Lea Melandri Milano 24 marzo 2009

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Gli Autori

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Francesco Azzolini si è laureato in Filosofia e Linguaggi della Modernità presso l’Università degli Studi di Trento con una tesi sul pensiero di Gianni Vattimo dal titolo Tra Nietzsche e Marx: Gianni Vattimo e il problema della liberazione. Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo, è ricercatore presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR a Roma. Già responsabile scientifico della Società Gruppo-Analitica Italiana (SGAI), presiede l’Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP), sezione dell’Institut des Hautes Etudes en Psychanalyse (http:// www.psychomedia.it/isap/index.html). Ha fondato e co-dirige l’European Journal of Psychoanalysis (www.psychomedia.it/jep). Insegna all’Instituto de Estudios Críticos di Città del Messico. Collabora a varie riviste culturali e scientifiche internazionali, come Lettre Internationale (edizioni tedesca, rumena, ungherese, spagnola, italiana), L’évolution psychiatrique, aut aut, Texte, Journal for Lacanian Studies. Tra i suoi libri più recenti: Dicerie e pettegolezzi (Bologna: Il Mulino, 1999); Un cannibale alla nostra mensa (Bari: Dedalo, 2000); Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi (Torino: Bollati Boringhieri, 2005), Mechta Lacana, in russo (San Pietroburgo: Aleteija, 2006); Accidia. La passione dell’indifferenza (Bologna: Il Mulino, 2008); con A. Molino, On Freud’s Tracks (New York: Aronson, 2008). Ha in preparazione un volume sulla gelosia per le edizioni Il Mulino, e un volume su Freud. http://www.istc.cnr.it/doc/curricula/94ENCURtot2.rtf. Carlo Brentari si è laureato in antropologia filosofica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha conseguito il dottorato in filosofia presso la Karl-Franzens-Universität di Graz (Austria). Attualmente è docente a contratto presso il Corso di Laurea in Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento e collabora con il Dipartimento di Scienze della Formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano Bicocca. Il suo campo di ricerca è l’antropologia filosofica, soprattutto in relazione ai mutamenti morali e socio-culturali sopravvenuti nel passaggio tra le società tradizionali e la modernità occidentale. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati L’io in persona. Per una teoria antropologica dell’identità personale moderna, Edizioni Unicopli, Milano 2003 e La nascita della coscienza simbolica. L’antropologia filosofica di Susanne Langer, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2007. Cristiana Cimino è psichiatra, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (IPA), membro dell’Istituto per gli Studi Avanzati in Psicoanalisi, co-editor in chief (insieme a Sergio Benvenuto) del Journal of European Psychoanalysis.

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GLI AUTORI

Tra i suoi lavori: “La psicosi e il continuo”, Rivista Italiana di Psicoanalisi, 1, 2003; “Il vuoto necessario”, Rivista Italiana di Psicoanalisi, 1, 2005; con Antonello Correale, “Projective Identification and Consciousness Alteration: a bridge between psychoanalysis and neuroscience?”, International Journal of Psychoanalysis, 89, 2005; “La costruzione del feticcio come fallimento nell’addomesticamento del Reale”, in Perversione, perversioni e perversi, ed. by Franco Scalzone (Rome: Borla, 2009). [email protected]

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Diego Coelli, nato a Rovereto, laureato in filosofia a Bologna e psicologia ad Urbino, psicologo, ricercatore e sperimentatore nell’ambito degli stati non ordinari di coscienza, sta concludendo la Scuola di formazione in psicoterapia transpersonale del dott. P.L. Lattuada a Milano. Marco Conci è medico (Firenze 1981), psichiatra (Roma UCSC 1986), psicoterepeuta e psicoanalista. È membro dell’Associazione di Studi Psicoanalitici di Milano, della Società Psicoanalitica Tedesca (DGP) e dell’International Psychoanalytical Association. Lavora a Monaco di Baviera e a Trento, dove insegna Storia della medicina nella Facoltà di Lettere e Filosofia. È inoltre condirettore dell’“International Forum of Psychoanalysis” e membro del comitato editoriale delle riviste “Contemporary Psychoanalysis” (New York) e “Psychoanalysis and History” (Londra). Francesco Conrotto è analista di training della Società Psicoanalitica Italiana, nella quale attualmente è il Segretario Nazionale del Training. La sua ricerca si è orientata soprattutto verso gli aspetti metapsicologici ed epistemologici della teoria psicoanalitica. È autore di numerosi articoli e saggi pubblicati in riviste italiane e straniere e in volumi collettanei. Inoltre ha pubblicato: Tra il sapere e la cura, Franco Angeli, 2000, Per una teoria psicoanalitica della conoscenza, Franco Angeli 2010, e ha curato la monografia della “Rivista di Psicoanalisi” dal titolo Statuto epistemologico della psicoanalisi e metapsicologia, Borla, 2006. Ambrogio Cozzi, psicoterapeuta, è membro della Sezione italiana della Scuola europea di Psicoanalisi (Sisep). Lavora presso la Asl n. 1 della Provincia di Milano. Ha collaborato con la cattedra di Psicologia sociale dell’Università di Padova e ha tenuto corsi di psicologia dinamica per la Regione Sicilia. È autore di numerosi articoli su riviste specializzate. Si ricorda in particolare il contributo al testo La cura della malattia mentale, Bruno Mondadori, Milano 1999. Anna Ferruta è analista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana; full Member dell’International Psychoanalytical Association; membro dell’European Editorial Board dell’International Journal of Psychoanalysis. Ha svolto le funzioni di Segretario Scientifico della SPI e di vicedirettore della rivista Psiche. Consulente e supervisore del lavoro terapeutico in istituzioni psichiatriche e strutture intermedie per pazienti gravi. Svolge la sua attività clinica di psicoanalista a

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GLI AUTORI

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Milano. Autore di volumi e articoli (I sogni iperrealisti. In: La forma segreta. Angeli, 1998; Une interprétation qui construit le sujet. In: Inventer en psychanalyse. Dunod, 2002; La psicoanalisi fuori dalla nicchia ecologica. In: Stati caotici della mente. Raffaello Cortina Editore, 2003; Pensare per immagini, Borla, 2005; I transfert. Cambiamenti nella pratica clinica. Borla, 2008; Cura e conoscenza. In: Conci M., Martini M.L. Freud e il Novecento. Borla, 2008.). Goffredo Fofi, saggista, critico teatrale, letterario e cinematografico, è stato tra i promotori di riviste che hanno segnato il Novecento: “Quaderni Piacentini”, “La Terra vista dalla Luna”, “Ombre rosse”, “Linea d’ombra”. Nel 1997 ha fondato la rivista “Lo straniero”, che dirige. Tra i testi pubblicati che documentano la ricchezza intellettuale dell’autore ricordiamo: Il cinema italiano: servi e padroni, 2.a ed. Feltrinelli, Milano 1973; L’immigrazione meridionale a Torino, Ed. ampliata Feltrinelli, Milano 1976; Capire con il cinema: 200 film prima e dopo il 68, Feltrinelli, Milano 1977; Ada Godetti, Diario partigiano (introduzione e note di Goffredo Fofi), 6. ed. Einaudi, Torino 1977; Maledetti giornalisti (insieme a Gad Lerner e Michele Serra), Edizioni e/o, Roma 1997; Sotto l’ulivo: politica e cultura degli anni ’90, Minimum fax, Roma 1998; Totò: storia di un buffone serissimo (insieme a Franca Faldini), Mondadori, Milano 2004; Perché l’Italia diventi un paese civile, Palermo 1956: il processo a Danilo Dolci, Presentazione di Goffredo Fofi, Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006; I grandi registi della storia del cinema: dai Lumière a Cronenberg, da Chaplin a Ciprì e Maresco Donzelli, Roma 2008; La vocazione minoritaria: intervista sulle minoranze, Laterza, Roma-Bari 2009; Introduzione a “Rocco e i suoi fratelli”: storia di un capolavoro, Minimum fax, Roma 2010. Romano Màdera è professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. In passato ha insegnato all’Università della Calabria e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Fa parte delle associazioni di psicologia analitica AIPA (italiana) e IAAP (internazionale), del Laboratorio Analitico delle Immagini (LAI, associazione per lo studio del gioco della sabbia nella pratica analitica) e della redazione della Rivista di Psicologia Analitica. Insieme a L. V. Tarca ha fondato i Seminari Aperti di Pratiche Filosofiche di Venezia e di Milano e la Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche “Philo”. Ha chiamato la sua proposta nel campo della ricerca e della cura del senso “analisi biografica a orientamento filosofico” formando la società degli analisti filosofi (SABOF). Tra le sue pubblicazioni: Identità e feticismo (1977); Dio il Mondo (1989), L’alchimia ribelle (1997); C. G. Jung. Biografia e teoria (1988); L’animale visionario (1999); La filosofia come stile di vita (con L. V. Tarca); Il nudo piacere di vivere (2006). Maria Luisa Martini, laureata a Padova in Filosofia moderna e contemporanea, si è dedicata allo studio del pensiero del Novecento e in particolare alla filosofia ermeneutica di Hans-Georg Gadamer. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia con una tesi sulla nozione gadameriana di orizzonte, pubblicata da Mursia (Orizzonte e linguaggio. I confini dell’esperienza del mondo nel pensiero di Hans-Georg Gadamer,

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GLI AUTORI

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Milano 2006). Docente di Filosofia e Storia nei licei, ha curato numerose pubblicazioni didattiche (collana I sentieri della filosofia, Torino, Paravia, 1992 e 1994; collana Analysis, Bologna, Zanichelli, 1996). Attualmente è professore a contratto di Filosofia del linguaggio e di Teoria e logica del dialogo presso il Corso di laurea in Filosofia dell’Università degli Studi di Trento. Dal 2007 è Consulente filosofica di Phronesis e nel 2008 è stata eletta componente del Direttivo nazionale. Ha aperto uno studio di consulenza a Trento, dove promuove le pratiche filosofiche con iniziative rivolte al territorio. Website: www.pratichefilosofiche.it. Lea Meandri, saggista, è una delle più autorevoli studiose dell’opera di Elvio Fachinelli, con il quale è stata redattrice della rivista “L’erba voglio” (1971-1978). Ha curato l’antologia L’erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Dal 1987 tiene corsi presso l’Associazione per una Libera Università delle Donne di Milano, di cui è stata promotrice. Tra i suoi numerosi lavori ricordiamo: L’infamia originaria, edizioni L’erba voglio, 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli 1988 (ristampato da Bollati Boringhieri 2002); Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001; Manuela Fraire e Rossana Rossanda, La perdita, a cura di Lea Meandri, Bollati Boringhieri, 2008. Nestore Pirillo insegna Storia della Filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento ed è collaboratore esterno della Rivista di psicoanalisi. Con Cecilia Albarella ha curato L’incognita del soggetto e la Civilizzazione, Napoli, Liguori, 1993, e la voce “Cultura” in Psiche: dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (a cura di F. Barale), Torino, Einaudi, 2006. Con Giuseppe Di Chiara è autore del testo Conversazione sulla psicoanalisi. Napoli, Liguori, 1997. Tra gli studi sulla storia della psicoanalisi si ricordano:” “Tra Weber e Freud: morale sessuale civile e medicalizzazione della condotta. Ancora un’etica dell’intenzione?” in Il corpo (a cura di C. Pancino), Marsilio, Venezia, 2000; “Filosofia e psicoanalisi: gli ‘accenni’ di Gramsci nei ‘Quaderni dal carcere’” in Con l’ali dell’intelletto: studi di filosofia e di storia della cultura (a cura di S. Bassi e F. Meroi), L. S. Olschki, Firenze, 2005; “Praticare la filosofia. Tra Croce e Freud: l’uomo primitivo e la psicoanalisi applicata” in Freud e il Novecento, (a cura di M. Conci, M. L. Martini) Borla, Roma, 2008; “Il perverso, la libertà e il male” in Perversione, perversioni e perversi (a cura di F. Scalzone) Borla, Roma, 2009. Neri Pollastri si occupa di consulenza filosofica dal 1998, e dal 2000 svolge la libera professione. Ha pubblicato due libri sulla materia, Il pensiero e la vita (Milano, Apogeo, 2004) e Consulente filosofico cercasi (Milano, Apogeo, 2007), e una ventina di articoli, due dei quali in lingua inglese (From Hegel to Improvisation. On the Method Issue in Philosophical Consultation, in José Barrientos Rastrojo (ed.), Entre Historia y Orientaciòn Filosofica, II vol., Sevilla, 2006, e Improvisation. A Method of Philosophical Consultation, in José Barrientos Rastrojo (ed.), Philosophical Practice. From theory to practice, Sevilla, 2006). Ha tradotto in italiano il libro di Peter Raabe Philosophical Counseling. È stato

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GLI AUTORI

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tra i fondatori di Phronesis - Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, della quale è Presidente dal 2005, e ne codirige l’omonima rivista. Dal 2005 insegna “Teoria e prassi della consulenza filosofica” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È coordinatore della collana “Pratiche Filosofiche” dell’editore Apogeo. È stato relatore alla 7th e alla 8th International Conference on Philosophical Practice (a Copenhagen e a Siviglia) ed è membro della Companionship internazionale fondata da Ran Lahav. Ha anche pubblicato alcuni studi in altri settori della filosofia, tra i quali il volume L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpetazione olistica del sistema hegeliano (Napoli, La Città del Sole, 2001). Website: www.consulenza-filosofica.it. Antonio Prete insegna Letterature Comparate nell’Università di Siena. È autore di saggi, narrazioni, poesie. Ha tradotto, tra gli altri poeti, Baudelaire (I fiori del male, Feltrinelli, 2003). Tra i suoi saggi più recenti: I fiori di Baudelaire. L’infinito nelle strade (Donzelli, 2007), Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri, 2008). Nella narrativa: L’ordine animale delle cose (Nottetempo, 2008). Nella poesia: Menhir (Donzelli Poesia, 2007). È in corso di stampa, presso Bollati Boringhieri, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione. Pier Aldo Rovatti (Modena 1942) insegna Filosofia teoretica e Filosofia contemporanea a Trieste. Si è formato a Milano alla scuola fenomenologica di Enzo Paci. Dal 1976 dirige la rivista “aut aut”. Nel 1983, con Gianni Vattimo, ha pubblicato Il pensiero debole (Feltrinelli, poi tradotto in varie lingue). Si è occupato soprattutto della questione del soggetto e delle sue trasformazioni nel pensiero contemporaneo, con particolare riferimento alla filosofia francese (Sartre, Lévinas, Foucault, Derrida), al rapporto tra filosofia e psicanalisi (Jung, Lacan) e tra filosofia e psichiatria (Basaglia), lavorando sui temi del bisogno e del desiderio, del gioco e del paradosso. Negli ultimi anni ha pubblicato La posta in gioco (1987, Mimesis 20102), Abitare la distanza (1994, Cortina 20072), Il paiolo bucato (Cortina 1998), La follia in poche parole (Bompiani 2000), La scuola dei giochi (Bompiani 2005, con Davide Zoletto), La filosofia può curare? (Cortina 2006), Possiamo addomesticare l’altro? (Forum 2007), Etica minima (Cortina 2010). Franco Scalzone è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psichiatria. È socio Ordinario della SPI (Società Psicoanalitica Italiana). Ha operato nel passato in strutture psichiatriche del Servizio Sanitario Nazionale e attualmente esercita come psicoanalista privatamente. I suoi campi di interesse sono la sindrome isterica, le perversioni, il dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze, il tempo in psicoanalisi, argomenti trattati in vari articoli e convegni nazionali e internazionali. Tra le varie pubblicazioni si segnala: (2004). “Psico-bi-sessualità: elemento puro femminile, elemento puro maschile e «dis-posizione isterica»”. «Riv. Psicoanal.», 1, 125-146; (2005). “Notes for a dialogue between psychoanalysis and neuroscience”. «Int. J. Psychoanal.», 86, 1405-1423; (2008). “Una (re)-visione di Freud: la lettera

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GLI AUTORI

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a Fliess del 1 gennaio 1896”. «Riv. Psicoanal.», 1, 31-49, Scalzone F., Zontini G. “Psychoanalysis in Time – Time in Psychoanalysis”, (in corso di stampa). Ha curato le antologie: (1999) Perché l’isteria? Napoli: Liguori. (con la dr.ssa G. Zontini); (2002) Attualità dell’isteria. Milano: Franco Angeli. (con il prof. G. Mattioli); (2004) Tra psiche e cervello. Napoli: Liguori, (con la dr.ssa G. Zontini); (2010). Perversione, perversioni e perversi. Roma: Borla. Gianni Vattimo, allievo di Luigi Pareyson, ha studiato con Hans-Georg Gadamer e ha curato la traduzione italiana di Verità e metodo (1972). Ha insegnato Estetica e Filosofia teoretica all’Università di Torino. Attualmente è parlamentare europeo. È interprete di un Marx debole e di un cristianesimo postmoderno. Tra le sue opere ricordiamo Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1967; Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano1974; Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980; La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994; Il Futuro della Religione, con Richard Rorty (a cura di S. Cabala), Garzanti, Milano 2005; Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009.

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Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

G. Giacometti (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto N. Pirillo (a cura di), Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche

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C

on la partecipazione di studiosi e docenti universitari, di esponenti della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Istitut des Hautes Études en Psychanalyse e della Deutsche Psychoanalitische Gesellschaft si è tenuto presso l’Università di Trento un Convegno di studi in ricordo di Elvio Fachinelli. L’iniziativa ha consentito di ripercorrere la biografia intellettuale dello psicoanalista trentino e di evidenziare nella sua opera e nei suoi interventi gli esiti della psicoanalisi “critica” di metà Novecento. Sono stati ricostruiti nodi tematici specifici degli scritti di Fachinelli, intrecciati con l’appassionato rigore delle posizioni prese nel campo della psicoanalisi, dell’educazione antiautoritaria, della critica letteraria e filosofica, dell’editoria militante. Su questo sfondo, tra filosofi e psicoanalisti si è accesa una discussione circa il rapporto tra pratiche filosofiche e pratiche psicoanalitiche, considerate sul terreno della crisi della cura e dell’efficacia terapeutica. Il confronto si è arricchito di un’intervista, condotta a margine del Convegno, al filosofo Gianni Vattimo.

N

estore Pirillo insegna Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento ed è collaboratore esterno della “Rivista di Psicoanalisi”. Con Cecilia Albarella ha curato L’incognita del soggetto e la Civilizzazione, Napoli, 1993, e la voce “Cultura” in Psiche: dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (a cura di F. Barale), Torino, 2006. È coautore di Conversazione sulla psicoanalisi, Napoli, Liguori, 1997. Tra i suoi più recenti studi sulla storia della psicoanalisi si ricordano: “Praticare la filosofia. Tra Croce e Freud: l’uomo primitivo e la psicoanalisi applicata”, in Freud e il Novecento, (a cura di M. Conci, M. L. Martini) Roma, 2008; “Il perverso, la libertà e il male”, in Perversione, perversioni e perversi (a cura di F. Scalzone), Roma, 2009.

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