Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento

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Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento

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Storia e Società

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007

Ottavia Niccoli

Perdonare Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento

Editori Laterza

Referenze iconografiche 1. Bridgeman/Archivi Alinari. 3. Proprietà Comune di Vignola (Modena). 4. Berlin, Deutsches Historisches Museum. 5. Per gentile concessione della Soprintendenza BAPPSAE dell’Umbria, Perugia. 6. Per gentile concessione dell’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici della Diocesi di Terni, Narni, Amelia (autorizzazione n. 039/07).

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8378-8

PREMESSA Un libro che ha nel suo titolo parole come perdono o perdonare sottintende innanzitutto una domanda e una proposta di chiarimento. Che cosa intendiamo per «perdono»? e dato che questo è un libro di storia della prima età moderna, che cosa intendevano concretamente con questa parola gli uomini del Cinque e del Seicento? Che cosa ha significato nei secoli trascorsi, e in particolare in età post-tridentina, «perdonare»? forse rinunciare alla vendetta e quindi alla faida? cancellare dentro di sé il rancore verso chi ha offeso, fargli anche del bene e, se si è cristiani, pregare per lui? o altro ancora? Insomma: che cosa vuol dire perdonare? È una domanda che in questa forma risulta molto, forse troppo semplice, ma pure è da qui che dobbiamo partire. Il 20 settembre 2005 è morto Simon Wiesenthal, che dopo essere scampato all’inferno di Mauthausen per dare un senso alla sua sopravvivenza ha dedicato la sua vita allo sforzo – riuscito – di assicurare alla giustizia il maggior numero possibile di criminali nazisti. Fra gli episodi che egli raccontava della sua vita uno appare essere stato cruciale: nel 1942 aveva incontrato una giovane SS morente che gli aveva chiesto di perdonarlo per le sue colpe nei riguardi degli ebrei, ma Wiesenthal aveva ritenuto di dover rifiutare il suo perdono. Tuttavia gli erano rimasti dei dubbi sulla sua scelta, che aveva sottoposto alla riflessione di altri (ebrei e cristiani), fra cui Primo Levi1. 1 S. Wiesenthal, Il girasole. I limiti del perdono, Garzanti, Milano 2000. L’intervento di Primo Levi è alle pp. 165-166.

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Il tema del perdono, attraverso questa vicenda, si intreccia con quello della Shoah – una delle grandi questioni del XX secolo. È un nodo che è stato ripetutamente affrontato, soprattutto all’interno della cultura francese, da Vladimir Jankélévitch, da Jacques Derrida, da Paul Ricoeur e da molti altri2; di certo non è possibile tornarvi entro queste pagine, che si prefiggono uno scopo molto più limitato, ma è obbligatorio farne almeno menzione. Quello del perdono è un grande tema, che nelle sue mille variabili riemerge periodicamente nel dibattito pubblico, anche in Italia: mi riferisco in primo luogo alle ripetute circostanze nelle quali il papa Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per comportamenti e scelte storiche della Chiesa definite «peccati», dal caso Galileo, ai processi dell’Inquisizione, alla notte di San Bartolomeo, alle persecuzioni contro gli ebrei, riepilogando e ripetendo la sua confessione e la sua richiesta di perdono, «rivolta a Dio, che solo può rimettere i peccati, ma fatta davanti agli uomini», nella «giornata del perdono» del 12 marzo 20003. Ci siamo poi scontrati in tempi recentissimi con la questione del perdono nelle vicende del caso Calabresi; è sembrato che il perdono accordato o meno dai familiari del commissario dovesse avere un peso determinante nella decisione di concedere o meno la grazia ad Ovidio Bompressi e Adriano Sofri. Interrogativi sulla possibilità di perdonare sono affiorati anche 2 V. Jankélévitch, L’imprescriptible. Pardonner? Dans l’honneur et la dignité, Éditions du Seuil, Paris 1986 (che riprende, con interventi di altri intellettuali, due testi del 1948 e del 1971, quest’ultimo ampliamento di un precedente articolo apparso nel 1965); P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, il Mulino, Bologna 2004 (ed. or. 1998); Id., La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris 2000 (trad. it. Cortina, Milano 2003), pp. 593-656: Epilogue. Le pardon difficile; J. Derrida, Pardonner: l’impardonnable et l’imprescriptible, l’Herne, Paris 2004. 3 Tutti i passi in questione, meno che l’ultimo, sono riportati e commentati (a buon livello giornalistico) in L. Accattoli, Quando il papa chiede perdono. Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Mondadori, Milano 1999. Considerazioni sull’opportunità alternativa di valutare globalmente «l’umanità della Chiesa nelle sue concrete debolezze» in P. Prodi, Christianisme et monde moderne. Cinquante ans de recherches, Gallimard-Seuil, Paris 2006, p. 19.

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a proposito di una proposta di grazia avanzata per Erich Priebke. Infine, per spostarci nuovamente al di fuori dell’Italia, è radicata in una riflessione sul tema del perdono l’attività della Truth and Reconciliation Commission, che agisce in Sudafrica sotto la presidenza dell’arcivescovo Desmond Tutu4. Sono tutte vicende e questioni oggi non ancora del tutto concluse, e che comporteranno ancora molti ripensamenti sul tema. Riprendiamo dunque le domande fatte sopra, ma in senso più generale, ricordando che esse hanno occupato tanta parte della riflessione europea degli ultimi sessant’anni. Che cosa vuol dire perdonare? Chi può chiedere perdono? Chi può perdonare? Che rapporto c’è tra giustizia e vendetta, tra giustizia e perdono, tra memoria e perdono? Credo che queste siano domande cruciali alle quali è ben difficile rispondere con sicurezza senza una meditazione profonda. Inoltre le risposte che vengono date non sono sempre consapevoli di quanto esse sono influenzate da tradizioni di lungo periodo, non più evidenti ma egualmente pertinaci. Ancora una volta, dunque, uno sforzo di conoscenza del passato e una riflessione sul passato sono indispensabili non necessariamente per rispondere, ma almeno per non precludersi una possibile risposta che non sia distorta dalla mancanza di consapevolezza. Come scriveva a fine Cinquecento il gesuato Paolo Morigia, ogni uomo deve saper «entrare nella caverna della sua conscienza»5. Bene, ri4 Cfr. Ch. Villa-Vicencio, Vivere sulla scia della Commissione per la verità e riconciliazione del Sud Africa. Una riflessione retroattiva, in Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, a cura di M. Flores, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 278-292; A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, il Mulino, Bologna 2005; e, per un quadro generale, Forgiveness and Reconciliation. Religion, Public Policy, and Conflict Transformation, a cura di R.G. Helmick SJ e R.L. Petersen, Templeton Foundation Press, PhiladelphiaLondon 2001. Ipotesi sull’utilità di riferirsi «agli schemi del perdono, della riconciliazione e dell’alleanza fra i popoli» per sanare la drammatica situazione del Congo-Kinshasa in J. Kadima Kadiangandu, Les schémas du pardon pour la démocratie au Congo-Kinshasa, Giraf, Paris 2001. 5 Paolo Morigia, Il gioiello de’ christiani, Gio. Antonio delli Antonii, Venezia 1581, c. 11r.

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trovare il passato ha anche questa funzione, di scendere nella caverna della coscienza collettiva non negandosi di guardare ciò che abbiamo dietro di noi e di rifletterci su. Mi rendo conto che l’ampiezza delle questioni accennate contrasta fortemente con la limitata portata delle pagine che seguono. Esse vogliono costituire soltanto un invito a iniziare a conoscere il passato e a meditare sulle domande che ci propone. Questa ricerca tenta infatti di misurare la complessità della parola «perdono», e soprattutto delle pratiche quotidiane che essa sottintende, in Italia e in un periodo storico definito, quello dell’età tridentina, che ha certamente contribuito a costruire il nostro presente. Una consistente parte dell’esemplificazione concerne la città di Bologna, ma si tratta, appunto, solo di una parte dell’esemplificazione, che tenta, sia pure molto imperfettamente, di dare conto di un problema assai più ampio piuttosto che di definire alcuni aspetti della vita sociale, politica e religiosa di una specifica città. Parlare di «perdono» in una ricerca imperniata sugli anni tra tardo Cinquecento e primo Seicento non può non fare affiorare alla memoria del lettore italiano le pagine di quel grande romanzo del perdono cristiano che sono I promessi sposi, che è appunto fondato sulla rievocazione ripetuta del perdono concesso a fra’ Cristoforo dai fratelli dell’uomo che egli ha ucciso; a don Rodrigo da Renzo; all’Innominato dalla misericordia divina impersonata dal cardinal Borromeo. Il romanzo manzoniano non solo ha un fondamento storico, ma è tutto intriso di storia nelle sue pieghe più minute; in particolare, il suo autore conosceva perfettamente la pratica giudiziaria d’antico regime ed ebbe in mano dei processi del tempo (anche se con ogni probabilità non trasse la sua storia da uno di essi in particolare, come invece è stato supposto6). Tutta6 Da C. Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del Seicento all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia 1993. Vedi in proposito la recensione di chi scrive in «Rivista storica italiana», 107, 1995, pp. 888-892.

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via la sua lettura dell’epoca, da lui pure mirabilmente raccontata, risulta in un certo senso alterata dalla sua personale visione religiosa7: che è quella di un cristianesimo non elitario anche se non privo di venature gianseniste, ma comunque certamente lontano da quello della Controriforma trionfante degli anni da lui descritti. Il perdono di cui egli parla è innanzitutto il perdono del cuore illuminato dalla fede, che – per usare le parole di Ezio Raimondi – ha saputo «apprendere la giustizia di Dio, che è giustizia del cuore libero e paziente»8. Ma il perdono che cogliamo nella documentazione del tempo può avere un significato assai diverso da quello che attribuiamo noi alla parola e anche da quello che gli attribuiva Manzoni. La parola è la stessa, il suo significato sembra costante, eppure a un’attenta disamina si coglie che, se non altro, l’air du temps non è proprio quello che il romanziere ha creduto di dipingere. In effetti lo storico ha imparato da Lucien Febvre che i sentimenti, le emozioni, gli atteggiamenti interiori, anche e soprattutto quelli che contribuiscono all’elaborazione di pratiche sociali, hanno una storia, che dobbiamo imparare a leggere attraverso i comportamenti che essi dettano; e così una storia l’ha anche il perdono. Del sacramento della confessione, e quindi del perdono che il fedele ottiene da Dio per il tramite di un sacerdote, ha trattato un’ampia bibliografia9; ma non è questo l’aspetto del tema che qui si vuole prendere in considerazione (anche se del rapporto fra confessione, assoluzione e perdono di uomini ad altri uomini ci troveremo a parlare, all’interno di queste pagine). Vedremo invece come la scelta etica del perdono abbia, negli anni che verranno qui pre7 Notazioni sulle «deformazioni manzoniane» della vita italiana del Seicento provocate dal carattere «di edificazione etico-cristiana» dei Promessi sposi in F. Nicolini, Arte e storia nei Promessi Sposi, Longanesi, Milano 1958, pp. 52, 269 e passim. 8 E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Einaudi, Torino 1974, p. 285. 9 Mi limito qui a rimandare all’eccellente rassegna bibliografica presentata da V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, il Mulino, Bologna 2004, pp. 11-22.

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si in considerazione, una fisionomia alquanto diversa da quella che potremmo supporre e che ritroviamo nelle pagine del Manzoni: non solo e non tanto quella di un fatto interiore, ma – almeno in alcuni stati italiani – di un atto preciso, di una fase possibile e auspicata della procedura giudiziaria. «Pace», «remissione», «rinuncia», «consenso» sono i nomi assunti da alcune delle istituzioni che significavano la concessione del perdono, momentaneo o definitivo, della parte lesa, e quindi l’interruzione di eventuali azioni giudiziarie. Il potere pubblico riconosceva così l’accordo delle due parti e si asteneva dall’intervenire, considerando ormai sanata la situazione di conflittualità che aveva dato origine al contrasto. Ovvero si prestava a costruire quell’accordo, rinunciando a punire chi doveva esserlo purché quella conflittualità comunque cessasse. Ci troviamo dunque di fronte ad un insieme di tradizioni giuridiche e legislazioni statutarie e di altra sorta, profondamente differenziate tra loro anche se ispirate ad un principio comune. Non è possibile neanche, peraltro, limitarsi ad esaminare queste ultime, anche perché la prassi si differenzia non di rado e fortemente dalla normativa. Inoltre, se ci si addentra con l’ottica dello storico sociale nell’ammasso del materiale giudiziario si riesce a cogliere – anche se non sempre con chiarezza – come la pratica, e la normativa che tra Quattro e Seicento tenta di regolarla, siano fortemente sfuggenti. Esse avevano certamente una remota radice religiosa, che talvolta sembra emergere con maggiore nettezza, mentre in altri casi sembra completamente estinta; ed erano nate tentando di risolvere, con strumenti che non potevano prescindere da uno sfondo culturale che aveva una coloritura religiosa, una serie di problemi legati alla gestione politica delle inimicizie, collocati quindi in una dimensione diversa che non andrà mai dimenticata. Sarebbe dunque erroneo e superficiale scorticare integralmente del loro sovrasenso religioso – che peraltro non va neppure sovrastimato – le istituzioni di cui parleremo e la parola e il concetto di «pace» e di «perdono» a cui erano legate. L’una e l’altro, come vedremo, mantenevano una profonda ambiguità. Le variabili

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del loro significato che incontreremo in queste pagine sono numerose, e ci fanno capire come ogni discussione sul perdono sia sempre una questione complessa, che comporta l’esigenza di meditare in profondità sul presente e sul passato. Dovremo perciò compiere un lungo cammino, partendo da quello sfondo per poi esaminare almeno qualche esempio delle istituzioni giudiziarie che da esso nascevano, e poi, progressivamente, tornare alle questioni più generali: senza avere risposto se non molto parzialmente alle domande poste all’inizio di queste pagine, ma forse con qualche maggiore consapevolezza della serietà con cui è necessario affrontarle. Sono ben conscia che questo tema appartiene per larga parte alla storia del diritto, le cui soglie però non ho voluto e saputo oltrepassare se non parzialmente; ho cercato invece di coglierne le ricadute di storia culturale, religiosa e soprattutto sociale, proprio perché una delle conclusioni che mi sembra di poter trarre da questo lavoro è che tematiche come quella della pace e del perdono, che sono state affrontate in genere con ottiche unilaterali, devono invece essere colte nella loro molteplicità di significati e nell’intreccio di sottintesi che esse presentano. Questo a costo di qualche lacuna e slabbratura o di minore omogeneità nel discorso, in cui sono certa di essere incorsa, e di cui mi scuso anticipatamente. Ma credo si tratti di rischi che vale sempre la pena di correre. Aspetti e parti di questa ricerca sono già stati oggetto negli anni passati di articoli e di relazioni a convegni10, oltre che 10 Rinuncia, pace, perdono. Rituali di pacificazione nella prima età moderna, in «Studi storici», 40, 1999, pp. 219-261; Giustizia, pace, perdono. A proposito di un libro di John Bossy, in «Storica», 9, 2003, n. 25-26, pp. 195-207; Postfazione, in La pace fra realtà e utopia, in «Quaderni di storia religiosa», 12, 2005, pp. 283-291; Pratiche sociali di perdono nell’Italia della Controriforma, relazione tenuta al convegno I linguaggi del potere: politica e religione nell’età barocca (Roma, 15-17 settembre 2005); Les «Pardons» à Bologne au début de l’époque moderne: la règle juridique et les pratiques sociales, relazione tenuta al convegno internazionale Normes juridiques et pratiques judiciaires du Moyen Âge à l’époque contemporaine (Dijon, 5-7 ottobre 2006).

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di lezioni e seminari tenuti in corsi universitari e di dottorato a Trento, Pisa, Ferrara. Ringrazio tutti i partecipanti a queste occasioni per i loro interventi e indicazioni. Sono inoltre molto grata a Massimo Firpo, Renato Pasta, Alessandro Pastore, che hanno letto una prima versione del libro e che mi hanno offerto osservazioni e suggerimenti preziosi. Vorrei dedicare queste pagine, con affetto e rimpianto, al ricordo di Mario Sbriccoli, al quale durante le prime fasi della ricerca ho fatto ricorso più volte, e che con la sua consueta, straordinaria generosità e amicizia mi ha offerto riflessioni, consigli, indicazioni di fonti e di bibliografia. Avrei voluto che potesse leggere questo libro, e soprattutto avrei voluto che fosse ancora con noi. O.N. Bologna-Trento, febbraio 2007

PERDONARE IDEE, PRATICHE, RITUALI IN ITALIA TRA CINQUE E SEICENTO

Capitolo primo IL DONO E LA GRAZIA Le parole del perdono Come è stato detto, di serio non ci sono che le parole, il resto non sono che chiacchiere. Dunque per cominciare a parlare del perdono apriamo, secondo ogni buona consuetudine, i dizionari. Apprendiamo intanto che la parola «perdono» è relativamente nuova: il termine latino perdonatio è piuttosto tardo, preceduto comunque dal verbo perdonare, che è di epoca carolingia. Né l’uno né l’altro termine (perdonatio e perdonare) sono però presenti nella predicazione, cioè nel tramite culturale forse a maggior bacino di utenza del Medioevo, ma soltanto nei documenti giuridici e letterari1. Vediamo allora quali erano nell’antichità le parole del perdono; attraverso i loro significati secondari potremo cogliere le sfumature di senso che venivano attribuite a questo concetto. Il lessico usato nel mondo classico insiste soprattutto sul tema dell’oblio dei torti subiti o dell’indulgenza per la debolezza umana: le parole greche per significare perdono erano infatti amnestia, dimenticanza, e syngnome, comprensione, mentre nel mondo latino il vocabolario del perdono comprende venia 1 A. Solignac, Les prédicateurs de la fin du XIIe siècle, in Le pardon. Actes du colloque organisé par le Centre Histoire des Idées Université de Picardie, a cura di M. Perrin, Beauchesne, Paris 1987, p. 103; A. Crépin, Pardon chrétien et vengeance germanique dans l’Angleterre du haut Moyen Âge, ivi, p. 89.

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(indulgenza), oblivio (dimenticanza, oblio), excusatio (scusa), impunitas (libertà o sicurezza dalla pena), remissio (liberazione da un debito, da una tassa, da una pena). Perdonare si diceva ignoscere (non voler sapere); la Vulgata usa il verbo demittere (rilasciare), che traduce il greco apolyein, prosciogliere, o anche aphienai, che ha lo stesso significato. Remittere ha già il significato di perdonare in Plauto e Sallustio, e lo accentua in autori cristiani come Tertulliano e Ambrogio2. Se vogliamo, certo abusivamente, concentrare in un unico senso questi sensi molteplici, potremmo dire che in essi prevale la volontà di dimenticare: una dimenticanza così profonda che si confonde addirittura con la scelta di non sapere. Una sfumatura particolare, più positiva, di questa volontà di oblio è stata individuata nel termine greco mè mnesikakein, che è la formula alla base del giuramento degli Ateniesi nel 403 a.C., e indica la volontà di superare il ricordo dei mali compiuti e subiti per rendere agevole la ripresa della vita democratica nella città3. Ma dunque, in conclusione, la memoria sarebbe inconciliabile con il perdono? Per perdonare occorre cancellare l’accaduto dalla memoria? È questo il punto sul quale si è esercitata la riflessione di tutti coloro che hanno trattato questo tema. La risposta però è costantemente negativa. «Forgiving does not imply forgetting», perdonare non è dimenticare4, ma, al con2 D. Aubriot, Quelques réflexions sur le pardon dans la Grèce ancienne, ivi, pp. 11-27; A. Michel, Le pardon dans l’antiquité. De Platon à Saint Augustin, ivi, pp. 49-60; O. Abel, Preface, in Le pardon. Briser la dette et l’oubli, a cura di O. Abel, Éditions Autrement, Paris 1996, p. 13; C. Milani, Il lessico della vendetta e del perdono nel mondo classico, in Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 11-17. Notazioni sul significato del verbo aphienai in questo contesto in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989, p. 273. 3 L. Spina, Il buon uso dell’oblio nei rivolgimenti costituzionali: tra slogan e argomentazione persuasiva, in «Retorica», 21, 2003, n. 1, pp. 25-36. Altre considerazioni sullo stesso termine e la stessa vicenda in M. Bettini, Sul perdono storico. Dono, identità, memoria e oblio, in Storia, verità, giustizia cit., pp. 39-41. 4 T. Govier, Forgiveness and Revenge, Routledge, London-New York 2002, p. 108.

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trario, implica la volontà di spezzare il tempo chiuso della sofferenza, di liberarsi dall’irreversibilità del passato agire, è insomma una memoria rinnovata5. Per usare le parole del filosofo ebreo Armand Abecassis, «il vero perdono implica la memoria. Il vero perdono è un atto positivo, grazie al quale la vittima ricorda il crimine di cui è stata oggetto, ma decide di non tenerne conto nelle sue relazioni con il colpevole»6. Di fatto la parola «perdono» reca in sé, nella sua etimologia, qualcosa di molto diverso da una scelta di annullare il passato. Essa infatti ci colpisce perché mostra un significativo intreccio linguistico fra «dono» e «perdono» (il prefisso per- è rafforzativo, e indica quindi la larghezza, l’assoluta liberalità di tale dono); un intreccio che del resto è presente anche in altre lingue europee («forgiving», «pardon», «Vergebung»). «Perdono» e «perdonare» sottintendono dunque (o dovrebbero) non una cancellazione, ma un apporto positivo, una offerta libera e generosa, tanto più generosa in quanto chi ha sofferto ricorda e vuole ricordare l’accaduto7. L’uso concreto e quotidiano del termine, naturalmente, è più variegato e complesso; approdando nella lingua italiana attuale, la parola si configura infatti in un’ampia varietà di sfumature di significato. Si parte da «gesto umanitario con cui, vincendo rancori e risentimenti, si rinuncia ad ogni forma di rivalsa, di punizione o di vendetta nei confronti di un offensore»; si pro5 Arendt, Vita activa cit., pp. 174-179; J. Kristeva, Dostoïevski, l’écriture de la souffrance et le pardon, in Ead., Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris 1987, pp. 185-226. 6 «Le pardon véritable implique la mémoire [...] Le pardon veritable est un act positif, grâce auquel la victime se souvient du crime et décide pourtant de ne pas en tenir compte dans ses relations avec le coupable»: da un colloquio con Armand Abecassis, in Le pardon. Briser la dette et l’oubli cit., pp. 140-141. 7 Una diversa impostazione del rapporto fra dono e perdono viene proposta da Bettini, Sul perdono storico cit., pp. 20-43, che partendo dal racconto omerico della pacificazione tra Agamennone e Achille ritiene che «l’atto del perdonare consiste in un piacevole e desiderabile scambio di doni» (p. 24). La mia ipotesi è invece fondata sulla assoluta gratuità del perdono.

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segue poi con «atto individuale di clemenza con cui un sovrano o una pubblica autorità (civile, religiosa o militare) condona una colpa a un suddito», «provvedimento generale di clemenza», «remissione dei peccati», per concludere con «indulgenza [...], giubileo»8. I passaggi come si vede sono intricati; dietro il termine vi è uno sfondo religioso che non sembra presente nella terminologia classica, e che si fa percepire in quella attuale italiana in modo più o meno forte, a seconda del caso e del tempo. La parola insomma nella sua semplicità apparente pone molte domande. Ci chiediamo che cosa significhi oggi quel «gesto umanitario», per usare le parole del dizionario, che così spesso giornalisti e intervistatori televisivi chiedono indiscretamente ai familiari di vittime di efferati omicidi o tragici incidenti; e ci chiediamo come quel «gesto umanitario» si sia configurato nel passato, e soprattutto in un passato, come quello della prima età moderna, che svela ogni giorno di più la forza con cui ha generato le eredità buone e cattive di cui si alimenta il nostro presente. Per rispondere a queste domande dobbiamo fare nuovamente molti passi indietro. Proviamo ad avvicinarci progressivamente al tema che intendiamo trattare, partendo da una pagina molto bella di Émile Benveniste che sottolinea l’importanza del concetto di «grazia» in ambito indoeuropeo. La grazia – scrive Benveniste – «consiste nel rendere un servizio gratuito, senza contropartita». L’idea di «grazia» si associa a quelle di «gratuità» e «riconoscenza», in un nodo «legato a rappresentazioni molto più vaste, che mettono in gioco l’insieme delle relazioni umane o delle relazioni con la divinità; relazioni complesse, difficili, in cui le due parti sono sempre implicate»9. È a quest’area concettuale, così ricca di comples8 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. XII, UTET, Torino 1984, pp. 1128-1129. 9 É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni europee, I. Economia, parentela, società, Einaudi, Torino 1975, p. 152.

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sità e anche di ambiguità, che dovremo fare riferimento inseguendo la storia delle istituzioni del perdono. Grandgousier e Alpharbal Ma torniamo per ora al concetto di «grazia». La sua rilevanza ci appare subito fortissima a livello antropologico. A prima vista esso coinvolge – ma è una vicinanza solo parziale – la grande tematica del dono (che sovraintende anche, come abbiamo cominciato a vedere, a quella del perdono). Così almeno potremmo credere leggendo ciò che nel pieno Cinquecento François Rabelais scriveva appunto dei doni e dei sentimenti che essi suscitano in chi li riceve: E questa è la natura della gratitudine: il tempo, che tutte le cose corrode e consuma, aumenta ed accresce i benefici resi: giacché un atto di grazia, liberalmente usato ad un uomo dabbene, cresce continuamente mercé il suo nobile pensiero e la ricordanza10.

Ma Gargantua, al quale dobbiamo questa considerazione nelle pagine di Rabelais, vive come sappiamo nel mondo del paradosso. Inoltre la sua idea del dono, come dimostrano anche queste righe, è fortemente influenzata dal riverbero dell’idea religiosa della grazia propria dell’umanesimo cristiano di cui egli è partecipe11. Ma il dono, in realtà, nella società preindustriale in cui Gargantua è immerso (e non solo in essa, anzi, sostanzialmente in ogni cultura), si differenzia profondamente dalla grazia, in quanto rimane su un piano assai 10 F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di M. Bonfantini, Mondadori, Milano 1961, pp. 215-216. 11 Sulle posizioni religiose di Rabelais vedi, oltre alla classica opera di L. Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Einaudi, Torino 1978, M. Screech, Rabelais and the Challenge of the Gospel. Evangelism - Reformation - Dissent, Koerner, Baden Baden 1992, e Id., Laughter at the Foot of the Cross, Penguin Press, London 1997.

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più terreno e legato alle comuni relazioni umane; e quindi, come sappiamo dalle ricerche di Marcel Mauss12, deve essere ricambiato, e in forma sovrabbondante. Ecco un esempio di questo modello culturale, e nello stesso tempo del suo opposto, proprio nel racconto di Rabelais. In esso alla disinteressata generosità di Grandgousier, il padre di Gargantua, viene ad essere contrapposta la mondana gratitudine di Alpharbal e dei suoi sudditi. Questi ultimi, infatti, si affrettano a ricambiare il gesto di Grandgousier, che «con incredibile bontà» e «ogni amichevole grazia» ha accolto benevolmente nel suo palazzo il loro sovrano che egli ha sconfitto, con «novemila e trentotto grandi navi onerarie» sulle quali «ogn’uomo in folla gettava [...] oro, argento, anelli, preziosi, spezie, droghe e aromi, pappagalli, pellicani, scimmiotti, civette, zibellini e porcospini [...]. Offrì i suoi presenti, e non furono accettati, perché troppo eccessivi»13. La generosità di Grandgousier voleva essere gratuita, essendo il frutto di una benevolenza spontanea (era un dono/perdono); l’assurdo puntiglio di ricambiarla mostra che essa in qualche modo non era stata compresa. Proprio partendo dal racconto di questo episodio Natalie Davis ha messo in risalto come nelle società preindustriali questi scambi obbligati di doni si traducano «in una catena di eventi che coinvolge molti elementi tutti insieme: beni sono scambiati e ridistribuiti in società che non hanno specifici mercati; la pace viene mantenuta e talora anche la solidarietà e l’amicizia; lo status è confermato ovvero si entra in competizione per esso»14. È la reciprocità dunque il senso profondo e la 12 M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della magia ed altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. 153-292. Considerazioni sul possibile influsso della pratica dello scambio dei doni sul diritto romano in C. Faralli, Diritto e magia, CLUEB, Bologna 1987, pp. 156-160. 13 Rabelais, Gargantua cit., pp. 214-215. 14 N. Davis, The Gift in Sixteenth Century France, Oxford University Press, Oxford 2000 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2002), p. 4.

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molla del dono, ed anche il fondamento dei sistemi economici arcaici e della stessa assistenza caritativa, come hanno mostrato fra gli altri Karl Polanyi, Marshall Sahlins, Nathan Wachtel15: «il dono è alleanza, solidarietà, comunione, in breve, pace [...]. Il dono è il mezzo primitivo di conquistare la pace, che nella società civile è assicurata dallo Stato»16. La grazia, invece, è tutt’altra cosa, come mostra il comportamento di Grandgousier nell’elargire e nel rifiutare il contraccambio. Essa è molto di più di un dono; ed è divina proprio in quanto si sottrae ai calcoli degli uomini, e per l’appunto, come ha osservato l’antropologo Julian Pitt Rivers riprendendo a sua volta Benveniste, esclude di sua natura ogni reciprocità17 (e quindi, potremo concludere, richiede solo di essere accettata). Per questo essa è unilaterale e marca con forza la disparità totale fra chi dà e chi riceve. Allo stesso modo il perdono, come ci dice questa parola, è un dono («chi perdona dona», scriveva nel 1563 Anton Francesco Cirni18), un dono iterato e 15 K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974; M. Sahlins, Stone Age Economics, Aldine-Atherton, Chicago 1972 (trad. it. Bompiani, Milano 1980); N. Wachtel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola, Einaudi, Torino 1977. Alcuni controversi aspetti del tema sono stati sottolineati più di recente da G. Algazi, Introduction. Doing Things with Gifts, in Negotiating the Gift. Premodern Figurations of Exchange, a cura di G. Algazi, V. Groebner e B. Jussen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2003, pp. 9-27. Sui rapporti complessi fra la categoria del dono e quella della carità/elemosina cfr. A. Pastore, Scegliere a chi donare. La selezione dell’assistenza nell’Italia moderna, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 30, 2004, pp. 49-70. 16 Sahlins, Stone Age Economics cit., p. 169. 17 J. Pitt Rivers, Postscript: the place of the grace in anthropology, in Honor and Grace in Anthropology, a cura di J.G. Peristiany e J. Pitt Rivers, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 216. Natalie Davis (The Gift in Sixteenth Century France cit., pp. 190-203) ha notato come Giovanni Calvino abbia radicalmente rifiutato questo concetto nell’Institutio Christianae Religionis, non solo per quanto attiene i rapporti fra Dio e gli uomini, ma anche degli uomini fra di loro, tanto che a Ginevra gli scambi di doni erano quasi interamente vietati. 18 Anton Francesco Cirni, Discorso come si possano in buona parte rimuovere sei principalissimi abusi, radice di tutti gli altri del cristianesimo, Antonio Blado, Roma 1563, c. E iiiv.

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intensivo tutto diverso da ogni altro dono; esso sfugge quindi alla logica dello scambio che richiederebbe di render male per male, ed è in qualche modo assimilabile alla grazia19. La grazia del beneficio di Cristo Queste notazioni antropologiche sono ovviamente tali da affascinare lo storico della prima età moderna, per gli echi che esse fanno suonare al suo orecchio con il grande dibattito teologico del periodo. In esso per l’appunto – non c’è bisogno di ricordarlo – la grazia si configura come libera e sovrabbondante effusione del beneficio divino che strappa gli uomini dai vincoli del peccato e del carcere infernale, richiedendo ad essi solo la sua fiduciosa accettazione: «Tutti quelli che credono in Cristo, ponendo tutta la loro fiducia nella grazia di lui, vincono con Cristo il peccato, la morte, il diavolo e lo inferno»20. Così il testo principe della Riforma in Italia, intitolato appunto Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i christiani, un testo ricco di citazioni implicite da Lutero e da Calvino, sul quale la ricerca si è affaticata a lungo, tentando di definirlo e inserendolo alternativamente nella Riforma protestante, nella spiritualità benedettina o in quella valdesiana; ma tutta la riflessione religiosa del XVI secolo è incentrata, come sappiamo, su questo punto cruciale: sull’abbondanza e sulla gratuità del dono che deriva dal sacrificio di Cristo crocifisso. Così in un momento molto prossimo a quello della stesura del Beneficio, Michelangelo, nel ringraziare di un dono (pro19 È stato possibile evincere considerazioni del genere anche dalla letteratura medievale francese: J. Ribard, Du don au pardon. À l’écoute des oeuvres littéraires des XIIe et XIIIe siècles, in Le pardon. Actes du colloque cit., pp. 117-130. Sui rapporti fra dono e perdono cfr. anche J. Milbank, Being reconciliated. Ontology and pardon, Routledge, London-New York 2003, pp. 44-60. 20 Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo con le versioni del secolo XVI, documenti e testimonianze, a cura di S. Caponetto, Sansoni-The Newberry Library, Firenze-Chicago 1972, p. 26.

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babilmente dei versi) Vittoria Colonna, dichiara di essersi in primo momento proposto di ricambiarlo; ma poi, «riconosciuto e visto che la gratia d’Iddio non si può comperare, e che ’l tenerla a disagio è pechato grandissimo»21, accettava il dono senza neppure tentare il contraccambio, in quanto fare altrimenti avrebbe significato mostrare di tenerlo in poco conto, addirittura di disprezzarlo. La grazia divina è dunque come un dono specialissimo, la cui eccezionalità risiede proprio nel fatto che essa esclude ogni tentativo di reciprocità e richiede solo di essere accettata ed accolta. Proviamo a soffermarci per un attimo sulle implicazioni non solo strettamente teologiche, ma anche giudiziarie e politiche che questi concetti rivestono all’interno del Beneficio. Nell’operetta viene raccontata una sorta di parabola, in cui si fa l’ipotesi «che un re buono e santo faccia pubblicare un bando, che tutti i ribelli securamente ritornino nel suo regno, percioché egli per i meriti di un loro consanguineo ha perdonato a tutti»; solo «chi non dà fede a questo bando non gode di questo perdono generale»22 (ecco dunque affacciarsi ancora la nostra parola). Si trattava di una ripresa di un passo dalle Cento e dieci divine considerationi di Juan de Valdés, là dove si parla di un re, che «desiderando ridurre al suo regno coloro che andavano errando e banditi, primieramente eseguì il rigor della sua giustizia in un suo figliuolo, e dopo mandò a far un bando generale per tutto ’l mondo, nel quale dichiarò che già la sua giustizia era satisfatta e che già egli aveva perdonato generalmente a tutti coloro che se gli erano ribellati». Anche più avanti Valdés riprende di nuovo la parabola, biasimando coloro che, «trovandosi fuorusciti di un regno per loro demeriti, ed essendoli presentata da parte del loro re una patente col suo nome sottoscritta e sigillata col suo sigillo per la quale li per21 Il carteggio di Michelangelo, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, vol. IV, SPES, Firenze 1979, p. 122. L’interesse del passo è stato messo in rilievo da A. Nagel, Art as Gift. Liberal Art and Religious Reform in the Renaissance, in Negotiating the Gift cit., pp. 356-357. 22 Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo cit., pp. 31-32.

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dona e li fa abili a tornare nel regno», anziché «accettare la grazia del re», dunque, fuor di metafora, «facendo pace con Dio»23 (poiché la pace è strettamente legata al perdono), si preoccupano di scrutare la patente e disquisire su di essa (cioè di perdersi in vane considerazioni teologiche sulla Scrittura). Inoltre una parabola in parte analoga, sulla quale torneremo più avanti, era anche inserita in un’operetta di Tullio Crispolti pubblicata nel 1537, che trattava appunto Del perdonare24. Ora, per intendere più pienamente questi passi che gli studiosi della storia religiosa italiana del Cinquecento hanno largamente esaminato, dovremo ricordare la concretezza che per gli uomini di quel secolo potevano avere queste parole, e la comune pratica a cui esse facevano riferimento. Ricordiamo che l’idea e la prassi del «perdono generale», cioè dell’amnistia concessa ai ribelli che volevano tornare ad obbedienza, erano costantemente presenti nella vita politica della prima età moderna in tutti i paesi europei, rappresentando l’espressione importante di una prerogativa del sovrano che si afferma fra Quattro e Seicento e che costituisce una manifestazione della costruzione dello Stato moderno25. 23 J. de Valdés, Le cento e dieci divine considerazioni, a cura di E. Cione, Fratelli Bocca Editori, Milano 1944, pp. 44 e 152-153. Valdés tornò ancora sulla parabola del bando per spiegare il suo concetto di predestinazione nel commento all’epistola ai Romani: Id., Comentario, o declaración breve y compendiosa sobre la epístola de s. Paulo Apóstol a los Romanos, muy saludable para todo christiano, Juan Philadelpho, Venezia [ma Jean Crespin, Ginevra] 1556, p. 186, cit. in C. Ginzburg, A. Prosperi, Le due redazioni del «Beneficio di Cristo», in Eresia e riforma nell’Italia del Cinquecento, Sansoni-The Newberry Library, Firenze-Chicago 1974, pp. 179-180. 24 Stefano da Sabio, Verona. Poiché il Beneficio venne pubblicato nel 1543, le Cento e dieci divine considerazioni nel 1550, e l’operetta del Crispolti nel 1537, rimane evidentemente aperto il problema della circolazione anche a Verona degli echi delle riflessioni di Valdés a quest’ultima data. È stata anche affacciata l’ipotesi (cfr. C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo, Einaudi, Torino 1975, p. 49) che Crispolti costituisca la fonte di Valdés. 25 X. Rousseau, Rigueur de juge et miséricorde du père: le pardon dans l’Etat moderne, in Le pardon, a cura di J. Hoareau-Dodineau, X. Rousseau e P. Texier, Pulim, Limoges 1999, pp. 14-16; P.A. Porras Arboledas, C. Losa

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Soprattutto gli anni delle guerre di religione in Francia e della rivolta dei Paesi Bassi vedranno la pubblicazione di una miriade di opuscoli con titoli come Edict declaratif de la grand clemence du roy, portant pardon [...] à tous ceux qui s’estant trouvez en armes es environs de la ville d’Amboise, Paris 1560; o anche By the Queene. A Proclamation of the Queenes Maiesties pardon graunted to certaine of her subjectes, London, Jugge and Cawood, 1569; oppure Duca de Albische Pardon welches ist ein General Gnad, s.l., 1570; ovvero Il perdono generale che il re Filippo concede a tutti paesi, stati et luochi di Fiandra che voranno ritornare alla solita, et antica obedienza [...] et con la restitutione de beni, honori, & gradi a tutti coloro che lo accettarano, in Bologna per Alessandro Benacci, 1574 (altra edizione con lo stesso titolo pubblicata «in Venetia, e ristampato in Mantova con licentia delli Superiori»); o ancora Exemplaires des lettres patentes du Roy, par lesquelles sa Majesté donne [...] pardon general à cause des troubles, Bruxelles 157426. Ma si tratta di un genere letterario che ebbe una diffusione straordinaria e di cui incontriamo esempi in tutte le situazioni europee di trauma e di ribellione al potere costituito. Apriamo uno di questi opuscoli, Il perdono generale che il Re Filippo concede [...] a tutti coloro che lo accettarano. Il bando si apre con la descrizione dei «danni, rubarie, sforzamenti, homicidii, violazioni de tempii et chiese et altri enormi insulti che ciascuno sa», a seguito dei quali i ribelli che se ne soContreras, Quelques types de grâces dans la Castille du bas Moyen Âge, ivi, pp. 175, 180-181. Cfr. anche C. Gauvard, L’image du roi justicier en France à la fin du Moyen Âge, d’après les lettres de rémission, in La faute, la répression et le pardon, CTHS, Paris 1984, pp. 165-192, e P. Texier, La rémission au XIV siècle: significations et fonctions, ivi, pp. 193-205. 26 A proposito di un tentativo fallito di «perdono generale» per i ribelli delle Fiandre nel 1566-67 cfr. V. Soen, «C’estoit comme songe et mocquerie de parler de pardon». Obstructie bij een Pacificatiermaatregel (1566-1567), in «Bijdragen en Mededelingen betreffende de Geschiedenis der Nederlanden», 119, 2004, pp. 309-328; sulle implicazioni del «perdono» di Elisabetta I per la rivolta del 1569 cfr. K.J. Kesselring, Mercy and Liberality: The Aftermath of the 1569 Northern Rebellion, in «History», 90, 2005, pp. 213-235.

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no resi colpevoli sono stati scacciati dal paese. Ma ora il sovrano propone di sostituire la grazia alla giustizia: Noi, desiderando dare intiero riposo et mettere in tranquillità il detto paese, et ridurre tutti i nostri sudditi e vassalli ivi a nostra obbedienza e affine che potessero vivere in riposo pace et sicurezza, usando della clemenza et pietà [...] habbiamo risoluto et determinato di rimettere, perdonare, fare et concedere gratia et indulgentia, come per queste presenti [lettere patenti] rimettiamo, perdoniamo, diamo et concediamo indulgentia et gratia plenissima [...]. Diciamo et dichiariamo per le presenti [lettere patenti] che quelli che sono fuggitivi e banditi et che in virtù del detto perdono ritorneranno al paese saranno tenuti dentro di doi giorni doppo il lor ritorno [a dichiarare] che vengono per godere et usare della detta gratia27.

Anche in questo testo, più tardo rispetto alla pagina di Valdés, ma che ricalca certamente uno schema tradizionale, troviamo come nel Beneficio e nelle Cento e dieci divine considerationi le colpe dei ribelli, la grazia del sovrano e l’obbligo, per goderne, di accettarla. Questa era dunque la chiave di lettura ben concreta che i contemporanei potevano dare della parabola del bando: non un’ipotesi fantasiosa o una sorta di fiaba, ma una eventualità molto reale e frequentemente presente agli uomini del tempo. C’è poi un’altra considerazione che possiamo fare in proposito. Dobbiamo ricordare che è in questa stessa accezione che dovremo intendere la parola «perdono» nel suo significato di «indulgenza», «giubileo»; non per nulla anche le bolle di indulgenza erano sovente intitolate «gran perdono generale»28, rifacendosi dunque anch’esse alla struttura dei «perdoni» politici. In tal modo il perdono sovrano veniva assimilato a quello soprannaturale, e, viceversa, l’indulgenza o il giubileo si preIl perdono generale cit., cc. Aiv-Aivr. Cfr. F. Pic, Pardon et «grans perdons», in La faute, la répression et le pardon cit., pp. 447-462. Sull’uso della parola «perdono» in quest’ultimo significato cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, p. 23. 27 28

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sentavano come la concessione fatta da «un gran re» ai suoi sudditi ribelli. Che era appunto la trama delle parabole del bando che abbiamo appena visto: che ponevano però il «perdono generale» su un piano radicalmente diverso, facendolo dipendere dall’unico sacrificio di Cristo anziché da una bolla pontificia. La parabola del bando sottintende dunque una tacita polemica contro le indulgenze: solo Dio è il Signore, e dunque lui solo può concedere il bando del «gran perdono generale». I «perdoni» pontifici non possono, in questa chiave, che essere considerati abusivi: altro è l’unico vero «perdono». Era basandosi su questa doppiezza di significato che veniva pubblicato nel 1533 un opuscolo intitolato Les grans pardons et indulgences, le tresgrand Jubilé de plainiere remission de peine et de coulpe... uscito dai torchi di Pierre de Vingle a Neuchâtel29, che utilizzando la terminologia tradizionale dei bandi d’indulgenza cattolici non faceva in realtà che ripercorrere e riproporre la dottrina della salvezza per sola grazia – l’unico giubileo e remissione possibile all’uomo – che veniva così offerta sotto un titolo a prima vista del tutto ortodosso. La contrapposizione fra la Legge e la Grazia, così centrale nel dibattito religioso del XVI secolo, poteva insomma riproporsi anche fra gli uomini, nella loro vita quotidiana, e risultava comprensibile e significante per i fedeli proprio a causa delle sue radici antiche nella pratica politica e giuridica. E ciò non solo per il bando eccezionale di un sovrano: a molti livelli in una società terrena una autorità superiore poteva concedere la grazia, e liberare gli uomini dalle conseguenze del loro reato: «grace is opposed to and above the law», la grazia si oppone ed è superiore alla legge, per riprendere le parole di Pitt Rivers30. Chiunque abbia qualche esperienza del materiale giudiziario del XVI secolo ha avuto frequentissime occasioni di verificare l’importanza di questa istituzione e il gran numero 29 Cfr. G. Berthoud, Livres pseudo-catholiques de contenu protestant, in Aspects de la propagande religieuse, Droz, Genève 1957, p. 144. 30 Pitt Rivers, Postscript cit., p. 243.

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di occasioni in cui essa, in genere a seguito di una supplica31, interveniva a commutare o estinguere la pena. Tutte queste considerazioni ci aiutano a entrare nel vivo dei problemi a cui alludeva Benveniste: la grazia ha una natura sacra, anche quando opera nei rapporti fra gli uomini. Essa – come leggiamo in Shakespeare, in un passo di straordinaria rilevanza – non può essere forzata, ma scende dal cielo come una pioggia leggera, benefica per chi concede e per chi riceve; è nel potere dei sovrani ed è un attributo divino. Quando la grazia si unisce alla giustizia dandole un sapore più pieno, allora veramente il potere terreno si innalza facendosi simile a quello di Dio: The quality of mercy is not strain’d, it dropped as the gentle rain from heaven upon the place beneath: it is twice bless’d; it blesseth him that gives and him that takes; ‘tis mightiest in the mightiest; it becomes the throned monarch better than his crown; his sceptre shows the force of temporal power, the attribute to awe and majesty, wherein doth sit the dread and fear of kings; but mercy is above this sceptred away, it is enthroned in the hearth of kings, it is an attribute to God himself, and earthly power doth then show likest God’s when mercy seasons justice32.

La parola mercy potrebbe essere tradotta, e lo è stata, come clemenza, o misericordia (potremmo anche cogliere in 31 Cfr. di recente su questo strumento Suppliche e «gravamina». Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), a cura di C. Nubola e A. Würgler, il Mulino, Bologna 2002; Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV-XVIII. Suppliche, gravamina, lettere, a cura di C. Nubola e A. Würgler, il Mulino, Bologna 2004; Operare la resistenza. Suppliche, gravamina e rivolte in Europa, a cura di C. Nubola e A. Würgler, il Mulino, Bologna 2006. 32 William Shakespeare, The Merchant of Venice, atto IV, scena I.

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questi versi il ricordo di Proverbi, 16, 15: «clementia regis quasi imber serotinus», la clemenza del re è come una pioggia che cade al tramonto); ma se la intendiamo come grazia o perdono diamo a questo passo del Mercante di Venezia il suo significato più ricco perché intensamente religioso, come ci svelano i versi successivi: «a rigor di giustizia nessuno di noi potrebbe raggiungere la salvezza; è per la grazia che noi preghiamo». La contrapposizione è fra la giustizia richiesta dal Vecchio Testamento (e, nella trama violentemente antigiudaica della commedia, dall’ebreo Shylock) e la grazia proclamata nel Nuovo, fra la Legge e il Perdono. Una giustizia soprannumeraria Ponendosi su posizioni radicalmente diverse, nel 1764 Cesare Beccaria affermerà che «il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi e dell’atrocità delle condanne» (e quindi appaiono inutili quando la legge penale divenga razionale e moderata), e che «il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga dell’impunità»33. Ma proprio queste frasi ci fanno comprendere appieno la distanza che separa la cultura dell’illuminismo da quella che si sta cercando di descrivere. I versi di Shakespeare, assieme a tutto quanto si è detto sopra, ci aiutano invece a percepire come nella giurisprudenza e nella pratica giudiziaria del Medioevo e della prima età moderna ci siano parole di origine prettamente religiosa, strettamente legate insieme34, come appunto grazia, come pace e perdono: quelle stesse che 33 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. F. Venturi, Einaudi, Torino 1973, § XLVI, p. 103. 34 «Pardon, merci et grâce sont trois façons [...] d’exprimer la dépendance d’un homme qui doit tout attendre du geste gratuit de celui qui a pouvoir et autorité sur lui»: J. Ribard, Du don au pardon. À l’écoute des oeuvres littéraires des XIIe et XIIIe siècle, in Le pardon cit., p. 124.

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Valdés usava nella parabola del bando, nella sua duplice sapienza di uomo politico e di uomo di fede, e che il Beneficio aveva ripreso. Per ognuna di esse potremo ripetere le considerazioni fatte da Benveniste a proposito del concetto di grazia, sul fatto che esse mettono in gioco le relazioni umane e le relazioni con la divinità, facendole interagire insieme. In effetti grazia, pace e perdono si allacciano insieme in antico regime a comporre una rete di istituzioni che tende a sottrarre l’amministrazione della giustizia ad un ambito meramente umano, sottolineando l’opportunità di spazi alternativi che diano luogo ad una sorta di giustizia «soprannumeraria», che esorbita da un quadro corrente di riferimenti e che può essere più dura o più benevola di quella degli uomini. Tale superiore giustizia è amministrata da Dio stesso, direttamente o attraverso alcuni suoi rappresentanti. Questi possono anche essere del tutto estranei e addirittura contrapposti al mondo della giustizia degli uomini: così, in Italia almeno fino alla metà del Cinquecento, e in Francia per tutta la durata delle guerre di religione, la violenza spesso terrificante di bambini e ragazzi contro ebrei, eretici, traditori, e altre figure di pubblici nemici o considerati tali, veniva nonché non repressa talora anche incoraggiata, in quanto considerata come direttamente promossa dalla volontà divina attraverso suoi agenti inconsapevoli (i fanciulli) che riuscivano in tal modo ad attuare quella soprannaturale giustizia che gli uomini non erano in grado di mettere in atto35. Oppure ad agire poteva essere, come abbiamo ricordato sopra, l’autorità superiore che, essendo investita anch’essa nel suo ruolo da Dio, poteva concedere la grazia a chi era già condannato. Altre istituzioni, infine, mostrano come l’intervento della nozione cristiana di «perdono» era in grado di provocare l’accordo 35 Cfr., di chi scrive, Il seme della violenza. Putti, fanciulli e mammoli nell’Italia tra Cinque e Seicento, Laterza, Roma-Bari 20072, pp. 21-88, e D. Crouzet, Les guerriers de Dieu. La violence au temps des troubles de religion (vers 1525-vers 1610), 2 voll., Champ Vallon, Seyssel 1990, passim, e soprattutto I, pp. 77-79 e 83-90.

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dei contendenti e rendere vana l’azione giudiziaria, giovando così ad una composizione dei conflitti interpersonali. In tal modo, attraverso questi spazi alternativi alle aule dei tribunali, nel rituale giuridico si insinuano, in forma diversa e con diversa capacità di penetrazione, concetti prettamente religiosi come «grazia» e «pace». Un primo intento di queste pagine è appunto quello di offrire qualche materiale su un aspetto particolare di quell’ampia rete di istituzioni – «grazia», «pace», «tregua», «consenso», «rinuncia», «remissione», «transazione» – tese alla composizione dei conflitti, che sono così comuni agli inizi dell’età moderna e che suscitano da alcuni anni l’attenzione degli storici del diritto. Esse, come ha notato Antonio M. Hespanha36, dipendono dall’incerto confine fra diritto e regole della vita associata, che fa sì che alla norma giudiziaria si accompagni e si sovrapponga una serie di forme private di riparazione penale, nelle quali il tribunale e la società stessa concorrono nel sanare i conflitti con soluzioni a carattere mediatorio, garantite da membri rispettati della comunità. «Lottare e discutere» (Fighting and Talking)37, ricorrere a negoziatori e mediatori, sono apparse agli studiosi di antropologia giuridica come le due forme basilari di accomodazione dei conflitti in tutte le culture, differenziate, ma non contrapposte, nel senso che, se necessario, l’una può agevolmente lasciare il posto all’altra. Al combattimento sia fisico che nelle aule giudiziarie si accompagnano dunque ancora, nella prima età moderna, quelle forme di negoziazione, di accomodamento, di pacificazione cui si faceva cenno sopra, che spes36 A.M. Hespanha, La gracia del derecho. Economía de la cultura en la edad moderna, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid 1993, pp. 23-24. 37 Il riferimento è a S. Roberts, Order and Dispute. An Introduction to Legal Anthropology, Penguin, Harmondsworth 1979, pp. 154-167. Cfr. anche Id., The Study of Dispute: Anthropological Perspectives, in Disputes and Settlements. Law and Human Relations in the West, a cura di J. Bossy, Cambridge University Press, Cambridge 1983, pp. 1-24; e [R. Collins, P. Fouracre, C. Wickham], Conclusion, in The Settlement of Disputes in Early Medieval Europe, a cura di W. Davies e P. Fouracre, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 207-240.

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so si riparano sotto l’ala della volontà divina. Come è stato osservato, in ancien régime è infatti possibile constatare la compresenza tra quelle che potrebbero essere definite «giustizia egemonica» e «giustizia negoziata»38. Per giustizia negoziata si intende in questo contesto l’attività esercitata da mediatori e pacieri che vengono messi all’opera perché la lacerazione indotta da un delitto venga sanata con reintegrazioni e risarcimenti, con scambi, indennizzi e ricompense. La trattativa, però, non esclude in assoluto il ricorso al giudice: perché se è vero che la sola punizione del colpevole non basta alla soddisfazione dell’offeso, è anche vero che dall’avvio di un processo pubblico egli può trarre una certa forza negoziale, da spendere nella trattativa ‘privata’, che è quella che conta. Il processo, una volta raggiunto l’accordo, si potrà sempre fermare39.

Con la giustizia egemonica, invece, si impone il principio per cui chi commette un delitto danneggia la sua vittima, ma offende anche la respublica, la quale ha diritto di soddisfarsi infliggendo una pena. E per dare seguito a tale principio, al giudice vengono accordati strumenti assai penetranti [...]. Ne nasce un processo – che per comodità chiameremo inquisitorio – destinato a connotare l’idea stessa della giustizia per un tempo lunghissimo, che arriva praticamente fino a noi40.

L’una e l’altra, però, sono comunque giustizia: la prima, per gli uomini del tempo, non è contrapposta alla seconda. Si tratta di una individuazione di categorie significativa, in quanto 38 M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessione su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Schwerhoff e A. Zorzi, il Mulino, Bologna 2001, pp. 345-364; Id., Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 163-205. 39 Ivi, p. 165. 40 Ivi, p. 168.

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rappresenta un ulteriore momento di riflessione e ripensamento rispetto all’attenzione su quelle che sono state invece definite pratiche infragiudiziarie41: tutte quelle forme di negoziazione e di accomodamento, appunto, che pur essendo previste dalla legislazione corrente venivano però gestite autonomamente dai privati, con modalità e criteri nei quali il tribunale non entrava, limitandosi a prendere atto dell’esito: la cessazione (almeno apparente) del conflitto. In realtà, è stato osservato, si tratta di un termine in parte improprio: ‘Infragiustizia’ è il nome che è stato dato alla giustizia negoziata ed a quella comunitaria, quando alcune rinnovate metodologie di indagine hanno permesso di vederle. Il fatto è, però, che il paradigma statale impediva di designare col nome di ‘giustizia’ vendette e ritorsioni, negoziati e accordi, transazioni e composizioni, mediazioni e paci private, patti, condiscendenze, rinunce, perdoni e remissioni [...]. [Sarebbe stato invece opportuno] prendere atto del fatto che quelle società consideravano giustizia in primo luogo quella comunitaria locale, destinata a risolvere i conflitti tra vicini, mentre vedevano l’azione delle giurisdizioni ‘statali’ come residuale, interinale e ultima istanza42.

Vedremo nelle pagine che seguono molti esempi di vicende concrete che avvalorano queste considerazioni. In ogni caso, l’ampiezza in tutta l’Europa di tali pratiche, comunque le si voglia definire, è stata largamente dimostrata, e non solo per il tardo Medioevo, periodo per il quale gli studi sono stati più abbondanti. Può essere dunque interessante, andando per un momento al di là delle importanti ricerche specificamente storico-giuridiche che sono già state ricordate o che lo saranno in seguito, chiedersi come questi fattori indubbiamente di più lungo periodo agiscono in età tridentina, in un periodo cioè in cui il nodo tra vita associata e vita religiosa ap41 Cfr. in particolare L’infrajudiciaire du Moyen-Âge à l’époque contemporaine, a cura di B. Garnot, Éditions Universitaires, Dijon 1996. 42 Sbriccoli, Giustizia negoziata cit., pp. 349-350.

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pare particolarmente stretto, nello sforzo della Chiesa di ristrutturare dal profondo la prima per mezzo della seconda, sia esaminando nella loro concretezza alcune istituzioni locali, sia verificando come le strutture giudiziarie di questo tipo vennero gestite dal clero, dagli ordini religiosi e, in particolare, da un ordine quale quello dei gesuiti, sempre sollecito a individuare gli strumenti più efficaci a disciplinare la società in cui essi si trovavano ad operare. Ma a questo primo oggetto di riflessione altri se ne aggiungono. Intanto sul ruolo e sulle forme del rituale di pace. È già stata sottolineata fortemente l’importanza del rituale all’interno del procedimento giudiziario; o meglio, come la ritualità sia connaturata all’atto di render giustizia, che vuole essere un atto formale, sottoposto a regole ben precise: «un repertorio di gesti, di parole, di formule, di tempi e luoghi consacrati, destinati ad esprimere il conflitto senza mettere in pericolo l’ordine e la sopravvivenza del gruppo»43. Le modalità con cui il rito di pacificazione si svolgeva, i luoghi, le parole e i gesti praticati ci interesseranno dunque da vicino: addentrarsi in questa prospettiva significa anche poter scrutare dall’interno le tecniche con cui i singoli si confrontavano con il potere e giungevano ad usare per i loro scopi privati una istituzione. Questo anche se paradossalmente quei gesti, quelle parole, quei riti costruivano, come cominceremo a vedere subito, una soluzione alternativa a quella del «fare giustizia» (almeno come lo intendiamo noi). O meglio, la giustizia sembrava poter abbracciare e includere in sé altre virtù sorelle. Essa non si limitava a recare la spada, metafora della potestas dello ius gladii, e la bilancia, simbolo dell’aequitas: una diffusa iconografia, su cui ha richiamato l’attenzione Mario Sbriccoli, la mostra nell’atto di avanzare il ginocchio destro nudo, come un sovrano che, secondo 43 R. Jacob, N. Marchal, Jalons pour une histoire de l’architecture judiciaire, in La Justice en ses temples. Regards sur l’architecture judiciaire en France, Brissaud, Paris-Poitiers 1992, p. 27, cit. in A. Garapon, Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Jacob, Paris 1997, p. 23.

I. Il dono e la grazia

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una tradizione che parte da Omero, lo offre ai sudditi perché lo abbraccino a chiedere pietà. «Il ginocchio rinvia dunque alla clemenza (al perdono, o alla stessa aequitas) [...]. Né crea contraddizione con gli altri propria Iustitiae, perché la clemenza è la prerogativa del posse, e quindi entra nel concerto delle altre ‘virtù’ al seguito della spada»44. «Earthly power doth then show likest God’s when mercy seasons justice», il potere terreno si mostra più simile a quello divino quando il perdono mitiga l’aspro sapore della giustizia, abbiamo letto poc’anzi in Shakespeare: sono parole che acquistano il loro significato più pieno proprio nel confronto con queste riflessioni. Era un concetto diffuso, legato anche alla consapevolezza della violenza terribile e brutale con cui la giustizia poteva essere esercitata – come ben sanno oggi i lettori di Michel Foucault45 – richiedendo dunque, per mitigare quella violenza, per renderla in qualche modo accettabile, qualche spazio di clemenza e di possibile perdono. Per questo in molte raffigurazioni quattro e cinquecentesche del Giudizio universale, soprattutto tedesche o fiamminghe, dalla bocca o dalle mani di Cristo giudice escono insieme un giglio e una spada (fig. 1), che esprimono l’idea che nella giustizia sovrana – quale è appunto quella divina – il diritto di punire e quello di perdonare sono inscindibilmente uniti. E sono numerosi gli emblemi di fine Cinquecento e secenteschi che mostrano rami d’olivo intrecciati a una spada o a fronde di quercia, volendo sottintendere lo stesso concetto (fig. 2): «Rigorem clementia temperet»46 (la clemenza moderi 44 M. Sbriccoli, La benda della giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal Medioevo all’Età moderna, in M. Sbriccoli et al., Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Giuffrè, Milano 2003, pp. 43-95. Una versione lievemente modificata dello stesso saggio è apparsa successivamente in lingua francese in «Crime, Histoire et Sociétés», 9, 2005, pp. 33-78. 45 M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976. 46 Peter Iselburg, Emblemata politica, Wolff Endters, Nürnberg 1640, n. 32, riprodotto in Emblemata. Handbuch zur Sinnbildkunst des 16. und 17. Jahrhunderts, a cura di A. Henkel e A. Schöne, Mezler, Stuttgart 1967, col. 215. Ma cfr. anche le coll. 210 e 1499-1501.

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il rigore). Ancora più esplicitamente, un quadro della pittrice Elisabetta Sirani, datato 1664, ci mostra la Giustizia fiancheggiata dalla Carità e dalla Prudenza, che sembrano consigliarla e rappresentarne gli attributi imprescindibili (fig. 3). La Giustizia impugna la spada e non è bendata, ma guarda davanti a sé; la Prudenza le indica uno specchio, suggerendole, insieme alla Carità, di moderare il suo impeto. È stato detto, con parole di sapore antico, che «non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza perdono». Alla fonte di quelle parole c’è un versetto di un salmo, Iustitia et pax osculatae sunt (Ps. 84, 11), che non solo ha avuto un’immensa fortuna e una ricchissima esegesi letteraria nel Medioevo, ma ha anche ricevuto una abbondante illustrazione iconografica soprattutto (ma non solo) nei Paesi Bassi del tardo Cinquecento47: ancora nel 1649 un grande quadro di Theodor von Thulden, intitolato appunto Osculum Justitiae et Pacis, celebrava le paci di Westfalia con la raffigurazione delle due virtù abbracciate e circondate di putti festanti (fig. 4)48. Sono parole di cui non possiamo dimenticare il forte impatto nella società d’antico regime. Ma quella che veniva conclusa con quei rituali poteva essere, assai spesso, una pace senza giustizia e senza perdono; oppure il perdono poteva porsi come un atto separato, che non concludeva il conflitto, ma si poneva su un piano diviso ed altro. L’abbraccio della pace e della giustizia è sempre auspicabile, ma non è sempre agevole.

47 R. Wohlfeil, Pax Antwerpensis. Eine Fallstudie zu Verbildlichungen der Friedensidee am Beispiel der Allegorie „Kuß von Gerechtigkeit und Friede“, in Historische Bildkunde. Probleme - Wege - Beispiele, a cura di B. Tolkemitt e R. Wohlfeil, Duncker & Humblot, Berlin 1991, pp. 211-258; K. Schreiner, «Gerechtigkeit und Frieden haben sich geküßt» (Ps. 84, 11). Friedensstiftung durch symbolisches Handeln, in Träger und Instrumentarien des Friedens im Hohen und Späten Mittelalter, a cura di J. Fried, Thorbecke, Sigmaringen 1996, pp. 37-86. 48 Conservato al Deutsches Historisches Museum di Berlino. Un altro quadro dello stesso soggetto e dello stesso autore è posseduto dal Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte di Münster.

Capitolo secondo RINUNCIA Negli archivi criminali Per entrare nel vivo degli argomenti proposti nel precedente capitolo proviamo a verificarli nel concreto della pratica giudiziaria e sociale dell’età tridentina, in una città dello stato pontificio. Dobbiamo dunque addentrarci in un archivio, e precisamente nell’archivio bolognese del tribunale criminale del Torrone. Il tribunale, che rappresentava in città l’estensione giudiziaria del potere del legato pontificio, fu operante dal 1531 – tale almeno è la data dei primi atti che ci sono rimasti – sino all’arrivo delle truppe francesi nel 1796; nel suo archivio sono conservati circa 10.400 volumi di atti processuali, insieme ad un numero assai minore di altri materiali, non tutti inventariati e quindi utilizzabili dallo studioso1. Si tratta dunque di un tesoro senza pari, anche se di difficile esplorazione pro1 Vedi in proposito T. Di Zio, Il tribunale criminale di Bologna nel secolo XVI, in «Archivi per la storia», 4, 1991, pp. 125-135; M. Fornasari, Il «Thesoro» della città. Il Monte di Pietà e l’economia bolognese nei secoli XV e XVI, il Mulino, Bologna 1994, pp. 192-207; G. Angelozzi, C. Casanova, La nobiltà disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, CLUEB, Bologna 2003, pp. 72-86; C. Casanova, L’amministrazione della giustizia a Bologna nell’età moderna. Alcune anticipazioni sul Tribunale del Torrone, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, 2004, pp. 267-292. In generale sui tribunali dello stato della Chiesa cfr. I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2007.

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prio per la sua massa. Ognuno di quei volumi consta infatti di diverse centinaia di carte e contiene la trascrizione approssimativamente di almeno un centinaio fra processi e semplici denunce; e ogni anno di lavoro del tribunale si estende in genere – almeno per il tardo Cinquecento e il primo Seicento – su oltre cento volumi. Mancando repertoriazioni che consentano di individuare all’interno della massa dei procedimenti una specifica tipologia criminale, né essendovi un indice nominativo, tranne che all’inizio di ogni volume, e anche questo poco affidabile e in ogni caso concernente solo gli accusati, lo storico è costretto ad una ricerca per sondaggi (quelli che troveremo qui rientrano nell’arco cronologico 1580-1630), che tuttavia può consentire molte piacevoli sorprese. Certo, lo studio dei processi criminali può presentare dei rischi. Da molte parti, e soprattutto da parte dei giuristi, sono giunte agli storici esortazioni a utilizzare con prudenza i materiali processuali, valutandoli per quello che sono e dunque considerandone gli atti non come la riproduzione sicura di una realtà, ma soltanto come l’esito di una procedura obbligata che di quella realtà è specchio ma anche filtro, insomma come il racconto dell’attività e degli apparati di una istituzione; ciò che questi materiali ci consentono di conoscere e misurare non sono, se non in minima parte, le dimensioni e le caratteristiche della criminalità del tempo, ma solo ed esclusivamente la capacità repressiva del potere e le forme da esso impiegate a questo scopo. I fatti studiati, è stato detto, non sono «fatti», sono costruzioni giuridiche che ci danno conto dei rapporti esistenti fra poteri, società e soggetti, colti attraverso la mediazione del diritto, e che vanno decifrate conoscendone il linguaggio: che è un linguaggio fortemente formalizzato e frutto di una costruzione storica2. 2 Cfr. M. Sbriccoli, Histoire de la criminalité et histoire du droit. Le rôle des sources juridiques dans l’histoire du crime et de la justice criminelle, in Douze ans de recherche sur l’histoire du crime et de la justice criminelle (1978/1990): hommage à Yves Castan, Maison des Sciences de l’Homme, Paris 1991, pp. 86-102.

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Indubbiamente la cautela nei riguardi delle fonti processuali è d’obbligo, come nei riguardi di qualunque altra fonte storica, e l’ingenuità positivista di chi le ha utilizzate è stata talora eccessiva, soprattutto quando si è immaginato di poter fare una affidabile storia quantitativa della criminalità («un’operazione dal significato storico assai debole»3, scriveva Edoardo Grendi nel 1987). Ma una giusta prudenza non deve spingere a trascurare quello che esse ci possono dare. Se ci si fosse attenuti troppo strettamente alla valutazione riportata sopra, non si sarebbero potuti utilizzare i processi dell’Inquisizione romana per conoscere le idee degli inquisiti, ma solo la struttura dell’istituzione: che è un tema importante, come dimostrano gli studi condotti negli ultimi anni, ma che ovviamente non esaurisce le potenzialità di quella documentazione. Si osservi inoltre che molto spesso anche testimonianze che possiamo presumere non rispondenti al vero ci offrono in realtà molti dati, essendo costruite allo scopo di essere verosimili e quindi credibili, e ci permettono dunque di cogliere quello che in date situazioni veniva considerato il racconto più plausibile degli eventi, e perciò di comprendere uno schema-tipo prevedibile dei fatti. Persino il racconto fatto sotto tortura da una supposta strega, che è dunque certamente forzato, è ricco di informazioni: perché ci fa conoscere che cosa la donna inquisita poteva presumere che si aspettasse di sentire da lei chi la interrogava, e nello stesso tempo ci permette di intravvedere qualche frammento della sua propria visione del mondo o delle sue proprie credenze che essa utilizza per costruire il racconto che offre all’inquisitore, in una sorta di bricolage in cui materiali propri sono inseriti in una architettura immaginata dalla riflessione teologica4. Inoltre «scavando dentro i testi, contro le intenzioni di chi li ha pro3 E. Grendi, Premessa, in Fonti criminali e storia sociale, in «Quaderni storici», n. 66, 1987, p. 695. 4 Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, cap. 14, L’inquisitore come antropologo, pp. 270-280.

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dotti, si possono far emergere voci incontrollate»5: spessissimo testimoni ed accusati danno involontariamente una serie di informazioni casuali e di riferimenti di ogni sorta al proprio mondo culturale come agli aspetti più diversi e banali, quindi mai descritti, della vita associata. Sono quegli «indizi che il passato ha lasciato cadere, senza premeditazione, lungo il suo cammino», come ha scritto Marc Bloch, che consentono allo studioso indagini che vanno molto al di là della rilevazione della criminalità e della sua repressione in un dato periodo6. In conclusione, il rapporto fra le testimonianze offerte dalle fonti – in particolare da quelle giudiziarie –, la realtà a cui esse alludono e, non dimentichiamolo, la scrittura elaborata in base ad esse dallo storico è sempre complesso e problematico7, e non può essere appiattito sul semplice riconoscimento della qualità formale del documento esaminato. Infine, tornando al fondo del Torrone, la sua straordinaria ricchezza non si esaurisce nella sua ampiezza e nella quantità dei procedimenti che troviamo trascritti, e dunque nelle informazioni che lo storico può trarne, sulla procedura giudiziaria come sugli eventi che hanno messo in moto il processo o sulle circostanze di vita quotidiana che esso ci rivela. Infatti il ricercatore che apra qualcuno di quei diecimila e più volumi troverà di frequente inseriti tra una pagina e l’altra, o infilati sotto lo spago che cuce i quinterni, moduli a stampa, foglietti scritti a mano, disegni, addirittura oggetti, come una spiga di grano o un coltello. Altre volte l’arma del delitto – il coltello, un grimaldello – nella sua fisicità manca, ma ne è riIvi, p. 10. Vedi in proposito le notazioni di Y.M. Bercé, Les fonds judiciaires, source de l’histoire des comportements, in Les archives du délit: empreintes de société, a cura di Y.M. Bercé e Y. Castan, Éditions Universitaires du Sud, Toulouse 1990, pp. 7-14, nonché le ricerche, che utilizzano gli atti processuali dell’archivio del Torrone, di A. Pastore, Crimine e giustizia in tempo di peste nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari 1991 e, di chi scrive, Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Laterza, Roma-Bari 20042. La citazione di M. Bloch in Apologia della storia, Einaudi, Torino 1950, p. 65. 7 Cfr. Ginzburg, Il filo e le tracce cit., in particolare pp. 8, 223. 5 6

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masta la traccia viva nel disegno che il notaio ne ha tracciato sul foglio seguendo i suoi margini, per lasciare una memoria precisa della sua forma e delle sue dimensioni. L’imprevisto è dunque a portata di mano. Apriamo un volume e vediamo che cosa cade sotto la nostra attenzione. Domenico e Giovan Battista Ecco ad esempio una carta sciolta infilata fra due pagine: In nome di Dio à di 28 aprile 1590 in Bologna. Facciamo fede noi infrascritti come Domenico figliolo di Bartolomeo da Pianoro d’anni 14 incirca, et Giovanni Battista figliolo di Bartolomeo Ghiraldini d’anni undici incirca, tutti dui habitatori in Bologna sotto la parochia di S.to Proculo, hanno fatto pace d’ogni questione et differenza et di qualunque percossa ancorché sanguinolenta nata fra loro, essendo a questa pace stati mezani li sopradetti Bartolomeo da Pianoro et Bartolomeo Ghiraldini loro padri. Et di più detto Gio. Battista con il consenso di suo padre renuntia ogni querela fatta da qual si voglia persona nel Torrone, e alli atti di qual si voglia notaro, et si contenta che sia cancellata dalli libri del detto Torrone, et per fede della verità la presente sarà sottoscritta da Bartolomeo da Pianoro, et Bartolomeo Ghiraldini la farà sottoscrivere a uno che lo conosca, per non sapere scrivere. [con altre scritture e altro inchiostro comune a tutti i firmatari] Io sac. Gulielmi curato della chiesa di San Proculo fui presente a fare questa pace. Io Bartolomé da Pianori afermi quanti di sopra si contieni. Io Antonio di Zochi i.nome di mestro Bartolomeo di Giraldini afermo quanto di sopra si contiene et in fede di zio [sic] li farà una croze per non sapie scrivere + et qui fu presente il S.or Pacecho [?] Luna, d.nus Bartholomeo Zochi et Nicolò Salvini [le parole dopo la croce sono di mano del curato Guglielmi]8. 8 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASB), Torrone, 2277, carta sciolta inserita a c. 221 (Appendice I, 13).

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Chi legge troverà molti motivi di curiosità e meraviglia nel documento che abbiamo riportato sopra (almeno, così è stato per chi scrive). Diversi elementi balzano subito agli occhi: intanto il fatto che i due protagonisti di quello che, in ogni modo lo si voglia considerare, è un documento legale, siano due ragazzetti di undici e quattordici anni; poi l’allusione a «differenze» e «percosse» sanguinolente intercorse fra loro; infine l’apparato di testimoni, pacieri, mezzani che sono segnalati come presenti e partecipi al rito di pacificazione per quello che – come appare dal breve processo a cui il documento fa riferimento – era stato certamente un episodio di modesta rilevanza. Ne apprendiamo la storia dalla testimonianza del ragazzo ferito: La seconda festa di Pasqua di redentione prossima passata, andando io in Mirasole [una via di Bologna sita nella parrocchia di San Procolo] per andar a casa di messer Nicolò Bonfiolo [nella cui bottega Giovan Battista serviva come garzone], me incontrai con un ragazzo più grande di me che io ho tredici anni [...] il quale me diede un urtono e io dandone un altro a lui ce attaccasimo alli pugni, et lui cacciò mano a un cortello de quelli che si serra che portava, et me menò una botta qui ne la fronte che me ce ha fatto una ferita9.

Il giovane Giovan Battista, autore della denuncia, si attribuiva tredici anni, mentre il padre gliene dava solo undici, probabilmente per diminuire la sua eventuale responsabilità – infatti i giuristi consideravano che i dodici anni connotassero un fanciullo come «puer proximus pubertati», quindi almeno parzialmente punibile10 – ma anche, forse, per reale incertezza. Era, quest’ultimo, un dato comune nella prima età moderna, quando la consapevolezza esatta degli anni della propria vita era quantomeno dubbia, ed era possibile rispondere ad una domanda sulla propria età con le parole «Io non Ivi, c. 220v. Giovan Francesco Fara, De essentia infantis, proximi infantiae et proximi pubertati, Giunta, Firenze 1568, e in generale cfr., di chi scrive, Il seme della violenza cit., pp. 10-14. 9

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so quanti anni mi habbia, che mia madre non me l’ha detto mai quanti anni habbia»11. In ogni caso, l’aggressività accentuata fra ragazzi di quell’età (undici, tredici, quattordici anni) era una realtà diffusa nell’Italia e nella Bologna dell’epoca. Era altresì normale che gli atti derivati da tale aggressività fossero oggetto di una regolare denuncia. Questo anche quando la violenza interpersonale si esprimeva per mezzo di strumenti in minor grado di nuocere rispetto al coltello a serramanico di cui era munito Domenico, come sassi, bastoncelli, o anche le sole mani nude12: bastava veder comparire un po’ di sangue. Infatti l’effusio sanguinis, anche se modestissima e dovuta ad una ferita come quella inferta in fronte a Giovan Battista, che risulta in ogni caso poco più che uno sgraffio, era comunque sufficiente, secondo le prescrizioni degli statuti cittadini13, a provocare l’intervento del ministrale della cappella, cioè dell’ufficiale che aveva l’obbligo di tenere sotto controllo l’ordine pubblico all’interno di ciascuna circoscrizione urbana (o del massaro, che adempiva lo stesso ufficio nelle comunità del contado); e ciò anche quando i protagonisti della vicenda erano dei bambinetti di sei o sette anni. A questo punto scattava quindi doverosamente una denuncia, che veniva presentata dallo stesso ministrale o dal massaro ai notai del tribunale del Torrone. Ma al di là di questi elementi che concernono l’episodio violento fra i due ragazzi, è il documento in sé e il suo ruolo nel rituale processuale che suscitano l’interesse del lettore. Una nota a margine, di mano del notaio che ha redatto gli at11 ASB, Torrone, 5472, c. n.n. (giugno 1626). In generale cfr. D. Herlihy, Ch. Klapisch Zuber, I Toscani e le loro famiglie, il Mulino, Bologna 1978, pp. 491-499, e per altra esemplificazione bolognese vedi, di chi scrive, Storie di ogni giorno cit., p. 9. 12 Cfr., di chi scrive, Il seme della violenza cit., pp. 141-145. Sull’accentuata aggressività e violenza dei fanciulli in questo periodo cfr. ivi, passim; ulteriori dati in G. Politi, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, Sugar, Milano 1976, pp. 386-388. 13 Statuta civilia et criminalia civitatis Bononiae, a cura di Ph.C. Saccus, I, ex Tipographia Constantini Pisarri, Bononiae 1735, p. 481, R. LVI.

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ti, ce ne dà il debito conto, informandoci altresì sull’esito del procedimento: Die ult.a Aprilis 1590. Ill.mus D. Auditor Turionis attenta renuntia, paupertate, et aetate puerili dicti Dominici querelati mandavit dictam querelam cassari14.

Qualche dato quantitativo Dunque questa è una «rinuncia», come del resto il documento stesso ci avvertiva (anche se il curato la definisce una pace: «fui presente a fare questa pace»). È un atto cioè con il quale la parte lesa rinuncia a perseguire il reo; di solito, anche se questo non viene mai detto esplicitamente, a seguito di qualche forma di compenso, e/o dietro promessa della cessazione di ostilità dall’altra parte, possibilmente garantita da un terzo. Vedremo più avanti degli esempi espliciti e concreti di dinamiche del genere. Di fatto, nel procedimento che coinvolge Domenico e Giovan Battista l’Uditore del Torrone (così era chiamato il giudice del tribunale, fino al 1559 nominato dal legato pontificio e poi direttamente dal papa) «ricevuta la rinuncia, e considerando la povertà e la giovane età di Domenico, dà disposizione che la querela già recepita dal tribunale sia cassata»: questo il significato delle parole citate sopra. In realtà i processi del tribunale bolognese del Torrone si concludevano ben di rado con una sentenza di condanna, e ancor più di rado con una condanna eseguita15: assai più spesso essi s’interrompevano, o senza alcuna motivazione (comunque l’inefficienza del tribunale è sempre una spiegazione sufficiente) o con una assoluzione, o con l’indicazione, appunto, che era ASB, Torrone, 2277, c. 220r. Osservazioni in proposito in A. Gardi, Lo Stato in provincia. L’amministrazione della legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1994, pp. 213-216, che però non menziona lo strumento della rinuncia. 14 15

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stata presentata una «rinuncia» da parte del querelante. Talora poi la sentenza, già emessa, veniva commutata da un’autorità superiore, che però graduava le proprie concessioni in base all’ottenimento o meno, da parte del reo, della pace dell’offeso: un tipo di documento del quale avremo occasione di parlare in seguito, e che teoricamente era distinto dalla rinuncia, ma nella prassi invece era spesso confuso con essa, come del resto abbiamo visto proprio nella carta discussa sopra16. Di norma è impossibile, per la straordinaria massa del materiale, effettuare valutazioni quantitative sugli atti del Torrone, anche per un solo anno. Tuttavia una ricerca che ha potuto considerare integralmente tutti i processi criminali lungo il decennio 1633-1642 concernenti una singola località del contado bolognese, Crevalcore, ha dato dei risultati impressionanti: infatti su 487 processi di cui, per quell’arco di tempo, si conosce la conclusione, ben 219 vedono intervenire la rinuncia del querelante17. Cioè circa nel 45% dei casi (per l’esattezza il 44,96%) il tribunale ha dovuto prendere atto del dato di fatto che querelante e accusato hanno risolto i loro conflitti al di fuori dell’aula giudiziaria, davanti a personaggi diversi dall’Uditore e dai notai del Torrone, in base a trattative e secondo modalità di cui il tribunale stesso non viene neppure informato. Dati del tutto analoghi emergono del resto anche da un’altra fonte. Si tratta di un voluminoso incartamento – circa 500 carte in folio – sul quale uno dei notai del Torrone, Girolamo Marini, registrò brevemente i procedimenti da lui avviati negli anni 1584-159018. Un documento che sarebbe davvero pre16 Si veda più avanti il processo contro Lorenzo Riccardi per ferite inferte a Taddeo da Abello (ASB, Torrone, 2277, cc. 230r-233v, 253r-254v, 264r270v, 310r-311r), nonché le rinunce in Appendice I, 1, 6, 12a, 12b, 14, 15, 26, 32, 34, 37, 47, 48, 50, 54, 57. 17 R. Mariani, Criminalità e controllo sociale nella Crevalcore del Seicento, tesi di laurea discussa nell’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990/91, pp. 71-73. 18 ASB, Torrone, 1674/46.

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zioso se fosse attendibile, consentendo di quantificare per un certo numero di anni le proporzioni dei reati perseguiti e degli esiti processuali: e in effetti il Marini cominciò con grande diligenza la sua schedatura, stendendo in bella grafia il riassunto latino della vicenda che aveva dato luogo a ciascun procedimento e appuntandone in calce o a lato gli esiti – fra cui la presenza di eventuali rinunce, che in qualche caso sono rimaste anche inserite nel volume. Ma ben presto l’impegno si rivelò eccessivo per il tempo o le energie del Marini. Gli appunti divennero progressivamente sempre più frettolosi e mal scritti, oltre che redatti in volgare e non più in latino, e diminuirono fino a scomparire le notazioni in calce. Fra esse appunto la segnalazione delle rinunce, che diventò del tutto occasionale, tanto da non esser presente neppure nei casi in cui è allegato il foglio contenente la rinuncia stessa. Dunque il ricercatore deve desistere dal tentativo di calcolare la percentuale delle rinunce sulle molte migliaia di procedimenti registrati, e dovrà contentarsi di affidarsi alla sola diligenza iniziale del Marini. Sui primi cento procedimenti regestati, in 39 viene segnalata la presenza di una rinuncia; 4 di esse su 23 processi riguardano la città, e ben 35 su 77 concernono il contado. Sono dati casuali su cui non si potrà fare troppo affidamento. Rimane però la constatazione che le cifre riguardanti il contado confermano esattamente quanto conoscevamo dalla ricerca su Crevalcore, che del resto del contado bolognese faceva parte: anche qui il 45,45% dei procedimenti risulta concluso con una rinuncia, che mostra così il suo ruolo fondamentale nel dipanare la micro-conflittualità sia urbana che soprattutto rurale. La teoria giuridica Il frequente ricorso a questo strumento, che possiamo dunque considerare accertato, non era un dato specificamente bolognese, anche se il nome con cui questo tipo di atti è definito è mutevole a seconda del luogo. Di fatto si trattava di

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pratiche che sono del tutto proprie della civiltà giudiziaria d’antico regime in cui le troviamo collocate. Esse, come è stato osservato, erano sostanzialmente il frutto della scarsa istituzionalizzazione delle forme giuridiche, e comunque dell’incapacità dei membri della comunità di accettare una rigorosa formalizzazione delle procedure, tanto che il processo condotto dal pubblico potere risultava sgradito – si diceva – non meno della riscossione delle imposte, e ogni possibilità di sfuggirvi era ben vista19. I processi, il cui numero si va moltiplicando nella seconda metà del XVI secolo, venivano anzi comunemente considerati «un male pubblico» come il vizio o il crimine, lo spazio nel quale il ricco e il potente potevano opprimere il povero e il debole20. Queste osservazioni sono state fatte a proposito del mondo iberico, ma esse valgono certamente anche per gli stati italiani di antico regime, nei quali di fatto l’insofferenza nei riguardi dell’attività giudiziaria era un atteggiamento universalmente diffuso. Erano molti coloro che preferivano sistemare le proprie quotidiane contese con mezzi propri (anche con le armi) evitando i tribunali21, ma nonostante ciò tali occorrenze si presentavano con una straordinaria frequenza, ben testimoniata proprio dall’imponenza dell’archivio del tribunale del Torrone, e suscitavano una diffusa esasperazione e il desiderio di troncare al più presto liti e processi. Si trattava di un luogo comune diffuso in buona parte d’Europa: ancora verso la fine del Seicento il giurista tedesco Christoph Conrad Schmid sottolineava come la società fosse lacerata da «oziose contese» e raccomandava ai suoi colleghi di contenere «un tal prurito di far lite»22. La soluzione stava nell’accordarsi fuori del tribunale: Hespanha, La gracia del derecho cit., pp. 23-24, 29-31. R.L. Kagan, Lawsuits and litigants in Castile 1500-1700, South Carolina University Press, Chapel Hill 1981, p. 17. 21 P. Blastenbrei, Violence, arms and criminal justice in papal Rome, 15601600, in «Renaissance Studies», 20, 2006, p. 83. 22 Christophorus Conradus Schmid, De litis renunciatione, Jena 1693, pp. 3-4. 19 20

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«Io non son comparso quando son stato cittato perché non havevo nessuno che abbadasse a fare li fatti miei, et la renuntia l’ho pur cercata, et l’ho havuta per fare cassare le dette querele senza havere da lettigare», dichiara il 2 agosto 1603 Benincà Basigalli, che, accusato di aver percosso un compaesano, aveva badato a tenersi il più a lungo possibile alla larga dal tribunale nonostante le convocazioni ricevute, e vi era entrato solo quando era stato in possesso della rinuncia23. Una composizione in versi stampata a Venezia verso il 1570, Le miserie et struscie de gli sventurati litiganti, sottolinea quanto sia meglio, rispetto al processo, cedere ed accordarsi: Un litigante ha ogn’hor pene infinite, vivendo è in purgatorio, anzi vivendo è cittadin de la città di Dite24.

E gli stessi concetti appaiono ancora, per esempio, in una commedia di pochi anni successiva di Anton Francesco Grazzini, La strega: «Tra l’altre molte noie e infiniti fastidi che sono in questo mondo questo del piatire [= sporgere querela] non è il minore [...]. E però si dice che gli è meglio assai un magro accordo che una grassa sentenza»25. Per questo negli archivi giudiziari italiani è facile trovar notizia di tali accordi, e con il procedere delle ricerche in quest’ambito le constatazioni in questo senso si sono moltiplicate, fino a consentire la percezione di un modo globale di funzionare della giustizia d’ancien régime. Un fitto tessuto di pratiche arbitrali e compensatorie è emerso nel contesto ligure, mettendo in evidenza il ruolo da esse rivestito nella gestione di governo della Repubblica di Genova; le indagini compiute nei tribunali romani del Cinquecento hanno permesso di ASB, Torrone, 3442, c. 122r. Le miserie et struscie de gli sventurati litiganti. Et insieme li peccatigli degli avvocati, Venezia s.d. [1550?], c. 4r. 25 Anton Francesco Grazzini, La strega, Bernardo Giunti e fratelli, Venezia 1582, c. 44r-v. 23 24

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constatare che in quel contesto più della metà dei processi criminali si concludevano senza alcun effetto punitivo, ma solo con una condanna in contumacia o con un accordo extragiudiziale, come la «pace» o il «consenso»; e una ricerca specifica ha potuto constatare che l’archivio dell’ospedale della Consolazione di Roma conserva, a partire dal 1638 e sino al 1859, ben 19 volumi contenenti la registrazione di «paci et consenzi» raccolti, anche 70 in un solo anno, dai confessori al letto dei feriti che venivano curati in quell’ospedale (vedremo nel capitolo quarto che interpretazione si debba dare del ruolo dei confessori nella raccolta di questi accordi). Le ricerche concernenti gli stati estensi hanno verificato come solo eccezionalmente i sudditi trascurassero di tentare una composizione del conflitto per via extragiudiziale; infine, il ruolo della charta remissionis et pacis nello svolgimento dei processi celebrati a Cremona nell’età di Filippo II è stato segnalato già trent’anni fa26. 26 O. Raggio, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Einaudi, Torino 1990; P. Blastenbrei, I romani tra violenza e giustizia nel tardo Cinquecento, in «Roma moderna e contemporanea. Rivista interdisciplinare di storia», 5, 1997, p. 76 (e cfr. l’intero fascicolo, curato da I. Fosi e dedicato a Tribunali giustizia e società nella Roma del Cinque e Seicento). Ma vedi anche, dello stesso P. Blastenbrei, Zur Arbeitweise der römischen Kriminalgerichte im späteren 16. Jahrhundert, in «Quellen u. Forschungen aus italienischen Archiven u. Bibliotheken», 71, 1991, pp. 425-481 (soprattutto pp. 472-474). Un esame della criminalità romana sotto il profilo quantitativo in Id., Kriminalität in Rom 1560-1585, Niemeyer, Tübingen 1995. Sul fondo dell’ospedale della Consolazione A. Osbat, «È il perdonar magnanima vendetta»: i pacificatori tra bene comune e amor di Dio, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 27, 1998, n. 53, pp. 143-146. Sul consenso e la pace nel tribunale criminale capitolino: M. Di Sivo, Il tribunale criminale capitolino nei secoli XVI-XVIII, in «Roma moderna e contemporanea», 3, 1995, p. 213. Notazioni sulla ricerca di accordi extragiudiziali nei tribunali civili romani in R. Ago, Una giustizia personalizzata. I tribunali civili di Roma nel XVII secolo, in «Quaderni storici», n. 101, 1999, p. 403. Sugli stati estensi cfr. M. Folin, Il sistema politico estense fra mutamenti e persistenze (secoli XV-XVIII), in «Società e storia», n. 77, 1997, pp. 505-549, e in particolare p. 526. Su Cremona, Politi, Aristocrazia e potere politico cit., pp. 376-377, e anche G.P. Massetto, Un magistrato e una città nella Lombardia spagnola. Giulio Claro pretore a Cremona, Giuffrè, Milano 1985.

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Più in generale, si può affermare che la rinuncia era un mezzo di sedazione della società riconosciuto comunemente dagli statuti cittadini in età comunale, e in alcune aree alpine addirittura sino alla fine del Settecento27; Cesare Beccaria ne parla come di una istituzione a lui contemporanea, cogliendone con lucidità le incongruenze: Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza ed all’umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità dell’esempio, come può condonare il risarcimento dell’offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano28.

Allargando ancora il nostro raggio di osservazione, è possibile constatare che la rinuncia (o remissione, o consenso, o perdono) era utilizzata non solo negli stati italiani, ma sostanzialmente in tutta Europa29. A fine Cinquecento il giurista Prospero Farinacci riassumeva così la materia, ricordando la sua esperienza personale: «Benché alcuni abbiano affermato che qualora si sia ottenuta la pace e la remissione della parte lesa debba essere imposta una minore pena, tuttavia l’opinione contraria è più comune», in quanto i procedimenti possono aver luogo senza una accusa che possa essere ritirata da un privato; io peraltro a Roma ho visto seguire questa prassi, che nei delitti leggeri e non atroci, qualora si sia ottenuta la pace dalla parte lesa non viene emessa quasi nessuna condanna, oppure di una pena modesta, rilasciando peraltro il reo con cauzione e con l’obbligo di restare a disposizione. 27 A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, vol. V, Storia del diritto penale, Premiato stabilimento tipografico alla Minerva, Padova 1876, pp. 169-171. Cenni in G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano, a cura di P. Del Giudice, III, 2, Hoepli, Milano 1927, pp. 377 e 390. 28 Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., § XXIX, p. 72. 29 Cfr. L’infrajudiciaire du Moyen-Âge à l’époque contemporaine cit.

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In delitti considerati atroci, come nell’omicidio semplice o avvenuto nel calore di una rissa, continua Farinacci, si è visto qualche volta che avendo avuto il reo la pace, la pena è stata attenuata; ciò che è impossibile in omicidi premeditati o in altri particolarmente feroci, come per esempio un parricidio30. In effetti, la remissione o rinuncia era uno strumento residuale del processo accusatorio, che era basato appunto sull’iniziativa della parte lesa31; però anche nel processo inquisitorio erano rimaste inglobate alcune reliquie del precedente sistema, come la denuncia – che a Bologna veniva raccolta dai massari delle singole comunità nel contado, e dai ministrali delle cappelle in città, e poi era trasmessa ai notai del Torrone – e, corrispondentemente, la rinuncia: quando l’accusatore decideva di rinunciare a proseguire nella sua iniziativa, soprattutto agli inizi del procedimento, esso di conseguenza veniva a cadere. Questo, naturalmente, solo per i reati minori, e entro limiti progressivamente sempre più ristretti: come si vedrà per Bologna, i reati per cui si procedeva d’ufficio escludevano, almeno in via teorica, la possibilità della rinuncia, che era evidentemente uno strumento arcaico, sostanzialmente inadeguato ad una società in via di trasforma30 «Licet aliqui dixerint quam per pacem et remissionem habitam a parte debeat minor poena imponi [...] nihilhominus contraria opinio est magis communis [...] Ego vero in Urbe ita servatum vidi, quod in delictis levibus, et non atrocibus, habita pace a parte vel ulla prorsus (reo sub cautione de repraesentando dimisso), vel modicae poenae secuta est condemnatio»: Prospero Farinacci, Praxis et Theorica criminalis, Giunta, Venezia 1604, I, I, Quaest. IV, 34, p. 36. 31 E. Dezza, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai codici moderni, Giuffrè, Milano 1989, pp. 4-70; M. Bellabarba, La représentation des délits entre droit publique et droit privé. L’infrajustice dans les criminalistes italiens de l’époque moderne, in L’infrajudiciaire du Moyen-Âge à l’époque contemporaine cit., pp. 55-68. Cfr. altresì, per un esame del variare del valore delle prove e della discrezionalità del giudice nelle due tipologie processuali, G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Jovene, Napoli 1979; M.R. Weisser, Criminalità e repressione nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 1989, p. 90.

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zione economica e sociale32; e non è certamente casuale che dai pochi dati bolognesi riportati sopra le rinunce risultino molto più numerose per le comunità del contado rispetto all’ambito urbano, sia in assoluto che in percentuale. Potremmo definire la rinuncia una delle tante tracce che ci sono rimaste della fatica e della difficoltà della costruzione dello Stato inteso in senso moderno, una sorta di «fossile guida» che ci segnala una situazione di ritardo – o meglio, di quello che ai nostri occhi contemporanei può apparire un ritardo, ma che in realtà era innanzitutto un modo di operare e di procedere del quale dobbiamo prendere atto e di cui occorre comprendere il funzionamento, in quanto si trattava di un piccolo ma importante ingranaggio dell’intera macchina politica e sociale. Gli statuti bolognesi del 1454 accettavano comunque lo strumento della rinuncia, sia pure con formulazioni limitative; il punto cruciale era che essa fosse presentata «ante probationes accusatoris factas per illum qui renunciare possit» (prima che colui che ha la potestà di rinunciare abbia presentato delle prove)33. Se invece la rinuncia era successiva alla presentazione delle prove, la pena – in particolare nei suoi aspetti pecuniari – poteva eventualmente essere dimezzata34. Le Costituzioni del tribunale del Torrone, emanate nel 1560 dal legato pontificio cardinale Giovanni Morone (all’interno del regime bolognese di governo misto, era dal potere del legato che dipendeva il Torrone), e poi confermate e ampliate da Carlo Borromeo nel 1565, riprendevano questo punto: «si antequam factae fuerint probationes accusator, vel querelans, accusationi vel querele renunciaverit, non possit ulterius in ea causa procedere» (se l’accusatore o il querelante ha rinunciato all’accusa o alla querela, non si può ulteriormente proce32 Come è stato rilevato a proposito delle escrituras de compromiso della Castiglia del Cinquecento: Kagan, Lawsuits and litigants cit., pp. 135-136. 33 Statuta civilia et criminalia cit., I, Statuta criminalia, Rubrica VI, §15, p. 422. 34 Ivi, p. 421.

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dere nella causa)35. Da questa possibilità erano esclusi peraltro, come si diceva sopra, i delitti per cui si procedeva senza denuncia e quindi d’ufficio, che non erano pochi: crimine di lesa maestà, assassinio e omicidio, incendio doloso, avvelenamento, moneta falsa, stupro violento, violenza su donne di qualsiasi condizione, bestemmia, mancato rispetto dei bandi, violenza su pubblico ufficiale e stercorazione in faccia36. Ancora nel 1602 il vicelegato Orazio Spinola ribadiva «che nelle cause leggieri, e minime, dove si procede a istanza della parte, avuta la rinuncia non si possa più oltre procedere»37. In tali situazioni il tribunale recepiva dunque la rinuncia dell’offeso, accettando implicitamente forme di composizione e di risarcimento altre da quelle che esso poteva per sua natura perseguire. In questo, come in tanti altri contesti, ancora nella piena età moderna risulta insomma evidente, come ha scritto Giorgio Chittolini, quel «sistema di istituzioni, di poteri e di pratiche [...] che ha fra le sue principali caratteristiche una sorta di programmatica permeabilità da parte di forze ed intenzioni diverse (o, se vogliamo, ‘private’), pur in una unità complessiva di organizzazione politica»38. La prassi Questa la normativa. Ma quale era la prassi della rinuncia? Per conoscerla potremo volgerci ad un esame delle rinunce raccolte all’interno degli atti processuali. Ma in realtà almeno a Bologna, negli atti del tribunale del Torrone, si tratta di ma35 Bolle, Brievi et Provvigioni per il Sagro Monte di Pietà con le Costituzioni del Foro Criminale detto del Torrone di Bologna, Sassi, Bologna 1724, p. 11. Ma vedi anche pp. 48-49. 36 Ivi, pp. 44-45. 37 Ivi, pp. 139-140. 38 G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Mohlo e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1994, p. 569.

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teriali che non vengono quasi mai conservati e neppure trascritti; ed è davvero raro che i materiali processuali contengano riferimenti alle trattative che ne avevano preparato la redazione. Di norma, come si è già detto, troviamo la semplice indicazione del fatto che un tal documento è stato presentato in qualche breve annotazione tracciata dal notaio su mandato dell’Uditore a margine o a piè di pagina, come quella che abbiamo già ricordato all’inizio del capitolo. La stessa ricerca concernente Crevalcore citata sopra menziona il ritrovamento di un’unica rinuncia all’interno dei 219 procedimenti che esplicitamente ne menzionano l’esistenza39. Né questi materiali potrebbero essere reperiti all’interno delle filze dei notai, in quanto, come si vedrà fra breve, per lo più essi erano redatti non da questi professionisti ma da privati, e quando lo erano non sempre venivano conservati. Dunque il ritrovamento di 57 rinunce – fra cui quella riportata sopra – di cui ben 35 inserite come carte sciolte all’interno di un gruppo di registri di atti processuali del Torrone, rogati fra febbraio 1590 e giugno 1591 per mano di un unico notaio40, rende opportuno un loro attento esame, data l’estrema rarità con cui una simile documentazione è conservata; rarità che le rende degne di attenzione al di là del loro numero non elevato. Ma soprattutto, a risvegliare il nostro interesse è il rapporto fra il documento e la vicenda che ha dato inizio al processo che esso conclude. Il gioco delle rinunce e delle denunce che in qualche caso è possibile ricostruire consente infatti di entrare all’interno della dinamica sociale, di coglierne talora le pieghe più sotterranee, più nascoste, di verificare come nella pratica concreta e quotidiana una istituzione poteva essere usata e anche in qualche modo manipolata dai suoi utenti: ci si pone insomma il problema di indagare lo scarto esistente Mariani, Criminalità e controllo sociale cit., p. 76. ASB, Torrone, 2277, 2304, 2330/2, 2331, 2353, 2354, 2373, 2388, 2404. Il notaio era Piersante Fiorinelli da Fermo, che mantenne il suo ufficio dal 27 giugno 1589 all’11 giugno 1591: Gardi, Lo Stato in provincia cit., p. 420. Le rinunce portano peraltro anche date posteriori. 39 40

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fra la norma, la prassi intesa in senso generale e certe modalità a cui essa poteva essere piegata da una fascia dei suoi utenti. Qui il valore religioso del perdono è sbiadito quando non sostanzialmente assente, e anche lo scopo sociale di sedazione dei conflitti sembra spesso offuscato da altre, ben diverse finalità; ci accorgiamo anzi che lo strumento della rinuncia poteva prestarsi a ricatti e transazioni che in qualche caso potremmo definire addirittura criminosi. Ce lo dimostra fra le altre una vicenda che svela solo progressivamente la sua reale natura, e che ci fa comprendere come gli attori di un processo potevano essere in grado di piegarne ai loro fini le diverse fasi. Il 10 aprile 1581 arriva alla corte – si suppone anonimamente – la notizia che un certo Cesare Mascarino ha rapito, deflorato e reso incinta Antonia, figlia di Benedetto Calzolari. Viene convocato il padre della ragazza, che rilascia una deposizione che potremmo definire quanto meno guardinga. Avertite – egli esordisce – che io non intendo per hora dar querela sin che non ho parlato con certi gentilhuomini [...]. Io son stato recercato dal S.r Ugo Barbazza, dal S.r Canco Zambeccari et dal S.r Hettorre Ghislieri per parte di detto Cesare Mascarino a dovere accomodare questo fatto et accomodarmi con detto Cesare aciò la cosa non vada più inanti, et io l’ho rimessa in detti signori, però non voglio cercare altro [...]. Scrivete lì che io non do querela né fo instantia alcuna contro detto Cesare, solo ne dico quanto vi ho detto; mi avete dato il giuramento che dica la verità, ma per respetto che ho dato la mia parola alli detti signori non voglio dire altro in questo fatto41.

Si coglie subito l’intento del Calzolari di ricercare una soluzione negoziata alla vicenda, interponendo figure di mediatori e tentando addirittura di evitare che il procedimento prosegua («non voglio cercare altro»). Peraltro il 20 maggio egli 41

ASB, Torrone, 1410, cc. 144v-146r.

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si presenta nuovamente in tribunale «sponte sua, et renuntiavit ad favorem Cesaris dicto Mascarino, consensit ex processu cassari et Curiam non istigare» (spontaneamente, e rinunziò in favore del detto Cesare Mascarino, consentì di ritirarsi dal processo e di non sollecitare il Tribunale)42: dunque una rinuncia, che non ci è rimasta, è stata presentata. Ma ecco che una settimana dopo il Mascarino è in grado di presentarne un’altra da parte della stessa presunta vittima, Antonia, e rogata già l’11 maggio dal notaio Emilio Roffeni (che peraltro non conservò copia del documento nelle sue filze43). A seguito di ciò Antonia viene convocata e interrogata. Ecco la sua lunga deposizione, che essa rese il 31 maggio tutta d’un fiato, con una irruenza che emerge dall’assenza di punti fermi, e che è ben lontana dal seguito di brevi domande e risposte che è consueto nella registrazione degli interrogatori: È la verità che io me trovo haver fatta una renuntia per mezzo de uno instrumento rogato per M. Emilio da Roffeno d’una querela che intendo ha fatto mio padre Benedetto contro Mastro Cesare Mascarino muratore, sotto pretesto che detto mastro Cesare me habbia desviato et menata via da casa de m. Hercole Catanio dove io stavo, è la verità che io son andata con lui, ma non già lui me habbia desviato né menata via per forza, ma de mia bona volontà, e me meraviglio di mio padre che mette in campo queste querele, sa ben lui ch’io non son donzella, che ha venduto lui la mia verginità a un fra Giovanni de Celestini sei o otto anni fa, et so che ne hebbe non so quanti scudi da quel frate, et per questo pretendo di non esser più sua figliola, me ha venduta così, et so che fu accomodata per mezzo del signor Hettorre Ghislieri, et non ne fece altro se non che se contentò che quel frate havesse da far con me, et gli fece la renontia per certi denari, et mentre io gli diceva che non era bene che quel frate mi praticasse per casa, et che me voleva negotiare, et poi gli dissi formalmente che me aveva negotiato, lui me respondeva: «Che t’importa, te mangia per questo?». Et per questo non accade 42 43

Ivi, c. 146v. ASB, Notarile, Emilio Roffeni, 7/20.

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vogli dare la querela per questo altro, et che me voglia vender un’altra per cinquanta livere, che intendo gli domanda cinquanta livere, et ho detto a questo Mastro Cesare che sarà ben matto se gli paga niente, che mi non voglio niente da lui44.

Dunque Benedetto Calzolari tentava di ottenere dal Mascarino cinquanta lire per la rinuncia che peraltro aveva già presentato, mentre già in passato aveva ottenuto un buon ricavo dalla rinuncia che aveva concesso ad un frate per avergli «venduto la verginità» di Antonia. L’Uditore volle tuttavia mettere in chiaro due punti. In primo luogo chiese formalmente ad Antonia se aveva avuto rapporti con Cesare: Questo Cesare, è la verità che ha havuto a fare con me più volte, ma non l’ha già havuta lui la mia verginità, l’ha havuta il frate, come sa ben mio padre, et me meraviglio che lui habbi dato de novo la querela della mia verginità a quest’altro, et per conto mio non me curo che ci si proceda, et per quello che posso io domando che non gli si facci dispiacere nessuno, voglio viver a mio modo, mio padre non mi tien presso di sé da sei o sette anni in qua, ma ha sempre fatto poco conto de me, et me ha messo sempre a star con altri, et quando io gli diceva che dei servitori e degli altri mi davano fastidio lui me diceva «Non te mangiaranno già», et io gli dicevo «So bene che non me mangiaranno», ma intanto è stato con lui che io ho fatto quello che ho fatto di male in peggio.

Le chiesero infine se Cesare l’avesse maltrattata o minacciata per obbligarla a presentare la rinuncia. «Signor non che Mastro Cesare non mi ha bravato né minacciato io faccia questa renuntia – rispose Antonia – ma son venuta de mia spontanea volontà a farla, et se mio padre non ci vuol consentir lui a questo suo danno, ci consento mi»45. Non è possibile non cogliere in primo luogo nelle parole di Antonia la rabbia e l’amarezza per il mercato di cui è stata 44 45

ASB, Torrone, 1410, cc. 148r-149r. Ivi, c. 149r-v.

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fatta oggetto la sua verginità e per quell’andar «di male in peggio» della sua condotta, insieme peraltro all’orgogliosa consapevolezza di avere ormai preso in mano essa stessa la sua vita, respingendo il ruolo di fonte di guadagno del padre («non accade che me voglia vender un’altra volta... voglio viver a mio modo»). Ma a noi qui interessa soprattutto il meccanismo della denuncia/rinuncia che nasconde in realtà un patto tacito fra Benedetto Calzolari e il frate, al quale era stato previamente concesso di frequentare la ragazza (che allora doveva essere assai giovane) e di approfittarne: la querela era stata avanzata all’unico scopo di potersi poi garantire la possibilità di concedere a fra’ Giovanni la rinuncia, col pagamento di «non so quanti scudi». Nel caso del procedimento contro il Mascarino, il Calzolari aveva invece ritenuto in prima istanza di potersi muovere senza la protezione del sistema denuncia/rinuncia, ricorrendo (si noti) al patronato dello stesso Ettore Ghislieri che aveva trattato la faccenda fra lui e il frate; ma poi, apertosi comunque il processo al di là della sua volontà, la rinuncia diventava indispensabile per ottenere le cinquanta lire (dieci scudi) che egli intendeva estorcere al Mascarino. La seconda rinuncia, stavolta gratuita, di Antonia aveva spezzato alla base questo meccanismo. Ci rendiamo quindi conto di come il sistema denuncia/rinuncia potesse essere usato per una serie molteplice di scopi, trasformandosi in una pratica sociale duttile e complessa. Un’altra vicenda assai diversa ce lo mostra in una situazione che coinvolge un intero vicinato e si presta a definire le gerarchie e i rapporti di forza all’interno di un gruppo. Il 5 dicembre 1602 si verifica in una delle principali strade della città, via San Vitale, una rissa tra un tal Domenico Mazzi e un giovane studente figliolo di un dottore di famiglia senatoria, Cornelio Grati. Verso il tramonto, il Grati, avvolto nel suo ferraiolo, se ne stava sotto il portico oziando e «aspettando che facesse sera per andarsi poi in camera a studiar», quando era stato urtato dal Mazzi, che voleva passare e non trovava spazio fra il giovane e i banchi dei bottegai. Il Grati, con la

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consueta alterigia degli studenti46, non aveva voluto cedere il passo al Mazzi e tra i due si era svolto il seguente dialogo, che occorre ricostruire integrando le reciproche testimonianze: Grati: «Che procedere è questo?» Mazzi: «Caro signor Masino mio, lassatemi passar» Grati: «Io voglio star qui, che proposito è il vostro?» Mazzi: «Mò chi sete voi da star lì?» Grati: «Mò chi sei tu ti, coglione!»47.

A quel punto erano volati i pugni. Ma allora erano subito intervenuti i bottegai del quartiere, che erano corsi a difendere il Grati, pensionante presso uno di loro, e non solo a parole, ma armati di aste, bastoni e di «forcelle» di ferro (si suppone, i bastoni uncinati con cui si staccavano dal soffitto prosciutti e altri salumi). Si coglie una solidarietà forte degli artigiani fra loro e con il figlio del dottore contro il Mazzi, che viene definito «un borsarolo», e che comunque è evidentemente un marginale rispetto alla piccola società del quartiere (lo è fra l’altro anche dal punto di vista abitativo, in quanto la strada in cui abita, via Torleone, corre lungo le cerchia delle mura). Il Mazzi aveva cominciato a gettare dei sassi senza colpire nessuno, ma rompendo un orcio d’olio che era in vista in una bottega; poi i due contendenti si erano «abrancolati» insieme e lo studente era uscito dal diverbio con la testa rotta. Gli interrogatori e le querele reciproche si moltiplicano, con racconti degli eventi contrastanti fra loro: lo studente non ha visto chi l’abbia ferito, alcuni testimoni dichiarano che a colpirlo è stato il Mazzi, che peraltro nega. 46 Vedi la casistica pure bolognese riportata da chi scrive in Storie di ogni giorno cit., pp. 104-108. Un Cornelio Grati, figlio del dottore in legge Giovan Girolamo (e dunque presumibilmente lo stesso di cui tratta il presente processo), nel 1610 sedeva nel collegio degli Anziani ed era sposato con Ginevra Prati (Pompeo Scipione Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili bolognesi, Ferroni, Bologna 1670, p. 402). 47 ASB, Torrone 3443, cc. 152r, 154v.

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Tutto il quartiere, fitto di botteghe di lardaroli (cioè salumieri), fabbri, merciai, tessitori, interviene descrivendo con vivacità l’accaduto e il proprio ruolo in esso. Ne emerge un quadro colorito di vita di strada e di bottega. Un passante ha raccolto e posato su un muretto il cappello e il ferraiolo del Mazzi; un merciaio, intento a tessere all’angolo della strada, ha lasciato il telaio e si è unito al crocchio degli spettatori: in mezzo ad essi ha visto il Grati con la testa insanguinata e i lardaroli con ancora le loro «forcelle» in mano; un fabbro ha sentito «non so che romore» mentre stava a battere «un ferro grosso»48, si è affrettato a concludere quel che faceva, ha posato il ferro fuori dal fuoco ed è andato all’uscio della bottega per andare a vedere l’accaduto; un salumiere che attizzava le braci in una stufa per fare asciugare i salami ancor freschi aveva anche lui lasciato il lavoro, e aveva visto uno dei lardaroli che avevano partecipato alla rissa, Battistino Tarone, avviarsi insieme a un altro per recarsi «in palazzo a farlo sapere alla Corte»49, cioè andare in tribunale a denunciare l’accaduto. Nessuno però, tranne uno dei salumieri, sembra aver visto chiaramente il Mazzi percuotere lo studente; e alla fine emerge quella che sembra essere la verità dei fatti. Uno dei merciai si presenta al Grati chiedendogli da parte di Domenico Mazzi la rinuncia alla querela: «Se bene non era stato lui che lo avesse offeso [...] per potersi liberare da preggione gli facea domandar la renontia per l’amor di Dio». Il giovane ammette allora che non avrebbe voluto presentar denuncia contro il Mazzi: Forno Battistino Tarone et Gioanni lardarolo et Camillo Tarone pur lardarolo che mi dissero: «Signor Cornelio, se voi non fate la querela a questo Domenico che vi habbia dato et non fate qualche resentimento, sarete causa che andremo prigione tutti noialtri». 48 49

Ivi, c. 159v. Ivi, c. 160v.

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In realtà infatti era stato Camillo Tarone a ferire involontariamente con un’asta di ferro il Grati mentre cercava di colpire il Mazzi, «et però lo spinse a far la querela a lui per non ne patir loro»50. La denuncia è servita sia per scagionare il colpevole, sia per definire la compattezza di un gruppo sociale, composito ma unito (i bottegai e lo studente) contro un marginale; la rinuncia viene chiesta «per l’amor di Dio», con parole umili che confermano rapporti gerarchici e di potere già stabiliti. Il processo è interessante anche perché permette di constatare con evidenza un dato ovvio ma non sempre dimostrabile, e cioè come gli elementi della procedura consentissero di costruire una verità giuridica non corrispondente a quella effettuale (che peraltro qui alla fine riesce ad emergere). Comunque il procedimento si interrompe con una convocazione del Tarone e non riprende più; non risulta che vengano presentate rinunce, né nei riguardi del Mazzi né del Tarone. Più complesso, anche se più breve, un altro caso di pochi giorni successivo. Il 21 gennaio 1603 Domenico Conti di Castelfranco consegna dell’olio all’osteria del paese da parte di un mercante; ma l’oste lo accusa di avere sottratto una parte della merce, che a suo dire risultava di quantità inferiore al previsto. Domenico si affretta a sporgere querela: «però gli dò querella di calunnia, havendomi ingiuriato per ladro, che non è la verità». L’8 marzo verrà presentata una rinuncia, ma, paradossalmente, non da parte del querelante, bensì da parte dell’oste «ad favorem dicti Dominici» (in favore del detto Domenico)51. La querela è quindi servita per ottenere un risarcimento non in denaro, ma morale: la rinuncia equivale in questo caso all’abbandono di ogni pretesa sull’olio supposto mancante. Questa sorta di uso preventivo della querela, sporta per prevenire una denuncia altrui, emerge del resto anche in altri casi in cui non risulta una successiva rinuncia: l’8 novembre 1602 tal Francesco Buscarolo denuncia 50 51

Ivi, c. 164r. Ivi, 3437, c. 175r.

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qualmente andando a Casola per li marroni fu affrontato da Francesco Maccolini della Villa di Agurano con un bastone in mano e voleva per forza li dessi dei danari che diceva havere da lui [...] io li ho risposto che non ha havere niente et lui mi prese la mia bestia [...] così io li dò querela sì per haver voluto da me per torre danari [...] et poi me brava de far et de dir et poi non ha haver niente da me et essendo io pover homo et non solo ho una somara che bisogno caminare dì et notte per sostentare me et mia fameglia, però ricorro alla Iustitia che li provega et li metta la mano acciò sia seguro52.

L’immagine soccorrevole e protettiva della Giustizia è abbastanza insolita. Ma è proprio questo che il Buscarolo chiede al tribunale (oltre che di riavere la somara, che gli è stata indebitamente sottratta a titolo di rimborso di un supposto credito): di essere protetto dalle ulteriori, possibili pretese del Maccolini che, come risulta da un passo qui non riportato, ha anche tentato di citare il suo avversario davanti al commissario di Casola, una autorità quindi esterna alla legazione bolognese, e già pertinente alla legazione delle Romagne. La denuncia vuole inoltre predisporre lo spazio possibile per una successiva rinuncia, e dunque per possibili trattative con l’avversario. I mediatori Viste le potenzialità dello strumento, torniamo ora alle rinunce come oggetti concreti, che dobbiamo valutare anche nella loro fisicità. Le caratteristiche dei materiali che contengono questi brevi testi sono in genere abbastanza costanti, e sembrano rispondere più ad una consuetudine stabilita che alle indicazioni della legge. Piuttosto di rado, innanzitutto, si tratta di atti notarili, anche se la giovane Antonia di cui abbiamo trattato il caso nelle pagine precedenti aveva provve52

Ivi, 3440, c. 67r-v.

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duto in questo senso. Infatti a redigere le rinunce che sono state fisicamente reperite solo in 8 casi su 57 (il 14,03%) è un notaio; e si noti, questi documenti hanno anche dal punto di vista materiale un aspetto diverso da tutti gli altri, che sono per lo più pezzi di carta mal scritti e del più diverso formato, mentre qui ci troviamo di fronte fogli doppi o comunque di buona misura e vergati in bella grafia. In un altro caso il notaio si limita ad autenticare la firma dello scrivente – che è il maestro di casa dei signori Campeggi – dichiarando nel contempo che la rinuncia viene presentata con il consenso della signora Ludovica Campeggi (si tratta del furto di alcuni cucchiai d’argento)53; ma in altra circostanza il rinunciatario richiede l’autentica della propria firma al console e agli uomini del suo comune, nella fattispecie Castelbolognese54. Si tratta di un dato che colpisce, data la frequenza con cui gli uomini della prima età moderna ricorrevano ai servizi dei notai, e tanto più in quanto è evidente lo sforzo dell’autorità politica bolognese a spingere i cittadini a rendere formali documenti di tal genere. Rimaneva comunque ben precisa la percezione della necessità del documento scritto, che era il solo a poter sanare una situazione conflittuale. Il 25 aprile 1583 a San Giovanni in Persiceto «si facea un poco di festa su una strada», quando nacque una disputa fra due giovani, «che uno voleva ballare prima del altro». Era il giorno di San Marco, e nei paesi i balli in piazza o per via contrassegnavano di frequente i giorni di festa. Vennero estratti, ma subito riposti, archibugi e pugnali, «e subito hanno fatto la pace, testimonio Tommaso Sera e Nadale Parente»55: una pace conclusa però solo oralmente (vedremo ancora più avanti quanto poco questo contasse). Quindi la denuncia fece egualmente il suo corso, e il processo si chiuse solo il 18 agosto dopo la presentazione di una riIvi, 2373, inserito a c. 432 (Appendice I, 31). Ivi, carta sciolta inserita in fine (Appendice I, 38). 55 Ivi, 1410, c. 248r-v. 53 54

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nuncia scritta, che dunque era considerata indispensabile per chiudere un procedimento già avviato, anche in caso di pace fatta a voce in presenza di testimoni. Analogo andamento ha una vicenda denunciata il 23 novembre 1602. Un paio di settimane prima «Flaminio detto il Betto, che sta rescontro il fornaro di San Stefano [era uno dei principali forni della città, che produceva pane della migliore qualità e godeva da secoli di speciali privilegi pontifici], et messer Marchionne venetiano, che sta da San Piero», si erano trovati in casa del signor Carl’Antonio Manzolini a giocare a dadi. Era quella una delle più correnti occasioni di rissa: «giuoco, donne, liti e cani mandano in rovina molti cristiani», diceva un proverbio che fu illustrato a fine Seicento dall’incisore Giuseppe Maria Mitelli, con una scena che mostrava per l’appunto due giocatori fra carte e panche rovesciate, mentre uno dei due, gridando, sguaina la spada contro l’altro. Anche in casa Manzolini c’era stato un alterco, erano corse parole ingiuriose ed era anche stato snudato un pugnale, ma i presenti avevano diviso i due contendenti. De lì a doi giorni seguì la pace et reconciliatione tra detto Flaminio e me [è Marchionne che parla], che ce la fece fare in San Petronio il signor Carl’Antonio sendo con il signor Vincenzo Sandelli venitiano, li quali furono presenti alla detta pace, et ci bagiassimo et toccassimo la mano, ma non se ne fece scrittura nessuna56.

Dunque anche in questo caso, nonostante la pace celebrata in luogo sacro, con toccamano e bacio (vedremo più avanti che si trattava di atti impegnativi), si era resa necessaria la presentazione di una reciproca rinuncia, che sanò la questione il 56 Ivi, 3442, cc. 111r e 112r-v. Diversamente, quando il 26 marzo 1581 a Ozzano di Sopra «Lorenzo Muraglia e Domenico Martello [...] vennero a sparere insieme del sì e del non [...] e si disseno de parole ma non si accostorno mai, et non seguì altro et fecero la pace subito presente Valdissera Marchese et Andrea de Zerotti» (ivi, c. 31r), una denuncia venne presentata dal massaro, i due vennero convocati ma il procedimento non ebbe seguito.

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giorno 29 novembre. L’impressione comunque è che nella pratica quotidiana, almeno quando non fossero coinvolti personaggi di rilievo della vita cittadina, si cercasse si redigere simili atti nella cerchia più privata; come si è detto, apparentemente per stendere le rinunce (non così per le paci, salvo nei casi non rari in cui esse, come si è già detto e come si vedrà ancora, con le rinunce tendevano nella prassi a confondersi) non si faceva neppure ricorso al notaio. Ci si chiede perciò chi in tali situazioni provvedesse a scrivere il testo di una rinuncia. Per quanto attiene i materiali in nostro possesso, in 13 casi su 57 (22,8%) a compilare il documento è lo stesso rinunciatario (che una sola volta è una donna, la nobile Isabella Gozzadini Desideri, che senza utilizzare le formule consuete si limita a segnalare che un lenzuolo rubato le è stato restituito57). Ma per lo più (36 casi, 63,2%) la redazione è di mano di un mediatore che, come per esempio dichiara uno di essi, «fa fede aver pacificato insieme m. Iulio di Mastelari e m. Alisandro di Brici cognati et son dacordo et rinocia alquna cosa fata in palacio tra loro»58. Il firmatario dichiara insomma di avere ottenuto la pace fra il querelante e il querelato e, di conseguenza, la loro rinuncia ad ogni presente o futura azione penale fra loro. In undici di questi trentasei casi (19,3% del totale, una percentuale dunque maggiore di quella raggiunta dai notai) il mediatore è un ecclesiastico, per lo più il parroco del denunciante59, in due casi il massaro di una comunità vicina60, in uno il ministrale della cappella61; una rinuncia infine segnala l’interposizione di un personaggio di grande rilievo, il senatore Scipione Zambeccari, che fra le sue molte prerogative contava quella di essere stato nel primo quadrimestre del 1588 ufficiale del tribunale arbitrale della Concordia (una istituzione delAppendice I, 27. Appendice I, 12a, 12b. 59 Appendice I, 1, 4, 6, 8, 13, 15, 24, 28, 32, 42, 43, 54. 60 Appendice I, 9, 48. 61 Appendice I, 18. 57 58

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la quale si parlerà più avanti)62, e da questa carica aveva evidentemente serbato un sia pure informale ruolo conciliatorio. Ma per lo più le fisionomie di questi personaggi che mediano fra i contendenti e certificano la risoluzione del conflitto sono singolarmente prive di connotati specifici. Si tratta probabilmente di vicini di casa autorevoli e più anziani, il cui ruolo ha spesso la possibilità di emergere grazie al possesso di qualche capacità scrittoria; in qualche caso il redattore del testo parla direttamente in nome del rinunciatario, che per sua mano dichiara «in fede di ciò ho fatto fare la presente per non saper io scrivere»63. Ci troviamo insomma di fronte ad un aspetto del fenomeno che è stato definito «della scrittura delegata»: di fronte alla necessità di acquisire qualche capacità grafica che si impone lungo il Cinquecento a seguito dell’accresciuta complessità burocratica della vita quotidiana (di cui la pratica della rinuncia è certamente un esempio) coloro che scrivere non sanno si sforzano di impadronirsi di una sia pur parziale alfabetizzazione, o altrimenti si rivolgono a chi è disposto a scrivere per essi, in primo tempo all’interno della cerchia dei pari, e poi, a partire dalla fine del Cinquecento, a scrivani di professione64. I mediatori sono dunque tali anche (non solo, come vedremo) per le loro sia pur relative abilità scrittorie. Ad esse si accompagnava anche una sia pur primitiva conoscenza del linguaggio burocratico. Buona parte dei testi in nostro possesso rappresentano infatti variazioni più o meno ampie della formula «io Tale rinunzio ogni querela fatta da me o da altri nel Torrone (o in Palazzo) contro il Talaltro», oppure «io Tizio faccio fede che il Tale rinuncia ogni querela fatta da lui o da altri nel Torrone contro il Talaltro». Questa formula doveva essere abbastanza largamente nota, vista la frequenza con cui 62 Appendice I, 34. Il processo in ASB, Torrone, 2404, cc. 70r-84r. Sullo Zambeccari cfr. Gardi, Lo Stato in provincia cit., ad indicem. Sul tribunale della Concordia vedi infra, pp. 153-158. 63 Appendice I, 10. 64 A. Petrucci, Scrivere per gli altri, in «Scrittura e civiltà», 13, 1989, pp. 475-487.

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accadeva di farne uso; non diversamente da come, se non oggi almeno ieri, tutti o quasi conoscevamo e praticavamo la formula «il sottoscritto Tale, nato il tal giorno nel tal luogo, e residente al tale indirizzo, chiede che gli venga rilasciato uno stato di famiglia per uso scolastico», o simili. In ogni caso, le capacità scrittorie che emergono sono in generale modestissime, tranne per quanto attiene i parroci (non tutti65), e, ovviamente, i notai: la grafia è faticosa, le lettere slegate fra loro e spesso malamente graffiate, talora quasi illeggibili; l’ortografia è inesistente (e si vorrebbe a questo punto sottolineare il rilevante interesse che questi documenti, che sono stati perciò riportati in Appendice, possono rivestire per il paleografo e per lo studioso dell’alfabetizzazione). Anche solo limitandosi a quelle che dovevano essere le parole fondamentali dell’atto, quelle più familiari a chi scriveva, ossia «rinuncia ogni querela», le varianti grafiche in cui ci imbattiamo sono davvero numerose e talora fantasiose: «renonza qualonque querella», «renontiano ogni quallonche aquarella», «rinocia alquna cosa fata in palacio», «arenontio ugni quarela», «rinocio ogni qualonca aquarella», «renucci ogni querella», e addirittura «renuscio ogi charela». Ma da tempo ormai la ricerca storica ha chiarito la straordinaria incertezza della linea di confine fra analfabetismo e alfabetizzazione nell’Italia della prima età moderna, e in particolare la grande varietà delle competenze scrittorie, acquisite con le modalità e i tempi più diversi66; questi scriventi, che vivono spesso in ambiente rurale, traducono i suoni delle parole che intendono usare in segni che con quei suoni hanno a che fare solo molto relativamente. Roger Chartier ha parlato di una «lettura approssimativa»67 di testi Vedi per esempio Appendice I, 24. Una interessante esemplificazione di tale varietà, proprio per la Bologna di fine Cinquecento, in C. Evangelisti, Accepto calamo, manu propria scripsit. Prove e perizie grafiche nella Bologna di fine Cinquecento, in «Scrittura e civiltà», 19, 1995, pp. 251-275. 67 R. Chartier, Du livre au lire, in Pratiques de la lecture, Rivages, Marseille-Paris 1985, p. 85. 65 66

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narrativi da parte di lettori popolari; qui sembra lecito parlare di una «scrittura approssimativa», che non è semplicemente piena di errori, ma che vede una rispondenza molto limitata fra un suono e la forma grafica con cui dovrebbe esprimersi, e rappresenta le parole con una modalità che potrebbe quasi definirsi allusiva. In qualche caso i testi delle rinunce danno indicazioni sulla materia del contendere: si parla per lo più di violenze fisiche e verbali, di «pugni che si dettero insieme» i due interessati; oppure di «qualunque percossa ancorché sanguinolenta», di «ogni briga et rissa», «ogni rissa et parole», «pugni fatti tra loro», «per parole et altro occorse tra essi». Altre rinunce ricordano che la querela era stata mossa per furto: «per causa d’haver rubato un staro di frumento», «per chonte de certo fieno che aveva menato fore del mio locho», «per havere tolto certe robbe in chiesa», «per quele legne», «per ochogie de vdi talati» (per occasione di viti tagliate). Non mancano i riferimenti a possibili attenuanti, come l’età, l’ubriachezza, la restituzione del bene rubato, la miseria: «erano putti alhora, et andavano dietro alle bestie»; «chredano che fuso stato uno pocho alegro per avere beuto»; «stando che detto frumento si è rihauto, et la miseria di detto Virgilio». Il quadro d’insieme che emerge da queste briciole sparse di testimonianze è quello di un mondo prevalentemente rurale, misero e violento, in cui le risse e il furto campestre rappresentano i più frequenti motivi per adire il tribunale. Qualche volta è possibile ricostruire le fasi attraverso le quali si è pervenuti ad un accordo, e dunque entrare all’interno dei meccanismi sociali che agivano entro la costruzione della normativa. Ma per far questo è necessario addentrarsi all’interno della fonte processuale. Il 18 settembre 1590 il caporale delle guardie del castello di Medicina denuncia come durante la notte uno dei suoi soldati, tornando da un giro di vigilanza, aveva accidentalmente ferito un collega che dormiva sotto il portico della caserma sfilandosi l’archibugio carico dalla spalla. Sin dall’inizio è chiaro il carattere casuale dell’incidente; l’e-

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scussione delle testimonianze tuttavia procede e il processo si chiude con la consueta rinuncia, che è allegata ed è accompagnata da una letterina del ferito al proprio figlio: Carissimo figliollo, son state pregate da diverse persone far pace con Marcantonio Marcheta dite Mangiagal e fargli la renoncia e in particholare ms. Domeni Luchatello ch’è mio grande amicho, e non gli o potutto manchare di non fare quel tanto che vole. Contentati di questo che così ti prego a contentarte che è stata disgracia non altro. Mi rachomando. Die 44 [sic] 8bre 1590. Jo Carlino Fontana adfermo quanto di sopra68.

Ecco dunque emergere il ruolo degli amici comuni – probabilmente altri membri del corpo di guardia di Medicina – e in particolare di uno di essi, «grande amicho» del ferito, nell’ottenere la pace di quest’ultimo nei riguardi del responsabile dell’incidente. Ma non siamo ancora alla rinuncia, che viene stesa «di comision di Carlino Fontana» da un altro personaggio, probabilmente più esperto nel linguaggio burocratico. Il Fontana firmerà la rinuncia il 5 novembre assieme a due testimoni: Al nome de Dio Adi 5 de novembre Io Julio Cesare di Sarti di comision di Carlino Fontana arenontio ugni quarela datta o fose statta datta per suo particolare contra di Marcantonio Mangia Gallo e in fede della verità sarà sottoschrita di mano di eso Carlino presente dui testimoni qualli sarano sotoscriti di sua mano Jo Carlino Fontana afermo quanto di sopra si contene Io Giovani da le Corti fui presen. quanto di sopra Io Andrea Christino fui presento69. 68 ASB, Torrone, 2331, carta sciolta inserita a c. 154. Il processo alle cc. 150r-154r. 69 Altra carta sciolta inserita ibid. (Appendice I, 20).

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Sei settimane, e l’interposizione di almeno quattro persone, sono state dunque necessarie per chiudere l’incidente, che ha visto anche un notevole impegno da parte del personale del Torrone nell’istruzione del processo e nell’escussione delle testimonianze. Il coinvolgimento di una così fitta trama di amicizie, in questo come in altri casi già illustrati o che lo saranno in seguito, ci mostra non solo la complessità delle situazioni, ma anche la ricchezza della rete sociale a cui si poteva e si voleva ricorrere per superarle. È una rete non istituzionale, ma che si prestava ad utilizzare le istituzioni ed esserne utilizzata; queste vicende colpiscono anche in quanto ci consentono eccezionalmente di socchiudere uno spiraglio su un tessuto di relazioni che abitualmente resta celato, ma che aveva certamente un valore fondamentale nella società d’antico regime. Il caso di Carlino Fontana consente fra l’altro di verificare come l’intervento del mediatore non fosse motivato soltanto dall’incapacità scrittoria di colui che doveva rilasciare la rinuncia (che in questo caso era più che discretamente alfabetizzato), ma trovava la sua ragion d’essere nella volontà di risolvere il conflitto non in tribunale, ma neppure per mezzo di un semplice confronto a due: il luogo prescelto per sanare i contrasti è il più largo ambito del vicinato o della parrocchia, o (come in questo caso) dell’ambiente dei pari, o comunque lo spazio sociale all’interno del quale i due contendenti sentono di essere collocati. Un’altra vicenda ci consente di cogliere le forme rituali attraverso le quali si arrivava – o, come in questo caso, non si arrivava, o si arrivava con grande ritardo – alla composizione del conflitto. Sabato 25 gennaio 1603 Pellegrino Zaniboni, da Fiesso (una località della pianura verso il Ferrarese), venne assalito da due uomini mentre si recava al mercato, un’ora avanti giorno. Uno dei due lo colpì alla testa col pugnale, l’altro «lo gettò nel fossato, et quello che gli dette la pugnalata gli disse: se non mi farai la renontia di un’altra querella che aveva che gli faria peggio»70. Dunque il ferimento era la vendetta per una 70

ASB, Torrone, 3437, c. 301v.

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mancata rinuncia. Casi simili non erano rari: addirittura poteva capitare che venisse aggredito il presunto mandante di una querela, come avvenne il 14 novembre 1602 a tale Pier Matteo Nandini da Caprara, che fu fatto segno da una archibugiata in quanto l’aggressore, racconta il Nandini, riteneva che per sua istigazione una donna lo avesse querelato: «sono stato mi che li ho fatto dare questa querela, et che però voleva che la cancellassi»71. Paradossalmente lo strumento della rinuncia anziché condurre ad una pacificazione fra le parti poteva condurre, se non utilizzato, ad un inasprimento dei loro rapporti. Ma tornando al caso Zaniboni, alla denuncia seguì un fitto intrico di interrogatori dai quali emersero, progressivamente e faticosamente, gli antecedenti dell’agguato. L’assalitore era un tal Biasio Muratori, cognato di Pellegrino, di cui aveva sposato la sorella; il ferito aveva in passato prestato dei soldi a Biasio, tenendosi in garanzia un ferraiolo e altri indumenti. Ma il 10 novembre precedente – la domenica prima della festa di San Martino – Biasio era venuto in casa del cognato in sua assenza e aveva «schiopponato», cioè forzato, una cassa per riprendersi il suo; per questo Pellegrino gli aveva fatto querela, rifiutando in seguito di presentare la rinuncia che gli era stata chiesta: Lui voleva la renonza da me di essa, et io non gli la volevo fare, volevo una sigurtà da lui che non mi havesse ad offendere, et però esso mi ha dato [...]. Me l’ha fatta domandare al sig.r Gio. Francesco Fracassuti et a Julio de Benedetti da Budrio, et ancho lui istesso me l’ha domandato, ma io non glie l’ho voluta fare, come ho detto volevo una sigurtà da lui [...] et desidero che sia castigato con iustitia [...] et mi rifacino li miei danni che patisco e patirò da qui innanzi72.

Venne quindi interrogato Giulio de Benedetti, suocero di Pellegrino e zio acquisito di Biasio, che spiegò minutamente come erano andate le trattative e come erano fallite. 71 72

Ivi, 3441, c. 52v. ASB, Torrone, 3437, c. 303r-v.

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Devono essere venti o ventidoi dì che io fui chiamato qua nel castello di Budrio da Jacomo Fabro [...] aciò io domandassi a Pellegrino Zaniboni, il quale è mio genero, la renontia di una querella che esso haveva fatto al Torrone contro Biasio Muradore li haveva rotto alli dì passati una cassa in casa sua, et così, perché detto Pellegrino è mio genero come ho detto, e Biasio Muradore è pure mio parente, perché la mia donna e la madre di detto Biasio sono sorelle, et ancho per far l’offitio di buon christiano, mi mossi a voler fare il servitio73.

Dunque la disponibilità di Giulio è legata alla duplice parentela che lo lega ai due contendenti e anche alla volontà di «far l’offitio di buon christiano»: cominciamo così a cogliere, sia pure in secondo piano, anche le possibili motivazioni religiose dei comportamenti di mediazione. Si noti inoltre che Giulio non è stato richiesto direttamente da Biasio, che pure è nipote di sua moglie, ma tramite un terzo personaggio; il tessuto sociale coinvolto in queste operazioni era, come abbiamo già visto, assai fitto. I due – il de Benedetti e il Fabro – prendono quindi contatto con Pellegrino. Et così conducessimo detto Pellegrino nel convento qui de Servi in Budrio et li domandassimo la detta renuntia, et esso disse che la farebbe, ma voleva una sigurtà da lui che esso non lo havesse ad offendere, et ancho voleva che detto Biasio lo satisfacesse per haver tenuto a casa sua cinque mesi la moglie di Biasio che è sorella di detto Pellegrino, et che altrimenti non voleva fare la detta rinuncia, et di lì ad otto dì circa esso Biasio [...] venne a casa mia et mi pregò che volessi fare questa sigurtà per lui di non offender Pellegrino, et che voleva rimettere in me l’altra differenza per conto delle spese che domandava detto Pellegrino, et io dissi che non voleva farlo, perché l’uno e l’altro era mio parente, et così si partì da me dicendo che trovaria un altro che la faria la detta sigurtà, che questo doveva esser sino a quindeci dì74. 73 74

Ivi, c. 306v. Ivi, cc. 306v-307v.

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La richiesta di rinuncia, fatta da un parente anziano e autorevole assieme ad un compagno (quello stesso Jacopo Fabro che aveva fatto da tramite fra Biasio e il de Benedetti), viene avanzata fra le pareti di un luogo sacro, il convento dei Serviti di Budrio. Come si vede Giulio de Benedetti intende con questa scelta ambientale accentuare il significato di «offitio di buon christiano» che egli presta alla mediazione per una rinuncia. La sua disponibilità non arriva però a far la «sigurtà» per Biasio, cioè dichiararsi garante per il suo comportamento, né a valutare le spese riguardanti il mantenimento della sorella di Pellegrino e moglie di Biasio: la rinuncia dunque non viene concessa e la vicenda sbocca, come si è visto, in una ulteriore violenza. A seguito di una richiesta di grazia presentata il 2 aprile 1603, Biasio e il suo compagno ottengono l’esilio per cinque miglia da Budrio fino all’ottenimento della pace, che era indispensabile per ottenere la cessazione della pena e che in effetti seguirà in breve tempo. In questo caso come in altri la gestione del conflitto, pure seguita da vicino dal potere cittadino, è stata lasciata sostanzialmente in mano alle parti, ai loro interessi privati e a quelli, talora religiosi o di coesione sociale, talaltra più concreti, dei mediatori, e in ultima istanza del contesto comunitario al quale tutti i personaggi della vicenda appartengono. Almeno in qualche caso i mediatori delle rinunce esercitavano la loro attività traendone un profitto economico. Questo emerge, per esempio, da alcuni processi che ancora una volta ci permettono di cogliere quanta parte della composizione dei conflitti fosse basata non solo sull’accordo delle parti, ma sull’attivo contributo di altri privati. Il primo ha inizio il 20 marzo 1590, quando una donna denuncia di essere stata insultata, morsicata e picchiata con il mattarello da pasta da un pescivendolo e da sua moglie. Questi nega le percosse e le ingiurie, e spiega come segue l’ostilità della denunciante: Alli mesi passati questa donna e suo marito haveva una lite qui al Torrone a lo scabello di messer Cosmo [Martelli] notaro con un

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prete che gle haveva ingravidata una sua figliola, et io venevo a sollecitare e far li fatti suoi per loro in questa lite, che questo prete era pregione; et ultimamente fu trattato l’accordo e ne seguì che questo prete dette quarantacinque scudi a costoro per questo fatto, et io avendo da esser pagato delle mie fatighe fatte per loro, essi non mi voglion pagare75.

Il racconto del pescivendolo è interessante in quanto conferma quanto del resto già sappiamo, e cioè che lo scopo delle denunce era quello di ottenere in cambio della rinuncia un risarcimento (nella fattispecie, una dote, che risulta non infima, per la ragazza resa incinta dal prete). Ma soprattutto cogliamo con concreta evidenza un elemento meno palmare: il fatto che chi si occupava della faccenda pur senza averne alcun titolo professionale veniva remunerato. Fra questi intermediari che chiedevano e ottenevano compensi per la loro attività c’era certamente la bassa forza del tribunale e in genere il personale amministrativo e giudiziario; un orefice, testimone di una rissa nel corso della quale un tal Massimo Caprara, gentiluomo, era accusato di aver assalito due sbirri, afferma: «Se lo dicono lo fanno per cavarci denari dalle mani per haver le renuntie, ma io son homo da bene et non fo queste cose, né anco quel gentilhomo»76. Più complicata un’altra vicenda del 1628: un fabbro, denunciato da due donne per parole ingiuriose, accetta la mediazione del ministrale che gli propone che lassassi fare a lui, che mi haverebbe fatto cassare la detta denunzia se io gli davo quaranta bolognini, et io glieli diedi anzi che io hebbi la renunzia, et l’ha in mano Niccola capporale del Barigello, che per me restò di darla a messer Salvatore notaro della denunzia, et non l’ha poi data perché detto mestrale non ha voluto77,

Ivi, 2331, c. 121r-v. Ivi, 3445, c. 103v. 77 Ivi, 5570, c. 179r. 75 76

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dove possiamo facilmente immaginare un tentativo del ministrale di ottenere più dei quaranta bolognini già pagati dal fabbro. Un mediatore e paciere In ogni caso, nei brevi testi reperiti il ruolo dei mediatori in seno alla comunità appare con ogni evidenza fondamentale. Si noti inoltre che per lo più al fiduciario che assume all’interno della rinuncia il compito principale si affiancano altri personaggi che figurano come garanti e testimoni, allargando dunque la rappresentanza della comunità (o anche semplicemente della parrocchia o del vicinato) nella gestione del conflitto. Un esempio di questa sovrabbondanza – che nella fattispecie concerne la parrocchia bolognese di San Procolo – è certamente individuabile nella rinuncia che abbiamo visto all’inizio del capitolo e che concerneva i giovani Domenico e Giovan Battista: l’atto vede la presenza, accanto ai due ragazzi protagonisti della vicenda, dei loro padri, che figurano come «mezzani», del curato della parrocchia (che però non è l’estensore materiale del testo, scritto da altra mano), e di ben quattro altri testimoni. Il ruolo dei mediatori all’interno delle società tradizionali è stato ripetutamente sottolineato, e si è prolungato sino a tempi abbastanza vicini a noi. In quelle società, come è stato osservato78, la fluidità del confine fra il diritto, la morale e il 78 Hespanha, La gracia del derecho cit., pp. 23-24. Cfr. anche, sugli stessi temi, a proposito della Linguadoca N. Castan, Les criminels de Languedoc. Les exigences d’ordre et les voies du ressentiment dans une societé pré-révolutionnaire (1750-1790), Association des publications de l’Université de Toulouse Le Mirail, Toulouse 1980; Ead., Justice et répression en Languedoc à l’époque des Lumières, Flammarion, Paris 1980; e, più in generale, N. Rouland, Aux confins du droit. Anthropologie juridique de la modernité, Jacob, Paris 1991, pp. 101-119. Il ruolo di arbitrato e di pacificazione di figure autorevoli della comunità è stato rilevato ancora alla fine del secolo scorso nelle campagne del Sassarese: C. Patatu, Chiaramonti. Le cronache di Giorgio Falchi,

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costume è massima; in esse i litigi fra i membri di una comunità non offendono semplicemente la legge, ma le regole fondamentali del viver comune, e dunque i conflitti, anche privati, hanno un carattere sopraindividuale. Tutta la comunità ne è coinvolta, ed è spinta a concorrere a sanare le situazioni di crisi mediante l’intervento di membri rispettati di essa, con soluzioni a carattere mediatorio, fondate su concessioni e garanzie reciproche. Queste considerazioni sono state fatte soprattutto a proposito dei territori della penisola iberica; tuttavia esse sono strettamente valide anche per gli stati italiani, come emerge fra l’altro non solo dalle rinunce oggetto di queste pagine, ma talora anche dai processi di cui esse – che ci siano rimaste o meno – rappresentano la conclusione. Prendiamo in considerazione uno di tali processi, che è stato del resto già menzionato sopra e che ci consente di avere ulteriori informazioni sul ruolo, sulla fisionomia e sui compiti affidati a questi personaggi. La denuncia, presentata il 14 febbraio 1590 da Alessandro Brizzi contro il cognato Giulio Mastellari e due complici, ci informa dei maltrattamenti e delle percosse a cui Giulio ha sottoposto la moglie Santa, sorella di Alessandro, tanto da farla abortire, e dei tentativi di obbligare la donna a fornire prestazioni sessuali al suocero ed al cognato. La suocera aveva inoltre cercato di convincerla ad avere rapporti anche con altri uomini; c’era in particolare «un frate qui della Carità che [...] se raccomandava, et che haveria hauto a caro che fosse andata un dì de fuora a un suo luoghetto»79: un personaggio più vicino ai frati della novellistica tre e quattrocentesca che al clero preteso disciplinato dell’età tridentina. Accanto alle testimonianze della madre della donna e della levatrice, che certificano l’emorragia seguita alle percosse, ce n’è un’altra davvero significativa, in quanto ci testimonia lo spazio che potevano acquistare nella comunità Studium, Sassari 2004, pp. 298-299 (ringrazio Miriam Turrini che mi ha trasmesso questa informazione). 79 ASB, Torrone, 2277, c. 30r.

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personaggi privi peraltro di qualsiasi connotazione ufficiale. A parlare è un tal Antenore Roffeni, forse della nobile famiglia omonima, che racconta: Io trattai il parentato tra il figliuolo di M.ro Antonio Mastellaro lardarolo chiamato Giulio e D. Santa de Britii, e dopo che fu fatto detto parentato, che la detta Santa andò a stare in casa di detto suo marito, de lì a cinque o sei mesi la detta Santa me fece intendere per Messer Tomaso de Simonini mio compare che lei non poteva più durare in casa di detto suo marito per li cattivi portamenti che li facevano tutti [segue descrizione delle molestie del cognato e degli incitamenti alla prostituzione da parte della suocera]; et che essendo stato io quello che haveva fatto questo parentato che ce provedesse.

Il Roffeni dunque ha «trattato il parentato», ma il suo compito non si è esaurito con la mediazione nuziale. La sposa maltrattata lo ha convocato in quanto ritiene che egli abbia il dovere di intervenire per ristabilire il corretto andamento della sua vita coniugale. Né risulta che si sia rivolta ad altri, oltre che alla propria madre; e si noti che se il padre è morto, c’è un fratello adulto, che però interverrà solo al momento della presentazione della denuncia al tribunale e poi della rinuncia. Anche il Roffeni condivide questa considerazione del proprio ruolo; e continua così il suo racconto: Dimodochè io, sentendo questo procedere et queste infamerie, me volsi chiarire, et un dì insieme con Messer Antonio Maria de Conti andai a casa di detto M.ro Antonio, et chiamai la detta Santa in presentia di suo marito et di suo messere et di sua madonna [= suo suocero e sua suocera], et glie dissi: «Sposa, è la verità quello che me havete fatto intendere et che costoro ve faceano così cattivi portamenti?»; et lei in presentia di tutti me disse che era verissimo, et me confermò de nuovo quello che me haveva mandato a dire per il mio compare. Che sentendo io così io feci un rebuffo a tutti, et dissi alla sposa che se glie facevano più simil procedere che mel facesse intendere80. 80

Ivi, cc. 33v-34v.

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La consapevole autorevolezza del mediatore appare bene illustrata da queste parole. Egli sente che è suo compito intervenire interrogando la donna e rimproverando il marito e i suoceri di lei. Il confronto riveste una sua pubblicità data la presenza di un ulteriore testimone estraneo ai fatti. Se si aggiunge a quelle del paciere e del testimonio la figura del tramite fra Santa e il Roffeni, nella persona del compare di quest’ultimo che ha provveduto a comunicargli la protesta della donna, e ancora, quella di un altro teste processuale, che racconta di essere stato chiamato dalla sposa e dalla madre di lei per ascoltare le dichiarazioni di una serva che confermava i maltrattamenti subiti da Santa, arriviamo ancora una volta a ricostruire una rete fitta di gestione sociale dei conflitti che solo in caso di evidente fallimento viene sostituita dal procedimento legale. L’apertura di tale procedimento ha però in realtà, come abbiamo visto più volte, uno scopo solo funzionale: quello di consentire ad un ennesimo mediatore di trattare con più efficacia di pressioni, e quindi si suppone con maggiore possibilità di successo, una composizione che si vorrebbe definitiva. In breve, paradossalmente la denuncia ha come sua finalità prevista quella di evitare il ricorso reale – cioè perseguito fino in fondo – all’autorità giudiziaria; insomma, come è stato scritto a proposito di altro contesto, «le cause aperte in tribunale [...] costituivano delle semplici fasi nella strategia generale del confronto»81. Si noti inoltre che sia gli statuti bolognesi che le costituzioni del Torrone citate sopra prevedevano che la rinuncia potesse essere presentata solo all’inizio del procedimento, prima della presentazione delle prove: ma in questo caso (come del resto in molti altri) le prove del reato sono già rese clamorosamente evidenti dal81 A. Zorzi, «Ius erat in armis». Faide e conflitti fra pratiche sociali e pratiche di governo, in Origini dello Stato cit., p. 622. Nello stesso senso cfr. anche B. Garnot, Conclusion, in L’infrajudiciaire cit., p. 468: «Dans de nombreuses affaires, l’action de justice n’intervient que comme moyen de pression pour aboutir à une transaction».

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le testimonianze prestate anteriormente alla presentazione della rinuncia stessa. Lo spazio di intervento e di efficacia della rinuncia è dunque assai maggiore nella prassi rispetto a quello, pure ampio, che veniva previsto. Uomini e donne – soprattutto uomini, a dire il vero – sapevano piegare ai loro fini le forme di gestione dei conflitti previste dalla legge e anche andare al di là di esse. Più che il senso del perdono cristiano – che avrebbe dovuto spingere a evitare o a chiudere i procedimenti giudiziari e a sostituirli con pratiche conciliatorie, ma che solo poche volte abbiamo trovato accennato – abbiamo visto finora in opera un tessuto sociale informale ma assai robusto, che è esso stesso al centro di questa modalità di «fare giustizia» e che ha in qualche modo assorbito in sé una antica istituzione e la gestisce con le modalità e gli effetti più diversi. L’insofferenza per la pratica giudiziaria pubblica è forte, e se ne accetta solo quella porzione che consente in sostanza di evitarla. È all’interno della comunità di vicinato, di parentela, di parrocchia che ogni singolo membro della società preferisce sostanzialmente studiare i mezzi più opportuni di regolare i propri conflitti, e lo fa con fantasia e spregiudicatezza, usando le istituzioni con modalità che vanno molto al di là degli scopi e i mezzi studiati per esse dai giuristi che le hanno definite.

Capitolo terzo PACE Storia di Taddeo da Abello e Lorenzo Riccardi Il capitolo precedente ha già dato un’idea delle vicende che incontriamo nei processi che contengono le rinunce in nostro possesso, o in quelli che comunque si concludono con una rinuncia. Ne emerge una casistica assai variata e apparentemente casuale, anche se ricca di colore e tale da rendere con vivezza il tessuto della vita quotidiana, oltre che esemplare delle materie minori che ricorrono costantemente nei registri criminali fra Cinque e Seicento. Si tratta per lo più di risse per motivi di poco conto, di offese, di percosse; incontriamo il furto di un lenzuolo, di qualche cucchiaio, di sacchetti di farina (molta della documentazione utilizzata cade nel pieno della terribile carestia degli anni ’90, che nel bolognese si dispiega dal 1590 al 1592) o di un carro di letame (che, chissà perché, nella rinuncia diventa più decorosamente «certo fieno»1); ci sono insulti per un ballo rifiutato, un alterco fra alcuni soldati e un gruppo di giovani che piantano l’albero di maggio, e così via. Tale del resto era la tipologia dei reati per i quali gli statuti cittadini prevedevano l’uso di questo strumento di composizione dei conflitti (anche se la tendenza, come si è già detto, era quella di allargarne i confini). 1

Appendice I, 17.

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Un caso di qualche maggiore entità, e che contrariamente ad altri giunge sino alla sentenza, è quello che coinvolge tali Taddeo del fu Cesare da Abello e Lorenzo Riccardi; può valere la pena di illustrarlo in quanto ci consente di entrare nella concretezza dei rituali e anche di passare dal tema della «rinuncia» ad un altro, che è prossimo ma non coincidente con esso. Il processo era iniziato il 29 aprile 1590; la sera precedente Taddeo da Abello, di professione beccaio (cioè macellaio), era stato assalito sotto il portico della chiesa di San Giacomo di Bologna da due sconosciuti armati di spada, che erano fuggiti dopo averlo ferito ad un braccio. Le testimonianze di alcuni passanti avevano tuttavia consentito di incriminare il Riccardi, che perciò era stato condannato in contumacia alla pena di 200 scudi e di tre strappate di corda. In data 10 aprile 1591 la pena era però stata commutata dal vicelegato in 10 scudi da versare alla Camera di Bologna (la ricevuta del versamento, effettuato alla stessa data da un Sebastiano Riccardi, probabilmente un famigliare del condannato, risulta in allegato) e nell’esilio dalla città finché il reo non avesse ottenuto la pace dalla parte lesa («donec pacem habuerit a offenso»)2. Alla pace si arrivò, anche se con fatica e dopo un lungo periodo di tempo e, presumibilmente, trattative delle quali non ci è rimasta notizia. Il documento relativo fu presentato all’Uditore del Torrone il 4 agosto 1592, quindi quasi due anni e mezzo dopo gli eventi e il conseguente processo. Non era steso da un notaio ma da un privato: un Torquato Monaldini che non attestava un fatto contestuale alla stesura del documento da lui presentato, ma descriveva un rituale avvenuto due giorni prima. La domenica precedente, 2 agosto, dichiarava il Monaldini rivolgendosi all’Uditore, Lorenzo Riccardi e Taddeo da Abello avevano rimesso nelle sue mani ogni controversia e si erano rappacificati, e questo «effettualmente» era avvenuto in una proprietà del padre dello scrivente sita fuori porta San Mamolo (quindi all’esterno delle mura della 2

ASB, Torrone, 2277, c. 310v.

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città, da cui il Riccardi era bandito): «alla presenza mia et di molti miei amici et compagni si toccorno detti Abello et Riccardi la mano et abbracciorno insieme et fecero pace, promettendo di haversi l’un l’altro per amici»3. Le paci e la pace sociale L’accordo fra Taddeo da Abello e Lorenzo Riccardi non è una rinuncia, ma una pace, anche se, contrariamente all’uso stabilito, non è rogata da un notaio. Il quadro complessivo in cui occorre inserire l’istituto della rinuncia è infatti quello assai più vasto, che si è ricordato in precedenza, dell’insieme delle pratiche negoziali tese alla composizione privata dei conflitti e spesso, anche se non sempre, caricate di un sovrasenso religioso. Fra esse, assai più ampia rispetto alla rinuncia e di significato più generale, vi è la pace: che non è in alcun modo un concetto astratto, un sentimento dell’animo o un atteggiamento globale che il cittadino e il cristiano devono alimentare in sé. È un preciso istituto giuridico medievale, tipico dell’età comunale e in qualche modo integrato nel sistema vendicatorio della faida, che solo per mezzo della pace può essere interrotta4. Il termine «pace» indica quindi uno specifico procedimento e il documento stesso che ne è l’espressione e l’effetto, che hanno appunto come loro finalità quella di eliminare i motivi di frizione e anche di vendetta fra Appendice I, 40. Cfr. T. Gatti, L’imputabilità, i moventi del reato e la prevenzione criminale negli statuti italiani dei secoli XII-XVI, CEDAM, Padova 1933, pp. 580592; C. Povolo, La conflittualità nobiliare in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della Repubblica di Venezia: alcune ipotesi e possibili interpretazioni, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 151, 1992-93, pp. 89-139. Sulla complessità del concetto di pace cfr. M. Vallerani, Pace e processo nel sistema giudiziario del comune di Perugia, in «Quaderni storici», n. 101, 1999, pp. 315-353, e soprattutto M. Rossi, Polisemia di un concetto: la pace nel basso Medioevo. Note di lettura, in La pace fra realtà e utopia, in «Quaderni di storia religiosa», 12, 2005, pp. 9-45. 3 4

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due singoli o due famiglie o due fazioni, contribuendo dunque ad una complessiva situazione di accordo e di quiete sociale. È questo un principio saldo e tenacemente ribadito, avente valore sia religioso che di bene comune civile, come lo troviamo espresso con particolare chiarezza nelle prediche di Bernardino da Siena: In ogni offizio dove tu puoi essercitare [...] ladove tu truovi alcuna inimicizia o odio o rancore, sempre t’ingegna di spegnarle e di mettarvi ogni pace, ogni concordia che tu puoi. Così dico de’ Signori, i quali so’ il capo di tutta la città [...], che sapendo una inimicizia, subito mandare per loro, e giusta loro possa far lo’ far pace [...]. Che solo una pace è atta a campare una città. O tu che se’ stato già quaranta anni in guerra e nimicizia, e non hai mai voluto dare pace, ma dimmi, che credi tu fare ogiumai? [...] Io parlo ora a utile de la vostra città. Sai che si vorrebbe fare a questi tali? Elli si vorrebbe fare uno statuto, che tutti coloro che non volessero rendare pace, fossero cacciati de la città, e dar lo’ bando di ribelli5.

Dunque le paci sono essenziali per mantenere la pace, che è indispensabile nelle città; i magistrati devono procurarla e cacciare o almeno contenere coloro che rifiutano di concluderla. Uno sforzo singolare in questo senso emerge dalla istituzione dei «novanta Pacifici», o «cento Pacifici», che si diffuse nelle città della legazione di Romagna a partire dal 1540, quando a Forlì un gruppo di cittadini della classe popolare si riunì in una associazione giurata con l’intento di ristabilire la pace nella città, dilaniata dalla lotta fra le fazioni capeggiate dalle casate dei Numai e dei Serughi. Gli statuti dei novanta Pacifici vennero stabiliti e promulgati dal presidente delle Romagne; questi era allora il vescovo lucchese Giovanni Guidiccioni, che era particolarmente interessato a sedare le lotte fa5 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, Rusconi, Milano 1989, pp. 486, 1264.

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zionarie, in quanto già da tempo nutriva la convinzione «che le contenzioni degli uomini principali delle republiche si tirono dietro la rovina della città»6, come scrisse in una sua orazione ai nobili di Lucca. Negli anni successivi strutture simili vennero stabilite anche a Faenza, a Imola, a Cesena, a Ravenna, e in altre località delle Romagne; i Pacifici dovevano impegnarsi con giuramento a vigilare sulla pace della città, anche per mezzo di una guardia armata, a prodigarsi a prevenire e controllare la formazione delle fazioni e ad ottenere riconciliazioni fra le parti in lotta, che venivano raccolte in appositi registri7. Si coglie nella documentazione che ci è rimasta che lo scopo della struttura era quello di legare insieme con un patto speciale un buon numero di cittadini i quali «s’intendino quasi d’una parentella»8, e dunque rappresentassero un nocciolo duro di unità in una realtà cittadina gravemente frammentata. L’istituzione ebbe lunga durata, pur sbiadendo nel tempo le sue peculiarità, e ancora a metà del Settecento a Faenza era uso convocare durante la settimana santa un predicatore, che elogiava la pace e il magistrato dei Pacifici9. La pace ha dunque nelle società di antico regime un «rilievo costituzionale», conferendo all’attività giudiziaria la fi6 Giovanni Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca, a cura di C. Dionisotti, Adelphi, Milano 1994, p. 122. Sul Guidiccioni, oltre alla Introduzione di C. Dionisotti (ivi, pp. 21-101), e a riferimenti sparsi in M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Einaudi, Torino 1965, cfr. S. Mammana, Guidiccioni, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 61, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003, pp. 324-329. 7 G. Rabotti, I novanta pacifici di Forlì e il loro archivio, in «Rassegna degli Archivi di Stato», 23, 1963, pp. 107-134. 8 Costituzioni, ordini e privilegi dei novanta Pacifici di Ravenna, Eredi dei Giovannelli, Ravenna 1687, p. 29. 9 Vincenzio Talenti delle Scuole Pie, Ragionamento della pace [...] recitato secondo il solito il mercoledì santo nella Sala de’ Signori Cento Pacifici, Maranti, Faenza [1738]; Giovanni Benedetto da Torino Cappuccino, Ragionamento della Pace detto il Mercordì santo nella sala degli Ill.mi Sigg. Cento Pacifici della città di Faenza, Benedetti, Faenza 1755; Antonino Robba Lodigiano dell’Ordine dei Predicatori, Ragionamento [...] recitato in Faenza il Mercordì santo nella pubblica Sala degl’Illustrissimi sigg. Cento Pacifici, Stamperia vescovile, Faenza 1756.

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sionomia di una giustizia governata dalle parti cittadine10. La rilevanza dell’istituto era inoltre determinata, ad un altro livello, dal fatto che per l’omicida la «charta pacis», il documento che certificava l’avvenuta pace, era l’unico mezzo per ottenere la grazia e quindi la salvezza dalla pena capitale; anche se il gran numero dei documenti di pace finiva talora con il frenare la concessione della rispettiva grazia11. Una singolare versione dell’istituto della pace era quella in vigore nel XVI secolo nei baliaggi svizzeri e in particolare della Svizzera italiana: era il Fridt, la pacificazione fra rissanti che poteva essere ordinata o da uno dei contendenti o da chiunque fosse presente, gridando la parola stessa o con un colpo della palma della mano. Chi trascurava di ordinare il Fridt, o lo negava, o lo violava dopo averlo dato, si esponeva ad essere severamente punito, in quanto il suo comportamento era giudicato tale da incrinare la pace e il buon accordo della comunità12. All’interno della normativa bolognese la pace era distinta almeno formalmente dalla rinuncia, in quanto quest’ultima aveva un valore più limitato, concentrato su una specifica vicenda giudiziaria, mentre la pace avrebbe dovuto mettere fine, in forma definitiva, ad un conflitto globale fra individui o fra famiglie, sanzionando il ripristino fra essi o esse di rapporti d’amicizia (così Taddeo da Abello e Lorenzo Riccardi avevano promesso «d’haversi l’un l’altro per amici»). Analogamente, nella Lombardia spagnola troviamo la compresenza della pace e della remissione: la prima avrebbe dovuto essere frutto di un accordo tra le due parti, la seconda, del tutto analoga alla nostra rinuncia, consisteva semplicemente «in un atto unilaterale de10 M. Bellabarba, Pace pubblica e pace privata: linguaggi e istituzioni processuali nell’Italia moderna, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia cit., pp. 190-193. 11 Ivi, pp. 195-196. 12 E. Pozzi-Molo, L’amministrazione della giustizia nei baliaggi appartenenti ai cantoni primitivi: Bellinzona, Riviera, Blenio e Leventina, Grassi, Bellinzona 1953, pp. 124-126.

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gli offesi a vantaggio dell’offensore»13. Spesso tuttavia le rinunce bolognesi, soprattutto quando sono redatte da un sacerdote, si presentano come l’effetto di una pacificazione avvenuta in precedenza; come scriveva il 3 gennaio 1590 per conto di Piero di Croce Guidi don Giacomo Polinelli, rettore di Pietracolora, l’attore, «volendo vivere pacificamente come buon christiano, renonza et se lascia ogni et qualonque querella»; e il 7 aprile 1591 don Giovanni, rettore di Granaglione, certifica che Pietro Vivarelli «rinontia ad ogni querella [...] ateso che essi sono pacificati insieme da buoni christiani»14. In questi e altri casi analoghi il richiamo al vivere in pace voleva certo avere un valore religioso, come connotazione propria del comportamento del buon cristiano; c’è anche però sottintesa in queste righe l’idea che il buon cristiano è tale anche in quanto accetta la pace non solo come risultato del perdono e dell’accordo fraterno, ma anche per senso dell’ordine, come esito di una disciplina imposta e proposta dall’alto, come frutto di una docile sottomissione al volere dei «superiori», all’interno di una comunità tenuta nella quiete sociale, sotto il debito controllo. Nell’insieme, la pace tendeva in ogni caso ad avere di per sé un significato più generale rispetto alla semplice rinuncia, a conseguire una finalità maggiormente pensosa del bene di tutta la società, presentandosi come un fatto concernente l’intera collettività. Essa più che occuparsi delle piccole questioni dei singoli aveva lo scopo di ricomporre lo strappo subito dal tessuto politico della comunità, accogliendo di nuovo il colpevole che ne era stato estromesso15, e ovviamente tendeva a concernere soprattutto (ma non soltanto, come si è visto dal caso del macellaio Taddeo da Abello) membri delle classi alte della società. Proprio per la rilevanza politica dell’istituzione, poteva accadere che, come auspicava Bernardino da Siena, le magistrature cittadine costringessero a far la pace anche coloro Massetto, Un magistrato e una città nella Lombardia spagnola cit., p. 323. Appendice I, 8 e 32. 15 Bellabarba, Pace pubblica e pace privata cit., p. 194. 13

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che ne sarebbero stati alieni, e soprattutto quei nobili che avrebbero preferito esser liberi di sanare a proprio modo, cioè col duello o con la vendetta, una ferita inferta al loro onore. Come scriveva nel 1553 Giovan Battista Possevino, se accade che uno habbia dato una guanciata ad uno altro, condannano colui che ha dato la guanciata a pagar la pena che è costituita dalle leggi a tale eccesso, et colui che l’ha ricevuta a far la pace, et ad assicurare di non offender l’ingiuriatore, senza haver rispetto dell’honor del percosso, dicendo che essi non vogliono disordine nella città, dando per questo ad intender che la loro cura è della pace generale della città, et che perciò non hanno a tener conto dell’honore d’un particolare16.

In effetti i giuristi sottolineavano che in via di principio il cittadino non poteva essere obbligato alla pace, che doveva avere un carattere necessariamente consensuale e spontaneo: il giudice non «può astringere i sudditi a far pace, può bene persuaderli affin che lo faccino et per evitare i scandali sequestrarli nelle loro case o in altro luogo»17. «Pace deve esser volontaria, e però regolarmente nessuno può essere forzato a fare la pace»; ma quest’ultima affermazione di Marcantonio Savelli trovava subito una limitazione significativa, che era il frutto del crescente peso della dimensione inquisitoria nell’attività giudiziaria: mentre che non fosse per sedare li scandali e disturbi della quiete pubblica, o che ci entrasse l’autorità e comandamento del Principe, o che il delinquente fosse già stato condegnamente punito, perché in questi casi possono gl’inimici essere astretti a far la pace18. 16 Giovan Battista Possevino, Dialogo dell’honore [...] nel quale si tratta a pieno del duello, Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Venezia 1553, p. 241. L’interesse del passo è stato già sottolineato da C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 101. 17 Lorenzo Priori, Prattica criminale secondo il ritto delle leggi della Serenissima Repubblica di Venezia, Pinelli, Venezia 1622, p. 93. 18 Marcantonio Savelli, Pratica universale, Cocchini, Firenze 1665, p. 301. Vedi in argomento C.E. Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri nell’e-

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Gesti di pace Proprio questa forte connotazione politica della pace accentuava i suoi caratteri rituali. Per questo la gestualità descritta nel documento che sanziona l’accordo fra l’Abello e il Riccardi – il toccamano, l’abbraccio – non era un dato di colore affettivo o comunque marginale, ma di sostanza (e l’uso dell’avverbio «effettualmente» ce lo conferma). Questo, ricordiamolo, è un mondo in cui gli uomini usavano simboli e gesti per esprimersi e comunicare tra loro, come è stato detto, con la stessa naturalezza e la stessa frequenza con cui adopravano la parola19. Sappiamo infatti che, come ribadiscono i giuristi e molti statuti comunali, fra cui anche quelli bolognesi del 125220, alla forma dello strumento pubblico potevano essere equiparati alcuni comportamenti rituali, come mangiare e bere insieme, o baciarsi solennemente in pubblico. Come scriveva già alla fine del XII secolo Rufino da Sorrento, «signa [pacis] autem [...] multifaria sunt. Alia enim verbis, alia rebus, alia actibus explicantur [...]. Inter omnia vero pacis signa quae actionibus transiguntur, precipuum et magis expressum est osculum» (i segni della pace sono molteplici. Alcuni infatti consistono in parole, altri in oggetti, altri in azioni. Fra tutti i segni di pace che si esprimono con azioni il principale e il più esplicito è il bacio)21. Egualmente, per Ippolito Marsili, che scriveva ai primi del Cinquecento, la pace poteva essere stabilita «per tactum manuum, per risum reciprocum, per potum, per osculum» (con sperienza del Ducato estense (secc. XV-XVIII), in Duelli, faide e rappacificazioni. Elaborazioni concettuali, esperienze storiche, a cura di M. Cavina, Giuffrè, Milano 2001, pp. 289-291. 19 G. Koziol, Begging pardon and favor. Ritual and political order in Early Medieval France, Cornell University Press, Ithaca 1992, p. 297. 20 Pertile, Storia del diritto penale cit., p. 29: «pacem intelligimus ab osculo interveniente». 21 Rufino da Sorrento, De bono pacis, a cura di R. Deutinger, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1997, p. 172.

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una stretta di mano, con un reciproco sorriso, bevendo insieme, baciandosi)22. E in tempi più vicini a quelli delle nostre rinunce il giureconsulto marchigiano Niccolò Moroni segnalava nel 1574, parlando del giuramento, che esso si fa «per fidem datam de manu ad manum [...] dextra est signum pacis» (per mezzo della fede data dalla mano alla mano [...] la destra è segno di pace)23; infine, anche Sebastiano Guazzini scriveva, con parole del tutto analoghe, che la «remissio» veniva espressa «per risum reciprocum, per potum, per amplexum, per osculum et per tactum manuum» (col reciproco sorriso, bevendo, abbracciandosi, col bacio e la stretta di mano), specificando peraltro che «debet in ipsa pace intervenire osculum, quod est verum signum pacis», anche se «antiquitus etiam datis dextris hic inde fiebat pax» (nella pace deve aver luogo il bacio, che è il vero segno di pace, anche se anticamente anche dandosi la mano la pace aveva luogo), come si legge nella Sacra scrittura24. Il passo a cui il Guazzini alludeva è quello del libro dei Maccabei: «Ora dunque offriamo la destra a questi uomini e facciamo pace con loro e con tutto il loro popolo» (I Mach. 6,58). In effetti il toccamano manteneva il medesimo significato di impegno di pace e buon accordo anche al di fuori degli stati italiani, forse proprio grazie a questo riferimento. Se22 Ippolito Marsili, Tractatus bannitorum, ap. Societatem Typographiae Bononien., Bononiae 1574, In verbo pace, nn. 1 sgg. Ma si trattava di un’opinio communis. Non sempre affidabile in argomento Gatti, L’imputabilità, i moventi del reato e la prevenzione criminale cit., pp. 584-585 e 594-597. 23 Niccolò Moroni, Tractatus aureus de fide, treuga et pace, apud Damianum Zenarum, Venetiis 1574, p. 21. Sull’uso della mano destra come segno di fides nel giuramento nel mondo classico cfr. V. Saladino, Dal saluto alla salvezza: valori simbolici della mano destra nell’arte greca e romana, in Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, a cura di S. Bertelli e M. Centanni, Ponte alle Grazie, Firenze 1995, pp. 41-43, e A. Calore, «Tactis evangeliis», ivi, pp. 74-78. 24 Sebastiano Guazzini, Tractatus de pace, treuga, verbo dato alicui principi, vel alteri personae nobili, et de cautione de non offendendo, haered. A. Grisei et J. Piccini, Macerata 1669, Pars I, Quae. 4, p. 4.

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condo un viaggiatore francese che pubblicò la sua testimonianza nel 1651, i vicinati della città olandese di Leida avevano un «maître» e dei consiglieri «constituez pour entendre les plaintes et pacifier les parties» (il cui compito era ascoltare le querele e pacificare le parti). Ottenuto questo scopo «alors ils [i contendenti] se donnent la main»25 (allora i contendenti si danno la mano). Le città olandesi, e Leida fra esse, rappresentavano in quegli anni il nerbo delle Province Unite, la cui indipendenza era stata definitivamente riconosciuta dal trattato di Münster del 1648. Il primo libro dei Maccabei raccontava la storia della tenace resistenza nazionale degli ebrei contro l’invasore Antioco Epifane (II sec. a.C.); e certo nelle città olandesi appena giunte alla definitiva sanzione della loro autonomia quelle pagine dovevano avere un peso particolare, un significato più intenso e profondo. A chi nelle case di Leida le apriva – forse nella versione latina di Emanuele Tremellio e di François Du Jon, di cui era uscita un’edizione ad Amsterdam nel 162726 – esse gridavano «de te fabula narratur». Per questo è stato supposto che proprio in quel contesto politico e religioso sia nata l’usanza di salutarsi con una stretta di mano: un gesto inteso in un primo momento come segno di solidarietà politica, e poi semplicemente di amicizia e di lealtà, che divenne in seguito praticato come saluto in ambienti quaccheri, acquistando successivamente una diffusione universale. Comunque ancora nel 1697 un francese che visitava l’Inghilterra rimase assai stupito nel vedere che gli inglesi incontrandosi si davano la mano scuotendola cordial25 H. Roodenburg, The ‘hand of friendship’: shaking hands and other gestures in the Dutch Republic, in A Cultural History of Gesture, a cura di J. Bremmer e H. Roodenburg, Polity Press, London 1991, pp. 152-189 (le citazioni alle pp. 172-173). 26 Biblia sacra Veteris et Novi Testamenti, et quidem illius ex interpretatione D.D. Tremellii et Iuni; huius ex versione D. Bezae. Accesserunt libri apocryphi ex versione D. Iuni, apud Ioannem Ianssonium, Amsterodami MDCXXVII, pars quarta, c. 125v: «Nunc itaque iungamus dexteras viris istis, et faciamus cum eis pacem et cum tota gente ipsorum».

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mente27: dunque il gesto a quell’epoca non aveva ancora acquistato, in buona parte d’Europa, l’ovvio, quotidiano significato che gli diamo oggi. Però il vero segno della pace, che ben di rado poteva essere omesso, era, almeno in Italia e fino al Seicento avanzato, il bacio sulla bocca («osculum»). Ce lo illustra con chiarezza una singolare vicenda raccontata nel 1623 dal bolognese Camillo Baldi, che per sessant’anni insegnò filosofia e logica nell’università della sua città. Uno studente si era invaghito di un bellissimo ragazzo di nobile famiglia e lo seguiva ovunque; questi peraltro, sia per la sua natura altera sia perché virtuoso, dimostrava apertamente il proprio fastidio per l’insistenza importuna del suo ammiratore. Vedendosi disprezzato, lo studente gli tirò due colpi senza ferirlo, e «gli fece poi domandar la pace, lasciandosi intendere che ciò solo faceva per baciare il giovane»28. Agli occhi del lettore moderno questa vicenda consente soprattutto di cogliere un esempio di intensa tensione omoerotica: la passione non ricambiata, il disprezzo, la violenza, la pace richiesta per consentire un avvicinamento fisico così prossimo da divenire amoroso, sembrano esserne gli elementi portanti. Il Baldi invece la usa per menzionare un caso di pace richiesta a cui non si deve assolutamente accondiscendere; ma la vicenda conferma comunque che fino almeno agli inizi del Seicento il ruolo del bacio nel rituale delle pacificazioni era del tutto ovvio, tanto che «darsi la pace» poteva significare per antonomasia baciarsi29. Si trattava di una pratica che aveva un’origine religiosa, nonostante l’uso erotico che pretendeva di farne lo studente bolognese, e che trovava le sue radici nella tradizione del cri27 K. Thomas, Afterword, in The kiss in history, a cura di K. Harvey, Manchester University Press, Manchester 2005, p. 193. 28 Camillo Baldi, Delle mentite et offese di parole et su come possino accomodarsi, Mascheroni e Ferroni, Bologna 1623, p. 309. Sul Baldi cfr. M. Tronti, Baldi, Camillo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 5, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1963, pp. 465-467. 29 Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. XII cit., p. 321.

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stianesimo primitivo. Il bacio di pace è menzionato nelle lettere apostoliche («Salutatevi gli uni gli altri col bacio santo», scrive Paolo ai Romani, ai Corinzi, ai Tessalonicesi), negli scrittori cristiani antichi e poi nella prassi liturgica romana, nella quale aveva il ruolo di esplicitare e garantire la fraterna disposizione d’animo dei fedeli che si accostavano alla comunione; venne invece sostituito a partire dal XIII secolo da oggetti – talora dei reliquiari – che avevano appunto il nome di «paci», ed erano offerti al bacio dei fedeli30. Nello stesso periodo il bacio di pace sulla bocca venne adottato nelle pratiche di pacificazione, nelle quali non aveva un significato meramente simbolico, ma rappresentava un reale strumento giuridico31. Nelle carte toscane il bacio di pace («osculum pacis») compare a partire dal 123832; il notaio romano Lorenzo Staglia, del quale ci è rimasto il protocollo per un anno di lavoro, il 1372, rogò diverse paci e in ciascun atto segnalò che le parti si erano baciate reciprocamente sulla bocca in segno di buona pace («ad invicem dederunt osculum bone pacis de ore ad os»33). Negli stessi anni, il giurista perugino Baldo degli Ubaldi distingueva la concordia dalla pace; per la prima bastava una stretta di mano, la seconda, più impegnativa, ri30 A. Baumstark, Liturgie comparée. Principes et méthodes pour l’étude historique des liturgies chrétiennes, Monastère d’Amay, Chevetogne 1940, p. 150; J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Einaudi, Torino 1998, pp. 176-186; Y. Carré, Le baiser sur la bouche au Moyen Âge. Rites, symboles, mentalités. XIe-XVe siècles, le Léopard d’Or, Paris 1992, soprattutto pp. 163-186 e 221-252; C. Koslofsky, The kiss of peace in the German Reformation, in The kiss in history cit., pp. 18-35, in particolare pp. 18-22; L. Cabrini Chiesa, Gesti e formule di pace: note in margine all’età medievale, in La pace fra realtà e utopia cit., pp. 47-75 (su tutta la simbologia della pace in ambito liturgico). 31 G. Dilcher, Friede durch Recht, in Träger und Instrumentarien des Friedens cit., p. 203. 32 Collectio chartarum pacis privatae Medii aevi ad regionem Tusciae pertinentium, a cura di G. Masi, Vita e Pensiero, Milano 1943, p. 62. 33 Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), a cura di I. Lori Sanfilippo, Società romana di storia patria, Roma 1986, p. 126 (ma cfr. anche le pp. 60, 86, 94, 155).

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chiedeva il bacio; tuttavia nella stessa area umbra, come pure nel contado veronese, non mancavano i notai che trascuravano tale distinzione o addirittura si limitavano a segnalare che le parti si erano riconciliate34. A Roma, fra Tre e Quattrocento, era in vigore l’istituto dell’arbitrato, nel quale giudici scelti dalle parti stabilivano il complesso dialogo rituale che doveva aver luogo fra offensore e offeso. Si trattava di una vera e propria rappresentazione teatrale a copione rigorosamente fisso: l’offeso faceva il gesto di punire il colpevole con un pugno o uno schiaffo, o addirittura lo feriva leggermente, ma poi lo baciava e successivamente i due contendenti si scambiavano quaranta (!) baci che sanzionavano definitivamente la pace fra loro. Si trattava di una prassi che, col nome di «remissione», veniva discussa ancora a metà Cinquecento: Lancellotto Corradi approvava che l’ingiuriatore si ponesse in potere dell’ingiuriato quasi come un prigioniero («ut captivum»), ma riteneva inopportuno che fosse percosso, pur segnalando che c’era chi la pensava diversamente35. In ogni caso era proprio la ritualità stabilita da terzi che consentiva all’offensore di accettare le percosse più o meno reali dell’avversario, e che comunque i baci ripetuti sanavano definitivamente. Tutte le testimonianze, e anche le rappresentazioni figurate medievali (in particolare quelle del bacio di Giuda, che veniva inteso come un segno di pace tradita) fanno intendere che il bacio dato nelle pacificazioni doveva essere scoccato sulle labbra. Alcuni affreschi umbri del primissimo Quattrocento, tutti, tranne uno, di autore sconosciuto, ci mostrano 34 M. Sensi, Le paci private nella predicazione, nelle immagini di propaganda e nella prassi fra Tre e Quattrocento, in La pace fra realtà e utopia cit., pp. 159-200, e spec. 162-163; V. Rovigo, Le paci private: motivazioni religiose nelle fonti veronesi del Quattrocento, ivi, pp. 201-233. 35 Documenti in questo senso risalenti al 1419 e al 1423 sono riportati in A.M. Corbo, Artisti e artigiani in Roma al tempo di Martino V e di Eugenio IV, De Luca, Roma 1969, pp. 168-170; e cfr. Lancellotto Corradi, Commentaria de duello et pace, Pier Paolo Pontico, Milano 1553, cc. 106v, 108v.

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scene di pacificazione; si tratta probabilmente di ex voto di ringraziamento per la conseguita pace. In quegli anni – tra il 1399 e il 1401 – si era infatti sviluppata una devozione popolare, detta «dei Bianchi» dal colore del saio indossato da coloro che vi partecipavano e che andavano in pellegrinaggio di città in città, predicando la pace e la penitenza e cercando di ottenere atti di conciliazione fra le fazioni cittadine, lasciandone talora il ricordo in ex voto affrescati. In uno di essi san Nicola da Tolentino affianca un angelo che cinge con le braccia le spalle dei due contendenti spingendoli ad abbracciarsi; i due sono in armi e recano in capo un elmetto, ma le loro spade sono confitte al suolo; essi sono rappresentati uno con le braccia in croce, l’altro con le mani giunte e sembrano chiedersi reciprocamente perdono (fig. 5). In un altro affresco, sito a Terni, un angelo posa le mani sui capi di due giovani inginocchiati che avendo gettato le armi si abbracciano baciandosi, appunto, sulle labbra (fig. 6); un terzo affresco, opera di Cola da Camerino e datato 1401, mostra la folla dei Bianchi che circonda due contendenti che ancora una volta un piccolo angelo spinge ad abbracciarsi e a scambiarsi un bacio36. Il bacio come segno di pace permane anche nell’età moderna: nel 1529 a Innsbruck la pace solenne fra le due famiglie trentine Tabarelli e De Fatis venne sanzionata con una stretta di mano e un bacio di pace («per tactum manus et osculum pacis»). In territorio estense alcune paci sono egual36 Cfr. A. Prandi, La pace nei temi iconografici del Trecento, in La pace nel pensiero nella politica negli ideali del Trecento, Accademia Tudertina, Todi 1975, p. 257 e figg. 9 e 10 (il primo affresco riprodotto è conservato nella Pinacoteca Nazionale dell’Umbria di Perugia, il secondo è nella chiesa del cimitero, detta del Monumento, di Terni), e, più di recente e più ampiamente, G. Casagrande, A. Czortek, I Bianchi fra Toscana meridionale e Umbria settentrionale, in Sulle orme dei Bianchi dalla Liguria all’Italia centrale, a cura di F. Santucci, Accademia properziana del Subasio, Assisi 2001, pp. 200, 206, 207; P. Renzi, La devozione dei Bianchi a Terni negli affreschi di S. Maria del Monumento, ivi, p. 291; e soprattutto E. Bliersbach, I Bianchi nell’arte umbro-laziale, ivi, pp. 365-405. Cfr. infine da ultimo Sensi, Le paci private cit., pp. 168-172.

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mente concluse nel 1531 con «contactu manuum et osculo pacis»; e a Medicina nel contado bolognese nel 1551 un rituale di pace fra le famiglie Totti e Nanni – conclusosi con una promessa nuziale fra due membri di esse – vede lo scambio fra i maschi delle due casate del toccamano e del bacio. Il bacio si inseriva infatti di solito in un rituale più complesso. A Cremona nel 1569 don Ottaviano Oldoini descrive la cerimonia di pace conclusa con Romano Roma ricordando che «in segno di vera amicicia s’abraciassimo et magnassimo delle olive et bevessimo in presentia delli sudetti sopranominati» testimoni37. Anche nella Repubblica di Genova gli «instrumenti» delle paci descrivono con ricchezza di particolari la gestualità rituale della riconciliazione: abbracci con le lacrime agli occhi, scambi del bacio di pace, «tocco delle Scritture», funzioni religiose, banchetti in cui i pacificati mangiano insieme dallo stesso piatto e bevono dallo stesso bicchiere. Nel 1571 i rappresentanti di quindici parentele e i banditi che appartenevano ad esse «pervenerunt ad bonam et amicabilem pacem [...] et biberunt in eodem ciato» (vennero ad una buona e amichevole pace e bevvero nello stesso bicchiere)38. Viceversa, quando una pace viene rotta – atto che veniva considerato un reato perseguibile, che rientrava nelle competenze del potere pubblico – i trasgressori si giustificano affermando che non si trattava di una vera pace: «fu pace cossì, senza sermone e senza bever vino»39. Il sermone, si suppone tenuto in chiesa, e il bere insieme sono in quest’ottica i veri sigilli giuridici della pace; mancando 37 M. Bellabarba, Racconti famigliari. Scritti di Tommaso Tabarelli de Fatis e altre storie di nobili cinquecenteschi, Società di studi trentini di scienze storiche, Trento 1997, p. 125; L. Ferrante, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, disciplina della società, a cura di P. Prodi, il Mulino, Bologna 1994, p. 915 (la pace fra le due famiglie fu peraltro ben presto infranta con l’uccisione del padre del futuro sposo da parte del consuocero); Tavilla, Paci, feudalità e pubblici poteri cit., p. 306; Politi, Aristocrazia e potere politico cit., p. 376. 38 Raggio, Faide e parentele cit., pp. 13, 238, 258. 39 Ivi, p. 231.

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o essendo imperfetto il rituale, l’espressione in altre forme di una volontà di accordo può essere considerata non valida. Tutto ciò non potrà meravigliarci, tenendo conto del forte valore intenzionale, formale, costitutivo che potevano avere i gesti nelle società antiche o di antico regime. Essi rappresentavano le articolazioni di quel grande linguaggio giuridico, sociale, politico che era il rituale, che i singoli gesti contribuivano a scandire e a comporre. E particolarmente ricchi di significato e di forza costitutiva erano proprio il toccamano e il bacio, che erano fondamentali soprattutto (ma non soltanto) nel marcare le fasi dell’accordo nuziale, come abbiamo già visto avvenire nel contado bolognese nella pace fra le due famiglie Totti e Nanni: nella Roma del Quattrocento gli «abboccamenti», che rappresentano uno dei passaggi iniziali di tali accordi, sono detti così perché segnati da un bacio sulla bocca tra i contraenti (i padri o i loro rappresentanti, s’intende, non gli sposi)40. Del resto le nozze pattuite sono parte esse stesse della pace, e i gesti che sanciscono la promessa di matrimonio impegnano tradizionalmente anche e soprattutto alla cessazione dell’ostilità fra le due famiglie; un regolamento generale di pacificazione fra due consorterie toscane rogato nel 1257 contiene la stipulazione degli sponsali di ben quattro matrimoni, incrociati fra le due famiglie, che verranno celebrati, si precisa, quando gli sposi arriveranno alla pubertà («cum [sponsi] ad pubertatem pervenerint»)41. E 40 Vedi in generale sui gesti S. Bertelli, M. Centanni, Il gesto. Analisi di una fonte storica di comunicazione non verbale, in Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi cit., soprattutto pp. 20-22 (ma in generale tutto il volume); per quanto attiene specificamente toccamano e bacio nel rituale nuziale cfr., di chi scrive, Baci rubati. Gesti e riti nuziali in Italia prima e dopo il Concilio di Trento, ivi, pp. 224-247, e ora D. Quaglioni, Segni, rituali e simboli nuziali nel diritto, in I tribunali del matrimonio (secoli XVXVIII), a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, il Mulino, Bologna 2006, pp. 43-63. Sugli «abboccamenti» cfr. Ch. Klapisch Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 115-116. 41 Collectio chartarum pacis cit., pp. 289-316. La reciprocità dei matrimoni nelle paci è assai comune. Sulle strategie matrimoniali incrociate il riferi-

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quando nel 1498 i membri delle due famiglie romane degli Orsini e dei Colonna stringono fra di loro una pace dopo essersi aspramente combattuti, Marin Sanudo ce ne dà notizia informando che «si avevano parentato insieme et manzato a la campagna ad uno»42, segnalando dunque i matrimoni e il pasto comunitario che avevano sancito quell’accordo. Ma torniamo ora, finalmente, a Taddeo da Abello e Lorenzo Riccardi. Il rituale intercorso fra essi, con l’abbraccio e il toccamano, è dunque di per sé efficace nello stabilire la pace fra i due contendenti. Si è svolto subito fuori di una delle porte della città per segnalare il suo scopo primo, che è quello di ottenere per Lorenzo Riccardi la remissione del bando che a quelle porte gli vietava appunto l’accesso; ha visto la presenza non solo del mediatore, ma anche di «molti suoi amici e compagni», quasi a simboleggiare la comunità che accoglie nuovamente nel suo seno colui che ne aveva infranto le regole. Al tribunale non rimaneva dunque che prendere atto dell’avvenuta composizione, come del resto aveva previsto il vicelegato l’anno precedente. Pratiche sociali delle paci La rinuncia e la pace erano due istituti nettamente differenziati sotto il profilo giuridico; ma come abbiamo visto anmento d’obbligo è a G. Delille, Famille et propriété dans le Royaume de Naples (XVe-XIXe siècle), École française de Rome-École des hautes études en sciences sociales, Roma-Paris 1985 (trad. it. Einaudi, Torino 1988), pp. 217335, e Id., La paix par les femmes, in «Alla Signorina». Mélanges offerts à Noelle de la Blanchardière, École française de Rome, Roma 1995, pp. 99-121. Cenni in proposito già in N. Tamassia, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Sandron, Milano 1910, p. 68 (e su pace e perdono in generale pp. 68-71). 42 Marin Sanuto, Diarii, I, Visentini, Venezia 1879, col. 1016. Sulla guerra del 1498 tra i Colonna e gli Orsini e la successiva pace cfr., di chi scrive, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-5.

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che nelle pagine precedenti, nella pratica quotidiana sembravano talora confondersi fra loro e si intrecciavano in comportamenti che lasciano cogliere sottintesi, ambiguità, secondi fini. Quando Jacopo Cassio, nel dicembre 1602, racconta di avere «fatto pace» con un cugino, sembrerebbe non immediatamente chiaro in che cosa tale pace si differenzi da una comune rinuncia: Io ho fatto pace con un mio cugino chiamato Eugenio Magnano da Bologna, che sta a casa in San Petronio Vecchio [...]. Nella pace non intervenne se non Eugenio et me, che la facessimo in casa mia alla presentia di mio padre, di m. Vincenzo Magnano barba di Eugenio et m. Giacomo Magnano parente di detto Eugenio, che la scrisse m. Gironimo notario che sta in San Petronio Vecchio et non so di quali si chiami ma è un giovanetto [...]. Eugenio et mi facessimo la pace perché un giorno mentre che io ero su l’uscio di casa lui venne lì a dir villania a me, et io ne dissi a lui et per questo facessimo la pace43.

I motivi del contendere sono pressoché irrilevanti; il rituale è scarno o insussistente, l’ambiente è quello domestico. Notiamo però che alla pace è stato presente un notaio, anche se Jacopo Cassio non ne ricorda neppure il cognome, ma ne segnala solo il nome di battesimo, l’abitazione e la giovanissima età. Inoltre, e soprattutto, non viene menzionata l’esistenza di alcuna querela, che sarebbe stata la premessa indispensabile della rinuncia, mentre la pace intendeva sanare alla radice una situazione di conflitto che non era necessariamente approdata in tribunale. Di fatto, nonostante le situazioni di incertezza la percezione della differenza fra i due istituti esisteva, e possiamo coglierla bene da un processo del 1581. Il 27 marzo di quell’anno, verso il tramonto, nella località di Riosto sull’Appennino tal Battista Salmi venne ripetutamente colpito con un pugnale dai fratelli Annibale e Lorenzo dalla Costa. La causa del ferimento venne chiarita dallo stesso Salmi: 43

ASB, Torrone, 3440, c. 213r-v.

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Nel mese di agosto prossimo passato io venni alle mani con un Gio. Batta fratello del detto Annibale [...] e finalmente io gli diedi una bastonata con un hastolo da buovi, che di ciò me ne fu fatto querela, e avendogli fatto domandare la pace, non me l’ha mai voluta dare, dicendo che loro non mi volevano fare dispiacere e che era una cosa da ragazzi; ma è ben vero che io ottenni la renuntia da loro mediante il signor Giovanni Ariosti, e cancellai la detta querela e questa è la verità [...] mi hanno fatto questo assassinamento si hanno voluto vendicare della bastonata che io diedi al detto Gio. Batta lor fratello44.

Il Salmi comprende benissimo l’orizzonte mentale dei fratelli dalla Costa: essi hanno rifiutato di concedergli la pace, che li avrebbe impegnati nei suoi riguardi anche per l’avvenire, mentre non hanno avuto alcuna difficoltà a fargli avere la rinuncia (ancora una volta, si noti, mediante i buoni uffici di un personaggio influente quale era l’Ariosti, membro di una famiglia senatoria): questa concerneva la singola querela e non altro, e anzi consentiva ai familiari dell’offeso, rimosso il procedimento giudiziario, di procedere ad una privata vendetta per le bastonate ricevute. D’altra parte, come del resto si è visto nel capitolo precedente, una pace concessa oralmente poteva essere considerata non sufficiente per chiudere un procedimento giudiziario. Una vicenda che mostra in maniera esemplare le intricate pratiche a cui la pace, come la rinuncia, poteva essere piegata, è quella che emerge da un processo per bastonate (ancora!) che ha inizio il 31 dicembre 1602. Tal Pietro Bonacossa, mercante bolognese di pellami, è stato attirato fuori di casa con un pretesto e colpito ripetutamente alla testa con un bastone da un ignoto. Il responsabile però sembra essere stato rapidamente individuato nella persona di un altro mercante, Baldasera Barbuglia, che secondo le indagini aveva commissionato le bastonate a tal Giovan Battista Cimicello. Peraltro 44

Ivi, 1410, cc. 13v-14r.

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il 30 gennaio 1603 il Bonacossa si presenta davanti al notaio del tribunale e per scarico della sua coscienza fa la seguente dichiarazione giurata: Hiersera io ad intercessione del signor conte Thadeo Pepoli feci la pace con Mr. Baldasera Barbuglia che querelai li dì passati che me avesse fatto dare le bastonate da Gio. Battista Cimicello; et perché detto Mr. Baldasera mi confessò hiersera alla presenza del signor conte Thadeo, d’Hercole Berò et Mr. Michele Bocconate da Grecchia che quello che me dette le bastonate fu lui stesso mr. Baldasera, però io non intendo di litigar più con detto Cimicello non essendo lui delinquente (et ita iuravit); ma trovandosi per l’avenir che fosse stato lui non intendo che questa mia renonza vagli ma che se faccia la giustitia45.

Il Bonacossa attesta dunque oralmente, con giuramento, una pace (che, benché avvenuta come vedremo davanti ad un notaio, non si è però tradotta a suo tempo nella stipulazione di un atto rogato) tra lui e il Barbuglia, che si sarebbe dichiarato personalmente colpevole del reato per cui era incriminato, e, nello stesso tempo, dichiara di rinunciare alla sua querela contro il Cimicello che ritiene innocente. Le cose sono però meno semplici di quanto appaia. Alcuni giorni dopo infatti il Barbuglia viene interrogato sulla base della dichiarazione del Bonacossa e dà un racconto di quanto avvenuto in casa del conte Pepoli assai diverso: Io dovevo havere certi dinari da detto Piero et litigamo insieme, et intesi in quel mentre che una sera era stato offeso, e che gli erano state date certe bastonate et che ne haveva querelato me nel Torrone et per questo me erano venute certe scritte, et per questo io recorsi dal signor conte Thadeo [...] pregandolo ad interponere la sua autorità in farmi pagare et far chiamare il detto Piero, et pregarlo a desistere di litigare con me nel Torrone per causa delle dette bastonate, atteso ch’io n’ero innocente et ch’io non l’havevo of45

Ivi, 3443, cc. 273v-274r.

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feso, et per questo il signor conte Thadeo lo fece chiamare et ci fece fare la pace per la sudetta causa46.

Dal lungo interrogatorio del Barbuglia emergono progressivamente le numerose liti ch’egli ha avuto con il Bonacossa, i soldi che questi gli deve e il tentativo di esser pagato ottenendo da lui la pace, senza per questo confessare le bastonate: Non ho accettata la pace perché io gli habbia fatto dispiacere, ma per sfugir la lite et per potere trattare seco, che non me parlava, per potere conseguire il mio, et perché mi scolpasse di questo debbito, come aveva promesso al signor conte Thadeo [...]. Io non gli domandai perdono, perché io non l’havevo offeso in conto nessuno, ma solo feci la pace perché me scolpasse dalla querela mi aveva fatta qui nel Torrone delle bastonate, et per potere da lui conseguire il mio, che non mi parlava, né gli domandai perdono d’haverlo offeso47.

Il Barbuglia ripete più volte di non aver mai chiesto perdono al Bonacossa, come questi aveva asserito, e di non essere responsabile delle percosse da lui subite. In effetti la sua richiesta di ottenerne la pace lo aveva messo in una posizione equivoca, in quanto i giuristi (anche se la materia era dibattuta) consideravano tale atto probante della colpevolezza del richiedente48, e il Bonacossa si era affrettato ad approfittarne. La pace ch’egli ha concesso non è dunque in alcun modo un’amicizia giurata, ma un’arma che egli utilizza per evitare di pagare il suo debito al Barbuglia. In tal modo ognuno dei due contendenti aveva tentato, con maggiore o minor successo, di utilizzare a proprio vantaggio il rituale della pace. Ivi, cc. 293v-294r. Ivi, cc. 299r, 301v. 48 Giulio Claro, Pratica civilis atque criminalis, «ex Typographia Baretiana», Venezia 1576, Quae. XXI, 38, p. 271: «Certe apud nos si reperitur instrumentum pacis, illud plene probat delictum contra eum, qui pro eo pacem facit»; Savelli, Pratica universale cit., p. 299. Cfr. su ciò, più in generale, P. Marchetti, Testis contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Giuffrè, Milano 1994, pp. 121-125. 46 47

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Il Barbuglia cercò di difendere i suoi diritti invocando la testimonianza degli astanti, e soprattutto quella del conte Pepoli, che si era prestato ad un ruolo di mediazione che del resto era abituale nel suo ceto. Significativamente, il conte non venne disturbato – non usava che un nobile di famiglia senatoria entrasse in un’aula di tribunale – ma abbiamo altre deposizioni, una delle quali è particolarmente interessante perché descrive con minuzia la scena della pace e il comportamento dei suoi attori. È quella del notaio Michele Bocconate, che però non presenziò nel suo ruolo professionale, ma solo in quello di amico e testimone del Bonacossa: Una sera me chiamò detto mr. Pietro et me recercò se volevo andare seco a casa dell’Ill.mo signor conte Thadeo Pepoli, dove haveva da andare a fare la pace con mr. Baldasera Barbuglia, ch’era stato quello che gli haveva date le bastonate, et che volea uno seco ad ogni buon fine. Così ci andai, et quando fossi in casa di detto signor conte, dove era detto mr. Baldasera, alla sua presentia [...] il signor conte fece le belle parole, et che voleano che per amor suo facessero pace et se perdonassero di tutto quello era passato tra di loro (senza ricordare né questo né quello, che io sentisse). Et odii quando il detto Barbuglia se scusò et domandò perdono al detto mr. Pietro, con dire ‘Mi rincresse et mi doglio di tutto quello ho fatto et detto contro di voi et vi domando perdono’, et detto mr. Pietro disse che per amor del signor conte se contentava, et che haveria fatta quella et maior cosa, et restorno amici et se basiorno alla presentia del detto signor conte49.

Non sappiamo se le cose fossero andate davvero così (come abbiamo visto, il Barbuglia lo negò fermamente), ma le «belle parole» che vengono riportate come pronunciate dall’illustre mediatore, dall’offensore e dall’offeso erano quelle rituali, come rituale era il bacio che i due si erano scambiati nel racconto del Bocconate. In questo come in altri casi, la incerta veridicità di una testimonianza non ne inficia l’interesse co49

ASB, Torrone, 3443, cc. 299v-300r.

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me fedele descrizione di una situazione comunemente ricorrente, che essa si sia verificata o meno in quella circostanza. Il Barbuglia, non riuscendo ad ottenere deposizioni a lui favorevoli da coloro che erano stati presenti alla pace, si trovò allora quattro testimoni che certificarono ch’egli era «huomo da bene di buona vita et fama», appoggiando tale loro affermazione sul solito stereotipo del buon cristiano e del buon suddito vigente negli stati della Chiesa durante la Controriforma: avevano visto il mercante andare a messa, ai vespri, ai sermoni ed accostarsi ai sacramenti; ritenevano inoltre che fosse «persona caritativa et compassionevole et da bene, et che non sia persona rissosa né scandalosa». Ma queste considerazioni positive sul carattere e i comportamenti del Barbuglia venivano in secondo tempo, quasi a conferma non indispensabile di quello che veniva presentato come il dato sostanziale, costituito dalla frequenza alle pie pratiche. Era uno stereotipo che troviamo continuamente ricorrente nei processi difensivi dell’epoca, e che ci mostra con la massima forza come il disciplinamento della Controriforma aveva ottenuto, se non comportamenti conformi ad un certo modello, almeno l’ipostatizzazione di quel modello. Il fatto che si frequentassero le chiese e i sacramenti nella realtà dei fatti non garantiva certo una buona condotta; ma tutti sembravano ritenere che così fosse, o almeno lo affermavano. Per ulteriore accertamento il Barbuglia venne posto alla tortura della corda, ma ad ogni strappata continuò sempre a ripetere «la verità l’ho detta», e pertanto, avendo superato la prova, venne dichiarato non colpevole né punibile a termini di legge («repertus non culpabilis neque de iure punibilis»)50. La vicenda consente fra l’altro di confermare due elementi importanti delle paci: il ruolo rivestito da mediatori influenti e di condizione sociale elevata, che a Bologna appartenevano spesso a famiglie senatorie, e comunque erano di grado molto superiore a quella dei contendenti, e inoltre la necessità 50

Le citazioni ivi, rispettivamente alle cc. 311r, 316r, 326r.

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stringente di certificare l’accordo con un atto rogato da un notaio. Le vicissitudini del Barbuglia erano legate proprio all’assenza di una scrittura che definisse in modo preciso i rapporti precedenti e attuali tra lui e il Bonacossa; e del resto si sono già visti altri casi di riconciliazione e pace avvenuta senza scritture, che avevano reso necessaria la presentazione almeno di una rinuncia scritta. Non per nulla il marchigiano Ottaviano Vulpelli, pubblicando nel 1573 un suo Tractatus de pace, aveva sottolineato come una riconciliazione era certo sufficientemente provata dal saluto, dall’abbraccio, dal bacio, dalla stretta di mano; ma se si trattava «de probanda pace, qua statuti, vel rescripti beneficio potiamur [...] necessario pacem quae in scriptis facta sint requirunt»51. Cioè, se si voleva comprovare la pace per ottenere i benefici della legge il documento scritto era indispensabile, e rinunciarci nella speranza di poter confidare nella garanzia di un illustre mediatore risultava quantomeno imprudente. Duelli veri e duelli minacciati Arrivare alla costruzione di un testo del genere, che fosse accettabile da tutte le parti in causa, non era però semplice; e la seconda metà del Cinquecento e il Seicento conobbero un gran numero di scritti che impostavano il problema da diversi punti di vista, ma con sostanziale monotonia anche se progressivamente con maggiore rigidità. Si tratta di una trattatistica immensa e fortemente ripetitiva (solo negli anni fra il 1550 e il 1564 uscirono ben 54 edizioni di trattati di scienza cavalleresca), che intrecciava quello che appariva essere il punto essenziale, cioè la questione dell’onore, con l’illustrazione della pratica del duello, che proprio negli anni ’50 era 51 Ottaviano Vulpelli, Tractatus de pace, indutiis et promissionibus de non offendendo, in quo sex et centum quaestiones ad forensem praxim pertinenter examinantur, ex Typographia Guerrae, Venetiis 1573, p. 133.

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divenuta più frequente (anche se, come vedremo, forse meno di quanto si potrebbe credere) per il peso ormai schiacciante del sistema valoriale dominante52. Era questa un’epoca in cui, come scriveva già nel 1526 l’umanista spagnolo Juan Luis Vives, mille gesti apparentemente insignificanti, come alzarsi o sedersi, corrugar la fronte, passar due volte davanti alla porta, guardare, fischiare e cento altri, erano oggetto di lunghe riflessioni se fossero segno di disprezzo o di onore53. Come proteggere dunque, quando lo si sospettasse offuscato, un bene così essenziale come l’onore, la cui centralità è assoluta nel periodo in questione, se non con il duello? Giovan Battista Possevino, la cui opera apparve nel 1553, sottolineava l’abuso dei «legisti» che lo vietavano: «pognamo che ad un gentilhuomo sia dato un pugno, et colui che gliele ha dato sia punito dal magistrato, si dee egli pensare che ‘l gentilhuomo habbia riavuto l’honor suo?». La risposta non poteva che 52 Sul duello in antico regime e sulla relativa trattatistica cfr. in particolare F. Erspamer, La biblioteca di Don Ferrante. Duello ed onore nella cultura del Cinquecento, Bulzoni, Roma 1982; F. Billacois, Le duel dans la société française des XVIe-XVIIe siècles. Essai de psycosociologie historique, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Paris 1986; V.G. Kiernan, The Duel in Europe History. Honour and the Reign of Aristocracy, Oxford University Press, Oxford 1988; M. Bellabarba, Rituali, leggi e disciplina del duello: Italia e Germania fra Cinque e Settecento, in Duelli, faide e rappacificazioni cit., pp. 83-118; Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., soprattutto alle pp. 243-288; M. Cavina, Il duello giudiziario per punto di onore. Genesi, apogeo e crisi nell’elaborazione dottrinale italiana (sec. XIV-XVI), Giappichelli, Torino 2003; Id., Il sangue dell’onore. Storia del duello, Laterza, Roma-Bari 2005; P. Broggio, Linguaggio religioso e disciplinamento nobiliare. Il «modo di ridurre a pace l’inimicitie private» nella trattatistica di età barocca, relazione tenuta al convegno I linguaggi del potere cit. 53 Juan Luis Vives, De concordia, in Opera omnia, V, in officina Benedicti Monfort, Valentiae Edetanorum MDCCLXXXIV, p. 225. Una riflessione globale sul rapporto fra onore, nobiltà e trattatistica cavalleresca in Donati, L’idea di nobiltà cit., pp. 94-112. Sul rapporto fra onore e violenza nel periodo indicato cfr. Men and violence. Gender, honour and rituals in modern Europe and America, a cura di P. Spierenburg, Ohio State University Press, Columbus 1988; A. Blok, Honour and violence, Polity Press, Cambridge 2001; e inoltre, per ulteriori indicazioni, Niccoli, Rinascimento anticlericale cit., pp. 29-33 e 181-182.

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essere negativa: «i nobili che sono ingiuriati perché son disprezzati deono racquistare col valor proprio l’honor loro [...] et perciò veggiamo anchora oggi pochi nobili ricorrere ai magistrati quando sono ingiuriati»54. Era un parere comune: come diceva alcuni anni dopo il giovane figlio di un notaio di paese, certo non di condizione nobile, «andate un poco a Bologna, ché troverete che nessun gentilhomo fa di giustitia [...] ché con il tempo se la fanno da loro»55. In quest’ottica il castigo che la legge infligge al reo non poteva restituir l’onore a chi fosse stato offeso, sostiene Possevino: «bisogna ch’egli lo riacquisti con la virtù propria, et mostrare che è homo da farsi haver rispetto, perché questo è il vero modo che gli huomini siano rispettati, per sé, non per valore altrui»56. Il «risentimento», cioè «quella dimostrazione che fa l’huomo offeso subito, e nell’atto stesso dell’offesa» era considerato doveroso, «per dimostrare alle genti che non siamo pusillanimi di cuore, né ciechi d’intelletto»57. L’alternativa era fra la vendetta, che degenerava rapidamente in faida, e il duello, che doveva svolgersi con regole rigorose, all’interno di un campo franco che spesso veniva concesso da un principe del quale i contendenti non erano vassalli, e che si faceva giudice dell’incontro58. Tuttavia i trattati consigliavano di «volere più tosto disputare con parole, che con li fatti»; in ogni caso però «rimettendosi più tosto in arbitri che volere andare in giuditio. Poscia che l’arbitro risguarda all’equità, il giudice alla legge. Perciò s’elegge l’arbitro, aciocché l’equità prevalga»59. In questa siPossevino, Dialogo dell’honore cit., p. 269. ASB, Torrone 5807, cc. 369r e 338v (nell’originale le parole riportate per ultime sono in realtà antecedenti). 56 Possevino, Dialogo dell’honore cit., p. 270. 57 Berlingiero Gessi, Della Spada di honore, in Opere [...] che sono La spada d’onore, Pareri cavallereschi, Lo scettro pacifico, Antonio Capponi, Modena 1702, p. 230. Sull’obbligo del «risentimento», in Gessi e altrove, cfr. Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., pp. 268-272. 58 Cavina, Il sangue dell’onore cit., pp. 81-83. 59 Paolo Antonio Valmarana, Trattato dell’offese et del modo di far le paci, eredi di Perin libraro, Vicenza 1598, c. 10v. 54 55

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tuazione così complessa far le paci salvando l’onore di entrambe le parti veniva giudicato difficile, anche se possibile; e di fatto, le notizie che abbiamo sui duelli realmente svolti (da distinguere dagli scontri armati informali e privi di regole) ci mostrano che in Italia essi erano in realtà abbastanza rari. Da un controllo archivistico emerge infatti che di un gruppo di cento procedure presentate nel corso del Cinquecento ai duchi d’Este (considerati i più esperti giudici d’onore dell’Italia padana), non più di diciotto sfociarono in duelli, cinque dei quali mortali60. Al di là delle procedure che si concludevano con l’accordo dei contendenti, c’erano poi cavilli messi capziosamente in campo dalle due parti per rimandare o evitare lo scontro. Ce ne parla con sdegno nel 1564 il piacentino Giulio Landi, signore feudale degli «stati landiani» e autore egli stesso di un’opera – Le Attioni morali – in cui prendeva in considerazione la questione del duello e del perdono: Il più delle volte avviene che per cavillose disputationi de’ padrini, facendo essi nascere hor questa hora quell’altra difficultà, e massimamente sopra l’armi di colui che n’ha la elettione, trapassano la giornata vilmente schifando in quel modo di venire al cimento della battaglia, con molto fastidio degli spettatori e con molta vergogna e biasimo de’ duellanti, a’ quali nondimeno pare haver acquistato fama di valenti per essersi condotti con tanta pompa nello steccato, e fatto quivi radunare moltitudine di gente61.

Billacois, Le duel cit., p. 74. Giulio Landi, Le Attioni morali [...] nelle quali [...] si discorre molto risolutamente intorno al Duello; si regolano in esso molti abusi; si tratta del modo di far le paci, Giolito de Ferrari, Venezia 1564, p. 201. Sul Landi cfr. M. Beer, L’ozio onorato. Saggi sulla cultura letteraria italiana del Rinascimento, Bulzoni, Roma 1996, pp. 241-261; M. Dartora, Le relazioni tra onore e duello ne Le Attioni morali (1564-1575) di Giulio Landi, in «Studi storici Luigi Simeoni», 51, 2001, pp. 43-59. L’opera era in realtà una ripresa quasi letterale della Introductio in libros ethnicorum Aristotelis di Lefèvre d’Etaples, cui era stata aggiunta la trattazione di alcune questioni à la page, tra cui appunto il duello: E. Garin, Echi italiani di Erasmo e di Lefèvre d’Etaples, in «Rivista critica di storia della filosofia», 26, 1971, pp. 88-90. 60 61

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Quello della scelta delle armi, che era prerogativa dello sfidato, e delle dispute che ne seguivano e che avevano talora lo scopo di sfuggire il confronto, era un punto cruciale, e su di esso insisteva già Girolamo Muzio nel 1550: capitava di vedere nello steccato (cioè nel recinto predisposto al duello) «tante cavillationi, et armi sì nuove et sì inusitate e fuor d’ogni ragione», «lontane da ogni uso di cavallieri». Peraltro – concludeva il Muzio – «chi mette in campo le così fatte dispute, dà segno di non voler combattere»62. Probabilmente il Muzio e il Landi alludevano ad una clamorosa vicenda che si era verificata nel 1541 e che aveva visto protagonisti Cornelio Bentivoglio e Gian Giacomo Trivulzio, entrambi cortigiani del duca di Ferrara63. Durante il carnevale i due erano venuti a parole; il Trivulzio aveva rovesciato dell’acqua sul Bentivoglio, e questi, approfittando dell’essere in maschera, si era vendicato orinando sull’avversario. La libertà del carnevale, che spesso si traduceva in parole e comportamenti scatologici, era cosa consueta e accettata – o forse lo era stata. Di fatto il Trivulzio, furente, il 23 gennaio aveva fatto rovesciare da una maschera un vaso pieno di escrementi addosso al Bentivoglio, e per di più gli aveva dato una piattonata con la spada; poi era fuggito. Era stato quindi organizzato un duello per il 1° maggio, che avrebbe dovuto esser tenuto a Novellara; e il 30 aprile, ci racconta il notaio modenese Tommasino Lancellotti, un gran corteggio di cavalieri e archibugeri guidati dal conte Uguccione Rangoni, che era parente del Bentivoglio, era partito da Modena «con pompa mirabile» per assistere al confronto. Tutti i modenesi sapevano della sfida; il 1° maggio, che era domenica, ne ave62 [Girolamo Muzio], Il duello del Mutio Iustinopolitano con le risposte cavalleresche, appresso la Compagnia degli Uniti, Venezia 1583, cc. 116r e 56r e v (la prima edizione è del 1550). 63 Cfr. sulla vicenda la lettera di Gian Domenico Sigibaldi a Giovanni Morone del 28 aprile 1541, e la nota 27 dei curatori, in M. Firpo, D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, II, 2, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1984, pp. 1007-1008.

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va anche parlato dal pulpito un carmelitano: prima aveva «detto de’ dui che combatarano questo dì con le arme – racconta il Lancellotti – per acquistare victoria in questo mondo; e poi de San Iacopo e Santo Filippo, che combatterno in terra per acquistare victoria in cielo»64. L’attesa insomma era grande. Ma il giorno dopo, 2 maggio, la compagnia era tornata a Modena senza che il duello avesse avuto luogo. Infatti il Bentivoglio aveva rifiutato di combattere, perché tra le armi predisposte per lui, secondo l’uso, dall’avversario, c’era un elmo che, sosteneva, gli impediva la vista. Una relazione dell’evento, firmata da diversi cavalieri a lui favorevoli, fra cui Uguccione Rangoni, e inviata il 5 maggio al conte Ferrante Gonzaga, signore di Guastalla e ritenuto buon giudice in questioni d’onore, raccontava che erano state presentate successivamente al Bentivoglio diverse celate «alla borgognona», ma tutte troppo strette, tanto che non gli potevano entrare; e alla fine ne era arrivata una così grande che «gli ballava in capo», impedendogli di vedere bene attraverso le fessure della visiera65. «Era fato a una fuogia ch’el signore Cornelio non li vedea niente», commentò il cronista bolognese Giacomo Rinieri. Il Rinieri nelle sue pagine menziona ripetutamente con parole di elogio e apprezzamento Cornelio Bentivoglio, che apparteneva alla famiglia che fino a trent’anni prima aveva tenuto la signoria della sua città (più avanti segnalerà con marcata soddisfazione un torneo vinto in Francia dal mancato duellista); e nell’evidente intento di difenderne l’onore, ci informa nei giorni successivi che il Bentivoglio il 6 maggio aveva mandato l’elmo in questione a Bologna, e poi, a quanto pare, in giro per l’Italia, perché i suoi compatrioti potessero toccare con mano l’inganno che gli si voleva tendere. Il 15 maggio era stato attaccato in 64 Tommasino de’ Bianchi detto de’ Lancellotti, Cronaca modenese, VII, Fiaccadori, Parma 1870, p. 48. 65 Modena, Biblioteca Estense, ms. Ital. 854, a. S.1.36, pp. 329-333 (la citazione è a p. 331).

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Piazza Maggiore un cartello anonimo in sua difesa; ma «il signore Cornelio Bentivoglio lo avé molto per male che fuse meso fuora questo cartelo, perché diceve che era ben homo da defendro il suo honore»66. L’infamia ottenuta con mezzi anche assai grossolani, la difesa esasperata dell’onore, le armi «inusitate», la renitenza con cavilli di fronte alla prospettiva reale del duello si mescolano con evidenza in questa vicenda, che ebbe una gran notorietà, probabilmente non benevola. Commentava piuttosto ironicamente il 31 maggio il Lancellotti, riferendosi al mancato duello Bentivoglio-Trivulzio, ma con una considerazione generale che ci fa comprendere, assieme alle parole del Muzio e del Landi, che il caso non era isolato: Da uno tempo in qua hano uxato una astucia de arme: el tuto fano per non combattere, ma per fare mostra de combattere e presentarse in campo con pompa; el me pareria, se volesseno combattere, che andasseno contra a Turchi a combattere da valenti homeni: a questo modo fariano el debito de veri combattenti67.

L’onore, la pace, il perdono A parte queste scappatoie, le modalità per evitare onorevolmente il duello concludendo una pace c’erano, anche se erano certamente complesse, e i trattati si susseguivano suggerendo svariate possibili tecniche, che vedremo poi messe concretamente in pratica nella situazione bolognese. La pace, scriveva nel 1554 Gian Battista Nicolucci, detto il Pigna, è fermo accordo tra due veri nimici strettamente conchiuso [...]. Acciocché la pace tenga, bisogna che strettamente sia determinata, cioè con iscrittura valida, o con habili testimonii, o per mezzo di 66 Giacomo Rinieri, Cronaca 1535-1549, Costa editore, Bologna 1998, pp. 91-93. 67 Lancellotti, Cronaca modenese, VII cit., p. 49.

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persone che sieno state atte a trattarla. La scrittura sarà valida, et habili i testimonii [...] col haver nobili soldati sottoscritti, che tali alla nostra pace presenti doverano essere, et che s’acquista con la data, che fa menzione del luogo e del tempo, et con la specificatione del fatto, et con i nomi d’ambo gli avversarij68.

La forma della scrittura della pace, chiaramente definita, rogata da un notaio, sottoscritta da testimoni qualificati, si profila dunque come essenziale. Su di essa insiste l’anno successivo anche Rinaldo Corso. Era fondamentale, innanzitutto, che le parti concordassero sulla ricostruzione degli eventi; poi, a fronte della constatazione dell’ingiuria, era necessario stabilire segni benevoli che restituissero all’ingiuriato quanto gli era stato tolto, suggerendo una diversa intenzione o significato delle parole offensive eventualmente pronunciate, e facendo sì che tali dichiarazioni «sieno aiutate da altre verisimili et probabili conietture»69. Poteva anche essere usata la «remissione», cioè il fingere da parte dell’offeso una moderata ingiuria all’offensore; si poteva in tal caso «dare una guanciata o una leggiera percossa di verga»70, non di più; era la pratica che abbiamo visto in atto nella Roma del Quattrocento e che Lancellotto Corradi aveva mostrato l’anno prima di non apprezzare, pur ricordando l’esistenza di pareri diversi. In ogni caso, prosegue il Corso, alla conclusione del trattato erano necessari la congiunzione delle destre e il bacio: Sì come l’ingiuria ha i segni di fatti e di parole, così la pace ha i segni per li quali si mostra di dovere essere amico di fatti et di parole. Però si giungon le bocche, onde escon le parole, et le mani, da 68 Giovan Battista Pigna, Il duello [...] diviso in tre libri ne’ quali dell’honore e dell’ordine della cavalleria con novo modo si tratta, bottega d’Erasmo appresso V. Valgrisi, Venezia 1554, pp. 171-172. 69 Rinaldo Corso, Delle private rappacificationi, s.t., Correggio 1555, c. g2v. 70 Ivi, c. g3r.

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cui vengono i fatti. E porgesi dall’una e dall’altra parte la destra, percioché la destra è consecrata alla fede, e le cose destre fra gli huomini sono di buon augurio71.

Il sistema della «remissione» viene discusso nel 1562 anche da Dario Attendoli, che lo considera però disonorevole sia per l’ingiuriatore che per l’ingiuriato. Per concludere una pace è invece necessario innanzitutto poter contare sui mediatori e sulla loro destrezza, evitando di menzionare le minacce della legge. «Non è miglior via che coloro che sono mezzi, massimamente i principi e i magistrati, si mostrino mansueti et pieghevoli senza irritare le parti [...] senza andarvi con nuove invenzioni di colpe, né cumulare villanie, biasimi, minaccie»72: sono parole che rappresentano l’elogio della giustizia negoziata contro quella egemonica, della transazione contro l’ossequio alla norma giuridica. L’ingiuriatore, spiega l’Attendoli, avrebbe dovuto scusarsi spiegando come la sua reazione «sia stata conforme a quello che si suole et si conviene fare in simili casi [...], mostrando retta intentione, allegando caso, ignoranza, collera, necessità» o qualche altro «affetto d’animo», ovvero informazioni errate: occorreva cioè motivare l’offesa con cagioni estranee alle due parti, che potevano in tal modo salvare ad entrambi i contendenti il proprio onore. «Basti riferire l’ira a qualche giusta cagione, accioché nel rappacificare le parti appaia che l’ingiuriatore non si sia mosso senza cagione ad ingiuriare»73. Questo era il punto cruciale su cui tutti i trattatisti continueranno ad insistere: «nel riconciliare i nemici – scrive nel 1583 Ludovico Carboni, professore di teologia all’università di Perugia – i pacificatori devono il più possibile salvare l’onore di chi ha offeso, perché una sua diminuzione non giova di per Ivi, c. h3r. Dario Attendoli, Discorso intorno all’honore et al modo d’indurre le querele per ogni sorta d’ingiuria alla pace, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1562, pp. 8-9. 73 Ivi, pp. 37 e 58. 71 72

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sé ad aumentare l’onore dell’offeso»74. L’offensore quindi può dichiarare di esser stato costretto all’offesa per difendere il proprio onore o la vita, o per cause esterne; può attribuire l’offesa ad ignoranza, ad ira o amore, a uno scherzo o al caso. Se necessario, dovrà dichiarare le circostanze che l’hanno indotto ad agire «tristamente» o con trascuratezza: il gioco, il bere e così via75. Peraltro, evitare il duello non significava necessariamente perdonare; pubblicando nel 1558 Tre libri della ingiustitia del duello Giovan Battista Susio aveva dichiarato che poiché l’onorabilità va valutata secondo la condizione di ciascuno, quella del soldato richiedeva che in caso di ingiuria insanabile fosse «necessario adirarsi et difendersi senza perdonare»76 (in una tale evenienza però non si doveva ricorrere al duello, al quale il Susio era fortemente contrario, ma ai magistrati delle milizie). In ogni modo, a partire dalla sessione XXV del concilio di Trento, che il 3 dicembre 1563 fulminava la scomunica su duellanti e padrini77, l’obbligo di sostenere almeno formalmente e talvolta, come è stato osservato, ipocritamente, le necessità della pace, sembrò farsi più urgente (e un esempio di tale esigenza è certamente l’opera di Ludovico Carboni che è stata esaminata sopra). Già nel corso dell’anno 1563 Anton Francesco Cirni aveva insistito sulla opportunità di sostituire alla vendetta il perdono e – cosa, come vedremo, piuttosto insolita – la giustizia, ossia il ricorso al tri74 «In reconciliandis inimicis quantum fieri potest debere pacificatores conservare honorem offendentis, quia diminutio honoris illius non pertinet ex se ad instaurandum honorem laesi»: Ludovico Carboni da Costacciaro, De Pacificatione, dilectione inimicorum, iniuriarumque remissione, B. Sermartelli, Firenze 1583, pp. 84-85. 75 Ivi, pp. 205-208. 76 Giovan Battista Susio, I tre libri [...] della ingiustitia del duello et di coloro che lo permettono, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1558, p. 31. 77 G. Angelozzi, La proibizione del duello: Chiesa e ideologia nobiliare, in Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhardt, il Mulino, Bologna 1996, pp. 271-308; Donati, L’idea di nobiltà cit., p. 110; Bellabarba, Rituali, leggi e disciplina del duello cit., p. 100.

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bunale: «si deve ricorrere all’honorata e famosa giustitia, la quale come medico [...] risani il delinquente col castigo»: Dico che si ponga eternamente in infamia et vituperio l’ingiurie, le mentite, le querele, le repulse, l’offese, il duello, et chi vien provocato con ingiuria o con offesa possa honoratamente ricorrere alla giustitia, per conservarsi il decoro et degnità sua, et si sdegni afatto d’imbrattarsi le mani nel sangue del suo prossimo [...]; gli sia maggior honore et reputatione il perdonare per grandezza d’animo et rimetter la obbrobriosa et enorme vendetta in mano del nostro Sig. Giesù Christo, perché sì come il perdonare si comprende sotto il genere della liberalità (poscia che chi perdona dona), così il non perdonare et seguir la vendetta si comprende sotto il genere dell’avaritia, ché chi non perdona non dona; l’uno è atto honorato et famoso, l’altro dishonorato et infame78.

La tenacia con cui il Cirni sottolinea ripetutamente che il perdono è cosa onorata, come pure è onorevole ricorrere alla giustizia, ci permette di intuire quanto in realtà le sue posizioni distino da quelle più comunemente accettate, che vedevano un forte contrasto tra il perdonare, il ricorrere alla giustizia e l’onore nobiliare. Come lui, pubblicando il primo dei due tomi della sua opera nel 1564, Giulio Landi fa pronunziare a Lefèvre d’Etaples – che figura come uno protagonisti del dialogo – una difesa del perdono nelle questioni d’onore: Le ingiurie si possono levare et annullare con due modi, cioè con la disdetta e col perdonare; et sappiate, che l’ingiurie di parole si possono annullare con l’uno e l’altro modo, et anco con prove contrarie alle parole ingiuriose, benché sia difficile provare la negativa; et l’ingiurie de’ fatti solo col perdonare79.

Dunque il dialogo si proponeva di mettere in risalto i motivi che consigliavano di evitare il duello e di pervenire alla pa78 Cirni, Discorso come si possano in buona parte rimuovere sei principalissimi abusi cit., cc. D iiiir, E iiir-v. 79 Landi, Le Attioni morali cit., p. 146.

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ce, anche se l’offesa non poteva mai essere trascurata, ma ad essa doveva seguire un qualche «risentimento», espresso in forme almeno verbali. Il Landi, occorre dire, mescolava nelle sue pagine all’influsso della «filosofia evangelica» di Lefèvre e di Erasmo il ricordo di un evento che l’aveva personalmente coinvolto. Nel marzo 1546 era stato ingiuriato dal giovane Astorre Baglioni, senza poter reagire in alcun modo poiché era disarmato. La questione, che non conosciamo nei particolari, si era complicata con la partecipazione di altri, che a seguito del loro intervento erano stati costretti ad allontanarsi da Piacenza; e alla fine, secondo lo schema che voleva il principe attivo nella composizione dei conflitti, era stata risolta dal duca di Parma Pierluigi Farnese. Alla sua presenza il Baglioni si offrì di dare «soddisfazione» al Landi – quindi con un duello – e chiese il suo perdono. Il Landi scelse di perdonare, e un parere di Annibal Caro, steso per l’occasione e pubblicato con altra documentazione sul fatto, ci ha conservato il senso del discorso nel quale egli illustrava i motivi che lo spingevano a questa scelta. Accanto al desiderio del duca e alle richieste dei familiari di coloro che erano fuorusciti, disse, m’astringe l’offerta vostra fattami qui publicamente e volontariamente a la presenza di tanti nobili gentilhuomini. Né manco mi sprona l’humiliation vostra, pregandomi voi ch’io vi voglia perdonare. Per tutte adunque le dette cagioni, e massimamente perché vedo voi pentito del vostro errore, vi rimetto quella ingiuria, e vi perdono: sapendo io non esser manco honorevole al gentilhuomo d’honore il perdonar con buona causa et occasione ch’el vendicarsi: però io vi perdono, e vi accetto per amico e fratello come prima80.

Il perdono era dunque non solo doveroso, ma anche onorevole, e come tale il Landi l’aveva vissuto personalmente. Questa esperienza giovanile guidava evidentemente la sua 80 Declaratorie sopra la pace fatta tra il conte Giulio Landi et il signor Astor Baglione, Seth Viotto, Parma s.d. [ma 1546], cc. C1v-C2r.

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penna quando nel dialogo egli giustificava il comportamento di chi, essendo stato offeso, tralasciava il «risentimento» – altrimenti obbligatorio – per essere disarmato, come appunto a lui era accaduto81; e altrove lodava il comportamento di quei «principi e signori» che nelle loro contese, anziché comportarsi come «volgari duellanti», sanno perdonare, «essendo il perdonare attione di virtù, di magnanimità e generosità d’animo»: Il perdonare, quanto si fa più liberamente e più prontamente, tanto più si mostra e si conosce esser fatto per vera virtù dell’huomo, e dell’animo magnanimo e generoso, il quale altro non ricerca che un doglioso ripentimento et una sincera humiliatione; e questa è quella sola che muove il Signor Iddio a perdonarci, quantunque gravemente da noi offeso, a cui basta il nostro risentimento dell’afflitto cuore82.

Sono pagine che mostrano un intenso contenuto etico non privo di intonazioni religiose. I trattati successivi alla metà del Cinquecento, e più ancora quelli secenteschi, entravano invece sempre più minutamente nelle questioni della valutazione e distinzione delle offese, e dunque delle modalità che l’offeso doveva pretendere per ritenere sanata la lesione inferta al suo onore. L’esigenza della pacificazione in ogni e qualsiasi situazione si traduceva cioè in una schematizzazione prescrittiva in cui la casistica prendeva uno spazio sempre più esteso, come nel trattato di Giovan Battista Olevano o in quelli di Alessandro Guarini e di Francesco Birago83. Per dare un’iLandi, Le Attioni morali cit., pp. 128-129. Ivi, pp. 209-210. 83 Giovan Battista Olevano, Trattato [...] nel quale col mezo di cinquanta casi vien posto in atto pratico il modo di ridurre a pace ogni sorta di privata inimicitia nata per cagione d’honore, G.A. Somasco, Venezia 1603; Alessandro Guarini, Pareri in materia d’honor, e di paci, Vittorio Baldini, Ferrara 1611; Francesco Birago, Discorsi cavallereschi ne’ quali con rifiutare la dottrina cavalleresca del sig. G.B. Olevano s’insegna ad honorevolmente racchettare le querele per cagion d’honore, Gio. Battista Bidelli, Milano 1622; Id., Cavalleresche decisioni, Filippo Ghisolfi, Milano 1637. 81 82

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dea della puntigliosità e dell’insopportabile minuzia delle distinzioni che vi sono introdotte, basterà questa pagina del Birago sugli abbracci nelle paci e sulle loro possibili varianti: Nel far le paci non vogliono alcuni venire agli abbracciamenti per frivole ragioni che apportano, e perciò molte paci già quasi conchiuse per questa cagion si rompono, o almeno si tirano in lungo [...]. Et perciò quando un maggior pretendesse di non venire all’atto di abbracciamento con un minor per non farlo a lui uguale (il che è vanità grande), vi sono anco i termini che dee usare il maggiore nell’abbracciare il minore, et quei del minor nell’abbracciare il maggiore et altri. I maggiori nostri di grado et di conditione, se con essi passa una certa famigliarità et dimestichezza, tale che si possano anco chiamare amici, si abbracciano sotto l’anche et sotto le braccia, con fare anco segno di voler loro baciar la mano, et con le ginocchia piegate in segno di reverenza. Gli eguali si abbracciano al collo. Il maggiore abbraccia il minore al collo con un sol braccio, et anco con tutt’e due, ma questo è di maggior amicitia segno. Et perciò, occorrendo in occasion di pace disputar sopra questo, secondo lo stato delle persone in uno dei narrati modi l’abbracciamento far si potrà acciò che la pace segua84.

La disciplina costrittiva del corpo, la rigorosa utilizzazione di gesti prefissati, erano elementi ben noti dell’età post-tridentina, ed è in questo quadro che dobbiamo inserire la pagina del Birago. Era ben salda l’idea, più o meno consapevole, che vi fosse un rapporto strettissimo fra le posture del corpo e i sentimenti dell’anima, e che le prime esprimessero visivamente e fattualmente i secondi; non solo, ma in base ad una lunga tradizione monastica, si pensava che il sentire interno potesse essere un prodotto della gestualità corporea, e che certi atti del corpo, si diceva, potessero avere un effetto (benefico o malefico) sullo stato dell’anima85. Così Luis de Granada poteva Birago, Cavalleresche decisioni cit., pp. 87-88. D. Knox, Disciplina: le origini monastiche e clericali del buon comportamento nell’Europa cattolica del Cinquecento e del primo Seicento, in Disciplina dell’anima cit., p. 69. Cfr. anche G. Pozzi, Occhi bassi, in Thematologie 84 85

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scrivere nei suoi Discorsi spirituali e civili che «se il corpo è scomposto, ancora lo spirito gli diventa simile [...] epperò la modestia esteriore aiuta molto la modestia interiore»86. Ciò spingeva ad una grande cautela e autocontrollo nella gestualità, tanto che in base a questo principio venivano selezionati anche i gesti del pregare: scegliere il gesto giusto, che produce ed indica il giusto sentire, significa pregare bene. Noi adoriamo Dio, aveva scritto Giovanni Bonifacio, autore di un’Arte dei cenni pubblicata nel 1616, anche coi gesti, e «quindi humiliar il capo, piegar le ginocchia, curvarsi, prostrarsi in terra, percuotersi il petto, alzar le mani al cielo, farsi il segno della croce, e tanti altri sono fatti in ogni tempo dagli uomini»87. Ma fra questi gesti di preghiera altri trattati indicavano l’opportunità di scegliere quello che meglio esprimeva la reverenza: stare a mani giunte, in ginocchio, e non su un ginocchio solo, ma poggiandoli entrambi a terra; tanto che uno dei motivi di maggior soddisfazione dei gesuiti nelle loro missioni era quello di constatare come i fedeli, adulti e ragazzi, si fossero ormai abituati a «stare con tutti dui i ginochi in terra in tutta la messa»88. La spontaneità dei gesti insomma andava esclusa, e questa rigidità era altrettanto forte quando non si trattava della necessaria reverenza a Dio, ma di quella, non meno indispensabile nella vita quotidiana, da prestare agli uomini; reverenza di cui andavano graduate le espressioni a seconda della circostanza e dei rapporti interpersonali. L’assenza totale di spontaneità, des Kleinen. Petits thèmes littéraires, a cura di E. Marsch e G. Pozzi, Éditions Universitaires, Fribourg 1986, pp. 161-211, e in G. Pozzi, Alternatim, Adelphi, Milano 1996, pp. 93-142. 86 Discorsi spirituali e civili secondo il catechismo per instruzzione de’ giovani desiderosi far profitto nella vita spirituale e civile, Giorgio Marescotti, Firenze 1583, p. 182, cit. in Pozzi, Occhi bassi cit., p. 107. 87 Giovanni Bonifacio, L’arte de’ cenni con la quale formandosi fauella visibile, si tratta della muta eloquenza, che non e altro che un facondo silentio, Francesco Grossi, Vicenza 1616, p. 458. 88 Santio Ochoa a Ignazio di Loyola, Monreale 24 ottobre 1554, in Epistolae mixtae, IV, Madrid 1900, p. 405.

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la fredda ritualità dell’abbraccio, sono dunque accentuate ulteriormente nella pagina del Birago, dove, si noti, il bacio non è più menzionato. Alla pace si poteva e si doveva dunque arrivare, ma solo mediante una scrupolosa e puntigliosa costruzione di una architettura di gesti, di parole, di scritture; e quando si fosse raggiunto un testo giudicato accettabile dalle parti, la sanzione notarile diventava indispensabile. Per quanto complessa fosse la costruzione della pace tuttavia essa, in questa letteratura, viene considerata come una soluzione in ogni caso migliore di quella che poteva emergere dal procedimento giudiziario. Fu una scelta duratura, valida sul tempo lungo. Nello Scettro pacifico, pubblicato nel 1675, il bolognese Berlingiero Gessi riassumeva in un testo articolato le opinioni correnti sulle modalità della pace, insistendo sul ruolo svolto, fuori dalle aule del tribunale, dai mediatori, che avevano il compito di concordare la ricostruzione dei fatti, le parole che dovevano essere pronunciate, il luogo in cui gli accordi dovevano essere stipulati. Ancor più che nelle pagine del Birago, la gestualità aveva in quelle del Gessi un posto ridotto: il bacio non veniva menzionato, e neanche gli abbracci erano considerati essenziali; però occorreva comunque che i contendenti «facendo pace l’accompagnino con qualche atto esterno, o sia abbracciamento, o sia toccamento di mano, o almeno inchino o saluto»89. Tutti segni che in ogni caso andavano concordati in anticipo con la massima prudenza: Varie sono le forme degli abbracciamenti, degl’inchini e dei saluti; co’ maggiori e co’ minori notabilmente ponno essere distinti secondo il giudizio de’ mediatori ed il costume del paese90.

In precedenza il Gessi aveva anche affrontato la questione del perdono, che riconosce essere «atto da magnanimo e 89 Berlingiero Gessi, Lo scettro pacifico, in Opere cit., p. 81. Sul Gessi cfr. R. De Rosa, Gessi, Berlingero, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 53, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1999, pp. 477-479. 90 Gessi, Lo scettro pacifico cit., p. 82.

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gran cavaliere»91. Ma che cos’è il perdono? Riprendendo la connessione perdono/dono, il Gessi rileva che se l’offesa è un debito che l’offensore contrae con l’offeso, chieder perdono significherà volere «per dono» ciò ch’egli per obbligo dovrebbe pagare con la necessaria sodisfazione di contracambiante offesa. Perdonare dunque è una concessione di quella sodisfazione che noi dovevamo havere dal ricevere quello che era nostro, col volontariamente spogliarci di quel piacere che giustamente eravamo per pigliare dal dolore e dal castigo o pena che meritava di sostenere colui che ci haveva offesi92.

In questa pagina del tardo Seicento – l’opera era stata pubblicata dopo la morte del Gessi, nel 1675 – il perdono è dunque definito, in sostanza, come liberale rinuncia al piacere della vendetta, all’interno di una lettura rigida e prescrittiva degli obblighi derivanti dall’ideologia dell’onore. Né una preoccupazione per il «ben civile» di cui, come si vedrà fra breve, aveva parlato un secolo prima Fausto Albergati, né, men che meno, una esigenza religiosa hanno qualche posto in questa modalità di intendere e presentare il perdono. Ancora ai primi del Settecento Ludovico Antonio Muratori pubblicava una sua Introduzione alle paci private, in cui sottolineava come «le private inimicizie meglio si risanino da questi privati medici usanti medicine facili e morbidi lenitivi, che dai publici ministri della Giustizia adoperanti e ferro e fuoco»93. Al di là di una esteriore continuità di temi, il trattato del Muratori è tuttavia tutt’altra cosa rispetto a quelli del Birago, dell’Olevano o del Gessi, e scorrendolo percepiamo Ivi, p. 59. Ivi, p. 62. 93 Ludovico Antonio Muratori, Introduzione alle paci private. S’aggiungono un Ragionamento di Sperone Speroni intorno al duello e un Trattato della Pace di Giovan Battista Pigna, non pubblicati finora, Soliani, Modena 1708, p. 2. 91 92

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agevolmente come sotto una apparente somiglianza di toni comincino ad affacciarsi esigenze e idee nuove. Nelle pagine dell’erudito modenese all’esasperato senso dell’onore si è infatti sostituito il richiamo all’amore della giustizia, alla realtà dei fatti, alla presunzione dell’onestà di entrambi i contendenti; non solo, ma possiamo leggervi parole che sembrano anticipare un’etica manzoniana, e che certamente riescono fortemente contrastanti al quadro dei valori di riferimento abituale nei centocinquant’anni precedenti: «è meglio il patire, che il fare ingiuria»94. Adelchi morente avrebbe detto «non resta / che far torto, o patirlo»95, in un contesto che, certo, non fa riferimento all’etica dell’onore, ma dà conto dell’amara sfiducia dello scrittore lombardo nel diritto e nei rapporti fra gli uomini; tuttavia, nonostante la diversità del senso delle due frasi, non è fuor di luogo supporre che l’inventore della biblioteca di don Ferrante, tutta piena di libri di scienza cavalleresca, abbia usato proprio il Muratori per far parlare l’eroe longobardo. Fausto Albergati e il «ben civile» All’interno della massa di scritti sulle paci – certo più ampia di quanto risulti qui96 – un’attenzione particolare va concessa al trattato del bolognese Fausto Albergati, pubblicato a Roma nel 1583. Le sue pagine, facendo talora riferimento ad una situazione locale, sono infatti particolarmente utili per intendeIvi, p. 111. Adelchi, atto V, vv. 353-354. 96 Oltre ai trattati citati sinora o che verranno menzionati in seguito, sono stati esaminati (senza che emergessero novità significative rispetto a quanto esposto) e si possono ricordare qui fra gli altri: Girolamo Camerata di Randazzo, Trattato dell’honor vero e del vero dishonore, Alessandro Benacci, Bologna 1567; Giulio Cesare Valmarana, Modo del fare pace in via cavalleresca e christiana per sodisfattion di parole nelle ingiurie fra privati, Dominico Amadio, Vicenza 1619; Giuseppe Ansidei, Trattato cavalleresco contro l’abuso del mantenimento delle private inimicitie, Costantini, Perugia 1691. 94 95

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re meglio le vicende bolognesi sulle quali queste pagine si sono più a lungo soffermate; ma soprattutto, al di là dei generici e ripetitivi suggerimenti che troviamo diffusi negli altri testi, dà un senso più vivo, concreto e consapevole dell’attività dei pacieri, e rivela, a differenza di altri testi citati o esaminati – come il posteriore Gessi –, una autentica preoccupazione del pubblico bene. Vent’anni prima Marc’Antonio Possevino aveva fatto cenno al giovamento che le paci apportano al «ben pubblico delle città», aggiungendo che ad esse «non giova havere i suoi cittadini tra loro discordi»97; ma ben più puntuali e ricche di ipotesi e suggerimenti ci appaiono le pagine dell’Albergati. Il trattato, che ebbe almeno dieci ristampe, si proponeva appunto di esaminare le paci private in quanto miste di etica e di politica: «All’ethica si ridurrà [questa pace] percioché ella considera gli huomini privati, e dà regola alle loro attioni; alla politica, perché il fine de’ particulari ultimamente termina nel ben civile»98. Tutto il trattato era infatti intessuto dell’intreccio fra valori e disvalori privati – in primo luogo onore e vergogna – e la politica del saggio principe tesa a perseguire l’«unione nel ben commune vero»99. L’Albergati, nato a Bologna nel 1538, si era trasferito a Roma nel 1572 dopo l’elezione del bolognese Gregorio XIII, e successivamente era passato al servizio del duca d’Urbino Francesco Maria della Rovere, svolgendo attività diplomatica al servizio di entrambi questi sovrani e finalmente tornando a morire nella sua città natale nel 1606100. La prima delle sue opere, tipiche in 97 Marc’Antonio Possevino, Trattato [...] nel quale s’insegna a conoscere le cose appartenenti all’honore, et a ridurre ogni querela alla pace, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1559, p. 80. 98 Fausto Albergati, Del modo di ridurre a pace l’inimicitie private, Zannetti, Roma 1583, p. 9. 99 Ivi, p. 4. 100 Su di lui cfr. la voce di E. Fasano Guarini in Dizionario biografico degli italiani, vol. 1, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960, pp. 617619; G. Angelozzi, La trattatistica su nobiltà e onore a Bologna nei secoli XVI e XVII, in «Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna», n.s., 25-26, 1974-75, pp. 197-264, e Id., Cultura dell’onore,

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genere della trattatistica etico-politica del periodo, è appunto quella dedicata alle paci. Il riferimento è chiaramente alla società nobiliare (anche se l’ideologia dell’onore era condivisa anche da altre categorie della società101): infatti l’Albergati, inserendosi nel ben noto quadro di valori e nella tradizione letteraria di questa trattatistica, partiva dalla considerazione di che cosa è ingiuria, e come questa dipenda dall’offesa, volontaria o involontaria, dell’onore altrui. La soddisfazione delle offese è certo necessaria per ripristinare l’onore vulnerato; ma essa si differenzia dalla vendetta, dalla pena e dal castigo, e dunque non può essere perseguita per mezzo del duello o ricambiando l’ingiuria, né per mezzo della faida o tramite i consueti mezzi procedurali, ma ottenendo dall’offensore richieste di perdono e manifestazioni di apprezzamento positivo che cancellino quelle di dispregio ch’egli ha tenuto in precedenza: «l’huomo nella pace privata s’acqueta e resta soddisfatto di ricevere dal nemico segni contrarij a quelli per li quali da esso fu dishonorato»102. Ma come si poteva addivenire, concretamente, alla pace? L’Albergati non si nascondeva le difficoltà di pervenire ad una composizione accettabile dalle due parti, e dava grande risalto al ruolo dei mediatori, rilevando la necessità «che intervengano mezzani per conchiuderla», e che siano abili, «gratiosi e gentili», e che abbiano «certe maniere delicate» analoghe a quelle di quei medici che sanno persuadere i loro pazienti, anche i più riottosi, a lasciarsi curare. I mediatori codici di comportamento nobiliari e Stato nella Bologna pontificia: un’ipotesi di lavoro, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 8, 1982, pp. 305-324, oltre che, più recentemente, Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., pp. 257-260. Cfr. anche G.L. Betti, G. Zannoni, Opere politiche a stampa di autori bolognesi conservate nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (1550-1650), in «L’Archiginnasio», 92, 1997, pp. 131-134, 138, 151, 178-184. 101 Cfr. su ciò, proprio per la Bologna di fine Cinquecento, C. Evangelisti, «Libelli famosi»: processi per scritte infamanti nella Bologna di fine Cinquecento, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 26, 1992, pp. 181-239. 102 Albergati, Del modo di ridurre a pace cit., pp. 121-122.

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dovranno «trovare ragioni da persuadere a’ discordi di condescendere alla pace, et di ricevere in ciò i rimedij opportuni per l’offesa ricevuta»: lo spazio della mediazione, la cui ampiezza già conosciamo dalle considerazioni già più volte ricordate di Hespanha, dalle notazioni dei trattati e dall’esemplificazione apportata in queste pagine, trova qui una conferma ricca di coloriture psicologiche. Le finezze del tratto, le «maniere delicate», certo, non bastano: concluso l’accordo sarà necessario porlo in atto. Ma anche allora i mediatori potranno accortamente adoperarsi: «potranno adunque all’una parte et all’altra somministrare alcune piacevoli occasioni onde scambievolmente si possano compiacere, potendo le nuove cortesie di leggieri levar ogni ruggine degli odi passati»103. Guardando in controluce alcune delle piccole vicende che abbiamo raccontato potremmo leggervi quasi in filigrana l’applicazione concreta dei consigli dell’Albergati: o meglio, potremo dire che essi elaboravano e raffinavano una materia oggetto di una pratica comune e di un comune sentire nell’età in cui egli viveva. Eppure, considera ancora l’Albergati (qui certo trascendendo di gran lunga le più ovvie tecniche di pacificazione presentate dalla trattatistica contemporanea), alle volte neppure lo sforzo benintenzionato di amici comuni riesce a raggiungere lo scopo. Sarà allora necessario che l’autorità del principe s’interponga, creando tribunali a cui i cittadini possano ricorrere per questioni d’onore, e riservandone a sé solo la facoltà: proposta nella quale emerge dunque la capacità del sovrano di sedare personalmente, e se necessario in forma coattiva, i conflitti al di fuori dei tribunali comuni, e di fare di tale capacità uno strumento importante di governo. E certo, conclude l’autore, pensando chiaramente alla sua Bologna, «nelle città della Chiesa tanto maggiormente pare che ciò si debba procurare»104. È qui che la politica ha nettamente la meglio sull’etica, o almeno, fa emergere con prepotenza 103 104

Ivi, pp. 165-167. Ivi, p. 272.

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il suo ruolo, e che il livello sociale a cui l’autore si riferisce viene ad essere nettamente qualificato. Da un piano, per così dire, antropologico passiamo ad un altro, nettamente politico. Le piccole storie delle nostre rinunce e anche delle paci fra mercanti che abbiamo sinora incontrato si allontanano, e al loro posto viene a galla la conflittualità delle fazioni nobiliari cittadine, capeggiate rispettivamente dai Pepoli e dai Malvezzi; a Bologna «città della Chiesa» esse non erano meno vive che altrove, e avevano una tradizione ben radicata sin dai tempi della signoria bentivolesca, tanto da tradursi ancora nel tardo Cinquecento nelle significative etichette di Guelfi e Ghibellini105. L’Assunteria delle paci L’uso delle paci era infatti comune a Bologna come nella maggior parte delle città europee, e il tentativo ripetuto da parte delle istituzioni cittadine era quello di vigilare attivamente sulla pratica e sul suo funzionamento, soprattutto all’interno del mondo aristocratico. Seguendo l’esempio di analoghe normative vigenti in area toscana – una fiorentina del primo Cinquecento, successivamente registrata nella Pratica di Marcantonio Savelli, e una senese che sappiamo essere attiva nel primo semestre del 1525106 – un bando del 27 settembre 1603, 105 Un quadro drammatico della rissosità delle famiglie bolognesi in Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit.; sul radicamento politico delle fazioni che in essa si innestavano cfr. Gardi, Lo Stato in provincia cit., soprattutto alle pp. 242-252. Sulla permanenza di queste distinzioni in generale nell’Italia del Rinascimento cfr. alcune notazioni in R. Savelli, Il problema della giustizia a Genova nella legislazione di primo Cinquecento, in Studi in onore di Franca De Marini Avanzo, Giappichelli, Torino 1999, p. 333, e, più in generale, Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile, Viella, Roma 2005. 106 Cfr. Savelli, Pratica universale cit., p. 279, e M.A. Ceppari Ridolfi, Maghi, streghe e alchimisti a Siena e nel suo territorio (1458-1571), Il Leccio, Monteriggioni 1999, p. 24.

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pubblicato dal vicelegato Marsilio Landriani, aveva ordinato che le paci, «che occorrono farsi per le risse seguite fra particolari», e che sino a quel momento, scriveva il Landriani, erano state approntate dai notai civili della città e del contado, dovessero invece essere rogate dal Capo Notaio del Torrone, o almeno essergli presentate in copia autentica entro tre giorni dalla stesura. Tre anni dopo il bando venne peraltro reiterato dal successore del Landriani, il vicelegato Alessandro di Sangro, che il 3 giugno 1606 lamentava l’inosservanza della norma e la ribadiva, dilazionandone però i termini a quindici giorni, e disponendo inoltre «che dette Paci vengano registrate in un libro particolare, che si dovrà tenere in detto officio [del Torrone] a questo effetto a parte, acciò che si possano trovar subito, che occorrerà di vederle»107. Il vicelegato trasmetteva probabilmente quella che era una richiesta costante da parte della Sacra Consulta, un organo di governo fra i cui compiti c’era quello di vegliare sull’attività dei tribunali criminali dello stato della Chiesa108; ma forse si rifaceva anche ad una esperienza bolognese di qualche decennio precedente. Le paci che erano state laboriosamente concluse fra 1573 e 1579 fra i Righi di Villa d’Aiano, appartenenti alla parte ghibellina, e i Menzani di Montetortore – che era una podesteria estense legata alla parte guelfa – sono in effetti registrate in un Liber pacis et gratiarum conservato fra gli atti processuali del tribunale del Torrone109, nel cui archivio il libro delle paci auspicato da Alessandro di Sangro non risulta invece reperibile; può darsi che sia andato perduto e può darsi che non sia mai stato inaugurato. Però Bologna ebbe, almeno per un breve tratto della sua storia, una istituzione che voleva rivestire il ruolo di pubblica intermediazione auspicato dall’Albergati. Ce ne sono rimaste solo scarStatuta civilia et criminalia cit., II, pp. 176 e 182. I. Fosi, Giustizia, giudici e tribunali fra centro e periferia nello Stato ecclesiastico (secoli XVI-XVII), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, 2001, pp. 198-201. 109 ASB, Torrone, 886. 107 108

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se tracce archivistiche, che consentono, se non di tracciarne completamente la storia, almeno di comprenderne le finalità e le modalità di lavoro. Si trattava di una assunteria, cioè di un ufficio di governo strutturato secondo le caratteristiche che a Bologna iniziarono a definire questi istituti a partire all’incirca dagli anni ’40 del XVI secolo110. Semplificando, si può ricordare che erano previste otto assunterie ordinarie aventi varie competenze e finalità: Governo, Camera, Imposta, Zecca, Milizia, Munizione, Ornato e Pavaglione. I loro membri venivano estratti a sorte, rimanevano in carica per non oltre sei mesi ed appartenevano al rango senatorio; ma accanto ad esse – che comunque subirono nel tempo variazioni e ampliamenti – altre assunterie straordinarie venivano talora elette dai senatori o nominate dal priore del Senato per necessità particolari e specifiche. Fra esse vi fu nel corso della seconda metà del Seicento, sia pure in maniera probabilmente non continuativa, l’Assunteria delle paci, che forse voleva riprendere una istituzione creata con finalità analoghe nel XIII secolo111, e che comunque formalizzava una attività di mediazione che doveva essere consueta all’interno della nobiltà senatoria. L’attività dell’Assunteria delle paci si rivelò particolarmente necessaria negli anni ’50 e ’60 del Seicento, un periodo in cui la violenza della conflittualità nobiliare sembra fosse al culmine112; il suo fine, come si esprimeva in termini rapidi ma inequivocabili il verbale di una riunione tenuta dagli Assunti il 9 settembre 1658, era quello «di procurar la quiete della nobiltà e di tener lontano i pregiudicij delle preroga110 Su cui cfr. A. De Benedictis, Governo cittadino e riforme amministrative a Bologna nel ’700, in Famiglie senatorie e istituzioni cittadine a Bologna nel Settecento, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1980, pp. 9-26; Ead., Patrizi e comunità. Il governo del contado bolognese nel ’700, il Mulino, Bologna 1984, soprattutto pp. 31-33. 111 Cherubino Ghirardacci, Historia di Bologna parte prima, Giovanni Rossi, Bologna 1596, p. 255. 112 Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., p. 57 (e in generale).

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tive della Città»113. Una finalità dunque non solo sociale («procurar la quiete della nobiltà»), ma anche schiettamente politica, che ci riporta alle istanze segnalate dall’Albergati: menzionando le «prerogative della Città»114 che si voleva evitare venissero pregiudicate, gli Assunti si riferivano alla tradizione di parziali autonomie che vedeva insediato a Bologna un governo misto, in cui al potere del legato pontificio si affiancava quello del Senato rappresentante della città, di cui a sua volta l’Assunteria – si ricordi – rappresentava un’espressione. Le lotte interne della nobiltà senatoria, o anche solo l’attività processuale che eventualmente la coinvolgesse, rischiavano ovviamente di indebolire la forza contrattuale di questa istituzione e di quelle da essa dipendenti. Tale percezione non doveva essere occasionale: ancora nel 1694 una lettera agli Assunti di Cesare Tanari lodava la loro attività in quanto in grado di ovviare «i pregiudici pubblici per ciò che possa derivare dalle procedure del Torrone»115. Dell’attività dell’Assunteria ci sono rimasti un registro di atti e una filza contenente materiale documentario. Almeno per qualche anno gli Assunti lavorarono con grande zelo: gli atti registrano ben 24 riunioni che essi tennero tra il 23 luglio 1658 e il 17 febbraio 1659, una tenuta nel 1662, una nel 1663, quattro fra l’ottobre del 1671 e l’aprile del 1672. Peraltro il materiale documentario raccolto a parte mostra come l’Assunteria si impegnò ad appianare molteplici situazioni fra il 1651 e il 1694, sia pure in maniera discontinua e non verbalizzando la propria attività (o comunque non verbalizzandola sul registro che ci è rimasto). Da una minuta di lettera degli Assunti al senatore Rodolfo Fantuzzi del 24 ottobre 1651 sembra di comprendere che proprio a quell’epoca, o ad una di poco precedente, risalga la prima istituzione dell’ufficio: ASB, Assunteria liti e paci, I, Atti, c. 3v. Su cui A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, il Mulino, Bologna 1995. 115 ASB, Assunteria liti e paci, II, Scritture per le paci, c. n.n. (Roma, 31 marzo 1694). 113 114

III. Pace

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Il S.r. Cardinale nostro nuovo Legato [Pierluigi Carafa], che non ha altro fine che di vedere in questa nostra Città et sua legatione si viva con quiete e pace, ci ha commandato che ad ogni nostro potere procuriamo che seguino paci fra cavalieri e cittadini di questa Città, e particolarmente fra V.S. e li SS.ri Marsili116.

L’intervento del legato, qui e altrove, nell’attività dell’Assunteria mostra la rilevanza che anche il potere pontificio le attribuiva. Gli Assunti lavoravano intessendo una fitta corrispondenza con ognuno dei personaggi coinvolti nella controversia che si prefiggevano di appianare: cercavano in primo luogo di ottenere da ciascuno di essi l’accettazione del loro ruolo di mediatori ed arbitri facendo intervenire eventualmente altri personaggi particolarmente autorevoli; poi di farsi rilasciare dichiarazioni e lettere nelle quali l’interessato dichiarava di limitare (o dichiarare nulli) i propri motivi di risentimento verso gli avversari; e quindi di ottenere da questi ultimi analoghe dichiarazioni di non ostilità, per giungere infine a redigere e a far firmare documenti di pace, a loro volta necessari preliminari all’interruzione dei procedimenti giudiziari che fossero eventualmente in corso. Così nel 1671, nelle trattative per appianare una lite interna alla famiglia Marsili vengono svolte indagini per verificare se nel Torrone «si hebbi notitia esserci un precetto contro del S. Cesare Annibale Marsili»117. Gli accordi erano chiaramente non facili, come dimostrano le bozze spesso ripetute di uno stesso testo, e i fallimenti dovevano essere frequenti. È quanto emerge per esempio dall’abbondante carteggio tenuto nel 1681 fra gli Assunti da un lato e Cornelio Pepoli e Gasparo Malvezzi dall’altro: i due contendenti si profondono entrambi in ringraziamenti per lo «zelo paterno al Pubblico Beneficio della patria comune» mostrato dagli Assunti, puntualizzando peraltro – come faceva Cornelio Pepoli – di non voler «deputare alcuno che per 116 117

Gli Assunti alle paci al senatore Fantuzzi, 24 ottobre 1651, ivi, c. n.n. ASB, Assunteria liti e paci, I, Atti, c. 21r.

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lui tratti e riceva inutili e forse impropri discorsi», al momento in cui egli non aveva nessuna notizia certa «di tal fama vagante [di suoi cattivi rapporti col Malvezzi], pretensione che sia o chimera del volgo»118. Il rifiuto della mediazione significava la volontà di risolvere in proprio i conflitti – si rammenti fra l’altro che ancora alla fine del Cinquecento le famiglie Pepoli e Malvezzi capeggiavano le due fazioni dette guelfa e ghibellina, che si mantenevano su posizioni rispettivamente filofrancesi e filoimperiali – e dunque, in questa circostanza, il fallimento delle finalità dell’Assunteria. Almeno in alcune situazioni, gli Assunti lavoravano al loro scopo con una intensità che ci mostra l’importanza che esso rivestiva ai loro occhi e le difficoltà che peraltro essi incontravano. Un caso particolarmente lungo e intricato mette conto di essere descritto, sia pure concisamente, per dare un’idea più precisa della macchina e del suo funzionamento, oltre che dell’impressionante rilievo delle faide nobiliari in città e, in generale, dei contrasti per motivi d’onore. Come apprendiamo da una bozza di pace che riepiloga gli eventi, stesa negli ultimi mesi del 1658119, la notte del 21 agosto 1653 presso la fiera di Bologna c’era stata una rissa fra il conte Francesco Battista Bentivoglio e un altro membro della famiglia, Antonio Bentivoglio, da una parte, e Giulio Scarlattini e il suo fratellastro Filippo Maria Ghislieri dall’altra; Francesco Battista Bentivoglio era rimasto ucciso da un’archibugiata. In seguito, morto di morte naturale lo Scarlattini, i fratelli dell’ucciso avevano concluso la pace con i Ghislieri, e da Firenze, dove si trovava, anche Antonio Bentivoglio aveva lasciato intendere di essere disponibile a cessare le ostilità. Ma nella notte del 31 ottobre 1657 Filippo Maria Ghislieri venne raggiunto dalle archibugiate del conte Antonio Benti118 Cornelio Pepoli agli Assunti alle paci, Ferrara 27 aprile 1681, in ASB, Assunteria liti e paci, II, Scritture per le paci, c. n.n. 119 Ivi, c. n.n. (Appendice II). La vicenda è ampiamente trattata anche in Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., pp. 54-55, che usano peraltro fonti diverse da quelle qui utilizzate.

III. Pace

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voglio e ne rimase ucciso. Per di più, a complicare la situazione, la domenica 12 maggio 1658 Carlo Antonio Ghislieri, fratello dell’ucciso Filippo Maria, uccideva Antonio Galeazzo Malvezzi, che si trovava nei pressi di casa sua in compagnia di Rizzardo Isolani. Carlo Antonio fuggiva a Lucca e il padre di lui, Nicolò Maria, veniva incarcerato. È a questo punto (23 luglio 1658) che l’Assunteria delle paci inizia a verbalizzare le proprie riunioni, quando il cardinale Nicolò Albergati Ludovisi affida agli Assunti senatori Enrico Ercolani, Francesco Ghislieri e Nicolò Calderini il compito di trattare la pace fra le parti offese nell’omicidio Malvezzi. Inizia a questo punto, con l’appoggio dello stesso legato, Gerolamo Farnese, una serie di riunioni e di contatti con il detenuto Nicolò Maria Ghislieri, suo figlio Carlo Antonio ancora contumace a Lucca e infine la famiglia Bentivoglio, che ha come scopo quello di chiarire che l’uccisione del Malvezzi nulla aveva a che fare con la preesistente faida Ghislieri-Bentivoglio, e che quindi i Bentivoglio non se ne consideravano personalmente offesi. Finalmente, dopo numerose riunioni, incontri, contatti e scambi di lettere, e con l’intervento esterno, e accettato come particolarmente autorevole dai contendenti, del cardinale Rainaldo d’Este, il 26 ottobre Carlo Antonio Ghislieri invia da Lucca una dichiarazione sull’argomento: il suo atto ostile contro il Malvezzi e l’Isolani era stato motivato dal passaggio replicato di detto Sig. A. Galeazzo e compagni sotto il portico di casa mia, e da diversi atti di scherno fatti da’ medesimi verso la porta e finestre di detta mia casa, veduti da me stesso nella istessa mattina più volte, e che mi misero finalmente in istanza di di determinar e risolver di propulsar l’ingiuria con quelle forme io giudicai all’hora più proprie, le quali pono abastanza esser autenticata per improvisa, e per prima non mai pensata, dal modo della mia ritirata e fuga, senza denari, senza cavalli e seguito.

Lo scopo di questa dichiarazione vuol essere che «non possa mai qualsivoglia poco informato persuadersi che [tale

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atto] dipendesse dall’altro, dalla morte di mio fratello»120, rendendo così possibile ad Ulisse Bentivoglio ammettere di non essere offeso dalla morte del Malvezzi. Ma nello stesso tempo cogliamo in controluce nelle parole del Ghislieri la concreta attuazione dei consigli dei trattatisti, che suggerivano appunto di dichiarare come il proprio comportamento fosse stato «conforme a quello che si suole et si conviene fare in simili casi», e come fosse l’esito di un impulso improvviso, determinato – come aveva scritto Dario Attendoli nel 1563 – da «qualche giusta cagione, accioché nel rappacificare le parti appaia che l’ingiuriatore non si sia mosso senza cagione ad ingiuriare [...]. L’ira è buona giustificazione»121. Inoltre i Ghislieri, con l’intermediazione del cardinal d’Este e del conte Rinaldo Ariosti, presentavano una dichiarazione di perdono ai Bentivoglio, che proponeva di «porre in oblivione tutto il successo fin’hora»122 e che avrebbe dovuto essere sottoscritta da tutte le parti in causa (è quella stessa bozza di pace menzionata sopra). In effetti l’unica firma in calce della copia in nostro possesso è quella di Carlo Antonio Ghislieri, apposta a Lucca il 6 novembre 1658; i Bentivoglio infatti non considerarono soddisfacente la sua dichiarazione (come apprendiamo dal verbale delle riunioni degli Assunti del 20 e del 23 novembre123) e gli Assunti dovettero nuovamente prodigarsi per ottenere da lui ulteriori dichiarazioni: pensava forse, quando lo uccise, che il Malvezzi fosse in qualche modo legato ai Bentivoglio? Un assenso, o una risposta meno chiara, a questa domanda avrebbe coinvolto da parte di questi ultimi la necessità per punto d’onore di sentirsi offesi dalla morte del Malvezzi, e la faida non avrebbe potuto non prolungarsi. Ma la risposta del Ghislieri fu esplicitamente negativa: non aveva mai ritenuto che il Malvezzi fosse responsabile della morte di Ivi, c. n.n. Attendoli, Discorso intorno all’honore cit., pp. 37 e 58. 122 Cornelio Pepoli agli Assunti alle paci cit., c. n.n. 123 ASB, Assunteria liti e paci, I, Atti, c. 13r. 120 121

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suo fratello. In tal modo poté finalmente seguire la soddisfazione dei Bentivoglio e la richiesta di entrambe le parti al cardinale d’Este di pubblicare le paci, come da verbale della riunione degli Assunti del 17 febbraio 1659124. Tuttavia, tre anni e mezzo dopo la questione non appare ancora definitivamente risolta, anzi appare complicata da nuovi eventi sanguinosi: una riunione degli Assunti del 12 settembre 1662 – la prima verbalizzata dopo quella del 17 febbraio 1659 – rimette ancora sul tappeto la questione «d’intraprendere a trattare la pace tra S.ri Ghislieri, Bentivogli e Isolani»125, e il giorno dopo, 13 settembre, Nicolò Maria Ghislieri e il figlio Gabriele Maria, impegnando anche i sentimenti dell’altro figlio Carlo Antonio ancora esule a Lucca, e usando parole che vogliono mettere fortemente in evidenza il senso religioso della loro scelta, «per puro motivo christiano e per conformarsi alla volontà di Dio a cui hanno donata ogni loro volontà, danno vera e sincera pace al Sig. Senatore Co. Giovanni Francesco Isolani per il fatto successo nel mese d’agosto prossimo passato», come pure «a tutti quelli li quali nell’emergenze degli anni passati, note alla nostra Città, avessero operato danno, offesa, o tentato in qualsivoglia modo contro delle loro vite o de suoi figli e fratelli rispettivamente»; e inoltre «vogliono che la presente vaglia anche a chi si sia che ne possi aver bisogno per rinuncia a processi criminali»126. Dove notiamo, ancora una volta, come la pratica della rinuncia fosse strumentalmente intesa in un senso decisamente più ampio di quanto era previsto dagli statuti, dato che essa avrebbe dovuto essere utilizzata solo per reati di lieve gravità – quali certo non erano quelli in questione. Peraltro non veniamo a conoscenza di quale ulteriore evento – si suppone un ulteriore omicidio o ferimento a danIvi, cc. 14v-18v. Ivi, c. 19r. 126 Cornelio Pepoli agli Assunti alle paci, cit., c. n.n. Una copia dello stesso testo è contenuta anche in ASB, Famiglia Banzi, manoscritti, cart. 22, ed è illustrata in Angelozzi, Casanova, La nobiltà disciplinata cit., pp. 301-302. 124 125

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no di un Ghislieri – si fosse verificato nell’agosto 1662. L’ultimo documento in nostro possesso è una minuta di lettera inviata dagli Assunti il 2 ottobre al marchese Cornelio Malvasia, in cui essi, facendosi interpreti delle richieste del legato (era Pietro Vidoni), sottolineano la pace «amplissima» concessa dai Ghislieri «a chiunque in qualsivoglia modo gli habbia oltraggiati» (è il documento citato sopra) e la deliberazione presa dall’Assunteria di «intrometterci a procurar reciproca pace da ogni altro, che si pretenda da essi offeso, [...] tanto più volontieri, quanto che conosciamo di giovare et a particolari interessati concittadini, et al publico me[desimo] che sfugge con tal occasione gl’incontri di quelle forme di precetti et altri modi giuridici che possono al vivo ferire le pubbliche prerogative». Ci si augura perciò che il marchese voglia incoraggiare i conti suoi nipoti – di cui non viene fatto il nome – «a rappacificarsi, mentre dalla Parte avversa hanno quelle maggiori soddisfattioni che possono haversi», e in ogni caso ad astenersi da ulteriori atti di ostilità che impedirebbero il prosieguo delle trattative127. Quest’ultimo documento appare esemplare dell’ordine di problemi in cui ci siamo sinora imbattuti, oltre a rispecchiare fedelmente – non sappiamo se in modo consapevole – le indicazioni dei trattatisti e, in particolare, quelle dell’Albergati. Esso menziona l’oltraggio e le «soddisfazioni», la mediazione degli Assunti e le pressioni del legato, l’interesse dei privati cittadini e soprattutto quello pubblico, che richiede di evitare la celebrazione di processi che coinvolgano la nobiltà e quindi «possono al vivo ferire le pubbliche prerogative». Dalla risoluzione ai più limitati conflitti interpersonali siamo dunque passati ad un tentativo consapevole da parte di un ufficio di governo, sotto gli occhi benevoli del principe o di un suo rappresentante (ché tale era il legato), di eliminare le frizioni e i contrasti più gravi per il bene pubblico, aggirando le procedure giudiziarie consuete o intervenendo su esse usan127

Cornelio Pepoli agli Assunti alle paci cit., c. n.n.

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do le tecniche dolci della mediazione. La pace insomma emerge definitivamente da questi ultimi esempi come uno strumento importante della gestione della vita sociale e politica della comunità; come ha scritto Osvaldo Raggio, «la pace era inseparabile dalla giustizia [...]. Attraverso tutta l’età moderna la pacificazione ‘con le soddisfationi, et aggiustamenti con li offesi’ resta il principio e lo strumento necessario per perseguire il ‘bene pubblico’»128. Ma per comprendere intieramente il senso di questo nodo di pratiche, e per collocarle in maniera pienamente integrata nella società italiana della Controriforma, dobbiamo fare ancora un passo avanti. L’intrico di queste tematiche con quelle religiose non era certamente esclusivo dell’età tridentina129, ma non c’è dubbio che in quest’epoca l’idea della coincidenza fra il buon cristiano e il buon cittadino si riafferma clamorosamente. E dunque i fili che collegano mos, fas, lex – il costume, la morale, la legge – sono quelli della religio. Raggio, Faide e parentele cit., p. XVIII. Anzi, John Bossy ha tentato (peraltro in modo poco convincente) di dimostrare un incrinarsi in quest’epoca della «moral tradition» che nel periodo antecedente avrebbe stretto forti rapporti sociali fra i fedeli proprio grazie alla pratica religiosa, indebolendo quindi anche la tradizione delle pratiche di pace: J. Bossy, Peace in the Post-Reformation, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 1-29 (a proposito dell’Italia) e soprattutto 811. Una versione italiana di queste pagine: Pace nel ‘dopo Riforma’, in La pace fra realtà e utopia cit., pp. 257-282. Vedi in proposito, di chi scrive, Postfazione, ivi, pp. 283-291, e Giustizia, pace, perdono. A proposito di un libro di John Bossy, in «Storica», 9, 2003, n. 25-26, pp. 195-207. 128 129

Capitolo quarto PERDONO Pace e perdono: un valore sacro Infatti il quadro che stiamo tracciando può ampliarsi ancora in questo senso. All’interno della documentazione sulla faida Ghislieri-Bentivoglio, e datata al 1656, quindi alle prime fasi della vicenda, è conservata anche una rinuncia e pace che ha una tonalità abbastanza diversa dai documenti successivi che abbiamo citato finora: Adi 8 maggio 1656 Per ubbidir all’instanza fattami a nome del Co. Costanzo mio padre, che sia in Cielo, dal P. fra’ Carlo del Finale predicat.re Cappuccino, facio con la prescritta, e sottoscritta di mia mano, ogni renuntia necessaria libera pace, et perdono in generale, e in particolare a qualsivoglia persona che con presenza o assistenza habia havuto arte, o parte, così doppo come nel fatto dell’humicidio comesso nella persona di fra Battista Bentivogli, che sia in Cielo, a che tutto acconsente anche l’Archidiacono mio fratello, e sottoscriverà di propria mano alla presenza degli Infrascritti: Io Filippo M.a Bentivogli Io Carlo Archidia.o Bentivogli approvo confermo quanto di sopra Io D. Bartolomeo Suprani fui presente a quanto di s.a Io f. Carlo dal Finale Cappuccino fui presente a q.to di sopra

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Io f. Giacomo da Bagnacavallo Cappuccino fui presente a q.to di sopra1.

In una data precedente all’8 maggio 1656 si era dunque verificato un altro fatto di sangue su cui non abbiamo altre notizie, e cioè l’uccisione, non si dice per mano di chi, di un fra’ Battista Bentivoglio. Il documento non segue le complesse modalità che abbiamo visto in opera nelle bozze di pace già citate; è di mano del conte Filippo Maria Bentivoglio, ma il suo ispiratore è il predicatore cappuccino fra’ Carlo del Finale, che assieme al confratello fra’ Giacomo da Bagnacavallo e ad un don Bartolomeo Suprani assiste e, lo si dice espressamente, sollecita i firmatari Filippo Maria e Carlo Bentivoglio. L’atto è dunque redatto all’interno di un contesto pressoché interamente ecclesiastico; lo stesso Carlo Bentivoglio che lo rilascia assieme al fratello Filippo Maria è tale2. Questo contribuisce senza dubbio a spiegare l’assenza di visibili trattative e di richieste di contropartita. Non solo: notiamo che accanto alla rinuncia c’è la pace, e accanto alla pace c’è il perdono. Qui come nella pace e rinuncia concessa il 13 settembre 1662 dai Ghislieri a Giovanni Francesco Isolani troviamo dunque riferimenti religiosi che, certo, vanno attribuiti anche alla retorica propria dell’atto; tuttavia, occorre ricordare che in età tridentina non sono solo i valori comuni della vita associata a mescolarsi alla norma giudiziaria: «tutto ciò è legato a rappresentazioni molto più vaste che mettono in gioco l’insieme delle relazioni umane o delle relazioni con la divinità»3. Sono le parole di Émile Benveniste che abbiamo già proposto nel primo capitolo, e che si adattano perfettamente al sistema generale di valori dell’età della Controriforma, aiutandoci a cogliere l’importanza, davvero basilare in questo 1 ASB, Assunteria liti e paci, II, Scritture per le paci, c. sciolta n.n. (Appendice I, 57). 2 Dolfi, Cronologia cit., p. 28. 3 Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee cit., p. 153.

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periodo, del legame fra rappresentazioni antropologiche e concetti teologici e della loro penetrazione nell’amministrazione della giustizia. È una penetrazione che ha certamente origini ben più antiche; eppure sembra che nel pieno Cinquecento essa divenga in qualche modo più consapevole, più elaborata, e che la combinazione chimica fra istanze della religione e forme di disciplina e di governo della società terrena si stabilizzi e si depositi in un precipitato di cui ancor oggi sono percepibili i residui. Si tratta di un dato indubitabile, in quanto occorre ricordare ancora una volta che il tema della pacificazione non concerne solo discorsi e pratiche interni all’area politica. «È opera grande di misericordia, et a Dio accettissima, rappacificare litiganti e discordi»4, ammonisce una sorta di manifesto degli ideali di una società cristiana, pubblicato nel 1563 in forma di cartellone dal vicario del vescovo di Bologna, Leone Lianori, e destinato presumibilmente ad essere affisso nei luoghi pubblici, nelle scuole, nelle osterie, per istruire i fanciulli e i semplici. I due piani, quello del bene comune e quello religioso, sembrano inestricabili. Anche il giurista Marcantonio Savelli del resto insisteva sul valore religioso della pace, sottolineando l’obbligo morale di concederla da chi ne fosse richiesto: «Chi la denega non si può dire amare di cuore il suo nemico», scriveva, aggiungendo inoltre: «certo che il rimettere l’ingiurie è la più meritoria e eccellente virtù che si possa dare in un cristiano»5. Si tratta di un valore sacro che non sempre viene esplicitato, ma che dobbiamo comunque considerare come almeno potenzialmente, anche se ambiguamente, presente sullo sfondo6: la pace, l’abbiamo detto, viene considerata come insepa4 Avertimenti et brievi ricordi circa il viver christiano, a fine che l’opere corrispondano al nome, non meno utili che necessarie, in Bologna per Alessandro Benaccio, 1563 (carta sciolta conservata in Archivio Arcivescovile di Bologna, Misc. Vecch., 798, 2). 5 Savelli, Pratica cit., p. 300. 6 Si noti, uscendo dall’Italia, che la menzione del valore religioso dell’at-

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rabile dalla giustizia, e non solo a livello politico, ma anche nel sentire religioso, sin dall’età altomedievale, legandosi anche all’altro grande tema dell’«amicizia giurata», quando, a partire dalla fine del X secolo, si moltiplicano i bandi episcopali che obbligano i fedeli a giurare di mantenere la pace in determinati tempi e situazioni7. Si noti che la rilevanza della concessione della pace era considerata tale da rappresentare una condizione indispensabile per una morte serena; tanto che in molte regioni italiane sono state accertate, anche in tempi non lontanissimi dai nostri, credenze di lunga durata sulla penosa e difficile agonia di coloro che non avessero accordato a suo tempo il perdono ai loro offensori8. Anche il Rituale romanum richiedeva a chi si trovasse ad assistere un morente di esortarlo a perdonare di cuore tutti coloro che in qualunque modo gli fossero stati molesti, ostili o avversi («ex corde [...] omnibus qui sibi quoquomodo fuerunt molesti, infesti vel adversi»)9, e un frutto di questa pratica sono certamente le paci accordate in fin di vita, o addirittura sancite dai parenti del defunto per il suffragio della sua anima10. Ecco perciò una rinuncia del 1602 in cui il padre di una ragazza violentata dichiara di rinunciare alla querela in quanto consapevole di essere al termine della sua vita e di trovarsi quindi nell’obbligo di perdonare: to è esplicita nelle 47 rinunce del Rossiglione identificate da G. Larguier («A l’imitation de Notre Seigneur Dieu Jésus-Christ». Pardons catalans, in L’infrajudiciaire cit., pp. 405-417). 7 P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino, Bologna 1992, con particolare riferimento alle pp. 114-116. 8 A.M. Di Nola, La nera signora. Antropologia della morte, Newton Compton, Roma 1995, p. 166. 9 Rituale sacramentorum romanum Gregorii papae XIII pont. Max. iussu editum, [Domenico Basa?], Roma 1584, p. 115. In Sardegna in assenza di un sacerdote provvedeva a questo compito un anziano o un vicino eloquente; in Abruzzo l’uso era di convocare al letto del morente la persona con la quale questi fosse in stato di inimicizia per favorire la riconciliazione: Di Nola, La nera signora cit., p. 166. 10 Rovigo, Le paci private cit., p. 214.

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Così per esser jo in ponto di morte prego le signorie vostre a non fare altro in detta querella per mio conte perché io li perdoni con il cuore come fatio con la bocca et per non saper scrivere ho pregato che la scritta et jo fatio la croce +11.

Quando poi la pace viene concessa in punto di morte dopo essere stata a lungo negata, può dar luogo ad un miracolo, per quanto davvero singolare: come avvenne nel 1496 a Cesena, dove a un tale che rifiutava la pace agli uccisori del figlio, secondo il racconto del cronista Giuliano Fantaguzzi «selli aserò [= serrò] la verga e non potea orinare»; ma alla fine, ormai moribondo, «disse ‘sò contento, jo fazo la pace’; e ditte queste parole subitto a la presentia de ognuno selli amollò la urina, che pissò tutto el dì e la notte: miracollo»12. Qui, come altrove, il cronista sembra irridere il proprio racconto; ma il sarcasmo con cui il preteso miracolo viene raccontato lascia comunque trasparire quella che doveva essere la convinzione diffusa fra gli astanti sul valore benefico e salvifico della pace e sulla pena – anche molto concreta ed umana – riservata a coloro che si fossero ostinati a negarla. La pace terrena è un simbolo e una anticipazione della pace perfetta dei cieli; e anche se la «pace di Dio» invocata, con pratiche penitenziali e giuramenti solenni, sin dal X secolo, in base alle più recenti analisi può essere considerata come un grande mito storiografico13, certamente l’ideale religioso della pace – intesa in molti modi contraddittori e anche ambigui Appendice I, 45. Giuliano Fantaguzzi, Caos. Cronache cesenati del sec. XV, a cura di D. Bazzocchi, Bettini, Cesena 1915, p. 65. 13 Tale il risultato a cui giunge D. Barthélemy, L’An Mil et la Paix de Dieu. La France chrétienne et féodale 980-1060, Fayard, Paris 2000; ma vedi anche G. Duby, L’Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Einaudi, Torino 1976, pp. 137-142; The Peace of God: Social Violence and Religious Response around the Year 1000, a cura di Th. Head e R. Landes, Cornell University Press, Ithaca 1992, e, da ultimo, Th. Gergen, Pratique juridique de la paix et trêve de Dieu à partir du Concile de Charroux (989-1250), Lang, Frankfurt a. Main-Berlin-Bern-Bruxelles-New York-Oxford-Wien 2003. 11 12

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– pervade a tratti tutto il Medioevo. Francesco d’Assisi predicando a Bologna nel 1222 «mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace»14; la pace sociale era un tema centrale nel movimento dell’Alleluia del 1233 e nelle processioni dei flagellanti, che a Bologna premettero con efficacia per il contenimento delle parti di guelfi e ghibellini. Ma in generale i predicatori degli ordini religiosi svolsero costantemente un’attività di riconciliazione e addirittura di arbitrato fra le parti, usando con perizia gli strumenti giuridici a disposizione e l’ausilio dei notai15. Nel 1335 a Prato il domenicano Venturino da Bergamo organizzò un pellegrinaggio allo scopo di sedare le fazioni: i pellegrini andavano di chiesa in chiesa invocando «Misericordia, pace!». Anche il movimento dei Bianchi, iniziato nel 1399, aveva tra i suoi fondamenti la richiesta di pace; e di alcune delle paci promosse dai Bianchi sono rimaste tracce figurate, come si è visto, sulle pareti delle chiese dell’Umbria. Essi, come scriveva Coluccio Salutati, «pacem petunt, pacem orant, pacem replicant, et omnes simul una voce pacem vociferant, pacem clamant» (chiedono pace, pregano pace, ripetono pace, e tutti insieme gridano a gran voce pace, proclamano pace)16; e in effetti sappiamo che andavano di città in città, giungendo sino a Roma, sempre gridando «Misericordia eterno Dio, pace pace Signore pio», e cantando laudi che esortavano all’unione e alla cessazione delle parti: Quanto più nel mondo state, briga e odio sempre fate, e insieme non vi amate, l’uno all’altro è traditore. 14 Tommaso da Spalato, Historia pontificum Salonitarum et Spalatinorum, MGH, XXIX, Hahn, Hannover 1892, p. 580. 15 A. Thompson, Revival Preachers and Politics in Thirteenth Century Italy, Clarendon Press, Oxford 1992, pp. 136-178. 16 Coluccio Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, III, Istituto storico italiano, Roma 1896, p. 359.

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Se voi fussi insieme uniti non saresti a ta’ partiti!17

La condanna religiosa delle fazioni – che era il risvolto indispensabile dell’invocazione della pace – appare definita nel concilio di Basilea, che nella sessione del 26 marzo 1436 stabiliva che il vicario pontificio «provvedesse a rimuovere da Roma ogni sediziosa parzialità, soprattutto di guelfi e di ghibellini, e qualsiasi altro pernicioso appellativo simile a questi»18, ed è ben presente nella predicazione quattrocentesca di Bernardino da Siena e di Giacomo della Marca, che nelle sue omelie considera le fazioni un’opera del diavolo e le paragona alla peste19. Lo stesso concetto venne proposto nel 1486 ai fedeli di Perugia da fra’ Berardino da Montefeltro quasi nella forma di un quadro vivente. Come avrebbe fatto pochi anni dopo Girolamo Savonarola, egli organizzò al termine delle sue prediche un «rogo delle vanità»; il cumulo di libri e di oggetti che dovevano essere bruciati venne però tenuto nascosto sotto dei teli. Solo alla fine, racconta il cronista Pietro Angelo, quando il frate diede ordine di scoprirlo, subito for levati li detti canavacci, onde che ne la cima del detto castello cie era un gran diavolo con le corna in capo, e in mezzo de esso castello cie erano doj spadaccini con le spade e brochiere [= scudi] in mano20. 17 R.F.E. Weissman, Ritual Brotherhood in Renaissance Florence, Academic Press, New York 1982, pp. 50-53. Ma sui Bianchi vedi soprattutto D. Bornstein, The Bianchi of 1399. Popular Devotion in Late Medieval Italy, Cornell University Press, Ithaca-London 1993 e Sulle orme dei Bianchi cit. 18 Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, G.A. Dossetti, P.P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, Istituto per le Scienze religiose, Bologna 1973, p. 498. 19 R.M. Dessì, Predicare e governare nelle città dello Stato della Chiesa alla fine del Medioevo. Giacomo della Marca a Fermo, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di G. Barone, L. Capo e S. Gasparri, Viella, Roma 2000, pp. 125-159. 20 Cit. in R. Villard, Le mal vivre à Pérouse (1480-1550), ou l’«opinion publique» entre désordres et tyrannies, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 113, 2001, p. 325.

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Come a dire che proprio al centro del cumulo dei vizi e dei peccati c’era l’ideologia fazionaria, che si identificava nella mente dei più con il «vivere male»21. Naturalmente anche i manuali per confessori segnalavano l’esigenza morale della pace e del perdono e condannavano le fazioni. La confessione si presentava tra la fine del Medioevo e gli inizi dell’età moderna come un tribunale che era, nei riguardi del penitente, uno strumento di perdono non solo divino, ma anche giudiziario22; ed era un tribunale che non solo perdonava, ma anche obbligava al perdono. Pacifico da Novara nella sua Pacifica summa pubblicata nel 1479 considerava come grave peccato la divisione fazionaria delle città («tenire partialità o di guelphi o gebelini, di rosa biancha o vermiglia o simile, et in tale partialità essere sì di animo obstinato, che desydera a torto o a dritto, iuste vel iniuste, lo danno, lo exterminio o simile de la contraria parte»23), o la scarsa cura della pace cittadina da parte dei magistrati («chi ben mira como sogliono per li boni, iusti et tementi Dio signori e soi officiali, iudici et altre simile persone al iudicio pertinente le castelle et terre in gran pace et concordia vivere, sì per lo contrario troverà per li iniusti et perversi in gran discordia stare»24). Più oltre, lo stesso concilio tridentino indicherà, fra gli scopi che i vescovi dovevano perseguire nelle visite pastorali, quello di stimolare i fedeli «ad religionem, pacem innocentiamque»25. La pace e la concordia politica e sociale rappresentano insomma un valore della massima importanza a tutti i livelli, tanto che Martín de Azpilcueta, che pubblica il suo Enchiridion confessariorum et poenitentium in età post-tridentina, porrà Ivi, pp. 313-347. E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, il Mulino, Bologna 2000. 23 Pacifico da Novara, Sommola di pacifica coscienza, Filippo da Lavagna, Milano 1479, c. h3r. 24 Ivi, c. p5r. 25 Sessio XXIV, Decretum de reformatione, Canon III: Conciliorum oecumenicorum decreta cit., p. 762. 21 22

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tra i peccati propri di un sovrano la mancata composizione delle liti26. Rimetti a noi i nostri debiti Il senso profondo di tutto questo insieme di riflessioni, di pratiche, di norme, stava ovviamente nel fatto che concludere la pace sottintendeva il perdono dei torti ricevuti. E questo rappresentava un dovere primario di ogni cristiano, più volte ribadito nel Nuovo Testamento e in particolar maniera nel Pater noster: «Dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris» (Matt. 6,12); non per nulla i documenti di pace talora menzionavano solennemente queste parole come sigillo alla riconciliazione conclusa27. E un Paternostro disposto che Hernán Colón comprò a Roma per mezzo quattrino nel dicembre 1515, in cui ogni segmento del Pater è commentato con una ottava, recitava: Sicut et nos dimittimus debitoribus nostris Perdonatemi Signor, ch’io voglio perdonare, alto Signor, a chi m’avessi ofeso. E questo bisogna fare a ciascheduno che vole possedere el paradiso: par altro modo non ci si può entrare, perché una volta da voi fu comisso ‘chi non perdona – questo disse Idio – non abia parte nello regno mio’28.

Non c’era verso, se si voleva il paradiso bisognava perdonare: era un principio la cui saldezza non veniva messa in 26 Martín de Azpilcueta, Enchiridion confessariorum et poenitentium, ap. Romanum, Romae 1573, c. 399r. 27 Rovigo, Le paci private cit., pp. 216-219. 28 Questo è lo paternostro disposto, s.l., s.d. [ma ante dic. 1515], c. 2r.

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dubbio, e che veniva universalmente ripetuto, proprio sulla base delle parole del Pater. Così un dotto domenicano romagnolo, Vincenzo Giaccari, ammoniva nel 1537: «Chi non harà rimesse le ingiurie, non saranno anchor rimesse le colpe a lui [...] noi non possiamo chiedere ne la oratione nostra lo scancellamento de debiti nostri se noi non gli habbiamo prima scancellati et rimessi noi a prossimi nostri»29. E anche il filosofo aristotelico Simone Porzio – napoletano, ma impegnato a insegnare nello Studio di Pisa – si dilungava sull’argomento verso la metà del secolo nel suo Modo di orare christianamente, con la espositione del Pater noster, un’operetta in cui appaiono «percepibili accenti nicodemitici»30: Se non faremo anchora noi così come tu hai insegnato, non ci vorrai rimettere gli debiti nostri [...]. O quanti se condannano in queste parole, che o veramente non vogliono perdonare per alcun modo, o che fintamente et in exteriore apparentia solo dimostrano di haver perdonato!31

Quelle del Pater erano parole, ricordiamolo, che venivano imparate a mente da tutti, e che costituivano spesso il solo bagaglio di istruzione religiosa dei fedeli, quello che era davvero indispensabile e di cui il confessore doveva cercare di ottenere la conoscenza anche dai più ignoranti: i curati – scrive Filippo Sauli nel 1521 – devono controllare in confessione in che grado i più rozzi conoscano la preghiera del Signore («in confessionibus quo pacto persone rudiores sciant dominicam orationem»)32. Dal Pater cominciava quindi ogni insegna29 Vincenzo Giaccari, Specchio della vita christiana [...] con una divota espositione et contemplatione sopra il pater noster [...], Bernardo Giunta, Venezia 1570, pp. 84-85. 30 M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Einaudi, Torino 1997, p. 189. 31 Simone Porzio, Modo di orare christianamente con la espositione del Pater noster, [Lorenzo Torrentino], Firenze 1551, c. 218r. 32 Cit. in A. Prosperi, Les commentaires du Pater Noster entre XVe et XVIe siècle, in Aux origines du catéchisme en France, Desclée, Tournai 1989, p. 104.

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mento religioso. «Abiamogli insegnato il paternostro e l’avemaria», scrive nel 1531 dal nuovo mondo un francescano osservante dando conto della conversione degli indios33; e anche i gesuiti, giunti a Palermo nel 1554, cominciano la loro missione coll’insegnare le preghiere ai ragazzi, che a loro volta le insegnano ai loro padri «che non sano [...] il paternostro», e neppure i comandamenti34 – e dunque non sanno proprio nulla: ancora ai primi dell’Ottocento l’espressione veneziana «no saver el paternostro» veniva usata per indicare una radicale ignoranza35. E quando nel gennaio 1603 un vecchio mendicante muore (si sospetta per veleno) a Montasico, una località dell’Appennino bolognese, i familiari si meravigliano che il prete non l’abbia comunicato; eppure – apprendiamo da una testimonianza – «l’havea ben confessato, et dice che gl’havea insegnato il Pater et dieci comandamenti»36, dunque i veri fondamenti della fede, indispensabili e sufficienti, anche nella diocesi di Bologna, per ricevere l’eucarestia37. Eppure c’erano dei cristiani in tutta Europa che rifiutavano di recitare il Pater noster proprio per non ammettere che perdonavano i torti ricevuti, anzi, ritenevano che non fosse loro lecito farlo se non si sentivano di perdonare, perché se lo avessero fatto l’ira divina si sarebbe scatenata su di loro. Era un’opinione condivisa anche da Lutero, che nel 1519 affermava che chi non perdona [...] questa preghiera diventa per lui un peccato, come dice il salmo CIX: «La sua preghiera gli sia imputata come 33 Fra’ Francesco Dal Busco a Niccolò Barbauto, 1° giugno 1531, cit. in Prosperi, Tribunali della coscienza cit., p. 563. 34 Paolo Achilli a Ignazio di Loyola, 22 ottobre 1554, in Epistolae mixtae, IV cit., p. 399. 35 G.L. Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti, Garzanti, Milano 1999, p. 116. 36 ASB, Torrone, 3445, c. 145r. 37 P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), II, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1967, pp. 184-185.

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peccato dinanzi a Dio». Così egli maledirà se stesso e la preghiera capovolta gli attirerà l’ira anziché la grazia di Dio. Infatti che cosa significa la tua parola «Non voglio perdonare», mentre al cospetto di Dio reciti il Padre Nostro e mormori con le labbra «Rimettici i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», se non appunto «O Dio, ti sono debitore, come io pure ho un debitore, ma non voglio perdonare, perciò non mi perdonare neppure tu»?38

Anche Antonio Brucioli ammoniva con severità che «tutti quegli che non vogliono perdonare al prossimo que’ peccati che commessono contra di loro fugghino questa oratione»39. In ambito cattolico, ancora nel primo Settecento un pio cantico di esortazione al perdono del missionario LouisMarie Grignion de Montfort affermava che «un uomo che vive nell’inimicizia / chiede a Dio nella preghiera / che lo guardi senza pietà / e che riaccenda la sua collera, / ed il suo stesso recitare il Pater / lo condanna all’inferno»40. Ma uno stratagemma che evitava questo rischio era stato in realtà individuato da tempo. Anche Girolamo Savonarola in un passo del suo commento al Pater noster allude esplicitamente all’uso, che a quanto pare doveva essere assai diffuso, di troncare a metà la preghiera di Gesù se non si voleva perdonare; ma subito dopo suggeriva un mezzo che poteva consentire a tutti di pronunziare per intero il Pater. Bastava dire quelle parole «in persona della Chiesa, conciosia cosa che la Chiesa a’ suoi debitori le offese rimette. Altrimenti [quel fedele] pecchereb38 Martin Lutero, Il «Padre nostro» spiegato in lingua volgare ai semplici laici, in Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, UTET, Torino 1967, p. 261. Nello stesso senso la Isposizione della oratione domenicale di Pellegrino Moretto o Morato, pubblicata nel 1525 (cfr. Prosperi, Les commentaires du Pater Noster cit., pp. 98-99). 39 Antonio Brucioli, Pia esposizione [...] ne dieci precetti, nel simbolo Apostolico, et nella oratione Domenica, dove si ha quello che comandi Iddio quello che si debba credere et come si debbe orare, in Venetia MDXLIII, c. 65v. 40 Prosperi, Les commentaires du Pater Noster cit., p. 93; L. Châtellier, La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Garzanti, Milano 1994, p. 159.

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be mortalmente, non perché non vuol dire questa oratione, ma perché non la vuol dire non volendo perdonare»41. Lo stesso mezzo fu indicato in una sua predica degli inizi del 1560 da Girolamo Seripando: Dubitando alcuni di non obbligarsi a perdonar l’offesa, quando nella chiesa si dice da tutt’in comune quest’oratione, come vengono a questa parte, la passano tacitamente e non la dicono [...]. Non lasciate per niente questa particella dell’oratione. Dite interiormente: Et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et per non mentire pensate in questo modo: Quel che non fò io lo fanno molti miei fratelli nella chiesa, in persona dei quali io dico questa parte et mi numero tra loro, perché quantunca non habbi questa gratia di perdonar come loro, nondimeno sono nella chiesa insieme con loro, partecipe in certo modo di tutte le gratie date a loro42.

Le difficoltà del perdono traspaiono dall’insistenza con la quale venne constatato, lungo tutto il Cinquecento e oltre, che la recita del Pater poneva a molti dei problemi: irrisolvibili per i riformati, evitabili con un accorgimento per molti cattolici. Ancora nel 1583 anche Ludovico Carboni riprese il suggerimento del Savonarola e del Seripando per levar via facilmente – scrisse – un certo errore dalle menti degli ignoran41 Molti devotissimi trattati del reverendo padre frate Hieronimo Savonarola da Ferrara dell’ordine dei frati predicatori, ad esortatione dei fideli et devoti christiani, al Segno della Speranza, in Venetia MDXLVII, c. 136v. 42 Girolamo Seripando, Le prediche sul Paternoster. Predica decima settima, in R.M. Abbondanza Blasi, Tra evangelismo e riforma cattolica. Le prediche sul Paternoster di Girolamo Seripando, Carocci, Roma 1999, pp. 287-288. Un esempio contemporaneo di un atteggiamento analogo a quello descritto può essere individuato nelle parole di un pianista arrestato e torturato nel 1977 dal regime militare argentino perché considerato «sovversivo»: durante le sedute di tortura egli cercava di pregare, ma recitando il Pater «m’était très difficile [...] de dire avec convinction l’avant-dernière phrase ‘pardonne-nous comme nous pardonnons aussi à ceux qui nous ont offensés’. Il m’arrivait parfois de sauter cette phrase, parce que je sentais que je ne pouvais pas la dire honnêtement» (colloquio con Miguel Angel Estrella, in Le pardon. Briser la dette et l’oubli cit., p. 172; corsivo mio).

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ti («hominum imperitorum»). Essi credevano, dice il Carboni, di non poter pronunziare le parole «dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris», perché pareva loro che in tal modo la preghiera gli si sarebbe rivoltata contro: se essi non perdonavano, neanche Dio li avrebbe perdonati, poiché il passo evangelico sembrava proporre una forma di scambio equivalente fra il perdono degli uomini e il perdono divino. Ma dir la preghiera in nome della Chiesa, in cui è sempre e comunque carità e perdono, osserva il Carboni, rende quelle parole vere sempre e comunque43. Erano, ad ogni modo, parole ardue, e si capisce che molti, immersi in ostilità pervicaci come quelle che intessevano la vita sociale del tempo, non si sentissero di pronunziarle. Anzi, secondo Pier Paolo Vergerio non c’era nessun cristiano, a dire il vero, che potesse pronunciare «piamente» quelle parole del Pater noster, «non trovandosi alcuno che rimette le ingiurie come fa Dio». Durante il suo soggiorno a Trento il vescovo di Capodistria aveva fatto queste considerazioni con il cardinal Madruzzo, che le considerò peraltro «mille pazzie», come confidò scandalizzato ad Angelo Massarelli44. Le parole del Vergerio avevano una ben precisa specificità teologica: esse facevano riferimento all’idea riformata dell’incolmabilità, da parte dell’uomo, della distanza infinita tra l’uomo e Dio, che solo l’infinita misericordia divina può colmare. Ma le riflessioni del vescovo di Capodistria, come quelle certo più grezze degli «imperiti» di cui parlava Ludovico Carboni, ci permettono di cogliere la serietà con cui gli uomini del Cinquecento pronunziavano le parole del Pater noster, e le difficoltà che esse ponevano loro.

Carboni, De pacificatione cit., p. 98. Angeli Massarelli de Concilio Tridentino diarium primum, in Concilii Tridentini Diariorum pars I, a cura di S. Merckle, Herder, Friburgi Brisgoviae 1901, p. 387. 43 44

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Del perdonare Una teorizzazione particolarmente ricca dell’ideologia del perdono e della sua necessità religiosa e civile è quella che viene esposta in un’operetta di Tullio Crispolti da Rieti, apparsa già nel 1537 e poi ristampata con altri trattatelli dello stesso autore nel 1568. Il Crispolti apparteneva, insieme a Marcantonio Flaminio, a quelle frange dell’ambiente vicino al vescovo di Verona Gian Matteo Giberti che poco più tardi si sarebbero impegnate su posizioni radicali in una serrata discussione epistolare con i cardinali Gasparo Contarini e Girolamo Seripando sul valore delle opere umane per la salvezza eterna; e nel suo scritto Del perdonare piegò quell’insieme di opinioni e di slanci devoti che di lì a pochi anni avrebbero trovato la loro espressione più ricca e più compiuta nel Beneficio di Cristo ad un appassionato elogio del perdono. Cristo «ha non solo perdonato, ma patito per li suoi nemici, et ha fatto e fa ogni cosa per salvarli»; chi consideri ciò, e che per i propri peccati è stato «ucciso il figliuol di Dio [...] si infiamerà nel amor di tanto beneficio»45. Per ricevere la benedizione che Dio promise ad Abramo per tutte le genti, e dunque attingere quel beneficio, il perdono è indispensabile. La legge del perdonare ci insegna di essere di animo grande, et di non istimare le offese, et di non pensare ch’el mondo ne possa offendere, et che noi per esser Christiani siamo sì grandi che niuna cosa è che ne possa toccare, et che noi più tosto siamo per havere compassione a chi ne offende che a cercare di vendicarne, sapendo che solo per haverne offeso han fatto tanto male a se stessi quanto a niuno inimico potria desiderar, et che per questo a noi tocca di esser soleciti di levarli di quel male et non di far loro peggio; et ingegnandoci di non vendicarci ne inge45 [T. Crispolti], La seconda parte dell’opere di M. Tullio Crispoldo da Riete nella quale si contengono tre bellissimi trattati, cioè della Carità, del Perdonare et del Patire, in Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari MDLVIII, pp. 124, 133.

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gnam di non seguitare li errori che in altri ne dispiacciono, et che non è ciò viltà, ma vera cognitione et prudentia et buon consiglio46.

L’offensore, insomma, ha fatto danno a se stesso molto più di quanto abbia potuto farne a chi ha offeso, e ciò rende priva di senso la vendetta, mentre il sentimento giusto nei riguardi del colpevole è la pietà. Si noti inoltre l’insistenza sulla «magnanimità» del cristiano che perdona, che voleva combattere la diffusa opinione che un tal comportamento fosse invece vile. Ma vi sono, prosegue il Crispolti, altri motivi che rendono necessario il perdono. Per illustrarli, egli racconta una sorta di parabola che ci ricorda molto da vicino, per struttura e per senso, quella del bando che abbiamo incontrato nelle pagine di Juan de Valdés e poi in quelle del Beneficio di Cristo. Anche qui incontriamo un grande signore, «il quale amasse alcuni suoi benché scelerati servitori»; e che avendo un figlio, ’l figliuolo, di accordo con lo Re suo padre, fosse contento non di essere impiccato solamente, ma et flagellato et crocifisso et dileggiato, perché questi servi non havessero alcun male, et risuscitato niente altro cercasse che addur questi suoi servi al loco suo, et farli suoi fratelli et figliuoli seco del Re [...]. Se tu questo vedessi, molto bene credo che offeso tu da alcuno di questi suoi tali servi, rimarresti, et niente altro cercaresti che riconciliarti con lui, acciò per questo mezzo intrassi in gratia del Re et del suo figliuolo.

Il «perdono universale» che Dio ha riversato sugli uomini a seguito della morte di suo figlio deve dunque traboccare sui rapporti degli uomini fra di loro. E questo tanto più in quanto anche noi siamo di quei servi scellerati per cui ha patito la morte il figlio di Dio: et tu vuoi questo bene ch’esso ti vuole adoperarlo in far contro la volontà di costui che ti ama et in offendere uno amato da l’amator tuo, et sopportarai di contrastare un così caro tuo amatore?47 46 47

Ivi, pp. 130-131. Ivi, pp. 140-144.

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Le pagine del Crispolti alternano tonalità accesamente devote a considerazioni che toccano il piano della politica e della civile convivenza. Perdonare è necessario, egli argomenta, anche perché altrimenti ogni realtà statale andrebbe incontro al disfacimento, e ognuno si farebbe «et vendetta et ragione da se stesso»: et certo ogni stato et conditione di persone et ogni republica et regno è degno di perpetua guerra et di non haver mai riposo dove fiano molti che habbino in odio il perdonare, overo dicono et stimano male di chi perdona. Degni sono che ogniuno si faccia et vendetta et ragione da se stesso, et che non vi sia né giudice né officiale publico, acciò che con assai loro mali vedano quanto grande male sia che ogniun si faccia ragione da sé, et come le vendette per bene et pace del publico vivere sono commesse alli ufficiali publici dalle leggi anco de’ gentili, che appresso quelli anco era honesta cosa il perdonare48.

La sensibilità politica del Crispolti, che elogia in queste righe le prerogative «commesse alli ufficiali pubblici dalle leggi», e dunque la pratica giudiziaria valutata come essenziale alla struttura stessa di ogni realtà statale, non impedisce tuttavia che dalle sue pagine traspaia anche l’eco di quello che doveva essere un sentimento comune in ambito ecclesiastico, e che come vedremo verrà ad essere espresso anche in forma esplicita: il convincimento cioè che il perdono comportasse la rinuncia non solo alla vendetta, ma anche alla normale persecuzione processuale (opinione che a quanto pare era condivisa anche da Lutero, sulla base del passo paolino di I Cor., 6,1: «V’è tra voi chi, avendo una questione con un altro, osa farsi giudicare dagli ingiusti anziché dai santi?»49). È una convinzione che Ivi, p. 168. Almeno questo è quanto asserisce Ludovico Carboni, che attribuisce genericamente a Lutero l’affermazione «non licere christianis petere coram iudice iniuriarum reparationem» (non è lecito ai cristiani chiedere la riparazione delle ingiurie davanti al giudice): De pacificatione cit., p. 96. Data la massa degli scritti di Lutero, non sono stata in grado di verificare la citazio48 49

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nelle pagine del Crispolti non è espressa apertamente, ma appare sottintesa, per esempio là dove l’autore osserva che se quelle fatiche et quelle spese che facemo litigando et minacciando facessimo in humile ammonitione, si verria con nostra pace o alla emendatione di coloro che ne offendono o certo a essere da loro separati [...] credo che saria più sicuro attaccarsi alli fatti perdonativi che a li correttivi50.

Altrove il Crispolti elenca le cause del mancato perdono, riportandoci all’interno non di un discorso meramente affettivo, ma di quella dinamica sociale mossa dal meccanismo denuncia/rinuncia che abbiamo già visto in precedenza: Alcuna volta non volemo perdonare perché volemo haver qualche pagamento da chi ne ha prima offeso [...] alcuna volta dicemmo di non voler perdonare, perché vedemo lo animo dello avversario nostro che non ci dimanda la pace per essere in pace con noi, ma sol per fuggire qualche pena dalli officiali, overo per poterci poi più comodamente offendere sotto pace51.

Pagamenti per concedere la rinuncia; rischio, concedendola, di rendere più facile all’avversario una sua eventuale vendetta: sono questioni che abbiamo più volte incontrate in vicende attestate dal tribunale bolognese, e che introducono dunque un elemento fortemente concreto all’interno di un tessuto di argomentazioni devote. Sono considerazioni, quelle del Crispolti, che alla fine tendono comunque a sconsigliare il ricorso alla giustizia. ne; il riformatore cita il passo paolino in questione sia in Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca che in Sulla guerra dei contadini (Lutero, Scritti politici, a cura di L. Firpo, UTET, Torino 1949, pp. 209, 457), ma nel primo caso per difendere il diritto consuetudinario rispetto a quello imperiale, nel secondo per ricordare ai contadini l’obbligo evangelico di non resistere all’oppressore. 50 La seconda parte dell’opere di M. Tullio Crispoldo cit., pp. 138-139. 51 Ivi, p. 163.

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Fabio Fabrazzo al tribunale del perdono In quest’ottica che mescolava il piano etico a quello giuridico rivolgersi al tribunale poteva insomma essere considerato inopportuno, ed esser giudicato preferibile un accordo privato che conducesse al perdono. Un processo bolognese del 1602 esemplifica con evidenza questa scelta, e fa emergere una sorta di giudizio privato che si è concluso appunto con il perdono della parte lesa. Il 21 novembre il massaro di Minerbio denuncia che «sabato prossimo passato a tempo di notte è stato smerdato con sterco di christiano il martello da battere alla porta di Giovanni Clesini»52. La «stercorazione» era un comportamento tutt’altro che raro: poteva colpire i predicatori che suscitano dissenso nella comunità (come quel fra’ Serafino Aceti da Fermo che a Modena, nel 1539, ebbe appunto «il pergolo immerdaciato»53) ma anche le prostitute, come accadde a Bologna nel febbraio 1630 a Ginevra Beretta e Julia detta la Brutta54; sempre a Bologna nel 1622 e nel 1630 coinvolgerà immagini sacre, e a questa seconda data si confonderà con la pratica delle unzioni pestifere55. Si trattava comunque di una pratica fortemente infamante, usata a tutti i livelli della società (si ricorderà la «caraffa de sterco»56 fatta rovesciare da Gian Giacomo Trivulzio su Cornelio Bentivoglio nel 1541). Viene quindi sospettato per i suoi precedenti un tal Fabio Fabrazzo, che qualche mese prima aveva attaccato cartelli infamatori alla porta della canonica di Minerbio contro due preti, don Antonio e don Marcantonio. Cartelli e scritte infamanti contro membri del clero avevano anch’essi una lunga tradizione; erano stati usati in passato a fini di propaganda religiosa anASB, Torrone, 3439, c. 7r. Tommasino Lancellotti, Cronaca modenese, vol. VI, Fiaccadori, Parma 1868, p. 205. 54 ASB, Torrone, 5729, c. 48r. 55 A. Pastore, Criminalità e giustizia in tempo di peste nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 105-109. 56 Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., p. 1008. 52 53

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tiromana e facevano parte comunque di una modalità di satira anticlericale57 che, sia pure ormai contenuta dal disciplinamento tridentino, riemergeva egualmente in qualche circostanza ed era in tal caso oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità. A questo punto infatti l’interesse dell’Uditore si sposta su quest’ultima vicenda concernente i due sacerdoti di Minerbio e sino a quel momento non pervenuta a conoscenza del tribunale; viene ascoltata una persona informata dei fatti che racconta il rinvenimento dei cartelli (di cui non viene riportato il tenore) e gli avvenimenti successivi, di cui è stato testimone compartecipe: Il giorno seguente fui chiamato in casa del detto Rettore Basso in presenza sua con tutti detti testimoni e del maestro di scola che ha nome Andrea, dove venne in camera del detto Rettore Fabio Fabrazo da Minerbio, il quale disse e confessò di havere fatto quel cartello et domandò perdonanza alli detti preti, i quali dissero che gli perdonava, et questo è quanto io so58.

In precedenza, racconta il teste, erano state anche svolte indagini per accertare l’autore del cartello per mezzo di una sorta di perizia grafica, seguendo quella che del resto era la prassi comune giudiziaria per i processi per «libello famoso»: uno dei due sacerdoti offesi aveva mostrato in giro l’ultima riga dello scritto («Intendami chi può, che m’intendo io»), chiedendo ed ottenendo che venisse identificata la grafia dello scrivente59. Era stato svolto insomma un vero e proprio processo informale, che dopo le indagini aveva visto un giudizio svolto davanti ad un giudice, impersonato in questo caso dall’ecclesiastico in maggior grado della comunità, ed alcuni testiCfr. di chi scrive Rinascimento anticlericale cit. ASB, Torrone, 3439, c. 8r. 59 Ivi, c. 10v. Sulle perizie grafiche eseguite abitualmente nei processi tenuti al tribunale del Torrone per libelli famosi cfr. Evangelisti, Accepto calamo, manu propria scripsit cit. 57 58

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moni; era un giudizio teso però non alla condanna del colpevole, bensì al suo pentimento (certo non definitivo, come si è visto), e non alla «soddisfazione» della vittima, bensì al suo perdono, non diversamente da quello che era lo scopo del tribunale della confessione60. C’era insomma la volontà da parte dei preti di Minerbio di ottenere in qualche modo giustizia e soprattutto la cessazione del danno, ma senza accostarsi al tribunale. È in fondo un’attitudine non molto diversa da quella di quei nobili che rifiutavano anch’essi l’intervento dei pubblici poteri in faccende percepite come private, preferendo risolverle con la violenza; in questo caso la soluzione alternativamente scelta è quella del perdono, ma siamo comunque all’interno di quella «giustizia negoziata» che la società d’antico regime considerava come prioritaria e preferenziale rispetto a quella «statale». Però l’istanza religiosa è qui, ovviamente, prevalente: anche se a conclusione del processo vengono presentate due separate rinunce a favore del Fabrazzo, una da parte del Clesini, l’altra dai due preti offesi dal libello, che al di là della loro volontà avevano comunque visto approdare in tribunale la loro vicenda. Pace o perdono? L’intreccio del livello giudiziario con quello religioso non era però sempre agevole. Poteva accadere che i due aspetti si ponessero in conflitto; o meglio, che i tentativi di mostrare l’equivalenza fra il perdono cristiano e la pratica della pace e/o rinuncia fallissero e venissero contrastati. È quanto accade nel febbraio 1603 nella località di Sant’Alberto di Piano verso il Ferrarese. Il 24 febbraio61 Agostino 60 Tale almeno la valutazione del sacramento della confessione di J. Delumeau, L’aveu et le pardon. Les difficultés de la confession XIIIe-XVIIIe siècle, Fayard, Paris 1990. Ma vedi, per una diversa ottica, Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio cit. 61 ASB, Torrone, 3445, cc. 251r-252r.

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Roncarati denuncia Francesco Birani per percosse e bastonate alla sorella di Agostino, Domenica, che versa perciò in pericolo di vita. Era presente il massaro della comunità, Pellegrino Longarelli, che così sintetizza gli eventi: «Una parola tira l’altra, tanto che detta Meniga gli disse becco cornuto, et detto Francesco [...] gli menò una bastonata [...] per il mostazzo»62. Ulteriori testimonianze chiariscono meglio l’accaduto. Il sabato precedente, racconta la cognata Angela, moglie di Agostino, Domenica era andata a trovare la propria sorella Natalia, che era vicina a partorire; Francesco Birani, di cui Natalia e il marito erano affittuari, l’aveva però scacciata picchiandola e dicendole che non voleva vederla in casa sua, onde che detta Domenica mia cognata senza far altro andò alla volta del massaro per dirli come Francesco Birano gli aveva dato delle pugna acciò facesse la denuncia, et il massaro disse che l’havaria fatta [...]. La mattina seguente poi, che fu domenica passata a mattina, tornando io da messa assieme con Domenica mia cognata, incontrassemo per strada il massaro [...] et esso massaro disse a detta Domenica mia cognata «Oh ben, Domenica, voglio che tu facci la pace a Francesco Birani», et lei rispose che farebbe quel tanto vorrebbe Agostino suo fratello et non altrimente63.

Il massaro tenta dunque di interporre i propri buoni uffici in favore del Birani, ma inutilmente. Il pomeriggio, tornando dai vespri, Angela e Domenica avevano incontrato di nuovo il massaro insieme al Birani «che andavano alla predica in San Pietro in Casale» (un intreccio di pie pratiche che emerge spesso dalle testimonianze del Torrone: come abbiamo già visto, la frequentazione delle occasioni devote era considerata un segno sicuro di affidabilità). In quell’occasione il massaro aveva insistito di nuovo con Domenica perché facesse la pace con il Birani, pur non avendo in realtà presentato la denuncia della donna, come si era impegnato a fare: del resto lo 62 63

Ivi, c. 252v. Ivi, c. 255r-v.

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scopo della pace non era quello di interrompere procedimenti in atto, ma di sanare radicalmente un conflitto. Domenica aveva risposto insultando il Birani con una bella varietà di epiteti («brutto can becco cornuto ladro»64); e questi, infuriato, l’aveva colpita sul volto con un bastone ferrato grosso come il braccio d’un uomo, massacrandola. La donna era stata portata in casa della madre, dove anche il notaio del Torrone aveva tentato di interrogarla nel letto in cui giaceva incosciente, o almeno incapace di parlare. Tre giorni dopo Agostino Roncarati si ripresenta in tribunale con una nuova denuncia. Tali Alfonso Nannini ed Ercole Sassoni, bolognesi, assieme a due notai pure della città (Ottaviano Mainetti ed il suo sostituto) sono andati «con astutie e inganno» a casa di sua madre Maria, dove Domenica veniva curata, tentando di ottenere che essa desse la pace al Birani. In quel mentre era intervenuto il prete della comunità, don Virgilio. Questi, seguendo quello che del resto era il suo obbligo, s’accostò a mia sorella a letto ricercandola delle cose della Chiesa, particolarmente li disse si perdonava a Francesco che l’haveva offesa. Essa disse di sì, et allora il detto Mainetto voltandosi verso li sodetti et li dissi: ‘Signori, siate testimonii come qualmente la Domenica qui si contenta et fa la pace et renuntia a Francesco Birani, et io sarò notaro rogato’, et partitosi tutti quattro unitamente d’accordo ordirno una trama di furbaria, et concertorno fabbricare uno instrumento che contiene qualmente Domenica a requisitione et peti[ti]one del detto don Virgilio ha fatto pace et renuntia a Domenico Birani [fratello di Francesco, che sarà in effetti assolto], il che non è vero, ché il nostro prete non ha mai ricercato mia sorella né alcuno di noi a far tal pace, solo ricercò mia sorella che perdonasse a Francesco Birani.

In effetti il Rituale romanum prescriveva al sacerdote che si fosse trovato ad assistere un morente di aiutarlo ad esprimere la sua adesione ai valori cristiani facendogli alcune do64 Tanto almeno in base a quanto dichiarato dallo stesso Birani il 1° marzo: ivi, c. 278r.

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mande, a cui il fedele doveva rispondere con un semplice assenso. Fra esse venivano proposte le seguenti, che il sacerdote doveva fare con parole sue: Perdoni di cuore tutti coloro che in qualunque modo ti sono stati molesti, ostili o avversi? Perdoni tutti i tuoi nemici che in qualche modo hanno nociuto con parole o azioni a te o ai tuoi, per amore di quel Dio dal quale anche tu speri di ottenere il perdono dei tuoi peccati, e questo non solo a parole, ma di cuore e con ferma volontà? Sei pronto a tornare in buoni rapporti con i tuoi nemici, avendo allontanato dal tuo animo le vecchie ostilità?65

Più o meno dovevano essere state queste, dette forse più brevemente, le parole di don Virgilio. Il notaio però aveva interpretato l’assenso di Domenica – che era ovviamente obbligata a darlo all’interno della ritualità che precedeva la morte – come un deliberato consenso alla pace, e aveva iscritto il prete fra i testimoni: «e lui [don Virgilio] dice si meraviglia di tal fatto, essendo che egli non ha mai ricercato né Domenica né altri per tal fatto»66. La testimonianza di Agostino è significativa, perché mostra la confusione costante e ricercata tra il perdono cristiano e la prassi processuale, l’uso furbesco che poteva esserne fatto da parte dei rei, il coinvolgimento del clero in ciò, e nello stesso tempo l’ostilità che poteva essere interposta di fronte a tale confusione. Nel caso specifico la protesta del fratello della vittima non significava affatto un rifiuto radicale ad accordarsi, ma, probabilmente, solo la reazione di fronte alla «trama di furbaria» organizzata dai notai bolognesi e l’aspettativa mancata di ricevere un risarcimento. Vediamo infatti che due giorni dopo, dopo la morte di Domenica (la descrizione del suo cadavere ci mostra, con la caratteristica fredda esattezza di questi documenti identificativi, una donna di circa 35 anni di media statura, che indossava «camisa di tela di caneva, un busto 65 66

Rituale romanum cit., pp. 380-381. Ivi, cc. 273r-274r.

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di saia negro, maniche di grossograno verde trinciate, stanella bianca»67), Francesco Birani venne arrestato e gli fu consegnata copia del processo perché organizzasse la sua difesa; un buon numero di testimoni certificarono, secondo il solito schema, che l’uomo frequentava i sacramenti, andava ai vespri e a messa «come fanno li buoni christiani», e che d’altra parte non avrebbe picchiato Domenica se lei non lo avesse insultato, ed erano insulti che obbligavano ad una rivalsa («un che fa conto del honor suo sempre si vendicarà di quelle parole»68: l’onore non era solo faccenda dei nobili). Infine il 19 marzo il procuratore del Birani produsse un «instrumentum pacis et renuntie» che non ci è rimasto, rilasciato il 10 marzo da Agostino Roncarati e rogato da un notaio bolognese (non lo stesso che aveva spiato il colloquio fra il prete e la morente). Il 29 marzo il Birani presentò supplica d’essere liberato e il 2 agosto il vicelegato concesse la grazia69. Il ruolo degli ecclesiastici Don Virgilio aveva ricusato ogni responsabilità nell’intrigo, ma in effetti il suo ruolo era stato quantomeno ambiguo nel presentarsi al capezzale di Domenica contemporaneamente ai notai e agli altri testimoni. Di fatto era un dato costante che quando un procedimento giudiziario era stato avviato le paci venissero ricercate attivamente e concretamente da parroci e predicatori nel corso della loro opera, ed era spesso un edificio sacro il luogo in cui esse venivano concluse, a Bologna e altrove: così nella Fontanabuona del Seicento le paci si celebravano davanti all’altare della Vergine dei Miracoli nella chiesa di San Giovanni Battista di Cicagna70. 67 Tale la deposizione del notaio che il 28 febbraio ne certificò la morte: ivi, c. 275r. 68 Ivi, cc. 283r, 285v. 69 Ivi, cc. 303v-305v. 70 Raggio, Faide e parentele cit., p. 247.

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Ma altri casi similari non mancano: come abbiamo visto, Giulio Benedetti e Giacomo Fabro convocano Pellegrino Zaniboni, per chiedergli di rinunciare alla querela contro il cognato, nel convento dei Servi di Budrio71; il 5 marzo 1603 Cornelia Amici viene invitata dal suo parroco, per stendere una rinuncia, a recarsi nella chiesa parrocchiale di Borgo Panigale72. Il ruolo del parroco, dopo il concilio di Trento e la nuova normativa sulla registrazione di battesimi, matrimoni e funerali, si è andato del resto assimilando a quello del notaio e come tale viene percepito: quando un contadino di Granaglione, una località della montagna, decide di ritirare la denuncia avanzata contro un compaesano che l’aveva assalito con una «mannara» (una roncola) mentre ripuliva un fosso in un suo castagneto, è al rettore della chiesa che si rivolge per stenderla, «per non havere comodità di nodaro publico»73. Il senso forte della comunità parrocchiale come luogo della composizione dei conflitti – intesa dunque in senso non solo religioso, ma anche come comunità di vicinato – emerge anche da un testo che vede il curato di San Martino di Bertalia certificare la pace e rinuncia (i due termini, come spesso accade, sono accostati) fra due suoi fedeli alla presenza di altri due parrocchiani; dove l’insistenza è appunto sul rapporto esistente fra il parroco e il suo gregge, un rapporto tale da attribuire in qualche modo al rettore della chiesa funzioni di pubblico magistrato: Alli 13 de maggio 1590 Faccio fede io Don Pietro Gerardi retore di S.to Martino da Bertalia a vuoi S.re Auditore et notari del Torone di Bologna come Cfr. sopra, pp. 58-60. ASB, Torrone, 3440, c. 94r. È probabile, però, che tutte le paci e rinunce mediate da un sacerdote avessero luogo all’interno di un edificio sacro: cfr. per esempio Appendice I, 6. 73 Appendice I, 32. 71 72

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Giambatista Martignole mio parochiano rinoncia ogni e qualonque querella quale lui havesse formatta overo da altri fusse stata formata avante le Signorie Vostre contra Gianino Brugnole ancora egli mio parochiano et hano fatte pace insieme de ogni rissa et parole che fusero statte fra lore, et di novo si renunciano luno all’altro ogne querella avante a vuoi formata et di questo ne facio piena fede presente Tiseo Brocio mio parochiano, et Luca Frabbe ancora egli mio parochiano. Ego idem Petrus Gerardus74.

E si noti che la vicenda che aveva dato origine alla querela era davvero di sapore poco chiesastico: a un ballo un giovane aveva invitato a danzare una ragazza, che aveva rifiutato, accettando però successivamente un altro ballerino. Il giovane respinto aveva reagito commentando ad alta voce: «Se bene ci sono state delle donne che non hanno voluto venire a ballar meco io gli ne incaco allora»75, suscitando così la reazione dei fratelli della ragazza. Si trattava di una offesa all’onore della famiglia che aveva richiesto l’intervento autorevole del parroco e di altri due vicini per essere sanata. In ogni caso un ecclesiastico non poteva esentarsi dal prestarsi attivamente per ottenere la pace o la rinuncia a procedere fra due contendenti. Diversi esempi di quest’attività emergono in effetti dalle rinunce bolognesi. La più significativa è probabilmente quella che abbiamo visto all’inizio del capitolo, che vede ben tre ecclesiastici – più un quarto che sottoscrive anch’egli la rinuncia – presenziare alla stesura di questo atto sollecitato espressamente da uno di essi, il predicatore cappuccino Carlo dal Finale, a nome dell’anima del padre dei primi firmatari. Accanto alla rinuncia e alla pace – termini che abbiamo già visto uniti – qui constatiamo anche il perdono: il testo ha una forte coloritura religiosa che non avevamo quasi mai incontrato nelle altre rinunce già 74 75

Appendice I, 15. ASB, Torrone, 2277, c. 72r.

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esaminate (una notevole eccezione, come abbiamo visto, erano i termini della pace concessa da Nicolò Maria Ghislieri e di suo figlio agli Isolani), pur essendo stato generato presumibilmente da quelle stesse esigenze di pace sociale e di compattezza politica della nobiltà cittadina che animavano l’Assunteria delle paci, fra i cui atti esso si trova collocato. Altre meno significative rinunce sono redatte, come si è già detto, da sacerdoti, in genere i parroci dei contendenti, che si premurano talora di sottolineare che i loro parrocchiani «sono pacificati insieme da buoni christiani»76; di un’altra, redatta per mano del notaio Filoteo Sarti da Crevalcore, sappiamo per bocca del suo beneficiario che «fu il Prevosto di Crevalcore che me la fece fare»77. Il ruolo del sacerdote detentore della cura di una comunità emerge anche da un testo che potremmo definire «dichiarazione di mancata rinuncia»: il curato della chiesa di Sant’Andrea nel comune di Sesto nella pianura bolognese dichiara essergli stato richiesto di ottenere la rinuncia di una querela (il querelato, dopo uno scambio di insulti e minacce, aveva rotto un bastone sulla testa del denunciante), ma inutilmente: «rispose detto Manfredo non lo voler fare, dicendo ‘jo non mi impazo con luj’»78. La mediazione dunque fallisce, ma è comunque al parroco che si era ricorso per conseguirla, né, fallito questo, risultano altri tentativi. Gli ecclesiastici, regolari o secolari che fossero, non erano peraltro le uniche figure religiose a occuparsi di paci. Uno degli scopi delle confraternite era sovente proprio quello di sanare le dispute interne fra i loro iscritti: gli statuti dell’arciconfraternita romana del SS. Crocefisso di San Marcello prevedevano la nomina a vita di due personaggi illustri che avrebbero dovuto sedare i conflitti tra i membri della confraternita con l’aiuto di due nobili e due artigiani eletti per Appendice I, 32. ASB, Torrone, 2304, c. 415v. 78 Appendice I, 42. 76 77

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la durata di quattro mesi79. Talora venivano eletti «paciali» durante i periodi di lotte civili, ed inoltre erano colpiti con pene simboliche, ma significative, quanti fra i membri anziché seguire le procedure previste si fossero rivolti al tribunale; gli «ordini» della confraternita milanese della Gloriosa Vergine Maria di Consolazione, stabiliti nel 1570 sotto la vigilanza di Carlo Borromeo, prescrivevano che nessun membro della Compagnia muovesse lite contro qualcuno senza essersi previamente rivolto ai Priori, che entro dieci giorni avrebbero dovuto accomodare la questione80. I rituali previsti per la pacificazione seguivano le formalità che abbiamo già avuto occasione di constatare: gli statuti della confraternita bolognese di Santa Maria Maddalena, che risalivano al 1514, stabilivano che i confratelli che avessero avuto occasione di disputa fra loro avrebbero dovuto chiedersi reciprocamente perdono, darsi la mano e baciarsi in presenza dell’assemblea81. Anche nei baliaggi della Svizzera italiana non era infrequente fra Cinque e Seicento che fossero le confraternite ad impegnarsi a risolvere i conflitti della comunità, evitando consapevolmente il ricorso al potere giudiziario; a Dalpe, in Val Leventina, la Confraternita della Cintura assunse la moderazione dei conflitti come suo compito istituzionale: «i confratelli – dichiarava il parroco nel 1754 – s’obligarono unitamente uno per uno, e tutti per uno, d’assistere e moderare con fraterna carità chiunque avesse tra loro versione di lite, senza che niuno osa prima far atti di giustitia, ma debba 79 Ch.F. Black, Le confraternite italiane del Cinquecento. Filantropia, carità, volontariato nell’età della Riforma e della Controriforma, Rizzoli, Milano 1992, p. 111. 80 Ordini della confraternita della Gloriosa Vergine Maria di Consolazione transferta nella chiesa collegiata di S. Stefano in Brolio, in Acta Ecclesiae mediolanensis, a cura di A. Ratti, III, «ex typographia Pontificia Sancti Josephi», Milano 1892, col. 1307. 81 Weissman, Ritual Broterhood cit., pp. 89-90; N. Terpstra, Lay Confraternities and Civic Religion in Renaissance Bologna, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p. 135.

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prima presentarsi al signor Priore»82. Dove è interessante percepire come il ricorso alle istituzioni giudiziarie venisse letto, sia nella Bologna rinascimentale che nella Val Leventina del Settecento, come atto contrario agli scopi di «fraterna carità» connaturati a società laicali a finalità religiose e di solidarietà sociale quali erano le confraternite – oltre che di pregiudizio al pubblico bene. Emergeva insomma ancora una volta come fosse considerata «giustizia in primo luogo quella comunitaria locale, destinata a risolvere i conflitti tra vicini», mentre l’azione delle giurisdizioni pubbliche veniva considerata «come residuale, interinale e ultima istanza»83, oltre che discordante dalle esigenze dell’amore cristiano. Il vescovo Paleotti e la Congregazione della Concordia L’attività informale delle confraternite poteva trasformarsi in una vera e propria magistratura, il cui scopo era, sostanzialmente, proprio quello di evitare il ricorso ai tribunali. È quanto avvenne nella stessa città di Bologna durante l’episcopato del cardinal Gabriele Paleotti, che tenne il governo di quella diocesi a partire dal febbraio 1566 sino alla morte avvenuta nel 1597. Sin dall’inizio della sua attività il Paleotti ebbe fra le sue preoccupazioni quella di sanare le situazioni di conflitto; già nella prima visita pastorale alle comunità della montagna, avvenuta nell’estate di quello stesso 1566, il vescovo – come raccontava in una lettera a Francesco Borgia il gesuita Francesco Palmio, che lo aveva accompagnato – aveva concluso molte paci84. Ma il suo punto di vista sull’argomento era assai più ampio. «Avertischa ogn’ecclesiastico di non convenire né fare convenire altri a tribunali secolari per cause così civili come 82 M. Fransioli, La confraternita pacificatrice di Dalpe, in «Valle Leventina», Almanacco 1967, p. 82. 83 Sbriccoli, Giustizia negoziata cit., p. 350. 84 Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti cit., II, p. 33.

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criminali, così proprie come d’altri, se non nei casi di ragione permessa», stabilì in un sinodo diocesano del 16 ottobre85. Una «Compagnia del Nome di Dio», creata nello stesso 1566 per combattere la bestemmia e lo spergiuro, ricevette in seguito l’incarico di sollecitare fra le confraternite bolognesi una prassi di composizione amichevole delle liti, proprio allo scopo di evitare il ricorso al potere giudiziario; secondo i privilegi concessi nel 1569 da Pio V, a coloro che si prestavano ad una riconciliazione, o favorendola o accettandola, venivano concessi 40 giorni d’indulgenza ogni volta86. Già allora, probabilmente, l’attività della Compagnia aveva dato luogo ad una congregazione, che riceverà poi il nome di Congregazione della Concordia. Ai suoi lavori partecipò per un certo periodo anche il Palmio, che ne scrisse al generale Borgia l’8 luglio 1570: Intervengo in una congregazione ordinata per accordar le differenze che nascono tra persone di confraternite spirituali quali, sì come sono molte in questa città, così vi nascono moltissime dissentioni, che alle volte causavano liti civili et criminali; et dapoi che fu fatta questa congregatione si sono levate le [liti] e discordie con questa via soave che ha dato e dà molta consolatione et edificatione a tutti quelli di dette compagnie et a tutta la città87.

Il risanamento delle discordie per via di composizione pacifica, limitando al massimo il ricorso alle aule dei tribunali, riceve in queste righe la sua formulazione forse meglio definita. Nel frattempo anche Carlo Borromeo – con cui il Paleotti era in costanti rapporti – aveva creato con finalità analo85 Ordinationi publicate nella Sinodo diocesana di Bologna alli 16 d’Ottobre MDLXVI, in Episcopale Bononiensis Civitatis et Diocesis. Raccolte di varie cose che in diversi tempi sono state ordinate da Monsig. Illustriss. Et Reverendiss. Cardinale Paleotti Vescovo di Bologna per lo buon governo della sua Città e Diocesi, Alessandro Benacci, Bologna 1580, c. 3v. Cfr. anche Gabriele Paleotti, Archiepiscopale bononiense sive de bononiensis ecclesiae administratione, «excudebat Aloysium Zanettum», Roma 1594, II, pp. 78-81. 86 Capitoli della Compagnia del santissimo Nome di Dio, ivi, c. 163v. 87 Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti cit., II, p. 33.

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ghe una Confraternita della Concordia, eretta nel 1571 nella chiesa milanese di Santa Maria della Fontana88. «L’intento della presente confraternita – recitavano gli Ordini – serà di levar le discordie et metter pace»89. Ciò si era reso ormai indispensabile: Horribile et miserando spettaculo è veder nel theatro del presente secolo li tragici avvenimenti de amici fatti nemici, de mariti et mogli separati, de parenti, padri et fratelli a metter mano nel proprio sangue et perseguitarsi fino alla morte, onde con lagrime et commiserationi si sentono d’ogni intorno calunnie, risse, discordie, liti civili e criminali, persecutioni, odii, rancori, questioni, ferite et uccisioni,

tutte cose che «turbano i populi, ruinano le città, tumultuano i regni, affliggono la santa Chiesa»90. È significativo che per il Borromeo una uccisione equivalesse per gravità ad una separazione coniugale o ad un processo: la percezione del rilievo sociale delle discordie è fortissima, e si accompagnava al rifiuto delle pratiche della giustizia statale, a cui veniva preferita radicalmente la pratica della transazione e dell’accordo grazie alla mediazione di persone d’autorità. A questo scopo i membri della confraternita avrebbero dovuto operare, «sperando nel aiuto de moderni principi ecclesiastici e secolari, et nelli nobili reverendi, et gentilhuomini della città». Per questo sarebbero stati registrati nella confraternita col nome di Protettori e Pacificatori tutti coloro, ecclesiastici e laici, «che per auttorità potranno ottener esse racconciliationi et paci»91. 88 Cfr. A. Turchini, «A beneficio pubblico e onor di Dio». Povertà e carità nella legislazione e nella pastorale della chiesa milanese, in La città e i poveri: Milano e le terre lombarde dal Rinascimento all’età spagnola, a cura di D. Zardin, Jaca Book, Milano 1995, pp. 191-252. 89 Ordini della Confraternita della Concordia fondata in S. Maria alla Fontana di Porta Tosa di Milano, in Acta Ecclesiae Mediolanensis cit., III, col. 1294. 90 Ivi, p. 1291. 91 Ivi, pp. 1292 e 1295.

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Incoraggiato da questo esempio, nel 1574 il Paleotti ottenne che Gregorio XIII trasformasse la Congregazione in una magistratura alla quale i cittadini dovevano presentarsi prima di adire il tribunale; in realtà il tribunale del Torrone continuò a funzionare regolarmente a pieno ritmo, anche per l’opposizione all’attività della Congregazione dei procuratori legali che tentavano di «sturbarla» in quanto essa sottraeva loro possibilità di guadagno, come risulta da un memoriale del Paleotti al governatore Giovan Battista Castagna92. Comunque la Congregazione, che venne formalizzata con due editti di Gregorio XIII del 24 dicembre 1574 e del 10 gennaio 1578, si diede nel 1575 le modalità con cui doveva operare in forma assai minuziosa. Ogni giorno lavorativo i membri della Compagnia del Nome di Dio dovevano trovarsi in vescovato per ricevere il pubblico; il martedì, giovedì e sabato venivano esaminate le difficoltà insorte, soprattutto con l’aiuto dei membri giuristi e procuratori, che quindi venivano invitati ad esser presenti con particolare sollecitudine. Chi ricorreva alla Compagnia veniva introdotto ed esponeva il suo caso, presentando un breve memoriale; chi non era in grado di produrlo veniva assistito. Ciascuno veniva ascoltato «senza scandolo et biasmo»; il suo caso veniva registrato ed affidato a due Assunti che dovevano curare la questione: gli Assonti [...] si essortano ad essere patienti in ascoltare, diligenti in esaminare, et solleciti in conferire, mantenendosi pieni di cha92 Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti cit., II, pp. 189-191; Celso Faleoni, Memorie historiche della Chiesa bolognese e suoi pastori libri VI, Giacomo Monti, Bologna 1649, p. 608, parla a questo stesso proposito della «canina avidità» di giudici e avvocati, ostili per questo all’azione della Congregazione. Sul «sinistro procedere» dei procuratori bolognesi, che proprio durante gli anni ’70 vengono ripetutamente accusati di approfittare del proprio ruolo per angariare i loro clienti e protrarre le liti all’infinito, cfr. C. Evangelisti, Gli «operari delle liti»: funzione e status sociale dei procuratori legali a Bologna nella prima età moderna, in Avvocati medici ingegneri. Alle origini delle professioni moderne, a cura di M.L. Betri e A. Pastore, CLUEB, Bologna 1997, pp. 136-139.

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rità et compassionevoli alli afflitti: conoscendo le cause senza processi et rigore di ragione, ma de bono et aequo, cerchino con equità e piacevolezza indurre le parti alla concordia, né mai si lassino intendere del parer suo fin che non hanno per buona diligentia fatta già maturato la causa, et disposte le parti di contentarsi di quanto a loro parerà di giudicare93.

Non erano solo le cause presentate dagli interessati ad essere l’oggetto dell’attenzione dei membri della Compagnia; essi dovevano prevenire anche le situazioni di turbativa urbana di cui avessero avuto notizia indiretta: Presentandosi qualche notabile inimicitia o lite nella città, della quale fosse per nascere perturbatione et danno grande, tanto publico quanto privato, gli signori Presidenti deputeranno Assonti sopra ciò, quali s’adopraranno con ogni sforzo et potere loro di quietar e concordare quanto prima ogni romore, strepito et causa che potesse indurre simili cattivi et perniciosi eventi94.

Riconosciamo qui, sia pure in embrione, le procedure «piacevoli» e «delicate» che verranno consigliate pochi anni dopo dal bolognese Albergati esattamente allo stesso scopo. Certo il punto di vista dal quale il Paleotti partiva (ancor più che il Borromeo) era almeno parzialmente diverso; non si trattava tanto, nella sua ottica, di ricercare «il ben civile», quanto di salvare l’unità e la concordia all’interno di ciascuna comunità cristiana, nelle confraternite come nella città. Di fatto, la Congregazione della Concordia era ancora attiva nell’età di Sisto V; aveva dodici componenti, scelti per ogni quadrimestre dal Senato bolognese fra le diverse categorie sociali95, e rappresentava probabilmente un antecedente dell’Assunteria delle paci di cui è parlato in precedenza. 93 Capitoli et regole sopra l’audire, trattare, et concordare lite et diferentie per gli huomini della Compagnia del Santissimo Nome di Dio di Bologna, Alessandro Benacci, Bologna 1575, c. 3r. 94 Ivi, c. 4r. 95 Gardi, Lo Stato in provincia cit., p. 423.

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La tenace volontà del Paleotti di allontanare ad ogni costo i bolognesi dai tribunali emerge anche da una lettera pastorale emanata il 20 dicembre dello stesso anno 1575. In essa egli ricordava come l’attività della Congregazione della Concordia non concernesse «le cause già introdotte, et pendenti nelli tribunali, delle quali si trova numero grande». Auspicava perciò che tra li nostri gentilhuomini et altre persone di sufficientia nascesse questa santa emulatione di abbracciare chi due et chi più di queste cause, et procurare di accomodarle [...]. Medesimamente sarebbe officio cristiano che alcuni gentilhuomini et persone d’authorità pigliassero volentieri carico di pacificare altrui nelle cause criminali et altre d’importanza per quiete delle famiglie, da distribuirsi per quartieri della città, et anchora in ciascuna parrochia fossero alcuni deputati per ovviare con destrezza alle differenze et scandali che sorgessero in esse96.

In quelle «persone d’authorità» che vengono invitate ad adoperarsi «con destrezza» per accomodare le cause criminali «per quiete delle famiglie», riconosciamo immediatamente i mediatori che abbiamo tante volte incontrato fra le carte del Torrone, e per esempio quei tali Alfonso Nannini ed Ercole Sassoni che abbiamo visto al capezzale di Domenica Roncarati. Gli strumenti della pace e della rinuncia non vengono qui menzionati; ma non c’è dubbio che i volenterosi gentiluomini a cui il Paleotti faceva appello non potevano se non ricorrere a quei rituali. Assoluzione e rinuncia Non che la conclusione del rituale fosse agevole, anche quando a interporsi era una «persona d’authorità» o un sacer96 Ordini e provisioni pertinenti a varie cose, in Episcopale Bononiensis Civitatis cit., c. 241r.

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dote: sappiamo che l’incidenza della conflittualità interpersonale nella comunità permaneva anzi così intensa da costituire una delle cause principali dell’astensione dai sacramenti nel tempo pasquale, soprattutto in aree montane, a Bologna come altrove, mentre la registrazione dell’avvenuta confessione valeva come «actus iudicialis» che attestava la composizione di una lite97. «Se io mi son confessato, a chi volevo male gli ho perdonato», dichiarò nel maggio 1581, sottolineando il rapporto consequenziale fra il sacramento e il perdono (e quindi la cessazione del conflitto), un fabbro che era stato arrestato perché trovato in una via di Bologna con un martello di ferro in mano98. Infatti, come specificava esplicitamente il Rituale romanum, il sacerdote non poteva assolvere il penitente che non fosse disposto «inimici odium [...] deponere, vel illi humiliter veniam petenti dilectionis signa exibere» (a deporre l’odio per il nemico, e a mostrargli segni di affetto se questi veniva a chiedergli umilmente perdono); e prima di distribuire la comunione doveva ammonire i fedeli a riconciliarsi con coloro per i quali avessero avuto odio e inimicizia99. Tali situazioni dovevano essere assai frequenti: i resoconti delle visite pastorali ce ne danno continuamente conto. Fra i numerosi inconfessi in cui il vescovo di Bergamo Pietro Lippomano si imbatté nel corso della sua visita, c’era nella località di Zandobbio, il 10 marzo 1541, un tale «qual mai non si con97 P. Prodi, Una storia della giustizia: dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna 2000, p. 286. Come ha osservato Miriam Turrini (La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna, il Mulino, Bologna 1991, p. 99), il concilio di Trento fissa «un modello di confessione di tipo ‘giudiziale’, per il quale il sacerdote era tenuto ad emettere una sentenza, assolutoria o meno, e ad imporre adeguate penitenze». Cfr. anche, per una casistica, Bossy, Dalla comunità all’individuo cit., pp. 12 e 65; G. De Sandre Gasparini, Vita religiosa in Valpolicella nella visita di Ermolao Barbaro, in «Annuario storico della Valpolicella», 1986/87, p. 81; Prosperi, Tribunali della coscienza cit., pp. 292 e 295. 98 ASB, Torrone, 1410, c. 42v. 99 Rituale sacramentorum romanum cit., pp. 262, 295.

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fessa né va mai in chiesa, et dice far questo perché gli è sta’ datto tosico, et che non vuol perdonar a quelli chi lo hanno toxicato». Il presunto avvelenato fu convocato per essere ammonito; ma «in suis deliramentis permansit et ceu stultus dimissus fuit pro nunc»100 (rimase nel suo delirio e come pazzo per il momento fu rimandato senza assoluzione): l’episodio, pur minimo, è però interessante per la concatenazione molto esplicita che propone tra l’episodio delittuoso, vero o creduto che fosse, il mancato perdono e la conseguente astensione da ogni contatto con lo spazio sacro e il sacramento della confessione. Quanto al vescovo di Brescia Domenico Bollani, durante la sua visita compiuta nei territori della diocesi tra il 1565 e il 1567 trovò che in ben tredici parrocchie vi erano fedeli che per Pasqua non avevano ricevuto i sacramenti a causa delle inimicizie che li dividevano; nella sua visita del 1566 alle comunità della montagna bolognese anche il Paleotti trovò un centinaio di fedeli che alla Pasqua precedente non si erano confessati, e che promisero di farlo dopo essersi pacificati per l’intervento del vescovo; e nel 1578 risultava che nella Fontanabuona ligure a causa dei conflitti fra le famiglie «sono mesi che non si dice messa»101. Talora poi i rancori fra paesani coinvolgevano gli stessi ecclesiastici e rendevano ancora più intricato il rapporto fra mancata pace e concessione dei sacramenti. In un processo bolognese del 1603 un certo Domenico Comastri detto Minghetto, abitante a Montasico, una località dell’Appennino, risultava aver cattiva fama perché non riceveva i sacramenti; interrogato, spiegò che c’era fra la sua famiglia e quella del prete una inimicizia non sanata da alcun documento di pace: È stato quel anno passato che non mi son comunicato, ma sì ben confessato qui a Bologna nelli Celestini [dunque evidentemente 100 Bergamo, Archivio della Curia arcivescovile, Visite pastorali, vol. VII, ff. 205r sg. Ringrazio Massimo Firpo che mi ha trasmesso questo documento. 101 D. Montanari, Disciplinamento in terra veneta, il Mulino, Bologna 1987, pp. 184-185; Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti cit., II, p. 33; Raggio, Faide e parentele cit., p. 188.

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non aveva ricevuto l’assoluzione], perché suo padre del prete si trovò alla morte d’un mio barba, et per questa cosa non ho avuto core a pigliar i sacramenti da lui, et un’altra volta fece dare a mio fratello delle bastonate, et non c’è pace, né negotta [= niente]102.

Una vasta esemplificazione di atteggiamenti dello stesso genere emerge anche dalla visita pastorale compiuta nel 1579-1581 nella diocesi di Trento dal vescovo Ludovico Madruzzo103. Peder «segador», della località di Romeno, dichiarò al proprio pievano di avere quell’anno disertato i sacramenti (si era nel 1581) per «esser stato ferito e oltragiato iniustamente contra il suo honore, per questo dice non potersi confessare e communicare sin tanto che li suoi adversarii con esso non si pacificarano»104. L’impossibilità di avvicinarsi ai sacramenti in tale situazione viene presentata come imprescindibile, e ci restituisce fedelmente il punto di vista dei fedeli: anche a Cles un uomo, i suoi figli e un genero non si erano comunicati «per rispetto de la morte di un suo zener», e a Malé un padre e i suoi quattro figli non si confessavano da due anni in attesa della pace105. A fornire queste giustificazioni al vescovo sono gli stessi parroci, che con ogni evidenza condividono una tale ottica, e considerano quindi legittima in queste situazioni una dilazione nei tempi dell’adempimento del precetto pasquale. Perciò è addirittura il vicario generale che suggerisce di lasciar tempo ai fedeli in lite per riconciliarsi e quindi accostarsi ai sacramenti: se [il mancato adempimento del precetto pasquale] sarà per causa de inimicitiae, dovete cum prudenza e destrezza vostra statuirgli una ASB, Torrone, 3445, c. 147r. Cfr. C. Nubola, Conoscere per governare. La diocesi di Trento nella visita pastorale di Ludovico Madruzzo (1579-1581), il Mulino, Bologna 1993, pp. 407-411. 104 Ivi, p. 408. 105 Ivi, pp. 408-409. 102 103

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honesta dilation de tempo, che possiano e debbiano reconciliarsi cum l’adversario suo et confessarsi et communicarsi in breve106.

Qualche volta – come nel Bresciano – capitava che il vescovo ottenesse dai contendenti la promessa di confessarsi, ma la riconciliazione e il perdono che venivano contestualmente richiesti incontravano comunque molte resistenze, in quanto il comportamento seguito veniva considerato del tutto legittimo107. La dinamica sociale universalmente accettata tendeva a prevalere sulla norma pasquale. Dietro questi comportamenti, peraltro, non c’era solo la riottosità dei paesani; c’era anche un consistente dibattito teologico, che trattava appunto della liceità per un confessore di assolvere o meno un penitente che non avesse acconsentito ad accedere allo strumento giuridico della pace nei riguardi di un avversario. Per alcuni, segnalava Sebastiano Guazzini, la pace e simili erano atti esteriori, che competevano al bene civile, e non alla salute dell’anima108, pertanto non erano indispensabili per l’assoluzione. Il Guazzini menzionava a questo proposito i commenti del cardinal Caietano (Tommaso da Vio) alla Secunda secundae di Tommaso d’Aquino; questi si limitava a sottolineare come il cristiano dovesse al proprio nemico solo atti comuni di benevolenza, e non segni speciali, mentre Tommaso da Vio precisava che non era quindi obbligatorio «parlare ad una tal persona, salutarla, comprare, vendere, pranzare con costui»109: che erano per l’appunto i comportamenti che si riteneva provassero la pace («pax [...] probatur per salutationem factam verbo vel epistola», sosteneva, come si ricorderà, Ippolito Marsili110). Ivi, p. 411. Montanari, Disciplinamento cit., p. 185. 108 Guazzini, Tractatus de pace cit., Pars I, Quae. 4, p. 4. 109 Tommaso d’Aquino, Secunda secundae partis summae sacrosanctae theologiae, eredi di Giacomo Giunta, Lione 1562, Quae. 25, Art. 9; il commento del Caietano è a p. 98. 110 Marsili, Tractatus bannitorum cit., In verbo pace, n. 1. 106 107

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Per altri le cose erano un po’ più complicate. Ludovico Carboni parlando dell’obbligo di amare i nemici cominciava coll’ammettere che era lecito perseguire civilmente un reo in tribunale, se lo si faceva in modo corretto («agere contra reum in foro civili, si debito modo fiat»), e che, come diceva san Tommaso, al nemico si dovevano solo segni comuni di affezione111; però proseguiva rilevando che se la pace veniva chiesta doveva essere concessa, e concessa esplicitamente, davanti a testimoni; e se tali erano le usanze, si doveva dare una garanzia di non offendere, e insomma (concludeva il Carboni) se questa è la consuetudine, la pace dev’esser stipulata davanti al notaio, con una pubblica scrittura112, che diveniva dunque obbligatoria. Pertanto il confessore dovrà esortare i penitenti a lasciare le accuse contro i loro nemici, e dovrà essere cauto nell’assolvere coloro che non vogliono desistere dal perseguirli; è certo vera l’opinione che permette che l’offeso chieda la punizione del reo, tuttavia una tal dottrina non dev’essere diffusa fra il popolo («tamen ista doctrina non esset propalanda populo»), poiché metterebbe molti in prossima occasione di peccato113. La stessa progressione nel ragionamento può essere individuata nella Breve instruttione del domenicano Bartolomé de Medina, che ebbe sedici edizioni fra il 1581 e il 1600. Certo, chi ha ricevuto un torto di per sé può ricorrere alla giustizia (e in effetti Tommaso d’Aquino aveva affermato che era male perseguire la vendetta avendo come scopo il male di colui su cui veniva esercitata, ma era lodevole desiderarla per la correzione dei vizi e il mantenimento della giustizia114); quanCarboni, De pacificatione cit., pp. 127 e 143. Ivi, pp. 175-180. 113 Ivi, pp. 286-292. Il titolo del paragrafo è Quam difficile sit sine errore nocentem in iudicio persequi. 114 Quaestiones, IIa IIae, quae. 158, art. 1, ob. 3, cit. in M.M. Davy, Le thème de la vengeance au Moyen Âge, in La Vengeance. Etudes d’ethnologie, d’histoire et de philosophie, IV. La vengeance dans la pensée occidentale, a cura di G. Courtois, Cujas, Paris 1984, p. 132. 111 112

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do però qualcuno viene in confessione, «et dice, il tale mi fece questo aggravio et affronto, et dinanzi a Dio gli ho perdonato et non gli voglio male, ma ho a domandar giustitia, perché i peccati non restino senza castigo», il confessore dovrà allora premere perché il penitente esamini bene i propri sentimenti, in quanto l’insistere nel richiedere giustizia davanti al giudice poteva essere segno di «un rancore, un desiderio di vendetta non ben conosciuto, per lo quale non si compatisce che sia vero perdono appresso a Dio»115. Pertanto il confessore doveva ammonire il penitente a lasciare la querela – e quindi, aggiungiamo noi, a concedere la rinuncia – senza assolverlo finché non avesse veramente estirpato l’odio dal suo cuore. Le esigenze della giustizia negoziata sembrano dunque essersi fatte più robuste, nelle pagine del Carboni e del Medina, anche rispetto alle indicazioni stesse dell’Aquinate, che sembrava invece mostrarsi favorevole a quelle della giustizia egemonica. In modo anche più pertinente ed ampio la questione venne discussa dall’agostiniano portoghese Luís de Beja Perestrelo, che ebbe anche occasione di trattarla in una delle congregazioni diocesane sui casi di coscienza, tenute mensilmente a Bologna a partire dal 1577 davanti al vescovo, cardinale Gabriele Paleotti116. Il caso proposto ricorda da vicino le osservazioni di Bartolomé da Medina, che viene successivamente citato e che ha evidentemente ispirato la trattazione dell’agostiniano. La vicenda presentata e sottoposta alla discussione era la seguente: Antonio uccide il marito di Giovanna e pertanto viene bandito; le chiede la pace, offrendo ogni soddisfazione richiesta, ma la donna, pur dichiarando di non 115 Bartolomeo Medina, Breve instruttione de’ confessori, Bernardo Basa, Venezia 1587, c. 78r. Come risulta dai privilegi di stampa, l’opera era stata tradotta per la prima volta in italiano dallo spagnolo già agli inizi del 1582. 116 Luís de Beja Perestrelo, Responsiones casuum conscientiae, Tommaso Bozzola, Brescia 1588, pp. 28-42. Su di lui e sulle congregazioni bolognesi cfr. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti cit., II, p. 125, e Turrini, La coscienza e le leggi cit., pp. 38-39 e 156-157.

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avere alcun odio nei suoi confronti, rifiuta egualmente la pace e il condono, perché non vuole turbarsi rivedendo l’assassino del marito. La risoluzione del caso prevede che il sacerdote debba premere per una soluzione extragiudiziale dei conflitti («extra iudicium [...] satisfacere»). Quando il nemico si presenta con umiltà, e chiede di riconciliarsi, offrendosi di risarcire il danno procurato, iure eodem quo ille ad haec tenetur, teneris etiam tu manifesto et apud homines consueto pacis signo animum tuum aperire, et reconciliationem ac satisfactionem eius acceptare [...], et pacem [...] non verbis solum, sed in strumento et scripta fide concedere117 (per lo stesso diritto per il quale egli è tenuto a ciò, anche tu sei tenuto ad aprire l’animo tuo ad un segno di pace esplicito e consueto fra gli uomini, e accettare la riconciliazione e la soddisfazione di costui, e a concedere la pace non solo a parole, ma con un atto notarile scritto).

Dunque la pace andava concessa, e non solo a parole, ma con il debito strumento giuridico, come già aveva asserito il Carboni; ciò tanto più a Bologna, dove tale uso era largamente invalso. L’omicida – prosegue il de Beja Perestrelo – ha offeso Dio, lo Stato e te. Si riconcilia con Dio per mezzo della confessione sacramentale; con lo Stato per mezzo della pena inflitta da giudice in base alle leggi vigenti. Se soddisfa te, perché devi richiedere che il tuo nemico paghi fino in fondo la sua pena («ut inimicus solvat ad unguem per poenam iudicis»)? È di gran lunga preferibile che il reo per quanto può («pro suis viribus») soddisfaccia il querelante al di fuori del tribunale («extra iudicium»). In conclusione: la donna, se rifiuta la pace scritta e pretende di proseguire il processo, trasgredisce il precetto della ca117

Beja Perestrelo, Responsiones cit., p. 33.

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rità e commette un’ingiustizia; perseverando in questo suo pubblico rancore offre a chi ne è a conoscenza motivo di scandalo; se ella non vuole distaccarsi da questi «peccata mortifera», deve essere considerata impenitente e dunque le si dovrà rifiutare l’assoluzione: «tamquam impoenitens est a confessione reijcienda»118. Cornelia Amici, il cappellano e il massaro Era una indicazione certamente durissima per chi ne era l’oggetto, e non solo veniva quindi privato dei sacramenti, ma anche della positiva considerazione che la «pubblica voce e fama» concedeva, come abbiamo visto, a coloro che frequentavano regolarmente la chiesa; il controllo sociale soprattutto nelle piccole comunità era intenso, e non si poteva sperare che l’essersi astenuto dai sacramenti pasquali sfuggisse all’attenzione, spesso malevola, e comunque sempre vigile, del vicinato. Però il problema nel suo complesso, nel rapporto che poneva fra perdono, rinuncia, assoluzione, doveva essere comune: l’agostiniano conclude infatti la trattazione del caso osservando di essersi volutamente dilungato, in quanto si trattava di questione della massima importanza e non ben compresa da molti. La soluzione da lui proposta ebbe una notevole risonanza anche al di fuori degli ambienti ecclesiastici, tanto che la troviamo segnalata anche nella Pratica universale di Marcantonio Savelli119. Il rapporto tra il perdono, lo strumento di pace e l’assoluzione sacramentale era comunque cruciale e certamente doveva essersi posto già altrove e in periodo precedente: il 5 febbraio 1568 Stefano Aloisi, rettore della chiesa romana di San Tommaso in Parione certificava «di haver confessato m. Pompeo Beneincasa, scolare del colleggio Nardino [...] ferito, dicendo esser stato ferito da m. 118 119

Ivi, p. 41. Savelli, Pratica universale, p. 300.

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Nicolò Carciani pur scolare, al quale feci absolutione perché perdonò et promese far pace con detto m. Nicolò»120. L’assoluzione risulta evidentemente condizionata alla promessa della concessione della pace. È interessante vedere con quali modalità questo principio incideva sulla pratica comune e quotidiana. Abbiamo visto come nel febbraio 1603 don Virgilio si fosse presentato a Domenica Roncarati morente per chiederle di perdonare il suo uccisore; non è chiaro se egli intendesse con ciò chiedere anche la concessione della pace, ma di certo quel perdono venne immediatamente e furbescamente raccolto e piegato in tal senso da un notaio accompagnato da testimoni. Solo pochi mesi prima, alla fine di novembre 1602, Cornelia Amici della località di Borgo Panigale (oggi alla periferia di Bologna) aveva presentato una querela contro Andrea Stamarini che l’aveva picchiata con un bastone ripetutamente e senza motivo121; l’escussione delle testimonianze confermò le percosse, anche se lo Stamarini ebbe a giustificarle (come del resto aveva fatto l’uccisore della Roncarati) come una reazione agli insulti che aveva ricevuto. Il processo comunque si fermò per qualche mese, finché l’11 marzo la Amici si presentò al tribunale e depose come segue: Sabbato de matina [cioè il 5 marzo 1603] a bon’hora furno da me il mio prete don Gio. Battista che non so de quali cappellano nel Borgo et Ercole de Scannabissi massaro, et lì in casa mia me recercorno della renontia per la querela che feci ad Andrea Stamarini, che io dissi che non la volevo fare, ma volevo che fosse castigato; et loro me sforzorno con parole a farla, dicendomi che non me voleva confessare né communicare se non facevo questa renontia, anzi che me volevano far fare li precetti che io non me havesse da confessare, et me teneva detto se volevo fare questa renontia, et che dicesse de sì et che andasse alla chiesa, et me persuase tanto che ce 120 Cit. in Blastenbrei, Zur Arbeitweise cit., p. 442 nota 86. Notiamo che anche in questo caso siamo comunque all’interno dello stato della Chiesa. 121 ASB, Torrone, 3440, c. 89r.

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andai et la fece la renontia a modo loro, et me fece consentire contro mia voglia. Et perché il tutto ho fatto contro mio volere son perhò comparsa qua, et revoco et annullo detta renontia come quella da me fatta per forza, per paura che il prete non me volesse confessar più, facendo appresso instanza che questo Andrea non sia relassato se prima non dà segortà di non offendermi et refarmi anco le spese, et sia castigato conforme le leggi122.

Le pressioni del parroco e del massaro perché la Amici concedesse la rinuncia allo Stamarini erano pesanti, basate com’erano sulla minaccia del rifiuto della confessione, ma la donna restava recalcitrante. In realtà il 21 marzo l’Uditore, «stante qualitate facti, personarum, renontia de qua in filo, mandavit Andrea cancellari et ulterius non molestari» (date le caratteristiche del fatto e delle persone, e data la rinuncia che è stata depositata, ordinò che Andrea fosse cancellato [dalla querela] e non fosse più molestato)123. Il parroco e il massaro alla fine avevano dunque ottenuto da Cornelia che confermasse la rinuncia precedentemente rilasciata; la Pasqua era ormai vicina – quell’anno sarebbe caduta il 30 marzo – e il timore di perdere i sacramenti pasquali doveva avere prevalso nella donna sulla sua determinazione di avere giustizia. Però la deposizione ci dice molto egualmente: anche se la volontà che vi era espressa non aveva trovato compimento, assieme alle altre vicende già esposte mostra bene, ancora una volta, l’intreccio esistente fra pratica sociale, pratica religiosa e procedura giudiziaria, e come quest’intreccio tendesse a limitare le prerogative dell’autorità statale, che già il de Beja Perestrelo mostrava di posporre nettamente ai diritti dei privati e a quelli divini. Si noti inoltre come Cornelia unisca nel suo racconto le persone del massaro e del parroco senza sostanzialmente distinguerne i ruoli: «me recercorno della renontia [...] me sforzorno con parole [...] me volevano far fa122 123

Ivi c. 94r-v. Ivi, c. 89r, appunto a margine.

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re li precetti che io non me havesse da confessare». Nonostante la separazione che teoricamente esisteva ben netta fra i due poteri anche nello stato della Chiesa, il suddito/fedele aveva difficoltà a percepire concretamente le differenze di ruolo e di poteri esistenti fra «li superiori», come le autorità civili ed ecclesiastiche venivano indistintamente chiamate. Emerge poi l’insistenza del parroco, che evidentemente seguiva le direttive impartite sulla base di raccolte di casi di coscienza come quella del de Beja Perestrelo, e anche la renitenza dei fedeli a seguire tali direttive, in quanto essi, come abbiamo visto, consideravano la rinuncia come un mezzo per ottenere qualche vantaggio, mentre l’esito delle insistenze di «don Giovan Battista che non so de quali» non poteva essere che il vantaggio del denunciato. Si osservi infatti che ciò che Cornelia chiede innanzitutto è una «segortà di non offendermi et refarmi anco le spese»: cioè una forma di protezione dalla violenza dell’uomo (ricordiamo le parole di Tullio Crispolti a proposito di coloro che non vogliono perdonare perché l’avversario «non ci dimanda la pace per essere in pace con noi, ma sol per fuggire qualche pena dalli officiali, overo per poterci poi più comodamente offendere sotto pace») e l’assolvimento delle spese processuali. La rinuncia senza queste condizioni lasciava il denunciante in balia del denunciato: non possiamo meravigliarci della renitenza di Cornelia ad accettare questa soluzione. Probabilmente essa aveva cercato, ritrattando la sua rinuncia, di ottenere qualche maggiore vantaggio o garanzia. Se l’avesse ottenuta, o se il suo stratagemma fosse riuscito vano, ma non si sentisse comunque di rinunciare alla assoluzione pasquale, non possiamo saperlo.

Capitolo quinto LO SPETTACOLO DEL PERDONO Il ruolo dei gesuiti Anche le missioni degli ordini religiosi che attraversarono l’Europa durante la lunga Controriforma avevano fra i loro scopi principali quello di placare le inimicizie presenti nelle comunità che essi tentavano di portare ad una retta pratica di fede secondo i dettami del concilio di Trento1. Si trattava di una impresa difficile, e il problema principale, come leggiamo nella notizia che il cappuccino Charles de Genève ci ha lasciato delle missioni del suo ordine nella Savoia, nella Svizzera romanza e in Val d’Aosta, erano appunto i rancori, «les rancunes»2. Ma tutte le relazioni che ci sono rimaste ci parlano con eloquenza delle ostilità che dividevano e insanguinavano le famiglie, i villaggi e le stesse confraternite e comunità religiose. Furono soprattutto i gesuiti, sin dagli inizi della Compagnia, a lavorare con particolare zelo alla composizione dei conflitti3. «Multum studii et operis posuerunt in hoc ministerio 1

Cfr. su ciò in generale Châtellier, La religione dei poveri cit., pp. 154-

166. 2 Charles de Genève, Les Trophées sacrés ou les missions des Capuchins en Savoie, dans l’Ain, la Suisse Romande et la Vallée d’Aoste à la fin du XVIe et au XVIIe siècle, a cura di F. Tisserand, Société d’histoire de la Suisse romande, Lausanne 1976, III, p. 158. 3 Contrariamente a quanto afferma Bossy, Peace in the Post-Reformation cit. Cfr. invece, oltre a quanto si dirà di seguito, A. Prosperi, Il missionario,

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primi patres» (i primi padri misero molta fatica e molto lavoro in questo servizio), ricordava il padre Nadal negli anni ’70 del Cinquecento, commentando peraltro subito dopo: «Verum solet hoc munus difficile» (veramente questo di solito è un compito difficile)4. La difficoltà indubbia di quest’impegno derivava dall’intreccio delle finalità religiose perseguite con la complessità delle situazioni sociali e politiche che dovevano essere affrontate: le regioni in cui i padri lavoravano erano soprattutto quelle «Indie di quaggiù», montagnose o comunque isolate, in cui le faide mostravano una particolare virulenza, ma in cui peraltro la recettività delle antiche forme di giustizia negoziata era probabilmente maggiore. Di fatto i successi non mancavano e le lettere dei padri a Ignazio ce ne danno conto. Già nel 1540 Claude LeJay racconta di aver ottenuto molte riconciliazioni, con abbracci, confessioni e comunioni che non si facevano da molti anni, predicando la domenica delle Palme a Bagnoregio5. Gli abbracci erano in qualche modo una garanzia della durevolezza della pace; quanto alle confessioni e comunioni, erano anch’esse un effetto indiretto delle riconciliazioni, poiché come si è visto uno dei motivi princiin L’uomo barocco, a cura di R. Villari, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 213; Id., Tribunali della coscienza cit., pp. 642-649; D. Gentilcore, «Adapt yourself to the People’s Capabilities»: Missionary Strategies, Method and Impact in the Kingdom of Neaples, 1600-1800, in «The Journal of Ecclesiastical History», 45, 1994, pp. 269-296 (una versione italiana dello stesso articolo in «Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée», 109, 1997, pp. 689-722); P. Broggio, I Gesuiti come pacificatori in età moderna: dalle guerre di frontiera nel nuovo mondo Americano alle lotte fazionarie nell’Europa mediterranea, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 39, 2003, pp. 249-290; Id., Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Europa e America (secoli XVI-XVII), Carocci, Roma 2004, pp. 197-243; J.D. Selwyn, A Paradise Inhabited by Devils. The Jesuits’ Civilizing Mission in Early Modern Neaples, Ashgate, Aldershot 2004, pp. 183-209. 4 P. Hieronimus Nadal, Commentarii de Instituto Societatis Iesu, a cura di M. Nicolau, «Apud Monumenta Historica Societatis Iesu», Roma 1962, p. 862. 5 Epistolae pp. Paschasii Broëti, Claudi Jayi, Joannis Codurii et Simonis Rodericii Societatis Jesu, «Apud Monumenta Historica Societatis Iesu», Madrid 1903, p. 266.

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pali della mancata confessione e comunione pasquale era proprio la renitenza ad abbandonare le ostilità contro i propri avversari; perciò la pace con Dio e quella con i propri simili si legavano insieme in un nodo indissolubile. Nel 1545 Pascasio Broët predicò a Faenza, ed ebbe modo di rendersi conto dello spazio che occupavano le faide nella vita sociale e politica di tutta la Romagna nonostante l’attivarsi proprio in quegli anni dell’istituzione dei Pacifici, e quindi dell’importanza delle paci che potevano interromperle: In Faenza et in tutta la Romagna sono molti odii et rancori et molte partialità, cioè un parentado o una famiglia contra un’altra, ita che alcuni tali odii hanno già durato più de cento anni, et si fano spesso molti huomicidii, la qual cosa è grand [sic] pietà et molto horrenda da considerare.

La prassi che il Broët seguì per sanare la situazione faentina, e di cui diede relazione a Ignazio di Loyola, era quella comunemente seguita per ottenere le paci, prendendo contatto con figure eminenti della città nella ricerca di ottenere, per loro tramite, il consenso dei capi delle fazioni e il loro reciproco perdono di ogni torto minutamente descritto: Ho parlato con alcuni delli principali, prudenti et idonei, per saper pacificare tali discordi; et così per questo mezzo il Signore per sua bontà et misericordia ha pacificato insieme et con grand solennità nella chiesa maggiore più di cento uomini, quali hanno rimesso et perdonato l’uno a l’altro per amore de Christo nostro Signore gli huomicidii passati, ferite, ingiurie, et altri danni che sono seguitati per tali odii6.

Si capisce chiaramente che i padri acquistavano via via sempre maggior competenza nell’ottenere il fine desiderato, consultando esperti nella questione che potevano consigliarli al 6 P. Broët a Ignazio di Loyola, Faenza, 1° novembre 1545, ivi, p. 37. Cfr. anche la lettera successiva del 1° marzo 1546, ivi, pp. 38-39.

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meglio. Alcuni anni dopo il Broët si trovava ancora in Romagna, e una lettera inviatagli da Forlì da un tal Andrea Sassi consente di cogliere appieno questo tipo di interventi e la complessità delle pratiche che era necessario mettere in opera per concludere una pace. Il Sassi, evidentemente già pratico di faccende del genere, suggeriva al Broët come modificare la sua azione per renderla più efficace. Egli avrebbe dovuto ottenere da uno degli interessati, di cui non si fa il nome, una delega autenticata al proprio padre, che trattava la pace per il figlio. Il documento avrebbe dovuto consistere in un mandato in forma ampla, valida et autentica con le lettere della legalità del notario del luogho, in che costituisca suo procuratore o el padre o altro che li pare [...] a domandare et fare pace et in suo nome a promettere et obligare, etiam sotto pena pecuniaria grande et con sicurtà che, et non praticarà ne’ tali et tali luoghi per tanto tempo, et che non offenderà né farà offendere, né per sé, né per altro o altri, in persona, robba o honore le tale o tale persone, et come et chi piacerà ad esso suo procuratore7.

Riconosciamo qui le faticose trattative che abbiamo visto in opera a Bologna in anni non molto lontani da questi, benché un poco successivi: il ruolo dei mediatori e dei rappresentanti, la garanzia di non offendere. I gesuiti non rinunciavano dunque ad utilizzare anche questo tipo di pratiche, benché altre relazioni cerchino piuttosto di dar l’idea di esiti pressoché improvvisi e travolgenti di un ravvedimento sorto in modo quasi subitaneo dalla predicazione dei padri. Le missioni di Silvestro Landino È questa, almeno in parte, l’impressione che si ricava dalle lettere che raccontano le missioni del padre Silvestro Landino nell’Appennino toscano ed emiliano, dunque in territo7

A. Sassi a P. Broët, Forlì, 2 aprile 1549, ivi, p. 217.

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rio estense, dove il Landino si impegnò tra il 1547 e il 1551. Come egli stesso scriveva nel 1549 a Ignazio di Loyola descrivendo lo schema programmatico dell’attività sua e dei suoi confratelli, questa consisteva essenzialmente «in cercar eleemosine [sic] publiche, predicar per le piazze, in provedere ai poveri, in fare fare ogni sorta di oratione, in componer pace, in insegnar la dottrina christiana»8: dunque la ricerca e l’ottenimento delle paci si accompagnava con pari dignità all’attività caritativa e assistenziale e a quella di evangelizzazione. Anzi, finiva col diventare il primo scopo, quello che era in qualche modo la premessa di tutti gli altri. Già nel novembre 1547 Ignazio riceve lettere di elogio da parte dei maggiorenti della Garfagnana, entusiasti degli esiti positivi dell’attività del Landino. Il padre Silvestro – scrive da Castiglione Baldassarre Turiano – opera mettendo concordia nelle case, nelle vicinanze, nelle comunità l’una con l’altra, et tra questionanti cum arme et feriti, et pace fra nemici possenti a vendicarse, dove era intervenuto morte di persone graduate9.

L’anno successivo il Landino è richiesto a Forlì per operare nelle comunità della zona; nel febbraio 1549 è a Modena, di ritorno dal santuario di Loreto, e può dar resoconto a Ignazio di alcune paci che ha concluso lungo la strada10. Ma è nel suo successivo soggiorno in Garfagnana, dove torna in giugno, che il Landino può cogliere i maggiori successi. In quei borghi sperduti, miserabili, molti dei quali siti fra le monta8 Litterae quadrimestres ex universis praeter Indiam et Brasiliam locis [...] Romam missae, I (1546-1552), «Apud Monumenta Historica Societatis Iesu», Madrid 1894, p. 160. Il corsivo è mio. 9 Balthasar Turiano a Ignazio di Loyola, Castiglione, 27 novembre 1547, in Epistolae mixtae, I, «Apud Monumenta Historica Societatis Iesu», Madrid 1898, p. 445; cfr. anche ivi, p. 444, il governatore Tomaso Gonz...[sic] a Ignazio di Loyola, Castiglione, 23 novembre 1547. 10 Silvestro Landino a Ignazio di Loyola, febbraio 1549, Litterae quadrimestres, I cit., p. 140.

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gne, la conflittualità era feroce, radicata com’era nelle vicende politiche e militari che avevano travagliato il territorio nel corso dei decenni precedenti. Dopo essere stata in possesso di Lucca nel primo Cinquecento e poi di Firenze, dal dicembre 1521 la Garfagnana si era data agli Estensi che già in passato l’avevano governata; e dal febbraio 1522 al giugno 1525 era stato Ludovico Ariosto a cercare, vanamente, di mettere pace in quella terra: Qui vanno li assassini in sì gran schiera ch’un’altra, che per prenderli ci è posta, non osa trar del sacco la bandiera. Saggio chi dal Castel poco si scosta! Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna secondo ch’io vorrei mai la risposta. Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantatré, tutte partite da la sedizïon che ci soggiorna11.

Erano passati più di venticinque anni dal governatorato dell’Ariosto, ma da allora le cose non erano molto cambiate. Per questo i successi del Landino ebbero grande risonanza; e soprattutto a Careggine, una località delle Alpi Apuane, ci fu un episodio clamoroso che conosciamo non solo attraverso le lettere del Landino, ma anche grazie ad un prete del luogo che assisté a quello straordinario spettacolo e ne scrisse a Ignazio di Loyola con parole commosse. Si chiamava Sebastiano Lombardelli, ma si firmava semplicemente «pré Bastiano». Raccontava dunque pré Bastiano che in Careggine negli ultimi trent’anni (cioè almeno dal ritorno al governo estense) le faide fra la parte «italiana» (legata ai fiorentini) e quella «francese» (vicina invece agli Estensi, tradizionali alleati del11

Satira IV, vv. 157-165.

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la Francia12) avevano imperversato, tanto che si erano contate solo negli ultimi anni quarantacinque uccisioni, e anche le donne erano state coinvolte. Ma le prediche del padre Silvestro avevano piegato quegli «homini bestiali, armigeri et di mala sorte, homicidiali»: Alla fine, quando vide haver umiliati quelli cuori che pocho fa erano quelli di lioni, [il padre Landino] chiamò in pulpito uno di quelli capi de parte, che si chiama Giovan Corso. Lui disse: «Padre R.do, che volete ch’io facci?». «Che tu perdoni alli tuoi inimici e che tu domandi perdone a chi tu hai offeso in tutti i modi, disse il Padre predicator, e che per l’amor di Dio e mio tu dia la pace a tutti». Di subito questui gittò l’arme per terra, prostrato in tera gridar cominciò «Pace, pace» alta voce. Così facevano l’altre parte.

Pré Bastiano non lo mette in rilievo, ma in realtà i due capiparte non avevano seguito se non parzialmente le indicazioni del Landino: il Corso, in particolare, al quale il gesuita si era rivolto, non aveva chiesto perdono né dato la pace ai suoi avversari come gli era stato chiesto di fare, ma si era limitato – con un gesto certo fortemente simbolico – a gettare le armi e a invocare la pace prostrandosi a terra. Mancavano quindi sia il riconoscimento delle proprie responsabilità, sia il contatto fisico fra i due gruppi nemici, che come abbiamo visto era essenziale per certificare l’avvenuta pacificazione. Il Landino intervenne allora personalmente e invitando il Corso a seguire il suo esempio cominciò ad abbracciare e baciare gli uomini presenti: Allora il R.do Padre discesse dal pulpito e disse: «Fate come farò io», e cominciò amplettar [= abbracciare] et oscular gl’homini. Statim l’un inimico con l’altro strettamente con amor et caritative cominciorno oscularsi et amplettarsi con singulti, pianti per il 12 Sui legami fra Estensi e Francia cfr. C. Magoni, I gigli d’oro e l’aquila bianca. Gli Estensi e la corte francese tra ’400 e ’500: un secolo di rapporti, Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria, Ferrara 2001.

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gran gaudio, in modo tale si bagnavano il viso basiandosi. O signore mio, non posso più scrivere, tante sono le lacrime che agl’occhi m’abondano. E quanti che in quella chiesa si ritrovò, giovani, vechi, fanciulli, donne e fanciulle, tutti gridavano «pace, pace» con letose lachrime13.

Le lacrime sono «letose», cioè liete, e accentuano con forza la ritualità della scena, in cui il bacio ha ancora una volta un ruolo fondamentale. Il primo scopo perseguito dal Landino era certamente la pace della comunità e quindi il riavvicinamento ai sacramenti dei suoi abitanti; ma il clamore e la solennità dell’evento, la fama che esso poteva avere e l’emulazione che avrebbe suscitato non erano certo gli aspetti meno importanti. Di fatto il Landino proseguì nei mesi successivi la sua attività, e il 27 luglio 1550 poteva assicurare Ignazio che oltre che a Careggine aveva ottenuto paci a Maggiano, Gassano, Gragliana, Sarzanello, Isola Santa14. L’estate successiva, racconta, il suo progetto era completato; aveva visitato più di cento terre della diocesi di Modena senza risparmiarsi nessuna privazione, insieme a quei montanari si era nutrito quasi soltanto di pane di fave e di castagne, ma era riuscito a designare in ogni località due uomini con l’incarico di comporre le inimicizie15. La meta successiva del Landino fu la Corsica, una terra se possibile anche più desolata e selvaggia della Garfagnana. «Questi populi – scrisse ad Ignazio da Bastia il 22 gennaio 1553 – sono molto inclinati alla vendetta, et non si tratta qua13 Sebastiano Lombardelli a Ignazio di Loyola, Casoli 15 luglio 1549, in Epistolae mixtae, II, «Apud Monumenta Historica Societatis Iesu», Madrid 1899, p. 252. Sullo stesso episodio, avvenuto la domenica 7 luglio 1549, cfr. anche Silvestro Landino a Ignazio di Loyola, Careggine 4 luglio 1549, in Litterae quadrimestres, I cit., p. 162, e lo stesso allo stesso, Modena 9 marzo 1551, ivi, p. 275. 14 Ivi, p. 213. 15 Modena 16 e 29 maggio 1551, ivi, pp. 310-311; Rocca di Pelliago [= Roccapelago?] 6 giugno 1551, Epistolae mixtae, II cit., p. 558.

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si se non di vendicarsi et litigar»16. Eppure un altro gesuita che era partito per la Corsica insieme al Landino, Emmanuel Gomez, solo due giorni dopo descriveva i primi successi: erano già state fatte tre paci tra gli uomini e tre fra le donne «abracciandosi tutti insieme nella chesia, ed ogni odio et inimicitia deponendo, si hanno tutti quanti bassiato osculo pacis». Però per concludere un’altra pace sarebbe stato necessario stabilire alcuni matrimoni «secondo la loro usanza»17: accanto alla conferma della ritualità del bacio e dell’abbraccio di pace troviamo qui ribadito ancora una volta il principio che il legame nuziale è anzitutto un legame sociale, e dunque essenziale alla composizione dei conflitti. Una pace senza matrimoni non era una vera pace, era – si diceva – «una pace asciutta»18. Alla fine del 1554 un gruppo di padri venne invitato a stabilirsi a Loreto dal Governatore della Santa Casa, Gaspare Dotti; pochi mesi più tardi il Dotti non poteva che compiacersi della sua iniziativa, rilevando come essi vivevano da veri religiosi in santa pace [...] usando una immensa charità verso li populi con le sue messe continue, lettioni dela Sacra scrittura, de casi de conscientia, con le sue predicationi, exercitii spirituali et frequente confessioni; de modo che sono stati causa di far fare molte paci de grandissime importantie, et di redur alle confessioni molti et molti che erano stati chi 10, 15, 20 et 30 anni che non eranno confessati19.

Insomma l’intensa attività di evangelizzazione dei gesuiti a Loreto era intesa soprattutto a due scopi, apparentemente 16 Epistolae mixtae, III, «Apud Monumenta historica Societatis Iesu», Madrid 1900, p. 88. 17 Emmanuel Gomez a Ignazio di Loyola, 24 gennaio 1553: ivi, p. 93. Cfr. anche ivi, alle pp. 109, 168, 225. 18 J.G. Russell, Peacemaking in the Renaissance, Duckworth, London 1986, p. 86. 19 Epistolae mixtae, IV, cit., p. 515. Cfr. P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù, La Civiltà cattolica, Roma 1950-51, II, 1, pp. 492-493.

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di pari rilevanza e, come abbiamo visto, strettamente connessi fra loro: «far fare molte paci» e riportare alla pratica sacramentale gli inconfessi. Questi due scopi rimasero basilari nell’attività dei padri della Compagnia. Anche il padre Francesco Palmio nel corso del suo lungo soggiorno bolognese ebbe l’occasione, come s’è visto, di praticare e di incoraggiare la «via soave» – come ebbe a chiamarla – della composizione pacifica delle liti. Nel 1566 accompagnò il Paleotti nella sua visita della montagna bolognese, ed ebbe modo di compiacersi delle «molte paci» ottenute dal cardinale, che egli metteva in relazione con il vistoso calo del numero degli inconfessi; nel 1570 poi partecipava alle riunioni della Congregazione della Concordia20. Lo spettacolo del perdono universale In seguito, quando la struttura delle missioni venne formalizzata, la finalità della conciliazione delle liti venne acquistando una sempre maggiore importanza, e le relazioni inviate a Roma o pubblicate battevano costantemente su di essa, considerando un elemento fondamentale del successo dei padri l’essere riusciti a rappacificare due contendenti o due famiglie rivali. Anzi, quello di ottenere le paci poteva essere considerato lo scopo primo delle missioni: recatisi alla Mentana in Sabina nel 1605, fin dalla prima sera i padri cominciarono «ad informarsi minutamente delle nemicitie»21, seguendo quella che del resto era ormai una pratica comune e prevista22. Lì o altrove, ogni mezzo era usato per far cessare odi e faide, ma sempre con l’inventiva e la teatralità che già abbiamo visto messe in opera sin dai primi padri della Compagnia, e che erano consuete in genere nelle missioni: dunque rievocando la Vedi sopra, p. 154. Prosperi, Tribunali della coscienza cit., p. 642. 22 Selwyn, A Paradise Inhabited by Devils cit., pp. 191-192. 20 21

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morte e le pene dell’inferno da un lato e cercando con suppliche di ammorbidire i cuori induriti dall’altro; strappando le spade di mano durante una rissa come usando le armi sottili del convincimento23, ovvero stabilendo modalità di mediazione ed arbitrato a cui i contendenti accettavano di rimettersi. Progressivamente, però, le relazioni lasciano intendere che la sperimentazione dei primi padri, la fantasia usata nell’inventare al momento soluzioni nuove per dirimere i conflitti, lasciavano via via il passo ad una sicurezza che spingeva i gesuiti a scegliere soluzioni consolidate e prefissate già in anticipo rispetto alla missione e alla specificità dei casi che vi si potevano incontrare. È quanto emerge per esempio nella relazione delle missioni che il padre Fulvio Fontana condusse insieme ai confratelli Paolo Segneri e Giovan Pietro Pinamonti, percorrendo fra il 1689 e il 1711 buona parte dell’Italia centrale e settentrionale, i cantoni svizzeri e l’Austria meridionale24. In essa viene dato largo spazio al «trionfo» dei perdoni ovunque ottenuti: una parola che significa vittoria schiacciante, e dunque esaltazione, pubblicità, clamore, sicurezza, e sottintende un marcato scopo propagandistico dello scritto, che appartiene dunque ad un genere letterario alquanto diverso dalle lettere dei missionari ad Ignazio che sono state prevalentemente utilizzate sinora. Si capisce che da questi successi ogni improvvisazione era esclusa, e il gusto dello spettacolo suggestivo ed anche variopinto che trapela dalle descrizioni del Fontana era forte. Le confraternite, che «in più luoghi si sono trovate [...] tra di loro disunite in modo che giustamente si prevedevano homicidii», vennero fatte sfilare in processione accostando in coppia i membri delle compagnie rivali, «onde quanto era diverso di colore l’abito che vestivano le coppie, tanto più ne spiccava la Prosperi, Tribunali della coscienza cit., pp. 642-649. Quaresimale del Padre Fulvio Fontana della Compagnia di Giesù con l’aggiunta della serie delle Missioni da lui fatte nell’Italia e Germania, Andrea Poletti, Venezia 1717. 23 24

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bella pace». Lo stesso artificio di avvicinare fisicamente in una occasione sacra i membri di gruppi ostili fra loro veniva seguito per ricomporre le ostilità fra comunità nemiche, «poiché si formavano le coppie per la processione con un huomo d’un comune e con uno dell’altro comune; così pure seguivano le donne, così pure i rappresentanti del publico [...] e per ultimo l’istessi sacri parochi». Le divisioni all’interno della stessa famiglia erano tali, racconta il Fontana, che tra fratelli o tra padri e figli non ci si scambiavano neppure «i segni comuni di benevolenza» (quelli dunque che secondo Tommaso d’Aquino erano doverosi per un cristiano anche verso i nemici): un padre e un figlio che vivevano nello stesso paese per diciassette anni si erano incontrati molte volte al giorno senza mai parlarsi né salutarsi, e un fratello e una sorella addirittura vivevano nella stessa casa ma senza scambiarsi una parola. Il gesuita riferisce di essere riuscito a ridurli «in una strettissima concordia» costringendoli ad incontrarsi ripetutamente. Mogli e mariti venivano riconciliati chiamandoli sul palco dal quale il missionario aveva predicato, «e quivi teneramente s’abbracciavano»25: in questa rappresentazione il contatto fisico non era più il segno della pace dei cuori e il sigillo di una pratica giuridica, ma ne era divenuto la causa. Queste manifestazioni erano preparate da una predica che veniva fatta il venerdì, la «predica della dilezione de’ nemici». In essa il missionario invitava chi avesse ricevuto qualche offesa ad abbracciare il proprio vicino, asserendo nel frattempo nel proprio cuore «che egualmente abbraccerebbero l’inimico se l’avessero vicino», dato che – prosegue il Fontana con insospettato realismo – «non era facile che tal’uno di loro offeso avesse vicino a sé l’offensore». Capitava però, a questo punto, che qualcuno «con singulti e lacrime» andasse davvero in cerca del proprio nemico, «e con un’amorevole abbracciamento si toglievano l’odio dal cuore»26. 25 26

Quaresimale del Padre Fulvio Fontana cit., p. 347. Ivi, p. 349.

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L’emotività legata a questi contatti fisici, a queste esortazioni, alla vista di chi si alzava piangendo dal proprio posto per raggiungere chi gli era avversario, doveva essere altissima, nonostante la ritualità prevista e prevedibile della scena, e forse proprio a causa di essa. Capitò così in una missione della diocesi di Modena, che il Fontana visitò nel 1697, che una donna, agitata anch’essa dai rimorsi di coscienza per l’odio che portava ad una sua cognata, si portò veloce e come fuori di sé al palco, et appena hebbe proferite queste parole «Io pure non parlo alla cognata da tant’anni in qua», che in così dire mancandogli la parola cadde tramortita a’ piedi del Padre. Subito sparso per l’udienza l’accidente, mosse un’altra donna a deporre gli odii, ma anch’essa, nel vedere svenuta e per terra l’altra, tramortì di subito; onde tanto più cresciuto il timore, tre altre persone, due huomini et un’altra donna, corsero per deporre i rancori, ma anche esse, cadute a terra, restarono tramortite. Onde il Padre missionario si vidde cinque che accorati per l’odio portato al prossimo e bramosi di pace, sorpresi da dolore, erano caduti tramortiti27.

Il caso di questi uomini e donne che, sconvolti dall’emozione e dalla paura, cadono a terra tramortiti davanti al missionario uno dopo l’altro, ci consente di cogliere quanto fortemente, anche se non in maniera duratura, le popolazioni venissero coinvolte da questi scenari; ma soprattutto, ci permette di percepire indirettamente, più in generale, una modalità intensissima di vivere, di manifestare e gestire le emozioni che certo oggi è quasi completamente scomparsa: a riprova di quanto la percezione stessa dei sentimenti sia soggetta a mutare, e sia fortemente influenzata dal tessuto complessivo della realtà storica e sociale in cui vivono gli uomini che quei sentimenti provano ed esprimono. Assai coinvolgente doveva essere anche «lo spettacolo del perdono universale», che veniva talora organizzato dai gesuiti davanti al Cristo crocefisso, ed era concluso da una registra27

Ivi, p. 348.

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zione notarile28, con un intreccio davvero singolare fra l’esecuzione di un copione teatrale e la redazione di uno strumento giuridico (e si noti anche che l’immagine del Cristo veniva in tal modo utilizzata come testimone giuridicamente valido, seguendo una pratica tanto comune quanto, in altre occasioni, fortemente biasimata29). In realtà i rituali gesuiti assunsero col tempo una connotazione sempre più spettacolare, e tale fu certamente il rito organizzato nel 1668 durante una missione nella località di Soleto, nella Grecìa di Puglia: i due capi delle opposte fazioni, convinti dopo molte difficoltà a riconciliarsi, vennero legati insieme per il collo con una fune che avrebbe dovuto simboleggiare la schiavitù che stringeva entrambi alla Vergine e quindi il vincolo indissolubile che li univa, secondo il principio che vicinanza fisica e vicinanza affettiva erano tutt’uno30. E anche nelle missioni del padre Fulvio Fontana viene segnalato il caso di un sacerdote che, proprio come era accaduto a Soleto, «volle [...] nell’ultima processione farsi vedere in mezo alli uccisori de’ propri fratelli, cinto di corde che stringendo lui stringevano a sé medesimo quelli che gl’havevano tolto di vita i cari fratelli»31. Era una devozione, quella degli «Schiavi della Vergine Maria», che era stata introdotta con queste modalità soprattutto nelle missioni nel Regno di Napoli successive al 166032, e che veniva utilizzata in particolare per obbligare all’unione, con un le28 Scipione Paolucci, Missioni dei Padri della Compagnia di Giesù nel Regno di Napoli, Secondino Roncagliolo, Napoli 1651, p. 138. 29 Le immagini sacre potevano essere considerate testimoni efficaci anche per i matrimoni, come ancora nel XVIII secolo notava con deprecazione il futuro Benedetto XIV: cfr. Raccolta di alcune notificazioni, editti ed istruzioni pubblicate dall’Eminentissimo e Reverendissimo signor Cardinale Prospero Lambertini Arcivescovo di Bologna, III, Longhi, Bologna 1737, p. 68. 30 Cit. in Gentilcore, «Adapt yourselves to the People’s Capabilities» cit., pp. 280-281. 31 Quaresimale del Padre Fulvio Fontana cit., p. 348. 32 D. Gentilcore, From Bishop to Witch. The System of the Sacred in early modern Terra d’Otranto, Manchester University Press, Manchester-New York 1992, p. 70.

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game anche fisico, chi sino allora era stato separato da un’insanabile frattura. Tuttavia alcuni aspetti della pratica non piacquero a Roma e, come ricordava con soddisfazione Ludovico Antonio Muratori, questa «sregolata divozione» e le confraternite che la sostenevano furono proibite da Clemente X il 5 luglio 167333; peraltro il divieto dovette rientrare e, come s’è visto, in realtà negli anni in cui scriveva il Muratori gli «Schiavi della Vergine Maria» erano largamente in azione. La totale ritualizzazione della forma delle paci nelle missioni (non solo in quelle gesuite) emerge del resto anche nell’opera del sacerdote Filippo De Mura, che ebbe almeno quattro edizioni tra il 1738 e il 1790: Il missionario istruito in tutte le regole e precetti. Il De Mura indicava minuziosamente le modalità da seguire in una missione. All’inizio un «paciere» doveva informarsi accuratamente sulle inimicizie locali, successivamente lavorare per appianarle e ottenere l’atto di «remissione» davanti al notaio, per giungere infine alla celebrazione della «pace pubblica»: Il missionario chiami l’offensore ed appié del Crocifisso facciasi riconciliare con l’offeso, abbracciandosi l’un l’altro con fraterna carità e con tenero amore; e nel tempo istesso, armonioso coro facendo gli altri padri, ne lodino il Signore, e n’applaudino la cristiana azione ad alto tuono34.

Le paci, e soprattutto «le paci di considerazione» fra alte personalità, dovevano essere concluse alla presenza della comunità: in chiesa, o nella piazza del paese, o addirittura in mezzo ad un mercato. Tale pubblicità e le altre modalità del33 [L.A. Muratori], Della regolata divozione de’ cristiani. Trattato di Lamindo Pritanio, Gianfrancesco Garbo, Venezia 1766, pp. 269-270. 34 Filippo De Mura, Il missionario istruito in tutte le regole e precetti, Gaetano Guerra, Napoli 1790, p. 47, cit. in M.G. Rienzo, Il processo di cristianizzazione e le missioni popolari nel Mezzogiorno. Aspetti istituzionali e socio-religiosi, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, a cura di G. Galasso e C. Russo, Guida, Napoli 1980, p. 458.

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la pace (la chiamata a voce alta dell’offensore, gli abbracci reciproci) sembrano risentire fortemente del ricordo delle esperienze di Silvestro Landino o di Fulvio Fontana; sta di fatto che l’improvvisazione delle prime missioni era stata progressivamente sostituita da comportamenti fissi dettati dall’esperienza e, successivamente, dall’esempio delle relazioni, per essere finalmente addirittura prescritti dalla manualistica. La formalizzazione teatrale del rituale aveva così finito col sostituire del tutto quella giudiziaria.

Capitolo sesto UNA BREVE CONCLUSIONE Anche i gesuiti dunque, come già sottolineava Adriano Prosperi, avevano la ben netta percezione che «la pace non era solo una disposizione interiore. Era anche un preciso documento che aveva rilevanza penale, poteva evitare il bando a chi si era macchiato di sangue o aprire la strada a una composizione giudiziaria»1. Questo, in effetti, è quanto le pagine precedenti hanno ampiamente illustrato; ma è importante che i gesuiti stessi avessero perfettamente chiari i termini giudiziari della questione. Si è già visto che la presenza di un notaio era espressamente prevista in occasione dello «spettacolo del perdono universale»; così a Bitonto nel 1646 quando nella commozione generale ben settantasette fra uomini e donne si gettarono ai piedi dei padri proclamando di perdonare coloro che avevano ucciso loro un parente, «per li quali homicidi ne avevano la maggior parte esposte querele», subito «con l’assistenza degli officiali che ivi erano presenti si presero le remissioni»2, cioè le rinunce. I padri avevano dunque ben presente l’urgenza di farsi rilasciare il documento scritto che certificava non solo l’avvenuto perdono, ma anche la cessazione dell’azione processuale intrapresa; tanto che altrove, confessando Prosperi, Tribunali cit., p. 646. Relatione di una missione fatta da due Reverendi Padri della Compagnia di Giesù nella città di Bitonto del Regno di Napoli nell’Anno MDCXLVI scritta da D. Gio. Battista di Elia, in Trani et in Bologna MDCXLVII, p. 23. 1 2

VI. Una breve conclusione

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un ferito a morte, uno di loro si preoccupò innanzitutto di far «venire un notaro et lasciare la pace»3. Con un comportamento che lasciava percepire una analoga preoccupazione religiosa ma una minor consapevolezza delle possibili conseguenze sociali e giuridiche, in una situazione simile quel parroco romano del tardo Cinquecento che abbiamo già citato anziché chiamare il notaio si limitò a stilare una dichiarazione nella quale faceva fede di aver confessato un ferito, «al quale feci absolutione perché perdonò et promese far pace con detto m. Nicolò»4 (cioè il feritore): il sacerdote aveva forse avuto notizia del dibattito i cui esiti prescrivevano al penitente, per ricevere l’assoluzione, di presentare una pace scritta; ma non aveva ritenuto di dover verificare l’avvenuto rilascio del documento, contentandosi di accertare la buona disposizione d’animo del ferito. Ma per i gesuiti non era solo il ritorno alle braccia della misericordia divina e una morte non avvelenata dal rancore ciò che era necessario perseguire, bensì la composizione dei conflitti. Era una linea di comportamento di gran lunga antecedente alla fondazione dell’ordine, che i padri avevano adottato seguendola con scrupolosa attenzione, e che sottintendeva il legame imprescindibile fra religione e vita associata, fra giustizia e carità. Lo scopo generale era quello di raggiungere una situazione di pace sociale e anzi di urbanitas, con quanto il termine presuppone di stretto legame fra vita cittadina, abbandono di ogni rusticitas, maniere civili e disciplinate, ortodossia religiosa e ricerca del bene comune sotto l’occhio vigile del principe. Ottenere la pace, e non solo come impegno per il futuro, ma come atto effettivamente rilasciato, significava insomma non solo la salute dell’anima del penitente, ma anche evitare altri peccati, altri delitti, e insieme consolidare l’umana società. Tutto comunque vale a confermare l’intreccio strettissimo fra il piano religioso, quello giuridico e quello antropologico, 3 4

Prosperi, Tribunali cit., p. 647. Cit. in Blastenbrei, Zur Arbeitweisen cit., p. 442.

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che le questioni delle paci e dei perdoni comportano, e che nell’azione dei gesuiti risalta con particolare evidenza. E tornando al nostro più limitato argomento, sta di fatto che rinuncia e pace erano avvolte da un forte alone religioso, o almeno erano suscettibili di esserlo. Erano atti giuridici che in un certo senso avvicinavano la giustizia terrena a quella soprannaturale; erano necessari e sufficienti per interrompere un processo, ovvero per attenuare o cancellare addirittura la pena che fosse stata eventualmente irrogata. Così il vicelegato di Bologna, commutando la pena a cui era stato condannato Lorenzo Riccardi nel processo menzionato nel capitolo terzo, aveva stabilito ch’egli dovesse rimanere in esilio «donec pacem habuerit a offenso»; il Riccardi aveva potuto celebrare con Taddeo da Abello – non sappiamo a seguito di quali trattative – il ricco rituale di pace che è stato descritto e quindi aveva potuto nuovamente varcare le porte della città. Se il bando lo aveva espulso dalla comunità, la pace cancellava quell’espulsione e dunque lo riammetteva. Quel rituale era necessario per la società cittadina del tempo per contenere l’arma della vendetta e, integrando la pacificazione nella faida (che costituiva, non dobbiamo dimenticarlo, una relazione di potere e quasi un complesso linguaggio della vita politica5), permetteva di troncare una ribollente conflittualità sociale e una latente tensione politica. E poiché la pace dei singoli faceva la pace della società, l’ala del divino perdono poteva stendersi su chi perdonava e chi era perdonato, divenendo elemento costitutivo di una giustizia che – come ha scritto Émile Benveniste nel passo ripetutamente citato – metteva in gioco contemporaneamente, ponendole in rapporto fra loro, l’insieme delle relazioni umane e delle relazioni con la divinità, e che quindi poteva farsi strumento politico e allo stesso tempo religioso, in particolare nel senso etimologico di legame fra gli uomini e fra gli uomini e Dio che il termine «religioso» riveste. 5

Povolo, La conflittualità nobiliare cit., pp. 100-104.

VI. Una breve conclusione

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Il tema delle pratiche infragiudiziarie è stato ampiamente studiato, come ho detto, in un’ottica di storia del diritto e anche di storia politica, ma credo che sia importante sottolineare come esse erano entrate in profondità nella vita quotidiana dell’età tridentina e oltre. Non ci si limitava a fruirne secondo le indicazioni degli statuti e delle costituzioni, ma le si praticava con molta maggiore ampiezza e inventività perseguendo scopi diversi e più complessi della composizione dei conflitti. Inoltre esse erano fortemente legate agli aspetti della disciplina ecclesiastica, come l’obbligo pasquale a ricevere i sacramenti; ma non si trattava di un legame univoco, bensì di una dinamica contrastata, che consente allo storico che ne segue le componenti di cogliere le difficoltà con cui venne portato avanti il disciplinamento della Controriforma e, in generale, dell’età moderna. Nello stesso tempo il tema della pace e del perdono si mostra più complesso esso stesso di quanto non risulti a prima vista. In ogni caso, l’incrocio di due piani e due punti di vista diversi – quello del diritto e quello della vita religiosa – consente di percepire elementi che altrimenti sfuggono all’attenzione del ricercatore, sia pure al prezzo in qualche caso di una minore nitidezza del quadro, che però si rivela ingannevole se perseguita ad ogni costo. Considerando il significato culturale profondo delle vicende e dei comportamenti che sono emersi in queste pagine, è facile provare oggi un senso di disagio e di incertezza, di difficoltà ad orientarsi al loro interno, proprio per il sovrapporsi in essi di valori certamente positivi, come la ricerca della pace e il rifiuto del sistema vendicatorio, e di altri che alla percezione contemporanea – basata se si vuole su una valutazione anacronistica – appaiono comunque scorretti, come la sottrazione dei colpevoli alle leggi dello Stato. È chiaro peraltro che composizioni e arbitrati erano ricercati con forza anche dal potere pubblico: il caso ligure è esemplare da questo punto di vista. Anzi la capacità dello Stato di costringere – come talora accadeva – le parti alla pace concorreva a definire

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la solidità del potere centrale. Resta però necessario ricordare che questo avveniva, come è stato scritto a proposito del libro di Adriano Prosperi, allargando «il ventaglio dei percorsi alternativi rispetto alla lettera dell’iter giudiziario», e quindi «depotenziando la capacità punitiva dei tribunali laici»6. Il favore dato alle pratiche che abbiamo descritto rientrava certo, come si è visto, nella consuetudine del tempo, appartenendo ad una logica della quale dobbiamo essere consapevoli senza cedere a giudizi morali; ma altrettanto certamente non andava nel senso di una modernizzazione della vita associata. Non è possibile non percepire oggi quanto di arcaico vi è nella rinuncia da parte di una società ad affermare il diritto della giustizia non solo a proteggere i deboli e a mantenere la pace sociale, ma anche e soprattutto a difendere la legge. «Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini», dirà con parole semplici e memorabili Cesare Beccaria. La punizione del reo non è una vendetta alla quale la vittima abbia il diritto di rinunciare di sua propria volontà, in quanto non è essa sola che è stata lesa, ma tutta la comunità dei cittadini rappresentata dalla legge che essi si sono dati. Il perdono del singolo non può oltrepassare i limiti che definiscono i diritti di tutti a vedere mantenuta e salvaguardata la giustizia. E se il perdono è un dono, esso non può concernere se non chi lo dà, e non la società nel suo complesso: altrimenti doniamo quanto appartiene anche ad altri. Come ha scritto Sandro Portelli a proposito di una recente richiesta di grazia per Erich Priebke, è bene ricordare che il processo penale non è una questione privata tra vittime e colpevoli. La ragione della sanzione penale è che il delitto offende tutta la società [...], e lo stato non giudica a nome delle persone offese, ma per conto di tutti noi («in nome del popolo italiano»), in nome dei principi condivisi che ci tengono insieme come 6 A. Pastore, Inquisitori, confessori, missionari, in «Rivista Storica Italiana», 110, 1998, p. 680.

VI. Una breve conclusione

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società. Il perdono delle vittime [...] può avere valore morale personale, ma resta cosa distinta dall’esigenza pubblica di giustizia7.

Paci e perdoni – per tornare all’età di cui ho trattato in queste pagine – andavano evidentemente in altro senso, rappresentando senza dubbio un modo diverso dal nostro di porsi di fronte ai rapporti fra la comunità e i suoi membri. È singolare che la nostra società odierna abbia mutuato alcuni degli aspetti di quegli antichi comportamenti, tendendo talora a disconoscere la separatezza che dovrebbe essersi ormai definitivamente stabilita fra l’ambito dell’etica e del sentire religioso e quello della vita civile – che quindi distingue in modo certo, per esempio, fra peccato e reato – e si ponga, come accade di frequente in clamorosi casi giudiziari, come appunto il caso Priebke o il caso Sofri, il problema del perdono dell’offeso e della sua incidenza sull’iter processuale e sui suoi risultati. La motivazione giuridica di questa prassi sta nell’idea che il perdono voglia indicare una diminuzione o comunque una minore rilevanza del danno ricevuto, e che quindi a fronte di essa debba essere valutata l’eventualità di uno sconto di pena. E certo, se accogliamo le riflessioni di Julia Kristeva, di Hannah Arendt, di Olivier Abel, di Paul Ricoeur ricordate agli inizi di queste pagine, il perdono è un correttivo ai danni derivanti dall’agire; perdonare può significare anche liberarsi dal «sole nero» che oscura la mente e il cuore della vittima, è alleggerire il carico della sofferenza per «un départ à neuf», una nuova partenza, una ricostruzione del tempo e del sé. Ma il perdono emerge da queste stesse riflessioni come una scelta ardua e complessa, che va valutata e vissuta in profondità nelle sue motivazioni e nei suoi risvolti. Ha la straordinaria caratteristica di essere un fatto totalmente personale e intimo, che affonda le sue radici nella profonda caverna della coscienza del singolo, e nello stesso tempo di co7 S. Portelli, Erich Priebke, perdono impossibile, in «il manifesto», 11 luglio 2006.

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stituire un processo totalmente sociale, perché concerne i rapporti fra uomo e uomo. Ma proprio per questa sua complessità e profondità esso appare non facilmente componibile con scelte che sono pure certamente lecite, ma che si pongono su piani altri: quello della legge, quello dell’opportunità politica. Forse è possibile accostare e rendere compatibili l’uno all’altro questi due livelli, ma certo a prezzo di una riflessione che non può essere superficiale. Invece, agli orecchi di chi oggi le ascolti, le considerazioni giuridiche accennate sopra danno l’impressione di uno stridore, di una scarsa capacità di distinzione fra il foro interiore e sacro della fede – da cui, certo, il cristiano sa che, al di là del danno ricevuto, deve irradiare un consapevole rifiuto di ogni forma di accanimento e di richiesta di vendetta – o comunque della scelta etica personale, e quello esterno delle aule giudiziarie. È una prassi che almeno in parte appare all’osservatore attuale il frutto fuori stagione di un antico complesso di rituali. Ci si chiede se una maggiore consapevolezza degli antecedenti non potrebbe giovare ad una maggiore chiarezza nelle aule di una giustizia che è certamente soltanto umana, e non può e non deve più pretendere di allargarsi ad ambiti che non le competono.

APPENDICI

AVVERTENZA I testi sono disposti in ordine cronologico. Si tenga conto che è stato ripristinato l’uso moderno delle maiuscole, della punteggiatura e dei segni diacritici.

APPENDICE I 1 (ASB, Torrone, 1271, inserito a c. 10) 1579 adi 20 de giugno Facio fede a vui Mr. Auditore della causa qualmente Domenico de Batista di Grandi qualmente lui a fatto pace con Gironimo di Stefano Giordano et liberamente li perdona qualunque ingiuria ricevuta da lui et li rinuncia la querella a questo li fu presenti Andrea Scabaza et Lulino Marchese. Jo Don Agostino di Sarti capelano alla ghiesia de Santo Jacomo da li disse [?]

2 (ASB, Torrone, 1410, inserito a c. 261) Adi 28 di 9bre 1581 Facio fede io Galeazo Ghino notario bolognese qualmente Martino di Maria di Montepastore in nome di Bastiano suo fratello renonza ad ogni querela a sua instanza alli anni passati formata nel Torrone contro Marino figliolo di Gherardo Scivieri [?] per causa di pugni che si dettero insieme, et si contenta che sia cancellata, essendo massimamente che essi Bastiano e Marino erano putti alhora, et andavano dietro alle bestie. Et per fede ho di comissione di detto Martino fatto la presente. Adi sudetto Galo Ghino noto

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3 (ASB, Torrone, 1674/46, inserito a c. 310) [s.d.; ma 1584-1590] Molto magco Ms. Girolamo facio fede a V.S. come Iaco da Modena ha renunciato la querela a Matheo di Julio Monaro, et si contenta sia cancellato ogni cosa. Jo. Marco di Fantuzzi

4 (ASB, Torrone, 1674/46, trascritto a c. 88) Adi 15 di luio 1584 Faccio fede io Don Michele Mascarini cappellano della chiesa di Santa Maria da Buda contà di Bologna come Ottaviano delli Donati renuntia ogni querela che fosse stata fatta nel Torrone di Bologna a Bastiano della Serra et a Battista Pasotto et si contenta che sia cassato et anullato et io ho fatto la presente di commissione del detto Ottaviano Donato il dì et mese come di sopra. Idem Michael Mascarinus ut supra scripsi

5 (ASB, Torrone, 1674/46, inserito a c. 153) 1584 alli 6 9bre Faccio fede io Santo Maza come Lazaro Ronzano ha renuntiato ogni querela che da lui fosse fatta contro di Domenico deto Mengone de Balduinis di Castello Britj et vole et è contento che del tutto che fosse fatto a sua instantia sia casso et questo alla presentia de M. Bartolomeo Maza et M. Antonio Bazano et tutto ne facio fede Io Santo Maza

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6 (ASB, Torrone, 1674/46, inserito a c. 353) +1586 adi 9 di magio Si fa fede ad ogni persona come Francesco di Conti et Coradino suo figliolo putto del comun de Anciola hano fato la pace a Piasino Palucci di detto Comune et questo per ogni controversio che fosse stato fra detto Piasino et detto Curadino et renonciano ad ogni querella fata nel Torone di Bologna contra a detto Piasino et prometano non agere in modo alcuno contra di lui. Per fede del verro jo ... di ... di comissione di detto Francesco et detto Curadino ho fatto la presente de mia manne presente et si metarà il nome de dui testimoni. [altra scrittura] Io Gianni Galassi capellano della Pieve di Anzola fui presente alla detta pace, et ci furno presenti Domenico Corticelli, Tonio Boatta et Bastiano Teronese massari di detto comune nella canonica della chiesa adi et anni ut supra.

7 (ASB, Torrone, 1674/46, inserito a c. 382) [18 agosto 1587] Al molto magco sig.r mio ossmo Ms. Fiano Balzzini nel studio del procurator Busato. Bologa Molto magco Ms. Fiano mio ossmo viene Marioto Funi che è stato citato nel Torone et non sa che cossa se sia. Dice il sig. Costanzo che se questa scrita è per suo conto, che renontia ogni cossa, cioè ogni querella che fosse fatta a sua instantia atente che il dito da lui non altro. A V.S. mi racomando. Di Fenza il di 18 di Ato 1587. Solicitate la querela del forto subito. V.o Camillo Favali Et anchora renontia quella delle acuse fatta a detto Marioto, però che detto Marioto paga le spese

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8 (ASB, Torrone, 1674/46, inserito a c. 453) Adi 3 di genaio 1590 Si chiarisce per virtù del presente qual vogliono che habbi forza di publico instrumento come Piero di Croce Guidi da Bombiana contà di Bologna volendo vivere pacificamente come buon christiano, renonza et se lascia ogni et qualonque querella che esso havesse formato nel Torone contra M. Scipione di Luca Tanari da Gaggio contà, et questo fa detto Piero aciò detto m. Scipione fosse cancellato ogni querelle formate come di sopra, et dice non si chiamarà più ingiuriato di cosa alcuna però sempre fa et lassa alcuno di pregiudicio in detto Piero et per fede del haver io D. Iaco Polinelli rettor di Pietracolora con preghi et comissione di detto Piero ho fatto la presente et questo per instanta di Iacomo Guessio et Gio. Martino Salvi tutti di Pietracolora. dis Iacs qui P

9 (ASB, Torrone, 2277, ins. a c. 67) Adi 25 de febiaro 1590 Facio fede io Gio. Paullo di Guzi Masar dela Ca di Frabi [= Ca’ de Fabbri] come Bero et Antonio di Spisani fratelli renontiano i.nome di Pirino suo fratello ogni quallonche aquarella che fuse state fata overo fusese per fare contra a Lunardo di Biava et ancora Bero Donino e Batista Bona avere in nome del detto Lunardo Biava renontiano medesimamente tute le aquarelle che fusene state fate overo che fuseno per farsi ha Pirino Spisano e per fede de la verità io Gio. Paullo di Guzi ho fato la presente di volonta de le parte presente Ms. Sipione Montecalvo et Gio. Antonio di Guidi. Io Gio. Paullo di Guzi noto

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10 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 71) Die ii Martii 1590 Jo Agostino di Trento lanarolo rinuntio ad ogni querella per me fatta a Nicolò figliolo di Pirino Mazzante, et mi contento che sia cancellata et non sia più molestato per conto mio et in fede di ciò ho fatto fare la presente per non saper io scrivere. Jo Sacripante Alesio scrissi la presente di comissione di detto Agostino

11 (ASB, Torrone, 2231, ins. a c. 183) Adi 29 di marzo 1590 Fatio fede io Alessandro deli Andrioli come al soprascritto Aniballe da Monte Bugnollo ala presentia di dui testimoni quali si sottoscriverano ad sopra scritto renontia a Pirino Giordano ogni querella che avesse fatto il detto Aniballe da Montebugnolo al detto Pirino Giordano per essere venuto a rissa il detto Pirino con il detto Anibale nel comune di Pizocalvo contà di Bologna et per fede della verità io Alessandro delli Andrioli scris et sotto scris la presente di commission et consenso delle parti quali sono qui presente Io Alessandro Andrioli scris di mia mano Io Alissandro Botti fui presente a quanto di sopra Io Paulo di Zani fui presente a quanto di sopra

12a (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 52) + adi. ii Aprile 1590 Jo Paulo Bondino facio fede aver pacificato insieme M. Iulio de

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Mastelari e M. Alisandro di Brici cognati et son dacordo et rinocia alquna cosa fata in palacio tra loro. Jo Paulo Bondini

12b (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 53) Jo Paulo Bondini facio fede avere pacificato insieme M. Juli di Mastelari e M. Alisandro di Brici di tute le loro diferencie e così renoncciano a ogni o qualunque cosa che tra loro ano. Per palora [sic] e fede del vero [?] se sotoscrivono de lore mani adi ii aprile 1590 Jo Paulo Bondini ss. Jo Alisandro di Brizi prometo et afermo quanto di sopra Io Juli di Mastelare prometo et afermo quanti di sopra Die 12 Aprilis 1590 Suprascriptus D. Paulus q D. Franci de Bondinis [una parola illeggibile] recognovit suprascriptam fidem esse eius propria manu scriptam, et contenta in ea fuisse et esse vera.

13 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 221) In nome di Dio à di 28 aprile 1590 in Bologna Facciamo fede noi infrascritti come Domenico figliolo di Bartolomeo da Pianoro d’anni 14 incirca, et Giovanni Battista figliolo di Bartolomeo Ghiraldini d’anni undici incirca, tutti dui habitatori in Bologna sotto la parochia di S.to Proculo hanno fatto pace d’ogni questione et differenza et di qualunque percossa ancorché sanguinolenta nata fra loro, essendo a questa pace stati mezani li sopradetti Bartolomeo da Pianoro et Bartolomeo Ghiraldini loro padri. Et di più detto Gio. Battista con il consenso di suo padre renuntia ogni querela fatta da qual si voglia persona nel Torrone, e alli atti

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di qual si voglia notaro, et si contenta che sia cancellata dalli libri del detto Torrone, et per fede della verità la presente sarà sottoscritta da Bartolomeo da Pianoro, et Bartolomeo Ghiraldini la farà sottoscrivere a uno che lo conosca, per non sapere scrivere. [con altre scritture e altro inchiostro comune a tutti i firmatari:] Io Sac. Gulielmi curato della chiesa di San Proculo fui presente a fare questa pace. Io Bartolomé da Pianori afermi quanti di sopra si contieni. Io Antonio di Zochi i.nome di mestro Bartolomeo di Giraldini afermo quanto di sopra si contiene et in fede di zio [sic] li farà una croze per non sapie scrivere + et qui fu presente il S.or Pacecho [?] Luna, d.nus Bartholomeo Zochi et Nicolò Salvini [le parole dopo la croce sono di mano del curato Guglielmi]

14 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 55) Al nome di Dio adi. 11 di magio 1590 in Bologna. Jo Giovan Felipo Dalla Nave facio fede a voi Signor Auditore del Torone come M. Martino di Tomia gargiolare renontia ogni qualoncha ragione di querela che abia fatto a M. Piero Faiatini, o che per so fosse stata fatta, et promete non istighare per tal conto detta querela, et di più li fa pace, et in fede di ciò la presente sera sotto schritta per man di detto M. Martino. Jo Giovan Felipo sopra detto schrivo Jo Martino di Tomia afermo quanto di sopra

15 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 73) Alli 13 de maggio 1590 Faccio fede io Don Pietro Gerardi retore di S.to Martino da Bertalia a vuoi S.re Auditore et notari del Torone di Bologna come

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Giambatista Martignole mio parochiano rinoncia ogni e qualonque querella quale lui havesse formatta overo da altri fusse stata formata avante le Signorie Vostre contra Gianino Brugnole ancora egli mio parochiano et hano fatte pace insieme de ogni rissa et parole che fusero statte fra lore, et di novo si renunciano luno all’altro ogne querella avante a vuoi formata et di questo ne facio piena fede presente Tiseo Brocio mio parochiano, et Luca Frabbe ancora egli mio parochiano. Ego idem Petrus Gerardus

16 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 318) Io Giulio Monfardini notario al presente dell’offizio di Medicina facio fede in nome de Piero de Jo da Medicina per non saper lui scriver qualmente renunzia ogni querella fatta nel Turono o per lui o per altro in suo nome a Benedetto di Righi alias di Tinarelli et a tutti li suoi compagni per conto della notte di maggio e questo lo fa tanto in suo nome quanto in nome de Andrea de Io suo nepote e si contentano siano cancelati et liberati quanto è per suo interesso, et in fede di ciò li ho fatto la presente alla presentia di M. Negrino di Negrini et Piero dalli Casoni ambidui da Medicina [seguono tre parole non comprensibili]. Die 20 Maii 1590 Ego idem Iulius Monfards ns manu p scripsi ss

17 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 221) Adi. 25 di magio 1590 Io Gian Giorgio di Morello da Pianore fo fede a vo. S° notaro chome sono dachorde chon Giovano di Rafello di Giacho per

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chonte de una achuarela fate ali 28 de aprili per chonte de certo fieno che aveva menato fore del mio locho in locho dete ala Tore dali Cholino [= la Torre dalla Collina] al chumuno di Rioste [= Riosto] il quale locho io lo chonducho a fite del S.ro Emilio Bianchi e li fo la dinoncia [= rinuncia] in fede de la verità. Io Gian Giorgio de Morello o fate la presente di mia mano

18 (ASB, Torrone, 2304, inserito a c. 80) Adi 10 de gugno 1590 Nota e manifesto come la verità che m° Jacomo di Tofere [?] fa renoncia di quanto aveva a far insema con Domenico da Sera e Pedro Cosino tuti magnani in bo Sazza e renoncia la querela che ha dato contra di lor presencia + Jacomo Furido [?] Mistrar di la capela di santa Caterina e presenza + Gironimo Migono e + Tomaso Poloto e per non saver scrivere ge farano una croce e ancora io sopra scrito + Iacomo

19 (ASB, Torrone, 2304, inserito a c. 128) + adi 31 di agosto 1590 Io Carlo di Berselli per la presente facio fede qallmente Mna Iulia Frarese abitante in Borgonovo rinuncia ogni e qualonque querella per se o da altri a sua istancia fatta nel Torone di Bologna contro a Emilio Frarese e consente che detto Emilio sia chancelato da dita querela et per suo conto non sia più molestato et in fede de la verità io Carlo di Berselli sopradetto di comisione di detta Iulia o fato la presente di mia propria mano Io Carlo sopra dito schrivo

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20 (ASB, Torrone, 2331, inserito a c. 154) Al nome de Dio Adi 5 de novembre Io Julio Cesare di Sarti di comision di Carlino Fontana arenontio ugni quarela datta o fose statta datta per suo particolare contra di Marcantonio Mangia Gallo e in fede della verità sarà sottoschrita di mano di eso Carlino presente dui testimoni qualli sarano sotoscriti di sua mano Jo Carlino Fontana afermo quanto di sopra si contene Io Giovani da le Corti fui presen quanto di sopra Io Andrea Christino fui presento

21 (ASB, Torrone, 2353, inserito a c. 72) + adi 20 9bre 1590 in Minerbio Io Cristofallo Bassi rinocio a questo dì sopra dito ogni qualonca aquarella che avese con Matia Spisano nel Toron di Bologna che così son satisfato da lui et la presente sera soto schrita di man di dui testimonio Io Cristofallo Bassi ut supra Io Alesso Viola fui presente quanto di sopra Io Rodolfo Bassi fui presente quanto di sopra

22 (ASB. Torrone, 2353, inserito a c. 78) Adi 23 novembre 1590 Io Fulvio Bolognini per la presente faccio fede che renoncio ad ogni querela e pretensione contra Vergilio Sachetto per causa d’haver rubato un staro de frumento nel molino del Gombito del sig.

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Camillo mio fratello, stando che detto frumento si è rihauto, et la miseria di detto Virgilio Io Fulvio Bolognini

23 (ASB, Torrone, 2331, inserito a c. 211) A di 13 di Desembre 1590 Faccio fede io Antonio Tubertini come Rubbino Rubbini renoncia a Bastian Persicho ogni qualunque querella che a sua instantia fusse stata fatta contra detto Bastiano nel Torrone, e consente sia da detta querella liberato et in fede del vero ho fatto la presente di sua comissione Io Ant Tubertini scrissi

24 (ASB, Torrone, 2354, inserito a c.120) Adi 17 di zenar 1591 Io Pier di Rainaldi da li Lodele renucci ogni querella ha Bertolomeo di Francesco da le Lodele. Jo D. Zuste di Frabi rector a Bibulan ho scritti de mission [?] del ditte Pier sopra scritte presente Nani di Nani da li Lodeli e Zan Maria già del M° Benedette selar.

25 (ASB, Torrone, 2354, inserito a c. 201) Adi 17 di genarre 1591 Magniffico signor soprastante al governe della città e ’l contà facio fede jo Sabadina moglie già di Simon del Pin mi chiamo non

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ahavere ricevute male alcune da Jacome filiolo di mestre Agostino di Laudi come jo sono sodisfate di tutte le mie robbe e come luj vole dir come le [sic; = l’è?] e chi lo manda. Jo Gilio di Laudi scrise

26 (ASB, Torrone, 2304, inserito a c. 326) [18 gennaio 1591] Fidem facio et attestor ego notarius infrascriptus qualiter die decima septima presentis mensis reqs fui de instrumento pacis et renuntie, factum inter Iacomum de Stancariis nuncupatus Francolino ex una, et Franciscum de Pasinis ambo de Crepalcorio ex altera, sub pactis, modis et conventionibus de quibus in dicto instrumento ad quod et in quorum fidem sic me subscripsi. Datum Creprii die 18 ms. Ian.rii 1591 Ego Philotheus de Sartis de pretis rogs

27 (ASB, Torrone, 2353, ins. a c. 276) [18 gennaio 1591] Io Isabella Goggiadina Desiderij facio fede come il chochiero del S. Marzello Lignano m’à mandate il mio lenzolli il quale m’era stato robate. Isabella soprascritta

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28 (ASB, Torrone, 2354, inserito a c. 228) Adi 23 di genaro 1591 Io D. Gio. Battista cappellano della chiesa di S. Giorgio di Varignana renontia ogni querella fatta dal Massaro o da altri contra a Giovanni di Anto da Vonj per havere tolto certe robbe in chiesa sopra detta, come lui mi ha confessato, dette robbe sono restituite et parte sono a mia posta, presente testimonij e così intendo come religioso, et non li sia proceduto contra, ne civille, ne criminale, et in fedi di ciò ho scritto la presente di mia mano. Io D. Gio. Battista come di sopra.

29 (ASB, Torrone, 2373, inserito in fine) [Rinunzia rogata in Castelbolognese dal notaio Giovan Battista de Pallanteri in data 8 marzo 1591. «Andreas q. Nicolai de Rubeis de Blancanigo» da Castelbolognese in nome anche del fratello Giovanni rinunzia ad ogni lite civile e criminale contro Pantaleone Paduani]

30 (ASB, Torrone, 2373, inserito a c. 334) Adi 26 di Marzo 1591 Si chiarisse per il presente scritto come Matia pescatore fachino habitante sotto la parochia di S.ta Chaterina di Saragozza nella contrada di Malpertuso fa la renoncia a Francesco Strella per haver detto Francesco datto delle bastonade a detto Matia et così renoncia la querella fatagli nel Torone di Bologna presenti duoi testimoni che sono l’uno che si chiama Ms. Gio. Batta Rigoni et l’altro che si chiama M.ro Iacomo delli Cardinali et in fede di ciò ho fatto questa et sottoscritta di mia propria mano. Io Vianesio Albergati confermo quanto di sopra

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31 (ASB, Torrone, 2373, inserito a c. 432) Adi 4. di Aprillo 1591 Facio fede io Hieronimo Sega maestro de casa de la Ill.ma Sig.a Luda Campeggi che avendo fatto incarcerare Bernardno di Barbieri nostro carocieri ve contentate de relasarlo a nra istanza ateso che da lui non si trova cosa veruna et così ce ne contentiamo che sia relasato dal carcere con che fine le basio le mane. Di casa ali 4 di Aprillo. Di V.S. servitore et como fratello Hieronimo Sega mastro di casa di li Ill.mi Sig.ri Alessandro Campeggi Die 4a Ap.lis 1591 Suprascriptus D. Hier. Sega [...] visa et lecta supradicta fide per me notario sibi ostensa dixit per ipsumet eadem factam fuisse de consensu Ill. D.ne Ludovicae Campeggi et ipse manu propria scripta et subscripta et contenta in ea esse vera.

32 (ASB, Torrone, 2388, inserito a c. 15) A di 7 di Aprille 1591 Faccio fede a Voi Mag.co Auditore del Torrone di Bologna io Don Giovanni rettore della chiesa di S.to Hieo di Granaglione qualmente Pedro di Agnolo Vivarelli di questo loco rinontia ad ogni querella per sua instantia formata, e fatta contra Giovanni di Gianmaria Marzantelli dinanzi a V.S. per ogni briga e rissa nata fra loro ateso che essi sono pacificati insieme da buoni christiani, et perrò consente che detta querella sia cancelata, et detto Zoanne sia asoluto e libero in ogni miglior modo. Et per non havere commodità di nodaro publico hano pregato me Giovanni sudetto a fare la presente di mia mano, presenti Don Giovanni di Carlo, et Antonio di Pedrino Vivarelli. Ego Inis ut supra

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33 (ASB, Torrone, 2331, inserito a c. 222) Al nome de Dio adi 20 di maggio 1591 Facio fede a voi sig Not io Basto di Millani come fui ricercho a giorni passati dalla Lucia di Millani mia sorella qualle domandava a Hiero di Rizzoli certa sua farina altre volte posta in casa del d. Hiero con haverli accordar insieme, atto che da farina era stata tolta dil loco dove essa Lucia l’haveva posta et così per concordia di tutte due le parti et di lor consenso dibarai che il do Hiero pagase alla da Lucia lire trenta de questo et così essa si contenta, con patto che ‘l detto Hiero non voleva sentirsi cosa alca per conto dil canzello della querella et essa promisse fattoli tal pagamento che la cancelaria lei dil suo. In fede di che ho fatto far la presente qual ser sotto scritta da me con farli una croce per non saper crivere et da duoi testimoni questo di sopra + Io Anto Ma. Zanatti fui presente a quanto di sopra Io Paulo Gilardoni fui presente a quanto di sopra

34 (ASB, Torrone, 2404, inserito a c. 84) + 1591 adi 30 di maggio Io Pietro Gigliamonti fo fede come l’Ill.e S.r. Scipione Zanbechari ha fatto far la pace a Guasbarino de Meligotti alias de Giraldi con il Masaro et Bastiano et Gianmaria fratelli de Minelli da Roncha et molinieri et così si sono contentati una parte e l’altra pacificarsi insieme et renuntiano ogni querella che havessino fatta in nel Torrone si contentano tutti di rinunttiare ateso che si sono pacificati insieme per fare cosa grata al detto Ill.re S.r Scipione sopradetto in presentia del S.r Horatio Bolognini et Ms. Scipione Balbi et la detta fede sara sotto iscritta per mano del Ill.re S.r Scipione sopra detto. Io Scipion Zamb.ri affermo a quanto si contiene

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Appendici

35 (ASB, Torrone, 2373, inserito a c. 35) [Rinunzia di Emilia, «filia Tonini Zanotis», ad ogni querela contro «Cechinum q. Antonii de Follis», rogata il 1 giugno 1591 dal notaio «Tarabus[?] q. Andreae de Amelis de Casio»]

36 (ASB, Torrone, 2330/2, inserito a c. 36) [3 luglio 1591] Adi detto [la data si evince da un appunto del notaio a termine del processo relativo] io Biasio del Rosso Zanbelli non mi chiamo ofeso da Giorgio di Silvestro di Casola per conto di havere dato a Amilcare mio figliolo et mi contento che sia scancelato la querella fatta a mia instanza et in fede del vero io Hippolito stando a prieghi delle parti o fatto la presente fu presente Tognarino da Casola et Bernardo Boragio [?] Io Hippolito [tre lettere illeggibili]

37 (ASB, Torrone, 2304, inserito a c. 250) + al nome de Dio adi. xxii d’agosto 1591 Fazio fede io sotto schritto chome Battista Zavatta renunzia ogni querela che a sua instanzia fose statta fatta chonttro Dom de Berttuzi al prexente charzeratto nel pregion di Bologna chon patto che detto Battista Zavatta e detto Domenico de Berttuzi faziano paze insieme e siano boni parentti e vizini insieme e detto Battista se conttentta sia relasatto de pregione. E per fede io Philippo Zi ho fatto e schritto detta renonzia per sua chomissione Io Philipo Zi

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38 (ASB, Torrone, 2373, inserito in fine) A di ultimo 9bris 1591. Facio fede io Filippo Zanolini da Castelbolognese come fra Bernardo già di Battista Castelli e me mai non è stata nimicitia di sorte alcuna ne tampoco ho havutto a far con esso cosa di male anzi ch’io gli farei ogni sorta di servicio ne meno intendo ne voglio che egli patisca in ragione per me et in fede di ciò Io Filippo Zanolini sopradetto ho fatto la presente di mia mano Consul Consilium et Homines Terrae Castri Bononiensis his praescriptis inspectis [...] fidem facimus ac attestamur fidem sopranotatam fuisse et esse manu M. Filippi Zanolini de dicto Castro et ab eo recognitam. Dicto Castro die 30 Novembris 1591. Ego Balthr Pallanterius Canc.

39 (ASB, Torrone, 2373, inserito a c. 21) [Rinunzia di Giovan Battista del fu Girolamo Forni di San Giovanni in Persiceto ad ogni querela contro Vincenzo di Francesco Viani e Francesco del fu Annibale «de Strigariis» rogata «in dicta terra S. Joannis» in data 8 marzo 1592 dal notaio bolognese Smeraldo «de Speratis»]

40 (ASB, Torrone, 2277, inserito a c. 311) Adi 4 Agosto 1592 Faccio fede al M. Ill.mo et ecc.mo s. Audre del Torrone io Torquato Monaldini qualmente domenica prossima passata, che

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furno li 2 del presente, havendo M. Lorenzo Riccardi et M. Tadeo de Abello rimesso in me ogni differenza et controversia che sin’allhora havessero havuto fra loro, si contentorno in gratia mia pacificarsi insieme, sì come effettualmente fuori la Porta di S. Mamolo al loghetto di mio padre alla presenza mia et di molti miei amici et compagni si toccorno detti Abello et Riccardi la mano et abbracciorno insieme et fecero pace, promettendo di haversi l’un l’altro per amici. Ita ist [?] Torquatus Monaldinus q s manu prop

41 (ASB, Torrone, 2354, inserito a c. 251) Adi 19 ottobre 1593 In virtù della presente scrittura si chiarisce qualmente Ottaviano già di Golino di Serra da Barbarolo contato dj Bola sapendo Jaco già di Nerozzo Nerozzi del detto luogo esser stato querellato nanci il S. Auditor del Torron della detta città per il Massaro di detto comune sopra di esser stato offeso dal detto Jaco di notte perché è chiaro che il detto Jaco non l’à offeso, che lo cognosce per amico et benivolo, et che mai ha hauto a far seco se non bene. Però renuntia ad ogni inquisitione e querella fattali contra così per il Massaro come per altra persona, et così vuole et consente che detto Iaco si possi torre et cancellar da detta querella et da ogni libro, quaderno e vachetta dove fosse scritta et totalmente lo discolpa et promette non zitar ne innovar cosa alcuna contra detto Iaco sotto pena et obligatione delli suoi beni et così giura per il santo Evangelio et ha pregato me Filo Ma ch’io scriva questa scrittura alla presenza di Pier Frao del Trebbo et Mateo da Simia tutti da Barbo. Io Filo Ma in ogni miglior modo che si può

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42 (ASB, Torrone, 2354, inserito a c. 279) Adi 9 de frevaro 1594 Si fa fede per me curato de la chiesa di Sesto come domenica il dì 6 detto fui ricercato da Angello di Frabi in domandare la renontia de una aquarella de Manfredo Cagnollo mi pare sia fra loro, mi rispose detto Manfredo non lo voler fare, dicendo «jo non mi impazo con luj», non mi dette altra risposta. Io Giovanni de Grifo curato de S.to Andrea da Sesto

43 (ASB, Torrone, 2304, inserito a c. 102) Adi 5 di Marzo 1594 Facio fede io Don Gio. Bernardino Accursio priore di S. Maria Maddalena che la Lena di Rossi renoncia la querella a Pietro Bechetto già da lei fatagli non solamente la querella ma ogni altra cosa cosa [sic] che fusse stata fra di loro e in fede del vero ho fatto la presente Io Don Gio. Bernardino Accursio ut supra

44 (ASB, Torrone, 2373, inserito a c. 35) A dì 6 Agosto 1594 in Bargio Io Antonio Zanasi facio fede a voi Sig.ri Notari del Torrone di Bologna come M° Pietro muratore de Bargio renontia ad ogni querela fatta contra Cechino di Foli da Bargio et per fede del vero io sopradetto a prieghi del detto M° Pietro ho scritto et sotto-

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scritto la presente di man propria quale sarà sottoscritta da doi testimonij. Io Antonio Zanasi di man propria Io Paulo Canapa fui presente quanto di sopra Io Gio. Francesco Brugnatelli fui presente a quanto di sopra

45 (ASB, Torrone, 3376, inserito in fine) Al nome di Dio a dì 20 d’agosto 1602 Io infrascritta alla presenza dell’infrascritti testimonii renonzo ad ogni e qual si voglia querella per me o ad istanza mia fatta nel Torrone di Bologna contro Domenico Fantone e mi contento che per mio interesse più non sii molestato. In fede ho fatto fare io Nastasia de Gilii la presente che sarà per non saper scrivere affirmata con una croce + Jo Terenzio Chiechi fui presente a quanto di sopra J. Antonio Maria di Chiechi fui presente quanto di sopra

46 (ASB, Torrone, 3376, inserito in fine) A dì 2 7bre 1602 Io Gilio di Gilii habitante nel comune di Montevia renuntio ogni querella fatta da me a Domenico figliolo di Lanzo Fantoni del detto comune la quale querella è fatta per conto di stupro per Anastasia mia filiola la quale ancora lej la renontiata come appare in scritto presente testimonij e così per essere jo in ponto di morte prego le signorie vostre a non fare altro in detta querella per mio conte perché io li perdoni con il cuore come fatio con la bocca et per non saper scrivere ho pregato che la scritta et jo fatio la croce

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+ presente li sottoscritti testimonij ciové Gio. Antonio Bolotta Bernardo Sarti Sebastiano Cecharini Gio. Ghurmanni Pellegrino Fantoni et io Battista Fantoni con prego del detto Gilio ho fatto la presente

47 (ASB, Torrone, 3437 inserito a c. 6) A dì 19 de novembrio 1602 Io Vincenzo Snodello i.nome de M.ro Zanbatista di Mengole renuncia ogni quarela fata contra Arcolino Flicano [= Ercole Pelicani] et ano fato la paso presento testimoni e questi testimoni è M.re Petroni Franzini e l’altro è M.ro Nicholo di Panchaldo et il detto Archolino chredano che fuso stato uno pocho alegro per avere beuto et sono restato amigo quanto erano prima. Jo Vicenzo Snodelo o fato la presente Dicomi zio de deto M.ro Zan Batista di Migolo [con altra scrittura e altro inchiostro:] Io Charlo Antoni Franzini i.nome de mio padr Petroni Franzini et de sua comisono afermo quanto di sopra

48 (ASB, Torrone, 3444, trascritto a c. 48r) [27 novembre 1602. Il Massaro di San Gilio informa che:] Lunedì a sera che fu alli 25 del presente essendo nata rissa tra Francesco Barili e Girollamo Rizzoli per conto di pugni fatti tra lo-

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ro et volendo essi far pace insieme di tutto quel che fusse occorso per tal causa tanto in parole quanto in fatti, et intendendo in avvenire non volersi offendere l’un l’altro in modo alcuno, anzi intendendo voler essere amici, et così fanno pace et renuntia insieme. [seguono le firme di due testimoni]

49 (ASB, Torrone, 3438/1, trascritto alle cc. 138v-139r) [19 dicembre 1602] Noi infrascritti renuntiamo ad ogni querela che fosse stata fatta nel Torrone di Bologna a messer Girolamo Macchi detto Riccio e ci contentiamo che detto M. Girolamo non sia molestato più per tal conto in modo alcuno. Jo Ascanio Leoni affermo quanto di sopra Jo Paolo Leoni affermo quanto di sopra Jo Girolamo di Chizzoni affermo quanto di sopra

50 (ASB, Torrone, 3443, trascritto alle cc. 273v-274r) Die 30 Jan.rii 1603 Compt in offo coram me notarium D. Petrus Bonacosa, et pro exornatione [?] sue consientie dixit prout infra: Hiersera io ad intercessione del S.or Conte Thadeo Pepoli feci la pace con Mr. Baldasera Barbuglia che querelai li dì passati che me havesse fatto dare le bastonate da Gio. Battista Cimicello, et perché detto Mr. Baldasera me confessò hiersera alla presentia del S.or Conte Thadeo, d’Hercole Berò et Mr. Michele Bocconate da Grecchia che quello che me dette le bastonate fu lui stesso Mr. Baldasera, però io non intendo di litigar più con detto Cimicello non

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essendo lui delinquente (et ita iuravit) ma trovandosi per l’avenir che fosse stato lui non intendo che questa mia renonza vagli ma che se facci la giustitia.

51 (ASB, Torrone, 3437, inserito a c. 214) [febbraio 1603] S. Julino vien Loren con una scritta del To per quele legne. Vi dico che siamo dacordo [due parole non chiare] et solidos 3 [due parole non chiare] a lui me la [una parola non chiara] et a voi mi racomando. V.ro padre Barto Berti

52 (ASB, Torrone, 3445, inserito a c. 198) A dì 12 di apr.le 1603 Io Giorgio dalla Costa o ricevuto da Mr. Lucio notaro un linciolo che mi fu rubato dal Nerozo come nella mia quarella perchè io non so scriver o fatto far la presente a mi Zan Paulo Pagotti da Bologna

53 (ASB, Torrone, 3444, inserito a c. 157) Adi 3 de Maggio 1603 Io Francesco Cola habitante in la capella di S.a Maria di Casaglia i.nome di Lorenzo mio figliolo renoncio ogni et qualunque querella fatta contra Domenico figliolo di Antonio Busatto habitante ne la capella di S.° Michelle di Gaibola per parole et altro oc-

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Appendici

corse tra essi Domenico et Lorenzo sopa dti et in fede di ció io Francesco su detto o fatto de mia propria mano Io Fraco afermo quato di sopra Io Lorenzo soprascritto affermo quanto di sopra

54 (ASB, Torrone, 3444, inserito a c. 163) Adi 29 di 7bre 1603 Faccio fede io Don Coraglio Macolini come è seguita pace fra Cisilao Bonfiglio et Simone Brentazoli soccio di Mr. Lovisio Frascaroli della scola di S. Martino di Caprara et in fede ho fatto la presente quale sarà sottoscritta di mia mano questo dì sudetto Io Don Coraglio Macolini affermo quanto di sopra

55 (ASB, Torrone, 3440, inserito a c. 326) + adi 29 de lui 1604 Jo Bartolamio Gainti renuscio ogi charela fata ogi.n li Turino per ochogie de vdi talati [= per occasione di viti tagliate] scugi [sic?] a uno mio locho posti in l chomu de Bochoventi e choscì a mia instasca [= istanza] nono scia molestata però scimolo [sic?] chosì non altri. Et per fede del tuto o fati la pretese [= presente] jo de mia mano Jo Bartolamio Gainti

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Appendice I

56 (ASB, Torrone, 3445, inserito a c. 82) Adi 18 di magio 1605 Io Bastiano dal Belo facio i.nomo di Antonio Maria di Migeto et di G. Batista di Biodo rinucia ogni quarela fata cotra a Benedeto Corse et per non sapere scrivi li farano una croce di sua mano et serano sotoscrita per mano di dui testimonio et stato scrivito la pres[en]te Io Bastian del Belo faccio la presete quanto di sopra e facio testimonio ali deto altre testimoni + + Io Lunardo Cossa fui prenti quanto disopra Io Paulo Cossa afermo quanto di sopra

57 (ASB, Assunteria liti e paci, II, Scritture per le paci, c. sciolta n.n.) Adi 8 maggio 1656 Per ubbidir all’instanza fattami a nome del Co. Costanzo mio padre, che sia in Cielo, dal P. fra’ Carlo del Finale predicat.re Cappuccino, facio con la prescritta, e sottoscritta di mia mano, ogni renuntia necessaria libera pace, et perdono in generale, e in particolare a qualsivoglia persona che con presenza o assistenza habia havuto arte, o parte, così doppo come nel fatto dell’humicidio comesso nella persona di fra Battista Bentivogli, che sia in Cielo, a che tutto acconsente anche l’Archidiacono mio fratello, e sottoscriverà di propria mano alla presenza degli infrascritti: Io Filippo M.a Bentivogli Io Carlo Archidia.o Bentivogli approvo confermo quanto di sopra Io D. Bartolomeo Suprani fui presente a quanto di s.a Io f. Carlo dal Finale Cappuccino fui presente a q.to di sopra Io f. Giacomo da Bagnacavallo Cappuccino fui presente a q.to di sopra

APPENDICE II (Torrone, Assunteria liti e paci, Scritture per le paci, 2 cc. n.n) Copia della scrittura presentata dal Sig. Co. Rinaldo Ariosti a nome del Ser.mo Sig. Principe Cardinal d’Este al Sig. Nicolò Ghislieri doppo la mandata Pace del Sig. Co. Antonio, e risposta havuta in ringratiamento da S.A.S. Essendo l’anno 1653 li 21 Agosto successa rissa su la Fiera di Bologna di notte fra il Sig. Co. Fra Batta Bentivoglij et il Sig. Giuglio Scarlattini, col quale era in sua compagnia il Sig. Filippo Maria Ghislieri suo fratello uterino, et havendo il Sig. conte Fra. Batt.a chiamato in sua compagnia il Sig. Co. Antonio Bentivoglij per andar ad incontrar di poco dopo la rissa il detto Scarlattini, come seguì vicino alla casa delli Sig.ri Ghislieri; succedé che il Sig. Co. Fra. Batt.a nella questione fu da un’archibugiata sparata dalla parte contraria morto, sopra che in progresso di tempo, essendo prima morto il Sig. Giulio Scarlattini di morte naturale, li fratelli del Sig. Co. Fra. Batt.a fecero pace con li Sig.ri Ghislieri, e con tutti quelli che si erano trovati nel fatto della suddetta morte. E perché il Sig. Nicolò Maria Ghislieri padre del Sig. Filippo Maria fece passare (nell’istesso tempo che si trattava la pace con li fratelli del Sig. Co. Fra. Batt.a) officii col Sig. Co. Antonio a Firenze, dove era andato, e rapportatone sempre risposta che il Sig. Co. Antonio sarebbe facile a seguire in questo negozio le risoluzioni dei fratelli del Sig. Co. Fra. Batt.a, come si vede dalle lettere passate sopra da’ Cavaglieri parenti del Sig. Nicolò Maria, copia delle quali si trovano presso al Ser.mo Principe Cardinal d’Este; stimossi il Sig. Filippo Maria sicuro né bisognoso di doversi guardare dal Sig. Co. Antonio seguita che fu la pace con li Sig.ri Co. fratelli del già Sig.

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Co. Fra. Batt.a, dopo che ne fece passare il Sig. Nicolò Maria novo uffizio per mezzo dell’istesso Cavaliero, che ne rapportò risposte conforme le prime dal detto Sig. Co. Antonio, quale pretendendo che oltre gli uffizii passati si dovesse dar perfezione alle sue intenzioni col porle in scrittura; il che non essendosi effettuato avenne che la notte 31 ottobre 1657 ritornando a casa senza sospetto il Sig. Filippo Maria, fu assalito da più persone da quali li furono sparate due archibugiate, per le quali alcune settimane dopo morì. Del qual fatto essendone stato l’auttore il Sig. Co. Antonio Bentivolij, che vi si trovò con gente di sua casa, e conoscendo quanta sicurezza poteva havere il Sig. Filippo Maria di non haverlo per nimico, si duole del seguito e si dichiara che se fosse a farlo non lo farebbe, e che col proprio sangue vorrebbe poterlo ritrattare. Però è ricorso dal Ser.mo Sig. Principe Cardinale d’Este suplicandolo humilissimamente interporre la sua valevole auttorità col Sig. Nicolò Maria e i Sig.ri suoi figliuoli per ottenergli la pace. Onde desiderando S.A.S.ma la quiete e bona corrispondenza di queste case, che tanto ama e stima, si move a pregare il Sig. Nicolò Maria e Sig.ri suoi figlioli di perdonare al Sig. Co. Antonio la morte del Sig. Filippo Maria, e di voler concedergli in avenire sopra ciò, et ogni altra imaginabil differenza fra essi, vera, bona, e sincera Pace.

INDICI

INDICE DEI NOMI

Abbondanza Blasi, R.M., 136. Abecassis, A., 5. Abel, O., 4, 191. Abello, Cesare da, 69. Abello, Taddeo da, 33, 68-70, 7374, 76, 85, 188, 212. Accattoli, L., VI. Accursio, Giovan Bernardino, 213. Aceti, Serafino da Fermo, canonico lateranense, 142. Achilli, Paolo, 134. Adelchi, duca longobardo, 109. Ago, R., 37. Agostino da Trento, lanaiolo, 199. Albergati, Fausto, 108-112, 114, 116, 122, 157. Albergati, Vianesio, 207. Albergati Ludovisi, Nicolò, cardinale, 119. Alberigo, G., 130. Alesio, Sacripante, 199. Algazi, G., 9. Ambrogio, santo, 4. Ameli, Tarabus (?) del fu Andrea, 210. Amici, Cornelia, 149, 167-169. Andrea, maestro di scuola di Minerbio, 143. Andrioli, Alessandro, 199. Angela, moglie di Agostino Roncarati, 145. Angelo, Pietro, 130. Angelozzi, G., 25, 93-94, 101, 110111, 113, 115, 121.

Annibale da Montebugnolo, 199. Ansidei, Giuseppe, 109. Antioco IV Epifane, re di Siria, 78. Antonio, sacerdote di Minerbio, 142. Arendt, H., 4-5, 191. Ariosti, Giovanni, 87. Ariosti, Rinaldo, 120, 221. Ariosto, Ludovico, 175. Attendoli, Dario, 100, 120. Aubriot, D., 4. Azpilcueta, Martín de, domenicano, 131-132. Baglioni, Astorre, 103. Balbi, Scipione, 209. Baldi, Camillo, 79. Baldo degli Ubaldi, 80. Balduini, Mengone, 196. Balzini, Fiano, 197. Barbauto, Niccolò, 134. Barbazza, Ugo, 43. Barbieri, Bernardino, 208. Barbuglia, Baldasera, 87-92, 216. Barili, Francesco, 215. Barocchi, P., 11. Barone, G., 130. Barthélemy, D., 128. Bartolomé de Medina, domenicano, 163-164. Bartolomeo da Pianoro, 29, 200201. Bartolomeo di Francesco, 205. Basigalli, Benincà, 36.

226 Bassi, Cristoforo, 204. Bassi, Rodolfo, 204. Basso, rettore di Minerbio, 143. Bastiano di Maria, 195. Battaglia, S., 6, 79. Baumstark, A., 80. Bazzocchi, D., 128. Beccaria, Cesare, 17, 38, 190. Beccaria, G.L., 134. Bechetto, Pietro, 213. Beer, M., 95. Beja Perestrelo, Luís de, agostiniano, 164-165, 168-169. Bellabarba, M., 20, 39, 73-74, 83, 93, 101. Benedetti, Giulio, 59, 61, 149. Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa, 183. Benedetto da Mantova, vedi Fontanini, Benedetto. Beneincasa, Pompeo, 166. Bentivoglio, famiglia, 119-121, 124. Bentivoglio, Antonio, 118-119, 221222. Bentivoglio, Battista, 124-125, 219. Bentivoglio, Carlo, 124-125, 219. Bentivoglio, Cornelio, 96-98, 142. Bentivoglio, Costanzo, 124, 219. Bentivoglio, Filippo Maria, 124-125, 219. Bentivoglio, Francesco Battista, 118, 221-222. Bentivoglio, Ulisse, 120. Benveniste, É., 6, 9, 16, 18, 125, 188. Bercé, Y.M., 28. Berengo, M., 72. Beretta, Ginevra, 142. Bernardino da Montefeltro, 130. Bernardino da Siena, francescano, santo, 71, 74, 130. Berò, Ercole, 88, 216. Berselli, Carlo, 203. Bertelli, S., 77, 84. Berthoud, G., 15. Berti, Bartolomeo, 217.

Indice dei nomi

Berti, Giulino, 217. Bertuzzi, Domenico, 210. Betri, M.L., 156. Betti, G.L., 111. Bettini, M., 4-5. Bianchi, Emilio, 202. Biava, Lunardo, 198. Billacois, F., 93, 95. Biodo, Giovan Battista, 219. Birago, Francesco, 104-105, 107108. Birani, Domenico, 146. Birani, Francesco, 145-146, 148. Black, Ch.F., 152. Blastenbrei, P., 35, 37, 167, 187. Bliersbach, E., 82. Bloch, M., 28. Blok, A., 93. Boatta, Tonio, 197. Bocconate, Michele, 88, 90, 216. Bollani, Domenico, 160. Bolognini, Fulvio, 204-205. Bolognini, Orazio, 209. Bolotta, Giovanni Antonio, 215. Bompressi, O., VI. Bona, Battista, 198. Bonacossa, Pietro, 87-90, 92, 216. Bondini, Giovan Paolo, 199-200. Bonfantini, M., 7. Bonfiglio, Cisilao, 218. Bonfiolo, Nicolò, 30. Bonifacio, Giovanni, 106. Boragio, Bernardo, 210. Borgia, Francesco, gesuita, santo, 153-154. Bornstein, D., 130. Borromeo, Carlo, cardinale, santo, 40, 152, 154-155, 157. Borromeo, Federico, cardinale, VIII. Bossy, J., 19, 80, 159, 170. Botti, Alessandro, 199. Brambilla, E., 131, 144. Bremmer, J., 78. Brentazoli, Simone, 218. Brizzi, Alessandro, 53, 64, 200.

Indice dei nomi

Brizzi, Santa, 64- 66. Brocio, Teseo, 150, 202. Broët, Pascasio, gesuita, 172-173. Broggio, P., 93, 171. Brucioli, Antonio, 135. Brugnatelli, Giovan Francesco, 214. Brugnoli, Giannino, 150, 202. Buonarroti, Michelangelo, 10. Busato, procuratore, 197. Busatto, Domenico di Antonio, 217218. Buscarolo, Francesco, 49-50. Cabrini Chiesa, L., 80. Cagnollo, Manfredo, 151, 213. Caietano, cardinale, vedi Tommaso da Vio. Calabresi, L., VI. Calderini, Nicolò, 119. Calore, A., 77. Calvino, Giovanni, 9-10. Calzolari, Antonia, 43-46, 50. Calzolari, Benedetto, 43, 46. Camerata di Randazzo, Girolamo, 109. Campeggi, Alessandro, 208. Campeggi, Ludovica, 51, 208. Canapa, Paolo, 214. Capo, L., 130. Caponetto, S., 10. Caprara, Massimo, 62. Carafa, Pierluigi, cardinale, 117. Carboni, Ludovico, 100-101, 136137, 140, 163-165. Carciani, Nicolò, 167. Cardinali, Giacomo, 207. Carlo dal Finale, cappuccino, 124125, 150, 219. Caro, Annibale, 103. Carré, Y., 80. Casagrande, G., 82. Casanova, C., 25, 93-94, 111, 113, 115, 121. Casoni, Piero, 202. Cassio, Jacopo, 86.

227 Castan, N., 63. Castan, Y., 28. Castelli, Bernardo del fu Battista, 211. Catanio, Ercole, 44. Cavina, M., 76, 93-94. Ceccarini, Sebastiano, 215. Centanni, M., 77, 84. Ceppari Ridolfi, M.A., 113. Charles de Genève, cappuccino, 170. Chartier, R., 55. Châtellier, L., 135, 170. Chittolini, G., 41. Chizzoni, Girolamo, 216. Cimicello, Giovan Battista, 87-88, 216. Cione, E., 12. Cirni, Anton Francesco, 9, 101-102. Claro, Giulio, 89. Clesini, Giovanni, 142, 144. Cola, Francesco, 217-218. Cola, Lorenzo di Francesco, 217218. Cola da Camerino, 82. Collins, R., 19. Colón, Hernán, 132. Colonna, famiglia, 85. Colonna, Vittoria, 11. Comastri, Domenico, 160. Contarini, Gasparo, 138. Conti, Antonio Maria, 65. Conti, Corradino, 197. Conti, Domenico, 49. Conti, Francesco, 197. Corbo, A.M., 81. Corradi, Lancellotto, 81, 99. Corsi, Benedetto, 219. Corso, Giovanni, 176. Corso, Rinaldo, 99. Corti, Giovanni, 57, 204. Corticelli, Domenico, 197. Cosino, Pedro, 203. Cossa, Lunardo, 219. Cossa, Paolo, 219. Courtois, G., 163.

228 Crépin, A., 3. Crispolti, Tullio, 12, 138-141, 169. Cristino, Andrea, 57, 204. Crouzet, D., 18. Czortek, A., 82. Dal Busco, Francesco, 134. Dalla Costa, Annibale, 86-87. Dalla Costa, Giovan Battista, 87. Dalla Costa, Giorgio, 217. Dalla Costa, Lorenzo, 86. Dalla Nave, Giovan Filippo, 201. Dartora, M., 95. Da Simia, Matteo, 212. Davis, N.Z., 8-9. Davies, W., 19. Davy, M.M., 163. De Benedictis, A., 115-116. De Fatis, famiglia, 82. Del Belo, Bastiano, 219. Delcorno, C., 71. Delille, G., 85. Della Serra, Bastiano, 196. Del Trebbo, Pier Francesco, 212. Delumeau, J., 144. De Mura, Filippo, 184. De Rosa, R., 107. Derrida, J., VI. De Sandre Gasparini, G., 159. Dessì, R.M., 130. Deutinger, R., 76. Dezza, E., 39. Dilcher, G., 80. Di Nola, A.M., 127. Dionisotti, C., 72. Di Sivo, M., 37. Di Zio, T., 25. Dolfi, Pompeo Scipione, 47, 125. Domenico di Bartolomeo da Pianoro, 29, 31-32, 63, 200. Donati, C., 75, 93, 101. Donati, Ottaviano, 196. Donino, Bernardo, 198. Dossetti, G.A., 130. Dotti, Gaspare, 178.

Indice dei nomi

Duby, G., 128. Du Jon, François, 78. Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra, 13. Ercolani, Enrico, 119. Erspamer, F., 93. Este, Rainaldo d’, cardinale, 119121. Estrella, M.A., 136. Evangelisti, C., 55, 111, 143, 156. Fabrazzo, Fabio, 142-144. Fabro, Giacomo, 60-61, 149. Faiatini, Piero, 201. Faleoni, Celso, 156. Fantaguzzi, Giuliano, 128. Fantoni, Battista, 215. Fantoni, Domenico di Lanzo, 214. Fantoni, Pellegrino, 215. Fantuzzi, Giovan Marco, 196. Fantuzzi, Rodolfo, 116-117. Fara, Giovan Francesco, 30. Faralli, C., 8. Farinacci, Prospero, 38-39. Farnese, Gerolamo, cardinale, 119. Farnese, Pier Luigi, duca di Parma, 103. Fasano Guarini, E., 110. Favali, Camillo, 197. Febvre, L., IX, 7. Ferrante, L., 83. Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, 37. Fioravanti, M., 20. Fiorinelli, Piersante, 42. Firpo, L., 141. Firpo, M., XII, 96, 133, 160. Flaminio, detto il Betto, 52. Flaminio, Marcantonio, 138. Flores, M., VII. Folin, M., 37. Folli, Cecchino del fu Antonio, 210, 213. Fontana, Carlino, 57-58, 204.

Indice dei nomi

Fontana, Fulvio, gesuita, 180-183, 185. Fontanini, Benedetto, benedettino, 10-11. Fornasari, M., 25. Forni, Giovan Battista del fu Girolamo, 211. Fosi, I., 25, 37, 114. Foucault, M., 23. Fouracre, P., 19. Frabbe (Fabbri?), Luca, 150, 202. Frabi (Fabbri?), Angelo, 213. Frabi (Fabbri?), Giusto, 205. Fracassuti, Giovan Francesco, 59. Francesco d’Assisi, santo, 129. Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino, 110. Fransioli, M., 153. Franzini, Carlo Antonio di Petronio, 215. Franzini, Petronio, 215. Frarese, Emilio, 203. Frarese, Giulia, 203. Frascaroli, Luigi, 218. Fried, J., 24. Funi, Mariotto, 197. Furido, Giacomo, 203. Gainti, Bartolomeo, 218. Galassi, Gianni, 197. Galasso, G., 184. Galilei, Galileo, VI. Garapon, A., 22. Gardi, A., 32, 42, 54, 113, 157. Garin, E., 95. Garnot, B., 21, 66. Gasparri, S., 130. Gatti, T., 70, 77. Gauvard, C., 13. Gentilcore, D., 171, 183. Gentile, M., 113. Gerardi, Pietro, 149-150, 201-202. Gergen, Th., 128. Gessi, Berlingiero, 94, 107-108. Ghino, Galeazzo, 195.

229 Ghiraldini, Bartolomeo, 29, 200201. Ghiraldini, Giovanni Battista di Bartolomeo, 29-32, 63, 200. Ghirardacci, Cherubino, 115. Ghislieri, famiglia, 119-122, 124125, 221. Ghislieri, Carlo Antonio, 119-121. Ghislieri, Ettore, 43, 46. Ghislieri, Filippo Maria, 118-119, 221-222. Ghislieri, Francesco, 119. Ghislieri, Gabriele Maria, 121. Ghislieri, Nicolò Maria, 119, 121, 151, 221-222. Giaccari, Vincenzo, 133. Giacomo da Bagnacavallo, cappuccino, 125, 219. Giacomo da Modena, 196. Giacomo della Marca, francescano, santo, 130. Gian Maria «già del M° Benedette selar», 205. Giberti, Gian Matteo, 138. Gigliamonti, Pietro, 209. Gilardoni, Paolo, 209. Gilii, Anastasia di Gilio, 214. Gilii, Gilio, 214. Ginzburg, C., 12, 27-28. Giordano, Gironimo di Stefano, 195. Giordano, Pirino, 199. Giorgio di Silvestro, 210. Giovan Battista, cappellano di Borgo Panigale, 167. Giovan Battista, cappellano di S. Giorgio in Varignana, 207. Giovanni, frate benedettino della congregazione dei Celestini, 44, 46. Giovanni, lardarolo, 48. Giovanni, rettore di San Gerolamo di Granaglione, 74, 208. Giovanni di Carlo, 208. Giovanni «di Rafello di Giacho», 202.

230 Giovanni Benedetto da Torino, cappuccino, 72. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), papa, VI. Giraldi, Gasparino, vedi Meligotti, Gasparino. Girolamo, notaio, 86. Gomez, Emmanuel, gesuita, 178. Gonzaga, Ferrante, 97. Govier, T., 4. Gozzadini Desideri, Isabella, 53, 206. Grandi, Domenico di Battista, 195. Grati, Cornelio, 46-49. Grati, Giovan Girolamo, 47. Grazzini, Anton Francesco, detto il Lasca, 36. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa, 110, 156. Grendi, E., 27. Grifo, Giovanni, 213. Grignion de Montfort, Louis-Marie, 135. Groebner, V., 9. Guarini, Alessandro, 104. Guazzini, Sebastiano, 77, 162. Guessio, Giacomo, 198. Guglielmi, curato di San Procolo a Bologna, 29, 201. Guidi, Giovanni Antonio, 198. Guidi, Piero di Croce, 74, 198. Guidiccioni, Giovanni, 71-72. Guzzi, Giovan Paolo, 198. Harvey, K., 79. Head, Th., 128. Helmick, R.G., SJ, VII. Henkel, A., 23. Herlihy, D., 31. Hespanha, A.M., 19, 35, 63, 112. Hoareau-Dodineau, J., 12. Ignazio di Loyola, santo, 106, 134, 171-172, 174-175, 177-178. Iselburg, Peter, 23. Isolani, famiglia, 121, 151.

Indice dei nomi

Isolani, Giovanni Francesco, 121, 125. Isolani, Rizzardo, 119. Jacob, R., 22. Jankélévitch, V., VI. Jo, Andrea, 202. Jo, Piero, 202. Joannou, P.P., 130. Julia, detta la Brutta, prostituta, 142. Jussen, B., 9. Kadima Kadiangandu, J., VII. Kagan, R.L., 35, 40. Kesselring, K.J., 13. Kiernan, V.G., 93. Klapisch Zuber, Ch., 31, 84. Knox, D., 105. Koslofsky, C., 80. Koziol, G., 76. Kristeva, J., 5, 191. Lancellotti, Tommasino, 96-98, 142. Landes, R., 128. Landi, Giulio, 95-96, 98, 102-104. Landino, Silvestro, gesuita, 173-178, 185. Landriani, Marsilio, 114. Larguier, G., 127. Laudi, Giacomo di Agostino, 206. Laudi, Gilio, 206. Lavenia, V., IX. Lefèvre d’Etaples, J., 95, 102-103. LeJay, Claude, gesuita, 171. Leonardi, C., 130. Leoni, Ascanio, 216. Leoni, Paolo, 216. Levi, P., V. Lianori, Leone, 126. Lignano, Marcello, 206. Lippomano, Pietro, 159. Lollini, A., VII. Lombardelli, Sebastiano, 175-177. Longarelli, Pellegrino, 145. Lori Sanfilippo, I., 80. Losa Contreras, C., 12-13.

Indice dei nomi

Lucatello, Domenico, 57. Lucio, Notaio, 217. Luis de Granada, domenicano, 105. Luna, Paceco, 29, 201. Lutero, Martino, 10, 134-135, 140141. Macchi, Girolamo, detto Riccio, 216. Maccolini, Francesco, 50. Macolini, Coraglio, 218. Madruzzo, Cristoforo, 137. Madruzzo, Ludovico, 161. Magnano, Eugenio, 86. Magnano, Giacomo, 86. Magnano, Vincenzo, 86. Magoni, C., 176. Mainetti, Ottaviano, 146. Malvasia, Cornelio, 122. Malvezzi, famiglia, 113, 118. Malvezzi, Antonio Galeazzo, 119120. Malvezzi, Gaspare, 117. Mammana, S., 72. Manzolini, Carl’Antonio, 52. Manzoni, Alessandro, IX-X. Marcantonio, sacerdote di Minerbio, 142. Marcatto, D., 96. Marchal, N., 22. Marchese, Lulino, 195. Marchese, Valdissera, 52. Marchetta, Marcantonio, detto Mangiagallo, 57, 204. Marchetti, P., 89. Marchionne, veneziano, 52. Mariani, R., 33, 42. Marini, Girolamo, 33-34. Marsch, E., 106. Marsili, famiglia, 117. Marsili, Cesare Annibale, 117. Marsili, Ippolito, 76-77, 162. Martelli, Cosimo, 61. Martello, Domenico, 52. Martignoli, Giovan Battista, 150, 202.

231 Martino di Maria, 195. Martino di Tomia, 201. Marzantelli, Giovanni di Gian Maria, 208. Mascarini, Michele, 196. Mascarino, Cesare, 43-46. Masi, G., 80. Massarelli, Angelo, 137. Massetto, G.P., 37, 74. Mastellari, Antonio, 65. Mastellari, Giulio, 53, 64-65, 199200. Mattia, pescatore facchino, 207. Mauss, M., 8. Mazza, Bartolomeo, 196. Mazza, Santo, 196. Mazzante, Nicolò di Pirino, 199. Mazzi, Domenico, 46-49. Meligotti, Gasparino, 209. Mengoli, Gian Battista, 215. Menzani, famiglia, 114. Merckle, S., 137. Michel, A., 4. Migeto, Antonio Maria, 219. Migono, Girolamo, 203. Milani, Bastiano, 209. Milani, C., 4. Milani, Lucia, 209. Millbank, J., 10. Minelli, Bastiano, 209. Minelli, Gian Maria, 209. Mitelli, Giuseppe Maria, 52. Mohlo, A., 41. Monaldini, Torquato, 69, 211-212. Monaro, Matteo di Giulio, 196. Monfardini, Giulio, 202. Montanari, D., 160, 162. Montecalvo, Scipione, 198. Morello, Gian Giorgio, 202-203. Moretto (Morato), Pellegrino, 135. Morigia, Paolo, gesuato, VII. Morone, Giovanni, cardinale, 40, 96. Moroni, Niccolò, 77. Muraglia, Lorenzo, 52.

232 Muratori, Biagio, 59-61. Muratori, Ludovico Antonio, 108109, 184. Muzio, Girolamo, 96, 98. Nadal, Jerónimo, gesuita, 171. Nagel, A., 11. Nandini, Pier Matteo, 59. Nani di Nani, 205. Nanni, famiglia, 83-84. Nannini, Alfonso, 146, 158. Natalia, cognata di Agostino Roncarati, 145. Negrini, Negrino, 202. Nerozzi, Giacomo del fu Nerozzo, 212. Nicola, caporale del Bargello, 62. Nicola da Tolentino, santo, 82. Nicolau, M., 171. Nicolini, F., IX. Nicolucci, Gian Battista, detto il Pigna, 98-99. Nubola, C., 16, 161. Numai, famiglia, 71. Ochoa, Santio, 106. Oldoini, Ottaviano, 83. Olevano, Giovan Battista, 104, 108. Omero, 23. Orsini, famiglia, 85. Osbat, A., 37. Ottaviano del fu Golino di Serra, 212. Pacifico da Novara, 131. Paduani, Pantaleone, 207. Pagotti, Gian Paolo, 217. Paleotti, Gabriele, cardinale, 153154, 156-158, 160, 164, 179. Palmio, Francesco, gesuita, 153154, 179. Pallanteri, Baldassarre, 211. Pallanteri, Giovan Battista, 207. Palucci, Piasino, 197. Pancaldi, Nicolò, 215. Paolo di Tarso, santo, 80.

Indice dei nomi

Paolucci, Scipione, 183. Parente, Natale, 51. Pasini, Francesco, 206. Pasotto, Battista, 196. Pasta, R., XII. Pastore, A., XII, 9, 28, 142, 156, 190. Patatu, C., 63. Peder da Romeno, «segador», 161. Pelicani, Ercole, 215. Pepoli, famiglia, 113, 118. Pepoli, Cornelio, 117, 120-122. Pepoli, Taddeo, 88-90, 216. Peristiany, J.G., 9. Perrin, M., 3. Persico, Bastiano, 205. Pertile, A., 38, 76. Petersen, R.L., VII. Petrucci, A., 54. Pic, F., 14. Pietro da Bargio, 213. Pinamonti, Giovan Pietro, gesuita, 180. Pio V (Michele Ghislieri), papa, 154. Pitt Rivers, J., 9, 15. Plauto, Tito Maccio, 4. Polanyi, K., 9. Polinelli, Giacomo, 74, 198. Politi, G., 31, 37, 83. Poloto, Tommaso, 203. Porras Arboledas, P.A., 12. Portelli, S., 190-191. Porzio, Simone, 133. Possevino, Giovan Battista, 75, 9394. Possevino, Marc’Antonio, 110. Povolo, C., VIII, 70, 188. Pozzi, G., 105-106. Pozzi-Molo, E., 73. Prandi, A., 82. Prati, Ginevra, 47. Priebke, E., VII, 190-191. Priori, Lorenzo, 75. Prodi, P., VI, 83, 101, 127, 130, 134, 153-154, 156, 159-160, 164. Prosperi, A., 12, 14, 133-135, 159, 170, 179-180, 186-187, 190.

Indice dei nomi

Quaglioni, D., 84. Rabelais, François, 7-8. Rabotti, G., 72. Raggio, O., 37, 83, 123, 148, 160. Raimondi, E., IX. Rainaldi, Piero, 205. Rangoni, Uguccione, 96-97. Reinhardt, W., 101. Renzi, P., 82. Ribard, J., 10, 17. Riccardi, Lorenzo, 33, 68-70, 73, 76, 85, 188, 212. Riccardi, Sebastiano, 69. Ricoeur, P., VI, 191. Rienzo, M.G., 184. Righi, famiglia, 114. Righi, Benedetto, 202. Rigoni, Giovan Battista, 207. Rinieri, Giacomo, 97. Ristori, R., 11. Rizzoli, Girolamo, 209, 215. Robba, Antonino, 72. Roberts, S., 19. Roffeni, Antenore, 65-66. Roffeni, Emilio, 44. Roma, Romano, 83. Roncarati, Agostino, 144-148. Roncarati, Domenica, 145-148, 158, 167. Roncarati, Maria, 146. Ronzano, Lazzaro, 196. Roodenburg, H., 78. Rossi, Andrea del fu Nicolò, 207. Rossi, Giovanni del fu Nicolò, 207. Rossi, Lena, 213. Rossi, M., 70. Rouland, N., 63. Rousseau, X., 12. Rovigo, V., 81, 127, 132. Rubbini, Rubbino, 205. Rufino da Sorrento, 76. Russell, J.G., 178. Russo, C., 184.

233 Sabadina, vedova di Simon del Pin, 205. Sacchi, Filippo Carlo, 31. Sachetto, Virgilio, 56, 204-205. Sahlins, M., 9. Saladino, V., 77. Sallustio, Crispo Gaio, 4. Salmi, Battista, 86-87. Salutati, Coluccio, 129. Salvatore, notaio, 62. Salvi, Giovan Martino, 198. Salvini, Nicolò, 29, 201. Salvioli, G., 38. Sandelli, Vincenzo, 52. Sangro, Alessandro di, 114. Santucci, F., 82. Sanudo (Sanuto), Marino, 85. Sarti, Agostino, 195. Sarti, Filoteo, 151, 206. Sarti, Giulio Cesare, 57, 204. Sassi, Andrea, 173. Sassoni, Ercole, 146, 158. Sauli, Filippo, 133. Savelli, Marcantonio, 75, 89, 113, 126, 166. Savelli, R., 113 . Savonarola, Girolamo, domenicano, 130, 135-136. Sbriccoli, M., XII, 20-23, 26, 153. Scabaza, Andrea, 195. Scannabissi, Ercole, 167. Scarlattini, Giulio, 118, 221. Schiera, P., 41. Schmid, Chistoph Conrad, 35. Schöne, A., 23. Schreech, M., 7. Schreiner, K., 24. Schwerhoff, G., 20. Scivieri, Marino di Gherardo, 195. Sega, Girolamo, 208. Segneri, Paolo, gesuita, 180. Seidel Menchi, S., 84. Selwyn, J.D., 171, 179. Sensi, M., 81-82. Sera, Domenico, 203.

234 Sera, Tommaso, 51. Seripando, Girolamo, 136, 138. Serughi, famiglia, 71. Shakespeare, William, 16-17, 23. Sigibaldi, Gian Domenico, 96. Simonini, Tommaso, 65. Sirani, Elisabetta, 24. Sisto V (Felice Peretti), papa, 157. Snodello, Vincenzo, 215. Soen, V., 13. Sofri, A., VI, 191. Solignac, A., 3. Sordi, M., 4. Sperati, Smeraldo, 211. Spierenburg, P., 93. Spina, L., 4. Spinola, Orazio, 41. Spisani, Antonio, 198. Spisani, Bernardo, 198. Spisani, Mattia, 204. Spisani, Pirino, 198. Staglia, Lorenzo, 80. Stamarini, Andrea, 167-168. Stancari, Giacomo, detto Francolino, 206. Strella, Francesco, 207. Strigari, Francesco del fu Annibale, 211. Suprani, Bartolomeo, 124-125, 219. Susio, Giovan Battista, 101. Tabarelli, famiglia, 82. Tacchi Venturi, P., 178. Talenti, Vincenzo, 72. Tamassia, N., 85. Tanari, Cesare, 116. Tanari, Scipione di Luca, 198. Tarone, Battistino, 48. Tarone, Camillo, 48-49. Tavilla, C.E., 75, 83. Teronese, Bastiano, 197. Terpstra, N., 152. Tertulliano, Quinto Settimio Florente, 4. Texier, P., 12-13. Thomas, K., 79.

Indice dei nomi

Thompson, A., 129. Thulden, Theodor von, 24. Tinarelli, Benedetto, vedi Righi, Benedetto. Tisserand, F., 170. Tofere, Giacomo, 203. Tognarino da Casola, 210. Tolkemitt, B., 24. Tommaso d’Aquino, domenicano, santo, 162-164, 181. Tommaso da Spalato, 129. Tommaso da Vio, cardinal Caietano, 162. Totti, famiglia, 83-84. Tremellio, Emanuele, 78. Trivulzio, Gian Giacomo, 96, 98, 142. Tronti, M., 79. Tubertini, Antonio, 205. Turchini, A., 155. Turiano, Baldassarre, 174. Turrini, M., 64, 159, 164. Tutu, D., VII. Valdés, Juan de, 11-12, 14, 18, 139. Vallerani, M., 70. Valmarana, Giulio Cesare, 109. Valmarana, Paolo Antonio, 94. Venturi, F., 17. Venturino da Bergamo, domenicano, 129. Vergerio, Pier Paolo, 137. Viani, Vincenzo di Francesco, 211. Vidoni, Pietro, cardinale, 122. Villa-Vicencio, Ch., VII. Villard, R., 130. Villari, R., 171. Vinay, V., 135. Vingle, Pierre de, 15. Viola, Alessandro, 204. Virgilio, parroco di Sant’Alberto di Piano, 146-148, 167. Vivarelli, Antonio di Pedrino, 208. Vivarelli, Pietro, 74, 208. Vives, Juan Luis, 93. Voni, Giovanni Antonio, 207. Vulpelli, Ottaviano, 92.

Indice dei nomi

Wachtel, N., 9. Weisser, M.R., 39. Weissman, R.F.E., 130, 152. Wiesenthal, S., V. Wolfheil, R., 24. Würgler, A., 16. Zambeccari, canonico, 43. Zambeccari, Scipione, 53-54, 209. Zambelli, Amilcare di Biasio, 210. Zambelli, Biasio del Rosso, 210. Zanasi, Antonio, 213-214.

235 Zanatti, Antonio Maria, 209. Zani, Paolo, 199. Zaniboni, Pellegrino, 58-60, 149. Zannoni, G., 111. Zanolini, Filippo, 211. Zanotti, Emilia di Tonino, 210. Zavatta, Battista, 210. Zerotti, Andrea, 52. Zi, Filippo, 210. Zochi, Antonio, 29, 201. Zochi, Bartolomeo, 29, 201. Zorzi, A., 20, 66.

INDICE DEL VOLUME Premessa

V

I. Il dono e la grazia

3

Le parole del perdono, p. 3 - Grandgousier e Alpharbal, p. 7 - La grazia del beneficio di Cristo, p. 10 - Una giustizia soprannumeraria, p. 17

II. Rinuncia

25

Negli archivi criminali, p. 25 - Domenico e Giovan Battista, p. 29 - Qualche dato quantitativo, p. 32 - La teoria giuridica, p. 34 - La prassi, p. 41 - I mediatori, p. 50 - Un mediatore e paciere, p. 63

III. Pace

68

Storia di Taddeo da Abello e Lorenzo Riccardi, p. 68 - Le paci e la pace sociale, p. 70 - Gesti di pace, p. 76 - Pratiche sociali delle paci, p. 85 - Duelli veri e duelli minacciati, p. 92 - L’onore, la pace, il perdono, p. 98 - Fausto Albergati e il «ben civile», p. 109 - L’Assunteria delle paci, p. 113

IV. Perdono

124

Pace e perdono: un valore sacro, p. 124 - Rimetti a noi i nostri debiti, p. 132 - Del perdonare, p. 138 - Fabio Fabrazzo al tribunale del perdono, p. 142 - Pace o perdono?, p. 144 - Il ruolo degli ecclesiastici, p. 148 - Il vescovo Paleotti e la Congregazione della Concordia, p. 153 - Assoluzione e rinuncia, p. 158 - Cornelia Amici, il cappellano e il massaro, p. 166

V. Lo spettacolo del perdono Il ruolo dei gesuiti, p. 170 - Le missioni di Silvestro Landino, p. 173 - Lo spettacolo del perdono universale, p. 179

170

238

Indice del volume

VI. Una breve conclusione

186

Appendici Appendice I, p. 195 - Appendice II, p. 221

Indice dei nomi

225