Dialettica del controllo. Limiti della Sorveglianza e pratiche artistiche

Società del controllo o società allo sbando? Nessuna società e nessun individuo può vivere e prosperare se non riesce a

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Dialettica del controllo. Limiti della Sorveglianza e pratiche artistiche

Table of contents :
Avvertenza 5
1. Una prodigiosa coincidenza 7
2. Una famiglia di parole 9
3. La sorveglianza come “ambiente naturale”,
il nostro “doppio” digitale
e l’epidemia delle valutazioni 11
4. Il sogno della modernità
(e il nostro sonno agitato senza sogni) 17
5. Il caso e la responsabilità: la differenza
tra uno “tsunami finanziario” e un film 21
6. L’asimmetria tra controllo e non-controllo:
stati che sono “effetti essenzialmente secondari” 25
7. La cosiddetta cultura… 31
8. …e la cosiddetta arte 35
9. Un passo indietro:
l’arte e le sue condizioni antropologiche 37
10. Crocevia 45
11. Dentro le pratiche artistiche 49
12. Il laboratorio artistico
e la dialettica del controllo 59

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I Timoni

I edizione: luglio 2017 © 2017 Lit Edizioni Srl Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Srl Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 – fax 06.85358676 [email protected] www.castelvecchieditore.com ristampa 87654321

anno 2017 2018 2019 2020

Stefano Velotti

DIALETTICA DEL CONTROLLO Limiti della sorveglianza e pratiche artistiche

Avvertenza

Questo testo è una rielaborazione della conferenza tenuta il 26 settembre 2015 al Teatro Metastasio di Prato, nell’ambito del Forum dell’arte contemporanea italiana, su invito del Centro Pecci. Salvo poche eccezioni, la letteratura sugli argomenti trattati, molto vasta, non è stata menzionata nel corso della conferenza. Per questa edizione ho mantenuto il tono di una esposizione orale inserendo a piè di pagina solo i titoli a cui mi sono riferito più direttamente. Desidero ringraziare Arabella Natalini e Hansmichael Hohenegger per aver letto questo testo e avermi dato preziosi suggerimenti.

1. Una prodigiosa coincidenza

Le nostre società occidentali, con le loro propaggini e ramificazioni, sono riuscite, negli ultimi decenni, a realizzare un prodigio, una tangibile e terrena coincidentia oppositorum: la coincidenza tra il più stretto controllo e la più allarmante perdita di controllo. Tale coincidenza non è una cooperazione tra opposti, ma tra due poli che si sono scissi. Fuori di questa coincidenza resta solo qualche residuo, qualche sfasamento, dove ciò che è possibile e auspicabile avere in nostro controllo, e ciò che necessariamente gli sfugge o dovrebbe sfuggirgli, trova ancora qualche scampolo di spazio e di tempo. Una cooperazione tra controllo e non-controllo è una condizione necessaria per ogni organismo vivente, ma anche una società, una cultura, non possono rinunciarvi, se vogliono restare vive. Il controllo e la sorveglianza sono ormai oggetto di studi numerosissimi, e così le opere, le performance, i romanzi che si propongono di affrontare queste realtà con i propri mezzi. Il limite di queste prospettive, però, è che si concentrano per lo più sul controllo e la sorveglianza che solitamente una minoranza – che può avvalersi di tecniche e poteri sempre più invasivi e sofisticati – esercita su una maggioranza (anche se nel mondo dei social, oltre che nella società reale, accade fre-

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quentemente anche il contrario). Questi fenomeni sono certamente reali e rilevanti. Tuttavia, il controllo, nelle sue molteplici forme, non può essere identificato senz’altro con la sorveglianza. Questa identificazione viene data generalmente per scontata, sia da chi vede nel controllo un “male” a cui sottrarsi, sia da chi lo invoca per rendere la vita più “sicura”. Credo invece che sia necessario partire da una prospettiva più ampia: noi tutti, infatti, siamo agenti caratterizzati dalla capacità e dalla necessità di esercitare un controllo su noi stessi, sugli altri e sul mondo; ma siamo al tempo stesso agenti che nelle loro azioni, nei loro pensieri, nelle loro produzioni – nel complesso della loro esperienza – sfuggono al controllo proprio o altrui, generano e si nutrono di condizioni non controllate o controllabili. O almeno così dovrebbe essere: senza che sia necessario immaginare una composizione armonica irrealistica e stucchevole, si tratta di identificare modi di vivere e agire riuscendo a far cooperare due principi opposti, che traggono vigore e senso l’uno dall’altro. Ma cosa accade se questi due aspetti si scindono, divorziano, pur coincidendo nella stessa persona, nella stessa società? Invece di cooperare, l’uno o l’altro polo si alternano incessantemente nello stesso spazio e nello stesso tempo, occupando tutta la scena, degenerando “dialetticamente” l’uno nell’altro. Questa tesi – evidente e problematica al tempo stesso – ha bisogno di numerose precisazioni teoriche, che io qui non espliciterò, se non cercando di farle emergere frammentariamente da una manciata di esempi da cui il lettore potrà generalizzare. Più che a confermare la tesi enunciata – quella di una “dialettica del controllo” –, spero servano a renderla maggiormente intelligibile come direzione di lavoro.

2. Una famiglia di parole

“Controllare”, “monitorare”, “padroneggiare”, “dominare”, “sorvegliare”… sono parole imparentate, che mettono in rilievo aspetti differenti di operazioni analoghe, ma non identiche. Provengono da ambiti semantici disparati, legati di volta in volta al mondo dei registri commerciali o amministrativi, a quello dello sguardo panottico e ammonitorio, alla relazione di potere sugli altri o su stessi. “Controllo”, per esempio, è una parola relativamente recente, un francesismo al quale Tommaseo – nel suo Dizionario (1861) – preferiva la parola italiana “riscontro”, anche perché, sosteneva, invece di “controllo” bisognerebbe dire semmai “controruolo”, dato che la parola è composta dalla preposizione latina contra e dal sostantivo rotulus (‘registro’, ‘libro’). Il “controllo” è originariamente un libro, un registro, che ne duplica un altro, ne verifica le iscrizioni e vigila sui suoi cambiamenti: un segno sul primo deve avere un riscontro sul secondo, quasi questo fosse un suo riflesso, la sua ombra, un suo doppio occhiuto. È facile vedere nel “registro che ne duplica un altro” un analogo dello sdoppiamento di istanze psichiche, sia a livello individuale che sociale. Nel linguaggio corrente – seguendo una linea di pensiero che

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emerge negli anni Cinquanta del secolo scorso e arriva fino a noi, tramite William Burroughs, Michel Foucault, Gilles Deleuze e oltre – si è affermata la locuzione, tra le altre possibili, di “società del controllo” e da qualche tempo si è consolidato un nuovo ambito di studi denominato “Surveillance Studies”. Qui riprendo queste locuzioni, senza presupporre e accettare necessariamente tutte le loro articolazioni, secondo quella prospettiva più ampia già evocata.

3. La sorveglianza come “ambiente naturale”, il nostro “doppio” digitale e l’epidemia delle valutazioni

Quanto alla pervasività della sorveglianza, gli esempi abbondano, e quindi darò pochi cenni, espandibili a piacere anche aprendo un quotidiano. Ecco cosa diceva l’artista cinese Ai Weiwei il 22 luglio del 2015, parlando di suo figlio: «Fin dal momento della sua nascita, Ai Lao è stato tenuto sotto sorveglianza […]. Così, essere sorvegliati fin dal momento della nascita è diventato l’ambiente naturale della sua generazione»1. A una sorveglianza occulta si affiancano poi sempre più spesso richieste esplicite di denudamento: dal 23 maggio 2017 coloro che richiedono un visto per lavorare, studiare, insegnare negli Stati Uniti – anche se invitati a farlo – devono compilare un modulo denominato “Supplemental Questions for Visa Applicants”, in cui devono dichiarare non solo le generalità dei propri familiari, ma anche gli indirizzi in cui hanno abitato negli ultimi 15 anni, i nomi dei propri datori di lavoro per lo stesso periodo, i social media a cui sono iscritti e il nome usato come loro identificativo. Queste informazioni “supplementari” si aggiungono a metodi di identificazione e controllo tradizionali e biometrici già in uso. In questo settore, con pro1 Ai Weiwei, Surveillance, in L. Poitras, Astronoise. A Survival Guide for Living under Total Surveillance, Whitney Museum of American Art, New York, NY, 2016, p. 71.

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gressiva accelerazione dall’11 settembre 2001, ogni giorno porta qualcosa di nuovo. Per far fronte alla richiesta delle ‘domande supplementari per il visto’, la mia memoria sarebbe del tutto insufficiente. Ma ecco che mi viene in aiuto il “controllo”, inteso nel suo senso originario di un secondo registro che duplica quel che avviene su un primo registro. Se qui intendiamo il primo registro come la mia vita, vissuta più o meno spontaneamente, con piani più o meno mutevoli (relazioni sociali e affettive, indirizzi, datori di lavoro inclusi), forse posso ricostruire quelle informazioni che mi vengono richieste, a cui per altro i controllori di terzo grado potrebbero avere facilmente accesso. Il libro della propria vita viene “riscontrato” su un “contro-rotolo” che non omette e non dimentica niente. «Gli errori che fai oggi, gli esperimenti che condurrai domani, vivranno con il tuo “data Doppelgänger” per sempre. Diventano più te di te stesso. La scia dei tuoi data diventa la vera storia della tua vita. Più della tua mente reale, che non sarai più libero di cambiare; più del tuo sé reale, i tuoi data diventano te e decidono il tuo destino», ammonisce cupamente il giornalista e hacker Jacob Appelbaum2. Sarebbe facile compilare centinaia di pagine di citazioni e testimonianze, analisi e previsioni riguardo al controllo inteso come sorveglianza da parte di agenzie governative, associate o meno a piccole e grandi aziende multinazionali. Alcune, spaventose, ne metterebbero in luce gli aspetti più minacciosi, paralizzanti, liberticidi, altre, ottimistiche ed euforiche, ne evidenzierebbero potenzialità e vantaggi. Naturalmente, il concetto di sorveglianza può essere allargato a tutti gli insiemi di dati che costituiscono il cosiddetto 2 J. Appelbaum, Letter to a Young Selector, in L. Poitras, cit., pp. 158-9.

3. LA SORVEGLIANZA COME “AMBIENTE NATURALE”

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quantified self (un sé ridotto a caratteristiche quantificabili). Oltre a quelli che ci vengono carpiti segretamente o che “offriamo” più o meno consensualmente in cambio di qualche vantaggio vero o presunto, ci sono quelli che raccogliamo su noi stessi con smartphone e braccialetti elettronici, per controllare in tempo reale, e organizzare statisticamente per il medio e lungo periodo, la nostra conformità alle direttive sanitarie da seguire, al livello delle prestazioni “ideali” (non)raggiunte (sonno, moto, apporto calorico, attività lavorative, ricreative, sessuali, economiche…). Per non parlare delle ingiunzioni ossessive a valutare e auto-valutarsi, a conferire punti, voti, pollici alzati e stelline a ogni tipo di attività, esperienza, servizio, ambito vitale. Una colonizzazione inarrestabile del tessuto della vita, che invade ogni gesto quotidiano, modellandolo sulla rendicontazione che bisognerà darne. E mentre queste valutazioni escludono per lo più l’esercizio del giudizio ponderato (che richiede tempo, discussione, maturazione, cioè tutto ciò che è escluso dalla crescente “accelerazione sociale”), possono avere conseguenze economiche ed esistenziali importanti, talvolta irrevocabili. Quando non imposte, tali valutazioni vengono sollecitate indiscriminatamente su tutto, anche su ciò che per sua natura non è valutabile in questi termini. Il mondo accademico – per fare un esempio riferito a qualcosa che conosco direttamente più di altro – richiede ormai un lavoro maggiore per svolgere e amministrare valutazioni e rendicontazioni che per la ricerca. Senza entrare nei particolari – inverosimili e avvilenti – ricordo solo questo: se Kant fosse vissuto oggi, il suo “decennio silenzioso” (dieci anni in cui non pubblicò quasi nulla perché impegnato a elaborare la Critica della ragion pura) lo avrebbe escluso da ogni finanziamento, dall’elettorato attivo e dalla partecipazione ai collegi di dottorato, esponendolo alla riprova-

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zione dei colleghi, della comunità scientifica e alle proliferanti e arbitrarie sanzioni che la infestano. La cultura, se va bene, è ammissibile solo come qualificazione professionale, e le discipline che erano il luogo privilegiato per formulare ed elaborare i grandi problemi della condizione umana sono chiamate a modellarsi su una pratica specialistica di problem solving – anche se il “problema da risolvere” è irrilevante. Ponderare la rilevanza dei problemi affrontati, infatti, non è previsto nella logica del problem solving, e dunque manca di un luogo e di un tempo in cui si è legittimati a farlo. Un altro esempio istruttivo, tra i tanti possibili, sono le richieste dei bandi europei destinati al finanziamento della ricerca: bisogna specificare nel dettaglio non solo il metodo che si adotterà (dove a volte questo metodo sarebbe descrivibile onestamente con un paio di parole, ma da evitare perché sospette: pensare, discutere, riflettere), ma anche i risultati che si otterranno di mese in mese e il modo in cui verranno divulgati. Richieste legittime se si tratta, appunto, di risolvere problemi già definiti, ma del tutto fuorvianti se la ricerca è volta innanzitutto alla adeguata definizione di un problema che è solo avvertito ma non articolato, che preme ma non ha forma; il che, come si sa, è ciò che richiede uno sforzo di riflessione prolungato nel tempo e senza esiti certi o anticipabili. Si chiede, insomma, di formulare problemi la cui risposta sia assicurata. L’esplorazione di un territorio ignoto non è ammessa: bisogna dire, prima di cominciare, che strade si prenderanno e quale tesoro si troverà in fondo alla strada. Altrimenti si diventerà sospetti di “improvvisazione”. Un termine, questo, che andrebbe inteso però – in alcuni casi – non tanto nel senso della mancanza di preparazione, anzi, all’opposto: solo chi è molto preparato sa improvvisare, cioè organizzare il contingente, l’imprevisto, l’inaudito secondo una forma sensata, e

3. LA SORVEGLIANZA COME “AMBIENTE NATURALE”

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tale forma può emergere solo facendo, immergendosi nel lavoro. Chi vince questi bandi – nelle materie che non sono strutturate in termini di problem solving – o sa mentire, o crede di sapere già quel che finge di cercare.

4. Il sogno della modernità (e il nostro sonno agitato senza sogni)

Una trentina d’anni fa, riflettendo sul proprio libro Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, dedicato all’“esperienza della modernità”, Marshall Berman diceva di aver cercato di aprire una prospettiva che rivelasse come movimenti culturali e politici disparati fossero parte di un unico processo: donne e uomini moderni che affermano la loro dignità nel presente – anche in un presente infelice e oppressivo – e il loro diritto a controllare il loro futuro; che lottano per trovare un proprio spazio nel mondo, uno spazio in cui si possano sentire a casa propria.

Il “diritto a controllare il proprio futuro” ci ricorda che l’esigenza di controllare l’ambiente, la natura, noi stessi e le nostre relazioni è un’esigenza irrinunciabile. Ma proprio l’“esperienza della modernità” ci ha insegnato che essere moderni non significa solo vivere in un ambiente che «ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo», ma anche che «minaccia di distruggere qualsiasi cosa possediamo, conosciamo, siamo»3. In pochi decenni, pro3 M. Berman, All Things Solid Melt into Air (1982), nuova edizione con una prefazione inedita, Penguin, New York and London, 1988, pp. 11 e 1.

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messe e minacce dell’esperienza moderna sembrano essere impazzite come una maionese: gli esclusi dal “diritto di controllare il proprio futuro”, anche in piccola parte, si sentono dissociati da ogni speranza di contare qualcosa e cadono nel panico e/o lo provocano negli altri; altri vorrebbero immunizzarsi da ogni minaccia imprigionandosi in uno stato di morte anticipata in qualche gated community (un’area recintata, privatizzata, controllata), magari da allargare ai confini nazionali; il controllo su se stessi si pulsionalizza (il controllo va fuori controllo), e il tentativo di preservare, conservare, proteggere si trasforma nel suo opposto. C’è chi ha visto perfino nell’Unesco un caso di controllo “a fin di bene” dagli effetti perversi: «un killer seriale di città si aggira per il pianeta. La sua arma letale è l’etichetta ‘Patrimonio dell’umanità’. Con questo marchio dissangua e imbalsama villaggi gloriosi, metropoli millenarie, sottraendo il tempo al naturale divenire»4. Non so se sia l’Unesco o siano invece, più probabilmente, le amministrazioni locali e centrali a provocare questa morìa, né il «naturale divenire del tempo» è poi una nozione tanto chiara. Il tempo della natura è semmai quello ciclico delle stagioni. In passato, a questo tempo corrispondevano dei riti. Il carnevale, per esempio, era uno di questi, e aveva la funzione di conservare e rigenerare un certo ordine, che le società moderne, almeno in linea di principio, non accetterebbero più. Quel che succede nelle nostre città storiche, però, all’insegna della conservazione del passato, del controllo della loro integrità, è una riedizione triste e spettacolare di un carnevale diventato permanente, al pari di molte altre attività inghiottite dalla uniformità del “24/7”. Una mascherata continua, un sipario sempre aperto, dove si in4 M. D’Eramo, Urbanicidio a fin di bene, «Domus», n. 982, luglio-agosto 2014.

4. IL SOGNO DELLA MODERNITÀ

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scena una realtà morta e imbellettata come nelle funeral homes americane, all’insegna del cinismo più bieco: centurioni romani, pasta tricolore nei borghi medievali accanto a negozi di balestre, alabarde, armature, padri pii e paccottiglia globale. Questa carnevalata “24/7” rende irreale quel che finge di voler conservare (la storia, le tradizioni, la “bellezza”) e svela come sua unica realtà la miseria più cruda e deprimente del commercio e del profitto turistico (e spesso della più invadente criminalità), delle amministrazioni comunali in cerca di consenso, dell’espulsione degli abitanti dai centri storici, della distruzione di ogni forma di vita. Conservare non può significare immunizzare, imbalsamare. Ma “irrealizzare” carnevalescamente la vita non è un antidoto alla paventata perdita di controllo sulle città, è solo un veleno disneyano con cui si asperge questo de profundis. Quanto al sogno di sentirsi a casa propria in questo mondo – l’altra legittima aspirazione che Berman attribuiva ai “moderni” – mi ha colpito un fenomeno che negli Stati Uniti è stato battezzato clutter crisis: la ‘crisi da ammasso’, accumulo, disordine. Tale fenomeno è diventato globale, altrimenti il libro della giapponese Marie Kondo, Il magico potere del riordino, non sarebbe diventato un best seller planetario. Le case delle famiglie californiane studiate da un gruppo di antropologi e sociologi scoppiano, sono troppo piene di oggetti e gadget che la società dei consumi comanda di acquistare, provocando uno specifico stress da sovrabbondanza, con alterazioni controllabili dei livelli di cortisolo. Questo caso, per quanto possa erroneamente apparire marginale, mi sembra emblematico della perdita di controllo, dato che la speranza di “sentirsi a casa propria in questo mondo” cede all’impossibilità di sentirsi a casa propria precisamente a casa propria. Chissà che non siano esperienze di questo genere ad aver spinto milioni di persone

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– tanto per restare ai best seller internazionali, anche se ormai un po’ invecchiati – a compensare fantasmaticamente questa perdita di controllo con l’immersione nel romanzo soft porn Cinquanta sfumature di grigio, il cui protagonista maschile è un control freak, un ‘mostro del controllo’. Di fronte al sogno rischioso della modernità, che teneva insieme controllo e imprevedibilità, padronanza e avventura, oggi sembriamo dormire sonni agitati senza sogni, dove la più brutale realtà è tutt’al più “irrealizzata” in un carnevale permanente. Come sonnambuli, corriamo dietro a promesse di controllo minime e sintomatiche (riacquistare il controllo della propria casa affidandoci alla guida di una sconosciuta ragazza giapponese, seguire con trepidazione le stereotipate fantasie di un prevedibilissimo control freak di cartone), subendo o demandando ad altri il controllo delle nostre vite, coincidente con la percezione di averlo irrimediabilmente perso.

5. Il caso e la responsabilità: la differenza tra uno “tsunami finanziario” e un film

Il terremoto di Lisbona del 1755, seguito da un terrificante tsunami, distrusse metà della città, fece tremare il potere coloniale del Portogallo e sconvolse il bacino del Mediterraneo. Sulla cultura dell’epoca l’effetto non fu da meno. Che dire, infatti, della giustizia divina? Come giustificare un Dio onnipotente, onnisciente, giusto se non buono, di fronte a una tale strage indiscriminata? Qualcuno guarì dall’illusione della teodicea, ma ancora oggi – di fronte a catastrofi paragonabili – c’è chi va in cerca del peccato che sarebbe all’origine di una punizione di tanta magnitudo, da far quadrare con un presunto “disegno intelligente”. E, tuttavia, nel corso dei secoli l’umanità ha rinunciato a cercare intenzioni e responsabilità dappertutto, e il “caso” ha guadagnato terreno. Certo, si dice giustamente che ci sono responsabilità umane anche nelle devastazioni dei terremoti e degli tsunami, ma non perché si sarebbe commesso qualche peccato punito con la devastazione, semmai perché non si sono costruite case e infrastrutture con standard antisismici. Qualsiasi cosa significhi, il caso viene riconosciuto come ciò che sfugge al controllo e alla previsione umana, e il suo “addomesticamento” in regolarità statistiche poco aiuta nella previsione puntuale di singoli eventi. La

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statistica tiene in piedi le assicurazioni, e le polizze assicurative sono il riconoscimento che gli infortuni e gli incidenti “capitano” per caso, ed escludono per lo più dalla loro copertura gli “infortuni” provocati da agenti “colpevoli” (dolo, guida in stato di ebbrezza, ecc.). D’altra parte, non è forse vero che tutta l’arte è sempre stata affascinata per un verso dalla maestria, per altro dal caso, nel tentativo di convocare forze che cadono fuori dal controllo dell’artista? A cominciare dalla spugna gettata per disperazione da Apelle sulla bocca del cavallo dipinto di cui non riusciva a rendere la schiuma con i suoi pennelli – e che ottiene per caso l’effetto voluto ma ineseguibile in maniera controllata –, fino alle avanguardie artistiche novecentesche, all’attrazione per l’“automatismo” della fotografia e per il suo “inconscio ottico” o “tecnologico” e alle sperimentazioni contemporanee. C’è sempre qualcosa di paradossale quando le arti riescono a dare un brivido cercando di ottenere quel che per definizione sfugge se cercato (il caso, appunto), ma proviamo brividi di tutt’altro genere quando un manager come Alan Schwartz, chief executive della banca d’affari Bear Stearns, chiama «tsunami finanziario» il disastro tutto umano iniziato nel 20085. Pura ipocrisia e puro cinismo? O è semplicemente un altro modo – sempre più allarmante – per evocare lo spettro di un “apprendista stregone” che ha scatenato forze che non controlla più? Già richiamata da Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, la figura dell’apprendista stregone era lì la premessa di una nuova era in cui le leve del controllo sarebbero passate di mano. Oggi, invece, proliferano le metafore naturalistiche (tsunami, terremoti, cicloni, valanghe, tempeste perfette…) per designare effetti prodotti da agenti responsabili che hanno agito 5 «The New York Times», 12 marzo 2009.

5. IL CASO E LA RESPONSABILITÀ

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irresponsabilmente, “esperti” di regole e leggi che si appellano al caso opportunisticamente. Istruttivo, da questo punto di vista, il film Forza maggiore (nell’originale svedese Turist, 2014) di Ruben Östlund, in cui una valanga artificialmente prodotta e controllata – per evitare un distacco accidentale – genera un “terremoto” psico-sociale in una perfetta famigliola scandinava in settimana bianca sulle Alpi. Un drone giocattolo che sale e scende lungo la facciata dell’albergo nel quale la settimana bianca viene consumata ci dice – se non l’avessimo capito – che la questione è l’illusione del controllo sulla propria vita, e la sigaretta accesa dal padre nel finale (ammissione di imperfezione, cedimento dell’autocontrollo alla dipendenza, macchia sociale) è il gesto che riammette l’incontrollabile come ingrediente imprescindibile di una vita umana. Meno esplicito, se non nel titolo, è un altro film, The Limits of Control (2009) di Jim Jarmusch, dove – più ancora delle vicende raccontate – è il ritmo lento e ripetitivo dell’enigmatica trama che costringe lo spettatore ad abbassare la soglia del suo controllo e a sospendere la ricerca di una coerenza narrativa lineare dominabile, dissuadendolo, per sfinimento, dall’uso delle scene mostrate come semplici “mezzi” per arrivare al “fine” di un gran finale esplicativo. Più che parlare del controllo, mira forse a generarne la crisi nello spettatore. Un caso ancora diverso è quello di Laura Poitras, che non è solo l’autrice del documentario su Edward Snowden Citizenfour (2014), ma che ha sentito il bisogno di organizzare la sua esperienza in una mostra, Astro Noise6, in cui è il pubblico stesso a essere oggetto passivo e soggetto attivo di diverse forme di controllo. 6 ‘Rumore astrale’. Il titolo deriva dal suggerimento di Snowden di ricavare delle sequenze casuali per criptare i messaggi scambiati sul web a partire dai segnali radio che ci arrivano dal cielo. La mostra si è tenuta al Whitney Museum di New York dal 5 febbraio al 1 maggio 2016.

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Ma c’è una bella differenza tra gli artisti che cercano di aprire varchi nella fortezza del controllo – mediante la convocazione del caso o altre forze – e “i maghi” della finanza che vi si rifugiano quando fallisce la loro razionalità strumentale, invocando “tsunami” o “valanghe”. Un conto è esplorare con un’opera (film o mostra) i limiti del controllo, la necessità di sottrarsi al controllo e quella di accettare e favorire una vita non tutta controllata, un altro è sottrarsi alle proprie responsabilità. Se si vendono le proprie competenze, al prezzo di generosi compensi, per far funzionare una ragione strumentale che riconosce solo mezzi adeguati per ottenere fini arbitrari, non si possono poi invocare le forze della natura, la condizione umana, i limiti del controllo che proprio quella razionalità strumentale nega, umilia e disconosce in ogni momento della nostra esistenza, negli spazi delle nostre città, nel tempo che l’accelerazione sociale sottrae alla dignità del vivere.

6. L’asimmetria tra controllo e non-controllo: stati che sono “effetti essenzialmente secondari”

Il controllo ha i suoi limiti, ma quel che accade oltre i limiti di ciò che è stato di fatto controllato, o di ciò che può essere controllato in linea di principio, non è solo quel che accade di non previsto o padroneggiabile – nel bene e nel male – come “effetto non intenzionale” o per “eterogenesi dei fini”. Ci sono anche stati o eventi desiderabili che non possiamo sperare di produrre come effetti del nostro controllo su azioni e intenzioni. In un passo del 1827 dello Zibaldone (4266-7), Leopardi torna a riflettere su uno dei grandi temi del suo pensiero, il piacere e i suoi limiti: In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso […] Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi […]. E

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forse per questa ragione gli spettacoli e divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perché non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non viene mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.

Questo passo meriterebbe anche qualche chiosa sugli «spettacoli pubblici», ma lo cito qui solo per sottolineare come tra i due poli del controllo e del non-controllo esista un’asimmetria: il controllo è qualcosa che si pone innanzitutto nella sfera di un’intenzionalità consapevole, pianificabile, soggetta a deliberazione, a un “arbitrio”, anche se corre sempre il rischio di “pulsionalizzarsi” e di perdere il controllo su se stesso; ma ciò che sfugge al controllo non può essere prodotto nello stesso modo. Leopardi – «fra mille esempi che se ne potrebbero dare», per quella grande sfera della nostra esistenza che è il piacere – sceglie di esemplificare questa verità con il piacere della lettura. Per fare un altro esempio – che illustra ora quel che il best seller di Marie Kondo sul riordino non ci può dare –, è facile vedere che fare ordine richiederà anche uno sforzo, ma è un fine ragionevole, eseguibile in linea di principio. Mentre creare il disordine, consapevolmente e intenzionalmente, dà sempre un risultato artificioso: sparpagliare “a caso” le riviste sul tavolo, rompere le simmetrie, spargere tracce di “vissuto inconsapevole” ecc., sono operazioni il cui risultato si rivela a un occhio attento come frutto di un controllo mascherato, di “affettazione” e artificio. Il secondo “registro”, quello prepo-

6. L’ASIMMETRIA TRA CONTROLLO E NON-CONTROLLO

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sto a “controllare” il primo, non può generarlo a piacere. La generazione di qualcosa di non controllato non può nascere da uno sforzo che mira a produrlo, perché è proprio quello sforzo a impedirne la produzione: è la differenza che passa tra fenomeni che sono ottenibili “volontariamente” e quelli che possono solo “accadere”. In altri termini, il momento del noncontrollo, della spontaneità o non-intenzionalità, componente essenziale di ogni cultura viva, e di tutte le forme di vita non ingabbiate in un’organizzazione totale, nel lavoro e nel tempo “libero”, è tanto irrinunciabile quanto inottenibile “a piacere”: non è a nostra disposizione, anche se siamo noi a doverlo produrre. E questo paradosso costituisce un problema difficile da affrontare, dato che ogni pianificazione (individuale, culturale, sociale, politica) che miri direttamente a produrre nonintenzionalità, autonomia, spontaneità, imprevisto, caso è autocontraddittoria e votata al fallimento. Uno dei modi per affrontarlo – il che non significa “risolverlo” – può essere quello di identificare degli esempi, dei modelli di attività in cui l’auspicata cooperazione tra controllo e non-controllo si realizza più o meno felicemente e frequentemente: uno di questi esempi, se e quando “riesce”, sono proprio le cosiddette pratiche artistiche. Ma prima di vedere perché mai le pratiche artistiche avrebbero questa peculiarità, le osservazioni appena fatte possono essere precisate con l’analisi di quelli che Jon Elster ha chiamato «stati che sono effetti essenzialmente secondari», per ricordare che vi sono dei limiti a quanto si può conseguire attraverso la pianificazione del carattere. C’è della tracotanza nella concezione per cui si può essere padroni della propria anima, co-

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sì come c’è una fallacia intellettuale nella concezione per cui tutto ciò che accade per mezzo dell’azione può anche essere prodotto per mezzo di essa.7

Molti di questi stati sono caratterizzati da una privazione. È almeno psicologicamente contraddittorio, per esempio, pianificare la dimenticanza («Dimenticare Lampe!», sembra abbia annotato Kant – probabilmente senza successo – appena ebbe licenziato Lampe, il suo vecchio servitore), in quanto si tratterebbe di ricordarsi di dimenticare, cioè di ricordarsi di non ricordarsi (è vero che per dimenticare qualcuno o qualcosa ci si può voler distrarre, andando, per esempio, al cinema: a patto però che si vada al cinema per vedere il film, e non per distrarsi); o, ancora, è impossibile obbedire all’ordine di essere spontanei (cioè privi di autoconsapevolezza), perché obbedienza e spontaneità sono in contraddizione; per cui è impossibile, talvolta, fare cose che possiamo fare se non tentiamo di farle (non si può voler essere innocenti, come ben sapeva il Kleist del Teatro delle marionette, anche se ci si accorge di esserlo). La “fallacia morale degli effetti secondari”, che è «una forma deviante o controproducente di razionalità strumentale, consiste nel lottare, ricercare, anelare a cose che sfuggono quando si cerca di farle proprie»8. Ma non tutti gli stati essenzialmente secondari sono, in ogni senso, stati di privazione. Infatti, posso volere la conoscenza, ma non posso ottenere nello stesso modo la saggezza; posso voler leggere, ma non per questo ottenere la comprensione di ciò 7 J. Elster, Sour Grapes. Studies in the Subversion of Rationality, Maison des Sciences de l’Homme and Cambridge U.P., s.l., 1983 (tr. it. di F. Elefante, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 7 e infra). Quel che segue riprende la rilettura degli «effetti essenzialmente secondari» che ho avanzato in S. Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari, 2003. 8 Elster, op. cit., p. 131.

6. L’ASIMMETRIA TRA CONTROLLO E NON-CONTROLLO

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che leggo; posso fare dei complimenti, ma non per questo riuscire a provare ammirazione, stendermi a occhi chiusi ma non dormire e, naturalmente, posso voler produrre un racconto o una scultura, e riuscirci, ma non posso ottenere, solo grazie alla mia intenzione, che questi siano anche opere d’arte (per questo si è spesso fatto ricorso alla “genialità”, all’“ispirazione” o magari alla serendipity, per darne conto). Queste impossibilità individuali si ripetono al livello dell’azione politica (nei tentativi di produrre “la coscienza di classe” o “la dignità”). Il tratto della privazione, forse sufficiente, non sembra dunque anche necessario per caratterizzare tutti questi stati. Non si capirebbe bene in che senso sarebbe uno stato di privazione la comprensione rispetto alla conoscenza, la fede rispetto alla religiosità, il coraggio rispetto alla bravata, la virtù rispetto alla diligenza o l’opera d’arte riuscita rispetto a quella non riuscita e che resta un semplice artefatto. Forse per questo, con un impegnativo spostamento di accento che resta però senza seguito, Elster scrive: «quel che più conta [è che] gli effetti secondari sono legati a quel che accade in virtù di quel che siamo, in quanto opposto a quel che possiamo realizzare attraverso lo sforzo e la lotta». Potremmo dire: quel che possiamo realizzare attraverso lo sforzo e la lotta dipende da quel che siamo, ma non tutto quel che siamo dipende dallo sforzo e la lotta. Una prosecuzione dell’analisi di Elster dovrebbe essere centrata su quello che forse è l’oggetto più proprio e generale della riflessione estetica: l’intreccio di attività e passività, di spontaneità e controllo o, detto altrimenti, la peculiare libertà che è propria dell’esperienza estetica e che non coincide affatto con la libertà dell’arbitrio individuale, la libertà di scelta, la libertà morale, o quella di porsi obiettivi perseguibili intenzionalmente e consapevolmente. È piuttosto una libertà da bisogni e da scopi che una libertà di scegliere questo o quello a proprio piacimento.

7. La cosiddetta cultura…

All’indomani del trauma della Seconda Guerra Mondiale, nel 1948, T.S. Eliot – in un quadro ideologico a tratti molto conservatore – aveva colto il problema degli «stati che sono effetti essenzialmente secondari» in riferimento alla cultura, nozione oggi retoricamente sbandierata ma svuotata di ogni senso: Se da questo studio devono emergere conclusioni definite, una di esse è certamente la seguente: che la cultura è una di quelle cose a cui non possiamo mirare in maniera deliberata. È il prodotto di una varietà di attività più o meno armoniose, ciascuna perseguita per se stessa […] Ma il lettore non deve concludere che questi scopi possano essere ottenuti solo mediante un’organizzazione deliberata. Una divisione in classi pianificata da un’autorità assoluta sarebbe artificiale e intollerabile; una decentralizzazione sotto una direzione centrale sarebbe contraddittoria; un’unità ecclesiastica non può essere imposta nella speranza che porti un’unità di fede, e una diversità religiosa coltivata per se stessa sarebbe assurda. Il punto a cui possiamo arrivare è il riconoscimento che queste condizioni della cultura sono “naturali” per

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gli esseri umani; e benché possiamo fare poco per incoraggiarle, possiamo combattere gli errori intellettuali e i pregiudizi emotivi che vi si oppongono. […] La cultura non può mai essere completamente consapevole – in essa c’è sempre qualcosa di più di ciò di cui possiamo essere consapevoli; e non può essere pianificata perché costituisce anche lo sfondo inconscio di ogni nostra pianificazione.9

Se le parole di Leopardi o di Eliot sembrano datate, mettetele a confronto con quel che sono diventate le nostre città, le nostre piazze, i nostri eventi culturali finanziati e “comunicati”: nel deserto di ogni vita spontanea, di ogni attività o pratica coltivata “per se stessa” – in quella “terra desolata”, ma popolata di gelaterie, che sono diventate le piazze o i centri storici che imitano gli outlet che li imitavano –, si finanziano “grandi eventi” che rimbalzano su fondali scenografici (erano la città) allo stesso modo in cui rimbalzano sulla stampa, che a sua volta ha abdicato da tempo a essere un forum in cui si coltiva la mente dei cittadini. Nulla, o quasi nulla, è rimasto di tempi e luoghi che non siano ossessivamente controllati – da forme di sorveglianza o dall’invasione del commercio, dal totalitarismo turistico o da quello disneyano – e insieme abbandonati a se stessi, a ogni sfogo fuori controllo: è nei medesimi luoghi che si trovano telecamere e tifosi impazziti, buttadentro minacciosi e binge drinking selvaggio, occupazione del suolo pubblico (il)legale e panchine con i braccioli che impediscano di stendercisi sopra, file di turisti intruppati e transenne presidiate da mitra spianati. Ma nessun luogo residuo per incontrarsi senza pianificazione, per parlare senza “consumazione 9 T.S. Eliot, Notes towards a Definition of Culture, in Id., Christianity and Culture, Harcourt Brace, New York, N.Y., 1976, p. 92 e p. 170.

7. LA COSIDDETTA CULTURA…

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obbligatoria”, per corteggiarsi e persuadersi senza “registri” occhiuti, per guardarsi intorno e “perdere” tempo. Non a caso, oggi più che mai, i nostri politici e amministratori – ma non solo loro –, se parlano di cultura, si affrettano a menzionare gli unici risultati tangibili e che reputano universalmente rispettabili e riconosciuti: il ritorno economico, la copertura mediatica, il numero dei visitatori, l’indotto. Come se queste, in ultima analisi, fossero le uniche ragioni “presentabili” dell’arte e della cultura.

8. …e la cosiddetta arte

A questo atteggiamento, naturalmente, è doveroso ribellarsi con intransigenza. Non perché l’arte e la cultura vivano fuori da ogni economia, ma perché devono fiorire o estinguersi in base ad altri criteri. Invece, a casa nostra, nonostante tutto quel che si è detto sulla nozione pelosa di “valorizzazione” del patrimonio e della cultura, c’è ancora chi dice o pensa che l’arte (quella del passato) sia il petrolio italiano: e non lo ha detto solo gente culturalmente povera, come un ex ministro, o qualche bolso imprenditore con residenza in paradisi fiscali, ma anche qualche opinion-maker illuminato, che magari riesce a vedere solo metà di quello che sta sotto gli occhi di tutti – l’indifferenza, l’incuria, la sciatteria, l’abbandono, anzi, aggiungerei, una rabbiosa aggressività nei confronti della nostra storia, del patrimonio, degli spazi e dei tempi della cultura e dell’intelligenza, un gusto nel mortificare gli sforzi altrui, un anti-intellettualismo trasversale ecc. –, senza vedere l’altra metà dell’insieme, che pure è plateale e che è complementare alla prima: la tendenza in atto a fare della nostra cultura (patrimonio, arti, piazze, borghi, città, musei, mercati, università ecc.) delle aziende travestite da parchi a tema, morti ma chiassosi, un unico immenso outlet, più o meno “grazioso”, per grandi e pic-

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cini svogliati e bulimici. E così l’arte di oggi – senza che ci si renda conto di quel che è in gioco – viene considerata come uno spettacolo per i grandi eventi, per le star mediatiche, per le grandi mostre importate, ed è la prima a cadere sotto la mannaia dei tagli alla spesa pubblica. Senza capire che quello che ci minaccia, quello che costituisce il vero pericolo per le nostre forme di vita, che le rende indegne e inaccettabili, non sono certo gli immigrati o i rom, ma è un tessuto civile e culturale che è andato lacerato e che va tessuto ex novo, e che questa mentalità aziendale, ormai diventata senso comune, contribuisce a distruggere. Perché questo tessuto non lo si tesse o ritesse per decreto – come Eliot aveva capito perfettamente – a colpi di eventi spettacolari, musei stupefacenti e parchi a tema, ma ricreando pazientemente le condizioni, niente di più e niente di meno che le condizioni – di luoghi, di relazioni e di tempi adatti, e dunque anche condizioni economiche – che ne permettano la crescita, e una crescita ha sempre momenti non controllabili e programmabili, e quindi anche rischiosi, fallibili, e tempi urgenti ma non comprimibili: niente rivela di più l’immaturità di un ragazzino del suo volersi mostrare adulto. In questo processo di crescita le pratiche artistiche, sempre da ripensare, possono avere un ruolo importante. Il “presentismo” di questi anni – un tempo privato di profondità temporale, ma sempre pronto a istituire nuove giornate della memoria, ambigue e retoriche – sembra del tutto incapace di immaginare davvero un futuro diverso da questa morta gora chiassosa in cui vivacchiamo.

9. Un passo indietro: l’arte e le sue condizioni antropologiche

Per cercare di capire per quale ragione le pratiche artistiche possono rappresentare ancora oggi – o forse oggi più che mai – un modello capace di rivelare meccanismi sociali inceppati, di farne la critica, e di testimoniare un modello alternativo, dobbiamo aprire una parentesi, in cui gettiamo uno sguardo sulle loro condizioni di possibilità. Dal “presentismo” di questi giorni dobbiamo fare un ampio passo indietro per spostarci su una scala temporale tutta diversa. Gli storici della lingua ci dicono infatti che l’uso del nome “arte”, senza ulteriori specificazioni (come è invece in “belle arti”) si è affermato nei primissimi anni dell’Ottocento, non prima. L’uso che facciamo di questa etichetta sarebbe dunque recente. Ma anche se, come penso sia plausibile fare, lo retrodatassimo di due o tre secoli, tra Cinquecento e Settecento, resterebbe quasi un neologismo, se misurato non dico con la storia dell’homo sapiens, ma anche solo con quella della cosiddetta civiltà occidentale. D’altra parte, però, sembra invece che manifestazioni che non sapremmo come chiamare se non “artistiche” siano presenti fin dagli albori dell’umanità, o almeno risalgano a 3040.000 anni fa, come attestato dalle incisioni e dalle pitture rupestri trovate nelle grotte Chauvet o di Lascaux.

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Come conciliare queste due prospettive? Da un lato, un insieme di pratiche storiche e contingenti, l’arte o le cosiddette “belle arti”, in continuo cambiamento, addirittura da considerare come sensibili sismografi del presente, sempre sul punto di estinguersi o di rigenerarsi in maniera quasi irriconoscibile, e su cui oggi ci interroghiamo in relazione al concetto sfuggente di contemporaneità, appellandoci a concetti diventati tanto problematici come quello di eredità e tradizione, di spazio pubblico o comune, di scelte politiche o amministrative che appartengono alla cronaca quotidiana, spesso improvvisate, affidate a gente che raramente si rende conto della natura e dell’importanza di quel che maneggia: quel che Kant avrebbe chiamato «il sostrato soprasensibile dell’umanità», cioè l’esperienza umana nel suo complesso. Attraverso scelte apparentemente contingenti e legate al presente, infatti, si dispone – con o senza interrogarsi sulle conseguenze anche non intenzionali delle proprie decisioni – nientemeno che della configurazione della stessa esperienza umana nella sua inafferrabile totalità. Dall’altro, infatti, – mentre nelle cronache sembra che ogni Biennale segni una svolta epocale – abbiamo un dato “naturale”, una costante antropologica, che accompagna la comparsa delle tecniche e del linguaggio nell’evoluzione della nostra specie. Credo che un modo sensato di conciliare questi due fatti sia questo: la cosiddetta “arte” è solo uno degli esiti storici possibili e contingenti in cui si mettono in opera capacità o facoltà che ci distinguono come specie, ma che hanno assunto nei millenni e nei secoli, e addirittura nei decenni, forme e significati diversi. Oggi, per esempio, si parla di “capitalismo cognitivo”, intendendo grosso modo una forma di capitalismo che sfrutta le nostre facoltà più specificamente umane, cioè la creatività,

9. UN PASSO INDIETRO

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l’indeterminatezza della nostra natura che ci rende necessariamente creatori di cultura, storicamente flessibili e adattabili. Le stesse facoltà ed esigenze che stanno alla base della produzione artistica sarebbero asservite agli interessi del capitale. Ma se guardiamo al passato, gli esempi che potremmo fare sono tanti e diversi: la magia o la religione, l’arte della guerra o la politica. Tutti ambiti che hanno una loro determinatezza e concretezza, ma che in realtà mobilitano e articolano – in forme diverse – il senso stesso dello stare al mondo, di condividere un’esperienza comune, un comune modo di sentire – che può anche esprimersi conflittualmente, ma che presuppone pur sempre, anche perché vi sia conflitto, uno spazio d’esperienza condiviso. Quali sono queste capacità umane che possono prendere corpo in manifestazioni tanto diverse? Sono capacità note, intrecciate tra loro, e su cui si potrebbe parlare a lungo, anche estendendo e specificando l’elenco che propongo. Qui ne ricordo schematicamente solo cinque10: – L’indeterminatezza della natura umana: a differenza degli altri animali, l’animale umano è in gran parte indeterminato rispetto alle risposte da dare agli stimoli che vengono dal mondo. Mentre una zecca – per richiamare un famoso esempio – sopravvive solo se risponde a un limitato insieme di stimoli determinati che definiscono il suo “ambiente vitale” (l’odore dell’acido butirrico emesso dal corpo dei mammiferi, dotato di una certa temperatura, non importa se cane o uomo, su cui si lascia cadere e da cui succhia il sangue), noi, di fronte allo stimolo di un corpo vivo, di cui percepiamo un insieme indeterminato di tratti, possiamo fare un nume10 Quel che segue deriva in gran parte dall’insegnamento di E. Garroni, di cui si veda almeno Immagine linguaggio figura, Laterza, Roma-Bari, 2005.

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ro indeterminato di cose diverse, sullo sfondo di un’esperienza del mondo totale e indefinita: possiamo percepirlo come cibo, come totem, come parte di un gruppo, come partner sessuale, come nemico o amico, come mezzo da sfruttare, come soggetto da contemplare, come materiale da studiare sotto tutti i profili immaginabili. Non rispondiamo solo a stimoli, con risposte più o meno stereotipate, ma immaginiamo ed elaboriamo risposte complesse, spesso impreviste e neppure pianificate. – Il linguaggio: è evidente che una capacità percettiva così indeterminata sarebbe un disastro dal punto di vista adattivo se non si associasse a una capacità linguistico-concettuale che permette di identificare, distinguere, classificare i diversi aspetti o profili di una medesima cosa, interpretando il mondo in maniera flessibile, a seconda dei bisogni e delle opportunità. – La necessità di tecniche e di produzione culturale: data l’indeterminatezza della percezione e la sua associazione con il linguaggio, la nostra sopravvivenza è legata alla creazione di un mondo tecnico e culturale che si intreccia inestricabilmente con quello naturale. Non creiamo solo protesi più o meno specializzate dei nostri sensi e delle nostre facoltà (la forza di un braccio, prolungata in quella di un ramo, che a sua volta può diventare un arco per scagliare frecce, un ponte per attraversare un torrente, un pilastro per costruire un riparo e così via), ma tutto un nuovo ambiente culturale e tecnologico, che diventa il nuovo mondo con cui abbiamo a che fare, e che viene trasmesso alle altre generazioni culturalmente. – Una capacità metaoperativa, analoga a quella metalinguistica: la maggioranza degli animali ha sistemi di comunicazione molto sofisticati, ma nessuno di questi sistemi presenta la possi-

9. UN PASSO INDIETRO

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bilità di comunicare su se stesso. Noi, invece, con il linguaggio, tra le altre cose, parliamo del linguaggio stesso, operiamo su di esso, e pur restando nel linguaggio lo usiamo metalinguisticamente. Qualcosa di analogo –come aveva proposto Emilio Garroni già diversi anni fa – accade anche con le nostre capacità operative: non solo operiamo sull’ambiente, ma operiamo sulle nostre stesse operazioni. Insieme a una capacità metalinguistica, dobbiamo mettere in conto una capacità metaoperativa: una mazza, nata magari come protesi per difendersi o attaccare, può essere usata come martello per costruire un altro strumento o magari, unita a una falce, può diventare un potente simbolo politico. – L’impossibilità di sfuggire alla dimensione del senso o, detto altrimenti, la forte spinta, necessaria alla nostra stessa sopravvivenza, di dare una forma sensata (“finale” nei confronti delle nostre facoltà) al nostro rapporto col mondo, con gli altri e con noi stessi. Non sto dicendo, naturalmente, che possiamo contare su una garanzia di senso, che non c’è affatto, e in ogni momento potremmo scontrarci con realtà riottose, con la nostra incapacità di venirne a capo, sprofondare nell’insensatezza ed estinguerci. Sto parlando di un’esigenza, che deve essere interpretata semmai nel senso di un compito, cognitivo ed etico. Anche quando l’arte mette in scena il non senso, l’assurdo, un nucleo “reale” che resiste a ogni interpretazione (e questo accade sempre), lo fa in rapporto a questa esigenza di senso. Un’arte veramente insensata sarebbe un’arte fallita, mancata: quella che si limita a mettere in forma lo status quo, il già noto e risaputo, spruzzandolo di attrazioni e di un alone dolciastro di sensatezza, o “irrealizzandolo” spettacolarmente, o quella troppo privata e idiosincratica, incapace di attivare o modificare un sentimento comune. Se, grazie alle condizioni già elencate,

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ogni volta che parliamo, operiamo o costruiamo qualcosa, ci affidiamo sempre – che ne siamo consapevoli o meno – a uno sfondo di possibilità e di relazioni inattualizzate, in cui quell’atto o quella cosa si inscrivono, allora anche la nostra esperienza più banale, determinata e attuale (mangiare un panino, ascoltare un discorso, osservare un oggetto) è quella esperienza che è, ha il significato che ha, solo in quanto si inscrive nella totalità indeterminata e indeterminabile dell’esperienza umana, cioè in una dimensione di senso, e non solo di significati esplicitabili in cosiddetti “messaggi”. Tutte le condizioni appena elencate sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, affinché si dia quel che chiamiamo arte, ma sono allo stesso titolo condizioni necessarie di tante altre cose (la cultura nel suo complesso, la coscienza e l’inconscio, la società e il lavoro, le perversioni e la guerra ecc.). L’ultima condizione elencata, però, quella che riguarda l’inaggirabilità dell’esigenza di senso, ha un rapporto più stretto con l’arte: solitamente, riconosciamo il carattere di arte a un oggetto materiale, a un evento o a una pratica se questi, nella loro determinatezza e puntualità, riescono insieme a concentrare in se stessi, a esibire, a mettere in gioco tutto quello sfondo, solitamente messo a tacere o lasciato in secondo piano, che ho chiamato «esperienza umana in genere» o nella sua totalità, cioè un senso. Il contrario del senso è l’insensato, l’assurdo, o la piattezza del fattuale senza alternative, dell’“è così e basta”. È addirittura difficile immaginare un’esperienza di questo genere, che si colloca sul limite del patologico. Un’esperienza sensata si dà invece quando sentiamo che quel che accade ha una connessione comprensibile con il resto della nostra esperienza nella sua inafferrabile totalità, con lo spazio dell’esperienza accumulata e con gli orizzonti di attesa che

9. UN PASSO INDIETRO

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guardano al futuro. Il nostro ricorrente precipitare nell’insensato, nell’assurdo, e il nostro soffrirne, è proprio quel che ci conferma l’inevitabilità di questa esigenza. Questa esigenza, evidentemente, è un’esigenza imprescindibile di controllo sulla nostra esperienza, ma è paradossalmente un’esigenza che non può essere soddisfatta arroccandosi su quel che possiamo controllare. D’altra parte, solitamente, non ci preoccupiamo di questa dimensione. Agiamo pragmaticamente, cerchiamo di raggiungere questo o quello scopo determinato nel modo più efficiente. Chi invece, facendo e agendo, realizza un’opera o un’attività artistica, rovescia le priorità, ma non mirando direttamente a “fare arte”, che non si sa cos’è, ma lavorando con dedizione, con ogni cura, alla realizzazione di un oggetto o di un’attività singolari. Quando trattiamo qualcosa (oggetto o attività) come arte (anche quando si tratta di anti-arte, che può funzionare solo parassitariamente rispetto all’arte che rifiuta), sospendiamo il nostro rapporto pragmatico con quella cosa, senza subordinarla a un fine ulteriore precostituito, e in tal modo può accadere che emergano in primo piano proprio le sue relazioni di senso con il resto dell’esperienza. E se riusciamo a stabilire queste relazioni, se riusciamo a riconfigurare, a rigenerare un rapporto sensato con la nostra esperienza, grazie a quell’oggetto o a quella pratica singolari (anche quando si tratta di lavori in serie, la serie può essere singolare), proviamo piacere, ci sentiamo meglio o a “casa in questo mondo”, avvertiamo la possibilità di poterci sopravvivere e operare. Era ciò che Kant chiamava «conformità a scopi senza scopo»: non perché la “cosa” non debba avere uno scopo determinato, ma perché la realizzazione di questo scopo – perseguita con cura e passione – passa in subordine, e la “cosa” si rivela essere conforme a scopi in genere, “finale” nei confronti delle nostre facoltà disattivate dal loro uso pragmatico.

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Può accadere, in altre parole, che una “cosa” che ci richiede di essere considerata in quanto tale, nella sua singolarità e opacità, ci provochi a sentire e pensare di più, rifiutandosi di scomparire in un significato o concetto determinato, sostituibile o riformulabile senza perdita in altri modi. Il richiamo alla dimensione del senso non espunge certo l’assurdo o l’insensato dalla sfera dell’arte: ma un conto è vivere semplicemente l’assurdo o l’insensato, patirlo o soccombere, un altro è avere la forza di dargli una forma. È per questo, naturalmente, che evitiamo quanto possiamo le situazioni assurde o insensate nella nostra vita, ma frequentiamo tra dolore e piacere le opere che le rappresentano o le elaborano. Naturalmente, non sto offrendo una definizione di arte – le definizioni in un simile ambito sono o inutili o sbagliate – ma solo la caratterizzazione imprescindibile di un suo aspetto. Questa breve digressione aveva il compito di ricordarci quanto ciò che chiamiamo “arte” sia, sì, un fenomeno moderno, e magari destinato a estinguersi, ma anche come le sue condizioni di possibilità affondino le loro radici nelle origini stesse dell’umanità. In queste condizioni è inscritta una cooperazione tra controllo e non-controllo di noi stessi, del mondo e degli altri: il controllo che possiamo esercitare sugli scopi determinati, e la sua perdita nell’eventuale emersione di scopi in genere, di una «conformità a scopi senza scopo», della dimensione del senso. Tuttavia tale cooperazione non si esplica sempre e comunque, ma solo se altre condizioni materiali ne consentono il dispiegamento. A partire da qui, possiamo immaginare strade diverse.

10. Crocevia

Da queste considerazioni sulle condizioni generiche che vengono mobilitate nell’attività artistica – creazione, partecipazione o fruizione che sia – dobbiamo allora riavvicinarci a grandi passi allo scenario contemporaneo. Dobbiamo vedere cioè se, come, ed eventualmente perché, queste condizioni che ci caratterizzano sempre come specie possano generare, oggi, a contatto con il nostro presente – caratterizzato da quella polarizzazione o dissociazione che abbiamo evidenziato –, delle pratiche artistiche in cui effettivamente si addensa, si elabora e si mette in opera qualcosa di sensato, o se invece le cosiddette pratiche artistiche contemporanee abbiano perso la loro esemplarità e possano rifluire lentamente in quelle pratiche artigianali o in quelle tecniche da cui sono emerse qualche secolo fa. Sappiamo bene che prima del Cinquecento nessuno avrebbe capito perché mai fosse necessario unire sotto uno stesso nome, una stessa idea o funzione cose così diverse come la poesia e la pittura, la danza e la scultura, l’architettura e il teatro, la musica e il giardinaggio. Allora – agli albori della modernità – accadde che in tutte queste pratiche diverse venisse riconosciuta una comune aria di famiglia, che permise a un certo punto di formalizzare addirittura un sistema delle (belle) arti, di-

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verso dalle classificazioni antiche o medievali delle arti meccaniche (in cui rientravano, sì, pittura e scultura, ma insieme all’agricoltura, alla medicina, alla navigazione, alla caccia ecc.) e quelle liberali, del trivio e del quadrivio (in cui l’unica arte in senso moderno era la musica, e non per i motivi che richiameremmo oggi). È accaduto infatti che intorno al Cinquecento alcune di quelle che si chiamavano arti (nel senso premoderno di technai), emancipandosi in parte dai relativi scopi pragmatici, venivano riconosciute come esemplarmente portatrici di esperienze di senso (in tutti i significati del termine: senso come dominio della sensorialità e del corpo, senso come sensatezza, senso come orientamento, senso come sentimento), e come tali valorizzate e associate in un unico sistema fino a diventare il referente principale dei giudizi estetici – irriducibili a conoscenza, quanto al loro principio, o all’etica e alla politica, ma strettamente implicate in ciascuno di questi ambiti. Oggi lo scenario è profondamente mutato, sia rispetto al secolo che ha visto nascere la sfera dell’opinione pubblica, quello di Kant, sia rispetto agli anni del dopoguerra, quelli in cui Hannah Arendt riprendeva in senso politico le riflessioni kantiane sull’estetica; anni in cui gli intellettuali non erano ancora uomini di spettacolo ed “esperti”, consiglieri o consulenti di governo, quali sono diventati dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. E il cosiddetto sistema delle arti è stato sconvolto dalla storia, politica economica e culturale, e, oggi più che mai, dalla rivoluzione tecnologica in atto, che sta modificando in maniera imprevedibile la sfera sociale, la produzione e la distribuzione di immagini e informazioni, i mezzi di controllo e di autocontrollo e le forme dell’agire politico. In questa situazione può anche darsi che l’arte torni a dissolversi, come prima del Rinascimento, in una pluralità di pratiche disparate senza più nulla di esemplare in comune, e così

10. CROCEVIA

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come si dice che un cuoco o un intrattenitore è un artista, si potrà forse dire che un artista non è altro che un cuoco o un intrattenitore. Le pratiche artistiche potranno essere non più portatrici esemplari di senso, si confonderanno tra le altre pratiche ordinarie, e il senso, magari, migrerà in altre sfere più esemplari. Oppure le pratiche artistiche potranno diventare quel che solitamente gli amministratori pensano che siano: intrattenimento, circenses, supplementi d’anima di contorno a cose più serie, attrazioni turistiche, parchi a tema per la generale infantilizzazione di tutti. Tutti invogliati dagli aggettivi diventati ormai, in ogni comunicato stampa di mostre ed “eventi culturali”, slogan da imbonitori, parole d’ordine da buttadentro: prometteranno di essere sempre “immersive” e “interattive” che, salvo eccezioni, significa oggi che ci intratterranno senza farci pensare o sentire alcunché, senza imprevisti e senza conseguenze, avendo predisposto in anticipo tutta la dose limitata di interazione – sicura e senza imprevisti, concessa e controllata – che promettono, e che ci immergeranno nel paese dei balocchi, per lo più tecnologicamente sensazionali. Oppure no. Nonostante sembri talvolta che le ragioni antropologiche, sociali, estetiche e politiche dell’arte siano ormai assorbite nei traffici del “mondo dell’arte”, nella società dello spettacolo, tra nomine e mercato, cocktail e chiacchiere, star system e imprenditoria, può darsi invece che pratiche artistiche anche molto diverse tra loro (dalla fotografia analogica e digitale alla pittura, dall’arte pubblica alle performance di ogni genere) siano in grado di offrire ancora qualcosa – (il modello di) un luogo, un tempo, un sentire e riflettere, e dunque delle relazioni – che non ha altri rappresentanti nelle nostre società. E perfino gli aggettivi abusati di “immersivo” e “interattivo” potrebbero smettere di essere le promesse illusorie di farci sen-

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tire in un altro mondo e di interagire “attivamente” con un oggetto o un algoritmo che hanno in realtà già ristretto e calcolato ogni mossa possibile: potrebbero riacquistare una loro importanza nel farci percepire come siamo già da sempre immersi in un mondo di cui siamo parte e che ci sfugge, con tutte le interazioni che ci trasformano e insieme lo modificano.

11. Dentro le pratiche artistiche

Che anche nel campo dell’arte ci sia tanta spazzatura, tante ambizioni sbagliate, è fuor di dubbio. Ma dove non ci sono? Le troviamo in tutte le professioni e istituzioni, in tutti i prodotti e in tutti i ruoli sociali, solo che nell’arte sono più evidenti, data la sua mancanza di fini pragmatici, obiettivi, sotto cui nascondersi. Finora ho cercato di evidenziare come le nostre vite – a livello individuale, sociale e culturale – sono sempre più caratterizzate da una divaricazione crescente tra forme di controllo e fenomeni di perdita di controllo, che, divaricandosi, si estremizzano, pur coincidendo. Tuttavia, sembra che anche la riflessione su questi fenomeni si sia polarizzata come il sintomo che vuole descrivere: da un lato, c’è chi vede la principale caratteristica delle nostre società nell’estendersi e nell’approfondirsi del controllo, dall’altro, invece, chi fissa lo sguardo sulla crescente perdita del controllo a tutti i livelli, reale e/o percepita. Ma non mi pare che si sia colta o approfondita la stretta correlazione tra queste due tendenze che insistono sullo stesso luogo, la loro implicazione “dialettica”, i paradossi che la riguardano, né che si sia cercato un modello di integrazione alternativo. Sebbene sia proprio questa tendenziale mancanza di inte-

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grazione e cooperazione tra i due “momenti” a costituire una scissione grave e dolorosa. L’arte, oggi, può avere la possibilità – preclusa ad altre pratiche – di rivelare meccanismi sociali inceppati, di farne la critica, e di testimoniare un modello alternativo. Ma per quanto il mondo sia pieno di artisti che si dedicano ad analizzare, distorcere, sovvertire, contrastare tutte le forme di sorveglianza e controllo note, e per quanto i musei – con le loro limitazioni istituzionali – li rappresentino (o li riassorbano) in grandi mostre, anche meritevoli e istruttive, non credo che il motivo profondo per cui l’arte continua ad attrarre a sé – che lo si sappia o no – siano le sue tematiche, come tali sempre dicibili altrimenti. Non a caso, proprio in quelle opere che tematizzano la sorveglianza o il controllo a livello di “soggetto”, di “contenuti”, è più raro trovare un’elaborazione coinvolgente di quella coincidenza paradossale con il suo polo opposto. Tutt’al più si vuole mostrare come l’arte tenti di sfuggire al controllo mimetizzandosi, rimescolando le carte, alzando polveroni, facendosi astuta, opponendo qualche rifiuto locale. Ma credo che il cuore della questione sia un altro: nessuna opera o pratica artistica che abbia senso è tale se non produce, mediante tecniche controllate, qualcosa che trascende tale controllo. Non si tratta affatto di riproporre sottobanco una visione armonicistica, consolatoria o conciliante dell’arte o dell’attività artistica, come integrazione felice di tutte le potenzialità umane. Più che mai nella produzione di dissonanze, di lavori e opere inconciliate questa “dialettica” gioca un ruolo essenziale, se esse non vogliono e non possono risolversi in mere illustrazioni di teorie, proclami, denunce, grida di dolore personali o collettive, prese di posizione ideologiche o velleitarie. Tutte espressioni comprensibili, ma che lasciano intatto un poten-

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ziale che è da sempre il nucleo più misterioso e potente del fare arte. Questa cooperazione tra momenti opposti è stata espressa in molte maniere diverse, sia dagli artisti, sia dai filosofi, dall’antichità a oggi: accanto alla perizia, all’esercizio del giudizio, al saper-fare, troviamo la manìa platonica, la genialità rinascimentale o romantica, il dono e la grazia, la non-intenzionalità delle “idee estetiche” kantiane, Apollo che parla la lingua di Dioniso e Dioniso quella di Apollo in Nietzsche, la mimesi come assimilazione all’eterogeneo di Adorno, e anche, insieme a tante mistificazioni e banalizzazioni, l’inconscio, il caso, i processi di crescita organici demandati alle opere stesse, l’automazione. Tutti tentativi di aggirare la pianificazione, il controllo di sé, degli altri e del mondo, di provocare indirettamente stati che sono «effetti essenzialmente secondari», di riattingere una spontaneità sensata che sorprenda innanzitutto l’artista stesso. Mentre questa cooperazione è propria di ogni forma d’arte, non c’è dubbio che oggi venga sempre più in primo piano. Non per una segreta teleologia dell’arte che scopre la sua vera essenza, ma per una contingenza storica: messa di fronte a una realtà individuale e sociale che ha colpito come non mai quella cooperazione tra opposti, nelle pratiche artistiche si rivela, come in un reagente, un modello diverso. Non posso proporre qui analisi approfondite di esempi concreti, che richiederebbero molte altre pagine. Posso indicare però, da un lato, alcune caratteristiche della produzione artistica attuale che, nella sua estrema eterogeneità, sembra tuttavia condividere. E, dall’altra, indicare qualche opera a titolo esemplificativo. La fotografia sta conoscendo una diffusione enorme, nelle sue pratiche quotidiane e in quelle professionali e artistiche. A partire dalla sua nascita negli anni Trenta dell’Ottocento, ha

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via via “fotografizzato” anche gli altri media, entrando nelle pratiche di artisti che non si definirebbero in alcun modo fotografi. Tutte le diverse forme artistiche hanno progressivamente assimilato o accentuato alcuni tratti, già presenti in esse, che nella fotografia sono venuti però via via in primo piano: la casualità come cicatrice del reale, rischio di insensatezza e possibile ingrediente di sensatezza; l’errore come risorsa; gli automatismi veri o presunti come deviazioni dal controllo autoriale; la proposta della serie di contro all’unicità del “capolavoro”; la rimediazione di opere e prodotti attraverso la rielaborazione in altri media… Ma qualcosa di analogo sta accadendo con la crescente diffusione della performance. Anche da questo punto di vista, si potrebbe dire, le arti si sono “performativizzate”, evidenziando di nuovo un principio che è però di ogni arte: la tendenziale cancellazione dei confini tra azione controllata e accadimento non controllato, tra quel che si “fa” e quel che “succede”. Come diceva la filosofa inglese Elizabeth Anscombe, ci sono casi in cui io faccio quel che accade. Vale a dire, quando la descrizione di quel che accade è proprio quella cosa che […] io sto facendo, allora non c’è distinzione tra il mio fare e quel che accade.11

Questa, in sintesi, la replica “pragmatica” al paradosso degli stati che sono «effetti essenzialmente secondari». Volendo invece indicare qualche opera, non posso che procedere in ordine sparso, con molta arbitrarietà. Per quanto ri11 G.E.M. Anscombe, Intention (1957), Harvard University Press, Cambridge (MA), 2000, pp. 52-53. A richiamare la mia attenzione su questo passo è stata la lettura della tesi di dottorato di Roberto Zanetti, L’improvvisazione in musica, scritta per il corso di dottorato in Filosofia del consorzio F.I.N.O. per l’AA 2016-17.

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guarda la fotografia, per esempio, mi viene in mente Kontrollraum (2011) di Thomas Demand. La fotografia raffigura la ‘sala di controllo’ della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, devastata dagli effetti del terremoto e dello tsunami. Se ci si ferma al livello tematico, è una fotografia piuttosto banale, che sembra voler mostrare con facile ironia la nostra illusione di poter controllare almeno tutto ciò che noi stessi produciamo: proprio il luogo progettato per controllare qualcosa di cui non si può perdere il controllo è investito da una forza che lo sottrae al controllo. Ma questa sarebbe solo l’illustrazione controllata e intenzionale di un concetto. A questo elemento, però, Demand associa non il caso, o la contingenza dello scatto, quanto proprio un tentativo di rendere «giustizia al caso», come diceva Adorno, «con quel procedere a tentoni nel buio della strada della propria necessità»12. Demand, come è suo solito, si è servito della fotografia della sala reale, apparsa su un giornale, per costruirne un meticoloso modello 1:1, fotografarlo e infine distruggerlo. Perché mai? Non sarebbe bastato elaborare la fotografia di partenza? Certamente, se il motivo fosse stato soltanto cancellare dettagli e informazioni, cosa che Demand ha comunque fatto, andando ambiguamente contro l’elemento casuale o contingente della scena raffigurata. Il motivo principale della complessa operazione mi pare però un altro: la cura meticolosa di ogni dettaglio nella costruzione del modello è solo in apparenza un controllo integrale sull’artefatto e sull’opera finale. In realtà, è una strategia necessariamente indiretta e tortuosa per lasciare spazio a una dimensione supererogatoria rispetto a ciò che è controllabile. Con una frase lunga, ma irrimediabilmente lineare e semplificatrice, la si potrebbe raccontare così: un luogo reale, adibito al controllo dell’energia nucleare, sconvolto da 12 Th.W. Adorno, Teoria estetica (1970), trad. it. a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino, 2009, p. 155.

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un evento naturale incontrollato, è ricostruito sottomettendosi a tutti i vincoli contingenti dell’immagine fotografica che lo documentava su un quotidiano (l’inquadratura) e delle dimensioni reali della sala, uscendo dunque dal terreno della fotografia e affrontando i “rischi” di un’attività manuale (Demand, prima di diventare fotografo, si è formato come scultore), ma cancellandone le tracce contingenti per farne quasi una “contingenza” offerta sub specie aeternitatis all’obiettivo della macchina fotografica, che la “immortala” nella sua fugacità (il modello in carta fotografato da Demand è stato distrutto e non potrà mai più essere fotografato, come se fosse stato sorpreso in un attimo irripetibile della sua esistenza). Demand spiega la necessità di questo processo concreto di elaborazione – che nella sua concretezza processuale toglie la contraddizione dal permanere del paradosso – e la differenza che passa tra “considerazione” e “controllo”: “Controllo” implica che io sappia quello che sto facendo. Quando alla fine si guarda il lavoro viene da pensare che ci sia un controllo, ma si tratta più di capire quello che è giusto o meno. […] Mi piacciono i “dettagli convincenti”. […] È come un pittore che conosce tutti i particolari del proprio quadro: non si tratta di controllo, ma di considerazione.13

Jeff Wall è un altro fotografo di fama mondiale, e un acuto teorico. Qui ricorderò soltanto uno scritto del 1989 relativo a una delle sue light boxes più famose, Milk (1984). Questa fotografia rappresenta un’“esplosione” improvvisa di un cartone di latte e ha generato fiumi di interpretazioni. Ma quel che qui mi interessa è che Wall mette a confronto «l’intelligenza liquida» che è 13 Intervista a T. Demand di M. De Leonardis, in Exibart.com, 11 novembre 2013.

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propria dell’incalcolabilità della natura con gli aspetti più «secchi» della fotografia (gli strumenti ottici o informatici); o il «substrato di istantaneità che persiste in tutta la fotografia» come movimento «concretamente opposto, per esempio, al fluire di un liquido». Milk, allora, che è un’immagine tutta controllata, frutto di un lungo lavoro di pre- e post-produzione, si configurerebbe come una metafora molto calzante, tra le altre cose, per l’interrelazione tra l’intelligenza liquida e l’intelligenza ottica in campo fotografico, o – più generalmente – tecnologico. In fotografia, i liquidi ci studiano, perfino da remote distanze.14

Sui liquidi, e il loro campo metaforico, ci si potrebbe intrattenere a lungo. E se i liquidi ci studiano “in fotografia”, ciò avvalora ulteriormente l’idea della fotografia come laboratorio del presente, perché mette in evidenza come i liquidi “ci studino” anche fuori della fotografia. Per riportare sull’asse del non-controllo quel liquido lì fotografato, grazie a un controllo meticoloso, nel momento di una “esplosione incontrollata”, basti ricordare la recente epidemia di un virus micidiale, che si trasmette proprio mediante tutta la vasta gamma dei liquidi fisiologici: l’epidemia di ebola, forse già dimenticata, ma che ha ucciso nel mondo povero facendo tremare per qualche mese il mondo ricco (e inducendolo a misure di controllo estreme), e dunque il modo in cui «ci ha studiati, anche da remote distanze». Fuori dall’ambito strettamente fotografico, vorrei ricordare il progetto Fortuna di William Kentridge, una serie di peculiari animazioni disegnate a carboncino (in parte disponibili 14 J. Wall, Fotografia e intelligenza liquida (1989), in Id., Gestus, tr. it. di S. Graziani, Quodlibet, Macerata, 2013.

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in rete), su cui l’artista ha scritto qualche riflessione che mi sembra particolarmente pertinente per il nostro tema: Ciascuna di queste immagini e questo materiale sono centrali per il film, ne sono il cuore. Nessuna di esse è scaturita da un piano, un programma, una sceneggiatura, né ovviamente sono scaturite dal puro caso. Fortuna è il termine generale che uso per questa gamma di agencies, qualcosa di diverso dal freddo caso statistico, e qualcosa di troppo esterno alla gamma del controllo […] credo che il processo che ho descritto non sia inconsueto né sorprendente, ma vorrei sottolineare come sia centrale, non occasionale, almeno nel mio modo di lavorare, e vorrei anche suggerire che questo affidarsi alla “fortuna” nel fare immagini o testi rispecchia alcuni dei modi in cui noi esistiamo nel mondo, anche al di fuori del regno delle immagini e dei testi.15

Un ultimo esempio, tutto diverso dal modo di operare di Kentridge, è il physical cinema di Janet Cardiff. In particolare, mi riferisco alle sue “passeggiate” (a partire da Forest Walk del 1991 fino a City of Forking Paths del 2014). In queste opere, di difficile classificazione e descrizione, immersività e interazione sono al tempo stesso sperimentate in prima persona dal “fruitore-utente” e offerte alla sua riflessione, sono il medium in cui ci si muove e il terreno di gioco in cui virtuale e reale, controllo e perdita di controllo, finzione e contingenza reale comunicano, si sovrappongono e si scontrano. La Alter Bahnhof Video Walk (2012) presentata a Documenta (13), per esempio, è “controllata” da una video-audio guida. Il video è affidato a un dispositivo elettronico dotato di uno schermo, 15 W. Kentridge, “Fortuna”: neither programme nor chance in the making of images, «de arte», Vol. 33, 57, 1998.

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mentre le cuffie restituiscono un audio ottenuto con una registrazione binaurale: i rumori, le parole, i suoni che ascoltiamo sono percepiti come provenienti dall’ambiente reale. L’immersività è ricercata e programmata affinché il partecipante si senta come immerso in un liquido che gli fa dimenticare se stesso («È per questo che giocare, o nuotare, è così bello»)16. Seguendo i percorsi suggeriti dai toni suadenti della voce di Cardiff, il visitatore cammina nella vecchia stazione di Kassel, ma in quella realtà presente e contingente della stazione odierna entrano elementi di un altro tempo (i treni in partenza verso i campi di concentramento), rumori di passi marziali a cui reagiamo istintivamente facendoci da parte intimoriti («Possiamo giocare con queste risposte programmate»17), musiche d’epoca… Per un verso, non c’è dubbio che il partecipante sperimenti il piacere e l’ansia di essere controllato: C’è qualcosa nel lasciarsi andare: può essere un’esperienza piacevole delegare il tuo controllo a qualcun altro. Abbiamo sempre il controllo di tutto […] Con la passeggiata, sono io a prendere le decisioni delle persone, sono io a portarli in giro. Credo sia qualcosa di collegato allo stesso tipo di impulso che c’è nei rapporti sado-maso […] non necessariamente in misura così estrema, ma con lo stesso impulso di volere che il controllo sia nelle mani di qualcun altro.18

Per altro verso, però, questo piacere dell’abbandono al controllo di un altro non è la pura replica di una realtà di fatto, 16 C. Christov-Bakargiev, Janet Cardiff. A Survey of Works Including Collaborations with George Bures Miller, P.S.1 Contemporary Art Center, New York, 2003. Le parole citate di Janet Cardiff sono tratte dalla conversazione con la curatrice, p. 17. 17 Ivi, p. 16. 18 Ivi, p. 35.

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ma è una riflessione in atto, è una percezione riflessa di quella “dialettica del controllo” a cui ho accennato. Non è l’immersione virtuale in un mondo parallelo a cui ci abbandoniamo, come in un sogno a occhi aperti, ma l’incursione del virtuale (nei suoi molteplici volti di ciò che è assente, fittizio, rimosso…) nella contingenza del reale, con cui il “partecipante” deve continuare a interagire. È in opere come queste, forse, che l’arte trova un spazio certamente instabile, conflittuale, labile, ma irriducibile ad altro nella sua capacità di cogliere esemplarmente, nella sua stessa forma, la nostra forma di vita.

12. Il laboratorio artistico e la dialettica del controllo

Spero siano più chiare ora le ragioni per cui considero una critica della sorveglianza solo come un aspetto parziale di una più complessa “dialettica del controllo”, e di quanto sia stratificata, complessa, capillare e ramificata la posta in gioco. Il “laboratorio artistico” – in tutta la sua eterogeneità, vastità di sperimentazioni fatte e non ancora immaginate o realizzate – non indica una via d’uscita dalla “dialettica del controllo”, ma solo un termine di paragone utile a diagnosticare meglio il presente, o a creare “zone liberate” che inneschino processi in cui quel tessuto lacerato a cui ho accennato possa cominciare a rigenerarsi. Può avere comunque almeno un risultato negativo non disprezzabile: mostrare dei vicoli ciechi (per esempio una politica culturale dirigistica e volontaristica o, al contrario, l’affidamento a una sorta di “mano invisibile” spirituale, che trasformerebbe per incanto ogni attività casuale, o l’abbandono di ogni progettualità comune, in cultura, in vita sensata, o in arte). Può mettere in guardia dagli spauracchi di chi vede il dilagare inarrestabile del controllo o, viceversa, della perdita di controllo su ogni sfera vitale, invocando magari antidoti al-

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trettanto insostenibili (spontaneismi sospetti e velleitari, da un lato, e nuove Leggi e autoritarismi dall’altro), favoriti da un’incomprensione della loro complementarità antinomica che l’arte, invece, elabora e compone, ma certamente non “risolve”. E invita, dunque, a distinguere tra una dialettica “bipolare”, condannata al ripetersi dell’oscillazione paralizzante tra controllo e perdita di controllo, e una cooperazione virtuosa tra i due poli. E, magari, a cercare strategie non contraddittorie per darle tempo e spazio.

Indice

Avvertenza 1. Una prodigiosa coincidenza 2. Una famiglia di parole 3. La sorveglianza come “ambiente naturale”, il nostro “doppio” digitale e l’epidemia delle valutazioni 4. Il sogno della modernità (e il nostro sonno agitato senza sogni) 5. Il caso e la responsabilità: la differenza tra uno “tsunami finanziario” e un film 6. L’asimmetria tra controllo e non-controllo: stati che sono “effetti essenzialmente secondari” 7. La cosiddetta cultura… 8. …e la cosiddetta arte 9. Un passo indietro: l’arte e le sue condizioni antropologiche 10. Crocevia 11. Dentro le pratiche artistiche 12. Il laboratorio artistico e la dialettica del controllo

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