Paul Ricoeur e la “filosofia della persona” nella Francia del Novecento 9788888812991

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Paul Ricoeur e la “filosofia della persona” nella Francia del Novecento
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VOCI DELLA POLITICA collana di studi diretta da Paolo Armellini e Roberta Fidanzia – XIII –

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PROSPETTIVE DI FILOSOFIA E POLITICA, 5

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Ogni volume della collana è sottoposto al giudizio di due blind referees.

Comitato Scientifico: Nicola Antonetti, Angelo Arciero, Giuliano Caroli, Raffaele Chiarelli, Mario Ciampi, Gabriella Cotta, Giovanni Dessì, Antonella Ercolani, Daniela Falcioni, Giovanni Franchi, Roberta Iannone, Markus Krienke, Francesco Maria Maiolo, Luca Mencacci, Gaspare Mura, Rocco Pezzimenti, Teresa Serra, Mario Sirimarco, Tommaso Valentini, Alfred Wierzbicki.

Sezioni: 1. Prospettive di filosofia e politica 2. Studi politici europei ed internazionali 3. Lessico politico-giuridico 4. Prospettive del pensiero economico e sociale 5. I Pamphlet

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Tommaso Valentini

PAUL RICOEUR E LA “FILOSOFIA DELLA PERSONA” NELLA FRANCIA DEL NOVECENTO

In appendice la traduzione di un testo di Paul Ricoeur: “Homo capax: la mia prospettiva di antropologia filosofica e di impegno etico”

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Tommaso Valentini Paul Ricoeur e la “filosofia della persona” nella Francia del Novecento Voci della Politica, XIII CSFI, Roma 2020. Prima edizione.

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ISBN: 978-88-88812-99-1

Si ringrazia il «Fond Ricoeur» per i materiali messi a disposizione anche in formato digitale. Un sentito ringraziamento al Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi “Guglielmo Marconi” di Roma per il contributo offerto alla pubblicazione del volume. Sono profondamente grato alla Dott.ssa Roberta Fidanzia e al Dott. Angelo Gambella per aver ospitato questo libro nella collana scientifica “Voci della Politica”, a cura del CSFI (Centro Studi Femininum Ingenium).

“Voci della Politica” è una collana di studi pubblicata dal 2012 con il marchio Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. © CSFI Centro Studi Femininum Ingenium http://www.femininumingenium.it

Angelo Gambella Cura editoriale http://www.editoria.org

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Voci della Politica

Mai come oggi il politico in tutte le sue forme richiede un ripensamento globale. Gli affanni della politica italiana, europea e globale sono gli indicatori drammatici della crisi evidente di una politica svuotata progressivamente dall’invadenza dell’economico e dall’indebolimento del modello più alto cui il pensiero occidentale ha saputo dar vita: la democrazia. L’individualismo è andato ad erodere sempre di più gli spazi pubblici mentre il decostruzionismo postmoderno ha svuotato dall’interno ogni possibile forma di coesione intorno all’idea di un bene comune. Voci della Politica intende prendere atto di questa situazione così come della crescente presenza di voci, istanze e forze emergenti da mondi e culture non uscite dalla comune matrice occidentale per dare spazio alla discussione intorno al ripensamento necessario del senso, del valore e dell’insostituibilità della politica. La Collana Voci della Politica accoglierà perciò ricerche di storia del pensiero politico, delle dottrine politiche e di filosofia politica, aprendosi anche necessariamente, ai contributi prettamente filosofici, sociologici, giuridici come ad analisi imprescindibili per affrontare una riedificazione della politica. Troveranno collocazione all’interno della Collana tutti i contributi che risponderanno a questi obiettivi, unendo criteri della scientificità e della serietà dell’elaborazione culturale. Voci della Politica, edita dalla Casa Editrice Drengo, si articolerà in cinque sezioni: Prospettive di filosofia e politica, Studi politici europei ed internazionali, Lessico politico-giuridico, Prospettive del pensiero economico e sociale e I pamphlet che saranno edite, a seconda delle esigenze editoriali, in formato tradizionale cartaceo e/o in formato e-book. Ciascuna sezione potrà rispondere alle questioni più importanti di volta in volta emergenti. Potranno essere pubblicati, a tal fine, numeri di contributi vari, così come numeri monotematici e numeri monografici. P.A. – R.F. 5 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Alla cara memoria del Prof. Mario Signore (1939-2015), maestro di pensiero e di vita

«La persona è un essere spirituale costituito come tale da un modo di sussitenza e indipendenza nel suo essere; essa ricava questa sussistenza nella sua adesione a una gerarchia di valori libramente adottati, assimilati e vissuti attraverso un impagno responsabile e una costante conversione; essa unifica così ogni sua attività nella libertà e sviluppa per di più, a suon di atti creativi, la singolarità della sua vocazione»1; «La persona non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona. Il tu e il noi precedono l’io, o per lo meno l’accompagnano. […] Io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite: essere significa amare (être, c’est aimer)»2. (Emmanuel Mounier)

E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, Fernand Aubier Éditions Montaigne, Paris, 1936; tr. it. e cura di A. Lamacchia, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica, Bari 1982, p. 117. 2 E. MOUNIER, Le Personnalisme, PUF, Paris, 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il Personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 60 [tr. it. in parte da noi modificata]. 1

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«La persona resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»3; «se il concetto di persona oggi ritorna, ciò accade perché esso resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»4.

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(Paul Ricoeur)

P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, p. 38. 4 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. 3

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Introduzione La persona come libertà creativa e come essere-in-relazione. Considerazioni storiografiche ed etico-politiche

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1. L’articolazione del volume Gli otto Studi che compongono il volume analizzano sotto un profilo storiografico, teoretico ed etico-politico, gli sviluppi che il concetto di persona ha avuto nella Francia del Novecento, con particolare attenzione alla figura di Paul Ricoeur (1913-2005). Questi è stato amico e collaboratore di Emmanuel Mounier (1905-1950) e, per molti aspetti, è stato un “erede innovatore” di quella filosofia di ispirazione personalista tipicamente francese che affonda le sue radici nel cuore stesso della modernità: elementi per una philosophie de la personne si possono, infatti, rinvenire già nel Seicento presso Pascal e presso il cartesianesimo religioso di Malebranche; una più matura teorizzazione della libertà personale si può trovare, invece, già nei primi decenni dell’Ottocento, in particolare presso Maine de Biran e Jules Lequier, esponenti di una philosophie réflexive che tanti sviluppi fecondi avrà in numerosi autori francesi del Novecento, compresi Mounier e lo stesso Ricoeur. Ecco alcune affermazioni singnificative con le quali Mounier radica la sensibilità personalistica nel cuore stesso della modernità filosofica francese: «Pascal, padre della dialettica e della coscienza esistenziale moderna potrebbe essere il suo [del personalismo] grande maestro, se il pensiero giansenista non lo avesse volto a quella religione solitaria e orgogliosa che poi irretirà allo stesso modo Kierkegaard. E, di passaggio, non dimentichiamo Malebranche e il suo Trattato di morale […]. Maine de Biran è il precursore 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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moderno del personalismo francese. […] Il suo pensiero ha notevolmente messo in luce le radici della persona e la sua zona d’emergenza»1. Nel primo Studio del volume viene fatto un excursus sulle principali tendenze, tradizioni e discontinuità che hanno caratterizzato il vivace clima filosofico nella Francia del secolo XX: si tratta dello sfondo speculativo e dell’humus etico che ha accompagnato la formazione e gli sviluppi del pensiero di Ricoeur, un uomo che ha letteralmente attraversato durch das Denken il cosiddetto “secolo breve”. Come è noto, la filosofia in Francia non è stata elaborata solamente in ambito accademico e con finalità di ricerca scientifica, ma ha avuto un ruolo eminente sotto il profilo dell’impegno politico e sociale. In Francia i philosophes, differentemente che in altri paesi, hanno svolto un ruolo pubblico di primo piano e in questo sono stati gli eredi di quella tradizione illuministica settecentesca che scorge in Voltaire il suo sagace modello: l’intellettuale francese, seppur accademico, è anche un uomo engagé, intimamente coinvolto nel vissuto storico e nelle battaglie per i suoi ideali di libertà e giustizia. In questo senso, rimangono certamente emblematiche le figure di Sartre, Merleau-Ponty, Raymond Aron e Michel Foucault, solo per menzionare alcuni tra i più noti. Va sottolineato che gli stessi Mounier, Maritain e Ricoeur hanno dato al loro pensiero un forte carattere di engagement e di testimonianza etica, fortemente connessa alla loro fede cristiana: basti pensare al contributo di Jacques Maritain alla teorizzazione dei fondamenti dei diritti umani2, all’impegno di Mounier per contrastare lo sfruttamento E. MOUNIER, Le Personnalisme, PUF, Paris, 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il Personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 36. 2 Si ricordi che nel 1939 Maritain, esule negli Stati Uniti, contribuisce a costutire il Committee of Catholics for Human Rights, per la salvagiardia dei diritti umani universali e inalienabili, contro gli abusi di ogni forma di 1

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coloniale3 e al ruolo svolto da Ricoeur sia nel dibatitto pubblico francese sull’accoglienza del migrante, sia all’interno delle chiese riformate per favorire l’ecumenismo e il dialogo interreligioso4. Nel primo Studio del volume vengono quindi presi in esame i diversi contesti filosofici all’interno dei quali i concetti di soggettività e di persona hanno trovato una loro elaborazione, ma anche una loro energica contestazione: dagli anni Sessanta in poi, con il diffondersi della moda strutturalista e con la NietzscheRenaissance, la filosofie del cogito di matrice cartesiana sono state duramente criticate. È anche in questo clima di contestazione che va compreso il pensiero di Ricoeur: la sua riflessione si muove nella consapevolezza della debolezza epistemologica del cogito. Egli parla di un cogito “ferito” (blessé)5 e si fa teorico di una “ermeneutica del sé” capace di confrontarsi con le sfide poste dai maestri del sospetto (Marx, Nietzsche e Freud) che stanno alla base di tanta sensibilità filosofica strutturalista e post-moderna. totalitarismo e di violenza: a questo proposito si vedano F. OLIVA, I diritti umani in Jacques Maritain. L’attualità del pensiero e della proposta educativa, Editore Progetto 2000, 2003; D. Lorenzini, Jacques Maritain e i diritti umani. Fra totalitarismo, antisemitismo e democrazia (1936-1951), Morcelliana, Brescia, 2012. 3 Nel 1947 Mounier visita le colonie francesi dell’Africa occidentale e l’anno successivo pubblica sulla rivista «Esprit» le sue riflessioni critiche sul colonialismo: E. MOUNIER, L’éveil de l’Afrique noire, Presses de la Renaissance, Paris, 2007; tr. it. di A. Rovatti, Il futuro dell’Africa. Lettera a un amico africano, Medusa Edizioni, Milano-Napoli, 2017. 4 Si vedano, per esempio, P. RICOEUR, Ermeneutica delle migrazioni. Saggi, discorsi, contributi, tr. it. e cura di R. Boccali, Mimesis, Milano, 2013; P. RICOEUR, Plaidoyer pour l’utopie ecclésiale. Conférence de Paul Ricoeur (1967), texte établi et postface par Olivier Abel et Alberto Romele, Éditions Labor et Fides, Genève, 2016; tr. it. A. Romele, Per un’utopia ecclesiale, a cura di C. Paravati, A. Romele, P. Furia, Claudiana, Torino, 2016. 5 Mi limito ad indicare il saggio di F. PAZZELLI, Il Cogito «ferito». Il lungo cammino del soggetto nell’ermeneutica di Paul Ricoeur, in «Bollettino della società filosofica italiana», 1, gennaio-aprile 2020, pp. 55-72.

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Da queso primo Studio emergono, quindi, i motivi di fondo per cui Ricoeur arriva ad affermare che il personalismo non avrebbe vinto «la battaglia del concetto (la battaille du concept)»6: egli afferma giustamente che «la costellazione di –ismi, nella quale il personalismo s’è lasciato inquadrare o s’è deliberatamente inscritto, è stata completamente suparata da un’altra moda culturale forte begli anni ’60. […] La moda degli strutturalismi. Di colpo, l’idea di un regno a tre: “personalismo-esistenzialismomarxismo” – così spesso considerata da Mounier come caratteristica duratura di un’epoca – assume oggi la figura di un’illusione»7. La strutturalismo che si è sviluppato dagli anni Sessanta in poi e le differenti tedenze filosofiche che si sono richiamate ai “maestri del sospetto” (si pensi anche al decostruzionismo e al postmodernismo) hanno considerato la triade “personalismo-esistenzialismo-marxismo” come «varianti di uno stesso umanismo (parola squalificata sopra tutte)»8 da superare ed archiviare. Il secondo Studio del volume viene dedicato alla teoria della libertà formulata da Jules Lequier, un filosofo bretone dell’Ottocento che ha esercitato una notevole influenza su Jean Nabert, maestro di Ricoeur e, ancor prima, su Charles Renouvier, autore di ispirazione kantiana e autore nel 1903 di un’opera di fondamentale importanza: Le personnalisme. Seguendo la linea storiografica di Giuseppe Riconda, ho potuto scorgere in Lequier una delle radici più profonde del personalismo francese9, non sempre adeguatamente studiata e valorizzata. Lequier riprende la 6 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, cit., pp. 21-36, p. 22. 7 Ibidem, pp. 22-23. 8 Ibidem, p. 23. 9 G. RICONDA, Alle fonti ottocentesche del personalismo, in «Annuario Filosofico», 4, 1988, pp. 103-131.

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“filosofia riflessiva” teorizzata da Maine de Biran, si richiama esplicitamente a Fichte e, opponendosi a ogni forma di determinismo, pone la libertà come la condizione di possibilità dell’atto di pensiero. In questa prospettiva il cogito stesso viene interpretato come un atto della volontà libera: liber sum, ergo cogito, ergo sum. Lequier ha avuto il grande merito di teorizzare compiutamente quella “ontologia della libertà creativa” che costituisce uno dei tratti distintivi del personalismo francese “da Mounier a Ricoeur”. La stessa teoria ricoeuriana dell’homo capax mostra un legame importante con le riflessioni di Lequier sulla libertà creativa: una libertà che costituisce il nucleo sorgivo della produttività della persona e che indica tra le qualifiche della persona stessa la capacità di iniziare un qualcosa di nuovo rispetto all’ordo naturae. Nella prospettiva di Lequier e di Ricoeur la persona, grazie alla sua libertà originaria, può essere definita come “capacità di inizialità” e come un “essere-per-la-nascita”: quest’ultima è un’espressione che Ricoeur riprende da Hannah Arendt, arricchendola di singnificati. Come emergerà nel corso della trattazione, la teoria ricoeurina dell’homo capax riprende la concezione dell’agire come comunciamento di un novum, teorizzata da Lequier, e si origina anche da un’attenta riflessione su quel factum humanum fondamentale che Hannah Arendt defintiva come «il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire»10. Il terzo Studio del volume analizza la presenza di J.G. Fichte “filosofo trascendentale della libertà” all’interno della cultura fracese del primo Novecento e segnatamente in Maurice Blondel. H. ARENDT, Human Condition, The University of Chicago, Chicago, 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1994, p. 182. Su Ricoeur lettore e interpete della Arendt di veda P. RICOEUR, Hannah Arendt, in IDEM, Lecture 1. Autors du politique, Seuil, Paris, 1991; tr. it. di I. Bertoletti, Hannah Arendt, Morcelliana, Brescia, 2017.

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Percorrendo un itinerario “con Fichte, oltre Fichte”, Blondel ha avuto il merito di definire la persona umana in riferimento all’azione: egli ha sottolineato che quella dell’azione «non è una questione particolare, una questione come un’altra. È la questione. […] Si tratta di tutto l’uomo. […] Bisogna trasferire nell’azione il centro della filosofia, perché là si trova anche il centro della vita»11. L’azione costituisce la sintesi tra il pensiero e l’essere (omne ens est activum): il pensiero si esteriorizza nella prassi e tramite quest’ultima l’uomo riforma, trasforma e costruisce l’essere stesso. L’azione non abolisce il pensiero, ma lo include in una prospettiva superiore e lo potenzia. Richiamandosi a Fichte e a Maine de Biran e a Lequier, Blondel sostiene che già l’esercizio del pensiero sia un’attività, una azione interiore, una ἐνέργεια che presuppone la libertà e che richiama il pensiero stesso alla responsabilità. Come afferma Mounier, «è merito di Blondel l’aver ampiamente affermato queste idee»12: la visione blondeliana dell’esistenza come azione libera e responsabile è stata ampiamente recepita dagli esponenti del movimento personalista. Degli echi della posizione blondeliana, a mio parere, si possono scorgere nello stesso Ricoeur: segnatamente nella concezione dell’interiorità umana come libera attività produttiva e nell’elaborazione di una “antropologia della sproporzione”, dove è chiaramente presente un riferimento alla visione agostiana della trascendenza personale, espressa dai due autori in queste differenti forme: «la liberté image de Dieu», in Blondel 13, un M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris,1893; tr. it. di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1993, pp. 76-77. 12 E. MOUNIER, Le Personnalisme, PUF, Paris, 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il Personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 121. 13 Nella visione della libertà umana come riflesso e immagine della libertà divina Blondel si richiama ad una lunga tradizione che affonda le sue radici 11

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Alter presente in interiore homine, in Ricoeur: una Alterità – la trascendenza del Dio biblico – innanzi alla quale – così Ricoeur –

nella Patristica e che in Francia conosce un rinnovato slancio nel Seicento, “il secolo di Agostino”: la visione del liberum arbitrium come uno dei mirabilia della creazione divina è già presente nel Cartesio delle Privatae cogitationes, e viene ripresa, tra gli altri, da Malebranche e da JacquesBénigne Bossuet. Secondo Cartesio, «tre cose mirabili ha fatto Dio: le cose dal nulla, il libero arbitrio e l’Uomo-Dio (Tria mirabilia fecit Dominus: res ex nihilo, liberum arbitrium et Hominem Deum)» (R. DESCARTES, Cogitationes Privatae [1619-1621], in Oeuvres, éd. par C. Adam, P. Tannery, Paris 1897-1913; Paris 1964-1974, X, p. 218; tr. it. di A. Tilgher e M. Garin, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari-Roma 1986, Vol. I, p. 11). Condividendo la sensibilità del cartesianesimo religioso del Seicento, anche Bossuet ci presenta la libertà deficitaria dell’uomo ponendola in relazione alla libettà perfetta di Dio creatore; egli afferma, «io ho una sensazione chiara della mia libertà, che serve a farmi intendere la sovrana libertà di Dio, e come egli mi abbia fatto a Sua immagine. […] Il Primo Libero è Dio, poiché possiede in sé stesso tutto il bene; e, non avendo bisogno di nessuno degli esseri da lui creati, non è indotto a crearli, né a far si che esistano in un dato modo, se non per la sua sola volontà indipendente. […] Scopriamo allora che questo Primo Libero non può che amare, nè fare altro se non ciò che un bene autentico, perché è lui per sua essenza il bene sostaziale, che infonde il bene in tutto ciò che fa. E scopriamo, invece, che tutti gli esseri liberi che lui crea, potendo non essere, son capaci di sbagliare, giacché, essendo nati dal nulla, possono quindi allontanarsi dalla perfezione del loro essere» (J.-B. BOSSUET, Trattato sul libero arbitrio, [edizione originale: 1677], tr. it. e cura di Maria Vita Romeo, Rubbettino, Soveria Manelli, 2016, pp. 75-77). In questa prospettiva di ispirazione agostiniana la libertas minor dell’uomo – la possibilità di compiere il bene o il male (corrispondente al liberum arbitrium) – è chiamata ad innalzarsi verso l’originario, verso Dio che è «il Primo Libero», e a trasfigurarsi pertanto in una libertas maior: questa è una libertà consapevole delle sua scaturigine divina – un Amor per se subsistens – e che pertanto non può che operare il bene.

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«il discorso filosofico si arresta»14 per elevarsi a meditazione religiosa. Gli Studi IV, V e VI sono dedicati alla complessa “ermeneutica della soggettività” proposta da Ricoeur. Già nel suo progetto giovanile di elaborare una “filosofia della volontà” egli individua chiaramente due poli che determinano l’eterna dialettica della condizione umana. Si tratta di una “opposizione polare” presente nell’uomo – Gegensatz direbbe Romano Guardini15 – che può essere declinata con differenti accentuazioni: l’involontario e il volontario, la vulnerabilità e la cratività, la libertà inficiata dal male e la libertà produttiva, l’homme faillibile e l’homme capable. Con una “fedeltà creatrice” nei confronti dei suoi maestri - in particolare, Jean Nabert, Gabriel Marcel ed Emmanuel Mounier – Ricoeur elabora una “filosofia della libertà creatrice” che sappia confrontarsi criticamente con le sfide di tutte quelle prospettive che hanno un carettere determinisitco e sono riduttive nei confronti della potenzialità della libertà umana: in primo luogo, il freudismo definito da Ricoeur come una “archeologia del soggetto” e, quindi, le differenti forme di strutturalismo, icasticamente definite dal filosofo francese come «un kantismo senza soggetto trascendentale o un formalismo assoluto»16. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 473. 15 A questo proposito si vedano R. GUARDINI, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz, 1925; tr. it. di G. Colombi, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia, 1999; M. BORGHESI, Romano Guardini. Dialettica e antropologia, Studium, Roma, 2004. 16 P. RICOEUR, Structure et herméneutique, in «Archivio di Filosofia», 3, 1963, pp. 12-31; questo testo è stato inserito da Ricoeur come secondo saggio del suo volume Le conflit des interprétations, Seuil, Paris, 1969; tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Struttura ed ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, Prefazione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano 19993, pp. 41-75, p. 66. 14

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Nello Studio IV viene data particolare attenzione alla lettura ricoeuriana della psicoanalisi quale “archeologia del soggetto”: Ricoeur sottolinea che l’interpretazione freudiana dell’ego si caratterizza come «un movimento regressivo, orientato verso l’infantile, l’arcaico»17. In questo suo regredire verso il primordiale – il vasto regno dell’inconscio con i connessi traumi dell’infanzia – la psicoanalisi si qualifica anche come una forma di determinismo tendente a spiegare quasi ogni desiderio e ogni gesto attuale dell’individuo in relazione al suo passato inconscio. In opposizione a tale determinismo riduzionistico, a questa sorta di chiusura del soggetto nelle ombre del suo passato, Ricoeur propone un’altra possibile interpretazione della realtà umana: se «la psicoanalisi ci propone una regressione verso l’arcaico […] ed ha il suo fondamento in una archeologia del soggetto», ad essa è possibile opporre una «teleologia del soggetto»18. Il “conflitto delle interpretazioni” di cui Ricoeur parla in una celebre raccolta di testi edita nel 1969, è il conflitto tra due antitetiche interpretazioni della realtà umana, entrambe legittime, entrambe contenenti elementi di verità e perciò Fragwürdig, degne di essere prese in esame: l’archeologia e la teleologia. Si tratta del “conflitto ermeneutico” tra la psicoanalisi intesa come “archeologia del soggetto” e una complessa “filosofia della libertà creativa” intesa come “teleologia del soggetto”, come dinamismo dell’azione in vista del compimento di bene (human flourishing). P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 48. 18 P. RICOEUR, Existence et herméneutique, in Interpretation der Welt. Festschrift für Romano Guardini zum achtzigsten Geburstag, Echter Verlag, Würzburg, 1965, pp. 32-51; questo testo è stato inserito da Ricoeur come primo saggio del suo volume Le conflit des interprétations, Seuil, Paris, 1969; tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, Prefazione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano, 19993, pp. 17-37, p. 35. 17

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In Ricoeur tale “filosofia della libertà della persona agente” ha come sue metodologie di riferimento la filosofia riflessiva della tradizione francese, la fenomenlogia di Edmund Husserl (autore di cui Ricoeur tradusse in francese il primo volume delle Ideen) e un’ermeneutica filosofica che per l’accento dato all’interpretazione della cratività simbolica si richiama direttamente a Schleiermacher e ad Ernst Cassirer19. L’intento speculativo e costruttivo di Ricoeur è, dunque, quello del superamento del determinismo e di certe unilateralità interpretative della psicoanalisi per far emergere una visione della soggettività agente come “apertura al futuro”, come “libertà creativa” capace di lasciarsi alle spalle le ombre del passato: egli ha inteso pertanto “liberare la libertà”, sottolineando le unilateralità di tutte quelle ideologie – compresa alcune forme radicalizzate della psicoanalisi – che tentano di ridurre la complessità dell’umano. È quindi anche in antitesi alla visione antropologica della psicoanalisi freudiana che emerge e si comprende meglio nella sua portata speculativa la già ricordata figura ricoeuriana dell’homo capax, sulla quale è, in larga misura, incentrata la riflessione del presente volume. Quella di Ricoeur è una filosofia del “cogito integrale”, tesa a comprendere sia la fragilità della condizione umana – le pathétique de la misère – sia gli aspetti più fecondi e produttivi della soggettività. Questa rinnovata filosofia del cogito è incentrata sulle capacità della persona – definita homo capax – di agire, di parlare, di narrare, di imputare a sé stesso le proprie opere e le proprie responsabilità etico-giuridiche: «Si può riassumere questa descrizione dell’uomo Mi permetto di riviare al mio saggio: Homo symbolicus e homo capax. In dialogo con Ernst Cassirer e Paul Ricoeur sulle capacità simboliche e creative dell’uomo, in Luís António Umbelino – Federica Puliga – Antonio B.M. Lima (a cura di), Caminhos Contemporâneos da Antropologia Filosófica / Percorsi contemporanei di antropologia filosofica, Editora Fi, Porto Alegre (RS), 2019, pp. 215-260. 19

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capace» – afferma Ricoeur in un momento di riflessione matura – «intorno ai quattro temi del poter parlare, del poter agire, del poter raccontare, ossia raccogliere la propria vita in un racconto, del potersi riconoscere come autore dei propri atti, dunque come imputabile, responsabile, insomma capace di rendere conto delle proprie azioni, di sopportarne le conseguenze, eventualmente sul piano civile della riparazione e sul piano del diritto penale della punizione»20. Con la sua prospettiva antropologica Ricoeur ha saputo rinnovare la tradizione personalistica tipicamente francese, reinserendola con solidità di argomenti nel dibattitto epistemologico contemporaneo e nelle più recenti discussioni etico-giuridiche. Nello Studio V viene preso in esame il potenziale statuto ontologico di questa visione ricoeuriana della soggettività incentrata sulle human capabilities e sulla produzione simbolica. Secondo Ricoeur il grande merito di Heidegger è stato quello di riorientare l’attenzione filosofica verso una questione inelubile e preliminare rispetto a tutte le altre: la Seinsfrage, il problema dell’essere che nella modernità e ancora nel neokantismo del primo Novecento appariva secondario rispetto al problema gnoseologico. Nel suo approccio alla questione dell’essere Heidegger aveva tuttavia imboccato – così Ricoeur – la «via corta» di un’analitica dell’esserci (Dasein) che sfociava in una posizione – il cosiddetto “secondo Heidegger” – catatterizzata da una visione indeterminata dell’essere stesso: un Sein inteso come “radura” (Lichtung) nei cui confronti non restava per l’uomo che un atteggiamento di fiducioso “abbandono” (Gelassenheit). Alla «via corta» della comprensione heideggeriana dell’essere, Ricoeur contrappone la «via lunga» dell’ermeneutica: essa delina un complesso sentiero di attraversamento delle scienze umane e P. RICOEUR, La persona: sviluppo morale e politico, tr. it. di G. Piana, in V. MELCHIORRE (a cura di), L’idea di persona,Vita e Pensiero, Milano, 1996, pp. 163-174, p. 165. 20

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sociali. L’ermeneutica proposta da Ricoeur è pertanto ricca di risonanze ontologiche e ha come sua esplicita finalità anche il riavvicinamento di due settori della cultura che – da Wilhelm Dilthey in poi – erano stati nettamente scissi dal punto di vista metodologico: lo spiegare (erklären) tipico delle scienze della natura (Naturwissenschaften) e il comprendere (verstehen) tipico delle scienze dello spirito o scienze storico-sociali (Geiseswissenschsten). L’atteggiamento ermeneutico con cui Ricoeur si approccia alla psicoanalisi, alla linguistica, alle neuroscienze, alla sociologia e alla politologia si compendia in questa sua incisiva espessione: «spiegare di più per comprendere meglio (expliquer plus pour comprendre mieux)»21. Questa formula – indica Ricoeur – cerca di integrare in sinergia i diversi momenti metodologici della “spiegazione” e della “comprensione”, e «diventò in qualche modo la divisa dell’ermeneutica, quale la concepivo e quale mi applicavo a mettere in opera»22. Nell’ultima parte di Sé come un altro, opera del 1990, Ricoeur declina in senso personalistico la questione ontologica fondamentale posta da Heidegger e, in questa indagine teorica, si rivolge ad Aristotele, segnatamente alla concezione aritotelica dell’essere come atto e come potenza, teorizzata dalla stagirita nel IV libro della Metafisica. Lo statuto ontologico della persona umana non corrisponde a uno statico suppositum, ma a una dinamica tensione produttiva: l’interiorità umana è una dinamicità originaria, è una ἐνέργεια produttiva che rende l’uomo un creatore di opere. Come ha correttamente fatto notare anche Alain Badiou, «Ricoeur risponde a Jacques Derrida [e più in genarale ai teorici del decostruzionismo e del postmodernismo che parlano di una P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 65. 22 Ibidem. 21

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“fine del soggetto”] ricorrendo a una dottrina dei possibili di matrice aristotelica. Esiste l’atto, indubbiamente, ma l’atto non esaurisce ciò che il soggetto è in potenza, o ciò di cui è capace. Ebbene, l’identità del soggetto risiede appunto in questa capacità»23. Tuttavia, al fine di evitare possibili fraintendimenti, va sempre sottolineato che Ricoeur quando si avvicina alla trattazione di tematiche ontologiche e metafisiche rimane sempre saldamente ancorato ad una “epistemologia del limite” che si richiama direttamente a Kant, al tema kantiano delle Grenze der Vernunft. Come emegerà più volte nel corso della trattazione, per Ricoeur l’ontologia della persona rimane una “terra promessa” della sua indagine filosofica: «si può ben dire che l’ontologia è la terra promessa per una filosofia che comincia col linguaggio e con la riflessione; ma, come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»24. Facendo emergere il “non detto” o comunque il “non completamente esplicitato” dell’indagine di Ricoeur, Badiou ha messo criticamente in evidenza il background culturale cristiano che muove e vivifica l’argomentare del filosofo: «tutto si riassume nel fatto che occorre che il soggetto possa sempre essere salvato, quale che sia il suo atto, perché valga eternamente, universalmente, l’economia cristica della salvezza. […] Ricoeur è obbligato ad associare il tema dell’identità soggettiva a quello della pura potenza, delle potenzialità, della capacità, poiché questa è la sola e unica via che consenta l’apparente sintesi del messaggio evangelico (tenuto in ombra, eppur motore dell’argomentazione) e di una teoria filosofica della

A. BADIOU, L’aventure de la philosophie française, Depuis les années 1960, La fabrique éditions, Paris, 2012; tr. it. di L. Boni, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma, 2013, p. 67. 24 P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 35. 23

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responsabilità. Fides quaerens intellectum, come sempre»25. Badiou, di fede lacaniana, rimprovera a Ricoeur di argomentare per finalità apologetiche, a favore di «una visione militante del soggetto cristiano»26. Tali accuse di Badiou mi sembrano eccessive e comunque tendenti a svalutare l’opera filosofica dell’autore a causa della sua fede religiosa: come cercherò di far emergere nelle pagine di questo volume, Ricoeur ha sempre tenuto ben distinti e separati dal punto di vista metodologico la sua indagine filosofica e la sua opera di esegesi biblica. A mio parere, va invece sottolineato che la fede calvinista rende Ricoeur particolarmente sensibile alla tematizzazione della fragilità della condizione umana, caratterizzata da quell’elemento che i Padri della chiesa latina definivano status naturae lapsae: lo scandalo del male presente nell’uomo, una «sfida senza pari»27 per la filosofia e la teologia. Il male è, infatti l’ospite inquietante che, come ricordava anche Agostino, assume la triplice forma di libido sciendi, sentiendi et dominandi. Lo scandalo del male volutamente prodotto dall’uomo – e rappresentato nel Novecento, in tutta la sua drammaticità, dall’Olocausto e da Hiroshima – non Ibidem, pp. 68-70. Il testo citato è tratto dall’intervento che Alain Badiou tenne nell’ottobre del 2001 presso l’Università di Parigi 8, per la presentazione del libro di Ricoeur, La Mémoire, l’histoire, l’oubli (Seuil, Paris, 2000). L’intervento critico di Badieu ebbe come titolo Le sujet supposé chrétien de Paul Ricœur. Badiou, di fede lacaniana, rimprovera a Ricoeur di argomentare per finalità apologetiche, a favore di «una visione militante del soggetto cristiano» (ibidem, p. 58). Tali accuse di Badiou mi sembrano eccessive, inquisitorie e comunque tendenti a svalutare l’opera filosofica dell’autore a causa della sua fede religiosa: come cercherò di far emergere nelle pagine di questo volume, Ricoeur ha sempre tenuto ben distinti e separati dal punto di vista metodologico la sua indagine filosofica e la sua opera di esegesi biblica. 26 ibidem, p. 58. 27 P. RICOEUR, Le mal. Un défì à la philosophie et à la théologie, Éditions Labor et Fides, Genève, 1986; tr. it. di I. Bertoletti, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia, 20156, p. 7. 25

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trova un’adeguata comprensione con gli strumenti della sola ragione; per una più profonda comprensione del mysterium iniquitatis occorre rivolgere lo sguardo ai miti, espressione di un pensiero arcaico e simbolico, a quelle “produzioni umane di senso” per troppo tempo trascurate dalle varie forme di razionalismo filosofico moderno. Del male – afferma giustamente Ricoeur – non si può dare una spiegazione razionale, quanto piuttosto una rappresentazione mitica e simbolica: al fallimento della teodicea, espressione della hýbris razionalistica moderna, supplice un’analisi ermeneutica della “simbolica del male”, cioè di tutte quelle espressioni culturali e religiose pre-filosofiche che hanno cercato di comprendere lo scandalo suscitato della malvagità e della sofferenza umana. In Finitudine e colpa – opera del 1960 – l’attenzione di Ricoeur si focalizza sulle narrazioni mitiche concernenti l’ingresso del male nel mondo, ovvero su come la coscienza arcaica ha espresso nel racconto e nel simbolo l’avvertimento di una rottura del legame originario dell’uomo con la sfera del sacro: l’autore analizza, in particolare, la tragedia, tipica espressione letteraria del mondo greco classico, e il Bereschít, il primo libro dell’Antico testamento, dove la cultura ebraica ha espresso in maniera icastica il mito della “caduta originaria” dell’uomo. Se negli anni Sessanta Ricoeur ha dedicato molte sue ricerche alla symbolique du mal, indagando la fallibilità e la miseria dell’uomo, definito anche come homo patiens, a partire dagli anni Settanta egli inizia un serrato confronto con la linguistica, inserendo le sue ricerche all’interno del linguistic turn che caratterizzava, in quegli anni, sia la cosidetta “filosofia continentale” (si pensi all’ultimo Heidegger e a Gadamer) che la filosofia analitica anglo-americana: l’aggiornamento sulle nuove prospettive delle scienze linguistiche è stato certamente favorito anche dal lungo soggiorno di Ricoeur negli Stati Uniti: dal 1970 al 1985 egli insegnò all’Università di Chicago ed ebbe modo di seguire da vicino gli sviluppi delle tendenze analitiche, riflettendo 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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in profondità sulla semantica, ovvero rapporto tra il segno linguistico e il suo referente di realtà, ciò che Gottlob Frege definiva come Bedeutung e i filosofi analitici anglofoni come meaning. Nel VI Studio che compare in questo volume prendo in esame uno degli elementi più originali e innovativi introdotti da Ricoeur nell’ambito della filosofia del linguaggio: la valorizzazione filosofica della metafora, espressa ampiamente nell’opera del 1975 La métaphore vive. Questa costituisce un tassello speculativo fondamentale all’interno del più generale discorso antropologico di Ricoeur incentrato sulla figura dell’homme capable: ne La metafora viva viene infatti analizzata una delle capacità distitintive dell’essere umano: la «potenzialità creativa del linguaggio (puissance créatrice du langage)»28. Ecco le parole con le quali l’autore francese ha sintetizzato con particolare chiarezza il valore della metafora come “impertinenza semantica” e come capacità umana di conferire nuovi significati nella comprensione dell’essere: «la metafora è molto più di una figura stilistica, comporta un’innovazione semantica; attraverso di essa il discorso si arricchisce di nuovi significati; essa, insomma, testimonia in favore della virtù creativa del discorso. […] La metafora, tuttavia, non si limita a una creazione di senso nel discorso, ma contiene anche una dimensione di denotazione, di referenza; in quanto creatrice di senso essa ha anche il potere di designare la realtà, cioè di dischiudere al linguaggio nuovi ambiti di esperienza del mondo; in questo senso si può parlare di verità metaforica»29. Ricoeur individua, quindi, una stretta correlazione

P. RICOEUR, La métaphore vive, Seuil, Paris, 1975; tr. it. e cura di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano, 19972, p. 5. 29 P. RICOEUR – E. JÜNGEL, Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache, Chr. Kaiser Verlag, München, 1974; tr. it. di G. Grampa e G. Moretto, Dire 28

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tra linguaggio e ontologia, definendo il linguaggio stesso come «l’esser-detto della realtà»30: egli condivide quindi, in larga misura, e declina in senso personalistico la celebre affermazione di Gadamer per il quale ««l’essere che può essere compreso è linguaggio (Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache)»31. Prendendo in esame il grande tema del linguaggio Ricoeur non poteva non considerare attentamente una delle condizioni di possibilità del linguaggio stesso: l’interggettività. Gli speech acts non sono mai atti solipsistici, ma implicano una relazione interpersonale, una comunicazione che, in ultima analisi, è comunitaria. Ecco allora che nell’ultimo Ricoeur tornano, anche in seguito ai suoi studi sulla semantica e sulla pragmatica, i temi dell’alterità, della relazione e del riconoscimento, su cui tanto ebbe a riflettere anche il suo maestro Mounier. Per quest’ultimo «la persona non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona. Il tu, e in lui il noi, precede l’io, o per lo meno l’accompagna»32. Secondo Mounier «io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite: essere significa amare (je n’existe que dans la mesure où j’existe pour autrui, et, à la limite : être, c’est aimer)»33. Ricoeur condivide profondamente la Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia, 20054, p. 75. 30 P. RICOEUR, La metafora viva, cit., p. 403. 31 H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, in Gesammelte Werke, J.C.B. Mohr, Tübingen 1986, Vol. I; trad. it. a cura di G. Vattimo, Introduzione di G. Reale, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000, p. p. 965). A tal proposito cfr. anche D. DI CESARE (a cura di), “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, Il melangolo, Genova, 2001. 32 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 60. 33 Ibidem.

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prospettiva di Mounier delineata nel progetto di una Rivoluzione personalista e comunitaria e sviluppa, non senza importanti aggiornamenti, il tema del dono come rifedinizione di autenciti rapporti intersoggetivi in ambio economico. In opposizione all’individualismo possessivo e alla logica utilitaristica del capitalismo moderno, Mounier proponeva un modello di economia basato sui valori fecondi del rispetto, della fraternità e della convivialità: «l’economia della persona» – egli sosteneva – «è un’economia di dono, non di compensazione o di calcolo»34. Nello Studio VII di questo volume analizzo le peculiarità della posizione di Ricoeur e dell’antropologo francese Maurice Godelier sull’economia del dono: Godelier ha dato un contributo importante alla nascita dell’«antropologia economica» e, in maniera simile a Ricoeur, ha sviluppato il tema dei rapporti tra etica ed economia anche a partire dalla prospettiva di Marcel Mauss, autore del celebre Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, pubblicato nel 1923. Lo Studio VIII del volume viene dedicato alla figura di Armando Rigobello (1924-2016), uno tra i primi a valorizzare e a far conoscere in Italia il pensiero di Ricoeur. Rigobello si è formato alla scuola di Luigi Stefanini (1891-1956) e fu proprio questi nei primi anni Cinquanta ad indirizzare l’allievo verso lo studio di Mounier e del movimento personalista francese, sul quale pubblicò numerosi saggi, curando anche un’importante antologia di testi35. Rigobello, in maniera simile al suo amico francese Paul Ricoeur, ha elaborato una “filosofia della persona” utilizzando non un metodo filosofico univoco, ma un “intreccio di metodi”: una symploché (termine platonico) che si sostanzia del pensiero riflessivo, dell’indagine fenomenologica della coscienza e di un’ermeneutica intesa come indagine sulla natura umana: «il Ibidem, p. 62. Cfr. A. RIGOBELLO (a cura di), Il personalismo, (Scelta antologica a cura di A. Rigobello, G. Mura e M. Ivaldo), Città Nuova, Roma, 19782.

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nostro essere – afferma Rigobello – è l’essere in situazione ermeneutica»36. Come si può ben comprendere, quella di Rigobello è una “filosofia dell’interpretare” lontana dagli esiti storicistici di Gadamer (si pensi alla Horizontverschmelzung, la “fusione degli orizzonti”) ed è certamente distante dai vari tipi di ermeneutica nati sotto il segno della Nietzsche-Renaissance: il binomio ermeneutica e nichilismo, teorizzato in Italia da Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti ed altri autori. Differentemente da queste prospettive, Rigobello, entrando in fecondo dialogo con Ricoeur, ha inteso l’ermeneutica come analisi della condizione umana, come ricerca dello statuto ontologico della persona, come una “ermeneutica del sé”: «la rilevanza filosofica dell’ermeneutica – egli afferma – non consiste nei risultati dei singoli atti di interpretazione, ma nell’analisi della condizione umana sottesa all’esercizio dell’interpretazione stessa: ontologia dell’homo symbolicus, dell’homo viator: asimmetria, sproporzione e, quindi, apertura, trascendenza (Ricoeur, Jean Greisch)»37. In particolare, Rigobello riflette in profondità su un’affermazione fatta da Ricoeur in Finitudine e colpa, laddove il filosofo francese individua i limiti del metodo trascendentale kantiano per una compiuta comprensione fenomenologica dell’humanum: «qui il kantismo ci abbandona: la sua Antropologia non è affatto la esplorazione dell’originario, bensì la descrizione dell’uomo nella prospettiva delle “passioni” e del dualismo etico»38. Rigobello e Ricoeur studiano a fondo Kant – A. RIGOBELLO, Prefazione a P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p. 5-14, p. 12. 37 A. RIGOBELLO, La parabola dell’ermeneutica. Il concetto, la struttura interna, i problemi, «Nuova Secondaria» – sezione: «Scuola e Cultura», [Editrice La Scuola, Brescia], 6, 1996, pp. 29-31, p. 31. 38 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité. I. L’homme faillible, Aubier, Paris, 1960.; tr. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa, Introduzione di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 160. 36

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Ricoeur si definirà persino «un kantiano posthegeliano»39 –, ma si dimostrano concordi nel sottolineare i limiti del trascendentalismo, una prospettiva che dimentica “la parte più intima e più fragile della condizione umana”: quando i due filosofi si volgono alla “esplorazione dell’originario” avvertono la necessità di una “rottura metodologica”. Tale “rottura dell’epistemologia trascendentale” – definita anche come coupure épistémologique (espressione liberamente tratta da Gaston Bachelard) – spinge il pensiero a un interrogazione ulteriore, ad oltrepassare i limiti più rigorosi dell’indagine scientifica per avventurarsi nel “bel rischio dell’interpretazione”: interpretazione del senso stesso dell’esistere. Sulle basi di queste considerazioni teoretiche Rigobello, forse in maniera ancor più marcata rispetto a Ricoeur, elabora una “ermeneutica dell’ulteriorità e della trascendenza” di ispirazione platonico e agostiniana. Nella parte finale del volume sono state inserite due Appendici. Nella prima presento la traduzione italiana di un’intervista rilasciata da Paul Ricoeur ad Arnaud Spire il 21 aprile 1994. Il testo originale dell’intevista ha come titolo Esquisse d’un plaidoyer pour l’homme capable ed è stato pubblicato in un fascicolo speciale de «L’Humanité» 40. In questo P. RICOEUR, La critique et la conviction. Entretient avec François Azouvi et Marc de Launay, Calmann-Lévy, Paris, 1994, p. 129; tr. it. di D. Iannotta, La critica e la convinzione. A colloquio con François e Azouvi Marc de Launay, Jaca Book, Milano, 1997. Va messo in rilievo che anche quando Ricoeur si confronta con Edmund Husserl rimane comunque legato ad una forma mentis sensibile ai limiti kantiani della ragione: «Husserl sviluppa la fenomenologia ma Kant la fonda e la limita» (P. RICOEUR, Kant et Husserl, in IDEM, À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris, 2004, pp. 273-314, p. 273). 40 Il testo francese dell’entretien è stato riedito in P. RICOEUR, Philosophie, éthique et politique. Entretiens et dialogues, Textes préparés et présentés par Catherine Golddenstein, Préface de Michaël Foessel, Seuil, Paris, 2017, pp. 33-47. 39

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testo l’autore si sofferma, utilizzando un linguaggio semplice e colloquiale, sull’elemento che considera come il fil rouge del suo itinerario di pensiero: la sua concezione dell’uomo come homme capable. È interessante notare che in questa intervista l’autore estenda la sua teoria delle capabilities propriamente umane anche in ambito etico-politico, alle dimensioni del riconoscere e dell’essere riconosciuti: riconoscere l’altro nella sua dignità e nei suoi diritti fa parte, infatti, delle fondamentali capacità etiche dell’umano. Nella seconda Appendice ho inserito un testo dove presento il mio itinerario di studi filosofici e traccio le linee-guida della mie ricerca sul piano storiografico, teoretico ed etico-politico: il lettore volenteroso potrà così comprendere meglio l’intentio auctoris di questo volume, lo sfondo culturale e spirituale che ad esso è sotteso. 2. “Da Renouvier a Ricoeur” e oltre: la persona come relatio trascendentalis Una delle caratteristiche fondamentali di concetto di persona, variamente tematizzata in tutti gli autori del personalismo francese del Novecento “da Renouvier a Ricoeur”, è la sua costitutiva dimensione relazionale. Tutti i grandi interpreti della stagione personalista, seppur con differenti accentuazioni, hanno sottolineato che la persona umana è una relatio transcendentalis, è costitutivamente un “essere-in-relazione”: l’identità personale si costituisce come relazione e nella relazione: con sé stesso e la propria dimensione corporea, con gli altri, con una possibile trascendenza divina. A questo proposito mi preme far notare che nello stesso etimo greco di persona – πρόσωπον che letteralmente indica “sguardo rivolto verso l’alterità” – sia presente un implicito richiamo alla dimensione interpersonale e comunitaria: «il termine greco prósopon – che designava la maschera dell’attore – 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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significa letteralmente “volto”, “aspetto”, che, unito alla particella pros (verso), include la correlazione [cioè il rapporto con l’alterità] come qualcosa di costitutivo»41. Una visione dell’identità relazionale della persona si trova già espressa in Charles Renouvier (1815-1903), il cui pensiero si sviluppa in due fasi: la prima è caratterizzata dal ricorso a Kant in funzione antimetafisica, mentre la seconda fase, sviluppata in età avanzata, è connotata dagli evidenti influssi della monadologia di Leibniz e della philosophie de la liberté teorizzata dal suo amico Jules Lequier. L’ultima opera di Renouvier, pubblicata nel 1903, ha come titolo Le personnalisme: a suo parere «personalismo è il vero nome che si addice alla dottrina finora designata neocriticismo»42. Il personalismo, fin dal primo utilizzo del termine (almeno per quel che riguarda la Francia) si caratterizza per un forte richiamo al tema della relazione che in Renouvier assume un valore teoretico centrale, divendo la legge suprema della coscienza e il vero trascendentale dell’atto di pensiero. Pensare è porre relazioni, significa cioè mettere in rapporto il nostro apparato categoriale con l’altro da sé. Per Renouvier le dodici categorie teorizzate da Kant trovano la loro sintesi nella relazione, il vero a priori della nostra mente. In sede speculativa, il personalismo si qualifica pertanto «ripudiando il realismo della sostanza e riportando tutte le categorie alla relazione quale forma fondamentale del pensiero (en répudiant le réalisme de la substance, en ramenant toutes les catégories à la relation, forme fondamental de la pensée), e uguale in estensione ad ogni pensiero possibile»43. Inaugurando una linea teoretica che sarà tipica di molte espressioni del personalismo francese (e non solo) M. IVALDO, Persona umana e natura umana, «Annuario di filosofia», 2007, pp. 215-234, p. 223. 42 C. RENOUVIER, Le personnalisme, Alcan, Paris, 1903, p. IV [tr. it. nostra]. 43 Ibidem, p. V. 41

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Renouvier critica l’ontologia e il sostanzialismo di matrice scolastica per proporre una teoria dinamica della conoscenza basata sui concetti di funzione e di relazione. Questa ultima – così l’autore – diviene «la categoria prima (première des catégories), considerata non più astrattamente, ma in un teatro vivente di rappresentazioni, è la legge della coscienza, o della personalità (est la loi de conscience, ou de personnalité), che abbraccia ad un tempo, come suoi strumenti di conoscenza e sue forme, il Tempo e lo Spazio, la Qualità, la Quantità, la Causalità, la Finalità»44. Renouvier arriva quasi ad ipotizzare una περιχώρησις delle categorie sorretta dal principio funzionale della relazione: «il circolo delle categorie, costituito dalla Relazione (le cercle des catégories, constitué par la Relation), considerata nell’ordine universale, astratto, si apre e si chiude parimenti, in quell’ambito individuale, che è anche, a modo suo, il più avvolgente: la coscienza, dove tutti i rapporti possibili si trovano definiti e corrdinati»45. Per questo valore centrale conferito alla relazione come categoria della mente e come dimensione costitutiva della persona il contribito di Renouvier meriterebbe di essere ulteriormente studiato e valorizzato46. Si noti inoltre che Renouvier, come sarà tipico di Mounier, elabora un pensiero filosofico engagé, che si sviluppa a partire da un vivo confronto con la storia e che ha come sua finalità anche quella di indirizzare una prassi di azione politica riformatrice e democratica47. Ibidem, p. VI. Ibidem 46 In questa direzione vanno due volume che meritano attenzione: A. DE REGIBUS, L’ultimo Renouvier. Persona e Storia nella filosofia di Charles Renouvier, Thilger, Genova, 1987; F. TURLOT, Le personnalisme critique de Charles Renouvier: une philosophie française, Préface de Gilbert Vincent, Presses universitaires de Strasbourg, Strasbourg, 2003. 47 A tal riguardo cfr. G. CAVALLARI, Charles Renouvier, filosofo della liberal-democrazia, Jovene, Napoli, 1979; V. COLLINA, Plurale filosofico e 44 45

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Una delle declinazioni fondamentali del concetto di persona, sulle quali Mounier e il movimento di «Esprit» insistevano particolarmente, è l’intrinseca dimensione comunitaria: differentemente dalle nozioni più neutre di soggetto e di individuo, il concetto di persona è consustaziale a quello di relazione. La persona si costituisce pertanto nella triplice dimensione dell’incarnazione (rapporto con la propria dimensione corporea e con la sfera dei bisogni), della vocazione (la dimensione etica dell’impegno) e della comunione: quest’ultima dimensione indica il legame originario con l’alterità. La persona – afferma Mounier – «si fonda su una serie di atti originali che non hanno equivalente nell’universo: 1) Uscire da sé. La persona è un’esistenza capace di staccarsi da sé stessa, di spodestarsi, di decentrarsi per divenire disponibile agli altri. […] 2) Comprendere. Cessare di pormi dal mio punto di vista per mettermi dal punto di vista degli altri. […] Essere tutto per tutti, senza cessare di essere, e d’essere me stesso. […] 3) Prendere su di sé, assumere il destino, la sofferenza, la gioia, il dovere degli altri, “sentir male al proprio petto”. 4) Dare. La forza viva dello slancio personale non è rivendicazione (individualismo piccoloborghese), né lotta all’ultimo sangue (esistenzialismo), ma generosità o gratuità, cioè, al limite, donazione totale e senza speranza di ricambio. […] 5) Essere fedele. L’avventura della persona è un’avventura continua dalla nascita alla morte. La fedeltà alla persona, amore, amicizia, sono dunque perfetti soltanto nella continuità. […] La fedeltà personale è una fedeltà creatrice (La fidélité personnelle est une fidélité créatrice). Questa dialettica nella relazione personale aumenta e conferma l’essere di ciascun partecipante (Cette dialectique du commerce personnel accroît et confirme l’être de chaque partenaire)»48. radicalismo: saggio sul pensiero politico di Charles Renouvier, Clueb, Bologna, 1980. 48 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 61-62.

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Con questi forti accenti etici Mounier sottolinea le notevoli differenze del suo concetto di persona rispetto al “soggetto neutro” di cui parlano le scienze sociali, e soprattutto rispetto al concetto di individuo, difeso dal pensiero moderno borghese e liberale. La grande sfida etico-politica che Mounier, già a partire dagli anni Trenta, lancia alla mentalità dell’Occidente capitalistico, individualistico e liberale è quella di un passaggio moralmente necessario “dall’individuo alla persona”, “dall’egoistico amor sui alla generosa accoglienza dell’altro”. Si comprende allora come la Rivoluzione personalista e comunitaria, prospettata da Mounier, abbia un carattere essenzialmente morale, differenziandosi nettamente, in tal modo, dalla prassi rivoluzionaria prospettata dal marxismo, non aliena quest’ultima all’utilizzo della violenza per l’abbattimento delle ingiustizie sociali: richiamandosi al suo maestro di vita Charles Péguy, Mounier afferma energicamente: «La rivoluzione o sarà morale o non sarà affatto (La révolution sera morale ou elle ne sera pas)»49. Nella sua teorizzazione della persona come “essere-inrelazione” Mounier si richiama esplicitamente anche a Martin E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Éditions Montaigne, Paris, 1935; tr. it. di L. Fua, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ed. di Comunità, Milano, 1949, 1955 2, pp. 87-92. Charles Péguy (1873-1914) ha esercitato un grande ruolo nella formazione culturale e spirituale di numerosi intellettuali di ispirazione cristiana (compresi Mounier e Maritain) definiti in maniera emblematica da Loubet del Bayle come “i non conformisti degli anni Trenta”: cfr. J.-L. LOUBET DEL BAYLE, Les non conformistes des annés 30, Seuil, Paris, 1969; tr. it. di G. Armano e M. Arnoldi, I non conformisti degli anni Trenta, Cinque Lune, Roma, 1972. Un’interessante rivalutazione di Péguy “critico della modernità individualistica e tecnocratica” è stata proposta da Alain Finkielkraut: cfr. A. FINKIELKRAUT, Le mécontemporain. Péguy, lecteur du monde moderne, Gallimard, Paris, 1992; tr. it. di S. Levi, L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno, Lindau, Torino, 2012.

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Buber, intellettuale di origine ebraica teorico del pensiero dialogico: a questo proposito, va ricordato che nel Novecento, anche in seguito alla tragica esperienza della Shoah, sono stati soprattutto pensatori di origine ebraica (come, per esempio, il già citato Buber e i francesi Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida) ad aver messo in evidenza la necessità di una costitutiva interazione etica tra l’io e il tu, sottolineando gli esiti nefasti di visioni antropologiche fondate sulla libido dominandi – la nietzscheana “volontà di potenza” – o sulle categorie identitarie di “amico/nemico” (Freund/Feind) teorizzare da Carl Schmitt. Oltre a richiamarsi al volume Ich und Du di Buber50, è importante notare come Mounier valorizzi anche il contributo che altri raffinati intellettuali di ispirazione cristiana hanno dato ad una teoria dell’interpersonalità come relation d’amour. Egli si riferisce, in particolare, a Gabriel Madinier, Maurice Nédoncelle, a Denis de Rougemont e a Jean Lacroix, suoi amici e collaboratori della rivista «Esprit». Questi autori menzionati, compreso lo stesso Ricoeur, hanno avuto il grande merito di elaborare una “filosofia della fraternità e dell’amore”, oggi oggetto di rinnovato interesse51. In Jean Lacroix si trova una sintesi molto chiara dei Nel volume Il Personalismo (cit., in nota, p. 60) Mounier cita la traduzione francese dell’opera di Buber Ich und Du, pubblicata in tedesco nel 1923: Je et tu, Aubier-Montaigne, Paris, 1942. 51 Si vedano, in particolare, G. MADINIER, Conscience et amour: essai sur le nous, Presses Universitaire de France, Paris, 1947; M. NÉDONCELLE, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Aubier-Montaigne, Paris, 1957; tr. it. di C. Miggiano di Scipio, Verso una filosofia dell’amore e della persona, Edizioni Paoline, Roma, 1959; P. RICOEUR, Liebe und Gerechtigkeit. Amor et Justice, Mohr, Tübingen, 1990; tr. it. di I. Bettoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia, 2000; la recente traduzione di numerosi saggi dello svizzero D. DE ROUGEMONT, La persona e l’amore, a cura di D. Bondi, Morcelliana, Brescia, 2018. La “filosofia dell’amore” è stata la “grande assente” della modernità filosofica di matrice razionalistica, la cui attenzione si è concentrata, in larga misura, sulla teorizzazione della 50

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motivi che animano questa filosofia della reciprocità e dell’amour: «Una filosofia dell’amore non è né irrazionalismo né una filosofia della debolezza. […] Al contrario, fra la ragione e il sentimento l’accordo è naturale: l’amore è razionale perché è il supremamente intelligibile, perché bisogna scegliere tra il dichiarare il mondo assurdo e il dichiararlo come opera dell’amore. […] Se la persona è questa potenza misteriosa sempre al di là di ciò che è realizzato, essa non esiste che nel realizzarsi, nell’incarnarsi, nel farsi creativa. Uno spirito non è un essere sottomesso a una regolazione esteriore […], ma un essere che regola sé stesso nel suo contatto con gli altri spiriti e con lo Spirito assoluto, che crea sé stesso creando idee e valori […]. E l’amore non è che lo spirito nella sua sommità: […] è la forza che per realizzarsi spinge ogni essere a inserire la propria tensione (effort) in una materialità. […] Amare non è identificare tutto in una fusione indistinta, è situare ogni essere e sé stessi nel proprio ordine, nel proprio luogo. Ben lungi dall’eliminare la conoscenza, l’amore la invoca; ben lungi dal distruggere la forza o dal rimpiazzare il diritto, cerca d’incarnarvisi; ben lungi dall’anemizzare i sentimenti domestici e patriottici, ne fa una religione naturale; ben lungi dall’abolire il lavoro, gli dà un senso; ben lungi dal mettersi al posto della verità o dal contraddirla, la vivifica facendone una Persona»52. Va fatto notare, inoltre, che presso Lacroix e gli autori sopra menzionati il paradigma della conoscenza umana come dominio concettuale dell’essere (basti pensare al celebre motto di Francis Bacon «knowledge is power»): questo elemento è stato ben messo in evidenza anche da due autori italiani studiosi della tradizione personalista: V. POSSENTI, I volti dell’amore, Marietti, Genova, 2015; C. CALTAGIRONE, Maurice Nédoncelle. La persona come reciprocità d’amore, Studium, Roma, 2020. 52 J. LACROIX, Personne et Amour, Seuil, Paris, 1955, pp. 8-9 [la traduzione italiana di questi passi è stata tratta dal volume molto documentato di V. MERCHIORRE, Essere persona. Natura e struttura, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Novara-Milano, 2007, pp. 38-39].

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persona come “relazione costitutiva” trae anche dalla teologia cristiana un fecondo modello di riferimento: “pensare la Trinità” è, in fondo, pensare l’essenza stessa della relazione, il suo doveressere ideale. Il dinamico rapporto d’amore che caratterizza le tre Persone divine (la περιχώρησις di parlano i Padri della Chiesa greca53 e lo stesso Agostino nel De Trinitate) diviene anche l’ideale metastorico e trascendente che può orientare gli stessi rapporti umani: si tratta del paradigma dell’ἀγάπη, un amore oblativo, totale e gratuito54. La visione dell’identità personale come una “identità-inrelazione” viene orami condivisa da tanta parte del pensiero contemporaneo, lontano ormai dalla orgogliosa affermazione illuministica dell’uomo come “autonomia assoluta” (absolute Selbstständigkeit): il soggetto umano, come del resto sottolinea anche Ricoeur, è “un essere finito”, un homme faillible, la cui fragilità e vulnerabilità lo rendono sempre “un essere bisognoso di alterità”. Come ho accennato in precendenza, il grande merito di Ricoeur è stato quello di portare il tema della relazione a un livello di raffinata analisi teoretica. Come emergerà anche nello Si veda, ad esempio, G. MASPERO, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma, 2013. 54 La letteratura teologica degli ultimi anni ha giustamente conferito un forte rilievo al tema della circumincessio ,cioè alla relazione di amore tra le tre Persone della Trinità: questo tipo di riflessioni teologiche si rivelano particolarmente feconde anche per una “filosofia della intersoggettività” fondata sul paradigma del dono e dell’amore oblativo. A questo proposito ci limitiamo ad indicare P. CODA, Antropologia della relazione e Trinità, in Søren Kierkegaard: l'essere umano come rapporto: omaggio a Umberto Regina, a cura di E. ROCCA, Morcelliana, Brescia, 2008, pp. 89-101; G. MASPERO, Ontologia trinitaria e sociologia relazionale: due mondi a confronto, in «PATH», 10, 2011, pp. 19-36; P. CODA – M. DONÀ, Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario, Città Nuova, Roma, 2013. 53

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sviluppo di questo volume, egli individua un “tripode dell’alterità all’interno della soggettività”: si tratta di un triplice modo di presentarsi dell’alterità nelle dinamiche della coscienza, una sorta di societas in interiore homine. Questa alterità viene declinata nella triplice forma della corporeità, della relazione con l’altro e della trascendenza religiosa. In Soi-même comme un autre egli osserva giustamente che il primo luogo aurorale della scoperta dell’alterità nell’io è costituito dalla corporeità; quest’ultima determina una sorta di “stupore originario”: si tratta dell’avvertimento coscienziale di sussistere all’interno in una “corporeità vivente” che è “natura appartentiva” (il Leib della prospettiva husserliana). La seconda forma fondamentale di relazione con l’alterità è costituita dall’incontro con “il volto dell’altro (le visage d’autrui, su cui tanto si è soffermato anche Emmanuel Lévinas): come è noto, la riflessione sulla dimensione intersoggettiva e dialogica della persona è stato uno dei grandi temi che ha caratterizzato il Novecento, trovando, del resto, le sue radici in alcuni grandi classici del pensiero filosofico, riletti e valorizzati in chiave intersoggettiva: si pensi alle considerazioni aristoteliche sull’amicizia, all’adagio tommasiano «homo homini naturaliter amicus»55 o alla celebre affermazione di Fichte «l’uomo diventa uomo solo tra gli uomini (Der Mensch wird nur unter Menschen ein Mensch)»56. Questo primato dell’alterità nel TOMMASO D’AQUINO, Summa contra gentiles, IV. 54; cfr. anche Summa theologiae, II-II, q. 82, a.3, ad. 2. 56 J.G. FICHTE, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre, Gabler, Jena und Leipzig, 1796; tr. it. di L. Fonnesu Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 35. A partire dagli studi di Reinhard Lauth e di Marco Ivaldo, la ricerca più recente ha fatto emergere i fondamentali elementi intersoggettivi della “filosofia trascendentale” elaborata da Fichte, riflettendo soprattutto sui concetti di “reciproco riconoscimento” (Anerkennung) e di “invito alla responsabilità” (Auffordernung); a tal proposito ci limitiamo ad indicare I. RADRIZZANI, 55

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riconoscimento narrativo del sé è, quindi, uno degli elementi che accomuna anche le più rilevanti prospettive ermeneutiche del secondo Novecento francese: oltre al Ricoeur di Soi-même comme un autre (1990) e dei Parcours de la reconnaissance (2004), basti pensare al Lévinas di Altérité et transcendance (1995), al Derrida di l’Invention de l’autre (1987) o dell’altro suo fondamentale scritto De l’hospitalité (1997)57. La terza forma di alterità che costituisce l’uomo come “esserein-relazione” e come esse ab alio è rappresentata dalla trascendenza divina: nel cuore stesso della soggettività è possibile avvertire una presenza che ci trascende, che è in noi senza appartenere compiutamente a noi stessi, che ci supera e ci fonda. La tradizione ebraico-cristiana sostiene che tale “presenza” è una Persona, un “Assoluto dal volto umano”, con il quale l’uomo può instaurare un rapporto di amicizia e di fiducioso abbandono. Nelle Vers la fondation de l'intersubjectivité chez Fichte. Des Príncipes à la Nova Methodo, Vrin, Paris, 1993; D. FLERES, L’ontologia relazionale di J.G. Fichte, Mimesis, Milano, 2017. 57 Le prospettive ermeneutiche di Ricoeur, Lévinas e Derrida nascono dal vivo confronto con i testi biblici e, pur partendo da differenti presupposti teoretici, si dimostrano tese ad indicare le “nuove condizioni di possibilità” per una fratellanza universale. La capacità di empatia (Einfühlung) e la necessità del reciproco riconoscimento dei soggetti (Anerkennung) divengono i sentimenti fondamentali in grado di garantire una pacifica convivenza nella “convivialità delle differenze”. Come ha affermato Rocco Pittito, in queste prospettive ermeneutiche «l’io esce rafforzato dal riconoscimento del tu, perché solo nella forma del riconoscimento si dà la possibilità di un incontro vero tra gli esseri umani. Nell’atto del riconoscimento si dà un reciproco riconoscersi sotto la forma della riscoperta della comune umanità, che tutti comprende, l’io e l’altro, il nativo e lo straniero, l’amico e il nemico. […] Il senso totale dell’esistere è passare dall’essere in sé all’essere-per-gli-altri, da un’esistenza al singolare a una esistenza al plurale, dallo scontro all’incontro» (R. PITTITO, Lui è come me. Intersoggettività, accoglienza e responsabilità, Studium, Roma, 2012, pp. 154-155).

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Confessioni Agostino afferma che tale “presenza” vive nell’intimo della coscienza ma, allo stesso tempo, la trascende: si tratta di una “presenza” che è «interior intimo meo et superior summo meo»58. Parlando di questa terza forma di alterità – Deus in interiore homine – il discorso filosofico giunge, tuttavia, ai limiti delle sue possibilità epistemologiche: come ha affermato lo stesso Ricoeur, su questa «aporia dell’Altro il discorso filosofico si arresta»59 e il logos si trasfigura in meditazione religiosa. Un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare è come l’ultimo Ricoeur estenda alla dimensione relazionale la sua teoria dell’homo capax. In una delle sue ultime opere – Parcours de la reconnaissance – egli fa notare che tra le capacités humaines vi sono anche quelle del “poter riconoscere” e del “poter essere riconosciuti”. Solo dal reciproco riconoscimento che a ciascuno pertengono dignità e diritti può nascere una società abitata dalla giustizia e dal rispetto. Ricoeur fa osservare che lo stesso sviluppo dell’«io posso» (poter dire, poter narrare, poter promettere, poter essere imputato delle proprie azioni, ecc.) viene garantito da un mutuo riconoscimento: per garantire le capacità occorre innanzitutto che ci sia un mutuo riconoscimento delle identità, uno scambio di attestazioni tra sconosciuti. Va fatto quindi notare che il vocabolo francese reconnaissance suona nel duplice significato di ricoscimento e riconoscenza, quindi gratitudine. A partire da questa duplice valenza del termine francese si comprendo meglio le parole dell’ormai anziano Ricoeur nella prefazione al suo testo: «Non è forse nella mia identità autentica che io chiedo di essere riconosciuto? E se, per fortuna, mi capita di esserlo, la mia gratitudine non va forse rivolta a coloro i quali,

AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III, 6, 11. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 473. 58 59

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in una maniera o nell’altra, hanno riconosciuto la mia identità riconoscendomi?»60. Un riflesso fondamentale del riconoscimento è pertanto è quindi la gratitudine all’altro perché ci riconosce, perché rispetta la nostra esistenza e ci consente di svolgere le nostre capacità. Inoltre, come ha ben fatto emergere Fabrizia Abbate, «il riufiuto del riconoscimento ha il prezzo dell’indebolimento democratico, della restrizione delle libertà, della silente, progressiva e micidiale morte per afasia e scoraggiamento dell’homme capable. All’opposto del riconoscimento c’è il disconoscimento, che vuol dire rinnegare, sconfessare, fingere di non conoscere, rifiutare di riconoscere, significa cioè tagliare, chiudere, negare, distruggere, azzerare la nostra civiltà».61 Un elemento ulteriore che Ricoeur aggiunge rispetto a Mounier nella sua “filosofia della persona” è quello dell’istituzione. Quest’ultima gioca un ruolo etico fondamentale: permette di raggiungere l’altro che non appertiene alla rete delle relazioni più intime. É l’altro che per me resta senza volto: il bisognoso, l’indigente e lo straniero. Mentre Mounier proponeva una dialettica etica di due termini – persona e comunità –, avendo delle riserve nei confronti del mondo istituzionale, Ricoeur propone una formula a tre termini: «l’ethos della persona» – egli afferma – è ritmato da una struttura ternaria: «stima di sé, sollecitudine per l’altro, auspicio di vivere all’interno di istiuzioni giuste»62; la vita etica presuppone pertanto una triplice forma di 60 P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris, 2004; tr. it. di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p. 5. 61 F. ABBATE, Ti riconosco capace. Riconoscimento e teoria dell’Azione in Paul Ricoeur, in D. IANNOTTA (a cura di), Paul Ricoeur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Effatà Editrice, Cantalupa (To), 2008, pp. 172-179, p. 179. 62 P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I.

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cura: «cura di sé, cura dell’altro, cura dell’istituzione»63. Queste tre forme di cura, a mio parere, andrebbero tuttavia integrate con una quarta, che i problemi ambientali rendono, oggi più che mai, urgente e imprescindibile: la cura mundi64.

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3. De l’ospitalité: la ricchezza etica dell’accogliere e dell’essere accolti In seguito ai grandi flussi migratori che si stanno riversando sull’Europa e segnatamente in Italia e in Francia (talvolta costrette persino a chiudere le loro frontiere), il tema dell’ospitalità è diventato di urgente attualità, divenendo “consustanziale” ai temi stessi della persona e della relazione. In questa questione problematica la philosophie della personne trova l’ambito di una sua concreta “applicazione”. La figura del migrante che bussa alla nostra porta chiedendoci accoglienza, spesso ci inquieta e mette in discussione nelle nostre certezze culturali ed economiche: come, tra gli altri, ha sottolineato Tzvetan Todorov, «la paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari»65. A mio parere nel concetto stesso di persona e nel suo correlato assiologico – la dignitas personae – si trova una “universalità valoriale e normativa” in Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, p. 71. 63 Ibidem, p. 64. Ricordando gli anni della sua collaborazione alla rivista «Esprit», Ricoeur ricorda che per Mounier e la sua cerchia «la peculiarità del rapporto istituzionale risultava occultata dalla utopia di una comunità, che in qualche modo era l’estrapolazione dell’amicizia» (ibidem, p. 46). 64 A questo proposito mi limito a segnalare l’importante volume di E. PULCINI, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. 65 T. TODOROV, La Peur des barbares: Au-delà du choc des civilisations, Robert Laffont, Paris, 2008; tr. it. di E. Lana, La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà, Garzanti, Milano, 2009, p. 16.

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grado di superare gli egoismi nazionalistici e gli integralismi identitari creatori di muri: partendo dalla celebre affermazione di Antonio Rosmini per la quale «la persona è il diritto sussistente [e] l’essenza del diritto»66, si può dire che la persona sia depositaria di un Urrecht, di un “diritto originario” che è prestatuale e che è connaturato al suo statuto ontologico: si tratta di un diritto “non scritto e non codificato”, sussistente ancor prima dell’ingresso di ognuno nella comunità giuridico-statuale. Come ha messo in rilievo anche Ricoeur nella sua “ermeneutica delle migrazioni”67, il concetto di persona come Urrecht costituisce un fondamentale orientamento per prendere posizione anche all’interno dell’attuale dibattito relativo al comportamento (individuale ed istituzionale) da tenere nei confronti della figura del migrante. Tanta parte della sensibilità etica contemporanea ha elaborato quello che possiamo definire una climax dell’ospitalità, una triplice e graduale “inclusione dell’altro”: Einbeziehung des Anderen, secondo la felice espressione di Jürgen Habermas68. La si può pensare come una prima originaria forma di “ospitalità linguistica” che è il presupposto di una realistica “ospitalità di diritto” e di una più utopica “ospitalità assoluta”. Analizziamo brevemente queste tre forme di ospitalità, sulle quali si sono particolarmente soffermati Ricoeur, Lévinas e Derrida, seppur con differenti accentuazioni. Nel rapporto intersoggettivo la mediazione linguistica è inevitabile: solo nell’orizzonte del linguaggio avviene un A. ROSMINI, Filosofia del diritto, 6 voll., a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova, 1967-1969, vol. 1, p. 107. 67 P. RICOEUR, Ermeneutica delle migrazioni. Saggi, discorsi, contributi, tr. it. e cura di R. Boccali, Mimesis, Milano, 2013. 68 Cfr. J. HABERMAS, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1996; tr. it. di L. Ceppa, L’inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998. 66

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possibile incontro/scontro tra l’io e il tu. La lingua, inoltre, non è mai un medium neutro di comunicazione: come avevano già ben messo in luce Wilhelm von Humboldt e i romantici, la lingua è una Weltanschauung, è l’espressione dell’identità storica e valoriale di un popolo. La prima forma di ospitalità dello straniero – il presupposto per qualsiasi dialogo, reciproca comprensione ed intesa politica – avviene nel linguaggio. L’ospitalità dello straniero è, quindi, prima di tutto linguistica, poiché – come ci ricorda il filosofo franco-algerino Derrida – «la lingua, quella con cui ci rivolgiamo allo straniero e lo udiamo, se lo udiamo, è l’insieme della cultura, sono i valori, le norme, i significati che abitano la lingua. Parlare la stessa lingua coinvolge l’ethos di un popolo»69. Come ha ribadito anche Ricoeur, il luogo originario dell’identità è la lingua e l’ospitalità linguistica, come pratica di riconoscimento, corrisponde «al piacere di abitare la lingua dell’altro, al piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora di accoglienza, la parola dello straniero»70. Ricoeur, Lévinas e Derrida sostengono giustamente che già la traduzione costituisce un’esperienza etica: tradurre è un “ospitare l’alterità nella propria cultura”, è un “ospitare l’altro con la sua connessa visione del mondo”. Del resto, come ricordava anche Gadamer, teorico dell’ermeneutica e dell’incontro dialogico, avere cultura significa propriamente “saper guardare con gli occhi dell’altro”, “saper tradurre nel proprio linguaggio l’orizzonte valoriale dell’altro”: «Che cosa è cultura? Cultura» - risponde Gadamer - «vuol dire poter

J. DERRIDA, De l’hospitalité, [Anne Dufourmantelle invite Jacques Derrida à répondre], Calmann-Lévy, Paris, 1998; tr. it. di I. Landolfi, Sull’ospitalità, Dalai Editore, Milano, 2000, p. 118. 70 P. RICOEUR, Sur la traduction, Bayard, Paris, 2004; tr. it. di I. Bertoletti e M. Gasparrone, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 50. 69

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guardare le cose dal punto di vista di un altro. […] È imparare a comprendere l’altro dal suo punto di vista»71. Un’ultima considerazione sulla lingua: lo straniero, nella terra d’accoglienza, pur avendo lasciato tutto non può aver lasciato dietro di sé due cose: il ricordo degli affetti e della propria lingua. «Gli esiliati, i deportati, gli espulsi, gli sradicati, i nomadi» – afferma Derrida – «hanno in comune due nostalgie: i loro morti e la loro lingua»72. Questo vissuto lo ha bene espresso anche Hannah Arendt: negli anni del suo esilio forzato, ci confessa, «ho potuto rinunciare a tutto tranne che alla lingua materna». Che cosa è rimasto alla Arendt delle cose lasciate in Europa nel periodo prehitleriano? Ella risponde: «Resta la lingua […] La lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato»73. La seconda forma di ospitalità che stiamo considerando – cioè «l’ospitalità di diritto» – è stata ampiamente argomentata da Ricoeur e ha trovato nel filosofo tedesco Jürgen Habermas un altro valido sostenitore: entrambi si richiamano alla tradizione del diritto cosmopolitico ripresa anche da Kant ne La pace perpetua e declinata nella forma di “condizioni di possibilità” di una “ospitalità universale”. Come è noto, Habermas è il teorico di una democrazia fondata sulla “ragione comunicativa” e sulla prassi del “dialogo interculturale”, prassi utile anche ad arginare i sempre insorgenti integralismi nazionalistici ed etnicoreligiosi. Egli sostiene giustamente che «l’integrazione non è una H.-G. GADAMER, La diversità delle lingue e la comprensione del mondo, [edizione originale 1990], in IDEM, Il linguaggio, tr. it. e Introduzione a cura di D. Di Cesare, Roma-Bari, 2005, pp. 73-84, p 84. 72 J. DERRIDA, Sull’ospitalità, cit., p. 90. 73 H. ARENDT, Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, in G. GAUS, Zur Person, Piper, München, 1965; tr. it. e cura di P. Costa, Che cosa resta? Resta la lingua. Conversazione con Günter Gaus, [la conversazione è stata trasmessa il 28 ottobre 1964 dalla televisione della Repubblica federale tedesca], in H. ARENDT, Antologia, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 14. 71

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strada a senso unico; se riesce, mette le culture nazionali in tale fibrillazione da renderle più porose, più recettive e più sensibili sia all’interno che all’esterno»74. Secondo Habermas «non si dà alcuna integrazione senza allargare i propri orizzonti, senza la disponibilità a tollerare un più ampio spettro di odori e di pensieri, anche di dolorose dissonanze cognitive»75. Tuttavia il filosofo tedesco è ben consapevole che l’ospitalità costituisce un dono e, come è implicito nella stessa “logica del dono” (donare, ricevere, contraccambiare), esige di essere contraccambiata. Al dovere di ospitare (da parte del nativo) corrisponde perciò il dovere della reciprocità (anche da parte dello straniero accolto). È perciò condivisibile la posizione di Habermas per la quale «l’integrazione riuscita è un processo di apprendimento basato sulla reciprocità. Da noi gli islamici si trovano sotto la forte pressione di rivolgimenti storici e sociali. Lo Stato liberale [giustamente] esige da tutte le comunità religiose, senza eccezione, che riconoscano il dato di fatto del pluralismo religioso, la validità delle scienze istituzionalizzate nell’àmbito del sapere secolare e i fondamenti universalistici del diritto moderno»76. La forma più alta di ospitalità e di accoglienza è stata teorizzata soprattutto dall’ultimo Derrida. Questi ci indica un possibile percorso intellettuale “dalla xenofobia (comunque insita in ognuno di noi) alla xenofilia”, indirizzandoci così a “politiche dell’amicizia” da praticare sotto il profilo culturale ed istituzionale. Come è noto, Derrida è filosofo di origine ebraica che laicizza e, in qualche modo, universalizza il precetto biblico 74

J. HABERMAS, L’Europa e i suoi immigrati, [discorso tenuto da Habermas il 7 novembre 2006 al Petersberg presso Bonn], in IDEM, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, tr. it. di C. Mainoldi, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 18. 75 Ibidem, p. 19. 76 Ibidem, p. 15.

45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dell’accoglienza dello straniero. Il popolo di Israele è sempre memore dei giorni tristi dell’esilio ed è perciò chiamato da Jahvè stesso a conferire un’attenzione tutta particolare allo straniero. Come è scritto nel Deuteronomio (10, 18-19), «Jahvè rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque lo straniero (gher), perché anche voi foste stranieri (gherìm) nel paese d’Egitto». Israele, in ragione di questa “memoria di esilio” che lo costituisce nella sua identità, non potrà mai negare all’altro il dono dell’ospitalità, pena il tradimento dello stesso mito fondativo. Da notare è che nella lingua ebraica sono tre i termini che indicano “straniero”: zar, nekhàr e gher. Zar indica lo straniero in quanto nemico, il “barbaro” da combattere e tener lontano; nekhàr il forestiero che può rivelarsi nemico, ma con il quale comunque si entra in contatto e che si può potenzialmente rendere amico; gher indica invece lo straniero che risiede in mezzo a una popolazione diversa dalla propria e che, perciò, è termine traducibile come “straniero integrato”, sebbene nostalgico, spesso perseguitato (come è il caso delle comunità ebraiche della diaspora) e bisognoso di cura. Tutti i figli d’Israele – ricorda Derrida – furono gherìm in terra d’Egitto (cfr. Es 22,20; 23,29; Lv 19,34; 25,33; Dt 10,19). Nello snodarsi della storia che dai patriarchi giunge fino alla generazione dell’esodo, l’esperienza di essere gher, cioè minoranza, più volte vessata e perseguitata, diviene tratto accomunante dell’intero popolo di Israele. È universalizzando il paradigma di questa precisa memoria culturale – quella del popolo ebraico – che va situata la prospettiva di Derrida sul “dovere dell’ospitalità assoluta”. Si tratta di una sorta di ideale regolativo, di un concetto-limite dal valore non normativo ma orientativo: «L’ospitalità assoluta» – scrive Derrida – «esige che io apra la mia dimora e che la offra non solo allo straniero, ma all’altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che lo accolga […] senza chiedergli reciprocità e neppure il suo nome […]. L’ospitalità giusta [che si richiama alla 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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‫ צדקה‬/sedakà, alla giustizia biblica] rompe con l’ospitalità di diritto»77. «L’ospitalità» – continua Derrida – «comincia con l’accoglienza senza domanda alcuna. […] Si offre, si dona all’altro prima che egli si qualifichi, prima ancora che sia posto soggetto, soggetto di diritto, soggetto nominabile con il suo cognome»78. Come si può notare, Derrida in queste alte considerazioni etiche riprende ed amplia – pur con alcune contraddizioni79 – il “paradigma del volto” già elaborato dall’ebreo-lituano Lévinas in pagine memorabili: l’apparire del volto dell’altro mi richiama immediatamente all’imperativo dell’accoglienza, da realizzare con “tenerezza e responsabilità”: l’incontro con il «volto del prossimo significa per me una responsabilità irrecusabile, precede ogni libero assenso, ogni patto, ogni contratto»80. Tale ospitalità incondizionata è un a priori etico che non è “desiderio irresponsabile” o “folle bontà”, ma si esprime nella forma del dono gratuito che sa mettere in conto anche il rischio della disfatta e del fallimento. Sono quindi d’accordo con Lévinas e Derrida nel tentare di proporre all’Occidente una «nuova carta dell’ospitalità», da realizzare qui ed ora, superando ogni forma di nazionalismo e di particolarismo. Il modello proposto dai due autori è quello delle “città rifugio” delineate nel Pentateuco, J. DERRIDA, Sull’ospitalità, cit., p. 53 Ibidem, p. 64. 79 È stato, in particolare, Jean-Luc Marion a mostrare delle riserve nei confronti della prospettiva di Derrida, soprattutto per la pretesa di “purezza” e di “incondizionatezza” sia nel fenomeno del dono sia nell’ospitalità. A questo proposito mi limito ad indicare S. CURRÒ, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, LAS, Roma, 2005; J.W. ALVIS, Marion and Derrida on The Gift and Desire: Debating the Generosity of Things, Springer, New York – London, 2016. 80 E. LÉVINAS, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff, La Haye, 1974; tr. it. di M. Aiello e S. Petrosino, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1995, p. 110. 77 78

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all’interno del libro del Deuteronomio (4, 41-43; 19, 1-10) e dei Numeri (35, 6-34). Le “città rifugio” si configurano coma una sorta di asilo dove possono vivere in pace – almeno per alcuni periodi – i perseguitati a causa della giustizia e gli stranieri. Nella filosofia francese contemporanea i valori etici dell’ospitalità e della solidarietà sono stati fortemente ribatiti anche da Edgar Morin, giustamente definito come un «umanista planetario»81. In maniera per molti aspetti simile a Ricoeur, Lévinas e Derrida, egli ha difeso l’ideale etico di una “fraternità aperta” da costuire nel dialogo interpersonale e nella sfera delle istituzioni: in un importante testo pubblicato nel 2019, egli ha giustamente sottolineato che il paradigma etico-politico della “fraternità aperta” si distingue nettamente da quello della “fraternità chiusa” caratterizzante il pensiero identitario etniconazionalistico. Mi pare significativo poter concludere questa introduzione al volume sulla “filosofia della persona” con le parole di Morin che impegnano ciascuno di noi all’instaurazione di autentici rapporti di aiuto fraterno e di solidiarietà: «Libertà, uguaglianza, fraternità… questi tre termini sono complementari, eppure non si integrano automenticamente tra loro. Perché? Perché la libertà, soprattutto economica, tende a distruggere l’uguaglianza, come vediamo oggi con l’espansione di questo liberalismo economico che provoca enormi disuguaglianze. Al tempo stesso, imporre l’uguaglianza mette a rischio la libertà. Il problema è, allora, quello di saperle combinare. Ma se si possono scrivere norme che assicurano la libertà o che impongono l’uguaglianza, non è possibile imporre la fraternità tramite la legge. La fraternità non può derivare da un’ingiunzione statuale superiore, deve venire da noi. […] Dobbiamo associare e combinare libertà e uguaglianza, a costo di fare dei compromessi Cfr. G. LÓPEZ OSPINA, N. VALLEJO-GÓMEZ (a cura di), L’Humaniste planétaire. Edgar Morin en ses 80 ans – Hommage international, Unesco, Paris, 2004. 81

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tra questi due termini, e suscitare, svegliare o risvegliare la fraternità. La fraternità, allora, ci pone un problema: non può essere imposta dall’alto o dall’esterno; non può venire che dalle persone. La sua fonte è dunque in noi. […] L’ “io” senza “noi” si atrofizza nell’egoismo e sprofonda nella solitudine. L’ “io” ha non meno bisogno del “tu”, vale a dire di una relazione da persona a persona affettiva e affettuosa. Pertanto, le fonti del sentimento che ci portano, collettivamente (noi) o personalmente (tu), sono le fonti della fraternità»82.

E. MORIN, La Fraternité, pourquoi?, Éditions Actes Sud, Arles, 2019; tr. it. di N. Manghi, La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, Postfazine di Sergio Manghi, Editrice AVE, Roma, 2020, pp. 13-14.

82

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Studio I

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La discussa eredità di Cartesio e Maine de Biran: il problema della soggettività nella filosofia francese del Novecento

«Ciò che appassiona gli uomini, e appassionava me, non è il sapere come io sono, perché la scienza saprà sempre dirmelo; è il sapere perché io sono. Aveva ragione Boutroux quando ci diceva che la filosofia è il tramite per il quale lettere e scienze si uniscono per mormorarci, per farci intuire, senza poterlo esprimere, il segreto definitivo» 1

1. Trasformazioni del soggetto. Uno sguardo d’insieme Nelle pagine che seguono vengono delineate – seppur non in maniera esauriente, data la vastità e complessità dei temi trattati – le principali tappe speculative del pensiero francese del Novecento in relazione al problema della soggettività. Nella tradizione filosofica francese, almeno a partire da Montaigne, Cartesio e Pascal, l’interrogativo di carattere antropologico (chi è l’uomo?) 2 è sempre stato posto in primo piano nella sua urgenza e J. GUITTON, Un siècle, une vie, Éd. Robert Laffont, Paris, 1988; tr. it. di A. Audisio, Il mio secolo, la mia vita, Rusconi, Milano, 1990, p. 75. 2 «Was ist der Mensch?», secondo la nota espressione di Kant (I. KANT, Logica, [edizione originale 1800], in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, vol. XVI; 1

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drammaticità3. La tematizzazione delle problematiche esistenziali fatte emergere particolarmente da Pascal e il confronto critico con tr. it. di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 19). Il problema antropologico - ad avviso di Kant - riassume e sintetizza le tre grandi questioni della filosofia: «Il campo della filosofia si può ricondurre alle seguenti domande: 1) che cosa posso sapere? 2) Che cosa devo fare? 3) Che cosa mi è dato sperare? 4) Che cosa è l’uomo? Alla prima domanda risponde la metafisica, alla seconda la morale, alla terza la religione e alla quarta l’antropologia. In fondo però si potrebbe ricondurre tutto all’antropologia, perché le prime tre domande fanno riferimento all’ultima» (ibidem). Gabriel Marcel ha inoltre sottolineato che quello antropologico è essenzialmente “l’unico problema metafisico”: «É giusto dire che l’unico problema metafisico è quello di chiedersi “Che cosa sono?”, perché tutti gli altri si riducono a questo» (G. MARCEL, Valore e immortalità, [conferenza tenuta a Lione nel 1943], in IDEM, Homo viator, Aubier, Paris, 1945; tr. it. di L. Castiglioni e M. Rettori, Borla, Roma, 1980 2, p. 162). 3 A tal proposito basti pensare ad alcune delle più vibranti espressioni contenute nei Pensieri di Pascal nelle quali si avverte anche il carattere esistenziale di una riflessione antropologica tipica della modernità: «che cos’è l’uomo nella natura? (qu’est ce que l’homme dans la nature?) Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile. Egli egualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto, e l’infinito in cui è inghiottito» (B. PASCAL, Pensées, [1657-1660], in Oeuvre complètes, a cura di J. Chevalier, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1954; tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, Pensieri, Rusconi, Milano, 19974, p. 65); «l’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante (l’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant). [..] Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero» (ivi, p. 153); «l’uomo è a se stesso l’oggetto più prodigioso della natura; non può intendere infatti ciò che è corporeo (ce que c’est que corps), e ancor meno ciò che è spirito (ce que c’est qu’esprit), e meno di tutto come qualche cosa come un corpo possa essere unito a uno spirito» (ibidem, p. 73). Con quest’ultima affermazione Pascal intende anche esprimere le difficoltà speculative nate dal dualismo cartesiano tra spirito e corpo, tra res cogitans e res extensa: tale problematica - com’è

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il cogito cartesiano costituiscono due tratti distintivi del pensiero francese facilmente rintracciabili anche in molti filosofi del Novecento.4 A questo proposito mi sono parse emblematiche le parole con le quali René Le Senne ha indicato nella problematica cartesiana (e pascaliana) della soggettività la peculiarità della riflessione filosofica tipicamente francese: «la Francia fortunatamente ha trovato, fin dal XVII secolo, una sua espressione nella quale si è sempre riconosciuta. Seguire lo sviluppo della filosofia francese, da Malebranche a Hamelin o anche fino a Bergson, sarebbe come verificare la fecondità del cartesianesimo, il quale resta come l’asse invariabile d’una tradizione che pensatori di differenti epoche si sono preoccupati più di adattare alle condizioni ed ai bisogni del loro tempo, che di sostituire. […] Se la Francia dimenticasse il cartesianesimo, cambierebbe la sua anima»5. Queste parole di Le Senne si inseriscono nel suo programma di rinnovamento della “filosofia del cogito”: occorre notare che esse furono scritte negli anni Cinquanta e che una nota dominante del pensiero francese successivo a quegli anni fu certamente il tentativo di andare “oltre il cogito”, cioè oltre la problematica del soggetto e dei suoi vissuti intenzionali: si pensi in particolare allo strutturalismo e a tutte quelle prospettive antiumanistiche che si sono spinte a parare di una “morte dell’uomo” e di una “fine del soggetto”.

noto - nel ’600 caratterizza gli sviluppi speculativi dell’aetas cartesiana dando origine alle più disparate soluzioni come l’occasionalismo di Malebrance e la dottrina dell’“armonia prestabilita” di Leibniz, e ancora nel ’900 sarà oggetto di dibattito filosofico. 4 Cfr. a tal proposito F. AZOUVI, Descartes et la France. Histoire d’une passion nationale, Fayard, Paris, 2002. 5 R. LE SENNE, L’activité philosophique en France et aux États-Units, Paris, Puf, 1950, Vol. II, p. 113; tr. it. (parziale) a cura di Michele Federico Sciacca: L. LAVELLE, R. LE SENNE, A. FOREST, La filosofia dello spirito, Società Editrice Internazionale, Torino, 1951, p. IX.

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In questo Studio vengono prese in considerazione le linee di fondo di quelli che possono essere definiti come “avatars du sujet”6: vengono quindi presi in esame i “mutamenti”, le “trasformazioni” che la nozione di soggetto ha subito nelle differenti correnti filosofiche del Novecento francese. In queste pagine cerco soprattutto di delineare i tratti distintivi delle diverse metodologie d’indagine intorno al soggetto umano e alle sue produzioni culturali. Particolare attenzione viene data anche a quelle ricerche di carattere filosofico che si sono maggiormente confrontate con i contributi offerti dalle scienze umane. 2. A partire dalla “filosofia riflessiva” di Maine de Biran: la coscienza come attività e libertà Nel delineare i diversi scenari speculativi che stanno sullo sfondo delle riflessioni filosofiche francesi sulla soggettività non si può non iniziare con la trattazione dello spiritualismo che proprio in Francia tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Si ricordi che avatar è termine tratto dalla spiritualità indiana e significa “mutamento”, “trasformazione repentina”, “metamorfosi”. Il termine è stato utilizzato in questo contesto proprio per accentuare una delle caratteristiche della riflessione francese del ’900 sulla soggettività: il cambio repentino di paradigma interpretativo da una temperie filosofica all’altra. A tal proposito basti solo pensare alle “trasformazioni” della visione filosofica dell’uomo che si sono verificate nel giro di pochi anni dall’esistenzialismo allo strutturalismo o da correnti di pensiero d’ispirazione personalistica a contesti speculativi sorti da una ripresa delle “filosofie del sospetto” di Marx, Nietzsche e Freud. Tra i numerosi volumi dedicati all’analisi delle “trasformazioni del soggetto” che hanno caratterizzato il Novecento francese, in particolare con Sartre, Lacan e Foucault, mi limito ad indicare: di P.A. ROVATTI, Trasformazioni del soggetto. Un itinerario filosofico, Il Poligrafo, Padova, 1992; D. TARIZZO, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina, Milano, 2003. 6

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Novecento ha avuto un grande sviluppo, caratterizzando un’intera stagione di pensiero. Lo spiritualismo nasce in opposizione al positivismo e a tutte quelle forme di materialismo e di scientismo divenute ormai dominanti nell’atmosfera culturale europea della seconda metà del secolo XIX: esso designa un atteggiamento di pensiero che ponendo l’accento sui significati della dimensione interiore dell’uomo tenta di superare una visione antropologica riduzionistica e naturalistica. L’incipit del discorso filosofico è, quindi, il contesto dell’esperienza interiore, la vita della coscienza e le dinamiche della volontà. Per gli spiritualisti, il primum cognitum è lo spirito umano (esprit): da esso non si può prescindere e la stessa conoscenza della realtà materiale trova la sua condizione di possibilità solo nelle dinamiche della coscienza soggettiva. Cartesio, Pascal e soprattutto nell’Ottocento Maine de Biran, Félix Ravaisson, Jules Lequier, Charles Renouvier, Charles Secrétan, Jules Lagneau e Jules Lachelier7 sono gli antesignani di quest’atteggiamento filosofico che – pur non caratterizzandosi come una metodologia unitaria di ricerca – afferma generalmente il primato allo spirito sulla materia, assegna cioè il primato epistemologico a quella dimensione interiore dell’uomo che è originaria e costitutiva, e che secondo un antico adagio della scolastica nulla re indiget ad existendum. Maine de Biran (1766-1824) ha avuto il grande merito di ridefinire il cogito come un atto della coscienza caratterizzato da Si noti che Ricoeur si è formato sullo studio di questi autori: nell’anno accademico 1933-34, presso l’Università di Rennes, discusse una tesi di laurea dal titolo Le problème de Dieu chez Lachelier et Lagneau. Come ricorda nelle sue memorie autobiografiche: «Per mezzo di loro [di Lachelier e Lagneau], mi trovavo iniziato e di fatto incorporato alla tradizione della filosofia riflessiva francese, parente del neokantismo tedesco. […] Questa tradizione risaliva, attraverso Émile Boutroux e Félix Ravaisson, fino a Maine de Biran» (P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Jannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 25). 7

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una libertà originaria, irriducibile ai fatti della natura. Ecco, per esempio, le parole con le quali Jean Nabert (1881-1960), teorico di una “filosofia riflessiva” e maestro di Ricoeur, ha riconosciuto il suo debito nei confronti di Maine de Biran: «È dunque all’ispirazione di Maine de Biran che crediamo conveniente ritornare, purchè si interpreti questo pensatore non tanto sulla fede nelle sue formule letterarie quanto sull’idea della filosofia che cercava di creare. Infatti ciò che Maine de Biran voleva esprimere, è questa idea: che la coscienza si produce soltanto con un atto, e che il Cogito, che è essenzialmente posizione del “sé” nella coscienza agente, non può essere confuso – almeno se si tratta della via volitiva – né con un’azione dell’intelletto, né con un metodo per fondare l’oggettività della conoscenza»8. Secondo Nabert, «non si era mai compreso prima, in modo tanto chiaro, che si poteva liberare la coscienza dai modelli derivati dalla rappresentazione e dalla conoscenza del mondo esterno»9 In particolare è in Maine de Biran che si possono trovare in nuce i principali motivi ispiratori della temperie spiritualistica: nei suoi testi è possibile rinvenire la definizione di fondo della metodologia d’indagine propria di tanti fautori dello spiritualismo, come Émile Boutroux, Henri Bergson, Maurice Blondel, e anche di quegli autori appartenenti all’area culturale della philosophie de l’esprit. É con le seguenti parole che Biran riassume in sintesi il metodo di ricerca per effettuare un’analisi dei “fatti della coscienza” e dell’esperienza intima dello spirito: «Escludiamo dalla nostra meditazione tutte le cose che non conosciamo se non dal di fuori e a mezzo dei nostri sensi, e rivolgiamo un’attenzione riflessa alle cose che sono immediatamente e interiormente

J. NABERT, L’expérience intérieure de la liberté, PUF, Paris, 1923 [2e éd. augmentée d’un choix d'articles et d’une Préface de Paul Ricœur et d'une bibliographie, PUF, Paris, 1992], p. 157. [tr. it. nostra]. 9 Ibidem, p. 160. 8

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conosciute dal nostro spirito e delle quali esso è certo» 10. L’interiorità del soggetto è quindi il principium scientiae e la dimensione di “certezza” dalla quale far progredire l’indagine filosofica: per Biran tutti i tentativi fatti dai fisiologi suoi contemporanei di definire “scientificamente” l’uomo nella sua totalità osservandolo “dall’esterno” e cercando di “obiettivarlo” hanno portato fuori strada. Questi tentativi non sono riusciti a cogliere la natura specifica dello spirito umano (ovvero la sua costitutiva libertà e la sua natura metafisica) e della stessa sfera corporea dell’io, studiata dai fisiologi alla pari di un organismo animale. Si noti che in Biran e negli spiritualisti francesi che a questi si richiamano si avverte chiaramente l’eco di uno stile filosofico tipicamente agostiniano: essi fanno proprio l’invito di Agostino a soffermarsi sulla propria interiorità per instaurare un intimo dialogo (il dialéghestai platonico-agostiniano) dell’anima con sé stessa: «noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas»11. La verità sull’uomo viene cercata dagli F.-P. MAINE DE BIRAN, Nouveaux essais d’anthropologie, [edizione originale 1823-24], in Oeuvres de Maine de Biran, 13 vol., sous la direction de F. Azouvi, Vrin, Paris 1984- (edizione critica ancora non terminata), Tome X, 2; tr. it. di M. Ghio, Nuovi saggi d’antropologia, Paravia, Torino, 1949, p. 56. 11 «Non andare fuori di te, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore» (AGOSTINO D’IPPONA, De vera religione, XXXIX, 72); il testo citato così prosegue: «E se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso (Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum)» (ibidem). Agostino è sicuramente uno degli autori classici tra i più presenti nel clima filosofico francese almeno a partire dal ’600, non a caso definito anche come il “secolo d’Agostino” per l’attenzione data dagli scrittori dell’epoca alle dinamiche dell’interiorità umana. L’atteggiamento speculativo tipicamente agostiniano di partire dall’introspezione e dall’analisi interiore per giungere all’affermazione della dimensione metafisica dell’uomo lo si ritrova sotto diverse forme anche negli spiritualisti francesi dei secoli XIX e XX, nei filosofi d’ispirazione personalistica ed in alcuni pensatori esistenzialisti, i quali non di rado si 10

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spiritualisti tramite raffinate analisi dei vissuti interiori: a partire da queste analisi essi fanno emergere la “sproporzione costitutiva” della persona umana rispetto ai “fatti della natura”. Nell’interiorità dello spirito viene posta particolarmente in evidenza la presenza di un qualcosa di irriducibile a qualsiasi spiegazione materialistica e deterministica dell’uomo (come, per esempio, quella tipicamente illuministica e “positivistica ante litteram” proposta da La Mettrie nel celebre volume L’homme machine del 1748): si tratta della presenza della libertà. Nello spirito umano la libertà costituisce un quid irriducibile al fatto bruto “scientificamente descrivibile”: la libertà del volere, come sottolinea con forza soprattutto Maurice Blondel, è un qualcosa di enigmatico che sfugge ad ogni rigida determinazione epistemologica. Gli spiritualisti interpretano, quindi, la libertà sono confrontati direttamente con gli scritti di Agostino; a tal proposito cfr. L. ALICI, R. PICCOLOMINI e A. PIERETTI (a cura di), Interiorità e persona. Agostino nella filosofia del Novecento, Citta Nuova, Roma, 2001: nel volume di particolare interesse per il nostro tema sono i saggi di S. Ferretti (Henri Bergson. Memoria e autenticità), G. Losito (Lucien Laberthonnière. Doctor caritatis o augustiniene furvoyé?), J. Leclercq (Maurice Blondel lecteur “alla francese” de saint Augustin), S. Robilliard (En chemin vers l’intériorité. Augustin dans la “Philosophie de l’Esprit”) e A. Rigobello (Agostino e i personalismi contemporanei). Cfr. anche J. MARITAIN, De la sagesse augustinienne, in «Mélanges augustiniens», 1931, pp. 385-411; J. GUITTON, Le temps et l’éternité chez Plotin et saint Augustin, Vrin, Paris 1933, 19714; É. GILSON, Philosophie et Incarnation selon saint Augustin, Vrin, Paris, 1947; A. CAMUS, Métaphysique chrétienne et néoplatonisme, Paris, 1965; tr. it. di G. Chiuchiù, in IDEM, Sant’Agostino, parte dal titolo Metafisica cristiana e neoplatonismo, Diabasis, Reggio Emilia, 2004, pp. 95-113; H. DE LUBAC, Augustinisme et théologie moderne, Aubier, Paris, 1965; I. BOCHET, Augustin dans la pensée de Paul Ricoeur, Éd. Facultés Jésuites de Paris, Paris, 2004. Testimonianza di una particolare attenzione dei pensatori francesi – anche di diverso orientamento filosofico – ad Agostino, è anche l’ultimo volume di Jean-François Lyotard: J.-F. LYOTARD, La Confession d’Augustin, Galilée, Paris, 1998.

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dello spirito come la “causa errante” di ogni sistema filosofico che intenda concepire l’uomo in senso solo naturalistico e materialistico: la libertà sarebbe “causa errante” poiché essa è elemento irriducibile alla sfera della natura e sfugge ad ogni categorizzazione del soggetto umano in termini meramente fisicalistici. La presenza della libertà nello spirito è generalmente considerata dagli spiritualisti come la prova che l’uomo è costitutivamente diverso dalle cose materiali. Pertanto, la libertà del volere è per l’uomo attestazione della presenza nello spirito di una dimensione di trascendenza, di un tí théion: il “qualcosa di divino” di cui parla Aristotele nel terzo libro del De anima. Del resto, va anche ricordato che lo stesso Cartesio considera il liberum arbitrium come uno dei tre mirabilia della creazione divina, la quale rende l’uomo stesso immagine del suo creatore (imago Dei): «Tre cose mirabili ha fatto Dio: le cose dal nulla, il libero arbitrio e l’Uomo-Dio (Tria mirabilia fecit Dominus: res ex nihilo, liberum arbitrium et Hominem Deum)»12. È in particolare la riflessione antropologica di Maine de Biran a costituire lo sfondo speculativo sul quale si situano le prospettive filosofiche degli autori più significativi dello spiritualismo francese13: le indagini di Boutroux, Bergson, Blondel e, più tardi, anche degli autori appartenenti al movimento definito come philosophie de l’esprit, pur nelle loro rispettive peculiarità, si pongono tutte in esplicita continuità con quelle del 12 R. DESCARTES, Cogitationes Privatae [1619-1621], in Oeuvres, éd. par C. Adam, P. Tannery, Paris, 1897-1913; Paris 1964-1974, X, p. 218; tr. it. di A. Tilgher e M. Garin, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, BariRoma 1986, Vol. I, p. 11. In queste considerazioni Cartesio si avvicina notevolmente a posizioni tipiche del successivo spiritualismo dell’Ottocento e del Novecento. 13 Cfr. a tal proposito i volumi di M. GHIO, Maine de Biran e la tradizione biraniana in Francia, Edizioni di Filosofia, Torino, 1962; C. TERZI, Maine de Biran nel pensiero moderno e contemporaneo, Cedam, Padova, 1974.

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Biran: prendono avvio dall’io, dal «fenomeno della coscienza»14 quale «sfera di certezza assoluta»15. Secondo Biran «l’uomo non conosce nulla se non in quanto ha coscienza interna del proprio io. Questo è il fatto primitivo del senso intimo (le fait primitif du sens intime), la base o l’inizio di ogni scienza»16. L’io è quindi il “fatto fondamentale” sul quale deve incentrarsi l’indagine filosofica: si tratta di un io spirituale inteso come attività (Tätigkeit nei termini del linguaggio di Fichte)17 e come sforzo (effort), ma anche di un io inteso come corporeità. F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie, [edizione originale 1812], in Oeuvres de Maine de Biran, accompagnées de notes et d’appendices, publiées par P. Tisserand, Alcan, Paris, 1920-1949, vol. VIII, p. 87 [tr. it. nostra]. 15 M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, PUF, Paris, 1965, 19872, p. 25. 16 F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie, op. cit, p. 129 [tr. it. nostra]. 17 L’idealismo trascendentale di J.G. Fichte costituisce per gli spiritualisti un termine privilegiato di confronto: notevoli richiami a Fichte emergono sia in Maine de Biran che in Bergson: nella stessa philosophie de l’action del Blondel l’accentuazione del valore della libertà e dell’elemento volontaristico dell’io mostra sicuramente delle consonanze con una sensibilità filosofica tipicamente fichtiana. Biran - in maniera simile a Fichte - afferma il carattere di attività dell’io ed individua nella dimensione interiore dello spirito «la facoltà mediante la quale il mondo esterno rimane costituito per noi (se trouve établie pour nous)» (F.-P. MAINE DE BIRAN, Nouveaux essais d’anthropologie, op. cit., p. 31). Sull’influsso di Fichte nello spiritualismo ed in altri grandi autori francesi cfr. I. RADRIZZANI, Maine de Biran: un “Fichte français”?, in IDEM (a cura di), Fichte et la France, Vol. I, Beauschesne, Paris 1997, pp. 107-140: nello stesso volume sono da segnalare anche gli studi di X. Tilliette (Lequier lecteur de Fichte), di J.-L. Vieillard-Baron (Bergson et Fichte), di T. Rockmore (Fichte et Sartre, ou Sartre fichtéen?) e di H.G. von Manz (L’expérience de l’autre en tant que constitution première et éthique du sujet. Le tournant interpersonnel du concept d’expérience chez Lévinas et Fichte). Per il confronto di Bergson con Fichte si veda anche l’importante corso 14

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Differentemente dalla figura cartesiana del cogito che è astratta sostanza pensante (res cogitans), l’êgo di Biran è anche attestazione da parte della coscienza del proprio sussistere all’interno di una corporeità: lo spirito non è per Biran un qualcosa di disincarnato, ma è autocoscienza di una libera attività volitiva che opera a partire da un corpo vivente. Il primato dello spirito sulla materia non significa affatto in Biran negazione dell’aspetto materiale e corporeo della propria individualità: il corpo proprio è considerato come il mediatore necessario tra lo spirito e la materia, tra l’intimità dell’io e l’esteriorità del mondo. Per questa valorizzazione dell’elemento corporeo della dimensione umana il pensiero biraniano è stato molto apprezzato e valutato anche dai fenomenologi francesi18 e da altri grandi filosofi del ’900: quello di Biran è certamente uno stile di riflessione che anticipa in molti aspetti le meditazioni sul valore della corporeità di Gabriel Marcel, di Merleau-Ponty, di Michel Henry, di Michel Foucault e di Paul Ricoeur. Quest’ultimo non esita a sottolineare che proprio a Biran va attribuito il merito di universitario tenuto dal filosofo francese nel 1898 sull’opera Bestimmung des Menschen: H. BERGSON, La destinazione dell’uomo di Fichte, tr. it. di F. C. Papparo, Presentazione di J.-Ch. Goddard, Guerini e Associati, Milano, 2003. 18 Il processo interiore di avvertimento della propria corporeità, descritto da Biran, può certamente trovare delle significative analogie anche con quello studiato da Edmund Husserl nelle Meditazioni cartesiane: si tratta del sentimento originario della “corporeità organica e vivente” (Leiblichkeit), propriamente definita “natura appartentiva” (eigentliche Natur). Ai fenomenologi francesi, e tra questi in particolare a Michel Henry, non è sfuggito questo possibile accostamento tra la trattazione del corps propre di cui parla Biran e quella del Leib effettuata da Husserl, il quale differenzia nettamente il Leib (il corpo organico percepito dalla coscienza) dal Körper (il corpo materialisticamente inteso): cfr. M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, op. cit.; IDEM, Incarnation. Une philosophie de la chaire, Seuil, Paris, 2000; tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione: una filosofia della carne, SEI, Torino, 2001.

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aver «aperto questo cantiere del corpo proprio»19. Il corpo è definito da Biran anche come strumento attraverso il quale l’io può esercitare la sua libera volontà: la sfera della corporeità è, quindi, la condizione di possibilità per l’esercizio della libertà da parte di un io che è caratterizzato essenzialmente come volontà. Il cogito cartesiano viene pertanto riconfigurato da Biran come un atto di volontà, nel quale l’io si autopercepisce come un volo, come un “je veux” : «Se Descartes ha creduto di porre il primo principio di ogni scienza, la prima verità evidente di per sé, dicendo: io penso, dunque sono (cosa o sostanza pensante), diremo meglio, in maniera più determinata e questa volta con l’evidenza irrecusabile del senso intimo: [...] io voglio […] dunque sono (je veux, [...] donc je suis)»20. La caratterizzazione biraniana dell’essenza dell’io come volontà e libera attività trova un approfondimento in senso metafisico in Maurice Blondel, ed in particolare nell’opera del 1893 riedita ed ampliata nel 1936 dal titolo L’action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique. In Blondel l’azione umana scaturisce da un’intima dialettica della volontà verso un désir de toutes les perfections, verso un vouloir de l’infini, che in ultima analisi è Dio. La volontà umana per Blondel è manifestazione di una desiderio di compiutezza e di trascendenza che è impossibile realizzare in statu vitae: l’azione, tramite la quale volontà si esteriorizza, si origina da un intimo slancio di autosuperamento (un vouloir de l’infini), che ha come finalità ultima il raggiungimento della perfezione, una vita in intima unione con l’assoluto. La “volontà volente” (ciò che liberamente ci proponiamo) dalla quale scaturiscono le nostre azioni è tensione ideale verso il superamento dei limiti della condizione umana, e ha come finalità ultima il trascendimento 19

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 435. 20 F.-P. MAINE DE BIRAN, Nuovi saggi d’antropologia, op. cit., p. 77.

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della finitezza: ha Deum ut finem. Ad avviso di Blondel nell’atto della libera volizione – che è l’elemento fondamentale dell’esprit – si può attestare un qualcosa che «infinitamente ci sorpassa»21: dall’analisi dell’azione emerge quindi un’antropologia della sproporzione, secondo la quale – per usare un’espressione di Pascal – «l’uomo supera infinitamente l’uomo (l’homme passe infiniment l’homme)»22: «agendo troviamo in noi stessi un’infinita sproporzione, siamo costretti a cercare nell’infinito l’equazione della nostra azione.[…] Ed appunto perché l’azione è una sintesi dell’uomo con Dio, essa è in perpetuo divenire, come travagliata dall’aspirazione d’una crescita infinita»23. Mentre la peculiarità della riflessione di Biran sul soggetto è nella considerazione dell’io come effort e come corps propre, la caratteristica specifica delle analisi di Blondel è da rinvenire nell’affermazione della trascendenza religiosa a partire dalla considerazione del significato profondo dell’azione umana. Le prospettive di Biran e di Blondel mostrano delle profonde convergenze anche con la proposta teoretica di Bergson. Le caratteristiche più originali delle indagini bergsoniane vanno individuate in due elementi fondamentali: nel valore conferito al tempo quale dimensione interiore e nella concezione dello spirito come creativo slancio vitale (élan vital). A partire dal Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889, Bergson sostiene che il tempo, così come viene vissuto nell’esperienza interiore, è diverso dal tempo della meccanica, che è “oggettivo” e “spazializzato”, misurato dagli orologi e dai calendari. Il tempo vissuto nella coscienza soggettiva viene definito come “durata reale” ed è qualitativamente diverso da quello colto dagli strumenti di M. BLONDEL, L'action. Essai d’une critique de la vie et d'une science de la pratique, Alcan, Paris, 1893; tr. it di G. Durante, L’azione, Sansoni, Firenze, 1946, p. 91. 22 B. PASCAL, Pensieri, op. cit., p. 239. 23 M. BLONDEL, L’azione, op. cit., p. 91. 21

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misurazione. Quest’ultimi ci restituiscono un’immagine del tempo come mera scansione cronologica nella quale ogni momento è perfettamente uguale all’altro. Per far capire la concezione del tempo spazializzata, cosmologica ed esteriore, tipica dell’ambito scientifico, Bergson utilizza anche l’immagine di una collana di perle tutte uguali ed esterne le une alle altre. A questa concezione “positivistica” egli oppone la sua visione del tempo come vissuto interiore nel quale ogni istante è qualitativamente diverso dall’altro: può essere vissuto differentemente a seconda dello stato d’animo in cui ci si trova. Nelle sue ricerche sul tempo in relazione all’interiorità umana, Bergson si pone in continuità con le raffinate analisi effettuate da Agostino nell’XI libro delle Confessioni: il tempo è distensio animi, lo si percepisce in stretta relazione con la coscienza, ovvero con lo scorrere dei propri vissuti coscienziali, e soprattutto lo si vive nella dimensione del presente. É nota l’affermazione di Agostino, condivisa anche da Bergson, secondo la quale nella coscienza si vive un solo tempo, il presente: «futuro e passato non esistono. […] Più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa»24. Per Bergson, il tempo, vissuto sempre in relazione al presente, anche nelle forme della memoria e dell’attesa, viene caratterizzato come “durata reale” che garantisce l’unità della coscienza nel fluire dei vissuti: il termine “durata reale” indica quindi la continuità cronologica che caratterizza i processi della coscienza. In essa la successione di processi che si compenetrano in uno sviluppo libero e imprevedibile, il passato “dura” nel presente tramite la facoltà fondamentale della

AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, XI, 20; tr. it. di Ch. Mohrmann, Le confessioni, BUR, Milano, 199619, p. 569. 24

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memoria25, e l’uno e l’altro (passato e presente) “durano” prolungandosi nel futuro: la “durata” garantisce perciò l’intima unità dei processi psichici che si svolgono nell’arco della coscienza. É in particolare tramite la facoltà dell’intuizione che “il tempo dell’anima” può essere compreso anche come “durata reale”, come continuo flusso di sensazioni, rappresentazioni, sentimenti e volizioni che si unificano nell’io: «Vi è almeno una realtà che tutti noi cogliamo dall’interno, per intuizione [...]: la nostra persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro io che dura»26. La coscienza viene, quindi, intesa da Bergson come Anche per l’influsso che hanno avuto sulla produzione letteraria di Marcel Proust (in particolare nell’elaborazione dei volumi di À la recherche du temps perdu), sono celebri le analisi dedicate da Bergson al valore della memoria come facoltà fondamentale dell’esprit, operante in stretta relazione con l’immaginazione: la memoria è interpretata come una ripresentificazione nell’immagine di un vissuto passato, ed è quindi anche facoltà di “rivivere” nell’intimo emozioni e sentimenti provati in tempi lontani: cfr. H. BERGSON, Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit, Alcan, Paris, 1896; tr. it. e cura di A. Pessina, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari, 1996. Il tema bergsoniano della temporalità è stato, di recente, oggetto di studi approfonditi da parte di Riccardo Roni: mi limito ad indicare R. RONI, La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite, Mimesis, Milano, 2015. Riccardo Roni ha sottolineato anche il ruolo importante e l’originalità di una figura ancora poco conosciuta e valorizzata in Italia: Victor Egger, professore del giovane Marcel Proust negli anni della Sorbona e collega, tra gli altri, di Henri Bergson. Egger ha introdotto nel dibattito filosofico francese fin de siècle la nozione di “durata pura” quale elemento fondamentale della coscienza morale: a tal proposito cfr. R. RONI (a cura di), Victor Egger e Henri Bergson. Alle origini del flusso di coscienza. Con due lettere inedite di William James e di Henri Bergson a Egger, ETS, Pisa, 2016; R. RONI, Victor Egger (1848-1909). La filosofia spiritualista in Francia tra Ottocento e Novecento, Mimesis, Milano, 2020. 26 H. BERGSON, Introduction à la métaphysique, Suresnes, Paris, 1903; tr. it. di V. Mathieu, Introduzione alla metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 47. Sui significati bergsoniani del tempo in relazione alla psicologia ed ai 25

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durata, ovvero come “unità in divenire” dove nulla vi è di identico e niente vi è di rigidamente determinabile e prevedibile: la libertà è perciò la caratteristica fondamentale della coscienza e ogni tentativo di spiegare scientificamente la vita libera e creativa della coscienza viene apertamente criticato. La coscienza umana è una dimensione interiore unitaria, di natura spirituale, non soggetta alle leggi della meccanica e quindi imprevedibile, libera, spontanea e creativa. L’analisi del tempo è per Bergson di fondamentale importanza anche perché i suoi risultati rivelano che la coscienza umana, lo spirito, non è affatto un’entità ascrivibile alla sfera fisica e corporea. Lo spirito non deriva dalla materia, come sostenevano i positivisti, ma per Bergson – in un certo senso – si può dire che sia la materia a derivare dallo spirito: v’è quindi un indiscusso primato dello spirito umano sulle cose materiali. Questo primato è in gran parte dovuto al fatto che solo lo spirito è in grado di comprendere sé stesso e di intuire l’intero processo da cui si è originata la realtà. Bergson sottolinea che la facoltà con la quale lo spirito umano può penetrare l’essenza profonda delle cose esteriori e sé stesso è l’intuizione (intuition): essa è per il filosofo l’organo stesso della metafisica: «L’intuizione penetra d’impeto nella realtà con un atto unitario, la coglie dal di dentro, la unifica coinvolgendola nel vissuto coscienziale, nella concretezza d’un rapporto simpatetico. La dinamica dell’intuizione rivela l’autonomia della coscienza e con essa della vita spirituale»27. É tramite l’intuizione, quale organo di penetrazione della realtà nella sua interezza, che si vissuti interiori del soggetto cfr. V. MATHIEU, Bergson. Il profondo e la sua espressione, Guida, Napoli 1971; M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, Franco Angeli, Milano, 1984; P. ADRIANO, Il tempo della coscienza. Bergson e il problema della libertà, Vita e Pensiero, Milano, 1988. 27 A. RIGOBELLO, Lo spiritualismo, in P. ROSSI (a cura di), La filosofia, vol. IV, Utet, Torino, 1995, pp. 485-511, p. 489.

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possono estendere anche alla natura, non più meccanicisticamente intesa, alcuni dei caratteri distintivi dello spirito: materia e spirito derivano entrambi da un unico principio definito “slancio vitale” (élan vital), il quale è all’origine di tutta la realtà determinandone un’evoluzione creatrice (évolution créatrice), cioè un’evoluzione non più intesa come in Spencer secondo le leggi della necessità, ma un’evoluzione che comporta sempre qualcosa di nuovo, di imprevedibile, di irriducibile ai momenti precedenti. Come rilevato nel celebre volume del 1907 dal titolo Évolution créatrice, la materia è il residuo che si manifesta là dove lo slancio vitale si esaurisce, perdendo la sua capacità creativa: quando invece lo slancio vitale conserva la sua creatività, esso dà luogo alle realtà più alte, alle realtà dello spirito, agli esseri umani caratterizzati da intelligenza, libertà, volontà e profonda tensione etico-religiosa. Questa visione bergsoniana dell’élan vital sta alla base dell’atteggiamento speculativo ed etico anche di tanta parte del successivo personalismo francese: «Bergson […] fornisce più o meno consapevolmente la matrice prima di un’intuizione originaria della persona come slancio morale, anzi spirituale. Tutto il personalismo è un’esegesi e un confronto con questa intuizione originaria, a lontana origine socratico-platonica, e più precisamente agostiniana»28. Il opposizione al materialismo positivista, Bergson propone una prospettiva antropologica e una concezione stessa della realtà aperte alla dimensione metafisica: si tratta si una metafisica nata dall’introspezione e affermata attraverso la facoltà dell’intuizione. Come ricorda anche Jean Guitton nella sua autobiografia filosofica, nella prima metà del XX secolo, l’atmosfera speculativa francese fu largamente segnata dall’influsso di

Cfr. A. RIGOBELLO (a cura di), Il personalismo, (Scelta antologica a cura di A. Rigobello, G. Mura e M. Ivaldo), Città Nuova, Roma, 1978 2, p. 18.

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Bergson29, le cui dottrine trovarono fertile terreno di ricezione in numerosi pensatori, non sfuggendo talvolta a puntuali critiche e a tentativi di ridefinizione: oltre che da Guitton, l’insegnamento di Bergson fu assai apprezzato da Vladimir Jankélévitch, da Jacques e Raïssa Maritain, dallo studioso del medioevo e filosofo tomista Étienne Gilson, e da tutta una generazione di intellettuali delusi dal positivismo. É stato inoltre rilevato che «in Bergson si delinea chiaramente l’orizzonte in cui si muoveranno più tardi Gabriel Marcel e le varie correnti personalistiche; anche la «philosophie de l’esprit» non è pensabile senza il suo contributo»30; si ricordi che la «philosophie de l’esprit» è il titolo di una collana ideata nel 1934 da Luis Lavelle e René Le Senne che raccolse i contributi dei più significativi intellettuali francesi dell’epoca sensibili ai valori spirituali e aperti ad un orizzonte di trascendenza religiosa: tra i collaboratori della collana ci furono anche Aimé Forest, Nikolàj Berdjaev, Maurice Nédoncelle, Jean Nabert e Paul Ricoeur. Una delle caratteristiche principali dell’impostazione speculativa di Le Senne e di Lavelle è la ricerca di una “ontologia 29 Cfr. J. GUITTON, Un siècle, une vie, Éd. Robert Laffont, Paris, 1988; tr. it. di A. Audisio, Il mio secolo, la mia vita, Rusconi, Milano, 1990, p. 72 ss.; come ricorda anche Raïssa Maritain l’incontro con Bergson fu decisivo per il superamento del positivismo da parte di numerosi giovani intellettuali: l’insegnamento di Bergson «dissipava i pregiudizi antimetafisici del positivismo pseudo-scientifico, e richiamava lo spirito alla sua funzione reale, alla sua essenziale libertà» (R. MARITAIN, Les grandes amitiés: souvenirs, Éditions de la Maison Française, New York, 1941; tr. it. di J. Spanu De Zolt, I grandi amici, Postfazione di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano, 1956, 19952, p. 80). 30 A. RIGOBELLO, Lo spiritualismo, op. cit., p. 491. Per una valutazione critica del significato del “bergsonismo” nel clima speculativo francese, cfr. anche G. DELEUZE, Le bergsonisme, PUF, Paris, 1966; tr. it. di F. Sossi, Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano, 1983; J.-L. VIEILLARD-BARON, Bergson et le bergsonisme, Colin, Paris, 1999; IDEM, Le secret de Bergson, Éditions du Félin, Paris, 2013.

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del persona”, indagata attraverso l’analisi interiore e le complesse dinamiche della coscienza morale. La vita etica – sottolineano i due autori con differenti accentuazioni – è una lotta interiore per la conquista del valore: il “bene” nell’accezione platonica del temine. L’essere della persona si qualifica pertanto come un être pour la valeur e l’affermazione del valore si determina solo nel supertamento dell’ostacolo (obstacle), rappresentato, di volta in volta, dal dubbio, dalle passioni, dal carattere o dall’esperienza stessa del dolore. Per i due autori «la contraddizione [ovvero il momento del negativo, l’ostacolo alla realizzazione etica] è il fatto primitivo che permette alla vita dello spirito di nascere e di crescere»31: essi sviluppano, quindi, in senso speculativo l’adagio di Seneca per il quale «marcet sine adversario virtus» (De providentia, II, 4). Per Lavelle e Le Senne l’introspezione diviene un “approccio concreto al mistero dell’essere” (l’espressione è di Marcel, autore assai vicino alla «philosophie de l’esprit»), volto a cogliere una “dialettica della partecipazione” tra quel particolare essere che è l’uomo e la pienezza d’essere che è Dio: plenitudo L. LAVELLE, Le moi et son destin, Aubier, Paris, 1936; tr. it. di E. Valenziani, Studi sul pensiero contemporaneo, Bocca Editori, Milano, 1943, p. 106. L’opera fondamentale dove Le Senne analizza la dialettica della coscienza morale per l’affermazione del valore è Obstacle et Valeur. La description de conscience, Aubier, Paris, 1934; tr. it. di Augusto e Cordelia Guzzo, Ostacolo e valore: descrizione della coscienza, Morcelliana, Brescia, 1950. Il contributo della «philosophie de l’esprit» in ambito teoretico e morale è stato analizzato con particolare attenzione da Santino Cavaciuti, da Carla Canullo e da Sébastien Robert: mi limito ad indicare S. CAVACIUTI, Libertà e alterità nel pensiero di Louis Lavelle, Compagnia dei librai, Genova, 1996; C. CANULLO, Coscienza e libertà: itinerario tra Maine de Biran, Lavelle, Le Senne, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001; S. ROBERT, La philosophie de Louis Lavelle. Liberté et participation, L’Harmattan, Paris, 2007. Negli ultimi decenni il pensiero di Lavelle è stato oggetto di rinnovata attenzione anche grazie alla costituzione a Parigi nel 1989 dell’«Association Louis Lavelle», attualmente presieduta da Jean-Louis Vieillard-Baron.

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essendi et summum bonum. Nei due autori emerge, quindi, una forte sensibilità per il valore dell’esistenza umana nella sua unicità e non oggettivabilità da parte delle scienze umane e sociali. Nella «philosophie de l’esprit» convergono, in un fecondo intreccio, motivi tipici dello spiritualismo con istanze caratterizzanti anche la “filosofia dei valori”, l’esistenzialismo teistico e il personalismo. Sulla linea dell’atteggiamento filosofico tipico dello spiritualismo – come si è delineato “da Biran a Bergson” – e ampiamente connessa agli intellettuali della «philosophie de l’esprit», è la philosophie réflexive, della quale il già citato Jean Nabert è uno dei maggiori rappresentanti. Come già sottolineava Maine de Biran, al quale Nabert si richiama, la mediazione operata dalla riflessione dell’io su sé stesso è fondamentale per definire lo statuto dell’identità umana, la sua costitutiva libertà e creatività spirituale32. In partciolare, Nabert sostiene che la riflessione sia l’origine dei foyers attorno ai quali il soggetto si costituisce e grazie ai quali esso può cogliere le leggi e le norme dell’attività spirituale immanente a tutti gli ambiti. La riflessione indica, pertanto, la capacità che ha il soggetto di tornare a meditare su di sé, sul significato dei propri gesti e della propria attività coscienziale. Si può dire che la réflexion costituisca un movimento dialettico di “ritorno a sé” (simile per certi aspetti a quello neoplatonico dell’epistrophé o reditio), tramite il quale Si ricordi che Maine de Biran considera la “riflessione” come la facoltà più eminente dell’uomo, l’unica in grado di riportare al loro nucleo sorgivo - all’unità fondamentale dell’io - tutte le produzioni spirituali. L’analisi del “sistema riflessivo” costituisce la terza ed ultima parte del suo già citato Essai sur les fondements de la psychologie. Sugli sviluppi della philosophie réflexive in Nabert si vedano: R. NEBULONI, Certezza e azione. La filosofia riflessiva in Lagneau e Nabert, Milano, 1984; S. CAVACIUTI, Essere e libertà nella filosofia riflessiva di J. Nabert, Il Testimone Edizioni, Lucca, 1995; IDEM, Il dinamismo ontologico. Introduzione all’ontologia della filosofia riflessiva francese, Del Bucchia, Massarosa (LU), 1997. 32

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l’uomo si “riappropria” dei suoi atti, cercando di comprenderli e interpretarli in relazione alla loro genesi nell’interiorità. La “filosofia riflessiva” è da intendersi come «cammino dell’autoappropriazione»: Carla Canullo ha giustamente fatto notale che «tale cammino è sempre mediato perché l’io non si coglie tramite un’intuizione ma solo nel momento in cui interpreta i segni e i significati nei quali la coscienza, causalità incompiuta e mai trasparente a sé stessa, si oggettiva per comprendersi. L’ipotesi che la coscienza sia causalità incompiuta percorre tutta l’opera nabertiana»33. Lo stile di ricerca proprio della “filosofia riflessiva” è stato fatto proprio anche dall’allievo di Nabert, Paul Ricoeur, il quale se ne è servito per le sue ricerche sulla produttività del soggetto agente e sull’identità personale. In Ricoeur la filosofia riflessiva diviene una pratica di esercizio ermeneutico: «Per usare un altro linguaggio» – egli afferma – «diverso da quello di Nabert, ma sollecitato dalla sua opera: la riflessione non è una intuizione di sé da parte di sé, ma può e deve essere una ermeneutica»34. Ricoeur riprede e rielabora in senso C. CANULLO, Jean Nabert, in Enciclopedia filosofica, vol. 8, Bompiani, Milano, 2006, p. 7703. Nei suoi studi Carla Canullo ha analizzato con molta attenzione anche la trattazione nabertiana del male, una trattazione che ha esercitato una forte influenza su Ricoeur. Basti pensare all’interesse di Ricoeur per la “simbolica del male” e alla sua costante attenzione per lo “scandalo” della sofferenza umana, per il dramma dell’homo patiens. A tal proposito cfr. J. NABERT, Essai sur le mal, PUF, Paris, 1955; tr. it. e cura di C. Canullo, Saggio sul male, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001; C. CANULLO, L’estasi della speranza. Ai margini del pensiero di J. Nabert, Cittadella Editrice, Assisi, 2005. 34 P. RICOEUR, L’acte et le signe selon Jean Nabert, in «Études philosophiques», 3, 1962, pp. 339-349; L’atto e il segno secondo Jean Nabet, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Prefazione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano, 1999 3, pp. 225-237, p. 237. Sul confronto di Ricoeur con il suo maestro si veda anche P. RICOEUR, Postface de P. CAPELLE (éd.), Jean Nabert et la question 33

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ermeneutico la prospettiva di Nabert per il quale «il Cogito è essenzialmente posizione del sé da parte della coscienza agente»35.

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3. Emmanuel Mounier: personalismo comunitario e istanze di rivoluzione morale Nel 1932 Emmanuel Mounier fonda la rivista “Esprit”, il cui primo numero contiene quello che sarà considerato come il manifesto del movimento personalista, cioè l’articolo Refaire la Renaissance: questo scritto contiene l’invito ad impegnarsi per un “nuovo rinascimento”. Il “nuovo rinascimento” viene inteso da Mounier come tentativo di superare due tipi di scissioni che hanno caratterizzato la modernità: la prima scissione è di carattere speculativo e corrisponde al rigido dualismo tra spirito e materia, risalente a Cartesio, la seconda ha un carattere sociale. È la scissione marxista tra persona e comunità. Nella sua istanza di porre al centro dell’attenzione filosofica, politica e sociale la nozione di persona nella sua integralità, Mounier intende prendere le distanze sia dal marxismo, nel quale l’individualità del singolo viene sacrificata in nome delle esigenze della collettività (si pensi allo statalismo sovietico), sia dallo spiritualismo, che negando «ogni consistenza al mondo materiale»36 giunge a degli esiti dualistici e paradossali: «Il personalismo non è uno spiritualismo; tutt’altro: esso affronta ogni problema umano su tutta l’ampiezza du divin, Cerf, Paris, 2003 (questo volume contiene anche la bibliografia completa delle opere di Nabert). 35 J. NABERT, L’expérience intérieure de la liberté, cit., p. 157. 36 E. MOUNIER, Le Personnalisme, PUF, Paris, 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il Personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 43.

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dell’umanità concreta, a partire dalla più umile condizione materiale fino alla più alta possibilità spirituale»37. Per il personalismo «l’uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito: tutto intero “corpo” e tutto intero “spirito”»38. Di particolare importanza è l’indicazione che Mounier ci suggerisce per delineare correttamente la nozione di persona, indicazione che, come egli stesso afferma, «non può essere considerata una vera e propria definizione»39, poiché nella persona umana rimane sempre un qualcosa di “indefinibile” ed “ineffabile” che sfugge ad ogni rigida categorizzazione concettuale: «una persona è un essere spirituale costituito come tale da un modo di sussistenza e di indipendenza del suo essere; essa mantiene questa sussistenza mediante la sua adesione a una gerarchia di valori liberamente eletti, assimilati e vissuti con un impegno responsabile e una costante conversione; la persona unifica così tutta la sua attività nella libertà e sviluppa nella crescita attraverso atti creativi la singolarità della sua 37

Ibidem, p. 49. Due approfondite ricostruzioni storiografiche del movimento personalista, anche in relazione alle altre correnti filosofiche che caratterizzarono il clima culturale francese tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta si possono trovare nei volumi di A. LAMACCHIA, Mounier. Personalismo comunitario e filosofia dell’esistenza, Levante, Bari, 1993; G. CAMPANINI, Mounier. Eredità e prospettive, Studium, Roma, 2012. 38 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 43. Da notare è che anche Mounier - così come fecero gli spiritualisti - individua nel pensiero di Maine de Biran importanti anticipazioni di fondamentali tematiche del suo approccio filosofico: «Maine de Biran è il moderno precursore del personalismo francese. Egli rifiuta la meccanica mentale degli ideologi, che disperdevano l’esistenza concreta negli pseudo «elementi» del pensiero, e cerca l’io nello sforzo motore in virtù del quale noi pesiamo sul mondo. [...] Il pensiero di Maine de Biran ha notevolmente messo in luce le radici della persona e la sua zona d’emergenza» (ibidem, p. 36). 39 E. MOUNIER, Manifest au service du personnalisme, Aubier-Montaigne, Paris, 1936; tr. it. e cura di A. Lamacchia, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica, Bari, 1982, p. 65.

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vocazione».40 La persona è quindi una realtà spirituale inoggettivabile: «La persona non è un oggetto. Essa è anzi proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto»41. La persona è libertà e trascendenza: è una Weltoffenheit, è comunicazione, relazione con l’altro, radicamenteno nel concreto del vissuto e della storia, è incarnazione e trascendimento. Essa resta indefinibile, resta un “mistero”. La persona è apertura costitutiva all’incontro con l’altro da sé: è “capacità di accogliere” (puissance d’accueillir). Secondo Mounier la nozione di persona – da non confondersi con quella di individuo, con la quale generalmente si denota una soggettività “neutra”, dislocata alla “superficie” e quasi privata della sua ricchezza spirituale – viene connotata da tre dimensioni fondamentali: incarnazione, vocazione, comunione. “Incarnazione” indica il concreto radicamento della persona nella corporeità, con gli inevitabili condizionamenti psico-fisici, storici e culturali; la “vocazione” è intesa come “chiamata” alla piena realizzazione del sé, per una consapevole “missione” nel mondo; la “comunione” indica la fondamentale dimensione relazionale della persona, la sua apertura verso l’alterità, nella consapevolezza che “vivre c’est partager et s’engager avec les autres”, che la vita è condivisione con l’altro ed energico impegno sul piano etico-sociale. Di particolare interesse ed attualità sono gli studi di Mounier sul carattere umano: con penetrante esprit de finesse l’uomo viene indagato nelle sue sfumature caratteriali, espressione della Ibidem. Importanti studi sull’idea di persona in Mounier, che tentano di metterne in evidenza gli elementi che possono essere ancora validi e riproponibili anche nell’attuale contesto filosofico sono i seguenti: G. COQ (a cura di), Emmanuel Mounier. L’actualité d’un grand témoin, Parole et Silence, Paris, 2003; M. TOSO, Z. FORMELLA, A. DANESE (a cura di), Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale nel centenario della nascita (1905-2005), LAS, Roma, 2005. 41 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 29. 40

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sua singolarità unica ed irripetibile: «La psicologia è un campo vastissimo d’indagine, su questo campo il Mounier sceglie la sua prospettiva: il carattere, e ciò era naturale per un personalista. Il carattere è l’equivalente psichico della persona, il suo sfondo, il suo ambiente. La persona è singolare, non vi è una “scienza” della persona, così del carattere: vi può essere un tentativo di classificazione di tipi, una ricerca di strutture, ma il carattere di un uomo è sempre singolarità irripetibile»42. La caratterologia personalista si qualifica come studio sull’uomo considerato nella sua unicità fisica e spirituale, nella sua unità psico-somatica : «Non vi è sfumatura dello spirito» – egli afferma – «che non apra il varco ad un gesto del corpo, né movimento che non disegni nello spazio un gesto dello spirito»43. Va inoltre rilevato che l’analisi del carattere condotta da Mounier, pur tenendo conto anche dell’apporto delle ricerche psicologiche freudiane, cerca di andare al di là di esse, per non scadere mai in rigidi determinismi antropologici: «L’interpretazione che Freud dà del fatto psicologico riduce l’attività psichica umana al frutto di una A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, F.lli Bocca Editori, Roma, 1955, p. 54. 43 E. MOUNIER, Traité du caractère, Seuil, Paris, 1946; tr. it. di C. Massa e P. De Benedetti, Trattato del carattere, Ed. Paoline, vol. I, Roma, 1949, p. 42. La caratterologia proposta da Mounier si situa nell’alveo della tradizione moralistica francese che ha cratterizzato il Grand Siècle e non solo: «Con questo Trattato il Mounier, più che con ogni altra opera, si inserisce in una delle più vive tradizioni culturali francesi. L’indagine sull’uomo e, a volte, la curiosità dell’umano sono sempre stati una caratteristica del genio francese da quando costituirono la “voluptas” di Montagne, il punto di partenza di Cartesio, il mondo di Pascal, il personaggio di Molière o di Corneille» (A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, op. cit., p. 83). Con il Trattato del carattere Mounier si qualifica anche come uno scrittore “moralista”: egli è un autore che con originalità si inscrive all’interno di quella tradizione letteraria tipicamente francese - la moralistica - che si origina nel ’500 e si rinnova nel XX secolo con le opere di Camus, Sartre e Lévinas. 42

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connessione deterministica. Mounier non accetta questo determinismo causale, esso si trova nella vita psichica soltanto se vogliamo vedercelo [...]. Il vertice della persona è al di la di ogni condizione».44 É quindi da sottolineare che per una prospettiva personalistica come quella di Mounier il carattere non esaurisce affatto tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo: il mistero della persona umana non è completamente racchiuso nelle sue strutture caratteriali e “va al di là” di esse. Nell’uomo permane sempre un qualcosa di “inoggettivabile” che sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione anche da parte della caratterologia, delle scienze umane o di quelle sociali: si tratta di un quid impalpabile ed enigmatico che affonda le sue radici più profonde nella metafisica. In Mounier si può certamente rinvenire l’affermazione di una “metafisica della persona”, ma si tratta di una metafisica dal carattere “esigenziale e postulatorio”, ricca di elementi della spiritualità cristiana ma lontana dal tentativo di sistematica fondazione in ambito teoretico45: il personalismo è soprattutto un A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, cit., p. 59. Per Mounier «la psicologia freudiana pur essendo oggettiva, cioè fondata su dati sperimentali, postula come necessaria alla interpretazione del “profondo” un intuito soggettivo, un intervento personale extra-empirico da parte dello psicologo. Essa non ignora il rischio dell’avventura, ma poi finisce col comprometterlo nel ridurlo ad ingegnosa ricerca di determinismi nascosti» (ibidem). 45 Nei testi di Mounier non c’è un’esplicita fondazione filosofica del concetto di persona, né una definiziome univoca: vi sono piuttosto degli approcci di carattere ontologico ed etico tesi ad evidenziare il carattere di trascendenza della persona stessa. Nella sua chiarificazione del concetto Mounier si richiama anche al kantiano francese Charles Renouvier (cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 27): quest’ultimo ha criticato la nozione di persona come “sostanza” (tipica della tradizione aristotelico-tomista) e ha proposto una visione antropologica fondata sul concetto di relazione, individuando nella relazione stessa la “categoria suprema” della coscienza. Seguendo la tradizione kantiana Renouvier sostiene che il fondamento 44

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movimento di concreto impegno (engagement) sul piano sociale, politico e culturale. Per Mounier la persona deve divenire l’ideale regolativo dell’azione politica e della stessa attività culturale. Non è un caso che Mounier ha fatto sempre emergere la possibilità di declinare una “filosofia della persona” secondo differenti atteggiamenti speculativi e spirituali: parlando del personalismo egli preferisce dire che «ci sono dei personalismi» e sostiene che occorre «rispettarne i diversi cammini. Un personalismo cristiano e un personalismo agnostico, per esempio, differiscono fin nelle loro più intime strutture. […] Essi tuttavia si incrociano in certi campi del pensiero, in certe affermazioni fondamentali e in alcune manifestazioni pratiche, sia di ordine individuale sia di ordine collettivo: ciò basta a giustificare l’esistenza di un termine collettivo»46. Jean Lacroix, amico e collaboratore di Mounier, ha giustamente messo in rilievo che il personalismo è un’antiideologia: il concetto di persona sfugge a qualsiasi definizione metafisico della persona rimane inconoscibile, così come inconoscibile rimane la dimensione della libertà, da presupporre come dato fenomenologico non ulteriormente deducibile: la libertà della persona rimane un postulato della “ragion pratica” e l’oggetto di una salda “fede morale”. Mi pare che in Renouvier – come del resto in Mounier e nei suoi collaboratori Jean Lacroix e Paul Ricoeur – si avverta con evidenza la forte l’ispirazione delle definizioni di persona date da Kant soprattutto in senso etico e giuridico. Come è stato già ricordato nell’introduzione a questo volume, Renouvier fu il primo ad utilizzare il termine “personalismo” per definire la sua prospettiva filosofica: nel 1903 egli scrisse anche un’opera intitolata Le personnalisme. Sui diversi significati speculativi che hanno assunto i termini “persona” e “personalismo” nel corso della storia del pensiero la bibliografia è ormai cospicua, mi limito pertando ad indicare i seguenti volumi: ; V. MELCHIORRE (a cura di), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano, 1996; D. STURMA (a cura di), Person. Philosophiegeschichte. Theoretische Philosophie. Praktische Philosophie, Mentis Verlag, Paderborn, 2001; A. PAVAN (a cura di), Enciclopedia della persona nel XX secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009. 46 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 28.

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univoca e non può essere ingabbiato in uno schema ideologico univoco. È proprio l’inoggettivabilità del concetto a redendere il personalismo uno stile filosofico aperto all’apporto delle più diverse prospettive che hanno saputo mettere in luce gli aspetti più veri della condizione umana nella storia47. Mounier è tornato più volte a ribadire che il movimento personalista, come fenomeno storico-culturale, è nato in risposta alla crisi economica degli anni Venti (il crollo finanziario di Wall Street nel 1929 e le sue consegueze nei paesi occidentali) e si è posto, sin dalla sua genesi, in aperta denuncia contro i nascenti Stati totalitari europei, rivolgendo serrate critiche sia al nazionalismo fascista che al collettivismo marxista. Si comprende allora che in Mounier e negli intellettuali vicini al gruppo di “Esprit”, più che l’impegno di una fondazione della soggettività sul piano di un’astratta teoresi, viene avvertita con urgenza l’esigenza di un coinvolgente impegno per una rigenerazione della civiltà contro la barbarie, contro il “disorsine costituito” (le désordre établi): l’istanza di Mounier è quella di una “rivoluzione personalista e comunitaria” (révolution personnaliste et communautaire), così come indica il titolo di suo celebre volume del 1935. La rivoluzione personalista ha come finalità ideale la costituzione di un’umanità nuova, attenta ai valori della fratellanza e della solidarietà, senza dimenticare il contribito imprescindibile delle tradizioni spirituali e religiose 48. L’ideale Cfr. J. LACROIX, Le personnalisme comme anti-idéologie, PUF, Paris, 1972; tr. it. di E. Botto, Il personalismo come anti-ideologia, Vita e Pensiero, Milano, 1974. 48 Questa forma mentis di apertura e di accoglienza consentirà di sensibilizzare al personalismo anche intellettuali lontani dal cristianesimo: a tal proposito emblematico è certamente il caso di Mohammed Aziz Lahbabi (1922-1993), filosofo di origine marocchina e di fede islamica, che si è formato alla Sorbona di Parigi ed ha avuto contatti anche con il movimento di «Esprit». Aziz Lahbabi ha avuto il merito di far emergere anche nella cultura islamica un possibile approccio ai temi della persona e dei diritti 47

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che anima il movimento di “Esprit” è l’affermazione di una società che ponga al centro dell’attenzione il valore della persona nella sua integralità. La rivoluzione, della quale si parla non senza qualche eccesso di enfasi retorica, dev’essere per Mounier, allo stesso tempo, personalista e comunitaria: attenta cioè alle esigenze del singolo, ma tendente ad unire gli individui nella fratellanza della vita comunitaria. La comunità, luogo di realizzazione del koinós bíos, deve costituirsi come «persona di persone», ovvero «come integrazione delle persone nel rispetto totale della vocazione di ciascuno»49. Sul piano politicoeconomico, l’ideale del personalismo comunitario viene quindi proposto da Mounier come una possibile “terza via” – «une troisième force»50 – alternativa sia al capitalismo liberale che al marxismo sovietico. Questa “terza via” ha come punto di riferimento, in larga misura, il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon: la sua revisione del socialismo, unitamente alle sue istanze di federalismo e di un pieno coinvolgimento dei cittadini alla gestione della politica. Sulle ascendenze proudhoniane del movimento personalista è rimasto celebre questo aneddoto: nel 1934 Marcel Moré entrò nello studio di Mounier per proporgli un umani. Si vedano, in particolare, M.A. LAHBABI, De l’être à la personne. Essai de personnalisme réaliste, PUF, Paris, 1954; IDEM, Le personnalisme musulman, PUF, Paris, 1964; a cura di M. El Afrhani, Il personalismo musulmano, Jaca Book, Milano, 2017. Cfr. anche Mezri HADDAD, Réflexion sur l’islam et le christianisme dans leur rapport au personnalisme, in Didier DA SILVA - Ronan GUELLEC (éditeurs), La Personne à venir. Héritage et présence d’Emmanuel Mounier, Au signe de la Licorne, Clermont-Ferrand, 2002, pp. 73-93; G. ROCCARO, Lahababi e il concetto senza parola, in F. LA MANTIA – A. LE MOLI (a cura di), Persona, comunità, strategie identitarie, Palermo University Press, Palermo, 2019, pp. 259-27. 49 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Montaigne, Paris, 1935; tr. it. di L. Fua, Rivoluzione personalistica e comunitaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1949, p. 85. 50 Cfr. E. MOUNIER, Ni droite ni gauche, «Esprit», aprile 1934.

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articolo vicino a posizioni marxiste. La risposta di Mounier, che rifiutò cordialmente l’articolo, fu: «Grazie, ma qui siamo tutti proudohniani!»51. Va tuttavia sottolineato che il rapporto di Mounier con il marxismo non è di mera critica: da una parte, egli si oppone ai riduttivismi di tipo economicistico e collettivistico, dall’altra avverte l’esigenza di istaurare un “dialogo aperto”, riconoscendo al marxismo il merito di una tensione rinnovatrice in senso egualitario. Nel personalismo egli cerca, quindi, di recuperare gli aspetti più validi della critica marxista al capitalismo: «Ha ragione il marxismo ad affermare un certo primato dell’economico […]. J.-L. LOUBET DEL BAYLE, Les non conformistes des annés 30, Seuil, Paris, 1969; tr. it. di G. Armano e M. Arnoldi, I non conformisti degli anni Trenta, Cinque Lune, Roma, 1972, p. 167n. Sulla ricezione di Proudhon da parte di Mounier si veda D. BONDI, “Qui siamo tutti proudhoniani!” Federalismo ed europeismo nel movimento personalista, in G. D’ACUNTO – A. MECCARIELLO (a cura di), Mounier. Persona e comunità, Chirico Edizioni, Napoli, 2018, pp. 169-178. All’interno del movimento personalista è stato soprattutto lo svizzero Denis de Rougemont il convito sostenitore di un “federalismo integrale”, di ascendenza proudhoniana e critico verso la “sovranità westfalica”, ovvero lo Stato-nazione di concezione tardo-moderna, accentratore del potere. Rougemont, in merito, era molto chiaro: «L’ostacolo a qualsiasi possibile unione federale dell’Europa altro non è che lo Stato-nazione, il cui modello, integralmente centralizzato in vista della guerra, è stato creato da Napoleone, e imitato da tutti i popoli dell’Europa nel corso del XIX secolo»; esso è «il risultato della confisca di una mistica – la nazione – ad opera di un apparato amministrativo e poliziesco – lo Stato», che impone la coincidenza su uno stesso territorio, «deciso dalla sorte delle guerre e subito battezzato “suolo sacro della patria”, di realtà assolutamente eterogenee, come la lingua e l’economia, lo stato civile e lo sfruttamento del sottosuolo o, peggio ancora, le ideologie e le religioni, costrette ad arrestarsi a ridosso di una linea di filo spinato elettrificato» (D. DE ROUGEMONT, L’Un e le Divers ou La Cité européenne, La Baconnière, Neuchâtel, 1970; tr. it. di L. Feltrin e G. De Bortoli, L’uno e il diverso: per una nuova definizione del federalismo, Introduzione di G. Goisis, Edizioni Lavoro, Roma, 1995, pp. 5, 37-38).

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La prospettiva personalista si incontra in più punti con l’analisi marxista: l’uomo, che ha cominciato a divenire soggetto, sul piano politico, resta in genere oggetto sul piano della vita economica»52. Gli studiosi hanno spesso messo in luce la conpresenza in Mounier di due istanze, di due modi complementari di approcciarsi all’umano e al politico: il realismo e l’idealità. Dagli scritti dell’autore emergono sempre un “polo politico” e un “polo profetico”53. Quest’ultima dimensione appare soprattutto nelle critiche di Mounier al capitalismo liberista che fonda tutto «sulla potenza anonima del denaro»54 e nelle sue critiche alla tecnocrazia. Ecco alcune parole dal tono chiaramente profetico: «La grande prova del secolo consisterà certamente nell’evitare la dittatura dei tecnocrati, di destra o di sinistra, che sotto l’organizzazione dimenticano l’uomo (La grande épreuve du xxe siècle sera sans doute d’éviter la dictature des technocrates qui, de droite ou de gauche, oublient l'homme sous l’organisation)»55. Di notevole interesse sono anche le analisi condotte da Mounier sulle vicende politiche europee degli anni Trenta e Quaranta: sanno essere lucide nell’individuare la cause dei fenomeni ma consentono anche di porsi in una prospettiva di ulteriorità rispetto al dato storico contingente. Nel 1934 – l’anno E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., pp. 140-141. Si vedano, per esempio, G. GOISIS – L. BIAGI, Mounier fra impegno e profezia, Gregoriana, Padova, 1990; G. GOISIS, Polo politico e polo profetico nel personalismo di Mounier, G. D’ACUNTO – A. MECCARIELLO (a cura di), Mounier. Persona e comunità, cit., pp. 57-78. 54 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 141. 55 Ibidem, p. 142. Una serrata critica agli aspetti più disumani del capitalismo liberista è contenuta in un importante saggio di Mounier dal titolo: De la propriété capitaliste à la proprieté humaine, Seuil, Paris, 1946; tr. it. di L. Sollecito, Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana, Medusa Edizioni, Milano, 2018; cfr. anche L. NICASTRO, Il socialismo bianco. La via di Mounier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. 52 53

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seguente all’ascesa di Hitler al potere – Mounier pubblica un importante saggio dal titolo Pseudo-valori spirituali fascisti. In questo scritto egli individua con chiarezza le cause che hanno portato la Germania e l’Italia ai regimi totalitari e sa delineare con spirito, potremmo dire, “profetico” quelle sono le caratteristiche del “fascismo eterno” (espressione utilizzata da Umberto Eco). Mounier si rende conte che il fascismo è «una concezione globale della vita» fondata su ingannevoli valori spirituali. Queste le parole dell’autore francese: «Chiameremo fascismo, sul piano politico, sociale ed economico, una reazione di difesa che abbandona il liberalismo per un capitalismo di Stato, ma senza riesaminare i fondamenti stessi del capitalismo: primato del profitto, fecondità del denaro, potenza dell’oligarchia economica». Il fascismo – osserva Mounier – «tenta di sollevare il paese in una mistica vitale di salute pubblica e di grandezza nazionale, l’uno e l’altro raffigurati nella mistica di un uomo, capo del partito, incarnazione dello Stato, investito dell’autorità totalitaria, in nome dello Stato-partito e che esercita con l’autorità il governo degli uomini con l’appoggio di una polizia spirituale». Per Mounier il fascismo è uno «pseudo-umanesimo e uno pseudospiritualismo che sottomette l’uomo alla tirannide delle mistiche più ambigue: culto della razza, della nazione, dello Stato, della volontà di potenza, della disciplina anonima, del capo […] Nuovo materialismo, in fin dei conti». Facendo eco alle analisi di Max Weber sul leader carismatico e individuando i motivi sempre ritornanti del “populismo nazionalistico”, Mounier afferma che il fascismo è una «tentazione di facilità (tentation de facilité): quando il mondo diventa pesante e buio, com’è comodo passare la grana nelle mani di un uomo, aspettare la parola d’ordine e obbedirvi ciecamente sotto l’ebrezza dei discorsi eroici! […] Oggi esiste una tentazione fascista del mondo intero. […] La mistica del capo tende a soppiantare universalmente la mistica democratica». 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Delineando negli anni Trenta il progetto di una “rivoluzione personalista e comunitaria” Mounier ha utilizzato l’espressione programmatica: «dissociare lo spirituale dal reazionario (dissocier le spirituel du réactionnaire)»56. La persona umana, quale realtà spirituale, è apertura all’altro e al novum, è vocazione comunitaria che non ha nulla a che vedere con posizioni conservatrici, ciecamente tradizionaliste, nazionalistiche e identitarie. La “rivoluzione morale” prospettata da Mounier implica un programma di autentica rigenerazione spirituale che riconfigura anche il quadro dell’agenda politica, dando alla politica stessa delle finalità più alte. Come ha correttamente affermato Luigi Alici, Mounier avverte il dovere di «ridesignare un universo politico personalista, che antepone un’etica dei bisogni a un’economia dei consumi, professa il primato del lavoro umano sull’impersonalità del capitale; denuncia con forza ogni involuzione totalitaria, impegnandosi convintamente in favore di una democrazia con un’accentuata ispirazione federalista, capace di espandere quanto più possibile gli spazi di partecipazione diretta dei cittadini»57. Il personalismo – come sottolinea lo stesso Mounier – «è una filosofia ma non un sistema»58: più che un sistema esso designa un atteggiamento speculativo e pratico che pone al centro dell’interesse la persona umana nella sua globalità, dagli aspetti materiali e sociali a quelli più propriamente spirituali. Il filosofo francese è tornato più volte a ribadire che il personalismo non è un «sistema chiuso», né uno «schema intellettuale che attraverso

E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Montaigne, Paris, 1934; tr. it. L. Palli, a cura di A. Lamacchia, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica Editrice, Bari, 1984, p. 22. 57 L. ALICI, Il primato della persona: Mounier e Maritain, in IDEM, Filosofia morale, La Scuola, Brescia, 2011, pp. 252-255. 58 E. MOUNIER,, Il Personalismo, cit., p. 28. 56

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la storia permaga intatto»59: questo comporta che «il personalismo può sembrare inafferrabile a chi vi cerchi un sistema, mentre è prospettiva, metodo, esigenza»60. Il personalismo non è, dunque, un paradigma di pensiero chiuso e motivi personalistici possono essere rintracciati anche in altre tendenze filosofiche attente al valore del soggetto umano: «Si potrebbe così tracciare una tangente esistenzialistica del personalismo (che unirebbe Berdjaev, Landsberg, Ricoeur, Nédoncelle), una tangente marxista, a volte parallela alla prima, ed una tangente più classica, nella tradizione della riflessione francese (Lachièze-Rey, Nabert, Le Senne, Madinier, J. Lacroix)»61. Il personalismo si situa in tal modo nell’alveo della tradizione francese della philosophie réflexive, ma fa sue anche alcune delle istanze più positive dalle quali si originano l’esistenzialismo e il marxismo: «Il primo [l’esistenzialismo] ha ampiamente contributo a ravvivare alcuni problemi personalisti, quali la libertà, l’interiorità, la comunicazione, il senso della storia; il secondo [il marxismo] spinge il pensiero contemporaneo a liberarsi delle mistificazioni idealiste, a riportarsi alla condizione comune degli uomini, a collegare la più alta filosofia ai problemi della comunità moderna»62. Mounier ha pertanto cercato di realizzare una sintesi tra le istanze più genuine di Kierkegaard e di Marx, intellettuali che da punti di vista molto differenti hanno il merito di aver criticato l’individualismo borghese liberale, la società del consumismo e dell’indifferentismo etico: «Pare che quella che si potrebbe chiamare la rivoluzione socratica del XIX secolo, la rivolta contro tutte le forze moderne di spersonalizzazione dell’uomo, si sia E. MOUNIER, Qu'est-ce que le personnalisme?, Seuil, Paris, 1946; tr. it. di G. Mottura, Che cos’è il personalismo?, Einaudi, Torino, 1975, p. 14 60 Ibidem, p. 113. 61 E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 22. 62 Ibidem. 59

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spezzata in due tronchi: l’uno, con Kierkeagaard, richiama l’uomo moderno, stordito dalla scoperta e dallo sfruttamento del mondo, alla coscienza della sua soggettività e della sua libertà; l’altro, con Marx, denuncia le ingiustizie a cui lo trascinano le strutture sociali fondate sulla sua condizione materiale e gli ricorda che il suo destino non è affidato solamente al suo cuore, ma anche alle sue mani. Funesta frattura! Le due linee andranno sempre più divergendo, e il compito del nostro secolo è forse non già di riunirle là dove esse non possono più incontrarsi, ma di risalire al di là della loro divergenza, verso l’unità che esse hanno bandito».63 Mounier morì nel 1950, a soli 45 anni, e non potè sviluppare ulteriormente le profonde intuizioni contenute nei suoi scritti. Tuttavia il seme gettato non andò perduto: basti pensare la rivista “Esprit” è attiva ancora oggi e che in molti paesi europei e dell’America latina si sono costituite, nel corso degli anni, numerose associazioni e gruppi di ricerca che hanno inteso proseguire ed aggiornare la forma di impegno culturale proposta da Mounier. Nelle pagine finali di questo volume – prima della bibliografia scientifica – sono state indicate le più rilevanti associazioni filosofiche e politiche, ancora attive, che si richiamo al pensiero di Mounier. 4. Mounier e Ricoeur: un rapporto di amicizia e di “fedeltà creatrice” Ricoeur da giovane entrò in rapporto di amicizia con Mounier e collaborò con la rivista “Esprit”, condividendo gli ideali di una filosofia non meramente accademica ma impegnata sotto il profilo spirituale e sociale. Nelle sua autobiografia intellettuale egli ci fa sapere che «alla sequela di Mounier apprese ad articolare […] il 63

E. MOUNIER, Il Personalismo, cit., p. 28.

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congiungimento tra persona e comunità, […] un progresso inedito rispetto a quella sorta di riserva [nei confronti dell’engagement], che veniva incoraggiata dai filosofi di mestiere»64. Come fa notare Attilio Danese, «la feconda amicizia tra Ricoeur e Mounier […] prima di svilupparsi sul piano filosofico, si è nutrita di comunanza di ideali e di impegni di vita, nella sintonia profonda generata da una testimonanza di fede, dal rispetto delle diverse confessioni religiose [Mounier era cattolico, Ricoeur calvinista], dalla comune ricerca della verità, dalla scelta di vivere insieme, fra famiglie sin dal 1945 nell’appezzamento di terreno “Les Murs Blancs” acquistato nella periferia parigina (Châtenay Malabry), dove tuttora [Danese scriveva questo saggio negli anni Ottanta] vivono i coniugi Ricoeur con i Fraisse, i Domenach, la signora Paulette vedova di Mounier e altre due famiglie. Il rapporto tra Ricoeur e Mounier più che essere un confronto di filosofi e di Weltanschauungen è soprattutto un riconoscersi nella stessa volontà di cambiamento […], nello stesso analito a concepire la vita come impegno per l’uomo, è un’amicizia combattiva a favore di un nuovo assetto sociale e politico»65. Nel 1950 Ricoeur pubblicò sulla rivista “Esprit” un importante saggio nel quale cerca di continuare con Mounier «il dialogo interrotto»66 dalla sua morte improvvisa. Ricoeur riconosce al suo

P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Jannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 29. 65 A. DANESE, Il personalismo e l’ermeneutica di P. Ricoeur, in A. DANESE (a cura di), La questione personalista. Mounier e Maritain nel dibattito per un nuovo umanesimo, Prefazione di A. Pavan, Città Nuova, Roma, 1986, pp. 116-149, p. 116. 66 P. RICOEUR, Emmanuel Mounier: une philosophie personnaliste, in «Esprit», 174, 1950; il saggio è stato riportato anche in Histoire et Vérité, Seuil, Paris, 1955, pp. 135-163; tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Emmanuel Mounier: una filosofia personalista, in Storia e verità, Introduzione 64

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amico e maestro il grande merito di aver saputo coniugare la ricerca filosofica con l’analisi storico-sociale di una crisi, una crisi che già nei paesi occidentali degli anni Trenta andava assumento una triplice fisionomia: collettivismo marxista (in Russia), totalitarismo nazi-fascista (in Italia e in Germania), individualismo capitalistico-borghese (in Inghilterra e in America). «La sua grande forza» – scrive Ricoeur a proposito di Mounier – «è quella di avere, nel 1932, legato dall’origine la sua maniera di filosofare alla presa di coscienza di una crisi di civiltà e di aver osato minare, al di là di ogni filosofia scolastica, ad una nuova civiltà nella sua totalità»67. Ricoeur condivide soprattutto il modo in cui Mounier presenta il personalismo: non un esercizio di filosofia accademica, ma un’istanza di pensiero engagé e in grando di dare delle risposte alla crisi: «è molto notevole il fatto» – egli scrive ancora nel 1950 – «che l’aggettivo personalista qualifichi prima di tutto una civiltà, un compito civilizzatore»68. Del personalismo di Mounier il giovane Ricoeur fa sua l’istanza fondamentale del combat pour l’homme in vista dell’edificazione di una civiltà diversa: Refaire la Renaissance. «Ponendosi al di sopra di una problamatica filosofica in senso stretto, al di sopra delle questioni del punto di partenza, di metodo e di ordine», il grande contributo di Mounier al pensiero contemporaneo – afferma Ricoeur – è stato «quello di offrire ai filosofi di professione una matrice filosofica, di proporre loro delle totalità, delle tenute teoriche e pratiche capaci di una o più sistematizzazioni filosofiche. È qui, per molti di noi, il nostro vero debito nei confronti del nostro amico»69. all’edizione italiana di P. Ricoeur, Costantino Marco Editore, Lungro di Cosenza, 1994, pp. 143-180, p. 143. 67 Ibidem, p. 145. 68 Ibidem 69 Ibidem, p. 147. Sul “debito” di Ricoeur nei confronti di Mounier si vedano: A. DANESE, Da Mounier a Ricoeur. Itinerari di riflessione, in V.

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Negli anni della maturità, tuttavia, Ricoeur si rende conto che il personalismo non è riuscito a vincere «la battaglia del concetto (la battaille du concept)»70: in un importante saggio del 1983 egli afferma giustamente che «la costellazione di –ismi, nella quale il personalismo s’è lasciato inquadrare o s’è deliberatamente inscritto, è stata completamente suparata da un’altra moda culturale forte begli anni ’60. […] La moda degli strutturalismi. Di colpo, l’idea di un regno a tre: “personalismo-esistenzialismomarxismo” – così spesso considerata da Mounier come caratteristica duratura di un’epoca – assume […] la figura di un’illusione»71. Ricoeur è ben consapevole del fatto che lo strutturalismo sviluppatosi in Francia dagli anni Sessanta in poi – e quindi le differenti tedenze filosofiche che si sono richiamate ai “maestri del sospetto” (quali il decostruzionismo e il postmodernismo) –hanno considerato la triade “personalismoesistenzialismo-marxismo” come «varianti di uno stesso umanismo (parola squalificata sopra tutte)»72, da superare ed archiviare. In quello stesso contribito scritto per il cinquantenario della rivista «Esprit» – Meurt le personnalisme, revient la personne – Ricoeur prende le distanze da certi atteggiamenti di eccessiva MELCHIORRE (a cura), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 381-430; D. JERVOLINO, Ricoeur e Mounier: eredità e futuro, in P. RICOEUR, Emmanuel Mounier: l’attualità di un grande testimone, Città Aperta, Troina (En), 2005, pp. 7-52; G. D’ACUNTO, Il debito della giustizia. Il personalismo comunitario di Mounier nell’ottica di Ricoeur, in G. D’ACUNTO – A. MECCARIELLO, Mounier. Persona e comunità, Chirico Edizioni, Napoli, 2018, pp. 239-251. 70 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, cit., pp. 21-36, p. 22. 71 Ibidem, pp. 22-23. 72 Ibidem, p. 23.

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militanza del movimento al quale da giovane fu vicino e considera, quindi, quasi un bene la “morte” del personalismo. Allo stesso tempo però egli non esita a sottolineare la possibilità sotto il profilo teoretico, l’attualità e anzi l’urgenza stessa di un pensiero filosofico incentrato attorno alla nozione di persona: «Se la persona ritorna» – egli scrive – «ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»73. Un simile atteggiamento di pensiero viene espresso da Ricoeur anche nella Prefazione ad un volume di Attilio Danese sugli elementi più vitali delle istanze personaliste di Mounier. In quell’occasione Ricoeur ha ribadito che la prospettiva di Mounier contiene «risorse inesplorate suscettibili di ulteriori sviluppi creativi» e che «una lunga carriera resta aperta alla filosofia della persona»74; e aggiunge: «Il personalismo può essere passato di moda, ma la problematica della persona gli sopravvive. E se il personalismo ha potuto pregiarsi di essere una filosofia aperta, definita solamente a grandi linee da attitudini di rifiuto importanti: – quello di uno spiritualismo disincarnato, quello di un individualismo dimentico dei rapporti con gli altri, o quello di un anarchismo etico ribelle a qualsiasi riferimento ad una gerarchia di valori, – è perché la persona stessa sfugge alla disciplina delle definizioni usuali». Il compito filosofico che lo stesso Ricoeur si è posto e che egli lascia in eredità ai posteri è il dovere speculativo ed etico di «“pensare di più” le molteplici dialettiche che sottostanno al dinamismo creativo della persona. Alcune di queste dialettiche sono ben note: tensione tra il movimento 73

P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. 74 P. RICOEUR, Prefazione (tr. it. di A. Airoldi) al volume di A. DANESE, Unità e pluralità. Mounier e il ritorno alla persona, Città Nuova, Roma, 1984.

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d’incarnazione e quello di trascendenza, tra il raccoglimento nella solitudine e la cura di altri, tra la ricapitolazione in un progetto creativo e la frammentazione nelle varie oggettivazioni, tra l’impegno “orizzontale” e l’aspirazione “verticale”»75. Il rapporto di Ricoeur nei confronti di Mounier può essere compreso nei termini di una “fedeltà creatrice”. In particolare, nell’elaborazione di una philosophie de la personne, uno degli elementi che Ricoeur aggiunge rispetto alla prospettiva di Mounier è quello del ruolo fondamentale dell’istituzione (nelle sue forme pubbliche e private). Quest’ultima, infatti, gioca un ruolo etico che, per molti aspetti, è imprescindibile e non può essere sottovalutato: l’istituzione è quel medium che mi permette di raggiungere e di soccorrere tutte quelle forme di alterità bisognose e che non appertengono alla rete delle mie relazioni familiari o di amicizia. Sono tutti questi casi di alterità che per me restano senza un volto: il bisognoso, l’indigente e lo straniero che rimangono lontani da me e che io non riesco a vedere. Mentre Mounier proponeva una dialettica etica di due termini – persona e comunità –, avendo delle riserve nei confronti del mondo istituzionale, Ricoeur propone una formula a tre termini: «l’ethos della persona» – egli afferma – è ritmato da una struttura ternaria: «stima di sé, sollecitudine per l’altro, auspicio di vivere all’interno di istiuzioni giuste»76; la vita etica presuppone pertanto una triplice forma di cura: «cura di sé, cura dell’altro, cura dell’istituzione»77. Anche confrontandosi criticamente con la 75

Ibidem P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, p. 71. 77 Ibidem, p. 64. Ricordando gli anni della sua collaborazione alla rivista «Esprit», Ricoeur ricorda che per Mounier e la sua cerchia «la peculiarità del rapporto istituzionale risultava occultata dalla utopia di una comunità, che in qualche modo era l’estrapolazione dell’amicizia» (ibidem, p. 46). 76

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Theory of Justice di John Rawls, Ricoeur sostiene che solo l’istituzione è quella “persona giuridica” che può garantire un reale embodiment della giustizia sociale. Un’autentica “filosofia della persona” non può, pertanto, non tener presente il momento fondamentale della “cura per l’istituzione”. Secondo Ricoeur il limite del personalismo di Mounier è stato quello di sovrapporre il ruolo della comunità al momento della mediazione istituzionale, finendo così per proporre una irrealizzabile «utopia della comunità»78, quasi un’estensione all’infinito dei rapporti privati di amicizia; mentre il limite dell’americano Rawls – afferma giustamente Ricoeur – è stato quello di un proceduralismo eccessivamente formalistico e impersonale. Per Ricoeur l’idea rawlsiana di giustizia avrebbe il limite di non «elevarsi al livello di un riconoscimento vero e di una solidarietà in cui ciascuno si sente in debito verso ognuno»79. Il filosofo francese – nell’ultima fase della sua produzione e segnatamente nelle raccolte di scritti Le Juste I (1995) e Le Juste II (2001) – tenta di riformulare la prospettiva di Rawls sostituendo al piano procedurale della giustizia come distribuzione il piano deontologico della giustizia come riconoscimento dell’altro quale mio simile. 5. Jacques Maritain: metafisica della persona, umanesimo integrale e “democrazia personalista” P. RICOEUR, Della persona, in IDEM, La persona, cit., p. 46. P. RICOEUR, Liebe und Gerechtigkeit. Amor et Justice, Mohr, Tübingen, 1990; tr. it. di I. Bettoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 28. Sulla ricezione critica della theory of justice di Rawls da parte di Ricoeur mi limito ad indicare M. HARKIRAT MANN, Ricoeur, Rawls, and Capability Justice. Civic Phronesis and Equality, Continuum, London New York, 2012; C. COTIFAVA, De justitia. Una lettura sul tema in Paul Ricoeur, «Etica & Politica / Ethics & Politics», 2, XVIII, 2016, pp. 349388. 78 79

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Tra in collaboratori di Mounier alla rivista “Esprit” ci fu anche Jacques Maritain (1882-1973). Anche quest’ultimo ha messo in rilievo la possibile pluralità di filosofie incentrate attorno alla nozione di persona: «Nulla sarebbe più falso» – afferma Maritain – «che parlare del “personalismo” come di una scuola o di una dottrina. È un fenomeno di reazione contro due opposti errori (totalitarismo e individualismo), ed è un fenomeno inevitabilmente molto misto»80. Secondo Maritain «non c’è una dottrina personalista, ma ci sono aspirazioni personalistiche e una buona dozzina di dottrine personalistiche, che non hanno talvolta in comune se non la parola persona […]. Ci sono personalismi a tendenza nietzscheana e personalismi a tendenze proudhoniane, personalismi che tendono alla dittatura e personalismi che tendono all’anarchia. Una delle personalismo tomista [teorizzato dallo stesso Maritain] è di evitare l’uno e l’altro eccesso»81. Come è stato in parte rilevato, in Mounier e più in generale nel personalismo francese la nozione di persona non trova forse un adeguato approfondimento circa il suo fondamento metafisico: è soprattutto nella prospettiva tomista di Maritain, che la soggettività umana viene indagata in relazione alla metafisica classica, ovvero alle sue condizioni di possibilità sul piano ontologico. Maritain – come recita il titolo di una sua opera del 1947 – percorre un itinerario speculativo che va “da Bergson a Tommaso d’Aquino”82. Come l’autore afferma in uno scritto autobiografico, furono le lezioni di Bergson a spingere il giovane 80 J. MARITAIN, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Paris, 1947; tr. it. di M. Mazzolani, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia, 19632, p. 8 [nel 2009 il volume è giunto alla dodicesima riedizione]. 81 Ibidem 82 Cfr. J. MARITAIN, De Bergson à Thomas d’Aquin: essais de métaphysique et de morale, Hartmann, Paris, 1947; tr. it. di R. Bartolozzi, Introduzione di V. Possenti, Da Bergson a Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano, 1980.

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Maritain e la sua futura moglie Raïssa al oltepassare il “materialismo biologico” per aderire ad un’impostazione filosofica di carattere metafisico: «Fu Bergson il primo a dare una risposta al nostro profondo bisogno di verità metafisica, liberando in noi il senso dell’assoluto. Prima di essere conquistato da S. Tommaso d’Aquino, subii importanti influenze, ad opera, soprattutto, oltre che del Bergson, di Charles Peguy e di Léon Bloy. Un anno dopo il nostro incontro con Bloy, io e mia moglie ricevemmo il battesimo cattolico, scegliendo lui come padrino. Fu dopo la conversione al cattolicesimo che presi conoscenza del pensiero di S. Tommaso»83. Secondo Maritain «la filosofia tomista è una filosofia esistenziale»84: non si rivolge alle essenze astratte come avviene nel platonismo, ma all’ente nella sua concretezza esistenziale che, per l’intelligenza umana, è rinvio costitutivo al suo fondamento trascendente: Deus plenitudo essendi et creator ex nihilo. La metafisica tommasiana, nel suo volgersi all’ente in quanto ente, si indirizza soprattutto all’esistenza, all’atto di esistere (actus essendi) che ogni cosa esercita e mendiate il quale si tiene fuori dal nulla. Rispetto all’ontologia greca di un Parmenide o di un Aristotele, la novità della metafisica di Tommaso sta tutta in questo riferimento all’esistenza, alla visione dell’essere non come “morta cosa”, ma come esse ut actus: come nota anche Maritain, «i platonici tendono generalmente a limitare l’oggetto dell’intelligenza umana alle essenze, mentre la direzione profonda 83 J. MARITAIN, I Believe, in L.R. WARD (ed.), The Social and Political Philosophy of Jacques Maritain, Charles Scribner’s Sons, New York, 1955; tr. it di L. Torossi, Confessione di fede, in W. BURNETT (a cura di), Questa è la mia filosofia, Bompiani, Milano, 1959, pp. 312-327, p. 312. 84 J. MARITAIN, Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la raison spéculative, Libraire Téqui, Paris, 1934; tr. it. di M. Bracchi, M. Inzerillo, L. Frattini, Sette lezioni sull’essere e sui primi princìpi della ragione speculativa, Introduzione di V. Possenti, Editrice Massimo, Milano, 1981, p. 52.

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della filosofia di San Tommaso porta l’intelligenza, la filosofia, e la metafisica, non solo alle essenze, ma anche all’esistenza, a questo termine perfetto e perfettivo, a questo estremo completamento dell’essere»85. Cercando di far convergere in una feconda sintesi l’intuizionismo bergsoniano con l’ontologia tommasiana, Maritain pone a fondamento della sua posizione «l’intuizione metafisica dell’essere»86. Presupposto della conoscenza metafisica è per Maritain «l’intuizione intellettuale di quella misteriosa realtà che si dissimula sotto il termine più comune e più banale del nostro linguaggio. La parola essere»87: l’essere che è a fondamento della soggettività umana è colto tramite un originario atto intuitivo che è al vertice «di un’intellezione astrattiva, di una visualizzazione eidetica [...] illuminatrice e pura. [...] Si tratta di fortuna o di dono, o forse di docilità alla luce»88. Maritain riprende certamente da Bergson la critica al positivismo materialista e fa propria l’istanza di una filosofia che prenda in esame le dimensioni inoggettivabili dell’interiorità umana: tuttavia, quando parla di intuizione intellettuale Maritain tiene a rimarcare che è lontano dal bergsonismo e da forme di volontarismo. Quando questi parla di intuizione non intende affatto riferirsi ad un atteggiamento irrazionale: «l’essere procura una tale intuizione non già a quella specie di simpatia, di cui parla Bergson, la quale esige una torsione della volontà su stessa; è invece all’intelligenza che l’essere procura l’intuizione stessa, e per mezzo di un concetto, di un’idea»89. Ibidem, p. 48. J. MARITAIN, Court traité de l’existence et de l’existant, Hartmann, Paris, 1947; tr. it. di L. Vigone, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia, 19984, p. 26. 87 Ibidem, p. 21. 88 Ibidem, p. 22. 89 J. Maritain, Sette lezioni sull’essere e sui primi princìpi della ragione speculativa, cit., p. 75. 85 86

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L’intuizione intellettuale corrisponde alla rivelazione stessa che l’essere fa all’intelligenza umana: si tratta di «un dono fatto all’intelletto […] e necessario a ogni metafisico»90. Ecco alcune parole di Maritain particolarmente incisive tese a delineare l’attimo dell’intuizione noetica, un ἐξαίφνης che ogni uomo può vivere innanzi alle cose sublimi quanto a quelle più umili: «Abbiamo davanti a noi le cose, le diverse realtà conosciute mediante i sensi o le varie scienze, e a un certo momento riceviamo come la rivelazione di un mistero intelligibile nascosto in quelle cose, e talvolta questa rivelazione, questo urto d’intelligibilità si produce anche in intelletti non metafisici; non è riservato ai metafisici. C’è una specie di intuizione improvvisa della propria esistenza o dell’essere inviscerato in tutte le cose, anche nelle più umili, che un’anima può ricevere, e può anche avvenire che in questa o quell’anima tale percezione intellettuale si presenti sotto le apparenze di una grazia mistica»91. L’intuizione corrisponde ad un’illuminazione improvvisa dell’atto d’essere (actus essendi) sul quale si staglia l’esistenza della persona: sotto il profilo epistemologico la metafisica della persona è, quindi, affermata tramite la facoltà dell’intuizione, un’improvvisa luce dell’intelletto che illumina il mistero dell’essere e della nostra esistenza. L’intuizione (termine che letteralmente indica un “intus ire”, un “andar dentro”) è per Maritian una vigorosa capacità penetrativa in grado anche di far scorgere all’uomo che il fondamento ontologico e metafisico della sua esistenza è in Dio quale “pienezza d’essere” ed “essere di per sé sussistente” (Ipsum Esse Subsistens), secondo le definizioni di Tommaso, riprese e commentate dal filosofo francese. Per indicare il “fondo d’essere” del soggetto Maritain utilizza anche il termine suppositum tipico della tradizione tomista: «San Tommaso chiama “supposito”, suppositum, ciò che noi 90 91

Ibidem, p. 76. Ibidem

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chiamiamo soggetto. [...] Il supposito è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, – actiones sunt suppositorum – chi sussiste. Ci imbattiamo qui in quella nozione metafisica [...] contro la quale urtano tutti coloro che non hanno compreso il vero fondo – esistenziale – della metafisica tomista: la nozione di sussistenza»92. L’atto d’essere dell’uomo “sussiste” nell’essere perfetto di Dio: ciò significa che l’esistenza personale è in ogni istante “sorretta” dal suo creatore. Maritain seguendo San Tommaso afferma che l’essere finito di ogni creatura dipende totalmente dall’essere infinito di Dio93: questo comporta che se per un solo istante Dio abbandonasse l’uomo, esso precipiterebbe nel nulla. Com’è noto, Maritain considera San Tommaso come un “filosofo dell’esistenza”, come colui che ha saputo intuire più in profondità la natura dell’esistere umano in rapporto al suo fondamento assoluto, all’essere stesso di Dio. Richiamando 92

J. MARITAIN, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, op. cit., p. 51. Si ricordi che il termine suppositum designa la nozione metafisica - tipica della scolastica - di sussistenza della persona nell’essere. É in particolare Tommaso d’Aquino a sviluppare il concetto di persona come suppositum rationale (cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 29, art. 3). Nella tradizione scolastica il suppositum è l’ente assunto nella compiuta e imprescindibile individualità che gli è data dal suo proprio essere, dal suo actus essendi, per cui esiste come altro da ogni altro. Si noti inoltre che il concetto di suppositum ha delle evidenti analogie con quello di subiectum (dal quale deriva la parola italiana “soggetto”): sia suppositum che subiectum significano letteralmente “cio che sta sotto”, e sono concetti che si possono ricollegare alla nozione aristotelica di ὑποκείμενον. Quest’ultimo è un termine utilizzato da Aristotele per indicare il “sostrato” del mutamento, ciò che vi è di persistente in un ente che muta. 93 Come la prospettiva di Tommaso d’Aquino, anche quella di Maritain può essere definita come una “metafisica della partecipazione”: si tratta della dottrina secondo la quale la creazione tutta è in un rapporto di diretta partecipazione ontologica con Dio (plenitudo essendi). Tutti gli enti dipendono cioè dell’essere di Dio: nell’uomo, che è imago Dei, questo rapporto di dipendenza e di partecipazione giunge a piena consapevolezza.

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quindi la posizione dell’Aquinate nella sua originaria vitalità e inserendosi esplicitamente nella tradizione del pensiero cristiano, Maritain può affermare che «la persona umana ha una dignità assoluta poiché è in una relazione diretta con l’assoluto nel quale solo può trovare il suo pieno compimento. [...] É questo il mistero della nostra natura che il pensiero religioso designa quando dice che la persona umana è l’immagine di Dio. Il valore della persona, la sua libertà, i suoi diritti, dipendono dall’ordine delle cose naturalmente sacre che portano l’impronta del padre degli esseri e che hanno in lui il termine del loro movimento»94. Contro ogni riduzionismo antropologico di tipo materialista Maritain sottolinea che «l’uomo esiste non soltanto fisicamente» poiché «c’è in lui un esistere più ricco e più elevato, una sopraesistenza spirituale nella conoscenza e nell’amore»95. La proposta di Maritain può essere definita come un «personalismo ontologico»: la sua “filosofia della persona” costituisce una specificazione della sua philosophie de l'être. Questo elemento è stato colto ed approfondito in maniera originale anche da Vittorio Possenti, attento studioso di Maritain e traduttore in italiano di molte sue opere. In Maritain, come del resto in Possenti, «pensare l’essere e pensare la persona si collocano sullo stesso asse per un duplice motivo: il livello più alto dell’esistenza è l’esistenza in forma personale, nel senso che J. MARITAIN, Les droits de l’homme et la loi naturelle, Éditions de la Maison Française, New York, 1942; tr. it. di G. Usellini, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano, 1979, pp. 5-6. L’umanesimo di Maritain ha certamente un carattere teocentrico e si sviluppa a partire dalla considerazione tommasiana della persona umana come vertice della creazione in virtù della sua natura razionale e della sua libertà: a tal proposito si ricordi la celebre definizione del concetto di persona data dall’Aquinate, richiamata più volte da Maritain nei suoi scritti: «persona significat id quo est perfectissimum in tota natura scilicet subsistens in rationali natura» (TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 29, art. 3). 95 J. MARITAIN, I diritti dell’uomo e la legge naturale, cit., p. 4. 94

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la persona costituisce l’essere più perfettamente essente; la persona esiste e non può che esistere se non nella forma della conoscenza, comprensione e apertura all’essere. […] La persona è nell’essere e ne costituisce la più alta concretizzazione, il “principio-persona” non fa che portare a compimento il paradigma della metafisica dell’essere»96. Così come voleva anche Mounier, Maritain pone al centro della sua prospettiva filosofica la persona considerata nella sua interezza, cioè simultaneamente nelle sue componenti: psichica, biologica, sociale e spirituale. La proposta di Maritian è perciò quella di un “umanesimo integrale” (humanisme intégral) 97: si tratta di una filosofia che vuole porre al centro della sua indagine l’uomo senza tralasciare qualche aspetto o senza ritenerne qualcuno come assoluto, sia esso di carattere materiale o spirituale. Una delle caratteristiche dell’impegno culturale di Maritain è anche costituita dalla rivendicazione del carattere umanistico che, secondo il filosofo, le scienze umane e sociali dovrebbero tornare ad assumere: le ricerche di carattere psicologico, pedagogico, sociologico e anche quelle di carattere politico ed economico non devono chiudersi in metodologie che mettono “tra parentesi” e quasi escludono l’umanità e la spiritualità della persona. Maritain vuole evitare il rischio di un’antropologia parziale o riduttiva. Egli ispirandosi direttamente a San Tommaso ripropone una visione della persona umana nella sua integralità e nel suo armonico rapporto con sé stessa, con gli altri e con la natura che la circonda: criticando tanti aspetti della modernità filosofica e cercando di dare una risposta agli intellettuali suoi contemporanei intenti a mettere in luce quasi solo gli aspetti drammatici e V. POSSENTI, Il nuovo principio persona, Armando, Roma, 2013, p. 28. Cfr. J. MARITAIN, Humanisme intégral: problèmes temporels et spirituels d'une nouvelle Chrétienté, Aubier, Paris, 1936; tr. it. di G. Dore, Umanesimo integrale, Presentazione di P. Viotto, Borla, Torino, 1962. 96 97

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paradossali dell’esistenza, Maritain torna a considerare l’uomo in una prospettiva cristiana, ottimistica e aperta alla speranza. Anche in Maritain - come in Mounier - è inoltre molto forte l’impegno sul piano della teorizzazione politica e sociale: questa viene svolta nella consapevolezza che «non possiamo essere uomini e divenire uomini senza andare in mezzo agli uomini; non possiamo accrescere in noi la vita e l’attività senza respirare con i nostri simili»98. La prospettiva di un umanesimo integrale è, quindi, ricca di concrete indicazioni anche di carattere politico ed istituzionale: per Maritain la democrazia non deve limitarsi solamente ad aspetti procedurali ma deve essere una “democrazia sostanziale”, una “democrazia dei valori”. In un importante volume come Man e the State, pubblicato nel 1951 – negli anni del suo soggiorno negli Stati Uniti –, Maritain teorizza compitamente una «democrazia personalista» nella quale «ciascuno è chiamato, in virtù della comune dignità della natura umana, a partecipare attivamente alla vita politica»99. Opponendosi ad ogni forma di machiavellismo politico, Maritain ha ribadito sempre energicamente che “il potere è servizio” e che la politica deve tendere al bene comune, creando le condizioni di possibilità per lo sviluppo della persona umana in tutti i suoi aspetti costitutivi, da quelli materiali a quelli spirituali. J. MARITAIN, I diritti dell’uomo e la legge naturale, cit., p. 8. J. MARITAIN, Confessione di fede, cit., p. 321. Cfr. anche J. MARITAIN, Man and the State, Chicago, University of Chicago Press, Chicago, 1951; tr. it. di L. Frattini, L’uomo e lo Stato, Introduzione di V. Possenti, Marietti, Genova, 20033. La bibliografia sulla «democrazia personalista» teorizzata da Maritain, anche in relazione al grande tema del giusnaturalismo, è molto ampia. Mi limito pertanto ad indicare i seguenti testi: V. POSSENTI, Una filosofia per la transizione. Metafisica, persona e politica in J. Maritain, Massimo, Milano 1984; Y. FLOUCAT, Maritain ou le catholicisme intégral et l’humanisme démocratique, Téqui, Paris, 2003.; D. LORENZINI, Jacques Maritain e i diritti umani. Fra totalitarismo, antisemitismo e democrazia (1936-1951), Brescia, Morcelliana, 2012.

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Il “personalismo ontologico” di Maritain è, dunque, ricco di implicazioni etico-pratiche estremamente significative. In maniera simile a Mounier, anche se con differenti accentuazioni100, egli sottolinea questo elemento orientativo fondamentale: il vertice della persona umana è di natura metafisica, e pertanto sfugge ad ogni forma di radicale determinismo, sia esso linguistico, storicoculturale o politico. Maritain e Mounier hanno sempre messo in rilievo il primato della persona nei confronti dello Stato: l’individuo nelle sue libertà fondamentali non può mai essere fagocitato da uno Stato etico o dalle sue istituzioni. É lo Stato che deve porsi a servizio della persona e non viceversa. La proposta teoretica di una “metafisica della persona” è pertanto ricca di fondamentali corollari anche sul piano sociale e giuridico. L’argomentazione che giustifica la presenza di un “eterno nell’uomo” comporta anche il possibile superamento del diritto positivo e il possibile trascendimento dell’ordine costituito: la persona è una “sproporzione costitutiva”, è continuo superamento dell’ordine stabilito. La persona umana – osservano Maritain e Mounier – non si può mai risolvere compiutamente nello Stato o Non va taciuto che l’anziano Maritain, negli anni Sessanta, critica duramente un certo eccesso di retorica del personalismo legato alla rivista “Esprit”, soprattutto a causa di un possibile svilimento del valore filosofico del personalismo stesso, ridotto a forme di moralismo o a strategie comunicative politiche, ormai logore, tipiche del mondo cattolico: «Grazie, soprattutto, credo, a E. Mounier, l’espressione personalista e comunitario è diventata una torta alla crema per il pensiero cattolico e la retorica cattolica francese. Io stesso non sono in questo esente da responsabilità. In un’epoca in cui importava di opporre agli slogan totalitari un altro slogan […] avevo anche io lanciato in uno dei miei libri di allora questa espressione […], ma a vedere l’uso che se ne fa ora non ne sono molto fiero. Infatti, […] è chiaro che tutte le simpatie vanno al comunitario» (J. MARITAIN, Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps présent, Desclée de Brouwer, Paris, 1966; tr. it. di B. Tibiletti, Il contadino della Garonna. Un vecchio laico interroga se stesso sul mondo di oggi, Morcelliana, Brescia, 1969, p. 83). 100

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nella società: l’uomo non è ordinato alla comunità politica «secundum se totum et secundum omnia sua»101: la civitas terrena non esaurisce tutte le finalità dell’uomo: la politica, le istituzioni statali non sono che un mezzo per raggiungere altre finalità, finalità più alte e di natura meta-storica.

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6. Il senso dell’esistere: l’uomo è una “passione inutile”? Una stagione di pensiero che ha segnato profondamente la filosofia e la cultura francese tra le due guerre e negli anni ’50 è l’esistenzialismo. In Francia questo multiforme movimento – che per un certo periodo divenne quasi una moda intellettuale – si sviluppa soprattutto attraverso la ricezione di Edmund Husserl, di Martin Heidegger, delle varie correnti tedesche della “filosofia della vita” (Lebensphilosophie), e si avvale della riscoperta di alcuni classici della “filosofia dell’esistenza”: in particolare Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche e Kafka. Al centro dell’attenzione filosofica viene posta l’esistenza umana nei suoi elementi costitutivi e contingenti, nella sua singolarità irripetibile. Sul piano speculativo una delle caratteristiche proprie dell’esistenzialismo – come sottolinea soprattutto Jean-Paul Sartre (1905-1980) – è il capovolgersi del rapporto tra esistenza ed essenza: contrariamente a quanto affermato dalla tradizione filosofica, e dalla scolastica in particolare, non è più l’essenza che precede l’esistenza, bensì il contrario. In questa nuova prospettiva è l’esistenza – cioè l’essere particolare e contingente quale si attua concretamente nella realtà – ad avere il primato sull’essenza. Ciò comporta che l’esistenza, sciolta da vincoli ontologici e metafisici con l’essenza, si “sporge” senza garanzie sullo scenario fenomenico del mondo, e può fare 101

TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae I-II, 21, 4 ad 3.

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esperienza di un’autonomia incondizionata, di una libera progettualità. L’identità speculativa dell’esistenzialismo può essere individuata in questo primato dell’esistenza sull’essenza. Occorre però sottolineare che l’esistenzialismo non è stato affatto una corrente di pensiero caratterizzata da un’unità di metodo e di linguaggio: i filosofi che nell’Europa e nella Francia dei decenni centrali del XX secolo hanno posto l’esistenza umana come tema privilegiato delle loro indagini, hanno assunto orientamenti di pensiero spesso assai divergenti gli uni dagli altri e talvolta persino contrapposti. In Francia possiamo distinguere un esistenzialismo nichilistico e ateo, i cui maggiori rappresentanti sono Sartre e Albert Camus, e un esistenzialismo cristiano, il cui maggior esponente è Gabriel Marcel. La prospettiva filosofica di Sartre, come testimoniano i suoi primi scritti, si origina da un confronto critico con la fenomenologia di Edmund Husserl: in un’opera redatta durante il suo soggiorno berlinese – La transcendance de l’Égo. Esquisse d’une description phénoménologique –, il proposito sartriano è quello di una serrata critica ad Husserl e, in particolare, alla sua concezione della coscienza trascendentale come centro e fondamento dei processi psicologici e conoscitivi. In antitesi alla considerazione husserliana dell’io come realtà logico-ontologica indipendente, Sartre afferma che non c’è nessun io “autonomo, stabile e permanente” che si pone come supporto dei vissuti coscienziali: «Noi ci rifiuteremo di vedere nell’Ego una sorta di polo x, supporto dei fenomeni psichici»102. Per Sartre la coscienza umana non è affatto da intendere in senso idealistico e trascendentale, come sostiene ad esempio l’Husserl delle 102

J.-P. SARTRE, La transcendance de l’Égo. Esquisse d’une description phénoménologique, «Recherches Philosophiques», 6, 1936-1937, e Vrin, Paris, 1965; tr. it. e Introd. di R. Ronchi, La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica, Egea, Milano, 1992, p. 24.

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Meditazioni cartesiane: secondo il filosofo francese la caratteristica essenziale della coscienza è l’intenzionalità, il suo costante riferirsi alle cose esteriori (la coscienza è sempre “coscienza di..”); ciò comporta che essa è sempre coinvolta nel reale e che non può mai essere considerata nella sua autonomia. A partire da questa visione della coscienza completamente “immersa” nella dimensione dell’esteriorità, Sartre si spinge ad affermare che nell’uomo non vi è alcuna “realtà interiore” da intendersi in senso spirituale e metafisico: «Eccoci liberati da Proust. Liberati nello stesso tempo dalla “vita interiore”: invano cercheremmo [...] le carezze e le lusinghe della nostra intimità, perché finalmente tutto è fuori, tutto! Perfino noi stessi: fuori, nel mondo, tra gli altri. Non in un ipotetico rifugio noi scopriremo noi stessi: ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini»103. Per Sartre l’essere si raccoglie tutto nel mondo delle cose, nell’in-sé (l’être en-soi) ed ha una completa autosufficienza di fronte alla coscienza104: questo significa che al di là dell’essere in-sé non v’è altro che il nulla. E la coscienza è 103 J.-P. SARTRE, Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionalité, «La Nouvelle Revue Française», 304, gennaio 1939, pp. 129-131, e in IDEM, Situations-I, Essais critiques, Gallimard, Paris, 1947; tr. it. di F. Fergnani e P.A. Rovatti, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in IDEM, Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 1977, pp. 142-143. Un’interessante decostruzione del concetto di interiorità, con alcuni riferimenti anche a Sartre e a Proust, viene effettuata nel volume di M. PIAZZA, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso, Mimesis, Milano, 2012. 104 L’essere in-sé è per Sartre completamente disumanizzato: ad esso l’uomo è del tutto inessenziale. A proposito della posizione ontologica del filosofo si è parlato anche di «una sorta di eleatismo sartriano», per il quale «l’essere è increato, non è posto da un Dio e nemmeno da sé stesso. Non è né creatura né autocreazione: esso, semplicemente, è» (S. TASSINARI, Sartre: «j’ai la passion de comprendre les hommes», in G. FORNERO - S. TASSINARI (a cura di), Le filosofie del Novecento, Mondatori, Milano, 2002, p. 695).

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questo nulla: «L’uomo è il proprio nulla» ed è «l’essere per cui il nulla viene al mondo»105. L’essere in-sé della realtà sta di fronte all’uomo senza una vera ragione e senza una possibilità di rinvio analogico ad un ente creatore, a Dio: l’essere delle cose appare all’uomo nella sua gratuità e contingenza, e non cela nulla oltre se stesso. Come viene descritto nel celebre romanzo sartriano del 1938, è la nausea (la nausée) il sentimento fondamentale che rivela all’uomo il senso vero delle cose, la loro inerte gratuità e vischiosa pesantezza. La nausea è un’esperienza emotiva ricca di implicazioni sul piano ontologico: attraverso di essa l’essere della realtà e l’esistenza stessa degli individui si manifestano nella loro assurdità e contingenza, nella loro mancanza di senso: «Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso» – afferma Antoine Roquentin, il protagonista del romanzo – «e quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare [...]: ecco la nausea»106. La nausea è quindi la manifestazione dell’insensatezza dell’esistenza e, allo stesso tempo, è lo stato d’animo che fa intuire all’uomo che i significati delle cose sono privi di fondamento ontologico. Questo stato d’animo risveglia però nell’uomo il coraggio di porsi nudo di fronte al proprio esistere e di sentirsi veramente ed incondizionatamente libero: libero da qualsiasi valore ultraterreno, da qualsiasi norma e valore morale da ritenere come assoluti ed incontrovertibili. Nello scenario nichilistico delineato da Sartre ogni valore – perdendo la sua presunta oggettività ed assolutezza – viene compreso come arbitrario e convenzionale, J.-P. SARTRE, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943; tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Net, Milano, 2002, p. 58. 106 J.-P. SARTRE, La nausée, Gallimard, Paris 1938; tr. it. di B. Fonzi, La nausea, Einaudi, Torino, 1990, p. 177. 105

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come una mera creazione dell’uomo: è solo l’uomo «l’essere per cui i valori esistono»107. In tale prospettiva la libertà con cui l’esistenza progetta sé stessa rimane sempre priva di un senso ultimo: per Sartre tutte le scelte umane si equivalgono e non v’è più un parametro di valori oggettivi ai quali riferirsi, siano essi di ordine storico e mondano (come, per esempio, il valore del successo) o religioso (come il valore dell’agire etico nella speranza della salvezza eterna): nelle pagine finali del volume L’être et le néant, parlando delle conseguenze etiche della sua impostazione filosofica, Sartre può quindi affermare che «tutte le attività umane sono equivalenti [...] e che tutte sono votate per principio allo scacco. Così, guidare i popoli o ubriacarsi in solitudine sono la medesima cosa»108. Nella prospettiva sartriana la libertà dell’uomo rimane priva di qualsiasi orientamento teleologico, di qualsiasi finalità regolativa: è una libertà assoluta ma fondata sul nulla. In ultima analisi, si tratta sempre di una libertà priva di uno scopo ultimo: non esiste alcun senso ulteriore e trascendente che spinge all’agire libero e responsabile. L’uomo – afferma Sartre – è un essere “truccato per natura”: «progetta di essere Dio»109, e agisce nel «desiderio di essere Dio»110 (Ens causa sui), nel desiderio di porsi a fondamento del proprio essere: ma questo risulta impossibile e si rivela sempre un progetto all’insegna dello scacco e dell’insuccesso. L’uomo è quindi «una passione inutile (l’homme c’est une inutile passion)»111 ed è un Dio fallito. Quello delineato dal filosofo è un tragico scenario nel quale la soggettività umana è esposta sull’abisso del nulla. J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, op. cit., p. 695. 108 Ibidem, p. 695. 109 Ibidem, p. 629. 110 Ibidem. 111 Ibidem, p. 682. 107

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Per Sartre anche la presenza dell’altro si rivela un qualcosa di negativo e minaccioso: il rapporto con l’alterità è visto sempre all’insegna di un’inevitabile conflittualità. Si può notare le pagine sartriane contengono un’inedita reinterpretazione dell’hobbesiano homo homini lupus: lo sguardo dell’altro (le regard d’autrui) non è mai uno sguardo carico di “tenerezza e responsabilità” – come direbbe Emmanuel Lévinas –, bensì è uno sguardo che “giudica”, che intende determinarci in “etichette convenzionali” e renderci “oggetti”. Come afferma uno dei personaggi della celebre pièce teatrale del 1945 A porte chiuse: «L’inferno sono gli altri (L’infer c’est les autres)». In questa drammatica prospettiva anche il sentimento dell’amore è interpretato da Sartre come egoistica tendenza di possesso: per il filosofo l’amore nasce dall’intimo desiderio di «rendersi padrone dell’altro»112 e lo stesso «amare è, nella sua essenza, il progetto di farsi amare»113. Ibidem, p. 441. Ibidem, p. 425. Alle pessimistiche riflessioni di Sartre sul fenomeno dell’amore e dell’incontro con l’altro si potrebbero contrapporre le analisi fenomenologiche di Lévinas. Secondo quest’ultimo «niente è tanto lontano dall’Eros come il possesso» (E. LÉVINAS, Totalité et Infini. Essai sur l'extériorité, Nijhoff, La Haye, 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Introd. di S. Petrosino, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 19983, p. 237) ed “amare significa cercare ancora chi ci è più vicino”. Per Lévinas, come è noto, l’alterità rimane sempre un qualcosa di inappropriabile; essa deve sfuggire da qualsiasi tentativo di possesso: l’incontro con l’altro - l’epifania del suo volto - comporta impegno etico, diaconia e responsabilità nei suoi confronti. Si tratta di una «responsabilità che spossessa l’Io dal suo imperialismo e dal suo egoismo» (E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris, 1949; tr. it. di F. Ciaramelli, Presentazione di H. Künkler, La traccia dell’altro, in IDEM, La traccia dell’altro (scorciatoie), Libreria Tullio Pironti, Napoli, 19852, pp. 25-45, p. 37). Diversamente dalle considerazioni di Sartre, per il filosofo lituano l’incontro con «l’Altro (Autrui) non appare mai come un ostacolo o una minaccia» (IDEM, La filosofia e l’idea di infinito, in IDEM, La traccia dell’altro (scorciatoie), op. cit., pp. 5-23, p. 19), ma è sempre 112 113

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La prospettiva esistenzialistica di Sartre è espressione di una sensibilità filosofica e letteraria assai diffusa nella Francia degli anni ’40 e ’50: la negatività dell’esistenza umana votata al fallimento e lo scacco al quale è destinato ogni tentativo d’instaurare un rapporto d’autentica comunicazione con l’altro diventano tematiche tipiche di romanzi come quelli di Albert Camus114 e di drammi come quelli scritti da Eugène Ionesco, Samuel Beckett e Jean Genet, autori del cosiddetto “teatro dell’assurdo”. Va inoltre rilevato che negli anni del dopoguerra Sartre – come molti intellettuali suoi contemporanei quali il fenomenologo Maurice Merleau-Ponty e per alcuni anni lo stesso Camus – si avvicina al marxismo trovando nell’esigenza dell’impegno (engagement) sul piano politico e sociale la forza per un possibile riscatto dal nichilismo più cupo, da un’esistenza umana senza alcun senso e scopo: in questa seconda fase della produzione sartriana, la coscienza dell’assurdo non porta più ad una chiusura solipsistica del soggetto in sé stesso ma conduce alla necessità della solidarietà tra gli uomini, alla rivolta morale e alla prassi un’esperienza «che sconvolge l’egoismo stesso dell’Io» (ibidem, p. 36): «L’epifania dell’assolutamente Altro è volto; in esso l’Altro mi interpella e mi comanda con la sua stessa nudità ed indigenza. La sua presenza è un’intimazione a rispondere. [...] L’Io è, nella sua stessa posizione, sino in fondo responsabilità e diaconia, come nel capitolo 55 di Isaia. Essere Io significa, dunque, non potersi sottrarre alla responsabilità. […] La mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in un modo incomparabile ed unico» (ibidem, pp. 36-37). 114 Cfr., per esempio, il romanzo di Camus del 1942 Lo straniero. L’atteggiamento interiore del protagonista è quello di una «dolce indifferenza del mondo (tendre indifférence du monde)» (A. CAMUS, L'étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. di A. Zevi, Lo straniero, Bompiani, Milano, 1997, p. 150): si tratta di un’estraneità a sé stesso e al mondo che lo circonda, di una totale indifferenza nei confronti di tutti gli eventi della vita, e persino nei confronti della propria condanna a morte.

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rivoluzionaria. Nell’opera del 1960 Critica della ragione dialettica, Sartre parla della costituzione del “gruppo in fusione” che lotta per gli ideali della giustizia e della libertà come il momento creativo della rivoluzione in grado di unire gli uomini nel sovvertire un’ingiusta realtà politica ed istituzionale. Tuttavia lo stesso autore sottolinea che terminata questa fase d’empito rivoluzionario anche il “gruppo in fusione” è destinato al declino. Imponendosi la necessità di darsi un’organizzazione stabile, la società ricade nel seriale, nell’ordinamento burocratico e nel “pratico inerte”. Ogni tentativo rivoluzionario è, quindi, destinato allo scacco ed al fallimento115: anche l’avvicinamento al marxismo non ha prodotto in Sartre un radicale cambiamento di prospettiva sul piano antropologico, conducendo ad una visione meno pessimistica dell’esistenza umana e della realtà sociale116. Antitetica sotto molti aspetti alla prospettiva di Sartre, la cui “analitica esistenziale” ha come esito ineludibile la drammatica visione dell’uomo come “passione inutile”, è la ricerca filosofica di Gabriel Marcel (1889-1973). Il suo pensiero è stato definito da Étienne Gilson come una forma di “esistenzialismo cristiano”: Marcel ha tuttavia rifiutato di connotare la sua posizione

Come rileva anche Merleau-Ponty – nel quale sono già presenti alcune tesi del Sartre della Critique de la raison dialectique – «le rivoluzioni non possono mai, come regime istituito, essere ciò che erano come movimento»: «Le rivoluzioni sono vere come movimenti e false come istituzioni» (M. MERLEAU-PONTY, Les aventures de la dialéctique, Gallimard, Paris, 1955; tr. it. di F. Madonia, Le avventure della dialettica, tr. it. di F. Madonia, Sugar, Milano, 1956, pp. 414-415). 116 Sul complesso rapporto di Sartre con il marxismo, anche in relazione alle posizioni dei suoi contemporanei Merleau-Ponty e Raymond Aron, mi permetto di rinviare al mio saggio Sguardi francesi sulla dialettica marxista: Merleau-Ponty, Sartre, Raymond Aron, in «Areté. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», vol. 4, 2019, pp. 197236. 115

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speculativa con «il nefasto termine “esistenzialismo”»117 ed ha preferito attribuire a sé stesso la definizione di «socratismo cristiano»118. La sua metodologia di ricerca può essere intesa come un “approccio concreto al mistero dell’essere”: ciò significa che le considerazioni filosofiche di Marcel non sono mai astratte ma, sullo stile dell’interrogare socratico, prendono sempre avvio dall’analisi di situazioni concrete, di espressioni linguistiche e di attestazioni interiori. Tale metodologia d’indagine, così come viene delineata nello scritto del 1933 Position et approches concrètes du mystère ontologique, porta a raffinate analisi fenomenologiche dell’esistenza umana e del mistero che essa rappresenta. Al centro del pensiero di Marcel è la concezione dell’uomo come incarnazione e come apertura costitutiva all’alterità: l’alterità viene inoltre ad assumere i caratteri di un “Tu assoluto”, il volto personale del Dio della rivelazione ebraicocristiana. L’incarnazione viene definita da Marcel come «l’atto infinitamente misterioso col quale una essenza prende corpo»119: per il filosofo, l’approccio concreto al mistero dell’essere prende avvio dall’analisi del sentimento corporeo tramite il quale l’io scopre la sua originaria natura di essere incarnato (être incarné). Il sussistere ontologico della soggettività all’interno di una corporeità viene posta come la condizione preliminare di ogni giudizio esistenziale e il tramite di ogni umana partecipazione all’essere del mondo. Quella di Marcel è una sorta di “metafisica sensista” – l’espressione viene utilizzata nel Journal Métaphysique (1915-23) – nella quale le considerazioni di carattere metafisico si sviluppano “von unten”, a partire cioè dai G. MARCEL, Le mystère de l’être, Aubier, Paris, 1951; tr. it. di G. Bisacca, Il mistero dell’essere, Borla, Roma, 1987, p. 6. 118 Ibidem. 119 G. MARCEL, Il mistero famigliare, [conferenza tenuta a Lione e Tolosa nel 1942], in IDEM, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori, Borla, Roma, 1980, p. 84. 117

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dati concreti dell’esperienza, in particolare dall’esperienza percettiva del proprio corpo. Marcel condivide quindi, in larga misura, il pensiero del suo contemporaneo Merleau-Ponty che afferma la centralità del corpo proprio come unica prospettiva a partire dalla quale l’uomo può indagare l’essere dell’io e il mondo degli oggetti: «Il mio corpo è il mio punto di vista sul mondo, [...] è il mezzo generale di avere un mondo»120; e la percezione è l’atto con il quale io come corpo m’inserisco nel mondo, entrando in rapporto con gli altri. Marcel, pur effettuando una fenomenologia dei dati empirici e dei vissuti esistenziali più elementari – fenomenologia che, sotto molti aspetti, si può accostare a quella di Merleau-Ponty –, si distanzia però nettamente da quest’ultimo nell’aprire la sua prospettiva teoretica a considerazioni di ordine metafisico e religioso. A questo proposito dati biografici importanti per comprendere la natura profondamente spirituale del pensiero di Marcel sono le sue origini ebraiche e la sua conversione al cattolicesimo, che risale al 1929: è da rilevare tuttavia che l’adesione alla fede non ha tolto nulla al valore filosofico delle sue lucide analisi dell’esperienza esistenziale. Il procedimento giustificativo che consente di allargare lo sguardo filosofico all’ambito della metafisica è per Marcel una “riflessione seconda” o “recuperatrice”, una “riflessione alla seconda potenza”: si tratta di una sorta di “giudizio riflettente kantiano” che in virtù del sentimento morale opera una riflessione seconda sul dato già conosciuto clare et distincte in una “riflessione prima”: quest’ultima è paragonabile al giudizio determinante (bestimmendes Urteil) di cui parla Kant nella Critica della ragion pura. L’ulteriorità di senso della realtà umana e del mondo la si può intuire ed affermare tramite l’esprit de finesse operante nella M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 277.

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“riflessione seconda”: quella proposta da Marcel è una metafisica affermata tramite la facoltà dell’intuizione, della testimonianza interiore e del sentimento morale. É una metafisica che nasce dalle più profonde esigenze del cuore e dell’interiorità umana e che si oppone alla chiusura sartriana nel «cerchio angusto dell’immanenza»121: si può quindi sostenere che «distaccandosi dalle aporie di altre filosofie dell’esistenza, Marcel ha ricondotto nella filosofia quella spiritalis intelligentia, come la chiama S. Agostino, che è il pensare nell’interiorità dell’essere»122. Uno degli elementi che distanzia nettamente la posizione di Marcel da quella di Sartre è la riflessione sul valore dell’alterità: Marcel è sensibile all’influsso della filosofia dialogica di Martin Buber ed è certamente lontano dagli esiti pessimistici a cui pervengono le già richiamate opere sartriane. Per Marcel l’alterità diviene cifra stessa della trascendenza religiosa ed è il fondamento per quella che egli definisce come una “metafisica della speranza”. Il filosofo sottolinea che l’io si costituisce sempre tramite un originario rapporto di partecipazione con l’altro e ricorda che l’esistenza è sempre una co-esistenza. Lungo tutto il suo corso l’esistenza dell’uomo è determinata da un originario nesso partecipativo con l’altro, e questo nesso lo si realizza nel vivere in società e soprattutto nei rapporti di amicizia e di amore. Per Marcel il rapporto con l’altro, quando è vissuto nell’autenticità e nella fedeltà, costituisce una comunione della quale si può persino arrivare ad affermare l’eternità: e questo è possibile poiché «non c’è co-presenza se non alla luce di una Presenza assoluta»123. L’intersoggettività trova il suo fondamento ultimo nella speranza e nella fede in Dio, definito come il “Tu G. MARCEL, L’essere e il nulla, [il testo originale è del 1943], in IDEM, Homo viator, op. cit., p. 210. 122 P. PRINI, Storia dell’esistenzialismo da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma, 19912, p. 137. 123 Ibidem, p. 141. 121

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assoluto”: questo “Tu” diviene il garante di ogni impegno totale, il cemento di ogni comunione. Secondo Marcel nel rapporto di autenticità con l’altro, con la persona amata, si instaura una «comunione di cui proclamo l’indistruttibilità»124: «Amare un essere significa dire: tu non morrai»125. In alcune pagine emblematiche di Marcel la speranza assume una dimensione propriamente comunitaria e religiosa: la speranza nella trascendenza dell'uomo viene affermata a partire proprio dal rapporto intersoggettivo di amicizia e di comunione con l’altro, e la sua condizione di possibilità è nella fede in Dio: «La speranza è essenzialmente la disponibilità di un’anima così intimamente impegnata in un’esperienza di comunione da compiere l’atto trascendente in contrasto […] con il conoscere, mediante il quale essa afferma la perennità vivente di cui questa esperienza offre il pegno e le primizie»126; «L’unico dato reale nella speranza è rappresentato da questa semplice affermazione: Tu ritornerai»127. La comunione con l’altro si rivela dunque “modello della speranza”, tensione ideale verso un’ulteriorità del rapporto oltre i limiti dell’umana finitezza: ogni autentico rapporto con l’alterità è anche e soprattutto una “donazione di senso” alla vita che trascende i limiti invalicabili della condizione umana. La prospettiva esistenziale e religiosa di Gabriel Marcel non costituisce un unicum nel clima culturale francese del tempo: essa trova delle singolari connessioni sia con l’approccio filosofico di Mounier e di Simone Weil che con quello di due grandi intellettuali di origine russa: Lev Isaakovič Schwarzmann (più 124

G. MARCEL, Abbozzo di una fenomenologia e metafisica della speranza, [conferenza tentua nel 1942 allo Scolasticat di Fourvière], in IDEM, Homo viator, op. cit., pp. 37-80, p. 79. 125 IDEM, Valore e immortalità, [conferenza tenuta a Lione nel 1943], in IDEM, Homo viator, op. cit., pp. 159-178, p. 171. 126 IDEM, Abbozzo di una fenomenologia e metafisica della speranza, in IDEM, Homo viator, op. cit., pp. 37-80, p. 79. 127 Ibidem, p. 78.

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noto con lo pseudonimo di Šestov) e Nikolàj Berdjaev. Šestov e Berdjaev nel 1922 lasciarono la Russia sovietica e si stabilirono a Parigi: essi rappresentarono in Francia quel filone dell’esistenzialismo russo che ha in Dostoevkij il suo precursore; i loro scritti influenzarono molto l’atmosfera filosofica e letteraria di quegli anni. Il pensiero di questi due autori è di carattere esplicitamente religioso e mette particolarmente l’accento sulla dimensione comunitaria ed escatologica dell’esistenza. Di particolare interesse è un’opera di Berdjaev del 1936: Cinque meditazioni sull’esistenza. In essa viene effettuata una netta distinzione terminologica tra individuo e persona, e viene messa particolarmente in rilievo la legittimità filosofica di una concezione spirituale dell’uomo basata sulla vita interiore e sulla libertà: «Il problema della persona» – afferma Berdjaev con accenti simili a quelli di Mounier – «è il problema fondamentale della filosofia esistenziale […]. La persona non è identificabile con l’individuo. L’individuo è una categoria d’ordine naturale, biologico. La persona, invece, è una categoria, non naturale, ma spirituale, è l’opera dello spirito che s’impadronisce della natura. Non v’è personalità senza l’opera dello spirito sulla costituzione fisica e psichica dell’uomo»128. Pagine di particolare intensità sono dedicate da Berdjaev anche all’apparire del volto umano: in esse sono contenute emblematiche espressioni che, a mio parere, costituiscono una risposta a Sartre e un’anticipazione della descrizione stessa fatta da Lévinas in Totalité et infini dell’epifania del volto dell’altro (le visage d’autrui) nel suo fondamentale valore etico: «Nulla v’è al mondo di più significativo, nulla rende più sensibile il mistero dell’esistenza, del volto umano. Il problema della persona è legato in primo luogo al problema del volto. Il volto si presenta sempre come N.A. BERDJAEV, Cinq méditations sur l'existence, Aubier, Paris 1936; tr. it. di M. Banfi Malaguzzi, L’io e il mondo. Cinque meditazioni sull’esistenza, Bompiani, Milano, 1942, V meditazione.

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qualcosa che rompe ed interrompe il mondo obiettivato, come un raggio sfuggito dal mondo misterioso dell’esistenza umana che porta il riflesso dell’esistenza divina. É, prima di tutto, mercé il suo volto, che la persona entra in comunione con l’altra persona. La contemplazione del volto non ha nulla in comune con la contemplazione di un fenomeno fisico, costituisce un penetrare nell’anima e nello spirito. Il volto è la testimonianza che l’uomo è un essere integrale e non un doppione di carne e di spirito, di anima e di corpo. Esso significa la vittoria dello spirito sulla resistenza della materia. [...] L’espressione degli occhi non è un oggetto, non appartiene al mondo fisico obiettivato; è una pura manifestazione dell’esistenza, è l’apparizione dello spirito sotto una forma concreta. Di un oggetto non si può che disporre, con un volto non si può che comunicare»129. Nel delineare il significato spirituale dell’apparire del volto, Berdjaev sottolinea anche il valore del carattere dialogico dell’esistenza umana, sia nei suoi risvolti umanistici che nei suoi riflessi teologici. Possiamo dire che come Marcel, anche Berdjaev si fa espressione di un esistenzialismo teistico e cristiano, nel quale al dramma di una vita intesa come “passione inutile” viene contrapposta una concezione dell’esistere il cui senso ultimo è dato dalla fede religiosa e dalla speranza di salvezza eterna. La “tranquillità metafisica” che, pur negli eventi più tragici, può provenire da una prospettiva di fede viene vigorosamente espressa anche dallo scrittore francese George Bernanos, assai vicino alla sensibilità filosofica dell’esistenzialismo d’ispirazione Ibidem. In un altro scritto Berdjaev parla del volto umano definendolo «il vertice del processo cosmico, il suo prodotto più alto [...] ciò che di più stupendo la vita cosmica offre, perché in esso traspare un altro mondo. Esso è l’inserimento della persona nel processo universale, con la sua unicità, singolarità, irreiterabilità» (N.A. BERDJAEV, De l’esclavage et de la liberté de l'homme, Aubier, Paris, 1946; tr. it. di E. Grigorovich, Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, Milano, 1952, pp. 30-31). 129

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cristiana. Un invito alla speranza al di là di ogni amaro disincanto ci è rivolto dal protagonista del suo celebre romanzo del 1936, il Diario di un curato di campagna. Le ultime parole pronunciate nell’agonia dal sacerdote morente esprimono tutta la forza di un fiducioso abbandono in grado di far trovare un senso ulteriore all’esistere, anche nelle vicende più drammatiche: «Che cosa importa? Tutto è grazia (Qu’est-ce que cela fait ? Tout est grâce)».130 7. «Il n'y a pas de dialectique sans liberté»: fenomenologia ed engagement in Merleau-Ponty Le ragioni più profonde delle critiche di Maurice MerleauPonty (1908-1961) al marxismo si trovano nella sua prospettiva antropologica e teoretica, di carattere anti-riduzionistico ed antideterministico, avversa sia al trascendentalismo idealistico che al materialismo positivista e marxista. Il “neoumanesimo fenomenologico” proposto dall’autore è dunque la prospettiva a partire dalla quale si comprendono le critiche alla filosofia della storia elaborata dal Marx maturo e dai suoi epigoni, una filosofia che introduce un rigido rapporto di causalità tra struttura economica e sovrastruttura ideologica: come la percezione umana è apertura costitutiva al novum, – sottolinea Merleau-Ponty – così anche la storia è storia liberamente creata dall’homo faber e segnata da una contingenza irriducibile al determinismo dialettico. Prima di analizzare i maggiori contributi dell’autore francese in ambito storico-politico, è opportuno soffermarsi su alcuni elementi decisivi della sua proposta antropologico-teoretica: la sua ricezione critica del marxismo ha infatti come presupposto e G. BERNANOS, Journal d'un curé de campagne, Plon, Paris, 1936; tr. it. di A. Grande, Diario di un curato di campagna, Mondatori, Milano, 19956, p. 244.

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antefatto una originale ripresa della fenomenologia di Edmund Husserl, coniugata con motivi tipici dell’esistenzialismo francotedesco degli anni Trenta e Quaranta. In opposizione all’idealismo trascendentale e al dualismo di matrice cartesiana, Merleau-Ponty fa sua l’istanza husserliana di un ritorno “alle cose stesse”, «zurück zu den Sachen selbst!». La coscienza – osserva MerleauPonty richiamandosi all’Husserl delle Ideen – non è una sostanza autonoma ed autosufficiente distaccata dagli oggetti, ma è sempre coinvolta nella sfera naturale extra-soggettiva: è sempre una “coscienza incarnata e in situazione”. In maniera simile al primo Sartre, anche Merleau-Ponty sostiene che “l’uomo interiore” della metafisica agostiniana e cartesiana non esiste: i due autori – radicalizzando il motivo husserliano della intenzionalità conoscitiva della coscienza (Intentionalität des Bewusstseins) – sono concordi nell’affermare che «l’uomo è nel mondo e nel mondo si conosce»131, che l’uomo è «un soggetto votato al mondo»132. La coscienza viene definita come «l’inerire alla cosa tramite il corpo»133: la sfera della corporeità – il Leib, il “corpo vivente” di cui parla Husserl – diviene quindi il medium necessario e fondamentale tra l’io e il mondo, un io che è corporeità vivente (Leib) e un mondo che, nella sua materialità, è “corporeità fisica” (Körper). Nel pensiero merleau-pontyano viene quindi a cadere ogni distinzione ontologica tra l’io e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto: in questa prospettiva radicalmente immanentistica (ma non fisicalistica) il continuum tra il vivente e non-vivente è garantito dalla complessa sfera della corporeità che “tutto abbraccia”. Questo tema della corporeità e della carne (la chair) è ampiamente presente nella prima grande M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 19. 132 Ibidem. 133 Ibidem, p. 194. 131

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opera di Merleau-Ponty – Fenomenologia della percezione (1945) – e sarà ulteriormente ripreso nel suo lavoro postumo ed incompiuto: Il visibile e l’invisibile. La corporeità è la trama unitaria dell’essere, la stoffa comune ad ogni cosa, sia essa fisica o mentale. Questo spiega la connaturalità tra mente e mondo e il rifiuto merleau-pontyano di ogni rigida contrapposizione (cartesiana e kantiana) tra soggetto e oggetto, tra res cogitans e res extensa: in senso fenomenologico, il mondo non è solamente una nostra rappresentazione soggettiva (la Vorstellung kantiana) o un essere in sé (oggettivismo positivista), ma è un orizzonte di senso al cui interno la coscienza umana si muove, in maniera plastica e dinamica: «Si tratta di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata a un mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi»134. Nell’opera Fenomenologia della percezione, egli si confronta criticamente con Husserl rifiutando alcuni elementi teoretici della sua posizione (il cartesianesimo con il connesso richiamo al trascendentalismo kantiano) e si appropria, invece, di tematiche fenomenologiche fondamentali come quelle dell’intenzionalità coscienziale, della corporeità, del “mondo della vita” e della libertà umana. «La fenomenologia» – afferma Merleau-Ponty – «è studio delle essenze, per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza»135; tuttavia tali essenze non sono dei puri dati di pensiero o astratte elaborazioni logiche: «La fenomenologia» – egli aggiunge – «è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro “fatticità”»136. Merleau-Ponty declina la fenomenologia eidetica husserliana come studio dell’uomo e del mondo nei loro elementi Ibidem, p. 27. Ibidem, p. 15. 136 Ibidem. 134 135

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“fattuali”, concreti e storici: tale declinazione della fenomenologia rende possibile un incontro e un intreccio fecondo con la filosofia dell’esistenza e con il marxismo o, meglio ancora, con l’umanesimo del giovane Marx. Tale humanisme viene infatti inteso e valorizzato come “filosofia dell’uomo concreto”, come studio dei bisogni antropologici e dei rapporti di potere che determinano gli sviluppi della storia, secondo una dialettica sempre aperta al novum. Prima di addentrarci nel confronto dell’autore con la dialettica marxiana e marxista, mi pare importante riflettere ancora su due elementi della sua posizione antropologica e teoretica che sono fondamentali per la sua “riappropriazione critica del marxismo”: la concezione della percezione e del “mondo della vita”. Facendo interagire la fenomenologia husserliana con il behaviorismo americano e con la psicologia della Gestalt, Merleau-Ponty tenta di elaborare una nuova visione delle percezione e una connessa Erkenntnistheorie, differenti da quelle proposte dai positivisti materialisti o dallo stesso Kant della Critica della ragion pura. La percezione – nota l’autore francese – costituisce la dinamica chiave di accesso del soggetto verso il mondo, è l’esperienza primordiale del vissuto coscienziale (Erlebnis), è latrice di un contatto con l’essere anteriore al pensiero categoriale, anteriore alla stessa distinzione tra soggetto e oggetto: si tratta di un “sentire originario” che precede ogni differenziale tra i sensi e ogni deduzione logica. La percezione umana esprime la vita della coscienza umana pre-logica e pre-riflessiva: la percezione si configura come un originario contatto con il “mondo della vita”, cioè con tutta quella sfera del pre-categoriale definita da Husserl come Lebenswelt e tematizzata da questi non solo nelle Ideen ma anche negli inediti e negli scritti della maturità, anche ponendosi

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alla ricerca di un fondamento fenomenologico delle scienze positive137. La percezione è trait d’union tra la coscienza e il mondo: per realizzarsi necessita della corporeità e vincola, quindi, il cogito stesso alla corporeità: «Ogni percezione di una cosa, di una forma, di una grandezza come reale, ogni costanza percettiva, rinvia alla La fenomenologia di Husserl viene interpretata da Merleau-Ponty non come una prospettiva incentrata sul momento eidetico del pensiero – ovvero non come una forma astratta di “monadologia trascendentale” –, ma come una ontologia radicata nella concretezza del mondo della vita. Il filosofo francese ha quindi messo in rilievo il grande debito con Husserl contratto dall’Heidegger di Essere e tempo (1927): l’ontologia di Heidegger costituisce uno sviluppo teoretico del “mondo della vita” e della “sfera del pre-categoriale” delineati dal maestro Husserl: «Tutto Sein und Zeit» – scrive Merleau-Ponty – «è uscito da una indicazione di Husserl, e in ultima analisi non è altro che una esplicitazione del natürlichen Weltbegriff o della Lebenswelt che Husserl, alla fine della sua vita, assegnava come primo tema alla fenomenologia» (M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 15-16). Sull’originale interpretazione della fenomenologia husserliana da parte dell’autore francese si vedano P. THÉVENAZ, De Husserl a Merleau-Ponty: qu’est-ce que la phenomenologie?, Éditions de la Baconniere, Neuchâtel, 1966; tr. it. di G. Mura, La fenomenologia: Husserl, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty, Città Nuova, Roma, 1969; G.L. BRENA, La struttura della percezione. Studio su Merleau-Ponty, Vita e Pensiero, Milano, 1969; M. LEFEUVRE, MerleauPonty au-delà de la phénoménologie: du corps, de l’être et du langage, Klincksieck, Paris, 1976; R. BARBARAS, De l’être du phénomène. Sul l’ontologie de Merleau-Ponty, Millon, Grenoble, 1991; S. MANCINI, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Mimesis, Milano, 20012; T. TOADVINE – L. EMBREE (Eds.), Merleau-Ponty’s reading of Husserl, Kluwer, Dordrecht - Boston - London 2002; V. PEILLON, Merleau-Ponty, l’épaisseur du cogito: trois études sur la philosophie de Maurice Merleau-Ponty, Le Bord de l’eau, Latresne 2004; F. ROBERT, Phénoménologie et ontologie. Merleau-Ponty lecteur de Husserl et Heidegger, L’Harmattan, Paris, 2005; V. COSTA, Merleau-Ponty: l’arco intenzionale e il corpo che abita il mondo, in IDEM, Il movimento fenomenologico, La Scuola, Brescia, 2014, pp. 70-76.

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posizione di un mondo e di un sistema dell’esperienza in cui il mio corpo e i fenomeni sono rigorosamente legati»138. La percezione si pone allora non come un qualcosa di statico ed inerte, ma si configura come una trasfigurazione della datità, come uno slancio verso il non ancora, come una creatività spontanea. La percezione esprime il carattere dinamico dell’esistenza ed è il luogo originario della nostra libertà. Grazie alla percezione – resa possibile dal corpo «che è il nostro mezzo generale di avere un mondo»139 –, la coscienza si proietta su una realtà oggettiva che è “infinita apertura”: la percezione non si esaurisce mai in se stessa, è rinvio costitutivo ad altro da sé, «promette sempre qualche altra cosa da vedere»140. In maniera non del tutto dissimile da Fichte (cioè dalla dinamica fichtiana tra l’io e il non-io/natura, dinamica teoretico-pratica che nell’autore francese viene espunta però dell’elemento trascendentale tipicamente fichtiano), Merleau-Ponty fonda la libertà umana nell’atto cognitivo, nel cuore stesso della teoresi ovvero nella percezione come dinamicità infinita, come apertura dell’esistenza al possibile. Partendo dai risultati teoretici della Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty elabora un’originale “filosofia della libertà”, differente da quella sviluppata dal suo amico Sartre e in aperta opposizione sia al determinismo positivista che a quello marxista: «Non c’è mai determinismo, e non c’è mai scelta assoluta [come voleva Sartre], io non sono mai una cosa e non sono mai coscienza nuda»141. Merleau-Ponty respinge, quindi, l’idea sartriana di una libertà assoluta ed incondizionata142, e M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 350. Ibidem, p. 171. 140 Ibidem, p. 384. 141 Ibidem, p. 578. 142 Cfr. anche J. STEWART, Merleau-Ponty’s criticisms of Sartre’s theory of freedom, in «Philosophy Today», 39,3/1995, pp. 311-324. 138 139

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sostiene la visione di una libertà sempre e comunque condizionata dalla situazione, la quale limita le nostre possibilità. Allo stesso tempo, Merleau-Ponty rifiuta anche la negazione che il positivismo e il materialismo storico, dogmaticamente intesi, compiono della libertà. Egli quindi si oppone tanto alla riduzione positivistica della coscienza a rapporti meccanici oggettivi quanto alla riduzione della coscienza a semplice riflesso delle strutture economico-sociali, come era tipico del “marxismo più ortodosso”. L’esistenza è apertura costitutiva, è possibilità di costruire il novum per mezzo delle capabilities umane, una possibilità che si attua nella consapevolezza della situazione limitata e contingente in cui l’uomo si trova. Un filo rosso che attraversa le opere merleau-pontyane è, dunque, la visione della soggettività come un libero «io posso». Questo «je peux» permette l’unità vivente del corpo ed è il momento di intersezione creativa tra il soggetto e il mondo: «C’est dans l’unité d’un “je peux”que les opérations de différents organes apparaissent équivalents»143. Il filosofo francese definisce più volte nei suoi scritti la coscienza umana come “possibilità originaria”, come una dinamicità che è ἐνέργεια produttiva: «La coscienza è originariamente non un “io penso che”, ma un “io posso” (la conscience est originairement non pas un “je pense que”, mais un “je peux”)»144. Ad aver M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 363. 144 Ibidem, p. 160. Ancora nel postumo Le visible e l’invisible MerleauPonty dirà che l’«io posso» garantisce l’unità tra le facoltà dell’esprit e gli organi corporei: «Mon inspection mentale et mes attitudes d’esprit prolongent le “je peux” de mon exploration sensorielle et corporelle» (M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, texte etabli par Claude Lefort, Gallimard, Paris 1964, p. 60). Theodore Geraets ha messo chiaramente in luce che il tema dell’«io posso» è stato sviluppato da Merleau-Ponty a partire dallo studio degli inediti di Husserl e in particolare delle Ideen II, opera che poté leggere nel 1939. In Ideen II Husserl effettua un’analisi fenomenologica sulla genesi dell’azione umana: quest’ultima si qualifica 143

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particolarmente sottolineato l’importanza teoretica ed etica della creatività umana – così come è stata tematizzata da MerleauPonty – è stato, in particolare, Paul Ricoeur. Quest’ultimo ha intravisto nella categoria merleau-pontyana dell’ «io posso» il nucleo unitario dell’antropologia filosofica e – sviluppando le suggestioni offerte dallo stesso Merleau-Ponty – ha elaborato una filosofia incentrata sulle capabilities umane: la “filosofia della libertà” sostenuta da Ricoeur si basa, infatti, su una visione dell’uomo come homo capax145. Rielaborando la quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl, Merleau-Ponty sviluppa il tema della percezione originaria in direzione di una “filosofia dell’intersoggettività” radicalmente differente da quella proposta da Sartre negli stessi anni. Per Merleau-Ponty la percezione dell’altro non rende indifferente il come sintesi organica tra la potenzialità (Vermögen) delle facoltà coscienziali e l’organo della volontà (Willensorgan) che si esprime concretamente attraverso il corpo (Leib). A tal riguardo cfr. T.F. GERAETS, Vers une nouvelle philosophie transcendentale. La genèse de la philosophie de Maurice Merleau-Ponty jusqu’à la Phénoménologie de la perception, Préface par Emmanuel Lévinas, Nijhoff, Le Haye 1971, p. 173 ss. 145 Come Paul Ricoeur già rileva nello scritto giovanile Le volontaire et l’involontaire, egli intende fare oggetto della sua analisi l’«esperienza integrale del cogito», che «include l’io desidero, l’io posso, l’io vivo e, in generale, l’esistenza come corpo» (P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Le volontarie et l’involontaire, Aubier, Paris 1950; tr. it. di M. Bonato, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 13). La proposta antropologica di Ricoeur si incentra, quindi, intorno alla nozione di homo capax, di homme capable: si tratta di una “fenomenologia ermeneutica” che si interroga sullo statuto ontologico del “chi?” (del soggetto), partendo dalle sue capacità, dai suoi poteri, quali «poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore» e non da ultimi il «potere di fare memoria» ed il «poter promettere» (P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; tr. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 494).

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soggetto ma promuove l’instaurarsi di un rapporto di empatia, di comunione e di reciproco aiuto. “Il volto dell’altro” che penetra nel mio orizzonte coscienziale è un invito alla condivisione, alla solidarietà e alla responsabilità: «A differenza del Sartre de L’essere e il nulla che intendeva i rapporti tra gli uomini come irrimediabilmente segnati dalla reciproca reificazione ed esclusione, Merleau-Ponty insiste invece sulla reciproca, solidale integrazione di sé e gli altri, sull’originaria comunione, nel preriflessivo nostro essere-nel-mondo, del proprio corpo con quello degli altri, cosicché questi si rivelano non ostacolo, bensì condizione della nostra propria realizzazione. Soltanto dalla rottura di quella solidarietà può sorgere il conflitto tra gli uomini, che dunque non è originario né ineliminabile»146. È in questo quadro di “antropologia comunitaria e della solidarietà” che si situa l’adesione teorica di Merleau-Ponty al marxismo negli anni dell’immediato secondo Dopoguerra: fu il risultato di una “scelta morale”. Negli anni della resistenza antinazista si era reso conto che per salvaguardare realmente i valori dell’umanesimo bisognava entrare nel vivo della storia, impegnarsi concretamente anche sotto il profilo politicoistituzionale: il marxismo poteva dunque essere accettato come “filosofia della prassi” tesa alla realizzazione storica dei valori umanistici e sociali. «Non avevamo torto» – scrive Merleau-Ponty nel giugno del 1945 – «nel 1939 a volere la libertà, la verità, la felicità, rapporti trasparenti fra gli uomini, e non siamo disposti a rinunciare all’umanesimo. La guerra e l’occupazione ci hanno G. FORNERO – S. TASSINARI, Merleau-Ponty: il filosofo dell’ambiguità, in IDEM, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano, 2002, pp. 724-730, p. 728. Sulla visione dell’intersoggettività nell’autore francese cfr. M. PANGALLO, Il problema filosofico dell’alterità. Saggio sul solipsismo e l’intersoggettività in Maurice Merleau-Ponty, Euroma, Roma, 1989; N. COMERCI, La deiscenza dell’altro. Intersoggettività e comunità in MerleauPonty, Mimesis, Milano, 2009.

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insegnato che i valori restano nominali, e non valgono neppure, senza un’infrastruttura economica e politica che li faccia entrare nell’esistenza. […] Non si tratta di rinunciare ai nostri valori del 1939, ma di inverarli»147. Questa filosofia francese dell’engagement ha trovato espressione in una celebre rivista fondata nel 1945, «Les Temps Modernes»: i cinque fondatori (Merleau-Ponty, Sartre e la sua compagna Simone de Beauvoir, Raymond Aron e Albert Camus) non provenivano dal marxismo né dalla militanza nel Partito Comunista, erano piuttosto degli intellettuali che l’esperienza della guerra e dei totalitarismi aveva reso coscienti dell’impossibilità di separare l’affermazione dei valori umanistici fondamentali – come la libertà – dall’impegno per una trasformazione delle strutture socio-politiche. È dunque in questo quadro di impegno umanistico che va compresa la “riappropriazione critica del marxismo” operata, in particolare, da Merleau-Ponty e da Sartre: «Sia per Sartre che per Merleau-Ponty si trattava di mantenere l’istanza rivoluzionaria propria del marxismo, fornendole però una giustificazione filosofica più attendibile del materialismo dialettico, considerato una metafisica ingenua e dogmatica. Nel tentativo di far fronte a questa comune esigenza di rifondazione teoretica del marxismo, i due autori –

147 M. MERLEAU-PONTY, Sens et non-sens, Nagel, Paris, 1948; tr. it. di P. Caruso, Senso e non senso, Introduzione di E. Paci, Il Saggiatore, Milano, 1962, 20162, p. 183. Il volume raccoglie i saggi pubblicati dall’autore sulla rivista «Les Temps Modernes» nell’immediato Dopoguerra: in questi contributi Merleau-Ponty chiarisce i motivi che lo hanno spinto ad avvinarsi al marxismo, cercando di integrare la fenomenologia e l’esistenzialismo con una “filosofia della prassi”. A questo proposito sono particolarmente significativi i saggi dal titolo Intorno al marxismo (pp. 125-152) e Marxismo e filosofia (pp. 153-164).

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almeno nei primi anni del Dopoguerra – seguono strade in parte divergenti»148. Il rapporto di Merleau-Ponty con il marxismo conosce due fasi ben distinte: dall’immediato secondo Dopoguerra al 1952 il cosiddetto «comunismo di attesa» teorizzato nel volume del 1947 Humanisme et terreur, in seguito il dichiarato «acomunismo» spiegato ne Le avventure della dialettica e riconfermato nella lungimirante prefazione a Signes (1960), l’ultima grande opera pubblicata dall’autore francese149. E. BOTTO, Esistenzialismo e marxismo: Maurice Merleau-Ponty e JeanPaul Sartre, in IDEM, Il neomarxismo, Vol. 1, Studium, Roma, 1976, pp. 147-161, p. 149. Sul rapporto degli intellettuali francesi con il marxismo dal secondo Dopoguerra agli anni Sessanta si vedano: O. POMPEO FARACOVI, Il marxismo francese contemporaneo fra dialettica e struttura, Feltrinelli, Milano, 1972; F. VALENTINI, La filosofia in Francia. La presenza di Marx e il marxismo, in V. VERRA (a cura di), La filosofia dal ’45 ad oggi, ERI, Torino 1976, pp. 161-173; P. NEPI, L’avventura del marxismo francese, AVE, Roma, 1978; S. KHILNANI, French Marxism – Existentialism to Structuralism, in T. BALL & R. BELLAMY (Eds.), The Cambridge History of Twentieth-Century Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 2003, pp. 299-318; W.S. LEWIS, Louis Althusser and the Traditions of French Marxism, Lexington Books, Lanham, 2005. 149 Sull’itinerario intellettuale di Merleau-Ponty in relazione al suo complesso rapporto con il marxismo si vedano G.L. BORG, Le marxisme dans la philosophie socio-politique de Merleau-Ponty, in «Revue Philosophique de Louvain», 19, 1975, pp. 481-510; G. INVITTO, MerleauPonty politico: l’eresia programmatica, Lacaita, Manduria 1971; G.L. BRENA, Alla ricerca del marxismo: M. Merleau-Ponty, Dedalo, Bari, 1977; A. DELOGU, Quale dialettica, in IDEM, Né rivolta né rassegnazione. Saggio su Merleau-Ponty, ETS, Pisa, 1980, pp. 11-34; S. KRUKS, The Political Philosophy of Merleau-Ponty, Humanities Press, New Jersey, 1981; O. POMPEO FARACOVI, Filosofia e politica, in G. INVITTO (a cura di), MerleauPonty. Filosofia, esistenza, politica, Guida, Napoli, 1982, pp. 173-198; J. GOUIN, Merleau-Ponty et le marxisme ou La difficulté de tolérer l’intolérable, in «Philosophiques», 18/1, 1991, pp. 95-117; T. ROCKMORE, Merleau-Ponty, Marx, and Marxism: The problem of history, in «Studies in 148

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In Umanismo e terrore Merleau-Ponty affronta il delicato problema di come giustificare la violenza rivoluzionaria che caratterizza il bolscevismo: a suo parere quest’ultima trova le sue intime motivazioni nella prospettiva di un «avvenire di umanismo». Le alte finalità di un cambiamento politico per l’instaurazione di una “società senza classi” e di un “regno di libertà” arrivano anche a giustificare la necessità di una rivoluzione violenta: del resto – commenta Merleau-Ponty – «insegnando la non violenza si consolida la violenza stabilita, cioè un sistema di produzione [il capitalismo della borghesia liberale] che rende inevitabili la miseria e la guerra». 150 Sulla base di questa prospettiva storica per la quale “il fine giustifica i mezzi”, egli cerca, seppur con qualche impaccio ed ambiguità, di giustificare anche i crimini effettuati da Stalin nei processi di Mosca degli anni Trenta: nello stalinismo egli avverte certamente la perdita dello spirito rivoluzionario che ha animato l’Ottobre del 1917, ma gli sembra che il regime di Stalin rappresenti comunque una strada possibile per il trionfo finale del socialismo. Il compito dell’intellettuale in questa fase di transizione al socialismo è quello di una “vigilanza critica”. Tuttavia, già in questa fase di «attendismo marxista (attentisme marxiste)»151 Merleau-Ponty ci confessa i primi chiari segni di delusione per il “socialismo reale” che si stava realizzando in Russia nei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre: «Ci pareva di vedere che la società sovietica fosse ben lontana dai criteri rivoluzionari stabiliti da East European Thought», 48/1, 1996, pp. 63-81; A. GRAZIANO, Stare a sinistra. Le tentazioni politiche di Maurice Merleau-Ponty, Unicopli, Milano 1998. 150 M. MERLEAU-PONTY, Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste, Gallimard, Paris, 194; tr. it, di A. Bonomi, Umanismo e terrore, Sugar, Milano 1956, p. 40. 151 M. MERLEAU-PONTY, Les aventures de la dialectique, Gallimard, Paris, 1955; tr. it. e cura di D. Scarso, Le avventure della dialettica, Introduzione di M. Carbone, Mimesis, Milano, 2008, p. 225.

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Lenin. […] Faceva la sua apparizione un comunismo […] interamente fondato sulla coscienza dei capi, rinascita dello Stato hegeliano e non invece estinzione dello Stato»152. In questa fase di «comunismo d’attesa» e di conseguente “sospensione del giudizio etico” sulla violenza dei regimi comunisti Merleau-Ponty cerca di andare alle fonti più autentiche del marxismo: le ritrova negli scritti del giovane Marx pubblicati nei primi anni Trenta anche in Francia e che affascinarono un’intera generazione di intellettuali. Il “vero Marx”, a suo parere, non è quello del Capitale sclerotizzato nell’oggettivismo materialista con le sue pretese scientistiche, ma è quello degli scritti giovanili, cioè il Marx “umanistico ed esistenziale”: negli scritti marxiani giovanili, ovvero antecedenti al Manifesto del 1848, viene infatti assegnato alla coscienza umana un ruolo attivo, una concreta capacità di ristrutturazione del reale. Merleau-Ponty tende pertanto «a ritrovare i tratti caratterizzanti la filosofia dell’esistenza nel marxismo stesso, certo non nell’ortodossia marxista-leninista stabilita da Stalin, ma nell’opera giovanile di Marx, dove il marxismo viene prospettato come la filosofia per la quale “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”»153. Nel 1955 Merleau-Ponty pubblica un testo che segna il suo distacco teorico dal marxismo e il suo definitivo allontanamento dagli intellettuali rimasti fedeli al Partito Comunista Francese, come Sartre e Roger Garaudy: si tratta del già citato Les aventures de la dialectique. Nei primi anni Cinquanta il “marxismo d’attesa” di Merleau-Ponty entra in una crisi irreversibile, al termine della quale egli giunge a teorizzare l’«acomunismo», una posizione che avrebbe caratterizzato le sue scelte innanzi ai problemi storici e filosofico-politici. Questo «acomunismo» scaturisce in larga misura dalla disillusione che Merleau-Ponty – e Ibidem, p. 225. E. BOTTO, Esistenzialismo e marxismo: Maurice Merleau-Ponty e JeanPaul Sartre, cit., p. 152. 152 153

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con lui molti intellettuali di sinistra – avevano avuto nei confronti del «socialismo reale»: erano gli anni delle rivelazioni sui campi di lavoro in URSS, della guerra di Corea (1950-1953) e della scoperta che l’Unione Sovietica era governata da un partito unico e dittatoriale, un partito guidato da pochi e che con Stalin conduceva una politica spregiudicata di imperialismo154. Le avventure della dialettica è perciò uno scritto determinato dalla delusione nei confronti del regime sovietico: agli occhi di Merleau-Ponty lo stalinismo rappresenta non una deviazione del marxismo, ma l’autentica rivelazione del socialismo scientifico, l’esito consequenziale di un pensiero – quello del Marx del Capitale – dal carattere antiumanistico e deterministico. In Merleau-Ponty la condanna degli esiti storico-politici (lo stalinismo) diviene condanna e critica dei presupposti teorici del marxismo e dei suoi intellettuali più ortodossi: egli prende le distanze dalla linea ideologica della rivista «Les Temps Moderns» e nel volume del 1955 dedica un intero capitolo a Sartre accusandolo di “ultrabolscevismo” per la sua fedeltà incondizionata al Partito Comunista Francese, eccessivamente filosovietico e del tutto acritico verso le indicazioni politiche di Mosca155. «Per Merleau-Ponty come per molti altri» – ha ricordato Sartre – «l’anno cruciale» della disillusione nei confronti del comunismo sovietico è stato il 1950: «Egli pensò di vedere la dottrina staliniana senza maschera e si accorse che si trattava di un nuovo bonapartismo. […] Il socialismo era quel mostro abominevole, quel regime poliziesco, quella potenza rapinatrice. […]. L’URSS perse ai suoi occhi ogni privilegio, era, né più né meno delle altre potenze, anch’essa una potenza da preda» (J.-P. SARTRE, MerleauPonty vivant, in «Les Temps Modernes», nn. 184-185, 1961, pp. 37043765; tr. it. di M. Alicata, Merleau-Ponty vivo, in Il filosofo e la politica, antologia di saggi, articoli e interviste, Riuniti, Roma 1965, pp. 193-270, p. 231). 155 Cfr. anche D. SCARSO, Dialettica e ultrabolscevismo: note su una frattura filosofica (1955), «Bollettino Studi Sartriani», V, 2009 [si tratta di 154

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Sulla base degli studi weberiani Merleau-Ponty rilegge la storia del capitalismo moderno alla luce di un nuovo rapporto tra struttura e sovrastruttura, nuovo rispetto al determinismo marxista. Del resto, già in Fenomenologia della percezione egli aveva accennato alla necessità di non soffermarsi alla sola struttura economica nella comprensione integrale dei fatti storici: «Il materialismo storico» – egli scriveva – «non è una causalità esclusiva dell’economia. […] Esso non riconduce la storia delle idee alla storia economica, ma le ricolloca nella storia umana, che entrambe esprimono e che è quella dell’esistenza sociale»156. Merleau-Ponty critica, quindi, in primo luogo la “dimensione sincronica” della dialettica marxista, ovvero il rapporto falsato tra struttura (economica) e sovrastruttura (il mondo delle idee e l’ethos condiviso): seguendo Weber l’autore francese sostiene che la struttura economica non è la causa determinante della sovrastruttura ideologica, ma che ambedue contribuiscono alla configurazione di un determinato periodo della storia. Commentando il Weber dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo e il Lukács di Storia e coscienza di classe, Merleauun monografico dedicato al rapporto tra Sartre e Merleau-Ponty], pp. 77-96. Cfr. anche C. SENOFONTE, Sartre e Merleau-Ponty, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1972. All’indomani della sua uscita il libro Le avventure della dialettica suscitò un ampio dibattito e aspre critiche, soprattutto da parte degli intellettuali più vicini al Partito Comunista Francese: questi raccolsero i loro interventi critici in un volume collettaneo dal titolo Mésaventures de l’anti-marxisme. Les malheurs de M. Merleau-Ponty. Avec une lettre de Georg Lukács, Éditions Sociales, Paris, 1956: il volume contiene gli interventi di Roger Garaudy, Georges Cogniot, Maurice Caveign, Jean T. Desanti, Jean Kanapa, Victor Leduc, Henri Lefebvre. 156 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 240-241. Sulla lettura di Weber da parte di Merleau-Ponty si veda J.-C. MONOD, Du «marxisme webérien » au «nouveau libéralisme»: Weber dans Les aventures de la dialectique, in «Les Études Philosophiques», 57, 1, 2001, pp. 185-201.

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Ponty cerca, inoltre, di declinare in senso umanistico la dottrina marxista: la dialettica non opera nella storia umana reificando gli uomini ed oggettivandoli, ma sono gli uomini che con la loro volontà – tramite le loro idee – intervengono sulla realtà e cercano di modificarla. Per Merleau-Ponty «il marxismo non è una filosofia del soggetto [come volevano gli studiosi francesi che riportavano Marx interamente all’idealismo di Hegel], ma nemmeno una filosofia dell’oggetto [come voleva l’ortodossia sovietica]: è piuttosto una filosofia della storia»157. Nella storia – sottolinea il filosofo francese sulla scorta di Weber – l’uomo non è passivo e dominato da strutture a lui ignote, ma è un soggetto attivo e dinamico: «La storia è azione nell’immaginario […], è lo spettacolo che ci foggiamo di un’azione. […] La storia è uno strano oggetto: un oggetto che è noi stessi (L’histoire est un étrange objet: un objet qui est nous-mêmes); e la nostra vita insostituibile, la nostra libertà selvaggia, si trova già prefigurata, già compromessa, già agita in altre libertà, oggi passate»158. Opponendosi alle forme di determinismo più rigido, MerleauPonty rivendica il ruolo fondamentale della libertà umana nella storia e arriva ad affermare che «senza libertà non c’è dialettica (il n’y a pas de dialectique sans liberté)»159. Per l’autore francese il marxismo deve essere ripensato come «l’idea che un’altra storia è possibile, che non c’è destino, che l’esistenza dell’uomo è aperta»160 e non può essere determinata a priori. La libera volontà degli uomini, all’interno di una visione della storia tipicamente marxiana, trova inoltre il momento della sua vigorosa espressione nell’atto rivoluzionario. M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, cit., p. 154. M. MERLEAU-PONTY, Les aventures de la dialectique, Gallimard, Paris 1955; tr. it. e cura di D. Scarso, Le avventure della dialettica, Introduzione di M. Carbone, Mimesis, Milano, 2008, p. 23. 159 Ibidem, p. 224. 160 M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, cit., p. 142. 157 158

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Le riflessioni di Merleau-Ponty sulla rivoluzione sono estremamente realistiche e conducono ad una decostruzione del “mito della dialettica marxista”; egli arriva a chiedersi con vivo senso della realtà: «La dialectique était un mythe?»161. Dopo aver svolto un’analisi dei risultati delle rivoluzioni politiche dell’Europa moderna – dalla Rivoluzione francese alla Rivoluzione bolscevica – egli giunge a constatare con amarezza e disillusione che «le rivoluzioni sono vere come movimenti e false come istituzioni (les révolutions sont vraies comme mouvements et fausses comme régimes)»162. Le rivoluzioni di carattere giacobino sono state animate dalla volontà di realizzare una “nuova società” e un “uomo nuovo”: tuttavia sia la Rivoluzione francese del 1789 che quella russa del 1917 hanno mostrato che i rivoluzionari, una volta raggiunto il potere, edificano delle società nelle quali al comando vi sono sempre delle élites che governano servendosi di un forte apparato burocratico ed utilizzando spesso metodi autoritari e violenti. I rivoluzionari si sono, inoltre, rivelati sempre estremamente dogmatici e hanno praticato un’intolleranza radicale contro ogni forma di alterità di pensiero e di azione: per i rivoluzionari «tutto ciò che è altro è nemico (tout ce qui est autre est ennemi)» 163. I riferimenti storici sono quelli del Terrore che caratterizzò la fase giacobina della Rivoluzione francese e quelli dei gulag staliniani, dove l’antirivoluzionario veniva considerato come il nemico da eliminare. Le rivoluzioni europee hanno tradito le loro promesse e le loro stesse finalità: non sono riuscite a realizzare una “società senza classi” e una “struttura economica senza più servi e padroni”. Sulla base di esempi storici drammatici ed emblematici – come quello dei Bras nus contro i

M. MERLEAU-PONTY, Le avventure della dialettica, cit., p. 204. Ibidem, p. 207. 163 Ibidem, p. 206. 161 162

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quali si scagliò lo stesso governo di Robespierre164 – MerleauPonty arriva a concludere che «la rivoluzione e il suo fallimento formerebbero una sola cosa»165. Partendo anche dagli studi storici di Jules Michelet e di Daniel Guérin, egli afferma che «la rivoluzione è progresso quando la si paragona al passato, ma delusione e fallimento quando la si paragona al futuro che ha lasciato intravedere e poi soffocato»166. Ma la critica di Merleau-Ponty non si ferma alla constatazione del fallimento storico della Rivoluzione giacobina francese e di quella bolscevica, egli giunge a decostruire il concetto stesso di rivoluzione: «Non c’è dialettica senza opposizione e senza libertà, e opposizione e libertà non durano a lungo in una rivoluzione. Che tutte le rivoluzioni conosciute degenerino, non è frutto del caso: il fatto è che non possono mai, come regime istituito, essere ciò che erano come movimento e che, proprio perché è riuscito vittorioso ed è sfociato nell’istituzione, il movimento storico non

Merleau-Ponty si richiama, in particolare, alla prospettiva storiografica di Daniel Guérin espressa nel volume La Lutte des Classes sous la Première République, 1793-1797, Gallimard, Paris, 1946 (revue et augmentée en 1968). Con l’espressione Bras nus – ripresa dallo storico Jules Michelet autore della monumentale Histoire de la Révolution française in 7 voll. (1847-1853) – Guérin designa lo strato più povero dei fautori della rivoluzione, una sorta di classe “pre-proletaria” che egli distingue dai rivoluzionari di estrazione borghese. «La Montagna, il Governo rivoluzionario, l’azione di Robespierre, insomma la Rivoluzione francese» – commenta Merleau-Ponty – «sono progressivi quando li si paragona al passato, regressivi quando li si paragona alla rivoluzione dei Bras nus. Daniel Guérin spiega in maniera molto convincente che noi assistiamo qui all’avvento della borghesia, che questa fa leva sui Bras nus contro le antiche classi dirigenti, per poi volgersi contro di loro quando vogliono arrivare alla democrazia diretta» (M. MERLEAU-PONTY, Le avventure della dialettica, cit., p. 210). 165 Ibidem, p. 217. 166 Ibidem, p. 208. 164

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è più se stesso, è che facendosi, esso si “tradisce” si “sfigura”»167. L’autore francese rivolge la sua critica anche al concetto di “rivoluzione permanente” teorizzato da Lev Trockij in opposizione a Stalin: il problema – osserva Merleau-Ponty – è anche la “rivoluzione permanente” con la sua «fede nella fine della storia (croyance à la fin de l’histoire)»168, dopo aver Ibidem, p. 206-207. Ibidem, p. 206. Si noti che nella cultura francese degli anni Trenta e Quaranta l’espressione «fine della storia» è stata utilizzata e diffusa da Alexandre Kojève, filosofo di ispirazione hegeliana. Sottolineando la continuità tra Hegel e Marx, soprattutto a proposito della “dialettica servopadrone”, Kojève sostiene che con la rivoluzione russa del 1917 e il collettivismo sovietico si è compiuta la «fine della storia», cioè il suo inveramento sotto il profilo della “Ragion dialettica” hegelianamente intesa. Il 4 dicembre 1937 Kojève tenne una conferenza al Collège de sociologie dal titolo Le concezioni hegeliane. Scrive Roger Caillois, presente all’evento: «Questa conferenza ci sconvolse, non solo per il vigore intellettuale di Kojève, ma per le sue stesse conclusioni. […] Hegel parla dell'uomo a cavallo che segna la fine della storia e della filosofia. Per Hegel, quell’uomo era Napoleone. Ebbene! Kojève ci svelò quel giorno che Hegel, pur avendo avuto una giusta intuizione, si era sbagliato di un secolo: l’uomo della fine della storia non era Napoleone, ma Stalin» (R. CAILLOIS, Le concezioni hegeliane (Alexandre Kojève), in D. HOLLIER (a cura di), Il Collegio di Sociologia. 1937-1939, edizione italiana e cura di M. Galletti, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 106-110, p. 107). Dal 1933 al 1939 Kojève tenne a Parigi dei celebri corsi sulla hegeliana Fenomenolgia dello Spirito: come abbiamo già accennato in precedenza, queste lezioni – nelle quali veniva esplicitato il concetto di «fin de l’histoire» (A. KOJÈVE, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologie de l’esprit professées de 1933 à 1939 à l'École des Hautes Études, a cura di R. Queneau, Gallimard, Paris, 1947, nuova edizione 1980, p. 597) – furono frequentate da intellettuali quali Georges Bataille, Roges Caillois, Henry Corbin, Jacques Lacan e, non da ultimi, Raymond Aron, Sartre e MerleauPonty. Sull’interpretazione della dialettica hegelo-marxista da parte di Kojève mi limito ad indicare D. AUFFRET, Alexandre Kojève. La philosophie, l’État, la fin de l’histoire, Bernard Grasset, Paris, 1990; M. VEGETTI, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, 167

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rovesciato l’ancien régime, fa «per principio il contrario di ciò che vuole e [fa] posto ad una nuova élite, sia pure sotto il nome di rivoluzione permanente»169. Come commenta il liberale Raymond Aron, il merito di Merleau-Ponty è quello non solo di aver messo «in dubbio il valore esemplare della Rivoluzione bolscevica»170, ma della rivoluzione tout court: «ogni rivoluzione è tradita, il venir meno del fervore è inevitabile: si costituisce una nuova élite, il partito diventa una burocrazia. Rivoluzione permanente, critica del potere, proletariato autotrascendentesi non esistono»171. Questa lucida analisi di Merleau-Ponty sul fallimento costitutivo del processo rivoluzionario – come ha giustamente notato Aron – ha preso le mosse dal concetto weberiano di Veralltäglichung der Revolution (indicante la “trasformazione della rivoluzione in routine quotidiana” e quindi “perdita dell’originario carisma”) ed ha influenzato anche il Sartre maturo nel suo ripensamento critico della dialettica marxista: «Sartre ha ripreso la stessa idea nella Critica della ragione dialettica. Il gruppo in fusione, l’atto puro [del processo rivoluzionario] sono condannati ad una cristallizzazione istituzionale, a una ricaduta nel pratico-inerte»172. Sartre ha giustamente affermato che il suo amico e compagnon de route Merleau-Ponty «lungi dall’essere stato mai comunista,

Jaca Book, Milano 1999; G. BARBERIS, Il Regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Liguori, Napoli, 2003. 169 M. MERLEAU-PONTY, Le avventure della dialettica, cit., p. 206. 170 R. ARON, Marxismes imaginaires. D’une sainte famille à l’autre, Gallimard, Paris, 1970; tr. it. di M.J. de Toledo, Marxismi immaginari. Da una sacra famiglia all’altra, FrancoAngeli, Milano, 1972, p. 49: si tratta del capitolo dedicato a Merleau-Ponty dal titolo Avventure e disavventure della dialettica, pp. 44-78, pubblicato per la prima volta nella rivista «Preuves», nel gennaio 1956. 171 Ibidem, p. 59. 172 Ibidem.

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non è mai neppure stato tentato di esserlo»173: era stato marxista in mancanza di meglio e per ragioni esclusivamente etiche, per la fedeltà ai valori fondamentali dell’umanesimo e della giustizia sociale. L’«acomunismo» dell’ultimo Merleau-Ponty si risolve pertanto in un rigoroso neutralismo e nella ricerca di una “terza via”, una via diversa e alternativa rispetto al collettivismo marxista e all’individualismo liberale: “né con l’URSS né con gli USA”. La morte prematura a causa di un arresto cardiaco nel 1961 non ha permesso a Merleau-Ponty di sviluppare ulteriormente questa “terza via” riformistica, mediana e mediatrice tra il collettivismo sovietico e il capitalismo liberista: «Per la dittatura [sovietica]» – egli afferma – «si tratta di passare a una pianificazione che non sia imperativa, e inversamente, per il capitalismo, di sottomettere a una direzione di interesse pubblico i meccanismi dell’economia di mercato»174. Questa ricerca di una “terza via” induce l’autore francese a parlare della necessità di un «nuovo liberalismo (nouveau libéralisme)»175: tuttavia egli è lontano dal pensare ad un ritorno al liberalismo classico ed ottocentesco, definito come «filosofia ottimistica e superficiale che riduce la storia a dei conflitti d’opinione di ordine speculativo»176. La critica di Merleau-Ponty al marxismo e alle strutture totalizzanti della dialettica – diversamente da come accade in Raymond Aron – non lo ha mai spinto ad abbracciare il modello capitalistico liberale come “il minore dei mali possibili”: come ha giustamente sostenuto anche Michele Martelli, «la critica merleau-pontyana dell’Unione Sovietica, anche nel massimo di tensione e di ambivalenza, non si capovolge mai nell’apoteosi

P. SARTRE, Merleau-Ponty vivo, cit., p. 234. M. MERLEAU-PONTY, Segni, cit., p. 338. 175 M. MERLEAU-PONTY, Le avventure della dialettica, cit., p. 222. 176 Ibidem. 173 174

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dell’Occidente, del liberalismo e del capitalismo»177. MerleauPonty è rimasto sempre sostanzialmente scettico e sospettoso nei confronti delle “libertà formali” teorizzate dai democraticiliberali: questi ultimi dietro la retorica di alti principi eticogiuridici finiscono per difendere “le libertà dei ricchi e degli sfruttatori”. Eli è rimasto pertanto sempre fedele ai rilievi critici e disincantati fatti nella Prefazione di Humanisme et terreur alla tradizione liberale: «Sotto la maschera dei princìpi liberali l’astuzia, la violenza, la propaganda, il realismo senza princìpi costituiscono, nelle democrazie, la sostanza della politica estera o coloniale e anche della politica sociale. Il rispetto della legge o della libertà è servito a giustificare la repressione poliziesca degli scioperi in America; ancora oggi esso serve a giustificare la repressione militare in Indocina o in Palestina e lo sviluppo dell’impero americano nel Medio Oriente. La civiltà morale e materiale dell’Inghilterra presuppone lo sfruttamento delle colonie. La purezza dei prìncipi non solo tollera, ma richiede delle violenze. Esiste dunque una mistificazione liberale (Il y a donc une mystification libérale)»178. Con le sue critiche al marxismo e al liberalismo Merleau-Ponty ha anticipato uno dei tratti peculiari della sensibilità postmoderna, M. MARTELLI, Merleau-Ponty, Sartre e il «fantasma di Stalin», in IDEM, I filosofi e l’URSS. Per una critica del «socialismo reale», La Città del Sole, Napoli, 1999, pp. 137-178, p. 152. 178 M. MERLEAU-PONTY, Umanismo e terrore, cit., p. 37. Tale visione della “mistificazione liberale” viene chiaramente condivisa anche da Sartre, il quale – come cercherò di far emergere nelle prossime pagine – ha sempre osservato con sospetto le logiche di potere celate dietro le istituzioni liberaldemocratiche occidentali, comprese le elezioni politiche. Le violenze e le contraddizioni dei paesi liberali occidentali (come il dramma dello sfruttamento coloniale) sono state oggetto anche di un ampio e fortunato studio filosofico-politico di Domenico Losurdo: cfr. D. LOSURDO, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2006: nel 2019 il libro è giunto alla quinta ristampa. 177

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ovvero la sfiducia nei confronti di una fede acritica nel progresso storico, sia il progresso nell’affermazione dei diritti individuali (liberalismo) sia nel trionfo finale di una “società degli eguali” (comunismo). L’atteggiamento dell’ultimo Merleau-Ponty è perciò quello di un osservatore critico nei confronti delle mitologie politiche ottimistiche, che hanno avuto la pretesa di indicare la strada sicura del progresso etico-sociale: «Quante ore, quante argomentazioni sprecate» – afferma con disincanto l’autore francese – «a proposito di un voto del gruppo parlamentare o di un disegno di Picasso, come se la Storia Universale, la Rivoluzione, la Dialettica, la Negatività, fossero veramente presenti sotto quelle sembianze dimesse! […] I grandi concetti storico-filosofici erano esangui […]. Se tale era il connubio della filosofia e della politica, si penserà che bisogna rallegrarsi per il loro divorzio»179. Alla fine degli anni Cinquanta Merleau-Ponty diviene, in tal modo, precursore di quella sensibilità tipicamente postmoderna caratterizzata dal congedo nei confronti delle grandi “narrazioni di senso”, cioè di quelle mitologie tese ad indicare un senso globale all’esistere, di carattere politico ma anche religioso. Egli si rende conto che nella società capitalistica, dominata ormai dalla tecnica e da una ragione strumentale, la stessa «funzione simbolica [perde] la sua bellezza ieratica; alla mitologia e al rituale si sostituiscono la ragione e il metodo, ma anche un uso tutto profano della vita, accompagnato, d’altra parte, da piccoli miti compensatori senza profondità (un usage tout profane de la vie, accompagné d’ailleurs de petits mythes compensatoires sans profondeur)»180. La disillusione nei confronti della politica e gli scontri con gli intellettuali militanti (sia di sinistra che di destra), hanno condotto Merleau-Ponty negli ultimi anni della sua vita a lasciare un po’ da parte l’impegno sociale concreto per dedicarsi ad uno studio 179 180

M. MERLEAU-PONTY, Segni, cit., pp. 24-25. Ibidem, p. 149.

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teoretico sulla dimensione originaria dell’essere: in Segni e soprattutto nel postumo Le visible et l’invisible «il concetto di dialettica si essenzializza, trasformandosi da categoria prevalentemente socio-politica in un concetto ontologicometafisico»181. In questi ultimi scritti, alla dialettica (intesa à la Hegel) come pensiero affermativo e comprensivo della totalità, egli sostituisce una visione della dialettica come “ritorno alla dimensione originaria dell’essere”: «La filosofia» – afferma l’autore, criticando implicitamente l’hegelo-marxismo – «non tiene il mondo steso ai suoi piedi, non è un “punto di vista superiore” dal quale abbracciamo tutte le prospettive locali; essa cerca il contatto con l’essere grezzo (Elle ne tient pas le monde couché à ses pieds, elle n’est pas un «point de vue supérieur» d’où l’on embrasse toutes les perspectives locales, elle cherche le contact de l’être brut), e si istruisce anche presso coloro che non se ne sono mai allontanati [i letterati, gli artisti, i poeti, “i puri di cuore (οἱ καθαροὶ τῇ καρδίᾳ)]»182. Merleau-Ponty cerca di teorizzare una nuova ontologia tesa a superare la tradizionale posizione di autocertezza del soggetto (il cogito cartesiano e l’ich denke kantiano) e propone una concezione della soggettività come “carne originaria”, da sempre coinvolta, “inviluppata” nella trama sensibile dell’essere. In questo nuovo contesto ontologico – che presenta analogie con quello delineato da Heidegger negli anni successivi alla cosiddetta Kehre –, la dialettica viene definita come il reciproco toccarsi e penetrarsi del soggetto e dell’essere: in questa ultima fase delle sue riflessioni, al termine di dialettica Merleau-Ponty preferisce quello di chiasma (chiasme): quest’ultimo viene definito come il punto di contatto, o meglio di incrocio, tra la carne del soggetto e l’essere del mondo. Nel chiasma, in questo incrocio, l’essere diventa per la prima volta P. NEPI, Merleau-Ponty. Tra il visibile e l’invisibile, Studium, Roma, 1984, p. 127. 182 M. MERLEAU-PONTY, Segni, cit., p. 41. 181

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visibile a sé stesso, e perciò ad un tempo si differenzia da sé stesso, aprendo in sé una dimensione di interiorità. Il chiasma diventa così il concetto intorno a cui Merleau-Ponty cerca di ripensare il compito della filosofia: si tratta di un oltrepassamento delle strutture forti e fondative sia della dialettica hegelo-marxista che della metafisica classica: «L’idea del chiasma, cioè: ogni rapporto all’essere è simultaneamente prendere ed essere preso, la presa è presa, è inscritta e inscritta nello stesso essere che essa prende. A partire da qui, elaborare un’idea della filosofia: essa non può essere presa totale e attiva, possesso intellettuale [possession intellectuelle, come la dialettica di Hegel e di Marx], giacchè ciò che vi è da cogliere è uno spossessamento (dépossession). – Essa non è al di sopra della vita, non la sovrasta. È al di sotto»183. 8. La struttura: “un trascendentale senza soggetto” Gli anni ’60 e ’70 sono caratterizzati in Francia dall’ampia diffusione dello strutturalismo sia nelle metodologie delle scienze umane che nella ricerca filosofica. Se in quei decenni lo strutturalismo divenne un approccio che investì un’estesa area di discipline che va dalla linguistica all’antropologia, dalla psicoanalisi all’etnologia, le origini di tale metodologia d’indagine risalgono tuttavia ai primi del Novecento, all’insegnamento del linguista Ferdinand de Saussure, che per primo parlò della lingua come sistema e della differenza tra diacronia e sincronia. In Saussure si possono rintracciare alcune idee fondamentali che saranno ampiamente sviluppate nel 183

M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, cit., p. 313 [trad. ital. nostra]; dello stesso volume si veda anche il capitolo dal titolo Interrogation et dialectique (pp. 74-128) contenente anche un confronto speculativo con Sartre.

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successivo strutturalismo linguistico del Circolo di Praga e che troveranno in Claude Lévi-Strauss una compiuta sistematizzazione anche sul piano filosofico ed antropologico. I principali interpreti dello strutturalismo – le cui idee sono state molto influenti anche al di fuori dell’ambito culturale francese – sono il già richiamato Lévi-Strauss, Louis Althusser, Michel Foucault, lo psicoanalista Jacques Lacan ed il critico letterario Roland Barthes184. Lo strutturalismo si è generalmente caratterizzato per un’impostazione metodologica antiumanistica ed in netta antitesi a tutte quelle filosofie (come ad esempio lo spiritualismo, il personalismo, l’esistenzialismo e la fenomenologia) che, seppur con diverse accentuazioni, hanno posto al centro della loro riflessione l’uomo: gli strutturalisti rivendicano il primato della struttura sull’uomo. Le strutture sono quelle forme universali, impersonali ed inconscie che determinerebbero rigidamente il costituirsi di società, culture, individui e testi. Esse sono quei “tratti anonimi ed invarianti” innanzi ai quali l’uomo è sempre il “costituito” e mai il “costituente”: ciò vale a dire che nelle dinamiche delle strutture il soggetto umano, inteso come libertà e creatività produttiva, non gioca alcun ruolo. Per comprendere il significato dei termini struttura e strutturalismo ci paiono estremamente significative le definizioni che ha dato Paul Ricoeur, la cui riflessione filosofica si è sviluppa anche in confronto critico con questa metodologia d’indagine: la struttura viene qualificata come un «trascendentale senza Questi autori possono essere certamente definiti “strutturalisti”: va tuttavia ricordato che le loro prospettive filosofiche talvolta divergono notevolmente le une dalle altre e che non sempre si possono completamente inquadrare entro i confini teoretici dello strutturalismo; a tal proposito basti pensare a Foucault, il cui pensiero sotto certi aspetti va anche al di là dello strutturalismo (quale, per esempio, viene teorizzato da Lévi-Strauss) e si fa espressione di altre tendenze speculative, come quelle della cosiddetta Nietzsche-Renaissance. 184

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soggetto»185, e lo strutturalismo viene caratterizzato come un «kantismo senza soggetto trascendentale»186, dove al posto dell’io penso vi è una semplice organizzazione di natura formale. La struttura è quindi una sorta di apriori collettivo ed inconscio: è un «sistema di trasformazioni che si autoregola»187 indipendentemente dalla volontà e dalla libertà del soggetto umano. Dal punto di vista antropologico le strutture sono quelle forme invarianti che costituiscono nel loro insieme ciò che LéviStrauss definisce come “spirito umano”, “sostrato universale” e “funzione simbolica”: esse sono «un dispositivo mentale comune a tutta l’umanità [..] che trova il suo fondamento nelle proprietà funzionali del cervello ma che si manifesta empiricamente soprattutto nelle creazioni sociali e culturali, nelle forme collettive, nell’esplicarsi di meccanismi comuni e generali»188. Le strutture sono quindi paragonabili all’“inconscio collettivo” di cui parla Carl Gustav Jung e possono venir interpretate come

P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Jannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 44. Un approfondito confronto speculativo di Paul Ricoeur con la prospettiva metodologica strutturalista che dominava l’ambiente culturale francese degli anni ’70 lo si trova nella raccolta di scritti del volume P. RICOEUR, Structure et herméneutique, «Esprit», novembre 1963, pp. 596-627; tr. it. di M. Cristaldi, La sfida semiologica, Armando, Roma, 1974: in esso è contenuta anche la traduzione italiana dei dialoghi filosofici di Ricoeur con Lévi-Strauss, Benveniste e Lacan, cfr. pp. 313-359. 186 P. RICOEUR, Structure et herméneutique, «Esprit», novembre 1963, pp. 596-627; Struttura ed ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Prefazione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano, 19993, pp. 41-75, p. 66. 187 J. PIAGET, Le structuralisme, PUF, Paris 1968; tr. it. di A. Bonomi, Lo strutturalismo, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 39. 188 E. COMBA, Introduzione a Lévi-Stauss, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 73. 185

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«meccanismi universali della mente»189, come quell’apparato categoriale apriori situato nelle profondità della psiche e che costituisce una sorta di “ragione nascosta” di tutte le manifestazioni sociali e culturali dell’uomo. Per spiegare i meccanismi che regolano lo sviluppo della civiltà umana, secondo gli strutturalisti non è dunque più necessario rivolgersi alla storia: lo studio della storia non serve realmente a “spiegare” l’uomo, poiché in realtà sono le strutture il sostrato universale e atemporale che determina il costituirsi sia delle società tecnologizzate che di quelle impropriamente definite come “primitive”. Contro il mito storicistico dell’homo faber sui, dell’uomo “artefice di se stesso” e dei processi storici, LéviStrauss afferma che «dopo millenni l’uomo non è riuscito che a ripetersi»190: questo vuol dire che pur essendoci stato in alcune parti del mondo un innegabile sviluppo tecnico e materiale, la specie umana, nelle sue strutture psicologiche di base, è rimasta sostanzialmente la stessa. Per Lévi-Strauss nelle ricerche antropologiche non è quindi più adeguato un metodo di ricerca diacronico e storico-evolutivo: quest’ultimo dev’essere sostituito da analisi di carattere sincronico, tese cioè alla ricerca di strutture, di quelle “invarianti culturali” comuni ad ogni società ed U. ECO, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968, p. 294. Riguardo la definizione speculativa del concetto di “struttura” cfr. R. BASTIDE (a cura di), Sens et usages du terme structure, Mouton & Co., Paris, 1962; Usi e significati del termine struttura, Bompiani, Milano, 1965. Sulle caratteristiche filosofiche dello strutturalismo cfr. O. DUCROT, T. TORODOV, D. SPERBER, M. SAFOUAN, F. WAHL, Qu'est-ce que le structuralisme?, Seuil, Paris 1968; Che cos’è lo strutturalismo?, Isedi, Milano, 1973; S. MORAVIA, Lo strutturalismo francese, Sansoni, Firenze 1975; G. DELEUZE, À quoi reconnaît-on le structuralisme?, in F. CHATELET (a cura di), Histoire de la philosophie, vol. 3, Hachette, Paris 1972-1976; a cura di S. Paolini, Lo strutturalismo, SE, Milano, 2004. 190 C. LÉVI-STRAUSS, Tristes Tropiques, Plon, Paris 1955; tr. it. di G. Garufi, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 19652, p. 381. 189

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indipendenti da qualsiasi dinamica storica. Per l’etnologo non ci sono delle società “storicamente” più evolute delle altre, poiché tutte sono rette dagli stessi meccanismi: le strutture. Compito dell’antropologia culturale è per Lévi-Strauss lo studio delle strutture dello spirito umano, e questo compito è da realizzare tramite ricerche “sul campo”, vivendo cioè per alcuni periodi tra i cosiddetti “selvaggi”o “primitivi”: l’antropologo deve mettere tra parentesi i condizionamenti storico-culturali della propria civiltà di appartenenza per immergersi “sul campo” nell’“osservazione integrale” delle società più lontane e “primitive”, cercando di comprenderle nelle loro strutture costitutive. Com’è noto, le ricerche di Lévi-Strauss si incentrarono soprattutto sulle strutture della parentela e sui miti: nel volume del 1949 Le strutture elementari della parentela egli mise in evidenza che uno degli elementi costanti ed universali delle relazioni famigliari è il tabù dell’incesto; si tratta di un divieto sociale che si può ritrovare in pressoché tutti i popoli della terra. Nei suoi successivi studi sui miti, Lévi-Strauss cercò di porre in rilievo che essi celano una struttura logico-formale comune sia all’uomo arcaico che all’uomo moderno; egli perciò diede inizio ad un’analisi comparativa ad ampio raggio dei vari miti del mondo. L’istanza fondamentale da cui si originano gli studi di LéviStrauss è quella di dare una nuova fondazione alle scienze umane, eliminando da esse ogni tradizionale riferimento all’idea umanistica di soggetto e di coscienza. Per l’antropologo francese l’approccio metodologico delle scienze umane deve avere un carattere essenzialmente “antiumanistico”; egli afferma con decisione: «crediamo che il fine ultimo delle scienze umane non consista nel costituire l’uomo ma nel dissolverlo»191; ed ancora:

C. LÉVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962; tr. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 19652, p. 269. 191

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«le scienze umane possono diventare scienze solo cessando di essere umane»192. La coscienza umana viene considerata da Lèvi-Strauss come «la nemica segreta delle scienze dell’uomo»193; essa - formatasi sempre in un preciso ambito storico-culturale - impedirebbe quello sguardo distaccato ed impersonale sull’uomo, che è considerato il presupposto di ogni osservazione scientifica: «Cerco di capire gli uomini e il mondo come se fossi completamente fuori gioco, come se fossi un osservatore d’un altro pianeta e avessi una prospettiva assolutamente oggettiva e completa»194. Secondo l’etnologo francese le scienze umane, per qualificarsi come obiettive e neutrali, devono di necessità rivolgersi allo studio di tutte quelle strutture antropologiche, economiche e sociali che determinano la vita degli individui e che - come abbiamo rilevato - sono del tutto “atemporali” ed “impersonali”. Si può dire, allora, che l’unica maniera per comprendere scientificamente l’uomo è per Lévi-Strauss e gli strutturalisti quella di “dissolverlo”, nello sforzo di cogliere - al di là dell’io - la combinatoria “anonima” delle leggi e dei princìpi che determinano la sua vita in società. In Lévi-Strauss viene quindi esplicitamente teorizzata quell’idea della “morte dell’uomo” che costituisce uno dei tratti distintivi anche delle altre forme di strutturalismo elaborate da Foucault, Althusser e P. CARUSO, Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan, Mursia, Milano, 1969, p. 90 (l’espressione citata è tratta da una risposta data da Lévi-Strauss). 193 C. LÉVI-STRAUSS Race et histoire, Unisco, Paris, 1952; tr. it. e cura di P. Caruso, Razza e storia e altri tipi di antropologia, Einaudi, Torino, 1967, p. 270. 194 P. CARUSO, Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan, op. cit., p. 37 (la frase citata è tratta da una risposta data da Lévi-Strauss). Sulla concezione dell’uomo tipica dell’etnologo francese cfr. anche C. LÉVISTRAUSS, Anthropologie structurale, Plon, Paris, 1958; tr. it. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966. 192

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Lacan. È con queste significative parole che Foucault spiega con chiarezza le motivazioni di fondo che spingono gli strutturalisti a non considerare più l’uomo il centro della riflessione filosofica: «dal momento che ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è presa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni, che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa per così dire, di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in fondo un insieme di strutture che egli certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana. Questa riduzione dell’uomo alle strutture che lo circondano mi sembra caratteristica del pensiero contemporaneo»195. Negli strutturalisti è quindi presente una radicale critica ad ogni prospettiva umanistica ed antropocentrica, ad ogni teoria filosofica che pone al centro della sua attenzione l’idea stessa di uomo: ad avviso di Foucault l’idea di uomo viene considerata addirittura «un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. [...] Ai nostri giorni, piuttosto che l’assenza o la morte di Dio viene proclamata la fine dell’uomo [...]. L’uomo sta per scomparire»196. P. CARUSO, Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan, op. cit., pp. 107-108 (le frasi citate sono tratte dal dialogo tenuto dal curatore del volume con Foucault). 196 M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris, 1966; tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1967, pp. 413-414. Ad avviso di Foucault la metodologia strutturalista «dissipa quella identità personale in cui amiamo contemplarci per scongiurare le fratture della storia; spezza il filo delle teleologie trascendentali; e laddove il pensiero antropologico interrogava l’essere dell’uomo o la sua soggettività, essa fa brillare l’altro e l’esterno. Così intesa, la diagnosi non stabilisce che la constatazione della nostra identità mediante il meccanismo delle distinzioni. Stabilisce che noi siamo 195

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Simili affermazioni di carattere antiumanistico le possiamo ritrovare anche nel filosofo marxista Althusser, per il quale non è possibile «conoscere qualcosa degli uomini se non all’assoluta condizione di ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell’uomo»197. Sulla scorta di un Marx interpretato indipendentemente da ogni connotazione umanistica, Althusser cerca di comprendere la storia come un «processo senza soggetto e senza autore»198, ovvero come un processo da spiegare unicamente in base alla causalità strutturale (egli si riferisce in particolare alla struttura economica) indipendente dai singoli individui. Come si è potuto constatare, gli strutturalisti prendono nettamente le distanze da tutte le filosofie occidentali incentrate sul soggetto umano e sui problemi connessi all’esistenza del singolo: in particolare, gli espliciti bersagli polemici di LéviStrauss sono la fenomenologia e l’esistenzialismo. L’antropologo francese ripercorrendo le tappe più significative della sua biografia intellettuale non esita ad affermare: «la fenomenologia mi urtava in quanto postula una continuità tra l’esperienza vissuta e la realtà oggettiva. […] Quanto all’esistenzialismo non potevo considerarlo una speculazione valida a causa della sua compiacenza verso le illusioni della soggettività. Quel promuovere preoccupazioni personali alla dignità di problemi filosofici rischia troppo di condurre ad una metafisica da donnette [...], molto pericolosa se dovesse permettere di tergiversare in differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere» (M. FOUCAULT, L'archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. di G. Bugliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1980, pp. 175-176). 197 L. ALTHUSSER, Pour Marx, Maspero, Paris 1965; tr. it. e cura di C. Leporini e F. Madonna, Per Marx, tr. it. e cura di C. Leporini e F. Madonna, Editori Riuniti, Roma, 19742, p. 205. 198 L. ALTHUSSER, Lenin et la philosophie, Maspero, Paris 1968; tr. it. e cura di F. Madonna, Lenin e la filosofia, Jaca Book, Milano, 1969, p. 70.

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quella missione, che spetta alla filosofia finché la scienza non sia abbastanza forte per sostituirla, consistente nel comprendere l’essere in rapporto a se stesso e non in rapporto a me»199. In queste parole è anche sottesa una polemica diretta di Lévi-Strauss con Sartre: quest’ultimo in Tristi tropici viene considerato come il più influente rappresentante di un atteggiamento filosofico errato e fuorviante poiché incentrato sui problemi “fittizi” dell’interiorità umana e dell’esistenza. Dal canto suo, in Critica della ragione dialettica del 1960, Sartre ribatte a Lévi-Strauss che senza un approccio esistenziale le scienze umane si risolvono in un “positivismo meccanicista” ed in un mero “gestaltismo”: per Sartre le scienze che si occupano dell’uomo verrebbero meno al loro compito essenziale se lasciassero sistematicamente fuori della loro ricerca «l’insuperabile peculiarità dell’avventura umana»200. Nell’opera del 1962 La pensée sauvage, Lévi-Strauss risponde alle provocazioni sartriane ribadendo che solo i princìpi epistemologici dello strutturalismo possono garantire una comprensione veramente obiettiva dell’uomo e delle società: egli - quasi scrollandosi di dosso ogni “dramma esistenziale” - afferma che ha intenzione di studiare gli uomini «come se fossero formiche»201, nella maniera più obiettiva possibile. Ad avviso di Lévi-Strauss la verità sull’uomo non può venire affatto dall’esistenzialismo, che rimane una filosofia legata alla civiltà occidentale storicamente determinata ed alla sua crisi dei valori. Per l’antropologo un adeguato studio sull’uomo deve saper mettere tra parentesi ogni forma di privilegiamento di una civiltà sull’altra, e di conseguenza ogni forma di etnocentrismo: «ci vuole una buona dose di egocentrismo e d’ingenuità per credere C. LÉVI-STRAUSS, Tristi tropici, op. cit., pp. 56-57. J.-P. SARTRE, Critique de la raison dialéctique, Gallimard, Paris, 1960; tr. it. a cura di P. Caruso, Critica della ragione dialettica, Vol. I, Il Saggiatore, Milano, 1963, p. 134. 201 C. LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, op. cit. , p. 269. 199 200

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che l’uomo sia interamente rifugiato in uno solo dei modi storici e geografici del suo essere, quando, invece, la verità dell’uomo sta nel sistema delle loro differenze e delle loro comuni proprietà»202. A mio parere, le posizioni di Lévi-Strauss e Sartre - seppur diversissime sotto il profilo metodologico - hanno comunque in comune una radicale presa di distanza da qualsiasi ulteriorità di senso di ordine metafisico e religioso. Anche a Sartre potrebbero essere attribuite le seguenti parole nelle quali Lévi-Strauss esprime il suo lucido disincanto esistenziale, la sua radicata convinzione della “nullità” dell’uomo nell’universo: «ho detto che l’uomo doveva vivere, lavorare, pensare, farsi coraggio, ben sapendo che non sarà presente sulla terra per sempre, che un giorno questa Terra cesserà di esistere, e che allora di tutte le opere degli uomini non resterà niente [..]. Se scomparisse l’umanità e se scomparisse la Terra, non cambierebbe niente nel funzionamento del cosmo»203. 9. Soggettività ed emancipazione: Nietzsche-Renaissance, “filosofie della differenza” e “pensiero nomade” Nel volume del 1979 Le même et l’autre, Vincent Descombes ripercorrendo gli orientamenti fondamentali del pensiero francese nei decenni centrali del Novecento, a partire dagli anni ’60, contemporaneamente al diffondersi dello strutturalismo, parla di un generale e vistoso mutamento di paradigma filosofico dovuto all’influsso che sulla nuova generazione di intellettuali ebbero i cosiddetti “maestri del sospetto”: Nietzsche, Marx e Freud. Se nella generazione di Sartre e di Merleau-Ponty i punti di Ibidem, pp. 270-271. C. LÉVI-STRAUSS - D. ERIBON, De près et de loin, Odile Jacob, Paris 1988; tr. it. di M. Cellerino, Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano, 1988, p. 223. 202 203

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riferimento speculativi erano prevalentemente rappresentati da Hegel, Heidegger ed Husserl (le celebri tre “H”)204, nel rinnovato contesto d’indagine sono soprattutto i “maestri del sospetto” (così lì definisce Paul Ricoeur) ad essere seguiti ed originalmente ripresi. I fautori di questo rinnovamento del contesto filosofico, pur mostrando delle evidenti analogie sotto il profilo speculativo, non hanno però costituito una scuola unitaria di pensiero: possiamo dire che i loro percorsi intellettuali hanno dei punti comuni di riferimento ma sono spesso indipendenti gli uni dagli altri. Gli autori ai quali ci riferiamo sono soprattutto Gilles Deleuze, Michel Foucault, Jaques Derrida e Jean-François Lyotard: ognuno di essi - com’è noto - ha dato vita ad una forma di pensiero originale avente delle caratteristiche tutte proprie. Uno degli elementi che accomunano questi intellettuali, oltre al confronto critico con il marxismo, il freudismo e Nietzsche, è costituito dall’esplicita volontà di prendere le distanze dalle forme tradizionali del discorso filosofico al fine di rinnovarne radicalmente sia i contenuti che lo stile espositivo. Le loro opere sono generalmente caratterizzate da un forte sperimentalismo sia sul piano delle idee che su quello formale: a tal proposito basti Cfr. V. DESCOMBES, Le même et l’autre. Quarantecinq ans de philosphie française. 1933-1978, Les Éditions de Minuit, Paris, 1979. Si ricordi che tra gli anni ’30 e gli anni ’50 in Francia ci fu una vera e propria rinascita degli studi su Hegel: i maggiori rappresentanti di questa sorta di HegelRenaissance furono soprattutto Jean Wahl, Alexandre Kojève e Jean Hyppolite. Fino agli anni ’50 in Francia l’influsso di Hegel fu quindi morto forte: si pensi che alle lezioni sul pensiero hegeliano tenute a Parigi da Kojève tra il 1933 e il 1939 (raccolte ed edite nel 1947 con il titolo Introduction à la lecture de Hegel) parteciparono anche Sartre, Polin, Merleau-Ponty, Hyppolite, Fessard, Queneau, Weil, Aron, Bataille, Klossowsky, Koyré e Breton. A tal proposito cfr. R. SALVADORI, Hegel in Francia. Filosofia e politica nella cultura francese del Novecento, De Donato, Bari, 1974; V. VERRA, Introduzione a Hegel, Laterza, Roma-Bari, 200511, pp. 233-237. 204

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pensare a scritti dallo stile avanguardistico e certamente un po’ bizzarro come Mille Piani di Deleuze o a Glas di Deridda. Possiamo dire che si tratta di filosofi certamente “asistematici” ed “antidialettici”: i loro comuni bersagli polemici sono la dialettica di Hegel nella sua compiuta sistematicità e, più in generale, ogni proposta filosofica che pretenda di esporre “la verità tutt’intera”, giungendo a conclusioni ultime e definitive sul mondo e l’esistenza umana. Uno degli altri elementi che accomuna questa generazione di intellettuali è l’accentuazione del valore irriducibile della nozione di “differenza” sia in ambito filosofico che politico-sociale. Come analizzeremo meglio in seguito, la presa di distanza da ogni paradigma filosofico dialettico, monologico, onnicomprensivo - ed in ultima istanza “totalitario” e “violento”205 - fa si che questi autori, sotto diverse forme, valorizzino il significato della differenza: le loro prospettive di pensiero - seppur in parte divergenti le une dalle altre - possono però essere definite come “filosofie della differenza”. L’atmosfera culturale della quale gli autori sopra citati sono espressione viene generalmente definita come post-strutturalismo o neostrutturalismo206: sotto queste etichette si riuniscono diversi Cfr. ad esempio J. DERIDDA, Jacques Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel Lévinas, «Revue de Métaphysique et de Morale», vol. 69, n. 3, juillet-septembre 1964 (partie I) pp. 322-354, vol. 69, n. 4, octobre-décembre 1964 (partie II), pp. 425-473; tr. it. di G. Pozzi, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Lévinas, in IDEM, La scrittura e la differenza, Introd. di G. Vattimo, Einaudi, Torino, 2002 3, pp. 99-198. 206 Uno valido contributo storiografico che analizza le principali caratteristiche speculative del poststrutturalismo o, come viene anche definito, neostrutturaliso è quello di M. FRANK, Was ist Neostrukturalismus?, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1984. Il termine poststrutturalismo viene utilizzato per indicare una serie di pensatori di lingua francese (tra questi Foucault, Lacan, Deleuze, Guattari, Lyotard, Derrida, Barthes, Kristeva, Sollers, Irigaray, Baudrillard, Virilio, Serres) i 205

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orientamenti di pensiero caratterizzati dalla NietzscheRenaissance207 e da una radicale critica alla metafisica classica (si parla infatti anche di “pensiero post-metafisico”208) e all’idea quali si confrontano con lo strutturalismo, ne accettano alcuni motivi ma ne contestano radicalmente altri: essi generalmente non accettano la nozione di struttura come fondamento filosofico e criticano la pretesa stessa di scientificità delle strutture. In questi questi autori c’è, tuttavia, una ripresa della polemica antiumanistica, anticoscienzialistica (e quindi in opposizione alla fenomenologia) e antistoricistica che aveva caratterizzato lo strutturalismo: sono autori che hanno in comune il fatto di “correggere” il programma dello strutturalismo in diversi punti e partendo da diverse prospettive. Il poststrutturalismo – così come del resto il postmodernismo – non si è qualificato come un paradigma filosofico unitario; una dimostrazione di questo sono anche le accese polemiche che gli autori hanno spesso avuto tra di loro: basti pensare alle critiche rivolte da Derrida a Foucault – cfr. lo scritto di Derrida del 1963 Cogito et l’histoire de la folie – o alla polemica di Deleuze e Guattari con Lacan nell’opera del 1972 L’Anti-Oedipe. Quello di “poststrutturaliamo” è un perciò un termine che designa un generale atteggiamento culturale tipicamente francese nato «all’incirca alla fine degli anni Sessanta» (F. D’AGOSTINI, Breve storia della filosofia del Novecento. L’anomalia paradigmatica, Einaudi, Torino, 1999, pp. 233-234) o più precisamente «poco prima del Maggio 1968» (FRANK, Was ist Neostrukturalismus?, op. cit, p. 20). Cfr. M. FERRARIS, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Multhipla, Milano, 1981; F. DOSSE, Histoire du structuralisme, vol. II: Le chant du cygne, 1967 à nos jours, Le livre de Poche, Paris, 1992. 207 Nel Novecento, e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, in Francia c’è stata da parte di molti autori una riscoperta ed una valorizzazione stessa del pensiero di Nietzsche: una testimonianza di questa NietzscheRenaissance può essere considerato il volume curato da W. HAMACHER, Nietzsche aus Franchreich, Philo-Verlagsgesellschaft, Berlin, 2003: in questo volume sono infatti raccolti saggi su Nietzsche di Georges Bataille, Pierre Klossowski, Michel Foucault, Maurice Blanchot, Philippe LacoueLabarthe, Bernard Pautrat, Jacques Derrida e Jean-Luc Nancy. 208 Sull’idea che tanta parte della filosofia contemporanea possa essere generalmente definita come “pensiero post-metafisico” (Nachmetaphysisches Denken) ha particolarmente insistito Jürgen

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stessa di soggettività, così com’essa è stata definita nella modernità filosofica “da Cartesio ad Husserl”. Occorre ricordare che antesignano di tale atteggiamento critico nei confronti della soggettività – tipico delle forme di pensiero poststrutturalista – è stato il filosofo Georges Bataille: a partire dalla sua opera del 1943 L’expérience intérieure, richiamandosi anche al vitalismo di Nieztsche, egli prende congedo da ogni impostazione filosofica incentrata sulla soggettività trascendentale e propone una visione dell’uomo basata soprattutto su quegli aspetti pulsionali, energetici e persino patologici dell’esistenza, che sino ad allora erano rimasti pressoché esclusi dalla trattazione filosofica. In questa esposizione mi concentro soprattutto su Gilles Deleuze (1925-1995), la cui prospettiva filosofica viene generalmente definita come “pensiero nomade”, “nomade” in quanto lontano da ogni sintesi ultima e definitiva: esso nasce da una netta opposizione ad ogni tipo di metafisica e di dialettica totalizzante. Deleuze teorizza le molteplicità e le differenze del reale come singolarità libere, anarchiche e sconnesse, non soggiogate a nessuna immagine normativa della ragione. Egli cerca quindi di elaborare un’ontologia che elimini l’idea di totalità, di unità e di gerarchia dell’essere, per far emergere il primato della «differenza in sé»209 e delle molteplicità. Nell’opera del 1980 Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Deleuze afferma che intende proporre una «teoria delle molteplicità per sé stesse»210; a suo avviso «le molteplicità superano la distinzione Habermas, il quale si è anche confrontato con le posizioni di Foucault e Derrida: cfr. J. HABERMAS (1988), Il pensiero post-metafisico, tr. it. e cura di M. Calloni, Laterza, Roma-Bari, 1991. 209 G. DELEUZE, Différence et Répétition, PUF, Paris, 1968; tr. it. di G. Guglielmini, revisione e cura di G. Antonello e A.M. Marazzoni, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 2. 210 G. DELEUZE – F. GUATTARI, Prefazione all’edizione italiana di IDEM, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di G. Passerone, Introd. di M.

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della coscienza e dell’inconscio, della natura e della storia, del corpo e dell’anima. Le molteplicità sono la realtà stessa e non presuppongono alcuna unità, non entrano in alcuna totalità più di quanto non rinviino ad un soggetto»211. Come emerge chiaramente già a partire dalla sua opera del 1968 Differenza e ripetizione, l’obiettivo polemico principale di Deleuze è il pensiero dialettico di Hegel, il quale ha tentato di ridurre le differenze e le molteplicità stesse del reale alla superiore identità della sintesi. Si può quindi dire che le caratteristiche peculiari della filosofia di Deleuze sono «la critica della dialettica, l’esigenza di riportare il pensiero ad una dimensione creativa, affermativa, sperimentale, l’anti-platonismo, inteso come scelta di rivalutare le polarità perdenti della tradizione filosofica, il molteplice contro l’Uno, il divenire contro l’essere, la differenza contro l’identità, l’immanenza contro la trascendenza»212. Foucault ha affermato che «un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano (Un jour, peut-être, le siècle sera deleuzien)»213: Deleuze soprattutto con le sue opere Differenza e ripetizione ed Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia ha certamente dato un’impronta al pensiero francese del Novecento; inoltre negli anni successivi alla contestazione del ’68 la sua filosofia divenne quasi di moda: la radicale esigenza di emancipazione sociale e politica che caratterizzò il clima di contestazione della fine degli anni Sessanta trovò infatti nei testi di Deleuze una solida base speculativa. Una delle finalità esplicite del pensiero deleuziano è quella di liberare l’individuo dal peso della tradizione e delle Guareschi, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2003, p. 30. Edizione originale: IDEM, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris, 1980. 211 Ibidem. 212 M. GUARESCHI, Deleuze e Guattari: cartografi di contrade a venire, Saggio introduttivo dell’edizione italiana di G. DELEUZE, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, op. cit., pp. 7-25, p. 11. 213 Si tratta di un’affermazione fatta da Foucault in una recensione del 1969 alle due opere di Deleuze Différence et répétition e Logique du sens.

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norme etico-sociali più convenzionali: emancipazione e sperimentazione creativa di nuovi modi di essere al mondo sono quindi i risvolti pratico-politici del suo pensiero che trovarono vasta eco. Deleuze prende nettamente le distanze dalle linee di pensiero dominati in Francia fino agli anni Cinquanta: quest’ultime sono prevalentemente - come è stato già ricordato in precedenza l’hegelismo, la fenomenologia e l’esistenzialismo. Fin da giovane il filosofo si confronta quindi con autori poco frequentati dalla storiografia francese di allora; in particolare egli scrive saggi e monografie su David Hume214, Lucrezio215, Nietzsche216, Kant217, Bergson218 (che dopo l’enorme fortuna avuta fino agli anni Trenta venne quasi dimenticato) e su Spinoza219. La posizione filosofica di Deleuze può essere definita come un “empirismo materialistico” incentrato sul carattere energetico, vitalistico e pulsionale dell’uomo. Prendendo nettamente le distanze dalla soggettività idealistico-cartesiana, il filosofo - seguendo la lezione di Hume - concepisce l’io come “smembrato” in una pluralità irrelata di sensazioni. La metafisica e la dialettica - sia di Hegel che di Marx - sono quindi i bersagli polemici del suo Cfr. G. DELEUZE, Empirisme et subjectivité, Puf, Paris 1953; tr. it. di M. Cavazza, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, Cronopio, Napoli, 2000. 215 IDEM, Lucrèce et le naturalisme, in «Études philosophiques», 3, 1961. 216 IDEM, Nietzsche et la Philosophie, PUF, Paris 1962; tr. it. e cura di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia e altri testi, tr. it. e cura di F. Polidori, Einaudi, Torino, 2002. 217 IDEM, La philosophie critique de Kant, PUF, Paris 1963; tr. it. di M. Cavazza, La filosofia critica di Kant. Dottrina delle facoltà, Introd. di E.M. Forni, Cappelli, Rocca San Casciano, 1979. 218 IDEM, Il bergsonismo, op. cit. 219 IDEM, Spinoza et le problème de l’expression, Minuit, Paris, 1968; tr. it. di S. Ansaldi, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999. 214

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pensiero, un pensiero basato sul primato speculativo dell’individualità creativa, del divenire, della molteplicità fine a sé stessa e della differenza. La proposta filosofica di Deleuze intende essere innovativa - ciò emerge anche dallo stile espositivo delle sue opere – ed avere una forte carica emancipativa sul piano morale e sociale: egli intende costruire una nuova immagine del mondo aperta al pluralismo, alla molteplicità ed alla differenza stessa, un’immagine del mondo, nella quale gli individui - liberati dai tradizionali legami di potere220 – siano infinitamente liberi di esprimersi secondo le loro più intime istanze. Possiamo dire che tale prospettiva filosofica si situi esplicitamente in uno scenario a sfondo relativistico e nichilistico, lontano da qualsiasi concezione che individui nella storia e nell’agire umano un senso religioso ed un’escatologia: tale visione tragica della realtà e dell’uomo non conduce, tuttavia, Deleuze ad una stanca e consapevole rassegnazione, bensì all’energica affermazione di un nichilismo attivo, di un nichilismo che valorizzi e liberi le potenzialità più vitali dell’uomo. Possiamo quindi affermare che la sua prospettiva filosofica costruisca un “rinnovamento” delle istanze di fondo più tipiche del pensiero di Nietzsche. Con il suo volume del 1962 Nietzsche et la philosophie, Deleuze è stato d’altronde uno dei fautori stessi della Nietzsche-Renaissance in Francia. Uno dei percorsi storiografici e teoretici più originali proposti da Deleuze può essere individuato – a mio parere – nella Si ricordi che nel 1962 Deleuze strinse amicizia con Foucault: del pensiero di quest’ultimo condivise molti aspetti e non da ultimo la sua istanza di liberazione degli individui. Entrambi gli autori si dimostrano attenti alla comprensione genetica di come si instaurano i reali rapporti di potere. Sulla prospettiva di una ricerca genealogica dei rapporti di potere si veda la raccolta di saggi: M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, tr. it. di G. Procacci e P. Pasquino, Einaudi, Torino, 1971, 1977 2. Si veda anche il volume dedicato da Deleuze all’amico Foucault: G. DELEUZE, Foucault , Minuit, Paris, 1986; tr. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002. 220

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continuità che esso scorge tra il criticismo trascendentale di Kant e la prospettiva di Nietzsche: quest’ultimo viene infatti interpretato come il pensatore che avrebbe portato a compimento il soggettivismo e le esigenze critiche manifestatisi nella modernità filosofica. La rivoluzione copernicana operata da Kant ed incentrata sull’io penso (Ich denke) – secondo Deleuze – trova la sua compiuta realizzazione nella teorizzazione nietzscheana del “superuomo” (o “oltreuomo”, in lingua tedesca Übermensch): la critica di Nietzsche si spinge infatti sino alla corrosione dei valori tradizionali della conoscenza (il vero) e dell’etica (il bene), e partendo dall’indagine genealogica dei valori sui quali si è basato l’occidente, approda ad una trasvalutazione dei valori stessi (Umwertung aller Werte), alla ricostruzione di una nuova vitalistica visione del mondo fondata sull’ideale dell’oltreuomo e sulla dottrina dell’eterno ritorno. Deleuze interpreta, quindi, Nietzsche come il pensatore antidialettico ed antihegeliano per eccellenza, come colui che con l’annuncio dell’Übermensch ha portato a compimento le esigenze critiche ed il programma stesso della modernità di una compiuta emancipazione dell’uomo da ogni autorità dogmatica: se Kant, una della massime espressioni della modernità filosofica - ad avviso di Deleuze - si sarebbe fermato innanzi ai valori indiscussi della verità e del bene, e li avrebbe salvaguardati da una critica radicale proprio in virtù della sua salda “fede morale”, è Nietzsche il pensatore che con spregiudicatezza li avrebbe sottoposti alla critica più radicale, svelandone la loro latente origine nella umana “volontà di potenza” (Wille zur Macht). Secondo Deleuze, Kant non avrebbe condotto fino in fondo la sua critica: il filosofo di Königsberg si sarebbe limitato alla ricerca dei limiti (Grenzen) dell’attività gnoseologica arrestando l’istanza critica innanzi ai postulati della ragion pratica. È con Niezsche che la critica sarebbe divenuta totale e radicale, coinvolgendo anche l’ambito dei valori morali, politici e religiosi: «Il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale deriva il loro valore; è il problema 156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della loro creazione»221. Lo scritto nietzscheano sul quale più si sofferma l’analisi di Deleuze è la Genealogia della morale: è dall’interpretazione di quest’opera che il pensatore francese evince una nuova concezione del lavoro filosofico come scavo genealogico, ricerca dell’origine storico-culturale dei valori e loro successiva relativizzazione e demitizzazione: «La filosofia critica presenta due movimenti inseparabili: ricondurre ogni cosa e l’origine di qualunque valore a dei valori; ma anche ricondurre questi valori a qualcosa che ne sia l’origine, che decida il loro valore. [..] Nietzsche si leva contemporaneamente tanto contro la suprema idea di fondamento, per la quale i valori rimangono indifferenti alla propria origine, quanto contro l’idea di semplice derivazione causale o di mero inizio, per cui l’origine rimane indifferente ai valori. Nietzsche formula il concetto nuovo di genealogia. Il filosofo è un genealogista, non un giudice di tribunale come Kant, né un meccanico come gli utilitaristi»222. È dalla lettura di Nietzsche che Deleuze fa emergere l’istanza radicale di una decostruzione dei valori in nome di una soggettività ormai libera dai vincoli di ogni consolidata tradizione filosofica, culturale e religiosa. È quindi a partire da un’originale rilettura di Nietzsche che Deleuze propone la visione di una soggettività compiutamente emancipata223, una visione che sotto G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia e altri testi, op. cit., pp. 3-4. Ibidem, pp. 4-5. 223 A questo proposito l’interpretazione deleuziana di Nietzsche come “filosofo dell’emancipazione” troverebbe delle notevoli affinità con le interpretazioni elaborate anche dai seguenti autori: G. BATAILLE, Sur Nietzsche, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di A. Zanzotto, Nietzsche. Il culmine e il possibile, Introd. di M. Blanchot, Rizzoli, Milano, 1971; H. MARCUSE, Eros and Civilization, Beacon Press, Boston, 1955; tr. it. di L. Bassi, Eros e civiltà, Mondolibri, Milano, 2000, pp. 150 ss.; P. KLOSSOWSKI, Nietzsche et le cercle vicieux, in IDEM, Un si funeste désir, Gallimard, Paris, 1963; G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1990. 221 222

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molti aspetti anticipa e diviene essa stessa espressione delle contestazioni giovanili esplose in Francia224 nel ’68. Possiamo inoltre rilevare che dell’opera di Nietzsche, Deleuze accentui soprattutto quegli elementi che vanno in direzione di una salvaguardia della differenza, del pluralismo e della molteplicità di contro alle univocità totalitarie della dialettica: Deleuze interpreta Nietzsche come il “pensatore della differenza”, come colui che dall’indagine genealogica dei valori fa emergere le ragioni della differenza al posto del predominio concettuale di un’identità statica e di una dialettica totalitaria: «All’elemento speculativo della negazione, dell’opposizione o della contraddizione, Nietzsche sostituisce l’elemento pratico della differenza […]. Il «si» di Nietzsche si contrappone al «no» dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche»225. Possiamo quindi affermare che Deleuze interpreti il pensiero nietzscheano come l’irrompere di una «frattura rivoluzionaria»226 nella storia della filosofia, una frattura nei confronti di quel “platonismo” che poneva i valori del vero e del bene come eterni ed immutabili (come valori “in sé”, kath’autó), proprio perché stabilmente fondati nella realtà del sovrasensibile: «Il compito della filosofia moderna è stato definito come Ricordiamo che uno dei più celebri slogan della contestazione per rivendicare una totale esigenza di libertà dell’uomo fu «l’imagination ou pouvoir». 225 G. DELEUZE , Nietzsche e la filosofia e altri testi, op. cit., pp. 14-15. 226 L’interpretazione del pensiero nietzscheano come “frattura rivoluzionaria” nella filosofia dell’Ottocento è contenuta nel noto volume di Karl Löwith del 1941 Von Hegel zu Nietzsche: cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, tr. it. di G. Colli, Einaudi, Torino, 19994. 224

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rovesciamento del platonismo»227, afferma Deleuze, ed in Nietzsche il filosofo francese vede il pensatore che per primo nella modernità ha affermato con forza l’esigenza di effettuare una decostruzione del fondamento metafisico dei valori, al fine di far emergere una filosofia della volontà, della molteplicità, della differenza e della genealogia. Negli anni Sessanta Deleuze ha avuto il merito di far porre in Francia l’attenzione sulla portata rivoluzionaria del pensiero nietzscheano228: da esso ha fatto inoltre emergere alcuni dei nuclei teoretici più significativi delle sue successive elaborazioni filosofiche come Differenza e ripetizione del 1968 e Logica del senso del 1969: a questo proposito è stato anche affermato che «nel descrivere il pensiero di Nietzsche Deleuze in larga parte caratterizza il suo proprio pensiero. Per Deleuze oltre che per Nietzsche, l’obiettivo della filosofia è l’affermazione della differenza come la caotica molteplicità del divenire del mondo»229. É quindi soprattutto a partire dagli studi su Nietzsche che Deleuze elabora una propria originale posizione filosofica, una posizione espressa per la prima volta in maniera compiuta in Différence et répétition, e che - come è stato già accennato - può essere definita come un “pensiero della differenza” attento alla G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 82. Occorre tuttavia ricordare che in Francia l’interesse per il pensiero di Nietzsche è stato molto grande anche prima degli anni Sessanta-Settanta e degli scritti di Deleuze: oltre alle opere dei già citati Bataille e Klossowski basti segnalare: C. ANDLER, Nietzsche, sa vie et sa pensée, [opera in 6 volumi), Bossard, Paris, 1920-1931; A. GIDE che ha dedicato alla discussione del pensiero nietzscheano, una delle Lettres à Angèle, contenute nel Vol. Prétextes, Mercure de France, Paris, 1923, pp. 166-182; A. CAMUS, Nietzsche et le nihilisme, in IDEM, L’homme révolté, Gallimard, Paris, 1951, pp. 88-105; J. GRANIER, Le problème de la vérité dans la philosophie de Nietzsche, Seuil, Paris 1966. 229 R. BOGUE, Deleuze and Guattari, Routledge, London - New York, 1989, p. 32. 227 228

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comprensione filosofica dell’alterità ed avverso al primato gnoseologico della rappresentazione (la Vorstellung di cui parla Kant ) e della dialettica (sia quella elaborata da Hegel che da Marx): la prospettiva di una filosofia della differenza nasce quindi dall’esigenza di Deleuze di affermare con forza le ragioni della differenza di contro all’egemonia totalizzante di un pensiero dell’identità, di un pensiero che intenda eliminare concettualmente le differenze costitutive della realtà per integrarle nell’univocità della rappresentazione conoscitiva ed in una dialettica di stampo hegelo-marxista. Fin dalla prefazione al suo volume del 1968 Deleuze chiarisce in questi termini il suo dichiarato antihegelismo, la sua avversione alla dialettica quale versione “in movimento” della rappresentazione: «la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell’identico e del negativo, dell’identità e della contraddizione. [...] Il primato dell’identità, comunque sia essa concepita, definisce il mondo della rappresentazione. Ma il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione, come dalla perdita delle identità e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell’identico»230. La produzione filosofica della modernità viene quindi emblematicamente definita da Deleuze come la creazione di un «mondo dei simulacri»231, il mondo in cui si opererebbe una fittizia creazione di “false immagini di senso”, di quelli che JeanFrançois Lyotard ha anche definito come metaracconti (metarécits), metanarrazioni, grandi costruzioni di senso che hanno inteso interpretare la realtà nella sua globalità ed interezza: il primato della conoscenza come rappresentazione soggettiva universale e necessaria e la dialettica come sua dinamica riproposizione sono stati per Deleuze i più grandi simulacri della modernità. Deleuze rilegge quindi la storia della filosofia moderna come storia del predominio dell’identico sul diverso, 230 231

G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 1. Ibidem.

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come un percorso teoretico che partendo da Platone trova in Nietzsche il suo compimento e la sua più radicale contestazione: Platone - pur ponendo nel Sofista il diverso (tháteron) come uno dei cinque generi sommi - con la sua teoria delle idee-forme avrebbe dato inizio a quella «sottomissione della differenza»232 al primato dell’identico che caratterizzererebbe la filosofia aristotelica e le successive elaborazioni speculative della modernità. É inoltre mettere in luce che ad avviso di Deleuze le grandi costruzioni razionalistiche di Leibniz ed Hegel sono state i due tentativi più efficaci compiuti dal lógos occidentale per comprendere concettualmente la differenza e per integrarla compiutamente all’interno di un sistema: se nella monadologia di Leibniz questo processo si è cercato di compiere nell’infinitamente piccolo, la dialettica hegeliana ha rappresentato il culmine di un pensiero che ha tentato un’integrale comprensione filosofica della totalità, dell’infinitamente grande. In entrambi i pensatori «la ragione è divenuta fondamento, ossia ragione sufficiente, che non lascia sfuggire più nulla. Ma niente è mutato, la differenza resta colpita dalla maledizione, mentre si sono scoperti soltanto mezzi più sottili e più sublimi per farla espiare, o per sottometterla e riscattarla sotto le categorie della rappresentazione. [..] Tale sforzo che ha pervaso in ogni tempo il mondo della rappresentazione, [..] con Leibniz e con Hegel ha avuto due momenti culminanti. In un caso, la rappresentazione conquista l’infinito, in quanto una tecnica dell’infinitamente piccolo raccoglie la più piccola differenza e il suo dileguarsi; e nell’altro perché una tecnica dell’infinitamente grande raccoglie la più grande differenza e la sua lacerazione»233. Ibidem, p. 340. Ibidem, p. 338. Riguardo la lettura di Leibniz da parte di Deleuze cfr. G. DELEUZE, Le pli. Leibniz et le baroque, Minuit, Paris, 1988; tr. it. di V. Gianolio, a cura di D. Tarizzo, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino, 20042. 232 233

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Deleuze interpreta la storia della filosofia da Platone ad Hegel come una storia della dimenticanza (Vergessenheit nei termini del linguaggio di Heidegger) della differenza, della sempre più integrale “sottomissione” della differenza al predominio di un lógos totalizzante: Deleuze ha, quindi, messo in evidenza che da Platone ad Hegel è stata soprattutto la ragione dialettica234 a dominare la concettualizzazione filosofica della realtà, spesso facendo dimenticare il valore speculativo della differenza. Potremmo notare che la différence costituirebbe l’intima difficoltà - la “causa errante” - di ogni sistema razionalistico: la presa in considerazione della differenza incrinerebbe la salda struttura logica di ogni costruzione speculativa che intenda “render conto” del reale nella sua globalità e comprenderlo concettualmente in ogni sua singola parte. Secondo Deleuze, uno dei meriti di Nietzsche sarebbe stato proprio quello di aver messo in risalto l’interna contraddittorietà ed aporeticità di ogni costruzione filosofica che, non considerando il valore della differenza, si proponga come assoluta, ultima e definitiva: per Nietzsche e Deleuze, l’esempio più emblematico di tale costruzione sarebbe rappresentato da Hegel, il cui pensiero si presenterebbe esso stesso come una grandiosa sintesi della istanze di fondo della modernità filosofica: «Così la contraddizione hegeliana sembra portare la differenza fino in fondo, ma per una strada senza uscita che la riporta all’identità e consente all’identità di farla essere ed essere pensata. Soltanto in rapporto all’identico, in funzione dell’identico, la contraddizione è la differenza più grande. Le 234

Possiamo far notare che nell’etimologia stessa del termine dialettica (dal greco diá léghein) sia implicata l’idea di una soppressione della differenza a favore dell’identità: il significato originario di dialettica è infatti quello di “raccogliere, legare ed unificare il diverso nella dinamica unità del lógos”. Ad avviso di Deleuze l’elaborazione di una dialettica speculativa è l’espressione filosofica più compiuta di un pensiero fagocitante la differenza.

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ebbrezze e gli stordimenti sono fittizi; l’oscuro è già chiarito sin dall’inizio. Nulla lo dimostra meglio del piatto monocentrismo dei cerchi nella dialettica hegeliana»235. L’attenzione filosofica al tema della differenza è dovuta in larga misura anche al confronto di Deleuze con l’Heidegger di Identität und Differenz236, con le nozioni di diacronia e sincronia dello strutturalismo francese e con alcuni aspetti nella teorizzazione letteraria novecentesca. È Deleuze stesso ad indicarci i suoi punti di riferimento teoretici nell’elaborazione della sua filosofia: «l’orientamento sempre più deciso di Heidegger verso una filosofia della differenza ontologica; l’esercizio dello strutturalismo fondato su una distribuzione di caratteri differenziali in uno spazio di coesistenza; l’arte del romanzo contemporaneo che gira attorno alla differenza e alla ripetizione, non soltanto nella sua riflessione più astratta, ma nelle sue tecniche effettive; la scoperta nei campi più svariati di una propria capacità di ripetizione, che sarebbe anche quella 235

G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, op. cit., pp. 338-339. Con tali parole Deleuze intende anche prendere le distanze dalle varie riproposizioni del pensiero di Hegel che hanno caratterizzato il clima filosofico francese dei decenni centrali del Novecento: come abbiamo già accennato in precedenza, si tratta delle prospettive di studiosi di Hegel come Alexandre Kojève, Jean Hyppolite e Jean Wahl. È stato giustamente sottolineato che per Deleuze la dialettica hegeliana «è un caso esemplare di asservimento della differenza al negativo: nell’identità idealistica, hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo ed è perciò sottoposto alla dominanza dell’identico. Attraverso il dominio del negativo, la dialettica riesce a integrare e neutralizzare le differenze, esattamente come la ragione metafisica classica, che esorcizzava le differenze creando “generalità”, leggi, princìpi universali» (F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Prefazione di G. Vattimo, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 414). 236 Cfr. M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Neske, Pfullingen, 1957; tr. it. di U.M. Ugazio, Identità e differenza, in «Aut Aut», 187-188, 1982, pp. 2-37.

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dell’inconscio, del linguaggio e dell’arte»237. Possiamo rilevare che l’emergere della riflessione sul valore speculativo della differenza abbia caratterizzato in maniera decisiva alcuni dei momenti più significativi della filosofia del Novecento sia francese che tedesca ed abbia avuto delle notevoli ripercussioni anche sul piano politico e sociale: Heidegger, Deleuze e Jacques Derrida sono forse stati gli interpreti più profondi di tale diffuso atteggiamento caratterizzato dalla presa in considerazione di un “pensiero della différence”238 dai precisi risvolti etici e politici. Sia Deleuze che Derrida vedono in Nietzsche un pensatore della «differenza selvaggia e nomade»239 e lo interpretano come il filosofo rivoluzionario che per primo avrebbe teorizzato una radicale emancipazione dell’uomo: con il tentativo di demolire le salde strutture della metafisica platonico-cristiana, Nietzsche avrebbe fatto emergere la potenza decostruttrice dell’idea di pluralità di forze differenziali, aprendo la strada ad una nuova visione dell’uomo, a nuovi spazi di libertà da riconquistare. É G. DELEUZE (1968), Differenza e ripetizione, op. cit. p. 1. In Francia interpreti di una originale “filosofia della différence” - oltre Deleuze e Derrida - possono essere considerati anche Michel Foucault e Jean-François Lyotard: cfr. F. LARUELLE, Les philosophes de la différence, PUF, Paris 1986; e C. RUBY, Les archipels de la différence, Éditions du Félin, Paris, 1990. In Italia due distinte ma originali elaborazioni di un pensiero della differenza possono essere considerare quelle proposte da Gianni Vattimo e da Armando Rigobello: cfr. G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1988; e A. RIGOBELLO, Autenticità nella differenza, Studium, Roma, 1989. I due autori, al pari di Deleuze, prendono entrambi in considerazione il significato della concezione heideggeriana della differenza ontologica, del “deferimento” (Austrag), ma le loro prospettive si differenziano notevolmente: se in Vattimo l’esito della riflessione ermeneutica si identifica con un “pensiero debole” e nichilista, in Rigobello la differenza diviene cifra emblematica di un modello antropologico intenzionalmente metafisico, di un’“estraneità interiore” quale fondamento di un’etica dell’autenticità. 239 M. VERGANI, Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 40. 237 238

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quindi a partire dal pensiero nietzscheano - dal Nietzsche francese quale “pensatore della différence” - che si muovono sia Deleuze che Derrida nei loro originali e distinti percorsi teoretici: in entrambi è tuttavia chiaramente rintracciabile una stretta correlazione tra la formulazione di un “pensiero della differenza” ed una radicale istanza di ripensamento della libertà240. Dalla presa in considerazione della differenza emergerebbe sul piano pratico anche la produzione di “nuove immagini di libertà”, di un’“etica dell’autenticità” consapevole della complessità della realtà umana e lontana dalla formulazione di rigidi imperativi categorici. Tale “etica dell’autenticità” potrebbe anche essere definita come un’“etica della differenza”, una “morale dell’imagination ou pouvoir”, nella quale un’immaginazione creatrice di nuove immagini dell’uomo e della vita sociale e politica opererebbe a partire dalla consapevolezza della differenza, del pluralismo e della molteplicità che contraddistinguono la complessità del reale, non più riconducibile ad un’univoca “immagine di senso”, metafisica o dialettica che sia.

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Lo stesso Derrida ha fatto più volte notare la vicinanza del suo pensiero a quello di Deleuze, soprattutto per l’elaborazione di una “filosofia della differenza” a partire dalla riflessione su Nietzsche ed in opposizione alla dialettica hegeliana e marxista: in occasione della morte di Deleuze nel 1995, Derrida ha scritto: «Per quanto riguarda le “tesi”, ma la parola non è adeguata - è soprattutto la tesi di una differenza irriducibile alle opposizioni dialettiche, una differenza “più profonda di una contraddizione” (Differenza e ripetizione), una differenza nell’affermazione gioiosamente ripetuta (“sì, sì”), la presa in considerazione del simulacro - Deleuze resta forse, malgrado tante dissomiglianze, colui che ho sempre ritenuto essermi più vicino tra tutti coloro che appartengono a questa “generazione”» (J. DERRIDA, Je devrai aller tout seul, «Libération», 7 novembre 1995; tr. it. di F. Polidori, Dovrò vagare da solo, [omaggio in memoria di Gilles Deleuze], in «Aut Aut», n. 271-272, 1996, pp. 8-9).

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Uno degli snodi teoretici più significativi del pensiero di Deleuze e del suo collaboratore Félix Guattari è rintracciabile nella nuova configurazione del rapporto tra facoltà dell’immaginazione ed emancipazione del soggetto: l’immaginazione - quale configurazione ideale di nuovi modi di essere al mondo241 - diviene per i due autori l’organo stesso dell’emancipazione in ambito politico e sociale. Nell’opera del 1972 L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, l’emancipazione viene anche qualificata come liberazione degli individui «macchine desideranti»242 - dal “sistema dei bisogni” prodotto dalla società capitalistica occidentale, e come proiezione utopica verso nuovi scenari di ordine etico e politico: in quest’opera É la facoltà dell’immaginazione l’organo produttivo di un pensiero della differenza, del pluralismo epistemologico e della molteplicità: la libertà costitutiva dell’immaginazione è libertà stessa di “creare nuove prospettive di senso”, “nuovi modi di vivere e di pensare”. In questo elemento, la riflessione di Deleuze può essere confrontata con quella di Paul Ricoeur, il quale sottolinea proprio la fecondità di un percorso teoretico che “dalla libertà dell’immaginazione” conduca “all’immaginazione della libertà”: Ricoeur – mostrando delle analogie con Deleuze – propone una visione dell’immaginazione come facoltà in grado «di dispiegare nuove dimensioni della realtà» (P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l'action, Publications de facultés universitaire Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207228; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, pp. 205-227, p. 213), come spazio della libertà interiore nel quale «sperimentiamo idee nuove, valori nuovi, nuovi modo di essere al mondo» (ibidem, p. 212). Sia in Deleuze che in Ricoeur – seppur con differenti accentuazioni – l’immaginazione diviene il luogo della transizione dalla sfera teorica alla sfera pratica; l’immaginazione si configura inoltre nei due autori come lo strumento stesso per una critica del reale e come lo spazio creativo che offre la possibilità di una ridefinizione della realtà in ordine al sentimento morale del soggetto, alla sua esigenza interiore di libertà. 242 G. DELEUZE - F. GUATTARI, L’anti-Oedipe. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris, 1972; tr. it. e cura di A. Fontana, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 20022, p. 13. 241

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Deleuze e Guattari tentano inoltre un’originale conciliazione tra «l’economia politica di Marx e l’economia libidinale di Freud»243, teorizzano la nozione di «corpo senz’organi»244 ed elaborano una critica della stessa psicoanalisi freudiana. Ad avviso degli stessi autori l’opera si presenta come «una specie di Critica della Ragion pura a livello dell’inconscio»245: essi tentano quindi di individuare la genesi costitutiva delle pulsioni che caratterizzano l’uomo nella società capitalistica occidentale. Proprio per contrapporsi all’idea freudiana del “complesso di Edipo” – per questo l’opera si intitola L’anti-Edipo – i due autori sottolineano che le pulsioni dell’uomo non hanno origine nella famiglia – come voleva Freud –, ma nella società. Il volume getta quindi le basi di una «psichiatria materialistica»246 che intende rintracciare nei meccanismi della società capitalistico-borghese la genesi delle pulsioni, dei desideri e delle scissioni interiori - ovvero la “schizofrenia” - degli individui: «La schizofrenia è l’universo delle macchine desideranti produttrici e riproduttrici; l’universale produzione primaria come “realtà essenziale dell’uomo e della natura»247. I due autori intendono quindi proporre la “schizoanalisi” come metodologia di studio dell’uomo. Nel 1980 Deleuze e Guattari scrivono un’altra opera che si presenta come la continuazione e l’approfondimento sul piano speculativo delle analisi svolte nell’Anti-Edipo: si tratta del volume - già richiamato nelle pagine precedenti - Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia. Quest’opera riscosse tuttavia minor successo delle precedenti. In un linguaggio filosofico altamente V. DESCOMBES, Le même et l’autre, Quarantecinq ans de philosophie française. 1933-1978, op. cit., p. 202. 244 Cfr. G. DELEUZE – F. GUATTARI, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, op. cit. , pp. 10-18. 245 G. DELEUZE - F. GUATTARI (1980), Prefazione all’edizione italiana di IDEM, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, op. cit, p. 30. 246 Ibidem, p. 6. 247 Ibidem, p. 7. 243

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innovativo anche se a volte “sfrenato” e “funambolico”, i due autori in Mille piani formulano una compiuta teoria del pluralismo e della molteplicità. Dall’opera emerge il progetto di un’epistemologia decentrata e pluralistica, nella quale il fulcro teoretico centrale è costituito dal concetto di “rizoma”: alla metafora dell’“albero” che ha dominato la filosofia occidentale248 i due autori contrappongono quella di “rizoma”; quest’ultimo è un “tubero” che «a differenza degli alberi o delle loro radici [..] connette un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi»249, e che «non è fatto di unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni mobili»250. L’immagine del pensiero come “rizoma” è la cifra stessa di una filosofia della differenza e della molteplicità irrelata, dove è assente qualsiasi prospettiva di fondamento e di sintesi speculativa unitaria. L’idea della realtà come “rizoma” ci fa inoltre comprendere che «il mondo [..] è caos»251 e che in esso non hanno più senso i dualismi codificati dalla tradizione filosofica: ad avviso di Deleuze e Guattari non trova nessuna giustificazione parlare del soggetto contrapposto all’oggetto, e tanto meno dello spirito contrapposto alla materia. Possiamo dire che tutto sia materia che dinamicamente si evolve. Le molteplicità che costituiscono la realtà sono quindi singolarità irrelate, liberi centri di forza che costruisono creativamente sé stessi, al di là di qualsiasi gerarchia ontologica. Due altri concetti chiave di questa prospettiva sono quelli di “decentramento” e di “deterritorializzazione”: quello di Deleuze e «È curioso come l’albero abbia dominato la realtà occidentale e tutto il pensiero occidentale, dalla botanica alla biologia, l’anatomia, ma anche la gnoseologia, la teologia, l’ontologia, tutta la filosofia» (G. DELEUZE - F. GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, op. cit., p. 53). I due autori vedono nella metafora dell’albero l’emblema del pensiero occidentale basato su di un «fondamento-radice» (ibidem). 249 Ibidem, p. 39. 250 Ibidem 251 Ibidem. 248

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Guattari è un “pensiero nomade” proprio perché nella molteplicità di cui essi parlano non esiste più alcun punto di riferimento stabile, garantito dalla ragione. La realtà conserva sempre un carattere aperto, circolare e caotico, in cui - parafrasando Nietzsche - potremmo dire che il “centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo”. La struttura stessa dell’opera Mille piani vuol rendere l’idea di questa concezione della realtà: le riflessioni dei due autori non hanno un ordine logico precostituito, ma si snodano in piani «che possono essere letti indipendentemente gli uni dagli altri»252. Il quindicesimo “piano” dell’opera ci fornisce comunque la cornice speculativa del pensiero di Deleuze e Guattari: possiamo parlare di un “monismo” che concepisce l’articolarsi delle molteplicità libere e sconnesse all’interno di un radicale immanentismo. A questo proposito è stato sottolineato che «l’orizzonte è rigorosamente monista, sulla scia di alcuni luoghi della storia della filosofia, l’univocità dell’essere di Duns Scoto e l’unità della sostanza di Spinoza, e delle teorie sull’individuazione proposte da un autore anomalo come Gilbert Simondon. Si tratta di un materialismo di impronta spinoziana, nel quale alla materia non spetta alcun privilegio particolare, che non colloca alcuna cesura ontologica tra minerale e organico, fra animale e

Ibidem, p. 33. Cfr. anche A. VILLANI, Géographie physique de Mille Plateaux, in «Critique», 455, 1985, pp. 331-347; G.B. VACCARO, Deleuze e il pensiero del molteplice, Franco Angeli, Milano, 1990; E. ALLIEZ, La Signature du monde, ou qu’est-ce que la philosophie de Deleuze et Guattari, Cerf, Parigi, 1993; C. DI MARCO, Deleuze e il pensiero nomade, Franco Angeli, Milano, 1995; F. BALKE - J. VOLG (a cura di), Gilles Deleuze. Fluchtlinien der Philosophie, Fink, München, 1996; S. VACCAIO (a cura di), Il secolo deleuziano, Mimesis, Milano, 1997; J.-L. NANCY (1998), Piega deleuziana del pensiero, tr. it. di P. Di Vittorio, in «Aut Aut», n. 276, 1998, pp. 89-120.

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organico»253; in questa concezione «minerale ed organico, vegetale ed animale, psiche individuale e collettiva altro non sono che differenti livelli di segmentazione, se si preferisce individuazione o stratificazione, del potenziale energetico dell’essere»254. Possiamo inoltre dire che quello descritto da Deleuze sia un universo totalmente privo dell’elemento umanistico-soggettivo: si può quindi parlare di un “antiumanesimo” di questa prospettiva filosofica. In essa i soggetti vengono considerati come dinamici “centri di forze” e “flussi di energia”, “monadi” che si muovono in una realtà priva di ogni fondamento metafisico. Lo scenario delineato da Deleuze e Guattari è chiaramente nichilistico: in esso tuttavia viene teoreticamente legittimata la possibilità di costruire liberamente una molteplicità di “piani di senso”, una pluralità di prospettive filosofiche, etiche e politiche che conferirebbero senso e significato, seppur parziali e limitati, al caos generale che dominerebbe la realtà. Nell’ultima loro opera (Qu’est-ce que la philosophie?) i dei due filosofi francesi interpretano l’arte, la scienza e la filosofia come quelle “umane costruzioni di senso” che avrebbero la funzione di tracciare dei piani sul caos, e che per questo, definiscono anche come dei “caoidi”: arte, scienza e filosofia sono «una sorta di “ombrello” che ci protegge dal caos»255, illusorie costruzioni concettuali che svolgono la funzione consolatoria di proteggere l’uomo dall’angoscia del caos, dalla disperazione del nichilismo. Pur prendendo apertamente le distanze dall’esistenzialismo, a mio parere, il pensiero di Deleuze non è del tutto privo di una qualche M. GUARESCHI, Deleuze e Guattari: cartografi di contrade a venire, op. cit., p. 21. 254 Ibidem, p. 22. 255 G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu'est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris, 1991; tr. it. di A. De Lorentis, a cura di C. Arcuri, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 20023, p. 204. 253

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tonalità esistenziale: è un pensiero che, ormai lontano qualsiasi ancoraggio alla trascendenza religiosa, si fa carico del dramma dell’esistenza umana al limite delle sue stesse possibilità. Le costruzioni concettuali rappresentate dall’arte, dalla scienza e dalla filosofia non rappresenterebbero che umane costituzioni di senso tipiche di un “pensiero nomade”, ormai privo di qualsiasi fondamento ontologico e metafisico: «Chiediamo soltanto un po’ di ordine per proteggerci dal caos. Niente è più doloroso, più angosciante di un pensiero che sfugge a se stesso, […]. Sono variabilità infinite la cui scomparsa e apparizione coincidono. Sono velocità infinite che si confondono con l’immobilità del nulla incolore e silenzioso che percorrono, senza natura né pensiero. [...] È per questo che vogliamo tanto aggrapparci a opinioni sicure»256. Il nichilismo deleuziano – così come quello nietzscheano – è un nichilismo attivo che propone all’uomo un’eroica e positiva “costruzione di senso” pur nella consapevolezza della sua falsa ed illusoria consistenza ontologica: la filosofia, la scienza e l’arte «costruiscono dei piani sul caos. [...]»257. La costruzione di senso si configura quindi come una “lotta contro il caos”, una lotta che conduce alla creazione di “piani immanenti di senso” dalla funzione regolativa: «La lotta con il caos che Cézanne e Klee hanno mostrato in atto nella pittura, nel cuore della pittura, si ritrova sotto altre forme, nella scienza e nella filosofia: si tratta sempre di vincere il caos tramite un piano secante che lo attraversi»258. L’impegno del filosofo in dürftiger Zeit, in un tempo “di penuria speculativa e di nichilismo”, si qualifica dunque come una lucida presa di coscienza dell’assenza di qualsiasi prospettiva di senso ultima e definitiva: ad avviso di Deleuze, il filosofo è colui che si limita a costruire delle “circoscritte regioni di senso” che Ibidem, p. 203. Ibidem, pp. 204-205. 258 Ibidem, p. 205. 256 257

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garantiscano all’uomo un utile orientamento pratico ed esistenziale nella realtà del caos. La filosofia non si riduce quindi ad una stanca riflessione sulla caduta di qualsiasi “assoluto terrestre”, ma diviene una disciplina costruttiva, il cui compito essenziale ed imprescindibile viene identificato da Deleuze come una positiva “creazione di concetti”: «Creare concetti sempre nuovi è l’oggetto della filosofia»259. É tale libera attività creatrice che costituirebbe un’emancipazione stessa del pensiero dalle rigide strutture logico-linguistiche codificate dalla tradizione: a questo proposito possiamo parlare di una “logica dell’emancipazione” che sarebbe innanzitutto “emancipazione dalla logica” e che troverebbe il suo centro produttivo nelle capacità creative dell’immaginazione soggettiva. Il pensiero di Deleuze si configura, quindi, come un “pensiero dell’emancipazione”, al cui centro è posta proprio la capacità immaginativa e creativa dell’uomo: è all’immaginazione creativa che viene attribuita l’originaria produzione di sempre nuove “proiezione di senso” su di una caotica realtà costituita da mille piani. In quest’atmosfera di compiuto nichilismo alla filosofia viene affidato il compito essenziale di “creare concetti”, “visioni del mondo” che interpretano la realtà conferendole un senso, seppur sempre parziale e limitato: «La filosofia è un costruttivismo e il costruttivismo ha due aspetti che differiscono per natura: creare dei concetti e tracciare un piano. I concetti sono come le onde multiple che si alzano e si abbassano; ma il piano d’immanenza è l’onda unica che li avvolge e li svolge»260. In questa prospettiva l’indagine filosofica resta sempre all’interno di Ibidem, p. xi. Cfr. anche M. FERRARIS, Deleuze. Critica, affermatività, sperimentazione, in «Aut Aut», 187-188, 1982, pp. 123-126; e i vari approfondimenti sulla concezione deleuziana della filosofia quale “feconda creazione di concetti”, contenuti in G. DE MICHELE (a cura di), Gilles Deleuze. Una piccola officina di concetti, op. cit. 260 G. DELEUZE – F. GUATTARI, Che cos’è la filosofia?, op. cit., p. 25. 259

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un’«immanenza metodica»261: ciò significa che la stessa creazione di concetti è sempre limitata entro l’orizzonte intrascendibile dell’immanenza. La storia della filosofia viene interpretata da Deleuze come una storia di grandiose costruzioni concettuali tramite le quali l’uomo ha interpretato la realtà, cercando di conferire ad essa un senso ed un significato che abbiano una funzione orientativa e regolativa: l’idea-forma in Platone, la sostanza in Aristotele, l’univocità del Deus sive natura in Spinoza, la monade in Leibniz, il trascendentale in Kant e la dialettica in Hegel sono stati per Deleuze tra le più grandi “costruzioni di senso” che l’uomo abbia prodotto per sfuggire all’angoscia di una realtà caotica priva di qualsiasi orizzonte trascendente. Il pensiero di Deleuze è, quindi, lontano dalla ricerca di una fondazione filosofica: è un “pensiero nomade” nel quale la creazione dei concetti rimane sempre relativa, effimera e storicamente determinata. Tuttavia, lo scenario nichilistico prospettato da Deleuze non porta affatto ad un ripiegamento del soggetto su sé stesso, bensì ad un’energica affermazione del valore assoluto della libertà, una libertà di sperimentare sempre nuove “immagini di pensiero e di vita”. Secondo Deleuze la caduta degli “assoluti terrestri” e la demitizzazione stessa delle grandi costruzioni di senso, sulle quali si è basato l’Occidente, porterebbero l’uomo ad una più radicale affermazione della propria libertà: «La dissoluzione dei fondamenti (nella quale si può anche riconoscere il momento di passaggio dal moderno al post-moderno) è ciò che libera»262, e tale compiuta emancipazione del soggetto dai vincoli della L’espressione “immanenza metodica” è di Armando Rigobello e denota l’intrascendibilità del “piano di immanenza” da parte delle metodologie filosofiche. Cfr. A. RIGOBELLO, Immanenza metodica e trascendenza regolativa, Studium, Roma, 2004. 262 G. VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano, 2003, p. 6. 261

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tradizione avrebbe dei notevoli riflessi sul modo stesso di concepire la società, l’etica e la vita la politica.

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10. Decostruzione e pensiero postmoderno. Oltre il soggetto? Nelle seguenti pagine mi soffermo a tratteggiare alcune caratteristiche di fondo delle prospettive filosofiche di Jacques Derrida (1930-2004) e Jean-François Lyotard (1924-1998) in relazione al tema della soggettività. Cerco quindi di delineare la concezione filosofica dell’uomo tipica della “condizione postmoderna”. Il pensiero di Derrida viene solitamente qualificato – nonostante lo stesso autore ha più volte affermato di non esserne del tutto d’accordo – come “decostruzione” o “decostruzionismo”. La decostruzione è una pratica e precisamente una pratica di scrittura nata dalla presa di distanza dalla metafisica occidentale, da quella che il filosofo - sulla scia di Heidegger – definisce generalmente come “metafisica della presenza”263. Nel sesto paragrafo di Essere e tempo Heidegger ha parlato della necessità di una Destruktion nei confronti dell’essere, così com’esso viene generalmente concepito nella tradizione filosofica dell’Occidente da Platone ad Husserl: Derrida prende le mosse da questo progetto di Heidegger e lo spinge fino alle sue estreme conseguenze teoretiche. Il bersaglio polemico di Derrida è quindi l’intera storia della metafisica occidentale, accusata dal filosofo di “logoCriticando la “metafisica della presenza”, Derrida intende prendere le distanze dalla concezione secondo la quale «la presenza del mondo è una presenza alla coscienza» (M. FERRARIS, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 33): in questa prospettiva l’essere delle cose si riduce alla sua “presenza” nella coscienza soggettiva, cioè alla sua “rappresentazione” (la kantiana Vorstellung) tendente nella sintesi conoscitiva a privilegiare l’identità. 263

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centrismo” – ovvero di conferire un ingiusto primato alla ragione (lógos) totalizzante ed onniavvolgente – e di “fono-logocentrismo, cioè di basarsi sulla coscienza soggettiva e sulla voce (phoné), voce che esprime quanto nella coscienza conoscitiva viene rappresentato. L’istanza di fondo della decostruzione di Derrida è quella di “oltrepassare” la metafisica occidentale e l’idea stessa di soggettività, così come quest’ultima viene teorizzata in particolare anche dalla fenomenologia di Husserl. Egli interpreta quindi la fenomenologia come «il progetto metafisico stesso nel suo compimento storico e nella sua purezza solamente restaurata nella sua origine»264. Derrida si confronta ampiamente con Husserl265 e critica radicalmente la sua concezione della coscienza trascendentale. Secondo Derrida, il primato che Husserl conferisce alla coscienza soggettiva e a i suoi vissuti ha avuto come conseguenza inevitabile una riduzione generale dell’essere alla sua “presenza” nella coscienza: ciò significa che nella fenomenologia l’essere delle cose viene ridotto alla sua rappresentazione da parte della coscienza (Bewusstsein). Un’altra inevitabile conseguenza della fenomenologia – e secondo Derrida anche di tutta la metafisica occidentale – è stata quella di eliminare la differenza a favore dell’identità: questo è dovuto al J. DERRIDA, La voix et le phénomène, PUF, Paris, 1967; tr. it. di G. Dalmasso, Introd. di C. Sini, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano, 1984, p. 34. 265 Possiamo dire che la posizione di Derrida nasce e si sviluppa a partire da una radicale critica alle principali nozioni della fenomenologia di Husserl. Questo lo si evince già a partire dal suo primo scritto di filosofia, la dissertazione del 1954 dal titolo Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl. Cfr. J. DERRIDA, Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, PUF, Paris, 1990; tr. it. e Introd. di C. Di Martino, Introduzione a Husserl “L’origine della geometria”, Jaca Book, Milano, 1987. Sul confronto critico di Derrida con la fenomenologia si veda P. VÖLKNER, Derrida und Husserl. Zur Dekonstruktion einer Philosophie der Präsenz, Passagen Verlag, Wien, 1993. 264

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fatto che la coscienza – così come la delinea Husserl – nel suo sforzo di conoscere gli oggetti privilegia i tratti comuni (ciò che identico) tralasciando le differenze, ovvero tutti quegli elementi della realtà che sfuggono alle sintesi conoscitive. La decostruzione di cui parla Derrida intende quindi proporsi come una pratica filosofica attenta a salvaguardare le differenze che compongono il reale266, differenze costitutive dell’essere stesso ma che la filosofia occidentale ha generalmente tentato di occultare privilegiando una “logica dell’identità”. Per questi aspetti il pensiero di Derrida ha delle notevoli affinità a quello di Deleuze: come abbiamo già accennato in precedenza, in entrambi si trova l’elaborazione di una “filosofia della differenza” che si richiama a Nietzsche e che nasce dalla radicale opposizione alle filosofie “umanistiche” e “personalistiche”, incentrate sulla Si noti che Derrida scrive volutamente différance con la “a” anziché con la “e” (in francese la parola si scriverebbe infatti différence) proprio per sottolineare il fatto che il “fono-logo-centrismo” del pensiero occidentale – di cui una conseguenza diretta è l’uso della scrittura fonetica – ha portato a cancellare le “differenze” persino all’interno del linguaggio: quindi Derrida scrive différance per simboleggiare lo scarto – la differenza che altrimenti non emergerebbe – tra la parola scritta e quella pronunciata. Ogni segno è per il filosofo una “traccia” che rimanda costitutivamente ad altro da sé, ad una differenza: ogni segno è un “differimento”, ovvero un rimando all’alterità. Cfr. J. DERRIDA, La “différance”, «Théorie d'ensemble», Paris 1968, anche in IDEM, Marges de la philosophie, Minuit, Paris, 1972; tr. it. di M. Iofrid, La “différance”, in IDEM, Margini di filosofia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 27-57. Riguardo le peculiarità della nozione derridiana di différance in relazione all’etimologia greca di diaphérein (quale distanza, differimento, alterità del senso) e al suo connettersi alla linguistica strutturalista di Saussure, alla psicoanalisi di Freud ed alla concezione heideggeriana della “differenza ontologica”, cfr. anche R. BERNASCONI - D. WOOD (a cura di), Derrida and Différance, Northwestern University Press, Evaston, 1988; C. DI MARTINO, L’evento, la traccia e l’esperienza, CUEM, Milano 1992; C. DOVOLICH, Derrida tra differenza e trascendentale, Franco Angeli, Milano, 1995. 266

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coscienza del soggetto quale fondamento conoscitivo dell’essere. Una delle peculiarità della posizione di Derrida - anche rispetto a Deleuze - è quella di teorizzare l’emergere della differenza all’interno della pratica della scrittura. Nel 1967 Derrida pubblica un’opera che può venir considerata la sua Critica della ragion pura: di tratta del volume De la grammatologie che l’autore qualifica come l’elaborazione critica di una «scienza della scrittura»267. In quest’opera viene contestato il concetto usuale della scrittura come rappresentazione della parola orale (phoné) e quindi della scrittura come espressione del fono-logo-centrismo e di quella “metafisica della presenza” che hanno caratterizzato il pensiero occidentale. La “grammatologia” si presenta come l’elaborazione di un nuovo concetto di scrittura (Derrida parla di “arci-scrittura”) in grado di rimandare il testo sempre oltre sé stesso e di essere espressione delle differenze costitutive del reale. I testi si presentano agli occhi di Derrida come “traccia” di un’alterità di sensi e di significati mai riconducibili ad un progetto unitario e ad un’unica intenzionalità di fondo dell’autore: la “grammatologia” si qualifica perciò come tentativo di liberare la testualità dal dominio di una ragione apofantica e totalizzante, che tende ad inglobare in sé ogni elemento di differenza. “Decostruire” i testi significa quindi far emergere da essi sempre nuove dimensioni di senso spesso rimaste nascoste. Ad avviso di Derrida, i testi si configurano come una “disseminazione”268 (ovvero una dispersione) di un’infinita molteplicità di sensi che non sono mai riconducibili ad un ordine prestabilito: i testi presentano infatti sempre elementi di estraneità che sfuggono ad J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 19982, p. 21. 268 A tal proposito cfr. J. DERRIDA, La dissémination, Éditions du Seuil, Paris, 1972; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, La disseminazione, Jaca Book, Milano, 1989. 267

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ogni tentativo di comprensione ultimo e definitivo. Per questi aspetti, la decostruzione è una anche pratica di critica letteraria che ha riscosso notevole successo sia in Europa che negli Stati Uniti. Secondo Derrida i concetti della metafisica occidentale – e tra questi la nozione stessa di soggetto inteso sia in senso idealistico che personalistico – sono da considerare come “metafore” delle quali si è persa la traccia originaria che le ha prodotte: la metafisica viene quindi presentata dal filosofo come un gioco di metafore e come una “mitologia bianca” (mythologie blanche), “bianca” poiché si è cancellata col tempo la sua origine metaforica. In queste considerazioni Derrida segue il Nietzsche di Verità e menzogna in senso extramorale, il quale afferma che «le verità non sono che illusioni di cui si è dimenticato che son tali, metafore [...] private della forza di senso»269: sulla scia di Nietzsche, il filosofo francese arriva a sostenere che «la metafisica ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che resta comunque attiva, in movimento, iscritta con l’inchiostro bianco, disegno invisibile e ricoperto nel palinsesto»270. Per Derrida i concetti tradizionali della metafisica hanno un’origine metaforica e di conseguenza possono esser considerati come “metafore morte”, “metafore sbiadite dall’uso”. La logica ed il linguaggio stesso della metafisica classica vengono inoltre concepiti da Derrida «come promanazioni di un pensiero 269

F. NIETZSCHE, Verità e menzogna in senso extramorale [Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, [edizione originale 1873], in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montanari, vol. III, testo II], tr. it. di S. Givone, in Verità e menzogna e altri scritti giovanili, Newton Compton, Roma, 1991, pp. 93-102, p. 96. 270 J. DERRIDA, «Mythologie blanche (la métaphore dans le texte philosophique)», in «Poétique», 5, 1971, pp. 1-52, p. 4; testo ripreso in IDEM, La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico, tr. it. di M. Iofrida, in IDEM (1972), Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 273-349, p. 275.

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del soggetto e dell’uomo, di un “logocentrismo” e di un “antropocentrismo” normativi e arbitrari»271. In Derrida «l’oltrepassamento del soggetto diviene critica ed oltrepassamento del lógos, e del linguaggio, in base all’assunto nietzscheano: non ci libereremo mai di Dio (e per Dio deve intendersi la struttura “antropocentrica” dell’ontologia tradizionale) fino a quando resteremo prigionieri della grammatica»272.

F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Prefazione di G. Vattimo, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 108. 272 Ibidem. Si ricordi che «Derrida proviene dalla militanza nel gruppo di Tel Quel» (ivi, p. 445): la vicinanza al gruppo di Tel Quel ha sicuramente influito nell’elaborazione derridiana della critica all’idea di soggetto. Tel Quel è un gruppo letterario d’avanguardia formatosi a Parigi nel 1960 attorno all’omonima rivista: i suoi teorici – tra questi ad esempio c’è Philippe Sollers – si volgono alla ricerca di un nuovo linguaggio in grado di spezzare il dominio filosofico e grammaticale del soggetto. Per essi «il linguaggio occidentale è il regno del soggetto, il luogo proprio della metafisica: non a caso il soggetto è anzitutto una funzione grammaticale. I teorici di Tel Quel fanno della critica al linguaggio il momento fondamentale della critica marxista agli apparati politici ed economici, e ne traggono le ragioni per una difesa della rivoluzione culturale maoista: le lingue indoeuropee e non ideografiche sono strutturate come la società capitalistica, dove il soggetto agisce come il capitale, e i predicati costituiscono le forze produttive. Per questo in Cina, dove non esiste il dominio grammaticale del soggetto, la rivoluzione culturale avrebbe potuto più facilmente prodursi» (ibidem, p. 121). La sensibilità filosofica dei rappresentanti del gruppo Tel Quel si caratterizza, quindi, per un accentuato anti-soggettivismo ed anti-umanismo; in maniera affine a Deleuze e Derrida essi teorizzano inoltre «l’idea di un mondo energetico-pulsionale dove non c’è canalizzazione gerarchica delle pulsioni, dei desideri, ma una molteplicità di differenze anarchiche, libere, non assoggettabili alle forme logiche dell’identità e della contraddizione dialetticamente ordinata» (ibidem, p. 108). Cfr. anche P. FOREST, Histoire de Tel Quel, Fiction & Cie, Paris, 1995. 271

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Come si è constatato, la pratica della decostruzione si origina dall’esigenza di un “oltrepassamento della metafisica” e ha come conseguenza un definitivo congedo dall’idea stessa di ragione apofantica e dimostrativa, tipica del pensiero moderno: di questo congedo dalla ragione apofantica ne è testimonianza lo stesso linguaggio utilizzato da Derrida, linguaggio che – si pensi ad un testo come Glas273 – si allontana dalle tradizionali strutture logico-argomentative per avvicinarsi a formule tipiche dell’invocazione e dell’esortazione. Si tratta di formule utilizzate per esprimere meglio il dovere etico dell’accoglienza dell’altro e del diverso. Una di queste è ad esempio l’imperativo «Viens!»: è un’invocazione rivolta all’altro, ad un “tu” che può essere solo «lasciato venire»274. Secondo il filosofo l’alterità sfugge a qualsiasi tentativo di appropriazione: l’altro va accolto e va rispettato nella sua radicale diversità. Possiamo dire che nel parlare del valore inappropriabile rappresentato dall’altro Derrida recuperi molti aspetti tipici della spiritualità ebraica275 e che si avvicini anche alle istanze etiche del pensiero di Emmanuel Lévinas, incentrato su di una fenomenologia dell’alterità e ricco di suggerstioni provenienti dalla tradizione biblica e talmudica. Di Lévinas, per esempio, Derrida riprende e rielabora le temtatiche della “traccia”, dell’accoglienza dell’altro e dell’ospitalità. La “filosofia della differenza” elaborata da Derrida ha, quindi, dei significativi risvolti anche sul piano etico e politico che lo stesso autore ha particolarmente sviluppato a partire dagli anni Ottanta. La riflessione sul valore della differenza ha spinto infatti il filosofo ad elaborare un’etica del dono e dell’ospitalità J. DERRIDA, Glas, Galilée, Paris, 1974; tr. it. e cura di S. Facioni, Glas, Bompiani, Milano, 2006. 274 J. DERRIDA, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano, 1998, p. 129. 275 Si ricordi che Derrida proviene da una famiglia ebraica sefardita. 273

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incondizionata nei confronti dell’altro, il quale anche nel luogo stesso in cui abita rimane sempre «emigrato, esiliato, straniero» 276 . La “filosofia della differenza” ha come corollario etico l’ideale regolativo dell’accoglienza dell’altro, del diverso e, allo stesso tempo, ha un forte potenziale politico ed emancipativo: la decostruzione – proprio per la centralità che in essa assume il valore insopprimibile della differenza – è pensiero che scardina ogni forma consolidata di dominio totalitario ed «istiga alla sovversione di ogni regno»277, tendente a fagocitare le diversità. Il pensiero di Derrida può essere definito per molti aspetti come “post-moderno”278: è un pensiero che nasce da una critica alle idee di razionalità e di soggettività così come queste sono state elaborate nella modernità filosofica; esso mostra perciò delle notevoli affinità con la sensibilità speculativa tipica dell’età postmoderna. Nelle pagine conclusive di questa trattazione cerco

J. DERRIDA, Spectres de Marx, Galilée, Paris, 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano, 1994, p. 210. 277 J. DERRIDA, La différance (1968), in IDEM (1972), Margini di filosofia, op. cit., p. 50. Sul pensiero etico-politico di Derrida si vedano, in particolare, C. RESTA, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; S. RAGAZZONI, La decostruzione del politico. Undici testi su Derrida, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2006. Riguardo l’influenza di Derrida sulla complessa proposta etico-politica di Jean-Luc Nancy mi limito ad indicare: D. TARIZZO, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina, Milano, 2003, pp. 105-134; F. DE PETRA, Comunità, comunicazione, comune: da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma, 2010. 278 Derrida condivide ampiamente l’idea espressa da Lyotard, principale teorico francese del postmoderno, secondo il quale «il sapere postmoderno non è esclusivamente uno strumento di potere. Esso raffina la nostra sensibilità per le differenze» (J.-F. LYOTARD, La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979; tr. it. di C. Formenti, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 7). 276

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di delineare alcune caratteristiche peculiari del postmoderno, facendo particolare attenzione alla problematica antropologica. Come è noto, è stato Jean-François Lyotard ad introdurre il termine “postmoderno” nel dibattito filosofico: nel celebre volume nel 1979 La condition postmoderne, egli utilizza questo termine per designare l’atmosfera culturale e speculativa tipica del mondo contemporaneo. Il postmoderno è quindi, secondo il filosofo, l’atteggiamento di pensiero più caratteristico delle società industrializzate, informatizzate e del mondo stesso divenuto un “villaggio globale”. Per Lyotard le filosofie postmoderne, pur nella varietà delle loro forme – per nulla riconducibili ad un progetto unitario – intendono prendere nettamente le distanze dalle “grandi narrazioni” (grands récits) che hanno contraddistinto la modernità: tra queste in primis l’idea che la filosofia sia ricerca del fondamento, che la storia sia orientata verso un fine ultimo (come la libertà e l’uguaglianza economica degli individui), e che la ragione umana sia in grado di cogliere l’universale e l’intero (come ad esempio sosteneva Hegel). Nello sviluppo della storia del pensiero Lyotard individua cinque grandi “metanarrazioni” dalle quali il mondo contemporaneo avrebbe preso definitivamente congedo: esse sono – in ordine cronologico – il cristianesimo (inteso anche nella forma secolarizzata che i suoi valori hanno assunto nella modernità), l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo ed il capitalismo. Secondo Lyotard, si può «considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni (métarécits)»279. L’atteggiamento postmoderno si caratterizza quindi per una radicale sfiducia nei confronti di tutti quei paradigmi di pensiero moderno che hanno tentato di comprendere la realtà umana in maniera esaustiva: «la mia tesi» – afferma Lyotard – «è che il J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, op. cit., p. 6.

279

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progetto moderno (di realizzazione dell’universalità) non è stato abbandonato ma distrutto, “liquidato”»280. Le elaborazioni teoretiche tipiche della “condizione postmoderna” prendono nettamente le distanze da ogni dogmatismo filosofico e da ogni pensiero che cercando di legittimare razionalmente sé stesso cerca di dominare l’intero: ad avviso di Lyotard, questo tipo di pensiero è definitivamente naufragato ad Auschwitz. Per il filosofo «Auschwitz può essere preso come un nome paradigmatico per l’“incompiutezza” tragica della modernità»281. Nella terribile esperienza dei campi di sterminio è stato definitivamente confutato ogni progetto filosofico che prevedeva il progressivo sviluppo etico e sociale dell’uomo grazie alla sua ragione ad alla sua libertà: «Ognuno dei grandi racconti di emancipazione, a qualunque genere abbia dato l’egemonia, è stato per così dire invalidato nel suo fondamento dagli ultimi cinquant’anni. Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale [come è noto, si tratta del principio filosofico fondamentale di Hegel]: “Auschwitz” confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale»282; «Ad Auschwitz si è distrutto fisicamente un sovrano moderno: tutto un popolo. Si è tentato di distruggerlo. È questo il crimine che ha inaugurato la postmodernità»283. Dopo questo sterminio e gli altri mali del XX secolo – si chiede Lyotard – «come potrebbero mantenere una qualche credibilità i grandi racconti di legittimazione?»284. Il postmoderno prende quindi definitivamente congedo anche dall’idea – teorizzata dall’illuminismo, dall’idealismo e J.-F. LYOTARD, Le postmoderne expliqué aux enfants, Éditions Galilée, Paris 1986; tr. it. di A. Serra, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 28. 281 Ibidem. 282 J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna, op. cit., p. 38. 283 J.-F. LYOTARD , Il postmoderno spiegato ai bambini, op. cit., p. 29. 284 Ibidem. 280

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soprattutto dal marxismo – che la storia umana sia finalisticamente orientata: «Non c’è più, non si crede più ci sia una linea escatologica, un cammino verso un fine. E questo […] è postmoderno»285. L’età del postmoderno è un’età della fine delle grandi costruzioni speculative e dei grandi “progetti di senso” per l’uomo e la sua storia286. Il paradigma di razionalità proposto da Lyotard rinuncia quindi alle grandi elaborazioni filosofiche ed ha una propensione relativistica e contestualistica: si tratta di un paradigma di ragione “a raggio corto” e che prende le distanze da ogni prospettiva che abbia «nostalgia del Tutto e dell’Uno»287. La forma mentis tipica del postmoderno è perciò pluralista e tollerante, aperta ad ogni forma di diversità culturale. Per la sensibilità filosofica postmoderna – assai vicina sotto molti aspetti a quella poststrutturalista – l’idea di soggetto, così com’essa si è configurata nella modernità a partire da Cartesio e fino all’idealismo ed allo spiritualismo, non è che una “metafora” ed un “simulacro”288 senza significato e senza referente: nelle J.-F. LYOTARD – G. VATTIMO, Noi, melanconici postmoderni, in “La Stampa”, 14 maggio 1991, p. 17. 286 In Italia l’atteggiamento - tipico del postmoderno - di abbandono delle grandi sintesi speculative è stato definito come “pensiero debole”: i suoi teorici sono stati Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Essi nelle loro elaborazioni prendono le mosse soprattutto dalla filosofia di Nietzsche ed Heidegger ma si confrontano anche con le istanze anti-metafisiche ed antisoggettivistiche degli intellettuali francesi postmoderni e poststrutturalisti. A tal proposito cfr. G. VATTIMO, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981; G. VATTIMO – P.A. ROVATTI, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983; G. VATTIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; P.A. ROVATTI, Trasformazioni del soggetto. Un itinerario filosofico, il Poligrafo, Padova, 1992. 287 J.-F. LYOTARD, Il postmoderno spiegato ai bambini, op. cit., p. 24. 288 Tra gli intellettuali definibili come “postmoderni” e “poststrutturalisti”, Jean Baudrillard è arrivato a teorizzare che per l’uomo contemporaneo la realtà stessa sia divenuta “simulacro” senza significato e senza referente: ad avviso di Baudrillard i mass media fanno vivere gli individui in una realtà 285

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considerazioni sul valore filosofico della soggettività, Lyotard – come del resto anche Derrida, Deleuze e Foucault – si richiama direttamente alla lezione di Nietzsche, che considera le idee stesse di soggettività e d’interiorità come un’illusione289. Seguendo Paul Ricoeur, si può dire che quelle proposte dai teorici del postmoderno e del poststrutturalismo – nella misura in cui si virtuale e fittizia. Egli rileva infatti che nel “villaggio globale” – costituito dal mondo informatizzato – la vita degli uomini si svolge in un sistema di “simulacri”, di segni ed immagini che prendono il posto del mondo vero. Cfr. J. BAUDRILLARD, Simulacres et simulazion, Galilée, Paris, 1981. 289 «Io sostengo» – afferma Nietzsche – «che anche il nostro mondo interiore […] è una pura immaginazione» (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, [edizione originale 1887-1888], tr. it. di S. Giametta, in IDEM, Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., vol. VIII, t. II, Adelphi, Milano, 1971, p. 262). Per il filosofo sono quindi in errore coloro che trattano «il “mondo apparente interiore” con le stesse forme e gli stessi procedimenti del mondo esterno» (ibidem). Anche «lo spirito», inteso come «qualcosa che pensa» - sostiene Nietzsche - «è una conseguenza della falsa osservazione di sé, che crede al “pensare”; qui viene immaginato in primo luogo un atto che non esiste, il “pensare”, e in secondo luogo un substrato soggettivo in cui ha origine ogni atto di questo pensiero e nient’altro» (ibidem, p. 263). Nietzsche rivolge quindi una dura critica sia alla nozione metafisica di anima che alla concezione kantiana dell’«io penso»: egli critica sia l’idea ontologica di un soggetto “portatore” di qualità come la coscienza, che la natura stessa del pensare, ovvero il presupposto «che esista un io» (F. NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, Neumann, Leipzig, 1886; tr. it. di F. Masini, Al di là del bene e del male, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., vol. VI, t. II, Adelphi, Milano, 1968, p. 20) e «che sia già assodato che cosa è caratterizzabile in termini di pensiero» (ibidem, p. 21). È stato ben osservato che «in Nietzsche il soggetto è una finzione, un simulacro o una “maschera”, che non copre alcuna verità ultima» (F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Prefazione di G. Vattimo, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 108): i teorici del poststrutturalismo e del postmoderno condividono e rielaborano quest’idea nietzscheana del soggetto come “simulacro” e maschera.

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richiamano a Nietzsche – sono filosofie dell’«anti-cogito»290: sono filosofie che considerano una mera illusione e una semplice abitudine grammaticale «porre una sostanza al di sotto del cogito o una causa dietro di esso»291. La sensibilità filosofica postmoderna considera perciò come un “grande racconto” sia l’idea dell’anima quale sostrato metafisico del soggetto sia l’idea del pensiero come elemento spirituale presente nell’uomo: queste idee vengono considerate da gran parte degli autori di cui stiamo parlando (Lyotard, Foucault, Deleuze e Derrida) come un retaggio di vecchi dualismi metafisici (anima-corpo, spirito-materia) che il pensiero contemporaneo avrebbe completamente superato. L’istanza di superamento della metafisica e dei metaracconti – tipica della filosofia francese contemporanea – si configura anche come istanza di superamento della nozione stessa di soggetto: nella variegata temperie filosofica postmoderna si parla anche di una “fine del soggetto”. A questo proposito è stato rilevato che «il postmoderno si presenta, per la cultura europea e per quella americana, come descrizione di un universo dove la fine del soggetto è un fatto compiuto, insieme alla fine della modernità (sorta precisamente dal soggetto cartesiano) e, da certi punti di vista, alla fine della filosofia»292.

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 90. 291 Ibidem, p. 91. 292 F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, op. cit, p. 109. Per un’analisi del tema della soggettività nella cultura postmoderna cfr. F. BOTTURI (a cura di), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, Vita e Pensiero, Milano, 2003. Si veda anche E. FRANZINI, Moderno e postmoderno. Un bilancio, Raffaello Cortina, Milano, 2018. Sulle ulteriori più recenti tendenze del pensiero francese contemporaneo – mi riferisco ad autori come Jean-Luc Marion, Jean-Luc Nancy, Bernard Stiegler, Catherine Malabou, Jacques Rancière, Alain Badiou e François Laruelle – mi limito ad indicare il volume di I. JAMES, 290

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11. Quali “orizzonti di senso” per l’uomo contemporaneo? In questo Studio sono state analizzate le principali tappe speculative che hanno caratterizzato la visione della soggettività umana nel pensiero francese del Novecento. In particolare è stata presa in considerazione la problematica antropologica all’interno dello spiritualismo, del personalismo, dell’esistenzialismo, dello strutturalismo e della cosiddetta età postmoderna. Da questa analisi è emerso che dopo la stagione in cui fiorirono filosofie incentrate sui valori dello spirito umano, della persona e della sua libertà, la riflessione si è generalmente sempre più allontanata da considerazioni antropologiche di tipo metafisico, fondanti, per esempio, la stessa libertà umana: con l’avvento dello strutturalismo si sono inoltre sempre più diffuse prospettive teoretiche di tipo anti-soggettivistico e ad anti-umanistico. Le filosofie nate sotto l’influsso dei “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud hanno contribuito in maniera decisiva all’elaborazione di costruzioni concettuali nelle quali viene quasi del tutto negata ogni ulteriorità dell’esistere di ordine trascendente e religioso. La critica radicale di pensatori come Deleuze, Foucault e Derrida è indirizzata non solo contro una concezione metafisica del soggetto ma anche – ed è questo uno dei loro bersagli polemici principali – contro ogni fondazione trascendentale della coscienza umana e dei suoi vissuti interiori (Erlebnisse): si tratta di prospettive che nascono in netta opposizione alla fenomenologia di Husserl e a ogni proposta speculativa che rivendica l’universalità della ragione, che cerchi cioè di cogliere “scientificamente” gli aspetti “universali”, “astorici” e quindi “trascendentali” dell’interiorità umana. Nell’atmosfera speculativa segnata dal ritorno a Nietzsche, dal freudismo e dal marxismo (spesso ripreso – come avviene ad The New French Philosophy, Polity Press, Cambridge – Oxford – Boston, 2012.

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esempio in Althusser – in chiave anti-umanistica) l’idea di soggetto non diviene che una “metafora” vuota, un “simulacro” senza referente oggettivo, un mero uso grammaticale. In tanti settori della filosofia francese contemporanea la visone generale dell’uomo è condizionata dalla cosiddetta cultura del “post”: le teorizzazioni di una “fine del soggetto” e di una “fine stessa della filosofia” sarebbero l’esito di una diffusa sensibilità culturale definibile come poststrutturalista, postmoderna, postmetafisica, postcristiana e – come viene soprattutto teorizzato in ambito sociologico ed economico – postindustriale e postcapitalistica. Quella del “post” è una cultura in cui si è preso congedo da ogni “metanarrazione” (così sostiene Lyotard), da ogni ideologia onnicomprensiva e da ogni “assoluto terreste”. L’uomo contemporaneo vive, come direbbe Heidegger, in dürftiger Zeit, in un tempo di “penuria speculativa” in cui si rinuncia alle costruzioni concettuali: esso si trova perciò ad operare in un universo privo di solidi punti di riferimento garantiti dalla ragione. Quali “orizzonti di senso” sono possibili oggi per l’uomo? Quest’interrogativo resta per noi aperto. In queste considerazioni conclusive posso solo mettere in rilievo il mistero che caratterizza la condizione umana, mistero che sfugge sempre ad ogni tentativo di comprensione ultima e definitiva. Sono del parere che nell’interiorità umana rimanga sempre un’istanza di trascendimento e di senso la cui genesi non potrà mai essere totalmente compresa né dalla filosofia né dalle metodologie scientifiche. Concludo queste mie riflessioni riportando alcune affermazioni di Edgar Morin che evidenziano con efficacia le difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico incontra nella definizione della soggettività, una nozione che per la sua complessità sfugge ad ogni comprensione che si presenti come totale ed esaustiva: «Quella di soggetto è una nozione nello stesso tempo evidente e misteriosa. É un’evidenza del tutto banale dal momento in cui qualcuno dice “io”. Quasi tutte le lingue hanno 188 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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questa prima persona singolare; se non hanno il pronome, hanno almeno, come in latino, il verbo alla prima persona singolare. E c’è poi la seconda evidenza riflessiva messa in luce da Cartesio: “io non posso dubitare che io dubito, dunque io penso. Se io penso, dunque io sono, cioè io esisto in prima persona come soggetto”. Allora sorge il mistero: che cos’è questo “io” e questo “sono” che non è semplicemente “è”? É un’apparenza secondaria o una realtà fondamentale? Per tutta una tradizione filosofica è una realtà fondamentale. Sembra che sia così quando Mosè chiede all’Essere che gli appare sotto forma di un roveto ardente: “ma chi dunque tu sei?”. La risposta, tradotta in italiano, è: “Io sono colui che sono”. Il che significa che il Dio di Mosè è la soggettività assoluta. Ma d’altra parte, dal momento in cui si cerca di considerare in modo deterministico la società e l’individuo, allora il soggetto svanisce. Di fatto la nostra mente è divisa in due, a seconda che guardi il mondo talora in modo riflessivo e comprensivo, talaltra in modo scientifico e deterministico. Il soggetto appare nella riflessione su sé stesso e attraverso un modo di conoscenza intersoggettivo, da soggetto a soggetto, che si può chiamare comprensione. Al contrario si eclissa nella conoscenza determinisitica, oggettivistica, riduzionista sull’uomo e sulla società. La scienza ha in qualche modo espulso il soggetto dalle scienze umane nella misura in cui si è diffuso in loro un principio determinista e riduzionista. Il soggetto è stato scacciato dalla psicologia, scacciato dalla storia, scacciato dalla sociologia e si può dire che il tratto comune delle concezioni di Althusser, Lacan, Lévi-Strauss, è stato di voler liquidare il soggetto umano. Tuttavia c’è stato nei pensatori dell’era strutturalista un ritorno tardivo del soggetto, come in Foucault, in Barthes, ma fu un ritorno esistenziale che accompagnava il ritorno dell’eros, il ritorno della letteratura e non un ritorno all’interno della teoria»293. É E. MORIN, La notion de sujet, in IDEM, La tête bien faite, Seuil, Paris, 1999; tr. it. di S. Lazzari, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e 293

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certamente condivisibile questa conclusione di Morin: «Abbiamo dunque bisogno di una concezione complessa del soggetto»294.

riforma del pensiero, Raffaello Cortina, Milano, 2000, pp. 125-138, pp. 125-126. 294 Ibidem, p. 138.

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Studio II Alle origini del personalismo francese:

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Jules Lequier “filosofo della libertà”

«Quale uomo ha intravvisto senza vertigine la grandezza, la maestà e la divinità di se stesso, quando l’idea reale della libertà, esplosione della coscienza, gli scopriva di colpo il fondo del suo essere?»1

1. La riscoperta del pensiero di Lequier Jules Lequier (Quintin 1814 – Plérin 1862) non è certo tra le figure più note della filosofia francese dell’Ottocento. Questo è dovuto in gran parte a dei motivi biografici. Egli fu un pensatore solitario: lavorava come precettore e condusse una vita appartata in Bretagna, al di fuori delle accademie e dei grandi movimenti d’idee. Inoltre non diede mai alle stampe i suoi scritti, i quali «Quel homme a entrevu sans vertige la grandeur, la majesté, la divinité de l’homme, quand l’idée réelle de la liberté, explosion de la conscience, lui découvrait tout à coup le fond de son être?» (J. LEQUIER, Oeuvres complètes, publiées par Jean Grenier, Édition de la Baconnière, Neuchâtelle (Suisse), 1952, p. 67). D’ora in poi faremo riferimento alle Oeuvres complètes curate da J. Grenier con la sigla OC. Accanto al numero di pagina di OC indicheremo anche il numero di pagina - posto tra parentesi quadre della traduzione italiana delle opere di Lequier edite da Augusto Del Noce: J.-L. JULES LEQUIER, Opere, a cura di A. Del Noce, Postfazione di G. Riconda, Morcelliana, Brescia 2008 [prima edizione: Zanichelli, Bologna, 1968]. 1

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iniziarono ad essere conosciuti solo grazie alla redazione postuma che ne fece il suo amico e discepolo Charles Renouvier. Quest’ultimo nel 1865 fece pubblicare 120 esemplari dell’opera monumentale nella quale Lequier voleva dar forma sistematica ai suoi pensieri: La recherche d’une première vérité. Da notare è che Renouvier diede una copia della Recherche anche a due grandi filosofi del tempo: allo svizzero Charles Secrétain, autore di un’imporante Philosophie de la liberté (1849) e all’americano William James, autore del celebre The Will to Believe (1896). Alcuni interpreti hanno sottolineato che tracce di influssi lequieriani si possono scorgere sia nella filosofia della libertà di Secrétain che nella teoria della “volontà di credere” di James2. Renouvier nei suoi studi diede tuttavia una lettura parziale del pensiero di Lequier: vi scorse un’anticipazione del suo neocriticismo, caratterizzato dalla “credenza razionale nel libero arbitrio”. Egli riprese da Lequier solo quegli aspetti più razionalistici della sua filosofia che meglio potevano accordarsi con una ripresa del kantismo: tuttavia anche nell’ultima grande opera di Renouvier – Le personnalisme edita nel 1903 – si avverte con evidenza l’eco delle suggestioni lequieriane: egli afferma, per esempio, che «la persona è il primo principio causale nei A tal proposito cfr. G. RICONDA, Postfazione a J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., p. 421. Secondo Augusto Del Noce la teoria della libertà di Lequier conterrebbe in nuce anche i tratti salienti del migliorismo di James e del pensiero americano: cfr. A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione a J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., p. 101. Tuttavia il possibile influsso di Lequier su James non è stato ancora fatto oggetto di approfonditi studi ed analisi filologiche. A nostro avviso, uno scritto che mostra chiari caratteri lequieriani è quello del 1884 dal titolo The Dilemma of Determinism, in «Unitarian Review» (ora in W. JAMES, Essays on Faith and Morals, R.B. Perry (a cura di), Longmans, Green and Co., New York-London-Toronto 1947, pp. 145-183; tr. it. di A. Santucci, Il dilemma del determinismo, in Il pragmatismo, A. Santucci (a cura di), Utet, Torino, 1970, pp. 205-232).

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confronti del mondo (la personne [est] premier principe causal à l’égard du monde)»3 e che solo «l’idea di Dio è l’idea della persona perfetta (l’idée de Dieu est l’idée de la personne parfaite)»4. A partire da una philosophie de la libertè, che si richiama direttamente a Lequier, Renouvier muove delle interessanti critiche alle filosofie della storia di carattere deterministico, basate cioè sul concetto di necessità, quali quelle elaborate da Hegel o da Comte, che fu del resto uno dei suoi maestri5. Gli elementi di continuità tra Lequier e Renouvier sono stati messi giustamente messo in evidenza anche da Giuseppe Riconda nelle sue ricerche sulle fonti ottocentesche del personalismo6. C. RENOUVIER, Le personnalisme, Alcan, Paris, 1903, p. VI [tr. it. nostra]. Ibidem, p. VII. 5 A Renouvier va attribuito anche il neologismo “ucronia” designante la possibilità di scrivere una storia alternativa rispetto alle res gestae realmente accadute: in tal modo, egli valorizza fino ad esiti quasi paradossali le categorie di possibilità e di libertà delle azioni umane nella storia. A questo proposito si veda C. RENOUVIER, Uchronie. Esquisse du developpement de la civilisation européenne tel qu’il n’a pas été, tel qu’il aurait pu être, Paris, 1876; tr. it. di F. Paris, Ucronia: l’utopia nella storia: schizzo storico apocrifo dello sviluppo della civiltà europea, non come è stato, ma come avrebbe potuto essere, Faenza Editrice, Faenza (Ra), 1984. Questo volume – commenta Augusto Del Noce – «è interessante come encliclopedia di tutti i motivi anticlericali, non soltanto nella storiografia, ma anche nel giornalismo dell’Ottocento, e per la forma di contrapposizione della libertà occidentale al fatalismo orientale» (A. DEL NOCE, Charles Renouvier, in Enciclopedia filosofica, Vol. 10, Bompiani, Milano, 2006, pp. 9641-9644, p. 9643). Cfr. anche P. TERZI, Contingency, Freedom, and Uchronic Narratives: Charles Renouvier’s Analytical Philosophy of History in Context, in «Journal of the History of Ideas», 2020, pp. 1-21. 6 Cfr. G. RICONDA, Alle fonti ottocentesche del personalismo, in «Annuario Filosofico», 4, 1988, pp. 103-131. Si vedano anche A. DE REGIBUS, L’ultimo Renouvier. Persona e Storia nella filosofia di Charles Renouvier, Thilger, Genova, 1987; F. TURLOT, Le personnalisme critique de Charles 3 4

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Il primo saggio sul pensiero di Lequier fu scritto da Gabriel Séailles (1852-1921) e apparve nel 1898 sulla Revue philosophique de la France et de l’étranger: recava il significativo titolo Un philosophe inconnu, Jules Lequier. Tuttavia una vera e propria riscoperta e valorizzazione dell’opera di Lequier si ha nel Novecento in Francia grazie soprattutto a Jean Grenier (1898-1971), il quale nel 1952 pubblica un’edizione critica delle Oeuvres complètes. Nei sui scritti Grenier ci restituisce un’immagine integrale del pensiero lequieriano: egli in opposizione alla lettura razionalistica di Renouvier dà rilievo anche alla dimensione spirituale e religiosa che permea l’opera di Lequier. Ad avviso di Grenier sono tre le principali chiavi di lettura del suo pensiero: il cattolicesimo, il celtismo ed il romanticismo7. Questi tre elementi trovano nelle opere di Lequier un’organica fusione ed una sintesi originale. Grenier sottolinea in particolare i profondi influssi che la giovanile educazione cristiana ebbe sugli sviluppi del pensiero lequieriano: tale religiosità - per l’interprete - si intreccia con motivi tipici del romanticismo bretone come ad esempio l’esaltazione dell’individuo e della sua insopprimibile libertà, di contro qualsiasi tendenza ad annullare l’individuo stesso nella totalità, sia essa intesa in senso idealistico o materialistico. Nel suo lavoro ermeneutico Grenier situa quindi alcuni tratti della figura di Lequier nel contesto spirituale tipicamente bretone e celtico: egli ricorda come la Bretagna fu la terra di Pelagio, il quale combatté l’idea di predestinazione in nome dell’assoluta libertà del singolo; ricorda che la Bretagna fu anche la terra di François-René de Chateaubriand che nell’opera Génie du Christianisme assegna al cristianesimo il merito di aver portato nel mondo la vera nozione Renouvier: une philosophie française, Préface de Gilbert Vincent, Presses universitaires de Strasbourg, Strasbourg, 2003. 7 Cfr. J. GRENIER, La philosophie de Jules Lequier, Les Belles Lettres, Paris 1936, ristampata presso Calligrammes, Quimper, 1983, pp. 9-10.

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di libertà; Grenier nota inoltre che la Bretagna diede i natali anche a Lamennais, fautore di un cattolicesimo liberale, e a Renan, intellettuale con il quale - a nostro avviso - Lequier condivide un tormento esistenziale di carattere etico e religioso8. Nel Novecento in Francia la figura di Lequier è stata valorizzata in particolare anche da Jean Wahl e più recentemente da André Clair: i due interpreti si sono soprattutto soffermati sulle affinità riscontrabili tra il pensiero esistenziale di Lequier e quello di Kierkegaard9. Di particolare interesse per l’acutezza d’indagine sono inoltre gli studi in lingua francese di Xavier Tillette: questi si sofferma soprattutto sull’elaborazione lequieriana di una science de la liberté e la paragona a quella formulata da J.G. Fichte nelle diverse esposizioni della dottrina della scienza 10. Come analizzeremo in seguito, la giovanile lettura di Fichte sarà decisiva per Lequier: lui stesso - del resto - riconosce più volte il suo debito nei confronti della posizione fichtiana sul primato della volontà. In Italia una riscoperta di Lequier la si deve a Giuseppe Agostino Roggerone e soprattutto ad Augusto Del Noce, il quale su suggerimento di Luigi Pareyson tradusse in italiano le Oeuvres Cfr. a tal proposito E. RENAN, Souvenirs d’enfance et de jeunesse, Paris 1883; tr. it. di S. De Simone, Ricordi d’infanzia e di giovinezza, Editrice Torinese, Torino, 1954. 9 Jean Wahl curò un’edizione di alcune opere del filosofo francese: Jules Lequier 1814-1862, Introduction et choix par Jean Wahl, Les classiques de la liberté, Traits, Genève-Paris, 1948. Sul rapporto Lequier-Kierkegaard cfr. J. WAHL, Études kierkegaardiennes, Aubier, Paris, 1938, pp. 430-432; A. CLAIR, Kierkegaard et Lequier. Lectures croisées, Cerf, Paris, 2008. Di André Clair è anche l’importante monografia dal titolo Métaphysique et existence. Essai sur la philosophie de Jules Lequier, Vrin, Paris, 2000. 10 A tal proposito si veda X. TILLETTE, Jules Lequier ou le tourment de la liberté, Desclée de Brouwer, Paris-Bruges, 1964; Idem, Lequier lecteur de Fichte, in Fichte et la France, Sous la direction de I. Radrizzani, Tome I, Beauschesne, Paris, 1997, pp. 183-199. 8

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complètes curate dal Grenier e le fece pubblicare nel 1968 presso l’editore Zanichelli. Come ha ben sottolineato Paolo Armellini, nella sua ricezione Lequier «ha rischiato di fissarsi nel cliché dell’anticipatore e del precorritore di ulteriori posizioni e percorsi di pensiero virtualmente presenti già nel suo. […] Cosicché egli è stato via via accostato dai suoi studiosi a Bergson, Blondel, Kierkegaard, Šestov, Sartre»11. Scopo della presente indagine è far emergere l’originalità della posizione di Lequier nel quadro della filosofia francese dell’Ottocento e di chiarire le principali argomentazioni tramite le quali egli tenta di elaborare un “sistema della libertà”, una vera e propria “scienza della libertà umana”. 2. Il problema del determinismo della natura Il problema filosofico fondamentale posto da Lequier è quello della libertà personale e della giustificazione dei suoi fondamenti antropologici e teologici. Per comprendere l’origine dell’interesse lequieriano per le questioni concernenti il libero arbitrio occorre fare un breve excursus sulle vicende biografiche che caratterizzarono la sua formazione intellettuale. Dalla madre e dai suoi primi studi in Bretagna Lequier ricevette una profonda educazione religiosa: questa tuttavia fu messa profondamente alla prova nei suoi quattro anni di studio a Parigi presso l’École Polytechnique, nella quale dominava un atteggiamento culturale scientista e positivista. Lo scientismo proponeva una visione meccanicistica della natura e della psiche stessa dell’uomo: tutto nella natura e nell’uomo - che è parte integrante di essa - veniva reso spiegabile in base a rapporti di causa ed effetto: l’universo stesso veniva concepito come un enorme meccanismo cuius esse est efficere. In questa Weltanschauung rigidamente deterministica 11

P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, Studium, Roma, 1998, p. 7.

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veniva delegittimata sotto il profilo epistemologico qualsiasi forma di spiritualità interiore e di trascendenza religiosa: persino il fenomeno della libertà veniva spiegato in termini meccanicistici in base agli studi fisiologici allora in voga. Lequier rimase certamente turbato dalle conseguenze filosofiche di questi suoi studi giovanili: possiamo dire che lo scientismo ed i suoi esiti deterministici costituirono i principali bersagli polemici sempre presenti anche nelle opere della maturità. Vogliamo ora soffermarci brevemente sul concetto di determinismo naturalistico12 e sulla sua genesi settecentesca tramite autori e testi che hanno certamente contributo alla formazione intellettuale di Lequier. Ci riferiamo in particolare alle concezioni espresse da La Mettrie in L’homme machine del 1748 e da D’Holbach nel Système de la nature del 1770. Questi due 12

Kant nella terza antinomia della dialettica trascendentale - delineata nella Critica della ragion pura - ci dice con chiarezza che in una concezione del mondo deterministica «non c’è nessuna libertà, ma tutto accade unicamente secondo le leggi della natura (alles in der Welt geschieht lediglich nach Gesetzen der Natur)» (I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, [I edizione 1781; II edizione 1787], hrsg. von J. Timmermann, Meiner, Hamburg, 1998, A 445; B 473; tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Revisione di V. Mathieu, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 1971, p. 369). Le leggi naturali alle quali Kant si riferisce sono certamente quelle della fisica di Newton. Kant tentò tuttavia di conciliare il determinismo della fisica newtoniana con la presenza della libertà nell’uomo: la libertà per il filosofo di Königsberg è un principio intelligibile, un «fatto della ragione (Faktum der Vernunft)» (I. KANT, Kritik der praktischen Vernunft, [I edizione 1788], hrsg. von H.D. Brandt und H.F. Klemme, Meiner, Hamburg, 2003, A 56; tr. it. di F. Capra, Introduzione di S. Landucci, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 67), un qualcosa di noumenico da dover necessariamente postulare come principio dell’agire umano responsabile. Ben diversa invece fu la posizione di alcuni illuministi francesi del Settecento - come La Mettrie e D’Holbach - e di altri astronomi e fisici come Pierre-Simon Laplace, i quali difesero una comprensione della natura e dell’uomo in termini rigidamente deterministici.

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intellettuali radicalizzando i princìpi del meccanicismo newtoniano giunsero a conclusioni atee, materialistiche e deterministiche, negando la presenza stessa della libertà umana 13. Per D’Holbach l’intero universo è sorretto da leggi fisiche eterne ed immutabili e anche l’uomo è necessariamente sottomesso a queste leggi: «l’universo appare come una catena immensa di cause e di effetti che scaturiscono senza posa gli uni dagli altri. Riflettendo, saremmo costretti a riconoscere che tutto quanto vediamo è necessario, vale a dire non può essere diverso da ciò che è. […] L’universo non è altro se non un circolo di movimenti dati e ricevuti secondo leggi necessarie»14. L’uomo per D’Holbach non è che un semplice prodotto della natura: esso è quindi sottoposto ad un rigido determinismo meccanicistico: «l’uomo è un essere puramente fisico. L’uomo morale non è che l’uomo fisico, considerato sotto certi punti di vista: la sua organizzazione è l’opera della natura. Le sue azioni visibili, i suoi movimenti invisibili [cioè i pensieri dell’anima] sono effetti

Va osservato tuttavia che Isaac Newton ebbe la preoccupazione teoretica di tenere insieme il meccanicismo - l’idea di un mondo-macchina sorretto da leggi fisiche immutabili - con il creazionismo cristiano, cioè con la concezione che l’universo fosse stato creato da un Dio sommamente libero ed onnipotente. Nella seconda edizione dei Principia mathematica egli - per difendersi dall’accusa di ateismo - introdusse uno Scolio generale nel quale afferma: «è manifesto che il sommo Dio deve esistere necessariamente […]. Esso è eterno ed infinito, onnipotente ed onnisciente, regge ogni cosa e conosce ogni cosa che è o può essere. [...] Esso è onnipresente non solo quanto alla virtù, ma anche sostanzialmente: perché non può sussistere virtù senza sostanza» (I. Newton, Princìpi di filosofia naturale, [edizione originale 1687], tr. it. e cura di F. Enriques e U. Forti, Fabbri Editori, Milano, 2001, pp. 160-162). 14 P.H. THIRY D’HOLBACH, Système de la nature, [edizione originale 1770], vol. I, Olms, Hildesheim 1966, p. 4; tr. it. di P. Rossi, in P. Rossi (a cura di), Gli illuministi francesi, Loescher, Torino, 1983, p. 288. 13

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naturali dell’ordine del suo meccanismo»15. In questa prospettiva l’uomo non è che una macchina, «un prodotto della natura»16 ed «uno strumento passivo nelle mani della necessità»17. Ciò che negano esplicitamente i materialisti francesi è soprattutto l’autonomia della libertà, cioè il fatto che l’uomo sia in grado di scegliere liberamente in base alla propria volontà: «la scelta dell’uomo è necessaria […]. L’azione è sempre l’effetto della volontà in quanto determinata [...]. Ne deriva che non siamo mai in grado di disporre delle determinazioni della nostra volontà: di conseguenza, noi non agiamo mai liberamente. Si è ritenuto che fossimo liberi, poiché possediamo una volontà e il potere di scegliere: ma non si è prestato attenzione al fatto che la volontà è mossa da cause indipendenti da noi, inerenti alla nostra organizzazione o alla natura degli esseri che ci influenzano»18. La principale istanza filosofica di Lequier fu quella di superare tutte queste forme di materialismo e di scientismo che negavano la presenza nell’uomo del libero arbitrio, affermando l’enorme potenza della necessità. Le conseguenze del determinismo sono per Lequier - lo scetticismo (l’indifferenza in materia morale) ed il panteismo (come ad esempio quello espresso nel sistema P.H. THIRY D’HOLBACH, Le vrai sens du système de la nature, [edizione originale 1774], in Idem, Système de la nature, vol. I, cit., p. 425; tr. it. di P. Rossi, in P. Rossi (a cura di), Gli illuministi francesi, cit., p. 289. 16 IDEM, Système de la nature, cit., p. 1; tr. it. p. 289. 17 IDEM, Système de la nature, op. cit., p. 90. Per approfondire l’antropologia materialistica del Settecento francese si consultino in particolare gli studi di S. MORAVIA, La scienza dell’uomo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari 1978; P. NAVILLE, D’Holbach e la filosofia scientifica nel XVIII secolo, Feltrinelli, Milano, 1979. 18 P.H. THIRY D’HOLBACH, Système de la nature, vol. I, cit., p. 11; tr. it. pp. 290-291. Notiamo che la forma di materialismo illuminista espressa da D’Holbach ebbe una vasta eco nel Settecento e fu il diretto antecedente dello scientismo ottocentesco, contro il quale Jules Lequier si oppose nettamente. 15

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spinoziano, che giustifica il fatalismo): «Se la dottrina della necessità è vera, si dirà, consideratene le conseguenze. Non c’è più né bene né male, di cui l’uomo possa essere responsabile, perché non si è responsabili che di qualche cosa che si può fare e non fare»19. In una realtà rigidamente deterministica «l’uomo afferma Lequier - privato di qualsiasi potere reale sulle sue passioni, non può nulla neppure sulle sue idee; a che servono allora le massime o i metodi? Altro non ci resta che immergerci in una disperazione muta o in una gioia stupida, in non so quale ignavia del cuore e dell’intelletto, lasciando che le cose si volgano in noi e fuori di noi così come vuole l’ordine invariabile che le dirige»20. Per il filosofo un pensiero vigoroso non può adeguarsi all’idea che l’uomo sia sottomesso al divenire deterministico come lo sono i fatti della natura: l’azione umana va dunque considerata come espressione di una libertà sconosciuta al mondo della natura. Questo emerge anche dal motto della filosofia lequieriana: esso propone all’uomo la “costruzione della sua identità” nella consapevolezza della propria costitutiva libertà: «non divenire, ma fare, e, facendo, farsi (non pas devenir, mais faire, et, en faisant, se faire)»21.

OC, Conséquences du déterminisme: scepticisme et panthéisme, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 366. Questi frammenti furono raccolti e pubblicati per la prima volta da Jean Grenier: una loro (parziale) traduzione in italiano compare solo nella sezione antologica del volume di P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, op. cit., pp. 121136. 20 OC, p. 367. Condividiamo il giudizio di Paolo Armellini secondo il quale «Lequier per tutta la vita è stato ossessionato dalla potenza dell’idea di necessità così come l’ha studiata negli autori della sua formazione filosofica e come l’ha incontrata nella Scuola politecnica di Parigi» (P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, op. cit., p. 35). 21 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 71 [191]. 19

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3. La lettura di J.G. Fichte e la ricerca di una “scienza della libertà” Di fondamentale importanza nel percorso intellettuale di Lequier è la lettura dell’opera di Johann Gottlieb Fichte La destinazione dell’uomo [titolo originale Die Bestimmung des Menschen]. Probabilmente il giovane Lequier lesse l’opera durante il suo primo soggiorno parigino in una traduzione francese edita nel 1836 da A.T. Barchou de Penhöen. Lequier ritrova nelle pagine di Fichte le istanze profonde della sua stessa ricerca filosofica: il superamento del determinismo per l’affermazione - rigorosamente fondata - della libertà dello spirito umano. La Bestimmung des Menschen - come è noto - costituisce un’esposizione popolare (Populärdarstellung) dei contenuti speculativi della dottrina della scienza. In quest’opera edita a Berlino nel 1800 Fichte ci descrive il suo itinerario filosofico: il dramma del non poter uscire da una visione deterministica del mondo come quella proposta da Spinoza o da Karl F. Hommel22 Karl Ferdinand Hommel (1722-1781) era un professore di diritto presso l’Università di Lipsia. Fu molto conosciuto dai contemporanei - da Goethe e dallo stesso Fichte - soprattutto per un’opera dal titolo Alexander von Joch beyder Rechte Doctor. Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesezen edita a Lipsia e Bayreuth nel 1770. Questo volume di Hommel scritto sotto lo pseudonimo di Alexander von Joch - venne spesso citato da Fichte come esempio di una concezione dell’uomo radicalmente deterministica e materialistica. Espliciti richiami ad Hommel si trovano ad esempio in questi passi del corpus fichtiano: nel Saggio di una critica di ogni rivelazione, tr. it. e cura di M.M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 132 [in Sämtliche Werke - d’ora in poi citati con la sigla SW - a cura di I.H. Fichte, 11 voll., Adolph-Marcus, Bonn, 1834-1835, Riproduzione Walter de Gruyter & Co., Berlin 1971, vol. V, p. 22]; nella Prima introduzione alla dottrina della scienza del 1797 (in SW, vol. I, pp. 439-440); nella Bestimmung des Menschen del 1800 (in SW, vol. II, p. 179) e nella Staatslehre del 1813 (cfr. SW, vol. IV, p. 383). Sull’importanza del 22

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(Libro I), l’esito nichilista di una teoria trascendentale della conoscenza - come gli aveva suggerito Jacobi in una celebre lettera del 1799 - (Libro II), la necessità di affermare una fede (Glaube) nel primato del pratico, cioè nel primato della libertà dello spirito (Libro III). Il primo libro dell’opera Bestimmung des Menschen è quello che - a nostro avviso - toccò più da vicino la sensibilità di Lequier: in esso il filosofo francese trovò espressi i suoi stessi dubbi speculativi ed esistenziali23. Questo primo libro della confronto di Fichte con Hommel cfr. C. Cesa, Postilla in «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 1988, pp. 442-445. Per “la filosofia di Joch” - afferma Fichte - «tutto il nostro volere è determinato dalla necessità naturale, e l’opinione nostra, della libertà del nostro volere è un’illusione (mithin ist alles unser Wollen durch die Naturnothwendigkeit bestimmt, und unsere Meinung von der Freiheit unseres Willens ist Täuschung)» (SW, vol. I, pp. 439-440; tr. it. e cura di C. Cesa, Prima e Seconda Introduzione alla dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 25). La tesi fondamentale espressa da Hommel - alla quale Fichte dichiaratamente si oppone - è che «la credenza della libertà dell’uomo è solo un errore dei sensi» (passi dell’opera di Hommel riportati in traduzione francese da X. LÉON, Fichte et son temps, Colin, Paris, 1922, vol. I, p. 54). Per il pensatore di Lipsia «la volontà non è nient’altro che un prodotto del meccanismo profondo e nascosto della natura, la quale non fa altro che mettere in movimento il nostro animo» (ibidem). Hommel afferma che nel determinismo dei fenomeni naturali non c’è alcun posto per la libertà del volere: quest’ultimo è solo un’illusione dell’uomo. Egli sostiene quindi che «la spontaneità della volontà è un’illusione e che la volontà autonoma è un non senso» (ibidem): «la volontà [...] è il risultato di un meccanismo delle leggi d’associazione e dell’immaginazione» (ibidem). Hommel arriva quindi a concludere che «il libero arbitro è una finzione» poiché «il mondo fisico [al quale appartiene totalmente anche l’uomo] lo ignora assolutamente» (ibidem). 23 È con tali parole che Lequier ci parla della sua matura riscoperta della posizione speculativa fichtiana: «Tu avevi ragione, o Fichte! […] Noi ci siamo rincontrati! Il pensiero di tutta la mia vita mi ha condotto a questa terribile solitudine che anche tu provasti e che un giorno favorì una delle

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Bestimmung può essere considerato il documento nel quale Fichte ci dà una testimonianza diretta della sua problematica situazione spirituale prima dell’incontro con Kant: seguendo la ragione filosofica egli era spinozista e determinista ma seguendo le ragioni della fede morale egli avvertiva che la libertà era un qualcosa di irriducibile ai fenomeni della natura. Il titolo di questo primo libro è assai significativo: Dubbio (Zweifel). Esso intende comunicare al lettore la contraddittorietà della situazione spirituale ed intellettuale vissuta dall’autore in giovinezza, prima cioè che egli “scoprisse” i fondamenti trascendentali del sapere (Wissen) e della fede pratica (praktischer Glaube) nella libertà dell’uomo. Nel primo libro della Bestimmung des Menschen Fichte confessa le sue giovanili inquietudini intellettuali: egli viveva in una drammatica scissione interiore tra le ragioni della scienza filosofica (la necessità del determinismo meccanicistico) e le pascaliane ragioni del cuore (la necessità della libertà e di un mondo morale in cui fosse presente Dio stesso). I brevi brani che riportiamo ci restituiscono la misura di questa sua scissione interiore e della sua insoddisfazione per una posizione materialista e spinozista, che - come sottolineava anche Jacobi - costituiva una forma di assoluto determinismo naturalistico. Ecco la testimonianza di Fichte che dopo aver deciso di indagare la natura affidandosi ai soli sensi approda al determinismo e ne descrive le sue caratteristiche: «ho prestato fede soltanto alle testimonianze concordi dei miei sensi, a ciò che mi veniva confermato dall’esperienza»24; «io prendo a considerare la natura [...]: tutto meditazioni del tuo genio (Et tu avais raison, ô Fichte! [...] Nous nous sommes rencontrés, ô Fichte! La pensée de toute ma vie m’a conduit dans cette terrible solitude que t’ouvrit un jour une des méditations de ton Génie)» (OC, Fichte et Hegel, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 346). 24 J.G. FICHTE, Die Bestimmung des Menschen, in SW, vol. II, pp. 164-319, p. 169; tr. it. di R. Cantoni e cura di C. Cesa, La destinazione dell’uomo, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 5.

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ciò che esiste è universalmente determinato; è ciò che è, semplicemente, e nient’altro […]. La natura s’avanza attraverso la serie infinita delle sue determinazioni possibili, senza arresti, e il mutamento di queste determinazioni non avviene senza legge, ma segue rigorosamente delle leggi. Ciò che esiste in natura, esiste necessariamente così com’è, ed è assolutamente impossibile che sia diversamente. Io entro in una catena chiusa di fenomeni, poiché ogni anello è determinato dal suo antecedente e determina il suo conseguente; mi trovo in un contesto fisso [...]»25; «io stesso, con tutto ciò che chiamo mio, sono un anello in questa catena di rigida necessità naturale (Ich selbst mit allem, was ich mein nenne, bin ein Glied in dieser Kette der strengen Naturnothwendigkeit)»26. Tuttavia Fichte afferma che quando l’uomo inizia a riflettere in profondità su se stesso diviene cosciente anche della sua libertà ed avverte che quest’ultima è irriducibile al determinismo della natura; è a questo punto che nasce il senso di un’intima contraddizione tra il mondo umano della libertà ed il mondo della natura: «nell’autocoscienza immediata, io appaio libero a me stesso; mediante la riflessione sulla natura intera, trovo che la libertà è assolutamente impossibile (Im unmittelbaren Selbstbewusstseyn erscheine ich mir als frei; durch Nachdenken über die ganze Natur finde ich, dass Freiheit schlechterdings unmöglich ist)»27. È con tali parole che Fichte esprime il suo dubbio (Zweifel) tra la scelta di seguire il sistema deterministico della natura o il sistema della libertà che fonda l’autonomia dell’uomo su di un volere libero ed indipendente dalle forze della natura stessa: «quale delle due concezioni devo abbracciare? Sono io libero e indipendente, o […] sono soltanto il fenomeno di una forza estranea? Mi risulta proprio ora chiaro che nessuna di queste due affermazioni è SW, vol. II, p. 173; tr. it. p. 9. SW, vol II, p. 179; tr. it. p. 13. 27 SW, vol II, p. 184; tr. it. p. 18. 25 26

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sufficientemente fondata. [...] Il sistema della libertà appaga il mio cuore, il sistema opposto [cioè quello deterministico] lo uccide e lo annienta (Das System der Freiheit befriedigt, das entgegengesetze tödtet und vernichtet mein Herz)»28. Tuttavia per Fichte il sistema deterministico pur ponendo la libertà umana come «un fantasma ed una grossolana illusione (ein Hirngespinnst, eine […] grobe Täuschung)»29, pur essendo «arido e senza cuore, è inesauribile nello spiegare (unerschöpflich im Erklären), e spiega persino questo mio interesse per la libertà»30. Lo status interiore descritto da Fichte è quindi quello di una «condizione insopportabile di incertezza e di indecisione (unerträglicher Zustand der Ungewissheit und der Unentschlossenheit)»31: seguire la speculazione razionale conduce infatti ad un esito - la negazione del libero volere - che è inaccettabile poiché rende illusorio tutto il mondo morale e religioso, fondato sulla libertà dell’uomo32. Nel secondo e soprattutto nel terzo libro della Bestimmung des Menschen Fichte espone in maniera semplificata i contenuti filosofici del corso di lezioni Dottrina della scienza nova SW, vol. II, pp. 195-196; tr. it. pp. 27-28. SW, vol. II, p. 196; tr. it. p. 28. 30 SW, vol. II, p. 197; tr. it. p. 29. 31 SW, vol. II, p. 198; tr. it. p. 30. 32 Martial Gueroult ha sottolineato che il conflitto tra il sistema del determinismo e quello della libertà «è un conflitto generatore di dubbio e di disperazione, il quale è all’origine sia delle meditazioni di Fichte che di quelle di Lequier» (M. GUEROULT, L’évolution et la structure de la doctrine de la science chez Fichte, Mit einem Vorwort von R. Lauth sowie einem Personenregister von W.G. Jacobs, Olms, Hildesheim - Zürich - New York, 1982 [edizione originale Les Belles Lettres, Paris, 1930], p. 38). Come per Fichte, anche per Lequier la scelta tra sistema del determinismo e sistema della libertà costituisce una radicale presa di posizione che coinvolge tutta l’esistenza. A questo proposito notiamo che Lequier parla di un “dilemma” dal quale è possibile uscire solo tramite un atto originario della libertà stessa. 28 29

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methodo. Queste lezioni furono tenute a Jena dal 1796 al 1799: il “nuovo metodo” - come dice l’autore stesso - è dovuto ad un primato del pratico, cioè ad una fondazione della conoscenza trascendentale sui costitutivi pratici della coscienza. In particolare Fichte pone a fondamento di tutto il processo conoscitivo la facoltà di un volere puro e predeliberativo (reiner und prädeliberativer Wille)33. Lequier trova certamente notevoli affinità con le problematiche affrontate da Fichte nella Bestimmung des Menschen: anche il filosofo francese avverte infatti il dramma di un mondo dominato dalla necessità e sente con forza l’esigenza di fondare la libertà umana su solide basi epistemologiche. Tuttavia una differenza fondamentale tra i due pensatori - a nostro avviso - è questa: differentemente da Lequier, Fichte trova in Kant un modello di filosofia trascendentale a partire dal quale poter fondare un rigoroso sistema della libertà34. Il pensatore francese - al contrario - non scorge in Kant un paradigma speculativo da sviluppare ulteriormente: sulla scorta della manualistica francese del primo Ottocento, Lequier considera Kant un razionalista dal quale sarebbe impossibile attendersi una valida soluzione per gli enigmi posti dalla libertà umana35. 33

A questo proposito ci permettiamo di rinviare al nostro scritto T. VALENTINI, Il concetto di volere puro in J.G. Fichte. Analisi del § 13 della Wissenschaftslehre nova methodo, in A. Bertinetto (a cura di), Leggere Fichte, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2009, pp. 49-86. 34 È lo stesso Fichte ad affermare più volte la sua volontà di erigere una filosofia della libertà fondata su di una ridefinizione del pensiero trascendentale kantiano: «il mio sistema è il primo sistema della libertà «(Mein System ist das erste System der Freiheit)» (GA, III, 2, p. 298); «il mio sistema è dall’inizio alla fine solo un’analisi del concetto di libertà (Mein System ist vom Anfang bis zu Ende nur eine Analyse des Begriffs der Freiheit)» (GA, III, 2, p. 206). 35 Tra i primi scritti in lingua francese sul pensiero kantiano ci sono quelli di C.F.D. VILLERS, Philosophie de Kant ou principes fondamentaux de la

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Un altro fatto rilevante da considerare è inoltre questo: Lequier legge La destinazione dell’uomo indipendentemente dal resto della produzione filosofica di Fichte. Possiamo quindi dire che egli non abbia una comprensione integrale del sistema fichtiano: Lequier avverte certamente una profonda assonanza con la posizione di Fichte ma non ne comprende fino in fondo la sua portata speculativa. Leggendo solo la Bestimmung des Menschen e conoscendo l’opera di Fichte - come del resto quella di Kant solamente tramite la manualistica francese del tempo 36, Lequier non ha potuto certamente approfondire le strutture speculative della dottrina della scienza e finisce col fraintendere lo stesso idealismo fichtiano. Egli - come del resto molti suoi contemporanei - interpreta l’idealismo come una forma di panteismo: «c’è il panteismo - afferma Lequier - al fondo dell’idealismo, come c’è al fondo del materialismo. Esempio: Schelling, Fichte che giungono a una specie di panteismo (le Panthéisme est au fond de l’idéalisme comme au fond du matérialisme. Exemple: Schelling, Fichte qui arrivent à une sorte de Panthéisme)»37. Circa il rapporto speculativo che si può philosophie transcendentale, Collingnon, Metz, 1801; J. KINKER, Essai d’une exposition succincte de la Critique de la raison pure, Changuion & Hengst, Amsterdam, 1801. Sulla prima ricezione del pensiero kantiano in Francia si vedano F. AZOUVI - D. BOUREL, De Königsberg à Paris. La réception de Kant en France (1788-1804), Vrin, Paris, 1991; A. BELLANTONE, La prima circolazione del pensiero di Kant in area francofona, «Rivista di storia della filosofia», LXI, 4, 2006 (supplemento), pp. 45-52. 36 Lequier ha potuto conoscere il pensiero fichtiano e l’idealismo tedesco soprattuto tramite due opere: A.T. BARCHOU DE PENHÖEN, Histoire de la philosophie allemande depuis Kant jusqu’à Hegel, Paris, 1836, 2 Voll.; e J. Willm Le Strasbourgeois, Histoire de la philosophie allemande depuis Kant jusqu’à Hegel, Ladrange, Paris, 1846-49. 37 OC, Conséquences du déterminisme: scepticisme et panthéisme, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, pp. 370-371. Per Lequier

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scorgere tra la prospettiva di Fichte e quella di Lequier condividiamo pienamente la posizione espressa da Giuseppe Agostino Roggerone: «se Fichte fornisce a Lequier un considerevole approfondimento del concetto di necessità, non gli offre nello stesso tempo, la via per sfuggire alla presa di essa, ma viceversa gli fornisce un esempio di concezione panteistica, da cui Lequier intende uscire. Fichte, tuttavia, indica a Lequier il mezzo per liberarsi dalla necessità [cioè dal determinismo naturalistico] e in questo senso è da intendere la novità della lettura di Fichte da lui effettuata - […]»38. Notiamo inoltre che le argomentazioni tramite le quali Lequier liquida l’idealismo ed ogni forma di razionalismo sono molto simili a quelle già utilizzate da Friedrich Heinrich Jacobi. Sia per Lequier che per Jacobi ogni forma coerente di razionalismo spinoziano, leibniziano ed idealistico - porta necessariamente al panteismo e al determinismo39: «la speculazione logica porta al

il panteismo è «il sistema dove Dio produce tutto» (ibidem, p. 369) e nel quale l’uomo non ha che un’«illusione della libertà» (ibidem). 38 G.A. ROGGERONE, La filosofia della libertà di Jules Lequier, in A. PRONTERA (a cura di), Libertà e ontologia, Milella, Lecce, 1984, pp. 83106, p. 85. 39 Per Jacobi il razionalismo moderno ha preteso che «tutto sia spiegato in modo naturale» (F.H. Jacobi, Werke. Gesamtausgabe, hrsg. von K. Hammacher e W. Jaeschke, Frommann-Holzboog, Stuttgart – Bad Cannstatt, 1998 ss., 1, 1, p. 123; JGA, 1,1, p. 8; tr. it. F. Capra, Riveduta da V. Verra, La dottrina di Spinoza. Lettera al Signor Moses Mendelssohn, Laterza, Roma Bari 19692, p. 141) e che ci si servisse dei soli princìpi della ragione: questo ha condotto la modernità filosofica - che nello spinozismo e nell’idealismo trova la sua più compiuta elaborazione - ad abbandonare la fede (Glaube) nel soprannaturale e di conseguenza a ridurre Dio alla natura. Ad avviso di Jacobi «ogni via della dimostrazione conduce al fatalismo (jeder Weg der Demonstration geht in den Fatalismus aus)» (F.H. Jacobi, Werke. Gesamtausgabe, cit., 1, 1, p. 28; tr. it., p. 77) ed alla conseguente negazione della libertà dell’uomo: tutte le filosofie razionalistiche riducono

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panteismo. Se tutto è necessario, se tutto ciò che esiste deriva necessariamente da Dio, tutto è Dio [si pensi al Deus sive Natura di Spinoza], perché tutto egli è necessariamente. Nel sistema materialistico e panteistico è impossibile che io mi faccia diverso. Nel sistema di Leibniz è impossibile che io mi faccia altro [scil. che io disponga veramente di un libero arbitrio]». 40

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4. La libertà quale motivo di un rinnovato thaumázein L’unico breve testo edito da Lequier in vita si intitola La feuille de charmille [La foglia di carpine]: egli aveva progettato di metterlo come introduzione alla sua opera La ricerca di una verità prima. Nella Feuille de charmille emergono i tratti stilistici e le tematiche fondamentali del pensiero lequieriano. Lo stile è quello introspettivo tipico degli scrittori francesi moderni: si tratta di uno discorso filosofico incentrato sull’analisi delle «ricche prospettive del mondo interiore (les riches perspectives du monde intérieur)»41. In tal senso Lequier si situa pienamente nell’alveo della tradizione spiritualistica francese che ha trovato in Cartesio e Pascal i suoi antecedenti ed in Maine de Biran, Bergson e Blondel la sua piena espressione. Nella Feuille de charmille Lequier ci descrive la meraviglia provata da fanciullo quando si accorse di possedere il libero arbitrio e di poter influire negli eventi della natura come una “libera causalità”. L’avvertimento della propria libertà fa scaturire nel fanciullo un inedito stupore, un improvviso thaumázein: «un inoltre la ragione umana ad un “meccanismo” lasciando da parte la sfera degli impulsi e la stessa attività volitiva. 40 OC, Conséquences du déterminisme: scepticisme et panthéisme, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 371. 41 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 14 [138].

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giorno, nel giardino di mio padre, sul punto di cogliere una foglia di carpine, mi meravigliai, a un tratto, di sentirmi il padrone assoluto di questa azione, per insignificante che essa fosse. Fare o non fare? Le due cose così ugualmente in mio potere! Una stessa causa, io, capace, nello stesso istante, come se fossi sdoppiato, di due effetti del tutto opposti! E, attraverso l’uno o l’altro, autore di qualcosa di eterno, poiché, qualunque fosse la mia scelta, sarebbe eternamente vero che in quell’attimo sarebbe accaduto ciò che mi sarebbe piaciuto decidere. Non reggevo alla mia meraviglia; mi allontanavo, tornavo, il cuore mi batteva precipitosamente»42. L’esperienza interiore della libertà viene descritta come un qualcosa di tremendum et fascinans. Tramite un “libero atto” anche inavvertitamente - l’io può decidere il corso della sua intera esistenza: «l’azione che tutti chiamano indifferente è quella la cui portata non è percepita da nessuno, ed è solo a forza di ignoranza che si arriva ad essere noncuranti. Chi sa se ciò che sto per fare in un primo momento deciderà della mia esistenza futura? Forse, di circostanza in circostanza, tutta la mia vita sarà diversa, e, più tardi, in virtù del legame segreto che attraverso una folla di intermediari ricollega alle cose minime gli avvenimenti più importanti, io diverrò l’emulo di quegli uomini di cui mio padre non pronuncia il nome che con rispetto, la sera presso il focolare, mentre lo ascoltiamo in silenzio»43. Non si può non avvertire in questi passi una anticipazione del tema sartriano dell’esistenza come pura possibilità. Tuttavia in Lequier - differentemente che in Sartre - l’intuizione della propria insopprimibile libertà è tutt’altro Ibidem. Sul punto di cogliere la foglia di carpine il fanciullo si scoprì ad un tratto padrone assoluto della propria azione e delle conseguenze che sarebbero derivate dal compierla o dall’astenersene: nell’episodio della Feuille de charmille Lequier ricorda che quando mosse le fronde dell’albero, pur senza volerlo spaventò un uccello che, levatosi in volo, fu ghermito da un falco. 43 Ibidem. 42

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che un’esperienza negativa44: la libertà per Lequier - come analizzeremo in seguito - è il fondamento della conoscenza, è possibilità di una piena autonomia soggettiva e di una feconda creatività interiore. La presenza della libertà è inoltre una verità originaria che fonda la possibilità stessa della fede religiosa. Nelle pagine di Lequier troviamo una fenomenologia della libertà che si rivela ancora oggi ricca di suggestioni. Egli descrive con estrema efficacia letteraria l’intima percezione dell’essere liberi ed allo stesso tempo narra il turbamento provato nell’avvertire di non essere in toto il padrone dei propri atti: «Se il sentirmi sovrano nel mio foro interiore non fosse, in fondo, che il non sentire la mia dipendenza? Se ognuna delle mie volontà fosse un effetto prima di essere una causa, in modo che questa scelta, questa libera scelta […] non fosse realmente che la conseguenza inevitabile di una scelta anteriore, e questa la conseguenza di un’altra, e così via, fino a risalire ai tempi di cui non avevo alcun ricordo? Fu nella mia mente come l’alba piena di tristezza di un giorno rivelatore. […] Che visione! Ne sono sbalordito. L’uomo di oggi, riandando ai ricordi dello straordinario turbamento che

Com’è noto, ad avviso di Sartre la libertà costituisce per l’uomo una condanna ineludibile, una condizione nella quale egli si trova ma che non ha deliberatamente scelto: «io sono condannato ad esistere per sempre al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato ad essere libero» (J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, [edizione originale 1943], tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Net, Milano, 2002, p. 495). Secondo Sartre inoltre tutte le scelte si equivalgono: nella sua prospettiva nichilistica non c’è alcuna possibilità di progettare un senso per l’esistenza umana. L’uomo è «l’essere per cui tutti i valori esistono» (ibidem, p. 695): da questo consegue che «tutte le attività umane sono equivalenti […] e tutte sono votate per principio allo scacco. È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli» (ibidem). 44

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provò il fanciullo, lo prova di nuovo»45. I sentimenti provati da Lequier sono certamente contraddittori: da una parte egli avverte di essere l’autore dei suoi atti, dall’altra però percepisce che la libertà potrebbe essere solo un’illusione, una falsa credenza. La possibilità di autoinganno, la negazione di ogni libero volere afferma Lequier parlando dei suoi ricordi - «sconvolse tutto il mio essere»: «gettai un grido di sconforto e di spavento: la foglia sfuggì alle mie mani, ed io, come se avessi toccato l’albero della scienza, chinai la testa piangendo»46. L’atto supremo con il quale l’uomo decide di agire e di iniziare un qualcosa d’inedito nella sfera dell’essere viene definito da Lequier un «volere il primo volere (vouloir un premier vouloir)»47: si tratta di un atto originario e costitutivo dell’esistenza stessa. È un atto che dà lo scacco ad ogni forma di necessità. In Lequier l’affermazione della libertà è perciò un atto di fede fondato sulla testimonianza interiore: «rientrando in possesso della mia fede nella libertà attraverso un atto della mia libertà stessa, senza ragionamento, senza esitazione, senz’altra 45 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 15 [139]. Commentando questi passi della Feuille de charmille Giuseppe Agostino Roggerone sottolinea la profonda affinità tra la sensibilità di Lequier e quella di Kierkegaard. Entrambi nei loro scritti ci parlano del turbamento provato innanzi alla scoperta della propria libertà, all’avvertimento che l’esistenza umana è possibilità e scelta: «è l’angoscia che si impadronisce della coscienza di fronte alla concreta esperienza della propria libertà, e a proposito di questa celebre pagina non si può non accostare Lequier a Kierkegaard» (G.A. ROGGERONE, La filosofia della libertà di Jules Lequier, op. cit., p. 93). 46 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 15 [139]. Sul punto di cogliere la foglia di carpine il fanciullo si scoprì ad un tratto padrone assoluto della propria azione e delle conseguenze che sarebbero derivate dal compierla o dall’astenersene, come avvenne quando, muovendo le fronde, spaventò un uccello che, levatosi in volo, fu ghermito da un falco. 47 OC, p. 16 [140].

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garanzia dell’eccellenza della mia natura che quella testimonianza interiore (témoignage intérieur) resa dalla mia anima creata a immagine di Dio e capace di resistergli, poiché essa doveva ubbidirgli, io mi dicevo nella sicurezza di una superba certezza: non è così, io sono libero (cela n’est pas, je suis libre). E la chimera della necessità era sparita»48.

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5. “Oltre Cartesio”: la libertà come principio del cogito Il primo libro che secondo il piano dell’autore doveva comporre l’insieme della Recherche differentemente dalle altre parti dell’opera è quasi completo49: esso reca il significativo titolo Il problema della scienza. Come trovare, come cercare una prima verità? L’impianto dell’argomentazione è certamente cartesiano e richiama direttamente le Meditationes de prima philosophia. Come Cartesio anche Lequier cerca la fondazione di un sistema della verità: si tratta di una certezza aletica originaria scaturita dal superamento del dubbio e di ogni possibile posizione scettica. Per Lequier nel suo tentativo di costituirsi come scienza, la filosofia deve necessariamente svilupparsi come superamento del dubbio. Lequier si pone quindi «alla ricerca di una verità nel cui riguardo sia impossibile concepire il minimo dubbio e che, una volta accolta dallo spirito, vi rimanga incrollabile»50. Il dubbio di cui OC, p. 17 [141]. Fu lo stesso Lequier che nel 1860 lasciò una nota all’amico Charles Renouvier nella quale gli descriveva le parti in cui doveva essere composta la Recherche d’une première vérité: la Recherche doveva essere suddivisa in 4 grandi volumi comprendenti più libri, nei quali il tema della libertà veniva indagato in tutte le sue implicazioni teoretiche, morali e teologiche. A questo proposito cfr. OC, Division de l’ouvrage, in Préface de Charles Renouvier, pp. 8-10 [131-133]. 50 OC, p. 22 [144]. 48 49

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parla Lequier - come quello cartesiano - ha un carattere metodico ed iperbolico. Esso è il mezzo per giungere al fondamento epistemico della verità: inoltre per essere efficace esso dev’essere radicale e deve avere un carattere universale: «giungere, ho detto» - afferma l’autore - «a una verità che mi sia impossibile di porre in dubbio: dunque, bisogna dubitare. Per vedere che cosa è incrollabile, bisogna scuotere tutto»51. Il dubbio è quindi la via che porta all’evidenza. Tuttavia differentemente dall’argomentazione cartesiana - la prima certezza non viene rinvenuta da Lequier nel cogito bensì nella libertà che precede e fonda lo stesso atto di pensiero52. Il fondamento epistemologico OC, p. 24 [147]. Estendendo il dubbio ad ogni possibile nozione e pregiudizio acriticamente accettati Lequier intende giungere ad un’evidenza prima e fondante: «cerchiamo, con lo sforzo del dubbio portato all’estremo, il punto giusto in cui ci si deve fermare: dove il dubbio mi sarà del tutto impossibile è evidente che la mia affermazione sarà legittima» (OC, p. 25 [148]). Notiamo che l’argomentare di Lequier oltre che a Cartesio si richiama anche a Sant’Agostino: come per il maestro d’Ippona anche per Lequier la verità va ricercata nella dimensione interiore ed ha un carattere di per sé inoggettivabile ed inesauribile. 52 Un aspetto interessante - messo particolarmente in evidenza da Augusto Del Noce - è che Lequier critica il cogito cartesiano e più in generale il razionalismo moderno poiché essi privilegiano il puro pensiero dimenticando quasi del tutto “la parte più intima e più fragile della soggettività umana”, quella concernente l’esistenza concreta ed i problemi delle scelte pratiche coinvolgenti il libero arbitrio. Lequier sottolinea quindi che il razionalismo di matrice cartesiana ha un deficit antropologico: esso concentrandosi esclusivamente sulla trascendentalità del pensiero finirebbe per lasciare da parte una considerazione integrale della natura umana nei suoi aspetti corporei, volitivi e teologici. Anche sulla scia di queste riflessioni lequieriane Del Noce afferma che il razionalismo moderno può essere accusato di aver eliminato ogni considerazione esistenziale dell’umano, ovvero le problematiche riguardanti la conflittualità del volere ed il male, ciò che la tradizione cristiana ha chiamato status naturae lapsae. A questo proposito cfr. P. ARMELLINI, Del Noce lettore di Lequier, in 51

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per Lequier non è il cogito, l’atto di pensiero ma la libertà: è solo in virtù di una decisione originaria che il soggetto inizia a riflettere sui propri atti cognitivi cercando di determinarne la genesi. Il cogito di cui parla Cartesio non è quindi l’evidenza originaria, il fundamentum inconcussum su cui si baserebbe l’edificio della conoscenza: al di là e prima ancora del cogito, v’è la libertà, cioè il volere originario con il quale l’uomo può mettere radicalmente in questione se stesso ed iniziare la ricerca filosofica. Emile Callot ha giustamente sottolineato che per Lequier «il cogito non è che una verità seconda (une vérité seconde) e dedotta da un altro principio che resta da scoprire»53: tale principio è la libertà. Potremmo dire “liber sum, ergo cogito”. La libertà è vista quindi come il presupposto della coscienza umana e come la stessa condizione di possibilità di ogni indagine speculativa: «il fatto che io cerco implica il fatto che io sono libero (je cherche implique le fait: je suis libre)»54. Per Lequier

Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Sei, Torino, 1996, pp. 105-122. 53 E. CALLOT, Critique de la première vérité , in idem, Propos sur Jules Lequier, philosophe de la liberté. Réflexions sur sa vie et sur sa pensée, Éditions Marcel Rivière et Cie, Paris, 1962, pp. 79-87, p. 80. 54 OC, Descartes, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 328. Ad avviso di Lequier il cogito cartesiano è una pura certezza logica, un’«evidenza sterile, [...] oscura» (ibidem, p. 329): un’autentica ricerca di carattere genetico non può arrestarsi innanzi all’evidenza del cogito ma deve scoprire «la legge di quest’operazione» (ibidem) da cui si originano il dubbio e lo stesso cogito. Lequier sottolinea che quest’operazione può essere solo il frutto del libero arbitrio. A questo proposito Paolo Pagani ha correttamente affermato che la stessa possibilità di dubitare è resa possibile solo dalla libertà originaria del soggetto: «dunque, con Cartesio, oltre Cartesio, nel segnalare che anche il dubbio può essere ricco di presupposti. […] Il dubbio più precisamente, risulta un libero oscillare tra possibilità alternative (quelle cui allude l’etimo della parola [il quale si innesta sulle voci latine duo e duplum, che indicano appunto dualità]) - un oscillare nel

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«la prima verità, quella che non proviene da nessun’altra e che sarà il principio della scienza»55 viene dunque trovata nella libertà. A questo punto è legittimo chiederci cosa intenda precisamente il filosofo francese quando parla di libertà come fondamento del cogito e dell’intero edificio della scienza.

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6. Lequier e Maine de Biran: affinità e divergenze Per comprendere meglio il concetto lequieriano di libertà è utile introdurre un breve confronto con la prospettiva di FrançoisPierre Maine de Biran: anche in questa la libertà viene posta come principio del cogito ma assai diversa - rispetto a Lequier - è la sua giustificazione sotto il profilo metodologico. Per Maine de Biran il punto di partenza dell’indagine filosofica è «il fatto primitivo del senso intimo (le fait primitif du sense intime)»56: si tratta di un’analisi dal carattere psicologico ed quale si entra e dal quale si esce per libera decisione» (P. Pagani, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 19). 55 OC, p. 37 [156]. 56 F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie, [opera scritta nel 1812 ma edita postuma nel 1859], in Oeuvres de Maine de Biran, accompagnées de notes et d’appendices, publiées par P. Tisserand, 14 Voll., Alcan, Paris, 1920-1949, Vol. VIII, p. 129 [d’ora in avanti questa edizione critica delle opere di Biran sarà citata con la sigla OT]. Condividiamo in gran parte le ricostruzioni storiografiche di Ernest Naville e Giovanni Amendola secondo le quali la posizione filosofica di Maine de Biran si svilupperebbe in tre fasi: la prima fase sarebbe segnata soprattutto dal distacco dagli idéologues (Destutt de Tracy e Cabanis), la seconda dall’approfondimento della psicologia sperimentale e dalla formulazione di una “filosofia della libertà”. La terza fase del pensiero biraniano - così come emerge dai Nouveax essais d’anthropologie del 1823-1824 - avrebbe un carattere fortemente religioso: in essa la psicologia di Biran assume infatti una dimensione propriamente metafisica. A tal proposito cfr. E. NAVILLE, Maine de Biran, sa vie et ses pensées, Cherbuliez, Paris 1857; G.

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introspettivo. Dal senso intimo - secondo Biran - deriva il sentimento dell’esistenza personale come continua attività e sforzo. Il sentimento della propria attività da parte dell’io coincide quindi con «ciò che chiamiamo sforzo (effort) o azione voluta o volizione»57. Di particolare interesse sono le riflessioni di Biran sulla facoltà del libero volere. Come per Lequier, anche per Maine de Biran il volo e più originario del cogito. «Je veux, donc je pense, donc je suis»58 è una emblematica affermazione di Biran che pone il libero volere come presupposto stesso del pensiero. Ciò che maggiormente differenzia le posizioni dei due filosofi è la giustificazione speculativa della presenza del libero arbitrio nell’uomo. Per Biran la libertà trova una sua immediata giustificazione in ambito psicologico: essa è il risultato della consapevolezza immediata che l’io ha di sé come attività spontanea. «Porre in discussione la libertà» - afferma il filosofo «significa mettere in dubbio il sentimento dell’esistenza dell’io, che da essa non si differenzia […]. La libertà, o l’idea della libertà, considerata nella sua fonte reale, non è altro che il sentimento della nostra attività e del nostro potere di agire e di Amendola, Maine de Biran, Casa Editrice Italiana di A. Quattrini, Firenze, 1911, pp. 16-17. Altri significativi studi sul pensiero di Biran sono quelli di V. DELBOS, Maine de Biran et son oeuvre philosophique, Vrin, Paris, 1931; H. Gouhier, Les conversions de Maine de Biran, Vrin, Paris 1947; B. BAERTSCHI, L’ontologie de Maine de Biran, Éditions Universitaires, Fribourg 1982; F. AZOUVI, Maine de Biran. La science de l’homme, Vrin, Paris, 1995. 57 F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie, in OT, cit., p. 26. 58 F.-P. MAINE DE BIRAN, Nouveaux essais d’anthropologie, in Oeuvres de Maine de Biran, 13 Voll., sous la direction de F. Azouvi, Vrin, Paris 1984, Vol. X-2, p. 77. Per Biran «Cartesio ha scorto il primo principio della scienza nel puro pensiero: cogito, ergo sum. [...] Con l’evidenza del senso intimo (avec l’evidence du sens intime) io posso tuttavia dire: voglio e dunque penso, dunque sono. (Je veux, donc je pense, donc je suis)» (ibidem).

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produrre lo sforzo continuo dell’io»59. Differentemente da Biran, Lequier rimane fortemente scettico nei confronti di questa certezza della libertà fondata sulla testimonianza del senso intimo. La psicologia di Biran gli sembra un metodo sperimentale dagli incerti risultati: il “senso intimo” per Lequier potrebbe essere infatti fonte di autoinganno ed autoillusione: «io sento che sono libero» - afferma il filosofo bretone - «può significare soltanto “io sento che credo di essere libero”. […] Questa credenza [nella libertà] testimonia dopo tutto l’assenza di certezza»60. In netta opposizione alla psicologia sperimentale di Biran, Lequier afferma che «l’esistenza della libertà non è suscettibile di essere riconosciuta attraverso un’osservazione diretta»61: «la libertà non può essere osservata, dunque non può essere uno di quei dati che fornisce direttamente l’esperienza (la liberté ne peut être observé, donc elle ne peut être une de ces données que fournit directement F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie, in OT, cit., p. 250. 60 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 54 [175]. 61 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 349. Lequier - seppur non li cita mai espressamente - conosceva di sicuro alcuni rilevanti scritti di Biran: quando ad esempio nei frammenti sopra citati parla della “debolezza del sentimento intimo della libertà” egli ha chiaramente presente il modello di psicologia sperimentale proposto da Biran. Lequier critica con fermezza la giustificazione psicologica della libertà difesa da Biran: per Lequier la filosofia non deve servirsi di dimostrazioni tratte dalla psicologia che è una mera «arte di fare una collezione dei fatti della coscienza» (ibidem, p. 339). Lequier mostra tuttavia di condividere ampiamente la rivalutazione biraniana della sfera della corporeità. A questo proposito egli afferma che «bisogna condannare l’abitudine di trascurare assolutamente il corpo, come se l’uomo non fosse composto di spirito e materia» (ibidem, p. 339). Anche Lequier partecipa quindi a quella generale rivalutazione filosofica della sfera del corpo che trova in Biran la sua anticipazione e nella fenomenologia di Edmund Husserl la sua piena espressione. 59

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l’expérience); ma una volta constatata, una volta certa come “verità logica”, essa può essere verificata attraverso l’esperienza. […] Il sentimento interiore della nostra libertà non avrebbe efficacia se si riducesse ad un fenomeno di pura coscienza; […] Io sento che sono libero: dunque sono libero. Questa conclusione è vera senza che il ragionamento sia giusto»62. Come ha correttamente osservato Augusto Del Noce, tra Lequier e Biran rimane una profonda differenza: «Maine de Biran parla del fatto primitivo, Lequier di una prima verità che non può essere constatata come un fatto»63. Per Lequier la libertà non è suscettibile di prove razionali né sperimentali: si avverte la sua presenza ma da questa percezione non ne si evince una certezza irrefutabile. La libertà per Lequier non è una certezza derivante dall’attestazione, dalla testimonianza interiore dei sensi: essa è invece l’oggetto di una fede originaria, di un pari metafisico, di una “scommessa” nel senso pascaliano del termine. Come per Kant anche per Lequier la vera natura del libero arbitrio rimane un qualcosa di misterioso ed innanzi al quale la ricerca filosofica si arresta. La libertà paradossalmente posta come l’inizio del cogitare viene dichiarata come un quid metafisico posto nel profondo dell’animo umano. È in questo senso che Lequier parla di un miracolo dell’atto libero (le miracle de l’acte): «in fondo che cos’è un miracolo? Un fatto di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa spiegazione. (Un fait dont les lois de la nature sont impuissantes à OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 352. Secondo Biran «tramite l’esperienza è impossibile constatare la necessità o la libertà» (ibidem, p. 353): la posizione filosofica di Lequier si discosta nettamente da quella di Biran, tutta fondata sull’analisi dei “fatti interiori” e che proprio per questo Félix Ravaisson ha definito come una sorta di “positivismo spiritualista”. Cfr. F. RAVAISSON, Philosophie en France au XIXème siècle, Hachette, Paris, 1867. 63 A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione a J.-L. Jules Lequier, Opere, cit., p. 58. 62

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fournir la complète explication). In questo senso gli atti liberi sono miracoli: miracoli al cui confronto tutti gli altri sono veramente poca cosa. Così la libertà, questa facoltà di essere quello che si vuole fra i diversi uomini possibili, che contiene nel suo seno la volontà dell’uomo è un mistero tanto impenetrabile quanto i misteri della fede […]. Ecco ciò che nessuna filosofia spiegherà mai»64. Massimo Mori ha ben sottolineato che in Lequier «la certezza della libertà non è il risultato di una dimostrazione e neppure, come sostengono solitamente gli spiritualisti, la testimonianza della coscienza, ma piuttosto l’espressione di una condizione esistenziale. Più che con lo spiritualismo francese Lequier è categorialmente apparentato con Kierkegaard e Dostoevskij, che però non sembra conoscesse»65. 7. «Agir, c’est commencer»: libertà e creatività dell’io «Agire è cominciare (agir, c’est commencer)»66: è dare inizio ad un qualcosa di inedito nel mondo. Per Lequier l’uomo agendo diventa un “secondo creatore”: diviene cioè l’iniziatore ex nihilo di un nuovo modo d’essere. L’agire viene inoltre visto dal filosofo come frutto di uno sforzo (effort): si tratta di «uno sforzo che il momento prima non c’era e che, diventando tutt’a un tratto, per sé stesso a se stesso causa, è, cioè si è prodotto, si è fatto, si è fatto

OC, Critique du critérium de l’évidence, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, pp. 383-384. 65 M. MORI, Lequier: un pensatore solitario, in IDEM, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 112-115, p. 112. 66 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 43 [165]. 64

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dal nulla (s’est fait de rien). Questo è volere»67. Per Lequier dunque «la libertà è la presa di coscienza della creatività assoluta dell’io»68. L’io - ad avviso del filosofo - è autonomia assoluta, è una libera causalità che agisce sul mondo della natura in modi sempre nuovi ed imprevedibili: l’io è «il principio perpetuo» che fa dell’esistenza «una successione continua di morti e di nascite […] e che si autodetermina non necessariamente, cioè secondo una legge [fisica] e una regola, ma senza regola e senza legge e, in certo modo, indipendentemente dalla sua natura»69. Da questi passi emerge anche uno dei tratti caratteristici dell’antropologia lequieriana: la costitutiva sproporzione dell’uomo nei confronti della natura e delle sue leggi fisse. Egli parla di una «sorta di superiorità dell’uomo nei confronti della sua stessa natura (une sorte de supériorité sur sa nature même)»70: qui Lequier si pone in continuità con la concezione pascaliana secondo la quale “l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo”. Egli afferma chiaramente che nell’agire «io mi oltrepasso (je me dépasse); in ciò sta il principio del mio vero io, di quell’io che può realmente 67 Ibidem. Si noti che il termine “sforzo” (effort), utilizzato per designare l’agire volontario e consapevole dell’io, deriva dagli scritti di Maine de Biran. 68 M. MORI, Lequier: un pensatore solitario, in IDEM, Libertà, necessità, determinismo, op. cit., p. 113. La concezione di una fondamentale creatività dell’io è stata particolarmente recepita ed interpretata con originalità da Roberta De Monticelli: per l’autrice creatività è sinonimo di “inizialità”. In un suo recente volume ci parla di «tre caratteristiche distintive della nostra individualità: unicità (o non replicabilità), profondità e “inizialità” - un neologismo questo che fonde insieme in un’espressione le due idee della capacità di scegliere e di decidere, dando inizio ad azioni, e quella di creare, mettendo al mondo cose e vita nuove» (R. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano, 2009, p. 7). 69 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 46 [167]. 70 Ibidem.

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qualche cosa»71: questo significa che l’uomo - unico tra gli altri enti - è in grado di liberarsi completamente dal dominio della necessità naturale e di agire in maniera creativa ed inedita. Vorrei sottolineare che il discorso di Lequier si rivela particolarmente fecondo per un’antropologia incentrata sulle possibilità creative dell’interiorità. Il nucleo più profondo dell’io è caratterizzato da potenzialità tali che lo rendono sfuggente a qualsiasi tentativo di una sua completa comprensione da parte delle scienze. L’io - proprio in virtù delle sue possibilità creative rimane nel suo nucleo più originario sempre un qualcosa di inoggettivabile ed enigmatico. A questo proposito la posizione di Lequier trova anche una singolare continuità con quella del filosofo francese Paul Ricoeur, incentrata intorno alle potenzialità dell’“io posso”: si tratta di un’«ermeneutica dell’uomo capace (herméneutique de l’homme capable)» 72. Essa tenta di restituire una concezione dell’umano complessa ed articolata che - come quella di Lequier - resta irriducibile ad ogni esaustiva comprensione da parte delle scienze. Ricoeur elabora una “fenomenologia ermeneutica” che si interroga sullo statuto ontologico del “chi?” (del soggetto), partendo dalle sue capacità creative, dai suoi poteri (puissances), quali «poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore»73, e non da ultimi il «potere di fare memoria»74 ed il «poter promettere»75. Il télos di queste ampie ricerche di Ricoeur intorno all’homo capax è l’elaborazione di Ibidem, p. 46 [168]. P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Éd. Stock, Paris, 2004; tr. it. e cura di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, Raffaello Cortina, Milano, 2005, p. 113. 73 P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; tr. it. e Prefazione di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 494. 74 Ibidem, p. 494. 75 P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, cit., p. 145. 71 72

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un’ermeneutica dell’«io sono», cioè di un’ontologia del soggetto. Il filosofo francese pone alla base della sua antropologia filosofica il significato dell’essere come potenza (δύναμις) e come atto (enérgheia): è anche per questo che le sue indagini si concentrano intorno alle potenzialità (puissances), alle capacità creative dell’uomo aventi come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»76. Come quella di Lequier anche la posizione filosofica di Ricoeur rimane però “aperta” e sotto certi aspetti “incompiuta”: la fondazione ontologica del soggetto è infatti solo un “ideale regolativo” della ricerca e rimane una delle questioni più problematiche. Il pensiero di Ricoeur - come in gran parte quello di Lequier - rimane un itinerario di ricerca (di scépsi nei termini del linguaggio platonico) sempre in fieri e che non giunge mai a conclusioni ultime e definitive. 8. Il libero arbitrio e il fondamento dell’atto di fede Charles Renouvier ricorda che per il suo amico e maestro Lequier il problema della libertà veniva considerato come «il primo e quasi l’unico della scienza e della pratica»77. Per Lequier la libertà umana rimane tuttavia un enigma, un quid che non potrà mai essere compiutamente spiegato né dalla filosofia né dalle scienze. La presenza della libertà dev’essere dunque accettata come «un postulato»78: si tratta di una di quelle «verità indimostrate o indimostrabili, che si ammettono come poste al di

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421. 77 OC, Préface de Charles Renouvier, p. 6 [129]. 78 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, p. 350. 76

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là di ogni contestazione»79. Possiamo dire che sia un atto della libertà ad affermare la libertà stessa: alcuni studiosi hanno interpretato lo stesso suicidio di Lequier come un gesto estremo fatto per affermare in maniera perentoria la propria libertà, la propria autonomia nei confronti di ogni tipo di determinismo e fatalismo80. La libertà per Lequier è «quel potere assoluto di volere» che ha in sé «tutto quanto occorre per farci agire in senso contrario a ogni idea e a ogni tendenza»81. Il filosofo sottolinea che il libero arbitrio può essere solo creduto ma non razionalmente spiegato: esso «è qualcosa di inesplicato e di inesplicabile che sfugge a ogni legge, che si è prodotto senza alcuna ragione, che non dipende che dal fatto della sua esistenza; […] è una superfetazione del tutto spontanea […] di cui si poteva Ibidem. A questo proposito è stato giustamente osservato che per Lequier «la filosofia può soltanto comprendere che la libertà è incomprensibile. L’atto libero è un atto non determinato, è l’atto di per sé, un miracolo, di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa spiegazione. La filosofia ciò non lo capirà mai. La libertà è un potere assoluto, è un primo cominciamento poiché segna una completa rottura con gli avvenimenti anteriori» (P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, op. cit., p. 56). 80 L’11 febbraio del 1862 Lequier si spinse al largo della costa bretone nuotando nel mare finché le forze gli vennero meno. Per alcuni interpreti si trattò di una sorta di pari metafisico: cfr. L. Prat, Contes pour les métaphysiciens, Paulin, Paris 1910. Per altri studiosi come Gabriel Séailles con questo suo gesto tragico ed estremo Lequier avrebbe voluto “tentare Dio stesso” (cfr. G. SÉAILLES, Un philosophe inconnu, Jules Lequier, «Revue philosophique de la France et de l’étranger», 1898): mi pare tuttavia plausibile l’ipotesi di Alain Vinson secondo il quale «Lequier non si è suicidato perché aveva perso la fede religiosa, ma perché era stato disperato di vedere che la sua fede (in lui incrollabile) non poteva beneficiare su questo punto essenziale [la libertà umana], del soccorso della ragione» (A. VINSON, L’idée d’éternité chez Jules Lequier, «Les Études Philosophiques», 2, 1992, p. 192). 81 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 56 [176]. 79

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soltanto dire che poteva non essere o essere; […] è un accidente assoluto (accidents absolus)!»82. La posizione di Lequier ha certamente degli esiti aporetici e paradossali: difende il libero arbitrio come presupposto stesso della scienza ma allo stesso tempo ne dichiara l’inconoscibilità sul piano teoretico. Lequier è un pensatore profondamente religioso: a suo avviso la presenza del libero arbitrio è da sostenere anche “al di là e contro ogni umana ragione” proprio perché si tratta di una presenza che fonda e legittima lo stesso atto di fede. Per Lequier il libero arbitrio è infatti «il dogma fondamentale del cattolicesimo» 83. È solo grazie al libero arbitrio che l’uomo può essere veramente indipendente nei confronti di Dio, il quale si “apparta” di fronte alla creatura, per lasciare intatti il suo agire autonomo, la sua responsabilità ed il suo libero atto di fede: «La persona umana! Un essere che può qualcosa senza Dio! Che può, se le piace, preferirsi a Dio! […] Prodigio che fa tremare: l’uomo delibera e Dio attende! (Prodige effroyable: l’homme délibère et Dieu attend!)»84.

Ibidem, pp. 56-57 [177-178]. OC, Préface de Charles Renouvier, p. 10 [133]. 84 OC, Le problème de la science. Comment trouver, comment chercher une première vérité?, p. 71 [190]. Negli scritti di Lequier si trovano anche interessanti approfondimenti del tema della libertà declinato in senso teologico. Nel dialogo dal titolo Probo o il principio della scienza egli prende ad esempio in esame i rapporti tra libero arbitrio e prescienza divina: cfr. OC, Indications de l’ideé du libre arbitre. Première indication. Probus ou le principe de la science, pp. 77-226 [195-326]. 82 83

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Studio III

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Personne, action et liberté: motivi fichtiani in Maurice Blondel e nella tradizione dello spiritualismo francese «Che l’esistenza sia azione […] è una delle intuizioni basilari del pensiero contemporaneo. […] Quel che non agisce non è. Il logos è verità; col cristianesimo è anche via e vita. È merito di Maurice Blondel l’aver ampliamente affermato queste idee. Una teoria dell’azione non è dunque un’appendice al personalismo, ma occupa in esso una posizione centrale»1

1. Überwindung des Determinismus: la fondamento e télos dell’indagine filosofica.

libertà

come

Nel corso della storia della filosofia occidentale il rapporto tra determinismo e libertà nell’azione umana è stato oggetto di ampie trattazioni ed accesi dibattiti. Anche negli ultimi decenni tale problematica è tornata al centro dell’attenzione, soprattutto in connessione ai recenti sviluppi delle neuroscienze e della philosophy of mind. Il tema del libero arbitrio e della libertà continua, dunque, ad essere uno degli ambiti privilegiati dell’indagine filosofica: questo è dovuto al fatto che la quaestio de libertate non è solo teoretica o epistemologica, ma investe l’ambito morale e tutta la sfera del pratico, con delle evidenti implicazioni in ambito giuridico, estetico e teologico. Come afferma giustamente Kant nella Prefazione della Critica della E. MOUNIER, Le Personnalisme, PUF, Paris 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il Personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 121. 1

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ragion pratica, la libertà costituisce la “ragion d’essere” della moralità umana: se non avessimo realmente la libertà di scelta tra il bene e il male, non saremmo esseri morali e perciò imputabili di responsabilità nei confronti delle proprie azioni. Se l’uomo non possedesse il liberum arbitrium, non avrebbe più senso parlare di etica, di valori, di scelte politiche e di imputazioni giuridiche. Senza la libertà perderebbe di significato persino parlare di creatività artistica, definita dallo stesso Kant come «libero gioco delle facoltà»2. Tutto l’ambito dello spirituale verrebbe spiegato in base a legge meccaniche di causa ed affetto; l’intera sfera dell’humanum sarebbe ridotta a determinismi di carattere neuronale, psicologico, biologico, sociale o culturale3. Anche il mondo classico e medievale ha conosciuto forme teoretiche di determinismo: si pensi al fato degli stoici o al problema della predestinazione dibattuto dai teologi della scolastica. Tuttavia è nel mondo moderno che il determinismo ha assunto delle forme ancora più radicali ed apparentemente incontrovertibili, poiché fondate sulla scienza sperimentale. Nel Settecento numerosi intellettuali, radicalizzando i princìpi del meccanicismo newtoniano, giunsero a conclusioni materialistiche e deterministiche, negando la presenza stessa del libero arbitrio. Ci limitiamo a menzionare le concezioni paradigmatiche e diffuse in tutta Europa espresse da La Mettrie in L’homme machine (1748) e da D’Holbach nel Système de la nature (1770); tali concezioni saranno portate alle estreme conseguenze dai fautori dello scientismo positivistico dell’Ottocento. Per D’Holbach l’intero universo è sorretto da leggi fisiche eterne ed immutabili e I. KANT, Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, p. 218; tr. it. di A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 100. 3 Sulle varie accezioni del determinismo (naturale, teologico, psicologico, biologico, ecc. ) si veda il volume, dal linguaggio chiaro e ben documentato, di M. PRIAROLO, Il determinismo. Storia di un’idea, Carocci, Roma, 2011. 2

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anche l’uomo è necessariamente sottomesso a tali leggi: «l’universo appare come una catena immensa di cause e di effetti che scaturiscono senza posa gli uni dagli altri. Riflettendo, saremmo costretti a riconoscere che tutto quanto vediamo è necessario, vale a dire non può essere diverso da ciò che è. […] L’universo non è altro se non un circolo di movimenti dati e ricevuti secondo leggi necessarie»4. L’uomo per D’Holbach non è che un semplice prodotto della natura: esso è, quindi, sottoposto ad un rigido determinismo meccanicistico: «l’uomo è un essere puramente fisico. L’uomo morale non è che l’uomo fisico, considerato sotto certi punti di vista: la sua organizzazione è l’opera della natura. Le sue azioni visibili, i suoi movimenti invisibili [cioè i pensieri dell’anima] sono effetti naturali dell’ordine del suo meccanismo»5. In questa prospettiva l’uomo non è che una macchina, «un prodotto della natura»6 ed «uno strumento passivo nelle mani della necessità»7. Ciò che negano esplicitamente i materialisti francesi è soprattutto l’autonomia umana, cioè il fatto che l’uomo sia in grado di scegliere liberamente in base alla propria volontà: «la scelta dell’uomo è necessaria […]. L’azione è sempre l’effetto della volontà in quanto determinata [...]. Ne deriva che non siamo mai in grado di disporre delle determinazioni della nostra volontà: di conseguenza, noi non agiamo mai liberamente. Si è ritenuto che P.H.T. D’HOLBACH, Système de la nature, [edizione originale 1770], vol. I, Olms, Hildesheim 1966, p. 4; tr. it. di P. Rossi, in P. ROSSI (a cura di), Gli illuministi francesi, Loescher, Torino, 1983, p. 288. 5 P.H.T. D’HOLBACH, Le vrai sens du système de la nature, [edizione originale 1774], in IDEM, Système de la nature, vol. I, cit., p. 425; tr. it. di P. Rossi, in P. ROSSI (a cura di), Gli illuministi francesi, cit., p. 289. 6 P.H.T. D’HOLBACH, Système de la nature, cit., p. 1; tr. it. p. 289. 7 Ibidem. Sull’antropologia materialistica del Settecento francese si consultino in particolare gli studi di S. MORAVIA, La scienza dell’uomo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari 1978; P. NAVILLE, D’Holbach e la filosofia scientifica nel XVIII secolo, Feltrinelli, Milano, 1979. 4

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fossimo liberi, poiché possediamo una volontà e il potere di scegliere: ma non si è prestato attenzione al fatto che la volontà è mossa da cause indipendenti da noi, inerenti alla nostra organizzazione o alla natura degli esseri che ci influenzano»8. I due autori ai quali in questa sede facciamo particolare riferimento – Johann Gottlieb Fichte e Maurice Blondel – ci aiutano a compiere un itinerario speculativo a difesa della libertà e che pertanto può essere da noi qualificato come un possibile “oltrepassamento del determinismo” (Überwindung des Determinismus): le loro riflessioni trovano notevoli elementi di convergenza e sono accomunate nel proporre un “primato del pratico” sul teoretico, una radicale giustificazione della libertà umana fondata sul ruolo costituente della volontà. Come vedremo, sia Fichte che Blondel cercano di dedurre in maniera rigorosa la presenza della libertà in interiore homine, partendo dall’analisi delle dinamiche della volontà. Essi, quindi, riprendono ed elaborano con originalità il già citato motivo kantiano della libertà come ratio essendi della moralità: «perché esista una morale, occorre che ci sia inserzione originale di atti autonomi, contingenza del mondo, libertà nell’uomo, esenzione dal determinismo logico come da ogni altro»9. I testi che prendiamo particolarmente in esame sono la fichtiana Dottrina della scienza nova methodo (1796-99) e la celebre opera blondeliana del 1893 8

P.H.T. D’HOLBACH, Système de la nature, vol. I, cit., p. 11; tr. it. pp. 290291. La forma di materialismo illuminista espressa da D’Holbach ebbe una vasta eco nel Settecento e fu la diretta antecedente dello scientismo ottocentesco: la ritroviamo, ad esempio, in autori come Jakob Moleschott (1822-1893), Ludwig Büchner (1824-1899) e Ernst Häckel (1834-1919). A tal proposito cfr. A. NEGRI, Il materialismo naturalistico dell’Ottocento, Marzorati, Milano 1976, vol. XXIV, pp. 1-166. 9 M. BLONDEL, Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, Colin, Paris 1903; tr. it. di E. Castelli, Principio di una logica della vita morale, Guida, Napoli, 1969, p. 15. D’ora in poi lo scritto sarà citato con la sigla PE, seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana.

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L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi. Seguendo l’interpretazione del pensiero fichtiano data da Reinhard Lauth (1919-2007) e dalla sua scuola – la cosiddetta Münchener Schule – possiamo definire il sistema filosofico di Fichte come un System der Transzendentalphilosophie: si tratta di un “pensiero trascendentale della libertà” rigorosamente dedotto aus einem Prinzip, “da un principio primo e fondante”. Tale principio è quello della libertà considerata come costitutivo essenziale della coscienza umana e delle sue facoltà teoretiche e pratiche. Come abbiamo già accennato, in questo nostro contributo mettiamo in rilievo il particolare ruolo epistemologico che la facoltà del volere (Wille) ha assunto nel ciclo di lezioni fichtiane noto come Dottrina della scienza nova methodo (Wissenschaftslehre nova methodo). Come vedremo, in queste lezioni Fichte individua il primum movens di tutta l’attività coscienziale teoretico-pratica in una facoltà definita come “volere puro ed originario”; su tale volere egli fonda la libertà assoluta che contraddistingue l’individuo. Seguendo anche le riflessioni ermeneutiche di Reinhard Lauth e di Luigi Pareyson, proponiamo una interpretazione della filosofia trascendentale fichtiana come “sistema della libertà” e “scienza stessa della libertà”. Fichte ha esplicitamente inteso edificare una «scienza dell’etica (Wissenschaft der Sittenlehre)»10; all’interno di tale costituzione la libertà viene considerata come il principum scientiae, come la J.G. FICHTE, Das System der Sittenlehre nach der Principien der Wissenschaftslehre, Christian Ernst Gabler, Jena und Leipzig, 1798; hrsg. von M. Zahn, Meiner, Hamburg, 1963, p. 15; tr. it. di C. De Pascale, Sistema di etica, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 16. Nella stessa pagina Fichte usa anche l’espressione “scienza della moralità” (Wissenschaft der Moralität) da giustificare in base ai princìpi trascendentali elaborati nella Dottrina della scienza. Di un Fichte edificatore di una “scienza della libertà” ha parlato anche Xavier Tilliette: cfr. X. TILLETTE, Fichte. La science de la liberté, Vrin, Paris, 2003. 10

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ragion d’essere dell’intero sistema trascendentale nelle sue declinazioni etico-pratiche. In Fichte la libertà è, dunque, il presupposto della “scienza trascendentale”, la sua intima ratio essendi: la libertà è la condizione fondamentale delle strutture argomentative della Wissenschaftslehre ed in queste trova la sua piena conferma e deduzione. Nel nostro studio viene perciò sottolineato che la libertà è il presupposto della scientia fichtiana ed il suo compimento. Del resto, è lo stesso filosofo di Rammenau ad indicarci chiaramente anche nell’epistolario la vocazione essenziale del suo pensiero: «Il mio sistema è il primo sistema della libertà (Mein System ist das erste System der Freiheit)»11; «Il mio sistema è dall’inizio alla fine solo un’analisi del concetto di libertà (Mein System ist vom Anfang bis zu Ende nur eine Analyse des Begriffs der Freiheit)»12. Rivolgiamo poi la nostra attenzione ai motivi fichtiani presenti nell’opus blondeliano. Con il francese Blondel siamo in un differente clima speculativo, sotto molti aspetti lontano dalla cultura tedesca e dalle rigide strutture deduttive del “pensiero trascendentale”. Tuttavia, come sottolineato anche da alcuni studiosi, Blondel riprende motivi e tematiche tipicamente fichtiani e con l’autore tedesco ha in comune un’istanza speculativa centrale: la giustificazione di una “scienza della libertà” fondata sul primato teoretico-pratico della volontà. Come il pensiero fichtiano anche l’itinerarium blondeliano giunge “alle soglie dell’assoluto” partendo dalle dinamiche della soggettività: tale metodo viene definito dal Nostro come “metodo dell’immanenza”, tutto incentrato sull’analisi dell’io e dei suoi suoi atti, ovvero sul “proprio paesaggio interiore”. Però quello GA, III, 2, p. 298. Con la sigla GA - seguita dall’indicazione della serie, del volume e del numero di pagina – facciamo riferimento alla J.G. FichteGesamtausgabe, vol. 9, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky et alii, Frommann-Holzboog, Stuttgart – Bad Cannstatt, 1964 ss. 12 GA, III, 2, p. 206. 11

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raggiunto da Blondel partendo dall’introspezione non è un assoluto impersonale, qualificato come “pura attività trascendentale”. Si tratta piuttosto di un assoluto dal volto personale ed avente i caratteri trascendenti del Dio ebraicocristiano. Secondo Blondel, philosophe chrétien, indagando le complesse dinamiche della volontà umana lo sguardo filosofico sa giungere ad una presenza che è “libertà assoluta e trascendenza”: un vertiginoso avvertimento dell’infinito in interiore homine. Se in Fichte troviamo una “filosofia trascendentale della libertà”, in Blondel incontriamo una filosofia dal carattere più psicologico ed introspettivo, interamente incentrata sull’esperienza interiore dalla quale fa emergere riflessioni di carattere metafisico e religioso. In Fichte e Blondel la libertà costituisce, allo stesso tempo, il fondamento ed il fine dell’indagine filosofica: è tramite un atto di libertà che l’uomo inizia ad investigare il mondo e se stesso, distaccandosi dall’ordinario ed andando volontariamente alla ricerca razionale dei princìpi primi costituenti la realtà soggettiva e quella oggettiva. I loro complessi itinerari di pensiero assurgono ai nostri occhi un valore paradigmatico: questi non sono certamente gli unici che la storia della filosofia abbia conosciuto, presentano tuttavia degli elementi di originalità e di chiarezza argomentativa che li rendono modelli di “pensiero della libertà e sulla libertà”. Inoltre, va sottolineato che per Fichte e Blondel la libertà non costituisce solo il fondamento della filosofia, ma è anche il suo télos, la sua intrinseca finalità: l’attività del philosophein viene giustamente qualificata come una “educazione alla libertà”, come un invito alla comprensione genealogica dei valori etici e un incitamento alla responsabilità individuale e collettiva. Sin dalle sue origini greche la filosofia ha avuto una intrinseca vocazione paidetica, nel mondo cristiano e moderno questa sua vocazione pedagogica si è talvolta persino accentuata assumendo nuove fisionomie: è questo il caso dei modelli filosofici proposti da Fichte e Blondel. Per il filosofo di Rammenau la “missione essenziale dell’intellettuale”, la 233 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Bestimmung des Gehlerten, è quella di essere un “educatore alla libertà”; in questa prospettiva la filosofia non si riduce a mera contemplazione del reale, essa diviene piuttosto una tensione – uno Streben – alla trasformazione della storia umana in ordine agli ideali di libertà e di giustizia. La filosofia ha, quindi, un’autentica portata rivoluzionaria: è costante sforzo di cambiamento dell’esistente “nell’intima coscienza che Dio è attivo in noi”. Fichte assegna, quindi, alla filosofia una forte valenza pedagogica: essa si qualifica come una Aufforderung zur Freiheit, un invito alla realizzazione della libertà nella storia, sia della libertà interiore nel senso moderno dell’autonomia di giudizio (il Sapere aude!, di kantiana memoria) sia della libertà politica; non si dimentichi che Fichte sin da giovane si interessa di politica, avvicinandosi al giacobinismo e mostrando entusiasmo per la Rivoluzione francese. Anche in Blondel troviamo un forte invito alla realizzazione della libertà, sia interiore che politica: maggiore attenzione meriterebbero i suoi scritti contro il nazismo13; da riscoprire e valorizzare è anche l’ultimo Blondel che in una tetralogia ci presenta in maniera sistematica una “ontologia della libertà” concepita come “philosophie catholique”. Si tratta di quattro ampie opere nelle quali i risultati teoretici del giovanile saggio sull’azione vengono ripresi e portati ad una più ampia sintesi: La pensée (1934); L’Être et les êtres (1935); i due nuovi volumi de L’Action (1936 e 1937); La philosophie et l’esprit chrétien (1944/46).

Cfr. M. BLONDEL, Lutte pour la civilisation et philosophie de la paix, Flammarion, Paris, 1939; tr. it. di B. Gentile, Lotta per la civiltà e filosofia della pace, Leonardo, Firenze-Roma, 1946.

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2. Il Fichte di Jena: la filosofia trascendentale come Selbstbeobachtung e riflessione genetica In Fichte la filosofia trascendentale diviene ricerca genetica delle condizioni di possibilità (Bedingungen der Möglichkeit) che determinano il sapere: si tratta di una ricerca che nelle lezioni jenesi Dottrina delle scienza nova methodo (1796-99) individua nel volere puro e predeliberativo la genesi stessa (Genesis) e la condizione suprema di possibilità della coscienza umana. La filosofia trascendentale di Fichte non è perciò da interpretare come una filosofia dei limiti della conoscenza umana (le Grenzen der Erkenntnis di cui parla Kant), ma come tentativo di comprensione dei princìpi che determinano il sapere: seppur rimane una filosofia “fedele al punto di vista del finito” 14, essa non rinuncia per questo ad una compiuta intellezione dei princìpi e ad una “penetrazione razionale della realtà stessa” (vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit)15. Le considerazioni che andiamo svolgendo si situano all’interno di un’interpretazione generale della dottrina della scienza (Wissenschaftslehre) come “dottrina del formare” (Lehre des Bildens)16: compito della dottrina della scienza è - così come In Italia è stato in particolare Luigi Pareyson a sottolineare che Fichte cerca di giungere ad «affermare la realtà dell’assoluto pur continuando a mantenere il pensiero filosofico nel punto di vista del finito» (L. PAREYSON, Fichte. Il sistema della libertà, a cura di C. Ciancio, Mursia, Milano, 2011 3, p. 23). 15 Cfr. la raccolta di studi di R. LAUTH, Vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, Ars una, Neuried, 1994. 16 Ricordiamo che è stato Reinhard Lauth a proporre un’interpretazione generale della Wissenschaftslehre come Bildenslehre, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale dei costitutivi pratici dell’esperienza: «la dottrina della scienza potrebbe allora meglio denominarsi “dottrina del figurare” (Bildenslehre), e non più unilateralmente come “dottrina del sapere” ([...] uso qui il termine Bilden insieme per il processo teoretico e per il processo 14

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l’autore mette in luce - lo studio delle facoltà pratico-teoretiche dell’io che presiedono al Bilden del mondo dell’esperienza, ovvero alla sua “formazione” e costituzione. Nella nostra analisi della Nova methodo mettiamo soprattutto in evidenza che il “volere puro” è la condizione di possibilità dello stesso Bilden da parte della coscienza soggettiva. Nella seconda esposizione della Wissenschaftslehre del 1804, Fichte afferma che se la «dottrina della scienza è filosofia trascendentale così come la kantiana»17, essa «si differenzia dalla filosofia kantiana»18 stessa: secondo Fichte il progetto di Kant che intende stabilire i limiti epistemologici del sapere rimane una «speculazione fiacca»19, “fiacca” poiché non riesce a giungere all’affermazione del «principio genetico»20 del sapere, alla radice pratico)» (R. LAUTH, La direzione essenziale della ricerca filosofica su Fichte, [ed. orig. 2003], in IDEM, Con Fichte, oltre Fichte, tr. it. e Premessa di M. Ivaldo, Trauben, Torino, 2004, pp. 73-90, p. 81). È da notare che il termine Bilden designa sia l’attività teoretica che quella pratica: si può infatti tradurre con «porre in forma, formare, rappresentare (perciò momento teoretico), ma anche come produrre, modellare, configurare, porre in essere (perciò momento pratico)» (ibidem, p. 81). Nel corso della trattazione mettiamo in evidenza come la genesi del Bilden sia da individuare nell’attività (Tätigkeit) dell’Io che è volontà, voluntas-in-actu. 17 J.G. FICHTE, Dottrina della scienza. Seconda esposizione del 1804, Presentazione di M. Ivaldo, tr. it. e cura di M.V. d’Alfonzo, Guerini e Associati, Milano, 2000, p. 64. Per l’edizione critica di questo testo - oltre a quello contenuto in GA - facciamo riferimento al seguente volume: J.G. FICHTE, Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804 vom 16. April bis 8. Juni, hrsg. von R. Lauth, J. Widmann, P. Schneider, Meiner, Hamburg, 1986, p. 11. D’ora in poi faremo riferimento a quest’opera con la sigla WL 1804-II, indicando il numero di pagina della traduzione italiana seguito da quello (posto tra parentesi quadre) del testo edito presso i tipi di Meiner Verlag. 18 WL 1804-II, p. 64 [11]. 19 WL 1804-II, p. 85 [28]. 20 WL 1804-II, p. 85 [28].

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originaria del mondo sensibile e del mondo intelligibile. Fichte propone, quindi, ai suoi uditori la dottrina della scienza come una “costruzione concettuale” da edificare gradualmente in interiore homine per giungere alla «visione che (Eisicht, dass), a fondamento del mondo sensibile ed intelligibile, ci sia […] un principio genetico (ein genetisches Prinzip)»21. Questo “principio genetico” nella Dottrina della scienza nova methodo viene individuato da Fichte nel “volere puro” (§ 13), sostrato del mondo intelliggibile e condizione di possibilità della conoscibilità stessa del mondo sensibile22. Nel concetto di “volere puro” ci pare vi siano le ragioni più profonde per le quali egli definisce la sua filosofia come “sistema della libertà” (System der Freiheit). In tale sistema Fichte ha inteso “schematizzare lo schematizzare”, ovvero dedurre geneticamente da un unico principio (praticoteoretico) i due punti innanzi ai quali la filosofia critica kantiana si era arrestata: lo schematismo trascendentale, considerato da WL 1804-II, p. 85 [28]. Condividiamo la tesi proposta da Helmut Girndt secondo la quale «ciò che nel Fondamento viene definito come “Io assoluto” è essenzialmente identico a ciò che nella Nova methodo viene definito come “volere puro” e “libertà”, e nella Dottrina della scienza del 1804 come “essere e vita in sé” (Was in der Grundlage 1794 als “absolutes Ich” bezeichnet wurde, in der Nova Methodo als “reiner Wille” und Freiheit und in der Wissenschaftslehre 1804 als “in sich geschlossenes Sein und Leben” ist sachlich identisch)» (H. GIRNDT, Die Nova Methodo zwischen der Grundlage von 1794 und der Wissenschaftslehre von 1804, «FichteStudien», 16 (1999), pp. 57-68, p. 67 [tr. it. nostra]). Girndt interpreta il pensiero di Fichte nella sua essenziale unità sistematica e rileva che le numerose esposizioni della dottrina della scienza costituiscono diverse metodologie d’indagine che giungono però all’affermazione di medesimi princìpi genetici. Si noti, inoltre, che mentre nel periodo del suo insegnamento a Jena Fichte designa questi princìpi genetici con una terminologia egologica, come ad esempio Ichheit e volere puro, dopo il 1800 - nella fase berlinese della sua produzione - egli abbandona quasi del tutto questa terminologia egologica. 21 22

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Kant come un’“arte celata nel profondo dell’anima umana”, e la libertà, considerata dal filosofo di Königsberg come un “fatto della ragione” (Faktum der Vernunft) non ulteriormente deducibile. Secondo Fichte ciò che nel Fondamento del 1794/95 era insoddisfacente non erano i princìpi in esso esposti - cioè le leggi del pensiero - bensì il metodo deduttivo23, e soprattutto la separazione (Trennung) tra sapere teoretico e sapere pratico. Per sanare queste lacune egli a partire dal semestre invernale 1796-97 tiene un nuovo corso di lezioni che annuncia con il titolo tedesco di Wissenschaftslehre nach neuer Methode e con quello latino di Fundamenta philosophiae transscendentalis (vulgo: die Wissenschaftslehre) nova methodo. Questo ciclo di lezioni - come abbiamo già accennato - contiene i nuclei speculativi centrali del pensiero di Fichte nel periodo di Jena ed anche i fondamenti teoretici della “filosofia applicata” (angewandte Philosophie) che in quel periodo stava elaborando: il diritto naturale (Naturrecht) e l’etica (Sittenlehre)24. Purtroppo le lezioni Nova methodo non furono mai pubblicate da Fichte25 e non disponiamo neanche dei In una lettera a Schmidt del 17 marzo 1799, Fichte afferma che «ciò che è insoddisfacente nel Fondamento non sono i princìpi, […] ma è il metodo deduttivo (das Unbefriedigende der Grundlage liegt nicht in den Prinzipien, [...] sondern in der Ableitung)» [tr. it. nostra da GA, III, 3, p. 213]. 24 Nella Nova methodo Fichte fa più volte riferimento sia alla Grundlage des Nauturrechts edita nel 1796-97 che al System der Sittenlehre pubblicato nel 1798. Si ricordi, inoltre, che i risultati speculativi della Nova methodo trovano a volte significativi approfondimenti nelle lezioni di logica e metafisica che Fichte tenne nel semestre estivo 1797 a commento degli Aforismi filosofici del leibniziano Ernst Platner: si tratta delle Vorlesungen über Logik und Metaphysik. Platnervorlesungen (edite in GA, IV, 1, pp. 169-450). 25 Nel 1797 Fichte fece pubblicare nella rivista «Philosophisches Journal» solo dei brevi testi della Nova methodo: il Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre (GA, I, 3, pp. 167-281), insieme ad una prima e ad una seconda introduzione (Erste und Zweite Einleitung) alla dottrina della 23

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manoscritti originali del filosofo. Conosciamo questo ciclo di lezioni solo grazie a tre copie (Kollegnachschriften): la cosiddetta copia di Halle (Hallesche Nachschrift)26, che fu edita in maniera completa da Hans Jakob nel 1937; la copia di Karl Christian Friedrich Krause, pubblicata da Erich Fuchs nel 198227; e quella di Friedrich August Eschen, che tuttavia non contiene l’esposizione completa delle lezioni28. Questi tre manoscritti - in maniera simile a quanto si può fare con i Vangeli sinottici - possono essere letti l’uno accanto all’altro e confrontati. I paragrafi che li compongono riportano - a volte con piccole variazioni - le tematiche trattate da Fichte nelle lezioni: essi descrivono con “metodo fenomenologico” l’iter conoscitivo della coscienza e le sue condizioni di possibilità.

scienza. Possiamo supporre che Fichte non pubblicò l’intero manoscritto della Nova methodo a causa dell’insorgere inaspettato della “disputa sull’ateismo” (Atheismusstreit) nel 1799. L’ultima pagina del manoscritto di Krause riporta la data del 14 marzo 1799: «Finitum 14. März 1799» (WLnm-K, p. 244); si tratta proprio del periodo nel quale Fichte iniziò a doversi difendere pubblicamente dall’ingiusta accusa di ateismo. 26 In GA, IV, 2, pp. 1-357; d’ora in poi ci riferiremo alla Hallesche Nachschrift con la sigla WLnm-H, seguita dal numero di pagina della Gesamtausgabe e dal numero di pagina (posto tra parentesi quadre) della traduzione italiana. Solo di questo manoscritto esiste una traduzione italiana: si tratta di quella effettuata da Alfredo Cantoni. 27 Cfr. J.G. FICHTE, Wissenschaftslehre nova methodo. Kollegnachschrift K.Ch.Fr. Krause 1798/99, hrg. von E. Fuchs, Meiner, Hamburg, 1982, zweite verbesserte Auflage 1994. Ci riferiremo a questo manoscritto con la sigla WLnm-K, seguita dal numero di pagina dell’edizione Meiner; la traduzione italiana dei passi citati sarà fatta da noi. 28 Cfr. GA, IV, 3, pp. 145-196. Il manoscritto di Eschen rimane allo stato frammentario: esso riporta - e a volte non compiutamente - i paragrafi della Nova methodo dal 3 al 17. Faremo riferimento a questo testo con la sigla WLnm-E, seguita dal numero di pagina della Gesamtausgabe; la traduzione italiana dei passi citati sarà fatta da noi.

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3. Una “scienza della libertà”: il “nuovo metodo” ed il ruolo epistemologico del volere Il tentativo compiuto da Fichte nella WL nova methodo è quello della riunificazione (Vereinigung) del sapere teoretico e del sapere pratico, conferendo a quest’ultimo un primato: il “nuovo metodo” di questa esposizione consiste nello spiegare il sapere teoretico, ovvero le condizioni del costituirsi della rappresentazione conoscitiva (la Vorstellung) a partire dal sapere pratico, cioè dai costitutivi pratici della coscienza (praktische Konstitutiva des Bewusstseins): tali costitutivi pratici sono le facoltà dell’intuizione intellettuale, della riflessione, dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft), della forza (Kraft), della “posizione di scopo” (Zweckstellung) e del volere: sono queste le principali facoltà che garantiscono alla coscienza soggettiva la capacità di conoscere, ovvero di “passare” dalla determinabilità alla determinazione. La separazione tra ambito teoretico e pratico era tipica delle filosofie di Wolff, di Kant e di Karl Leonhard Reinhold ed è ancora presente nello stesso Fondamento di Fichte: rispetto a queste filosofie e al Fondamento, nelle lezioni Nova methodo precisa il filosofo - «non si trova la solita divisione della filosofia in teoretica e pratica. L’autore parla [...] unificando insieme teoretica e pratica (er trägt überhaupt vor, Theoretische und Praktische vereinigt), [...] include la pratica nella teoretica e spiega quest’ultima a partire dalla pratica»29. Possiamo dire che per parte pratica della filosofia Fichte intenda lo studio delle facoltà pratiche dell’io - e tra queste in primo luogo il volere - che rendono possibile la conoscenza del mondo sensibile (Sinnenwelt) da parte della coscienza. 29

WLnm-H, p. 17 [31].

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Il problema fondamentale da cui si origina la dinamica argomentativa della Nova methodo è quello della spiegazione di come (wie) si origina la coscienza e la sua attività praticoteoretica30: la soluzione a questo problema sarà trovata deducendo la realtà del volere puro come condizione suprema di possibilità della coscienza e dei suoi atti. Il concetto di volere puro è, quindi, il fulcro dell’argomentazione di tutta l’opera, la quale si divide in due grandi parti: una parte “riduttiva” ed una “deduttiva”. I primi 12 paragrafi della Nova methodo costituiscono la parte “riduttiva” ed in essi lo studio viene condotto procedendo “dal condizionato alla sua condizione”; nella parte “riduttiva” dell’opera (i paragrafi dal 14 al 19) lo studio - una volta raggiunta al § 13 la condizione suprema dell’attività coscienziale, cioè il volere puro - viene invece svolto procedendo “dalla condizione al condizionato”. Si potrebbe dire che nella parte “riduttiva” dell’opera Fichte adotti un metodo “fenomenologico”: egli parte cioè von unten, “dal basso”, dall’osservazione diretta della propria coscienza e della sua attività di sintesi conoscitiva: «pensa a te stesso e fa attenzione al modo in cui lo fai (denke dich selbst und gieb Achtung, wie du das machst). Troverai che con la tua attività ritorni su te stesso e determini nella tua attività te stesso»31; «il filosofo [...] deve far progredire il suo io sinteticamente, farlo agire sotto il suo sguardo. Innanzi tutto porre il suo io, ed osservarlo nel suo agire secondo certe leggi»32. Il metodo utilizzato in quest’opera parte, quindi, dall’autoosservazione (Selbstbeobachtung) “fenomenologica” dell’azione-in-atto Nell’incipit del primo paragrafo dell’opera viene affermato: «il compito dell’intera filosofia si può esprimere così: quale è il fondamento di ciò, che si presenta nella coscienza con il sentimento della necessità? (Oppure quale è il fondamento delle rappresentazioni necessarie nelle intelligenze?» (WLnm-H, p. 18 [33]). 31 WLnm-H, p. 22 [36]. 32 WLnm-H, pp. 28-29 [41]. 30

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(Tathandlung) dell’io empirico, cioè dall’autooservazione dell’attività conoscitiva della coscienza che ha nel volere il suo centro propulsivo33. Nella Nova methodo Fichte delinea un’architettonica delle facoltà umane che trova nel “volere puro” il suo dinamico fondamento. Come è noto, Fichte spiega il processo conoscitivo della coscienza come «passaggio dalla determinabilità alla determinazione (Übergehen von der Bestimmbarkeit zur Bestimmtheit)»34: per il filosofo questo passaggio (Übergehen) è possibile solo grazie alla funzione che svolge la volontà35. Il giudizio determinante (bestimmendes Urteil) di cui parla Kant nella Critica della ragion pura è perciò possibile, secondo Fichte, solo grazie ad un atto della volontà. Una delle fondamentali innovazioni della filosofia trascendentale di Fichte rispetto a quella di Kant è sicuramente da scorgere nel ruolo epistemologico fondamentale affidato alla volontà. Mentre Kant nella Critica della ragion pura non dà alla volontà un compito decisivo, Fichte Secondo Fichte la Dottrina della scienza è una «osservatrice dello spirito umano nella produzione originaria della conoscenza (Beobachterin des menschlichen Geistes, in der ursprünglichen Erzeugung aller Erkenntnis)» (WLnm-H, p. 197 [190]); compito speculativo della Dottrina della scienza è, quindi, quello di una «visione genetica dell’origine delle nostre rappresentazioni (genetische Einsicht in den Ursprung unsrer Vorstellungen)» (WLnm-H, p. 197 [190]). 34 WLnm-K, p. 144; in System der Sittenlehre: GA, I, 5, p. 147. 35 A tal proposito ci pare estremamente significativa una definizione che Fichte dà del volere in un testo inedito del 1796, il Collegium über die Moral; in questo manoscritto il volere viene identificato come l’organo della conoscenza, cioè come la facoltà che rende possibile il passaggio dall’indeterminato (o determinabile) alla determinazione: «il volere [empirico] è un assoluto libero passaggio dall’indeterminato alla determinazione con la coscienza [cioè con la consapevolezza] di questo stesso passaggio (Absolutes freyes Übergehen von Unbestimmtheit zur Bestimmtheit [mi]t d[em] Bewusstsein desselben ist der Wille)» (GA, IV, 1, p. 75). 33

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nella Nova methodo pone questa facoltà all’origine stessa del processo conoscitivo. Una delle principali finalità della Nova methodo - egli afferma - è quella di «mostrare che ogni rappresentazione conoscitiva è prodotta dal nostro volere (wird gezeigt, dass alle Vorstellung nur durch unser Wollen hervorgebracht wird)»36. Nella Nova methodo il filosofo cerca, quindi, di dimostrare che ogni atto della determinazione conoscitiva (la Bestimmung di cui parla Kant) è una determinazione causata dal volere: è una «Willensbestimmung»37. Per Fichte l’essenza dell’io è quella di essere un volente (ein Wollendes); nell’esperienza originaria che l’io fa di se stesso tramite la facoltà dell’intuizione intellettuale egli si scopre come un essere volente: per mezzo dell’autoosservazione e della riflessione su me stesso - afferma il filosofo - «io mi trovo solo come volente (ich finde mich selbst, als mich selbst, nur wollend)»38. La volontà (der Wille/das Wollen, termini che Fichte nella Nova methodo non distingue nettamente39) è, quindi, la facoltà che determina ogni attività interiore (innere Tätigkeit)

WLnm-E, p. 178. WLnm-E, p. 180. 38 GA, I, 5, p. 37. 39 A tal riguardo è stato osservato che «Fichte nella Dottrina della scienza nova methodo non fa una distinzione netta tra “volere” e “volontà”, sebbene nel Sistema di etica concepisca il volere come atto e la volontà come facoltà (Fichte unterscheidet in der WLnm nicht konsequent zwischen “Wollen” und “Wille”, obwohl er in der Sittenlehre die beide Ausdrücke gegeneinander absetzt, indem er das Wollen als Akt und den Willen als Vermögen konzepiert)» (U. SCHWABE, Individuelles und Transindividuelles Ich. Die Selbstindividuation reiner SubjektIvität und Fichtes Wissenschaftslehre. Mit einem durchlaufenden Kommentar zur Wissenschaftslehre nova methodo, Ferdinand Schöning, Paderborn München 2007, p. 501 [tr. it. nostra]). Sulla differenziazione tra volere e volontà nella Sittenlehre cfr. GA, I, 5, p. 148. 36 37

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della coscienza, sia che quest’attività si indirizzi alla conoscenza che alla deliberazione sul piano morale. Come ha ben sottolineato Günter Zöller, nella Nova methodo si ha «una concezione intellettualistica del volere (intellektualistische Auffassung des Wollens)»40. In quest’opera il volere è da identificare con la razionalità che si esprime nell’atto conoscitivo della coscienza: si può perciò parlare di una «unità originaria di intelligenza e volere (Einheit von Intelligenz und Wille)»41 e di «un’intima coappartenenza del pensare e del volere (innige Zusammengehörigkeit von Denken und Wollen)»42. Per Fichte «il volere è il carattere proprio ed essenziale della ragione (das Wollen ist der eigentliche wesentliche Charakter der

G. ZÖLLER, Bestimmung zur Selbstbestimmung. Fichtes Theorie des Willens, «Fichte-Studien», 7 (1995), pp. 101-118, p. 108 (tr. it. nostra). Ci pare corretta l’osservazione di Zöller secondo la quale nella Nova methodo ad una «trattazione volontaristica del pensiero ([einer] voluntaristicher Behandlung des Denkens)» corrisponde «una concezione intellettualistica della volontà (intellektualistische Auffassung des Wollens)» (ibidem). 41 IDEM, Die Einheit von Intelligenz und Wille in der Wissenschaftslehre nova methodo, «Fichte-Studien», 16 (1999), pp. 91-114, p. 92 (tr. it. nostra). 42 IDEM, Bestimmung zur Selbstbestimmung. Fichtes Theorie des Willens, op. cit., p. 108 (tr. it. nostra). Fichte concepisce la coscienza come un’unità di volontà e di razionalità: è però lontano da qualsiasi volontarismo metafisico ed irrazionalista come quello elaborato da Schopenhauer. Tuttavia tra Fichte e Schopenhauer sono state viste molte affinità proprio nella tematizzazione della centralità del volere. Si ricordi, inoltre, che il giovane Schopenhauer alla fine del settembre 1811 si trasferì a Berlino per ascoltare Fichte, rimanendone tuttavia deluso. I rapporti tra Fichte e Schopenhauer - proprio in relazione alle loro rispettive concezioni del volere - sono oggetto di una rinnovata attenzione: cfr. W. METZ, Der Begriff des Willens bei Fichte und Schopenhauer, in L. HÜHN (hrg.), Die Ethik Arthur Schopenhauers im Ausgang vom Deutschen Idealismus (Fichte/Schelling), Ergon, Würzburg, 2006, pp. 387-400. 40

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Vernunft)»43 ed è grazie ad esso che si compie l’atto conoscitivo, ovvero la “fissazione” (o “concentrazione”) in un punto - ed in questo consiste l’atto della determinazione conoscitiva (Bestimmung) - del materiale sensibile che la facoltà dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungkraft) presenta alla coscienza. Nella soggettività individuale Fichte spiega l’atto conoscitivo come «concentrazione del volere empirico in un punto (Concentration d[es] [empirischen] Wollens in einem Puncte)»44. Secondo Fichte la conoscenza degli oggetti è possibile grazie alla determinazione reciproca (Wechselwirkung) che avviene nella coscienza tra la libertà del volere empirico (empirisches Wollen) e la limitazione (Beschränktheit) costituita dalla sensibilità (das Gefühl - sensus in latino -, o die Sinnlichkeit): «ogni pensiero ed ogni rappresentazione conoscitiva si pongono nel mezzo tra il volere originario e la limitazione costituita dalla sensazione»45. L’origine della conoscenza è perciò da rinvenire nel volere che fa dirigere le facoltà soggettive verso il determinabile - ciò che è da conoscere -, presentato alla coscienza dall’immaginazione produttiva46. In particolare, la funzione che esercita l’immaginazione è quella di “estendere” il volere «in e secondo

GA, I, 3, p. 332; tr. it. e cura di L. Fonnesu, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza, Laterza, RomaBari, 1994, p. 20. 44 WLnm-E, p. 177. 45 WLnm-K, p. 143. 46 «L’immaginazione [...] è la facoltà di concepire il determinabile (die Einbildungskraft […] ist das Vermögen das Bestimmbare zu fassen)» (WLnm-K, p. 202). L’immaginazione produttiva è perciò la facoltà della mediazione tra il determinato (il conosciuto) e il determinabile (ciò che è da conoscere, il materiale sensibile offerto dai sensi - Gefühle): la coscienza può operare una sintesi conoscitiva solo per mezzo dell’immaginazione produttiva. 43

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una serie di posizioni in successione»47: l’immaginazione «schematizza il volere nel tempo»48, determinando la nascita stessa del tempo (Entstehung der Zeit) nella coscienza soggettiva. Se nella cultura filosofica francese anche Cartesio e Maine de Biran avevano dato centralità alla facoltà del volere, in Fichte troviamo una radicalizzazione ed un approfondimento genetico del principio pratico costituito dalla volontà. Il principio “io penso, poiché voglio” (Ich denke, weil Ich will) viene, infatti, fondato da Fichte in una prospettiva trascendentale, dove la “volontà pura” diviene “il sostrato” stesso del mondo intelligibile, il Reich der Vernunft, il “regno degli esseri liberi e razionali”. L’originalità della posizione fichtiana rispetto alle precedenti e contemporanee concezioni gnoseologiche è, quindi, da individuare nella separazione tra un punto di vista empirico ed un punto di vista propriamente trascendentale: Fichte opera una netta distinzione tra un volere empirico (empirisches Wollen), dal quale si originano gli atti conoscitivi insieme al tempo come vissuto interiore, ed un volere puro (reines Wollen): quest’ultimo «è l’unico originario (ist das einzige Ursprüngliche)»49 ed è il fondamento del mondo intelligibile. Diversamente dagli autori sopra ricordati, Fichte pone la sua concezione del volere all’interno di una prospettiva di idealismo trascendentale per la quale «il mondo intelligibile è condizione di possibilità del mondo dei fenomeni (die intelligible Welt [ist] Bedingung der Welt der Erscheinungen)»50: in questa prospettiva il volere puro ed universale viene concepito come «il sostrato del mondo intelligibile»51, come la radice più profonda della Ichheit dalla M. IVALDO, Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Mursia, Milano, 1992, p. 103. 48 Ibidem. 49 WLnm-E, p. 186. 50 WLnm-E, p. 178. 51 WLnm-H, p. 150 [148]. 47

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quale si generano i singoli atti (conoscitivi e pratici) della coscienza soggettiva. Utilizzando il linguaggio della fenomenologia di Husserl, possiamo dire che in Fichte il volere determini l’intenzionalità (Intentionalität) della coscienza, ovvero il suo costitutivo rivolgersi verso il determinabile (das Bestimmbare), cioè il mondo dell’esperienza da determinare nella sintesi conoscitiva e tramite il “concetto di scopo” (Zweckbegriff). Una delle note fondamentali della coscienza soggettiva - così come essa viene descritta nella Nova methodo - è la sua teleologia, cioè il suo costante essere protesa verso gli oggetti dell’esperienza da determinare - cioè da conoscere - nella sintesi. 3.1. «Das reine Wollen»: il “volere puro” come fondamento della coscienza Come abbiamo già accennato in precedenza, il § 13 costituisce il centro dell’esposizione Nova methodo, poiché in esso viene raggiunto il punto più alto della speculazione, dal quale è possibile dedurre tutta l’attività della coscienza. Per Fichte i primi 12 paragrafi della Nova methodo rappresentano quasi “un’ascesa platonica” verso questo punto supremo che permette ogni sintesi conoscitiva, cioè il volere puro, il pantelós óv (Sofista 248c), l’id quod est perfectissimum della sua speculazione: «tutti i paragrafi precedenti sono stati quasi l’introduzione per giungere a questo punto supremo (zu diesem höchsten Punkte aufzusteigen). Da ora innanzi inizia la via della deduzione di tutti gli altri oggetti della nostra coscienza»52. La deduzione del volere puro - per il filosofo - può essere raggiunta tramite un atto di riflessione e di rigorosa astrazione da 52

WLnm-H, p. 145 [144].

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ogni atto empirico di conoscenza e di deliberazione 53. Il metodo utilizzato da Fichte per giungere alla deduzione del volere puro è di tipo genetico: si tratta di un regredire all’“originario”. Dai singoli atti empirici si arriva a dedurre la loro condizione prima ed assoluta di possibilità, la facoltà originaria che sta a loro fondamento: «deve esservi qualcosa che è oggetto della conoscenza e causalità. Queste caratteristiche sono unificate in un volere puro, da presupporre ad ogni volere empirico e ad ogni conoscenza empirica. Questo volere puro è un qualcosa di puramente intelligibile (etwas Intelligibles)»54. Possiamo dire che l’intento di Fichte sia quello di superare il circolo vizioso prodotto da considerazioni di carattere meramente empirico per raggiungere un punto di vista genetico e Ricordiamo che con il termine “deliberazione” Fichte non intende definire l’atto della scelta morale ma un atto di pensiero, cioè un atto dal valore propriamente gnoseologico: «la deliberazione e il volere non sono altro che il pensiero: il deliberare è un pensiero problematico, mentre il volere è un pensiero categorico» (WLnm-E, p. 178). Franz Bader ha introdotto nella Fichte-Forschung l’interpretazione del volere puro come volere “predeliberativo”: egli utilizza il termine “predeliberativo” per sottolineare che nella sua ricerca Fichte parte dall’analisi dei costitutivi pratici della coscienza soggettiva - e quindi dai singoli atti di deliberazione per andare alla loro condizione prima di possibilità: «la dottrina del volere predeliberativo contiene il centro degli sviluppi del mondo dell’io a partire dai costitutivi pratici» (F. BADER, Zu Fichtes Lehre vom prädeliberativen Willen, in A. MUES (hrsg. von), Transzendentalphilosophie als System. Die Auseinandersetzung zwischen 1794 und 1806, Meiner, Hamburg, 1989, pp. 212-241, p. 213 [tr. it. nostra]). Bader definisce il volere puro come “predeliberativo” poiché esso è «il necessario presupposto di ogni volere deliberativo (notwendige Voraussetzung allen deliberativen Wollens)» (ibidem, p. 214), cioè di ogni atto della coscienza. Condividiamo la tesi di Bader secondo la quale il concetto di volere puro costituisce uno dei punti più significativi della speculazione di Fichte, a partire dal quale è possibile fornire una chiave di lettura di tutto il suo sistema di filosofia trascendentale. 54 WLnm-H, p. 145 [144]. 53

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trascendentale, un punto di vista dal quale è possibile spiegare l’intera attività sintetica della coscienza55. Il circolo viene perciò «respinto (entfernt)»56 e «risolto sinteticamente (synthetisch gelöst)»57: ciò significa che Fichte argomenta la possibilità di un’unità sintetica della coscienza, garantita dal volere puro. Quest’ultimo è il presupposto necessario - e l’inizio stesso, l’«Anfang»58 - dell’attività conoscitiva della coscienza. Il “volere puro” si qualifica in tal modo come il primum movens dell’attività sintetica della coscienza, come quel sostrato intelligibile dal quale si origina la serie temporale dei singoli atti del volere empirico, una serie che altrimenti non troverebbe in se stessa né la propria giustificazione né la propria “ragion d’essere”. Si può dire che il “volere puro” sia una sorta di “condizione incondizionata” dell’attività conoscitiva della coscienza, una sorta “causa prima” che è il presupposto trascendentale ed originario di ogni atto della soggettività: «per spiegare la coscienza dobbiamo certamente ammettere l’esistenza di qualcosa di primo e di originario (Allenthalben mussten wir, um das Bewußtsein zu erklären, etwas erstes, ursprüngliches annehmen)»59. La ricerca «La difficoltà della spiegazione [della determinazione reciproca di attività ideale ed attività reale] può essere superata solo attraverso la riunificazione sintetica di entrambe: tramite questa riunificazione giungiamo ad un punto, dal quale è possibile spiegare l’intera attività della coscienza» (WLnm-K, p. 138). Come abbiamo già accennato, è nel volere puro che Fichte individua il punto della riunificazione sintetica della coscienza. 56 WLnm-H, p. 130. Ricordiamo che il superamento di ogni circolo vizioso è di fondamentale importanza per la validità dell’intera argomentazione filosofica: questo è stato ben messo in evidenza già da ARISTOTELE in Analitici secondi, libro I, cap. 3, 72 b. 57 WLnm-H, p. 129 [130]. 58 WLnm-K, p. 141. 59 WLnm-K, p. 143. Franz Bader in questa ricerca fichtiana, che tenta di “regredire all’originario” e di andare al principio primo, ha cercato di scorgere delle analogie sia con la ricerca filosofica di Platone che con quella di Aristotele: cfr. F. BADER, Zu Fichtes Lehre vom prädeliberativen Willen, 55

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fichtiana è di carattere protologico: tenta di “regredire all’originario”, di poter arrivare a dedurre il principio primo della coscienza, il necessario presupposto di tutta la sua attività sintetica. Il filosofo definisce il “volere puro” come “assoluta autonomia o libertà” (absolute Selbstheit, Autonomie, oder Freiheit): «ma cosa (was) esso sia rimane (das wirklich ist, bleibt) sempre al di là dei nostri limiti conoscitivi (immer unbegreiflich)60: «esso non è comprensibile nella nostra rappresentazione e nel nostro linguaggio (es ist in unserer Vorstellung und Sprache nicht zu fassen)»61. Il “volere puro” in sé rimane perciò per Fichte in A. MUES (hrg.), Transzendentalphilosophie als System. Die Auseinandersetzung zwischen 1794 und 1806, cit., in particolare pp. 218219. Secondo Bader il percorso argomentativo tramite il quale Fichte nella Nova methodo giunge a postulare il “volere puro” quale principio primo è simile a quello presentato da Platone nel Liside a proposito del “primo amico” (próton phílon): cfr. PLATONE, Liside, 217a - 220 b. Bader ha rilevato che sia in Platone che in Fichte si possono scorgere due ricerche dal carattere protologico. Secondo l’interprete il concetto fichtiano di volere puro può trovare delle analogie anche con la nozione di “intelletto attivo” (noûs poietikós) di cui parla Aristotele nel III libro del De anima: come il volere puro è l’inizio necessario della coscienza e il suo primum movens a livello di una pura razionalità, così il noûs poietikós è il «principio (arché)» (ARISTOTELE, De anima, III, 430 a 19) e «l’atto per essenza (ousía òn enérgheia)» della ragione. Il volere puro - così come Fichte lo determina nella Nova methodo e nella Bestimmung des Menschen - ha inoltre caratteristiche simili a quelle che Aristotele attribuisce al noûs poietikós: «quando è separato (choristhèis), è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (athánaton kai aídion), (ma questo non lo ricordiamo poiché quest’intelletto [l’intelletto attivo] è impassibile mentre l’intelletto passivo [che può essere visto in analogia al volere empirico di Fichte] è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi (kai áneu toútou outhèn noeî)» (ibidem, 430, a 24-25; tr. it. di G. Movia, Anima, Rusconi, Milano, 19982, p. 219). 60 WLnm-K, p. 230. 61 WLnm-K, p. 213.

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qualcosa di indeterminato: l’argomentazione filosofica può arrivare a dimostrare la necessità della sua esistenza ma non può spingersi a determinare compiutamente la sua essenza, che rimane una «Qualitas Occulta»62. Il concetto di volere puro è «il fondamento che spiega tutto il nostro pensiero (Erklärungsgrund unsers ganzen Denkens)»63: la sua presenza è, quindi, una ipotesi necessaria ma ciò nonostante rimane sempre una «semplice ipotesi (blosse Hypothese)»64. Il “volere puro” determina “il principio della coscienza” 65 ed è l’elemento che pone in essa un primato del pratico 66. In questo WLnm-H, p. 135 [136]. WLnm-H, p. 136 [136]. 64 WLnm-H, p. 135 [136]. 65 Ricordiamo che è Karl Leonhard Reinhold ad individuare il “principio della coscienza” (Satz des Bewusstseins) come principio fondamentale della filosofia: questo primo principio è la facoltà rappresentativa della coscienza; egli afferma: «la rappresentazione nella coscienza viene differenziata dal rappresentato [cioè dall’oggetto] e dal rappresentante [ovvero la coscienza soggettiva] e riferita ad entrambi» (K.L. REINHOLD, Beyträge zur Berichtigung bisheriger Missverständnisse der Philosophen, [edizione originale 1790-92], vol. I, Meiner, Hamburg, 2003, p. 99). Ciò significa che - secondo Reinhold - la rappresentazione dell’oggetto nella coscienza costituisce un’“unità-di-disgiunzione” tra il soggetto e l’oggetto. Per Fichte la posizione di Reinhold va integrata ponendo la volontà (empirica e pura) a fondamento della rappresentazione stessa: senza l’intervento della volontà, che è la genesi dell’attività conoscitiva, la rappresentazione non potrebbe costituirsi. 66 È stato rilevato che il «termine “pratico” è nella terminologia fichtiana uno dei meno chiari» (C. CESA, Sul concetto di «pratico», in IDEM, J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 101-121, p. 102). Effettivamente il termine potrebbe prestarsi ad equivoci: va quindi notato che con “filosofia pratica” Fichte non si riferisce alle definizioni tipiche della Schulphilosophie e di Christian Wolff. Quest’ultimo nel suo Discursus Praeliminaris de Philosophia in Genere [edizione originale 1728] al § 62 afferma che la praktische Philosophie è la «scienza della guida della facoltà di desiderare nella scelta del bene e nell’evitare il male (Praktische 62 63

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«volere originario, precedente ogni volere empirico»67 Fichte individua inoltre l’origine dell’io (Ursprung des Ich), la sua radice non temporale: «questo volere puro è il mio essere, ed il mio essere è il mio volere: entrambi sono una cosa sola e si costituiscono a vicenda. Non si può aggiungere nulla di più. Ciò l’abbiamo chiamata la realtà (la radice) originaria dell’io: poiché solo un volere e il puro volere son capaci di divenire oggetto immediato della coscienza. Questo puro volere deve avere perciò una realtà originaria (daher muss dieses reine Wollen urprüngliche Realität haben)»68; esso costituisce la radice non temporale (überzeitlich) e soprasensibile (übersinnlich) dell’io. La concezione fichtiana del volere ha esercitato una forte influenza anche sul suo giovane amico ed uditore Schelling. Nel Sistema dell’idealismo trascendentale Schelling, delineando le facoltà deputate alla conoscenza umana e alla prassi, individua nel volere l’autoderminazione stessa dell’intelligenza umana (Selbstbestimmung der Intelligenz), il vertice di una libera autointellezione trascendentale; egli distingue, quindi, un “volere Philosophie ist die Wissenschaft von der Leitung des Begehrungsvermögens bei der Erwählung des Guten und der Vermeidung des Schlechten)» (Ch. WOLFF, Einleitende Abhandlung über Philosophie im allgemein, hrg. von G. Gawlick und L. Kreimendahl, Frommann-Holzboog, Stuttgart - Bad Cannstatt 2006, p. 40 [tr. it. nostra]). Quando Fichte parla di una «parte pratica [della filosofia], che fonda e determina la teoretica» (GA, I, 2, p. 282) non intende riferirsi direttamente alla filosofia morale - o alle facoltà dell’io che presiedono alla scelta tra il bene e il male - bensì ai costitutivi pratici della coscienza: questi ultimi hanno un primato sulla teoresi, poiché in essi si ha l’origine e la genesi stessa del sapere teoretico, cioè della facoltà di rappresentare gli oggetti, il mondo dell’esperienza. Sono quindi i costitutivi pratici della coscienza [come ad esempio l’intuizione intellettuale, la riflessione, la posizione di scopo, l’immaginazione produttiva, il volere] a determinare la conoscenza, ovvero il passaggio dalla determinabilità alla determinazione. 67 WLnm-H, p. 155 [153]. 68 WLnm-H, p. 148 [146].

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empirico/determinato” da un “volere puro ed originario”: «l’autodeterminarsi dell’intelligenza si chiama volere […]. Si tratta non di un volere determinato (von einem bestimmten Wollen), nel quale si presenti il concetto di un oggetto, ma dell’autodeterminarsi trascendentale, dell’atto originario della libertà (von transzendentalen Selbstbestimmen, vom ursprünglichen Freiheitsakt)»69. In maniera simile a Fichte anche Schelling definisce il volere puro ed originario come la facoltà in grado di portare l’uomo alla piena consapevolezza della sua libertà e delle sue possibilità pratico-teoretiche: «se quell’autodeterminazione è il volere originario (das ursprüngliche Wollen), ne segue che l’intelligenza divenga oggetto a se stessa solamente tramite il medio del volere […]. Soltanto nel volere l’autointuizione dell’io [Fichte la chiamerebbe “intuizione intellettuale”] viene elevata a potenza superiore, perché per suo tramite l’io diviene oggetto a se medesimo come l’intero (das Ganze) di ciò che vale, vale a dire soggetto e oggetto insieme, ovvero come producente (als Produzierendes)»70. Notiamo, inoltre, che anche Schelling scorge nel “volere puro” il primum movens dell’attività coscienziale, il motore di tutte le facoltà, compreso il concetto di scopo (Begriff des Zwecks), la condizione di possibilità del libero arbitrio (Willkür) e, in ultima analisi, il motivo di spiegazione (Erklärungsgrund) dell’intera coscienza. Il “volere puro” è, quindi, – così Schelling – il «principio comune che riunisce la filosofia teoretica e la filosofia pratica»71, è l’essere originario (Ursein); tale principio è alla base dell’idealismo trascendentale, ovvero di una visione filosofica fondata sulla piena libertà ed autonomia dell’uomo. F.W.J. SCHELLING, System des transzendentalen Idealismus, J.G. Cotta’schen Buchhandlung, Tübingen, 1800; tr. it. di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, Rusconi, Milano, 1997, p. 407. 70 Ibidem, pp. 407-40971 Ibidem, p. 409. 69

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3.2. Verleiblichung, interpersonalità originaria e “sistema della libertà” Fichte afferma che «il corpo è la rappresentazione sensibile del nostro puro volere (der Leib ist sinnliche Darstellung unsers reinen Wollens)»72. Solamente tramite il corpo il “volere puro” può “sensibilizzarsi”, cioè incarnarsi, manifestarsi nella concretezza di un corpo vivente e di una coscienza individuale. Fichte sostiene che «il volere puro si può sensibilizzare tramite il pensiero»73, e il pensiero - a sua volta - per manifestarsi ha bisogno di un sostegno materiale: il corpo di ogni singolo individuo. Egli scorge, quindi, l’origine della conoscenza nell’atto della “sensibilizzazione” del volere puro: possiamo anche parlare di una sorta di kénosis, di una “incarnazione” (Verleiblichung) del volere puro - di un suo “abbassamento”74 - nell’individualità di un corpo e di una coscienza soggettiva. WLnm-H, p. 156 [154]. WLnm-K, p. 153. 74 Sul rapporto tra volontà e corporeità nel pensiero fichtiano cfr. R. KOTTMANN, Leiblichkeit und Wille in Fichtes “Wissenschaftslehre nova methodo”, Lit, Münster, 1998, in particolare il capitolo dal titolo Vom reinen Wille zum Leib, pp. 116-160. Si ricordi che il termine kénosis è tratto dal linguaggio della teologia cristiana (cfr. PAOLO DI TARSO, Lettera ai Filippesi, 2, 7) e designa l’incarnazione di Dio in Cristo: letteralmente significa “abbassamento” dell’eterno al piano dell’umano e della storia. A nostro parere si potrebbe anche parlare - per analogia - di una kénosis del volere puro nella singolarità degli individui. La Verleiblichung di cui parla Fichte nella Nova methodo potrebbe essere interpretata come una kénosis del volere puro nella corporeità (Leiblichkeit) di ogni essere razionale e libero (Vernunft- und Freiheitswesen). Condividiamo la tesi di Franz Bader, secondo la quale nella filosofia trascendentale di Fichte sarebbe contenuto in nuce - e persino chiarito sotto il profilo speculativo - il principio cristiano dell’incarnazione: la Verleiblichung potrebbe, infatti, costituire una 72 73

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Nella Nova methodo viene descritto «il processo secondo il quale il volere puro diviene empirico (wie wird das reine Wollen zum empirischen)»75: in questo processo - definibile come Empirisierung del volere puro - il corpo ha un ruolo fondamentale76. Il corpo permette infatti una Empirisierung, una “limitazione” (Beschränktheit) e quindi una Verleiblichung ed una schematizzazione stessa (Schematisierung) del volere puro: il corpo limita ed individualizza la sfera della pura razionalità che altrimenti resterebbe una massa priva di personalità individuale 77. spiegazione filosofica del principio dell’incarnazione (Inkarnationsprinzip), incarnazione che non riguarderebbe più solo il Gesù storico, ma ogni individuo razionale e libero, chiamato ad essere un alter Christus. Cfr. F. BADER, Systemidee und Interpersonalitätstheorie in Fichtes Wissenschaftslehre, in E. FUCHS, M. IVALDO, G. MORETTO (hrsg. von), Der transzendentalphilosophische Zugang zur Wirklichkeit. Beiträge aus der aktuellen Fichte-Forschung, Stuttgart - Bad Canstatt, Frommann-Holzboog, 2001, pp. 65-106; cfr. anche M. IVALDO, “Das Wort wird Fleisch”. Sittliche Inkarnation in Fichtes später Sittenlehre, in H.-G. VON MANZ und G. ZÖLLER (hrsg. von), Fichtes praktische Philosophie. Eine systematische Einführung, Olms, Hildesheim - Zürich - New York, 2006, pp. 175-198. 75 WLnm-K, p. 152. 76 Sul rapporto fondamentale tra volontà e corporeità nel pensiero fichtiano cfr. R. KOTTMANN, Leiblichkeit und Wille in Fichtes “Wissenschaftslehre nova methodo”, Lit, Münster, 1998, in particolare il capitolo dal titolo Vom reinen Wille zum Leib, pp. 116-160. 77 È nota l’affermazione di Fichte secondo la quale nel regno intelligibile della ragione l’individuo - cioè la singolarità individuale - deve scomparire: «la ragione è l’unico in sé, mentre l’individualità è soltanto accidentale. La personalità [...] è soltanto un modo particolare di esprimere la ragione, ed è destinata necessariamente a perdersi nella forma universale di essa. Per la dottrina della scienza soltanto la ragione è eterna, mentre l’individualità deve decadere incessantemente, fino a morire (die Individualität muss unaufhörlich absterben)» (SW, Vol. I, p. 505; tr. it. di C. Cesa, Prima e Seconda introduzione alla dottrina della scienza, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 87). Per questo dissolversi post mortem dell’individualità singola e concreta nella ragione universale, la posizione di Fichte è stata spesso anche

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Il volere puro in sé «è qualcosa di solamente intelligibile (ist etwas bloss intelligibiles)»78: è solo grazie al corpo che esso si può manifestare nel mondo dell’esperienza e si può individualizzare nel volere empirico di ogni singolo individuo. Fichte può, dunque, affermare che è per mezzo del corpo che «la mia individualità si tira fuori dalla massa dell’intero regno della ragione»79. Secondo Fichte il volere puro è anche il “sostrato” del «regno degli esseri razionali (Reich vernünftiger Wesen)»80, che costituisce il mondo intelligibile; di conseguenza, il volere puro può esser considerato come il fondamento trascendentale dell’intersoggettività, o meglio ancora - come sottolinea Reinhard Lauth - dell’interpersonalità81.

accusata di “averroismo”. Occorre tuttavia sottolineare che per Fichte «Dio è la ragione stessa» (GA, IV, 1, p. 446) e che lo sparire dell’individualità singola dal mondo sensibile potrebbe essere interpretato come una sorta di mistica théiosis: un “morire a sé stessi per perdersi in Dio”. 78 WLnm-K, p. 152. 79 WLnm-K, p. 179. In maniera simile a Fichte, anche Blondel afferma che il mondo esterno e il corpo stesso dell’uomo sono manifestazioni o realizzazioni della sua volontà; anche per il filosofo francese il mondo deve essere «il teatro della moralità dell’uomo» (M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris, 1893; tr. it. di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p.114. D’ora in poi faremo riferimento a quest’opera con la sigla ACT, seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana). 80 WLnm-K, p. 152. 81 Cfr. R. LAUTH, Le problème de l’interpersonnalité chez Fichte, «Archives de Philosophie», 3-4 (1962), pp. 325-344; IDEM, Das problem der Interpersonalität bei J.G. Fichte, in IDEM, Transzendentale Entwicklungslinien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski, Hamburg, Meiner, 1989, pp. 180-197.

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Sulla scorta delle riflessioni di Aldo Masullo, possiamo dire che in Fichte l’interpersonalità sia l’originario82: questo vuol dire che il mondo intelligibile - il regno degli esseri razionali e liberi (cioè l’interpersonalità originaria) - è costitutivo del mondo dell’esperienza ed ha su quest’ultimo un primato: «il mondo dell’esperienza viene costituito a partire dal mondo intelligibile, ed entrambi [mondo intelligibile e mondo materiale], non sono l’uno senza l’altro; essi sono in rapporto spirituale di determinazione reciproca (Wechselwirkung)»83. Nelle ultime pagine del § 13 della Nova methodo Fichte dichiara di voler arrivare con la speculazione là dove Kant si è arrestato; egli afferma di voler porre il regno degli esseri razionali come il fondamento trascendentale della coscienza soggettiva e dell’intero mondo sensibile: «da questo puro concetto [un regno degli esseri razionali] si può dedurre e deve essere dedotta l’intera coscienza (das gesamte Bewusstsein)»84. Se «Kant arriva al principio dell’ammissione degli esseri razionali fuori di noi non come fondamento della conoscenza (Erkenntnissgrund), ma solo come 82

Cfr. A. MASULLO, Fichte. L’intersoggettività e l’originario, Napoli, Guida, 1986. Nelle pagine finali del § 13 della Nova methodo Fichte chiarisce inoltre che l’io puro di cui parlava nel Fondamento del 1794-95 «è l’intelligibile, [...] - senza spazio e materia -, è un qualcosa di puramente spirituale (das Ich ist [...] das Intelligibile, - ohne Raum und Materie - rein geistig)» (WLnm-H, p. 141 [140]), è ciò che Kant definisce come mondo noumenico; possiamo quindi dire che l’io individuale - in quanto essere libero e razionale - appartenga costitutivamente a questo mondo noumenico rappresentato dall’io puro, che è interpersonalità originaria. In Fichte l’io individuale trova il suo fondamento nel mondo intelligibile, sorgente spirituale di un’originaria connessione delle persone; «in Fichte l’intersoggettività è l’interna struttura della ragione» (H.-J. VERWEYEN, Recht und Sittlichkeit in J.G. Fichtes Gesellschaftslehre, Alber, FreiburgMünchen, 1975, p. 34 [tr. it. nostra]. 83 WLnm-K, p. 151. 84 WLnm-K, p. 151.

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principio morale (praktisches Prinzip)»85, Fichte intende porre il mondo intelligibile - cioè «la massa, la sfera dello spirituale (Masse, Sphäre des Geistigen)»86 - a fondamento della conoscenza dell’intero sistema dell’esperienza. Possiamo dire che, delineando il concetto di volere puro, Fichte porti a compimento il suo sistema di filosofia trascendentale, che così egli lo definisce - è “sistema della libertà”87. Nel § 13 della Nova methodo il volere puro - che è libertà originaria - è posto a fondamento della coscienza e della libertà umana ed è perciò il presupposto che garantisce la fondazione della filosofia trascendentale come “sistema degli esseri razionali e liberi”, come “scienza della libertà”. «Tutta la ragione è libertà»88 - afferma Fichte - ed il volere puro costituisce l’essenza stessa della ragione, il fondamento di quel regno intelligibile che è interpersonalità originaria. Alcuni storici della filosofia hanno scorto nel pensiero moderno una graduale riduzione dell’esse al velle, mettendo in rilievo il filo rosso che collega le posizioni di Leibniz, Kant, Fichte e Schelling, WLnm-K, p. 150. WLnm-H, p. 141 [140]. 87 Sulla visione fichtiana del System der Feiheit ci permettiamo di rinviare al nostro volume I fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico, Editori Riuniti University Press, Roma, 2012; circa la posizione di Fichte in relazione al problema del rapporto determinismo/libertà tipico del pensiero moderno, cfr. M. MORI, Fichte: dalla libertà trascendentale alla libertà dell’assoluto, in IDEM, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 53-58; IDEM, Nascita e morte della libertà trascendentale, in M. DE CARO – M. MORI – E. SPINELLI, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma, 2014, pp. 285-304; sul pensiero fichtiano come “ontologia della prassi” fondata sulla libertà si è soffermato anche D. FUSARO, Il “sistema della libertà” di Fichte. La dottrina della scienza come ontologia della prassi, in C. TUGNOLI, Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà, Liguori Editore, Napoli, 2014, pp. 253-272. 88 GA, IV, 1, p. 248. 85 86

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portate alle estreme conseguenze da Schopenhauer e da Nietzsche. È noto come quest’ultimo individui nella “volontà di potenza” l’esito ultimo della metafisica occidentale. A questo proposito riportiamo le parole di Sergio Cialdi che delineano con efficacia tale quadro storiografico-teoretico e non nascondono i pericoli nichilistici di una totale riduzione della sfera dell’essere a quella del volere: «La dottrina leibniziana della monade come unità percettiva e appetitiva è stata ripresa da Kant e da Fichte come volontà razionale (Vernunftwille), sviluppata poi da Schelling e da Hegel ciascuno in modo particolare e portata alle estreme conseguenze da Schopenhauer che presenta il mondo come volontà e rappresentazione, nonché da Nietzsche che afferma l’uomo come primordiale volontà di potenza, onde la concezione del suo superuomo. La volontà non appare più come una particolare facoltà del soggetto, ma il volere designa l’essere nella sua essenza e nella sua totalità. Ogni ente ha il potere della propria volontà e si riduce a capacità di volere. La metafisica moderna conclude che l’essenza di ogni essere è volontà; quindi in definitiva non c’è altro che il volere. Lo spirito appare come volontà cosciente e autocreatrice. Del resto per Schelling il volere è l’essere originario (Ursein), e al volere convengono tutti i predicati dell’essere: eternità, indipendenza dal tempo, incausalità, autoaffermazione. In ultima analisi ogni essere non vuole che la realizzazione di se stesso. […]. Non ci si è accorti che la riduzione dell’esse al velle, rappresentando la nientificazione dell’essere, giustifica ogni atto»89. Cialdi sottolinea giustamente che l’estrema conseguenza di tale “volontarismo totalizzante” tipico del pensiero moderno, almeno nei suoi esiti più estremi, conduce l’uomo ad autodivinizzarsi,

S. CIALDI, I precursori di Maurice Blondel, in IDEM, Genesi e sviluppo della filosofia di Maurice Blondel, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 1-21, p. 7.

89

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ovvero a trasferire a sé tutti gli attributi di Dio, nell’illusoria pretesa che la sua potenza sia onnipotenza.

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4. «Liber sum, ergo cogito»: motivi fichtiani nella filosofia francese dell’Ottocento e nei primi scritti di Blondel Nella cultura francese dell’Ottocento il pensiero di Fichte ha conosciuto una discreta ricezione, soprattutto presso autori che richiamandosi al cogito cartesiano hanno elaborano filosofie di carattere spiritualistico. Ciò che generalmente caratterizza tali prospettive è stato lo stretto legame istituito tra psicologia e metafisica, nonché l’accentuazione del ruolo ontologico e conoscitivo della volontà. Come è stato accennato nel precedente capitolo, già nei primi anni dell’Ottocento Maine di Biran, talvolta definito anche “il Fichte francese”, propone una filosofia incentrata sul «fatto primitivo del senso intimo (le fait primitif du sens intime)»90. Egli riconfigura il cogito cartesiano come “atto volitivo”, conatus, sforzo (effort) e activité motrice, ovvero “libera causalità”; la soggettività viene qualificata da Biran come F.-P. MAINE DE BIRAN, Essai sur les fondements de la psychologie et sur ses rapports avec l’étude de la nature, [opera scritta nel 1812, ma pubblicata nel 1859], in Oeuvres de Maine de Biran, accompagnées de notes et d’appendices, publiées par P. Tisserand, Alcan, Paris, 1920-1949, vol. VIII, p. 129. Sugli aspetti storiografici della ricezione di Fichte nella Francia dell’Ottocento (anche presso storici della filosofia come JosephMarie Degérando) ci permettiamo di rinviare al nostro saggio Determinismus der Natur und Freiheit des Geistes. Die Rezeption J.G. Fichtes bei den Ursprüngen des französischen Spiritualismus, in H. GIRNDT (a cura di), „Natur“ in der Transzendentalphilosophie. Eine Tagung zum Gedenken an Reinhard Lauth, Band II, Duncker & Humblot, Berlin, 2015, pp. 373-406; cfr. anche I. RADRIZZANI, Maine de Biran: un “Fichte français”?, in Fichte et la France, Sous la direction de I. Radrizzani, Tome I, Beauschesne, Paris, 1997, pp. 107-139. 90

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un “forza volente”: nei suoi scritti «la coscienza di sé si definisce come atto volitivo (effort), che è il principio causativo dell’io. Egli passa dalla psicologia alla metafisica, conferendo all’esperienza interna una validità assoluta, facendo del senso intimo il principio di causalità; lo sforzo si identifica con la libertà come sentimento dell’attività dell’uomo»91. Il cogito ergo sum di Cartesio viene ripreso da Biran nei termini di un volo ergo cogito, ergo sum: siamo in presenza di una concezione volontaristica della persona umana che mostra notevoli affinità con quella fichtiana e che sarà ampiamente recepita dal giovane Blondel. Anche in Jules Lequier troviamo un esplicito richiamo a Fichte nella problematizzazione della libertà. Come abbiamo già messo in rilievo nel prcedente capitolo, il filosofo bretone, richiamandosi ai motivi teoretici della fichtiana Bestimmung des Menschen, elabora una complessa prospettiva volta alla confutazione del determinismo naturalistico ed affermante il carattere fondativo della libertà. In maniera simile a Fichte e a Blondel, Lequier fa emergere il “pericolo morale” di un mondo interamente sottoposto alle leggi newtoniane di causa/effetto: se nella realtà regnasse solo la necessità deterministica, non avrebbe più senso parlare di morale, di responsabilità e di fini etici: «la nécessité n’est que l’ensemble des lois qui régissent des choses. [...] Si la doctrine de la nécessité est vrai, dira-t-on, considérez-en les conséquences. Il n’y a plus ni bien ni mal, dont l’homme puisse être responsable»92. Nella sua opera principale, la Recherche d’une première vérité (edita postuma nel 1865), Lequier sostiene che la S. CIALDI, I precursori di Maurice Blondel, in IDEM, Genesi e sviluppo della filosofia di Maurice Blondel, cit., p. 10. 92 J. LEQUIER, Conséquences du déterminisme: scepticisme et panthéisme, in IDEM, Oeuvres complètes, publiées par J. Grenier, Édition de la Barconnière, Neuchâtel, 1952, pp. 366-367. Una traduzione italiana dei frammenti Consequenze del determinismo compare nella sezione antologica del volume di P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, Studium, Roma, 1998, pp. 121-136. 91

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libertà umana è principium scientiae, è l’evidenza logica originaria da sostenere ed affermare come condizione di possibilità dell’humanum, dell’intera sfera spirituale: «liber sum, ergo cogito, ergo sum». La prima evidenza non è il cogito, come sosteneva Cartesio, ma è la libertà che consente l’esercizio stesso del pensiero e dei suoi atti: in questa prospettiva, il cogito è concepito come un’attività resa possibile dal fatto originario della libertà. Come sostenuto anche da Fichte, la libertà viene intesa come interruzione della serie causale delle leggi di natura. Nell’uomo opera una “libera causalità” che è produttrice in un novum irriducibile alle leggi della fisica o a semplici meccanismi psicologici93. In Lequier non si può non avvertire un’anticipazione della tema sartriano dell’esistenza come pura possibilità. Tuttavia in Lequier - differentemente che in Sartre - l’intuizione della propria insopprimibile libertà è tutt’altro che un’esperienza negativa: come è noto, Sartre parla di una “condanna alla libertà” all’interno una realtà dove “tutte le scelte si equivalgono”. La libertà per Lequier - come per Fichte e Blondel, ma lo stesso vale anche per Mounier e Ricoeur – è, invece, il fondamento della conoscenza e di un ordine assiologico, conferisce autonomia e dignità alla persona umana, è produttrice di una feconda creatività interiore: nell’esercizio della libertà l’uomo trova lo statuto ontologico di «essere-per-la-nascita»94. La presenza della libertà Sul problema epistemologico della “causalità” della mente umana – la potenzialità definita da Kant e Fichte come freie Wirksamkeit – si veda l’aggiornato contributo di D. KUTACH, Mental Causation, in IDEM, Causation, Polity Press, Cambridge UK – Malden USA, 2014, pp. 141-159. Sulla philosophie de l’action del filosofo bretone cfr. X. TILLETTE, Jules Lequier ou le tourment de la liberté, Desclée de Brouwer, Paris-Bruges 1964; P. PAGANI, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, FrancoAngeli, Milano, 2000. 94 «Essere-per-la-nascita» è una felice espressione di Hannah Arendt, per la quale l’azione libera costituisce una “seconda nascita”, generando la 93

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è, inoltre, per questi filosofi una verità originaria che fonda la possibilità stessa della fede religiosa. La formazione intellettuale di Blondel avviene in questo clima di rinascita spiritualistica teso all’edificazione di “filosofie della libertà” avverse al determinismo positivistico, all’epoca imperante negli ambienti accademici francesi ed europei. Oltre Biran e Lequier, gli altri rappresentanti di tale tendenza spiritualistica sono Secrétan, Ravaisson, Lachelier, Renouvier, Bergson, Boutroux e Ollé-Laprune. Questi ultimi due sono stati maestri di Blondel all’École Normale di Parigi ed hanno notevolmente contribuito alla formazione blodeliana. In particolare, da Léon Ollé-Laprune il Blondel eredita l’interesse per la vita concreta e la propensione per una concezione attivistica dell’interiorità. In Ollé-Laprune e in Blondel la stessa conoscenza diviene un atto volontario; è l’interesse che fa compiere allo spirito la scelta: «giudicare è volere, scegliere è volere». Dal suo maestro Blondel riprende, inoltre, la distinzione tra “certezza astratta”, prodotta dall’intelletto, e “certezza morale”, prodotta dalla volontà. Tale certitude morale è la fonte primaria dalla quale possiamo attingere le verità filosofiche essenziali: la legge morale, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Per mezzo della certezza morale - afferma Ollé-Laprune - «io vado oltre ciò che appare, ed affermo ciò che è. […] È assai meglio della conclusione certa di un ragionamento legittimo: è un contatto, […] un atto dell’anima […] che aggiunge alla conoscenza produzione di un novum. Sulle molteplici declinazioni del concetto antropologico di «essere-per-la-nascita», contrapposto dalla Arendt all’heideggeriano dell’«essere-per-la-morte», cfr. H. ARENDT, The human condition, University of Chicago, Chicago, 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1989. Sulla visione dell’uomo come «essere-per-la-nascita», connessa alla categoria antropologica di «inizialità», si veda anche R. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano, 2009.

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propriamente detta un indispensabile sovrappiù»95: si tratta di una «certezza vivente, certezza d’anima, fatta di sentimento, di percezione, di ragione, ed infine di fiducia e di fede»96. L’organo epistemologico della “certezza morale” è l’attestazione (attestation): quest’ultima – come ha sottolineato anche Paul Ricoeur – «si oppone, fondamentalmente, alla nozione di epistéme, di scienza, considerata quale sapere ultimo e autofondante»97, rimanendo, quindi, estranea «al criterio di verificazione peculiare dei saperi oggettivi»98; l’attestazione si qualifica come una “testimonianza interiore” produttrice di “certezza morale”; essa è certamente capace di orientare l’esistenza e di indicare una prospettiva di senso metafisico, ma lo stesso Ricoeur non nasconde i possibili esiti soggettivistici e la sua fragilità teoretica, una sorta di «mancanza di fondazione»99. Tuttavia, secondo Ollé-Laprune la filosofia non può fare a meno della “certezza morale”: quest’ultima costituisce un necessario ampliamento degli orizzonti della ragione, un aumento del sapere in grado di orientare il senso intero dell’esistenza. Questa nozione di “certezza morale” trova i suoi antecedenti nella moralische Gewissheit di cui parla Kant, nel Glaube di Jacobi, nel primato fichtiano della ragione pratica e soprattutto nel concetto di “senso

L. OLLÉ-LAPRUNE, De la certitude morale, Belin, Paris 1880; tr. it. (parziale) in R. Crippa (a cura di), Ollé-Laprune, La Scuola, Brescia, 1948, p. 66. 96 Ibidem, p. 68. Al pensiero del suo maestro Blondel dedicò un importante scritto: M. BLONDEL, Léon Ollé-Laprune. L'achèvement et l'avenir de son oeuvre, [prima esizione 1899], Bloud & Gay, Paris, 1923. 97 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 97. 98 Ibidem, p. 98. 99 Ibidem. p. 99. 95

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illativo” elaborato da John Henry Newman nella Grammatica dell’assenso100. Blondel non dedica particolari studi al pensiero di Fichte. Egli rimane critico nei confronti delle astrattezze trascendentali ed arriva a parlare di una “illusione idealistica”101. Tuttavia la filosofia blondeliana è ricca di motivi tipicamente fichtiani, in particolare del primo Fichte attento alle dinamiche concrete della vita coscienziale. Come hanno sottolineato anche Luigi Stefanini, John J. McNeill ed altri più recenti interpreti, tali motivi fichtiani sono chiaramente rinvenibili già dall’Action del 1893, la sua tesi di dottorato102. I temi fichtiani già presenti nel primo Blondel sono in particolare: la ricerca del superamento del determinismo, il ruolo centrale e costitutivo conferito alla soggettività agente (ciò che i filosofi analitici chiamerebbero human agency), la filosofia come riflessione sulle dinamiche della coscienza, la funzione determinante della volontà nel processo conoscitivo, una filosofia tesa a divenire “scienza della prassi” basata sul primato della A questo proposito ci limitiamo a segnalare A. RIGOBELLO, Certezza morale ed esperienza religiosa, LEV, Roma, 1984. 101 Cfr. M. BLONDEL, L’illusion idéaliste, «Revue de Métaphysique et de Morale», novembre 1898, pp. 726-745. 102 Cfr. IDEM, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris, 1893; tr. it. di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pp. 76-77. D’ora in poi facciamo riferimento a quest’opera con la sigla ACT, seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana. Sulla formazione della blondeliana philosophie de l’action si vedano L. STEFANINI, L’azione. Saggio critico sulla filosofia di M. Blondel, Dante Alighieri, Roma, 1915; J. J. MCNEILL, The Blondelian Synthesis. A Study of the Influence of German Philosophical Sources on the Formation of Blondel’s Method and Thought, Brill, Leiden, 1966 ; S. NICOLOSI, L’Odissea della ragione. Il primo Blondel e l’itinerario della filosofia, Borla, Roma, 1984; G. BIANCHI, La ragione credibile. Soggetto e azione in Maurice Blondel, Jaca Book, Milano, 2009. 100

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ragion pratica. In generale, Blondel ama poco citare gli autori ai quali fa comunque riferimento: egli è più interessato al rigore argomentativo del discorso che alla ricostruzione storiografica. Tuttavia, possiamo dire che conoscesse abbastanza bene alcuni aspetti del pensiero fichtiano sia tramite gli autori francesi dell’Ottocento prima menzionati103, sia tramite i lavori di storici della filosofia a lui molto vicini: ci riferiamo in particolare a Xavier Léon (autore di una monumentale opera dal titolo Fichte et son Temps) e Victor Delbos, con i quali intratteneva rapporti di stretta amicizia e collaborazione. In particolare, Delbos fu suo compagno di studi alla École Normale e con lui frequentò il corso monografico tenuto da Émile Boutroux nell’anno accademico 1882-1883 sul pensiero di Kant e la filosofia idealistica postkantiana104. Dai pochi passi dei Carnetns Intimes nei quali Blondel cita espressamente Fichte, si comprende che la sua interpretazione del filosofo tedesco è filtrata attraverso le ricostruzioni storiografiche di Delbos: in particolare, Blondel fa Nella biblioteca universitaria di Aix-en-Provence, sede accademica di Blondel, erano disponibili anche importanti traduzioni francesi delle opere fichtiane: La destination de l'homme, tradotta da Barchou de Penhoën nel 1832; La destination de l'homme de lettres, pubblicata da Michel Nicolas nel 1838; Doctrine de la science: principes fondamentaux de la science de la connaissance, edita da Paul Grimblot nel 1843; Méthode pour arriver a la vie bienheureuse, traduzione curata da Marie-Nicolas Bouillet nel 1845; Considérations destinées à rectifier les jugements du public sur la Révolution française, tradotta da Jules Barni nel 1858. Riguardo l’influsso del pensiero fichtiano sul giovane Blondel si veda, in particolare, J. J. MCNEILL, The Influece of Fichte – Sources of Blondel’s Knowledge of Fichte, in IDEM, The Blondelian Synthesis. A Study of the Influence of German Philosophical Sources on the Formation of Blondel’s Method and Thought, Brill, Leiden, 1966, pp. 110-117. 104 Lo stesso Delbos conosceva bene il pensiero di Blondel; lo fece analizzare anche in una dissertazione di cui fu relatore: cfr. V. DELBOS, Prefazione alla tesi di M.T. CREMEZ, Le problème religieux dans la philosophie de «L’action», Paris, 1912. 103

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sua la distinzione – proposta da Delbos – tra il “Fichte di Jena”, teorico di un idealismo soggettivo tendente a trasformare la sostanza (l’ousìa aristotelica) in azione, e il “Fichte di Berlino”, che «propende per un ritorno all’ontologismo spinoziano»105. In maniera simile a Delbos, anche Blondel nei Carnets critica «la misteriosa deduzione»106 della volontà presente nelle prime esposizioni della Dottrina della scienza; egli mostra, inoltre, delle riserve nei confronti del “Fichte di Berlino”, nel quale, così egli afferma, «al di là della metafisica del dovere morale troviamo restaurata una metafisica dell’essere e della vita»107. Blondel ha in comune con Fichte lo studio di due figure fondamentali di riferimento del mondo moderno: Cartesio e Leibniz. Su questa considerazione vale la pena soffermarsi. Blondel e Fichte riprendono i motivi teoretici del Cartesio “apologeta della libertà”. Essi rileggono il cogito cartesiano non solamente come un atto teoretico ma è anche e soprattutto un atto di libero volere. Nelle loro riflessioni la libertà diviene il fondamento stesso del cogito, dell’autoriflessione epistemologica. In maniera simile a Blondel, anche Reinhard Lauth ha sostenuto che in Cartesio è possibile scorgere una fondamentale costituzione pratica dell’esperienza, una costituzione/formazione (Bildung) fondata sul cogito quale voluntas-in-actu: in questa luce interpretativa, il cogito cartesiano sarebbe una sorta di fichtiana Tathandlung, una “azione-in-atto” dell’io, una libera riflessione del soggetto sui propri atti coscienziali. Nel sostenere tali ipotesi interpretativa, sia Blondel che Lauth si richiamano in particolare a V. DELBOS, Le problème moral dans la philosophie de Spinoza et dans l’histoire du Spinozisme, prima edizione: Alcan, Paris, 1893, p. 267; seconda edizione: Olms, Hidlesheim, 19882. 106 M. BLONDEL, Carnets Intimes (1883-1884), Cerf, Paris, 1961, p. 195. 107 M. BLONDEL, L’une des sources de la pensée moderne: l’évolution du Spinozisme, «Annales de Philosophie Chrétienne», II (1984), pp. 324-341, p. 325. 105

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due passi dell’opus cartesiano nei quali viene accentuato il ruolo epistemologico del volere. In primo luogo si soffermano sul valore speculativo dell’espressione «iudicium est opus voluntatis» che compare in una lettera a Frans Burnam108, in secondo luogo ricordano che nei Principes de la Philosophie viene presentato un intero paragrafo nel quale l’autore sottolinea «que la volonté, aussi bien que l’entendement, est requise pour juger»109. In larga misura, Blondel condividerebbe le parole di Lauth per il quale «nessuno ha compreso l’essenza e la funzione della libertà così profondamente come Cartesio […]. Riguardo al suo principio fondamentale, il cogito, Cartesio avrebbe potuto dire insieme a Fichte: la mia filosofia è dall’inizio alla fine una analisi della libertà, e all’interno di essa ciò non può essere contraddetto. L’essenza fondamentale del cogito è la libera autodeterminazione. […] Cartesio ha fornito i princìpi più importanti per la realizzazione di tale sistema [della libertà], ma non riuscì egli stesso a portarlo a compimento. Altri dopo di lui, come Kant, Reinhold, Fichte, per nominare solo questi, hanno condotto a termine ciò che Cartesio aveva delineato, la maggior parte di loro senza sapere di essere in debito nei suoi confronti»110. Tuttavia occorre sottolineare che Blondel scorge in Cartesio non tanto un filosofo trascendentale ante litteram, bensì l’iniziatore di una linea di pensiero dal carattere spiritualistico, fondata sulla libertà dell’esprit ed avente degli esiti marcatamente teologici111. Leibniz è l’altro grande autore moderno al quale sia Fichte che Blondel fanno riferimento. Da Leibniz essi riprendono la visione Oeuvres de Descartes, edite da C. Adam e P. Tannery, Cerf, Paris 18971913; Vrin, Paris, 1964-1974, vol. V, p. 159. 109 R. DESCARTES, Principes I, par. 34, AT-2, p. 39: «per giudicare è richiesta la volontà così come l’intelletto». 110 R. LAUTH, L’idea cartesiana della filosofia come sistema in sé aperto, «Annuario filosofico», 13 (1997), pp. 47-57, p. 51. 111 Cfr. M. BLONDEL, Le christianisme de Descartes, «Revue de Métaphysique et de Morale», novembre 1898, pp. 551-567. 108

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dell’ente-monade come centro propulsivo, virtualità ed enérgheia, come attività e forza (Tätigkeit e Kraft nel linguaggio fichtiano). Fichte e Blondel riprendono l’adagio scolastico secondo il quale «omne ens est activum» e si richiamano all’espressione leibniziana per la quale «l’agire è il carattere essenziale di ogni sostanza»112. In particolare, Blondel riprende e rielabora l’idea leibniziana del vinculum substantiale: quest’ultima è la visione un profondo legame che unifica tutta la sfera dell’essere, pur nella distinzione di funzioni e di piani dei singoli enti. Come ha ben sottolineato anche Ilaria Malaguti, sulla scorta del pensiero di Leibniz «Blondel riconosce nell’universo una solidarietà, una interdipendenza unica e totale che impedisce di contrapporre il pensiero quale attività del soggetto riflettente al mondo inteso come oggettiva fattività».113 5. “Logica dell’azione” e “antropologia della sproporzione”: le dinamiche della volontà in Blondel 112 G.W. VON LEIBNIZ, Specimen Dynamicus, in IDEM, Matematische Schriften, a cura di Gerhard, Berlin, 1849, p. 235. La formazione filosofica di Fichte avviene in un clima speculativo permeato dal pensiero di Leibniz; è inoltre da ricordare che Fichte negli anni del suo insegnamento a Jena tenne dei corsi sui Philosophische Aphorismen del leibniziano Ernst Platner. Sulla presenza del pensiero leibniziano in Fichte cfr. M. IVALDO, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Guerini e Associati, Milano, 2000. 113 I. MALAGUTI, Per un’«ontologia drammatica»; la normativa del pensiero di Maurice Blondel, Il Poligrafo, Padova, 2004, p. 15. Il giovane Blondel studia a fondo il pensiero leibniziano e nel 1893, contemporaneamente a l’Action, dà alle stampe un’importante opera in latino: De vinculo substantiali et de substantia composita apud Leibnitium, Alcan, Paris 1893. Sulla concezione leibnizana del “vincolo sostanziale” cfr. B. LOOK, Leibniz and the “vinculum substantiale”, Steiner, Stuttgart, 1999.

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Veniamo ora al nucleo centrale e più fecondo della filosofia blondeliana: le sue considerazioni sul valore fondamentale dell’azione umana. Egli sottolinea giustamente che quella dell’azione «non è una questione particolare, una questione come un’altra. È la questione. […] Si tratta di tutto l’uomo. […] Bisogna trasferire nell’azione il centro della filosofia, perché là si trova anche il centro della vita»114. L’azione costituisce la sintesi tra il pensiero e l’essere: il pensiero si esteriorizza nella prassi e tramite quest’ultima l’uomo riforma, trasforma e costruisce l’essere stesso. L’azione non abolisce il pensiero, ma lo include in una prospettiva superiore e lo potenzia. In maniera simile a Fichte e a Biran, Blondel sostiene che già l’esercizio del pensiero è un’attività, una azione interiore, una ἐνέργεια. A suo parere conoscenza e azione non possono essere mai completamente disgiunte, queste si fondono nell’unità attiva e produttiva della vita spirituale: «io considero impossibile e illegittimo» – sostiene il Nostro – isolare l’intelletto speculativo e astrattamente teorico, separare il ruolo conoscitivo e il ruolo attivo dello spirito, dividere con nettezza artificiale l’aspetto logico dall’aspetto morale o religioso entro l’unità vivente di uno stesso destino umano»115. Blondel afferma, inoltre, che la “logica della vita morale” supera ed integra i risultati della “logica dei concetti”: mentre sul puro piano logico o astratto i rapporti tra i possibili sono o di convenienza o di esclusione reciproca, sul piano dell’azione i possibili, che si escludono come concetti, si integrano in maniera più profonda. Nell’azione i contenuti della logica formale si pongono in una sintesi dinamica che rende possibile persino una coincidentia oppositorum. Questo ragionamento di Blondel mostra notevoli affinità con la visione della logica hegeliana: la vita dello Spirito (Geist) per Hegel costituisce un inveramento ed ACT, pp. 76-77. Lettera ad Enrico Castelli, data 8 dicembre 1924, riportata in PE, pp. 3742 , p. 38-39.

114 115

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un superamento stesso (Aufhebung) della logica formale di matrice aristotelica. In una lettera del 1924 ad Enrico Castelli il Blodel chiarifica con queste parole il suo intento originario: «Il mio primo disegno è stato quello di raffinare ed estendere la logica: senza attenuarne minimamente il rigore, ho voluto renderne manifesto tutto il ruolo e tutta la portata. Troppo spesso si è guardato alla logica come a una sorta di canone esterno, a ciò che deve servire a giudicare e regolare; è, questa, una concezione assai incompleta. La logica, infatti, non solo regola ciò che la nostra riflessione scientifica può mettere “in forma”, ma deve applicarsi (e, di fatto, si applica), con plastica esattezza, a tutto l’ordine effettivo del pensiero e dell’azione. Da essa dipende “l’esprit de finesse et de conduite” non meno de “l’esprit de géometrie”»116. Dunque, secondo Blondel, il pensiero è già azione e nell’azione l’uomo determina il reale, lo costruisce e lo modifica. È tramite l’azione che viene costruito l’intero regno dello spirito, il mondo della cultura e di tutti i costrutti umani: l’azione si esteriorizza, si realizza, si fa persona, famiglia, società e Stato. Tuttavia tali costrutti sono spinti da un bisogno più profondo e sempre soggiacente: la vocazione religiosa, il desiderio di infinito. Giungiamo così al cuore della filosofia blodeliana dell’azione: la dialettica tra “volontà volente” e “volontà voluta”, l’azione intesa come il luogo rivelativo della trascendenza. Sotto il profilo speculativo le pagine più originali ed incisive de l’Action si trovano nella parte IV, dedicata all’«unico necessario», ovvero all’«inevitabile trascendenza dell’azione umana». In queste pagine l’argomentare blondeliano giunge a delle vette di contemplazione mistica, pur senza abbandonare il rigore logico. Egli parte dalla constatazione che costituisce il filo rosso dell’opera: tutta la vita umana si dispiega come azione scaturita dalla volontà. Egli sottolinea che l’azione è sempre il prodotto di 116

Ibidem, p. 37.

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una dialettica tra la “volontà volente”, ossia il desiderio di una perfetta realizzazione, e la “volontà voluta”, ossia ciò che si riesce concretamente a realizzare. Tra le due volontà sussiste sempre un contrasto, una sproporzione: nell’azione non ci riesce mai a realizzare completamente ciò che veramente si desidera. «Agendo» - afferma il filosofo - «scopriamo in noi una sproporzione infinita, siamo costretti a cercare all’infinito l’equazione della nostra azione»117. La vita umana viene descritta come un continuo sforzo (Fichte direbbe Streben) per conseguire l’idea di infinito che è in noi e che muove ogni nostro agire: tuttavia in statu vitae l’uomo non riesce mai a conseguire le désir de perfection che soggiace all’agire e che determina tutte le dinamiche della volontà: «In quello che si fa, nella vita dei sensi, nei suoi atti e nei piaceri che gode, l’uomo avverte al tempo stesso una singolare indigenza e una più stupefacente pienezza»118. Il perenne contrasto tra “volontaà volente” e “volontà voluta”, che è poi il contrasto tra l’ideale e il reale, fa sì che l’uomo rimanga sempre in uno stato di inappagatezza e di inquietudine: Blondel riprende ed eleva ad una più solida teoresi le dinamiche dell’éros platonico e dell’inquietudo agostinana: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te»119. Egli fa sua e rielabora anche l’espressione pascaliana per la quale «l’homme passe infinement l’homme»120: siamo innanzi ad una “antropologia della sproporzione” dal carattere chiaramente platonico, agostiniano e pascaliano. Analizzando il meccanismo della vita interiore Blondel rinviene una costante sproporzione tra “volontà volente” (quod procedit ex voluntate) e “volontà voluta” (quod voluntatis objectum fit): tale sproporzione costituisce il trascendentale della ACT, p. 453. Ibidem, p. 446. 119 AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, I, 1,1. 120 B. PASCAL, Pensées, Édition Brunschvicg, 434. 117 118

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condizione umana, ciò che è presente in ogni atto, anche quello apparentemente più insignificante. La condizione umana è perciò caratterizzata da un duplice atteggiamento spirituale: “inquietudine esistenziale” e “tranquillità metafisica”: «un’inquietudine, un aspirazione naturale verso il meglio, il sentimento di un ruolo da assolvere, la ricerca del senso della vita: ecco, tutto questo segna con un’impronta necessaria la condotta umana. Qualunque risposta si dia, il problema si pone. L’uomo annette sempre ai suoi atti questo carattere di trascendenza, per quanto se ne renda conto solo oscuramente. Quello che fa non lo fa mai tanto per fare. Qui dunque abbiamo a che fare col principio che anima tutto il movimento della vita in noi»121. Nell’azione si manifesta una sorta di “estraneità interiore”: sentiamo che ciò che vogliamo effettivamente ci oltrepassa sempre e rimane in ogni caso irrealizzato; in noi rimane sempre «qualcosa da conquistare […], siamo ancora, per una parte e per la migliore, stranieri a noi stranieri»122. Rimanendo nell’ordine naturale ogni azione è destinata costitutivamente allo scacco e al fallimento; l’uomo vorrebbe bastare a se stesso, ma non può: «L’uomo pretendeva regolare le sue cose da solo, e trovare nell’ordine naturale la sua sufficienza e il suo tutto: non ci riesce; non riesce a fermarsi né a procedere innanzi»123. È a questo punto che Blondel introduce la necessità di un passaggio dall’ordine naturale al soprannaturale. Si tratta di un itinerarium voluntatis ad Deum, di una regressione fenomenologica all’originario, ovvero all’idea di infinito che è in noi. Siamo, quindi, giunti alla soglia di quell’unum necessarium che determina tutte le dinamiche della volontà e della libertà: si tratta della “necessità assoluta del necessario”, ossia l’idea di Dio che opera in noi. Blondel riprende l’argomento ontologico di ACT, p. 455. Ibidem. 123 Ibidem. 121 122

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Sant’Anselmo, trasponendolo però nel movimento integrale della vita e utilizzando il cosiddetto “metodo dell’immanenza”: «per raggiungere l’unico necessario noi non lo cogliamo in lui stesso, ma partiamo da lui presente in noi»124. Nella dimostrazione dell’esistenza di Dio egli non rifiuta le prove a posteriori (le 5 vie di San Tommaso), ma preferisce piuttosto concentrarsi sulle dinamiche della coscienza. A partire dalla condizione di indigenza della natura umana egli arriva ad inferire l’esigenza del soprannaturale, non tanto di una astratta metafisica quanto di un Dio dai caratteri trascendenti e personali. Per Blondel l’idea Dei è una sorta di una luce interiore, inoggettivabile e di cui spesso non siamo consapevoli, che determina però la finalità intenzionale di ogni nostro atto. Si tratta di una presenza che ci precede e che ci fonda, che è in noi ma che non può derivare da noi stessi: «Nel fondo della mia coscienza c’è un io che non è più io, ma vi è riflessa la mia immagine peculiare. Io non vedo che in lui. Il suo mistero impenetrabile è come lo strato di stagno che riflette in me la luce»125. Nella sua fenomenologia della atti di coscienza Blondel giunge ad evidenziale la presenza attiva di un infinito dal volto personale: tuttavia lo sguardo filosofico non arriva a delineare i tratti di questo infinto: ne afferma con certezza la presenza ma ci dice che rimane un mistero, luce impenetrabile nella sua essenza, ci limitiamo ad intravedere per speculum et in aenigmate. A questo punto la filosofia utilizza il linguaggio metaforico della mistica e lascia lo spazio alla meditazione religiosa. Parlando dell’idea di Dio egli afferma che «ai nostri occhi la sua oscurità è costituita da un eccesso di luce. Mentre nei nostri atti avvertiamo una sproporzione irrimediabile, nel suo atto asseriamo un’identità immediata. Essa ci appare impenetrabile per quello che conosciamo. La sua intimità inaccessibile è presente in

124 125

Ibidem, p. 451. Ibidem, p. 449.

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noi ma, allo stesso tempo, ci è estranea»126. Si tratta di una “estraneità interiore”, di una presenza che è «interior intimo meo et superior summo meo»127. Sono ricche si suggestione anche le parole con le quali Blondel delinea l’intuizione dell’infinito. Egli parla di un “attimo” che ha i caratteri dell’eterno. Questo ricorda molto l’exáiphnes platonico e l’epéktasis paolina: è un “attimo” nel quale si sperimenta l’irruzione dell’eterno nel tempo, pur senza mai poterla oggettivare: «Quando si reputa di conoscere Dio a sufficienza non lo si conosce più. Indubbiamente l’attimo della sua apparizione nella coscienza rassomiglia talmente all’eternità, che si ha quasi paura di entrarvi interamente […]. Nel momento in cui pare di avvicinarsi a Dio con un guizzo del pensiero, egli sfugge, se non lo si trattiene, se non lo si cerchi nell’azione. […]. Ovunque ci si fermi, egli non c’è; ovunque ci si muova, egli c’è. È una necessità passare sempre oltre, perché egli è sempre al di là»128. L’elemento centrale e forse più originale del “metodo dell’immanenza” delineato da Blondel è il situare la prova dell’esistenza di Dio nelle dinamiche dell’azione umana e quindi nel cuore stesso della libertà. L’idea di Dio non è un puro conseguimento logico o una mera occasione di indagine speculativa, essa è piuttosto un’esigenza che nasce dalla vita interiore e dall’ordo caritatis: «senza la giovinezza del cuore e senza l’inquietudine dell’amore, è finita»129. L’idea di Dio, origine della “volontà volente”, si intuisce pienamente solo nella prassi, cioè nell’agire in ordine a quel bene infinito che ha sollecitato segretamente la volontà. L’idea di Dio come sommo 126

Ibidem. AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III,6,11. Sulla presenza di un’ulteriorità metafisica all’interno della soggettività cfr. anche A. RIGOBELLO, L’estraneità interiore, Studium, Roma, 2001. 128 ACT, p. 454. 129 Ibidem, p. 454. 127

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bene «non è la nozione di una verità speculativa da definire, bensì la convinzione, forse vaga, ma perentoria e incontrovertibile, di un destino e di un fine ulteriore da raggiungere»130. Non sarebbe esagerato dire che per Blondel l’idea Dei diviene vivente e la si comprende veramente solo nella prassi: «L’idea di Dio (che lo possiamo nominare o meno) costituisce il complemento ineludibile dell’azione umana. […] Non possiamo conoscere Dio senza volerlo diventare in qualche modo. L’idea viva che abbiamo di lui è e non resta viva se non si trasforma in prassi, se non si vive di essa e non se ne nutre l’azione. Qui, come altrove, la conoscenza non è mai altro che una conseguenza e un’origine di attività»131. In queste parole di Blondel troviamo una trasposizione filosofica dell’insegnamento di Gesù sul Regno di Dio: la basiléia toû Theoû non è l’oggetto di una conquista teoretica; per questo rimane nascosta ai sapienti e gli intelligenti; essa è piuttosto la conquista interiore degli uomini di buona volontà, di tutti coloro anche umili ed emarginati - che operano nell’agápe, amando Dio ed il prossimo. Tale prospettiva viene ampiamente ripresa da Blondel nelle opere della maturità. Ne La philosophie et l’esprit chrétien egli afferma che l’esercizio della carità è il luogo privilegiato dell’incontro tra il naturale e il soprannaturale, tra l’uomo e Dio: «Il soprannaturale non è Dio in se stesso; […] esso è piuttosto un inno dell’anima a Dio»132. Si tratta di «accettare un’amicizia che, liberamente offerta [a parte Dei], domanda di essere liberamente accolta»133. Ibidem, p. 455. Ibidem, p. 456. 132 M. BLONDEL, La filosofia e lo spirito cristiano, Vol. I, Autonomia essenziale e connessione indeclinabile, a cura di M.F. Sciacca, La Scuola, Brescia, 1950, Prefazione all’edizione italiana (scritta dallo stesso Blondel), p. XII. 133 Ibidem. 130 131

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Blondel afferma giustamente che il soprannaturale, in sé totalmente inoggettivabile e gratuito, non può rientrare nell’ordine naturale; tuttavia, è possibile constatarne la presenza segreta nella nostra volontà e nel nostro agire virtuoso. Il compito del filosofo consiste nel rilevarne le tracce, nel porre attenzione a quell’«appello»134 che proviene dal nostro intimo (per designare tale “appello” Fichte utilizzava i termini di Aufruf e Afforderung). Tutta la nostra vita etica si decide nella libera risposta che diamo a tale appello che troviamo in noi ma che non proviene da noi stessi. Per il filosofo francese «il soprannaturale appare come un luogo d’amore piuttosto che una conquista del pensiero metafisico; è tramite la carità che la conoscenza stessa si perfeziona (le surnaturel apparaît comme un lieu d’amour plutôt que comme un rapprochement métaphysique; et c’est par la charité que la connaissance elle-même se perfectionne)»135. In Blondel troviamo un’espressione apparentemente enigmatica e che può essere bene interpretata solo all’interno delle dinamiche della sua teoresi: «pensare è pensare Dio (penser, c’est penser Dieu)»136. Egli spiega che «l’affermazione di un assoluto è contenuta in ogni coscienza (anche del relativo)»137. La presenza di Dio, unum necessarium, è il fondamento ontologico della coscienza umana: si tratta di un «Dio assolutamente trascendente»138, percepito dalla coscienza solo in maniera «oscura e fontale», quasi «embrionale», ma pure con portata «ontologicamente reale»139. Partendo dall’analisi dell’agire, Blondel giunge ad una “metafisica della partecipazione” che si ACT, p. 455. M. BLONDEL, La filosofia e lo spirito cristiano, vol. I, cit., p. XIII. 136 M. BLONDEL, La pensée, vol. I, Alcan, Paris, 1934, p. 175. 137 Ibidem, p. 174. 138 M. BLONDEL, L’Être et les êtres. Essai d’ontologie concrète et intégrale, Alcan, Paris, 1935, p. 171. 139 Ibidem, p. 159. 134 135

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avvicina molto alla posizione tommasiana: l’Ipsum esse subsistens viene interpretato come il fondamento assoluto del reale che trova nella libertà della coscienza umana il luogo della sua piena manifestazione ontologica. Le opere dell’ultimo Blondel – la già citata tetralogia – sono tutte tese a conciliare il giovanile “metodo dell’immanenza”, difeso nell’Action, con la “metafisica dell’essere” di matrice tomista: Michele Federico Sciacca e Romeo Crippa hanno definito l’approdo del pensiero blondeliano come un “realismo integrale” in grado di unire in una più alta sintesi la filosofia agostiniana dell’interiorità con quella tommasiana dell’essere140. 6. «La libertè est image de Dieu»: “educazione alla libertà” e “primato del pratico” In Fichte e in Blondel troviamo due prospettive per le quali «la libertè est image de Dieu»141: in quanto libera ed autonoma la persona umana ha una sua peculiare dignità che la rende imago Dei. Tuttavia il Dio di cui parla Fichte è molto diverso dal Dio blondeliano. Il filosofo tedesco concepisce Dio come un assoluto dai caratteri impersonali, come un “dovere interiore” (Sollen) che incita l’uomo all’agire etico142; Blondel si riferisce, invece, al Cfr. R. CRIPPA, Il realismo integrale di M. Blondel, Bocca Editori, Milano-Roma, 1954; M.F. SCIACCA, Dialogo con Maurizio Blondel, a cura di N. Incardona, L’Epos, Palermo, 1990. Sul complesso rapporto di Blondel con i tomisti del suo tempo cfr. A. VITTORIA FABRIZIANI, Blondel e i neotomisti. Momenti di un dibattito epistemologico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. 141 H. BOUILLARD, Connaisance de Dieu, Aubier-Montaigne, Paris, 1967, p. 137. 142 Come è noto, il concetto fichtiano di Dio corrisponde alla realizzazione dell’ordine etico; il Dio di Fichte è l’assoluto immanente nella coscienza umana e presente ad essa sotto forma di appello al dovere (Sollen): 140

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“Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, al Dio trascendente e personale della tradizione ebraico-cristiana. Comune ad entrambi i filosofi è però la visione di Dio come libertà assoluta, inafferrabile e misteriosa nella sua essenza; si tratta di un «concepire l’inconcepibile” (Begreifen des Unbegreiflichen)»143. In tali prospettive l’uomo ha una sua dignità assiologica proprio perché è partecipe della libertà dell’assoluto. Comune ad entrambi i filosofi è anche l’idea che la missione dell’uomo consista nel compimento della libertà nella storia; entrambi interpretano lo stesso cristianesimo come «legge della libertà (nómos tês eleutherías)»144, una legge che l’uomo è chiamato a realizzare nell’agire responsabile con gli altri e per gli altri. La funzione pedagogica della filosofia consiste propriamente nel rendere consapevole l’uomo del senso della sua libertà nella storia. La missione della filosofia, la sua Bestimmung, è perciò una “educazione alla libertà”: la funzione princeps dell’indige filosofica è quella di educare l’uomo all’incarnazione dei valori etici. All’esigenza fichtiana di una “morale superiore” (höhere Moralität) fa eco la visione escatologica blondeliana di una «créature surnaturalisée»145, una creatura tesa a realizzare in statu vitae il “mondo intelligibile”, ovvero il “regno della libertà”. «L’ordine morale vivente e operante è esso stesso Dio; non abbiamo bisogno di nessun altro Dio e non possiamo concepirne nessun altro. La ragione non ha alcun motivo di uscire da quest’ordine morale del mondo per postulare, mediante una deduzione dal fondato al fondamento, un essere particolare quale sua causa» (J.G. FICHTE, Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, in IDEM, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida, Napoli, 1989, pp. 71-85, p. 81). Su tale tematica ci permettiamo di rinviare al nostro scritto Il Dio della metafisica nel pensiero trascendentale di J.G. Fichte, «Aquinas. Rivista Internazionale di Filosofia», 1-2, LV (2012), pp. 145-174. 143 GA, III, 5, p. 237 144 Lettera di Giacomo, 2, 12. 145 M. BLONDEL, La filosofia e lo spirito cristiano, vol. I, cit., p. XVII.

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Un altro elemento fondamentale condiviso dai due autori è la concezione dell’incipit del discorso filosofico: seppur con differenti accentuazioni, essi sottolineano che la filosofia nasce da un’opzione radicale e si sviluppa come conseguenza di questa. Fichte parla di una scelta originaria e radicale era tra realismo ed idealismo, ovvero tra “negazione della libertà” e sua “insopprimibile affermazione”; simili modo, secondo Blondel la filosofia nasce e si conclude con un’alternativa prospettata alla nostra libertà: o il nulla o la pienezza di senso, o il determinismo annichilente o la partecipazione ad un orizzonte di libertà e trascendenza. Si tratta di «una libera decisione da cui dipende il destino di ciascuno»146. La scienza dell’azione, delineata da Blondel, ci conduce ad una “alternativa necessaria”, ad una «opzione della libertà»147 che costituisce il «dramma più profondo della vita interiore»148: «o escludere da noi qualsiasi altra volontà diversa dalla nostra, o affidarsi all’essere altro da noi come all’unico che ci salva»149. La scelta che Blondel individua come la più ricca di senso e di compimento esistenziale è certamente quella per una volontà consapevole di partecipare ad una trascendenza infinita che la supera e la fonda. Con toni ripresi successivamente da Sartre e da questi resi forse più drammatici, Blondel afferma che «l’uomo aspira a fare il dio» 150: vorrebbe ACT, p. 459. Ibidem, p. 458. 148 Ibidem, p. 459. 149 Ibidem, p. 458. 150 Ibidem. Com’è noto, secondo Sartre la libertà costituisce per l’uomo una condanna ineludibile, una condizione nella quale egli si trova ma che non ha deliberatamente scelto: «io sono condannato ad esistere per sempre al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato ad essere libero» (J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, [edizione originale 1943], tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Net, Milano, 2002, p. 495). Per Sartre, inoltre, tutte le scelte si equivalgono: nella sua prospettiva nichilistica non 146 147

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essere Dio ma ciò gli è inevitabilmente precluso. Mentre questa constatazione spinge Sartre al più cupo pessimismo – la celebre immagine dell’uomo “truccato per natura” –, Blondel fa emergere da tale assunto una portata rivelativa sul piano metafisico: la genesi di tale desiderio umano di essere Dio può venire interpretato come vestigium Dei in homine: «proprio perché ho l’ambizione di essere infinitamente, senza la mia impotenza, non ho fatto me stesso, non posso quello che voglio, sono costretto a trascendermi»151. Lo studio delle dinamiche della volontà spinge Blondel alla visione dell’uomo come capax Dei: la genesi di tutte le produzioni storiche e culturali sta nell’autotrascendimento, nel desiderio umano di superare se stesso, di oltrepassarsi. Ma il compimento del desiderio umano, il suo pieno appagamento è conseguibile solo nell’abbandono fiducioso alla volontà divina presente nell’interiorità: «la volontà umana, anche a sua insaputa, ha delle esigenze divine. Il suo desiderio è di raggiungere e di conquistare Dio; brancola alla cieca per toccarlo» 152. In questa prospettiva, l’analisi fenomenologica della volontà porta a considerazioni di carattere metafisico e teologico; secondo c’è alcuna possibilità di progettare un senso per l’esistenza umana. L’uomo è «l’essere per cui tutti i valori esistono» (ibidem, p. 695): da questo consegue che «tutte le attività umane sono equivalenti […] e tutte sono votate per principio allo scacco. É la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli» (ibidem). 151 ACT, p. 457. 152 Ibidem, p. 459. La visione blondeliana dell’uomo come capax Dei ha trovato nella filosofia francese del primo Novecento un fertile terreno di ricezione, soprattutto all’interno di quel variegato movimento definito come philosophie réflexive e philosophie de l’esprit. Come è noto, i suoi esponenti più rappresentativi sono Luois Lavelle, Réne Le Senne e Jean Nabert, fautori di “filosofie della libertà”. In particolare, di quest’ultimo si veda: J. NABERT, L'expérience intérieure de la liberté, PUF, Paris 1923, seconda edizione a cura di P. Ricœur, PUF, Paris 1992 2; IDEM, Le désir de Dieu, recueil de textes posthumes, préface de P. Ricœur, Aubier, Paris, 1966, seconda edizione: Cerf, Paris, 1996 2.

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Blondel la filosofia, incentrata sull’analisi antropologica, diviene preludio e conforto della fede religiosa. Partendo dallo studio della natura umana egli giunge alle soglie del mistero cristiano dell’incarnazione: «il soprannaturale è in casa sua nella nostra natura»153. Un ulteriore elemento che accomuna le pur differenti prospettive speculative di Fichte e Blondel è la decisa affermazione di un “primato del pratico sul teoretico”. Per Fichte «la ragione pratica è la radice di ogni ragione (die praktische Vernunft ist die Wurzel aller Vernunft)»154: come abbiamo costatato in precedenza, ciò significa che la libertà, ovvero l’infinita voluntas, è il costitutivo fondamentale della ragione, l’essenza stessa dell’assoluto. Sia per Fichte che per Blondel l’organo per l’affermazione di tale primato del pratico è la fede (Glaube): come affermato nella terza parte della Bestimmung des Menschen, la fede è il dare ascolto a quella «voce interiore (innere Stimme)»155 che incita all’agire etico. Grazie alla fede nella “voce interiore” «la vita cessa di essere un gioco vuoto e senza significato»156, diviene perenne dinamismo per la realizzazione di un “regno della perfetta eticità”, il “Regno di Dio” (Reich Gottes). Tale dinamismo in Blondel assume i tratti specifici dell’impegno cristiano e si qualifica come «assimilazione della vita umana alla

M. BLONDEL, Lettre sur les exigences de la pensée contemporaine en matière d’apologétique et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problème religieux, «Annales de Philosophie Chrétienne», gennaio-luglio 1896; tr. it. di G. Forni, Queriniana, Brescia 1990, p. 71. Sul complesso rapporto tra natura e soprannatura in Blondel ci limitiamo ad indicare G. TANZELLA-NITTI, La proposta apologetica di Maurice Blondel (18611949): una rilettura del motodo dell’immanenza nel 150º della nascita, «Annales theologici», 25 (2011), pp. 45-74. 154 J.G. FICHTE, La destinazione dell’uomo, cit., p. 88. 155 Ibidem, p. 80. 156 Ibidem, p. 84. 153

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vita divina»157. Si tratta dell’impegno personale e comunitario di divenire alter Christus; l’ultimo Blondel giunge ad affermate che «la generazione spirituale e l’elevazione soprannaturale (l’élévation surnaturelle) costituiscono il destino supremo della persona umana e dell’umanità, chiamate a comporre il “Cristo totale”»158. Il discorso filosofico di Blondel non è esente da tratti di apologetica, tuttavia esso contiene elementi di validità teoretica che possono essere utili anche nell’attuale contesto filosofico, spesso poco attento alle dinamiche della vita spirituale e alle esigenze di un senso globale dell’essere. Quelli di Blondel e di Fichte costituiscono, a nostro parere, due differenti forme paradigmatiche di intinerarium voluntatis et mentis ad Deum.

157 158

M. BLONDEL, La filosofia e lo spirito cristiano, vol. I, cit., p. XIII. Ibidem, p. IX.

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Studio IV

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“Archeologia del soggetto” ed “ermeneutica del sé”. Paul Ricoeur lettore e critico di Freud «La psicoanalisi ci proponeva una regressione verso l’arcaico […] e ha il suo fondamento in una archeologia del soggetto»; quest’ultima può essere integrata con una «teleologia del soggetto […] che si costituisce nella dinamica dell’interpretazione»1.

1. Introduzione: la “scossa maieutica” del freudismo nel pensiero ermeneutico di Ricoeur Nel nostro studio prendiamo in esame la lettura critica della psicoanalisi freudiana operata dal filosofo francese Paul Ricoeur (1913-2005). Cerchiamo quindi di mettere in luce il significato che ha avuto tale confronto con il “padre della psicoanalisi” nel complesso itinerario filosofico di Ricoeur, caratterizzato da tre matrici speculative fondamentali: la filosofia riflessiva tipica della tradizione francese (da Maine de Biran a Jean Nabert), la fenomenologia di matrice husserliana e l’ermeneutica. Come avremo modo di rilevare, nel pensiero di Ricoeur tali tre differenti P. RICOEUR, Existence et herméneutique, in Interpretation der Welt. Festschrift für Romano Guardini zum achtzigsten Geburstag, Echter Verlag, Würzburg, 1965, pp. 32-51; questo testo è stato inserito da Ricoeur come primo saggio del suo volume Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969; tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, Prefazione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano 19993, pp. 17-37, p. 35. Sulla forma di determinismo difesa da Freud si veda anche M. PRIAROLO, Il determinsimo psichico: Sigmund Freud, in IDEM, Il determinismo. Storia di un’idea, Carocci, Roma, 2011, pp. 118-123. 1

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metodologie d’indagine convivono in un fecondo intreccio, dando luogo ad una “rinnovata filosofia del cogito” di carattere essenzialmente ermeneutico e che accetta le “sfide della psicoanalisi”. In particolare, nella nostra ricerca analizziamo la nozione ricoeuriana di “identità personale”: quest’ultima, a nostro parere, costituisce il “filo sottile” che unifica l’intera opera del filosofo francese, una ingens sylva apparentemente dispersiva e nella quale è facile perdersi. Partendo anche dal confronto critico con la psicoanalisi freudiana, Ricoeur elabora una antropologia filosofica caratterizzata dal “conflitto delle interpretazioni” ed incentrata sulle capacità del soggetto – definito homo capax/homme capable – di agire, di parlare, di narrare, di imputare a se stesso le proprie opere e le proprie responsabilità etico-giuridiche. Con le sue riflessioni Ricoeur ha cercato di rinnovare la tradizione personalistica tipicamente francese (si pensi ad Emmanuel Mounier, uno dei suoi maestri), reinserendola con solidità di argomenti nel dibattito epistemologico contemporaneo e nelle più recenti discussioni etico-politiche2. Quello che Ricoeur istituisce con Sigmund Freud è un confronto caratterizzato dalla volontà di far emergere una ermeneutica della condizione umana. Il filosofo dichiara esplicitamente di non voler valutare la psicoanalisi come tecnica terapeutica, né di saggiare la sua piena attendibilità sotto il profilo epistemologico: egli è piuttosto interessato a leggere l’opera di Freud come «una interpretazione della cultura [che] entra in conflitto con ogni altra interpretazione globale del fenomeno

A tal proposito mi permetto di rinviare anche ad un mio precedente studio dal titolo I concetti di persona e di homo capax nella prospettiva ermeneutica di Paul Ricoeur, in T. VALENTINI – A. VELARDI (a cura di), Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici, LEV, Roma, 2015, pp. 153-184. 2

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umano»3. La psicoanalisi viene quindi vista come una chiave di lettura dell’agire umano e di tutta la complessa stratificazione simbolica della cultura. A partire dagli anni Sessanta Ricoeur inizia un intenso confronto con Freud che segna in maniera decisiva il suo itinerario filosofico: egli scorge nel padre della psicoanalisi un “maestro di radicalità”. Come è noto, Freud viene indicato come uno dei tre inquieti “maestri del sospetto” (insieme a Marx e a Nietzsche) e la sua ricerca viene qualificata come una “scossa maieutica” in grado di mettere radicalmente in questione le più consolidate visioni filosofiche della soggettività umana: dalle posizioni cartesiane fondate sull’evidenza del cogito alle indagini egologiche della fenomenologia di Husserl. La celebre “scoperta” freudiana dell’inconscio (das Unbewusste) spossessa l’io da se stesso, lo decentra, lo rende oscuro ed opaco; “rimosso, attivo, bestiale, infantile, alogico, sessuale”, queste sono le sei caratteristiche fondamentali dell’inconscio freudiano secondo Ernest Jones4. Come ha sottolineato anche Louis Althusser, la psicoanalisi si qualifica come «una scienza nuova, che è la scienza di un oggetto nuovo: l’inconscio»5: quest’ultimo – afferma Freud – rappresenta eine andere Schauplatz, “un’altra scena” e una “realtà altra” rispetto a quella della coscienza. La psicoanalisi ha così generato una Ichspaltung, una radicale “scissione” (Spaltung) tra l’io cosciente e volitivo (l’homo compos sui della tradizione giuridica romana) e l’inconscio, P. RICOEUR, De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965 ; tr. it. di E. Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, Introduzione di D. Iervolino, il Saggiatore, Milano 2002, p. 10. D’ora in poi l’opera sarà citata con la sigla DEF, seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana. 4 Cfr. E. JONES, Sigmund Freud: Life and Work, vol. 3, Hogarth Press, London 1953-1957; tr. it. di A. Novelletto e M. Cerletti Novelletto, Vita e opere di Freud, Prefazione di S. Vegetti Finzi, Il Saggiatore, Milano 1995 2. 5 L. ALTHUSSER, Freud et Lacan, in IDEM, Positions,1964-1975, Les Éditions Sociales, Paris 1976; tr. it. e cura di C. Mancina, Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma, 19812, p. 9. 3

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dominato da pulsioni originarie che sfuggono alla volontà soggettiva. Freud ha gettato lo sguardo sulle ombre della soggettività umana, su quegli aspetti pulsionali che, seppur rimossi, sono all’origine del desiderio, del linguaggio e di tutta la produzione simbolica umana. Sottolineando il valore fondamentale del celebre scritto freudiano L’interpretazione dei sogni (Traumdeutung), Ricoeur scorge nella psicoanalisi un progetto di carattere essenzialmente ermeneutico: egli sottolinea che il concetto di Deutung indica appunto interpretazione/ermeneutica e che la stessa potenzialità terapeutica della psicoanalisi è basata sul dialogo tra paziente ed analista, laddove la professionalità di quest’ultimo deve esplicitarsi proprio nella capacità di comprendere ed interpretare le forme di disagio dell’interlocutore. Dunque Ricoeur si interessa alla psicoanalisi per il suo valore propriamente ermeneutico ovvero per la sua capacità di essere una Existenzerhellung, una “chiarificazione dell’esistenza” e una interpretazione/comprensione della genesi (Ursprung) delle produzioni simboliche della cultura. Secondo Ricoeur «una meditazione sull’opera di Freud detiene il privilegio di rivelarne il disegno più esteso: che fu quello non solo di rinnovare la psichiatria, ma di reinterpretare la totalità delle produzioni psichiche che competono alla cultura, dal sogno alla religione, comprese l’arte e la morale»6. Nella nostra ricerca diamo particolare attenzione alla lettura ricoeuriana della psicoanalisi quale “archeologia del soggetto”: Ricoeur sottolinea che l’interpretazione freudiana dell’ego si caratterizza come «un movimento regressivo, orientato verso l’infantile, l’arcaico»7. In questo suo regredire verso il primordiale – il vasto regno dell’inconscio con i connessi traumi dell’infanzia DEF, p. 16. P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 48. 6 7

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– la psicoanalisi si qualifica anche come una forma di determinismo tendente a spiegare quasi ogni desiderio e ogni gesto attuale dell’individuo in relazione al suo passato inconscio. In opposizione a tale determinismo riduzionistico, a questa sorta di chiusura del soggetto nelle ombre del suo passato, Ricoeur propone un’altra possibile interpretazione della realtà umana: se «la psicoanalisi ci propone una regressione verso l’arcaico […] ed ha il suo fondamento in una archeologia del soggetto», ad essa è possibile opporre una «teleologia del soggetto»8. Il “conflitto delle interpretazioni” di cui Ricoeur parla in una celebre raccolta di testi edita nel 1969, è il conflitto tra due antitetiche interpretazioni della realtà umana, entrambe legittime, entrambe contenenti elementi di verità e perciò Fragwürdig, degne di essere prese in esame: l’archeologia e la teleologia. Si tratta del “conflitto ermeneutico” tra la psicoanalisi intesa come “archeologia del soggetto” e una complessa “filosofia della libertà creativa” intesa come “teleologia del soggetto”, come dinamismo dell’azione in vista del compimento di bene (human flourishing). In Ricoeur tale “filosofia della libertà della persona agente” ha come sue metodologie di riferimento la filosofia riflessiva della tradizione francese, la fenomenlogia husserliana e l’ermeneutica del sè. L’intento speculativo e costruttivo di Ricoeur è dunque quello del superamento del determinismo e di certe unilateralità interpretative della psicoanalisi per far emergere una visione della soggettività agente come “apertura al futuro”, come “libertà creativa” capace di lasciarsi alle spalle le ombre del passato. È quindi anche in antitesi alla visione antropologica della psicoanalisi freudiana che emerge e si comprende meglio nella P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 35. Sulla forma di determinismo difesa da Freud si veda anche M. PRIAROLO, Il determinsimo psichico: Sigmund Freud, in IDEM, Il determinismo. Storia di un’idea, Carocci, Roma, 2011, pp. 118123. 8

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sua portata speculativa la già ricordata figura ricoeuriana dell’homo capax, alla quale dedichiamo le pagine finali della nostra riflessione.

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2. Il volontario e l’involontario: la dialettica tra libertà e determinismo Nella sua Autobiografia intellettuale Ricoeur ci confida che il suo primo incontro con l’opera di Freud è avvenuto negli anni del liceo, grazie alle lezioni di Roland Dalbiez, un filosofo di ispirazione aristotelico-tomista, in rapporti di amicizia anche con Jacques Maritain ed avverso ad ogni forma moderna di trascendentalismo e di idealismo. Ricoeur ci ricorda che Dalbiez «fu il primo filosofo francese a scrivere su Freud e la psicoanalisi; Freud veniva lodato principalmente per il suo realismo naturalista, che lo situava immediatamente sul versante di Aristotele piuttosto che su quello di Descartes o di Kant»9. È lo stesso Ricoeur a riconoscere la forte influenza esercitata dal suo primo docente di filosofia; nella sua memoria biografica, scritta all’età di 82 anni, afferma: «Sono oggi persuaso di dovere al mio primo insegnante di filosofia la resistenza che opponevo contro la pretesa di immediatezza, di adeguazione e di apoditticità del cogito cartesiano e dell’io penso kantiano. Penso anche di dovere a Roland Dalbiez la mia ulteriore preoccupazione di integrare la dimensione dell’inconscio, e in generale il punto di vista psicoanalitico, a un modo di pensare nonostante tutto fortemente segnato dalla tradizione della filosofia riflessiva francese, come appare nella trattazione che propongo dello “involontario

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P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., p. 22.

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assoluto” (carattere, inconscio, vita) nel mio primo grosso lavoro filosofico, Il volontario e l’involontario (1950)»10. Per comprendere meglio contenuti e finalità della principale opera di Ricoeur dedicata a Freud – il noto volume De l’interprétation. Essai sur Freud (1965) – è necessario ripercorrere brevemente le prime tappe più significative del suo itinerario filosofico. La formazione di Ricoeur è segnata dal dibattito intellettuale della Francia degli anni Trenta e Quaranta: i principali orientamenti ai quali faceva riferimento erano il personalismo di Emmanuel Mounier, la riflessione socratica di Gabriel Marcel, l’esistenzialismo di Karl Jaspers e quello stile di “pensiero riflessivo” tipicamente francese che risaliva a Maine de Biran. Questi orientamenti, seppur con differenti accentuazioni, si qualificano come “filosofie della soggettività e della libertà”, tese ad integrare la certezza logica del cogito cartesiano con l’analisi del vissuto esistenziale e con l’imprescindibile dimensione corporea della persona. 2.1 À l’école de Mounier: la persona come presenza inoggettivabile, libertà e trascendenza In particolare ci teniamo a sottolineare il forte debito di Ricoeur nei confronti di Mounier, col quale negli anni Trenta entra in rapporti di amicizia e discepolato. Anche se in anni più recenti Ricoeur si è allontanato dall’eccessiva militanza che ha caratterizzato la “rivoluzione personalistica e comunitaria”, ci pare che tale eredità di Mounier sia presente anche negli scritti ricoeuriani della maturità, seppur non sempre esplicitata11. Ibidem, pp. 22-23. Cfr. anche R. DALBIEZ, La méthode psichoanalytique et la doctrine freudienne, Desclée de Brouwer, Paris, 1936. 11 Sul rapporto di Ricoeur con l’animatore del movimento personalista in Francia si veda P. RICOEUR, Emmanuel Mounier, l'actualité d'un grand 10

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Innanzitutto Ricoeur condivide le critiche di Mounier ad ogni forma astratta di spiritualismo e coscienzialismo che – negando «ogni consistenza al mondo materiale»12 – giunge a degli esiti dualistici e paradossali: «il personalismo non è uno spiritualismo; tutt’altro: esso affronta ogni problema umano su tutta l’ampiezza dell’umanità concreta, a partire dalla più umile condizione materiale fino alla più alta possibilità spirituale»13. Per il personalismo – afferma Mounier – «l’uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito: tutto intero “corpo” e tutto intero “spirito”»14. Inoltre Ricoeur condivide ed amplia l’indicazione di Mounier sulla nozione di persona, indicazione che «non può essere

témoin, in G. COQ (Édité par), Emmanuel Mounier. Actes du colloque tenu à l’UNESCO, vol. 2, Parole et Silence, Paris, 2005; tr. it. di G. Losito, Emmanuel Mounier: l’attualità di un grande testimone, Introduzione di D. Jervolino, Città Aperta, Troina, 2005. 12 E. MOUNIER, Le personnalisme, PUF, Paris 1949; tr. it. di A. Cardin, Il personalismo, AVE, Roma, 19878, p. 27. 13 Ibidem, p. 34. Un’approfondita ricostruzione storiografica del movimento personalista anche in relazione alle altre correnti filosofiche che caratterizzarono il clima culturale francese tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta è quella di A. LAMACCHIA, Mounier. Personalismo comunitario e filosofia dell’esistenza, Levante, Bari, 1993; si veda anche J.-F. PETIT, Histoire de la philosophie française au XXe siècle, Desclée de Brouwer, Paris, 2009. 14 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 27. Mounier – in maniera simile a Ricoeur – individua nel pensiero di Maine de Biran importanti anticipazioni di fondamentali tematiche del suo approccio filosofico: «Maine de Biran è il moderno precursore del personalismo francese. Egli rifiuta la meccanica mentale degli ideologi, che disperdevano l’esistenza concreta negli pseudo “elementi” del pensiero, e cerca l’io nello sforzo motore in virtù del quale noi pesiamo sul mondo. […] Il pensiero di Maine de Biran ha notevolmente messo in luce le radici della persona e la sua zona d’emergenza» (ibidem, p. 18).

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considerata una vera e propria definizione»15, poiché nella persona umana rimane sempre un qualcosa di “indefinibile” ed “ineffabile” che sfugge ad ogni rigida categorizzazione concettuale: «una persona è un essere spirituale costituito come tale da un modo di sussistenza e di indipendenza del suo essere; essa mantiene questa sussistenza mediante la sua adesione a una gerarchia di valori liberamente eletti, assimilati e vissuti con un impegno responsabile e una costante conversione; la persona unifica così tutta la sua attività nella libertà e sviluppa nella crescita attraverso atti creativi la singolarità della sua vocazione».16 Ricoeur riprende dunque da Mounier l’idea che la persona sia una realtà non oggettivabile: la persona è libertà e trascendenza, apertura costitutiva all’incontro con l’altro e con quell’assolutamente altro che è Dio; è “puissance d’accueillir”, “capacità di accogliere”. Per Mounier la nozione di persona – da non confondersi con quella di individuo, con la quale generalmente si denota una soggettività “neutra”, dislocata alla “superficie” e quasi privata della sua ricchezza spirituale e comunitaria – è connotata da tre dimensioni fondamentali: “incarnazione”, “vocazione”, “comunione”. “Incarnazione” indica il concreto radicamento della persona nella corporeità, con gli inevitabili condizionamenti psico-fisici, storici e culturali; la “vocazione” è intesa come “chiamata” alla piena realizzazione del sé, per una consapevole “missione” nel mondo; la “comunione” indica la fondamentale dimensione relazionale della persona, la sua apertura verso l’alterità, nella consapevolezza che “vivre c’est 15 E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, Aubier-Montaigne, Paris, 1936; tr. it. e cura di A. Lamacchia, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica, Bari, 1982, p. 65. 16 Ibidem. Importanti studi sull’idea di persona in Mounier sono quelli di M. TOSO, Z. FORMELLA, A. DANESE (a cura di), Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale nel centenario della nascita (1905-2005), LAS, Roma 2005; G. CAMPANINI, Mounier: eredità e prospettive, Studium, Roma, 2012.

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partager et s’engager avec les autres”, che la vita è condivisione con l’altro ed energico impegno sul piano etico e sociale. Possiamo dire che Ricoeur anche negli scritti della maturità tenga sempre presente tale triplice caratterizzazione della persona data da Mounier; come avremo modo di constatare, questo debito emerge anche nell’opera della maturità Soi-même comme un autre (1990). Di particolare interesse ci paiono, inoltre, gli studi di Mounier sul carattere umano: ci pare che tali riflessioni abbiano profonde analogie con quelle di Ricoeur nei confronti della psicoanalisi freudiana. Con penetrante esprit de finesse Mounier nel Trattato del carattere definisce la persona come sua singolarità unica, irripetibile e inoggettivabile. Come ha messo in rilievo Armando Rigobello, «la psicologia è un campo vastissimo d’indagine, su questo campo il Mounier sceglie la sua prospettiva: il carattere, e ciò era naturale per un personalista. Il carattere è l’equivalente psichico della persona, il suo sfondo, il suo ambiente. La persona è singolare, non vi è una “scienza” della persona, così del carattere: vi può essere un tentativo di classificazione di tipi, una ricerca di strutture, ma il carattere di un uomo è sempre singolarità irripetibile»17. La caratterologia personalistica si qualifica come studio sull’uomo considerato nella sua unicità fisica e spirituale, nella sua unità psico-somatica: «non vi è sfumatura dello spirito che non apra il varco ad un gesto del corpo, né movimento che non disegni nello spazio un gesto dello spirito»18. Va inoltre rilevato che l’analisi del carattere condotta da Mounier, pur tenendo conto anche dell’apporto delle ricerche psicologiche freudiane, cerca di andare al di là di esse, per non A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, Bocca Editori, Roma, 1955, p. 54. 18 E. MOUNIER Traité du caractère, Seuil, Paris, 1946; tr. it. di C. Massa e P. De Benedetti Trattato del carattere, Ed. Paoline, vol. I, Roma, 1949, p. 42. 17

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scadere mai in rigidi determinismi antropologici: «L’interpretazione che Freud dà del fatto psicologico riduce l’attività psichica umana al frutto di una connessione deterministica. Mounier non accetta questo determinismo causale, esso si trova nella vita psichica soltanto se vogliamo vedercelo [...]. Il vertice della persona è al di la di ogni condizione». 19 É quindi da sottolineare che per una prospettiva personalistica come quella di Mounier il carattere – quell’elemento che Ricoeur definisce “l’involontario assoluto” – non esaurisce affatto tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo: il mistero della persona umana non è completamente racchiuso nelle sue strutture caratteriali, ma “va al di là” di esse. Nell’uomo permane sempre un qualcosa di “inoggettivabile” che sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione anche da parte della caratterologia e delle scienze umane: si tratta di un quid impalpabile ed enigmatico che affonda le sue più profonde radici in una metafisica della soggettività. Il confronto con Mounier ci è utile anche per chiarire il tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur: si tratta infatti di un’ermeneutica di ispirazione personalistica, differente quindi dal tipo di ermeneutica di carattere più storicistico teorizzata e praticata da Gadamer. Il tema principale d’indagine che unifica le incursioni di Ricoeur nelle differenti problematiche filosofiche può essere individuato nella ricerca dei possibili significati del concetto di persona umana. Il télos essenziale delle ricerche 19 A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, op. cit., p. 59. Per Mounier «la psicologia freudiana pur essendo oggettiva, cioè fondata su dati sperimentali, postula come necessaria alla interpretazione del “profondo” un intuito soggettivo, un intervento personale extra-empirico da parte dello psicologo. Essa non ignora il rischio dell’avventura, ma poi finisce col comprometterlo nel ridurlo ad ingegnosa ricerca di determinismi nascosti» (ibidem). Al determinismo delle forme più radicali di psicoanalisi Mounier contrappone lo “slancio vitale” (l’élan vital) di cui parlava Bergson: la dinamicità interiore e l’energia creatrice di ogni individuo.

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ricoeuriane si può, dunque, individuare in una “rinnovata filosofia del cogito e della persona”. In questa prospettiva, lo stile riflessivo tipico della tradizione francese, la fenomenologia husserliana e la stessa ermeneutica – lontana da qualsiasi esito storicistico e nichilistico20 – vengono arricchite dalla sensibilità proveniente dal movimento personalista di Mounier, al quale Ricoeur fu legato nella sua giovinezza. Il filosofo, pur prendendo le distanze da certi atteggiamenti di eccessiva militanza che hanno caratterizzato il movimento personalista, non esita a sottolineare il valore speculativo e l’urgenza stessa di una teoresi incentrata attorno alla nozione di persona: «la persona» – sostiene giustamente Ricoeur – «resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né

Per un approfondimento del tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur anche in confronto con altri tipi di approcci ad una filosofia dell’interpretare e del comprendere, cfr. A. RIGOBELLO, Paul Ricoeur e il problema dell’interpretazione, in V. VERRA (a cura di), La filosofia dal ’45 ad oggi, ERI, Torino, 1976, pp. 211-223; J. BLEICHER, Contemporary Hermeneutics. Hermeneutics as Method, Philosophy and Critique, Routledge, London, 1980; tr. it. di S. Sabattini, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1986, in particolare pp. 261-310; J.H. VAN DEN HENGEL, The Home of Meaning. The Hermeneutics of the Subject of Paul Ricoeur, University Press of America, Washington, 1982; B. WALDENFELS, Paul Ricoeur: Umwege der Deutung, in IDEM, Phänomenologie in Frankreich. Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1983, pp. 266-335; G. MURA, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, 1990, Roma, in particolare pp. 301-314; J. GREISCH, Paul Ricoeur. L’herméneutique à l’école de la phénoménologie, Beauchesne, Paris, 1995; F. RUSSO, Temi dell’ermeneutica del XX secolo, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», vol. 8/II (1999), pp. 251-268; M. PULITO, Identità come processo ermeneutico. Paul Ricoeur e l’analisi transazionale, Armando, Roma 2003; R. SAVAGE (ed.), Paul Ricoeur in the Age of Hermeneutical Reason: Poetics, Praxis, and Critique, Lexington Books, Lanham, MD 2015. 20

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il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»21. Inoltre in un intervento dal significativo titolo Meurt le personnalisme, revient la personne edito nel 1983 per il cinquantenario della rivista «Esprit» (fondata nel 1932 dallo stesso Mounier), Ricoeur afferma: «Se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»22. L’atteggiamento di fondo che accompagna le ricerche di Ricoeur è, quindi, quello di un’ermeneutica personalistica e cristiana: si tratta di un’interpretazione dell’identità personale che cerca di evitare «qualsiasi amalgama ontoteologico»23 e un semplice atteggiamento fideistico, esigenziale o postulatorio. Come abbiamo già accennato, l’ermeneutica personalistica di Ricoeur passa attraverso il “conflitto delle interpretazioni”, accetta “le P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, p. 38. 22 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. Che l’opera filosofica di Ricoeur trovi una sua unità e coerenza in un’ermeneutica d’ispirazione personalistica - la quale caratterizza l’atteggiamento di fondo anche delle sue varie incursioni nei differenti campi delle scienze umane - è opinione condivisa da molti interpreti: a tal proposito cfr. A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma, 1977, in particolare, p. 87 ss.; M. BUZZONI, Paul Ricoeur. Persona e ontologia, Studium, Roma, 1988; F. BREZZI, Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero, Padova, 1999, in particolare, p. 163 ss.; F. TUROLDO, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, Il Poligrafo, Padova, 2000, in particolare p. 149 ss.; A. GIAMBETTI, Ricoeur nel labirinto personalista, FrancoAngeli, Milano, 2013. 23 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 101. 21

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sfide della psicoanalisi e della semiologia”, non temendo di confrontarsi anche con le neuroscienze24 o con i risultati delle più scaltrite metodologie d’indagine analitiche, quali quelle di Peter Strawson, Derek Parfit e Donald Davidson25.

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2.2 À l’école de la phénoménologie: il progetto di una “filosofia della volontà” Secondo Ricoeur «la nozione di persona, cara a Mounier, trova una articolazione filosofica, per così dire, più tecnica»26 e più elaborata sotto il profilo speculativo in autori come Marcel, Jaspers, Edmund Husserl e Max Scheler. Va sottolineato che negli anni Quaranta e Cinquanta Ricoeur si avvicina alla cultura filosofica tedesca trovando in Husserl un interlocutore fondamentale e un maestro di rigore argomentativo: nel 1950 Ricoeur pubblica presso l’editore Gallimard una traduzione in francese delle Idee per una fenomenologia pura, lo scritto nel quale Husserl dà i lineamenti di fondo della sua analisi eidetica dei vissuti coscienziali27. Della fenomenologia husserliana Ricoeur apprezza la teoria della intenzionalità della coscienza (Intentionalität des Bewuβtseins), connessa al realismo gnoseologico e ad una inevitabile connessione del soggetto conoscitivo con la ricchezza Cfr. il dibattito del filosofo francese con Jean-Pierre Changeux, uno dei più noti esperti delle neuroscienze, J.-P. CHANGEUX – P. RICOEUR, La nature et la règle, Odile Jacob, Paris 1998; tr. it. di M. Basile, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, RaffaelloCortina Editore, Milano, 1999. 25 Ricoeur cita questi autori come coloro con i quali «ha tentato più sistematicamente di mettere a confronto l’ermeneutica di origine fenomenologica» (P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 413). 26 P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., p. 28. 27 Si veda E. HUSSERL, Ideés directrices pour une phénoménologie, traduzione francese di P. Ricoeur, Gallimard, Paris, 1950. 24

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del “mondo della vita” (Lebenswelt). In particolare, egli sottolinea che l’intenzionalità della coscienza – il suo costitutivo rivolgersi ad altro da sé – fa oltrepassare l’autoreferenzialità del cogito cartesiano, taglia i ponti con la “gabbia d’oro” del coscienzialismo moderno. Ricoeur ricorda che l’intenzionalità, così come veniva delineata da Brentano e Husserl, «rompe con l’identificazione cartesiana fra coscienza e coscienza di sé. Definita dalla intenzionalità, la coscienza si rileva innanzi tutto come rivolta all’esterno, dunque gettata fuori di sé, meglio definita dagli oggetti che essa intenziona piuttosto che dalla coscienza di intenzionali. Inoltre, il tema della intenzionalità rende giustizia alla molteplicità degli orientamenti oggettivi: intenzionali [sono] la percezione, l’immaginazione, la volontà, l’affettività, l’apprensione dei valori»28. Negli anni Cinquanta Ricoeur dà vita ad un ampio progetto di ripensamento della fenomenologia husserliana, integrando tale prospettiva essenzialmente gnoseologica con l’ambito delle problematiche etiche ed esistenziali: «Se a Husserl dovevo la fenomenologia, designata con il termine di analisi eidetica, a Gabriel Marcel dovevo la problematica di un soggetto, a un tempo, incarnato e capace di mettere a distanza i propri desideri e i propri poteri, in breve di un soggetto padrone di sé e servo della necessità, figurata dal carattere, dall’inconscio e dalla vita»29. Nel 1950 Ricoeur dà alle stampe il suo primo ampio volume dal titolo Il volontario e l’involontario, concependolo come prima parte di una trilogia dal titolo “Philosophie de la volonté”. Lo scopo di questo volume è P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., p. 28. Ibidem, p. 34. Ricoeur non si preoccupa di rimanere fedele al trascendentalismo husserliano e al suo connesso gnoseologismo. A suo parere «la fenomenologia è, in buona parte, le storia delle eresie husserliane, in quanto l’impianto dell’impresa del maestro implicava che non si desse una ortodossia husserliana» (P. RICOEUR, Sur la phénoménologie, «Esprit», 21, 1953, pp. 821-839, p. 836). 28 29

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quello di far emergere un “cogito integrale”, ovvero una soggettività in cui determinante non è solo l’attività teoretica (l’evidenza logica del cogito cartesiano o dell’io penso kantiano) ma anche l’attività pratica, ovvero la sfera dell’ “io voglio”, alla quale viene data una configurazione triadica: “io decido”, “io muovo il mio corpo”, “io consento”. In quest’opera Ricoeur analizza tutti i vari modi in cui si esplicita il “libero atto di volontà”, prendendo in considerazione anche tutti quegli elementi che de facto lo indeboliscono o lo impediscono. Oggetto dell’opera è quindi il grande tema del rapporto tra libertà e determinismo. Ricoeur tenta di elaborare una filosofia che renda ragione del liberum arbitrium e, per questo, si confronta con la “filosofia della libertà” teorizzata da Jean Nabert, un altro dei suoi grandi maestri parigini, definito con affetto “il nostro Fichte”30. Volere, per Ricoeur, significa decidere liberamente secondo un progetto: tuttavia su ogni nostro atto volontario pesa l’ombra del determinismo. In questa insopprimibile dialettica tra libertà e determinismo si avverte tutta la finitudine della condizione umana, la soffocante tristezza del desiderio sempre inappagato di una libertà assoluta. Anche per Ricoeur vale, quindi, l’affermazione di Sartre per la quale l’uomo è un essere “truccato per natura”: «progetta di essere Dio»31 ed agisce nel «desiderio di essere Dio»32, nel desiderio di porsi a fondamento del proprio essere, di divenire un Ens causa sui: ma questo risulta impossibile, rivelandosi sempre un progetto all’insegna dello scacco e dell’insuccesso. Ricoeur è certamente lontano dalla Cfr. J. NABERT, L’expérience intérieure de la liberté, [edizione originale 1924], Préface de P. Ricoeur, PUF, Paris, 1994. 31 J.P. SARTRE, L'être et le néant: Essai d'ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943; tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Net, Milano, 2002, p. 629. 32 Ibidem. 30

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radicale concezione sartriana dell’uomo come «passione inutile (inutile passion)»33 e “Dio fallito”. Tuttavia, seppur lontano dall’abisso del nichilismo, anche quello delineato da Ricoeur è uno scenario caratterizzato dal “patetico della condizione umana” (pathétique de la misère): il secondo volume della incompiuta trilogia “Filosofia della volontà” si intitola L’homme faillible: è in queste pagine che viene presa in esame la finitudine e l’indigenza dell’umano. Torniamo brevemente a quei tre elementi definiti da Ricoeur come l’ “involontario assoluto”: il carattere, l’inconscio e la vita. É la tematizzazione di questo triplice determinismo dell’involontario che spingerà il filosofo francese negli anni Sessanta ad interessarsi a Freud. La psicoanalisi verrà infatti generalmente interpretata come un approfondimento genetico dell’involontario assoluto. Come recita un detto di Eraclito, “il destino dell’uomo è il suo carattere”; amche Ricoeur, in maniera simile ad Eraclito e a Mounier, conferisce al carattere un ruolo decisivo: il carattere realizza la persona nella sua irripetibile singolarità, ma, allo stesso tempo, genera “la tristezza del finito” e forme inaggirabili di determinismo. Risulta impossibile per l’uomo disfarsi completamente del proprio carattere, mutarlo in forme totalmente nuove: il carattere è perciò un quid originario che crea alla volontà inevitabili condizionamenti. Assai più incisiva del carattere è la seconda figura dell’involontario assoluto: l’inconscio. È in queste pagine de Le volontarie et l’involontaire che si ha il primo confronto critico di Ricoeur con Freud. In questo testo l’inconscio viene qualificato come generante la “tristezza dell’informe”: si tratta di una vischiosa opacità prodotta dal fondo insondabile dell’io. La terza e ultima figura dell’involontario viene identificata nella vita intesa nel senso heideggeriano di “essere per la morte” (zum Tode Sein): pensare 33

Ibidem, p. 682.

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alla vita nei suoi ineliminabili elementi di caducità significa immergersi nella “tristezza della contingenza” e nell’idea della morte. Tutte queste forme di involontario fanno pensare ad un soggetto limitato, fallibile, inevitabilmente soggiogato da fattori che egli non può dominare: per Ricoeur di fronte a questa immersione nella negatività sorge (e, a suo parere, deve sorgere!) la risposta della libertà, un gesto originario di rivolta, «la Gioia del sì nella tristezza del finito»34. Le potenzialità della libertà umana, sottolinea Ricoeur, sono tali che essa è in grado di affermare se stessa al di là di ogni forma di determinismo: della libertà non vi sono deduzioni certe, evidenze prime ed apodittiche. Si tratta di un atto originario di libertà affermante se stessa. Ma a questo punto il discorso filosofico rigoroso conosce una “rottura metodologica”: la descrizione fenomenologica ci abbandona, «la fenomenologia stessa si trascende in una metafisica [della soggettività]»35. La terza opera, mai scritta, della trilogia “Filosofia della volontà” doveva affrontare il rapporto tra libertà e trascendenza, inoltrandosi nell’ambito del noumenico: questa Poetica della volontà, così Ricoeur la chiama, doveva inoltrarsi nei sentieri di una metafisica che il filosofo non ha mai voluto percorrere. Ricoeur, uomo di salda fede calvinista, è rimasto sempre fedele alla concezione di una “filosofia senza

34 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité, I., L’homme faillible, II. La symbolique du mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960 (nuova edizione 1988); tr. it. di M. Girardet, Filitudine e colpa, I. L’uomo fallibile, II., La simbolica del male, Introduzione di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 235. 35 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Le volontarie et l’involontaire, Aubier, Paris, 1950; tr. it. di M. Bonato, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova, 1990, p. 462.

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assoluto”, teorizzata anche dal suo amico fenomenologo Pierre Thévenaz36. 3. Le ombre del rimosso: la psicoanalisi come “archeologia del soggetto”

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3.1 Il dibattito con Jacques Lacan Il confronto di Ricoeur con Freud, già presente ne Il volontario e l’involontario, si intensifica negli anni Sessanta, divenendo oggetto di corsi universitari37 e tema specifico di un ampio e Cfr. P. THÉVENAZ, L’homme et sa raison, La Baconnière, Neuchâtel, 1954. Si veda anche P. RICOEUR, Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz, in Lectures 3, Seuil, Paris, 1994; D. JERVOLINO, Pierre Thévenaz e la filosofia senza assoluto, Studium, Roma, 2003. 37 Cfr. P. RICOEUR, Attorno alla psicoanalisi, a cura di Francesco Barale, Jaca Book, Milano, 2020: questo volume si compone di due parti. Nella prima viene presentata al lettore italiano la raccolta Écrits et conférences 1. Autour de la Psychanalyse a cura del «Fonds Ricoeur», che comprende dieci saggi di notevole interesse sia per il filosofo che per lo psicoanalista, in larga misura poco conosciuti e finora difficilmente accessibili. La seconda parte - Una lunga via. Scritti 1954-2003 - include testi antecedenti e successivi a quelli della prima, raccolti dal curatore dell’edizione italiana con la collaborazione di Vinicio Busacchi e di Giuseppe Martini. Il volume raccoglie pertanto gli scritti ricoeuriani «attorno alla psicoanalisi» (al di fuori delle due grandi opere degli anni ’60, Della interpretazione. Saggio su Freud e Il conflitto delle interpretazioni), che concorrono a mostrare l’evoluzione del pensiero ricoeuriano sulla psicoanalisi. Importanti lavori critici su Ricoeur lettore di Freud sono stati svolti da Vinicio Busacchi: mi limito ad indicare V. BUSACCHI, Ricoeur vs. Freud: métamorphose d’une nouvelle compréhension de l’homme, L'Harmattan, Paris, 2011; V. BUSACCHI, - W.C. FREITAS PINTO, (sous la direction de), Ricœur et la psychanalyse, numéro monographique de la revue «Études Ricœuriennes/Ricœur Studies», vol. 7/1, 2016. 36

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documentato volume: Dell’interpretazione. Saggio su Freud (1965). All’indomani della sua uscita questo testo divenne subito motivo di accesi dibatti e di vere e proprie aggressioni intellettuali che causarono un certo ostracismo di Ricoeur nella scena filosofica francese per molti anni: de facto, possiamo dire che ancora oggi il pensiero ricoeriano trovi più fertile terreno di ricezione in Italia e nei paesi latino-americani che non in Francia, condizionata da un certo predominio delle scienze umane e dalle varie tendenze postmoderniste, sempre critiche nei confronti delle “filosofie del cogito”. Dagli strutturalisti e dai teorici del pensiero posto-metafisico Ricoeur è stato generalmente accusato di difendere uno spiritualismo di retroguardia, carico di indebite commistioni tra il filosofico e il teologico. Durissime sono state le critiche ricevute da parte di numerosi psicoanalisti, soprattutto quelli di scuola lacaniana, che hanno delegittimato l’impresa ricoeriana di una “interpretazione filosofica della psicoanalisi”, rimproverandogli anche una estraneità nei confronti della pratica clinica. Tutte queste controversie ci vengono descritte, con opportuni riferimenti bibliografici, da François Dosse nel suo volume Le sens d’une vie38: in particolare Dosse si sofferma sul complesso rapporto di Ricoeur con Jacques Lacan, l’influente autore di un originale rinnovamento del freudismo di stampo chiaramente antiumanistico. L’incontro tra i due avvenne per la prima volta nel 1960 a Bonneval ad un seminario tra filosofi e psicoanalisti. Lacan ascoltò con attenzione la relazione di Ricoeur che verteva sull’inconscio come “parola primitiva del desiderio”, trovando delle profonde similitudini con la propria concezione dell’inconscio strutturato come linguaggio. Lacan si dimostrava, inoltre, interessato ad una lettura della psicoanalisi come philosophische Weltanschauung; così invitò Ricoeur a partecipare Cfr. F. DOSSE, Paul Ricoeur. Les sens d'une vie, La Découverte, Paris, 2008 (nouvelle édition actualisée et enrichie), pp. 331-342. 38

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ai seminari da lui tenuti a Sainte-Anne. Tuttavia Ricoeur, dopo un anno di assidua presenza ai seminari lacaniani, stanco dello stile “barocco ed astruso” dello psicoanalista, smise di frequentare tali incontri non traendone alcun vantaggio significativo. I rapporti tra i due si deteriorarono e addirittura Lacan, all’uscita del volume su Freud, accusò Ricoeur di aver plagiato le sue idee, fraintendendo il senso profondo del suo “ritorno a Freud”39. Lacan e con lui numerosi altri psicoanalisti francesi cercarono di screditare l’intero lavoro scientifico di Ricoeur, facendo recensioni negative del suo volume su Freud e rimproverandogli di non essere aggiornato sugli sviluppi della psicoanalisi post-freudiana. Il colpo decisivo atto a screditare l’autore francese venne da un corposo saggio firmato da Michel Tort e pubblicato nel 1966 presso due numeri della rivista «Les temps modernes»: come ricorda anche Francesca Brezzi, una delle prime studiose italiane di Ricoeur, in questo paper che ebbe vasta eco «vengono sintetizzati tutti gli argomenti utili per squalificare Ricoeur: dall’imitazione alla superficialità da manuale, dalla ridicolizzazione della funzione del soggetto, centro dell’ermeneutica ricoeuriana, tacciata perciò di essere una ideologia, al rifiuto violento della opposizione tra archeologia e teleologia, infine nuovamente la critica di essere un pensatore religioso ed escatologico»40. Cfr. P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., pp. 46-50. 40 F. BREZZI, Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 147. Cfr. Anche M. TORT, De l’interprétation ou la machine herméneutique, «Les temps modernes», 21, n. 237, 1966, pp. 1461-1493, n. 238, pp. 16291652. Sono molto significative le parole con le quali Alain Badiou, filosofo vicino alle posizioni di Lacan, mostra di condividere le critiche avanzate da Michel Tort a Ricoeur: «Avevo trovate fondate malgrado la loro virulenza, le critiche mosse dal moi collega Michel Tort al libro [di Ricoeur] Dell’interpretazione, consacrato essenzialmente a Freud e alla psicoanalisi, poichè noi lacaniani non potevamo tollerare che si tirasse la psicoanalisi dal 39

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Tutte queste critiche corrosive, fondate anche su fraintendimenti dell’intentio auctoris, amareggiarono Ricoeur e generarono in lui un rifiuto di continuare ad occuparsi di tematiche psicoanalitiche. Effettivamente, dopo il volume freudiano del 1965 e i connessi opuscoli di chiarificazione/autodifesa, Ricoeur non pubblicò quasi più nulla sulla psicoanalisi; una delle poche eccezioni a questo “silenzio” è una conferenza tenuta nel 1982 a Louvain-La Neuve, in un colloquio in memoria di Alphonse De Waelhens41. Quest’ultimo, seppur vicino alla sensibilità lacaniana, mostrava di condividere alcuni aspetti dell’approccio di Ricoeur a Freud: dalla critica al positivismo, sotteso alle analisi del maestro viennese, alla necessità di una generale valutazione filosofica della psicoanalisi, al fine di poterla correttamente valutare nelle sue possibilità esplicative ma anche nei suoi limiti epistemologici42.

lato dell’ermeneutica» (A. BADIOU, L’aventure de la philosophie française, La fabrique, Paris, 2002; tr. it. di L. Boni, Il supposto soggetto cristiano di Paul Ricoeur, in IDEM, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma, 2013, pp. 58-71, p. 58). 41 Cfr. P. RICOEUR, La question de la preuve dans les écrits psychanalytiques de Freud, in Aa. Vv., Qu’est-ce que l’homme? Philosophie/Psychanalyse. Hommage à Alphonse De Waelhens (19111981), Faculté universitaire Saint-Louis, Bruxelles, 1982, pp. 591-619; tr. it. di D. Iannotta, Psicoanalisi e scienza, «Lettera Internazionale», 19, 1989, pp. 11-21. In realtà, questo testo costituisce la ripresa di una versione originale in inglese dal titolo The Question of Proof in Freud’s Psychoanalytical Writings, «Journal of the American Psychoanalytic Association», 4, 25, 1977, pp. 836-871. 42 A tal proposito ci limitiamo ad indicare due delle sue più significative opere: A. DE WAELHENS, La Philosophie et les expériences naturelles, M. Nijhoff, La Haye 1961; IDEM, La Psychose. Essai d'interprétation analytique et existentiale, Nauwelaerts, Louvain, 1971. Cfr. anche M. MANGIAGALLI, Alphonse de Waelhens fenomenologo, FrancoAngeli, Milano, 2003.

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Va sottolineato che nei suoi scritti Ricoeur accenna anche al problema epistemologico suscitato dalla psicoanalisi: in maniera simile a Karl Popper, ma con toni certamente meno polemici, egli nega alla psicoanalisi lo statuto di una scienza dalle leggi certe, universali ed indubitabili. Le conferisce piuttosto il carattere di una interpretazione della realtà umana basata sull’osservazione e l’ascolto (il dialogo analista-paziente)43. Richiamandosi alla distinzione effettuata da Wilhelm Dilthey tra “spiegare” (Erklären) e “comprendere” (Verstehen), Ricoeur afferma che la psicoanalisi freudiana è più legata al “comprendere” di carattere ermeneutico – tipico delle “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften) – che non alla “spiegazione” basata sulla successione necessaria di causa/effetto, caratteristica delle “scienze della natura”: «La psicoanalisi non è una scienza dell’osservazione, poiché è una interpretazione, più paragonabile alla storia che alla psicologia»44. Jacques Lacan critica tale visione ricoeuriana della psicoanalisi come ermeneutica e soprattutto non accetta la concezione antropologica di Ricoeur, a suo parere, eccessivamente cartesiana e fenomenologica, ancora legata al primato della coscienza. Secondo Lacan, dopo Freud non sarebbe più possibile una filosofia umanistica di tipo tradizionale, logocentrica, basata sul liberum arbitrium e sull’autopossesso consapevole di sé e delle proprie facoltà. Come è noto, Lacan – in esplicita opposizione anche a Ricoeur – afferma la necessità di una “dislocazione” della coscienza: a suo giudizio «il centro vero dell’essere umano non è ormai più nello stesso posto che tutta una tradizione umanistica

A tal riguardo ci limitiamo ad indicare il volume di D. ANTISERI (a cura di), Analisi epistemologica del marxismo e della psicoanalisi, Città Nuova, Roma, 19772. 44 DEF, p. 384. 43

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gli assegnava»45. Secondo Lacan l’uomo trova il suo centro non tanto nel cogito – nel «trastullo del proprio pensiero», là dove «l’essere è presente alla coscienza» –, quando piuttosto nell’inconscio ovvero nell’Es analizzato da Freud; l’inconscio per il freudiano Lacan «è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco o occupato da una menzogna: il capitolo censurato»46. Nei confronti dell’Es l’uomo è in una condizione di totale assoggettamento: “l’inconscio è strutturato come un linguaggio” e, di conseguenza, “l’uomo è parlato”, è dominato cioè da strutture che non crea, ma che egli rinviene in se stesso 47. «L’importanza di Lacan» - osserva Michel Foucault - «è di aver mostrato come, attraverso il discorso del malato e i sintomi della sua nevrosi, sono le strutture, il sistema stesso del linguaggio – e non il soggetto – che parlano»48. Vi sarebbe, quindi, una alterità J. LACAN, Écrits, Seuil, Paris, 1966, p. 401; tr. it. di G.B. Contri, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p. 391. 46 Ibidem, edizione francese p. 259; tr. it., p. 252. 47 L’Es è considerato da Lacan come quella forma di alterità che domina e struttura tutta la soggettività nei suoi bisogni e nei suoi desideri originari. Si comprende allora la rilettura lacaniana del celebre aforisma freudiano «Wo Es war, soll Ich werden» , «dove c’era l’Es [l’inconscio come luogo degli istinti fondamentali], deve subentrare l’io cosciente». Come ha ben sottolineato anche Umberto Eco, nella ripresa lacaniana di tale aforisma di Freud, «non si tratta di sostituire la chiarezza razionale dell’Io alla realtà originaria ed oscura dell’Es: si tratta di ad-venire, di andare là, di venire alla luce là, in quel luogo originario in cui sta l’Es come "luogo d’essere", Kern unseres Wesen. Si può ritrovare la pace (nella cura psicoanalitica come nella cura filosofica che mi spinge a domandarmi cosa sia l’essere e chi sono io) solo se si accetta l’idea di non essere dove abitualmente si è, ma di essere dove abitualmente non si è. Bisogna ritrovare il luogo di origine, riconoscerlo, liegen lassen, lasciarlo apparire e custodirlo. Non per nulla Lacan attribuisce al detto di Freud un "tono presocratico"» (U. ECO, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, [prima edizione 1968], Bompiani, Milano, 2002 5, pp. 340-341). 48 M. FOUCAULT, «La Quinzaine Littéraire», 15 maggio 1966, n. 5. 45

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che “parla” in noi e innanzi alla quale noi – esseri razionali e consapevoli – non rimaniamo che ricettacoli essenzialmente passivi. Tale alterità che è in noi si configura come «impersonale soggettività dell’Inconscio – strutturato da leggi oggettive – agente “di qua” dalla finzione dell’Io»49: con Lacan siamo innanzi ad una rilettura in chiave psicoanalitica e strutturalista della tematica dell’ “ospite segreto in interiore homine”, tipica della tradizione platonico-agostiniana. In quest’ottica freudiana-lacaniana, la soggettività della tradizione umanistica, agostiniana e cartesiana non è che una finzione, una metafora illusoria; la vera realtà dell’io, il vero fondamento del suo linguaggio, di ogni desiderio e di ogni azione va ricercata nelle strutture dell’inconscio. Come suggerisce anche Anika Rifflet-Lemaire, «la parte vera ed essenziale della personalità è ciò che sta sotto la maschera, ciò che è stato rimosso, vale a dire la Natura, vessata da una forza superiore, mentre invece se ci fermiamo alla maschera e cioè al discorso, all’Io e al comportamento sociale, il soggetto prolifera sotto le forme multiple che egli si dà o che gli vengono imposte. Forme che sono fantasmi, riflessi dell’essere vero»50. Nel pensiero di Lacan, come è intuibile anche dalle poche cose che abbiamo detto, confluiscono e si fondono la psicologia del profondo, lo strutturalismo e la linguistica con le forme di antiumanesimo tipiche anche dell’ultimo Heidegger 51: in questa complessa M. FRANCIONI, Psicoanalisi linguistica ed epistemologia in Jacques Lacan, Boringhieri, Torino, 1978, p. 22. 50 A. RIFFLET-LEMAIRE, Jacques Lacan, Bruxelles 1970; tr. it. di R. Eynard, Jacques Lacan, Astrolabio, Roma, 1972, p. 101. 51 Lacan e il cosiddetto “secondo” Heidegger condividono la medesima ottica antiumanistica; questo è stato ampiamente messo in luce anche da Alain Juranville, secondo il quale «pour Lacan comme pour Heidegger, au principe du monde il y a Autre chose que l’homme» (A. JURANVILLE, Lacan et la philosophie, PUF, Paris, 1984, p. 137). Anche Umberto Eco si è soffermato a riflettere sul «lacanismo […] come un caso di manierismo 49

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prospettiva multidisciplinare «l’Io, per la sua funzione puramente difensiva e narcisistica, non è che il soggetto immaginario, cioè l’assoggettato senza vera autonomia o libertà»52. Come ha sottolineato anche Giovanni Fornero, la concezione lacaniana «del primato dell’inconscio, e la relativa impostazione antiumanistica, si accompagnano alla tesi del primato dell’ordine simbolico, ossia alla concezione secondo cui l’individuo risulta attraversato da una impersonale ed onnipotente trama di simboli e di significati che lo costituiscono, ma che egli non ha creato e che non domina mai, essendone, più che la causa, l’effetto o il prodotto»53. Non ci pare esagerato affermare che tutti gli sviluppi del pensiero di Ricoeur, successivi al suo dibattito con Lacan, costituiscano una risposa implicita, e talvolta anche esplicita, alle provocazioni antiumanistiche di Lacan e, più in generale, degli strutturalisti francesi: come vedremo nelle pagine successive, opponendosi a queste variegate “filosofie dell’anti-cogito”, Ricoeur cerca di elaborare una “filosofia del cogito integrale”, incentrata sui concetti di “teleologia del soggetto”, di homo capax, e di “identità narrativa”. In questo suo itinerario risulta decisivo il confronto con il freudismo54, di cui lo stesso Lacan si faceva promotore e ripropositore; Lacan persino del suo ultimo

heideggeriano» (U. ECO, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, op. cit, p. 341). 52 M. FRANCIONI, Psicoanalisi linguistica ed epistemologia in Jacques Lacan, op. cit., p. 12. 53 G. FORNERO, Lacan: il «ritorno a Freud» e la rivoluzione copernicana psicoanalitica, in N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, Vol. 6: Il pensiero contemporaneo: dagli sviluppi del Marxismo allo Strutturalismo, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, pp. 614-646, p. 618. 54 A tal riguardo si veda anche M. GILBERT, L’identité narrative. Une reprise à partir de Freud de la pensée de Paul Ricoeur, Labor et Fides, Genève, 2001.

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seminario, rivolgendosi al pubblico affermava: «C’est à vous d’être lacaniens, si vous voulez. Moi, je suis freudien»55.

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3.2 Il determinismo di éros e thánatos Fin dalla Prefazione alla sua opera principale sulla psicoanalisi – il già citato De l’interprétation. Essai sur Freud – Ricoeur indica con chiarezza i motivi, i limiti consapevoli e le finalità della sua indagine. Innanzitutto ci dice di occuparsi di Freud come «monumento della nostra cultura»56 e, in particolare, di rivolgersi all’opera freudiana considerandone soprattutto i contenuti filosofici ed evitando di addentrarsi sia sugli aspetti terapeutici sia sulle varie scuole createsi in continuità o in distacco dagli insegnamenti del maestro viennese: basti pensare ad Alfred Adler, a Carl Gustav Jung, a Mélanie Klein o a Viktor Frankl. In J. LACAN, Séminaire de Caracas, luglio 1980, «L’Ane», 1, avril-mai 1981, p. 30. Sul “ritorno a Freud” di Lacan ci limitiamo a segnalare T. DUFRESNE, Returns to the "French Freud": Freud, Lacan and Beyond, Routledge, New York – London, 1997; M. RECALCATI, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, RaffaelloCortina, Milano, 2012; D. COSENZA - P. D’ALESSANDRO (a cura di), L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicoanalisi e filosofia, LED, Milano, 2012. Sul dibattito tra Lacan e Ricoeur si vedano anche R. JÄHNIG, Freuds Dezentrierung des Subjekts im Zeichen der Hermeneutiken Ricoeurs und Lacans, Peter Lang, Bern, 1989; W. FRANKE, Psychoanalysis as Hermeneutics of the Subject: Freud, Lacan, Ricoeur, «Dialogue. Canadian Philosophical Review / Revue Canadienne de Philosophie», 1, 1998, pp. 6581; K. SIMMS, Ricoeur and Lacan, Bloomsbury Academic, New York – London, 2007; S.E. PEPPINO, Sobre la interpretación en psicoanálisis: Ricoeur, Freud y Lacan, «Revista de Filosofía», 26, 2014, pp. 81-99; e in lingua portoghese il contributo di V. DI MATTEO, Cogito hermenêutico e sujeito lacaniano: no Ensaio sobre Freud de Paul Ricoeur, Novas Edições Acadêmicas, São Paulo, 2016. 56 DEF, p. 9. 55

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particolare, Ricoeur prende le distanze anche da quella connessione tra freudismo e marxismo che negli anni Sessanta e Settanta ha caratterizzato tanta parte della cultura francese, europea ma anche americana; in queste prospettive il richiamo all’energetica freudiana si è generalmente inserito all’interno di quelle forme di contestazione anticapitalistica che sono state alla base dei movimenti di emancipazione del '68: basti pensare ad autori della Scuola di Francoforte come Herbert Marcuse ed Erich Fromm oppure ad intellettuali francesi come Gilles Deleuze e Michel Foucault57. Riprendendo liberamente la struttura della Critica della ragion pura, Ricoeur suddivide il suo volume su Freud in tre parti: una Problematica dedicata alla Problemstellung, cioè ai motivi dell’interesse per Freud quale “interprete” del desiderio umano e del linguaggio e perciò inevitabile “pietra d’inciampo” per i discorsi filosofici tradizionali sul primato del cogito; una Analitica dedicata al commentario delle opere del maestro viennese; una Dialettica nella quale viene sviluppata l’interpretazione filosofica del freudismo come “archeologia del soggetto”. È in quest’ultima parte che viene discussa la dialettica – generante il “conflitto delle interpretazioni” della realtà umana – tra una “archeologia del soggetto” e una “teleologia del soggetto”.

Sul rapporto tra marxismo e psicoanalisi la bibliografia è naturalmente molto ampia. In questa sede ci limitiamo a segnalare la raccolta di scritti di H. MARCUSE, Psicoanalisi e politica, tr. it. di L. Ferrara degli Uberti, C. Camporesi, F. Cerutti, Introduzione di R. Finelli, manifestolibri, Roma, 2006. Si veda anche l’interessante volume dai tratti biografici e teoretici: E. FROMM, Beyond the Chains of Illusion. My Encounter with Marx and Freud, Pocket Books, New York 1962 [riedito nel 2006 presso la Bloomsbury Academic]; tr. it. di L. Pecchio, Marx e Freud: oltre le catene dell’illusione, Il Saggiatore, Milano, 1989. 57

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Il centro prospettico a partire dal quale Ricoeur legge Freud è, dunque, costituito «dal concetto di archeologia del soggetto»58. Il filosofo francese sottolinea che «questo concetto non è un concetto di Freud»59, ma può essere una valida chiave di lettura del freudismo quale “inconoclasma dell’intimo” e della pratica psicoanalitica quale “tecnica del notturno”. La psicoanalisi va ad indagare l’«ospite segreto» che è in noi, quella parte che è “l’altro da noi in noi stessi”: si tratta di un cammino a ritroso, «verso l’istintuale puro». Secondo Freud «il nucleo dell’inconscio è formato da rappresentanze di istinti che intendono scaricare le loro carice psichiche, quindi di impulsi di desiderio (Der Kern des Ubwbesteht aus Triebrepräsentanzen, die ihre Besetzung abführen wollen, also aus Wunschregungen)»60. L’interesse di Ricoeur è rivolto essenzialmente alla «nuova comprensione dell’uomo che Freud ha prodotto»61. A questo proposito Ricoeur si richiama ad un celebre scritto freudiano (Una difficoltà della psicoanalisi, 1917) nel quale il maestro austriaco inserisce la propria scoperta dell’inconscio come la terza grande “umiliazione antropologica” prodotta dalla scienza moderna: dopo DEF, p. 461. Sull’interpretazione ricoeuriana di Freud si vedano anche A. GRÜNBAUM, Critique of Ricoeur’s Philosophy of Psychoanalysis, in IDEM, The Foundation of Psychoanalysis. A Philosophical Critique, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London, 1984, pp. 43-94; P. WELSEN, Philosophie und Psychoanalyse. Zum Begriff der Hermeneutik in der Freud-Deutung Paul Ricoeurs, Max Niemeyer, Tübingen, 1986; V. BUSACCHI, Ricoeur e Freud. Nota bibliografica, in D. JERVOLINO e G. MARTINI (a cura di), Paul Ricoeur e la psicoanalisi. Testi scelti, FrancoAngeli, Milano, 2007, pp. 171-173. 59 DEF, p. 461. 60 S. FREUD, Das Unbewusste, [edizione originale 1915], in Gesammelte Werke, a cura di A. Freud et alii, Imago Publishing, London, 1946, Vol. X, p. 286; tr.it., L’inconscio, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino, 1989, Vol. VIII, p. 71. 61 DEF, p. 10. 58

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Copernico l’uomo non è più il centro dell’universo, “signore e padrone della natura”, ma è una “canna al vento” consapevole di muoversi tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo; dopo Darwin l’uomo ha scoperto di essere inserito in un vasto ciclo biologico-evolutivo che lo precede e, in qualche misura, lo determina; la psicoanalisi freudiana «rivela all’uomo che “l’io non è padrone a casa propria”; l’uomo che sapeva già di non essere né il signore del cosmo né di quello degli esseri viventi, scopre di non essere nemmeno il signore della propria psiche»62. La psicoanalisi ha portato una vera e propria rivoluzione concettuale, detronizzando l’uomo dal suo castello interiore, dalla sicurezza epistemologica della sua coscienza ed autocoscienza. Detto in altre parole, con Freud la realtà umana è divenuta ancora più problematica: la magna quaestio del soggetto sulla sua identità si è ripresentata con una urgenza ancora più radicale. L’io ha scoperto in se stesso una “estraneità” – l’Es con i suoi istinti e desideri fondamentali – che rimane ombra: la intuisce dai suoi effetti nell’azione ma non è in grado di delinearne in toto la natura. Con Freud, l’uomo è divenuto ancora più sconosciuto a se stesso: riprendendo il linguaggio con il quale Kant dichiarava “inconoscibile” (unerkenntbar) la “cosa in sé” (cioè il fondamento extra-soggettivo della rappresentazione), Freud afferma che anche l’interiorità è divenuta inconoscibile, rimanendo in essa un fondo opaco, un fondo irrappresentabile (unvorstellbar): «l’oggetto interno è meno inconoscibile di quanto non lo sia il mondo esterno»63. DEF, p. 469. Il testo commentato è S. FREUD, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse [edizione originale 1917], in Gesammelte Werke, op. cit, Vol. XII, pp. 3-12; tr. it., Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere di Sigmund Freud, cit., vol. VIII. 63 S. FREUD, Das Unbewusste, in Gesammelte Werke, op. cit., vol. X, p. 276; tr.it., L’inconscio, in Opere di Sigmund Freud, op. cit., Vol. VIII, p. 61. 62

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A questo punto si può comprendere la “scossa maieutica” generata dal freudismo anche in ambito filosofico: nella psicologia del profondo «la coscienza cessa di essere ciò che è meglio conosciuto per diventare essa stessa problematica; vi è d’ora innanzi una questione della coscienza, del divenir cosciente (Bewusstwerden), al posto della cosiddetta evidenza della coscienza (Bewusstsein)».64 La psicoanalisi si qualifica come una forma radicale di anti-cartesianesimo e di implicita delegittimazione sia della fenomenologia husserliana che della filosofia riflessiva tipicamente francese; tutti movimenti d’idee ai quali Ricoeur fa riferimento. La psicoanalisi viene, dunque, studiata da Ricoeur come banco di prova per una filosofia del cogito di carattere cartesiano e fenomenologico, fondata sulla autocoscienza come appercezione immediata (il pensiero che prende ad oggetto se stesso). Freud introduce il sospetto all’interno di quella verità prima ed incontrovertibile costituita dal cogito di matrice cartesiana e, più in generale, dalla “soggettività trascendentale” dei moderni (da Kant ad Husserl). Freud – sottolinea Ricoeur – scardina l’idea stessa della fondazione trascendentale, la delegittima, rendendola un’illusoria pretesa narcisistica. In questo senso, il freudismo è una forma radicale di anti-trascendentalismo e di anti-fenomenologia: nel maestro viennese v’è una critica, sempre implicita, «di quel punto inespugnabile da qualsiasi dubbio, che Husserl chiama “la presenza vivente di sé” e al quale si accede attraverso la riduzione fenomenologica»65. La “scoperta” freudiana dell’inconscio conduce ad uno “spossessamento dell’io”, ad uno «spossessamento della coscienza immediata»66: le certezze DEF, p. 467. DEF, p. 463. Sul complesso confronto teoretico tra Husserl e Freud si veda F.S. TRINCIA, Husserl, Freud e il problema dell’inconscio, Morcelliana, Brescia, 2008. 66 DEF, p. 465. 64 65

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apodittiche del cogito cartesiano, dell’Ich denke kantiano e persino dei vissuti coscienziali della fenomenologia (gli Erlebnisse oggetto delle indagini di Husserl) divengono, per Freud, delle certezze illusorie radicate nel narcisismo: «Scopro allora che la verità apodittica Io penso, io sono, nel momento stesso in cui è enunciata, viene otturata da una pseudo-evidenza: un cogito fallito si è già sostituito alla prima verità della riflessione Io penso, io sono, scopro nel centro focale stesso dell’ “ego cogito” un istinto in cui tutte le forme derivate si indirizzano verso qualcosa di assolutamente primitivo, primordiale, preliminare, che Freud chiama narcisismo primario». 67 Dopo Freud, l’io non può più credersi padrone di se stesso: alla radice del pensiero razionale e di ogni azione volontaria che si crede libera (si ricordi l’espressione cartesiana actiones sunt volitiones) v’è un “fondo d’essere indistinto ed opaco”, dominato da “pulsioni di desiderio” individuate come éros e thánatos. Come è noto, gli impulsi fondamentali che determinano la vita psichica e, di conseguenza, l’agire sono radicati in quello che Freud definisce come Es (id latino), la parte sommersa di quell’iceberg che è la soggettività umana; quest’ultima viene tripartita in un Ego che è la coscienza, in un Es che è l’inconscio, in Super-Ego che è la moralità quale introiezione/sublimazione del modello paterno o, più in generale, delle norme religiose e culturali all’interno delle quali l’uomo si trova inevitabilmente inserito. Se il conscio è la zona luminosa dell’io dove si avvertono con consapevolezza impressioni sensoriali, pensieri e ricordi, l’Es rappresenta il fondo indistinto e tenebroso dell’inconscio, dominato dalla libido quale istinto di piacere e di vita (éros) e da un istinto di aggressione, distruzione e morte (thánatos). Tra i due istinti primordiali v’è una tensione originaria fonte perenne di conflitto anche per gli uomini che vivono nelle cosiddette società civilizzate. In maniera non del tutto differente da Herbert 67

DEF, p. 468.

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Marcuse68, Ricoeur mette in luce le conseguenze sul piano politico e sociale dell’energetica freudiana basata sul conflitto tra éros e thánatos. Quella che elabora Freud è anche una “antropologia politica” basata sull’osservazione disincantata dell’originaria negatività della natura umana: se da una parte l’éros è alla base del desiderio umano di stabilire rapporti con l’altro da sé, thánatos – l’istinto di morte – segna «una ostilità primordiale dell’uomo verso l’uomo»69. A tal proposito, Ricoeur cita e commenta alcuni significativi passi di Freud carichi di reminiscenze hobbesiane: «L’uomo non è affatto quell’essere intimamente buono, dal cuore assetato di amore, di cui si dice che si difende quando è attaccato, ma un essere, invece, che deve mettere sul conto dei suoi dati istintuali una buona dose di aggressività […]. In effetti l’uomo è sottoposto alla tentazione di soddisfare il suo bisogno di aggressione contro il proprio prossimo, di sfruttare il suo lavoro senza compenso, di utilizzarlo sessualmente senza il suo consenso, di appropriarsi dei suoi beni, di umiliarlo, di infliggergli delle sofferenze, di martirizzarlo e di ucciderlo. Homo homini lupus […]»70. L’istinto di morte viene definito da Freud come un “istinto anticulturale” che rende problematica la costituzione stessa del legame sociale: quest’ultimo – sottolinea Ricoeur – non può essere ritenuto una semplice estensione della libido individuale, come in Psicologia delle masse e analisi dell’Io [scritto freudiano del 1921], ma è esso stesso l’espressione del conflitto di istinti»71. Il “disagio nella civiltà” (Das Unbehagen in der Kultur) ha quindi 68 Cfr. H. MARCUSE, Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud, Beacon Press, Boston 1955; tr. it. di L. Bassi, Introduzione di G. Jervis, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2001. 69 DEF, p. 337. 70 S. FREUD, Das Unbehagen in der Kultur [edizione originale 1929], in Gesammelte Werke, op. cit., vol. XIV, pp. 470-471. Questo ed il successivo passo freudiano che riportiamo vengono commentati in DEF, pp. 336-341. 71 DEF, p. 337.

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la sua radice in interiore homine, nel fondo oscuro dell’Es dominato dalle opposte tendenze di éros e thánatos. Non sfugga la declinazione freudiana sul piano psicologico e sociale della “dialettica cosmica tra amore e contesa” (philía e neîkos), già messa in luce dal greco Empedocle: «Il naturale istinto di aggressività nell’uomo,» – ribadisce Freud – «l’ostilità di ognuno contro tutti e di tutti contro ognuno, si oppone a questo compito della natura. Questo istinto di aggressività è il derivato e il principale rappresentante dell’istinto di morte che abbiamo rinvenuto a fianco di Eros e che divide con lui il dominio sul mondo. Quindi, sembra a me, il senso dell’evoluzione della cultura non presenta enigmi per noi; essa deve farci vedere la lotta tra Eros e la morte, tra gli istinti di vita e gli istinti di distruzione così come si aprono una via nella specie umana. In questa lotta consiste essenzialmente ogni vita; è possibile d’ora in poi descrivere l’evoluzione della civiltà come la lotta della specie umana per l’esistenza»72. 3.3 Dall’«archeologia del soggetto» all’«archeologia della cultura» Da quanto detto si possono dunque comprendere i motivi per i quali Ricoeur giunge ad interpretare la psicoanalisi come una “archeologia del soggetto”: si tratta di uno scavo nelle radici più profonde dell’io, le quali gettano una luce anche sulle vere dinamiche generanti la vita sociale. Ricoeur interpreta il freudismo come «una rivelazione dell’arcaico, una manifestazione del sempre anteriore»73, del rimosso: «Arcaicità dell’Es e arcaicità del super Io, arcaicità del narcisismo e arcaicità dell’istinto di S. FREUD, Das Unbehagen in der Kultur, in Gesammelte Werke, op. cit., vol. XIV, p. 481. 73 DEF, p. 482. 72

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morte, non formano se non un’unica arcaicità»74. In questa prospettiva, «l’uomo è il solo essere che è la preda della sua infanzia; è quell’essere che la sua infanzia non cessa di attirare indietro»75. Il tema dell’anteriore – commenta il filosofo francese – «è la ossessione [di Freud]»76. Ricoeur afferma che il concetto freudiano di arcaicità ha una duplice valenza: v’è un concetto ristretto di arcaicità che riguarda la vita interiore del singolo (deducibile dai suoi sogni, dalle sue nevrosi, ecc.) e v’è un concetto generalizzato che sta alla base della teoria psicoanalitica della cultura e delle dinamiche sociali. Il concetto ristretto di arcaicità, secondo Ricoeur, trova una sua precisa elaborazione nel capitolo VII dell’Interpretazione dei sogni: in queste pagine Freud fa emergere chiaramente che la DEF, p. 511. Sigfried Bernfeld e sua moglie (Susanne Cassirer Bernfeld) nella loro biografia freudiana hanno messo in evidenza la sensibilità che il maestro viennese ha avuto fin da adoscelente per l’archeologia e hanno ben sottolineato anche la concezione che lo stesso Freud aveva della psicoanalisi come una “archeologia del soggetto”: «Freud definì la prima infanzia come preistoria dell’individuo. […] Occultati dalle rimozioni edipiche i ricordi della prima infanzia giaccioni intatti nell’incoscio, seppelliti sotto strati di amnesia. Come l’archeologo porta alla luce i resti di una civiltà tramontata, così lo psicoanalista […] porta allo scoperto i ricordi delle proprie origini. Questa similitudine [tra archeologia e psicoanalisi], frequente negli scritti di Freud, reca ancora tracce delle prime idee che egli si era costruito a proposito della proria infanzia. Per tutta la vita si interessò all’archeologia e alla storia antica; gli studi archeologici e la sua collezione erano per lui “un inesaribile conforto nelle lotte della vita” (Psicologia del ginnasiale, 1914, p. 478). Ciò è notevole di per sé, ma ancora più stupefacente è il fatto che questi interessi si siano mantenuti inalterati nelle diverse fasi della suo sviluppo e dell’evoluzione della sua opera» (S. BERNFELD – S. CASSIRER BERNFELD, Bausteine der Freud-Biographik, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1981; tr. it. di I. Bernardini e G. Quattrocchi, Per una biografia di Freud, Boringhieri, Torino, 1991, p. 185; si veda, in particolare, il capitolo VIII dal titolo Freud e l’archeologia, pp. 185-293). 75 DEF, p. 512. 76 DEF, p. 482. 74

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comprensione del soggetto – i motivi generanti traumi e nevrosi – va effettuata a partire dal concetto di “regressione”, da intendere anche come necessità di un “ritorno all’infanzia”, o meglio ancora, all’interpretazione del “rimosso dell’infanzia”. In particolare, è nei sogni che tale rimosso dell’infanzia riemerge, spesso ancora celato dietro ulteriori stratificazioni simboliche. A questo proposito scrive Freud «si intuisce l’esattezza delle parole di Nietzsche: nel sogno “sopravvive un antichissimo brano di umanità, che non si può quasi più raggiungere per via diretta” (im Traume ,,ein uraltes Stück Menschtum fortübt, zu dem man auf direktem Wege kaum mehr gelangen kann") e si è indotti a sperare di arrivare, con l’analisi dei sogni, a conoscere l’eredità arcaica dell’uomo (Kenntnis der archaischen Erbschaft des Menschen), a riconoscere ciò che è in lui psichicamente innato»77. Ricoeur legge Freud come “teorico di un abissale senza tempo”: effettivamente il maestro viennese qualifica la dimensione dell’inconscio come “atemporale” (zeitlos) e, in quanto tale, insuperabile. L’inconscio lega inesorabilmente l’io al suo passato, indebolendo di conseguenza ogni possibilità di riscatto, ogni chance di azione “libera dalle catene del passato”: «nell’inconscio» – sostiene Freud – «nulla può essere portato a termine, nulla è trascorso o dimenticato»78. Ricoeur scorge nel freudismo un senso del profondo e dell’abissale che diviene la chiave ermeneutica sia per la vita del S. FREUD, Die Traumdeutung, in Gesammelte Werke, Voll. II/III, p. 554; tr. it. e cura di A. Luchetti, L’interpretazione dei sogni, Prefazione di C. Sini, Bur, Milano, 2012, p. 663. Il passo di Nieztsche citato da Freud è conenuto in Umano, troppo umano (Menschliches, Allzumenschliches): in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Deutschen Taschenbuch Verlag – W. de Gruyter, München – Berlin, 1988, Vol. II, p. 33. 78 S. FREUD, Das Unbewusste, in Gesammelte Werke, op. cit., vol. X, p. 285; tr.it., L’inconscio, in Opere di Sigmund Freud, op. cit., Vol. VIII, p. 72. 77

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singolo che per quella collettiva. La psicoanalisi si qualifica allora non solo come una “archeologia del soggetto”, ma anche come “archeologia della cultura e delle dinamiche socio-politiche”. A questo proposito Ricoeur conferisce giustamente un valore centrale agli scritti freudiani della maturità, laddove lo sguardo dell’analista si allarga alla considerazione dell’intera sfera dei costrutti culturali, sociali e politici. Si pensi agli scritti freudiani, ormai classici, come Totem e tabù (1913), Il Mosè di Michelangelo (1914), L’avvenire di un’illusione (1927) e Disagio nella civiltà (1929). Ricoeur sottolinea che «tutta l’interpretazione psicoanalitica della cultura è una archeologia. Il genio del freudismo è stato quello di aver smascherato la strategia del principio di piacere, forma arcaica dell’umano, al di sotto delle sue razionalizzazioni, idealizzazioni, sublimazioni. Qui consiste la funzione dell’analisi di ridurre l’apparente novità alla riemergenza dell’antico: soddisfacimento scambiato, restaurazione dell’oggetto arcaico perduto, elementi derivati dall’immagine fantastica iniziale, altrettanti nomi per designare questa restaurazione dell’antico sotto gli aspetti del nuovo»79. Il filosofo francese fa emergere potenzialità e limiti dell’indagine freudiana relativa ai fenomeni culturali. La “genealogia della cultura” operata da Freud aiuta sicuramente a comprendere il ruolo che le dinamiche dell’inconscio hanno nella produzione artistica e letteraria: tale genealogia pecca però di eccessivo determinismo e di scadere in forme spesso radicali di riduzionismo. Agli occhi di Ricoeur «il freudismo è una interpretazione riduttrice, una interpretazione del tipo “non è altro che”, il cui massimo esempio è rappresentato dalla famosa formula sulla religione: “la religione è l’universale nevrosi ossessiva dell’umanità”. Non bisogna affrettarsi a correggere questa ermeneutica riduttrice, ma sostare in essa, giacchè essa non 79

DEF, p. 488.

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sarà abolita, ma conservata, in una ermeneutica più comprensiva»80. Il “riduzionismo archeologico freudiano” giunge, quindi, alle sue punte estreme quando il maestro viennese analizza il fenomeno religioso. A questo proposito, come è noto, le considerazioni di Freud si situano nel solco di quelle di Feuerbach, Marx e Nietzsche: ogni forma di espressione religiosa viene ridotta a proiezione dei desideri dell’intimo, a sublimazione delle miserie umane, a mortificazione delle passioni e della volontà. Rispetto agli altri “maestri del sospetto” Freud – osserva Ricoeur – ha accentuato ancora più fortemente il carattere arcaico del religioso. A parere del filosofo francese «il culmine del carattere archeologico del freudismo si ha nella critica della religione. Sotto il titolo di “ritorno del rimosso”, Freud ha visto ciò che si potrebbe chiamare una arcaicità della cultura, prolungando l’arcaicità onirica nelle regioni sublimi dello spirito. Le ultime opere, L’avvenire di un’illusione, Disagio nella civiltà, Mosè e il monoteismo, denunciano con accresciuta insistenza la tendenza regressiva della storia dell’umanità. Si tratta di un aspetto che, anziché affievolirsi, non ha smesso di rafforzarsi»81. Come avremo modo di dire nelle pagine successive dedicate alla “teleologia” e alla “escatologia del soggetto”, Ricoeur cerca di rispondere al riduzionismo operato da Freud e dagli altri “maestri del sospetto” nei confronti del fenomeno religioso. Al tentativo di una “riduzione della fede nell’arcaico” il filosofo francese ribadisce il carattere libero e gratuito dell’atto di fede, DEF, p. 488. Sulla importanza della problematica religiosa nel confronto critico di Ricoeur con Freud si veda anche il volume di N.A. CORONA, Pulsion y simbolo. Freud y Ricoeur, Editorial Almagesto, Buenos Aires, 1992. 81 DEF, p. 488. Sulla posizione freudiana nei confronti del fenomeno religioso ed in particolare del monoteismo ebraico-cristiano ci limitiamo ad indicare in volume di F.S. TRINCIA, Il Dio di Freud, Il Saggiatore, Milano, 1992. 80

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producente un dinamismo teleologico ed escatologico: la fede viene definita come la “risposta ad un appello” che non si autogenera nel sottosuolo dell’io ma che giunge dall’Altro da sé, da una trascendenza che è totaliter Alter e che in sé rimane inoggettivabile. Si comprende allora tutta l’importanza e le profonde implicazioni che ha il “conflitto delle interpretazioni” come chiave di lettura dei fenomeni umani. Come vedremo, la “archeologia del soggetto” proposta da Freud va ricompresa ed integrata con altre decisive ermeneutiche della condizione umana: una “teleologia e una escatologia del soggetto”.

4. “Dire l’inconscio”: «la psicologia non ha che metafore» Ricoeur ha ben presente la dichiarata estraneità di Freud nei confronti della filosofia, tuttavia mette adeguatamente in evidenza quali possono essere le anticipazioni del freudismo in ambito di storia della filosofia. Il ruolo di tali anticipazioni, secondo Ricoeur, è estremamente significativo: queste hanno fatto emergere ante litteram i possibili ambiti teoretici nei quali è possibile situare la dimensione dell’inconscio “scoperta” da Freud. Tra i filosofi precursori dell’inconscio freudiano Ricoeur menziona, in particolare, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer e Nietzsche. Si tratta di autori che, seppur con differenti prospettive ed accentuazioni, hanno messo bene in evidenza «la nonautonomia del conoscere, il suo radicarsi nell’esistenza, intesa come desiderio e sforzo»82: basti pensare al conatus di cui parla Spinoza nell’Ethica, alle “petites perceptions” sulle quali si sofferma Leibniz, alla voluntas di Schopenhauer e al momento fondamentale delle pulsioni dionisiache analizzato a più riprese da Nietzsche. Questi filosofi, in costante dibattito col razionalismo 82

DEF, p. 499.

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cartesiano (Spinoza e Leibniz) e con il trascendentalismo di matrice kantiana (Schopenhauer e Nietzsche), hanno compreso che la conoscenza chiara e distinta della ragione ha alle sue spalle un dinamico centro propulsivo definibile come “sforzo”, “percezione oscura”, “energetica”, “sistema di impulsi”, “istinto originario”. In generale, essi hanno messo in rilievo il ruolo fondamentale giocato dalla “corporeità” nel processo conoscitivo, mostrando – nel cuore stesso della tradizione razionalistica moderna – la necessaria correlazione della mente con la parte oscura dell’io, con la parte passionale, volitiva ed istintuale che trova nella materialità del corpo la sua origine. Si tratta di autori che hanno generalmente «tentato di articolare i modi della conoscenza sui modi del desiderio e dello sforzo»83, facendo in tal modo emergere «l’anteriorità dell’istinto in confronto alla rappresentazione e l’irriducibilità dell’emozione alla 84 rappresentazione» : anch’essi possono essere perciò qualificati come autori di una “archeologia del soggetto”. Tuttavia Ricoeur non manca di sottolineare le comprensibili difficoltà che hanno avuto questi autori e lo stesso Freud nel delineare tale “energetica delle pulsioni e degli istinti” operante nell’inconscio: si sono scontrati con i limiti del discorso apofantico e con i limiti dello stesso linguaggio umano. L’istinto – così come la kantiana “cosa in sé” – rimane sempre inconoscibile nella sua vera essenza, nella sua realtà originaria. Lo stesso Freud, del resto, non ci ha nascosto che «un istinto non può mai diventare un oggetto di coscienza; può diventarlo solo una rappresentazione che lo rappresenta. […] Se l’istinto non si fosse connesso a una rappresentazione o non si rendesse manifesto sotto forma di stato affettivo, non potremmo sapere nulla di esso»85. Freud amava dire che «la dottrina degli istinti è DEF, p. 495. DEF, p. 495. 85 DEF, p. 476. 83 84

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per così dire la nostra mitologia (Die Trieblehre ist sozusagen unsere Mythologie)»86; però egli era ben consapevole della permanenza di uno scarto tra la vera realtà degli istinti primordiali (sicuti sunt) e ciò che noi sappiamo di essi a partire dai loro effetti nella vita della coscienza (sicuti apparent). Da questa radicale inconoscibilità degli istinti derivano anche le difficoltà linguistiche della psicoanalisi: «v’è un indicibile alla radice del dire» e – commenta Ricoeur – «per dire questo non dire, la psicologia non ha che metafore: quella energetica: carica scarica – e quella commerciale: impiego investimento, – e tutta la sequenza delle loro varianti. Ciò che nell’inconscio, è suscettibile di parlare, che è rappresentabile [si pensi al kantiano vorstellbar] rinvia a uno sfondo non simbolizzabile: il desiderio come desiderio. Si trova qui il limite che l’inconscio impone a ogni trascrizione linguistica che lo vorrebbe senza residui»87. 5. “Teleologia del soggetto” ed “escatologia”: finalismo dell’azione e Sinngebung Uno degli elementi sui quali Ricoeur insiste maggiormente nella sua lettura di Freud è il sotteso riduzionismo antropologico di una psicoanalisi intesa come “archeologia del soggetto”. Il filosofo francese imputa a Freud la mancanza di una fondazione speculativa, o in maniera ancora più specifica, di una «fuga dal fondamento egologico»88 la quale, in ultima analisi, diviene una

S. FREUD, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse [lezioni tenute nei semestri invernali 1915/16 e 1916/17], in Gesammelte Werke, op. cit., Vol. XV, p. 101; tr. it., Nuova serie delle Lezioni introduttive, in Opere di Sigmund Freud, cit., Vol. VIII, p. 437. 87 DEF, p. 495. 88 DEF, p. 463. 86

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«fuga dall’originario»89. Cerchiamo di spiegare meglio questo punto cruciale: secondo Ricoeur, in Freud ci sarebbe una riduzione dell’interiorità all’ “economia degli istinti primordiali” e una conseguente elusione del problema della coscienza come “autoriflessione radicale del soggetto su se stesso e sui suoi contenuti di pensiero”. Freud – sottolinea Ricoeur – «condanna la psicoanalisi a non raggiungere mai l’affermazione originaria: niente è più estraneo a Freud del cogito che si pone in un giudizio apodittico, irriducibile a tutte le illusioni della coscienza. È per questo che la teoria freudiana dell’Io è insieme estremamente liberatrice nei confronti delle illusioni della coscienza ed estremamente deludente a dare all’Io dell’Io penso un senso qualsiasi»90. Ricoeur rimprovera a Freud di aver preso in esame il sottosuolo dell’io, la sua parte istintuale ed umbratile, dimenticando però di problematizzare la stessa coscienza razionale, quella che, ad esempio, – per dirla con Kant – effettua i “giudizi sintetici a priori” ed è “capace di un agire libero e responsabile”. Ricoeur afferma giustamente che «la questione della coscienza è tanto oscura quanto quella dell’inconscio»91. Egli, quindi, non esita a mettere in rilievo «la delusione propriamente filosofica»92 della sua lettura degli scritti freudiani: «Il filosofo, quando affronta i testi di Freud dedicati all’Ego o alla coscienza, deve dimenticare le più fondamentali richieste della sua egologia e accettare che vacilli la posizione stessa dell’Io penso, io sono [naturalmente qui si allude al Cartesio delle Meditazioni]; giacchè tutto ciò che Freud ne dice presuppone questo oblio e questo vacillare; la coscienza o l’Ego non figurano mai nella sistematica a titolo di posizione apodittica, bensì come posizione economica DEF, p. 463. DEF, p. 470. 91 DEF, p. 470. 92 DEF, p. 470. 89 90

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[ovvero la coscienza determinata dall’economia degli istinti fondamentali: éros e thánatos]»93. Ricoeur spiega che l’io freudiano è un “io istintuale” (Ichtrieb) e “spossessato”, essenzialmente prigioniero suoi istinti primordiali e perciò privato del suo possesso tradizionale: il lógos. Nel contesto psicoanalitico la ragione umana perderebbe gran parte della sua autonomia e la stessa personalità finirebbe quasi per essere dissolta nel mondo dell’istinto: la conoscenza e l’azione sarebbero realmente comprensibili solo gettando uno sguardo al sottosuolo rappresentato dall’Es e caratterizzato da una libido originaria. Come ha sottolineato, in maniera simile, anche Jacques Maritain, «tutta la filosofia di Freud poggia su un pregiudizio: la negazione violenta della spiritualità e della libertà»94; tuttavia sia Maritain che Ricoeur concordano nel dire che «attraverso una comprensione corretta delle scoperte di Freud, la persona è condotta ad una purificazione spirituale e a una migliore coscienza del proprio mondo»95. Il progetto speculativo di Ricoeur non è certo quello di confutare la visione freudiana dell’uomo, quanto quello di integrare tale visione facendo emergere gli aspetti più dinamici dell’interiorità umana, frutto di una “libertà creativa” che il filosofo francese in continuità con Kant definisce “fatto della ragione” (Faktum der Vernunft). Ricoeur si ricollega ai suoi precedenti scritti dedicati alla “filosofia della volontà” e anche nel saggio su Freud del 1965 – nella terza ed ultima parte – delinea quella che è la pars construens della sua posizione antropologica: DEF, p. 470. J. MARITAIN, Freudisme et psychoanalyse, «Revue Thomiste», 44, 1938, pp. 712-734; poi riedito in IDEM, Quattre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, Alsatia, Paris, 1956; tr. it. di L. Vigone, Freudismo e psicoanalisi, in IDEM, Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione d’incarnazione, Morcelliana, Brescia, 1978, pp. 13-45, p. 40. 95 Ibidem, p. 9. 93 94

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la figura di una “teleologia del soggetto”, ulteriormente specificata nelle opere della maturità come “ermeneutica dell’homo capax”. Cerchiamo ora di delineare il concetto ricoeuriano di “teleologia del soggetto” posto in rapporto di “conflitto” rispetto a quello di una “archeologia del soggetto”: le due figure di comprensione dell’umano – archeologia e teleologia –, seppur entrambi legittime e motivate, si rivelano antitetiche e determinano la complessità di una ermeneutica veritiera della humana conditio. In primo luogo Ricoeur afferma che «se il freudismo è una archeologia esplicita e tematizzata, da sé esso rimanda, grazie alla natura dialettica dei suoi concetti, a una teleologia implicita e non tematizzata»96. A far da ponte tra “archeologia” e “teleologia” è il tema del “desiderio” (Begierde): quest’ultimo viene studiato da Freud nella sua genesi all’interno dell’inconscio – basti pensare al capitolo II dell’Interpretazione dei sogni – mentre in Hegel, il desiderio diviene la spinta propulsiva dello spirito (Geist) verso l’ulteriorità e la realizzazione di sé: è grazie al desiderio di raggiungere il sapere assoluto (das absolute Wissen) che l’uomo passa in maniera dinamica e dialettica dagli stati più elementari della conoscenza a quelli più elevati97. Ricoeur come paradigma di una “teleologia del soggetto” prende la posizione di Hegel espressa nella Fenomenologia dello Spirito (1807), opera nella quale la condizione umana viene qualificata come una Unruhigkeit, come una “inquietudine” sospingente sempre alla ricerca di ulteriorità. Il filosofo francese sottolinea che in Hegel troviamo un modo di interpretare la realtà umana «diametralmente opposto a quello di DEF, p. 505. «É notevole come sia già nel desiderio – Begierde – che il sé si prefigura e, oserei dire, si attrae verso se stesso. Su questo punto Hegel e Freud si incontrano: è nel movimento del desiderio che nasce una cultura» (DEF, p. 508).

96 97

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Freud. La psicoanalisi ci proponeva una regressione verso l’arcaico; la Fenomenologia dello Spirito ci propone un movimento secondo cui ogni figura trova il suo senso non in quella che precede, ma in quella che segue. La coscienza è così trascinata fuori di sé, davanti a sé, verso un senso che è in moto, e del quale ogni stadio è abolito e ritenuto nel seguente. Così una teleologia del soggetto si oppone ad una archeologia del soggetto»98. Mentre in Freud v’è un decentramento della coscienza verso l’arcaico – essa comprende se stessa nella misura comprende gli istinti fondamentali dell’inconscio –, in Hegel v’è un decentramento della coscienza verso il futuro, verso una libera realizzazione di sé e una comprensione della realtà nella sua interezza: il conseguimento finale del “sapere assoluto” dopo aver attraversato sei tappe. Come è noto, la celebre opera hegeliana descrive «la storia romanzata della coscienza che via via si riconosce come spirito (die romantisierte Geschichte des Bewusstseins, das sich mit der Zeit als Geist erkennt)»: le sei tappe di questa storia sono la coscienza, l’autocoscienza, la ragione, lo spirito, la religione e la filosofia il cui vertice teoretico è il sapere assoluto. Con quest’opera Hegel ha voluto dirci che «il nucleo del Sé non è l’Ego psicologico, ma […] lo spirito, cioè la dialettica delle figure stesse. La coscienza non è che l’interiorizzazione di questo momento, che bisogna riafferrare nelle strutture oggettive delle istituzioni, delle opere d’arte e di cultura»99. P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 35. 99 DEF, p. 507. Nella sua interpretazione della prospettiva hegeliana come "teleologia del soggetto" Ricoeur si richiama esplicitamente alla lezione di Jean Hyppolite. É merito di quest’ultimo aver messo in luce la «dialettica teleologica» contenuta nella Fenomenologia dello Spirito. Ricoeur in DEF (pp. 510-511) commenta il celebre teso di J. HYPPOLITE, Genèse et strucure de la Phénoménologie de l’Esprit de Hegel, Aubier, Paris, 1946 ; tr. it. di 98

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Ricoeur sottolinea che in Hegel la coscienza non si deve comprendere a partire dal suo passato, ma dal suo futuro, dalla sua realizzazione nel tempo. La coscienza è, dunque, un compito da realizzare, una Bestimmung e una Aufgabe: secondo il modello hegeliano la coscienza invera e comprende pienamente se stessa solo attraverso la riflessione ermeneutica sulle sue oggettivazioni – ciò che Hegel definisce come objektiver Geist – ovvero il mondo delle produzioni culturali. Del filosofo di Stoccarda Ricoeur riprende l’idea di una imprescindibile dinamicità della coscienza che qualifica il soggetto come “intenzionalità teleologica e produttiva di senso”. Contrariamente al modello freudiano, in Hegel «il soggetto è trascinato fuori dalla sua infanzia, strappato alla sua archeologia»100. Anche l’antropologia proposta da Hegel, seppur agli antipodi di quella freudiana, è tuttavia una forma di “ermeneutica del sé”: «questa teleologia ha lo stesso titolo della archeologia freudiana, non si costituisce altrimenti che nella dinamica dell’interpretazione. […] L’esistenza diviene un “sé” – umano ed adulto – soltanto appropriandosi di quel senso che in un primo momento sta “fuori”, in opere, istituzioni, monumenti di cultura in cui è oggettivata la vita dello spirito»101. Come vedremo nelle pagine seguenti, approfondendo in senso ontologico il tema della “teleologia del soggetto” Ricoeur riscoprirà il valore decisivo anche del modello aristotelico, più aperto al novum rispetto al modello hegeliano indissolubilmente legato al determinismo dialettico e a una “filosofia dell’assoluto”. La riscoperta dell’ontologia aristotelica centrata sulla visione dell’essere come potenza/atto consentirà a Ricoeur di specificare G.A. De Toni, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello Spirito» di Hegel, Bompiani, Milano, 2005. 100 P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 35. 101 Ibidem.

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il paradigma della “teleologia del soggetto” come antropologia dell’homo capax, incentrata sulle potenzialità creative dell’uomo e sulla libertà. Grazie a questa integrazione del dinamismo teleologico hegeliano con quello aristotelico, Ricoeur sarà in grado di rispondere alla “sfida del determinismo” rappresentata dall’archeologia freudiana: il fondamento dell’antropologia dell’homo capax è, infatti, la libertà creativa, è l’essere per la nascita, è “la libertà del bene”: si tratta di quella libertà fondamentale che consente lo human flourishing ovvero la piena realizzazione di sé. É in quest’ottica che vanno compresi gli studi che Ricoeur dagli anni Settanta in poi, dopo essersi lasciato alle spalle il freudismo, dedica alle human capabilities quali il linguaggio (La metafora viva, 1975), alla narrazione (Tempo e racconto, 1983-1985), alla capacità di far memoria e di perdonare (La memoria, la storia, l’oblio, 2000), al riconoscimento intersoggettivo (Percorsi del riconoscimento, 2004). Tuttavia secondo Ricoeur neanche i due modelli di una “archeologia del soggetto” e di una “teleologia” ci consentono di comprendere la realtà umana nella sua interezza: la genesi del soggetto e la sua escatologia rimangono problemi insoluti. Una piena ermeneutica della condizione umana, a suo parere, può essere conseguita solo nell’orizzonte rappresentato dalla fede biblica, da una libera adesione al kérigma: «Creazione ed escatologia si annunciano come orizzonte della mia archeologia e come orizzonte della mia teleologia. L’orizzonte è la metafora per ciò che è sempre più vicino senza mai diventare oggetto posseduto. L’alfa e l’omega si avvicinano alla riflessione, come orizzonte delle mie radici e come orizzonte delle mie mire; è il radicale del radicale, il supremo del supremo»102. Per Ricoeur una piena “donazione di senso” (Sinngebung) alla vita, nel suo inizio e nella sua fine, può provenire dalla fede religiosa; quest’ultima è il frutto di una libera risposta dell’uomo ad 102

DEF, p. 567.

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un’appello che proviene dell’Altro e che si dona ad una parola – la davár della tradizione biblica – che diviene oggetto di esegesi: «Credere significa ascoltare l’interpellanza, ma per fare questo bisogna interpretare il messaggio. Bisogna qundi credere per comprendere e comprendere per credere»103. Riprendendo anche Pascal e il teologo luterano Karl Barth, Ricoeur ci dice che il messaggio biblico può restituirci una compiuta ermeneutica della condizione umana: la fede illumina il senso profondo della storia universale vista come itinerario tra il “già” e il “non ancora” (schon, noch nicht), il “già” della venuta di Cristo e il “non ancora” della sua parousìa. I conenuti della fede, “sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi”, costituiscono anche e soprattutto una compiuta “donazione di senso” per la vicenda esistenziale di ogni singolo uomo: sono cioè la chiave ermeneutica di una “escatologia del soggetto”, i novissima della tradizione cristiana104.

DEF, p. 567. A tal proposito si veda P. RICOEUR, Le christianisme et le sens de l’histoire. Progrès, ambiguïté, espérance, «Le Christianisme Social», 4/59, 1951, pp. 261-274, saggio confluito nel volume Histoire et vérité, Seuil, Paris 1955; tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Il cristianesimo e il senso della storia. Progresso, ambiguità, speranza, in Storia e verità, Introduzione all’edizione italiana di P. Ricoeur, Marco Editore, Lungro di Cosenza 1994, pp. 79-100. 103 104

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Studio V

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Homo capax: il filo conduttore dell’antropologia filosofica ricoeuriana «A prima vista la mia opera è assai dispersiva; ed essa appare tale poiché ogni libro si organizza attorno ad un problema ben definito: il volontario e l’involontario, la finitudine e il male, le implicazioni filosofiche della psicoanalisi, l’innovazione semantica che è all’opera nella metafora viva, la struttura linguistica del racconto, la riflessività e i suoi stadi. É stato solo negli ultimi anni che ho pensato di poter collocare la varietà di tali approcci sotto il titolo di una problematica dominante: e ho scelto il titolo dell’uomo agente o dell’uomo capace di… […]. É dunque in primo luogo il potere di ricapitolazione inerente al tema dell’uomo capace di… che mi è parso, di contro all’apparente dispersione della mia opera, come un filo conduttore avvicinabile a quello che ho tanto ammirato in Merleau-Ponty durante i miei anni di apprendistato: il tema dell’“io posso”»1.

1. Una ripresa del personalismo nell’«età ermeneutica della ragione» In questo studio prendo in esame alcuni aspetti fondamentali della proposta ermeneutica di Paul Ricoeur in relazione al tema della soggettività. In particolare mettiamo in rilievo come la P. RICOEUR, Promenade au fil d’un chemin, in F. TUROLDO, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, Il Poligrafo, Padova, 2000, pp. 15-16.

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definizione speculativa della nozione di identità personale costituisca il “filo sottile” che unifica l’ampio itinerario di ricerca di Ricoeur: viene quindi sottolineata l’ispirazione personalistica che orienta la sua indagine e che sta sullo sfondo del suo tentativo di formulare una “rinnovata filosofia del cogito”. Si tratta di una filosofia incentrata sulle capacità del soggetto – definito homo capax – di agire, di parlare, di narrare, di imputare a se stesso le proprie opere e le proprie responsabilità etico-giuridiche. Con le sue riflessioni Ricoeur ha saputo rinnovare la tradizione personalistica tipicamente francese (si pensi al suo maestro Emmanuel Mounier), reinserendola con solidità di argomenti nel dibattitto epistemologico contemporaneo e nelle più recenti discussioni etico-politiche. Particolare attenzione meritano le analisi ricoeuriane sulle condizioni di possibilità di un’ontologia del soggetto: in particolare analizziamo l’opera del 1990 Soi-même comme un autre e segnatamente il decimo studio (dal titolo “Vers quelle ontologie?), che ci pare di fondamentale importanza. La ricerca ricoeuriana contenuta in questo decimo studio contiene, infatti, una chiave di lettura di tutto l’ampio itinerario ricoeuriano, solo apparentemente dispersivo e frantumato in diversi ambiti di indagine (dalla fenomenologia alla psicoanalisi, dalla semiotica ai fondamenti dell’etica). Come vedremo, quella di Ricoeur è una stimolante proposta di riflessione sulle tematiche dell’ontologia e dell’identità personale in un’età che l’autore stesso - d’accordo con Jean Greisch – ha definito come “età ermeneutica della ragione (âge herméneutique de la raison)”2. 2 Ricoeur stesso dichiara che le indagini filosofiche condotte in Soi-même comme un autre si situano in «quella che Jean Greisch chiama l’età ermeneutica della ragione» (P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 102. D’ora in poi citiamo questo volume con la sigla

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2. Metodi d’indagine per un’ermeneutica d’ispirazione personalista Ricoeur per la vastità dei suoi ambiti d’indagine costituisce sicuramente una delle figure più interessanti del panorama filosofico contemporaneo: i suoi studi vanno dall’azione volontaria ai simboli del mito, dal linguaggio metaforico all’etica della narrazione, dallo statuto ontologico del soggetto al grande tema etico del riconoscimento dell’alterità. Egli ha attraversato il Novecento confrontandosi di volta in volta con le correnti filosofiche caratterizzanti l’atmosfera speculativa dominante: basti pensare ai suoi primi scritti sulla filosofia riflessiva francese, sull’esistenzialismo di Karl Jaspers e di Gabriel Marcel, sulla fenomenologia di Husserl, sulla psicoanalisi di Freud e - dopo il suo soggiorno negli Stati Uniti - a quelli della maturità incentrati sulle tematiche del linguaggio, della narrazione e dell’identità personale, dove più approfondito è anche il confronto con la filosofia analitica3. Quello di Ricoeur è quindi un lungo itinerario di ricerca comprendente differenti tematiche e nel quale si intrecciano diversi metodi d’indagine: come è stato rilevato, esso costituisce «un ampio tentativo di mediazione tra le esigenze epistemologiche della fenomenologia, delle scienze umane a base SCA, seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana). Cfr. anche J. GREISCH, L’Âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris, 1985. 3 È il filosofo stesso ad indicarci le principali tappe del suo pensiero in relazione agli eventi della sua biografia: cfr. P. RICOEUR, La critique et la conviction. Entretiens avec François Azouvi et Marc de Launay, CalmannLévy, Paris, 1995; tr. it. di D. Iannotta, La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvi et Marc de Launay, Jaca Book, Milano, 1998; IDEM, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998.

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strutturale, e di taluni esiti delle filosofie analitiche da una parte e l’ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed esistenzialistici dall’altra»4. Il fecondo itinerario speculativo ricoeuriano, definito da Jean Greisch come “itinérance du sens”5, è caratterizzato da un forte desiderio di “mediazione” tra gli apporti delle scienze umane e la riflessione filosofica sull’uomo: si tratta di uno stile di ricerca caratterizzato dalla ποικιλία tematica e costitutivamente predisposto al dialogo tra i saperi; esso si contraddistingue per lo sforzo di attuare una proficua mediazione critica tra differenti metodologie d’indagine e correnti di pensiero anche assai distanti le une dalle altre, come ad esempio l’ermeneutica “continentale” e le filosofie analitiche anglo-americane. In quest’originale percorso che vede l’arduo intrecciarsi di differenti metodologie, è Ricoeur stesso ad indicare con chiarezza le matrici essenziali del suo pensiero che riassume con le “etichette” di filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica ed ermeneutica: «riguardo al primo termine - riflessiva -, l’accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l’esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine - fenomenologica - designa l’ambizione di andare alle “cose stesse”, cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all’esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest’intento M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano, 1988, p. 325. Cfr. J. GREISCH, L’itinérance du sens. La phénoménologie herméneutique de Paul Ricoeur, Jerome Millon, Grenoble 2001. Il fondamentale intreccio di filosofia riflessiva e ricerca del senso è alla base anche dell’ampia monografia sul pensiero ricoeuriano realizzata da O. AIME, Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella, Assisi, 2007. 4 5

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diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l’accento sulla dimensione intenzionale della vita teoretica, pratica, estetica ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come “coscienza di…”. Husserl rimane l’eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine - ermeneutica - […] l’accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell’esperienza umana. […] I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer»6. Il tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur può essere definita, a nostro avviso, anche come un’ermeneutica personalistica, o meglio ancora di ispirazione personalistica: il tema principale d’indagine che unifica le incursioni di Ricoeur nelle differenti problematiche filosofiche può essere individuato nella ricerca intorno al valore della persona umana. Possiamo dire che è la definizione speculativa della nozione d’identità personale a costituire il télos essenziale delle ricerche ricoeuriane, ricerche che intendono portare ad una “rinnovata filosofia del cogito e della persona”. In questa prospettiva, lo stile riflessivo tipico della tradizione francese, la fenomenologia husserliana e la stessa ermeneutica lontana da qualsiasi esito storicistico e nichilistico7 - vengono P. RICOEUR, Per un’autobiografia intellettuale, IDEM, Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, ECP, Firenze, 1994, p. 40. 7 Per un approfondimento del tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur anche in confronto con altri tipi di approcci ad una filosofia dell’interpretare e del comprendere, cfr. A. RIGOBELLO, Paul Ricoeur e il problema dell’interpretazione, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di V. Verra, ERI, Torino, 1976; J. BLEICHER, Contemporary Hermeneutics. Hermeneutics as Method, Philosophy and Critique, Routledge, London, 1980; tr. it. di S. Sabattini, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1986, in particolare pp. 261-310; J.H. VAN DEN HENGEL, The Home of Meaning. The Hermeneutics of the Subject of Paul Ricoeur, University Press of America, Washington, 1982; J. GREISCH, Paul Ricoeur. L’herméneutique à l’école de la phénoménologie, Beauchesne, Paris, 1995; M. PULITO, Identità come 6

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arricchite dalla sensibilità proveniente dal movimento personalista di Emmanuel Mounier, al quale Ricoeur fu legato nella sua giovinezza. Il filosofo pur prendendo le distanze da certi atteggiamenti di eccessiva militanza che caratterizzarono il movimento personalista non esita a sottolineare il valore speculativo e l’urgenza stessa di un pensiero filosofico incentrato attorno alla nozione di persona: «la persona resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»8. Ed in un intervento dal significativo titolo Meurt le personnalisme, revient la personne edito nel 1983 per il cinquantenario della rivista «Esprit» (fondata dallo stesso Mounier), Ricoeur afferma: «se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»9. L’atteggiamento di fondo che accompagna le ricerche di Ricoeur è quindi quello di un’ermeneutica personalistica e cristiana: si tratta di un’ermeneutica dell’identità personale che è però lontana da «qualsiasi amalgama ontoteologico»10, da qualsiasi atteggiamento fideistico, esigenziale o postulatorio. L’ermeneutica personalistica di Ricoeur passa attraverso il “conflitto delle interpretazioni”, accetta “la sfida della psicoanalisi e della semiologia”, non processo ermeneutico. Paul Ricoeur e l’analisi transazionale, Armando, Roma, 2003. 8 P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 37-71, p. 38. 9 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. 10 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 101.

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temendo di confrontarsi anche con i risultati delle più scaltrite metodologie d’indagine analitiche, quali quelle di Peter Strawson, Derek Parfit e Donald Davidson11.

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3. L’homme capable et les puissances du moi Il filo conduttore della vasta opera filosofica di Ricoeur è da ricercare nell’interpretazione della soggettività umana colta nella pluralità delle sue concrete espressioni: come il filosofo già rileva nello scritto giovanile Le volontaire et l’involontaire, egli intende fare oggetto della sua analisi l’«esperienza integrale del cogito», che «include l’io desidero, l’io posso, l’io vivo e, in generale, l’esistenza come corpo»12. Si tratta di una proposta di antropologia filosofica nella quale l’analisi del cogito viene effettuata a partire dalla concretezza dell’esprit, dei vissuti coscienziali e da quella che con l’ultimo Husserl potremmo chiamare Lebenswelt, il “mondo della vita”. Nei suoi studi sulla soggettività umana Ricoeur non si serve, quindi, di una metodologia d’indagine “trascendentale” come quella tipicamente kantiana e dell’Husserl delle Idee. Secondo Ricoeur un’analisi antropologica che si limiti ad un piano d’indagine trascendentale finirebbe per dimenticare “la parte più intima e più fragile di noi stessi” e non prenderebbe in considerazione tutta la ricchezza della della creatività umana nelle sue concrete manifestazioni.

Ricoeur cita questi autori come coloro con i quali «ha tentato più sistematicamente di mettere a confronto l’ermeneutica di origine fenomenologica» (ibidem, p. 413). 12 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Le volontarie et l’involontaire, Aubier, Paris, 1950; tr. it. di M. Bonato, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova, 1990, p. 13. 11

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La proposta antropologica di Ricoeur si incentra, quindi, intorno alla nozione di homo capax, di homme capable: si tratta di una “fenomenologia ermeneutica” che si interroga sullo statuto ontologico del “chi?” (del soggetto), partendo dalle sue capacità, dai suoi poteri, quali «poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore»13, e non da ultimi il «potere di fare memoria»14 ed il «poter promettere»15. La finalità di queste ampie ricerche di Ricoeur intorno all’homo capax è l’elaborazione di un’ermeneutica dell’«io sono»: tra la polisemia dei significati dell’essere messi in luce da Aristotele nella Metafisica – Ricoeur ama spesso citare P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris, 2000; tr. it. e Prefazione di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 494. 14 Ibidem, p. 494. 15 P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris, 2004; tr. it. di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, RaffaelloCortina, Milano, 2005, p. 145. Le tematiche della memoria e della promessa sono trattate soprattutto negli ultimi scritti del filosofo in relazione al “riconscimento del sé” e a quella che egli definisce «fenomenologia dell’uomo capace (phénoménologie de l’homme capable)» (ibidem, p. 107): «con la memoria e con la promessa la problematica del riconoscimento di sé raggiunge simultaneamente due sommità. L’una si rivolge verso il passato, l’altra verso il futuro. Ma vanno pensate insieme nel presente vivente del riconoscimento di sé, grazie ad alcuni tratti che esse possiedono in comune. In primo luogo si inscrivono in maniera originale nel ciclo delle capacità dell’uomo capace» (ibidem, p. 127). A proposito del “poter promettere” viene anche sottolineato come questo sia un atto linguistico performativo che presuppone e si fonda sulle altre capacità del soggetto: «il poter promettere presuppone il poter dire, il poter agire sul mondo, il poter raccontare e dare forma all’idea dell’unità narrativa di una vita, infine il poter imputare a sé stessi l’origine dei propri atti. Ma la fenomenologia della promessa si concentra soprattutto sull’atto con il quale il sé si impegna effettivamente» (ibidem, p. 145). 13

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l’adagio «tò óv léghetai pollakós (l’essere si dice in molti modi)»16 – il filosofo francese pone alla base della sua antropologia filosofica il significato dell’essere come potenza (δύναμις) e come atto (enérgheia), ed è anche per questo che le sue indagini si concentrano intorno alle potenzialità (puissances), alle capacità creative dell’uomo aventi come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»17. La fondazione ontologica del soggetto, come constateremo più avanti, è tuttavia solo un “ideale regolativo” della ricerca di Ricoeur e rimane comunque una delle questioni più problematiche del suo pensiero: quello ricoeuriano è un “pensiero itinerante e narrativo”, è una ricerca (scépsi nei termini del linguaggio platonico) sempre in fieri e che non giunge mai a conclusioni ultime e definitive. Che il filo conduttore delle ricerche ricoeuriane sia da ricercare in un’ermeneutica dell’homme capable ovvero delle potenzialità creative del soggetto è lo stesso autore ad avercelo indicato in un momento di matura riflessione sui capisaldi del suo pensiero: «A prima vista la mia opera è assai dispersiva; ed essa appare tale poiché ogni libro si organizza attorno ad un problema ben definito: il volontario e l’involontario, la finitudine e il male, le implicazioni filosofiche della psicoanalisi, l’innovazione semantica che è all’opera nella metafora viva, la struttura linguistica del racconto, la riflessività e i suoi stadi. È stato solo negli ultimi anni che ho pensato di poter collocare la varietà di tali Sui quattro significati aristotelici dell’essere cfr. ARISTOTELE, Metafisica, E 2, 1026 a 32 - 1026 b 2. 17 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 421. Più avanti, prendendo in considerazione i risultati speculativi di Soi-même comme un autre, cercheremo di mettere in rilievo il particolare tono aristotelico dell’ontologia ricoeuriana, nella quale il modo d’essere dell’homme capable viene considerato soprattutto in riferimento all’accezione aristotelica dell’essere come “potenza”. 16

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approcci sotto il titolo di una problematica dominante: e ho scelto il titolo dell’uomo agente o dell’uomo capace di… […]. É dunque in primo luogo il potere di ricapitolazione inerente al tema dell’uomo capace di… che mi è parso, di contro all’apparente dispersione della mia opera, come un filo conduttore avvicinabile a quello che ho tanto ammirato in Merleau-Ponty durante i miei anni di apprendistato: il tema dell’“io posso”»18. P. RICOEUR, Promenade au fil d’un chemin, in F. Turoldo, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, op. cit., pp. 15-16. Condividiamo l’interpretazione di Jean Greisch secondo la quale Ricoeur in tutti i suoi scritti avrebbe tentato di portare alla luce le implicazioni contenute nella teoria dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) di Kant. La concezione del soggetto come homme capable, messa chiaramente in risalto nell’ultima fase della produzione ricoeuriana, confermerebbe la tesi interpretativa del Greisch. Cfr. J. GREISCH, L’itinérance du sens. La phénoménologie herméneutique de Paul Ricoeur, op. cit.. Si veda anche D. JERVOLINO, L’unità dell’opera di Ricoeur: l’homme capable, in D. IANNOTTA (a cura di), Paul Ricoeur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Effatà Editrice, Cantalupa (To), 2008, pp. 124-137. Ricoeur critica «la relativa eclissi del problema dell’immaginazione nella filosofia contemporanea» (P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa. Vv., Savoir, faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207-228; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989, pp. 205-227, p. 205) e studia in profondità tutte le potenzialità della facoltà dell’immaginazione produttiva: essa è organo dell’«innovazione semantica, caratteristica dell’uso metaforico del linguaggio» (ibidem, tr. it., p. 209), opera nella costruzione dello schema narrativo del racconto e «applicata all’azione [...] ha una funzione proiettiva che appartiene al dinamismo stesso dell’agire» (ibidem, tr. it., p. 215). Ricoeur considera l’immaginazione una “cerniera tra il teoretico e il pratico”: egli afferma che è «nell’immaginario che io saggio il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io posso”» (ibidem, tr. it., p. 216) e definisce la stessa utopia politica come “immaginazione costituente”, nella quale si attua «il progetto

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Ricoeur analizza l’identità personale a partire dalle sue potenzialità creative e costitutive di senso, quali il potere di agire, di parlare, di raccontare, di fare memoria, di promettere, di rendersi capace d’imputazione ed anche di donare e di perdonare. Queste potenzialità dell’“io posso”, che stanno alla base di un’«ermeneutica dell’uomo capace»19, vengono interpretate da Ricoeur come «allargamento dell’ambito dell’agire»20: proseguendo la linea di ricerche effettuate da J. Austin e J. Searle sugli “atti linguistici” (speech acts)21, Ricoeur analizza come immaginario di un’altra società, di un'altra realtà» (ibidem, tr. it. p. 222) e si ha la capacità «di istituire dei nuovi modi di vita» (ibidem, tr. it., p. 224). La facoltà dell’immaginazione è per Ricoeur decisiva anche per il riconoscimento (Anerkennung nel linguaggio hegeliano) dell’alterità e per il sentimento soggettivo dell’empatia (l’Einfühlung di cui parlano i fenomenologi tedeschi) nei confronti dell’altro; a tal proposito egli parla dell’“appercezione analogica” dell’altro come processo interiore di “trasferimento in immaginazione”: «dire che l’altro pensa come me, che prova come me pena e piacere, significa poter immaginare ciò che io penserei e proverei se fossi al suo posto. Questo trasferimento in immaginazione del mio “qui” al suo “là” è la radice di ciò che io chiamo empatia» (ibidem, tr. it., p. 218). 19 P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 113. 20 Ibidem, p. 111. 21 A partire dallo scritto del 1975 La métaphore vive Ricoeur inizia a confrontarsi con le teorie degli “atti di discorso” nelle quali viene particolarmente messa in risalto la «capacità creatrice del linguaggio (puissance créatrice du langage)» (P. RICOEUR, La métaphore vive, Seuil, Paris, 1975; tr. it. e cura di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano, 19972, p. 5.); in quest’opera (cfr. ibidem, pp. 98-99), così come nel secondo studio di Soi-même comme un autre dal titolo L’enunciazione e il soggetto parlante. Approccio pragmatico, l’autore si richiama direttamente ai seguenti volumi: J.L. AUSTIN, How to Do Things with Words, Clarendon, Oxford 1962; tr. it. di C. Penco e M. Sbisà, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova

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ambiti particolari di agire del soggetto la parola, la capacità di raccontare e di raccontarsi, di fare memoria e della promessa. Nel far rientrare tutte queste puissances soggettive nell’ambito dell’azione, Ricoeur parla di un’«analogia dell’agire, la quale assicura l’affinità di senso tra le diverse figure del poter fare»22. In Ricoeur l’idea di capacità viene identificata con il potere di agire, ovvero con «il potere-di-fare, ciò che in inglese si designa con il termine agency»23. L’ermeneutica dell’homme capable è, quindi, fondamentalmente un’ermeneutica dell’agire umano in tutte le sue potenzialità ed espressioni: in questa sua estensione, il filosofo nota che «l’agire sarebbe il concetto meglio appropriato al livello della filosofia antropologica all’interno della quale si inscrivono queste ricerche»24 sulle “capacità” del soggetto. L’attribuzione delle capacità ad un soggetto agente viene inoltre definita da Ricoeur “imputabilità”. Tale possibilità d’identificazione di un agente è di fondamentale importanza per l’ambito morale e giuridico al fine del «riconoscimento stesso di responsabilità»25: l’individuo che designa se stesso o la persona altrui come autore di un’azione designa se stesso o l’altro anche

2002; J.R. SEARLE, Speech Acts, Cambridge Univ. Press, London, 1969; tr. it. di G.R. Cardona, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino, 1976. 22 P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 111. 23 IDEM, Le Juste 1, Éd. Esprit, Paris 1995; tr. it. di D. Iannotta, Il Giusto, Vol. I, Effatà, Cantalupa (To), 2005, p. 42. 24 Ibidem, p. 112. Sulla nozione di homme capable come filo conduttore delle ricerche antropologiche ricoeuriane cfr. gli studi contenuti nel volume: M. FOESSEL, O. MONGIN (a cura di), Paul Ricoeur. De l’homme coupable à l’homme capable, ADPF, Paris, 2005. 25 P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 122.

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come soggetto di doveri e di diritti, e lo qualifica come responsabile del proprio agire26. É da notare poi che Ricoeur rileva delle notevoli analogie tra il concetto di imputabilità e quello di “attestazione” che, come indicheremo più avanti, è di primaria importanza nella teoresi ricoeuriana e può venir quasi posto a fondamento della nozione antropologica di homme capable. L’attestazione (attestation) è una dinamica interiore simile a quella dell’imputabilità di un’azione a se stessi27: essa è la facoltà riflessiva che ha il soggetto di attribuire a se stesso tutte le implicazioni dell’“io posso”, cioè dell’agire; riflettendo su stesso e sui propri atti l’uomo ha la possibilità di «riconoscersi nelle proprie capacità»28, d’identificarsi ed autodesignarsi come soggetto agente. L’attestazione è quella sorta di “testimonianza interiore” che consente al soggetto di divenir consapevole di sé e della propria attività creativa: si tratta di un’interiore dinamica riflessiva che definisce “quel grado di certezza alla quale può giungere l’ermeneutica del sé”. L’attestazione, allo stesso modo dell’imputabilità a se stessi dei propri atti, è dunque la capacità che ha l’uomo di identificarsi e riconoscersi come soggetto delle A proposito della correlazione tra capacità d’imputazione d’un azione ad una persona ed attribuzione della responsabilità Ricoeur ricorda quanto afferma il Dictionnaire de Trévoux del 1771: «imputare un’azione a qualcuno significa attribuirgliela quale suo vero e proprio autore, metterla per così dire sul suo conto e renderlo responsabile» (ibidem, p. 124). 27 L’imputabilità nei confronti del sé viene definita interiore dinamica riflessiva che «rende il soggetto contabile dei propri atti, al punto da poterli imputare a se stesso» (ibidem, p. 123); viene inoltre sottolineato che «con l’imputabilità la nozione di soggetto capace raggiunge il suo più alto significato, e la forma di autodesignazione da essa implicata include ed in un certo senso ricapitola le forme precedenti di sui-riferimento» (ibidem, p. 123). 28 Ibidem, p. 122. 26

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puissances, come homme capable. L’attestazione del sé è, inoltre, anche l’organo conoscitivo tramite il quale Ricoeur si spinge a considerazioni sulla soggettività di carattere ontologico: nelle prossime pagine cercheremo di analizzare come l’autore a partire dalle sue considerazioni sull’homme capable e sul significato dell’attestazione – confrontandosi pure con Aristotele ed Heidegger – si impegni in un discorso di carattere ontologico, domandandosi come si possa caratterizzare quel “fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano”, inteso quest’ultimo in tutta quell’ampiezza di significati che in precedenza abbiamo ricordato. Nelle sue riflessioni sull’azione umana come chiave di lettura di una possibile “ontologia della persona” Ricoeur si richiama implicitamente ad un’antica tradizione filosofica: basti ricordare l’adagio scolastico «omne ens est activum» o l’espressione leibniziana per la quale «l’agire è il carattere essenziale di ogni sostanza»29; tuttavia ci pare che il suo riferimento più vicino sia da scorgere nella “filosofia dell’azione” del francese Maurice Blondel. Quest’ultimo, in modalità simili a quelle di Ricoeur, ha sottolineato che quella dell’azione «non è una questione particolare, una questione come un’altra. È la questione. […] Si tratta di tutto l’uomo. […] Bisogna trasferire nell’azione il centro della filosofia, perché là si trova anche il centro della vita» 30. L’azione costituisce la sintesi tra il pensiero e l’essere: il pensiero si esteriorizza nella prassi e tramite quest’ultima l’uomo riforma, trasforma e costruisce l’essere stesso. L’azione non abolisce il G.W. VON LEIBNIZ, Specimen Dynamicus, in IDEM, Mathematische Schriften, a cura di K.I. Gerhardt, Berlin, 1849, p. 235. 30 M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris 1893; tr. it. di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pp. 76-77. 29

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pensiero, ma lo include in una prospettiva superiore e lo potenzia. Sia Blondel che Ricoeur sostengono che già l’esercizio del pensiero sia un’attività, una “azione interiore”, una enérgheia. A loro parere conoscenza e azione non possono essere mai completamente disgiunte, queste si fondono nell’unità attiva e produttiva della vita spirituale: «Io considero impossibile e illegittimo» – sostiene Blondel – «isolare l’intelletto speculativo e astrattamente teorico, separare il ruolo conoscitivo e il ruolo attivo dello spirito, dividere con nettezza artificiale l’aspetto logico dall’aspetto morale o religioso entro l’unità vivente di uno stesso destino umano»31. 4. «Chi sono io?»: ontologia della persona e attestazione in Soi-même comme un autre Ci soffermiano ora a prendere in esame alcuni passaggi decisivi del volume del 1990 Soi-même comme un autre, opera che può considerarsi quasi come una summa del pensiero di Ricoeur e che costituisce il tentativo di rispondere all’interrogativo “chi sono io?”. É in essa che l’autore espone chiaramente il suo progetto di una “rinnovata filosofia del cogito”, spiega il valore teoretico della nozione di attestazione e pone in luce la sottesa intenzionalità ontologica della sua ermeneutica del sé. Nella Prefazione dell’opera l’autore prende nettamente le distanze da due opposte tendenze filosofiche della modernità che hanno particolarmente accentuato il tema della soggetto: una è Lettera di Blondel ad Enrico Castelli datata 8 dicembre 1924 e riportata in appendice della traduzione italiana dell’opera: M. BLONDEL, Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, Colin, Paris 1903; tr. it. di E. Castelli, Principio di una logica della vita morale, Guida, Napoli, 1969, pp. 37-42 , p. 38-39. 31

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quella dell’ambizione fondativa del cogito realizzata da Cartesio e portata avanti da Kant e Husserl nella filosofia trascendentale, l’altra è quella dell’anti-cogito e Nietzsche ne è il suo fautore insieme agli altri “maestri del sospetto” (Marx e Freud). Il cogito cartesiano, l’io penso (Ich denke) di Kant ed in generale tutta la filosofia trascendentale sono prospettive di fondazione filosofica nelle quali «la problematica del sé ne esce magnificata, ma a prezzo della perdita del suo rapporto con la persona di cui si parla, con l’io-tu dell’interlocuzione, con l’identità di una persona storica, con il sé della responsabilità»32: si tratta di una soggettività “trascendentale” che ha certamente valore di fondamento speculativo ma che rischia di lasciar fuori da ogni considerazione filosofica ciò che a Ricoeur sta più a cuore, la concretezza empirica dell’io «parlante, agente, personaggio della narrazione, soggetto di imputazione morale»33. Ricoeur critica senza riserve anche le filosofie dell’anti-cogito che si ispirano a Nietzsche, considerato come «l’antagonista privilegiato di Cartesio»34: in esse l’io è visto come “gioco linguistico”, semplice metafora dietro la quale non v’è nulla di sostanziale. Nozioni filosofiche come quelle di soggettività e d’interiorità sono per Nietzsche solamente «un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi», sono concetti fittizi ed «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria» 35. Nietzsche opera, quindi, uno “smascheramento” ed una decostruzione stessa P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 86. Ibidem, 82. 34 Ibidem, p. 86. 35 F. NIETZSCHE, Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, [edizione originale 1873], in Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montanari, vol. III, testo II, Walter de Gruyter, Berlin und New York 1973; tr. it. di G. Colli, Verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, testo II, Adelphi, Milano, 1980, p. 361. 32 33

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delle pretese fondative delle moderne filosofie del soggetto: egli spinge alle estreme conseguenze il dubbio cartesiano, mostrandosi scettico nei confronti della stessa “certezza logica” costituita dal cogito. Alla «verità sterile»36 delle filosofie fondate sul cogito e al dubbio iperbolico spinto da Nietzsche nei confronti della stessa certezza del cogito, Ricoeur contrappone il suo itinerario speculativo di un ermeneutica del sé, la quale «occupa un posto epistemico (e ontologico, come viene detto nel decimo studio [di Sé come un altro]) che si situa al di là di questa alternativa del cogito e dell’anti-cogito»37: in quest’approccio ermeneutico alla posizione immediata dell’io – tipica dell’argomentare cartesiano e più in generale delle filosofie del cogito – viene sostituita la “via lunga” di un’analisi sulla mediazione riflessiva del sé (soi-même). Anche per ben comprendere il significato dello stesso titolo dell’opera Sé come un altro, occorre rilevare che l’uso filosofico fatto da Ricoeur del termine “sé” va al di là dei limiti grammaticali di «pronome riflessivo della terza persona (egli, ella, essi)»38 e assume una «valenza di riflessivo onnipersonale»39, così come accade anche nel titolo del noto volume di Michel Foucault del 1984 La cura di sé (Le souci de soi): il “sé” sta ad indicare il primato della mediazione riflessiva (cioè della réflexion dell’io su se stesso a partire dai propri atti) nei confronti della posizione immediata del soggetto, così com’essa è espressa alla prima persona (“io”)40. Di centrale importanza per comprendere la P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 85. Ibidem, p. 92. 38 Ibidem, p. 75. 39 Ibidem, p. 76. 40 A questo proposito Ricoeur afferma: «dire sé non significa dire io. L’io si pone [Cartesio] – o è deposto [Nietzsche]. Il sé è implicato come riflessivo in quelle operazioni la cui analisi precede il ritorno verso esso stesso» 36 37

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prospettiva ricoeuriana è anche la chiarificazione terminologica che viene fatta del termine “identità” in relazione al significato latino di idem ed ipse: «l’identità intesa come idem, dispiega una gerarchia di significazioni […] tra le quali la permanenza nel tempo costituisce il grado più elevato, cui si oppone il differente, inteso come mutevole, variabile»41. Al contrario, l’identità intesa nel senso di ipse «non implica alcuna asserzione circa un preteso nucleo immutabile della personalità»42: si tratta della nozione di identità-ipse (ipséité) con la quale viene indicato «un soggetto capace di designare se stesso come l’autore delle proprie parole e delle proprie azioni, un soggetto non sostanziale e non immutabile, ma nondimeno responsabile del suo dire e del suo fare»43. Possiamo dire che l’ermeneutica ricoeuriana dell’identità personale si origini proprio dalla presa in considerazione (ibidem, p. 94). Nell’ermeneutica del sé l’approccio di una filosofia di stile riflessivo si intreccia con l’approccio di tipo analitico: l’identità personale viene, quindi, studiata anche in connessione con le metodologie di ricerca tipiche dell’ambito filosofico anglo-americano. A tal proposito cfr. il quinto studio di Sé come un altro (“L’identità personale e l’identità narrativa”), nel quale la nozione d’identità personale viene considerata soprattutto in confronto critico con la prospettiva filosofica (“antimetafisica” e “riduzionista”) di Derek Parfit, esposta nel seguente volume: D. PARFIT, Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford, 1984; tr. it. di R. Rini, Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano, 1989. Secondo Parfit la persona non è altro che il risultato della connessione psicologica delle sue esperienze: contrariamente a quanto sostiene Ricoeur, per il filosofo oxoniense quando ci si interroga sulla persona «ciò che conta» è soltanto la connessione psicologica tra diversi stati mentali ed è impossibile ricercare un’identità transtemporale (e tanto meno un fondamento ontologico del soggetto) come «un fatto ulteriore» (D. PARFIT, Ragioni e persone, op. cit., p. 271). 41 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 77. 42 Ibidem. 43 P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., p. 92.

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dell’ipséité, ovvero dal carattere riflessivo ed indiretto tramite il quale il soggetto comprende se stesso come agens. Ricoeur rileva, inoltre, che il “sé” – tema d’indagine della sua proposta ermeneutica – non ha mai un carattere solipsistico e monologico: il sé è sempre costituiva apertura dialogica verso l’alterità. E l’alterità – intesa nel senso di corporeità, estraneità e coscienza (Gewissen)44 – è essa stessa parte integrante del sé. Come accentuato dallo stesso emblematico titolo dell’opera, il sé è “come” un altro: quel “come” «non va inteso nel senso di una semplice comparazione (soi-même semblable à un autre) ma, in modo più intrinseco, nel senso di un’implicazione (soi-même en tant qu’autre)»45: questo significa che per Ricoeur «l’alterità è nel cuore dello stesso»46 – cioè dell’ipséité – e si configura come presenza costitutiva della soggettività, della stessa identità personale. Il “come” presente nel titolo è, quindi, da intendere nel senso di “in quanto”. Lo stesso titolo dell’opera potrebbe essere chiarificato con la seguente espressione: “me stesso in quanto un altro”; ciò significa che la presenza dell’alterità diviene elemento costitutivo e fondante della mia stessa identità personale (si tratta di una sorta di societas in interiore homine). In particolare, nel decimo studio di Sé come un altro Ricoeur parla di un “tripode dell’alterità” presente nel soggetto. L’alterità si determina Per Ricoeur l’alterità «appartiene alla costituzione ontologica dell’ipseità» (P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 431): egli sottolinea il carattere polisemico dell’alterità ed indica tre precise esperienze soggettive in cui si avverte intimamente la presenza di un’alterità a se stessi: «l’esperienza del corpo proprio, o meglio della carne (chair)» (ibidem, p. 432), l’esperienza dell’incontro con «l’estraneo, nel senso preciso dell’altro da sé» (ibidem, p. 433), e «quella del rapporto di sé a se stessi che è la coscienza, nel senso di Gewissen più che di Bewusstsein» (ibidem). 45 D. IERVOLINO, Introduzione a Ricoeur, op. cit., p. 68. 46 Cfr. D. IANNOTTA, L’alterità nel cuore dello stesso, saggio introduttivo a P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., pp. 11-69. 44

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secondo tre diverse modalità: 1) in primo luogo, il “corpo proprio” (si tratta del Leib della prospettiva husserliana, cioè l’avvertimento coscienziale di essere in una corporeità che è “natura appartentiva”)47; 2) l’alterità dell’altro (le visage d’autrui su cui tanto si è soffermato anche Levinas); 3) l’alterità di Dio ovvero l’avvertimento in interiore homine di una presenza che ci trascende, che è in noi senza appartenere compiutamente a noi stessi, che ci supera e ci fonda. Per disignare tale terzo tipo di alterità – interpretabile come la trascendenza divina nel cuore della soggettività – Armando Rigobello ha usato la bella espressione di “estraneità interiore”, entrando in vivo dialogo con lo stesso Ricoeur: per il filosofo italiano «l’estraneità interiore è una presenza che non coincide con l’orizzonte del soggetto e tuttavia ci fonda ed insieme ci supera. Questa differenza interiore non è un’illusoria connotazione psichica, ma un dato ontologico. Il soggetto, infatti, è una realtà complessa, le cui varianti sono segni allusivi ad uno statuto ontologico, di cui la differenza è, da un lato, testimonianza, dall’altro mediazione»48. Prendiamo ora in considerazione la nozione di attestazione (attestation) che nell’argomentare di Ricoeur sul valore della 47 Ricordiamo che il Leib husserliano designa il “corpo vivente”, l’esperienza della corporeità così come viene esperita dalla coscienza. Come è noto, nel linguaggio fenomenologico il Leib è nettamente distinto dal Körper; quest’ultimo termine designa il “corpo inanimato”, ivi compreso il cadavere. Descrivendo l’esperienza del “corpo proprio” Ricoeur si confronta anche con la filosofia riflessiva di Maine de Biran e con la prospettiva fenomenologica di Michel Henry, fautore quest’ultimo di un’originale “filosofia della carne e dell’incarnazione”. A tal riguardo cfr. M. HENRY, Philosophie et Phénoménologie du corp. Essai sur l’ontologie biranienne, PUF, Paris, 1965; si veda anche IDEM, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000 ; tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino, 2001. 48 A. RIGOBELLO, L’estraneità interiore, Studium, Roma, 2001, p. 153.

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soggettività gioca sicuramente un ruolo di primaria importanza. L’attestazione «definisce quella sorta di certezza alla quale può pretendere di pervenire l’ermeneutica, non soltanto rispetto alla esaltazione epistemica del cogito a partire da Cartesio, ma anche rispetto alla sua umiliazione in Nietzsche ed i suoi successori»49. L’attestazione si oppone alla certezza logica ed epistemologica del cogito cartesiano e non è considerata da Ricoeur come un saldo criterio di verificazione di fatti oggettivi: l’autore non esita a rilevarne, quindi, una certa “faiblesse philosophique”, una sua ineludibile “debolezza epistemologica”: «l’attestazione si oppone, fondamentalmente, alla nozione di epistéme, di scienza, considerata quale sapere ultimo e autofondante»50 e si qualifica come una “certezza” alla quale può pervenire l’ermeneutica del sé ed una filosofia riflessiva, incentrata sulle dinamiche interiori della soggettività. Si tratta perciò di una certezza dal carattere tutto intimo ed esistenziale: «l’attestazione può definirsi come la sicurezza di essere se stessi agenti e sofferenti. Questa sicurezza resta l’ultimo rimedio contro ogni sospetto»51. Seppur non epistemologicamente fondante, l’attestazione gode tuttavia della fiducia (confiance) incrollabile che il soggetto può dare alla testimonianza interiore (témoignage intérieure), alla voce della propria coscienza52: Ricoeur ricorda a tal proposito come il P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 97. Ibidem, p. 97. L’attestazione scaturisce dall’affermazione “io credo-in”: avvicinandosi alla “testimonianza interiore” essa manifesta certamente una «debolezza […] rispetto a qualsiasi pretesa di fondazione ultima» (ibidem, p. 98). 51 Ibidem, p. 99. 52 A tal proposito è lo stesso Ricoeur che sulla scorta delle riflessioni del suo maestro Jean Nabert paragona l’atto dell’attestazione a quello della testimonianza, intesa quest’ultima - anche in senso propriamente religioso come fede che l’uomo può dare «a quei segni contingenti che l’assoluto dà di sé nella storia» (P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. 49 50

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termine tedesco di “coscienza”, Gewissen «richiama la sua parentela semantica con la Gewissheit o certezza»53. L’attestazione è perciò un radicale “atto di fiducia” dell’uomo nei confronti di ciò che esso avverte ed esperimenta nel suo intimo: è solo sul fondamento di verità di questa testimonianza interiore – paragonabile alla voce del dáimon socratico – che per Ricoeur la sua «ermeneutica del sé può pretendere di tenersi ad eguale distanza dal cogito esaltato da Cartesio e dal cogito che Nietzsche dichiara decaduto»54. Possiamo dire che l’attestazione sia la dinamica riflessiva tramite la quale il soggetto si rende certo e consapevole della propria identità personale, di se stesso e delle cit., p. 110). Il valore epistemologico dell’attestazione quale “testimonianza” e “certezza soggettiva” può trovare delle analogie con il concetto di “fede” (Glaube) di cui parla il filosofo tedesco Friedrich Heinrich Jacobi: per quest’ultimo la fede – intesa in senso non solamente religioso ma anche in relazione ad una teoria della conoscenza – è come l’attestazione ricoeuriana, cioè «una fiducia senza garanzia, [...] una confidenza più forte di ogni sospetto» (P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 99). Ulteriori profonde analogie si possono trovare tra la nozione ricoeuriana di “attestazione” e quella di “certezza morale” teorizzata a fine Ottocento dal filosofo francese Léon Ollé-Laprune. Per quest’ultimo la certitude morale è la fonte primaria dalla quale possiamo attingere le verità filosofiche essenziali: la legge morale, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Per mezzo della “certezza morale” – afferma Ollé-Laprune – «io vado oltre ciò che appare, ed affermo ciò che è. […] È assai meglio della conclusione certa di un ragionamento legittimo: è un contatto, […] un atto dell’anima […] che aggiunge alla conoscenza propriamente detta un indispensabile sovrappiù» (L. OLLÉ-LAPRUNE, De la certitude morale, Belin, Paris 1880; tr. it. (parziale) in R. CRIPPA (a cura di), Ollé-Laprune, La Scuola, Brescia 1948, p. 66.): si tratta di una «certezza vivente, certezza d’anima, fatta di sentimento, di percezione, di ragione, ed infine di fiducia e di fede» (ibidem, p. 68). 53 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 99. 54 Ibidem.

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sue potenzialità (puissances). A tal proposito Ricoeur rileva che l’attestazione è «confidenza (confiance) nel potere di dire, nel potere di fare, nel potere di riconoscersi quale personaggio di racconto, infine nel potere di rispondere all’accusa con l’accusativo “eccomi!” – secondo un’espressione cara a Lévinas»55. In ultima analisi, l’attestazione è la facoltà soggettiva in grado di far autodesignare il sé come autore dei propri atti, di tutte le capacità dell’homme capable ed è quindi la sicurezza (assurance), la credibilità e la fiducia «che ciascuno ha di esistere come uno stesso, come ipseità»56. Prendiamo ora in considerazione quello che Ricoeur nel decimo studio di Soi-même comme un autre definisce come l’«impegno ontologico dell’attestazione»57. In questo decimo studio dal «carattere esplorativo»58 l’autore dichiara di voler far emergere le “implicazioni ontologiche” delle sue analisi sulla soggettività svolte sotto il titolo di un’ermeneutica del sé. Egli in queste pagine finali del volume cerca di rispondere alla questione speculativa di centrale importanza circa un possibile fondamento ontologico dell’identità personale: «quale modo di essere è, dunque, quello del sé, quale sorta di ente o di entità esso è?» 59. Per poter spingere il suo discorso filosofico sul soggetto a considerazioni di carattere ontologico Ricoeur ritiene essenziale e Ibidem, p. 99. Ibidem, p. 410. 57 Ibidem, p. 411. A tal proposito cfr. anche P. RICOEUR, L’attestation entre phénoménologie et ontologie, in J. GREISCH e R. KEARNEY (a cura di), Les métamorphoses de la raison herméneutique, [Actes du Colloque de Cerisyla-Salle 1988], Cerf, Paris, 1991, pp. 381-403; O. MONGIN, Il concetto di attestazione, in A. DANESE (a cura di), L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova, 1993, pp. 33-48. 58 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 409. 59 Ibidem, p. 409. 55 56

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decisiva proprio la nozione di attestazione del sé: essa è quella “testimonianza interiore” in base alla quale il soggetto è in grado di affermare con sicurezza l’esistenza di «un fondo d’essere, ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano»60, sul quale si fondano tutte quelle potenzialità che caratterizzano l’homme capable, quali il potere di agire, di narrare, di promettere e d’imputare anche a se stesso i propri atti. L’attestazione di sé ha, quindi, per Ricoeur un fondamentale valore ontologico: essa è lo strumento interiore tramite il quale si può arrivare all’affermazione di un’ontologia del soggetto. Il filosofo considera l’attestazione come la “garanzia di verità” che nella persona umana v’è “un fondo d’essere”, un nucleo ontologico originario e dinamico61, sul quale si fondano le puissances dell’uomo di cui in precedenza abbiamo parlato. É da sottolineare che il particolare modo d’essere del soggetto che si può affermare tramite l’attestazione non è quello del suppositum della tradizione tomista62, ma è quello definito da Ibidem, p. 421. L’attestazione in quanto fondata sulle concrete dinamiche dell’esperienza interiore del soggetto è una modalità per realizzare ciò che Gabriel Marcel, maestro di Ricoeur, amava definire come “approccio concreto al mistero dell’essere” (approche concrète au mystère de l’être). Esempio paradigmatico di tale approccio concreto alla problematica ontologica sono le lezioni del volume di G. MARCEL, Le mystère de l’être, Aubier, Paris, 1951; tr. it. di G. Bissaca, Il mistero dell’essere, Borla, Roma, 1987. 62 Come ricorda Jacques Maritain «San Tommaso chiama “supposito”, suppositum, ciò che noi chiamiamo soggetto. [...] Il supposito è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, – actiones sunt suppositorum – chi sussiste» (J. MARITAIN, Court traité de l’existence et de l’existant, Hartmann, Paris 1947; tr. it. di L. Vigone, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia, 19984, p. 51). Il termine suppositum si ricollega a quello aristotelico di hypokéimenon e designa la nozione metafisica di sussistenza della persona. Possiamo dire che Ricoeur 60 61

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Aristotele come ἐνέργεια-δύναμις (come atto e come potenza): è un modo d’essere che il filosofo francese pone anche in relazione con il conatus di cui parla Spinoza. Per la sua elaborazione di un’ontologia del sé Ricoeur opera una “riappropriazione” – e possiamo dire un “rinnovamento” – di nozioni tipiche di Spinoza e di Aristotele, d’un Aristotele letto secondo l’interpretazione di Heidegger: il filosofo francese è infatti convinto che «un’ontologia resta possibile ai nostri giorni, nella misura in cui le filosofie del passato restano aperte a delle reinterpretazioni e a delle riappropriazioni grazie ad un potenziale di senso lasciato inattivo. […] Se non si potessero risvegliare queste risorse che i grandi sistemi del passato tendono a soffocare e a mascherare, non sarebbe possibile alcuna innovazione, e il pensiero presente non avrebbe altra scelta che la ripetizione e l’erranza»63. Ricoeur tenta, quindi, di riappropriarsi della nozione aristotelica di essere come potenza-atto (δύναμις- ἐνέργεια), tenendo conto della lezione di Heidegger, che al contrario di quella aristotelica, asserisce il primato della potenza (δύναμις) condividerebbe la critica all’ontologia tomista avanzata dal filosofo personalista Luigi Stefanini: anche quest’ultimo ponendo l’accento come avviene in Ricoeur sulla «produttività della persona» (L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, [edizione originale 1950], Canova, Brescia 1996, p. 11) e sull’interiorità come «nucleo ed energia» creativa (ibidem, p. 12) critica la dottrina del suppositum: «l’essere non è in me una consistenza pietrosa sulla cui superficie vadano incrostandosi delle secrezioni, dette accidenti o qualità» (ibidem). Le notevoli affinità tra la prospettiva ontologica di Stafanini e quella di Ricoeur sono state oggetto di un mio scritto al quale mi permetto di rinviare: cfr. T. VALENTINI, Ermeneutica, ontologia e linguaggio in Luigi Stefanini e Paul Ricoeur. Un possibile confronto, [Atti del Convegno Arte e linguaggio in Luigi Stefanini, tenutosi a Treviso presso la Fondazione Luigi Stefanini il 10 e l’11 novembre 2006], Editrice Prometheus, Milano, 2008, pp. 303-337. 63 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 411.

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sull’atto. In particolare Ricoeur fa riferimento al corso universitario tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1931 avente come titolo Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3 e come sottotitolo Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft (Sull’essenza e la realtà della forza): in questo corso Heidegger indica l’essere secondo la δύναμις e l’ἐνέργεια come il significato fondamentale dell’essere secondo Aristotele, significato al quale lo Stagirita arriva a partire dalla riflessione sul movimento (κίνησις)64. L’accezione dell’essere come potenza e come atto è per Ricoeur di fondamentale importanza: è infatti su questo significato dell’essere che l’agire e tutte le altre capacità del soggetto possono trovare il loro fondamento. La finalità dell’indagine ricoeuriana è di poter argomentare la possibilità di «un’ontologia dell’ipseità in termini di atto e di potenza»65; l’attestazione nel suo valore ontologico rende possibile poter affermare questo: «se c’è un essere del sé, in altri termini se un’ontologia dell’ipseità è possibile, è in connessione con un fondo [di atto e di potenza], a partire da cui il sé può esser detto agente»66. L’ontologia ricercata da Ricoeur – per la giustificazione della possibilità di “un fondo d’essere sul quale si stagli l’agire umano” – è, quindi, un’ontologia dell’essere come potenza e come atto, contrapposta al significato dell’essere come sostanza: anche sulla scorta dell’interpretazione di Heidegger, il filosofo francese tenta di «liberare l’ousía aristotelica dalle catene della tradizione scolastica nata dalla sua traduzione latina con substantia»67. Ricoeur non esita tuttavia a sottolineare le problematiche Cfr. M. HEIDEGGER, Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3. Von Wesen und Wirklichleit der Kraft, in IDEM, Gesamtaugabe, V. Klostermann, Frankfurt a.M. 1981. 65 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 421. 66 Ibidem. 67 Ibidem, p. 418. 64

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storiografiche e teoretiche lasciate aperte da questa sua “riappropriazione” dell’ontologia aristotelica al fine di stabilire una connessione tra «l’unità analogica dell’agire umano […] ed una ontologia dell’atto e della potenza»68; nella sua indagine egli si rivolge perciò a Spinoza, in particolare alla concezione spinoziana del conatus quale “sforzo” (o anche “potenza”) «per perseverare nell’essere, che fa l’unità dell’uomo così come di ogni individuo»69: Ricoeur sottolinea che «Spinoza - di provenienza più giudaica che greca - è il solo ad aver saputo articolare il conatus su questo fondo di essere ad un tempo effettivo e potente, che egli chiama essentia actuosa»70. Quella che Ricoeur propone nel decimo studio di Soi-même comme un autre non è tuttavia un’«ontologia trionfante»71, bensì solo la traccia di un possibile itinerario speculativo che nella sua ricerca sul fondamento ontologico del soggetto non si è sottratto al “bel rischio” dell’interpretazione (καλὸς ὁ κίνδυνος, secondo una bella espressione del dialogo platonico Fedone 114 d). Il tentativo di “riappropriarsi” in maniera originale delle concezioni aristoteliche di δύναμις / ἐνέργεια e del conatus spinoziano ha sicuramente costituito un percorso per avvicinarsi alla “terra promessa” di un’ontologia del soggetto. Va sottolineato che nel suo itinerario filosofico Ricoeur si è però sempre fermato “alle soglie dell’ontologia”: la possibilità dell’esistenza di un “fondo d’essere sul quale si staglia l’agire umano in tutte le sue espressioni” è sempre affermata tramite un atto d’attestazione soggettiva e di testimonianza interiore, giammai per mezzo di una rigorosa dimostrazione logica epistemologicamente fondante. L’indagine Ibidem, p. 416. Ibidem, p. 431. 70 Ibidem. 71 P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 37. 68 69

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ricoeuriana è mossa dal “desiderio” di un’ontologia del soggetto ma è lontana dall’affermazione di qualsiasi risultato speculativo ultimo e definitivo. Quello di Ricoeur rimane un “pensiero incompiuto”; esso non ha come esito la fondazione della nozione di persona umana su di una dottrina come quella tomista del suppositum ma rimane aperto ad itinerari di ricerca nei quali l’ontologia è la “terra promessa”: «come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»72. 5. Dal “conflitto delle interpretazioni” a una “filosofia del limite” Riassumiamo ora gli sviluppi fondamentali del nostro discorso. Nella prima parte dell’elaborato abbiamo messo in luce gli elementi più decisivi del confronto di Ricoeur con Freud, facendo emergere anche il background speculativo – il personalismo e la fenomenologia – con le cui lenti l’autore francese legge l’opera del “padre della psicoanalisi”. Abbiamo quindi sottolineato i motivi fondamentali per i quali Ricoeur interpreta la psicoanalisi freudiana come una “archeologia del soggetto”: secondo il Ibidem, p. 37. Condividiamo le considerazioni di Paulin Sabuy Sabangu circa l’esito speculativo del decimo studio di Sé come un altro: «l’ontologia dell’attestazione in cui si risolve lo sforzo di sintesi dell’autore non vuol essere affatto un discorso fondativo ultimo. L’attestazione non è certezza epistemologica (Gewissheit) ma certezza morale (Gewissen)» (P. SABUY SABANGU, Al di là del Cogito il “Sé”, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», vol. 15/I (2006), pp. 135-138, p. 138). La fondazione di un’ontologia del soggetto, seppur non compiutamente tematizzata ed argomentata, rimane sempre per Ricoeur un “ideale regolativo” (potremmo dire un télos ideale) che anima e muove tanta parte della sua ricerca filosofica. 72

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filosofo francese, Freud tenterebbe di spiegare la complessità dell’azione dell’uomo facendo quasi esclusivamente riferimento al suo passato, agli aspetti umbratili della sua infanzia, al primordiale (éros, thánatos, anánke); l’interpretazione freudiana dell’uomo viene considerata, in tal modo, una forma di “determinismo” che finirebbe quasi per negare la libertà del volere (le volontaire) e l’agire stesso secondo precise finalità, ciò che Ricoeur – richiamandosi anche all’Etica nicomachea di Aristotele e alla hegeliana Fenomenologia dello Spirito – definisce come “teleologia del soggetto”. Tra la freudiana “archeologia del soggetto” e l’aristotelico-hegeliana “teleologia del soggetto” Ricoeur scorge un leggittimo “conflitto delle interpretazioni”. Tuttavia egli sottolinea che queste due interpretazioni dell’agire umano, seppur antitetiche – in quando l’una rivolta all’arcaico mentra l’altra è rivolta al dinamismo dell’azione indirizzata all’ordine dei beni –, sono entrambi legittime e contengono motivi di verità: accentuando l’irriducibile complessità della realtà umana Ricoeur ricorda la saggezza aletica del detto di Maine de Biran: homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate. Nel corso della trattazione abbiamo, quindi, più volte ribadito che l’argomentare di Ricoeur tenta di evitare qualsiasi forma di “riduzionismo antropologico”: quella del filosofo francese è una posizione che rimane aperta al “conflitto delle interpretazioni” e suggerisce “itinerari di senso” scevri da qualsiasi assolutizzazione. Per Ricoeur il confronto critico con il freudismo è stato anche la “scossa maieutica” per un’originale prospettiva di antropologia filosofica basata sulla nozione di homo capax. Tale nozione costituisce un approfondimento e una specificazione della visione finalistica dell’agire umano, cioè della “teleologia del soggetto”: a nostro parere, l’antropologia delle capabilities costituisce la parte più costruttiva ed originale del discorso ricoeuriano. Come 361

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abbiamo fatto emergere sopprattutto nell’ultima parte del nostro studio, Ricoeur – particolarmente nell’opera Soi-même comme un autre – si interroga sullo statuto ontologico del soggetto partendo dalla sua produttività interiore, dalle sue capacità: poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore e, non da ultimi, il potere di fare memoria e il poter promettere. Ricoeur cerca quindi di argomentare a favore di una ontologia del sé fondata sull’enérgeia, sul nucleo sorgivo della produttività interiore. Quella di Ricoeur può essere definita anche come una “filosofia del limite” nella quale la stessa affermazione di un’ontologia del sé rimane la “terra promessa” di un “pensiero incompiuto”, aperto a percorrere sempre nuovi itinerari di ricerca e a confrontarsi con diverse metodologie d’indagine. Ricoeur ha inteso anche tracciare i “limiti” del lógos filosofico; a questo proposito si possono trovare sicuramente delle affinità con le Grenzen di cui parla Kant73; la “via lunga” dell’ermeneutica del sé non ha come esito speculativo la chiara affermazione di una “metafisica del soggetto” e la stessa nozione ricoeuriana di persona ha – come in Kant – soprattutto un valore di tipo etico e giuridico. La prospettiva ricoeuriana è una “filosofia del limite” che sa gettare lo sguardo oltre i confini rigorosi dell’indagine teoretica: essa, pur non prestandosi «ad alcun amalgama ontoteologico»74, non rimane costitutivamente preclusa ad una dimensione di senso ulteriore, alla trascendenza religiosa. Ricoeur, seppur profondamente legato alla spiritualità calvinista, è risoluto nel

Cfr. A. RIGOBELLO, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963; A. GENTILE, Ai confini della ragione. La nozione di “limite” nella filosofia trascendentale di Kant, Studium, Roma, 2003; IDEM, Filosofia del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012. 74 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 101. 73

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voler condurre «un discorso filosofico autonomo»75, caratterizzato da un «ascetismo dell’argomentazione»76 e nel quale la fede biblica viene «messa tra parentesi»77: egli però “gettando lo sguardo al di là dei limiti stabiliti dalla ricerca filosofica” ed abbracciando «una fede che sa di essere senza garanzia»78, non rinuncia ad una prospettiva di senso religioso dell’esistere, a quella che egli definisce anche come una “escatologia del soggetto”. Per Ricoeur nel nucleo più profondo dell’identità personale si può avvertire la presenza di un’Alterità che, come ricorda Sant’Agostino, “è più intima a noi di noi stessi”79: ma su questa “aporia dell’Altro” il discorso filosofico si arresta, il lógos deve lasciare spazio alla fede (pístis), alla meditazione religiosa. Ricoeur riprende e rielabora la posizione kantiana sui rapporti tra ragione e fede, esprimendosi a favore di un primato del pratico 80 e Ibidem, p.100. Ibidem, p.101. 77 Ibidem, p.100. 78 Ibidem, p.102. Cfr. le proposte di esegesi biblica contenute in P. RICOEUR - A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998. 79 Rivolgendosi a Dio presente nell’interiorità umana Agostino afferma: «Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo» (AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III, 6, 11). Commentando questo passo il filosofo italiano Michele Federico Sciacca sostiene giustamente che in Agostino «la trascendenza assoluta si coglie nel punto massimo d’interiorità» (M.F. SCIACCA, S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949, p. 132). Sulla ricezione ricoeuriana di Agostino cfr. P. RIGBY, Paul Ricoeur, Freudianism and Augustine’s "Confessions", «Journal of the American Academy of Religion», 1/53, 1985, pp. 93-114; L. ALICI, Agostino e Ricoeur, in IDEM, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999, pp. 237262; I. BOCHET, Augustin dans la pensée de Paul Ricoeur, Éd. Facultés Jésuites de Paris, Paris 2004. 80 Basti menzionare la celebre espressione kantiana contenuta nella Vorrede (1787) della Critica della ragion pura: «Ho dovuto sopprimere il sapere per 75 76

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delle pascaliane “ragioni del cuore”: «Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point»81.

far posto alla fede (Ich mußte also das Wissen aufheben, um zum Glauben Platz zu bekommen)» (KrV, B XXX). 81 B. PASCAL, Pensées, n. 277, Section IV: Des Moyens de Croire, Éd. Brunschvicg, Garnier, Paris, 1964.

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Studio VI

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Paul Ricoeur: il linguaggio metaforico come espressione di libertà creativa e di innovazione semantica «La metafora non è un ornamento retorico o una curiosità linguistica, ma costutuisce la più eclatante illustrazione del potere che il linguaggio ha di creare senso attraverso accostamenti inediti. [...]. La metafora appare come l’ossatura semantica del simbolo. […] Il linguaggio poetico contribuisce alla “ridescrizione” del reale. […] È rivelatore di valori di realtà inaccessibili al linguaggio ordinario, diretto e letterale. La poesia fa vedere ciò che la prosa non lascia emergere; in questo senso, l’analogia non è soltanto un tratto del linguaggio considerato nelle sue strutture interne, ma un tratto del rapporto del linguaggio con il mondo. […]» 1.

1. Sviluppi linguistici di una philosophie de la liberté: il nesso tra immaginazione e creatività linguistica La filosofia elaborata dal francese Paul Ricoeur (1913-2005), fin dalla sua prima grande opera del 1950 – Il volontario e l’involontario –, ha inteso qualificarsi come una philosophie de la liberté humaine: egli ha proposto una “rinnovata filosofia del cogito” incentrata sulle capacità creative del soggetto – definito homo capax – di agire, di parlare, di narrare e di comprendere sé P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Jannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, pp. 59-61. 1

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stesso tramite le proprie opere. A partire da Le volontaire et l’involontaire, Ricoeur ha analizzato l’«esperienza integrale del cogito», che «include l’io desidero, l’io posso, l’io vivo, [l’io parlo] e, in generale, l’esistenza come corpo»2. In questa ampia ricerca di una “filosofia della libera volontà” Ricoeur si confronta criticamente con le scienze umane come la linguistica e la psicoanalisi e si pone come un ideale continuatore della grande tradizione di “filosofia riflessiva” tipicamente francese: come è noto, tale tradizione affonda le sue radici nell’agostinismo dell’aetas cartesiana e trova rinnovati sviluppi nell’Ottocento, a partire da Maine de Biran, teorico dell’io come effort e come libera produttività creatrice. Uno dei contributi più originali di Ricoeur è sicuramente da individuare nell’elaborazione di una filosofia del linguaggio incentrata sul valore creativo della soggettività. Gli studi di Ricoeur pongono infatti l’accento su una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio umano: la sua inesauribile creatività, le sue potenzialità di «innovazione semantica». Egli individua nell’immaginazione – la facultas fingendi della tradizione retorica classica – la facoltà fondamentale in grado di garantire alle espressioni linguistiche la possibilità di innovarsi, di produrre nuove “donazioni di senso” alla realtà, inedite Sinngebungen, termine tipico della fenomenologia di Edmund Husserl, alla quale il filosofo francese esplicitamente si richiama. Secondo Ricoeur l’immagine è il luogo nel quale la parola trova la sua fonte sorgiva; è proprio questa origine “iconica” della parola a garantire ai soggetti parlanti la possibilità di una inesauribile creatività linguistica. Tale creatività linguistica è ciò che, ad avviso di P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. 1 Le volontarie et l’involontaire, Aubier, Paris, 1950; tr. it. di M. Bonato, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova, 1990, p. 13.

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Ricoeur, rende anche possibile il fenomeno dell’«innovazione semantica», la costituzione di sempre nuove “significazioni” del reale. L’immaginazione di cui parla Ricoeur non è però quella dal carattere meramente riproduttivo, cioè la facoltà mimetica che consente alle cose esteriori di essere “riprodotte” nella mente: si tratta piuttosto di una immaginazione produttiva. Ricordiamo che la distinzione tra immaginazione riproduttiva e produttiva Ricoeur la riprende e la elabora a partire da Kant3: quest’ultimo nella Critica della ragion pura all’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) affida il ruolo di formare gli schemi trascendentali, i quali operano un’essenziale mediazione conoscitiva tra le intuizioni sensibili e le categorie dell’intelletto 4; nella Critica del Giudizio Kant affida, inoltre, alla facoltà dell’immaginazione produttiva la costituzione di un “libero schematismo”, cioè di un “libero gioco delle facoltà” (freies Spiel der Erkenntnissvermögen)5 che consente al soggetto la formulazione dei giudizi estetici: di esprimersi, ad esempio, sulla 3

Cfr. ad esempio P. RICOEUR, Imagination reproductive et imagination productive chez Kant, lezione tenuta il 3 gennaio 1974 presso il Centre de Recherches Phénoménologiques di Parigi; tr. it. di R. Messori, Immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva secondo Kant, in «Aesthetica Preprint», n. 66, 2002, pp. 47-50. 4 Cfr. in particolare I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A 140, B 179: «Lo schema è sempre, in se stesso, soltanto un prodotto dell’immaginazione (Das Schema ist an sich selbst jederzeit nur ein Produkt der Einbildungskraft); [...] io chiamo schema di un concetto la rappresentazione di un procedimento generale onde l’immaginazione porge al concetto la sua immagine» (IDEM, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Laterza, Roma, Roma-Bari, 19714, p. 165). 5 Cfr. I. KANT, Kritik der Urteilskraft, 217-218; IDEM, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Introd. di P. D’Angelo, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 101 ss.

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bellezza o sublimità di quanto viene osservato. Mi pare senz’altro condivisibile l’interpretazione che del pensiero ricoeuriano ha dato Jean Greisch6: secondo quest’ultimo Ricoeur in tutti i suoi scritti avrebbe tentato di portare alla luce le implicazioni contenute nella teoria dell’immaginazione produttiva di Kant, la produktive Einbildungskraft. Il filosofo francese fa emergere tutte le potenzialità della facoltà dell’immaginazione produttiva: essa è organo dell’«innovazione semantica, caratteristica dell’uso metaforico del linguaggio»7, opera nella costruzione dello schema narrativo del racconto e «applicata all’azione [...] ha una funzione proiettiva che appartiene al dinamismo stesso dell’agire»8. Ricoeur considera, inoltre, l’immaginazione una “cerniera tra il teoretico e il pratico”: egli afferma che è «nell’immaginario che io saggio il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io 6

Cfr. J. GREISCH, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Millon, Grenoble, 2001; IDEM, Paul Ricoeur, PUF, Paris 2013; tr. it. di L. Gianfelici, revisione di G. Ferretti, Leggere Paul Ricoeur, Queriniana, Brescia 2014. Cfr. anche P.S.A. ANDERSON, Ricoeur and Kant, Scholars Press, Atlanta, 1993; J. EVANS, Paul Ricoeur’s hermeneutics of the imagination, Peter Lang, Frankfurt a.M. - New York, 1995; M. PHILIBERT, Philosophical Imagination: Paul Ricoeur as the Singer of Ruins, in AA. VV. a cura di L.E. Hahn, The Philosophy of Paul Ricoeur, Open Court, Chicago, 1995, pp. 127-137; M. FOESSEL, Les deux voies du schématisme. Ricoeur et le problem de l’imagination transcendentale, in G. MARMASSE – R. PICARDI (sous la direction de), Ricoeur et la pensée allemande. De Kant à Dilthey, CNRS Édition, Paris, 2019, pp. 81-96. 7 P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa. Vv., Savoir, faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207-228; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989, pp. 205-227, p. 209. 8 Ibidem, p. 215.

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posso”»9, e definisce la stessa utopia politica come “immaginazione costituente”, nella quale si attua «il progetto immaginario di un’altra società, di un'altra realtà» 10 e si ha la capacità «di istituire dei nuovi modi di vita»11. Gli studi di Ricoeur sul linguaggio si pongono in linea di continuità con le ricerche kantiane sulle possibilità creative dell’immaginazione e, allo stesso tempo, integrano la prospettiva kantiana con quella di Wilhelm von Humboldt: quest’ultimo, a partire dalla gnoseologia kantiana, ha elaborato una teoria nella quale l’immaginazione produttiva viene posta in stretta relazione con la costituzione del linguaggio (Bildung der Sprache)12. Ricoeur, proseguendo le indagini di Kant e di von Humboldt, fa emergere quello che possiamo definire come “il carattere immaginistico del linguaggio” ed insiste sul valore fondamentale dell’immaginazione nella produzione del linguaggio metaforico e poetico13. In questa prospettiva, ogni parola è “impronta” Ibidem, p. 216. Ibidem, p. 222 11 Ibidem, p. 224. 12 Su questa tematica si veda ad esempio E. CASSIRER, Die Kantischen Elemente in Wilhelm von Humbodts Sprachphilosophie, in Festschrift für Paul Hensel, a cura di J. Binder, Griez, Ohag, 1923, pp. 105-127; scritto riportato anche nel più recente IDEM, Geist und Leben. Schriften zu den Lebensordnungen von Natur und Kunst, Geschichte und Sprache, hrsg. von E.O. Orth, Leipzig, 1993, pp. 236-273; si veda anche J. TRABANT, Die Einbildungskraft und die Sprache. Ausblick auf Wilhelm von Humboldt, in «Neue Rundschau», Heft 3/4, 1985, pp. 161-182. 13 Wilhelm von Humboldt considera la parola come il rivestimento sonoro di quanto nell’immagine è rappresentato: egli tenta di andare alla genesi costitutiva del linguaggio e scorge nell’immagine (Bild) il luogo della sua più intima produzione. Von Humboldt sottolinea che «il linguaggio è l’organo dell’essere interiore, è questo stesso essere, com’esso perviene via via alla conoscenza interiore e all’estrinsecazione (Die Sprache [...] ist das 9

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(Abdruck è il termine utilizzato da von Humboldt) di un’immagine e il linguaggio è considerato come una forma di conoscenza intuitiva che continuamente si rinnova. Per Ricoeur il linguaggio ha, quindi, un ineliminabile “fattore poetico-creativo” che trova le sue origini nella facoltà dell’immaginazione produttiva: è quest’ultima in grado di garantire quell’essenziale “spinta innovatrice” che determina “la natura intuitivo-creativa del linguaggio”. Tale prospettiva mi pare estremamente interessante, poiché in essa si può rinvenire una considerazione filosofica del linguaggio al di là dei suoi usi strumentalistici e referenziali (la Bedeutung di cui parla Gottlob Frege14): Ricoeur – Organ des inneren Seyns, dies Seyn selbst, wie es nach und nach zur inneren Erkenntnis und zur Äusserung gelangt)»13 (W. von HUMBOLDT, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues, Dümmler, Berlin 1836; in Gesammelte Schriften, Preussische Akademie der Wissenschaften, hrg. von A. Leitzmann et alii, Behr, Berlin 1903-1936 (rist. De Gruyter, Berlin, 1967-68), VII, pp. 1-344, p. 14; tr. it. a cura di D. Di Cesare, La diversità delle lingue, Laterza, Bari-Roma, 2013, p. 9). Ricoeur afferma che l’opera di von Humboldt sulla diversità delle lingue «giganteggia nel XIX secolo; ad essa due pensatori contemporanei molto diversi si sono volentieri riferiti, il linguista Chomsky e il filosofo Heidegger» (P. RICOEUR, Philosophies du langage, in Encyclopaedia Universalis, vol. IX, 1971, pp. 771-781; tr. it. di D. Iervolino, Filosofie del linguaggio, in IDEM, Filosofia e linguaggio, Guerini e Associati, Milano, 1994, pp. 21-79, p. 22). Ricoeur condivide e sviluppa l’affermazione di von Humboldt secondo la quale il linguaggio si qualifica come la manifestazione stessa dell’essere personale. Da von Humboldt il filosofo francese riprende inoltre anche la concezione dell’unione indissolubile di pensiero e linguaggio: per entrambi i filosofi nell’intimo dell’uomo non c’è pensiero che si possa esprimere senza ricorso ad “immagini acustiche”, alla pronuncia interiore di lettere e sillabe. 14 Cfr. il celebre saggio di G. FREGE, Über Sinn und Bedeutung, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», n. 100, 1892; tr. it., Senso e denotazione, in Aa. Vv, a cura di A. Bonomi, La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano, 1973, pp. 9-32.

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come verrà spiegato in seguito più dettagliatamente – conferisce al linguaggio poetico e metaforico un preciso valore anche in ambito speculativo. Il linguaggio poetico, ad esempio, viene considerato come “ridescrizione” della realtà in termini simbolici ed allusivi: in esso viene infatti espressa una possibile “rifigurazione” del reale in ordine alla creatività del singolo, alle sue più intime istanze morali ed ideali. 2. I presupposti fenomenologici della filosofia del linguaggio: la Sinngebung come creazione linguistica di senso Ricoeur elabora la sua concezione del linguaggio a partire da alcune nozioni fondamentali della fenomenologia di Edmund Husserl. In particolare, in un saggio del 1967 – dal titolo New Developments in Phenomenology in France. The Phenomenology of Language – il filosofo argomenta la sua interpretazione della fenomenologia come «teoria del linguaggio generalizzato»15: in questo scritto l’intuizione dell’éidos, ovvero l’essenza universale (Wesen) dei fenomeni viene ricondotta alla Bedeutung, alla “significazione” di cui parla Gottlob Frege, e la riduzione eidetica viene considerata come condizione stessa di possibilità della Bedeutung, ovvero come «il trascendentale della

15

P. RICOEUR, New developments in Phenomenology in France. The Phenomenology of Language, in «Social Research», n. 1, 1967, pp. 1-30; saggio originariamente scritto in inglese e presentato anche nella successiva raccolta di scritti Le conflit des interprétations con il seguente titolo: La question du sujet: le défi de la sémiologie, in Le conflit des interprétations, Seuil, Paris, 1969, pp. 233-262; tr. it., La questione del soggetto: la sfida della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, 19993, pp. 251-281, p. 262.

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significazione»16, la nascita di un essere per la significazione; ciò significa che il senso del fenomeno, colto nella coscienza epochizzata, viene ad assume una specifica determinazione linguistica; in questa prospettiva, l’atto stesso della Sinngebung viene interpretato come un “dare senso alla realtà” tramite il linguaggio, organo essenziale di ogni mediazione conoscitiva tra il soggetto parlante e la realtà oggettiva: «il linguaggio è mediazione. É il medium, l’ “ambiente” nel quale e per il quale il soggetto si pone e il mondo si mostra»17. Ricoeur osserva che anche l’intenzionalità (Intentionalität) – la libera capacità della coscienza trascendentale di riferirsi all’oggetto, di “tendere ad esso” nella rappresentazione conoscitiva – si caratterizza per un significato propriamente linguistico: il linguaggio viene identificato come costitutiva mediazione della coscienza conoscitiva (Bewusstsein) verso l’oggetto, come movimento intenzionale di riferimento (Bedeutung) tramite il quale il soggetto palante “si dirige” verso la realtà e coglie in essa il suo nucleo di senso. Seguendo anche le riflessioni di Merleau-Ponty, che sottolinea la posizione centrale assegnata da Husserl al linguaggio, Ricoeur afferma che la fenomenologia ha avuto il grande merito di eliminare una concezione meramente strumentalistica del linguaggio caratterizzandolo come creativa “costituzione di senso” da parte dell’homo loquens: il linguaggio, in prospettiva fenomenologia – in una fenomenologia tuttavia non più intesa come idealismo trascendentale18 – si qualifica come ἐνέργεια interiore, come

16

Ibidem, p. 276. Ibidem, p. 271. 18 Un confronto critico con il trascendentalismo di Kant ed Husserl viene effettuato da Ricoeur nel saggio P. RICOEUR, Kant et Husserl, in IDEM, A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986, 20042, pp. 273-314; tr. it. di 17

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“organo creativo della coscienza” che porterebbe a compimento l’atto stesso della Sinngebung, della “donazione di senso”: «il linguaggio cessa di essere un’attività, una funzione, una operazione tra le altre e si identifica col mezzo significante totale, con il sistema dei segni gettati come una rete sul nostro campo di percezione, di azione, di vita. […] La fenomenologia può persino rivendicare di essere la sola ad aprire lo spazio della significazione, e dunque del linguaggio, tematizzando per la prima volta l’attività intenzionale e significante del soggetto incarnato, che percepisce, agisce e parla»19. Secondo Ricoeur la validità speculativa di una filosofia del linguaggio fondata su alcune nozioni centrali della fenomenologia husserliana (quali la riduzione eidetica, l’intenzionalità della coscienza e la Sinngebung) è da ricercare proprio nella salvaguardia del ruolo assegnato da questa prospettiva filosofica alla soggettività: in opposizione allo strutturalismo, secondo il quale la struttura linguistica sarebbe da considerare come un “trascendentale senza soggetto” e lo stesso sistema dei segni sarebbe articolato secondo autonome regole oggettive nelle quali i singoli parlanti non avrebbero che un ruolo passivo, la proposta teoretica di Ricoeur tende a rivalutare la creatività linguistica dei soggetti, la possibilità di innovazione semantica e di impegno ontologico da parte dei singoli parlanti. Tentando di far emergere

C. Liberti, Presentazione di M. Cristaldi, Kant e Husserl, in IDEM, Studi di fenomenologia, A.M. Sortino Editore, Messina, 1977, pp. 296-328. 19 P. RICOEUR, La questione del soggetto: la sfida della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 262. Riguardo quella che può essere definita come una “trasformazione” linguistica della fenomenologia, cfr. anche i contributi raccolti nel volume AA. VV., a cura di J. Greisch, Paul Ricoeur. L’herméneutique à l’école de la Phénoménologie, Beauschesne, Paris, 1995.

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«l’aspetto vivo, concreto, attuale del linguaggio»20, il filosofo nel ripercorrere la “via lunga” di un’ermeneutica dei segni e dei simboli della cultura cerca di mostrare le strutture ontologiche del linguaggio, ovvero il radicarsi stesso delle capacità linguistiche nelle potenzialità creative della soggettività: «L’io sono è più fondamentale dell’io parlo. Bisogna dunque che la filosofia si metta in cammino verso l’io parlo a partire dalla posizione dell’io sono; [...] compito di un’antropologia filosofica è di mostrare in quali strutture ontiche il linguaggio avviene»21. La fenomenologia ricoeuriana della parola è quindi ricca di risonanze ontologiche: in essa il linguaggio ritrova la sua originaria appartenenza all’esserci della soggettività concreta e diviene esso stesso segno vivo di un’interiorità creativa. La linguisticità (la Sprachlichkeit considerata da Heidegger come uno dei tratti costitutivi dell’essere stesso) è per Ricoeur una delle dimensioni essenziali dell’uomo, di quello che definisce come homme capable / homo capax22: in questa prospettiva l’uomo diventa in grado di conferire 20

P. RICOEUR, La questione del soggetto: la sfida della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 274. 21 Ibidem, p. 280. Uno degli aspetti più interessanti delle indagini filosofiche di Ricoeur si può individuare nella ricerca di una stretta relazione tra ontologia del soggetto e linguaggio. Riguardo le implicazioni ontologiche dell’ermeneutica ricoeuriana, cfr. A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977, in particolare, p. 87 ss.; cfr. anche M. BUZZONI, Paul Ricoeur. Persona e ontologia, Studium, Roma, 1988; F. BREZZI, Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero, Padova 1999, in particolare, pp. 163 ss.; F. TUROLDO, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, Il Poligrafo, Padova, 2000, in particolare p. 149 ss.; O. AIME, Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella Editrice, Assisi, 2007. 22 La molteplicità e diversità delle ricerche che hanno caratterizzato l’itinerario filosofico di Ricoeur possono trovare il loro “filo conduttore” intorno al progetto di un’ermeneutica dell’homme capable (homo capax): si

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alla realtà nuovi significati, una rinnovata Sinngebung proprio a partire dalle potenzialità creative dell’io, potenzialità che emergono con forza dagli usi non ordinari del linguaggio, quali la produzione “immaginifica” di metafore, testi letterari e narrazioni.

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3. La metafora come «impertinenza semantica» e «verità analogica» Nello scritto del 1975 dal titolo La métaphore vive, Ricoeur propone un’originale interpretazione del linguaggio metaforico: producendo una nuova pertinenza predicativa esso farebbe scorgere nuovi significati del reale; è quindi grazie ad esso che tratta di una “fenomenologia ermeneutica” che si interroga sullo statuto ontologico del “chi?” (del soggetto), partendo dalle sue capacità, dai suoi poteri, quali «poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore», e non da ultimo «potere di fare memoria» (P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris, 2000; tr. it. e Prefazione di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, RaffaelloCortina, Milano, 2003, p. 494). Il télos di tale ampie ricerche intorno all’homo capax è l’elaborazione di un’ermeneutica dell’ «io sono»: tra la polisemia dei significati dell’essere (Ricoeur ama spesso citare l’adagio del quarto libro della Metafisica di Aristotele “tò óv léghetai pollachós”, “l’essere si dice in molti modi”), egli pone alla base della sua antropologia filosofica il significato dell’essere come atto e come potenza; ed è anche per questo che le sue indagini si concentrano intorno alle potenzialità, alle capacità creative dell’uomo aventi come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano» (P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421). La fondazione ontologica del soggetto è tuttavia solo un “ideale regolativo” della ricerca ricoeuriana, e rimane una delle questioni più problematiche del pensiero di Ricoeur, un pensiero inteso come ricerca (scépsi) sempre in fieri che non giunge mai a conclusioni ultime e definitive.

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emerge il fenomeno linguistico dell’innovazione semantica. Sin dal primo studio dell’opera, dedicato alla Poetica e alla Retorica di Aristotele, Ricoeur intende esplicitamente superare i limiti della definizione classica della metafora concepita come procedimento, tipico della léxis (λέξις), di mera sostituzione di un nome, «trasferimento di un nome proprio di una cosa ad un’altra (onómatos allotríu epiphorá), trasferimento che avviene o dal genere alla specie o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia»23, e propone una concezione della metafora come fenomeno del discorso in grado di ridescrivere e riconfigurare la realtà secondo nuovi significati e nuovi nessi semantici. Ricoeur si distanzia quindi da una visione della metafora come trópo, come figura del discorso a scopo puramente ornamentale, l’ornátus della tradizione retorica seicentesca, e propone una definizione della metafora come “poema in miniatura” nel quale «il discorso libera la capacità, propria a certe finzioni, di ridescrivere la realtà»24. Il fenomeno dell’innovazione semantica che caratterizza il linguaggio metaforico viene connesso in Ricoeur - come abbiamo già accennato - alla capacità creativa dell’immaginazione produttiva, facoltà in grado di far emergere nuove pertinenze semantiche, di destabilizzare l’ordine categoriale nella costituzione di un effettivo «shock semantico»25: l’immaginazione 23

ARISTOTELE, Poetica 1457b 6-9; tr. it. a cura di D. Pesce, Rusconi, Milano 1995, p. 115 (trad. ital. in parte da noi modificata). 24 P. RICOEUR, La métaphore vive, Seuil, Paris 1975; tr. it. di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano, 19972, p. 5. 25 P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa.Vv., Savoir, Faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207-228; questo testo è poi confluito nella raccolta di scritti ricoeuriani: Du texte à l’action. Essais

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conferisce al soggetto parlante la capacità di ravvicinare concetti appartenenti ad ambiti distanti e differenti, di far sviluppare quella che Ricoeur definisce come «potenzialità creativa del linguaggio (puissance créatrice du langage)», «capacità euristica della finzione (pouvoir heuristique déployé par la fiction)»26. Tali potenzialità dell’immaginazione linguistica di cui parla Ricoeur trovano sul piano storiografico delle significative affinità sia con le nozioni di ingenium e fantasia, elaborate da Vico, sia con la concezione della produktive Einbildungskraft teorizzata da Kant e da Fichte: l’originalità della proposta speculativa ricoeuriana consiste nell’aver scorto all’interno del linguaggio la capacità creativa dell’immaginazione, una facoltà in grado in produrre originali referenze semantiche. Sottolineando l’iconicità, ovvero la natura tutta “immaginifica” del linguaggio metaforico, Ricoeur afferma che «l’immaginazione è l’appercezione, la visione improvvisa di una nuova pertinenza predicativa»27: il ruolo specifico dell’immaginazione nella produzione delle metafore è quindi quello di annullare la distanza logica tra campi semantici diversi, di far scorgere nuovi nessi di significato nell’interazione di concetti differenti, di far convivere l’è accanto al non-è, l’identico accanto al diverso, in un processo mai chiuso in sintesi consolidate dalla tradizione o dall’uso. La produzione di metafore è pertanto un processo sempre aperto al novum, alla creazione di nuovi nessi attributivi in grado di significare la realtà nella sua d’herméneutique II, Seuil, Paris, 1986; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1994, pp. 205-227, p. 210. 26 P. RICOEUR, La metafora viva, op. cit., p. 5. 27 P. RICOEUR, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, op. cit., p. 210.

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complessità, nelle sue intime differenze, irriducibili a qualsiasi tentativo di una comprensione ultima e definitiva: «l’immaginazione consiste nel vedere lo stesso nella differenza, nel “fare” il ravvicinamento. Perché vi sia metafora in effetti occorre che io continui a percepire l’incompatibilità letterale attraverso la nuova compatibilità semantica. [...] L’immaginazione è questo stadio dove la parentela genetica non è ancora passata alla pace del concetto, ma rimane nel conflitto della prossimità e della distanza»28. Da sottolineare è che la concezione ricoeuriana della verità metaforica si situa all’interno di una specifica “filosofia della differenza”: la produzione di metafore, andando al di là di un uso meramente ordinario ed oggettivistico del linguaggio, garantirebbe la salvaguardia delle différences costitutive della realtà, dei “mille piani” prospettici in cui si articola la dinamicità del reale. Nel mettere in rilievo il valore ontologico della differenza il filosofo francese si avvicina anche alle prospettive di Gilles Deleuze e Jacques Derrida, nelle quali, come è noto, largo spazio è dato alla nozione di differenza (différence): questi due autori tuttavia si discostano notevolmente dalla sensibilità filosofica di Ricoeur, il quale nell’ottavo studio della sua opera La métaphore vive non esita ad entrare in polemica con la concezione stessa della metafora espressa da Derrida29. 28

P. RICOEUR, Métaphore et image, lezione tenuta il 25 aprile 1974 presso il Centre de Recherches Phénoménologique di Parigi; tr. it. di R. Messori, Metafora e immagine, in IDEM, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, in «Aesthetica Preprint», 66 (2002), pp. 57-63, p. 59. A questo proposito si veda anche A. THOMASSET, L’imagination dans la pensée de Paul Ricoeur. Fonction poétique du langage et transformation du sujet, «Études théologiques et religeuses», 80, 4, 2005, pp. 525-541. 29 È da ricordare che il dibattito tra Ricoeur e Derrida si è originato proprio a partire dal tema della metafora e dall’interpretazione dei significati del

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Mettendo in luce la forza creativa dell’ingenium del singolo parlante, Ricoeur giunge a parlare di un inedito schematismo dell’attribuzione metaforica nel quale si dispiega la forza euristica della metafora, la sua capacità di aprire nella realtà nuove dimensioni di significato: a questo proposito emerge anche il singolare statuto epistemologico della metafora, la sua effettiva capacità referenziale di significare la realtà in modo veritiero seppur analogico ed allusivo. La verità di cui è portatrice la metafora non è mai una verità oggettiva, verificabile, ma è sempre una “verità tensionale”, una “verità analogica e simbolica” che si esprime in un “vedere come”, in un “vedere altrimenti”: l’enunciato metaforico, tipico del linguaggio poetico e religioso, è anche capacità di ridescrivere i fenomeni in ordine al nostro sentimento morale, alla nostra esigenza etica di riconfigurare linguaggio metaforico in Aristotele: a tal proposito cfr. A. CAZZULLO, La verità della parola. Ricerche sui fondamenti filosofici della metafora in Aristotele e nei contemporanei, Jaca Book, Milano, 1987, in particolare pp. 159-221. Nell’ottavo studio dell’opera La métaphore vive Ricoeur polemizza duramente con la visione derridiana della metafisica quale ineludibile gioco di metafore e “mitologia bianca” (mythologie blanche): ad avviso di Derrida «la metafisica [si tratta della della metafisica occidentale interpretata, sulla scia di Heidegger, come “onto-teologia” e come “fonologocentrismo”] ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che resta comunque attiva, in movimento, iscritta con l’inchiostro bianco, disegno invisibile e ricoperto nel palinsesto» (J. DERRIDA, «Mythologie blanche (la métaphore dans le texte philosophique)», in «Poétique», 5, 1971, pp. 1-52, p. 4; testo ripreso in IDEM, Marges de Philosophie, Éditions de Minuit, Paris 1972, pp. 247-324; tr. it. di M. Iofrida, La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico, in IDEM, Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 273-349, p. 275). Ricoeur rifiuta tale concezione derridiana della metafisica i cui concetti sono considerati come “metafore morte”, poiché sorti dalla “cancellazione” di originarie metafore; cfr. P. RICOEUR, La metafora viva, op. cit., pp. 378390.

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l’ordine stabilito. In tal senso la verità analogica della metafora cela al suo interno una non sempre riconosciuta capacità critica e poietica: essa è capacità di produrre “impertinenza semantica” ed in essa è anche possibile vivere la sperimentazione di «idee nuove, valori nuovi, modi nuovi di essere al mondo»30. La metafora ha quindi il potere di trasfigurare la realtà: essa è sospensione della referenza tipica del linguaggio ordinario e delle scienze, ci mostra le cose nel loro “essere come” ed è, allo stesso tempo, tensione costitutiva verso un dover essere ideale: «la metafora è il processo retorico in forza del quale il discorso libera la capacità, propria a certe finzioni, di ridescrivere la realtà. [...] Da tale congiunzione tra finzione e ridescrizione ricaviamo la conclusione che il “luogo” della metafora, il suo luogo più intimo e radicale, non è né il nome, né la frase e nemmeno il discorso, bensì la copula del verbo essere. L’“è” metaforico significa, ad un tempo, “non è” ed “è come”. […] É fondato il nostro parlare di verità metaforica, ma dando un senso “tensionale” al termine “verità”»31. La riflessione ricoeuriana intorno al linguaggio metaforico della poesia e della narrazione si carica di un preciso impegno ontologico ed etico: è un linguaggio che apre ad una nuova visione delle cose rompendo i legami logici precostituiti, e che consente di far emergere nuovi ma latenti significati del reale; 30

P. RICOEUR, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, op. cit., p. 212. 31 IDEM, La metafora viva, op. cit., p. 5. Riguardo la concezione ricoeuriana della metafora mi limito a segnalare i seguenti studi: A. RIGOBELLO, La “métaphore vive” nel pensiero di Paul Ricoeur, in «Simbolo, metafora, allegoria», 11, Liviana Editrice, Padova, 1980, pp. 36-47; D. JERVOLINO, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Procaccini, Napoli, 1984 (II Ediz., Marietti, Genova 1993), in particolare pp. 141 ss.; H. STREIB, Hermeneutics of Metaphor, Symbol and Narrative in Faith Development Theory, Peter Lang, Bern-Frankfurt-New York, 1991.

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è una via linguistica per affermazioni di carattere ontologico. La particolare referenza della metafora viene dunque considerata nella sua “veemenza ontologica”, nella sua forza di dire e mostrare l’essere delle cose nelle sue più intime differenze. Attingendo la sua forza creativa dalla libera produttività dell’immaginazione, una produttività senza regole, - la “libera schematizzazione” descritta anche da Kant nella Critica del Giudizio -, la metafora supera la rigida classificazione logica della realtà e si immerge direttamente nella vivezza creativa del “mondo della vita”, la Lebenswelt di cui parla Husserl: nel suo specifico compito ontologico ed etico di “comprendere e ridescrivere la realtà”, la metafora si costituisce come il tentativo ermeneutico di un “approccio concerto al mistero dell’essere” (approche concrète au mystère de l’être) 32, come l’istanza linguistica di significare la realtà nella molteplicità delle sue espressioni. La produzione umana di metafore si qualifica anche come il tentativo da parte dell’homme faillible33 di gettare lo sguardo al di là di confini conoscitivi rigidamente prestabiliti (le kantiane Grenzen) per aprire lo spazio ad un’ulteriorità di significato, ad una verità analogica mai compiutamente tematizzabile: la metafora di cui parla Ricoeur è espressione linguistica delle istanze di fondo di un pensiero simbolico ed allusivo, di un pensiero non costitutivamente precluso alla possibilità teoretica di un’ulteriorità metafisica e religiosa. L’espressione è di Gabriel Marcel, uno dei più importanti maestri di Ricoeur. Esempio paradigmatico di tale approccio concreto alla problematica ontologica sono le lezioni del volume G. MARCEL, Le mystère de l’être, Aubier, Paris 1951; tr. it. di G. Bissaca, Il mistero dell’essere, Borla, Roma, 1987. 33 Cfr. P. RICOEUR, L’homme faillible, in IDEM, Finitude et culpabilité, Montaigne, Paris, 1960; tr. it. e cura di V. Melchiorre, L’uomo fallibile, in IDEM, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna, 1970, pp. 67-242. 32

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4. Immaginazione produttiva, schematismo narrativo ed aporie del tempo Se nella Métaphore vive Ricoeur si è spinto a parlare della possibilità di una “referenza metaforica” ed ha individuato nel linguaggio poetico la presenza effettiva di un’innovazione semantica, nei tre volumi che compongono Temps et récit (19831985), il filosofo analizza la possibilità di una riconfigurazione della realtà e dell’esperienza vissuta a partire dal racconto, dall’intreccio narrativo: le due opere La metafora viva e Tempo e racconto vengono definite dallo stesso autore come “opere gemelle” nelle quali si realizza una “sintesi dell’eterogeneo”, un accostamento del fenomeno della metafora e della narrazione intorno alla produzione dell’innovazione semantica da parte del soggetto che parla, scrive e si racconta. Se nel caso della metafora «l’innovazione consiste nella produzione di una nuova pertinenza semantica mediante una attribuzione impertinente, […] con il racconto, l’innovazione semantica consiste nell’invenzione di un intrigo [...]. É questa sintesi dell’eterogeneo che avvicina racconto e metafora. In entrambi i casi qualcosa di nuovo – di non ancora detto, di inedito – sorge nel linguaggio: da un lato la metafora viva, cioè una nuova pertinenza nella predicazione, dall’altro un intrigo simulato, cioè una nuova congruenza nella connessione degli accadimenti»34. La referenza metaforica è quindi affine alla

34

P. RICOEUR, Temps et récit I, Seuil, Paris 1983; tr. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, Vol. I, Jaca Book, Milano, 1994 2, pp. 7-8. Validi studi che analizzano la capacità narrativa dell’uomo in relazione all’innovazione semantica e all’identità stessa del soggetto narrante sono quelli di C.A. AUGIERI, Sono, dunque narro. Racconto e semantica dell’identità in Paul

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funzione mimetica del racconto: anche il racconto infatti è un procedimento di ridescrizione della realtà, nel quale la forza euristica deriva dalla struttura narrativa e nel quale la descrizione ha come referente l’azione stessa. Come nel caso della metafora anche nella narrazione la capacità di innovazione semantica è dovuta alle potenzialità dell’immaginazione produttiva: quest’ultima è infatti in grado di creare nuovi schematismi narrativi, nuovi intrecci e congruenze nella connessione degli accadimenti. Nel racconto (récit) l’immaginazione viene, inoltre, strettamente connessa alla riconfigurazione dell’esperienza del tempo, a quella che Ricoeur definisce come aporetica della temporalità: i racconti di finzione, neutralizzando il tempo oggettivo e storico del calendario, «sono aperti ad ogni specie di “variazioni immaginative”», combinando nell’intrigo narrativo sia aspetti cosmologici che fenomenologici della costitutiva “temporalità” (Zeitlichkeit) dell’uomo. I racconti di finzione, dall’epopea al romanzo moderno, nei quali lo schematismo narrativo è generato dall’immaginazione (facultas fingendi), vengono dunque considerati come «una specie di laboratorio per esperienze del pensiero, nei quali l’immaginazione “prova” alcune soluzioni possibili per gli enigmi della temporalità»35. Se a proposito della metafora si parlava soprattutto della possibilità di una ridescrizione della realtà, a proposito del racconto viene particolarmente messa in evidenza la sua capacità di Ricoeur, Palumbo, Bari, 1993; F. ABBATE, Raccontarsi fino alla fine. Studi sull’identità narrativa in Paul Ricoeur, Studium, Roma, 1994. 35 P. RICOEUR, Mimesis, référence et refiguration dans Temps et récit, in «Études phénoménologiques», 6 (1990), pp. 29-40; IDEM, Mimesis, referenza e rifigurazione in Tempo e racconto, in IDEM, Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, Guerini e associati, Milano, 1994, pp. 187-199, p. 195.

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“rifigurazione narrativa”, la sua potenzialità di riorganizzare l’esperienza temporale umana: il racconto, sia esso storico o di finzione, viene considerato come un’articolazione della nostra esperienza del tempo; ed il tempo stesso nel racconto viene portato al livello del linguaggio, della narrazione. L’originalità della posizione di Ricoeur può certamente essere rinvenuta nella reciprocità evidenziata tra il discorso narrativo e l’esperienza temporale, una reciprocità che egli analizza anche a partire dalla “sorprendente corrispondenza” tra la nozione agostiniana di distensio animi e la concezione della peripéteia (περιπέτεια) dell’intreccio narrativo, elaborata da Aristotele nella Poetica. Riprendendo liberamente le nozioni aristoteliche di mýhtos e mímesis, Ricoeur afferma che l’intreccio narrativo (il μῦθος) è mímesis práxeos (μίμησις πράξεως), “imitazione creatrice dell’azione umana”. Tale imitazione creatrice costituita dal racconto ha la triplice funzione di pre-figurare, configurare e rifigurare l’azione e, a questo proposito, si parla di una triplice capacità mimetica. Anche nel caso del racconto Ricoeur apre una via all’ontologia e all’etica a partire dalla scrittura, dalla capacità narrativa quale “riconfigurazione della realtà” in ordine al sentimento morale dell’autore e del lettore: il racconto è descrizione del reale ma anche sua intima critica. La realtà descritta nel racconto di finzione può infatti divenire anche espressione letteraria di un’ideale tensione etica e politica di rinnovamento: nella stessa struttura narrativa può essere trasposta l’esigenza di un ideale dover essere, di una sittliche und politische Aufgabe. Il racconto ha la capacità di dischiudere sia all’autore che al suo pubblico uno spazio di apertura a nuove interpretazioni della realtà, a nuove ed inedite visioni del mondo e della vita. L’immaginazione narrativa si trasforma allora in immaginazione stessa della libertà: interpretando alcuni passi centrali della kantiana Critica del Giudizio, Ricoeur parla della possibilità di un 384

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itinerario etico e speculativo che dalla “libertà dell’immaginazione” giunge ad un’“immaginazione della libertà”. L’immaginazione di cui parla Ricoeur si configura come anello di congiunzione tra il teoretico e il pratico, e diviene organo produttivo di quella capacità narrativa che esprime con forza l’istanza di una trasformazione del reale, di una sua ideale riconfigurazione. L’ermeneutica ricoeuriana dei testi si caratterizza per un esplicito esito pratico: la stessa funzione mimetica del racconto coinvolge direttamente la sfera dell’agire umano ed è riconfigurazione della nostra esperienza del tempo. La riflessione sulla costitutiva “temporalità” (Zeitlichkeit) dell’uomo, elemento centrale intorno al quale è articolato lo schematismo narrativo sia del romanzo che dell’opera storiografica, diviene invito a pensare il tempo della dimensione terrena come καιρός, come “tempo opportuno”, tempo in cui le azioni umane e le vicende storiche si caricano di significati che vanno oltre le intenzioni dei singoli agenti e divengono oggetto di una più ampia attività ermeneutica; a questo proposito emblematica è la raffinata analisi ricoeuriana del romanzo di Thomas Mann La montagna incantata (Der Zauberberg): quest’opera viene definita come un “romanzo sul tempo” (Zeitroman), come romanzo nel quale «il tempo raccontato e l’esperienza del tempo trovano insieme il loro culmine»36, e nel quale le aporie del tempo non trovano una soluzione speculativa bensì una loro «Steigerung, una loro elevazione di grado»37. La costitutiva ambiguità del tempo rimane per Ricoeur enigma che “dà a pensare” ed è un invito ad un “penser plus” e ad un “dire autrement”: «il mistero del tempo non 36

P. RICOEUR, Tempo e racconto, Vol. II, La configurazione nel racconto di finzione, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1987, p. 211. 37 Ibidem, p. 213.

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equivale a un interdetto che pesa sul linguaggio; esso suscita piuttosto l’esigenza di un pensare di più e di un dire altrimenti»38. Lo schematismo narrativo, frutto dell’inventio dell’immaginazione produttiva, costituisce per Ricoeur un’efficace ermeneutica dell’esperienza umana temporale e storica: tale schematismo si pone anche come un invito a ridescrivere le molteplici possibilità di un agire libero e responsabile, escludendo tuttavia il tentativo umano di una chiarificazione ultima e definitiva. Metafora e racconto sono due possibilità offerte dal linguaggio tramite le quali l’uomo è in grado di aprirsi ad una più ampia comprensione di sé e della realtà, ma tale comprensione ermeneutica è caratterizzata essa stessa da un “conflitto di interpretazioni”, segno tangibile della fallibilità umana. 5. Dall’homo loquens all’ontologia del sé Ciò che accomuna le opere La metafora viva e Tempo e racconto è l’intento presente in entrambe di proporre una filosofia del linguaggio che si qualifichi come concreto impegno ontologico: sia l’impertinenza semantica della metafora che la riconfigurazione dell’esperienza nello schematismo narrativo sono due modi attraverso i quali il linguaggio intende dire ed interpretare il reale cercando di far emergere in esso nuovi significati. Il linguaggio viene quindi studiato da Ricoeur nelle sue concrete possibilità di predicare nuovi significati dell’essere e, in tal senso, si costituisce esso stesso come un approccio concreto al mistero dell’essere (approche concrète au mystère de l’être). 38

IDEM, Tempo e racconto, Vol. III, Il tempo raccontato, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1988, p. 413.

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Gli stessi linguaggi simbolici ed allusivi della poesia e del romanzo vengono analizzati nel particolare tipo di referenza (Bedeutung) che essi esprimono: si è parlato quindi di una “referenza metaforica” per designare la ridescrizione dell’esperienza della realtà tipica del linguaggio poetico e di una “rifigurazione narrativa” per indicare «il potere che ha il racconto di riorganizzare la nostra esperienza temporale, nel duplice senso di mettere allo scoperto le profondità di questa esperienza e di trasformarne l’orientamento».39 Nel corso della trattazione si è più volte messo in evidenza il significato fondamentale attribuito da Ricoeur all’immaginazione produttiva, facoltà grazie alla quale l’uomo può conservare sempre un’inesauribile creatività linguistica: è per questa sua origine “iconica” che il linguaggio umano può rimanere sempre aperto a nuove possibilità, a nuovi modi di “dire” e di “configurare” l’essere nei suoi differenti “mille piani”. L’immaginazione, come ha ben messo in rilievo anche Armando Rigobello nei suoi studi ricoeuriani, è la facoltà che costituisce il linguaggio metaforico, linguaggio che si radica nel “mondo della vita” (Lebenswelt) e che permette l’analogia, il “dire l’essere accanto al non-essere”, ovvero una “impertinenza semantica”. La metafora è in tal modo lo strumento del linguaggio analogico, allusivo e religioso: permette una ridescrizione della realtà in ordine al nostro sentimento etico, alla nostra esigenza di un ordine finalistico e trascendente. L’uso metaforico del linguaggio non è solamente un ornatus stilistico, un abbellimento retorico, ma esprime la nostra capacità di una “risemantizzazione del reale”; la metafora è lo strumento per una “riflessione seconda o recuperatrice” (espressione che Ricoeur mutua dal suo maestro 39

P. RICOEUR, Mimesis, referenza e rifigurazione in Tempo e racconto, op. cit., p. 187.

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Gabriel Marcel): la metafora esprime una “metafisica del desiderio”. «La metafora» – ribadisce Ricoeur - «è a servizio della ridescrizione della realtà, con la metafora facciamo esperienza della metamorfosi del linguaggio e della metamorfosi della realtà»40. Rigobello ha opportunamente sottolineato che la “strategia della metafora”, la sua forza euristica, emerge chiaramente in comparazione a quella del linguaggio ordinario e della scienza: «mentre il linguaggio ordinario, che ha per fine la comunicazione di scopi pratici, si propone di ridurre l’ambiguità del linguaggio, mentre il linguaggio scientifico si propone di raggiungere la univocità espressiva, il linguaggio metaforico ha il compito di “ridescrivere la realtà”, “di aprire cioè una nuova visione delle cose rompendo i legami logici preliminari”. Questa è la funzione “euristica” della metafora»41. Partendo dalle ricerche di Ricoeur si può individuare un impegno della metafora anche sul piano propriamente ontologico e metafisico: «la metafisica è un modello attraverso il quale si provoca la realtà nel tentativo di esplicitare in essa significati nascosti. In questo senso l’uso della metafora costituisce un impegno ontologico, è la via linguistica all’ontologia»42. A partire da La metafora viva (1975) fino all’opera del 1990 Soi-même comme un autre, Ricoeur si interroga sullo statuto ontologico del soggetto partendo dalla sua produttività interiore, dalle sue capacità: poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore e, P. RICOEUR, La sfida semiologica, tr. it. e cura di M. Cristaldi, Armando, Roma, 1974, p. 287. 41 A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, op. cit., p. 108. 42 Ibidem, p. 109. Si veda anche A. RIGOBELLO, La “métaphore vive” nel pensiero di Paul Ricoeur, in Aa.Vv., Simbolo, metafora, allegoria, Liviana, Padova, 1980, p. 37-47. 40

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non da ultimi, il potere di fare memoria e il poter promettere. Ricoeur cerca, quindi, di argomentare a favore di una ontologia del sé fondata sulla ἐνέργεια, sul nucleo sorgivo della produttività interiore. Nelle sue indagini più mature intorno alle capacità creative dell’uomo il filosofo francese giunge alle soglie di una “ontologia della persona”: nel decimo Studio di Sé come un altro, egli sottolinea che tali potenzialità creative dell’uomo hanno come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»43. Le potenzialità creative dell’homo loquens si fondano allora sul dinamico statuto ontologico della persona, su una “metafisica della soggettività” individuata da Ricoeur come la “terra promessa” e come l’approdo ideale delle sue ricerche filosofiche.

43 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421. Si veda anche P. RICOEUR, Esquisse d’un plaidoyer pour l’homme capable, in IDEM, Philosophie, éthique et politique. Entretiens et dialogues, Seuil, Paris 2017, pp. 33-48 [si tratta del testo presentato in traduzione italiana nell’Appendice I di questo volume].

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Studio VII

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«L’economia della persona è un’economia di dono»: l’«antropologia economica» di Maurice Godelier e di Paul Ricoeur «La crisi del capitalismo ha portato alla luce alcune strutture che andrebbero indagate senza feticismo. […] Il vero problema oggi è l’individualismo, che è il tratto olistico e il vero disastro della nostra società. Quest’ultima fa in modo che l’individuo si serva della società per esistere. Ma in altri contesti più vitali era l’individuo che serviva la società»1. «L’agápe […] sviluppa una logica della sovrabbondanza che, almeno di primo acchito, si oppone polarmente alla logica dell’equivalenza che governa l’etica quotidiana. […] L’amore è l’espressione sovra-etica di un’ampia economia del dono, che ha ben altri modi d’espressione rispetto alle forme con cui l’uomo giustifica l’azione. L’economia del dono sopravanza da tutte le parti l’etica»2

1. Al di là dell’utilitarismo: la riscoperta dell’homo donator “Economia del dono” e “poetica dell’agápe” sono due espressioni indicanti connessi programmi di ricerca presentati più volte da Paul Ricoeur nei suoi ultimi scritti e che si richiamano 1 Intervista a Maurice Godelier fatta da Tommy Cappellini ed apparsa nel quotidiano «Il Giornale», il 9 febbraio 2010, in occasione di una lezione tenuta dall’intellettuale francese presso l’Università di Milano-Bicocca. 2 P. RICOEUR, Liebe und Gerechtigkeit. Amor et Justice, Mohr, Tübingen, 1990; tr. it. di I. Bettoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 33.

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direttamente alla forma mentis del suo maestro Emmanuel Mounier: opponendosi alla logica utilitaristica tipica del capitalismo occidentale, questi ha sottolineato che «l’economia della persona è una economia di dono, non di compensazione o di calcolo (l’économie de la personne est une économie de don, et non pas de compensation ou de calcul). La generosità dissolve l’opacità e annulla la solitudine del soggetto, anche quando non trova risposta: di fronte alla moltidudine serrata degli istinti, degli interessi, delle argomentazioni, essa è, propriamente parlando, travolgente»3. In questo studio cerco di far interagire le riflessioni eticopolitiche dell’ultimo Ricoeur (il paradigma della giustizia e l’etica del dono) con quelle dell’antropologo francese Maurice Godelier (1934-)4. Si tratta di una “continuità nella differenza”: sia Godelier che Ricoeur criticano il sistema economico capitalisticoutilitaristico e la figura stessa dell’homo oeconomicus, “colui che agisce solo in vista del suo utile personale” (si tratta della figura delineata da Adam Smith in un passo della Ricchezza delle nazioni, spesso citato ma talvolta frainteso5). A fondamento del 3 E. MOUNIER, Le personnalisme, PUT, Paris, 1950; tr. it. di A. Cardin, riveduta da M. Pesenti, Il personalismo, Introduzione di G. Campanini, Editrice AVE, Roma, 200412, p. 62. 4 Questo studio riprende e amplia i contenuti di un mio precedente contributo al quale mi permetto di rinviare: Condizioni e limiti di una «economia del dono». Note sull’«antropologia economica» di Maurice Godelier e di Paul Ricoeur, in F. TOTARO (a cura di), Filosofia ed economia, Morcelliana, Brescia, 2019, pp. 287-299. 5 «Non è dalla bontà del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che questi hanno per il proprio interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità» (A. SMITH, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Londra 1776; a cura di A. e T. Bagiotti, La ricchezza delle

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legame sociale e della relazionalità Godelier e Ricoeur propongono una nuova figura antropologica: una figura nova et antiqua, anzi antiquissima, cioè l’homo donator – con il connesso “paradigma del dono” – presente nelle cosiddette società primitive, arcaiche e contadine. Godelier e Ricoeur sono antimoderni per essere però poi ultra-moderni, proponendo un oltrepassamento della fredda logica di mercato, dell’utilitarismo e dell’individualismo possessivo6. Essi cercano di dimostrare che per il buon funzionamento della società la “logica del dono” – paradossalmente – si dimostra utile e vantaggiosa. Sia Godelier che Ricoeur presentano la loro “antropologia economica” e la prospettiva di una “economia del dono” rivolgendo il loro sguardo a Marcel Mauss, autore del celebre Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, opera del 1923.

nazioni, Utet, Torino, 1975, p. 92). La prospettiva di Smith è realistica, si rivolge alla “realtà effettuale della cosa”: ci dice che l’economia segue una logica iuxta propria principia, indipendente dall’etica e dalla “solidarietà sociale”. Tuttavia, come ha sottolineato anche Amartya K. Sen, lo studio dell’economia in Adam Smith non può essere disgiunto dalla sua prospettiva etica: egli infatti è anche autore della Teoria dei sentimenti morali. A tar riguardo cfr. A.K. SEN, On Ethics and Economics, Blackwell, Oxford, 1987; tr. it. di S. Maddaloni, Etica ed economia, Laterza, RomaBari, 2009. 6 La concezione che la scienza politica moderna e il nascente capitalismo prendano le mosse da una visione dell’uomo negativa, caratterizzata da un radicale “individualismo possessivo”, viene espressa con chiarezza nel celebre volume di Crawford B. MACPHERSON, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford University Press, Oxford, 1962; trad. it. di S. Borutti, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Prefazione di A. Negri, Isedi, Milano, 1973.

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2. Al fondamento delle società umane: il commento di Godelier al Saggio sul dono Mi soffermo in primo luogo sulla prospettiva di antropologia culturale elaborata da Godelier in costante dialogo con il marxismo, lo strutturalismo, la psicoanalisi di matrice freudiana e lacaniana. Negli anni Sessanta-Settanta Godelier ha dato un notevole contributo alla nascita di un nuovo ambito di ricerche nel campo dell’antropologia culturale: ovvero l’“antropologia economica”7. Ecco come egli ha definito contenuti e finalità di questa nuova disciplina alla quale egli ha dato una precisa configurazione sul piano epistemologico e contenutistico: «L’antropologia economica si presenta come un ramo dell’antropologia che tratta del funzionamento e dell’evoluzione dei sistemi economici delle società primitive e contadine. Costituisce uno dei settori più dinamici e controversi dell’antropologia contemporanea»8. Il primo che la costituì come “scienza” fu Lewis Morgan: egli «riunì le informazioni sulla vita economica e ne fece una trattazione sistematica, all’interno di una prospettiva evoluzionistica, sotto il titolo di “arti della sussistenza”»9. Come tipico della forma mentis dell’antropologo, lo studio delle “società altre”, dei sauvages, dei “popoli senza scrittura” non è mai scevro da interessi teoretici e filosofici: guardando alle culture altre si relativizza la propria, si guarda con occhi diversi anche il proprio apparato politico-istituzionale ed economico, che in tal modo perde la sua aura di “assolutezza” ed 7 Si veda, ad esempio, M. GODELIER, Un domaine contesté: l'anthropologie économique, La Haye, Mouton 1974. 8 M. GODELIER, Definizione e campo dell’antropologia economica, in Aa. Vv., Antropolgia culturale, tr. it. di P. Ruffo, Sansoni, Firenze, 1973, p. 163. 9 Ibidem.

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“incontrovertibilità”. L’antropologia culturale e l’etnologia inaugurano un “modo di pensare” del tutto inedito, che ci mette a distanza da noi stessi e che «ci insegna a vedere come estranei quello che è nostro, e come nostro quello che è estraneo»10. In particolare, Godelier studiando le società arcaiche ci dice che “altri” tipi di economia (più umani e solidali) sono stati storicamente possibili e sono persino auspicabili. Il guardare all’altro – alle società altre – è una “scossa maieutica”, conduce ad un ripensamento dei presupposti stessi del proprio modello di riferimento economico ed istituzionale: «L’antropologia economica […] mette sistematicamente in rapporto la società moderna con le società tradizionali, allo scopo di comprendere i sistemi di produzione economica a partire da categorie universali che sfuggono alla sovradeterminazione di una sola cultura, genericamente quella capitalistico industriale»11. In Godelier confluiscono e si intrecciano due grandi tradizioni filosofiche egemoniche nella Francia degli anni Sessanta e Settanta: strutturalismo e marxismo. Godelier si è formato alla scuola di Claude Lévi-Strauss e di storici come Fernand Braudel; ha letto attentamente Marx, condividendo in larga misura le sue critiche allo Stato moderno quale «comitato d’affari per la borghesia»12. Tuttavia va sottolineato che Godelier sin dai suoi primi scritti ha messo in rilievo le aporie sia dello strutturalismo che del marxismo, soprattutto quando queste teorie filosofiche M. MAUSS, Manuel d’ethnographie, Payot, Paris, 1967, p. 161. [tr. it. nostra]. 11 M. KILANI, Introduction à l’anthropologie, Éditions Payot Lausanne, Lausanne, 1992; tr. it. di A. Rivera, Antropologia. Una introduzione, Dedalo, Bari, 1994, p. 70. 12 K. MARX - F. ENGELS, Manifest der Kommunistischen Partei, Londra 1848; tr. it e cura di F. Codino, Manifesto del partito comunista, in Opere complete, Vol. VI, Editori Riunti, Roma, 1973, p. 464. 10

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hanno assunto la facies di “ideologie dogmatiche, onnicomprensive e totalizzanti”. Né marxismo né strutturalismo rendono conto dell’humanum nella complessità dei suoi piani. La struttura antropologica – giustamente definita da Ricoeur come un «trascendentale senza soggetto»13 – da Godelier viene ripresa e risemantizzata: la struttura è sì forma universale ma non è una “gabbia ideologica”, quasi fosse forma chiusa in se stessa ed autoreferenziale. Secondo Godelier i soggetti, con la loro individualità, possono apportare un novum nella stessa struttura, tramite l’esercizio della libertà e dell’immaginazione creativa. La sfera del sacro e la società tutta, a suo parere, si costituiscono come passaggio dall’immaginario al simbolico. In modalità simili a quelle di Ricoeur, egli conferisce un primato all’immaginario, un suo ruolo fondativo. Godelier compie un itinerario di ricerche antropologiche “con Marx, oltre Marx”: egli critica il marxismo dall’interno, rifiutando soprattutto il rigido determinismo del rapporto 14 struttura/sovrastruttura . La struttura economica (Unterbau, l’insieme dei rapporti di produzione), secondo i teorici più ortodossi del marxismo, determina tutta la costituzione dell’Überbau, di tutte le sovrastrutture ideali (religiose, etiche e giuridiche). Di certo anche Max Weber, Antonio Labriola ed altri P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris, 1995; tr. it. di D. Jannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano, 1998, p. 44. 14 Cfr. a tal riguardo anche M. DE STEFANIS – A. CASICCIA, Antropologia economica e marxismo: appunti sulla ricerca di Maurice Godelier, in «Aut Aut», 117, 1970, pp. 97-100; S. NANNINI, Materialismo storico e antropologia in C. Meillassoux, M. Godelier e la scuola di Althusser: il problema della determinazione in ultima istanza della base economica sulla sovrastruttura, in «Annali dell’Istituto di Filosofia», 3, 1981, (Leo S. Olschki, Firenze), pp. 207-240. 13

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avevano criticato il rigido determinismo struttura/sovrastruttura15; tuttavia mi pare degno di nota ed originale il fatto che Godelier sostenga il ruolo fondativo del “momento ideale” dopo delle attente ricerche sul campo (7 anni presso i popoli della Nuova Guinea). Egli afferma con chiarezza che i rapporti sociali ed economici hanno una “costituzione ideale” (constitution idéelle). Mi pare emblematico il fatto che egli sostenga una “costituzione ideale” della società pur rimanendo – per sua stessa dichiarazione – un materialista, erede dell’illuminismo settecentesco. 15

A tal proposito basti ricordale le note analisi weberiane sulla nascita del capitalismo moderno in relazione alla religione calvinista: cfr. M. WEBER, Die protestantische Ethik und der „Geist“ des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik», Bd. XX und XXI, 1904-05; tr. it. di M.M. Marietti, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Introduzione di G. Galli, Bur, Milano, 1998. Secondo Antonio Labriola l’uomo non è solo natura, ma anche forza ideale – spirito – che costruisce il suo avvenire in maniera libera e secondo precise finalità: è un homo faber costruttore della sua storia. È in questo quadro speculativo che va compresa la rilettura, proposta dal Labriola, dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Nell’opera Del materialismo storico, egli sottolinea che per la comprensione della storia non è sufficiente la considerazione del solo “momento economico” (la struttura) «per buttar giù tutto il resto come inutile fardello». A suo parere, la teoria della primarietà della struttura economica sulla sovrastruttura delle idee (politiche, giuridiche, religiose) «non può, a guisa di talismano, valer di continuo, e a prima vista, come mezzo infallibile per risolvere in elementi semplici l’immane apparato e il complicato ingranaggio della società» (A. LABRIOLA, Del materialismo storico, [prima edizione: Hoepli, Roma 1896], a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma, 1963, p. 51). Notiamo che lo stesso Friedrich Engels, nel periodo più avanzato della sua riflessione, aveva messo in discussione il rigido determinismo struttura/sovrastruttura; nel suo carteggio con Labriola anche Engels afferma che i fatti storici sono spiegabili per mezzo della sottostante struttura solo «in ultima istanza» e comunque mai compiutamente.

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L’illuminismo, a suo parere, ha infatti rappresentato quella fondamentale “rottura metodologica” dalla quale sono nate le scienze sociali, distaccandosi da un’interpretazione mitica e teologica della vita umana e della storia. Vengo ora al punto centrale della mia esposizione: come Godelier rilegge Marcel Mauss e il “paradigma del dono”. I due antropologi compiono una ricerca dal carattere protologico, effettuano cioè uno studio sui fondamenti delle società: analizzano come i gruppi umani si organizzano e come si forma l’assetto simbolico-istituzionale. Si tratta di una Wiederholung, di una ripetizione della questione fondamentale, già presente nel Protagora di Platone o nella Politica di Aristotele: perché nasce la società? E con quali finalità? Marcel Mauss e Godelier tentano di rispondere a tali interrogativi dopo attente ricerche empiriche. Gli scritti di Godelier che prendiamo in esame sono essenzialmente due: L’enigma del dono, pubblicato nel 1996, tradotto in italiano presso la Jaca Book nel 2013 e l’opera che più riassume i risultati delle ricerche dell’autore, Au fondement des sociétés humaines. Ce que nous apprend l’anthropologie (“Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia”, pubblicata a Parigi nel 2007; edita in italiano nel 2009). Ciò che propone Godelier è una «rilettura di Mauss ma non un ritorno a Mauss»16. In particolare, di quest’ultimo Godelier condivide il presupposto ideale che è sullo sfondo delle sue ricerche antropologiche e che spiega la sua particolare attenzione per le strutture economiche della società: la possibile perenne validità del “paradigma del dono”. Mi soffermo, quindi, M. GODELIER, Au fondement des sociétés humaines. Ce que nous apprend l’anthropologie, Albin Michel, Paris, 2007; tr. it. di G. Carbonelli, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia, Jaca Book, Milano, 2009, p. 54.

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brevemente a delineare la prospettiva di Marcel Mauss, così come viene anche interpretata da Godelier. Negli anni Venti Mauss era legato al movimento socialista europeo e il Saggio sul dono – sottolinea Godelier – contiene anche una critica al liberismo, «alla fredda ragione del commerciante, del banchiere e del capitalista»17, oggi diremmo alla finanza che diviene un “nuovo Leviatano”. Nel 1921 Mauss «redige un programma “socialdemocratico” che prevede che lo Stato apporti a coloro che lavorano un aiuto materiale e una protezione sociale che il salario non permette»18. Mauss è, quindi, un critico dell’homo oeconomicus, cioè di quella visione che riduce l’uomo ad «una macchina calcolatrice»19; in altri termini, critica l’uomo che 17 Ibidem, p. 55. In questa pagina Godelier cita e commenta il Saggio sul dono di Marcel Mauss. 18 Ibidem, p. 55. 19 M. MAUSS, Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques, «Année Sociologique», (1923-1924); tr. it. di F. Zannino, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 20054, p. 132. Sul “paradigma del dono” in Mauss e sulle sue implicazioni sul piano antropologico ed etico-politico si vedano in particolare: J.T. GODBOUT (en collaboration avec A. CAILLÉ), L’esprit du don, La Découverte, Paris, 1992; tr. it. di A. Salsano, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; A. CAILLÉ, Le Tiers paradigme. Anthropologie philosophique du don, La Découverte, Paris, 1996; tr. it. di A. Cinato, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998; S. ZANARDO, Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano, 2007; P. CHANIAL (sous la dir. de), La société vue du don. Manuel anti-utilitariste appliquée, La Découverte, Paris, 2008; M. HÉNAFF, Antropologia del dono e riconoscimento sociale, in D. FALCIONI (a cura di), Cosa significa donare?, Guida, Napoli, 2011, pp. 46-51; F. FISTETTI, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento al paradigma del dono, Morlacchi, Perugia, 2010; F. BREZZI – M.T. RUSSO (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.

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prende, calcola e capitalizza. È con questa forma mentis che Mauss si volge allo studio di dinamiche diverse dallo scambio capitalistico e dalla logica utilitaristica. Egli, servendosi anche degli studi etnografici di Franz Boas e di Bronisław Malinowski, analizza il fenomeno sociale del “dono agonistico o competitivo” presente nelle società primitive. Non si tratta del dono “tra privati”, ma dei doni che si scambiano gruppi più vasti come le famiglie, i clan e le tribù. Come è noto, il caso analizzato da Mauss e ripreso da Godelier è il potlatch, la cerimonia consistente in banchetti e scambi di doni, praticata dai nativi americani; il potlatch viene interpretato da due autori come un chiaro esempio di “economia del dono” e come una «pratica di potere»20: gli ospitanti mostrano la loro ricchezza e la loro importanza attraverso la distribuzione dei loro possessi, spingendo così i partecipanti a contraccambiare quando, a loro volta, terranno il loro potlatch. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, infatti, nel potlatch l'essenziale non è conservare i beni materiali (ad esempio, la carne di foca o di salmone), bensì distribuirli in funzione di una “logica” in grado di stabilite la pace sociale, di ratificare i patti e di fondare la convivenza umana. Mauss arriva a definire questa pratica come «un mercato senza mercanti». La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita: i beni non circolano secondo le leggi del mercato (la domanda e l’offerta), ma attraverso un meccanismo di doni e contro-doni. Nelle società arcaiche il dono è un atto pubblico ed ha una rilevanza politica: è un cemento sociale che fonda la reciprocità, il vicendevole riconoscimento di attori e gruppi sociali. Mauss sottolinea che «le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno M. GODELIER, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia, cit., p. 61.

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saputo ritenere stabili i loro rapporti: donare, ricevere e, infine, ricambiare»21. Si tratta di un programma d’uscita dalla dialettica amico-nemico (il principio di Freund-Feind di cui parlava Carl Schmitt); l’economia del dono fonda una nuova speranza: l’attesa che il nemico o l’estraneo possano diventare un alleato, un socius. Il ciclo inaugurato dal dono (dare/ricevere/contraccambiare) diviene, perciò, il fondamento delle relazioni pacifiche tra singoli e gruppi, tra un popolo e l’altro. Mauss e Godelier sottolineano che il ciclo del dono produce equilibrio sociale ed è la vera legge non scritta della costituzione di una comunità. Essi parlano di una «morale eterna»22 attivata dal ciclo del dono e presente sia nelle società più evolute che in quelle meno evolute: tale “morale eterna” consiste nella “saggezza” delle società umane che non si sono massacrate, ma che sono riuscite a trovare una forma condivisa di convivenza23. Marcel Mauss e Godelier interpretano il fenomeno del dono come «un atto a più dimensioni (economica, politica, religiosa, artistica)»24 e come un “fatto sociale totale”: il “meccanismo spirituale” innescato dal dono spiega il funzionamento delle società primitive, ponendo in esse rapporti “egualitari” e fondando la reciprocità sul triplice obbligo di “dare, ricevere, M. MAUSS, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, cit., p. 132. 22 M. MAUSS, Teoria generale della magia e altri saggi, tr. it. di F. Zannino, Introduzione di C. Lévi-Strauss, Einaudi, Torino, 1965, p. 275. 23 A tal proposito si veda anche D. FALCIONI, “Contrapporsi senza massacrarsi”. Il contributo del paradigma del dono alla ricerca di un criterio regolativo della convivenza nell’età globale, in T. VALENTINI – A. VELARDI (a cura di), Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici, LEV, Roma, 2015, pp. 413-418. 24 M. GODELIER, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia, cit., p. 58. 21

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ricambiare”. Tuttavia Godelier ha il merito di aver messo in luce «il punto debole di Mauss»25 e un elemento che l’antropologo francese non aveva rilevato: il “custodire per trasmettere”. É chiaro il motivo da cui nasce l’istanza di donare: si è quasi obbligati a donare per fini politici, per far rientrare l’altro nella propria cerchia di amicizia sociale; dal canto suo, l’altro è pressochè obbligato ad accettare perché rifiutare significherebbe entrare in conflitto con l’offerente. Il terzo obbligo, quello del “ricambiare” (o meglio, di donare a propria volta) è il “punto debole” della spiegazione di Mauss o, per così dire, quello che meno può significare per la mentalità occidentale laica e secolarizzata: Mauss postula l’azione di uno “spirito” presente all’interno della cosa ricevuta e che la spingerebbe a tornate tra le mani del proprietario originario. Godelier evidenza, quindi, che la logica del dono è stata possibile all’interno di una Weltanschauung magico-teologica; non nega l’enorme difficoltà nel trasportare e nel proporre le dinamiche del dono all’interno delle società occidentali tecnologizzate, frutto della ragione illuministica. Godelier rileva giustamente che l’individualismo moderno e la connessa economia capitalistica hanno de facto bandito la logica del dono, relegandola a fatto soggettivo, privo di una reale rilevanza sociale: nel mondo moderno «il dono è diventato anzitutto una faccenda del tutto soggettiva, personale, individuale. È l’espressione e lo strumento di rapporti personali situati al di là del mercato e dello Stato»26. Nonostante queste sue constatazioni realistiche, Godelier indica il “paradigma del dono” quasi come un possibile “ideale regolativo”, come una possibile Ibidem, p. 57. M. GODELIER, L’Énigme du don, Libraire Arthème Fayard, Paris, 1996 ; tr. it. di G. Carboncelli, L’enigma del dono, Jaca Book, Milano, 1996, p. 278. L’opera è stata pubblicata anche in inglese: The Enigma of the Gift, Chicago University Press - Polity Press, Chicago – Cambridge, 1998.

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“economia altra” rispetto al capitalismo individualistico: quella fondata sul dono è un’economia storicamente esistita e che, seppur situata in un contesto magico-teologico, ha comunque qualcosa da dire all’uomo contemporaneo. In particolare, un rinnovato sguardo sul paradigma arcaico del dono sarebbe in grado di far riscoprire la centralità di categorie etiche ed economiche come quelle di relazione, reciprocità e di convivialità comunitaria. Tali categorie costituirebbero una nuova “grammatica delle relazioni sociali” e sarebbero il presupposto per un’economia più solidale, fondata su una visione della soggettività come relatio trascendentalis. Come ha fatto osservare anche Francesco Fistetti, «la scoperta del ciclo del dono – donare/ricevere/contraccambiare – rinvia ad un soggetto, per così dire estroflesso, che è un nodo di molteplici relazioni (linguistiche, economiche, sociali, religiose, ecc.), le quali disegnano un circolo virtuoso di indebitamento positivo tra il Sé e gli Altri. In ciò risiede l’ermeneutica dell’alterità [proposta da Mauss e Godelier]: l’altro non è il prolungamento o la proiezione dell’identità, ma qualcuno che risponde e dona una modalità sua propria di stare al mondo e che vuole essere riconosciuto in quanto tale. Il soggetto è abitato da e indebitato con l’altro fin nella sua costituzione ontologica, nel suo inter-esse»27. Un ulteriore elemento che spinge Godelier ad oltrepassare Mauss, pur conservandone le istanze di fondo (il paradigma di una società giusta), è la custodia di un’identità storica che è “scrigno di valori”, che è dono da trasmettere. Godelier afferma giustamente che «gli uomini non vivono solo in società, come i primati e gli altri animali sociali, ma creano la società per F. FISTETTI, Homo Donator. Un paradigma metadisciplinare per le scienze sociali, P. CHANIAL – F. FISTETTI, Homo Donator. Come nasce il legame sociale, il melangolo, Genova, 2011, pp. 69-102, p. 76. 27

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vivere»28. Per la creazione di una “società virtuosa”, a suo parere, sono necessari tre princìpi: il vendere/scambiare, il donare, il custodire. Il laico Godelier sostiene che nella società contemporanea, per sfuggire alle dinamiche dell’utilitarismo, diviene sempre più necessaria la custodia di una tradizione; egli la indica nel sacro (le sacré) con il connesso ordine simbolico, giuridico e politico. Per sostenere una “logica del dono” occorre, dunque, anche il «coraggio della trascendenza»29, un’istanza di ulteriorità rispetto a qualsiasi logica mercantilistica. Partendo dall’analisi del dono presso i “popoli senza scrittura”, Godelier giunge giustamente ad affermare che «l’economico non trova in se stesso il proprio senso e la propria finalità»30. Occorre tuttavia fare attenzione su cosa Godelier intenda quando parla del “sacro” come un dono da custodire, come ciò che resta “al di fuori del mercato” e della “logica mercantilistica”: egli non pensa alla religione tradizionale ma alla sua forma secolarizzata, ovvero alla Costituzione politica. Come tipico di numerosi intellettuali francesi, Godelier ha una visione riduttivistica del sacro e dei fenomeni religiosi, considerati meri prodotti della fantasia umana, scaturiti dal senso di impotenza e di fragilità, e soprattutto creati per garantire ordine e coesione sociale31; a suo parere, nel mondo moderno la fede religiosa e la M. GODELIER, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l’antropologia, cit., p. 69. 29 M. SIGNORE, Lo sguardo della responsabilità. Politica, economia e tecnica per un antropocentrismo relazionale, Studium, Roma, 2006, pp. 245. 30 M. GODELIER, Antropologia, storia, marxismo, a cura di M. de Stafanis e A. Casiccia, Guanda, Parma, 1970, p. 15. 31 «Il sacro è un tipo di rapporto degli esseri umani hanno con l’origine delle cose, rapporto in cui gli esseri umani scompaiono e al loro posto appaiono dei doppi, degli esseri umani immaginari» (M. GODELIER, L’enigma del dono, cit., p. 231). In questa visione del religioso come frutto 28

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connessa funzione sociale che aveva il sacro sono stati gradualmente sostituiti dalla fede civile, cioè dalla “religione moderna della libertà politica”. Seguendo anche la prospettiva di Rousseau sulla “religione civile”, egli afferma che dopo le rivoluzioni politiche della modernità, «la Costituzione è un dono che uomini e donne liberi fanno a se stessi, e che non fonda le loro relazioni intime, ma i rapporti sociali pubblici»32. Secondo Godelier «nella nostra società la politica ha preso il posto della religione e le Costituzioni che i popoli si danno sono in qualche modo equivalenti agli oggetti che gli esseri umani credevano di aver ricevuto dagli dei per aiutarli a vivere insieme e a vivere bene»33. In quest’ottica laica la Costituzione diventa il dono di libertà che gli uomini si scambiano reciprocamente; la Costituzione «fonda il diritto ma non appartiene alle relazioni commerciali. Essa le fonda, le regola, ma non appartiene loro. La Costituzione […] è proprietà comune, inalienabile, di tutti coloro che le obbediscono perché l’hanno scelta, l’hanno “votata”»34. Godelier scorge, quindi, nella Costituzione il cemento morale della comunità, il fondamento civile di rapporti umani tra “liberi ed eguali”, l’elemento sociale che è “al di là del mercato” e che può spingere gli individui alla solidarietà e alla fraternité.

dell’immaginazione non è difficile scorgere un’eco delle posizioni di Marx e soprattutto di Feuerbach, ovvero la trasformazione di qualsiasi teologia in antropologia e la visione della teogonia come prodotto dell’immaginazione umana (menschiche Einbildungskraft). A tra riguardo cfr. anche G. SEVERINO, Origine e figure del processo teogonico in Feuerbach, Mursia, Milano, 1972. 32 M. GODELIER, L’enigma del dono, cit., p. 277. 33 Ibidem. 34 Ibidem, p. 276.

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3. Dalla persona come homo capax all’«economia del dono» Le riflessioni di Ricoeur sul tema del dono si situano all’interno di una tradizione culturale, in larga misura, diversa da quella di Godelier. Come è noto, Ricoeur proviene dalla scuola di Emmanuel Mounier e, quindi, dalla tradizione personalistica, rinnovata nel corso degli anni con apporti provenienti dalla fenomenologia, dalla filosofia analitica e dall’ermeneutica. Ricoeur è tuttavia rimasto fedele all’originaria ispirazione personalistica della sua filosofia. Egli, anche in anni più recenti, non ha esitato a sottolineare il valore speculativo e l’urgenza stessa di un pensiero filosofico incentrato attorno alla nozione di persona. In particolare, Ricoeur riprende dal suo maestro Mounier la visione di una “democrazia economica”, ovvero di una democrazia che non si riduca a procedure giuridico-formali ma che sia tesa allo sviluppo integrale delle capabilities umane; con gli esponenti del personalismo comunitario Ricoeur condivide pertanto l’istanza di una “democrazia sostanziale” basata sui princìpi di solidarietà e sussidiarietà: «Bisogna che la democrazia politica» - afferma Mounier - «venga completamente riorganizzata sulla base di una democrazia economica effettiva, adeguata alle moderne strutture di produzione»35. E, MOUNIER, Le personnalisme, PUT, Paris, 1950 ; tr. it. di A. Cardin, Il personalismo, AVE, Roma, 19878, p. 158. Si ricordi che Mounier nelle sue critiche al capitalismo moderno si richiama anche al socialismo di Proudhon: naturalmente Mounier interpreta il socialismo in chiave cristiana e anti-marxista. A tal riguardo si veda un importante saggio di Mounier, edito nel 1934 nella rivista «Esprit» e nel 1946 trasformato in volume presso i tipi di Seuil: De la propriété capitaliste à la proprieté humaine; tr. it. di L. Sollecito, Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana, Medusa Edizioni, Milano, 2018; cfr. anche L. NICASTRO, Il socialismo bianco. La via di Mounier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; G.

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Il lungo itinerario di ricerca ricoeuriano può essere interpretato come il tentativo di formulare una “rinnovata filosofia del cogito e della persona”. Si tratta di una filosofia incentrata sulle capacità del soggetto - definito homo capax - di agire, di parlare, di narrare, di imputare a se stesso le proprie opere e le proprie responsabilità etico-giuridiche. Nel decimo studio di Soi-même comme un autre (1990) Ricoeur giunge alle soglie di una “ontologia della persona” proprio partendo dall’analisi delle potenzialità soggettive: tramite l’attestazione, quel tipo di certezza morale garantita dalla “testimonianza interiore”, egli giunge ad affermare la presenza di «un fondo d’essere, ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano»36; sul quale si fondano tutte quelle potenzialità che caratterizzano l’homme capable, quali il potere di agire, di narrare, di promettere, di donare e d’imputare a se stesso i propri atti. Il filosofo considera l’attestazione come la “garanzia di verità” che nella persona umana v’è “un fondo d’essere”, un nucleo ontologico originario e dinamico, una ἐνέργεια sulla quale si fondano le potenzialità umane. A questo proposito Ricoeur si richiama esplicitamente all’ontologia aristotelica della potenza (δύναμις / ἐνέργεια). A mio parere la prospettiva dell’homo capax proposta da Ricoeur può interagire in maniera feconda con il paradigma economico delle capabilities, ponendosi quasi come una sua fondazione sul piano filosofico: ci riferiamo, in particolare, all’approccio alle capacità umane (capabilities approach) proposto da Martha Nussbaum ed Amartya Sen. Come è noto, l’approccio alle capacità «rende ogni persona portatrice di valore CAMPANINI, Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana, in IDEM, Mounier. Eredità e prospettive, Studium, Roma, 2012, pp. 186-202. 36 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421.

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e fine in sé»37, propone dei contenuti etici che hanno «una grande forza intuitiva e una risonanza multiculturale»38. In un’età come la nostra di “politeismo etico” e di relativismo, il capabilities approach garantisce un “consenso condiviso” sull’idea del bene: John Rawls propone una cosa simile quando in Liberalismo politico (opera del 1993) parla di un possibile “consenso per intersezione” (overlapping consensus) sulle finalità etiche delle prassi politiche ed economiche. Ricoeur, Nussbaum e Sen sottolineano giustamente che nella democrazia tutti i valori possono essere relativi, contestabili e discutibili, tranne uno: il rispetto incondizionato per la dignità della persona umana. Tale rispetto diviene la struttura portante dei princìpi politici incardinati nelle garanzie costituzionali. In Diventare persone la Nussbaum elenca con chiarezza quelle che sono le capacità imprescindibili che costituiscono i diritti della persona; tali capacità sono anche le condizioni di possibilità dello human flourishing, del “prosperare umano”: tra queste il diritto alla vita, alla salute, alla libertà di pensiero e di immaginazione, al lavoro e al possesso dei beni fondamentali, alla “ragion pratica” ovvero all’«essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e di impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita»39. M.C. NUSSBAUM, Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge, 2000; tr. it. di W. Mafezzoni, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 93. 38 Ibidem. 39 Ibidem. Cfr. anche S.F. MAGNI, Etica delle capalicità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, Il Mulino, Bologna, 2006; M. MUSELLA, Verso una teoria economica dello sviluppo umano, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2014; S. ZAMAGNI, Welfare civile come sviluppo delle "capabilities", in L. CUCURACHI (a cura di), Il mercato giusto per umanizzare l’economia, Edizioni VIVEREIN, Lecce, 2016, pp. 59-78. 37

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Un ulteriore interessante elemento di confronto tra Ricoeur e la Nussbaum si può trovare sul tema dell’immaginazione come costitutivo del sociale. Era un tema già presente in Godelier, ma in Ricoeur e nella Nussbaum ci pare che abbia dei connotati teoretici e pratici molto più rilevanti: ci conduce infatti alle radici cognitive di un’etica del dono. Ricoeur considera l’immaginazione una “cerniera tra il teoretico e il pratico”: egli afferma che è «nell’immaginario che io saggio il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io posso”»40; egli definisce la stessa utopia politica come “immaginazione costituente”, nella quale si attua «il progetto immaginario di un’altra società, di un'altra realtà»41 e si ha la capacità «di istituire dei nuovi modi di vita»42. Tale capacità dell’immagianzione viene sviluppata nei tre volumi di Tempo e racconto (1983-85) sul piano della narrazione: l’intreccio narrativo del romanzo può essere la via per saggiare nuove possibilità utopiche o distopiche, nuovi stili di vita e di costruzione sociale. La facoltà dell’immaginazione è, secondo Ricoeur, decisiva anche per il riconoscimento (Anerkennung nel linguaggio hegeliano) dell’alterità43 e per il sentimento stesso dell’empatia nei confronti dell’altro (l’Einfühlung sulla quale si soffermano anche i fenomenologi tedeschi); a tal proposito Ricoeur parla P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa. Vv., Savoir, faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207-228; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989, pp. 205-227, p. 216. 41 Ibidem, p. 222. 42 Ibidem, p. 224. 43 Cfr. S. CURCI, Riconoscimento. Dal conflitto al dono. Il terzo studio dei Percorsi di Ricoeur, in «Dialegesthai. Rivista telematica di Filosofia», 2013. 40

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della “appercezione analogica” dell’altro come processo interiore di “trasferimento in immaginazione”: «dire che l’altro pensa come me, che prova come me pena e piacere, significa poter immaginare ciò che io penserei e proverei se fossi al suo posto. Questo trasferimento in immaginazione del mio “qui” al suo “là” è la radice di ciò che io chiamo empatia»44. Delle analoghe considerazioni le troviamo in due significativi volumi della Nussbaum sull’immaginazione narrativa: Poetic Justice. The Literay Imagination in Public Life (1995) e Cultivating Humanity (1997). L’immaginazione narrativa, sottolinea Nussbaum, è «la capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona, di capire la sua storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze»45. In quest’ottica il romanzo assume un significato di carattere etico e politico: siamo innanzi ad una ripresa dell’agagio erasmiano «lectio transit in mores». La Nussbaum porta l’esempio concreto di Hard Times, il celebre romanzo di Charles Dickens: in questo caso, l’immaginazione letteraria ci ha dato possibilità inedite di pensare ad un’organizzazione più giusta della società, ci ha fatto capire, costruendo alternative, che la vita politica ed economica non è necessariamente riducibile all’utilitarismo. P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, cit., p. 218. A tal proposito si veda anche R. PITTITO, Lui è come me. Intersoggettività, accoglienza, responsabilità, Studium, Roma, 2012. 45 M.C. NUSSBAUM, Cultivating Humanity. A Classical Defense of Reform in Liberal Education, Harvard University Press, Cambridge (MA) – London, 1997; tr. it. di S. Paderni e cura di G. Zanetti, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 1999, p. 25. Cfr. anche IDEM, Poetic Justice. The Literay Imagination in Public Life, Beacon Press, Boston, 1995 ; tr. it. di G. Bettini e cura di E. Greblo, Giustizia poetica. Immanginazione letteraria e vita civile, Mimesis, Milano, 2012. 44

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4. “Economia del dono” e “poetica dell’agápe”. La dialettica tra giustizia e amore Di particolare interesse è il discorso condotto da Ricoeur sulla dialettica tra giustizia e amore; alla “prosa della giustizia” egli contrappone l’esperienza paradossale di una “poetica dell’agápe”, autentico fondamento di una “economia del dono”. Parlando del rapporto tra giustizia e agápe, egli analizza implicitamente anche il rapporto che c’è tra filosofia e fede religiosa, tra lógos e pístis. In questo contesto, per giustizia si intende il paradigma della giustizia distributiva: «Dare a ciascuno ciò che gli spetta – suum cuique tribuere –: questa è, in qualsiasi situazione di distribuzione, la forma più generale della giustizia»46. Tale paradigma di giustizia distributiva ha trovato una sua prima chiara esemplificazione nell’Etica nicomachea di Aristotele ed una sua complessa trattazione in John Rawls, nel celebre A Theory of Justice (1971). La giustizia distributiva governa il senso etico comune e si risolve in una “logica dell’equivalenza”: essa si basa 46

P. RICOEUR, Liebe und Gerechtigketi. Amor et Justice, Mohr, Tübingen, 1990; tr. it. di I. Bettoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 27. Il giurista romano Eneo Domizio Ulpiano nelle sue Regole ci ha indicato i tre imperativi che scandiscono il paradigma classico di giustizia: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere (La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo» (D. 1.1.10pr.). Questi princìpi sono anche il contenuto della “regola d’oro” o “etica della reciprocità”: quest’ultima è un codice etico di universale ragionevolezza in base al quale ciascuno ha diritto a un trattamento giusto, oltre che il dovere e la responsabilità di assicurare la giustizia agli altri. Su questo tema si veda anche C. VIGNA – S. ZANARDO (a cura di), La regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano, 2005.

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sul principio della reciprocità e sui contenuti della cosiddetta “regola d’oro”. Ben più complesso e problematico è la definizione di cosa sia l’agápe, ovvero l’amore oblativo: quest’ultimo è il “comandamento nuovo” (pálin entolé) di cui parlano i Vangeli e viene giustamente considerato da Ricoeur come la vera fonte sorgiva di una “economia del dono”. L’amore oblativo stabilisce una “logica della sovrabbondanza” che ha degli esiti paradossali, controintuitivi e persino lontani dal senso comune della giustizia: tale «logica della sovrabbondanza trova nel Nuovo Testamento una grande varietà di espressioni. Essa regge l’andamento stravagante di molte parabole di Gesù»47; si pensi alla parabola del buon vignaiolo, a quella del figliol prodigo o a quella – ancor più paradossale – dell’amministratore disonesto lodato da Gesù (Lc, 16, 1-13). Ricoeur sottolinea che “l’economia del dono” si fonda sul sentimento dell’agápe e che, di conseguenza, «sviluppa una logica della sovrabbondanza che, almeno di primo acchito, si oppone polarmente alla logica dell’equivalenza che governa l’etica quotidiana»48. Se i contenuti della regola d’oro possono cadere in un irriflesso utilitarismo, in una convenienza spicciola (Ricoeur scorge un sotteso utilitarismo anche nei princìpi di giustizia enunciati da Rawls), l’agápe e il connesso paradigma del dono rivelano una loro paradossale gratuità e generosità. Il comandamento dell’amore, afferma il Nostro, diviene «l’espressione sovra-etica di un’ampia economia del dono, che ha ben altri modi d’espressione rispetto alle forme con cui l’uomo

47 P. RICOEUR, Amore e giustizia, cit., p. 35. Ricoeur nota che il teologo Gene Outka a proposito dei discorsi d’amore contenuti nei Vangeli parla di una bizzarria (oddity). Cfr. G. OUTKA, Agape. An Ethical Analysis, Yale Univeristy Press, New-Haven London, 1972. 48 P. RICOEUR, Amore e giustizia, cit., p. 35.

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giustifica l’azione. L’economia del dono sopravanza da tutte le parti l’etica»49. Sono d’accordo con Ricoeur nel sostenere che anche una logica della sovrabbondanza ha una sua intrinseca “ragionevolezza”: si tratta di una logica fecondata dall’agápe e che trova le sue intime motivazioni nella speranza escatologica: «La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue scomparirà e la scienza svanirà…» (Cor. 16, 3)50. L’aporia tra i due tipi di paradigmi (quello della giustizia e quello dell’amore) può essere superata nell’esercizio della phrónesis, la “saggezza pratica” operante nel giudizio morale in situazione. Tale aporia potrà essere completamente superata solo in una dimensione metastorica: il nostro compito è di far incarnare sempre di più la giustizia e l’agápe all’interno delle istituzioni storiche. Tramite l’istituzione si raggiunge l’altro che non vediamo, il nostro prossimo che rimane a noi anonimo e senza volto: «L’incorporazione tenace, via via, di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici – dal codice penale alle norme di giustizia sociale – costituisce un compito perfettamente ragionevole, benchè difficile e interminabile»51.

Ibidem, p. 33. Anche Alessandro Manzoni ha ben messo in luce l’intrinseca ragionevolezza presente nell’esercizio della misericordia e nella connessa “economia del dono”: proprio nella pagina finale dei Promessi sposi, delineando l’insegnamento morale di tutta la vicenda narrata - «il sugo di tutta la storia» - egli afferma: «Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio». 51 P. RICOEUR, Amore e giustizia, cit., p. 45. Cfr. anche D. IERVOLINO, Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma, 1995. 49 50

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5. «Il dono è l’impossibile». Il realismo scettico e il suo possibile superamento Ricoeur e Godelier difendono l’esigenza di umanizzare l’economia tramite la riscoperta del dono, fondamento di rapporti intersoggettivi di convivialità e solidarietà. Tuttavia, essi non dimenticano che la stessa “economia del dono” è stata oggetto di forti critiche, non solo da parte dei fautori di un neoliberismo à la Friedrich von Hayek, ma anche di autori che si sono richiamati al “realismo antropologico”, a considerare i rapporti umani “così com’essi de facto sono”. Ci riferiamo in particolare al “realismo scettico” presente in alcune riflessioni del filosofo Jacques Derrida e del sociologo Pierre Bourdieu. Quest’ultimo ha parlato di una «doppia verità del dono»52, mettendone in rilievo da una parte gli aspetti di gratuità, dall’altra gli aspetti di interesse: «Da una parte, il dono si vive (o si vuole) come rifiuto dell’interesse, del calcolo egoistico, e come esaltazione della generosità gratuita e senza contropartita; dall’altra, esso non esclude mai completamente la coscienza della logica dello scambio»53. Secondo Bourdieu anche il ciclo del dono sottende una logica di dominio, una implicita e sfuggente libido dominandi: chi dona, seppur lo fa in maniera gratuita e disinteressata, costringe l’altro ad instaurare un rapporto con lui. Il ricevente si sente, in qualche modo, sempre obbligato nei confronti dell’homo donator. Come osserva il sociologo nelle sue Meditazioni pascaliane, «il dono si esprime nel linguaggio dell’obbligazione: obbligato, esso obbliga, fa degli obbligati, “crea”, come si dice, “degli obblighi”; istituisce P. BOURDIEU, Méditations pascaliennes. Éléments pur une philosophie négative, Seuil, Paris 1997; tr. it. di A. Serra, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 211. 53 Ibidem, p. 200. 52

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un dominio legittimo»54. Seguendo in larga misura la prospettiva di una “microfisica del potere”, Bourdieu inserisce lo studio della “logica del dono” all’interno di quello delle “forme elementari di dominio”: arriva perciò a concludere che «il dono gratuito non esiste ed è impossibile»55. Godelier osserva che una simile prospettiva “scettica e decostruttiva” si trova anche in Derrida. Quest’ultimo, pur favorendo “politiche dell’amicizia e dell’accoglienza 56 disinteressata” , non esita a mettere in guardia dai pericoli insiti all’interno di una “logica del dono”. Derrida arriva ad affermare che «il dono è l’impossibile […]. La figura stessa dell’impossibile»57. A suo parere, il dono vero sarebbe quello di qualcuno che, senza motivo né utilità, donasse senza sapere di donare a qualcuno che non gli dovrà mai nulla perché non sa di aver ricevuto un dono. Derrida decostruisce il fenomeno del dono ed il connesso paradigma di Marcel Mauss: «Si potrebbe giungere sino a dire che un libro così monumentale come il Saggio sul dono, di Marcel Mauss, parla di tutto tranne che del dono: esso tratta dell’economia, dello scambio, del contratto (do ut des), del rilancio, del sacrificio, del dono e del contro-dono, in breve di tutto ciò che, nella cosa stessa, spinge al dono e ad annullare il Ibidem, p. 207. P. BOURDIEU, Raisons pratiques. Sur la théorie de l'action, Seuil, Paris, 1994; tr. it. di R. Ferrara, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 161: di questo volume si veda, in particolare, la parte intitolata “È possibile un atto disintesessato?”. 56 Cfr. J. DERRIDA, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris, 1994 ; tr. it. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano, 1995. 57 J. DERRIDA, Donner les temps, Galilée, Paris, 1991; tr. it. di G. Berto, Donare il tempo: la moneta falsa, Cortina, Milano, 1996, p. 9. In questo testo egli decreta: «Al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono: nè al donatario, nè al donatore» (ibidem, p. 16). 54 55

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dono»58. In questo suo scavo decostruttivo Derrida divine un “maestro del sospetto” e, in maniera affine a Bourdieu, cerca di smascherare l’egoismo sotteso all’atto del donare, un atto solo apparentemente libero e disinteressato. Nella cultura francese del Novecento, una simile dinamica egoistica fu messa in luce da Sartre nelle sue analisi sul fenomeno dell’amore. Queste mostrano notevoli affinità con quelle effettuale da Derrida sul fenomeno del dono. L’atto d’amore, il dono completo di sé all’altro, per Sartre celerebbe delle dinamiche egoistiche e sarebbe da interpretare come una forma di libido dominandi espressa nel sentimento apparentemente più puro: secondo Sartre l’amore nasce dall’intimo desiderio di «rendersi padrone dell’altro»59 e lo stesso «amare è, nella sua essenza, il progetto di farsi amare»60. 58 Ibidem, p. 27. Godelier rimprovera a Derrida il fatto di decostruire totalmente la logica del dono, fino ad annientare il valore etico del dono stesso: «Il compito di decostruire un oggetto per renderlo più intelliggibile prima di ricostruirlo sulla base di nuove ipotesi è qui [in Derrida] spinto all’assurdo, perchè alla fine dell’impresa l’oggetto decostruito [il dono] è completamente dissolto» (M. GODELIER, L’enigma del dono, cit., p. 281, in nota). 59 J.-P. SARTRE, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943; tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Net, Milano, 2002, p. 441. 60 Ibidem, p. 425. Alle pessimistiche riflessioni di Sartre sul fenomeno dell’amore e dell’incontro con l’altro si sono contrapporre sia le analisi fenomenologiche di Ricoeur (cfr. il già citato Amor et Justice) sia quelle di Emmanuel Lévinas. Secondo quest’ultimo «niente è tanto lontano dall’Eros come il possesso» (E. LÉVINAS, Totalité et Infini. Essai sur l'extériorité, Nijhoff, La Haye, 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Introd. di S. Petrosino, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 19983, p. 237) ed “amare significa cercare ancora chi ci è più vicino”. Per Lévinas, come è noto, l’alterità rimane sempre un qualcosa di inappropriabile; essa deve sfuggire a qualsiasi tentativo di possesso: l’incontro con l’altro -

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Godelier e Ricoeur criticano tali prospettive di “realismo scettico” e si sforzano di difendere le “buone ragioni” di una “economia del dono” quale ideale regolativo delle pratiche sociali. Come abbiamo visto, Ricoeur si spinge persino a parlare di una “poetica dell’agápe”, dell’amore oblativo. In questo loro lavoro intellettuale, i due autori si dimostrano molto vicini alla sensibilità etico-politica del “movimento convivialista”: quest’ultimo è nato negli anni Ottanta sotto la guida di Alain Caillé ed ha conosciuto ampia risonanza grazie alla “Revue du MAUSS”, nome che rinvia all’antropologo Marcel Mauss e che è, allo stesso tempo, acronimo del Movimento Anti-Utilitarista delle Scienze Sociali. Con Caillé ed i filosofi del MAUSS, Ricoeur e Godelier hanno condiviso lo sforzo «di criticare l’utilitarismo e di ridare spazio nella vita a rapporti, a princìpi di pensiero e di azione non mercantili»61: in questo senso essi si dimostrano l’epifania del suo volto - comporta impegno etico, diaconìa e responsabilità nei suoi confronti. Si tratta di una «responsabilità che spossessa l’Io dal suo imperialismo e dal suo egoismo» (E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; tr. it. di F. Ciaramelli, Presentazione di H. Künkler, La traccia dell’altro, in IDEM, La traccia dell’altro (scorciatoie), Libreria Tullio Pironti, Napoli, 1985 2, pp. 25-45, p. 37). Diversamente dalle considerazioni di Sartre, per il filosofo lituano l’incontro con «l’Altro (Autrui) non appare mai come un ostacolo o una minaccia» (E. LÉVINAS, La filosofia e l’idea di infinito, in IDEM, La traccia dell’altro (scorciatoie), cit., pp. 5-23, p. 19), ma è sempre un’esperienza «che sconvolge l’egoismo stesso dell’Io» (ibidem, p. 36): «l’epifania dell’assolutamente Altro è volto; in esso l’Altro mi interpella e mi comanda con la sua stessa nudità ed indigenza. La sua presenza è un’intimazione a rispondere. [...] L’Io è, nella sua stessa posizione, sino in fondo responsabilità e diaconìa, come nel capitolo 55 di Isaia. Essere Io significa, dunque, non potersi sottrarre alla responsabilità. […] La mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in un modo incomparabile ed unico» (ibidem, pp. 36-37). 61 M. GODELIER, L’enigma del dono, cit., p. 278, in nota.

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concordi nell’affermare un primato di quei “beni relazionali” (amicizia, fraternità, solidarietà, responsabilità condivisa, ecc.) che si situano al di là di qualsiasi mercato e di qualsiasi logica meramente utilitaristica. In opposizione al “trinomio neoliberista” «meno regole, meno tasse, meno Stato»62, i teorici del movimento convivialista ripropongono il paradigma del dono come «uno dei capisaldi (un des rocs) su cui sono costruite le nostre società»63. Uno degli scopi principali del movimento convivialista, condiviso sia da Ricoeur che da Godelier, è dunque quello di reincorporare l’economia all’interno dell’etica e delle restanti sfere della vita umana. Essi auspicano giustamente una possibile rivincita dell’homo donator e dell’homo convivialis sul paradigma ancora oggi dominante dell’utilitarismo neoliberista, esemplificato dalla figura dell’homo oeconomicus: come ha ben fatto emergere anche Francesco Fistetti, «il convivialismo si configura nei confronti del processo “totale” della globalizzazione [neoliberista] come un “contro-movimento” che si fa portatore di un progetto di ricivilizzazione capace di riattivare il ciclo del dono (donare/ricevere/contraccambiare). In questo senso, la lezione non solo epistemologica, ma etico-politica del Saggio sul dono [di Marcel Mauss] è ancora tutta da scoprire e soprattutto da

L. PENNACCHI, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, Roma, 2012, p. 54. Sul paradigma del “trinomio neoliberista” e i suoi possibili punti deboli cfr. anche P. DARDOT – C. LAVAL, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La Découverte, Paris, 2009 ; tr. it. di R. Antoniucci, M. Lapenna, I. Bussoni, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Prefazione di P. Napoli, DeriveApprodi, Roma, 2013. 63 M. MAUSS, Teoria generale della magia ed altri saggi, cit., p. 159. 62

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reinventare ricorrendo al pensiero critico e all’immaginazione sociologica»64. L’auspicio di Godelier, di Ricoeur e del movimento convivialista è che lo “spirito del dono” torni ad animare la società contemporanea e che i connessi “beni relazionali” tornino ad essere il fondamento delle pratiche sociali. In queste prospettive, l’economia del dono diviene, dunque, sinonimo di riscoperta dei “beni relazionali”: questi «sono beni che implicano dimensioni essenzialmente affettive, emotive, come fiducia, amicizia, solidarietà. Sono quelli per i quali la relazione tra le persone non è un puro strumento per la soddisfazione dell’interesse individuale, ma costituisce di per sé un bene comune»65. Come ha chiaramente messo in luce anche Elena Pulcini, i “beni relazionali” «possono essere goduti solo se condivisi, […] la loro caratteristica essenziale è la reciprocità: l’idea che la relazione in sé costituisce un bene» 66. A questo F. FISTETTI, Le origini storiche del convivialismo: il paradigma del dono di Marcel Mauss, Postfazione a Aa. Vv., Manifesto convivialista. Dichiarazione d’interdipendenza, tr. it. di A. Zaccardi, Premessa di G. Lingua e A. Pirni, Edizioni ETS, Pisa, 2014, pp. 51-72 p. 66. Il titolo originale di tale Manifesto, redatto da Alain Caillé in collaborazione con una quarantina di autori francofoni, è Manifeste convivialiste. Déclaration d’interdépendance, Le Bord de l’Eau, Lormont, 2013. 65 E. PULCINI, Bene comune e/o beni comuni, in E. PULCINI – P.D. GUENZI, Bene comune, beni comuni. Un dialogo tra teologia e filosofia, a cura di S. Morandini, Edizioni Messaggero, Padova, 2015, pp. 21-44, p. 40 66 Ibidem, p. 41. L’attuale riflessione etico-politica ed economica si sta dimostrando molto attenta al recupero e alla valorizzazione dei cosiddetti “beni relazionali”; a tal proposito si vedano L. BRUNI, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economie, società civile, Mondadori, Milano, 2006 P. DONATI – R. SOLCI, I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono, Bollati Boringhieri, Torino, 2011; A. LOMBARDI (a cura di), I beni relazionali negli scambi sociali ed economici. Il dono tra interesse 64

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proposito non è fuori luogo far riferimento anche ad una singolare etimologia della lingua araba: il verbo che indica l’aiuto e la solidarietà comunitaria (sáhada / ‫ ) ساعد‬ha la stessa radice semantica del termine indicante la dimensione della felicità (saíd / ‫) سعيد‬. Questa parentela semantica attesta che anche per la spiritualità coranica, depositata nell’arabo classico, un’autentica vita felice può conseguirsi solo negli atteggiamenti etici della convivialità, dell’aiuto reciproco e della condivisione dei beni.

egoistico e altruismo puro, FrancoAngeli, Milano, 2011; L. BECCHETTI, G. TROVATO, D.A. LONDONO BEDOYA, Income, relational goods and happiness, «Applied Economics», 43, 3, 2011, pp. 273-290. Anche in Jeremy Rifkin possiamo trovare l’istanza di un recupero dei beni relazionali all’interno della società globalizzata: egli sottolinea che tra le potenzialità positive dell’età globale c’è la possibile rinascita di una “civiltà dell’empatia”, fondata sul senso di comunità e di predisposizione alla socialità, consentita dalla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione. A tal riguardo si veda J. RIFKIN, The Empathic Civilization: The Race to Global Consciousness in a World in Crisis, J.P. Tarcher/Penguin, New York, 2009; tr. it. di P. Canton, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Mondadori, Milano, 2010.

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Studio VIII

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La filosofia come “ermeneutica della condizione umana”: il confronto di Armando Rigobello con Paul Ricoeur «Pensare è interpretare. Interpretare è testimoniare, ossia rendere evidente nella vita un valore che la trascende. […] É dare lo scacco alla comune visione opaca e banale del mondo per introdurvi la speranza di un significato»1

Il confronto di Armando Rigobello (1924-2016) con la filosofia francese del Novecento è stato assiduo ed è un elemento ampiamente presente sia nelle opere giovanili che in quelle della maturità: come ricorda lo stesso autore italiano nelle sue memorie2, negli anni Cinquanta fu il suo maestro Luigi Stefanini A. RIGOBELLO, Paul Ricoeur e il problema dell'interpretazione, in V. VERRA (a cura di), La filosofia dal '45 ad oggi, ERI/Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino, 1976, p. 211-223, p. 221. 2 Cfr. Intervista di Luca ALICI, Armando Rigobello. Vita e ricerca, La Scuola, Brescia, 2010, pp. 26-27. La posizione di Rigobello si configura come un’ermeneutica di ispirazione personalistica: è una prospettiva nata dallo studio di Emmanuel Mounier e da un confronto critico sia con il trascendentalismo kantiano che con la fenomenologia husserliana. Nella fase più matura del suo pensiero Rigobello ha elaborato un’ermeneutica della condizione umana basata sui concetti di “estraneità interiore” e di “apriori ermeneutico”. Tra le sue opere principali vi sono: Il contributo filosofico di E. Mounier, Bocca Editori, Roma, 1955; I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano, 1963; Legge morale e mondo della vita, Abete, Roma, 1968; Struttura e significato, La Garangola, Padova, 1971; Oltre il trascendentale, Fondazione Ugo Spirito, Roma, 1994; L’estraneità interiore, Studium, Roma, 2001; Immanenza metodica e 1

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ad indirizzarlo per la prima volta verso lo studio del personalismo francese e, in particolare, della figura di Emmanuel Mounier. Rigobello ha giustamente individuato una delle note fondamentali di tanta parte del pensiero francese in una costante ripresa critica della tematica cartesiana del cogito, ripresa che in alcuni casi emblematici – come quello di Sartre – ha assunto anche la forma di una radicale contestazione: il personalismo di Mounier, la philosophie de l’esprit e lo stesso esistenzialismo sono stati, dunque, forme di pensiero sorte dal confronto critico con la soggettività cartesiana, con l’esprit de finesse pascaliano, e hanno trovato in Maine de Biran una figura centrale di riferimento. Rigobello sottolinea che nell’Ottocento «Maine de Biran aveva recuperato la grande tradizione dell’età di Cartesio e di Pascal, mediante la trasformazione interna del sensismo prima e dell’empirismo poi; tra Biran e Bergson e i suoi contemporanei si può rintracciare una continuità»3. trascendenza regolativa, Studium, Roma, 2004; L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007; L’intenzionalità rovesciata. Dalle forme della cultura all’originario, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; Dalla pluralità delle ermeneutiche all’allargamento della razionalità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014. La prima monografia sull’itinerario intellettuale di Rigobello è quella di D. ANTISERI, Armando Rigobello e la filosofia come lotta per il significato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017. Si vedano anche G. DOTTO, Armando Rigobello, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2006, vol. X, pp. 9754-9755; T. VALENTINI, Epistemologia del limite e filosofia della persona. Note su un recente convegno dedicato al pensiero di Armando Rigobello (1924-2016), in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», Anno XXXIII, n. 97-98, 2016, pp. 197-202; L. ALICI, O. GRASSI, G. SALMERI, C. VINTI (a cura di), Armando Rigobello, la filosofia come testimonianza «Studium – Rivista bimestrale», 5, anno 113, 2017. 3 A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma, 1977, p. 9.

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Rigobello è stato tra i primi in Italia – con Virgilio Melchiorre, Francesca Brezzi e Domenico Jervolino – ad interessarsi della figura di Paul Ricoeur, un autore che, come è noto, si è formato alla scuola di Mounier e di Gabriel Marcel, ed ha saputo rinnovare con diverse metodologie di ricerca la tradizionale “filosofia francese dell’interiorità” di matrice cartesiana e pascaliana. Fin dagli anni Cinquanta Rigobello interpreta il pensiero ricoeuriano come una tra le più valide e convincenti risposte a Sartre e alle sue inquietanti provocazioni nichilistiche. In quegli anni la storiografia filosofica generalmente individuava in Marcel l’antiSartre della cultura francese, ovvero la risposta di ispirazione cristiana al nichilismo; Rigobello scorge invece in Ricoeur l’autore che, pur muovendosi dalle stesse premesse metodologiche di Sartre – esistenzialismo, fenomenologia e studio delle scienze umane –, propone una filosofia aperta alla trascendenza religiosa. Secondo Rigobello «un uso espositivo che discende dalla contrapposizione metafisico-religiosa è invalso nel puntualizzare, nella scena filosofica francese, il confronto tra Sartre e Marcel, esistenzialista ateo il primo, esistenzialista teista il secondo. A noi sembra che il confronto alternativo possa più agilmente venir condotto focalizzandosi su Sartre e Ricoeur per la comune attenzione alle scienze dell’uomo e per il comune riferimento alla fenomenologia, sebbene liberamente elaborato da entrambi»4. Gli itinerari di pensiero di Rigobello e Ricoeur hanno, dunque, dei significativi elementi di convergenza e un comune maestro di riferimento: Emmanuel Mounier. Essi hanno trovato in Mounier un modello di “filosofia della persona” da riprendere e riconfigurare in ordine alle sfide alle sempre più incalzanti del pensiero contemporaneo: marxismo, strutturalismo, psicoanalisi e 4

Ibidem, p. 96.

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più in generale tutte le filosofie anti-umanistiche sorte dai “maestri del sospetto”. “Muore il personalismo, ritorna la persona”: è questo un noto saggio di Ricoeur edito nel 1983 nella rivista «Esprit», più volte citato e commentato da Rigobello anche nelle sue lezioni universitarie. Per i due autori il concetto di persona «resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»5; «se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»6. Non va inoltre dimenticato che Rigobello e Ricoeur hanno trovato in Mounier e nel movimento di «Esprit» anche un punto di riferimento sotto il profilo politico: la ricerca di una possibile “terza via” – un’alternativa costruttiva – tra l’individualismo liberale e il collettivismo marxista. Una terza via – quella personalistica – che è critica implicita di ogni ideologia totalizzante e deterministica: sia essa politica (come il materismo dialettico) o culturale (come la psicoanalisi freudiana, lo strutturalismo, ecc.). Per entrambi gli autori la persona costituisce una realtà che nel suo nucleo più profondo è inoggettivabile, è

P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 37-71, p. 38. 6 P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. Sul rapporto di Ricoeur con il suo amico e maestro Mounier si veda anche P. RICOEUR, Emmanuel Mounier. L’attualità di un grande testimone, tr. it. di G. Losito, Città Aperta, Troina (EN) 2005. 5

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indefinibile in quanto è libertà e trascendenza: «Il vertice della persona» – afferma Rigobello - «è al di la di ogni condizione»7. Rigobello condivide gli elementi fondamentali della prospettiva di Ricoeur e dedica degli approfonditi studi volti ad analizzare la cosiddetta “via lunga” dell’indagine ricoeuriana; “via lunga” che è ben diversa dalla “via breve” percorsa da Heidegger in una panica prossimità all’ “essere come evento” (Sein als Ereignis). Come è noto, la “via lunga” proposta da Ricoeur è caratterizzata da tre elementi metodologici essenziali: 1) la filosofia riflessiva tipicamente francese (il metodo introspettivo “da Maine de Biran a Gabriel Marcel”); 2) la fenomenologia di Husserl, valorizzata soprattutto per il concetto di “intenzionalità della coscienza” (Intentionalität des Bewusstseins); e 3) l’ermeneutica. Queste sono anche tre prospettive metodologiche fatte proprie da Rigobello e da questi declinate in termini originali: Rigobello, in maniera simile a Ricoeur, ha tentato di delineare una “logica del personalismo” (titolo di un volume del 1958)8 e nel far questo ha proposto non un metodo filosofico univoco, ma un “intreccio di metodi”: una συμπλοκή (termine platonico) che si sostanzia del pensiero riflessivo, dell’indagine fenomenologica della coscienza e di un’ermeneutica intesa come indagine sulla natura umana: «Il nostro essere» – afferma Rigobello – «è l’essere in situazione ermeneutica»9. É questo un elemento che vorrei sottolineare: A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, Bocca Editori, Roma, 1955, p. 59. Sul personalismo di Mounier si vedano anche i più recenti studi di G. CAMPANINI, Mounier. Eredità e prospettive, Studium, Roma, 2012; G. D’ACUNTO – A. MECCARIELLO (a cura di), Mounier. Persona e comunità, Chirico, Napoli, 2018. 8 Cfr. A. RIGOBELLO, Introduzione ad una logica del personalismo, Liviana, Padova, 1958. 9 A. RIGOBELLO, Prefazione a P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p. 5-14, p. 12. 7

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chiarire il tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur e Rigobello. Si tratta di una “filosofia dell’interpretare” lontana dagli esiti storicistici di Gadamer (si pensi alla Horizontverschmelzung, la “fusione degli orizzonti”) e certamente distante rispetto ai vari tipi di ermeneutica nati sotto il segno della Nietzsche-Renaissance: il binomio ermeneutica e nichilismo, teorizzato in Italia da Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti ed altri autori. Differentemente da queste prospettive, Ricoeur e Rigobello intendono l’ermeneutica come una analisi della condizione umana, come una complessa ricerca dello statuto ontologico della persona, come – appunto – una “ermeneutica del sé”: «La rilevanza filosofica dell’ermeneutica» – sostiene Rigobello – «non consiste nei risultati dei singoli atti di interpretazione, ma nell’analisi della condizione umana sottesa all’esercizio dell’interpretazione stessa: ontologia dell’homo symbolicus, dell’homo viator: asimmetria, sproporzione e, quindi, apertura, trascendenza (Ricoeur, Jean Greisch)»10. A partire dalla prima grande opera ricoeuriana edita nel 1950 – Il volontario e l’involontario – Rigobello segue costantemente le ricerche del filosofo francese, stringendo con questi rapporti di amicizia sul piano personale e riflettendo in maniera proficua sui risultati della sua speculazione. Da notare è che Rigobello ha sempre sottolineato la sostanziale unità della meditazione ricoeuriana, un’unità messa talvolta in discussione da alcuni interpreti a causa delle diverse tematiche su sui vertono le opere dell’autore francese: l’etica, il linguaggio, la narrazione, la storiografia, l’impegno politico e l’esegesi dei testi sacri. Secondo Rigobello la prospettiva filosofica di Ricoeur «non conosce A. RIGOBELLO, La parabola dell’ermeneutica. Il concetto, la struttura interna, i problemi, «Nuova Secondaria», [Editrice La Scuola, Brescia], 6, 1996, pp. 29-31, p. 31. 10

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fratture, inversioni di direzione, ma approfondimenti e ampliamenti di orizzonte in quanto in dialogo con le tematiche emergenti da un contesto culturale molto mobile come il contemporaneo. Ma la intuizione e la riflessione fondamentali rimangono a delineare una prospettiva costante»11. Tale prospettiva costante, anche a mio parere, è da individuale in una “ermeneutica della persona umana” che si specifica nella forma di una “antropologia della sproporzione”. Rigobello legge con attenzione il volume ricoeuriano del 1960 Finitudine e colpa condividendone gli elementi essenziali: è da questo volume che emergono con chiarezza le prime linee direttrici dell’ “ermeneutica della persona” proposta da Ricoeur, un’ermeneutica basata sul concetto pascaliano di “sproporzione”: «l’uomo» – afferma Ricoeur – «è definito da una sproporzione originaria»12, da una distinzione tra “intelletto finito” e “volontà infinita”, per la quale, come direbbe anche Pascal, «l'homme passe infiniment l'homme». Nella prima parte del volume – intitolata L’homme faillible – Ricoeur delinea i limiti epistemologici ed etici della condizione umana, definita come “prospettiva finita”13. L’uomo – nota il filosofo francese – è limitato sotto profilo teoretico (e qui, come Rigobello, si riallaccia al tema kantiano delle Grenzen14) ed è fallibile sotto il profilo A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, cit., p. 101. 12 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité, I., L’homme faillible, II. La symbolique du mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960 (nuova edizione 1988); tr. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa, I. L’uomo fallibile, II., La simbolica del male, Introduzione di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 90. 13 Ibidem, p. 89 ss. 14 Il costante riferimento ai kantiani “limiti” della conoscenza accomuna le prospettive di Rigobello e di Ricoeur. Quest’ultimo dichiara esplicitamente che la sua «antropologia del finito e dell’infinito incontra Kant» e che gli è 11

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etico: la condizione umana è caratterizzata dalla finitezza ed è costantemente esposta al pericolo della colpa e del male. Tuttavia, nonostante il rischio di un’inclinazione al male, la volontà umana è caratterizzata da un elemento positivo insopprimibile: l’anelito all’infinito, ciò che Cartesio definiva come «le désir que chacun a d'avoir toutes les perfections»15 e che Kant nella prima Critica indicava anche come «ideale di determinazione completa (durchgängige Bestimmung)»16. Ricoeur, facendo riferimento anche al linguistic turn della filosofia del Novecento, indica tale esigenza d’infinito presente in interiore homine con l’espressione «verbo infinito»17: si tratta del desiderio latente di una “significazione assoluta”, cioè di una volontà di “dire l’indicibile”, di “dire Dio”. Tale volontà è tuttavia inevitabilmente destinata al fallimento e allo scacco: è una volontà rivelatrice di tutti i limiti delle facoltà umane ma, allo stesso tempo, è anche attestazione del fatto che l’uomo è un “mendicante dell’assoluto”, è un essere desideroso di compimento assoluto. La condizione perciò necessario compiere «un tratto di strada con Kant» (ibidem, p. 115). Entrambi gli autori compiono un itinerario teoretico incentrato sui limiti della conoscenza umana ma che, allo stesso tempo, è in grado di gettare uno sguardo oltre la determinazione kantiana: per entrambi è essenziale una “rottura metodologica” che apra la strada ad una “ermeneutica della condizione umana” ricca di richiami alla simbolica biblica e alla trascendenza religiosa. A tal proposito, ci limitiamo ad indicare A. RIGOBELLO, Il rapporto determinazione - ulteriorità, in F. WIEDMANN (hrsg. von), Die Sorge der Philosophie um den Menschen, Pustet, München, 1964, p. 68-85; IDEM, Die Grenzen des Transzendentalen bei Kant, hrsg. von H. Kuhn mit F. Wiedmann und I. Müller-Strömsdörfer, Pustet, München und Salzburg, 1968; IDEM, Oltre il trascendentale, Fondazione Ugo Spirito, Roma, 1994. 15 R. DESCARTES, Lettre à Mersenne, 25 décembre 1639, in AT, II, p. 628. 16 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, J.F. Hartknoch, Riga, 17872, B 599. 17 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 96 ss.

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umana – sottolinea Ricoeur – è quindi caratterizzata da tale ineludibile “sproporzione” tra la sua esigenza d’infinito e le sue limitate capacità linguistiche, conoscitive ed etiche: «La metodologia riflessiva [di Ricoeur]» - commenta Rigobello – «è rivelativa di un aspetto intenzionale, rigorosamente teoretico, un “verbo infinito” situato in quella “prospettiva finita” che è il ritaglio esistenziale del singolo. La consapevolezza dell’impossibilità di attuare il suo programma è un invito a chiarire il mistero di questa “sproporzione” costitutiva e dei simboli in cui tale sproporzione si situa. […] L’ontologia ricoeuriana è una ontologia dell’esistenza dell’uomo e della sua finitezza, una finitezza tuttavia aperta alla Trascendenza»18. A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, cit., p. 104. Nella prospettiva ricoeuriana – osserva Rigobello - «riecheggia anche la concezione platonica della filosofia come eros. Lo sforzo è l’affermazione positiva dell’esistenza, che, rimanendo sempre incompiuto, diventa desiderio. In questa dialettica sforzo-desiderio sta la condizione ontologica e il significato spirituale dell’uomo» (IDEM, Intervento in occasione del conferimento a Paul Ricoeur del Premio Internazionale Paolo VI, «Notiziario – Istituto Paolo VI», 2003, pp. 25-29, p. 27). La visione della filosofia come eros e la connessa “antropologia della sproporzione” vengono individuate da Rigobello anche in Maurice Blondel e in Michele Federico Sciacca: di Blondel egli analizzata la dialettica tra “volontà volente” e “volontà voluta”, mentre dell’autore italiano egli chiarifica il significato dei concetti di “squilibrio/sproporzione”. In maniera simile a Ricoeur e a Rigobello, Sciacca fa notare che l’uomo vive all’insegna della finitudine ma la sua interiorità è radicata in un infinito che lo spinge ad un continuo oltrepassamento: da questa insuperabile esigenza di oltrepassamento deriva anche la categoria di “squilibrio” tramite la quale Sciacca delinea la sua antropologia filosofica. «L’uomo è sintesi di finito e d’infinito. Di qui lo squilibrio: l’Idea sopravanza l’esistenza e la pone come tensione all’Infinito che la trascende […]. Di qui l’inquietudine di quell’ “essere dialettico” per essenza, che è ciascun uomo - “dialettico” rispetto al mondo, ai suoi simili e 18

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Rigobello condivide la critica ricoeuriana al cogito cartesiano e, più in generale, al trascendentalismo moderno. Il cogito cartesiano – amava dire Rigobello anche nelle sue lezioni – è una “certezza senza verità”, è cioè una certezza logica, priva però di elementi esistenziali, i vissuti della coscienza nei loro aspetti anche drammatici. Il cogito cartesiano e l’io penso kantiano – affermava Rigobello – dimenticano “la parte più intima e più fragile della condizione umana”: è per questo che, anche sulla scorta delle suggestioni ricoeuriane, egli teorizza una prospettiva filosofica “oltre il trascendentale”, cioè oltre la visione della ragione puramente formale e astratta. Rigobello e Ricoeur mettono in rilievo i “limiti del razionalismo” sul piano teoretico ed etico, rivolgendo così il loro sguardo all’altro grande iniziatore della modernità filosofica, ovvero a Pascal. Seguendo Pascal mettono in luce la fragilità della condizione umana – le pathétique de la misère humaine –, la figura dell’ “l’uomo fallibile”, i temi esistenziali della colpa, della caduta, lo status naturae lapsae e quindi la “simbolica del male”. Ai trionfi della ragione cartesiana ed illuministica essi oppongono la “via lunga” di una “filosofia riflessiva” incentrata sull’esperienza integrale del cogito: «la teoria [ricoeuriana] del cogito» – osserva Rigobello – «ha quindi il suo nucleo qualificante nella “riappropriazione dell’io”. Riflettere è infatti “recuperare l’atto di esistere, la posizione del sé

a Dio» (M.F. SCIACCA, Atto ed essere, [edizione originale: Bocca Editori, Roma 1956], in Opere complete di Michele Federico Sciacca, Marzorati, Milano 1963, vol. V, p. 69). Cfr. Anche M.F. SCIACCA, L’uomo, questo squilibrato. Saggio sulla condizione umana, Bocca Editori, Roma, 1956; Marzorati, Milano, 19582; A. RIGOBELLO L’uomo questo “squilibrato”, una prospettiva di antropologia speculativa, in «Giornale di Metafisica», XXX, 2008, pp. 507-518.

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in tutto lo spessore delle sue opere”. Il problema dell’interpretazione si presenta a questo punto»19. Ci soffermiamo ora su Il conflitto delle interpretazioni, una importante raccolta di testi ricoeuriani edita in Francia nel 1969 e successivamente tradotta in italiano presso la Jaca Book con una Prefazione dello stesso Rigobello. Il “conflitto delle interpretazioni” di cui parla Ricoeur è il conflitto tra due antitetiche interpretazioni della realtà umana, entrambe legittime, entrambe contenenti elementi di verità e perciò Fragwürdig, degne di essere prese in esame: la “archeologia del soggetto” e la “teleologia del soggetto”. Si tratta del “conflitto ermeneutico” tra la psicoanalisi intesa come “archeologia del soggetto” e una complessa “filosofia della libertà creativa” intesa come “teleologia del soggetto”, cioè come dinamismo dell’azione in vista del compimento di bene (human flourishing). Rigobello e Ricoeur prendono in seria considerazione le sfide della psicoanalisi: si rendono conto che Freud ha portato una vera e propria rivoluzione concettuale, detronizzando l’uomo dal suo castello interiore, dalla sicurezza epistemologica della autotrasparenza della coscienza (l’io cartesiano e kantiano). Essi si rendono conto che Freud ha introdotto il sospetto all’interno di quella verità prima ed incontrovertibile costituita dal cogito di matrice cartesiana e, più in generale, dalla “soggettività trascendentale” dei moderni (da Kant ad Husserl). Freud – sottolinea Ricoeur – scardina l’idea stessa della fondazione trascendentale, la delegittima, rendendola un’illusoria pretesa narcisistica. Ricoeur interpreta la psicoanalisi freudiana come una “archeologia del soggetto”: secondo il filosofo francese, Freud A. RIGOBELLO, Prefazione a P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 7.

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tenterebbe di spiegare la complessità dell’azione dell’uomo facendo quasi esclusivamente riferimento al suo passato, agli aspetti umbratili della sua infanzia, al primordiale (éros, thánatos, anánke)20; l’interpretazione freudiana dell’uomo viene considerata, in tal modo, una forma di “determinismo” che finirebbe quasi per negare la libertà del volere (le volontaire) e l’agire stesso secondo precise finalità, ciò che Ricoeur – richiamandosi anche all’Etica nicomachea di Aristotele e alla hegeliana Fenomenologia dello Spirito – definisce come “teleologia del soggetto”. Tra la freudiana “archeologia del soggetto” e l’aristotelico-hegeliana “teleologia del soggetto” Ricoeur e Rigobello scorgono un leggittimo “conflitto delle interpretazioni”. Tuttavia essi sottolineano che queste due interpretazioni dell’agire umano, seppur antitetiche – in quando l’una è rivolta all’arcaico mentre l’altra è rivolta al dinamismo dell’azione indirizzata all’ordine dei beni –, sono entrambi legittime e contengono motivi di verità: accentuando l’irriducibile complessità della realtà umana, essi ricordano la saggezza aletica del detto di Maine de Biran: homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate. Un ulteriore elemento della prospettiva ricoeuriana ampiamente valorizzato da Rigobello è sicuramente la nozione di homo capax/homme capable, nata dallo sviluppo del concetto di agire teleologico. Tale nozione costituisce un approfondimento e una specificazione della visione finalistica dell’agire umano, cioè 20

Come è noto, l’interpretazione ricoeuriana del freudismo come “archeologia del soggetto” viene ampiamente sviluppata nel celebre e complesso volume del 1965 De l’interprétation. Essai sur Freud. Sulla ricezione critica di Freud da parte di Ricoeur ha fatto degli studi molto approfonditi anche Vinicio Busacchi: cfr., per esempio, V. BUSACCHI, Ricoeur vs. Freud: métamorphose d’une nouvelle compréhension de l’homme, L’Harmattan, Paris, 2011.

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della “teleologia del soggetto”: secondo Rigobello l’antropologia delle capabilities costituisce la parte più costruttiva ed originale del discorso ricoeuriano. A partire da La metafora viva (1975) fino all’opera del 1990 Soi-même comme un autre, Ricoeur si interroga sullo statuto ontologico del soggetto partendo dalla sua produttività interiore, dalle sue capacità: poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore e, non da ultimi, il potere di fare memoria e il poter promettere. Ricoeur cerca, quindi, di argomentare a favore di una ontologia del sé fondata sulla ἐνέργεια, sul nucleo sorgivo della produttività interiore. Rigobello condivide perciò l’interpretazione che del pensiero ricoeuriano ha dato Jean Greisch21: secondo Greisch e Rigobello, Ricoeur in tutti i suoi scritti avrebbe tentato di portare alla luce le implicazioni contenute nella teoria dell’immaginazione produttiva di Kant, la produktive Einbildungskraft. Ricoeur fa emergere tutte le potenzialità della facoltà dell’immaginazione produttiva: essa è organo dell’«innovazione semantica, caratteristica dell’uso metaforico del linguaggio»22, opera nella costruzione dello schema narrativo del racconto e «applicata all’azione [...] ha una funzione proiettiva che appartiene al dinamismo stesso dell’agire»23. Ricoeur considera l’immaginazione una “cerniera Cfr. J. GREISCH, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Millon, Grenoble 2001; IDEM, Paul Ricoeur, PUF, Paris 2013; tr. it. di L. Gianfelici, revisione di G. Ferretti, Leggere Paul Ricoeur, Queriniana, Brescia, 2014. 22 P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa. Vv., Savoir, faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, pp. 207-228; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989, pp. 205-227, p. 209. 23 Ibidem, p. 215. 21

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tra il teoretico e il pratico”: egli afferma che è «nell’immaginario che io saggio il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io posso”»24, e definisce la stessa utopia politica come “immaginazione costituente”, nella quale si attua «il progetto immaginario di un’altra società, di un'altra realtà» 25 e si ha la capacità «di istituire dei nuovi modi di vita»26. L'immaginazione – sottolinea Rigobello con Ricoeur – è la facoltà che costituisce il linguaggio metaforico, linguaggio che si radica nel “mondo della vita” (Lebenswelt) e che permette l’analogia, il “dire l’essere accanto al non-essere”, ovvero una “impertinenza semantica”. La metafora è in tal modo lo strumento del linguaggio analogico, allusivo e religioso: permette una ridescrizione della realtà in ordine al nostro sentimento etico, alla nostra esigenza di un ordine finalistico e trascendente. L’uso metaforico del linguaggio non è solamente un ornatus stilistico, un abbellimento retorico, ma esprime la nostra capacità di una risemantizzazione del reale; la metafora è lo strumento per una “riflessione seconda o recuperatrice” (espressione anche di Marcel): la metafora esprime una “metafisica del desiderio”. «La metafora» – ribadisce Ricoeur - «è a servizio della ridescrizione della realtà, con la metafora facciamo esperienza della metamorfosi del linguaggio e della metamorfosi della realtà»27. Rigobello sottolinea che la “strategia della metafora”, la sua forza euristica, emerge chiaramente in comparazione a quella del linguaggio ordinario e della scienza: «Mentre il linguaggio ordinario, che ha per fine la comunicazione di scopi pratici, si propone di ridurre l’ambiguità del linguaggio, mentre il Ibidem, p. 216. Ibidem, p. 222 26 Ibidem, p. 224. 27 P. RICOEUR, La sfida semiologica, tr. it. e cura di M. Cristaldi, Armando, Roma, 1974, p. 287. 24 25

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linguaggio scientifico si propone di raggiungere la univocità espressiva, il linguaggio metaforico ha il compito di “ridescrivere la realtà”, “di aprire cioè una nuova visione delle cose rompendo i legami logici preliminari”. Questa è la funzione “euristica” della metafora»28. Rigobello – prendendo le mosse da Ricoeur – arriva a parlare di un impegno della metafora sul piano ontologico e metafisico: a suo parere, «pure la metafisica è un modello attraverso il quale si provoca la realtà nel tentativo di esplicitare in essa significati nascosti. In questo senso l’uso della metafora costituisce un impegno ontologico, è la via linguistica all’ontologia»29. Da notare è inoltre che riguardo il nesso immaginazione/linguaggio/metafora Rigobello scorge delle profonde analogie tra la posizione di Ricoeur e quella del suo maestro Stefanini: nel 1936 Stefanini pubblicò un volume – Imaginismo come problema filosofico –, nel quale viene espressa la concezione dell’interiorità umana come produttività creativa, come ἐνέργεια che trova il suo nucleo sorgivo nell’ “imaginismo linguistico”30. Veniamo ora all’elemento decisivo del confronto di Rigobello con Ricoeur, autore al quale – si ricordi – nel 2003 egli contribuisce a far conferire il “premio Paolo VI”, soprattutto per l’opera Soi-même comme un autre. É quest’ultimo uno dei volumi ricoeuriani che Rigobello considera tra i più validi e, sotto certi A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, cit., p. 108. 29 Ibidem, p. 109. Si veda anche A. RIGOBELLO, La "métaphore vive" nel pensiero di Paul Ricoeur, in Aa.Vv., Simbolo, metafora, allegoria, Liviana, Padova, 1980, p. 37-47. 30 Cfr. A. RIGOBELLO, L'imaginismo come metafora e come paradigma della persona in Luigi Stefanìni, in Aa.Vv., Dialettica dell'immagine. Studi sull'imaginismo di Luigi Stefanini, Marietti, Genova, 1991, p. 137-153. 28

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aspetti, tra i maggiormente “fondativi”: negli anni Novanta egli redige anche un commento di Sé come un altro per i seminari del dottorato dell’Università “Tor Vergata”. Innanzitutto Rigobello valorizza e, in qualche misura, fa propria l’istanza ricoeuriana di una filosofia che prenda le mosse non dall’ “io” che si autopone come verità epistemologica prima e fondante – come avviene in Cartesio, Kant e Fichte – ma dal “sé”: il “sé” – nota giustamente Rigobello – «si differenzia notevolmente dall’io. Dicendo “se stesso” (me stesso) mi colgo, per così dire, in una torsione prospettica, guadagno una qualche oggettività e posso interrogarmi su chi sia quel sé che parla, che compie l’azione o la patisce, che è il personaggio del racconto, che è il responsabile dell’azione considerata dal punto di vista del bene, dell’obbligazione morale. Mentre l’io tautologicamente si autopone, il sé può diventare tema per una ricerca articolata da compiere in un primo tempo con gli strumenti della filosofia analitica di derivazione anglosassone, ed indi con metodo ermeneutico secondo la tradizione continentale»31. All’interno dell’opera Sé come un altro Rigobello dà un valore fondamentale all’ultimo studio, il decimo, dal titolo Verso quale ontologia? Nella lettura di questo testo Rigobello insiste particolarmente su due aspetti: la “triplice forma di alterità” che costituisce l’intimo dell’uomo e la complessa ricerca di una “ontologia della persona”, basata sulla ripresa del significato aristotelico di essere come “potenza” (δύναμις/ἐνέργεια): tra la polisemia dei significati dell’essere messi in luce da Aristotele nella Metafisica – si ricordi l’adagio «τὸ ὂν λέγεται πολλαχῶς (l’essere si dice in molti modi)»32 – il filosofo francese, osserva A. RIGOBELLO, Intervento in occasione del conferimento a Paul Ricoeur del Premio Internazionale Paolo VI, cit., p. 26. 32 Sui quattro significati aristotelici dell’essere cfr. ARISTOTELE, Metafisica, E 2, 1026 a 32 - 1026 b 2. 31

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Rigobello, pone alla base della sua antropologia filosofica il significato dell’essere come “potenza” e come “atto” (ἐντελέχεια); è anche per questo che le sue indagini si concentrano intorno alle potenzialità (puissances), alle capacità creative dell’uomo aventi come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»33. Tuttavia tale fondazione ontologica del soggetto, ribadisce Rigobello, è solo un “ideale regolativo” della ricerca di Ricoeur e rimane comunque una delle questioni più problematiche del suo pensiero: quello ricoeuriano è un “pensiero itinerante e narrativo”, è una ricerca (σκήψις nei termini del linguaggio platonico) sempre in fieri e che non giunge mai a conclusioni ultime e definitive. Rigobello condivide anche la posizione ricoeuriana per la quale «l’alterità è nel cuore dello stesso»34 – cioè dell’ipséité – e si configura come presenza costitutiva della soggettività, della stessa identità personale. Il “come” presente nel titolo dell’opera (Soimême comme un autre) è, quindi, da intendere nel senso di “in quanto”. Lo stesso titolo dell’opera potrebbe essere chiarificato con la seguente espressione: “me stesso in quanto un altro”; ciò significa che la presenza dell’alterità diviene elemento costitutivo della mia stessa identità personale (si tratta di una sorta di societas in interiore homine). In particolare, nel decimo studio di Sé come un altro Ricoeur parla di un “tripode dell’alterità” presente nel 33

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421. 34 Cfr. D. IANNOTTA, L’alterità nel cuore dello stesso, saggio introduttivo a P. RICOEUR, Sé come un altro, cit., pp. 11-69. Sul “tripode dell’alterità” come costitutivo del sé si vedano anche A. RIGOBELLO, Impegno ontologico e maieutica dell'altro, in A. DANESE (a cura di), L'io dell'altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova, 1993, p. 61-74; A. RIGOBELLO, Identità e alterità in Paul Ricoeur, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di Filosofia», I, 15, 2006, pp. 131-138.

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soggetto. L’alterità si determina secondo tre diverse modalità: 1) in primo luogo, il “corpo proprio” (si tratta del Leib della prospettiva husserliana, cioè l’avvertimento coscienziale di essere in una corporeità che è “natura appartentiva”)35 – Rigobello parla anche della corporeità come “luogo dello stupore originario”36 –; 2) l’alterità dell’altro (le visage d’autrui su cui tanto si è soffermato anche Levinas); 3) l’alterità di Dio ovvero l’avvertimento in interiore homine di una presenza che ci trascende, che è in noi senza appartenere compiutamente a noi stessi, che ci supera e ci fonda. Per designare tale terzo tipo di alterità – interpretabile come la trascendenza divina nel cuore della soggettività – Rigobello ha usato la bella espressione di “estraneità interiore”, entrando in vivo dialogo con lo stesso Ricoeur: per il filosofo italiano «l’estraneità interiore è una presenza che non coincide con l’orizzonte del soggetto e tuttavia ci fonda ed insieme ci supera. Questa differenza interiore non è un’illusoria connotazione psichica, ma un dato ontologico. Il soggetto, infatti, è una realtà complessa, le cui varianti sono segni Ricordiamo che il Leib husserliano designa il “corpo vivente”, l’esperienza della corporeità così come viene esperita dalla coscienza. Come è noto, nel linguaggio fenomenologico il Leib è nettamente distinto dal Körper; quest’ultimo termine designa il “corpo” nei suoi elementi materiali e inanimati. Descrivendo l’esperienza del “corpo proprio” Ricoeur si confronta anche con la filosofia riflessiva di Maine de Biran e con la prospettiva fenomenologica di Michel Henry, fautore quest’ultimo di un’originale “filosofia della carne e dell’incarnazione”. A tal riguardo cfr. M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corp. Essai sur l’ontologie biranienne, PUF, Paris, 1965; si veda anche IDEM, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris, 2000; tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino, 2001. 36 Cfr. A. RIGOBELLO, La corporeità propria come luogo dello stupore originario, in M.M. OLIVETTI (a cura di), Incarnation, Cedam, Padova, 1999, pp. 295-306. 35

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allusivi ad uno statuto ontologico, di cui la differenza è, da un lato, testimonianza, dall’altro mediazione»37. Rigobello è però consapevole della “debolezza epistemologica” di questa prospettiva ricoeuriana basata, in larga misura, sulla “attestazione” e sulla “testimonianza interiore”. Seguendo Ricoeur egli sottolinea in tutti i suoi scritti, compresi gli ultimi, che l’affermazione di una “metafisica della soggettività” può emergere solo in seguito ad una “rottura metodologica”: si tratta di un’affermazione che è il frutto di una opzione esistenziale, di una “scelta di vita” che non si sottrae al “bel rischio” dell’interpretazione38. Sin dai suoi primi scritti Ricoeur parla esplicitamente di una «rottura metodologica nella continuità della riflessione»39: tale “rottura metodologica – commenta Rigobello – «è il rifiuto di omologare ogni ricerca culturale e filosofica in ispecie su un solo metodo. Vi sono molti metodi, come vi sono molte interpretazioni. In particolare il discorso di Ricoeur si riferisce all’abbandono del metodo trascendentale di fronte all’interpretazione del vissuto che richiede appunto un metodo ermeneutico»40. In particolare Rigobello riflette in profondità su un’affermazione fatta da Ricoeur in Finitudine e colpa, laddove il filosofo francese individua i limiti del metodo trascendentale A. RIGOBELLO, L’estraneità interiore, Studium, Roma, 2001, p. 153. Sul “bel rischio” dell’interpretazione, da intendere come adesione alla pienezza di senso religioso, si veda anche A. RIGOBELLO, El hermoso riesgo de interpretar, in M. AGÍS VILLAVERDE – C. BALIÑAS FERNÁNDEZ – F. HENRIQUES – J. VICENTE (Edición a cargo de), Hermenéutica y responsabilidad. Homenaje a Paul Ricoeur, Servizo de Publicacións, Santiago de Compostela, 2005, pp. 121-129. 39 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 623. 40 A. RIGOBELLO, Intervento in occasione del conferimento a Paul Ricoeur del Premio Internazionale Paolo VI, cit., p. 27. 37 38

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kantiano per una compiuta comprensione fenomenologica dell’humanum: «qui il kantismo ci abbandona: la sua Antropologia non è affatto la esplorazione dell’originario, bensì la descrizione dell’uomo nella prospettiva delle “passioni” e del dualismo etico»41. Rigobello e Ricoeur studiano a fondo Kant – Ricoeur si definirà persino «un kantiano posthegeliano»42 –, ma, come è stato già detto, si dimostrano concordi nel sottolineare i limiti del trascendentalismo, una prospettiva che dimentica “la parte più intima e più fragile della condizione umana”: quando i due filosofi si volgono alla esplorazione dell’originario (das Ursprüngliche) avvertono la necessità di una “rottura metodologica”. Tale “rottura dell’epistemologia trascendentale” – definita anche come coupure épistémologique (espressione liberamente tratta da Gaston Bachelard) – spinge il pensiero a un’interrogazione ulteriore, ad oltrepassare i limiti più rigorosi dell’indagine scientifica per avventurarsi nel “bel rischio dell’interpretazione”, il καλὸς ὁ κίνδυνος di cui parlava Platone nel Fedone (114 d): si tratta dell’interpretazione del senso stesso dell’esistere. Il risultato teoretico del confronto di Rigobello con Ricoeur emerge particolarmente in un volume edito nel 2007: L’apriori P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité. I. L’homme faillible, Aubier, Paris, 1960.; tr. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa, Introduzione di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 160. 42 P. RICOEUR, La critique et la conviction. Entretient avec François Azouvi et Marc de Launay, Calmann-Lévy, Paris, 1994, p. 129; tr. it. di D. Iannotta, La critica e la convinzione. A colloquio con François e Azouvi Marc de Launay, Jaca Book, Milano, 1997. Va messo in rilievo che anche quando Ricoeur si confronta con Edmund Husserl rimane comunque legato ad una forma mentis sensibile ai limiti kantiani della ragione: «Husserl sviluppa la fenomenologia ma Kant la fonda e la limita» (P. RICOEUR, Kant et Husserl, in IDEM, À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris, 2004, pp. 273-314, p. 273). 41

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ermeneutico. In questo breve ma densissimo testo il filosofo italiano, partendo dal presupposto che “pensare è interpretare”, cerca di andare alla genesi dell’atto ermeneutico, tenta cioè di “interpretare l’interpretare”: a suo parere «dalla riflessione sulla struttura e sulla dinamica dell’interpretazione […] emerge lo statuto ontologico, trascendentale della condizione umana»43. Per Rigobello la “domanda di senso”, ovvero l’esigenza da cui nasce ogni interpretazione umana di fatti ed eventi, costituisce l’apriori ermeneutico che determina la condizione umana: “l’uomo è fatto per il senso” e questo è un dato ontologico e trascendentale. Secondo Rigobello, anche quando la risposta all’interrogativo sul senso finale della realtà e dell’esistenza «fosse negativa rimane, come condizione trascendentale, l’inevitabilità della domanda»44. Quello sul senso è un interrogativo che l’uomo non può eludere: si tratta di una sorta di primum movens che ci dice qualcosa di essenziale e di universale sulla condizione umana. Rigobello ha sempre sottolineato e condiviso la grande differenza posta da Ricoeur tra la ragione filosofica e la fede religiosa, differenza essenziale di metodi e di contenuti: l’esercizio della ragione è e deve sempre rimanere autonomo nel suo esercizio, alieno da qualsiasi interferenza teologica. L’adesione alla fede religiosa è possibile solo dopo una necessaria “rottura metodologica” ed è una opzione ermeneutica che arricchisce la vita umana di un senso altrimenti inattingibile: la fede nel “totalmente Altro” – nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – è una scelta esistenziale, è la “risposta ad un appello” da vivere nell’autenticità e nel “pudore della testimonianza”.

A. RIGOBELLO, L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 6. 44 Ibidem. 43

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Concludo citando alcune incisive parole di Rigobello tratte da un saggio sulla proposta ermeneutica di Ricoeur ed incentrate sulla profonda connessione tra interpretazione e testimonianza: «Pensare è interpretare. Interpretare è testimoniare, ossia rendere evidente nella vita un valore che la trascende. […] É dare lo scacco alla comune visione opaca e banale del mondo per introdurvi la speranza di un significato»45; la libera adesione al messaggio agapico del Vangelo – afferma anche Ricoeur – esprime «la gioia del sì nella tristezza del finito»46.

IDEM, Paul Ricoeur e il problema dell'interpretazione, in V. VERRA (a cura di), La filosofia dal '45 ad oggi, ERI/Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino, 1976, p. 211-223, p. 221. 46 P. RICOEUR, Finitudine e colpa, cit., p. 235. Sull’ermeneutica ricoeuriana dell’esperienza religiosa si vedano anche A. RIGOBELLO, La comprensione filosofìca dell'esperienza religiosa da Blondel a Ricoeur, in F. BAZZANI e L. RUSTICHELLI (a cura di), La filosofia contemporanea di fronte all'esperienza religiosa, Pratiche, Parma, 1988, pp. 227-246; IDEM, El «pudor del testimonio» en Paul Ricoeur, in «Revista Anthropos», [fascicolo monografico dal titolo Paul Ricoeur. Discurso filosófico y hermeneusis], n. 181, Noviembre-Diciembre 1998, pp. 69-71. 45

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Appendice I Paul Ricoeur

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Homo capax: la mia prospettiva di antropologia filosofica e di impegno etico1

Arnaud Spire: Lei ha espresso in più occasioni una certa diffidenza verso il tentativo di spiegare un’opera filosofica attraverso la vita del suo autore. Lei pensa che un’opera come la Sua parli da sé stessa? Paul Ricoeur: Questo è un punto di vista dei lettori che non corrisponde pienamente al mio. Io avverto piuttosto il carattere frammentario del mio lavoro filosofico. Ognuno dei miei libri si articola intorno ad una questione ben determinata. Un approccio cronologico si può giustificare nella misura in cui ciacun opera procede a partire dalle questioni irrisolte della precente. Le faccio Con questo titolo ho tradotto in italiano un’intervista rilasciata da Paul Ricoeur ad Arnaud Spire il 21 aprile 1994. Il testo originale dell’intevista ha come titolo Esquisse d’un plaidoyer pour l’homme capable ed è stato pubblicato in un fascicolo speciale de «L’Humanité». Il testo francese dell’entretien è stato riedito in P. RICOEUR, Philosophie, éthique et politique. Entretiens et dialogues, Textes préparés et présentés par Catherine Golddenstein, Préface de Michaël Foessel, Seuil, Paris 2017, pp. 33-47. Tra parentesi tonde sono state indicate alcune emblematiche espressioni francesi utilizzate da Ricoeur nel testo originale e tipiche del suo linguaggio, mentre tra parentesi quadre sono state inserite alcune brevi n.d.t. (note del traduttore) che possono chiarire ulteriormente importanti riferimenti storico-concettuali fatti dall’autore. 1

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un esempio. La simbolica del male, seconda parte del tomo 2 della mia Filosofia della volontà, prende le mosse da una questione non risolta nel primo tomo, incentrato su Il volontario e l’involontario, e dove parlavo di una sorta di «volontà innocente», in ogni caso di una volontà nella quale la questio del bene e del male non si poneva ancora. La storia dell’umanità, dei popoli è tuttavia profondamente segnata dal male, ovvero da violenza, menzogne e oppressioni. Che questo elemento del male non fosse preso in esame in una filosofia del «Volontario» opposto all’«Involontario» mi è apparso insostenibile. Così mi sono approcciato al tema attraverso i miti che raccontano come il male sia entrato nel mondo. In particolare attraverso quei miti che sono all’origine della cultura occidentale. Interpretazioni di questi simboli e di queste grandi narrazioni (grands récits) esistevano già. Mi sono quindi confrontato con quelle interpretazioni dell’origine del male opposte alla mia, cioè quelle proposte da coloro che ho chiamato i «filosofi del sospetto» (les «philosophes du soupçon»). Ho considerato riduttive le interpretazioni di Marx, Nietzsche e Freud, riduttive nel senso che riportano a ritroso (en arrière). Riduzione alla base economica e sociale nel caso di Marx, riduzione agli istinti nel caso di Freud, e riduzione al vitalismo e al desiderio profondo nel caso di Nietzsche. Tutte queste forme di riduzionismo sono in conflitto con le interpretazioni amplificanti (interprétations amplifiantes) che si aprono verso una sorta di orizzonte del sacro. Arnaud Spire: Allora, secondo Lei, sia in Marx, Nietzsche o Freud il male è sempre concepito in una maniera riduttiva poiché viene ricondotto ad una causa unica. Mentre Lei ha sviluppato una concezione del male polimorfica e multiforme?

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Paul Ricoeur: La nozione di conflitto delle interpretazioni concerne i due termini dell’opposizione. Non si tratta di sostituire a una concezione del male troppo materiale o istintuale una concezione più spirituale. Il conflitto delle interpretazioni, di cui parlo, rende giustizia ad entrambi gli approcci. D’altra parte, una caratteristica generale del mio lavoro è sempre quella di pormi all’interno di uno snodo conflittuale (carrefour conflictuel). Provo ad oltrepassare ciò che c’è di più paralizzante in una posizione di oscillazione tra i due poli, nel senso che ciascuno dei miei libri è la ripresa degli aspetti lasciati irrisolti nel precedente. Si tratta di una concatenazione metà cronologica e metà dialettica. Io non cerco una mezza via, né una intermediaria. Io metto semplicemente l’accento sulla creatività di cui il linguaggio è portatore. Ed è per questo che la mia prospettiva si situa all’interno della «svolta linguistica» («tournant linguistique») che ha caratterizzato tutte le scuole filosofiche degli anni Sessanta e Settanta. Allo stesso tempo, ho trasferito il conflitto delle interpretazioni in un nuovo ambito di riflessione che permette di vedere i due aspetti della questione. L’aspetto regressivo (côté régressif) che mi sembra sia giustamente il fondo dell’immaginario umano. E anche l’aspetto prospettico (côté prospectif). L’immaginario umano è, allo stesso tempo, quell’aspetto che si potrebbe definire nolstalgico e quell’altro che si potrebbe definire profetico. È allora che ho iniziato a preoccuparmi del problema della metafora, vale a dire della sostituzione di una parola immaginifica al posto della parola ordinaria. Formulata in questi termini, la questione sembra essere limitata al funzionamento del linguaggio poetico. Ma mi è sembrato che la metafora era il punto focale della creatività nel linguggio. Tramite questo lavoro, ho voluto mostrare che il linguaggio non è semplicemente uno strumento teso a soddisfare i bisogni elementari della conversazione 445

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ordinaria, né che può essere ridotto al linguaggio scientifico, ma che è un rivelatore fantastico del volto nascosto delle cose e degli aspetti più nascosti della nostra esperienza profonda. Il linguaggio poetico è così in rottura con il linguaggio ordinario e con il linguaggio scientifico. Non si tratta di un linguaggio descrittivo che ci dice come è il reale, ma ci rivela degli aspetti del nostro mondo che sono come occultati dal quotidiano o dalla manovrabilità delle cose. Arnaud Spire: Intende affermare che il linguaggio è uno strumento che deborta il suo essere strumentale? Paul Ricoeur: Sì, certamente! A questo riguardo, io mi oppongo a un altro tipo di riduzione che riscontro nel filosofo tedesco Martin Heidegger: l’aver appiattito il linguggio scientifico sulle sue applicazioni tecnologiche, come se fosse la tecnica che divorasse la scienza! Occorre invece affermare il carattere totalmente disinteressato della scienza contro il carattere strumentale della tecnica. E questo non impedisce che il linguaggio scientifico «dica» il mondo sotto due condizioni: l’una è quella della conformità a ciò che si può osservare, e l’altra è la conformità alla coerenza logica. Sono proprio queste due regole dell’osservabile empiricamente e della coerenza logica che il linguaggio poetico infrange, facendo così “esplodere” il linguaggio. In sintesi, ho cercato di legare il carattere rivelatore del linguaggio poetico al suo carattere sovversivo. Il linguaggio scientifico ha la sua disciplina logica e la sua disciplina etica. La sua esigenza di rigore è la sua propria morale. La poesia è il linguaggio in festa (le langage en fête): ci dice degli aspetti del mondo e della mia partecipazione al mondo di cui altrimenti non avrei avuto contezza: è questo il carattere un po’ delirante del linguaggio poetico. Questa questione è stata trattata nel mio libro 446

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La metafora viva (éd. du Seuil, Paris, 1975; «Points Essais», 1997). L’aggettivo «viva» è estremamente importante, nella misura in cui il nostro linguaggio quotidiano è un grande cimitero di metafore morte. Così, il «piede» della sedia o il «passo» della montagna non sono che delle matafore percepite in rottura con il linguaggio ordinario e in questo gradualmente integrate. Direi che il poeta è il guardiano delle metafore inconvertibili e mai copiutamente integrabili nel linguaggio ordinario. Arnaud Spire: Tempo e racconto (1983-1985) è l’opera gemella de La metafora viva. In questo più recente volume ha ampliato al racconto e all’intreccio narrativo – e non più solamente alla metafora – il campo della creatività del linguaggio. Estendendo il Suo ambito di indagini a tutti i testi suscettibili di ricevere diverse interpretazioni, non si avvicina all’idea che tutto ciò che è umano tende ad eccedere e a trascendere la semplice esistenza materiale? Paul Ricoeur: La pluralità di significati caratterizza, nel profondo, ogni linguaggio che non sia strettamente descrittivo o logico. Ho preso in esame in Tempo e racconto – di nascita secondo, ma di concezione simultanea rispetto al volume sulla metafora – un altro versante della creatività del linguaggio umano. Non più il versante lirico, ma il versante narrativo. La mia idea è che la costruzione dell’intreccio narrativo nel racconto indichi e contrassegni la stessa capacità creatrice che ha l’invenzione delle metafore nell’ambito lirico. C’è quindi un parallelismo tra il potere creativo della metafora e quello dell’intrigo nell’ambito narrativo. Questo evidentemente mi ha portanto molto più lontano di quanto avessi previsto. Poiché il narrativo non riguarda semplicemente l’epopea, la tragedia o il romanzo, ma anche tutto l’ambito storico. Mi sono sforzato di sviluppare l’idea che l’arte di racconare (l’art de reconter) feconda una diversità di ambiti 447

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narrativi che vanno dalle fiabe alla grande narrazione della storia. Giunto a questo punto, la mia opera ha conosciuto una sorta di svolta (rebondissement). Ho provato a riunire tutti questi approcci e mi sono domandato, in Sé come un altro (éd. du Seuil, Paris, 1990) quale fosse il ruolo del soggetto in tutto questo. Ho tentato di far emergere gli elementi di convergenza tra il soggetto parlante, il soggetto agente, il soggetto narrante, il soggetto morale e il soggetto politico. Chi parla?, chi agisce?, chi racconta?, cui è responsabile?, chi è il soggetto politico? È così che sono giunto all’idea che può essere solo il soggetto-cittadino (sujet-citoyen) colui che può porsi la questione “chi?” in tutti gli altri ambiti. Arnaud Spire: Continuo a pensare che la Sua riflessione si sottragga a ogni esposizione meramente cronologica. Dal volume Storia e verità, apparso per la prima volta nel 1955, fino a Sé come un altro, edito nel 1990, Olivier Mongin, attualmente l’ultimo dei Sui biografi, afferma che con Lei il senso, «sacrificato sull’altare della storia […] è ridiventato una scommessa (pari)»2 . Tanto più che Lei ha integrato il lavoro sulla perdita del senso (travail du deuil du sens) quello sul lutto per la storia del soggetto… Non si è sempre posto, e all’inizio in maniera un po’ premonitrice, la questione di sapere se è possibile, allo stesso tempo, comprendere la storia passata e fare la storia in corso senza cedere allo spirito di sistema dei filosofi della storia? Paul Ricoeur: C’è sicuramente un primo livello, quello della storia in cui il soggetto è passivo e quello della storia in cui il soggetto è parte attiva. Proprio per questa giustapposizione non ho Olivier MONGIN, Paul Ricoeur, éd. du Seuil, Paris, 1994; «Points Essais», 1998.

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mai abbandonato la formula di Marx per il quale l’uomo fa la storia all’interno di condizioni che lui stesso non ha fatto. Questo aspetto, allo stesso tempo sia attivo che passivo, della partecipazione alla storia è costitutivo dell’essere umano in quanto essere storico. Un essere storico è, infatti, colui che allo stesso tempo subisce e fa la storia. Egli anzi crea la sua indentità in questa duplice relazione. L’altro livello è quello della storia degli storici. Quest’ultima quale grado di verità può pretendere? Questa storia può essa stessa essere presa in considerazione secondo differenti livelli. In primo luogo, uno stadio documentario. In secondo luogo, il livello delle storie nazionali, economiche, politiche e delle mentalità. Il terzo livello, quello dei «grandi racconti» («grands récits»), pone la questione di sapere se si possa considerare l’insieme storico dell’umanità come costituente un senso. Mi sono confrontato con questa propettiva nell’ultimo capitolo di Tempo e racconto, che ho intitolato «Rinunciare a Hegel». È vero che oggi noi viviamo in un epoca molto segnata dalla sospensione del senso globale. Questo è vero soprattutto dalla fine della guerra fredda e della grande politica bipolare che aveva ancora un’apparenza di razionalità. A questo proposito mi ricordo di un’affermazione dei miei amici storici che facevano i loro addii ad un centro di ricerca storica del tempo presente: «Se il secolo XIX ha conosciuto una categoria di “astuzia della ragione”, nel secolo XX siamo piuttoso soggetti alla categoria di “sorpresa della storia”». Io credo che oggi siamo molto più sensibili all’indeterminazione, che può essere sempre esistita, ma che era relativamente nascosta e mascherata dalle grandi visioni, dalle grandi sintesi della storia. Noi avvertiamo ancora degli isolotti di razionalità (îlots de rationalité), ma non abbiamo più i mezzi per situarli in un grande arcipelago di significati unici e inglobanti. Allora io penso che questo giustifichi una posizione molto più morale e volontaristica. In 449

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assenza di un senso dato e inglobante, bisogna imporre un senso al quale attingiamo dal nostro fondo morale. Giustizia, uguaglianza, lotta contro l’oppressione. Viviamo in un’epoca in cui, per la mancanza di un senso storico dato, è un senso morale imposto che solo può sostituire le grandi filosofie della storia. È questa la responsabilità del filosofo. La storia non può essere più compresa secondo una teleologia (una visione del mondo organizzato verso un fine), ma secondo una deontologia (insieme di regole etiche derivanti dalla posizione del soggetto). Arnaud Spire: Che spazio prende in questo passaggio da una concezione della storia all’altra la «elaborazione del lutto»? Paul Ricoeur: In Storia e verità, dopo gli avvenimenti di Budapest nel 1956, ho aggiunto un testo dal titolo «il paradosso del potere» («Le paradoxe politique»)3. Non è un caso che in un libro intitolato Histoire et vérité, sorge un terzo termine che è giustamente il politico come ambito di un conflitto maggiore tra il senso – che è dato dalla forma di Stato di diritto – e quel che resta di violenza in ogni Stato storicamente determinato. È a questo livello che si situa l’irrazionalità profonda di ogni potere. Nel mio lavoro, il concetto di paradosso del potere prende ormai il posto di quello di senso storico che conterrebbe una ingiuzione ipermorale. È a partire da qui che noi portiamo il lutto per Hegel al Si veda P. RICOEUR, Histoire et Vérité, Seuil, Paris, 1955, 20142. [Si veda che P. RICOEUR, Le paradoxe de l’autorité, in Aa. Vv., Quelle place pour la morale?, Desclée de Brouwer, Paris 1996, pp. 75-86; tr. it. di I. Bertoletti, Il paradosso dell’autorità, in «Hermenutica. Annuario di filosofia e teologia», 2002, pp. 93-107; lo stesso testo è stato pubblicato nella raccolta di saggi Il Giusto, Vol. 2, a cura di D. Iannotta, Effatà, Cantalupa (To) 2007. Cfr. anche L. Alici, Il paradosso del potere. Paul Ricoeur tra etica e politica, Vita e Pensiero, Milano, 2007, n.d.t.]. 3

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livello di una «elaborazione del lutto». Non si tratta di una lamentazione [cioè di una rammemorazione nostagica per la grande “filosofia della storia” di matrice hegeliana, oggi non più riproponibile, n.d.t.], ma di una spinta verso il futuro. Elaborare il lutto significa pertanto essere capaci di soprattivere agli oggetti perduti [alle grandi narrazioni di senso della modernità, n.d.t]. Arnaud Spire: Si può considerare Sé come un altro come una sorta di compimento del Suo lavoro filosofico? La Sua intenzione non è stata quella di far interagire l’apporto della fenomenologia di Husserl (discorso filosofico che verte sui vissuti coscienziali) con la filosofia francese, tramite una sorta di fenomenologia dell’azione? Si può chiaramente individuare in quest’opera la presenza di un nuovo registro filosofico caratterizzato dalla sostituzione della coppia concettuale «domanda-risposta» con la nuova coppia «appello-risposta»? Paul Ricoeur: Il nucleo teoretico fondamentale (le noyau organisateur) di Sé come un altro è l’idea dell’uomo agente e sofferente o, come ho affermato talvolta, dell’uomo capace [homo capax, n.d.t.]. Si tratta dell’uomo capace di parola, capace di azione, capace di promesse. Un uomo i cui atti sono coordinabili ai valori che lui stesso si è dato (valori potenzialmente attribuibili a sé stesso e a un altro rispetto a sé). A mio parere, questa nozione di uomo capace è divenuta assolutamente centrale, poiché essa permette di mettere strettamente in relazione, da una parte, ciò che si potrebbe chiamare un’antropologia – una sorta di descizione generale di ciò che è l’essere umano -, dall’altra, una morale, poiché l’uomo è essenzialmente un essere degno di rispetto dal momento in cui osservo in lui la capacità di essere lui stesso. Da questo punto di vista, io adotterei come prima massima della mia azione: ogni altra vita, grazie alle sue capacità, è tanto importante 451

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quanto la mia (toute autre vie, par ses capacités, est aussi importante que la mienne). Inoltre, ciò che caratterizza l’umanità dell’uomo, ciò che la rende degna di rispetto, non va individuato solamente in un punto di vista morale, ma anche sotto un profilo politico: la città è infatti il luogo di esplicitazione delle capacità umane. A questo proposito direi che c’è una massa innumerevole di uomini e di donne che, per me, non hanno un volto, ma innanzi ai quali io ho dei diritti e dei doveri. Questo è il livello delle istituzioni, cioè quello del potere e della politica. L’idea che ci sono due forme di alterità – il nostro prossimo (un autrui proche) che è quello dell’incontro e del dialogo, e un altro lontano (un autrui lointain) che è in rapporto a me nella e per l’istituzione – dovrebbe trovare il suo posto e la sua tematizzazione nella filosofia conteporanea. L’altro diviene troppo facilmente un tu impersonale [un oggetto, n.d.t], soprattutto quando le relazioni di amizia e di amore si sfaldano su un campo di alterità che mi conduce ai confini dell’umanità. C’è, a questo riguardo, una pagina molto bella ne La pace perpetua del filosofo tedesco Immanuel Kant, dove egli afferma che la pace implica una «ospitalità universale». Arnaud Spire: Vorrei interrompere la Sua riflessione e porLe una questione che mi non mi sembra priva di attualità. Sebbene alcune interpretazioni teleologiche di Karl Marx – del tipo «il comunismo è la società dei posteri che canteranno» – abbiano fatto nascere delle mostruosità dal punto di vista dell’emancipazione umana [lo stalinismo, n.d.t], Lei pensa che ci sia ancora un futuro per una deontologia che si rifescie a Marx come pensatore dei possibili (comme panseur des possibles)? Paul Ricoeur: Condivido con altri pensatori l’idea che l’opera di Marx sia stata come ricoperta dal marxismo [e per questo non 452

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compiutamente compresa, n.d.t.]. Questo è particolarmente evidente nel marxismo tedesco della Seconda Internazionale. E in fondo, ciè che ha fallito storicamente è proprio l’eredità di quel tipo di marxismo. Si tratta dell’ambito ideologico dove sono state inventate concezioni sciocche come quelle che riguardano l’opposizione tra «scienza proletaria» e «scienza borghese», «arte proletaria» e «arte borghese». E probabilmente anche l’idea che la politica, la morale e la religione siano delle «sovrastrutture». E in buona sostanza, l’idea che tutto sia ad un tempo struttura e sovrastruttura, a seconda del punto di vista dell’analisi. Il nostro problema è quello di sapere fino a che punto Marx è indenne da questa visione filosofica. La fine del marxismo ideologico – ovvero del marxismo utilizzato come giustificazione di un potere politico – ci fa leggere Marx in maniera molto simile a quella degli economisti che lui stesso ha criticato. In effetti, con Marx abbiamo tre questioni aperte! Innanzitutto, della sua economia resta qualche cosa di valido in un’età in cui la produzione non è più il prolungamento dello sforzo fisico umano – come erano invece le energie del secolo XIX –, ma è il prolungamento del cervello, della logica, con la cibernetica? Marx appartiene a un età tecnologica sorpassata? Oppure la sua opera racchiude una maniera di concepire il «lavoro vivente» che sarebbe ancora efficace? Io penso che bisogna approcciarsi a queste problematiche in una maniera molto libera, proprio adesso che non c’è più un diretto interesse di potere. Possiamo pertanto effettuare una rilettura libera e serena della sua opera come lo facciamo abitualmente per Spinoza o per Kant. Inoltre, più che sapere fino a che punto Marx sia indenne dalle devianze che si sono originate dal suo pensiero, occorre stabilire fino a che punto egli abbia reso giustizia alla specificità del politico. A questo proposito, dei dubbi mi sono venuti dopo gli avvenimenti dell’Europa centrale. Non c’è in Marx il pregiudizio 453

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(nel senso forte del termine) che non ci sia una storia propria del politico e che quest’ultima non sia che un effetto della storia dell’economia? Credo che degli importanti segmenti della storia europea non siano stati sufficientemente presi in considerazione. Mi riferisco, in particolare, alla storia delle città libere, italiane, fiammighe, anseatiche – e non solamente a quelle della democrazia parlamentare inglese. Ci può essere, forse, una storia propriamente politica della libertà che comprende ed incrocia quella dei rapporti tra il lavoro e il capitale. Per questo motivo, ci può essere un male politico specifico che non sia forzatamente l’espressione di un male economico legato allo sfruttamento. Quello specificamente politico è un male legato all’esercizio stesso del potere. Un certo silenzio di Marx su questo aspetto del male ha creato una sorta di breccia nella quale si sono insinuati [all’interno del marxismo divenuto ideologia di Stato, n.d.t.] degli usi della politica chiaramente machiavellici. Infine, al livello simbolico – che è quello dei segni, del linguaggio e delle norme – e che è a sua volta un livello fondatore, non si cade in un limite esplicativo (une limite d’explication) riferendosi a Marx [adottando in toto una prospettiva marxiana, n.d.t.]? Per esempio, se la meccanizzazione non si è sviluppata nel mondo antico, questo non è dovuto semplicemente al fatto che si utilizzavano gli schiavi, ma anche al fatto che a quell’epoca non si valorizzava il lavoro come espressione e mezzo di educazione e di formazione dell’uomo. Non è allorchè il lavoro diventa uno degli strumenti fondamentali per l’educazione del genere umano che la sua emancipazione diviene esigibile? Questa questione concerne il posto delle tecniche non solamente in rapporto al piano politico, ma anche in rapporto al piano simbolico. È proprio questo livello – [il simbolico, n.d.t.] che è stato il più occultato dal marxismo dopo Marx. Io accuso questo periodo come un periodo di occultamento 454

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delle risorse profonde dell’opera di Marx. Il suo contenuto essenziale è stato nascosto da una visione molto ideologica che ha servito da giustificazione a un potere che non era lui stesso fondato sui grandi testi di Marx. Arnaud Spire: In Sé come un altro, Lei utilizza il termine etica per indicare «la prospettiva di una vita compiuta» e quello di morale per indicare «l’articolazione di tale prospettiva all’interno di norme, caratterizzate ad un tempo dalla pretesa di universalità e da un effetto di coercizione»4. Lei scrive: «da te, mi dice l’altro, io mi aspetto che tu mantenga la parola data. E a te io rispondo: tu puoi contare su di me». Lei pensa così di essere giunto a sanare la contraddizione che si pone tra la pretesa di universalità dei diritti umani e dei doveri, e la singolarità di ciascuna persona? Paul Ricoeur: Noi abbiamo oggi dei modelli di universalità che non hanno niente a che vedere con quello proposto da Hegel o da ogni altra filosofia della storia. In particolare, noi abbiamo oggi quello del filosofo americano John Rawls, con la sua teoria della giustizia. O quello del filosofo tedesco Jürgen Habermas, con la sua etica del discorso e dell’argomentazione. È universale la capacità di argomentare, indipendetemente dal contenuto degli argomenti. Il problema non è più oggi quello di articolare l’universale e il singolare, l’universale astratto e lo storico. Questo dibattito trova una delle sue espressioni in occasione della rinascita dei nazionalismi. Da una parte, abbiamo un nazionalismo affascinato dalla ricchezza concreta del suo contenuto, dai suoi costumi, dalle sue pratiche, dalle sue convinzioni condivise, e al limite, dalla sua identità puramente etnica. Dall’altra, abbiamo P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 264.

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una concezione puramente astratta dell’universalismo che ci lascia insoddisfatti. Uno dei nostri grandi problemi contemporanei consiste nel dover raccordare questo universale astratto con la storia comunitaria. Da una parte, la tradizione del contratto sociale che è una realtà astratta, dall’altra quello delle comunità di condivisione che sono delle realtà concrete. Ci sono due parti del mondo dove questo dilemma non è stato tematizzato o dove non è stato persino nemmeno percepito. Che si tratti della Jugoslavia o di altri conflitti dello stesso tipo, manchiamo a questo riguardo di senso storico. Noi giudichiamo, per ciò che concerne la nostra era geo-politica, con una morale politica che è nata nel 1945. Noi abbiamo fatto allora una sorta di giuramento, implicito nell’Europa tutt’intera, che non ci si sarebbe più comportati come durante le guerre mondiali precedenti. Ma c’è una parte dell’Europa dove questo messaggio non è stato recepito. Essa continua quindi a comportarsi come noi ci siamo comportati fino al 1945. Penso anche all’Algeria, confrontata a due corruzioni etico-politiche che sono quelle del FIS [Front Islamique du Salut, n.d.t.] e dell’État-FLN [Front de libération nationale, n.d.t.]. In queste situazioni regressive, innanzi a grandi momenti di disastro, solo alcune persone fiduciose, solo alcune coscienze indomite sono in realtà latrici dell’avvenire civilizzato della società. Per me, la convinzione etica è la replica alla crisi: il mio posto mi è assegnato, la gerarchizzazione delle preferenze mi obbliga, l’intollerabile mi trasforma da fuggitivo o da spettatore disinteressato in uomo con forti idealità etiche che scopre creando e che crea scoprendo. La lucidità dello sguardo non ci dispensa dallo spendere energie nella protesta e dalla volontà di riparare le falle. Arnaud Spire: Il Suo pensiero filosofico mi sembra più basato su una reintrepretazione del repubblicanesimo di matrice kantiana 456

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che su un atto di fede religiosa. Infatti, se ciascun uomo deve essere considerato come avente in sé stesso il proprio fine e pertanto non essere trattato come un mezzo per dei fini esterni, questo non presuppone che le cose stiano diversamente nella realtà? Non si è domandato se l’impensato (l’impensé) di questo imperativo etico kantiano fosse, in ultima analisi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Paul Ricoeur: Nei stuoi scritti politici Kant parla della «insocievole socievolezza». Il diritto, sul piano giuridico, e lo Stato di diritto, sul piano politico, hanno la funzione di rendere possibile la coesistenza tra desideri e interessi spesso opposti. Il fatto che non ci si aggredisca con violenza gli uni gli altri, che si accetti di vivere insieme, costituisce un minimo consensuale (minimum consensuel). L’elemento conflittuale non è per questo assente dalla scena sociale: abbiamo infatti individualmente o collettivamente degli interessi divergenti. La società contemporanea è sempre più conflittuale poiché è sempre più complessa. La presenza del conflitto non è in sé e per sé un male, ma qualche cosa di strutturale in una società in cui la diversità dei progetti non cessa di ampliarsi: in questa situazione una regola del gioco per rendere possibile la coesistenza diviene sempre più urgente. Ma questo avvenire pone, d’altra parte, anche il problema assolutamente nuovo delle persone che sono state escluse dalle regole del gioco. Dall’esclusione emerge un tipo di povertà che non è affatto la stessa povertà del secolo XIX, che veniva misurata con gli stessi criteri con cui si misurava la ricchezza. Oggi l’escusione e l’inclusione sono in un rapporto incommensurabile. Voglio manifestare la mia inquietudine politica (mon trouble politique) innanzi all’aumento del numero di persone marginalizzate. Ci sono delle persone che sono completamente escluse, escluse dalla possibilità stessa di avere 457

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alternative. Questa è una situazione senza precedenti. Ho molto lavorato con persone come ATD Quart Monde [Aide à Toute Détresse - Agir tous pour la dignité du Quart monde, n.d.t.]. C’è attualmente una fascia di individui che non sono più membri del contratto sociale. Come poterli reintegrare? Aiutandoli a trovare un lavoro, un’abitazione? Ma precisamente cercare un lavoro o un alloggio suppone che si appartenga ancora al corpo sociale. Un grande problema si pone oggi alle società occidentali: è possibile integrare veramente tutti? Non so se questo problema si inscrive nella problematica marxista o se, al contrario, l’esclusione abbia preso il posto dello sfruttamento. Se così fosse, le stesse analisi sociali, le stesse diagnosi e le stesse terapie sono ancora valide? Arnaud Spire: Resta da sapere se l’esclusione prende il posto dello sfruttamento o se essa è la forma dello sfruttamento portata all’eccesso, qualche cosa come una riedizione moderna del vecchio concetto di Lumpenproletariat [definizione che Marx diede del sottoproletariato urbano, n.d.t.] sul quale sono state scritte cose contraddittorie… Paul Ricoeur: A questo proposito penso ad un testo che è stato fondatore rispetto alle sue [di Marx, n.d.t.] unilateralità e ai suoi eccessi. Si tratta del Manifesto del partito comunista del 1848. L’ipotesi è che i proletari fanno parte di un gruppo sociale che deve sapersi organizzare in una classe per entrare in lotta con le altre classi. La questione è che oggi gli esclusi non sono più capaci di essere una classe. Sono dei «fuori classe». Questo pone delle nuove problematiche concernenti la democrazia parlamentare, la democrazia maggioritaria. Esiste attualmente un numero sufficientemete grande di persone soddisfatte tale da non permettere più che gli svantaggiati diventino il centro di gravità di un’alternativa politica. Questo è per me motivo di una grave 458

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inquietudine. Avevo cominciato a pormi questi problemi negli anni del mio insegnamento in America. La capacità di assorbimento e inglobamento della società americana resta ancora importante: questo comporta che coloro che sono usciti dal sistema non costituiscono più un’alternativa. Considero pertanto molto positivamente il modo in cui ha funzionato il Partito democratico americano per molto tempo: ha cercato di dare alle minoranze una rappresentanza politca e di inglobarle nel tessuto sociale. Le minoranze erano così parte del sistema sociale. Oggi negli Stati Uniti un quarto della popolazione vive in una situazione di vera povertà. In Francia il problema dell’esclusione riguarda tutti i partiti di sinistra, compreso il Partito comunista; la domanda che si pone è pertanto la seguente: è attorno agli emarginati, ma appartenenti ancora al sistema, o a partire da quelli che sono ormai fuori del sistema che si prospetta la possibilità di raggruppare gli esclusi con gli inclusi che sono alla base della scala sociale?

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Appendice II La ricerca di una “grammatica della libertà”: itinerario e prospettive

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1. Poter comprendere la complessità dell’humanum: un intreccio di metodi La nostra formazione umana e intellettuale è caratterizzata sempre da incontri, incontri con libri e con persone. In queste pagine cercherò di indicare quali sono stati alcuni tra questi libri, persone e contesti che hanno maggiormente segnato il mio itinerario di ricerca sul piano filosofico e culturale. Raccontare sé stessi è impresa ardua, è un andare alle radici del proprio essere, è sicuramente un esercizio di autenticità. Come affermava anche Agostino, “siamo sempre enigma a noi stessi” e con il maestro d’Ippona anche io posso dire «nec ipse capio totum quod sum»1. Ed è un bene non conoscersi del tutto, rimanere ai margini della propria identità: questa rimane sempre e comunque un work in progress, un nucleo inoggettivabile che si forma nell’incontro con l’altro e che rimane costitutivamente aperta al novum. L’interiorità umana – il nucleo impalpabile del sé – corrisponde certamente alla memoria individuale (connessa, a sua volta, a una più ampia memoria storica e collettiva) ma, in qualche misura, supera ed eccede tali forme di memoria: la coscienza umana è, infatti, caratterizzata da uno sforzo ineludibile di autosuperamento (i romantici tedeschi parlavano di Streben). L’identità personale non è “vincolata” in toto alla propria memoria, non è mai completamente determinata dai vissuti e talvolta anche dai 1

AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, X, 8.

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drammi del proprio passato. L’identità è dunque caratterizzata da una dialettica imprescindibile tra determinazione e ulteriorità: la determinazione del passato, l’ulteriorità di una apertura al futuro, apertura garantita da quella che, a mio parere, è la caratteristica fondamentale della coscienza compitamente trasparente a sé stessa: la libertà. Con un autore francese dell’Ottocento, Jules Lequier, mi piace ripetere: liber sum, ergo cogito, ergo sum. Ogni attività teoretica e pratica, lo stesso esercizio della filosofia, non sarebbero realmente possibili senza un gesto di libertà, senza una libertà che è originaria e consustanziale al soggetto stesso2. L’essere umano è un être par la libertè et pour la liberté, è chiamato ad essere un «cittadino della libertà (Bürger der Freiheit)», secondo una incisiva espressione di Fichte ripresa e commentata anche da Ernst Cassier3. Il mio itinerario di studi filosofici intende pertanto sviluppare le categorie antropologiche di “essere-per-la-nascita” e di “inizialità”: come affermava giustamente anche Hannah Arendt contrapponendosi all’heideggeriano “essere-per-la-morte” (zum Tode Sein), la caratteristica fondamentale dell’umano è la sua capacità di Mi permetto di rinviare ai miei tre saggi Natura e libertà in Jules Lequier, in Antonio MALO (a cura di), Natura, cultura, libertà. Storia e complessità di un rapporto, Edusc, Roma, 2010, pp. 231-245; Determinismus der Natur und Freiheit des Geistes. Die Rezeption Fichtes in Frankreich und die Ursprünge des französischen Spiritualismus, in Helmut GIRNDT (a cura di), „Natur“ in der Transzendentalphilosophie. Eine Tagung zum Gedenken an Reinhard Lauth, Duncker & Humblot, Berlin 2015, pp. 373-406; La filosofia come “educazione alla libertà”. Un itinerario da Fichte a Blondel, in «Forum. Supplement to Acta Philosophica. International Journal of Philosophy», Vol. 1, 2015, pp. 143-185. 3 E. CASSIRER, Freiheit und Form. Studien zur deutschen Geistesgeschichte, Bruno Cassirer, Belin, 1916, p. XIII; tr. it. di G. Spada, Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale della Germania, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1999, p. 45. 2

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generare un novum rispetto all’ordine causale dei fenomeni naturali4. L’essere umano è un “essere volente” (ein wollendes Wesen) e grazie alle sue libere capacità produttive è in grado di strutturare un ordine di “oggetti culturali e simbolici”, un κόσμος di senso. Il mio itinerario di studi filosofici intende pertanto qualificarsi come una “grammatica della libertà” da intendere anche come “filosofia della cultura” e come una “ermeneutica della condizione umana”. Nei miei studi ho cercato e sto cercando sempre di unire l’indagine filologica e storiografica con precise finalità teoretiche ed etico-politiche: lo studio di autori e contesti non è mai fine a sé stesso ma si comprende alla luce di un più ampia prospettiva speculativa e di engagement, almeno intenzionale. La mia ricerca è caratterizzata pertanto da un intreccio di metodi, una sorta di platonica συμπλοκή τῶν μεθοδῶν, nella consapevolezza che la complessità dell’umano sfugge a qualsiasi forma di riduttivismo metodologico, sia esso di carattere scientifico, filosofico o teologico. I metodi che cerco di utilizzare sono essenzialmente tre: 1) una “filosofia riflessiva” di matrice agostiniana e cartesiana tesa ad indagare “la vita dello spirito” e le lacerazioni del proprio “paesaggio interiore”, quella che Ernst Bloch definiva come «la camera gotica dell’incontro con il sé»5. In questo tipo di indagine introspettiva cerco di lasciarmi ispirare anche dalle suggestioni provenienti dalla grande letteratura europea, tese a mettere in Questo tema – trattato da Arendt in Vita activa – è stato sviluppato in maniera apportuna anche nel volume di Alessandra PAPA, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt, Vita e Pensiero, Milano, 2011. 5 E. Bloch, Religion im Erbe. Eine Auswahl aus seine religionsphilosophischen Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1959; tr. it. di F. Coppellotti, Religione in eredità. Antologia dagli scritti di filosofia della religione, Queriniana, Brescia, 1979, p 132. 4

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evidenza la complessità della vita interiore e le sue intime contraddizioni. Come la Simone Weil de L’ombra e la grazia sono convinto che la contraddizione è parte ineludibile della natura umana: la sfida morale è quella di saper “abitare la contraddizione”, di saper operare una sintesi feconda tra gli aspetti dicotomici del proprio io. Il mio approccio alla natura umana è quindi, in primo luogo, di carattere realistico e si richiama ai grandi classici del realismo antropologico moderno, quali Machiavelli, Hobbes e soprattutto Montaigne e Pascal, tesi a sottolineare le pathétique de la condition humaine. Uno degli aspetti che più condivido della moralistica francese del CinqueSeicento è l’accentuazione della soggettività come prisma multiforme e dalle differenti sfaccettature. Posso pertanto far mie le parole con le quali Montaigne ha messo in luce la polisemia dell’io e gli aspetti contradditori del carattere umano: «se parlo di me in vario modo, è perché mi guardo in vario modo. Tutti i contrari si ritrovano in me per qualche verso e in qualche maniera. Timido, insolente; casto, lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, indolente; ingegnoso, stupido; dotto, ignorante; […] e chiunque si studi molto attentamente trova in sé […] questa volubilità e discordanza. Non posso dir niente di me, assolutamente e solidamente, senza confusione e mescolanza, né in una sola parola. Distinguo è l’articolo più universale della mia logica»6. 2) La seconda linea metodologica è quella di una filosofia trascendentale che si richiama, per molti aspetti, ai paradigmi di Kant, Fichte e Cassirer, paradigmi differenti ma uniti dalla comune ricerca di strutture trascendentali della soggettività. La ricerca di funzioni universali della produttività umana eleva la M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano, 1996, vol. I, p. 432. 6

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“filosofia riflessiva” al livello di una più solida indagine trascendentale: la fa trasfigurare in una anthropologia trascendentalis che consente di evitare i rischi sempre presenti dell’intimismo, dello psicologismo o del coscienzialismo. 3) Gli esiti del metodo riflessivo e di quello trascendentale, strettamente intrecciati, trovano una loro più ampia comprensione e rielaborazione in sede ermeneutica. Grazie ad una ermeneutica di carattere non riduttivistico l’indagine di carattere antropologico può giungere, a mio parere, a considerazioni di carattere ontologico, “alle soglie della metafisica”. Anche confrontandomi con la prospettiva di Paul Ricoeur, posso dire che l’ontologia del sé si configura come una “ontologia della produttività interiore”, una “ontologia dell’homo capax”: nell’essere personale vi è un nucleo sorgivo che è dinamicità e potenzialità, δύναμις ed ἐνέργεια, ciò che Ricoeur definisce bene come ««un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»7 sul quale si stagliano tutte le capacità creative umane. Tale dinamico fondamento ontologico rimane inoggettivabile ed è ciò che costituisce le mystère de l'homme: si tratta del Grund della libertas humana ed è un quid che sfugge a una comprensione esaustiva da parte delle scienze umane e sociali. 2. I miei maestri e i primi passi nella ricerca scientifica Il mio interesse per la filosofia risale agli ultimi anni del liceo classico. Gli anni delle prime letture: Platone, Agostino, Kierkegaard, ma anche Leopardi, Montale e Italo Calvino. Ricordo, in particolare, la lettura di Mon siècle, ma vie, nell’estate P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 19992, p. 421.

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seguita alla maturità classica: quel volume è rimasto una stella polare del mio cammino. Mi fu consigliato dal mio professore di filosofia al liceo di Spoleto, la città in cui sono nato il 4 settembre 1979. “Il mio secolo, la mia vita”: in questo libro, di estrema raffinatezza stilistica e spirituale, l’anziano Jean Guitton traccia il suo lungo itinerario di vita, parla degli incontri con i maestri che lo hanno segnato (Bergson ma anche persone umili e al di fuori dell’accademia) e si sofferma sui motivi che lo hanno condotto ad una fede religiosa profonda, ad un cattolicesimo capace di non chiudersi entro angusti confini confessionali. Quelli dell’adolescenza sono gli anni in cui, per la prima volta, si pongono le domande di senso e sorgono le prime inquietudini, certamente legate alla scoperta del sé e alle prime tumultuose relazioni affettive: sono le Verwirrungen der Gefühle, descritte con particolare efficacia narrativa da Stefan Zweig, Robert Musil e Thomas Mann, autori a me molto cari. Tuttavia devo riconoscere che la magna quaestio sull’enigma dell’esistenza si pose per me già negli anni dell’infanzia, segnata dalla drammaticità di un evento che ricordo ancora con commozione: la morte di un mio compagno di classe, ammalatosi improvvisamente di tumore e scomparso dopo pochi mesi. Il piccolo Francesco Falasca. Aveva 10 anni. A nulla valsero le preghiere. Ecco allora che entrò in me, ancora fanciullo, una domanda radicale e che mi assilla tutt’oggi: unde malum? Perché un Dio di amore e di misericordia, un Amor per se subsistens, ammesso che esista - permette la sofferenza degli innocenti? Devo ammettere che, dopo tanti studi anche di carattere teologico, non sono ancora riuscito a trovare una risposta convincente. Talvolta viene detto che nell’adesione alla fede religiosa i problemi dell’esistenza ricevono risposte tranquillizzanti e, in tal modo, l’inquietudine si placa. Nel mio caso, non è così. É proprio la fede cristiana il motivo di tante domande e di tanti dubbi. Come 466

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diceva bene Kierkegaard, «credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta [Mt. 7,14]. La via è buia»8. Dopo la maturità classica decisi di iscrivermi al corso di laurea in filosofia. Scelsi Roma, città cosmopolita in grado di offrire opportunità di lavoro unitamente ad esperienze di maturazione culturale. E scelsi l’Università Lumsa, dove mi pareva – almeno all’epoca – che ci fosse una particolare attenzione per lo studio dei classici. Era l’ottobre 1998, al secondo anno decisi di frequentare una materia che mi sembrava basilare rispetto alle altre discipline: antropologia filosofica. Questo corso era tenuto dal Prof. Armando Rigobello, che all’epoca aveva 77 anni ed era prossimo alla pensione. Fu questo uno degli incontri che più ha segnato il mio itinerario intellettuale e spirituale. Ricordo ancora con commozione la sua prima lezione: Rigobello, con uno stile pacato e in un linguaggio penetrante, ci parlò del dibattito tra Sartre e Lévy-Strauss a proposito dell’indagine antropologica: esistenzialismo versus strutturalismo, il primato spetta alla struttura – un trascendentale senza soggetto – o alla individualità nella sua concretezza storica? Naturalmente Rigobello ci proponeva una metodologia filosofica di carattere introspettivo ed incentrata sull’insuperabile singolarità dell’avventura umana. Rimasi affascinato da quel corso e da quel modo di presentare argomenti di notevole difficoltà teoretica. Rigobello concepiva la lezione non solo come comunicazione di saperi oggettivi ma come un incontro da “persona a persona”. Per lui la lezione era un’occasione di formazione integrale nel quale poter realizzare una autentica communio: docente e discenti esperivano il S. KIERKEGAARD, Diario 1853-1854, tr. it. di C. Fabro, vol. X, Morcelliana, Brescia, 1982, p. 194. 8

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movimento del pensiero nel suo farsi e questo conferiva ad ogni incontro un carattere innovativo e sperimentale. Questo stile paidetico si richiamava esplicitamente alla maieutica socratica e non era alieno da suggestioni gentiliane: del resto, Rigobello è tornato più volte a commentare le intense pagine di Giovanni Gentile filosofo dell’educazione. Ma all’Università Lumsa, oltre a docenti di valore come Marco Maria Olivetti, Dario Antiseri, Angela Ales Bello e Francesco D’Agostino ebbi occasione di frequentare per due annualità i corsi di filosofia del linguaggio tenuti da Donatella Di Cesare, una figura di alto profilo intellettuale, uno dei pochi laici all’interno di un ambiente – quello della Lumsa – eccessivamente clericale. Non nascondo che Di Cesare è stata una donna che ha suscitato in me un grande fascino: il suo stile rigoroso ma cordiale, il suo carattere forte e deciso e forse i suoi stessi difetti – le sue prese di posizione eccessivamente nette e unilaterali – mi attiravano. Suscitavano in me interesse e desiderio di approfondimento critico. Sarò sempre grato a Di Cesare per avermi fatto conoscere e apprezzare la cultura ebraica e soprattutto quegli intellettuali tedeschi del Novecento come Martin Buber, Hannah Arendt e tanti altri che hanno sofferto a causa dell’olocausto. A marzo 2003 discussi una tesi di laurea dal titolo L’immaginazione trascendentale in Kant e nei suoi interpreti; sotto la guida di Rigobello e di Di Cesare, uniti dall’interesse per la filosofia tedesca, ma certamente distanti dal punto di vita teoretico. Il tema kantiano dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) è stato oggetto di successivi miei saggi è presente ancora nelle mie ricerche: quello dell’immaginazione è infatti un tema di intersezione tra la filosofia della conoscenza, l’estetica, l’etica e la politica. Oltre a Kant gli autori ai quali più mi richiamo in queste ricerche sono Vico, Fichte, Cassirer, Arendt, Ricoeur e non da ultimo il filosofo 468

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italiano personalista Luigi Stefanini, autore nel 1936 di un importante volume, non ancora ampiamente valorizzato, dal titolo L’imaginismo come problema filosofico9. La facultas fingendi si origina dalla libera associazione di elementi provenienti dalla sensibilità – ciò che Kant nella Critica del Giudizio descrive come libera schematizzazione, ovvero «libero gioco delle facoltà» – e costituisce un ponte tra il teoretico e il pratico: il mundus imaginalis consente di trascendere la realtà empirica, di superare quello che Hans Blumenberg definisce «l’assolutismo della realtà»10. Come afferma Ricoeur, di tratta di operare un passaggio “dalla libertà dell’immaginazione all’immaginazione della libertà”. L’immaginazione diviene pertanto l’organo stesso del costruttivismo politico e dell’utopia: è la facoltà in grado di farci ipotizzare, almeno mentalmente, nuovi stili di vita, nuovi mondi possibili, modi inediti di essere al mondo. Gli stessi concetti cardine con cui John Rawls articola il suo discorso politico innovativo scaturiscono da un’immaginazione in grado di ripensare l’ordine sociale ab imis fundamentis: come è noto, mi riferisco alla forza euristica di quell’esperimento mentale costituto dai concetti di “posizione originaria” (original position) e di “velo di ignoranza” (veil of ignorance), elaborati nel celebre volume A Si vedano i miei due saggi: Ermeneutica dell’imagine in Luigi Stefanini, in Aa. Vv., “Esperienza – Persona – Società” in Edith Stein e Luigi Stefanini, Editrice Prometheus, Milano, 2004, pp. 337-355; Ermeneutica, ontologia e linguaggio in Luigi Stefanini e Paul Ricoeur. Un possibile confronto, in Aa. Vv., Arte e linguaggio in Luigi Stefanini, Editrice Prometheus, Milano, 2008, pp. 303-337. 10 H. BLUMENBERG, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1979; tr. it. di B. Argenton, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 25. Opponendosi al realismo ingenuo di matrice positivistica, Blumenberg afferma giustamente che «il rapporto dell’uomo con la realtà è indiretto, circostanziato, differito, selettivo e soprattutto metaforico» (H. BLUMENBERG, Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 95). 9

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Theory of Justice del 1971. Non da ultimo, grazie alle capacità della facultas imaginadi l’uomo è in grado di rinnovare gli usi del linguaggio e di produrre metafore inedite, di descrivere il reale conferendo ad esso un nuovo spessore semantico11. Una tappa fondamentale del mio itinerario di studi è stato sicuramente il soggiorno di oltre due anni in Germania, a Monaco di Baviera. Dal 2006 al 2008 ho avuto occasione di imparare bene il tedesco e soprattutto di venire a contatto con due ambienti ricchi di stimoli sul piano culturale e speculativo: la LudwigMaximilians Universität e la Bayerische Akademie der Wissenschaften. In quest’ultima istituzione ebbi la fortuna di frequentare i seminari tenuti ogni giovedì da Reinhard Lauth, figura dal grande spessore teoretico e promotore nel lontano 1962 della Gesamtaugabe di Fichte, giunta al termine nel 2012 con ben volumi. L’incontro con Lauth fu mediato dal Prof. Marco Ivaldo, il mio Doktorvater al quale ancora sono ancora ampiamente riconoscente. In un tempo come il nostro, sostanzialmente scettico e comunque sospettoso nei confronti delle grandi costruzioni concettuali, Lauth ha avuto il coraggio speculativo di proporre un “rinnovamento della filosofia trascendentale” ispirandosi a Cartesio, Kant, Salomon Maimon e Fichte, ma andando al di là delle mere ricostruzioni storiografiche. Sulla scorta di un’attenta lettura dei testi e dell’epistolario, Lauth scorge in Cartestio “un sistema della libertà” fondato su una concezione del cogito quale voluntas-in-actu. Tra il Descartes delle Meditationes e dei Principia philosophiae e il Fichte della Wissenschaftslehre nova methodo vi sarebbe, quindi, una profonda affinità speculativa e una sostanziale continuità di ricerca: per entrambi i filosofi Su questo tema si veda il mio contributo: Paul Ricoeur: il linguaggio metaforico come espressione di libertà creativa, in «FormaMente. International Research Journal on Digital Future», Issue 2, 2019, Supplement, pp. 319-339. 11

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«penser e vouloir» - così Lauth - «sono all’opera sempre in unione sintetica nell’atto fondamentale del cogito»12. A suo parere, sia in Descartes che in Fichte si può chiaramente individuare che «la volontà costituisce essenzialmente, cioè in maniera immanente, il giudizio, sicché, già in quello che altrimenti si considera un procedimento esclusivamente teoretico, il volere assolve un ruolo co-producente»13. Da Descartes e da Fichte sarebbe possibile far emergere una fondamentale costituzione pratica della realtà nella quale il “figurare” (Bilden) da parte del cogito non è solo un processo dell’intelletto ma anche e soprattutto della volontà: «il vedere e il sapere è insieme e al tempo stesso sempre realizzazione di un volere fondante - e queste due cose in unità sono “figurare” (Bilden)»14. Nella sua Transzendentalphilosophie Lauth conferisce un valore essenziale ai costitutivi pratici della coscienza e segnatamente alla volontà: la coscienza è sempre un processo formativo, è voluntas-in-actu e il momento etico sorge in essa grazie ad un appello (Aufforderung). Si tratta di un appello – Du sollst! – proveniente dal volto dell’altro nel quale riconosco le mie stesse caratteristiche costitutive – razionalità e libertà –; ed è un appello proveniente da una trascendenza esperita in interiore homine: l’uomo divino che è in noi, il göttlicher Mensch in uns di cui parla anche Kant nella Critica della ragion pura. Quello teorizzato da R. LAUTH, Descartes’ Konzeption des Systems der Philosophie, Frommann Verlag - Günther Holzboog, Stuttgart – Bad Cannstatt 1998; tr. it. e cura di M. Ivaldo, Descartes. La concezione del sistema della filosofia, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 318. 13 Ibidem, p. 317. 14 Ibidem, p. 318. Una ricostruzione sintetica della prospettiva storiografica e teoretica dell’autore tedesco viene svolta nel mio scritto In memoria di Reinhard Lauth, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», vol. XVIII/1, 2008, pp. 165-167. 12

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Lauth è quindi un paradigma di filosofia trascendentale caratterizzato da un forte primato del pratico (il tema della volontà) e dall’intersoggettività o meglio – come preferisce Lauth – dalla interpersonalità (Interpersönlichkeit). Durante il periodo di studi in Germania ho portato a termine la stesura della tesi per il dottorato di ricerca (PhD), conseguito a Lecce presso l’Università degli Studi del Salento, sotto la supervisione paterna e sollecita del compianto Prof. Mario Signore. Nella dissertazione presi in esame alcuni manoscritti di uditori di Fichte – tra i quali i testi di Karl Christian Friedrich Krause – non tradotti in italiano e risalenti al periodo del insegnamento fichtiano a Jena (1794-1799): si trattava delle Kollegnachschriften aventi come titolo tedesco Wissenschaftslehre nova methodo e come titolo latino Fundamenta philosophiae transscendentalis. I materiali della dissertazione per il PhD sono stati la base di un volume, pubblicato nel 2012 presso Editori Riuniti, che per me costituisce ancora oggi un punto di riferimento importante: I fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico. In questo testo e in alcuni contributi successivi ho messo in evidenza le differenze fondamentali tra la filosofia trascendentale di Kant e quella elaborata da Fichte: secondo quest’ultimo, il progetto kantiano teso a stabilire i limiti epistemologici del sapere rimane una «speculazione fiacca»15, “fiacca” poiché non riesce a giungere all’affermazione del «principio genetico»16 del sapere, alla radice originaria del mondo sensibile e del mondo intelligibile. Fichte 15 J.G. FICHTE, Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804 vom 16. April bis 8. Juni, hrsg. von R. Lauth, J. Widmann, P. Schneider, Meiner, Hamburg 1986, p. 28; tr. it. e cura di M.V. d’Alfonzo, Dottrina della scienza. Seconda esposizione del 1804, Presentazione di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano, 2000, p. 85. 16 Ibidem

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propone, quindi, ai suoi uditori la dottrina della scienza come una “costruzione concettuale” da edificare gradualmente in interiore homine per giungere alla «visione che (Eisicht, dass), a fondamento del mondo sensibile ed intelligibile, ci sia […] un principio genetico (ein genetisches Prinzip)»17. Questo “principio genetico” nella Dottrina della scienza nova methodo viene individuato da Fichte nel “volere puro” (§ 13), sostrato del mondo intelliggibile e condizione di possibilità della conoscibilità stessa del mondo sensibile. Nel concetto di “volere puro” ci pare vi siano le ragioni più profonde per le quali egli definisce la sua filosofia come “sistema della libertà” (System der Freiheit). In tale sistema Fichte ha inteso “schematizzare lo schematizzare” (schematizieren das Schematizieren), ovvero dedurre geneticamente da un unico principio (pratico-teoretico) i due punti innanzi ai quali la filosofia critica kantiana si era arrestata: lo schematismo trascendentale, considerato come “arte celata nel profondo dell’anima umana”, e la libertà considerata “fatto della ragione” (Faktum der Vernunft) non ulteriormente deducibile18. Nel 2008 dopo il conseguimento del PhD tornai a Roma ed ottenni un ruolo di ricercatore in “Filosofia politica” presso l’Università degli Studi “Guglielmo Marconi”, caratterizzata dallo svolgimento delle lezioni in modalità telematica. Attualmente presso questo ateneo sono professore associato di “Filosofia 17

Ibidem Su questo tema si vedano i miei saggi Il concetto di volere puro in J.G. Fichte. Analisi del § 13 della Wissenschaftslehre nova methodo, in Alessandro Bertinetto (a cura di), Leggere Fichte, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009, pp. 49-86; La filosofia trascendentale come “scienza della libertà”: la prospettiva di Fichte nella Dottrina della scienza nova methodo (1796-1799), in «Fogli di Filosofia» [Pubblicazione della Scuola Superiore di Studi in Filosofia – Università di Roma “Tor Vergata”], 7, 2015, pp. 23-59.

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politica” e docente incaricato di “Storia della filosofia moderna”; a luglio 2020 mi è stato affidato anche l’incarico – indignus sum – di Direttore del Dipartimento di Scienze umane. In questi anni contemporaneamente alle attività telematiche presso l’UniMarconi ho avuto incarichi di docenza annuale presso la Pontificia Università Antonianum, dove anche attualmente tengo corsi di “Ermeneutica filosofica”. 3. I più recenti sviluppi della mia Forschung e il mio approccio alla “filosofia della persona” In questi ultimi anni la mia ricerca si è concentrata anche su alcuni momenti significativi della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento: il pensiero di Rosmini ma soprattutto filosofi come Luigi Stefanini e Augusto Del Noce19. L’interesse per Del Noce è nato dalla frequentazione di un ciclo di seminari all’Istituto Luigi Sturzo, dove ebbi il piacere di conoscere Paolo Armellini, profondo conoscitore del pensiero delnociano che mi ha prontamente sollecitato allo studio dell’autore. In Del Noce, al di là di alcuni eccessi di slancio apostolico e confessionale, ho trovato la possibilità di studiare la modernità sotto differenti punti di vista, alternativi rispetto alla linea di pensiero franco-tedesca “da Cartesio a Hegel”20. Del Noce è stato un attento studioso dei Si veda il mio volume Filosofia e cristianesimo nell’Italia del Novecento, Presentazione di Armando Rigobello, Drengo Edizioni, Roma, 2012. 20 Indico alcuni miei saggi dedicati all’autore italiano: I totalitarismi come "religioni secolari": le proposte storiografiche di Augusto Del Noce, in G. Lingua (a cura di), Secolarizzazione e presenza pubblica della religione, Pensa MultiMedia Editore, Lecce 2015, pp. 223-234; Genealogie del moderno e secolarizzazione: la prospettiva filosofica di Augusto Del Noce, in Onorato Grassi e Massimo Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel 19

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processi di secolarizzazione e ha avuto il grande merito di valorizzare quei pensatori moderni che non rifiutano a priori la trascendenza ebraico-cristiana e che propongono una visione antropologica realistica, incentrata sulla presenza ineludibile del male nella condizione umana, ciò che i Padri della chiesa latina chiamavano status naturae lapsae. Inoltre, una peculiarità dell’approccio delnociano alla filosofia da me pienamente condiviso è la ricerca di una stretta connessione con la storia: quest’ultima è il Sitz im Leben, il “terreno vitale originario” da cui si generano pensiero rammemorante e riflessione critica. Seguendo la forma mentis delnociana e un atteggiamento, in fondo, tipico del pensiero italiano – “dall’umanesimo a Vico, per arrivare fino a Croce e a Eugenio Garin” – ritengo che la filosofia sia da intendere come “sapere storico”: un sapere che si genera nella storia e che è teso ad una comprensione razionale della storia stessa, ovvero a trasformare le res gestae in concetto. Questo salutare contatto con la storia e con le realtà politiche evita alla filosofia due eccessi che potrebbero rivelarsi nefasti: un logicismo astratto tipico di certe forme di filosofia analitica angloamericana che finiscono quasi per disinteressarsi dei problemi sociali più concreti e uno storicismo assoluto che potrebbe avere Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive, Mimesis, Milano 2015, pp. 261-301; La secolarizzazione moderna e «il problema Rousseau» nell’interpretazione di Augusto Del Noce, in «Studium Personae. Rivista di Teologia, Filosofia e Scienze Umane», anno 10, n. 1-2, 2019, pp. 67-100. Per comprendere lo stesso rapporto dell’indagine filosofica con le vicende storico-politiche del Novecento è di particolare importanza il carteggio intrattenuto da Del Noce con lo storico tedesco Ernst Nolte. Sulla complessa e discutibile prospettiva noltiana ho sviluppato un saggio critico: La Rivoluzione bolscevica e la dialettica dei totalitarismi: potenzialità e limiti della «storiografia transpolitica» di Ernst Nolte, in Marco Stefano Birtolo (a cura di), Rivoluzioni, Quaderno monografico della rivista on line e cartacea «Politica.eu», 2019, pp. 92-132.

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degli esiti scettici e persino nichilistici. Condivido pertanto l’attuale sensibilità internazionale tesa a riscoprire e a valorizzare una Italian Theory, una “via tipicamente italiana alla filosofia”. Ritengo tuttavia che resti problematico definire in maniera univoca cosa si possa intendere per Italian Theory, data la varietà e le enormi differenze di atteggiameni filosofici espressioni legittime della cultura italiana. La nostra epoca è spesso definita come “l’epoca dei post-”: si è parlato e si continua a discutere di “postmodernismo”, “postumano”, “poststrutturalismo”, “postdemocrazia”, ecc. Di certo la nostra è un’epoca segnata da un generale congedo nei confronti dei grandi miti, metanarrazioni e ideologie che hanno segnato l’epoca moderna e il Novecento. Nel mio lavoro di ricerca sto cercando di far emergere una visione della filosofia come “etimologia culturale” avente una forte carica de-mitizzante ed emancipatoria. La pratica filosofica consiste certamente in un attento scavo genealogico dei due elementi portanti della nostra Weltanschauung occidentale: i concetti e le metafore. Concordo con Reinhart Koselleck nell’intendere la ricerca filosofica una lavoro di “storia dei concetti” (Begriffsgeschichte), concordo anche con Hans Blumenberg nel sottolineare che la filosofia deve occuparsi anche di un “mondo di senso” che è a-concettuale ma non irrazionale, e che si esplica in metafore aventi un fortissimo valore orientativo pratico e teoretico. La filosofia è da intendere pertanto anche come studio di quelle metafore che hanno caratterizzato la cultura occidentale (Philosophie als Metaphorologie) e come analisi delle mitologie nelle quali tutt’ora siamo immersi: un mio filone di ricerche di questi ultimi

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anni ha quindi come oggetto la mitologia politica e il fascino seduttivo dei miti21. Tuttavia a mio parere la filosofia non può essere solamente opera di “genealogia dei concetti” o una forma di “etimologia culturale”. La pratica decostruttiva è un lavoro analitico pregevole, ma rischia di rimanere sterile e fine a sé stesso se non è accompagnato da un’indagine propositiva in sede teoretica. Concordo pertanto con Gilles Deleuze quando sostiene nei suoi ultimi scritti che la filosofia è e deve cercare di essere “creazione di concetti”: in questa prospettiva il filosofo – come del resto l’artista e lo scienziato – è un Sinngeber un “donatore di senso” innanzi ad una realtà che altrimenti non trova in sé stessa una intrinseca finalità: «Chiediamo soltanto un po’ di ordine per proteggerci dal caos. […] La lotta con il caos che Cézanne e Klee hanno mostrato in atto nella pittura, nel cuore della pittura, si ritrova sotto altre forme, nella scienza e nella filosofia: si tratta

21 Questo mio filone di ricerche prende le mosse dalla lettura de Il mito dello Stato di Cassirer, opera postuma del 1946, e si confronta con le prospettive di autori più recenti quali Furio Jesi e Nicolao Merker. Di quest’ultimo mi pare rilevante il contributo dato alla decostruzione delle mitologie politiche moderne e segnatamente all’endiadi Blut und Boden (sangue e terra), tipicamente germanica e matrice di un violento nazionalismo. Su questo tema mi permetto di rinviare al mio contributo “Ideologia della nazione” e “populismo etnico”. Le riflessioni storicofilosofiche di Nicolao Merker, in R. Chiarelli (a cura di), Il populismo tra storia, politica e diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, pp. 109-137. Dedicato alla decostruzione della “mitologia marxista” è invece il mio saggio Sguardi francesi sulla dialettica marxista: Merleau-Ponty, Sartre, Raymond Aron, in «Areté. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», 4, 2019, pp. 197-236.

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sempre di vincere il caos tramite un piano secante che lo attraversi»22. La pars construens del mio itinerario di studi e il filo rosso che unifica le mie incursioni in differenti ambiti di indagine filosofica può essere individuato nel tentativo di risemantizzare il concetto persona umana. Tale concetto, nella sua complessa stratificazione storica e nelle sue molteplici declinazioni speculative ed eticopolitiche, si staglia quindi sullo sfondo di tutte le mie ricerche e, in qualche modo, ne costituisce il trait d’union. Come è ormai evidente, viviamo in un’epoca di “emergenza antropologica”: psicologia sperimentale, neuroscienze, biologia evoluzionistica e nuove tecnologie ci hanno costretto a riconsiderare ab imis fundamentis che cosa è l’uomo, ci hanno spinto a risemantizzare il concetto di persona e a mettere in dubbio se sia ancora legittimo parlare di una “natura umana” e della sua presunta specificità. Nell’attuale contesto speculativo, inevitabilmente caratterizzato da un primato delle scienze sperimentali e da rinnovate forme di naturalismo, si ripropone con ancora più radicalità il celebre interrogativo kantiano: «Che cosè l’uomo? Was ist der Mensch?». Di questo era ben consapevole anche Max Scheler, il quale ha messo chiaramente in evidenza come la crisi di conoscenza di sé da parte dell’uomo costituisca uno dei tratti più drammatici dell’epoca moderna e segnatamente del Novecento: «in nessun altro periodo della conoscenza umana – sottolineava Scheler – l’uomo è divenuto così enigmatico a se stesso come ai nostri giorni. […] Abbiamo una antropologia scientifica, una antropologia filosofica e una antropologia teologica che si ignorano a vicenda. Così non possediamo una qualche idea G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu'est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris, 1991; tr. it. di A. De Lorentis, a cura di C. Arcuri, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 20023, p. 205. 22

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concreta di quel che l’uomo é. Nella loro sempre più grande molteplicità le discipline particolari applicatesi allo studio dell’uomo, più che chiarirne il concetto lo hanno oscurato e reso poco comprensibile»23. Con Ernst Cassier e Paul Ricoeur, autori da me intensamente letti e stimati, concordo nell’istanza di ridefinire la persona umana in termini di capabilities: l’uomo è un animal symbolicum e la specificità della persona rispetto agli altri enti dell’ordo naturae consiste nel formare un mondo di senso grazie alla sua interiore libertà produttiva, alle sue capacità: poter parlare, poter agire, poter far memoria e raccontare, poter riconoscere l’altro nella sua dignità insopprimibile e poter imputare a sé stesso le proprie azioni e le proprie responsabilità etico-giuridiche. L’uomo grazie a questa sua costituiva libertà produttiva sfugge a qualsiasi rigido determinismo e può pertanto essere definito come homo capax24. Il tentativo lodevole di Ricoeur è stato quello di “liberare la libertà” da tutte quelle visioni ideologiche dell’umano che hanno cercato, in qualche modo, di negarla o sminuirla. Il grande merito di Ricoeur è stato quello di aver saputo rinnovare la tradizione personalistica tipicamente francese (si pensi al suo maestro Emmanuel Mounier), reinserendola con solidità di argomenti nel dibattitto epistemologico contemporaneo e nelle più recenti M. SCHELER, Die Stellung des Menchen im Kosmos, conferenza tenuta a Darmstadt nel 1927; tr. it. di R. Padellaro, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma, 2006, pp. 117-118 [trad. ital. In parte da noi modificata sulla scorta del testo originale tedesco]. 24 Cfr. il mio saggio Homo symbolicus et homo capax. In dialogo con Ernst Cassirer e Paul Ricoeur sulle capacità simboliche e creative dell’uomo, in Luís António Umbelino – Federica Puliga – Antonio B.M. Lima (a cura di), Caminhos Contemporâneos da Antropologia Filosófica / Percorsi contemporanei di antropologia filosofica, Editora Fi, Porto Alegre (RS), 2019, pp. 215-260. 23

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discussioni etico-politiche. Condivido e faccio mia, pertanto, l’affermazione di Ricoeur per il quale «se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»25. Uno degli elementi che mi preme sottolineare è che nel concetto stesso di persona è insito quello di relazione: la persona umana è infatti una relatio transcendentalis, è costitutivamente un “esserein-relazione”. L’identità personale si costituisce come relazione e nella relazione (con sé stesso e la propria corporeità, con gli altri, con la trascendenza divina). Del resto, va sottolineato che nello stesso etimo greco di persona – πρόσωπον che letteralmente indica “sguardo rivolto verso l’alterità” – sia presente un implicito richiamo alla dimensione interpersonale e comunitaria: «il termine greco prósopon – che designava la maschera dell’attore – significa letteralmente “volto”, “aspetto”, che, unito alla particella pros (verso), include la correlazione [cioè il rapporto con l’alterità] come qualcosa di costitutivo»26. Questa visione dell’identità personale come una “identità-in-relazione” mi sembra che sia condivisa da tanta parte del pensiero contemporaneo, lontano ormai dalla orgogliosa affermazione illuministica dell’uomo come “autonomia assoluta” (absolute Selstständigkeit): il soggetto umano, come sottolineava tra gli altri anche Romano Guardini è “un essere finito” (ein endliches Wesen), la sua fragilità e vulnerabilità lo rendono sempre “un essere bisognoso di alterità”. Nel Novecento, anche in seguito alla tragica esperienza della Shoah, sono stati soprattutto pensatori di origine ebraica (come, ad esempio, Martin Buber ed Emmanuel 25

P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119; tr. it. di I. Bertoletti, Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, cit., pp. 21-36, p. 27. 26 M. IVALDO, Persona umana e natura umana, «Annuario di filosofia», 2007, pp. 215-234, p. 223.

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Lévinas) ad aver messo in evidenza la necessità di una costitutiva interazione ontologica ed etica tra l’io e il tu, sottolineando gli esiti nefasti di visioni antropologiche fondate sulla libido dominandi – la nietzscheana “volontà di potenza” – o sulle categorie identitarie di “amico/nemico” (Freund/Feind) teorizzare da Carl Schmitt. Mi pare, inoltre, che il paradigma della persona come “relazione costitutiva” possa trarre anche dalla teologia cristiana un fecondo modello di riferimento: “pensare la Trinità” è, in fondo, pensare l’essenza stessa della relazione, il suo doveressere ideale. Il dinamico rapporto d’amore che caratterizza le tre Persone divine (la περιχώρησις di parlano i Padri della Chiesa greca e lo stesso Agostino nel De Trinitate) è anche l’ideale metastorico e trascendente che può orientare gli stessi rapporti umani: si tratta del paradigma dell’ἀγάπη, un amore oblativo, totale e gratuito. In seguito ai grandi flussi migratori che si stanno riversando sull’Europa e segnatamente in Italia, il tema dell’ospitalità è diventato di urgente attualità, divenendo “consustanziale” al tema stesso della relazione interpersonale. La figura del migrante che bussa alla nostra porta chiedendoci accoglienza, spesso ci inquieta e mette in discussione nelle nostre certezze culturali ed economiche: come, tra gli altri, ha sottolineato Tzvetan Todorov, «la paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari»27. A mio parere nel concetto stesso di persona e nel suo correlato assiologico – la dignitas personae – si trova una “universalità valoriale e normativa” in grado di superare gli egoismi nazionalistici e gli integralismi identitari creatori di muri: partendo dalla celebre affermazione di Antonio Rosmini per la T. TODOROV, La Peur des barbares: Au-delà du choc des civilisations, Robert Laffont, Paris, 2008; tr. it. di E. Lana, La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà, Garzanti, Milano, 2009, p. 16.

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quale «la persona è il diritto sussistente [e] l’essenza del diritto»28, possiamo dire che la persona sia depositaria di un Urrecht, di un “diritto originario” che è pre-statuale e che è connaturato al suo statuto ontologico: si tratta di un diritto “non scritto e non codificato”, sussistente ancor prima dell’ingresso di ognuno nella comunità giuridico-statuale. Il concetto di persona come Urrecht costituisce, a mio giudizio, un fondamentale orientamento per prendere posizione anche all’interno dell’attuale dibattito sul comportamento (individuale ed istituzionale) da tenere nei confronti della figura del migrante: ogni straniero è persona e, in quanto tale, va sempre accolto con dignità e rispetto. Del resto, come ha giustamente fatto notare lo stesso Jacques Derrida – che non è certamente né metafisico né personalista, ma che è stato tuttavia sempre attento al tema della dignitas personae – l’etica stessa corrisponde all’ospitalità: «l’ospitalità è la cultura stessa e non è un’etica fra le altre. Nella misura in cui tocca l’ethos, cioè la dimora, l’essere presso-di-sé, il luogo del soggiorno familiare quanto il modo di esserci, il modo di rapportarsi a sé e agli altri, agli altri come ai propri o agli estranei, l’etica è ospitalità, è da parte a parte coestensiva all’esperienza dell’ospitalità, in qualunque modo la si apra o la si limiti»29. A. ROSMINI, Filosofia del diritto, 6 voll., a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova 1967-1969, vol. 1, p. 107. Il concetto di persona è portatore di una tale universalità assiologica che può essere individuato come il fondamento stesso del diritto, di quello che si potrebbe definire un gius-personalismo. A questo proposito mi sembrano molto interessanti le riflessioni condotte da Giuseppe Limone in un volume che forse avrebbe meritato più attenzione da parte della comunità scientifica: Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Alla frontiera geoculturale della persona come bene comune, Graf universitaria, Napoli, 2005. 29 J. DERRIDA, Cosmopolites de tous les pays, encore un effort!, Galilée, Paris, 1997; tr. it. di B. Moroncini, Cosmopoliti di tutti i paesi ancora uno sforzo!, Cronopio, Napoli, 20182, p. 27. 28

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Mi preme far notare che la disposizione all’accoglienza dell’altro, all’empatia e all’ospitalità sono corollari fondamentali della cultura umanistica che ha tre matrici fondamentali: la greca, la giudaico-cristiana e quella illuminista. Mi hanno sempre fatto riflettere le parole di Kant nella Critica del Giudizio dedicate alle humanae litterae quali propedeutica alla vita morale: Von der Schönheit als Symbol der Sittlichkeit. Il maestro di Königsberg individua negli studi umanistici una introduzione alla vita etica, ovvero agli ideali di humanitas tipici della cultura classica e segnatamente di Cicerone, autore del resto intensamente meditato da Kant30. Nella stessa forma mentis kantiana si muove anche Gadamer, il grande padre dell’ermeneutica filosofica del Novecento, autore del quale mi piace ricordare un invito etico rivolto agli intellettuali e a coloro che si illudono di poter chiudere la cultura all’interno di una “gabbia identitaria”: «che cos’è cultura?» - si chiede l’anziano Gadamer - «cultura vuol dire poter guardare le cose dal punto di vista di un altro. In tal senso auguro a tutti voi che i vostri studi vi aiutino a conseguire non solo capacità reali o attestati, ma anche la cultura, per imparare a comprendere l’altro dal suo punto di vista»31. Una filosofia incentrata sul concetto di persona, sia per la sua matrice ebraico-cristiana che per quella illuminista, è ricca di importanti risvolti anche sul piano sociale e politico. Il concetto di persona è stato e può essere ancora oggi una possibile piattaforma Si veda, per esempio, M. BAUM, Kant und Ciceros 'De officiis', in Aa. Vv., Immanuel Kant (1724-1804) nel 200 anniversario della morte / Immanuel Kant (1724-1804) zur 200. Wiederkehr des Todestages, Collana di Monografie dell’Accademia di Studi Italo-tedeschi, Merano, 2004, pp., pp. 17-34. 31 H.-G. GADAMER, La diversità delle lingue e la comprensione del mondo, in IDEM, Linguaggio, tr. it. e cura di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 73-84, p. 84. 30

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di intesa valoriale e di dialogo costruttivo tra le diverse forme di vita culturale, siano esse laiche o ispirate a ideali religiosi. Anche nell’età del multiculturalismo, caratterizzata da una secolarizzazione avanzata e da un relativismo inaggirabile, le democrazie liberali possono trovare un terreno comune di intesa intorno al valore imprescindibile costituito dalla dignitas personae, dalla dignità della persona umana: si tratta di un possibile “consenso per intersezione”, l’overlapping consensus di cui parla anche John Rawls in Liberalismo politico (1993). Tale “consenso per intersezione” mi pare che abbia trovato una sua realizzazione storica nella Costituzione della Repubblica Italiana, che in molti punti mostra un’evidente ispirazione personalista: basti ricordare che l’articolo 3 individua nel «pieno sviluppo della persona umana» una delle finalità fondamentali 32 dell’organizzazione politica . Mi sembra quindi molto significativo che ancora oggi intorno al principio-persona possano trovare una possibile piattaforma di intesa e di dialogo esponenti della cultura cattolica33, di quella laica34 e persino di quella islamica35. Sull’influenza della filosofia personalista all’interno delle costituzioni europee del secondo Dopoguerra e nell’ideale stesso di un’Europa unita si vedano i contributi del volume di R. PAPINI (a cura di), L’apporto del personalismo alla costruzione dell’Europa, Massimo, Milano, 1981. 33 Mi limito ad indicare V. POSSENTI, Il nuovo principio persona, Armando, Roma, 2013. 34 Mi preme ricordare che anche il giovane Norberto Bobbio negli anni Quaranta subì il fascino del personalismo e lo considerò una filosofia in grado di salvaguardare i diritti della persona in opposizione alle possibili ingerenze dello Stato autoritario. La sua prolusione del 1946 all’Università di Padova è dedicata a La persona e lo Stato: «l’uomo, in quanto diviene persona, sorpassa continuamente lo Stato, e quindi non può essere racchiuso integralmente nei limiti dello Stato, perché ne va della sua possibilità stessa di allargare gli orizzonti della propria umanità, di irrobustire la propria 32

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personalità morale che si perfeziona soltanto nella libertà incondizionata della coscienza» (N. BOBBIO, L’uomo e lo Stato, saggio riedito in IDEM, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma 1996, p. 83). Differentemente da Luigi Stefanini e dagli esponenti cattolici del Movimento filosofico di Gallarate, Bobbio ricerca una valenza laica del personalismo e si richiama alla tradizione kantiana. Talvolta non viene sufficientemente sottolineato che in Bobbio il personalismo è stato la matrice filosofica delle sue teorie sulla tolleranza e sul relativismo tollerante. In Verità e libertà (1960) egli afferma: «che la verità sia personale significa in fin dei conti che la molteplicità delle verità è giustificata dalla molteplicità e irriducibilità delle persone. […] Il personalismo è il tentativo più radicale di prender atto della moltiplicazione all’infinito delle verità e insieme di rifiutare la soluzione scettica» (N. BOBBIO, Verità e libertà, in IDEM, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, p. 64-65). Per la difesa di una “filosofia della persona” nella cultura italiana laica si è mosso più di recente anche Stefano Rodotà: quest’ultimo si è richiamato alla prospettiva della Arendt secondo la quale «il diritto ad avere diritti (the right to have rights), o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa (should be guaranteed by humanity itself)» (H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1951; tr. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano, 1996, p. 413). Si vedano S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2015; Rodotà è entrato in vivo dibattito anche con Roberto Esposito, teorico di una “filosofia dell’impersonale”, per il quale «tutt’altro che dare senso e concretezza ai diritti umani, il dispositivo della persona è esattamente ciò che ne rende impossibile la definizione» (R. ESPOSITO – S. RODOTÀ, La maschera della persona, in MicroMega, 3, 2007, pp. 105-115, p. 107). 35 Di particolare interesse e certamente da valorizzare è la prospettiva del filosofo di origine marocchina Mohammed Aziz Lahbabi (1922-1993), che si è formato alla Sorbona di Parigi ed ha avuto contatti anche con il movimento personalista di «Esprit». Secondo il filosofo di fede islamica, «dans l’Islam, est une personne tout être humain, indipéndamment de son ethnie, sa langue, sa couleur de peau». Cfr. M.A. LAHBABI, Le personnalisme musulman, PUF, Paris, 1964; a cura di M. El Afrhani, Il

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La tradizione personalista che affonda le sue radici nella cultura giuridica greco-romana, nella teologia patristica e nella scolastica e che ha trovato rinnovati slanci nel Novecento con il movimento fondato da Emmanuel Mounier36 ha una “perenne attualità” e conserva delle virtualità speculative ed etiche che possono essere ulteriormente valorizzate e sviluppate in più direzioni: è anche questa una delle finalità dei miei studi filosofici. Il vertice della persona umana è di natura metafisica e pertanto sfugge ad ogni forma di determinismo radicale, sia esso linguistico, storicoculturale o politico. Mi preme sottolineare che vi è un primato della persona anche nei confronti dello Stato: l’individuo nelle sue libertà fondamentali non può mai essere fagocitato da uno Stato etico o dalle sue istituzioni. É lo Stato che deve porsi a servizio della persona e non viceversa. La proposta teoretica di una “metafisica della persona” è pertanto ricca di fondamentali corollari anche sul piano sociale e giuridico. L’argomentazione che giustifica la presenza di un “eterno nell’uomo” (das Ewige im Menschen) comporta anche il possibile superamento del diritto positivo e il possibile trascendimento dell’ordine costituito: la persona – come del resto affermava anche Rosmini – “è ai soli comandi dell’infinito”37, la persona è una “sproporzione personalismo musulmano, Jaca Book, Milano, 2017; si veda anche G. ROCCARO, Lahababi e il concetto senza parola, in F. La Mantia – A. Le Moli (a cura di), Persona, comunità, strategie identitarie, Palermo University Press, Palermo, 2019, pp. 259-275. 36 Sulla nascita, gli sviluppi e le critiche della “filosofia della persona” nel Novecento francese ho curato un volume dal titolo Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, Presentazione di Armando Rigobello, Editori Riuniti University Press, Roma, 2011. 37 Ecco le parole precise di Rosmini: «poiché la dignità del lume della ragione (essere ideale) è infinita, perciò niente può stare sopra il principio personale, niente può stare sopra quel principio che opera di sua natura dietro un maestro e signore di dignità infinita; quindi viene che esso è

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costitutiva”, è continuo superamento dell’ordine stabilito. La persona umana – come sosteneva già Tommaso d’Aquino, ripreso nel Novecento da Maritain – non si può mai risolvere compiutamente nello Stato o nella società: l’uomo non è ordinato alla comunità politica «secundum se totum et secundum omnia sua»38: la civitas terrena non esaurisce tutte le finalità dell’uomo: la politica, le istituzioni statali non sono che un mezzo per raggiungere altre finalità, finalità più alte e di natura meta-storica. La «grammatica della libertà» che sto cercando di elaborare in questi anni trova nel concetto di persona il suo fulcro valoriale e il suo ideale regolativo: la libertà di cui si sostanzia questa “grammatica” non ha niente a che vedere con la mera spontaneità o con forme di indifferentismo etico. Si tratta piuttosto di una liberté pour la valeur e segnatamente per quel valore fondamentale rappresentato dal rispetto per la persona umana. Questa mio tentativo di individuare una «grammatica della libertà» ha pertanto come suo sfondo un’etica materiale dei valori e una visione generale dell’essere come ordo amoris. Con Rosmini mi piace affermare che la conoscenza della realtà è e deve essere una “conoscenza amativa”: si deve amare l’essere secondo l’ordine gerarchico dei beni, un ordine garantito da una presenza che è summum bonum e che un Amor per se subsistens. L’imperativo etico che articola questa «grammatica della libertà» è quello raccomandato dal Roverentano: «ama l’essere ovunque lo conosci, in quell’ordine ch’egli presenta alla tua intelligenza»39. principio naturalmente supremo, di maniera che nessuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito» (A. ROSMINI, Filosofia del diritto, [edizione originale 1841-1845], a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova, 1967, vol. I, n. 52, p. 192). 38 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae I-II, 21, 4 ad 3. 39 A. ROSMINI, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore, Istituto di Studi Filosofici – Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Città

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La prospettiva che propongo può essere quindi interpretata come una “platonismo etico” che non considera la libertà solo dal punto di vista formale ma anche contenutistico. Mi piace concludere queste mie riflessioni con alcune incisive parole di Thomas Mann scritte degli anni Venti del secolo scorso. Innanzi alle possibili crisi di senso individuale e collettivo alle quali la condizione umana è inevitabilmente soggetta, il grande scrittore tedesco – già presago del periodo buio dei totalitarismi – ci invita a non disperare: «l’eternamente umano è soggetto a trasformarsi. Dev’essere e sarà, non può perire, ma solo trapassare in nuove forme di vita come tutto ciò che è della sua stessa natura. Il suo divenire impossibile in una determinata epoca non è che un’apparenza; esso ha in se medesimo le forze grazie alle quali, dopo ogni profanazione, torna a santificarsi. […] La via dello spirito deve, in tutti i campi, esser percorsa fino in fondo, affinchè l’anima possa tornare ad essere. Non si tratta di reprimere o di restaurare, ma di assimilare nel corpo e nello spirito la nostra conoscenza, in modo da costruire una dignità, una forma e una cultura nuove»40.

Nuova, Roma 1990, p. 110. Cfr. anche il mio saggio Il “personalismo liberale” di Antonio Rosmini: interpretazioni e motivi di attualità, in R. PEZZIMENTI (a cura di), Rosmini. Politica, diritto, economia, [quaderno monografico di] «Res Publica. Rivista di studi storico-politici internazionali», n. 25, Quadrimestrale settembre-dicembre 2019, pp. 41-68. 40 T. MANN, Die Ehe im Übergang. Brief an den Grafen Hermann Keyserling, in H. KEYSERLING (Hrsg. von), Das Ehe-Buch, Celle, Kampmann, 1925; tr. it. di A. Chiusano, Sul matrimonio, nella raccolta di scritti dal titolo Contro l’eros, Introduzione di A.M. Carpi, Il Saggiatore, Milano, 1982, pp. 115-135, pp. 134-135.

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Aggiornamento bibliografico e sitografia

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Il rinnovamento degli studi su Emmanuel Mounier e il personalismo francese, dal 2005 - anno del Centenario della nascita di Mounier - ad oggi: Nel 2005 è stato celebrato in Francia e in molti altri paesi il Centenario della nascita di Emmanuel Mounier. L’evento giubilare ha dato un nuovo impulso alle ricerche sull’autore e, più in generale, sul movimento personalista legato alla rivista «Esprit». Mi preme sottolineare che un lavoro encomiabile di catalogazione bibliografica e attività convegnistica viene regolarmente effettuato dall’associazione «Les Amis d’Emmanuel Mounier», presieduta da Jacques Le Goff. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito: https://www.emmanuelmounier.org/ Rilevanti eventi e dibattiti vengono organizzati dal «Centro Ricerche Personaliste» di Teramo, fondato da Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola. Di particolare valore è la rivista «Prospettiva Persona» nata nel 1992, promossa «Centro Ricerche Personaliste» e pubblicata presso Rubbettino Editore. Per la consultazione dei fascicoli pubblicati si veda il sito: https://www.prospettivapersona.it/riviste/prospettiva.html Un importante contributo di carattere storiografico ed eticopolitico sulle tematiche legate al personalismo francese viene dato dall’«Istituto Jacques Maritain» di Roma, con una sede anche a Trieste: dal 2015 l’Istituto promuove le Edizioni Meudon. Per ulteriori informazioni sulle attività scientifiche dell’Istituto si veda il sito: https://www.istitutomaritain.eu Da menzionare è anche l’attività svolta dall’«Istituto Emmanuel Mounier» di Roma, presso la Pontificia Università 489

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Lateranense, presieduto da Giulio Anfano e coordinato sotto il profilo scientifico da Angela Ales Bello, Andrea Gentile, Anna Maria Jellamo, Alessandro Bertirotti; il sito dell’Istituto: https://www.istitutomounier.it/ Nel 2019 si è costituita una nuova società italiana di ricerca su tematiche legate al personalismo: «Persona al Centro. Associazione per la Filosofia della Persona», promossa da Vittorio Possenti (Presidente) con la collaborazione di Claudio Ciancio e Francesco Totaro. Il sito dove sono indicate tutte le iniziative culturali dell’Associzione: http://personalcentro.eu Alla cultura francese di ispirazione cristiana e, per molti aspetti, legata al personalismo ha dato un contributo importante anche l’«Association Louis Lavelle», attualmente presieduta da JeanLouis Vieillard-Baron. Il sito dell’Association: http://associationlavelle.chez-alice.fr Gli ideali etico-sociali che hanno animato il movimento personalista francese hanno trovato un fertile terreno di ricezione e di sviluppo in Spagna e nella cultura filosofica dell’America Latina. A questo proposito si segnala il lavoro svolto dall’«Instituto Emmanuel Mounier», promotore della rivista «Acontecimiento», attiva dal 1985: http://mounier.es. Di particolare rilievo sono anche le attività editoriali della «Fundación Emmanuel Mounier» di Madrid e soprattutto della «AEP – Asociatión Española de Personalismo», nata nel 2003, diretta da Juan Manuel Burgos, Javier Barraca e José Luis Cañas: http://www.personalismo.org Qui di seguito sono elencati in ordine cronologico gli studi più significativi pubblicati dal 2005 al 2020: AA. VV., Une génération en marche: Maurice Blondel, Pierre Teilhard de Chardin, Emmanuel Mounier, Saint-Léger Éditions, Chouzé-sur-Loire, 2014. 490

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AA. VV., Per lo sviluppo di una società centrata sulla persona. Atti del Progetto “Laboratorio Mounier”, Emiliani, Rapallo, 2010. ARMELLINI, Paolo, Il futuro del personalismo tra etica e politica, in Tommaso VALENTINI – Andrea VELARDI, (a cura di), Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici, LEV, Roma, 2015, pp. 443-474. BARLOW, Michel, El socialismo de Mounier, Movimiento Cultural Cristiano, Pamplona, 2014. BAUTISTA-VALLEJO, José M., La responsabilidad como categoría pedagógica en el pensamiento de Emmanuel Mounier, Universidad de Huelva, Huelva, 2010. BENKORICH, Nora, Emmanuel Mounier et la grande débâcle des intellectuels, CNRS Éd., Paris, 2008. BONDI, Damiano, La Persona e l'Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont, Mimesis, Milano 2014. BONDI, Damiano, La persona è l’amore, Introduzione al volume di Denis DE ROUGEMONT, La persona e l’amore, tr. it. di D. Bondi, Morcelliana, Brescia, 2018, pp. 5-47. CALTAGIRONE, Calogero, Maurice Nédoncelle. La persona come reciprocità d’amore, Studium, Roma, 2020. CAMPANINI, Giorgio, Incontro con Emmanuel Mounier, EUPRESS – Facoltà Teologica di Lugano, Varese, 2005. CAMPANINI, Giorgio, Mounier. Eredità e prospettive, Studium, Roma, 2012. CHESSARI, Giorgio (a cura di), Atti del Convegno nazionale di studio sul pensiero politico di Mounier nel centenario della nascita, in «Annali del Centro Studi “Feliciano Rossitto”», vol. 15, Ragusa, 2007; il volume contiene saggi di Nunzio Bombaci (Emmanuel Mounier: un cristiano combattente), Sergio Sorrentino (Il codice personalistico e il paradigma della persona), Giuseppe Limone (Il rigore teoretico della persona 491

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come sfida eversiva e il problema della giustizia), Calogero Caltagirone (L’etica concreta della responsabilità in Emmanuel Mounier), Pietro Emanuele (Personalismo mounieriano fra diritto e valori), Antonio Micali (La politica della testimonianza come adsum del cristiano), Francesco Totaro (Sfida della comunicazione globale e libertà del cristiano), Salvatore Vento (Nuova politica: risveglio della persona e rinascita dell’associazionismo), Attilio Danese (La nuova democrazia personalistica), Stefano Mandolini: “Il lavoro e la tecnica nel pensiero di Mounier), Luciano Nicastro (Emmanuel Mounier: pensatore e profeta di un nuovo socialismo). COBO COBO, Antonio José, El concepto de reflexión en el joven Mounier 1931-1939, Editorial de la Universidad de Granada, Granada, 2006. COQ, Guy (sous la direction de), Emmanuel Mounier, l’actualité d’un grand témoin, Tome 2, Parole et Silence, Paris, 2006. CHARPENTIER, Pierre-Frédéric, Les intellectuels français et la guerre d'Espagne: une guerre civile par procuration (1936-1939), Le félin, Paris, 2019. COQ, Guy, Mounier. L’engagement politique, Michalon, Paris, 2008. CORIGLIANO, Filippo, Personalismo: saggio su Emmanuel Mounier, Mimesis, Milano, 2019. COUTEL, Charles (sous la direction de), Deux personnalistes en prise avec la modernité: Jacques Maritain et Emmanuel Mounier, Artois Presses Univ., Arras, 2013. CUGINI, Paolo, Pensare cristianamente la storia. Emmanuel Mounier e la rivista Esprit, Ilmiolibro Self Publishing - GEDI Gruppo Editoriale, Roma, 2018. D’ACUNTO, Giuseppe – MECCARIELLO, Aldo (a cura di), Mounier. Persona e comunità, Chirico Edizioni, Napoli, 2018: il volume contiene saggi di Massimo Piermarini (Il Trattato del carattere di 492

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Mounier e le aporie del personalismo), Giovanni Salmeri (Mounier e la fine della cristianità), Giuseppe Goisis (Polo politico e polo profetico nel personalismo di Mounier), Michele Indellicato (Mounier e la sfida etica del personalismo comunitario), Attilio Danese (Mounier: una bussola nel disorientamento post-moderno), Gennaro Cicchese (Persona e comunicazione con e oltre Mounier), Damiano Bondi (“Qui siamo tutti proudhoniani!” Federalismo ed europeismo nel movimento personalista), Giulio Alfano (L’influsso di Mounier sulla democrazia del dopoguerra), Alberto Iacovacci (Filosofia “ad personam” e crisi dell’ontoteologia: da Mounier a Pareyson), Riccardo Paparusso (De-sostanzializzare la persona: Mounier, Ricoeur, Patočka), Aldo Meccariello (Emmanuel Mounier e Simone Weil nelle tempeste del “secolo breve”), Giuseppe D’Acunto (Il debito della giustizia. Il personalismo comunitario di Mounier nell’ottica di Ricoeur), Giovanni Chimirri (Carattere, personalità, metapsicologia), Francesco Miano (Essere e diventare persona. La prospettiva di Mounier). DANESE, Attilio, Mounier ontem e hoje: idéjas da atualidade, in M. C. Lucchetti Bingemer (a cura), Mounier, Weil e Silone. Testimunhas do século XX, PUC, Rio de Janeiro, 2007, pp. 31-52. DANESE, Attilio, Choix et responsabilité chez Mounier, in «Revue de L’enseignement et de la recherche philosophique» - Numéro Spécial, 2009, pp. 100-119. DANESE, Attilio, Il problema antropologico. Il pensiero di Emmanuel Mounier, Giuliano Ladolfi Editore, Roma, 2012. DE VITA, Ignazio, Il cielo negli occhi dei bambini (Il personalismo di Emmanuel Mounier), Il campano, Pisa, 2016. DEWEER, Dries, The Political Theory of Personalism: Maritain and Mounier on Personhood and Citizenship, in «International Journal of Philosophy and Theology», 74 (2), 2013, pp. 108-126. 493

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Rinascimento”), Piermario Ferrari (La politica come “utile passione”: per una nuova città dell’uomo), Giuseppe Limone (“Persona”, la pietra scartata dai costruttori di teorie. La paradoxía di un’idea radicale come contraddizione virtuosa). MELCHIORRE, Virgilio, Essere persona. Natura e struttura, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano-Novara, 2007. NANNI, Carlo (a cura di), Emmanuel Mounier. Il pensiero pedagogico. Un’antologia, LAS, Roma, 2008. NICASTRO, Luciano, Il socialismo “bianco”. Il sentiero di Mounier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. NICASTRO, Luciano, Oltre il liberalismo. Il sentiero di Mounier, Ediargo, Ragusa, 2006. NICASTRO, Luciano, Eguaglianza e libertà in Emmanuel Mounier, Centrocopie & c., Ragusa, 2010. NICASTRO, Luciano, Il debito con Mounier, in «Mondoperaio», 10, 2010, pp. 32-45. NICASTRO, Luciano, Profezia e politica in Emmanuel Mounier. Nucleo strategico del pensiero utopico del Novecento, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012. ORLANDO CIAN, Diega – XODO, Carla (a cura di), Diventare uomini di umanità: antologia pedagogica delle opere di Emmanuel Mounier, Pensa MultiMedia, Lecce, 2007. PACI, Deborah, Emmanuel Mounier e il fascismo italiano, in «Mondo contemporaneo», 2, 2011, pp. 121-159. PAREDES HERNÀNDEZ, Joan, Las terceras vías de la democracia económica: el personalismo de Emmanuel Mounier y los cracs de 1929 y 2008, Fundación Emmanuel Mounier, Madrid, 2011. PARENTE, Lucia M. G. (a cura di), Sfumature di pensiero su Emmanuel Mounier, Mimesis, Milano, 2019. PAVAN, Antonio (a cura di), Enciclopedia della persona nel XX secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008. 496

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Mounier), Balduino Antonio Andreaola (Il personalismo di Emmanuel Mounier e l'America Latina), Krzysztof Guzowski (Il personalismo polacco dei secoli XX e XXI), Scoria Thuruthiyil (Il concetto di persona nella filosofia indiana, nel contesto della filosofia interculturale). TOSO, Mario – DANESE, Attilio – FORMELLA, Zbigniew, Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo Relazionale. Mounier e oltre, vol. 2, LAS, Roma, 2005. Il volume contiene saggi di Pascual Chávez Villanueva (Vocazione, incarnazione, comunione: le tre dimensioni della persona), Paul Poupard (Persona e umanesimo relazionale: eredità e sfida di E. Mounier nel centenario della nascita - 1905-2005), Paul Ricoeur (Affermazione di sé e riconoscimento reciproco), Mario Toso (Il coraggio di un nuovo umanesimo relazionale: l’eredità di Emmanuel Mounier), Guy Coq (Actualité de la pensée de Emmanuel Mounier), Daniella Iannotta (Persona e comunità: filosofia e prassi in Paul Ricoeur), Domenico Jervolino (Nell’eredità di Mounier: tra Ricoeur e Thévenaz), Stefania Nardini (Dalla relazione impari alla relazione reciproca), Bernard Comte («Esprit» (1932-1950), le combat pour la révolution personnaliste), Ottorino Pasquato (Mounier e Marrou), Piero Viotto (Emmanuel Mounier e Jacques Maritain: un’amicizia consolidata), Armando Rigobello (Personalismo perenne), Giuseppe Goisis (Mounier un cristiano critico), ManieEtiennette Bély (Mounier et le christianisme en France), Luciano Caimi (Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier), Carlo Nanni (Mounier: il «trattato del carattere»), Luciano Nicastro (E. Mounier: filosofo della rivoluzione «permanente» ed educatore civile), Yves Le Gall (Le personnalisme communautaire en France. État des lieux), Luis Ferreiro (Mounier en España. Una presencia contra todo silenzio), Michele Nicoletti (Il personalismo nell’area di lingua tedesca), 499

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Francesco Bellino (Il personalismo anglo-americano), Maria Villela-Petit (Mounier e il Brasile), Jacques Nanema (Actualité africaine du personnalisme d’Emmanuel Mounier. Mounier et l’Afrique, 50 ans après: problèmes et défis du développement), Virgilio Melchiorre (Fra metafisica ed impegno storico), Gaspare Mura (Le sfide del personalismo la teologia), Paolo Giuntella («L’événement sera notre maître intérieur»), Luis de Moral (Humanismo, personalismo y teologia práctica o pastoral), Marcella Farina (L’orizzonte teologale: l’antropologia trinitaria), Michele Indellicato (La sfida biotecnologica e la dignità della persona umana in Mounier), Jean-Dominique Duran (Andare oltre Mounier, con Mounier), Attilio Danese (Persona e umanesimo relazionale. Semi di speranza suscitati dal Convegno). VALENTINI, Tommaso, Centenario della nascita di Emmanuel Mounier, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», II, vol. XIV, 2005, pp. 335-338. VALENTINI, Tommaso (a cura di), Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, Editori Riuniti University Press, Roma, 2011. XODO, Carla – BENETTON, Mirca (a cura di), Emmanuel Mounier: origini e prospettive della scuola di pedagogia di Padova, Pensa Multimedia, Lecce, 2007. Gli studi su Paul Ricoeur dal 2008 ad oggi: Una bibliografia pressoché completa degli scritti su Ricoeur fino al 2008 – comprese le nuove pubblicazioni di testi inediti dell’autore francese – è contenuta nel volume di Frans D. VANSINA (in collaboratione con Pieter VANDECASTEELE), Paul Ricoeur. Bibliographie primaire et secondaire. 1935-2008, Peeters, Leuven - Paris, 2008. Un importante lavoro di raccolta 500

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bibliografica e attività convegnistica è senz’altro quello della «Society for Ricoeur Studies», attualmente presieduta da Stephanie Arel. Il sito di questa Società internazionale: http://www.ricoeursociety.org/ Uno strumento essenziale per la ricerca scientifica sull’autore francese è costituito sicuramente da «Études Ricoeuriennes / Ricoeur Studies», rivista on line fondata nel 2010 da Scott Davidson, Johann Michel e George Taylor. Attualmente i direttori della rivista sono Eileen Brennan e Jean-Luc Amalric. Il download di tutti i saggi pubblicati dal 2010 ad oggi può essere effettuale al sito: https://ricoeur.pitt.edu/ojs/index.php/ricoeur/index Un fondametale archivio documentario viene conservato presso il «Fonds Ricœur», il cui attuale presidente è il Prof. Marc Boss. Il sito di questa istituzione: http://www.fondsricoeur.fr/en/pages/about-us.html Il «Fonds Ricœur» svolge anche un importante funzione di network tra tutte le differenti associazioni che promuovo lo studio dell’autore francese: tra queste merita una particolare menzione «Digital Ricoeur»: si tratta du un digital humanities project dedicato soprattutto ai testi di e su Ricoeur in lingua francese e inglese. Da menzionare è anche il documentario realizzato da Caroline Reussner e pubblicato nel 2008 presso le Éditions Montparnasse, attualmente reperibile con facilità anche sul canale internet “you tube”. Titolo del documentario: “Paul Ricœur, philosophe de tous les dialogues”: in quasi quattro ore vengono presentati alcuni video-interventi dell’autore francese e di studiosi di rilievo (come Jean Greich), posti saggiamente in connessione con gli aspetti biografici e i contenuti delle opere filosofiche. Qui di seguito sono elencati in ordine alfabetico i più rilevanti studi italiani e internazionali su Ricoeur dal 2008 al 2020: 501

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monographique de la revue «Études Ricœuriennes/Ricœur Studies», vol. 9/1, 2018. AREL, Stephanie – STIVER, Dan R., , Ideology and Utopia in the Twenty-First Century: The Surplus of Meaning in Ricoeur’s Dialectical Concept, Lexington Books, New York, 2019. ARTHOS, John, Hermeneutics after Ricoeur, Bloomsbury, London, 2019. AVELINE, Jean-Marc (sous la direction de), Humanismes et religions: Albert Camus et Paul Ricoeur, LIT, Berlin – Münster, 2014. BADIOU, Alain, L’aventure de la philosophie française. Depuis les années 1960, La fabrique éditions, Paris, 2012; tr. it. di L. Boni, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma, 2013. Nel volume viene dediato a Ricoeur il saggio del volume Il supposto soggetto cristiano di Paul Ricoeur, pp. 58-71; questo saggio era stato già pubblicato in forma autonoma con il titolo Le sujet supposé chrétien de Paul Ricœur. À propos de La mémoire, l’histoire, l’oubli, «Élucidation», 6-7, Éditions Navarin, Paris, 2003, pp. 19-23. BARASH, Jeffrey Andrew (sous la direction de), Philosophie de la mémoire, numéro monographique de la revue «Études Ricœuriennes/Ricœur Studies», vol. 10/1, 2019. BASOMBRÍO, Manuel A., De la filosofía del yo a la hermenéutica del sí mismo: un recorrido a través de la obra de Paul Ricoeur, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Málaga, Málaga, 2008. BEDFORD-STROHM, Heinrich (Hrsg.), Paul Ricoeur - Impulse für die Theologie, Kaiser, Gütersloh, 2013. BERNHARDT, Fabian, Zur Vergebung: eine Reflexion im Ausgang von Paul Ricoeur, Neofelis-Verl., Berlin, 2014. BENGARD, Beate, Rezeption und Anerkennung: die ökumenische Hermeneutik von Paul Ricœur im Spiegel aktueller 503

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Dialogprozesse in Frankreich, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2015. BIANCHINI, Paola - PERONACI, Silvia, La sofferenza non è il dolore. Intorno a Paul Ricoeur. Con un saggio del filosofo francese, Presentazione di Paolo Pullega, Edizioni Solfanelli, Chieti, 2017. BLÄSER, Stefanie, Erzählte Zeit - erzähltes Selbst: zu Paul Ricoeurs Begriff der narrativen Identität, Pro-Universitate-Verl. im BWV, Berlin, 2015. BLUNDELL, Boyd, Paul Ricoeur between Theology and Philosophy: Detour and Return,: Indiana University Press, Bloomington, 2010. BOCCALI, Renato, Ermeneutica del legame interumano. Estreaneità, ospitalità, dialogo, in RICOEUR, Paul, Ermeneutica delle migrazioni. Saggi, discorsi, contributi, tr. it. di R. Boccali, Mimesis, Milano, 2013, pp. 2-20. BOCHET, Isabelle (textes édités par), Paul Ricoeur: mal et pardon. Actes de la journée organisée le 19 janvier 2013 par le Centre Sèvres - Facultés jésuites de Paris et le Fonds Ricoeur, Avantpropos d'Olivier Abel, Éditions Facultés jésuites de Paris, Paris, 2013. BOISSIEU, Emmanuel, Paul Ricœur, Un inconditionnel de l’amour, Domuni-Press, Toulouse – Bruxelles – Genève, 2019. BOLLON, Gérard, Paul Ricœur (1913-2005), un philosophe dans la Montagne vellave, «Cahiers de la Haute-Loire», 2018. BONVEGNA, Giuseppe, La giustizia del bene. Una lettura della teoria della giustizia di Paul Ricoeur, in Aa. Vv., Per lo sviluppo di una società centrata sulla persona, Emilani, Rapallo, 2010, pp. 117-129 BONVEGNA, Giuseppe, Dall’identità alla memoria dell’esilio: quale ospitalità? La proposta di Paul Ricoeur, in Giovanni Cogliandro, Maria Teresa Russo, Tommaso Valentini (a cura di), 504

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ZAPATA Díaz, Guillermo Alfonso, Hermenéutica política en Paul Ricœur, en «Universitas Philosophica», vol. 29, 59, 2012, diciembre, pp. 267-281.

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INDICE

Introduzione La persona come libertà creativa e come essere-in-relazione. Considerazioni storiografiche ed etico-politiche …………… 9 L’articolazione del volume “Da Renouvier a Ricoeur” e oltre: la persona come relatio trascendentalis De l’ospitalité: la ricchezza etica dell’accogliere e dell’essere accolti Studio I La discussa eredità di Cartesio e Maine de Biran: il problema della soggettività nella filosofia francese del Novecento………………………………………………………51 1. Trasformazioni del soggetto. Uno sguardo d’insieme 2. A partire dalla “filosofia riflessiva” di Maine de Biran: la coscienza come attività e libertà 3. Emmanuel Mounier: personalismo comunitario e istanze di rivoluzione morale 4. Mounier e Ricoeur: un rapporto di amicizia e di “fedeltà creatrice” 5. Jacques Maritain: metafisica della persona, umanesimo integrale e “democrazia personalista” 6. Il senso dell’esistere: l’uomo è una “passione inutile”? 7. «Il n’y a pas de dialectique sans liberté»: fenomenologia ed engagement in Merleau-Ponty 8. La struttura: “un trascendentale senza soggetto” 528

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9. Soggettività ed emancipazione: Nietzsche-Renaissance, “filosofie della differenza” e “pensiero nomade” 10. Decostruzione e pensiero postmoderno. Oltre il soggetto? 11. Quali “orizzonti di senso” per l’uomo contemporaneo? Studio II Alle origini del personalismo francese: Jules Lequier “filosofo della libertà”.…………………………………………………191 1. La riscoperta del pensiero di Lequier 2. Il problema del determinismo della natura 3. La lettura di J.G. Fichte e la ricerca di una “scienza della libertà” 4. La libertà quale motivo di un rinnovato thaumázein 5. “Oltre Cartesio”: la libertà come principio del cogito 6. Lequier e Maine de Biran: affinità e divergenze 7. «Agir, c’est commencer»: libertà e creatività dell’io 8. Il libero arbitrio e il fondamento dell’atto di fede Studio III Personne, action et liberté: motivi fichtiani in Maurice Blondel e nella tradizione dello spiritualismo francese………………………………………………………. 227 1. Überwindung des Determinismus: la libertà come fondamento e télos dell’indagine filosofica 2. Il Fichte di Jena: la filosofia trascendentale come Selbstbeobachtung e riflessione genetica 3. Una “scienza della libertà”: il “nuovo metodo” ed il ruolo epistemologico del volere 3.1. «Das reine Wollen»: il “volere puro” come fondamento della coscienza 529

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3.2. Verleiblichung, interpersonalità originaria e “sistema della libertà” 4. «Liber sum, ergo cogito»: motivi fichtiani nella filosofia francese dell’Ottocento e nei primi scritti di Blondel 5. “Logica dell’azione” e “antropologia della sproporzione”: le dinamiche della volontà in Blondel 6. «La libertè est image de Dieu»: “educazione alla libertà” e “primato del pratico”. Studio IV “Archeologia del soggetto” ed “ermeneutica del sé”. Paul Ricoeur lettore e critico di Freud ……………………..285 1. Introduzione: la “scossa maieutica” del freudismo nel pensiero ermeneutico di Ricoeur 2. Il volontario e l’involontario: la dialettica tra libertà e determinismo 2.1. À l’école de Mounier: la persona come presenza inoggettivabile, libertà e trascendenza 2.2. À l’école de la phénoménologie: il progetto di una “filosofia della volontà” 3. Le ombre del rimosso: la psicoanalisi come “archeologia del soggetto” 3.1. Il dibattito con Jacques Lacan 3.2. Il determinismo di éros e thánatos. 3.3. Dall’«archeologia del soggetto» all’«archeologia della cultura» 3.4. “Dire l’inconscio”: «la psicologia non ha che metafore» 4. “Teleologia del soggetto” ed “escatologia”: finalismo dell’azione e Sinngebung. 530

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Studio V Homo capax: il filo conduttore dell’antropologia filosofica ricoeuriana……………………………………………………333 1. Metodi d’indagine per un’ermeneutica d’ispirazione personalista 2. L’homme capable et les puissances du moi 3. «Chi sono io?»: ontologia della persona e attestazione in Soimême comme un autre 4. Dal “conflitto delle interpretazioni” a una “filosofia del limite” Studio VI Paul Ricoeur: il linguaggio metaforico come espressione di libertà creativa e di innovazione semantica…………………………………………………….. 365 1. Sviluppi linguistici di una philosophie de la liberté: il nesso tra immaginazione e creatività linguistica 2. I presupposti fenomenologici della filosofia del linguaggio: la Sinngebung come creazione linguistica di senso 3. La metafora come «impertinenza semantica» e «verità analogica» 4. Immaginazione produttiva, schematismo narrativo e aporie del tempo 5. Dall’homo loquens all’ontologia del sé Studio VII «L’economia della persona è un’economia di dono»: l’«antropologia economica» di Maurice Godelier e di Paul Ricoeur …………………………………………….........…... 391 1. Al di là dell’utilitarismo: la riscoperta dell’homo donator 531

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2. Al fondamento delle società umane: il commento di Godelier al Saggio sul dono 3. Dalla persona come homo capax all’«economia del dono» 4. “Economia del dono” e “poetica dell’agápe”. La dialettica tra giustizia e amore 5. «Il dono è l’impossibile». Il realismo scettico e il suo possibile superamento Studio VIII La filosofia come “ermeneutica della condizione umana”: il confronto di Armando Rigobello con Paul Ricoeur …..…421 Appendice I Traduzione di un testo di Paul Ricoeur: Homo capax: la mia prospettiva di antropologia filosofica e di impegno etico………………………..……………...……….. 443 Appendice II La ricerca di una «grammatica della libertà»: itinerario e prospettive…………………..…………….………..………... 461 Aggiornamento bibliografico e sitografia ……………........ 489

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Finito nel mese di ottobre 2020 in Roma per la collana Voci della Politica

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