La filosofia del Novecento 9788858820698

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La filosofia del Novecento
 9788858820698

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Table of contents :
Nota introduttiva
Premessa alla nuova edizione 2015
I. Le filosofie dello slancio
1. Il tempo ritrovato
2. Le cicatrici della crescita
3. Periferie della vita
4. Sperare nel tragico
5. L’orrore della stagnazione
II. Verso nuove evidenze: filosofia e sapere scientifico
1. Il pensiero matematico
2. La relatività
3. Lo spazio interiore
III. Il pathos dell’oggettivazione
1. Durkheim e Weber
2. Da Croce a Gramsci
IV. I dislivelli della storia
1. Lo storicismo di Dilthey
2. Le umanità altre: filosofia dell’antropologia
3. Il pensiero rivoluzionario
4. Mito e ragione strumentale nel nazionalsocialismo
V. L’incontro delle filosofie e la nuova epistemologia
1. “Da sponda a sponda”
2. La filosofia americana
3. L’epistemologia del neo-positivismo e la sua critica
VI. Il pensiero dialettico
1. Coscienza e totalità
2. La dialettica negativa
VII. Il mondo e lo sguardo
1. Husserl: la visione della cosa
2. Schütz: migrazioni di senso
3. Heidegger: il disvelamento dell’Essere
4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo
5. Sartre: lo sguardo dell’altro
6. Laing e Bateson: gli inestricabili nodi
7. Merleau-Ponty: la tovaglia bianca
8. Foucault: lo sguardo del potere e le tecniche dell’io
9. Parfit o il tunnel di vetro dell’identità
VIII. I vincoli della tradizione
1. Il viaggio della vita: Blumenberg e le metafore
2. “Nessuno conosce se stesso”: Gadamer e l’ermeneutica
3. La mitologia bianca di Derrida
IX. Vita activa
1. Arendt: pensare, volere, giudicare
2. Habermas: il deserto avanza
3. Rawls: “lotteria naturale” e giustizia
X. Guardando avanti
1. Gli orizzonti della Terra
2. Dall’Italia
3. Rorty: comunità e verità
4. Fame di realtà
5. Incertezza e disimpegno
6. Il ritorno della responsabilità
7. Bioetica e biotecnologie
8. Un mondo diverso

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LDB

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Remo Bodei

LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

Feltrinelli

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano © 1997, 2006 Donzelli editore, Roma Prima edizione nell’“Universale Economica” – saggi aprile 2015 Stampa Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - BG ISBN 978-88-58-82069-8

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La filosofia nel Novecento

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A Chiara A Lisa

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Nota introduttiva

Questo libro offre strumenti per pensare l’esperienza di un secolo denso di impreviste trasformazioni. Ricostruisce le coordinate che orientano i nostri paesaggi mentali e delinea la mappa dei percorsi in cui la filosofia incrocia i saperi più rappresentativi. Cogliendo le idee in movimento, risultano così maggiormente visibili, nella loro specificità, gli snodi che articolano il discorso filosofico, qui riferito utilizzando soltanto le fonti primarie. Con stile narrativo limpido e rigoroso, vengono abbandonati i due modelli espositivi più diffusi: quello della storia lineare (che presenta filastrocche di opinioni ricucite attraverso l’esile filo della progressione cronologica) e quello, totalmente privo di contesto, della descrizione di sistemi miniaturizzati e isolati (che sarebbero in possesso di una esistenza autonoma e fuori dal tempo). A essi si preferisce la rappresentazione di scene teoriche compatte, scandite per quadri concettuali, in cui i protagonisti intrecciano in maniera avvincente i loro argomenti nello sforzo di chiarire problemi che sono anche nostri. In termini quantitativi, alla base del volume si trova per metà una precedente ricerca, peraltro radicalmente rielaborata (cfr. Filosofia, in La cultura del ’900, Gulliver, Milano 1979 e Oscar Studio Mondadori, Milano 1981). L’altra metà costituisce invece un lavoro completamente 7

nuovo, che amplia alcune parti già scritte e introduce alla riflessione filosofica più recente. Los Angeles-Pisa, autunno-inverno 1996-97 R.B.

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Premessa alla nuova edizione 2015

Sono passati diversi anni dalla seconda edizione del 2006. Nel frattempo il dibattito filosofico più recente si è arricchito di temi e di autori di cui ho voluto rendere criticamente conto, inquadrandoli nell’ambito degli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Ho così rielaborato e ampliato la trattazione di alcuni capitoli, concentrandomi, in particolare, sulla fase finale del pensiero di Foucault, sull’umanesimo europeo in confronto con altre civiltà, sulle biotecnologie e le loro implicazioni. Ho, infine, aggiunto numerose pagine sulla filosofia italiana, dagli anni ottanta del Novecento a oggi, e sul rapporto verità-realtà. In un momento storico in cui l’esistenza di innumerevoli esseri umani è diventata precaria e in cui cresce l’incertezza legata al futuro, la filosofia può aiutarci a riflettere sulla nostra condizione. Pisa-Los Angeles, febbraio 2015 R.B.

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I. Le filosofie dello slancio

1. Il tempo ritrovato A chi si desta in piena notte succede, secondo Proust, di ignorare talvolta tutti i dati relativi alla propria persona e al luogo in cui si trova. La ragione, rilassandosi nel sonno, ha cancellato tutti i confini di tempo e di spazio. Non resta, al risveglio, che un elementare e indeterminato “senso dell’esistenza quale può fremere nella profondità di un animale” e in un “uomo delle caverne”. Per situarsi e orientarsi di nuovo occorre ricostruire la rete delle coordinate del mondo e i “tratti originali” del proprio io, compiendo in pochi attimi un balzo “sopra secoli di civiltà”. Ma per rivestire la coscienza di se stessi è necessario ricomporre l’ordine delle cose. Dapprima è il corpo, al buio, che viene in aiuto, è “la memoria delle sue costole, dei suoi ginocchi, delle spalle” che ricorda i vari tipi di letto in cui si è dormito, che cerca di indovinare la posizione dei mobili e le situazioni vissute: “ero in campagna a casa del nonno, morto parecchi anni fa; […] il muro correva in un’altra direzione; ero nella mia stanza a casa di Madame de SaintLoup”. E, intanto, “le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata”, preparano il riconoscimento del luogo in cui si è. Ogni stanza si presenta intagliata nella fuga di altre stanze, che appaiono come suoi contorni fluttuanti, margini indispensabili del processo di 10

individuazione. Ogni cosa ha un alone di alterità, ondeggia nel suo stato fluido, è attraversata dalla corrente del tempo. Ma ecco: la coscienza è completamente desta, ha ripreso il controllo della situazione, è intervenuto il pensiero che solidifica tutto: “Forse l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti”. Abbiamo nominato le cose e (a scopo pedagogico, per evitare dispersione e fatica) le abbiamo classificate e semplificate, togliendo loro ogni alterità interna, ogni pluralità di contorni, ogni riferimento a noi: “Le parole ci presentano, delle cose, una piccola immagine nitida e consueta, simile alle figure che s’appendono alle pareti delle scuole per dare ai bambini l’esempio di quel che sia un banco, un uccello, un formicaio, cose concepite come uguali a tutte quelle della medesima specie”.1 Per riprendere possesso di noi stessi e delle cose in modo autentico, si deve compiere una sorta di esperimento, in solitudine e in silenzio: riprodurre la durata pura, sgretolando le resistenti concrezioni del presente, intuendo al di là del pensiero immobilizzante e del linguaggio classificatorio. Lontani dalla folla e dall’incalzante involgarimento dei tempi, protetti dagli stimoli troppo intensi e perciò ottundenti della grande città, liberi dalla costrizione di operare praticamente sulle cose – nel lavorarle, infatti, esse rivelerebbero hegelianamente ben altra durezza –, è possibile evocare un’esistenza ricca e internamente articolata e sfumata, tradurre la spazialità nel tempo della coscienza, rendere testimonianza, in un laboratorio-catacomba di sughero, di 11

un’umanità raffinata e sensibile che sta per essere travolta. In questa solitudine si possono far riaffiorare gli strati più antichi di noi stessi, i vari “io” che si sono succeduti e che giacciono in profondità quasi geologiche, schiacciati dal peso della nostra personalità attuale. Ognuno di essi è stato, a suo tempo, sepolto da una potente scossa, che ne ha provocato l’abbandono, obbligandoci a reinventare noi stessi. Il destino ci fornisce, del resto, tanti “io di ricambio” entro cui riformulare le nostre passioni e il nostro pensiero. Nei loro confronti, una volta lasciati indietro, proviamo alla fine soltanto una “tenerezza di seconda mano”.2 Per fortuna, però, non potendoli elaborare completamente o asservire del tutto all’ultimo “io” in carica, essi talvolta ritornano. Lo scopriamo all’improvviso, con meraviglia, nell’attimo in cui un ricordo (del quale ci sembrava di non conservare più alcuna traccia) ci viene incontro grazie a una casuale scintilla del presente. In questi momenti ritroviamo miracolosamente intatto un nostro “io” trascorso, per nulla logorato dalle modificazioni psichiche successive, paradossalmente protetto e custodito dall’oblio come in una teca. Quando i due “io” cronologicamente lontani – quello del presente e quello del passato – si toccano alla maniera di due poli in un arco voltaico, quando l’emozione non si separa più dalla conoscenza “a causa di quell’anacronismo che tanto spesso impedisce al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti”,3 allora si avverte come un aroma di eternità. Ci si accorge che qualcosa si è salvato dalla distruttiva voracità del tempo. Pare allora di risolvere “l’enigma della felicità”, nascosto nelle agnizioni 12

“stereoscopiche” di se stessi in quanto rimasti identici attraverso i mutamenti, unici e sdoppiati. Stranamente, quelli che ci commuovono, quando si affacciano per mezzo del ricordo involontario, sono eventi a prima vista insignificanti. Essi si sono tuttavia salvati dall’omologazione alla prospettiva del presente proprio perché l’intelligenza li ha scartati, in ragione della loro inutilizzabilità: “la minima parola da noi detta in un periodo della nostra vita, il gesto più insignificante da noi compiuto erano circondati, portavano su di sé il riflesso di cose che dal punto di vista logico non avevano con essi alcun rapporto, che ne sono state separate dall’intelligenza, che non sapevano che farsene di loro per le necessità del ragionamento, ma in mezzo alle quali – qui riflesso rosato della sera sul muro fiorito d’un ristorante di campagna, sensazione di fame, desiderio di donne, piacere del lusso – là volute azzurre del mare mattutino ad avvolgere frasi musicali che ne emergono parzialmente come le spalle delle ondine – il più semplice dei gesti, degli atti rimane racchiuso come in mille vasi riempiti ciascuno di cose d’un colore, d’un odore, di una temperatura assolutamente diversi; senza contare che questi vasi, disposti lungo tutta l’altezza dei nostri anni (anni durante i quali non abbiamo mai smesso di cambiare, fosse solo nel sogno e nel pensiero), sono situati a quote molto diverse, e ci danno la sensazione di atmosfere singolarmente variate […]. Sì, se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre alcun legame, gettare nessuna catena fra sé e l’istante presente, se è rimasto al suo posto, alla sua data, se ha mantenuto le sue distanze, il suo isolamento nella 13

profondità d’una valle o in cima ad una vetta, ci farà respirare di colpo un’aria nuova per la precisa ragione che è un’aria respirata in altri tempi, quell’aria più pura che i poeti hanno cercato invano di far regnare nel paradiso e che non potrebbe dare la sensazione profonda di rinnovamento che ci dà se non fosse già stata respirata, giacché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto”.4 A tali rari istanti possiamo aggrapparci per sfuggire la piatta uniformità di una intelligenza che ci svuota di emozioni e di sfumature, spingendoci verso una routine dimentica del possibile riscatto dal tempo. 2. Le cicatrici della crescita Secoli di civiltà e l’inesorabile pressione dei bisogni pratici cospirano dunque verso la tendenziale univocità e fissazione dei pensieri e delle cose che essi catturano. Ciò era stato affermato, in forme più argomentative, da Henri Bergson, cugino acquisito di Proust. Anch’egli aveva cercato di dimostrare come i contorni netti che noi attribuiamo alle cose non siano altro che lo schema di una influenza che potremmo esercitare su di esse, i programmi di possibili manipolazioni: “Essi sono il piano delle nostre azioni eventuali che viene rimandato ai nostri occhi come da uno specchio, quando percepiamo le superfici e i contorni delle cose […]. Abbiamo detto che i corpi bruti vengono ritagliati nella stoffa della natura da una percezione le cui forbici seguono, in qualche modo, il tracciato delle linee su cui potrebbe passare l’azione”.5 L’intelligenza e la percezione 14

immobilizzante sono gli strumenti di un intervento sul mondo al servizio della sopravvivenza della specie umana. L’azione, per essere efficace, deve ritagliare il mondo secondo linee di possibile intervento. Al fine di manipolarlo deve però essere in grado di misurare e di prevedere, di foggiare strumenti e macchine, di estendere il suo potere sui più disparati fenomeni. Per questo l’intelligenza e le scienze sono il prolungamento dell’azione nella loro capacità di fabbricare oggetti artificiali, strumenti e macchine sempre più perfetti. È la necessità pratica dell’azione che seleziona i ricordi in vista delle difficoltà del momento, che chiama in aiuto la memoria per risolvere analogicamente le impasses di volta in volta incontrate. Il passato si conserva così virtualmente, in maniera automatica, e la memoria è paragonata a un cono rovesciato, il cui vertice condensa un numero minimo di ricordi nel toccare il piano del presente, che sempre si allontana e sempre è inseguito, mentre i ricordi aumentano progressivamente quanto più si risale verso la base. “Chinato sul presente”, il passato ci insegue e bussa alla porta della coscienza. Questo tempo non trova ascolto se non quando è considerato utile, quantificabile. Soltanto lo spazio, tuttavia, si può misurare, soltanto quel che è esattamente programmato e prestabilito si può prevedere. Succede però che questo paradigma di dominio e di controllo del reale venga impropriamente esteso anche al campo della coscienza e della cultura umana, spazializzando il tempo e pietrificando e omogeneizzando quanto si modifica e si 15

sviluppa. Ecco allora che i nostri stati di coscienza, che sono “come degli esseri viventi, incessantemente in via di formazione”, vengono assimilati all’esteriorità reciproca delle cose inerti (al tempo cronologico suddiviso in parti uguali) e considerati stabili, malgrado la loro instabilità, distinti, malgrado la loro mutua compenetrazione. Il tempo cronologico è sostanzialmente quel simbolo t, impiegato nelle equazioni della meccanica, che offre a Bergson, giovane professore a Clermont-Ferrand, la prima occasione per riflettere sulla durata e per distinguere il carattere astratto del primo dal carattere concreto della seconda, che ha valore intensivo ed è “creazione continua, sgorgare ininterrotto di novità”. E mentre il tempo cronologico è supposto unico e lineare, quello della durata è multiplo, elastico, complesso, privo di un unico ritmo. Di contro alla coscienza diluita e segmentata dal tempo cronologico, esteriorizzata e dipendente dalle cose, occorre riappropriarsi individualmente dell’esistenza, riscoprire in se stessi la sorgente della spontaneità e della trasformazione, lo slancio “floreale” anti-meccanicistico. Se nella cornice del tempo spazializzato si assiste alla dissipazione dell’io e alla sua diretta subordinazione a esigenze sociali spersonalizzanti, all’interno della “durata” ciascuno amministra e capitalizza il proprio sviluppo, facendo “valanga su se stesso”. Su quale fulcro insistere per uscire dalla normale condizione di inerzia, dal frequente impoverimento e passività della coscienza? Triste è infatti la condizione di chi si lascia semplicemente trascinare dall’abitudine: “La 16

maggior parte del nostro tempo, noi lo viviamo all’esterno di noi stessi, non percepiamo del nostro io che un fantasma scolorito, ombra che la durata proietta sullo spazio omogeneo. La nostra esistenza si svolge dunque nello spazio piuttosto che nel tempo; viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; ‘siamo agiti’ piuttosto che agire noi stessi. Agire liberamente è prendere possesso di sé, è rimettersi nella durata pura”.6 Invertire la rotta è però difficile, in quanto il nostro senso comune, storicamente acquisito, deriva dal paradigma dello spazio omogeneo e inerte, su cui interviene, ritagliando e collegando, una intelligenza strumentale che non è né vera né falsa (in ciò Bergson è strettamente imparentato con tanta parte della cultura filosofica dell’epoca, da Nietzsche all’empiriocriticismo, da James all’immagine crociana della scienza). Dal mondo dell’azione, ossia anche del lavoro, si può evadere verso il mondo della durata pura, della libertà, il cui regno comincia oltre la prassi, oltre il lavoro. E chi potrà godere di questo privilegio? Chi potrà elitariamente sottrarsi all’“essere agiti”? Chi potrà evitare la degradazione – economica, emozionale, intellettuale – dell’esistenza? Vi è in Bergson un’implicita protesta contro il deterioramento di questo vivere, l’oscura impressione che la scienza sia diventata un alleato dell’illibertà e della reificazione. A ciò egli reagisce sostanzialmente con due strategie. In primo luogo, enfatizzando lo slancio in avanti, negando ogni datità immobile e ogni riduzione al presente o al già-stato, senza tuttavia promettere alcuna assicurazione di effettivo progresso: l’evoluzione è imprevedibile, si può solo nutrire 17

fiducia nel cambiamento. Questo perché la “durata” viene garantita dall’analogia tra la coscienza umana e la vita della natura nel suo complesso. Entrambe sono creazione continua, autoproduzione. La vita psichica è uno zampillare costante di nuova, imprevedibile spontaneità. Il suo “slancio” è solidale con l’impulso unico che è la vita in generale, che si dissocia nelle sue varie forme animali e vegetali, subendo arresti, deviazioni e regressi, ma anche cicatrizzando le sue ferite e procedendo sempre in avanti. Nella Evoluzione creatrice (1907) l’accento cade, più che sul recupero del tempo perduto, sulla proiezione verso il futuro, che è un caso particolare della spinta dell’universo nella direzione di continue metamorfosi. Una sola e identica avanzata, indivisibile e ubiquitaria, permea tutti gli esseri. Bergson la paragona a “una carica travolgente” di un immenso esercito. A proposito di questa metafora militare, è interessante notare – per inciso – come gli ufficiali francesi, educati all’Accademia da insegnanti bergsoniani alla tattica e alla strategia dell’élan vital, morissero a migliaia, nel primo periodo della Grande guerra, in “cariche travolgenti” contro le munite trincee tedesche. Alla luce di questa teoria Proust appare una specie di Bergson capovolto, malinconico, che inverte la direzione dello slancio vitale: invece di indirizzarlo in avanti, verso il futuro indefinito della carica di cavalleria della specie, lo ripiega all’indietro nel tempo perduto individuale, per ritrovarvi tuttavia l’eterno. Lo slancio vitale bergsoniano avanza comunque lungo le linee di una evoluzione divergente, che opera non per addizione o associazione, ma 18

per sdoppiamento e dissociazione, e che contiene arresti, deviazioni, regressi, atrofizzazioni o cicatrici di possibilità inespresse, latenti o bloccate. Nella vita individuale, dall’infanzia alla maturità, si perde sempre qualcosa, si restringe, col crescere, l’area del possibile. Noi siamo infatti costretti a mantenere la nostra identità in una crescita “a stelo”, potando continuamente le possibili ramificazioni della nostra personalità, gli io che avremmo voluto diventare: “Ognuno di noi, con un colpo d’occhio retrospettivo sulla sua storia, constaterà che la sua personalità di bambino, per quanto indivisibile, riuniva in sé persone diverse, che potevano restar fuse insieme perché erano allo stato nascente: questa indecisione piena di promesse è uno dei maggiori fascini dell’infanzia. Ma le personalità che si compenetrano divengono, col crescere, incompatibili e, poiché ciascuno di noi non vive che una sola vita, è costretto a fare una scelta. Noi scegliamo, in realtà, incessantemente, e incessantemente abbandoniamo molte cose. La strada che percorriamo nel tempo è coperta delle macerie di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare”.7 Immergendoci nella durata sentiamo nuovamente pulsare uno slancio che, in una delle ultime opere (Durata e simultaneità, del 1922), diventa cosmico, coinvolge l’intera realtà. Con i “colpi di sonda della durata pura” giungiamo a noi stessi, diventiamo liberi, riusciamo a ricostruire il senso della nostra esistenza. La seconda strategia consiste nell’arroccarsi all’interno dell’ultima fortezza della coscienza individuale, dove si è 19

accumulato quel che si è potuto salvare dalla reificazione, dove si celebra il corroborante rito di rammentarsi del proprio io e da cui si spera, un giorno, di poter compiere una sortita per rendere appena più complesso e profondo lo spazio esterno. All’efficacia delle scienze è contrapposta la verità della filosofia, custode di una vita più intensa. La pratica della filosofia permette alla coscienza individuale di ricostituirsi in unità dinamica, di ricongiungersi a se stessa, al di là della segmentazione e della dissipazione imposta da un’esperienza dissolvente e spersonalizzante. L’io ha bisogno di ricomporsi, di ristrutturarsi continuamente e di conservare, nello stesso tempo, la propria identità e integrità (partendo da esigenze analoghe, con soluzione diversa Nietzsche invocò il volere se stessi nell’eterno ritorno dell’uguale). Il conflitto tra l’individualità e la disgregazione che la minaccia è rappresentato, in forma drammatica, come agone tra fluidità e congelamento, tra tempo e spazio, tra neolamarckismo (per cui l’evoluzione è mossa da un bisogno interno) e darwinismo (per cui è mossa dalla lotta per la sopravvivenza). Fluidità, movimento, bisogno sono le categorie portanti del pensiero di Bergson, ma anche quelle che provocano più resistenze nella coscienza comune, “tolemaica”: “Dinanzi allo spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di noi saranno presi da vertigini. Il fatto è che sono abituati alla terra ferma; non possono avvezzarsi al rollìo e al beccheggio. Hanno bisogno di punti ‘fissi’ ai quali appendere il pensiero e l’esistenza. Essi credono che se tutto passa, niente esista; e che, se il reale è mobilità, esso non è 20

già più nel momento in cui lo si pensa, è sfuggito al pensiero. Il mondo materiale, dicono, viene a dissolversi e lo spirito ad annegare nel flusso torrentizio delle cose. Si tranquillizzino! Se consentiranno a guardarlo direttamente, senza veli interposti, il cambiamento apparirà loro ben presto come ciò che può esservi al mondo di più sostanziale e di più durevole”.8 In questo universo in perenne movimento, la realtà va ridisegnata e reinterpretata di continuo; il concetto di “dati sensibili” rigidamente positivistico va sciolto (l’oggetto visibile si complica in macchie di colore, si dissolve in linee e piani che non obbediscono più ai canoni della vecchia geometria proiettiva; le tonalità musicali si intrecciano, i suoni si sfumano o gli accordi diventano audaci, dapprima dissonanti o urtanti); anche il linguaggio e i moduli di pensiero devono mutare, scombinarsi, ricomporsi a livelli diversi e asimmetrici, acquistare maggiore plasticità ed elasticità, per tener dietro a stati di coscienza e a progetti di intervento su un mondo mutevole che hanno un alto coefficiente di obsolescenza; devono andare sempre oltre la capacità media di ricezione del grosso pubblico, che raffigura il ricostituirsi del momento inerziale, la passività e la reificazione che rapidamente si riproduce a ogni nuova avanzata. 3. Periferie della vita Anche per Georg Simmel l’individuo moderno è mobile, fluido, plasmabile. Ma nel senso di un intreccio variabile di 21

realtà date e di possibilità costruite. Esso è simile a una cifra da cassaforte, formata da elementi comuni a tutti gli altri, mescolati però in modo da produrre una precisa e inconfondibile combinazione. Nel passato l’uomo era incapsulato dentro una molteplicità di sfere tendenzialmente concentriche (famiglia, stirpe, corporazione, Stato, Chiesa). Abbandonando tale ordine e ponendo il singolo all’intersezione di circoli sociali eccentrici, la società contemporanea avanza invece verso una accentuata differenziazione.9 L’individuo diventa così tanto più se stesso, quanto più ingloba tratti di universalità condivisi con altri e quanto più allarga il ventaglio delle combinazioni possibili. Oscillando tra processi di socializzazione e di personalizzazione, ciascuno ha ora l’opportunità – non sempre còlta, e non sempre felice – di “realizzarsi”. Dare senso alla propria vita, laddove la centratura dell’individuo non è più garantita dalle istituzioni, è tuttavia un’impresa ardua. A ogni accrescimento del ruolo della soggettività si produce infatti, come contraccolpo, una dilatazione dell’ambito dell’oggettività (e viceversa), nel senso, ad esempio, in cui la razionalità inserita in una semplice macchina da cucire (oggettività priva di coscienza, progettata però consapevolmente da uno o più uomini) prende il posto della coscienza, dell’abilità, della capacità, dell’attenzione della donna che con l’ago e il filo eseguiva a mano le medesime operazioni. Simili movimenti risultano ora inglobati nella razionalità interna della macchina, in cui lo spirito “è per così dire trapassato”.10 La diffusione delle macchine esonera dalle mansioni più 22

pesanti o che richiedono maggior tempo, ma la prestazione si paga, persino nel campo dei lavori domestici. Alla donna di determinati ceti si spalanca infatti, all’improvviso, un inatteso spazio di virtualità, di tempo libero, di cui essa però non ha ancora appreso a godere. La nuova condizione la mette anzi in conflitto con il proprio ruolo tradizionale, giacché il matrimonio in quanto istituzione non ha progredito con la stessa velocità dello “spirito soggettivo” dei coniugi e delle innovazioni tecniche. La liberazione dalle fatiche non si traduce così in una maggiore soddisfazione personale, in un aumento sensato del tempo di una vita sensata: “moltissime donne della classe borghese hanno visto sfuggire il contenuto attivo della vita senza che con altrettanta rapidità altre attività o altre mete siano subentrate nel posto rimasto vuoto: la frequente ‘insoddisfazione’ delle donne moderne, l’inutilizzabilità delle loro forze che retroagendo provocano tutta una serie di turbamenti e di distruzioni, la loro ricerca, in parte sana e in parte morbosa, di conferme in un ambito esterno alla casa, è il risultato del fatto che la tecnica nella sua oggettività ha preso un cammino proprio, più rapido della possibilità di sviluppo delle persone”.11 Quanto più la razionalità emigra dalla coscienza soggettiva e si insedia in automatismi e supporti materiali (come il denaro), tanto più il singolo rischia dunque di venire svuotato delle sue precedenti prerogative. La razionalità tende a diventare priva di senso e il senso privo di razionalità. Il trasferimento della spiritualità entro automatismi oggettivi e acoscienziali lascia tuttavia agli individui uno spazio sempre più ampio di libertà e di 23

indeterminatezza. Essi non si devono ora preoccupare tanto di sopravvivere, quanto di non “sotto-vivere”, ossia di non restare al di sotto delle proprie possibilità inespresse. La pienezza e il significato della vita si ritrovano però in tempi e spazi virtuali, in un altrove insituabile nella serie degli eventi e dei luoghi in cui siamo quotidianamente collocati. A essi giungiamo in un movimento che solo apparentemente va ad ventura, verso le cose future, e in direzione di paesi esotici. Li scopriamo invece nel presente e dentro di noi, in zone “endotiche” (osservate dall’interno) dell’esperienza. Ciò che si dimostra dapprima estraneo o straniero è già in noi, è anzi noi. Attraverso un falso movimento, Simmel scopre l’essenziale nell’inessenziale, fissando il centro dei nostri interessi nella periferia della vita consueta: nel marginale, nell’eccentrico, nelle possibilità non saturate che ci vengono incontro come un dono o come il risultato di un’attività non interamente nostra, non interamente voluta (l’avventura, i sogni, le opere d’arte). Attraversando spazi logicamente intransitabili, si varca con il desiderio la parete dello specchio che separa il reale dall’immaginario, si penetra in un mondo senza spessore che appare più significativo di quello in cui tridimensionalmente ed effettivamente viviamo. Si stabilisce un gioco di vicinanza e di lontananza. Siamo sospinti verso una zona di irrealtà verace o di derealizzazione che soddisfa, verso un’illusione più vera di ogni realtà che ci circonda (non vera in senso percettivo o logico, ma in quanto ci sta maggiormente a cuore, perché la intuiamo come luogo di realizzazione di possibilità inattingibili dal mondo). Si aprono così 24

impreviste e improbabili finestre di senso, mondi e enclaves extraterritoriali alla realtà e al tempo cronologico, che alludono a un’altra esistenza più degna di essere vissuta, a una gemma incastonata nella banalità del quotidiano, a una eternità come “cessare delle relazioni temporali”.12 4. Sperare nel tragico Contro Simmel, Lukács rifiuta l’erranza dell’avventura e del marginale per trovare il baricentro e la verticalità della vita nel carattere definitivo dell’attimo. Occorre poggiare su un punto archimedeo che sia sottratto alla mutazione, su una necessità tragica, irrevocabile che non si dissolva nuovamente in possibilità: “Oggi noi possiamo nuovamente sperare l’avvento della tragedia, perché mai come oggi la natura e il destino furono così terribilmente senz’anima, mai come oggi le anime umane percorrono in tanta solitudine le strade abbandonate; è possibile sperare in un ritorno della tragedia, quando si siano dileguati del tutto gli incerti fantasmi di un ordine di comodo, che la viltà dei nostri sogni ha proiettato sulla natura per crearsi un’illusione di sicurezza”. Non l’avventura conduce dunque al centro della vita, ma la tragedia. L’avventura non fa che amplificare l’indeterminatezza della vita moderna. Esistenza e vita si contrappongono come il relativo e l’assoluto. Il tragico ci pone dinanzi alle profondità dei “grandi istanti”. Allorché li si incontrano, si spalanca dinanzi a noi “il vuoto di abissi sempre più bui”, e si avverte un subitaneo silenzio. Soltanto allora riusciamo a dare un indirizzo alla vita che “rotola 25

senza scopo”. In questi attimi il mutevole diventa infatti definitivo, il casuale necessario. Il tempo si redime e forse si apre la possibilità di cogliere, nella sua caducità stessa, i barlumi dell’eterno: “È possibile far sì che i colori, il profumo e il polline dei nostri istanti, i quali forse domani non saranno più, vengano sottratti una volta di più al deterioramento, è possibile cogliere l’intima sostanza di questa non-deteriorabilità – anche se ignota a noi stessi?”.13 L’energia umana si concentra intensivamente in simili momenti privilegiati, rifiutando la dispersione estensiva e la ripetitività del quotidiano. Entriamo con essi nell’“età eroica della decadenza”, quando non è più lecito precipitare o temporeggiare, allorché occorre fermare il declino accettandolo virilmente, sbloccando un’impasse: “Quando le cause che originariamente si opponevano al sentimento vitale, i fatti sentiti come opposizionali e altri sentimenti entrati in contrasto inconciliabile si ingigantiscono fino a resistere con pari forza, allora sopraggiunge il reale declino. In questo modo ha inizio l’età eroica della decadenza in cui non è più possibile valutare edonisticamente la virtù, vedere la vita in modo che la virtù sia ricompensa, la colpa espiazione, e in cui, tuttavia, nelle virtù continua a resistere l’energia posizionale della intensità infinita della vecchia vita, un’energia che è incapace di scendere a patti con la mutata realtà e quindi è destinata ad uscire perdente […] sono tempi in cui, per il fatto di problematizzarsi, la vita non esiste più come valore centrale per l’uomo etico”. Si avverte “il declino tragico della propria esperienza”14 e si pone il problema di come salvarla da tale equilibrio che paralizza le 26

decisioni e dissipa le energie, favorendo il “chiaroscuro” dell’esistenza. Certo, gli uomini sono per lo più ancora riluttanti al tragico. Essi aspirano simmelianamente alle delizie dell’indeterminato, dell’ignoto e dell’avventura: “Per loro dietro ogni parete di roccia che non potranno mai superare si celano paradisi imprevedibili ed eternamente irraggiungibili. Per loro la vita è anelito e speranza, gli sbarramenti imposti dal destino diventano per loro, con grande naturalezza, arricchimento interiore dell’anima. L’uomo non apprende mai dall’esistenza la foce dove sboccano i suoi fiumi: laddove nulla giunge a compimento, tutto è possibile: il compimento è il miracolo”. Nella decisione tragica, in un solo attimo, invece, spogliato di temporalità, si concentra e prende forma il senso della vita. Allora ciascuno incontra e ritrova se stesso. In questa Selbstbegegnung – in questo “incontro con se stessi”, come lo chiamerà Ernst Bloch – il centro immobile, atemporale dell’esistere si intravede nella luce di un lampo di discontinuità rispetto all’esistenza esperita come vuoto scorrere. La morte, il limite divengono fattore di cristallizzazione definitiva, danno significato alla vita, la rendono fissata una volta per sempre. Ed è proprio l’esperienza del limite a risvegliare l’anima all’“egoità”, all’autocoscienza, a impedire che evapori nell’aria, che si disperda in mille rivoli che non hanno alcuna foce visibile. La tragedia strappa dunque dai margini di se stessi e conduce al centro: “Nella vita comune gli uomini esperiscono solo la periferia di se stessi”. La tragedia costituisce il miracolo che permette al definitivo di entrare 27

nella vita, che evita il dissolversi di tutto in variazioni: “Essa interviene nel momento in cui delle energie misteriose estraggono dall’uomo la sua essenza, lo costringono all’essenzialità; il processo tragico si svolge attraverso un manifestarsi sempre maggiore di questo unico vero essere”.15 Nella tragedia il culmine della vita si tocca nella dissoluzione e nella morte. In essa l’essenziale è “che una vita acquisti la propria espressione nel tramonto, nella rovina, che il massimo della vita sia raggiungibile solo nella morte e che questo momento sia rappresentativo della vita tipica […]. La tragedia rende consapevoli i processi vitali, sicché si prova una gioia inebriante quando si riesce a vederli in trasparenza e a comprenderne la necessità”.16 Contro la speranza, esplicitamente rifiutata, la tragedia riduce le aperture e le indeterminatezze dell’esistenza a univocità irrevocabile, all’esperienza di un limite invalicabile. È necessario saper negare l’esistenza per raggiungere la vita, essere capaci di ripudiare la realtà empirica per conseguire quel che è immutabile e recinto entro i suoi limiti: “Ciò che gli uomini amano dell’esistenza è la sua temperie, la sua indeterminatezza, il suo costante oscillare come un pendolo che non tocca mai gli estremi; amano la grande incertezza, come una monotona, soporifera ninna nanna […]. Gli uomini odiano l’univocità e la temono. La loro debolezza e la loro viltà circuisce ogni impedimento che viene dall’esterno, ogni ostacolo che impedisce le loro strade”.17

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5. L’orrore della stagnazione Bergson, Simmel o il giovane Lukács sono inseriti in questo vasto programma di ricerca di nuovi linguaggi e, indirettamente, di rivitalizzazione di una civiltà. Sono vicini ai Verlaine, ai Debussy o all’art nouveau, condividono il plus ultra delle avanguardie, fanno quadrato attorno all’individualità e alla continuità insidiate, hanno un sintomatico orrore della stagnazione, malattia mortale anche di un’economia che deve avanzare per non soccombere. Ma non sono i soli a partecipare di questa profonda inquietudine. Dopo gli anni della Comune di Parigi e della “grande depressione”, in molti dei loro contemporanei si fa strada l’idea che l’auto-regolazione del mercato sia finita e che il governo della folla stia per cominciare, che si debba essere, in circostanze estreme ma non improbabili, costretti a passare o sotto le forche caudine della più rigida e coatta regolamentazione o sotto quelle dell’anarchia economica e sociale. La “mano nascosta”, di smithiana memoria, sembra stanca di intervenire sempre a porre rimedio al mal fatto, trasformando i vizi privati in pubbliche virtù e l’egoismo in beneficio collettivo. La relativa spontaneità dei comportamenti individuali non produce più automaticamente il presunto interesse generale; non si dà più armonia tra il “libero” agire dei singoli e delle classi e il progresso del “divenire sociale”. La visibilità dei processi si è intorbidata: tra l’azione e il risultato previsto si è incuneato l’azzardo, l’imprevedibile, l’elevato quoziente di rischio. 29

Solo il risultato, a cose fatte, potrà stabilire se i mezzi erano adatti allo scopo. L’efficienza presuppone una convalida a posteriori. In termini gnoseologici: tra il pensiero e i suoi oggetti non c’è più corrispondenza e la “verità” non è più concepibile come adaequatio della cosa all’intelletto. Conoscere può significare al massimo dominare, manipolare, organizzare il mondo a fini pratici, di comando o di sopravvivenza. Morto anche Dio – per larghi strati sociali – viene a cessare la necessità di una teodicea, di una giustificazione di Dio mediante l’esibizione dell’ordine del mondo. Che fare? Urgono nuovi modelli progettuali. Si può agire su due registri (separatamente o, meglio, in combinazione fra loro o con altre tecniche): 1) aumentando l’asprezza e la capillarità del controllo sociale, della disciplina esterna e interna (tramite meccanismi di interiorizzazione etica, politica o terroristica di determinate regole e obblighi); 2) promuovendo lo sviluppo delle forze produttive, mobilitando le energie individuali delle classi dirigenti e richiamando alle armi le riserve della coscienza. Nel primo caso si deve ricorrere a una pianificazione occhiuta e spersonalizzante, “spazializzante”, nel senso che si debbono neutralizzare le coscienze devianti di chi non ha interesse o volontà di partecipare a questa ristrutturazione. Nel secondo caso, la coscienza che può pensare a se stessa, perduta la sua – in parte ideologica – spontaneità sociale, cerca in sé una spontaneità al quadrato, uno sviluppo esponenziale che parta dal rinvenimento della propria base identica. Questa più potente spontaneità, che è creazione 30

del nuovo, trova il suo pendant in un campo apparentemente lontano, ma che obbedisce alle stesse linee di forza di un progetto sociale complessivo: nella Teoria dello sviluppo economico di Schumpeter, del 1911. Opponendosi ai teorici dell’equilibrio economico generale (Walras, Pareto), egli proclama la necessità dello sviluppo, fondato su innovazioni veicolate dalla volontà di successo, dalla combattività e dalla “gioia di creare” di grandi individualità, gli imprenditori, i capitani d’industria. Costoro spezzano il “flusso circolare”, la normale routine economica, e a esso sostituiscono la dinamica dello sviluppo. Per lo più gli uomini, allo scopo di risparmiare energia, vivono inconsciamente in un universo di ripetitività, di abitudini: “Ciò deriva dal fatto che […] ogni conoscenza ed ogni abitudine, una volta acquisite, rimangono così solidamente ferme in noi e così indiscernibili dagli altri elementi della nostra persona quanto una rotaia della ferrovia nel terreno. Esse non hanno bisogno ogni volta di essere rinnovate e rese consapevoli e sprofondano invece negli strati del subcosciente”.18 Gli imprenditori capovolgono questo atteggiamento. Innovare per non cadere nella stagnazione e nella regressione; sviluppare la coscienza (almeno di alcuni) e tenerla vigile per non farsi risucchiare nell’inerzia e nella dispersione. Queste sono le parole d’ordine per esorcizzare il pericolo, allora sentito, del carattere precario di quella “civiltà” e di quella coscienza. Basta infatti che la coscienza si allenti per rivelare la sua labilità. Nel sogno, nella rêverie, negli stati crepuscolari e patologici si può osservare la sua 31

scomparsa, la sua “superfluità” per la vita organica. Essa è una acquisizione filogeneticamente più recente, che non ha tuttora messo salde radici, che sfigura dinanzi alla stabilità degli organismi biologici e della “memoria organica”. La coscienza e la civiltà sono fenomeni intermittenti: possono essere temporaneamente messe tra parentesi da un disturbo psichico o da un mortale conflitto. In questi termini si esprimerà anche Freud nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte del 1915. Avvertiamo in tali affermazioni la percezione storica indiretta della crisi e dell’equilibrio precario non della civiltà in generale, ma di quella specifica forma, l’idea che l’obnubilamento della coscienza sia già, latente, dentro ciascuno di noi, al pari di quello che potremmo definire il “cattivo selvaggio”, il primitivo rintanato nella caverna della coscienza e pronto a prendere il sopravvento non appena abbassiamo la guardia. Avvertiamo, sempre più chiaramente e da più parti, l’idea che una ricaduta nella barbarie è possibile o addirittura imminente, che il progresso e gli abiti di razionalità precedentemente in vigore non sono più garantiti e forse neppure più desiderabili. Così Georges Sorel è portato a riflettere sui corsi e ricorsi vichiani della storia e a ipotizzare – a causa dell’impaludarsi della lotta di classe nel riformismo – il ritorno all’ingens sylva della società capitalistica morente. Senza l’uso dei “miti”, che rialzino artificialmente il livello dello scontro, vi è però stagnazione e non transizione a una civiltà superiore. Nella “nuova metafisica” dell’età moderna, non più basata sul rispecchiamento delle presunte strutture oggettive del 32

mondo, il mito è prodotto della volontà di credere, costituisce una macchina che cattura e articola in combinazioni sempre nuove le energie inconsce e le emozioni degli uomini in vista di azioni o sommovimenti sociali. Esso non è ancorato ad alcuna prova di realtà o di coerenza logica, ma solo alla coerenza fantastica, al rispetto dei desideri di riscatto, delle passioni, delle aspirazioni e delle lotte delle moltitudini nell’imminenza di radicali mutamenti: “gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si raffigurano la loro prossima azione sotto forma di battaglie, da cui uscirà il trionfo della propria causa […] in questo senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono miti”.19 Il rafforzarsi del Quarto stato, il diffondersi dell’alfabetizzazione e l’aumentato numero degli “intellettuali”, la volontà delle masse emergenti di partecipare attivamente all’organizzazione sociale e politica, appaiono a molti un nefasto livellamento degli uomini, lo scatenarsi dell’anarchia senza volto promossa dai socialisti. Anche Pareto concepisce in questo modo il ruolo degli intellettuali piccolo-borghesi che costituiscono l’apparato dei partiti socialisti: “Il proletariato intellettuale degli spostati, che in parte hanno origine dall’istruzione pubblica, malamente, scioccamente ordinata dalla borghesia, muove alla conquista dello Stato e dei beni della borghesia”.20 E così Le Bon annuncia una nuova era di disordini, di insicurezza: “L’avvento delle folle segnerà forse una delle ultime tappe delle civiltà occidentali, un ritorno verso quei 33

periodi di confusa anarchia che precedono il fiorire di nuove civiltà”. Per fortuna di chi le sa guidare, le folle sono manovrabili (Mussolini dirà di aver letto innumerevoli volte la Psicologia delle folle di Le Bon): esse “si trovano pressappoco nelle condizioni di un dormiente, le cui facoltà razionali, momentaneamente sospese, lasciano nascere nella mente immagini di estrema intensità, che presto si dissiperebbero se intervenisse la riflessione”.21 I capi, i meneurs de foules, hanno un segreto per farsi seguire, anche se sembrano spacciare unicamente illusioni e menzogne. Essi vendono in realtà la cosa più preziosa, la speranza. Guardando indietro alla propria infanzia, Le Bon vi ritrova l’origine delle sue convinzioni sulla superiorità della suggestione irrazionale rispetto alle argomentazioni razionali e al connesso principio di realtà. Quando era bambino giunse infatti al suo paese un imbonitore, un mago coperto di vesti scintillanti. Dava a poco prezzo un rimedio contro tutti i mali, un elisir capace per giunta di assicurare la felicità agli acquirenti. Il farmacista locale – uomo “segaligno, magro e severo” – ebbe un bel dire che si trattava di semplice zucchero: “Ma, vi prego, che valore potevano avere le dicerie di questo bottegaio geloso, contro le affermazioni di un mago coperto d’oro, dietro cui imponenti guerrieri suonavano i corni? […] Quel che il mago vendeva era l’elemento immateriale che guida il mondo e che non può morire: la speranza. I preti di tutti i culti, i politici di tutti i tempi, hanno mai venduto qualcosa di diverso?”.22 Dalla manipolazione delle cose si passa alla manipolazione “scientifica” degli uomini, all’utilizzazione 34

dell’energia libera e potenzialmente eversiva della massa, in vista di scopi che le sono estranei. L’intelligenza, la volontà, la capacità di organizzazione e di previsione delle élites deve concentrarsi, intensificarsi, per poter guidare strumentalmente questa energia di legame ancora cieca (forse non per molto); deve mantenere un distacco permanente dalla cultura e le acquisizioni della massa, affrettarsi. Il progresso – qualora venga sostenuto – lo è in forma parossistica o connesso con la distruzione, la morte rigeneratrice. In queste vesti appare, estremizzato, nei velenosi ma rivelatori elogi marinettiani della velocità, della macchina e della guerra. Diversamente da Bergson, qui la macchina non è il prodotto dell’intelligenza ottundente, ma il modello dell’uomo dell’avvenire e la sensuale compagna del presente: “Non avete mai osservato un macchinista quando lava amorevolmente il gran corpo possente della sua locomotiva? Sono le tenerezze minuziose e sapienti di un amante che accarezzi la sua donna adorata. Si è potuto constatare nel grande sciopero dei ferrovieri francesi, che gli organizzatori del sabotaggio non riuscirono a indurre nemmeno un solo macchinista a sabotare la sua locomotiva. Questo mi pare assolutamente naturale. Come mai uno di questi uomini avrebbe potuto ferire o uccidere la sua grande amica fedele e devota, dal cuore ardente e pronto: la sua bella macchina d’acciaio che tante volte aveva brillato di voluttà sotto la sua carezza lubrificante? […] Bisogna dunque preparare l’imminente e inevitabile identificazione dell’uomo col motore, facilitando e perfezionando uno scambio incessante d’intuizione, di ritmo, d’istinto e di 35

disciplina metallica, assolutamente ignorato dalla maggioranza e soltanto indovinato dagli spiriti più lucidi”.23 Nella disciplina metallica e nell’identificazione col motore, dispensatore di energia, la classe dominante ottiene una nuova legittimazione. Modernizzando l’apologo di Menenio Agrippa, si può dire che allo “stomaco” della proprietà fondiaria, che avrebbe ridistribuito il nutrimento alle “braccia” della plebe, si sostituisce il “motore” del capitalismo industriale, che trasmette il movimento agli organi meccanici della “maggioranza”. L’innovazione passa attraverso il controllo rigoroso, l’annientamento di quel che viene giudicato “vecchio”, compresa la guerra, la lotta contro la “possente morte, atletica e spalmata di tenebre”.24 Anche gli oggetti cominciano così a cambiar forma. Finiscono le sinuose forme liberty; il mondo vegetale, di cui amava ricoprirsi un industrialismo che ancora si vergognava di se stesso, si è disseccato; lo slancio si è corazzato, irrigidito nelle asciutte geometrie degli oggetti di serie e delle armi. In parte convergente con le posizioni su esposte è in Italia la filosofia di Giovanni Gentile, che tanto peso ha avuto anche per motivi extra-teoretici. Egli era partito da una interpretazione in senso attivistico del marxismo – prassi come produzione soggettiva dell’uomo, educazione dell’educatore (da una sua interpretazione della terza delle Tesi su Feuerbach di Marx), unità di maestro e di discepolo – per giungere a una concezione, più neo-fichtiana che neohegeliana, del movimento spirituale, e all’adesione al fascismo quale erede del Risorgimento e antagonista 36

dell’atomismo individualistico attribuito al liberalismo. In lui il pensiero è un atto che non può mai completamente oggettivarsi, che deve incessantemente inglobare l’alterità, consumando anche le scorie empiriche e individualistiche. È energia che si scarica e si degrada dopo ogni sosta (qui, veramente, “chi si ferma è perduto”: siamo in piena guerra di movimento) e che tuttavia perennemente risorge dalle proprie ceneri. Nell’estate del 1943 – dopo il 25 luglio e prima dell’8 settembre, tra la caduta di Mussolini e il momento cruciale del disfacimento delle istituzioni – Gentile esprime uno dei punti più alti del suo pensiero in Genesi e struttura della società. Con il pathos di chi vede allontanarsi la realizzazione dei suoi ideali, elabora ancora una volta il tema dello “Stato etico”. Lo considera lo scopo supremo a cui tende una comunità e, insieme, lo strumento della fusione completa e senza residui degli individui in un tutto organico, la solida rete che istituisce e mantiene i vincoli di solidarietà tra i cittadini di una determinata nazione. Nei confronti dell’individuo, lo Stato assume il ruolo che per Agostino aveva Dio nell’anima di ciascuno, di essere “più intimo a me stesso di quanto io lo sia alla parte più intima di me” e “più alto delle mie facoltà più alte” (cfr. Confessioni, iii, 6, 11). Per questo – dice Gentile – esso non si realizza nel mero inter homines esse, ma vive anche e soprattutto in interiore homine. Noi siamo lo Stato. Esso però contiene anche un elemento di alterità, di superiorità, con cui devo entrare necessariamente in conflitto. La sua è un’autorità che sembra limitare arbitrariamente la mia libertà sinché, dopo 37

la lotta, non capisco il nascosto legame per cui l’individuo si sviluppa parallelamente allo Stato. “In fondo all’Io c’è un Noi”: è questo il motivo costante, che si dispiega in numerose variazioni e modulazioni. Alla base dell’Io si ritrova “una sorta di originaria socialità”,25 che lo àncora e lo stabilizza nella sua identità che diversamente sarebbe per assurdo incerta e mobile (perché, anche volendo, l’individuo non riuscirebbe mai a essere “questo Io”, singolo atomo isolato, l’Unico nel senso di Stirner). L’individuo è parte della societas, alla cui vita contribuisce. Ognuno ha in sé il proprio socius e ogni pensare è un dialogare, simultaneamente, con sé e con l’altro da sé che non rappresenta soltanto un nostro ospite passeggero, che non è soltanto in noi, ma è Noi. Nella concreta dialettica di “particolare” e di “universale” (due entità astratte, se considerate isolatamente), il singolo non è pura libertà, così come lo Stato non è pura costrizione. La conclamata identità di particolare e di universale, di libertà e di autorità, risulta tuttavia, in Gentile, dubbia. La natura dello Stato etico consiste, infatti, proprio nel non concedere al soggetto, all’Io, alcuna reale autonomia rispetto allo Stato. L’autorità soffoca così la libertà, il Noi l’Io. Al singolo viene anzi interdetta la possibilità di effettiva negazione, di innovazione, di lotta e di decisione autonoma fruttuosa: tutto viene avocato, in ultima istanza, alla maestà dello Stato. 1 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di

Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1991-95, pp. 8-9, 468. 38

2 Cfr. Id., Albertine scomparsa, in Alla ricerca del tempo

perduto, cit., pp. 215-216. 3 M. Proust, Sodoma e Gomorra, in Alla ricerca del tempo

perduto, cit., p. 190. 4 M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo

perduto, cit., pp. 218-219. 5

H. Bergson, L’évolution créatrice, in Oeuvres, Presses Universitaires de France, Paris 1959, p. 504. 6

H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, in Oeuvres, cit., p. 151. 7 H. Bergson, L’évolution créatrice, cit., pp. 579-580. 8 H. Bergson, La pensée et le mouvant, in Oeuvres, cit., p.

1385. 9 G. Simmel, La differenziazione sociale, Laterza, Roma-

Bari 1982, pp. 119 sgg. 10 Ivi, p. 136. 11 G. Simmel, Filosofia del denaro, Utet, Torino 1984, pp.

654-655 e cfr. Id., Cultura femminile, in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985. 12

G. Simmel, Il paesaggio di Böcklin, in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, il Mulino, Bologna 1985, p. 86. 13 G. Lukács, L’anima e le forme (1911), SugarCo, Milano

1963, pp. 309, 231, 228, 235. 14 G. Lukács, Il dramma moderno, SugarCo, Milano 1976,

pp. 56-58. 15 G. Lukács, L’anima e le forme, cit., pp. 307-308, 314,

311-312. 39

16 Id., Il dramma moderno, cit., pp. 63, 65. 17 G. Lukács, L’anima e le forme, cit., p. 307. 18

J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1971, pp. 103, 94. 19 G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Laterza, Bari

1970, pp. 73-74. 20

V. Pareto, Memento homo, in “Il Regno”, I, 1904, 55, p. 532. 21 G. Le Bon, La psicologia delle folle, Longanesi, Milano

1970, pp. 40, 98. 22

G. Le Bon, La psychologie politique, Flammarion, Paris 1911, pp. 134-135. 23

F.T. Marinetti, L’uomo moltiplicato e il regno della macchina, ora in Teoria e invenzione futurista, Mondadori, Milano 1968, pp. 255-256. 24

Id., La battaglia di Tripoli, Edizioni futuriste di “Poesia”, Milano 1912, p. 10. 25 G. Gentile, Genesi e struttura della società, Sansoni,

Firenze 1955, p. 32.

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II. Verso nuove evidenze: filosofia e sapere scientifico

1. Il pensiero matematico Di fronte a questa strategia teorica che dissolve e sfuma il mondo, che pone l’accento sulla durata, la velocità, l’atto puro, che privilegia il momento psicologico, soggettivo, costruttivistico, si colloca una strategia complementare e coeva, basata sulla descrizione tersa e minuziosa dei fenomeni, considerati nella loro struttura e anche nel loro manifestarsi spaziale o sociale, e sulla dipendenza del soggetto da “datità” immobili che si impongono per autoevidenza o costrizione esterna. Per capire meglio la differenza tra queste due linee si può ricorrere a un paragone: mentre la prima insiste sulle funzioni di movimento, le dissolvenze, le sovrapposizioni e tutti gli artifici tecnici soggettivi del film del reale, la seconda si sofferma piuttosto sull’analisi accurata di ogni singolo fotogramma e si interroga sulle procedure specifiche della sua costituzione. In quest’ultimo caso abbiamo in sostanza una ripresa a più alto livello della tematica dell’oggettività del conoscere, una messa in rilievo del carattere di cogenza posseduto da certi dati e da certe relazioni nei confronti del soggetto. Il positivismo ingenuo aveva in precedenza cercato di risolvere il problema dell’oggettività facendo perno sul concetto di “dato”: i dati sarebbero squadernati davanti a tutti e non si dovrebbe fare altro che raccoglierli con 41

metodo, ordinarli adeguatamente ed esporli. In tale processo il pensiero e l’interpretazione apparivano come additivi non consentiti, suscettibili di alterare la purezza cristallina dei fatti, mentre la storicità dei paradigmi percettivi, linguistici e teorici non veniva neppure esaminata e assumeva semplicemente un aspetto naturalisticamente eterno. Il soggetto era una spugna che assorbiva il mondo. Quando però ci si rese conto che i dati e gli oggetti sono il risultato di operazioni complesse; che la percezione sensibile stessa è una modalità di strutturazione; che esistono molteplici ordini possibili di organizzazione dei dati; quando anche le “scienze esatte” furono costrette dalla loro dinamica interna ad abbandonare il richiamo all’intuizione e si accorsero che i dati erano subordinati ai parametri dei sistemi osservativi scelti, allora sembrò che il sapere avesse perduto ogni aggancio con la realtà, che ogni certezza ed evidenza immediata fossero tramontate. Persino le scienze, come la geometria e l’aritmetica, che in millenni di storia non solo avevano dato “buona prova di sé” ma erano anche diventate un modello riconosciuto per altre branche del sapere, apparivano in profonda crisi di identità. Il loro stesso rapido sviluppo sembrava quasi frastornante, dissipativo, non più riconducibile a criteri unitari di intellegibilità (anche qui lo slancio in avanti comporta una perdita di visibilità dei fondamenti e richiede uno sforzo per riappropriarsene, per ricongiungersi alla propria origine e comprendere le proprie mosse). Come già era avvenuto per i numeri immaginari, si constatava ora la fecondità operativa di determinate costruzioni, senza però 42

potersi rendere pienamente conto dei motivi del successo. Così la negazione del quinto postulato di Euclide – “nel piano, per un punto esterno ad una retta r si può condurre una e una sola parallela a r” – legittimava in maniera sconcertante altre geometrie “non-euclidee”, tutte perfettamente funzionanti, in cui l’intuizione sensibile normale veniva messa fuori gioco: nelle costruzioni di Lobacevskij e di Bolyai per un punto esterno a una retta data passano infinite parallele, in quella di Riemann, nessuna. Non vi sono ormai geometrie più “vere” delle altre (anche perché si è potuto dimostrare che lo spazio soggetto alle leggi fisiche della teoria einsteiniana della relatività generale è non-euclideo) e tutte devono coesistere in una realtà pluralistica. Cade con ciò l’idea di uno spazio naturale, intuitivamente rappresentabile, isomorfo rispetto a quello euclideo, e si accresce normalmente il distacco tra la comune esperienza sensibile e la scienza, che sembra decollare verso atmosfere estremamente rarefatte e costituirsi in universi di regole retti soltanto dalla coerenza interna. L’evidenza non appare più offerta dal riferimento a un patrimonio collettivo di modalità percettive e argomentative, ma si attesta a livelli più profondi, presuppone prima un distacco traumatico da esso e un salto in direzione di linguaggi specializzati, settoriali, discontinui, in cui essa si mostra infine agli iniziati. Come a chi entra in un ordine monastico si chiede di abbandonare il mondo e di sentire e pensare diversamente, così ora a chi entra nella scienza si chiede il sacrificio dell’intuizione immediata e la rinuncia agli atteggiamenti prima naturali. Si domanda 43

quello sguardo, che penetra al di là dei fenomeni esteriori, che è così efficacemente espresso da un racconto taoista: il Duca Mu di Chin prega Po Lo di trovargli un cavallo superlativo, ma questi, ormai vecchio, raccomanda un amico, Chiu-fang Kao, indicandolo come il miglior conoscitore di cavalli; passati tre mesi, Chiu-fang annuncia di aver trovato un destriero superbo e di averlo lasciato a Shach’iu: “Che tipo di cavallo è? – chiese il Duca. – Oh, è una cavalla di color bruno grigiastro, – fu la risposta. E invece quando si mandò qualcuno a prenderlo si scoprì che l’animale era uno stallone nero come la notte! Molto dispiaciuto il Duca mandò a chiamare Po Lo. – Quel tuo amico – gli disse – che avevo incaricato di ricercare un cavallo, ha combinato un bel guaio. Ma se non sa neppure distinguere il colore o il sesso di un animale! Cosa mai può sapere dei cavalli? – Po Lo emise un sospiro di soddisfazione. – Si è veramente comportato così? – gridò. – Eh, allora è diecimila volte più bravo di me. Non c’è paragone tra me e lui. Ciò che interessa Kao è il meccanismo spirituale. Per assicurarsi l’essenziale dimentica i dettagli più comuni; tutto intento alle qualità interiori, perde di vista le esteriori. Egli vede ciò che vuol vedere e non ciò che non gli interessa. Egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza. Kao è un così bravo giudice di cavalli che ha in sé le qualità per giudicare cose ancora migliori che i cavalli. – Quando il cavallo arrivò, non vi fu più alcun dubbio, era proprio eccezionale”.1 Il percorso dall’ignoranza al sapere matematico non è più 44

così relativamente piano come nel Menone platonico, dove anche un giovane schiavo incolto, se opportunamente guidato, può giungere a dimostrare il teorema della duplicazione del quadrato. Gli enti matematici si sono moltiplicati e le loro reciproche relazioni sono divenute intricate. Si possono percorrere diverse strade per arrivare a comprendere la nuova situazione, ma tutte presuppongono o un rafforzamento dei processi fondativi sul piano logico o una riformulazione delle nozioni di intuizione, evidenza e datità (talvolta questi percorsi si incrociano). Sul terreno delle matematiche in genere si assiste quindi a tentativi altamente complessi di ricerca dei fondamenti comuni mediante una connessione di matematica e logica – attribuendo un diverso significato all’oggettività degli enti matematici –, mediante strategie di formalizzazione che prescindono dalla “verità” oggettiva di tali enti o mediante la scoperta di nuovi procedimenti intuitivi. Nella prima direzione si muovono Cantor, Frege e il Russell del periodo precedente il 1914, che avevano sostenuto l’oggettività degli enti matematici, il loro essere platonicamente indipendenti dal nostro pensiero. Così nel fondare una teoria logica dell’aritmetica (già considerata una scienza senza difficoltà, quella che si comincia a insegnare ai bambini), Cantor collega il suo concetto di “insieme” con l’idea platonica o con il miktón (l’agglomerato, il composito) del Filebo.2 E Frege, in polemica con i fautori della logica psicologistica, come Benno Erdmann, può dire: “Io riconosco un campo dell’oggettivo non reale, mentre i logici della scuola psicologica ritengono che il non reale sia per ciò 45

stesso soggettivo. Eppure non si riesce a vedere per qual recondito motivo ciò che ha consistenza indipendente da chi giudica, debba per forza essere reale, e debba risultare in grado di agire immediatamente o mediatamente sul senso”.3 Una proposizione matematica non cessa di essere vera allorché io non la penso più, “come il sole non cessa di esistere allorché chiudo gli occhi”.4 Russell, che aveva creduto, con Frege, nella realtà dei numeri che popolano “il regno senza tempo dell’essere”,5 è categorico nell’affermare l’esistenza platonicamente reale dei numeri: “L’aritmetica deve essere scoperta proprio nello stesso senso in cui Colombo scoprì le Indie Occidentali e noi non possiamo creare numeri più di quanto Colombo abbia creato indiani”.6 Attraverso la matematica l’oggettività del sapere si salva dalla distruzione della certezza sensibile precedente e dell’arbitrio soggettivo e convenzionalistico, ma è costretta a trasportarsi in una regione in cui l’uomo non ha più potere di intervento, facoltà di critica. Il matematico è lo scrivano fedele di leggi non umane e l’infinito attuale cantoriano non solo viene dichiarato esente dal “panteismo” di cui fu accusato, ma è posto in relazione con l’infinitum creatum divino della tradizione cristiana.7 L’uomo deve accettare queste verità non sensibili e non psicologiche che si impongono da sé, al di fuori del pensiero concreto, dell’esperienza e della storia. Attraverso il rinnovato platonismo la certezza indiscutibile del “dato” positivistico viene restaurata al quadrato, viene sottratta al mutamento. Il voler fondare la matematica su basi logiche generò tuttavia non poche difficoltà. Caduto il riferimento 46

all’intuizione, all’esperienza e alla psicologia, abbandonata alla sola prova della coerenza interna, la ragione matematica sembra invischiarsi in paradossi logici insolubili, analoghi a quello classico del Mentitore di Eubulide che dice “io mento” (questa asserzione è vera o falsa?). Già Cantor si era accorto nel 1895 che la sua teoria degli insiemi conteneva una antinomia, ma fu Russell che individuò nel quinto assioma dei Grundgesetze di Frege una contraddizione paralizzante, la cosiddetta antinomia di Russell, appunto, o della classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse. Tre anni dopo, nel 1905, Julius König dimostrava la non affidabilità della teoria cantoriana della fusione in un aleph della considerazione cardinale e ordinale degli insiemi. Lo stesso rapporto tra logica e matematica rischiava così di esser messo in crisi. Frege si consolava, nel poscritto al secondo volume dei Grundgesetze, notando come la sua situazione non fosse peggiore di quella degli altri: Solatium miseris, socios habuisse malorum. Ma la riflessione su tale strettoia non fu senza risultati e condusse Russell alla formulazione della “teoria dei tipi” (perfezionata in seguito con la “teoria ramificata dei tipi”), per cui, onde evitare le antinomie provocate dall’autoriferimento o “riflessività” delle proposizioni, occorre una gerarchia degli enti logici, tale che ogni funzione proposizionale sia di ordine logico superiore ai suoi argomenti e ogni classe di tipo logico superiore ai suoi elementi. Nei Principia mathematica – scritti in collaborazione con Whitehead tra il 1910 e il 1913 – Russell giunse così a riunire in un corpus organico i principi dell’intera matematica. 47

Sul fronte di una formalizzazione della matematica si muove anche David Hilbert. Ma egli non crede, come Bolyai, alla “verginale verità” dei suoi enti, né li ipostatizza in termini realistici: è soddisfatto della “sicurezza” offerta da sistemi formali non autocontraddittori. Dai Fondamenti della geometria del 1899 sino ai Fondamenti della matematica (opera composta assieme a Paul Bernays tra il 1934 e il 1939) egli persegue lo scopo di creare dei sistemi assiomatici non contraddittori (intendendo gli assiomi come postulati che stabiliscono il senso di simboli altrimenti indefiniti), che permettono la derivazione meccanica di formule, affiancati da una metamatematica che ha il compito di provare la tenuta logica di tutta la matematica. Non si tratta tuttavia per lui di rinunciare all’intuizione in quanto tale – si può seguire, in via subordinata, anche questo metodo, come insegna la sua Geometria intuitiva del 1932 –, ma di pensare con consapevolezza, senza presupporre spazi naturali o corrispondenza ontologica tra apparato assiomatico e mondo: “Procedere assiomaticamente non significa in questo senso altro che pensare con consapevolezza. Prima invece, quando non usavano il metodo assiomatico, gli uomini credevano ingenuamente in varie connessioni come dogmi. L’assiomatica elimina questa ingenuità, ma ci lascia tutti i vantaggi della credenza”.8 Contro tutte le dottrine logistiche e formalistiche si pone il “neointuizionismo” di Brouwer e di Heyting, secondo i quali la matematica è basata sull’intuizione del tempo, “dell’unità nella differenza, della persistenza nel mutamento”. Non sull’intuizione sensibile, dunque, come 48

quella dello spazio, né sulle verità logiche, che sono piuttosto un prodotto delle pratiche costruttive che partono dai dati intuitivi, ma proprio su questo immediato intuire lo scorrere del continuo. Brouwer ammetteva che un sistema formale non potesse essere definitivo, e così non fu messo nello stesso imbarazzo di Hilbert quando Gödel provò l’esistenza di limiti nella dimostrabilità del carattere non contraddittorio dei sistemi assiomatici e la possibilità idealmente infinita di costruire metamatematiche di ordine superiore a quelle di volta in volta esibite. Gli sviluppi della matematica sono stati in seguito molto ricchi sia nell’impostazione che nell’apertura di insospettati terreni d’indagine. Così un gruppo di matematici francesi (André Weil, Jean Dieudonné e altri), che prende il nome collettivo di Bourbaki e ha iniziato a pubblicare dei volumi in collaborazione a partire dal 1939, è riuscito ad aggirare l’opposizione tra formalisti e intuizionisti, insistendo sul bisogno di sostituire le idee ai calcoli e dichiarandosi insoddisfatto della sola esigenza del rigore. “Se la logica,” afferma Dieudonné, “è l’igiene del matematico, non gli fornisce però alcun cibo.” Anche per i suoi effetti sulla riflessione epistemologica, tra i molti risultati degli ultimi decenni si possono ricordare l’estendersi della matematica pura nei campi del discontinuo e della complessità, come nel caso della teoria delle catastrofi di René Thom, che analizza l’improvviso cedere di strutture di equilibrio, o in quello dello studio degli oggetti frattali, figure geometriche molto irregolari, proposto da Bénoit Mandelbrot. Nell’ambito invece della “matematica applicata” o 49

comunque legata alla ricerca extra-matematica spicca la proliferazione di nuovi rami, dovuta in buona parte al contraccolpo tanto dell’enorme sviluppo dell’informatica (termine che nasce dalla contrazione, in francese, di information automatique), quanto della nascita dell’intelligenza artificiale (disciplina che si propone di costruire macchine intelligenti in grado di simulare i processi cognitivi della mente umana o anche, per converso, di studiare il pensiero umano in analogia alle procedure effettive, o algoritmi, delle macchine stesse). Senza contare numerosi linguaggi formali, sono così sorte, ad esempio, la teoria matematica della comunicazione, inaugurata da Claude E. Shannon e legata al calcolo delle probabilità, e quella computazionale, che ha incrinato il concetto classico di dimostrazione. L’incidenza sulla filosofia e sulle dinamiche sociali degli strumenti di elaborazione dell’informazione e di simulazione di facoltà intellettuali e movimenti corporei umani è sotto gli occhi di tutti e la loro azione è ben lontana dall’essersi esaurita. 2. La relatività Guardando in trasparenza a questi sforzi della matematica per ridefinire il proprio statuto scientifico, si riesce anche a vedere, in forma stilizzata, il profondo travaglio sociale teso a ricostruire differenti sistemi di coordinate per interpretare il reale, reti di relazioni i cui nodi sono costituiti da “evidenze”, dall’identificazione di punti relativamente stabili, di sosta, nella ridda dei 50

mutamenti. Grammatiche dello sguardo, collegamenti sintattici, campi di designazione, abiti di razionalità, pratiche lavorative si vengono faticosamente strutturando in maniera nuova. Tramonta definitivamente l’immagine di comodo dell’esistenza di norme fisse, naturali, a cui la conoscenza e i comportamenti umani debbano far capo: il mondo sembra all’improvviso meno coerente, meno riconducibile a standard di semplicità. Il fatto è che anche le precedenti norme erano il prodotto di uno sforzo di sistemazione complesso della realtà, ma di uno sforzo prolungato, lento, tale da apparire quasi immobile al senso comune, a chi non aveva pratica del mutamento concettuale. Ora invece i cambiamenti sono macroscopici, sotto gli occhi di tutti e la scienza se ne fa carico più direttamente, agisce, da posizioni privilegiate, nel complicato gioco di ridistribuzione e di riqualificazione dei ruoli e delle funzioni sociali. Essa trasmette ai “non addetti ai lavori” non solo i risultati semplificati delle proprie operazioni, ma il sentimento stesso dell’instabilità, della problematicità del reale. I vecchi poli di convergenza metafisica del tutto (Dio, uomo e mondo), sotto i quali la realtà era stata rubricata, non tengono più, si sfaldano dall’interno. I meccanismi sociali di focalizzazione e di connessione delle cose si sono in parte inceppati, sono in riparazione. La scienza nel suo complesso, e non solo la matematica, opera per metterli a punto e per adattarli alle nuove circostanze. Così l’immagine del mondo offerta dalla fisica è sorprendente per il senso comune, ne capovolge l’idea di un universo sempre uguale a se stesso, indipendente dal sistema di riferimento scelto per 51

inquadrarlo e dall’intervento dell’osservatore. Spesso è ritagliata nella stoffa di altri mondi possibili, che è lecito pensare senza contraddizione e che servono a misurare la relatività degli assunti di partenza di ogni indagine. Come in questo universo ipotizzato da Poincaré: “Immaginiamo, per esempio, un mondo rinchiuso in una grande sfera e sottoposto alle leggi seguenti: la temperatura, non uniforme, è massima al centro, e diminuisce man mano che ci se ne allontana, per ridursi allo zero assoluto quando si attinge la sfera dove questo mondo è rinchiuso. Preciso ora la legge secondo cui varia questa temperatura. Sia R il raggio della sfera limite; sia r la distanza del punto considerato al centro della sfera. La temperatura assoluta sarà proporzionale a R2 – r2. Supporrò inoltre che, in un siffatto mondo, tutti i corpi abbiano lo stesso coefficiente di dilatazione, in maniera che la lunghezza d’un regolo qualunque sia proporzionale alla sua temperatura assoluta; e infine che un oggetto trasportato da un punto all’altro, la cui temperatura sia differente, si metta immediatamente in equilibrio termico col suo nuovo ambiente. Niente in questa ipotesi è contraddittorio o inimmaginabile. Un oggetto mobile diventerà allora via via più piccolo man mano che si avvicinerà alla sfera limite. Osserviamo anzitutto che, se questo mondo è limitato dal punto di vista della nostra geometria abituale, sembrerà però infinito ai suoi abitanti. Quando questi, in effetti, vogliono avvicinarsi alla sfera limite, si raffreddano e divengono via via più piccoli, sì che essi non possono mai attingere la sfera limite”.9 Quando, nel 1902, Poincaré formulava questa teoria, essa aveva solo un valore ipotetico, 52

doveva corroborare le sue tesi convenzionalistiche (è tuttavia errato ridurre, secondo le volgarizzazioni di Le Roy, l’epistemologia di Poincaré al convenzionalismo: le “ricette scientifiche” hanno anche un significato teoretico, di previsione, e poi la convenzionalità non coincide con l’arbitrio). Appena qualche anno dopo, con le teorie einsteiniane della relatività ristretta e della relatività generale (del 1905 e del 1916), questi mutamenti, che sembrano valere solo per mondi immaginari, vengono applicati anche al nostro mondo. I concetti di contrazione delle lunghezze e di dilatazione dei tempi relativizzano l’idea di una uniformità assoluta delle misure e dell’esistenza di sistemi di riferimento assoluti: a un osservatore solidale con un sistema di riferimento che si muove a velocità V rispetto a un altro che si presume fermo, un regolo apparirà più corto e un orologio più rallentato rispetto a misurazioni analoghe effettuate dall’osservatore solidale con l’altro sistema. Non solo lo spazio, ma anche il tempo e la nozione di “simultaneità”, perdono il carattere di assolutezza che avevano nella fisica classica. Tuttavia, già Galilei, nei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, per spiegare la relatività dei movimenti, porta l’esempio di una nave che da Venezia viaggia verso Aleppo. Le mercanzie – “balle, casse ed altri colli” che stanno nella stiva – si muovono in direzione della Siria rispetto al porto di partenza, ma non rispetto alla nave. Nella cosiddetta “relatività galileiana” ogni moto è quindi relativo al sistema di riferimento adottato. Si tratta però di 53

una concezione puramente cinematica e non dinamica del movimento. Essa non si interroga cioè sulle cause che producono, inibiscono o modificano il moto. In Newton, invece, il problema è proprio quello di determinare la natura delle forze le quali, a ogni istante, modificano il moto inerziale (rettilineo e uniforme) che ogni corpo lasciato a se stesso avrebbe spontaneamente. La forza d’inerzia, associata a concetti di spazio e di tempo assoluti, è dunque quel che caratterizza la fisica newtoniana. In essa lo spazio agisce sugli oggetti, ma non viceversa, ed esiste indipendentemente da essi. Il tempo verum et mathematicum misura in maniera assoluta tutti gli eventi stabilendone la simultaneità o la successione. Mach aveva considerato la posizione di Newton sul tempo assoluto puramente metafisica: “si ha l’impressione che Newton sia ancora sotto l’influenza della filosofia medioevale”. Affermare infatti che qualcosa muta col tempo significa semplicemente “dire che gli stati di una cosa A dipendono dagli stati di un’altra cosa B”. Dato però che possiamo scegliere il sistema di riferimento, si produce l’“illusione errata” che il riferimento stesso sia inessenziale. Sorge così l’idea del tempo assoluto e si scambia un’astrazione metafisica con la realtà: “Non siamo in grado di misurare i mutamenti delle cose rapportandoli al tempo. Al contrario il tempo è un’astrazione, alla quale arriviamo proprio attraverso la constatazione del mutamento, grazie al fatto che per la dipendenza reciproca delle cose non siamo costretti a servirci di una determinata misura”.10 La teoria einsteiniana non si distingue dunque dalle teorie classiche per aver introdotto l’idea di relatività, ma per 54

averla generalizzata, resa più complessa, inserita in dispositivi concettuali in grado di unificare campi del sapere prima separati. Le grandi intuizioni di Einstein sono state quelle di dimostrare come inerzia e gravitazione coincidano e come si possa (e si debba) fare a meno delle nozioni di spazio e tempo assoluti. La teoria della relatività, come tutti i modelli scientifici, è in effetti una teoria di invarianti. Quale costante naturale, valida per qualsiasi sistema di riferimento, resta solo la velocità della luce nel vuoto, secondo le equazioni formulate da Maxwell nel 1873. Questo assunto contrasta con le leggi della meccanica classica, per cui le velocità di due corpi che si muovono in direzione opposta si sommano, dimodoché la luce proveniente da stelle verso cui la Terra si avvicina dovrebbe possedere una velocità maggiore di quella di stelle da cui la Terra si allontana. Se la velocità della luce è costante, variabili sono, dunque, i sistemi metrici. Come in certi quadri di Dalì, dove orologi e regoli appaiono deformabili, molli, “squagliati”. Alla teoria della relatività ristretta, Hermann Minkowski applicherà poco dopo (1908) il cosiddetto “cronotopo”, uno spazio quasi-euclideo, quadridimensionale, costituito dalla totalità degli eventi (un evento che si verifica in un tempo t nel punto P dello spazio avente le coordinate cartesiane [x, y, z] viene rappresentato, considerando il tempo quale quarta dimensione dello spazio, mediante le coordinate cronotopiche [x, y, z, t]). Nella teoria della relatività generale, Einstein combinerà il sistema cronotopico con lo spazio riemanniano. Anche la differenza tra materia ed 55

energia tende a sfumare in Einstein nella variazione tra diverse “densità di campo”. La teoria della relatività, assieme alla meccanica quantistica, rappresenta una delle vette del pensiero scientifico del Novecento (e, per gli effetti di ricaduta, anche di quello filosofico). A Einstein, tuttavia, il “principio di indeterminazione” formulato da Werner Heisenberg non poteva piacere, perché sembrava mettere in gioco la perfetta calcolabilità dell’universo fisico. In realtà, esso nega soltanto il “fantasma euristico” di un modello statico e rigido del mondo fisico, di una descrizione esauriente della realtà da cui l’osservatore venga escluso al fine di enucleare la verità in sé. Tale principio si limita invece ad affermare che bisogna scegliere il modo della descrizione. Heisenberg stabilisce infatti l’impossibilità di determinare – rigorosamente e nello stesso tempo – la posizione di una particella subatomica e la sua quantità di moto. O si determina la prima (e resta indeterminata la seconda) o si determina la seconda (e resta indeterminata la prima). L’osservatore perturba necessariamente, anche se di poco, l’oggetto su cui conduce un esperimento o una misurazione. Per ricorrere a un esempio da manuale, è come se volessimo stabilire con totale precisione la temperatura dell’acqua calda in una vasca da bagno. Non avremmo modo di farlo, perché il termometro sottrae calore, e quindi modifica – per quanto impercettibilmente – la temperatura della massa d’acqua. Ciò, tuttavia, non implica affatto che le leggi fisiche divengano incerte, che si introduca quindi nella cittadella della scienza il cavallo di Troia dell’irrazionalità. Vuol dire, 56

semplicemente, che le imprese conoscitive sono più complesse di quel che si era abituati a credere. Di questa complessità si è reso interprete, in anni più recenti, Ilya Prigogine. In riferimento alla dinamica irreversibile delle teorie classiche e quantistiche, egli ha mostrato come anche l’universo abbia una storia e come il tempo del mondo condivida con il tempo dell’uomo l’elemento fondamentale dell’irreversibilità. I fenomeni irreversibili – come quelli studiati dalla termodinamica, in particolare dalla sua seconda legge – non conducono però necessariamente all’aumento dell’entropia, del disordine, alla cosiddetta “morte per freddo dell’universo”. Non si svolgono infatti in un sistema chiuso (che non assorbe cioè energia dall’esterno, né la cede), ma in un sistema aperto, “dissipativo”. Le fluttuazioni al suo interno, le violazioni dell’equilibrio, producono così nuovo ordine, imprevedibile ma rigorosamente analizzabile, che sorge proprio dal disordine. Tale impostazione segna la fine del determinismo, del trionfo della necessità, come era stato suggerito nell’Ottocento da Laplace. Non è vero che, se conoscessimo perfettamente lo stato del mondo in un momento dato, saremmo poi in grado di predire con assoluto rigore anche i suoi stati futuri: “Nella concezione classica il determinismo era fondamentale e la probabilità era un’approssimazione alla descrizione deterministica. Oggi è l’inverso: le strutture della natura ci costringono a introdurre la probabilità indipendentemente dall’informazione che possediamo. La descrizione deterministica non si applica infatti che a delle situazioni semplici, idealizzate, che non sono 57

rappresentative della realtà fisica che ci circonda”.11 La distanza tra la presunta inesorabile fissità delle leggi della natura e l’inafferrabile mutevolezza del mondo umano tende così a ridursi. In gradi diversi, l’instabilità e l’emergere dell’imprevisto è comune a entrambe. Risulta, di conseguenza, percorribile – seppure in prospettiva – la strada di una “nuova alleanza” tra natura e uomo, fisica e metafisica: “Forse ci orientiamo verso una nuova disciplina che erediterà dalla fisica la preoccupazione del mondo, della descrizione quantitativa, e dalla metafisica classica l’ambizione di una immagine coerente globale che la includa”.12 3. Lo spazio interiore Soggetto e oggetto non si fronteggiano più, come nella fisica e nella metafisica classiche, quali entità compatte che si sfidano. Questi due poli tradizionali si articolano invece su schemi di massima complessità e mobilità, in cui gli scontri sono meno lineari e gli antagonisti cambiano continuamente fisionomia e posizione: si moltiplicano, si deformano, si mascherano, abbandonano in genere la semplicità operativa di quelle che Sartre chiama “filosofie alimentari”, in cui il soggetto divora l’oggetto o viceversa. E questo non riguarda, naturalmente, solo il versante dell’oggetto che abbiamo prima considerato, la struttura del mondo fisico, del “cielo stellato” sopra di noi, ma anche ciò che sta “dentro” di noi e che viene ora scandagliato nei suoi aspetti più perturbanti dalla psicoanalisi e dalla nuova 58

psichiatria. Nella psicoanalisi freudiana, anzi (almeno sino al 1924, all’articolo su Il problema economico del masochismo), la differenza tra il soggetto e l’oggetto nell’uomo, tra res cogitans e res extensa, psiche e corpo, è fortemente attenuata, non soltanto per la somatizzazione dei conflitti psichici, al livello dei sintomi o, poniamo, delle isterie di conversione, ma per il motivo assai più rilevante che l’intero apparato psichico è visto in termini fisici, energetici. Applicando alla psiche umana il modello helmoltziano del “sistema chiuso”, Freud ritiene che vi sia una quantità fissa di energia psichica che, in situazioni ottimali, è distribuita in modo equilibrato e può circolare facilmente, ma che, talvolta, quando il suo movimento è imbrigliato, bloccato, squilibrato, ingorgato, si fissa o si concentra in alcune zone provocando sofferenza o fenomeni “patologici”. Poiché, appunto, tale eccesso di pressione non si può scaricare verso l’esterno, bisogna distribuire le cariche energetiche in maniera diversa, dirottarle in altre regioni, per alleggerire i punti più provati. Le pulsioni, che non si possono cancellare, subiscono così delle “vicissitudini” (rimozione, sublimazione, negazione ecc.), che, sotto il profilo energetico, sono spostamenti di cariche. Per questo la terapia psicoanalitica non agisce solo fornendo al paziente la mera consapevolezza sull’origine dei suoi mali, ma producendo anche una dislocazione di energia, eliminando quelle pressioni energetiche – in forma, ad esempio, di rimozione – che impediscono la trasparenza dei propri conflitti. All’inizio della cura, piuttosto che essere d’aiuto, il sapere è anzi una fonte di angoscia, l’inizio di una battaglia 59

che mobilita tutte le resistenze: “È un concetto da lungo tempo superato (anche se a prima vista sembra corrispondere alla realtà) quello secondo il quale l’ammalato soffrirebbe in forza di una specie di ignoranza, e per cui se si elimina questa ignoranza informandolo (sulla connessione causale della sua malattia con la sua vita, sugli avvenimenti della sua infanzia ecc.) egli dovrebbe guarire. Non un tale ‘non sapere’ è per se stesso il momento patogeno, ma la radice di questo ‘non sapere’ posto nelle resistenze interiori, le quali in un primo tempo hanno provocato il ‘non sapere’ e lo mantengono ancora adesso. La comunicazione di quanto l’ammalato non sa perché lo ha rimosso è soltanto uno dei primi mezzi necessari per la terapia. Se la conoscenza dell’inconscio fosse tanto efficace quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma l’efficacia di tali cose sui sintomi è analoga a quella che potrebbe avere in tempo di carestia, sopra un affamato, la lettura di liste di vivande. E il paragone può essere esteso oltre il suo primitivo significato: giacché le comunicazioni relative all’inconscio producono in genere sull’ammalato l’effetto che il conflitto in lui si accentua e i disturbi aumentano”.13 Per interpretare questi conflitti e cercare di risolverli, la psicoanalisi deve prendere atto dell’esistenza di logiche e spazi interiori diversi nella struttura psichica: l’Es della seconda topica non conosce né il tempo né la negazione (il pensiero è reso possibile unicamente dal “no”, rivelato nella Verneinigung, ossia nell’accettazione solo intellettuale del 60

rimosso da parte del paziente che rimane sul terreno del semplice “sapere”). L’assenza della dimensione temporale nell’Inconscio (e in seguito nell’Es) implica la tendenza delle pulsioni all’immortalità, la coazione a ripetere, il congelarsi di un tempo privilegiato nell’età dei primi conflitti infantili, che scavano l’alveo sul quale scorrono quelli successivi. Il nostro tempo psichico è in effetti complesso e pieno di dislivelli e ibridazioni temporali perché in esso coesistono – in tensione – due modalità del tempo: l’atemporalità dell’Es e la temporalità della coscienza, la coesistenza e la successione. Nella tradizione filosofica queste due dimensioni sono separate. Se si prende una posizione esemplare, quella di Leibniz, vedremo nella maniera più chiara come in lui il tempo sia l’ordine della successione, mentre lo spazio l’ordine della coesistenza. In Freud, invece, il tempo ha, insieme, le caratteristiche del tempo e dello spazio: “la successione comporta anche una coesistenza”.14 Il primo risultato di rilievo è che, in tal modo, il passato convive con il presente; il già stato, l’immobile, con ciò che fluisce, così che il tempo psichico è coesistenza di coesistenza e di successione, di passato che non passa e di presente che passa proiettandosi verso il futuro o sedimentandosi, coesistenza cioè di quel che persiste e di quel che diviene. Il secondo risultato è che nel tempo vi è compresenza di sviluppo e di conservazione, di evoluzione e di immobilità. Questo spiega la possibilità della regressione. Nel suo divenire si conserva virtualmente tutto. Ci si rende conto che “nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi e che tutto in qualche modo si conserva e che, in 61

circostanze opportune, […] ogni cosa può essere riportata alla luce”.15 Se l’organismo non è malato, tutte le tracce mnestiche si conservano, anche se sottoposte a continua rielaborazione e reinterpretazione, trascritte o “traslitterate” nel vocabolario e nella sintassi dell’“epoca della vita” in cui ci si trova. All’interno dell’apparato psichico abbiamo quindi uno scontro e una intersezione di meccaniche pulsionali e di piani logici differenti, con tutte le torsioni, i parallelogrammi di forza e le zone d’ombra che ne derivano. Anche nell’uomo, per così dire, esistono spazi non-euclidei accanto alle più visibili superfici euclidee, spazi dell’Es strutturati secondo assiomi diversi da quelli dell’Io e del Super-io, per quanto l’Io – e qui sta l’aspetto nuovo della seconda topica rispetto alla prima – sia anch’esso in parte inconscio, non possegga affatto la purezza cristallina del cogito che da Cartesio a Husserl gli si attribuisce. E questo vale per tutti gli uomini, non solo per i malati: vi è una “psicopatologia della vita quotidiana” che è indicativa dei microconflitti operanti in ciascuno e dello sforzo individuale e sociale teso alla perpetuazione della “normalità” o della quantità di energia costantemente impiegata per tenere a bada il rimosso e promuovere la “civiltà”. Ha fine l’idea di una normalità rigida e naturale, così come in altri campi abbiamo visto tramontare il concetto di “norma”. Il patologico attraversa ora il normale; il conflitto e l’eccezione permeano la norma, in un incrocio di codici linguistici e comportamentali complesso, nell’opposizione tra pubblico e privato, ciò che si può rivelare e ciò che si deve nascondere. 62

La normalità è una conquista continua, uno stato mai garantito perché il patologico è dentro di noi. Se Freud non crede alla possibilità di raggiungere una appagante vita psichica (si passa per lui, al massimo, da una infelicità patologica a una “infelicità normale”), Carl Gustav Jung tenta invece di percorrere questa strada. Mediante un’ardita costruzione teorica, egli illustra i gradini attraverso cui si articola il processo ideale di individuazione che culmina nel Sé, nella riuscita conquista, al vertice della piramide, di una consapevolezza delle proprie forze e dei propri limiti. Alla base di questo maestoso edificio si trova però l’“inconscio collettivo”, con i suoi affascinanti ma anche minacciosi “archetipi”. Essi hanno carattere universale e ubiquo, si ritrovano presso tutti i popoli e in tutte le epoche, nei sani e nei malati. Sono esaltanti e pericolosi nello stesso tempo, in quanto, da un lato, potenziano l’individuo, ma, dall’altro, rischiano di annientarlo, risucchiandolo nel loro anonimato e producendo “l’inflazione dell’io”. Jung riconosce loro una radice organica, giacché non vi è niente di strano nel fatto che certe funzioni psichiche si trasmettano anch’esse lungo l’asse del tempo evolutivo: “Come il nostro corpo conserva ancora in molti organi i residui di antiche funzioni e di antiche condizioni, così il nostro spirito, che pure nel suo sviluppo ha sorpassato apparentemente quelle tendenze arcaiche istintive, porta ancora i segni caratteristici dell’evoluzione percorsa e ripete il remoto passato almeno nei sogni e nelle fantasie”.16 In tale prospettiva, l’archetipo non costituisce una rappresentazione ereditata, perché si 63

trasmettono non i contenuti, bensì la capacità stessa di rappresentare. Esso segue piuttosto “certi cammini ereditati, dunque il modo innato in cui un pulcino esce dall’uovo, gli uccelli costruiscono i loro nidi, certe vespe colpiscono col pungiglione il ganglio motorio del bruco e le anguille trovano la loro via verso le Bermude”.17 Questo però è l’archetipo biologico, diverso da quello di cui si occupa la psicologia, che lo considera invece quale forma a priori (analoga alle categorie kantiane), stampo vuoto in grado di organizzare l’esperienza e di ordinare le rappresentazioni.18 Esso si riempie così di dati forniti dall’esistenza individuale, che assumono tuttavia al suo interno un carattere mitico e “numinoso”, di rivelazione di qualcosa di immenso, divino o demoniaco che sia. Sebbene pericolosa, la visione degli archetipi certamente apre all’individuo spiragli di premonizione e di emozione, in quanto mobilita, nello stesso tempo, il pensiero e i sentimenti. Lo si nota nelle opere d’arte o nei “grandi sogni” (dove più che una freudiana “soddisfazione allucinatoria del desiderio” si assiste a una consultazione di ciascuno con le parti più oscure di se stesso, che, per quanto comunichino con linguaggio oracolare, ne sanno però sempre più della coscienza): “Ogni relazione con l’archetipo, vissuta o semplicemente espressa, è ‘commovente’, cioè essa agisce poiché sprigiona in noi una voce più potente della nostra. Colui che parla con immagini primordiali, è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il destino personale a 64

destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici, che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino nelle notti più lunghe”.19 Altre direzioni imbocca invece la nuova psichiatria postpositivistica, aperta da Jaspers nel 1913 con la Psicopatologia generale, quando – staccandosi dal suo maestro Max Weber – afferma che ogni azione e ogni pensiero sono dotati di senso. Constatata l’impossibilità di scoprire un “bacillo della follia” o lesioni organiche per le psicosi endogene (e in particolare per il gruppo di quelle che Bleuler ha definito “schizofrenie”), considerata l’inutilità della visione oggettivante che tende a catalogare, a entomologizzare i diversi disturbi, riconducendoli a fattori organici e a etichette, comincia ora l’accostamento da parte della psichiatria alle filosofie più recenti, a Dilthey, a Bergson, a Max Scheler, così come più tardi ci si riferirà a Husserl, a Heidegger o a Sartre. Jaspers, contemporaneamente psichiatra e filosofo, è una figura emblematica di questa svolta. La visione oggettivante è fortemente riduttiva, tende a riportare i fenomeni a una base naturale, organica, sostanzialmente immobile, credendo con ciò di averne dato una spiegazione “scientifica”: trasforma un sorriso in una semplice contrazione di muscoli. Interpreta la follia e il delirio come una negazione secca della ragione e del discorso sensato, come alterità impenetrabile. La nuova psichiatria invece, portandosi anche sul terreno delle scienze dello spirito, considera l’incomprensibilità del malato mentale all’interno dei rapporti interpersonali come la 65

nostra stessa incomprensibilità e opacità reciproca a un grado più alto, e cerca di sondarne non la sua assoluta estraneità, ma il progetto di esistenza di cui è portatore. Penetrare in questi mondi orrorosi della pazzia, osservare le sue lancinanti figure o le barocche costruzioni del delirio, è un viaggio di scoperta nelle pieghe della ragione stessa, una esplorazione delle sue regioni più impervie. Al pari di un cristallo che, cadendo e sfaldandosi secondo determinate leggi, manifesta i piani di frattura latenti anche nei cristalli ancora integri, il folle rivela in forma conclamata l’esistenza scissa di quel momento progettuale e proiettivo – di progetto che coinvolge non solo la ragione, ma anche la percezione sensibile e la tonalità affettiva – che è presente in tutti, più o meno incorporato nei suoi contenuti “reali”. Il malato mentale rivela così con maggiore evidenza il carattere di costruzione secondo progetti fondamentali che ogni vita possiede ed esibisce, ingigantite, le lacerazioni presenti in tutti, le possibilità di fallimento latenti in ogni esistenza (per questo la sua vista e il suo contatto sono perturbanti, fonte di angoscia e di insicurezza: la “normalità” si preserva nascondendo e isolando le “eccezioni”). Ma al margine dei precari equilibri tra il momento “pubblico”, l’appartenenza a un mondo e a un linguaggio comune, e il momento “privato”, lo sganciarsi del progetto fondamentale di una vita dalla rete percettiva e comunicativa comune – equilibri che costituiscono la gamma della “normalità” –, vi sono le irruzioni magmatiche dell’elemento proiettivo resosi autonomo, disturbato nella sintonizzazione con la realtà e con gli altri: è allora che si sentono delle voci che nessun 66

altro sente, che si vedono delle cose che nessun altro vede, che si sottraggono i discorsi agli schemi più ordinari, pubblici, di decifrazione. E non solo la ragione è colpita, ma c’è anche, si direbbe, una follia dei sensi: il tempo tende così a congelarsi o invertire la sua direzione, lo spazio a contrarsi, il mondo a raggomitolarsi in se stesso. Eugène Minkowski – sviluppando qui la filosofia di Bergson – considera la psicosi come uno sbarramento del futuro vissuto dall’individuo, la flessione permanente dello slancio verso il domani, la sofferenza per una realtà che gli appare come bloccata. Allora il tempo percettivamente si solidifica o l’ammalato vede le freccette dell’orologio muoversi all’indietro. Oppure lo spazio percettivo, analogamente allo spazio interiore sbarrato, si restringe, e il soggetto psicotico portato all’aperto compie ossessivamente, con stereotipie motorie, solo pochi passi in avanti e all’indietro o si rannicchia in se stesso, assumendo un ingombro spaziale minimo, quasi volesse annullarsi. Si direbbe anzi che la ragione resti integra in queste torsioni percettive e in questa impossibilità di declinarsi al futuro, e che esprima e descriva con precisione il paesaggio devastato percepito interiormente ed esteriormente: un’idea delirante “non è altro insomma che il tentativo del pensiero, rimasto intatto, di stabilire un nesso logico tra le diverse pietre dell’edificio in rovina”.20 I deliri hanno quindi senso, se si è capaci di ricostruire la genesi e la struttura di tali paesaggi interiori e percettivi, se si riesce a tradurre nuovamente queste forme di privatizzazione linguistica ed esperienziale nei termini di 67

una logica e di una concezione del mondo più vasta e complessa. La nuova psichiatria, a tinte esistenziali, acquista un alto valore simbolico a livello sociale e politico perché, in luogo di mostrare i “devianti”, i pazzi-delinquenti lontani dalla norma (come faceva in Italia, ad esempio, Lombroso), tende piuttosto a far vedere la devianza come intimamente costitutiva della norma stessa e il malato mentale come l’estremo di una vita deteriorata che tutti, in diversi gradi, subiscono. 1

Citato in J.M. Lotman, Il problema del segno e del sistema segnico, in Aa.Vv., Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’Urss, a cura di J.M. Lotman e B.A. Uspenskij, Einaudi, Torino 1973, pp. 48-49. 2

G. Cantor, Grundlagen einer allgemeinen Mannigfaltigkeitslehre, Teubner, Leipzig 1883, p. 165. 3 G. Frege, Aritmetica e logica, Boringhieri, Torino 1965,

p. 265. 4 Ivi, p. 23. 5

B. Russell, I principi della matematica, Longanesi, Milano 1951, p. 14. 6 Ivi, § 427. 7 G. Cantor, Gesammelte Abhandlungen mathematischen

und philosophischen Inhalts, Springer, Berlin 1932, p. 400. 8

D. Hilbert, Neubegründung der Mathematik, in “Abhandlungen aus dem mathematischen Seminar der Hamburgischen Universität”, 1922, I, p. 157. 9

H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, La Nuova Italia, Firenze 1950, pp. 72-73. 68

10 E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico,

Boringhieri, Torino 1977, p. 241. 11 I. Prigogine, La nascita del tempo, Bompiani, Milano

1991, p. 52. 12 Id., La nuova alleanza (1979), Longanesi, Milano 1981,

p. 180. 13

S. Freud, Psicoanalisi selvaggia (1910), in Opere, Boringhieri, Torino 1966-1978, VI, p. 329 (trad. di C. Musatti). 14 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte

(1915), in Opere, cit., VIII, p. 133. 15 Id., Il disagio della civiltà, in Opere, cit., X, p. 562. 16

C.G. Jung, Simboli della trasformazione (1911), in Opere, Boringhieri, Torino 1967 sgg., V, 1970, p. 41. 17

C.G. Jung, Introduzione a E. Harding, FrauenMysterien, Rascher, Zürich 1949, p. VIII. 18

Cfr. Id., Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1947-1954), in Opere, cit., IX, 1980, 1, p. 247. 19 Id., Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna

(1932), Einaudi, Torino 1971, p. 50. 20

E. Minkowski, Studio psicologico e analisi fenomenologica di un caso di melancolia schizofrenica (1923), in E. Minkowski, V.E. von Gebsattel, E.W. Strauss, Antropologia e psicopatologia, Bompiani, Milano 1967, p. 31.

69

III. Il pathos dell’oggettivazione

1. Durkheim e Weber Se la psichiatria e la psicologia non-oggettivanti corrodevano il concetto di norma e di legalità rigida dei fenomeni, se ponevano cioè in rilievo più le varianti soggettive e la molteplicità dei progetti individuali, al limite irripetibili e incommensurabili, che non la loro riconducibilità a regole generali, non per questo nelle altre “scienze umane” si poteva rinunciare a delle leggi. Così in Durkheim la sociologia, che ha mantenuto stretti legami con le sue matrici positivistiche, delimita come un argine esterno l’area di validità della psicologia e ristabilisce l’esigenza di una oggettività non sottomessa a rifrazioni e distorsioni individuali (assolve, dal di fuori, a quella stessa funzione di garanzia dell’oggettività dinanzi ai singoli soggetti che il “realismo” di tipo platonico aveva avuto all’interno delle matematiche). Gli individui possono soggettivamente agire per i motivi più diversi, ma il risultato dei loro atti, il fatto sociale, obbedisce a una propria logica, possiede una specifica cogenza: “È un fatto sociale qualsiasi modo di fare, più o meno fissato, capace di esercitare una costrizione esterna o anche che è in generale all’interno di una data società, in quanto ha la sua propria esistenza, indipendentemente dalle sue manifestazioni individuali”.1 Ciò significa che il movimento di questi atomi sociali, che 70

sono gli individui, non è così completamente irrelato o indefinitamente differenziato come appare dal versante psicologico, ma è sottoposto a una forma appena attenuata di necessità, come quella che struttura la limatura di ferro lungo le linee di forza di un campo magnetico o che plasma secondo regole l’agire singolo, dimodoché i fatti sociali “sono in un certo senso gli stampi in cui siamo costretti a versare le nostre azioni”.2 La sfera sociale tende pertanto ad assumere uno statuto diverso da quella psicologica – deve essere studiata, per Durkheim, come collezione di “cose”, non in fluidità, quindi – ed è questa la spia di un allentarsi delle mediazioni tra individuo e collettività. Da un lato l’individualità, respinta nella sua solitudine e insignificanza sociale in un mondo sempre più organizzato in cui ciascuno è intercambiabile, riscopre la propria complessità e i larghi margini di incompatibilità, di non assorbibilità nell’insieme sociale, ed enfatizza di conseguenza l’insostituibilità del suo ruolo e il valore propulsivo della diversità e della violazione della norma; dall’altro, la società nel suo complesso si proclama indipendente dall’apporto dei singoli individui, quelli più esigenti, e afferma di essere autonoma e di avere, essa e non gli individui, gli strumenti di coercizione, e di essere il tutto che guida le parti, non viceversa. Per quanto concezioni analoghe di separazione della totalità sociale dai singoli siano poi sfociate in ideologie totalitarie o “statolatriche”, in Durkheim (come in Croce o in Weber) non si tratta di annientare il contributo dell’individualità, ma di disciplinarlo, di venire a patti con le nuove individualità complesse che si vanno costituendo. Sotto 71

questo profilo, la sociologia può apparire nei confronti della psicologia come il convesso rispetto al concavo dello stesso insieme, come complementarità nell’analisi delle funzioni sociali e individuali, come distribuzione dei campi di indagine. E, in Durkheim, come accentuazione dell’elemento cooperativo fondato sia sulla divisione del lavoro, sia, più intimamente, sul carattere sociale, di “rappresentazione collettiva”, che hanno i concetti. Il pensiero, l’organo della più alta comunicazione fra gli uomini, non è un prodotto individuale che reagisce chimicamente su altri prodotti individuali, altri pensieri, ma è, nel suo nascere, elemento sociale di cui i singoli si impadroniscono e che adattano, traducono, incrementano (ed è solo a questo punto che la psicologia riacquista i suoi diritti nel conoscere tali processi). Circola nella cultura europea di questi anni – in troppi ambienti geografici e disciplinari per essere un puro caso – l’esigenza di combattere il vitalismo psicologistico ancorando l’individuo all’azione, al fatto sociale, al momento in cui cioè si oggettiva, si coniuga operosamente col mondo e produce degli effetti constatabili. È così l’agire umano che dà in Weber senso a un universo che in sé ne è privo, assegnando alla realtà dei “valori”, oggetto degli scopi umani, e costruendo degli strumenti, dei mezzi per conseguire questi fini. L’unica scienza possibile è quella dei mezzi, non dei valori, fra i quali si registra un conflitto, un “politeismo”, incomponibile. Delle diverse forme di agire dotato di senso (razionale rispetto allo scopo, razionale rispetto al valore, passionale-emotiva, tradizionale), il 72

capitalismo sviluppa pienamente soltanto la prima, respingendo nella sfera privata e penalizzando tutte le altre. La razionalità capitalistica è puramente strumentale, basata sull’efficienza, sulla distruzione delle certezze frenanti tradizionali, sul controllo e il raffreddamento dell’emotività, sulla messa fra parentesi del significato generale degli altri valori. Lo Stato e la società sono organizzati con gli stessi criteri dell’azienda capitalistica e il mondo è stato disincantato, privato dei suoi sottofondi magici, reso più sicuro, ordinato, calcolabile e scientificamente comprensibile. La religione – che è stato il primo potente organo di donazione di senso al mondo e che, nelle sue vesti calvinistiche, ha generato lo spirito del capitalismo – esaurita la sua missione civilizzatrice, sembra essersi ritirata a vita privata, divenuta strumento di torbida consolazione. La realtà capitalistica è infatti molto dura, ma, per Weber, non se ne può uscire, è una “gabbia di acciaio”: ci vuole molto coraggio per accettare di vivere dentro le sue sbarre, per contentarsi della sobria vocazione del lavoro, della professione (Beruf). Ma il pathos di cui egli carica i momenti dell’oggettività e dell’operare fecondo non deve far perdere di vista il risvolto soggettivo, l’etica – di provenienza neo-kantiana – della responsabilità del singolo, oggi tremendamente solo nello sforzo di far coincidere la massima del proprio agire con la “legislazione universale”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il peso della soggettività non diminuisce in questo mondo ferreamente strutturato dalla ragione formale, dalla scienza, dalla fabbrica, dalla burocrazia, ma 73

cresce parallelamente a esso. Ognuno deve scegliere, deve seguire “il demone che tiene i fili della sua vita”3 (non il “capo carismatico”, dunque), senza adagiarsi in un relativismo scettico (magari quello di uno storicismo invertebrato), sentirsi al di sopra della mischia o rifugiarsi nelle braccia misericordiose delle vecchie Chiese. Contro il relativismo, il lassismo e il misticismo, Weber insiste nel mostrare – accanto ad argomenti di ordine etico – il carattere non-indeterministico del nostro conoscere e agire nel mondo. Gli “idealtipi”, i concetti con cui interpretiamo il reale ponendone unilateralmente in evidenza solo alcuni aspetti, sono il frutto di drastiche scelte, costruzioni irreali, “quadri fantastici”, utili per conoscere e dominare (non per rispecchiare!) il mondo, produzione di strutture normative di natura logica, slegate dai “giudizi di valore”. Ma non sono arbitrari, sono anzi oggettivi in quanto intersoggettivi e funzionano scientificamente in quanto operano mediante nessi causali. In polemica con i deterministi, Weber nega certo l’esistenza di una causalità assoluta, di una concatenazione rigida di fatti, tipica di alcune concezioni positivistiche o del determinismo economico di certi esponenti della Seconda Internazionale, ma allo stesso modo e con la stessa forza egli rifiuta l’indeterminismo assoluto di un Eduard Meyer, che assegna un ruolo preponderante al caso, all’imprevedibile, alla decisione individuale e alla libertà dell’azione. Tra caso e necessità esiste un largo spazio di gradazione del possibile. Appoggiandosi ai modelli del calcolo delle probabilità, in particolare a quelli di Johannes von Kries, Weber elabora una teoria della storia e 74

dell’azione umana, che si può chiarire con l’esempio da lui stesso scelto: se lanciamo un dado un numero sufficientemente alto di volte, è assolutamente impossibile sapere con certezza quale dei sei numeri uscirà a ogni lancio; le possibilità sono equamente distribuite nella frequenza di 1/6 per ciascuna delle facce del dado. Ma se spostiamo il baricentro del dado, se usiamo un dado “truccato”, allora potremo favorire, più o meno, l’uscita di un certo numero. Lo spostamento del centro di gravità del dado è quindi la “causa adeguata” per il passaggio dalla casualità assoluta alla prevedibilità, al senso. Anche l’agire umano dotato di senso è una analoga modificazione del caso. Per comprendere un’azione individuale o un evento storico dobbiamo perciò procedere a delle imputazioni causali, smontare i fenomeni e immaginarli con o senza alcune premesse, utilizzando l’irrealtà dei “se” e dei “ma” per spiegare il reale, per stabilire il grado di favoreggiamento che un elemento ha sull’insieme. 2. Da Croce a Gramsci Contrariamente a Weber, i “se” e i “ma” non costituiscono per Croce il criterio dell’interpretazione storica. Proprio perché in lui è forte il pathos per il momento dell’oggettivazione, dell’incorporarsi determinato delle nostre azioni nel mondo, è ozioso domandarsi cosa sarebbe accaduto se i fatti si fossero svolti altrimenti. Tale domanda è un “giocherello che usiamo fare dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando 75

intorno all’andamento che avrebbe preso la nostra vita se non avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrato, o non avessimo commesso uno sbaglio che abbiamo commesso; nel che con molta disinvoltura trattiamo noi stessi come l’elemento costante e necessario, e non pensiamo a cangiare mentalmente anche questo noi stessi, che è quel che è in questo momento, con le sue esperienze, i suoi rimpianti e le sue fantasticherie, appunto per aver incontrato allora quella data persona e commesso quello sbaglio: senonché, reintegrando la realtà del fatto, il giocherello s’interromperebbe senz’altro e svanirebbe”.4 L’impossibilità di formulare previsioni per il futuro, la fine dichiarata di ogni teleologismo e di ogni filosofia della storia (intesa come storia a disegno), il rispetto per la durezza dei fatti e per l’agire di potenze immani e transindividuali, il precipitare e il divenire irrevocabile dell’azione del singolo nei grandi torrenti degli accadimenti del Tutto, lasciano spazio solo al riconoscimento del passato. Ma ciò non significa accettare la necessità ineluttabile del corso storico anche per il presente e il futuro. Anzi: spinti da bisogni pratici sempre nuovi e continuamente insorgenti, dal desiderio di eliminare le oscurità e i fantasmi che si frappongono all’azione, di toglierci dalle spalle la servitù e il peso del passato, noi lo interroghiamo e lo rendiamo vivo, contemporaneo, “quasi al modo che si narra di certe immagini di Cristi e Madonne, le quali, ferite dalle parole e dagli atti di qualche blasfematore e peccatore, spicciano rosso sangue”.5 Attraverso la riflessione, la filosofia – che è “metodologia 76

della storiografia”, conoscenza di quell’“universale concreto” che è presente in ciascun evento – riusciamo a capire qual è il senso della ricerca storica, del riconoscimento oggettivo, mediato da documenti e testimonianze, di ciò che è stato. L’indagine storica degli storici e quella che ciascuno compie per ricostruire il significato del proprio comportamento spianano la strada della libertà, intesa come coscienza della necessità, cognizione delle possibilità reali dell’agire, che esclude quindi sia la passiva accettazione degli eventi, sia il desiderio di saltare, senza affrontarli, oltre i condizionamenti e le barriere del reale. Convertendo il passato in conoscenza, comprendendo quanto oscuramente si agita in noi e nel mondo, siamo pronti a realizzarci, a diventare ciascuno un creatore di storia, in una “religione delle opere” che ricorda l’etica weberiana della vocazione, del Beruf. Solo ciò che si oggettiva, che entra in relazione con l’attività degli altri lasciando un qualche segno, ha valore permanente: non i conati impotenti, dunque, non le millanterie, non le diverse forme di “paralisi della volontà” che fiaccano gli animi, non le chiacchiere. Per questo l’arte deve essere “espressione”, non rivendicazione di una nebulosa interiorità che sarebbe troppo nobile e profonda per tradursi in linguaggio; deve essere comunicazione, conoscenza, e non torbido sensualismo o strumento di propaganda politica e religiosa. Per questo la filosofia deve essere effettiva conoscenza dell’universale concreto e non raccolta di astrazioni utili, di etichette, come Croce è portato a ritenere, semplificando le 77

posizioni convenzionalistiche correnti anche fra gli scienziati. Per questo gli atti “economici” devono essere eseguiti con buona coscienza, senza mescolarvi pregiudizi morali (la categoria dell’“utile” e del “vitale”, questa “verde” forza in cui egli sistema l’eredità di Machiavelli, di Marx, dei marginalisti e della Machtpolitik del tempo, sarà quella che più costringerà Croce a modificare i suoi schemi teorici, l’elemento destabilizzatore e ctonio che insidierà l’Olimpo dello “Spirito”, la dottrina dell’equilibrio generale dei “distinti”). Per questo, infine, le azioni morali non sono atti disincarnati, eterei, altruismo puro che ha di mira un mondo diverso dal nostro e superiore, ma volizione dell’universale che ha come presupposto la volizione dell’individuale, ossia azioni volte all’interesse generale, di cui beneficia ciascun singolo, ma che presuppongono l’abbandono temporaneo del pur lecito egoismo individuale. La vita dello “Spirito” è appunto questo realizzarsi incessante del movimento del Tutto attraverso le opere dei singoli, i quali sono soltanto funzioni subordinate di questa totalità e divengono “immortali” in senso laico e hanno valore solo se accettano consapevolmente di essere materiale da costruzione di una storia che si innalza al di sopra delle loro teste, al di là delle loro intenzioni (sono qui chiaramente visibili l’antipsicologismo di Croce e il carattere di un liberalismo non certo individualistico): “ogni nostro atto, appena compiuto, si stacca da noi e vive vita immortale, e noi stessi (i quali realmente non siamo altro che il processo dei nostri atti) siamo immortali, perché aver vissuto è vivere sempre”.6 Noi siamo veicoli, “faville”, di 78

questa enorme potenza del Tutto, la cui direzione ci sfugge, che non possiamo giudicare, ma che dobbiamo ricevere “a guisa di mistero”.7 Siamo circondati da organismi mostruosi a cui siamo obbligati a piegarci, “a quei Leviatani che si chiamano Stati, a quei colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo, ai quali abbiamo il dovere di servire e di obbedire, ed essi da parte loro hanno buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si moverà sempre, la storia del mondo”.8 Ma questo è il nostro unico mondo, in cui soffriamo, magari, ma in cui ci sono gli oggetti di ogni desiderio, passione, interesse, conoscenza. In realtà non ne vorremmo un altro, quello che promettono le religioni: noi siamo indissolubilmente legati a questa “terrestrità”, a questa immanenza (tale è il significato dell’espressione “storicismo assoluto” e tale è uno dei motivi che Gramsci trarrà da Croce). Dobbiamo coraggiosamente immergerci in esso, accettare il rischio, la possibilità della sofferenza, le delusioni e le amarezze: “Mette conto di vivere, quando si è costretti a tastarsi a ogni istante il polso e a circondarsi di pannicelli caldi e a evitare ogni soffio d’aria per paura dei malanni? Mette conto di amare, pensando e provvedendo sempre all’igiene dell’amore, graduandone le dosi, moderandole, provando a volta a volta di astenersene per esercizio di astinenza, timorosi di troppo forti scosse e dilacerazioni nel futuro?”.9 In questa prospettiva anche il male perde il suo aspetto sostanziale. Non già che se ne 79

abolisca la coscienza o che, vichianamente, la filosofia salvi dall’angoscia per “le mogli che infantano” o per i “figliuoli che nei morbi languiscono”, ma esso non ha esistenza e potere autonomo, separato dal positivo. Il male, o è sentito come tale, e allora non lo compiamo, oppure non lo è, e allora si attua il bene: “Il giuocatore dell’esempio, nel momento in cui sa di danneggiarsi economicamente non giuoca: la sua mano è fermata, ed è fermata perché sapere (in senso pratico) equivale a volere, e sapere il danno del giuoco significa saperlo come danno, cioè ripugnare al giuoco. Se la mano riprende i dadi o le carte, ciò accade perché in lui si oblitera quel sapere, vale a dire perché egli cangia volere; e in questo caso il giuoco non è più avvertito come danno, ossia è voluto, ossia, in quell’istante, ridiventa per lui bene perché soddisfa un suo bisogno”.10 La filosofia crociana è eminentemente una pedagogia politica, il tentativo di educare una classe dirigente italiana all’altezza dei suoi compiti, di farle assumere un respiro europeo. Il suo invito alla sobrietà, all’operosità, alla serietà è politicamente l’invito ad abbandonare i velleitari sogni di gloria nazionalistici e colonialistici, a sacrificare gli aspetti bolsamente retorici e il trasformismo spicciolo che questa borghesia si trascina da secoli, a eliminare le scorie coscienzialistiche deteriori, le chiacchiere e le chiusure locali per immergersi attivamente nel fiume degli eventi mondiali, ad accogliere in forma subordinata alcune esigenze del movimento operaio, purché – beninteso – si adegui alla razionalità borghese. Il proletariato “se vuole imitare davvero la borghesia nell’abbattere una vecchia società, deve 80

avere la forza e la capacità di imitarla altresì nei metodi severi dell’abbattimento e della riedificazione. Tali condizioni pone la storia, e con l’osservanza di esse il socialismo è tanto poco pauroso quanto è poco pauroso ciò che è necessario”.11 Il proletariato attraversa invece ancora una fase passionale grezza della sua vita politica, ma del resto la politica è nella sua essenza passione, razionalizzazione “economica” di interessi settoriali, che prescinde da ogni supremo valore morale e ha la propria giustificazione in se stessa. La previsione marxiana di una lotta di classe che si conclude con la scomparsa di tutte le classi è quindi per Croce un’utopia morale, soggiace alle “alcinesche” seduzioni della dea Giustizia. Il modello filosofico dei “distinti” intende invece mantenere un equilibrio fra le classi e i blocchi di interessi contrapposti, evitare rovesciamenti drastici e violenti. L’idea di una “libertà” – egemonia senza dittatura palese – come garanzia che nessuna classe prevarrà sulle altre con la violenza favorisce evidentemente, in termini gramsciani, la “rivoluzione passiva”, la semplice razionalizzazione del dominio esistente e il compromesso con forze addirittura pre-borghesi, quali la Chiesa. Con essa vi è una sorta di tacita divisione delle sfere d’influenza: le élites allo Stato laico e liberale, che le forgerà in modo austero ed efficace, le masse a una religione che è forma inferiore, passionale, di filosofia, che manterrà il “popolo” nell’obbedienza e nella passività. Vi è qui un’implicita dichiarazione di incapacità a controllare larghi strati sociali e a farli partecipare, anche in tempi lunghi, a un’attività storica più vasta. 81

In quanto interlocutore di Croce, Gramsci cercherà di rovesciare questo schema, di porre il problema e di preparare gli strumenti per permettere a tutti di partecipare da protagonisti alla costruzione della storia e delle istituzioni. Soprattutto dopo il 1917, la borghesia attraversa un periodo di crisi profonda di egemonia: i rapporti di forza si sono spostati a favore della classe operaia, che non è più costretta alla passività fatalistica o al ribellismo senza sbocchi, come quando subiva l’iniziativa del blocco storico dominante. Ora essa è in grado di dirigere le forze produttive e di guidare gli Stati: è politicamente maggiorenne. Occorre una compatta “volontà collettiva” per operare la transizione e un “nuovo senso comune” per innalzare le grandi masse al livello della scienza e delle forme di vita moderne. E ciò è tanto più necessario in quanto in Occidente, dove la “società civile” è estremamente articolata a protezione dello “Stato politico”, la lotta sarà lunga, sarà una snervante “guerra di posizione”. Per resistere all’offensiva proletaria e per ovviare alla caduta tendenziale del saggio di profitto, gli Stati si riorganizzano, tentano di coinvolgere direttamente tutti i cittadini nella difesa del sistema vigente, catturandone o estorcendone con la forza il consenso. Bisogna apprendere tutti i metodi più elaborati dagli avversari, non farsi cogliere impreparati o arretrati in questa rivoluzione che cuoce “a fuoco lento”, abbandonare il primitivismo economico e meccanicistico precedente e sviluppare le capacità di previsione e di guida degli eventi, chiamando anche gli intellettuali a collaborare a tale impresa storica e colmando continuamente le distanze 82

che si formano tra le linee strategiche dei vertici e la capacità di comprensione e di recezione della base. Lo storicismo gramsciano vuole essere l’armatura teorica per affrontare quella situazione storica determinata di lotta e di transizione, irta di squilibri, di tensioni, di punte avanzate e di sacche di arretratezza (in cui si devono, ad esempio, mediare il Nord industriale e il Sud contadino, l’alta cultura della tradizione borghese e le credenze magiche o il folklore dei ceti subalterni, la filosofia e il mito, lo sviluppo delle forze produttive, anche attraverso l’applicazione di sistemi tayloristi, e gli ostacoli frapposti da rapporti di produzione arretrati o arcaici). Ma non si tratta di uno storicismo “soffice” o, come si è detto, da “sinistra crociana”, per quanto Gramsci molto abbia tradotto da Croce (e da Gentile), come Marx da Hegel: mediante gli squilibri, l’attenzione per il concreto svolgersi degli eventi, lo sforzo per eliminare la divisione tra dominanti e dominati, la storia deve essere trasformata secondo un progetto di emancipazione collettiva, non contemplata e adorata come un mistero imperscrutabile e crudele nella sua incomprensibile ed eterna essenza. Il suo storicismo è così radicale e immanente che quel che oggi, in questa precisa situazione di cogenza storica, è vero potrà diventare falso e ciò che è falso potrà, in qualche misura almeno, diventare vero: “Si può persino giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero 83

diventare ‘verità’ dopo il passaggio ecc.”.12 Lo storicismo – interpretato da Togliatti – ha svolto una funzione rilevante nella cultura italiana del secondo dopoguerra. Ha costituito il ponte che ha permesso il transito dall’idealismo a un tipo di marxismo che in Italia aveva dovuto saltare una generazione. Contro ogni “astrazione giacobina”, ha posto in evidenza gli sbarramenti, i blocchi, la specificità, la concretezza di ogni situazione storica, la necessità di tarare il pensiero sulla realtà, di tener conto dei rapporti di forza imposti dalla situazione internazionale. Il valore quasi “neo-realistico” della concretezza, del legame con le situazioni storiche ed economiche determinate, diventa centrale. Bisogna riconoscere i diritti e le durezze del proprio tempo, evitando di rifugiarsi dentro il chiuso ammuffito della propria coscienza o dimensione privata. Contro l’idealismo e lo spiritualismo e contro la retorica fascista, si intende ora far ridiscendere di nuovo la filosofia dal cielo delle idee pure nelle case e nella vita degli uomini. In questa marcia verso una sorta di “via italiana alla razionalità” si cercò in effetti – sotto l’egida della politica – un intreccio tra storia e utopia. Una storia dinamizzata, vertebrata e innervata da un fine utopico (quello dell’emancipazione) avrebbe dovuto coniugarsi a un’utopia frenata, che doveva tenere conto dei vincoli e delle possibilità, delle barriere e dei varchi per forzarle. Sono proprio questi due elementi che si sono andati in seguito progressivamente dissociando, sottraendo alla storia il suo scopo nelle filosofie del “post-moderno” e all’utopia la sua 84

zavorra di condizionamenti storici, così da farla tendenzialmente tornare a essere un genere letterario. 1

E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, Comunità, Milano 1963, p. 33. 2 Ivi, p. 45. 3

M. Weber, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966, p. 43. 4 B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938),

Laterza, Bari 1973, p. 19. 5 Ivi, p. 10. 6

B. Croce, Religione e serenità, in Frammenti di etica, ora anche in Etica e politica, Laterza, Bari 1973, p. 23. 7 Id., L’utopia come forma morale perfetta, in Terze pagine

sparse, Laterza, Bari 1955, I, p. 97. 8 B. Croce, Per la serietà del sentimento politico (1916), in

Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1928, p. 166. 9 Id., Amore per le cose, in Frammenti di etica, cit., p. 19. 10 Id., Filosofia della pratica (1908), Laterza, Bari 1963,

pp. 135-136. 11 B. Croce, Conversazioni critiche, Laterza, Bari 1924, I,

pp. 312-313. 12

A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 1490.

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IV. I dislivelli della storia

1. Lo storicismo di Dilthey Ben diverso era stato l’impianto teorico dello storicismo di Dilthey, che aveva stimolato le riflessioni e le critiche sia di Weber che di Croce. Anche qui l’accento cade sull’oggettivarsi delle opere dei singoli in un mondo umano dotato di senso, che è il prodotto del loro agire ma, nello stesso tempo, anche ciò che li plasma e all’interno del quale essi divengono comprensibili. Tutto quanto sorge dall’attività spirituale porta il marchio della storicità: “Dalla partizione degli alberi in un parco, dall’ordine delle case in una strada, dallo strumento del lavoratore manuale fino alla sentenza in tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del suo carattere nella propria manifestazione di vita, è domani, quando sta davanti, storia. Mentre il tempo procede, noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, da castelli indipendenti. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di distinto dal presente per la sua distanza temporale”.1 Noi ci nutriamo di questo “spirito oggettivo”, di questa storicità, sin dall’infanzia, ancor prima di imparare a parlare: assorbiamo i costumi della famiglia e della comunità, l’ordine delle cose, i segni e le espressioni del volto. E poi, procedendo in avanti negli anni, una volta impadronitici del linguaggio, inteso il significato di molti 86

atteggiamenti, pensieri, istituzioni, riusciamo a orientarci in questo mondo che è diventato il nostro e a cui noi contribuiamo, ma che è il frutto di tutte le generazioni che si sono succedute sino a ora. Per questo motivo – per la “comunanza” che esiste e che unisce chi ha espresso qualcosa e chi la può intendere – la storia e le altre “scienze dello spirito” hanno uno statuto speciale che le distingue dalle scienze della natura. La natura ci è estranea, non l’abbiamo fatta noi, è qualcosa di esterno a cui si applica la spiegazione causale; la storia è opera nostra, in essa il soggetto del sapere è identico al suo oggetto, e noi possiamo “comprendere” in “connessioni dinamiche”, in rapporto a scopi e a valori, il senso dei suoi eventi, attraverso l’esperienza interiore che li rivive, l’Erlebnis, e l’interpretazione che li decifra e li ricostruisce. Non ha importanza se noi abbiamo vissuto direttamente o meno l’esperienza o l’emozione che si tratta di comprendere. Anzi, la storia e le altre scienze dello spirito ci arricchiscono e ci universalizzano perché ci rendono partecipi di quelle infinite esperienze e combinazioni che gli inevitabili limiti della vita individuale rendono personalmente inaccessibili: “Si apre il palcoscenico: appare Riccardo, e un animo penetrante può, seguendo le sue parole, i suoi gesti e i suoi movimenti, rivivere qualcosa che sta al di fuori di ogni possibilità della sua vita reale. Il bosco fantastico in Come vi pare ci trasferisce in una disposizione interiore, la quale ci consente di riprodurre ogni eccentricità. E in questo rivivere sta una parte importante dell’acquisto di cose spirituali, di cui siamo debitori allo storico e al poeta. Il corso della vita 87

produce in ogni uomo una costante determinazione, in cui vengono limitate le possibilità che vi sono contenute […]. L’intendere gli apre un ampio campo di possibilità, le quali non esistevano nella determinazione della sua vita reale. La possibilità di vivere immediatamente nella mia esistenza degli stati religiosi, è per me come per la maggior parte degli uomini d’oggi assai ristretta. Ma quando io scorro le lettere e gli scritti di Lutero, i racconti dei suoi contemporanei, gli atti delle conferenze religiose e dei concili come della sua narrazione ufficiale, io vivo un processo religioso di tale forza eruttiva, di tale energia, che nella vita e nella morte esso sta al di là di ogni possibilità di Erlebnis per ogni uomo dei nostri giorni”.2 Dilthey è preoccupato dell’irrigidimento e della pietrificazione del mondo storico, teme che i contesti di senso non possano più essere decifrati dal singolo e che l’esperienza storica tenda a diventare cosa, passato incomprensibile. Rimane un oggetto che non ha senso per noi, che è indifferente. Il carattere di fissità gli fa perdere la sua dimensione cangiante in base a ragioni dimostrabili. La storia deve servire al potenziamento della vita, ricostruire artificialmente la tradizione. Essa sembra dovere assumere anche un compito terapeutico, quello di rivitalizzare un’esperienza avvizzita, di dare respiro a una individualità che si sente soffocata dai meccanismi oggettivi della produzione di senso e dalla complessità, ma che nello stesso tempo non crede più alle filosofie della storia che promettono un corso delle cose che sostenga l’avanzamento del soggetto sulla sua cresta d’onda. L’impetuoso sviluppo 88

attraverso le contraddizioni presentato dalla dialettica si è derubricato a evoluzione. La continuità e la vischiosità del movimento storico, la sua mancanza di tagli netti sono state accettate. Ormai si tratta di far intervenire, con il premio di seduzione offerto da un potenziamento dell’Erlebnis, l’individuo al mantenimento in vita e alla riproduzione degli universi simbolici e di senso e, nello stesso tempo, alla conservazione della vitalità sociale. Lo spirito oggettivo deve essere messo a frutto nel doppio interesse dell’individuo e della comunità. Attraverso la mediazione della storia, il presente acquista una tonalità vitale più intensa. Ciò che appare in universi simbolici inerti va riattivato mediante il comprendere tipico del “circolo ermeneutico”, il Verstehen (trattato nel saggio del 1900 intitolato appunto Ermeneutica). Esso consiste nel gioco aperto di anticipazione del senso globale di un determinato problema, che ritorna però continuamente su se stesso e rettifica, di volta in volta, la comprensione mediante un riposizionamento e un riesame delle parti. Mediante il Verstehen ciascuno può vivere altre vite parallele alla sua, immaginarsi fornito di più biografie possibili, che ne moltiplicano le possibilità. L’io non è infatti monolitico, ma è come un tessuto composto di mille fili: è tanto più robusto quanto più fili (o senso tratto da altri) riesce a inglobare. La storia non ha ormai più il solo compito di stabilire quel che veramente è accaduto, ma di schiudere gli universi di senso che rischiano di restare muti nell’ambito dello “spirito oggettivo”. Essa costituisce il rimedio sia alle limitazioni casuali che a quelle necessarie 89

della vita. Fa rivivere e attiva dei germi che vivevano già in noi dispersi e apre la vita ai possibili, allargandola oltre i suoi limiti angusti. Il comprendere è l’antidoto nei confronti della chiusura e dell’isolamento degli individui. La storia (ma anche l’arte) è il principale strumento di universalizzazione del singolo che non ne cancella però l’individualità. Dilthey vuole evitare, da un lato, il vitalismo, l’isolamento dell’Erlebnis dalla mediazione storica, dall’altro la storia come oggettività, inesorabile movimento oggettivo non mediato dalla coscienza e dalla donazione e decrittazione del senso individuale. Per questo egli non rinuncia al legame tra psicologia e storia, tra soggettività e oggettività, tra individualità e universalità. La psicologia individuale è il punto di partenza e il punto di arrivo del processo di “comprensione”: la conoscenza storica è conoscenza dell’individualità, anche se (come appare dal Contributo allo studio dell’individualità) per giungere a essa è necessario passare attraverso generalizzazioni, tipizzazioni. A sua volta, l’individuo è il crocevia del mondo storico, l’unico portatore e creatore vivente di questi rapporti fluidi che costituiscono la storia. L’ideale di Dilthey è espresso nel suo costante riferimento alla cultura tedesca del periodo che precede il 1848 (a Schleiermacher, a Hölderlin, a Goethe, a Hegel), a quella fase in cui si cercava un equilibrio tra individuo e Stato, soggettività e oggettività, e in cui non si esaltavano ancora e non si imponevano così duramente i “Leviatani”, come avverrà invece in età bismarckiana e guglielmina anche con Treitschke, Weber o Meinecke. Lo “spirito oggettivo”, 90

prodotto dalla lunga azione modellatrice delle soggettività umane, non si presenta come un’entità a esse estranea e ostile: vi è la possibilità di riappropriarsene, di impedire attraverso la “comprensione” il suo autonomizzarsi ed ergersi in forme minacciose. Dilthey traccia le linee di un progetto di disalienazione e di fluidificazione delle concrezioni e delle reificazioni sociali – analogo, nei suoi scopi, a quello ideato da Bergson – che non passa attraverso la modificazione collettiva, politica, delle istituzioni, ma attraverso miriadi di iniziative individuali tese a rivitalizzare e a dar senso a una civiltà che va irrigidendosi in forme di organizzazione statuale ed economica sempre più integrate e cogenti. La sua filosofia è nello stesso tempo un campanello d’allarme e un programma di contro-tendenza: un tentativo di modificare quella rotta di collisione fra gli Stati europei che porterà all’agosto del 1914. La crescente importanza, anche politica, della conoscenza dell’uomo nella sua vita singola e in quella di relazione, accanto alla “crisi dei fondamenti” delle scienze naturali, conduce all’emergenza delle “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften), di cui occorre stabilire i caratteri differenziali. Per governare gli uomini, così come per sottrarsi al dominio, bisogna conoscerli, vederli non come essenza eterna, naturale, ma come esseri continuamente modificati dalla storia, ossia da se stessi. L’uomo è “creatura del tempo”, di se stesso: il suo operare è intellegibile solo all’interno di un mondo storico specifico che lo circoscrive e di cui bisogna conoscere le regole. Il riconoscimento della dimensione storica, oltre a rivelare il desiderio di riprendere 91

in mano le redini di un processo che appare guidato da forze distanti e oscure, ha per Dilthey anche un significato emancipatorio. Una volta mostrata la relatività e la caducità di ogni espressione della vita storica, di ogni struttura sociale o di ogni valore, si è compiuto “l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo”.3 Ma quel che rimane in tale relativismo storicistico è solo “la continuità della forza creatrice come elemento storico essenziale”. La storia si presenta così come un grande cantiere aperto, in cui non esistono verità precostituite, ma – appunto – verum ipsum factum. Ognuno può partecipare creativamente all’impresa collettiva secondo le sue forze. Sotto questo profilo, lo storicismo è anche una forma di mobilitazione di massa, un appello per dire che la storia è aperta a tutti, che ha cessato di essere un privilegio dei potenti della Terra. Di nuovo, al pari di Bergson, tutto si traduce in indeterminata forza creatrice: resta la perennità del mutamento, ma non se ne individuano né il verso, né gli agenti, né la dinamica specifica. Del resto, è proprio su questa creatività del movimento storico in contrasto con la regolarità ciclica e ripetitiva della natura (perlomeno in tempi non lunghissimi), che si fonda la divisione fra scienze dello spirito e scienze della natura, fra “comprendere” e “spiegare”, fra “connessione dinamica” e causalità. Nel rivendicare contro il positivismo l’autonomia e la dignità delle Geisteswissenschaften rispetto alle sue più fortunate sorelle, nel far loro abbandonare un ormai radicato complesso di inferiorità, Dilthey contribuisce a fissare la separazione tra le “due culture” in un momento in cui, fra 92

l’altro, le scienze naturali rinunciano al concetto classico di causalità rigida e le scienze dello spirito (con Weber, Durkheim o Freud) si staccano dal vitalismo o dallo psicologismo dell’Erlebnis per riallacciarsi ad un concetto di causalità più sottile ed elaborato. È vero che in Dilthey non c’è iattanza né spirito revanscista nei confronti delle difficoltà che allora attraversavano le scienze della natura. Di fronte all’insinuante sospetto che esse avessero perduto la loro infallibilità e fossero state precipitate dal proprio trono fra la plebe delle altre forme di conoscenza incerte e congetturali, costrette, come la filosofia, a ridiscutere in apparenza sempre gli stessi problemi, egli non prova il malcelato compiacimento di altri filosofi che, ignorando il momento di crescita di tale crisi, avevano ritenuto che fosse giunto il tempo di passare al contrattacco e di proclamare la restaurazione della filosofia come “regina delle scienze” (essa sola infatti potrebbe legittimamente governare in tale situazione di disordine, in quanto per tradizione ha familiarità con l’instabile dominio delle costruzioni concettuali, ne conosce la dinamica delle trasformazioni ed è avvezza ai “tempi di povertà”). Dilthey si limita a spartire il regno della conoscenza e, a differenza di Croce, concede un significato teoretico, e non economico-pratico, alle scienze della natura. La sua concezione di fondo è anzi che esse abbiano un contenuto più costante di verità, dovendo misurarsi con una realtà meno mobile e mutabile nel tempo di quella conoscibile dalle scienze dello spirito. 2. Le umanità altre: filosofia dell’antropologia 93

Se lo storicismo fornisce alla cultura europea la penetrante consapevolezza di aver tagliato il cordone ombelicale con la natura e di aver reso l’uomo figlio della propria storia; se esso relativizza nel tempo e in zone comparativamente ristrette quel mutamento di valori e di esperienze di cui ci si deve impadronire, la nuova etnologia tende a verificare la molteplicità degli intrecci tra natura e cultura (a sottolineare, indirettamente, la presenza della natura anche nella storia dei “paesi civili”) e a relativizzare nello spazio i valori e le esperienze. Come Freud aveva proceduto alla conquista e alla bonifica di quell’“interno paese straniero” che è l’inconscio, così, tra oscillazioni e sbandamenti, l’etnologia procede alla scoperta e all’assorbimento di quella umanità altra che aveva in precedenza meritato la qualifica di “selvaggia”, buona o cattiva che fosse. In un mondo sempre più interdipendente, in una storia che si allarga sino a raggiungere stabilmente – e non episodicamente – la scala planetaria, l’etnocentrismo occidentale si dimostra ristretto, miope, e il comprendere l’alterità si traduce nel comprendere se stessi. Sotto la crosta della civiltà, sotto lo spessore della storia, è pur sempre presente nell’uomo europeo quell’elemento “selvaggio” che era stato esorcizzato nei tempi della precedente dominazione coloniale. Ora si comincia ad avvertire sia la carenza dello schema unilineare risalente ad Adam Ferguson (per cui tutti i popoli dovrebbero percorrere i tre scalini dello stadio selvaggio, barbarico e civile), sia l’inadeguatezza e l’ambiguità dello schema evoluzionistico, in vario modo sostenuto da Spencer, Tylor e Frazer (per cui esisterebbe 94

sviluppo, dal più semplice al più complesso, di uno “spirito umano” uniforme a tutte le latitudini). Ora l’attenzione è indirizzata verso il rapporto differenziale tra la cultura e il razionalismo europeo e la varietà, la pluralità, l’irriducibilità a un sistema unitario delle civiltà “altre”. L’analisi comparativa dello statuto del “pensiero selvaggio”, pur concludendosi in genere con la riaffermazione della superiorità di quello civilizzato, intacca e relativizza insensibilmente la fede nell’eternità metastorica e nell’ubiquità della nostra logica. Croce riteneva inutile studiare il pensiero dei selvaggi, dei bambini o dei pazzi, dal momento che ci si poteva dedicare a quello di un Kant. Il fatto è che proprio la ricerca di queste alterità rimosse esprimeva il bisogno di rifondare dal basso una nuova cultura globale e nuove forme di pensiero che accogliessero e attivassero ciò che prima ci era estraneo e che ora, dilatandosi gli orizzonti geografici e mentali, deve diventare patrimonio comune. Uno sviluppo per linee interne dei punti più alti già raggiunti dal pensiero europeo (poniamo di un Kant, appunto) si rivelava insufficiente. In questa querelle sulla relazione tra pensiero occidentale e pensiero “altro” – non solo selvaggio, non solo in senso etnologico: pensiamo, per fare un solo esempio, alla logica del ragionamento infantile in Piaget – un ruolo determinante gioca la categoria di causa, che in tale confronto subisce ulteriori torsioni. Questo concetto fondamentale del razionalismo europeo, orgogliosamente legato ai progressi delle sue scienze, non è quasi mai attribuito in senso pieno ai selvaggi o alle pur evolute società 95

asiatiche. Per Frazer la magia, “sorella bastarda della scienza”, fase primordiale della mentalità umana, a cui i primitivi sono ancora legati, applica scorrettamente quegli stessi principi associativi che, se bene applicati, conducono al sapere per cause. I selvaggi si servono infatti di due principi: “primo, che il simile produce il simile, o che l’effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. Il primo principio può chiamarsi legge di similarità, il secondo legge di contatto o contagio”.4 I primitivi, i senza scienza, vivono secondo Frazer nell’errore e in un universo fantasmagorico, lontani dal progresso e dalla chiarezza raggiunta dalle menti degli uomini civili: “È dunque una verità evidente, e quasi una tautologia, il dire che tutta quanta la magia è per necessità falsa e sterile, perché se divenisse vera e fruttuosa non sarebbe più magia ma scienza”.5 Lucien Lévy-Bruhl, per quanto abbia inizialmente accentuato il carattere “prelogico” della mentalità primitiva, non pretende affatto di dimostrarne l’inferiorità. Egli vuole invece produrre un “effetto di straneamento”, bloccare la proiezione spontanea della nostra mentalità e delle nostre abitudini sulle altre. Nei suoi meccanismi di fondo, la mentalità dei primitivi non è diversa dalla nostra: solo i presupposti e i bisogni specifici sono differenti, ed è solo all’interno di questo blocco di relazioni fra ambiente, bisogni e rappresentazioni collettive che la si può intendere. In tale maniera, “l’attività mentale dei primitivi non sarà più 96

interpretata in partenza come una forma rudimentale della nostra, come infantile e quasi patologica. Apparirà anzi come normale nelle condizioni in cui essa si esercita, come complessa e a suo modo sviluppata”.6 Il primitivo segue le regole inconsce della “partecipazione mistica”, vive un’esperienza di insicurezza e di allerta dinanzi ai pericoli e agli incantamenti del mondo, mentre noi – si può legittimamente dire in linguaggio weberiano – viviamo in un universo disincantato, nella fiducia sulla stabilità del nostro ordinamento intellettuale, anche quando esso è posto momentaneamente in crisi: “Noi abbiamo un senso continuo di sicurezza intellettuale così saldo che non vediamo come possa essere scosso; poiché anche supponendo l’apparizione improvvisa di un fenomeno del tutto misterioso e le cui cause ci sfuggissero interamente agli inizi, non saremmo per questo meno persuasi che la nostra ignoranza è solo provvisoria, che queste cause esistono e che presto o tardi potranno essere determinate. Così, la natura in seno alla quale viviamo è, per così dire, intellettualizzata in anticipo. Essa è ordine e ragione, come la mente che la pensa e che vi si muove. La nostra attività quotidiana, fin nei suoi più umili particolari, implica una tranquilla e perfetta fiducia nell’invariabilità delle leggi naturali. Ben diverso è l’atteggiamento mentale del primitivo. La natura in seno alla quale egli vive gli si presenta in tutt’altro aspetto. Tutti gli oggetti e tutti gli esseri sono implicati in una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche: esse anzi ne costituiscono il contesto e l’ordine. Son dunque esse che si imporranno prima di tutto alla sua attenzione, ed esse sole la 97

tratterranno. Se è interessato da un fenomeno, e se non si limita a percepirlo, per così dire passivamente e senza reagire, egli penserà subito, come per una specie di riflesso mentale, a una potenza occulta e invisibile di cui questo fenomeno è una manifestazione”.7 In questa simbiosi mistica con le forze occulte, le rappresentazioni del primitivo possono non obbedire alle nostre categorie logiche, ai principi classici di identità e di non-contraddizione. Esse possono nello stesso tempo rivestire qualità opposte, condensare entità diverse. Solo quando il pericolo rappresentato da una natura troppo potente si attenua, solo allora, sembrerebbe, la coesione delle rappresentazioni sociali, che lega strettamente l’individuo al suo gruppo, si attenua a sua volta e la logica e la contraddizione si aprono la strada nelle rappresentazioni che si trasformano in concetti. Così infatti Lévy-Bruhl si esprime in Le funzioni mentali nelle società inferiori (Paris 1910): “La mentalità collettiva sente e vive la verità in virtù di ciò che io ho chiamato simbiosi mistica. Ma ove l’intensità di questo sentimento viene meno nelle rappresentazioni collettive, subito la difficoltà logica comincerà a farsi sentire […]. Quando i caratteri obiettivi essenziali della pietra si sono, per così dire, fissati nel concetto di pietra, il quale a sua volta è inquadrato in altri concetti di oggetti naturali diversi dalla pietra per proprietà non meno costanti delle sue, diventa inconcepibile che le pietre parlino, le rose si muovano volontariamente e generino uomini […]. Più i concetti si determinano, si fissano, si ordinano in classi, più le affermazioni non 98

tengono alcun conto di questi rapporti ed appaiono contraddittorie”. Dopo Lévy-Bruhl la magia o la mentalità primitiva cessano fondamentalmente di rappresentare fenomeni misteriosi. Vivendo maggiormente a contatto con i “selvaggi”, eliminando per quanto è possibile gli intermediari, usando il metodo dell’“osservazione partecipante”, è possibile per alcuni rilevare la profonda coerenza dei loro sistemi di rappresentazione e notare anche come essi non vivano continuamente in un’atmosfera di stupore magico. Esiste anzi una vastissima sfera profana nel pensiero dei primitivi: come constaterà Malinowski, solo nel caso in cui non siano in grado di padroneggiare completamente un processo, rispunta la magia. Per Marcel Mauss, poi, che risente l’influsso dell’idea durkheimiana di contrainte sociale, la magia dei primitivi non è il frutto di una loro mentalità (inferiore o diversa), ma del bisogno di stabilire una comunicazione tra l’individuo e la collettività. Il mago è un emissario della società, costretto a sentirsi e a rimanere “altro” mediante apposite pratiche, che catalizzano in intensi sforzi psichici le ansietà e le aspettative del villaggio: egli è come una specie di funzionario, socialmente investito di un’autorità alla quale è impegnato a credere lui stesso.8 Perché un individuo creda nella magia, è necessario che tutta la società vi creda. Del resto ogni aspetto della vita comunitaria è regolato da obblighi e da esclusioni di rapporti, da un codice di scambi, che coinvolge persone e oggetti e che determina gli atteggiamenti psicologici di ciascuno. Nel Saggio sul dono, Mauss mostra, attraverso il 99

modello del potlàc – dell’obbligo di ricambiare i doni in una sorta di gara che può condurre alla rovina economica o alla morte dei partecipanti – che lo scambio primitivo, contrariamente a quanto pensavano i padri dell’economia politica classica, non è costituito dal baratto fra individui di oggetti adatti a soddisfare bisogni elementari, bensì dallo scambio fra gruppi organizzati “di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere”. L’alternativa sottintesa a questo obbligo di scambiare, a questo meccanismo di socializzazione, è la guerra, lo scambio distruttivo. Lo scambio non è quindi considerato (da Malinowski a Mauss, a Godelier, dal kula, al potlàc, alla “moneta di sale”) come un semplice rapporto economico separabile dal contesto sociale o rappresentativo, ma come un fenomeno complesso che coinvolge bisogni, istituzioni, prestigio e lotta. Tale impostazione dei rapporti sociali come comunicazione all’interno di un sistema determinato troverà in Lévi-Strauss uno dei più acuti indagatori. Egli, applicando alla etnologia i moduli della linguistica e della matematica, cercherà di stabilire i principi formali dello scambio (delle donne, come nelle Strutture elementari della parentela) o il valore di posizione di certe credenze e miti in culture e ambiti geografici lontanissimi (bellissima, ad esempio, la ricostruzione in Razza e storia della credenza in “Babbo Natale”). Rifiutando l’opposizione assiologica tra popoli provvisti di storia e popoli senza storia, respingendo il privilegio della spiegazione temporale delle situazioni umane, Lévi-Strauss pone l’accento sulle strutture 100

sistematiche, sulla solidarietà che lega sincronicamente i loro componenti, sui tempi lunghi e i larghi spazi, sulle risonanze fra codici diversi e sulla permanenza, anche nella nostra cultura, del “pensiero selvaggio”. Esso non significa infatti pensiero dei primitivi, ma pensiero allo stato selvaggio, “distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento”. E tale pensiero brado coesiste con quello coltivato in molti dei nostri atteggiamenti mentali o dei nostri comportamenti: nell’arte, nella produzione di miti, nelle associazioni di immagini, di sapori, nel modo di camminare o di mangiare. Per intendere il pensiero selvaggio non è necessario far ricorso a facoltà ormai sepolte sotto il nostro essere civilizzato o a forme di straordinaria e ferina sensibilità: “L’indiano americano che decifra una pista mediante impercettibili indizi, l’australiano che senza esitazione identifica le impronte dei passi lasciate da uno qualsiasi dei componenti del suo gruppo (Meggitt), non si comportano diversamente da come facciamo noi stessi quando guidiamo un’automobile e a colpo d’occhio, da un leggero orientamento delle ruote, da una variazione del regime del motore, o persino dall’intenzione supposta in uno sguardo, decidiamo se è il momento di superare o di scansare una macchina. Per quanto possa sembrare incongruente, questo paragone è ricco di insegnamenti; ciò che infatti acuisce le nostre facoltà, che stimola la nostra percezione, e dà sicurezza ai nostri giudizi, è in parte il fatto che gli strumenti di cui disponiamo e i rischi che corriamo sono incomparabilmente aumentati dalla potenza meccanica del motore, e in parte il fatto che la tensione derivante dal 101

sentimento di questa forza incorporata si traduce in una serie di dialoghi con altri guidatori le cui intenzioni, simili alla nostra, si trasformano in segni che ci studiamo di decifrare perché appunto sono segni che sollecitano l’intellezione”.9 Il pensiero selvaggio è inserito in questo sistema di segni in cui uomo e mondo si integrano a vicenda e in cui l’esperienza viene ordinata secondo tassonomie non arbitrarie, per quanto apparentemente bizzarre. È vero che il pensiero selvaggio non distingue il momento dell’osservazione da quello dell’interpretazione dei segni, ma ciò non vuol dire che esso non colga la realtà e non sia, nel proprio ambito, efficace. Anche il cosiddetto pensiero magico non è l’opposto del pensiero scientifico, ma il presentimento della “verità del determinismo”, l’erede di una lunga tradizione di osservazioni, di esperienze, di percezione di regolarità e di incompatibilità. Certo le tassonomie del pensiero magico sono talvolta sorprendenti e assai incomprensibili per noi. Ma a un esame più attento rivelano la loro legalità e ragion d’essere analogica: “La ciliegia selvatica, la cannella, la vaniglia e il vino di Xeres formano un gruppo che non è più soltanto sensibile ma intellegibile, perché tutti contengono aldeide; mentre gli odori gemelli del tè del Canada (wintergreen), della lavanda e della banana, si spiegano con la presenza di esteri. La sola intuizione ci indurrebbe a includere in uno stesso gruppo la cipolla, l’aglio, il cavolo, il ravizzone, il ravanello e la senape, benché la botanica separi le liliacee dalle crucifere; la chimica convalida la 102

testimonianza della sensibilità e prova che queste famiglie tra loro estranee si collegano su un altro piano: contengono zolfo (K., W.). Un filosofo o un poeta, ispirandosi a considerazioni che non hanno nulla a che vedere con la chimica o con qualsiasi altra forma di scienza, avrebbe potuto operare questi raggruppamenti: la letteratura etnografica ne rivela un buon numero, il cui valore empirico ed estetico non è peraltro minore”.10 Il pensiero magico non procede solo a organizzazioni orientative del sapere, ma possiede anche efficacia operativa e terapeutica, come mostra in maniera esemplare l’incantesimo che lo sciamano della tribù dei Cuna, nella zona di Panama, usa nel caso di parti difficili. Ogni momento del travaglio viene seguito e tradotto in termini mitici (le fasi di contrazione e di dilatazione corrispondono al passaggio di animali scavatori come l’armadillo, al presentarsi di un popolo di arcieri e così via). Lo sciamano fornisce alla partoriente un linguaggio mediante il quale la sua esperienza diventa esprimibile verbalmente, da anarchicamente ineffabile che era, e così “ne provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico, ossia della riorganizzazione, in un senso favorevole, della sequenza di cui l’ammalata subisce lo svolgimento”. La cura dello sciamano diventa così qualcosa di intermedio tra la nostra medicina organica e la terapia psicoanalitica, in quanto la conoscenza dei processi rende possibile ordinare i conflitti e dominarli meglio: “La cura consisterebbe quindi nel rendere pensabile una situazione che in partenza si presenta in termini affettivi e nel rendere accettabile alla mente dolori 103

che il corpo si rifiuta di tollerare. Che la mitologia dello sciamano non corrisponda a una realtà oggettiva è un fatto privo di importanza: l’ammalata ci crede, ed è un membro di una società che ci crede”.11 Da diversa prospettiva, risulta possibile, anche per l’altro grande antropologo contemporaneo, Clifford Geertz, comprendere e tradurre nel proprio vocabolario – entro limiti variabili – le esperienze fondamentali delle umanità altre. E non vi è alcun bisogno di ricorrere alle misteriose forme di intuizione di cui gli antropologi sarebbero dotati. È infatti falso il “mito dello studioso sul campo simile al camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda, un miracolo vivente di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo”. È sufficiente, per capire, riferirsi ai sistemi simbolici (linguaggio, immagini, comportamenti, istituzioni) utilizzati da culture diverse dalla nostra paragonandoli ai nostri e inserendoli in schemi di raggio più ampio. Unendo l’autocomprensione alla conoscenza degli altri, si giunge a descrivere e a ricostruire il senso di civiltà a noi estranee, senza bisogno di annullare noi stessi nell’Altro o di mantenere una distanza incolmabile nei suoi confronti. Seguendo dichiaratamente il modello diltheyano del “circolo ermeneutico”, del “moto perpetuo intellettuale”, ogni fenomeno parziale rinvia per Geertz alla comprensione globale, la quale a sua volta riceve senso solo da un incessante ritornare sulle parti, mediante una sorta di loro commento reciproco. Non si può sapere cosa sia un guantone da baseball se non si sa che cosa è il baseball, ma l’uso del guantone o della mazza, una volta meglio compresi, 104

gettano luce sull’intera dinamica del gioco. Analogamente un rituale strano riceve il suo pieno significato solo in un contesto simbolico generale su cui poi getta luce. La “conoscenza locale” rinvia a quella globale e viceversa, così come la conoscenza di noi stessi a quella degli altri: “La doppia percezione che la nostra è una voce tra le altre e che, dato che è l’unica che abbiamo, dobbiamo parlare con essa, è molto difficile da mantenere”. L’incommensurabilità completa tra le culture umane non esiste, così come non esiste la loro identità e completa sovrapponibilità o una verità separata da chi comprende e interpreta. Avendo trascorso molti anni nel centro di Giava, a Bali e in una cittadina del Marocco, Geertz si serve della sua esperienza per offrire un esempio illuminante. A nessuna cultura, dice, manca la comprensione dei propri componenti in quanto persone, entità cioè differenti da pietre, animali o dèi. Pur essendo lontanissime dalla concezione occidentale di individuo quale “centro dinamico di consapevolezza, emotività, giudizio”, le loro corrispondenti nozioni risultano alla fine interpretabili, riconducibili entro l’orizzonte della propria cultura. Si vede così che a Giava la “persona” viene intesa in base all’opposizione tra batir (vita emotiva “interiore”, fluire dei sentimenti nella loro immediatezza) e lair (comportamenti e azioni “esteriori”, osservabili) e che l’ideale socialmente perseguito da ciascuno è di essere alus, “puro” o educato, a entrambi i livelli, appianando “le colline e le vallate” delle passioni e tenendo sempre una condotta controllata, non volgare. A Bali invece gli individui devono stilizzare la propria casuale e transitoria esistenza 105

secondo schemi teatrali, e sono quindi portati a rappresentarsi mantenendo fede alla propria parte: “Ma le maschere che indossano, il palcoscenico che occupano, le parti che recitano, e, più importante, lo spettacolo che mettono in scena, rimangono, e costituiscono non la facciata ma la sostanza delle cose, non meno che del sé”. In Marocco, infine, gli individui vengono compresi contestualmente, sulla base della relazione associativa o “ascrittiva”, nisba, che li definisce a seconda della caratteristica di volta in volta ritenuta determinante (tribù, luogo di nascita, professione). In tale modello sociale l’identità delle persone è data “in termini di categorie il cui significato è quasi puramente posizionale, del posto occupato nel mosaico generale”.12 Questo schema libero, costituito da coordinate che variano a seconda dei luoghi – mercati, campi, bagni pubblici – lascia largo spazio all’“iperindividualismo”, in quanto il singolo può mutare se stesso nei diversi contesti, essere “una volpe tra le volpi, un coccodrillo tra i coccodrilli”, senza timore di perdere la propria identità. Questa “antropologia interpretativa” è volutamente sempre costruita “dopo il fatto”, non solo nel senso che considera i fenomeni ex post, dalle tracce che hanno lasciato (perché devono essere vissuti prima che compresi), ma anche nel senso che essi sono fabbricati (non vengono attinti a posteriori da una incontaminata riserva di verità oggettive o trovati “belli luccicanti” sulla spiaggia). Geertz illustra il metodo della propria disciplina mediante una parabola: “Un saggio è seduto accovacciato davanti a un elefante in carne 106

ed ossa che sta proprio di fronte a lui. Il saggio dice: ‘Questo non è un elefante’. Solo più tardi, quando l’elefante si è girato e ha cominciato ad allontanarsi muovendosi pesantemente, il saggio comincia a chiedersi se dopotutto non poteva esserci in giro un elefante. Alla fine, quando l’elefante è ormai completamente scomparso dalla sua vista, il saggio osserva le orme dei piedi che la bestia si è lasciate dietro e dichiara con certezza: ‘Un elefante era qui’ ”.13 Un comportamento involontariamente simile aveva tenuto Ernesto De Martino, registrando nell’Italia meridionale le tracce di fenomeni magici e religiosi in via di scomparsa. Senza bisogno di uscire dall’“Europa civile”, aveva trovato i suoi “selvaggi” non lontano da casa, così come, recentemente, Marc Augé li ha rinvenuti nelle grandi città dell’Occidente, mentre si aggirano frettolosi o sperduti, ignorandosi reciprocamente, nei “non luoghi” delle stazioni, degli aeroporti o delle metropolitane.14 Con una serie di saggi pubblicati in vita – Il mondo magico, del 1948, Morte e pianto rituale nel mondo antico, del 1958, Sud e magia, del 1959, La terra del rimorso, del 1961 e con la grande e incompiuta opera postuma La fine del mondo, del 1977 –, De Martino ha dimostrato come le credenze e le pratiche magiche convivano ancora nel Meridione accanto a forme di religione ufficiale. Esse rispondono al bisogno di proteggere la fragile coscienza umana, la “presenza”, dalle forze naturali e sociali che la minacciano. Costituiscono corazze che le impediscono di dissolversi nell’angoscia dinanzi all’incertezza quotidiana e al contatto con lo sconosciuto e il nuovo. La ripetizione rituale di gesti, attività e formule 107

nell’ambito di una comunità (il pianto delle prefiche dinanzi al cadavere di un defunto o le danze dei “tarantolati”, persone morsicate da un animale immaginario) sottopone l’individuo a una disciplina del corpo e dell’anima capace di reintegrarlo nella storia e di rassicurarlo. La distanza tra questo mondo magico-comunitario e quello razionalizzato della storia non può tuttavia venire superata se l’esistenza di queste masse contadine, esposte al capriccio degli elementi naturali e alla precarietà delle condizioni economiche, non viene cambiata, se la quasi permanente “crisi della presenza” non viene superata. 3. Il pensiero rivoluzionario Se il pensiero selvaggio esiste anche fra i popoli civilizzati e le pratiche terapeutiche o tassonomiche efficaci si trovano anche fra i primitivi, il modello di uno sviluppo storico lineare che ha alla sua base i popoli che si trovano agli stadi iniziali dello sviluppo, ossia i Naturvölker, e al suo vertice le nazioni civili egemoni, non regge più. Il mondo, sconvolto da guerre planetarie e da rivoluzioni che cambiano incessantemente i colori delle carte geografiche e i rapporti di potere, non è più comprensibile attraverso schemi semplici di monodominanza e di soggezione sostanzialmente rinunciataria a forze stabili. Interi continenti vengono ora trascinati in un processo globale di mutamento e civiltà plurimillenarie (già intaccate dalla seconda ondata di colonialismo, quella guidata dagli Stati, in cui “la bandiera precede il capitale”) sono sottoposte alla pressione di forme 108

di acculturazione rapida e violenta provenienti dall’esterno. Anche la natura delle guerre di massa – che non risparmia la popolazione civile e che provoca indirettamente l’immissione delle donne nell’attività produttiva a pieno regime, il loro abbandono della casa e della vita privata come centro esclusivo, con il conseguente ulteriore indebolimento della famiglia patriarcale – crea modificazioni profonde e conflitti privati nell’esistenza e nella psicologia di milioni di persone, che sperimentano su se stesse la potenza e l’incidenza degli eventi collettivi. Con la Rivoluzione d’Ottobre, poi, il processo storico si complica ancora di più. Lenin ha dimostrato praticamente che esso non è necessariamente lineare, che certe tappe dello sviluppo, come il dominio capitalistico dispiegato in una determinata nazione, si possono saltare, che gruppi relativamente ristretti di rivoluzionari di professione, che agiscono come “avanguardia esterna” del proletariato, possono innescare un movimento che coinvolge e rende protagonisti milioni di uomini. Dopo il 1917 il marxismo, nato quale teoria scientifica complessa, oltre che come arma politica del proletariato, si accultura velocemente nell’Unione Sovietica, dove si cerca di produrre anche a posteriori quella maturazione generale della coscienza di classe che lo svolgersi della storia russa non aveva consentito prima e dove esso tende a diventare, in età staliniana, una sorta di religione di Stato, una ideologia che mira a sradicare le vecchie concezioni religiose e “magiche” della Russia contadina. Il compito di Lenin come teorico e politico di questa fase di costruzione del potere sovietico è immenso: le 109

polemiche di Materialismo ed empiriocriticismo del 1909 contro Bogdanov e gli altri “machisti” russi e in favore di una conoscenza oggettiva, di una approssimazione continua alla verità, della rivendicazione di una realtà materiale esterna che noi riflettiamo, sono ormai lontane e inattuali; il confronto con Hegel e la dialettica, operato tra il 1914 e il 1915 durante l’esilio bernese e consegnato a quei Quaderni filosofici che saranno pubblicati postumi nel 1933, agisce in forma mediata incorporandosi nell’analisi a caldo degli avvenimenti. Il problema che ora più urgentemente si pone è invece quello di coordinare le punte avanzate della coscienza di classe e dello sviluppo industriale con l’“arretratezza” della mentalità contadina e dell’economia delle campagne (e tutto ciò in un periodo in cui la guerra civile e l’accerchiamento internazionale mettono in forse la semplice sopravvivenza fisica e politica dello Stato sovietico). Avanzare trascinando il peso del passato preborghese, coniugando tempi storici differenti, assorbendo dagli avversari di classe le scienze e le tecniche e l’eredità culturale più sviluppate: questo il messaggio di Lenin che sarà colto, in diverse forme e misure, da Bloch, da Gramsci e da Lukács. In questa lotta, tuttavia, gli organismi di democrazia di base perdono progressivamente il loro potere reale e tratti autoritari e burocratici si fanno inevitabilmente strada. La durezza dello scontro provoca dei contraccolpi ed esige anche, per dirla con Gramsci, “taglie mostruose”. La democrazia e il socialismo sono solo agli inizi e l’ardore rivoluzionario tende in parte a raffreddarsi per le esigenze di 110

quotidiana organizzazione e progettazione della società nuova. Le masse popolari, perdendo in parte gli strumenti di autogoverno, i soviet, cominciano a essere segnate da forme di passività. Per Rosa Luxemburg, la dittatura del partito rivoluzionario e le limitazioni della libertà nuocciono alla rivoluzione, fermano l’operosa attività di quel laboratorio politico collettivo che aveva cominciato a funzionare: “La libertà solo per i seguaci del governo, solo per i membri di un partito – per numerosi che possano essere – non è libertà. La libertà è sempre unicamente libertà di chi la pensa diversamente. Non per fanatismo di ‘giustizia’, bensì perché tutto ciò che di educatore, salutare e purificatore deriva dalla libertà politica, dipende da questa convinzione, e perde ogni efficacia, quando la libertà si fa privilegio”. Il socialismo non si costruisce per decreto, ma deve nascere dalla scuola stessa dell’esperienza di tutti: “Il negativo, la demolizione, li si può decretare; la costruzione, il positivo, no. Terra vergine. Mille problemi. Solo l’esperienza è in grado di correggere e di aprire nuove strade. Solo una vita fermentante senza impedimenti immagina mille nuove forme, improvvisa, emana una forza creatrice, corregge spontaneamente tutti i granchi. Perciò appunto la vita pubblica degli Stati con libertà limitata è così deficiente, così povera, così schematica, così sterile, perché escludendo la democrazia ci si rifiuta alla viva fonte di ogni spirituale ricchezza e progresso (Prova: gli anni 1905 e i mesi febbraio-ottobre 1917). Come è politicamente, così è economicamente e socialmente. Tutta la massa del popolo vi deve prendere parte. Altrimenti il socialismo viene 111

decretato, autorizzato dal tavolo di una dozzina di intellettuali. È incondizionatamente necessario un controllo pubblico. Altrimenti lo scambio di esperienze stagna nel cerchio chiuso dei funzionari […]. La prassi socialista esige una completa trasformazione spirituale nelle masse degradate da secoli di dominio di classe borghese. Istinti sociali al posto di quelli egoistici, iniziativa delle masse al posto di ignavia, idealismo che elevi sopra ogni sofferenza ecc. ecc. Nessuno lo sa meglio, lo descrive con più efficacia, lo ripete più caparbiamente di Lenin. Solo che egli si inganna completamente sui mezzi. Decreti, potere dittatoriale degli ispettori di fabbrica, pene draconiane, regno del terrore, sono tutti palliativi. L’unica via della rinascita è la scuola della vita pubblica stessa, della più illimitata e larga democrazia, opinione pubblica. È per l’appunto il regno del terrore a demoralizzare”.15 Dal pensiero di Lenin e della Luxemburg prende le mosse il “marxismo utopico” di Ernst Bloch, che constata nel periodo staliniano un prevalere della “corrente fredda”, dell’economicismo e della Realpolitik, sulla “corrente calda” dello slancio verso una società senza classi. Pur avendo a suo tempo giustificato le “purghe” di Stalin, Bloch sottolinea l’aspetto creativo del marxismo, che è l’erede di tutti i tentativi di emancipazione della storia umana, di tutti gli sforzi per attribuire “dignità” all’uomo. Personalmente – come amava spesso ricordare –, la sua esperienza è stata profondamente segnata, ancor prima che da Marx, dall’esempio dell’insurrezione dei contadini contro i principi tedeschi, nel 1525: “C’è un’antica canzone che mi 112

ritorna ancora sempre in mente, che io già spesso per così dire ho ripetuto in modo invisibile o impercettibile tra me, intendo dire che ho ripetuto nel mio modo di filosofare. L’antica canzone, che i contadini tedeschi battuti cantavano dopo la battaglia di Frankenhausen, quando la miseria antica ricadde su di loro moltiplicata. Quelli che ancora sopravvivevano, i cui occhi non erano stati ancora cavati e le cui lingue non erano state ancora strappate, cantavano questa canzone: ‘Battuti ritorniamo a casa. I nostri nipoti condurranno a miglior fine la lotta’ ”.16 Il marxismo eretico di Bloch, inteso come “scienza della speranza”, tende a riscattare, anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quanto nell’uomo è sempre stato represso, mutilato, umiliato. Recupera e riattiva i residui incoercibili di aspirazioni a una vita migliore che non siano stati assorbiti e resi funzionali ai poteri vigenti, quel vasto mondo sotterraneo di desideri, di progetti e di lotte che è stato finora sconfitto o non ha trovato un sufficiente riconoscimento. Quel che deve orientare la ricerca del nuovo è l’intero passato irredento che urge verso il futuro, le speranze dei vinti, tutto ciò a cui l’umanità ha rinunciato in nome di una realtà caratterizzata dallo sfruttamento, dalla divisione in classi e dall’asservimento della natura. Le attese messianiche dei profeti dell’Antico Testamento, le visioni di Gioacchino da Fiore, le rivolte di tutti gli oppressi sono stazioni di un lungo e accidentato cammino che condurrà a una società senza classi, sono momenti del “sogno di una cosa”. Nel passato è stata soprattutto la religione a fornire all’uomo il significato globale dell’esistenza, l’immagine di 113

una vita più degna e più piena. Questo spazio occupato dalla religione deve essere conquistato e bonificato, eliminando gli elementi fantastici e retrogradi. Il permanere della religione anche dopo che il suo carattere di illusione proiettiva è stato svelato, è indice del fatto che i bisogni che spingevano a essa non hanno potuto trovare un appagamento più alto. Annientare la religione significa realizzarla nel mondo. In tal senso solo un ateo può essere un buon cristiano. In queste riflessioni, il pensiero di Bloch si intreccia con quello dei maggiori teologi del XX secolo. Con il Karl Barth dell’Epistola ai Romani egli condivide infatti la lotta all’immagine banalizzante di un Cristo “umano, troppo umano” come lo intendeva la “teologia liberale”; con Rudolf Bultmann l’idea di una religione demitizzata, la volontà di rinnovamento e la percezione che l’“evento escatologico”, la rivelazione delle “cose ultime”, non si situa in un lontano avvenire, ma è già presente, qui e ora; con Jürgen Moltmann, infine, l’immagine di Dio come “promessa” e “potenza del futuro”. Ma, se per Bloch il cristianesimo si invera soltanto entro l’orizzonte del mondo (lasciando tuttavia un grande punto interrogativo sulla trascendenza), lo stesso si può affermare degli ideali borghesi di liberté, égalité, fraternité. La Rivoluzione francese li ha proclamati ma non attuati. Essi potranno realizzarsi solo a condizione che si considerino, rispettivamente: la libertà come fine della costrizione sociale e naturale non strettamente necessaria e riconoscibile; l’eguaglianza non come piatta parificazione degli individui ma come ricchezza variamente dispiegata delle facoltà 114

umane; la fraternità come solidarietà non offuscata dagli antagonismi di una società in cui gli uomini sono separati dal bisogno e da interessi inconciliabili. La rivoluzione proletaria prolunga, sotto questo profilo, la linea di tendenza democratica ed emancipatoria presente nelle rivoluzioni borghesi: “Non c’è democrazia senza socialismo, non c’è socialismo senza democrazia”. Bloch, sensibile alla lezione di Rosa Luxemburg, è per un marxismo come sperimentazione continua, experimentum mundi, coinvolgimento di tutti nella costruzione del comunismo. L’utopia rappresenta l’antidoto contro l’irrigidimento burocratico degli Stati socialisti, così come la ripresa del concetto giusnaturalistico di “dignità umana” dovrebbe rappresentare l’antidoto contro le loro deviazioni poliziesche e contro lo strapotere del partito dai mille occhi. Ma la religione, gli ideali di libertà, di eguaglianza, di fraternità, di dignità umana non sono che province del “continente speranza”, l’estensione di tutto ciò che è in divenire, che tende a incarnare l’utopia. Non occorre però dare al termine “speranza” un significato psicologico o semplicemente teologico. Il “principio speranza” contiene una logica del desiderio che non interseca solo il piano razionale, ma anche quello dei sogni a occhi aperti. Il pericolo della reificazione lo si evita anche mediante lo slancio in questa dimensione psichica. Poiché la speranza non è necessariamente legata a scenari grandiosi, Bloch non svaluta i desideri della società di massa (avere denti bianchi, corpo snello e atletico, bei vestiti). Non mostra nei loro confronti né il sospetto di inautenticità 115

denunciato da Heidegger, né lo “snobismo” di Adorno. Il desiderio rappresenta la scorza, la “corteccia provvisoria” che racchiude le potenzialità reali o realizzabili degli individui: “I desideri non fanno nulla, ma dipingono e conservano con particolare fedeltà ciò che dovrebbe essere fatto. La ragazza che vorrebbe sentirsi brillante e corteggiata, l’uomo che sogna di imprese future, sopportano la povertà o la quotidianità come una corteccia provvisoria”. Guai a reprimere i desideri, perché essi, una volta rimossi, marciscono sia nel nostro inconscio che nella nostra coscienza. Guai a disprezzarli, perché anche attraverso i desideri in apparenza più futili si nasconde la possibilità di incontrare se stessi: “Rossetto, trucco, piumaggi altrui aiutano per così dire il sogno di se stessi ad uscire dalla caverna”.17 Questi desideri, al loro livello, sono non soltanto legittimi, ma capaci di estrarre da noi le migliori potenzialità. A chi mostra ambizioni talmente ridotte non possono imputarsi colpe soggettive. Il suo atteggiamento rinvia al fatto che noi tutti (la politica, la società, la storia) non siamo stati in grado di offrire loro qualcosa di meglio. In questa rivalutazione della rêverie, Bloch si avvicina – per inciso – a Gaston Bachelard, che vede nella perdita temporanea della presenza piena a se stessi, della lucidità e continuità della coscienza, un gioioso ampliamento del raggio dell’esperienza significativa. In essa ci spogliamo del principio di individuazione, a cui per comodità la nostra vita di adulti, determinandosi, ha dovuto obbedire. Ritorniamo ai molti possibili io che avremmo potuto essere e che aleggiavano nella nostra infanzia: “Quando, sognando a 116

lungo nella solitudine, ci allontaniamo dal presente, per rivivere i tempi della nostra vita, ci vengono incontro numerosi visi infantili. Noi fummo molti nella nostra vita già vissuta, nei nostri primi anni di vita e solo attraverso il racconto degli altri abbiamo cominciato a conoscere la nostra unità. Sul filo della nostra storia raccontata dagli altri, finiamo, anno per anno, a somigliarci. Raccogliamo tutti i nostri esseri attorno all’unità del nostro nome”.18 La rêverie rappresenta uno stato intermedio, di oscillazione e indecisione, tra il percepire e l’immaginare, il sentire e il ricordare, tra logica degli svegli e quella dei dormienti. È un “inframondo” tra coscienza e inconscio, lo scintillio vagante, il barlume, che introduce a una realtà depotenziata: “un meno d’essere si sforza verso l’essere”. Per propiziare la rêverie, la fiamma d’una candela appare come un “operatore di immagini” e di trame psichiche di enorme efficacia. Essa “distacca dal mondo e ingrandisce il mondo del fantasticatore”, trasformandolo – secondo la terminologia di Paracelso – in una exaltatio utriusque mundi. I pensieri perdono, in questa sfera magica di luce circondata da zone d’ombra sempre più spesse, i loro rivestimenti successivi, le “tuniche” dai cui strati erano avvolti.19 Non malgrado, ma grazie a tale perdita, essi moltiplicano paradossalmente i significati che racchiudevano e comprimevano, creando attorno a sé campi gravitazionali capaci di catturare a lunga distanza quanto di remoto passa loro accanto. Si rinnova così la freschezza della immaginazione, che è toujours jeune. Per Bloch tuttavia il desiderio utopico si prolunga ben oltre i sogni a occhi aperti, estendendosi dai progetti di 117

società perfetta all’impensabile vittoria sulla morte. La speranza è, da un lato, come l’aria: inodora, insapora, invisibile e impalpabile. Senza di essa, tuttavia, noi non potremmo respirare. Simile alla “candida colomba” kantiana che crede di volare meglio qualora non incontri la resistenza dell’aria, consente alla nostra ragione di avanzare proprio perché sostenuta dalla sua corrente ascensionale. Dall’altro lato, essa è anche proteiforme e può assumere ruoli perversi, come accade nel nazionalsocialismo in cui il bisogno di patria, di identità e di sicurezza si intrecciano con più arcaiche e barbariche concezioni. Il tempo storico non è infatti concepito da Bloch, al pari del tempo cronologico, quale unica linea, divisibile in parti eguali, ma come contrappunto di tempi diversi, multiversum di dislivelli (fra individui, classi, popoli), che rende la storia complessa, elastica, deformabile, al pari dello spazio riemanniano, sotto l’azione degli eventi. In questo universo denso di torsioni e di aperture al nuovo, la materia stessa non è quantità pura o estensione inerte, ma “essente in possibilità”, movimento in avanti, con il quale l’uomo è chiamato a collaborare, dimodoché il comunismo – in quanto, marxianamente, “naturalizzazione dell’uomo” e “umanizzazione della natura” – appare a Bloch la sintesi più alta tra natura e società, l’“utopia concreta” che orienta la storia. Il nazionalsocialismo invece, su cui Bloch si sofferma nei primi anni dell’esilio in alcuni penetranti saggi di Eredità del nostro tempo, è frutto anche degli squilibri temporali, della non-contemporaneità nel tempo storico (Ungleichzeitigkeit) delle classi sociali in Germania. In essa infatti, accanto alle 118

due classi fondamentali che vivono al livello più alto del presente storico, vi sono larghi strati contadini e piccolo borghesi arretrati, tagliati fuori da un presente di cui non riescono a capire razionalmente la dinamica e la direzione. In mancanza di una comprensione razionale, lontani dal motore dello sviluppo economico, frustrati nelle loro aspettative e disorientati sino alla disperazione dai torbidi del primo dopoguerra e dall’inflazione selvaggia, essi vivono il loro rapporto con la politica sotto forma di mito, sognando rivincite, restaurazioni autoritarie, drastiche limitazioni del potere della classe operaia, superiorità della nazione tedesca e della razza ariana. Il nazionalsocialismo così, in quanto “giacobinismo del mito”, riesce a trasformarli in massa di manovra e a inserirli organicamente in un largo fronte di interessi, che comprende la grande industria, l’esercito, la burocrazia, sotto il controllo del partito e del suo capo. Tratti ancora feudali, che rispecchiano il tempo storico o le immagini di restaurazione di ceti attardati (il mito), si fondono in tal modo con l’efficienza tecnocratica e la razionalità formale degli apparati industriali, militari e burocratici e insieme costituiscono il volto multiforme del fenomeno nazionalsocialista. 4. Mito e ragione strumentale nel nazionalsocialismo Ma di ben altri squilibri l’ideologia nazionalsocialista si fa carico nel suo naturalismo e darwinismo sociale e nella sua lotta contro i principi di libertà, eguaglianza e fraternità. La 119

scienza e la natura vengono chiamate a testimoniare in favore della gerarchia sociale, dei salutari squilibri, e contro la presunta stagnazione delle facoltà umane e delle nazioni, quando domina l’egualitarismo democratico e socialista. Non è forse vero che (nell’idraulica, nella termodinamica, nell’elettricità) non vi sarebbe alcun movimento, alcuna erogazione di energia, senza un dislivello tra le masse d’acqua, senza una differenza di calore e di potenziale? Che i fiumi, i liquidi nei vasi comunicanti, le locomotive e i fluidi elettrici non si muoverebbero senza queste benefiche disuguaglianze? Lo stesso – si aggiunge – accade per le comunità umane: se prevarranno i fiacchi predicatori di eguaglianza e di compassione per i deboli, l’umanità è destinata a spegnersi. Lo spettro dell’aumento dell’entropia dell’universo fisico, che porterà a una degradazione dell’energia e a un progressivo raffreddamento del cosmo, continua ad agitarsi (e non solo nei suoi primitivi panni tardo-positivistici) davanti al mondo sociale, concepito come un sistema chiuso. Immagazzinare energia, utilizzare strumentalmente l’alto potenziale delle masse, intensificando, a sua volta, la carica del polo ulteriormente distanziato delle élites: questa è una delle più frequenti risposte e modalità di autodifesa per una struttura sociale che si sente minacciata dalla stagnazione e dall’avanzare delle “folle”. Già Nietzsche (per altri versi così radicalmente critico dell’esistente e certo non responsabile di tutte le suggestioni e applicazioni unilaterali del suo pensiero) ritiene necessario l’allungamento della scala gerarchica, ottenibile persino 120

attraverso una preliminare diffusione della democrazia tra il gregge umano, e il mantenimento in tutta la sua durezza della moderna schiavitù del lavoro salariato. Per giunta il segreto dello sfruttamento non va divulgato fra la classe operaia. Quanti, come i socialisti, hanno osato infrangere questa barriera di silenzio sono dei corruttori, seminatori di infelicità tra coloro stessi che volevano difendere: “Disgraziati seduttori, che hanno distrutto con il frutto dell’albero della conoscenza lo stato di innocenza dello schiavo!”.20 Il sapere e la consapevolezza devono accrescersi solo dal lato di chi comanda, mentre devono relativamente diminuire dal lato di chi ubbidisce. Essendo ormai impossibile tenere grandi masse nell’ignoranza, non resta che una varietà di combinazioni tra “disciplina metallica” e controllo dell’istruzione, della cultura, dell’informazione e dell’intera società. Quest’ultimo compito è favorito dalla difficoltà, e non solo per i più, di avere un quadro globale di quel che succede e di procurarsi accesso ai linguaggi scientifici. La connessione degli eventi ha raggiunto una scala planetaria; la complessità e l’interdipendenza dei dati più diversi, una dimensione quasi incommensurabile con le capacità di impadronirsene e di elaborarli da parte di un individuo; la coscienza comune stenta a orientarsi nello sviluppo rapido, accidentato e disuguale delle singole scienze, che, con le loro formulazioni intricate, discontinue, irte di tecnicismi, la tengono a rispettosa distanza. Gli arcana imperi e il sapere operativo tendono così a diventare patrimonio di ristrette oligarchie, le quali, coadiuvate da uno stuolo di tecnici fra i quali è propagata una concezione 121

neutrale del proprio agire, ricompongono a livello politico e statale i singoli spezzoni delle scienze, delle tecniche e delle pratiche sociali. Per poter mantenere contemporaneamente lo sviluppo tecnico produttivo e il controllo delle folle, la scienza deve coesistere con il mito, la tecnica con il vitalismo, il weberiano mondo senza magia, l’Entzauberung, col misterioso e magico carisma dei capi. Nel nazionalsocialismo, appunto, l’autentica sapienza si trova solo nel capo, che distribuisce le consapevoli bugie dei miti sociali e teorizza la dottrina della doppia verità, della funzione strumentale di determinate idee. Così Hitler stesso dichiara a Rauschning di non credere al “mito del XX secolo”, alla razza: “So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato […]. Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo nel mondo”.21 Le masse, del resto, vengono costitutivamente giudicate non pensanti: “È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne 122

l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere”. Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio di pensare. Per questo la critica incisiva e il pensiero non regolamentato sono destabilizzanti, mentre restano leciti ed esaltati i discorsi puramente tecnici, settoriali. È anzi predicata una “entusiastica intolleranza” contro chi dimostra troppa volontà di sapere, di cogliere il frutto dell’albero della conoscenza, chi viene raffigurato come uno squallido malato di ipertrofia intellettualistica. Per questo vengono sollecitati i comportamenti gregari, sia mistici che tecnici, le virtù dei sottoposti nei confronti del padrone, virtù condensate nel motto delle SS (“Il mio onore si chiama fedeltà”) e, nell’ambito del fascismo italiano, nella parola d’ordine “Credere, obbedire e combattere”. Attraverso l’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro interna e poi straniera, della violenza, dell’utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, prende corpo un gigantesco progetto di ingegneria umana, di modificazione antropologica e genetica collettiva. Spezzati i legami di solidarietà di classe, di amicizia, di famiglia, collocato e isolato l’individuo entro la stretta maglia di sguardi incrociati e ravvicinati (da quello del capocaseggiato a quello degli stessi familiari), viene poi sin dall’infanzia offerto il rassicurante rifugio del cameratismo, il sentimento “eroico” dell’appartenenza a un nobile popolo e a una guida illuminata, la quale rifulge di tutte le qualità di cui i singoli sono stati privati e che ora ricevono come luce riflessa nelle sfilate, nelle adunanze, alla radio. Non avendo 123

l’etere linee privilegiate, la radio abolisce in linea di principio la distinzione tra centro e periferia, fra città e campagna; la sua voce penetra fra i gruppi più chiusi e nei luoghi più sperduti, mobilitando i ceti in precedenza più refrattari alla politica o più inerti. La radio, il cinema, l’oratoria dei capi acculturano a tappe forzate zone della società guidate in precedenza solo dal costume o da convinzioni incoerenti, fanno leva sugli elementi regressivi del messaggio trasmesso: l’emotività, la densità delle immagini e delle figure retoriche, il pathos razionalistico, il sangue e la terra, un surrogato di vita dal forte aroma e una ribellione mimata e sorvegliata contro le privazioni, l’ubbidienza e la meticolosità dello sfruttamento. D’altronde (e lo dimostrerebbe la natura, “crudele regina di ogni saggezza”) l’esistenza è in se stessa durissima: “Un essere beve il sangue dell’altro. Uno trova nutrimento della morte dell’altro. Inutile blaterare di umanità […]. La lotta rimane”.22 Lo spessore della “seconda natura”, della civiltà, su cui si era fondata la “ragione” dell’Illuminismo e quella dell’Idealismo classico tedesco, si è assottigliato fin quasi a sparire. È la prima natura ora, nelle sue manifestazioni più spietate, la “saggezza” degli animali, a offrire il modello della seconda natura, giustificandone i misfatti. Quasi come una consolazione viene offerto il viatico dell’incoscienza e della spersonalizzazione. “Io non ho coscienza,” era solito dire Göring, “la mia coscienza è il Führer.” La vista della realtà divenuta per molti insopportabile spinge la mente ad anestetizzarsi, a demandare la comprensione delle cose a chi 124

ha capacità sovrumane. A ciascuno viene assegnata la sua quota di consapevolezza e di cultura con una specie di “legge bronzea” della coscienza, quanto basta per svolgere efficacemente il ruolo assegnatogli. Più si è subordinati, meno si deve sapere, come risulta evidente dal programma di Himmler per i popoli assoggettati dell’Europa orientale: “Per la popolazione non tedesca dell’Europa orientale non ci deve essere nessuna scuola che vada oltre quella elementare di quattro anni. Scopo di tale scuola elementare deve essere solo di insegnare a far di conto al massimo fino a 500, la scrittura del proprio nome e cognome, e infine di insegnare che è un comandamento divino quello di obbedire ai tedeschi e di essere onesti, diligenti e sinceri. Non ritengo indispensabile insegnare a leggere”.23 1

W. Dilthey, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 236. 2

W. Dilthey, Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, cit., pp. 324-325. 3

W. Dilthey, Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico, cit., p. 383. 4 J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1965, I,

p. 23. 5 Ivi, p. 83. 6

L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966, p. 19. 7 Ivi, p. 20.

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8 Cfr. M. Mauss, Saggio di una teoria generale della magia,

in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. 142 sgg. 9

C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 1964, pp. 242-243. 10 Ivi, pp. 25-26. 11

C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1966, p. 221. 12

C. Geertz, Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 1988, pp. 71, 297, 80, 87. 13 C. Geertz, Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un

antropologo, il Mulino, Bologna 1995, pp. 76, 200. 14 Cfr. M. Augé, Non luoghi, Eleuthera, Milano 1993. 15

R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti scelti, Einaudi, Torino 1975, pp. 599, 600-601. 16 E. Bloch, Hegel come “novum”, in Aa.Vv., Enciclopedia

’72, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 338. 17 E. Bloch, Principio speranza (1959), Garzanti, Milano

1994, 3 voll., I, pp. 58, 397. 18

G. Bachelard, La poetica della rêverie, Dedalo, Bari 1972, p. 109. 19 G. Bachelard, La fiamma di una candela (1961), Editori

Riuniti, Roma 1981. 20 F. Nietzsche, Lo stato greco, in Opere, a cura di G. Colli

e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg., III, 2 (1973), p. 224. 21 H. Rauschning, Hitler mi ha detto, Mondadori, Milano

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1945, pp. 255-256. Questa testimonianza sembra però doversi considerare con qualche cautela. 22 A. Hitler, La mia vita, Bompiani, Milano 1949, p. 143 e

Adolf Hitler in Franken, [Nürnberg] 1939, p. 144. 23

H. Himmler, Denkschrift Himmlers über die Behandlung der FremdVölker in Osten (maggio 1940), in “Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte”, 1957, V, p. 197.

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V. L’incontro delle filosofie e la nuova epistemologia

1. “Da sponda a sponda” L’avvento del nazionalsocialismo in Germania e le crisi politiche ed economiche di alcune nazioni europee provocano uno dei più significativi fenomeni di osmosi culturale fra aree di diversa tradizione, ma sempre all’interno dei paesi “sviluppati”. Le persecuzioni razziali e politiche spingono sulla strada dell’esilio molte migliaia di intellettuali (per più della metà tedeschi e per due terzi di origine ebraica), di cui parecchi di altissimo livello. È una nuova diaspora, un processo di impollinazione culturale che produce effetti forse maggiori di quelli imputabili alla fuga in Italia dei dotti tardo-bizantini dopo la caduta di Costantinopoli. In funzione delle loro inclinazioni politiche o delle opportunità di ricerca e di lavoro, essi si distribuiscono in tutti gli angoli della Terra: dal Giappone (Löwith) ai paesi scandinavi (Brecht e Korsch nei primi anni dell’emigrazione), dall’Unione Sovietica (Lukács) alla Francia (Benjamin). Ma è negli Stati Uniti che essi giungono più numerosi e in gruppi più compatti. E qui l’elenco sarebbe lungo: basti ricordare i nomi di Einstein, Thomas Mann, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Erikson, Fermi, Salvemini, Lang, Schönberg e Neumann. Questi intellettuali riescono a dare un contributo fondamentale e caratterizzante soprattutto in alcuni settori come la fisica, la 128

sociologia, la psicoanalisi e il cinema. Talvolta isolati e diffidenti l’uno dell’altro – si legga il Diario di lavoro di Brecht –, difficilmente si integrano o desiderano integrarsi nella società americana. Gli eredi della raffinata cultura mitteleuropea trovano gli indigeni “barbari di buona indole”, secondo la definizione di Thomas Mann, ma in particolare restano colpiti dalla standardizzazione dell’esistenza, dall’impoverimento dei rapporti umani sotto il manto della “desublimizzazione repressiva”, dalla manipolazione e reificazione della coscienza, dal grande formato delle esperienze cercate, dal gusto del colossale e dalla ingenua fede nei “fatti” e nell’empiria. La società di massa, il “mondo amministrato” attraverso gli strumenti più leggeri del conformismo e dell’industria culturale, la “folla solitaria” delle grandi città, turbavano chi si era sottratto al più pesante e sanguinoso totalitarismo nazionalsocialista e gli davano l’impressione che dovunque si fosse in presenza di una “realtà bloccata”, di una enorme prigione in cui gli uomini avevano per la maggior parte perduto la speranza in una vita migliore e si erano adattati e piegati a un dominio dal volto anonimo, a una nuova barbarie che si manifesta in vesti “razionali” e pretende obbedienza a ciò che spaccia come inesorabili leggi oggettive; in cui persino la classe operaia – la marxiana promessa di liberazione da ogni sfruttamento – o era, in America, venuta a patti col potere vigente e da esso inglobata, o era stata stretta e frantumata in Europa dalla duplice morsa del nazionalsocialismo e dello stalinismo. Il processo di reificazione e di ottundimento della 129

coscienza, di esaltazione della “cattiva realtà” e di irrisione nei confronti dei tentativi di emancipazione o di pensiero non conformista (bollati come utopici, bizzarri, inutili) è quindi operante a livello mondiale, ma è negli Stati Uniti che diversi intellettuali europei ne divengono consapevoli. Ed è in questo scarto tra ideologia democratica e situazione effettiva, in questo “cameratismo a base di spintoni”, che si rivela allo sguardo di Adorno e di Horkheimer tutto l’orrore della “vita deteriorata”, l’ingabbiamento dei singoli entro una mentalità rigida e passiva, incapace di esperienza e di pensiero spontanei, vittima della manipolazione sociale, una mentalità che viene emblematicamente espressa da questo piccolo episodio in cui Adorno racconta il suo primo impatto con il mondo americano: “Tra i vari collaboratori che lavoravano transitoriamente con me nel ‘Princeton Project’, c’era una giovane signora. Dopo un paio di giorni ella prese confidenza con me, e mi chiese con perfetta gentilezza: ‘Dr. Adorno, le dispiace se le faccio una domanda personale?’. Io dissi: ‘Dipende dalla domanda, ma dica pure’, e lei continuò: ‘Mi dica, per favore: lei è estroverso o introverso?’ ”.1 In questo universo concettuale standardizzato la soggettività e l’oggettività si sono completamente capovolte: “Oggettivo è l’aspetto non controverso del fenomeno, il cliché accettato senza discutere, la facciata composta di dati classificati: e cioè il soggettivo; e soggettivo è ciò che spezza quella facciata, ciò che penetra nella specifica esperienza dell’oggetto, si libera dai pregiudizi convenuti e colloca il rapporto con l’oggetto al posto della risoluzione di maggioranza di coloro che, 130

nonché pensarlo, non lo vedono neppure – e cioè l’oggettivo”.2 Questo è il comportamento diffuso, massificato, che Adorno ritrova fra la “gente” e che descrive nella sua fenomenologia della vita deteriorata. Ma quali posizioni filosofiche hanno presa sulla cultura quando egli giunge negli Stati Uniti, e sino a che punto esse hanno agito o agiscono ancora sulla coscienza comune? 2. La filosofia americana La filosofia americana – dichiarata inesistente da Tocqueville nel 1840 – si ricollega tra Ottocento e Novecento a tradizioni europee: all’empirismo inglese, alla filosofia scozzese del senso comune, all’idealismo classico tedesco e al positivismo evoluzionistico di Spencer. Ma con Peirce, James e Dewey si crea una tradizione autoctona, fortemente caratterizzata dal suo costante rapporto con il senso comune, la vita pratica, l’azione, le tecniche, e segnata dalla riflessione sul potere delle credenze, della fede, e dalla volontà di elaborare abiti di razionalità e di condotta per le nuove élites che in uno Stato avviato verso una rapida e intensa industrializzazione si staccavano dal credo religioso ma chiedevano di surrogarlo, almeno in parte, con altre certezze. Quel che essi offrono non sono tuttavia le certezze della metafisica, dell’idealismo o del materialismo europei, ma delle costruzioni teoriche che accettano ed esorcizzano nello stesso tempo il rischio, la precarietà, l’errore, che cercano di inglobare progressivamente i metodi delle 131

pratiche scientifiche nel senso comune. Così Peirce, accentuando il momento probabilistico dei procedimenti scientifici e con l’ausilio di sistemi simbolici, di un’“algebra logica”, cerca di comprendere la funzione del pensiero nel produrre “abitudini d’azione”. Rendere chiare le nostre idee significa formulare ipotesi sugli effetti pratici che esse potranno avere e passare dalla irrequietezza e dall’insoddisfazione che accompagna la confusione mentale e la congiunta indecisione della volontà, alla fissazione di una credenza che ci soddisfa e che è controllabile all’interno del circuito conoscitivo. Dai saggi raccolti in Caso, amore e logica ai monumentali Collected Papers, la produzione di Peirce è eminentemente incentrata su questo nodo tra pensiero, azione e credenza. Il vantaggio della scienza e dei modelli di comportamento che a essa si ispirano è di saper riconoscere la propria fallibilità e di procedere per continue autocorrezioni, senza perdere la fiducia nell’avanzare e senza scosse traumatiche, inserendosi nella corrente stessa di quel tendere alla verità che è parte della natura dell’uomo. La verità è quindi una conquista provvisoria nei suoi singoli risultati, ma permanente nel suo farsi, non essendo altro che il processo pratico di verifica che mette fine a uno stato di dubbio, tranne poi ripristinarlo su un piano diverso e più alto. Con William James viene posto in discussione il nesso credenza-verità, ma in lui sono pressoché scomparse le procedure conoscitive di controllo e di verifica delle credenze. La verità ha infatti un carattere progettuale, è l’eventuale risposta alla fede in un’ipotesi, non si misura nel 132

presente ma nel suo slancio verso il futuro (ed è su questo terreno che Bergson si riconosce nella filosofia di James). Si potrebbe dire, parafrasando Stendhal, che la fede è una promessa di verità. Il pragmatismo non è una semplice riedizione dell’utilitarismo: vero è uguale a utile, ma non sempre utile è uguale a vero. La verità è caratterizzata nel suo possesso da un sentiment of rationality, dal sentirci a nostro agio, a casa, dal familiarizzare con il mondo. E questo deve bastarci. Non possiamo trasformare la complessità della vita e dell’esperienza in idee astratte, in pensiero puro, che è per noi dannoso: “Noi siamo come pesci che nuotano nel mare del senso, limitati verso l’alto dall’elemento superiore, ma incapaci di respirarlo puro o di penetrare in esso”.3 L’eccessiva quantità di ossigeno del pensiero astratto, la volontà di eliminare senza residui l’opacità del vivere, ci sarebbe fatale. La fede del resto non si oppone alla verità. Senza di essa non ci risolveremmo mai all’azione, resteremmo paralizzati. In ogni importante momento della vita dobbiamo infatti “spiccare un salto nel buio” e non c’è alcuna “compagnia di assicurazione” che possa garantirci per i rischi che corriamo. Solo la fede, mossa da “ipotesi viventi”, ci permette di accettare il rischio “a occhi aperti”, chiedendo la collaborazione dell’intelletto: fides quaerens intellectum, appunto. D’altra parte, il “pluriverso” in cui viviamo non forma alcuna compatta unità a cui possiamo riferirci come modello. Non esiste infatti, per James, una “realtà”, bensì molteplici “sub-universi di realtà”. Il nostro mondo di mondi è infatti costruito a grappolo. È frutto della continua 133

selezione tra numerose maniere di strutturarlo secondo esigenze e strutture d’ordine differenti ma finite: quella delle cose sensibili, della scienza, delle relazioni ideali di tipo matematico o metafisico, delle illusioni, dei sistemi religiosi e mitici, dei sogni, della follia o delle opere d’arte. Ogni subuniverso di realtà è dotato di criteri di rilevanza e persino di parametri temporali differenti e incommensurabili: per questo il mondo del sogno non è una pura copia del mondo della veglia o i criteri di spiegazione del mito non coincidono con quelli della ragione filosofica. Noi entriamo e usciamo continuamente da questi settori qualitativamente differenti e dobbiamo imparare a vivere in tutti. Ciascuno di noi è, a sua volta, un mondo di mondi selezionati. L’esperienza si manifesta perciò come flusso della vita che offre contemporaneamente e serialmente materiale diverso alla riflessione, trasformando così la mente in teatro di possibilità simultanee e successive. Anche per questi motivi alla filosofia è affidata la missione di restaurare e di accreditare il ruolo che l’“indeterminato” svolge nella nostra vita psichica, un “buon terzo” della quale è percorsa da “premonitorie, rapide viste prospettiche di schemi di pensiero, non ancora articolati”. Come non si dà in assoluto un solo mondo, così non esiste alcun io identico a se stesso in senso proprio. Esso varia incessantemente, pur mantenendo in genere una vaga percezione della propria continuità: “Un’‘idea’ o Vorstellung permanente che compaia alla coscienza a intervalli periodici, è un’entità mitologica del genere ‘Fante di picche’ ”. I vari Io che sono in noi, al pari dei differenti sub-universi di realtà che 134

frequentiamo, ci appartengono in quanto appaiono contraddistinti da un semplice “marchio” e li riconosciamo come nostri solo se conservano il “calore” che vi abbiamo lasciato in precedenza. Tale teoria viene incisivamente espressa da James mediante l’accorpamento di due immagini. La prima, molto americana e addirittura western, dipinge una scena all’aria aperta; la seconda rinvia invece al raccoglimento di una pratica religiosa: “Dal gregge lasciato libero durante l’inverno in qualche larga prateria, quando viene primavera il proprietario sceglie ed assortisce quegli animali in cui trova impresso il proprio marchio. Il marchio del gregge è, per le diverse parti del pensiero, quel certo calore animale a cui abbiamo accennato. Questo calore le pervade tutte, come il filo corre attraverso il rosario, e ne fa un tutto, che trattiamo come un’unità, per quanto queste parti possano differire grandemente tra loro. Si aggiunge a questo carattere l’altro, che i diversi Io ci appaiono come se fossero stati per lunghi tratti di tempo continui fra loro, e i più recenti di essi continui col nostro Io del momento presente”.4 In un “universo pluralistico”, aperto al caso, all’indeterminato, ma anche alla libertà umana, noi dobbiamo abituarci al rischio, immunizzarci nei suoi confronti, farlo diventare per noi una seconda natura. È questo il filo melodico, il messaggio, che percorre l’opera di James. Le sue tracce si rinvengono – parzialmente e in forma scientificamente più elaborata, organica e riflessiva – in John Dewey, dalla cui filosofia cadono molti degli elementi vitalistici e fideistici del pensiero jamesiano. Dewey, che in gioventù ha studiato a fondo Hegel, conserva 135

del filosofo tedesco il gusto per le costruzioni teoriche fortemente strutturate in senso anti-meccanicistico, in cui ogni elemento è in rapporto di “interazione” con gli altri e in cui ogni equilibrio raggiunto si dimostra precario e, provocando nel soggetto situazioni “disturbate, penose, ambigue, confuse, piene di tendenze contrastanti, oscure ecc.”, spinge l’esperienza e la ricerca verso più alte e soddisfacenti soluzioni. In Logica, teoria dell’indagine, del 1938, quando Dewey aveva ben settantanove anni, è tracciato il percorso della conoscenza, dall’esperienza grezza, immediata, alla posizione di un problema, alla formulazione di idee o previsioni “di ciò che capiterà, ove certe operazioni vengano eseguite in preciso rapporto con le condizioni osservate”,5 al ragionamento, come sviluppo delle ipotesi o delle possibilità, all’esperimento e infine al giudizio con cui l’imbarazzo iniziale viene risolto. L’esperienza, che costituisce l’interazione tra un essere vivente e il suo ambiente naturale e sociale, ha un raggio più ampio della sola conoscenza. La ragione ha un carattere strumentale, risolve le difficoltà, rettifica l’esperienza e gli squilibri, trasforma il mondo e promuove la convivenza umana, si situa nella linea di continuità tra natura e uomo, biologico e mentale, oggettivo e soggettivo. Essa non è mai astrattamente determinata, ma mossa da interessi, da bisogni, da richieste di chiarimento che sorgono dall’esistenza individuale e sociale. Per questo anche nell’educazione si deve ricostruire il raccordo tra conoscenza e interesse, tra logica e natura, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, sviluppando i germi di 136

socialità presenti nei singoli e mostrando loro il legame inscindibile che esiste tra ricerca della verità e democrazia, tra incremento creativo dell’individualità e progresso sociale. Anche il linguaggio ha verità unicamente all’interno del suo contesto biologico e sociale, afferma Dewey in polemica con Carnap e i neo-positivisti, che non solo considerano gli enunciati linguistici come forniti di verità intrinseca al di fuori della loro inscrizione sociale, ma dichiarano anche veri esclusivamente quelli empiricamente controllabili o tautologici, definendo indecidibili o privi di senso quelli che trattano dei valori, di argomenti politici e morali, quelli cioè che per Dewey è più urgente conoscere e sottoporre a controllo. 3. L’epistemologia del neo-positivismo e la sua critica Nella filosofia americana lo statuto del dato osservativo è dunque meno rigido e ingenuo di quanto non appaia ad Adorno al livello del senso comune. Ma se guardiamo meglio, ciò che egli combatte a livello teorico non è una filosofia americana (che sembra anzi ignorare), ma una filosofia della vecchia Europa trapiantata negli Stati Uniti, dove ha trovato in quegli anni un clima favorevole che l’ha fatta lussureggiare: il neo-positivismo osteggiato anche da Dewey. Esso nasce in paesi di lingua tedesca alla fine degli anni venti e si dirama nei due circoli: di Vienna (Schlick, Carnap, Gödel, Waismann, Frank) e di Berlino (Reichenbach, Hempel, von Mises), unificati culturalmente dalla rivista “Erkenntnis”, diretta dal 1930 al 1938 da 137

Carnap e Reichenbach. Il Wiener Kreis, che ha qui per noi una maggiore rilevanza, si richiama nel manifesto della sua fondazione all’insegnamento di Peano, Frege, Russell, Whitehead e Mach, ma è noto che i suoi studiosi, in particolare Schlick e Carnap, furono influenzati dalle dottrine del Tractatus logico-philosophicus e da poche conversazioni con Wittgenstein. Caratteristica di tale empirismo logico è la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, tra proposizioni che concernono idee (e che sono fondamentalmente riconducibili a tautologie) e proposizioni che concernono fatti e che sono verificabili mediante il ricorso ai dati osservativi elementari. Al di fuori di questi due generi di enunciati, che hanno valore scientifico, vi sono le insensatezze della metafisica, imputabili a un uso improprio del linguaggio, all’uso di parole prive di senso o alla congiunzione sintatticamente erronea di parole dotate singolarmente di senso. In Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio, Carnap mostrerà in Heidegger un esempio da non imitare di uso improprio del linguaggio. Il modello neo-positivistico di teoria scientifica è stato rappresentato come una piramide di enunciati, con al vertice quelli più generali e non dimostrati, nelle sezioni intermedie quelli deducibili logicamente dai precedenti, e alla base quelli con generalità minima, che si riferiscono a osservazioni particolari. L’aspetto di assiomatizzazione e il ricorso ai dati osservativi fanno parte della stessa immagine della scienza. Ma la sistemazione teorica del modello varia molto fra i diversi autori e, spesso, all’interno dello stesso 138

autore. Prendiamo il caso di Carnap. Nel 1928, nella Costruzione logica del mondo, non si fa riferimento, come in Mach, alla sensazione quale dato irriducibile (la psicologia della forma ha infatti dimostrato che le sensazioni sono già il risultato di processi astrattivi), ma ai “vissuti elementari”, agli Elementarerlebnisse, a momenti psicologici poi connessi da “relazioni” di ordine logico. Il programma di Carnap contempla allora, da un lato, la “ricostruzione razionale” dei concetti scientifici sulla base del riferimento all’immediatamente dato, dall’altro la messa in rilievo delle relazioni strutturali in grado di articolare i dati. Ma già nella Sintassi logica del linguaggio del 1934 i “vissuti elementari”, di natura psicologica e inverificabili, sono sostituiti con i “protocolli osservativi”, di natura linguistica e controllabile. Carnap procede sempre più verso l’esame di linguaggi altamente formalizzati, convenzionali, espressi dal “principio di tolleranza”, per cui “ciascuno può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio”. Sotto l’influsso di Hilbert e del logico polacco Tarski, egli delinea un “metalinguaggio” con cui analizzare il linguaggio-oggetto delle proposizioni scientifiche, tracciare cioè i lineamenti di un sistema deduttivo assiomatico. La verità analitica, definita ora in termini sintattici, acquisterà più tardi anche un aspetto designativo, semantico (nell’Introduction to Semantics del 1942), e il linguaggio, d’accordo con Charles Morris – assieme al quale, e a Neurath, Carnap aveva dato vita nel 1938 alla Enciclopedia della scienza unificata – verrà studiato anche sotto il profilo pragmatico, in rapporto ai comportamenti da esso indotti. 139

Contemporaneamente, il rigido verificazionismo sarà abbandonato e Carnap dovrà ripiegare sulla semplice “conferma” di un enunciato in base al suo grado di probabilità. A un altro emigrato, stavolta in Inghilterra, spetterà la critica dell’impostazione neo-positivistica: a Karl Raimund Popper. Egli si allontana sempre di più dalle impostazioni del Circolo di Vienna, da un modello di scienza fondato cioè su protocolli osservativi e su un sistema di enunciati certi e definitivi. I problemi scientifici non sono per lui riducibili al corretto uso linguistico o alla costruzione di “intricati modelli in miniatura, [di] vasti sistemi di minuscoli meccanismi”,6 come invece avviene in Carnap. La scienza tende a risolvere, per prove ed errori, gli “enigmi” del mondo ed è qualcosa di imperfetto, seppur di continuamente perfezionabile. È un aggregato di congetture, di pregiudizi, di anticipazioni premature e di “ipotesi azzardate”, che sono per fortuna costantemente sottoponibili al controllo della comunità scientifica. La conoscenza non deve perseguire più l’idolo deleterio della conoscenza assolutamente certa, oggettiva, definitiva: “Perché la venerazione che tributiamo a quest’idolo è d’impedimento non soltanto all’arditezza delle nostre questioni ma anche al rigore dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta. Perché non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta della verità”.7 140

È sbagliato considerare le scienze come caratterizzate da una base osservativa e la metafisica come librantesi sulle ali della speculazione. In primo luogo, perché le grandi teorie scientifiche, ad esempio quella della relatività, sono ben poco poggianti su dati empirici e, in secondo luogo, perché la metafisica, lungi dal ridursi a puro non-senso, come volevano i neo-positivisti, orienta l’impresa scientifica stessa (fu infatti la “metafisica influente” del culto della luce, di origine neoplatonica, a spingere Copernico verso la formulazione delle sue ipotesi astronomiche). La linea di demarcazione tra scienza e metafisica o tra scienza e pseudoscienza passa non sullo spartiacque senso/non-senso, ma su quello “falsificabile”/“non-falsificabile”. Una teoria scientifica cioè non può essere corroborata mediante verifiche, accumulando prove tali da confermarla, ricorrendo all’induzione. Nessuna regola può garantire che una generalizzazione inferita da osservazioni vere, per quanto a lungo ripetute, sia vera. C’è però un’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, in quanto le asserzioni universali della scienza non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono tuttavia essere contraddette da esse. Gli asserti di base potranno quindi falsificare una teoria, non fondarla. È scientifica una teoria la cui forma logica è falsificabile mediante asserzioni empiriche, mediante un experimentum crucis, mentre è metafisica e pseudo-scientifica una teoria che non può essere per principio confutabile. Tale aspetto hanno, secondo Popper, la psicoanalisi e il marxismo, così come egli li aveva conosciuti sin dalla 141

gioventù in quanto pretendono di dare spiegazioni onnicomprensive e chiare (mentre la spiegazione scientifica è “la riduzione del noto all’ignoto”, a livelli maggiori di generalità) e di trovare continue verifiche alle loro proposizioni: “Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia […]. Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro ‘osservazioni cliniche’ ”.8 Ma proprio perché queste dottrine non sono il risultato di previsioni rischiose, non precludono l’accadimento di certi eventi, si servono di assunzioni ausiliarie ad hoc e si sottraggono a ogni confutazione, esse, per l’appunto, non sono scientifiche. Lo statuto di scientificità lo possiede invece, ad esempio, la teoria einsteiniana della gravitazione, perché è passata indenne attraverso il cruciale esperimento di Eddington, sotto il quale poteva soccombere: “La teoria einsteiniana della gravitazione aveva portato alla conclusione che la luce doveva essere attratta dai corpi pesanti come il sole, nello stesso modo in cui erano attratti i corpi materiali. Di conseguenza, si poteva calcolare che la luce proveniente da una lontana stella fissa, la cui posizione apparente fosse prossima al sole, avrebbe raggiunto la terra da una direzione tale da fare apparire la stella leggermente allontanata dal sole; o, in altre parole, si poteva calcolare che le stelle vicine al sole sarebbero apparse come se si fossero scostate un poco dal sole ed anche fra loro. Si tratta di un fatto che non può normalmente essere osservato, poiché quelle stelle sono rese invisibili durante il giorno dall’eccessivo splendore del 142

sole: nel corso di un’eclissi è tuttavia possibile fotografarle. Se si fotografa la stessa costellazione di notte, è possibile misurare le distanze sulle due fotografie, e controllare così l’effetto previsto”.9 Il marxismo non può essere per Popper una teoria scientifica anche perché poggia su due presupposti falsi: lo storicismo e la dialettica. Per “storicismo” egli intende una “antica superstizione” per cui esisterebbero forze irresistibili che ci spingono in avanti e che legittimano delle profezie travestite da previsioni scientifiche, degli ottativi travestiti da indicativo futuro. Questo significa divinizzare la Storia, trasformarla in tribunale del mondo, giustificare ogni totalitarismo. Hegel e Marx, questi “falsi profeti”, hanno generato, rispettivamente, Hitler e Stalin, e sono stati i più accaniti fautori di un collettivismo tribale, chiuso; sono stati i nemici della “società aperta”, in cui esiste critica, dibattito, possibilità di “falsificare” le posizioni altrui, di dissentire liberamente (i limiti ideologici e anche filologici di tale interpretazione del pensiero di Hegel e di Marx non hanno bisogno di essere sottolineati). La società aperta o, più tardi, la democrazia, non è certo perfetta: è semplicemente quel regime in cui il potere politico – sottoposto al più stretto controllo, onde evitare la tirannide – provoca danni minori. Strettamente connessa allo storicismo è la dialettica, in quanto le contraddizioni vi vengono esaltate sino a diventare il motore della storia. Ma la scienza non può rassegnarsi alle contraddizioni, deve eliminarle, ed è questa la sola forza che spinge innanzi lo sviluppo dialettico: “Ciò che promuove lo sviluppo non è una forza misteriosa, interna a queste due 143

idee [tesi e antitesi], né una fantomatica tensione fra esse: è unicamente la nostra risoluta decisione di non ammettere le contraddizioni a indurci a ricercare attentamente un nuovo punto di vista, che ci consenta di evitarle”.10 Nelle più recenti discussioni sull’epistemologia le tesi falsificazioniste sono state precisate e rettificate dallo stesso Popper e dai suoi seguaci Agassi e Watkins. Ma sono state messe in forse, per diversi aspetti, da Kuhn, Lakatos e Feyerabend. Kuhn ritiene che Popper abbia scambiato l’intero corso della scienza con i suoi rari momenti rivoluzionari. Nei periodi di “scienza normale”, infatti, l’atteggiamento critico e falsificazionista non è affatto diffuso. Solo nelle fasi potentemente innovative, quando muta repentinamente il paradigma di una teoria scientifica e le vecchie impostazioni vengono squalificate, solo allora la ricerca procede secondo moduli assimilabili a quelli di Popper. Lakatos (uno studioso ungherese emigrato in Inghilterra dopo il 1956, formatosi sulle filosofie di Hegel, di Marx, di Lenin e di Lukács e diventato poi un popperiano eterodosso) pone invece in evidenza – andando oltre un’intuizione di Popper – come il carattere di scientificità o meno non sia imputabile a una singola teoria, ma a una successione di teorie, a un “programma di ricerca”, che è per giunta determinato nel suo nucleo stesso da assunzioni pre-analitiche di tipo metafisico, e di conseguenza non falsificabili. Per Feyerabend, infine, sostenitore di un’epistemologia già “anarchica” e contrario a ogni regolamentazione rigida, a ogni metodo della ricerca scientifica, la pratica della scienza è imprevedibile, ricca di 144

inventive, di stratagemmi, non legata ad alcun “codice d’onore”, astuta come lo è la storia per Hegel e per Lenin. La scienza non funziona secondo i criteri polizieschi di “legge e ordine”, bensì grazie alla sistematica violazione di tutte le regole stabilite e di tutte le regole e di tutte le teorie, persino di quelle che sembrano confermate da risultati sperimentali ben stabiliti. Vale il criterio dell’anything goes, del “tutto può andar bene”, anche perché esso permette la proliferazione delle teorie, con la conseguente liberazione di energie intellettuali e immaginative altrimenti destinate a rimanere compresse o inerti. È interessante osservare come negli studi degli anni settanta, di fronte ai problemi posti dal mutamento concettuale, dal susseguirsi delle teorie scientifiche, che avanzano per inclusione e insieme per negazione delle precedenti, la filosofia hegeliana e la dialettica, così disprezzate dai neo-positivisti e da Popper, siano con Lakatos, Feyerabend e altri tornate in auge quale modello da studiare per comprendere il nesso fra continuità e discontinuità nella forma dell’Aufhebung o “superamento”. Da un lato si rifiuta la concezione tradizionale per cui la scienza avrebbe un carattere cumulativo, continuistico, passerebbe di conquista in conquista, dall’altro si tende a restringere il discontinuismo forte quale appare in Bachelard o nel Kuhn de La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Accanto alle suggestioni dialettiche si cerca contemporaneamente (ad esempio attraverso i modelli formali di Sneed e Stegmüller o attraverso la concezione della razionalità “locale” e “reticolare” di Larry Laudan) di salvare il concetto di 145

progresso nel corso del pensiero scientifico e di offrire un’immagine di come la scienza possa crescere su se stessa negando, di volta in volta, i propri limiti. Sul versante americano – dopo un dominio incontrastato delle posizioni di Carnap, Neurath, Tarski e, più tardi, dei teorici della filosofia del linguaggio ordinario – il congedo dalla filosofia analitica è lento. L’insidia più radicale alla sua egemonia è giunta in questi ultimi quindici-venti anni dalla “filosofia continentale” di Foucault, Derrida, Gadamer o Habermas, penetrati inizialmente attraverso i dipartimenti di francese o di letteratura comparata della Costa Est e della California. I più precoci segni di ribellione interna al neopositivismo possono tuttavia farsi risalire all’inizio degli anni cinquanta, allorché Willard van Orman Quine scrive nel 1951 l’articolo Due dogmi dell’empirismo. In esso afferma l’insostenibilità della distinzione tra enunciati analitici (tautologici, del tipo “scapolo significa non sposato”, che si basano sul significato dei termini e valgono indipendentemente dai dati dell’esperienza) ed enunciati sintetici (empirici, non deducibili dal puro ragionamento, ma dall’osservazione contingente), tra verità di ragione e verità di fatto. I primi si avvitano su se stessi in un circolo vizioso di inestricabili rimandi reciproci tra sinonimi, nella fattispecie “scapolo” e “non sposato”; i secondi non possono essere interpretati attraverso un rinvio diretto ai puri dati percettivi. Nessun enunciato, infatti, è suscettibile di essere confermato singolarmente, al di fuori del suo contesto globale, “olistico”. Cade così sia la possibilità di ridurre tutti gli enunciati significanti all’esperienza 146

immediata, sia la nozione di “significato” (in quanto concetto rigido che si riferisce a qualcosa di esterno, a un nudo fatto muto e non interpretato). Tale posizione apre la strada all’idea che esistano più “paradigmi”, in quanto ogni osservazione è carica di teoria, o più “versioni del mondo”, in quanto differenti schemi concettuali generano modi diversi di costruire la realtà. Si chiede, ad esempio, Norwood Russell Hanson: “Keplero e Tycho Brahe vedevano la medesima cosa quando osservavano il sorgere del Sole?”,11 ossia quando l’uno lo vedeva fermo con la Terra che ruota attorno a esso e l’altro girare attorno al nostro pianeta? E, poi, nel senso di Nelson Goodman, se non esiste più alcun vincolo tra i nostri enunciati e la realtà percettiva non sarà allora possibile alla scienza fabbricare una pluralità di mondi, dotati di una loro interna consistenza, alla maniera in cui li fabbrica l’arte?12 Il pluralismo di paradigmi o di versioni del mondo viene confutato sia dal logico Saul Kripke (che contro ogni atteggiamento “kantiano” di un mondo sconosciuto da interpretare presenta realisticamente l’idea del battezzare le cose attraverso nomi o designatori rigidi), sia, soprattutto, da Donald Davidson, il quale mostra come non abbia senso contrapporre alla realtà molteplici schemi concettuali, incommensurabili e rivali tra loro, che organizzerebbero l’esperienza. È infatti la nozione stessa di “schema concettuale” a essere impraticabile, tanto al singolare che al plurale. Non si dà alcuna realtà bruta, preesistente alla rete degli schemi con cui cercheremmo di catturarla, e non esiste neppure un’alternativa secca tra l’intraducibilità completa 147

dei nostri schemi (o linguaggi che li esprimono) e una loro perfetta convergenza, che consentirebbe l’accesso a un unico mondo condiviso. Abolito il dualismo tra schema e contenuto, considerato come “terzo dogma dell’empirismo” (così come il suo collega di Harvard, Hilary Putnam, abolisce quello tra fatti e valori), Davidson ammette unicamente traduzioni di enunciati da paragonare tra loro, per trovare così il senso di ciò di cui si parla in relazione a eventi extra-linguistici, comuni al “consorzio” umano. Se affermiamo la diversità degli schemi concettuali, dovremmo però dimostrare la loro intraducibilità. Eppure, anche volendo, non siamo affatto capaci di farlo, né per i linguaggi parzialmente intraducibili, né per quelli completamente intraducibili. Malgrado il “principio di carità”, che ci invita a scegliere l’interpretazione più coerente e sensata delle asserzioni altrui manifestate in una lingua sconosciuta, di esse potremmo sempre dare ulteriori interpretazioni, senza riuscire tuttavia a fissarne il preciso significato. Nel caso inoltre di assoluta incomprensibilità, diventa legittimo persino il dubbio se esse costituiscano un linguaggio, se corrispondano a un comportamento linguistico, nel senso che vi sono “dietro” di esse stati mentali di soggetti intenzionati a comunicare. In effetti, “tanto l’accordo quanto il disaccordo risultano intellegibili solo contro lo sfondo di un accordo consolidato e diffuso”.13 1

Th.W. Adorno, Esperienze scientifiche in America, in Parole chiave. Modelli critici (1969), SugarCo, Milano 1974, p. 175. 2

Id., Minima moralia (1951), Einaudi, Torino 1954, p. 64. 148

3 W. James, Pragmatism. A New Name for Some Old Ways

of Thinking, Longmans, Green and Co., New YorkLondon-Toronto 1949, p. 128. 4 W. James, Principi di psicologia (1890), Fratelli Bocca,

Roma-Milano-Napoli 19093, cap. xxi, in particolare pp. 199, 187, 243. 5 J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, Einaudi, Torino

1949, pp. 137, 141. 6

K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), Prefazione alla prima edizione inglese (1959), Einaudi, Torino 1995, p. XL. 7 Ivi, p. 311. 8 K.R. Popper, Congetture e confutazioni, in Congetture e

confutazioni, il Mulino, Bologna 1972, p. 64. 9 Ivi, pp. 65-66. 10 K.R. Popper, Che cos’è la dialettica?, in Congetture e

confutazioni, cit., p. 539. 11 N.R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica (1958),

Feltrinelli, Milano 1978, p. 14. 12 Cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo (1978),

Laterza, Roma-Bari 1988. 13

D. Davidson, Interpretazione radicale (1973), ora in Verità e interpretazione (1984), il Mulino, Bologna 1994, p. 137. Di Davidson si veda anche Azioni ed eventi (1980), il Mulino, Bologna 1992.

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VI. Il pensiero dialettico

1. Coscienza e totalità La filosofia hegeliana, con i suoi connessi concetti di dialettica e di totalità, aveva però già dato molto prima i suoi frutti con uno dei maestri di Lakatos, György Lukács, anch’egli costretto nel 1919, dopo il fallimento della Repubblica dei consigli di Béla Kun, a prendere la via dell’esilio: Vienna, Berlino e Mosca, dove ha la possibilità per circa dodici anni di osservare da vicino il regime staliniano. La figura di Hegel (che, chiuso un lungo periodo di latenza, era tornata a proiettarsi su diverse filosofie del Novecento, da Dilthey all’“esistenzialismo”, da Adorno a Lakatos, dovunque si combattesse la “reificazione” sociale, burocratica, scientifica) trova in Lukács non solo uno dei suoi più attenti interpreti ma anche un teorico che, attraverso il suo accostamento a Marx, la fa rientrare nel vivo del dibattito politico degli ultimi decenni. Con il venir meno, nel primo dopoguerra, delle speranze rivoluzionarie nell’Europa occidentale, il marxismo si divise in due tronconi, che segnavano la diversa esperienza tra chi era all’opposizione e chi era al potere – anche se essa non si presentava più come distinzione tra Chiesa militante e Chiesa trionfante –, oltre che risalire a diverse matrici storiche e nazionali. Mentre nell’Unione Sovietica la durezza della lotta politica in corso e gli sforzi per costruire una base 150

economica solida al socialismo fanno cadere l’accento sui momenti di necessità, sul realismo, sull’oggettività, in Occidente, dove il fascismo comincia in alcuni paesi a governare e dove il periodo di transizione si prefigura lungo, la riflessione marxista tende ad assumere toni più utopistici o “estremistici”, a recuperare una dimensione antieconomicista, progettuale, filosofica, che faccia leva sulla presa di coscienza delle difficoltà e dei punti morti da superare. A questo scopo è dedicato Storia e coscienza di classe, del 1923. Lukács, che aveva assorbito in gioventù le idee dello storicismo di Dilthey, della filosofia dei valori, di Simmel e di Weber, presuppone ancora nei saggi che costituiscono questo volume la distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, nonché l’analisi che della reificazione e del capitalismo avevano dato la Filosofia del denaro di Simmel e gli scritti di Weber (compresi quelli editi postumi, di cui Lukács conosceva in parte il contenuto, avendo frequentato a Heidelberg la casa di Max Weber). La dialettica non può per lui applicarsi alla natura, che è retta da quelle leggi di uniformità metastorica, di eternizzazione e isolamento dei dati, di calcolabilità e quantificabilità delle scienze naturali che il capitalismo pretende di applicare anche alle società umane (proprio mentre le scienze cambiavano aspetto, Lukács continua ad averne una visione più arcaica di Dilthey). Capitalismo e scienze della natura sono dunque solidali: viene presa sul serio l’affermazione di Weber per cui “la scienza è il solo partito della borghesia”. Ma anche capitalismo e reificazione sono solidali: nel 151

mondo delle merci, anche l’uomo tende a essere guardato e trattato come una cosa, a essere ridotto a mera appendice della produzione. Ciò che contrasta vittoriosamente tale reificazione e l’ideologia che la giustifica è la dialettica con la sua idea di totalità, che ristabilisce i nessi viventi e processuali della realtà, immette la storia nei “dati”, lega teoria e pratica nella comprensione e trasformazione del mondo, connette il soggetto con l’oggetto, permette una visione globale in un’epoca di variazioni continue e spesso impercettibili dell’assetto dell’insieme in uno scacchiere mondiale. La conoscenza della totalità non autocontraddittoria è possibile solo alla coscienza di classe del proletariato. In precedenza, nelle età precapitalistiche, la divisione in caste e ceti (Stände) rendeva invisibile la totalità sociale e, di conseguenza, impossibile la previsione, la progettazione e il controllo della dinamica storica. Con l’avvento della borghesia, con il formarsi delle classi moderne e l’autonomizzazione della sfera economica, le visioni del mondo e la percezione dei conflitti di interesse divengono totali e “la coscienza di classe è entrata nella fase in cui può diventare cosciente”.1 La borghesia (a differenza dei contadini o della sua frazione più disgregata, la piccola borghesia) ha bensì una visione dialettica della realtà, ma essa è tragica e contraddittoria: sulla coscienza borghese, come sui personaggi che Lukács aveva studiato ne L’anima e le forme e nella Storia dello sviluppo del dramma moderno, “pesa una tragica maledizione che la costringe, non appena è giunta al punto più alto del suo sviluppo, a cadere in una insolubile contraddizione con se stessa e, di conseguenza, ad 152

autosopprimersi. Questa situazione tragica della borghesia si rispecchia storicamente nel fatto che essa è ancora impegnata a schiacciare il proprio predecessore, il feudalesimo, quando appare già il suo nuovo nemico, il proletariato”.2 La borghesia non può sopportare la vista della totalità, che include quella dei suoi stessi limiti e della sua fatale scomparsa; essa è quindi costretta a stare sulla difensiva e a disturbare a se stessa e agli altri la percezione globale dei nessi storici. La classe operaia, invece, che gode del vantaggio di considerare la società a partire dal suo “centro”, dal motore della produzione, non solo non ha paura della totalità sociale, ma ha anzitutto l’interesse a conoscerla, per poter guidare il processo di transizione e abolire se stessa in una società senza classi. Molti anni dopo, nella Prefazione alla traduzione italiana del 1967, Lukács riconoscerà di aver commesso diversi errori in Storia e coscienza di classe: di aver confuso l’“oggettivazione”, ineliminabile in ogni attività umana, con l’“estraneazione”, che è storicamente revocabile; di aver fatto perdere al lavoro la caratteristica che Marx gli aveva attribuito in ogni società, di assicurare cioè il ricambio organico della società con la natura, e di essere incorso, in particolare, in “un eccesso (hegeliano) contrapponendo alla priorità della sfera economica la centralità metodologica della totalità”.3 L’importanza di Hegel, della dialettica e della categoria di totalità, non verranno però mai ripudiate nell’intera produzione di Lukács. Anzi, soprattutto dopo che Stalin inaugura la politica dei fronti popolari, egli elabora apertamente una linea strategica di grande respiro che 153

prevede, come corollario dell’alleanza tra borghesia progressista e proletariato, il ricongiungersi alla grande stagione culturale della borghesia progressiva, prima del suo definitivo votarsi all’“irrazionalismo”. I nomi di Hegel, di Goethe e di Ricardo costituiscono i punti di riferimento e l’eredità più sana e dialettica della tradizione borghese: essi rappresentano quelle individualità plastiche che il proletariato si sforza di produrre in ciascun uomo. L’irrazionalismo ha in seguito avvelenato la filosofia, l’arte e l’economia politica borghese (sfugge a Lukács, nella giusta polemica contro la cultura che ha condotto al nazionalsocialismo e alla guerra, quanta conoscenza ci sia anche nella “decadenza”, quali antidoti alla crisi si mischino alle tossine: da qui la liquidazione sommaria di tanti autori nella Distruzione della ragione). Queste idee di Lukács avranno in Italia un peso rilevante (tra gli anni cinquanta e sessanta, nell’età della “sprovincializzazione”), quando si innesteranno sul preesistente storicismo marxista e sulla prospettiva politica di un’alleanza tra classe operaia e ceti medi democratici: contribuiranno allora alla formazione di un “umanesimo marxista”, non privo di elementi classicheggianti, “a tutto tondo”, armonicisticamente composti. Un’incidenza minore, e non solo in Italia, avranno invece le ultime e più mature riflessioni del filosofo ungherese, dalla monumentale Estetica all’Ontologia dell’essere sociale, dove si affrontano organicamente i problemi del rispecchiamento nella vita quotidiana (un tema che sarà trasmesso all’allieva Agnés Heller), nell’arte – nella peculiarità della sua mimesi e dei suoi metodi di 154

“segnalazione” –, e della conoscenza diretta di un “essente in sé” stratificato in diversi livelli mediati dal lavoro e resi per noi intellegibili dalla storia. 2. La dialettica negativa A questa concezione di una dialettica robustamente compositiva, armonica anche attraverso le contraddizioni più laceranti, e all’immagine di una totalità raggiunta si oppongono Adorno e Benjamin, che, in connessione all’impianto tragico delle filosofie di Kierkegaard e di Rosenzweig e all’idea neo-kantiana dell’incommensurabilità della parte con il tutto, della totalità come semplice focus immaginarius, rivalutano quella “logica della disgregazione” che si esprime nell’arte e nei concetti delle avanguardie del Novecento. Bisogna per Adorno vivere sino in fondo le lacerazioni di questo periodo storico, in cui, con l’avanzare della socializzazione, la totalità è diventata totalitarismo, sistema in cui vige la legge dell’unità, dell’eliminazione del diverso, del non compatibile con il dominio. Non si deve allora cercare – come farebbe Lukács – una “conciliazione forzata”, trasfigurare la cattiva realtà del presente in forme solo apparentemente pacificate. Vanno invece portate alla luce della coscienza le mutilazioni, le scissioni e la degradazione che la vita subisce e che la grande arte di un Kafka, di un Trakl, di un Picasso o di uno Schönberg rappresentano. La conciliazione si può concepire solo “al margine della pazzia”,4 in ciò che oggi è schiacciato, oppresso, impotente, individuale, inutile, non fungibile in 155

un mondo retto dall’intercambiabilità, dal principio di equivalenza, di identità. In tutto quel che è respinto alberga la speranza che il potere e la forza delle cose, il destino di quest’epoca, non abbiano per sempre il sopravvento. Solo attraverso questo cumulo di dolore, proiettandoci verso un tempo che non è il nostro, potremo intravedere la scomparsa della totalità antagonistica, la redenzione della particolarità, la pace come “stato di una differenziazione senza potere, nel quale ciò che è differenziato reciprocamente partecipa dell’altro”.5 Unicamente allora avrà fine la marxiana “preistoria” dell’umanità. Ma per far questo bisogna sottrarsi alla suggestione dell’esistente, stravolgerlo nella sua ovvietà, mettere in moto la “fantasia esatta” che recuperi quanto sino a oggi è stato rimosso e tenuto ai margini; sostituire alla lotta di classe, che si è interiorizzata, la resistenza al dominio di piccole minoranze; attivare, in sostanza, la ragione dialettica che è “l’irragionevolezza di fronte alla ragione dominante”6 e che – dice Adorno in polemica con Popper e gli “scientisti” – non è né chiusa olisticamente, né estranea all’oggetto. Anzi, nella sua negatività, che non accoglie passivamente i dati sensoriali o le tautologie come la verità stessa, essa è molto più rispettosa della vita e delle contraddizioni dell’oggetto di quanto non lo siano le concezioni neo-positivistiche o scientistiche, disprezzate dalla dialettica, ma che, a loro volta, considerano la dialettica una serie di futili svolazzi retorici: “In un certo senso la logica dialettica è più positivistica del positivismo, da lei disprezzato: essa rispetta, come pensiero, quel che si deve pensare, l’oggetto, anche 156

dove esso non segue le regole del pensiero. La sua analisi tocca le regole del pensiero. Il pensiero non è costretto a contentarsi della propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso. Se fosse possibile una definizione della dialettica si dovrebbe proporre questa”.7 Il pensiero dialettico cerca di pensare la “storia congelata nelle cose”, quel nocciolo temporale del divenire che gli scientisti si nascondono e che filtra, al di là di ogni ideologia, nell’arte e nel pensiero non regolamentati, procedenti “per intermittenze”, tesi verso il “non ancora”. Tale congelamento non è, appunto, un destino: “Come la fine, anche l’origine della musica va oltre il regno delle intenzioni, ed è imparentata al gesto, strettamente affine al pianto. Il gesto dello sciogliere: la tensione della muscolatura facciale cede, quella tensione che, nel volgere il viso verso l’ambiente in vista dell’azione, lo isola al tempo stesso da questo. Musica e pianto schiudono le labbra e lasciano libero l’uomo che trattenevano… L’uomo che si lascia defluire in pianto e in una musica che non gli assomiglia più in nulla, lascia contemporaneamente rifluire in sé la corrente di ciò che egli non è e che aveva ristagnato dietro lo sbarramento del mondo degli oggetti concreti. Col suo pianto e il suo canto egli penetra nella realtà alienata”.8 Per Adorno, la musica, al pari dell’arte in genere e delle grandi filosofie, fa parlare ciò che il dominio e l’ideologia nascondono sotto la corazza dell’identità o espungono come irrilevante e nocivo. Per la necessità dell’autoconservazione l’umanità ha infatti dovuto, ai suoi inizi, resistere al richiamo del diverso e al carattere panico e indistinto della natura. Al 157

canto delle Sirene, Odisseo reagisce ordinando ai suoi compagni di tapparsi le orecchie con la cera e di remare alacremente, dopo essersi legato, lui, libero di udire, all’albero della nave. Questa è la “preistoria del soggetto”, che si costituisce attraverso una separazione traumatica dalla natura interna ed esterna e attraverso la fondazione di un polo centralizzato di controllo in se stesso e nella società, ma che avverte pur sempre la nostalgia per lo stadio iniziale, il desiderio di ritornare a esso: “L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo […]. L’angoscia di perdere il Sé, e di annullare, con il Sé, il confine tra se stessi e il resto della vita, la paura della morte e della distinzione, è strettamente congiunta ad una promessa di felicità da cui la civiltà è stata minacciata in ogni istante”.9 Più l’io è debole, più tende a sottomettere la naturalità; e il pensiero e il primato logico dell’identità altro non sono che il correlato della subordinazione che la totalità sociale esige da ciascun individuo. La durezza della lotta contro una natura ostile e strapotente ha richiesto sino a oggi l’attribuzione al genere di un potere di coercizione e di coesione che sacrifica inevitabilmente la singolarità. La compattezza della totalità sociale e il rafforzamento dell’identità personale assicurano la sopravvivenza della 158

specie e degli individui in un mondo ancora conflittuale, al prezzo però di una “vita deteriorata” e della rinuncia alla felicità integrale, che balugina, come surrogato, nella fantasia e nell’arte. La pienezza della vita possibile al di là dei meccanismi di perpetuazione sociale e di dominio viene concessa a patto che la si dichiari ineffettuale, pura illusione senza pretesa di turbare la serietà del reale. Vi è stato un periodo, a partire dal Rinascimento e per tutta l’epoca del capitalismo di concorrenza, in cui l’individuo si è parzialmente sottratto al comando della totalità identica, o meglio: in cui la totalità stessa del sociale, spezzato a suo favore l’equilibrio con la natura, ha potuto tollerare dentro di sé un più accentuato conflitto e legittimarlo. Al culmine di questa stagione storica abbiamo, sul terreno pratico, lo sviluppo della “piccola azienda psicologica” dell’individuo e lo slancio delle forze produttive e, sul terreno teorico, la dialettica di Hegel e di Marx e la grande arte dell’Ottocento. Ma poi, con il sorgere del capitalismo monopolistico, dovuto all’accrescersi delle tensioni economiche, politiche e sociali, la totalità si irrigidisce nuovamente, penalizza le deviazioni del diverso, cerca di cancellare l’avviato processo di individuazione, nella speranza di conseguire, mediante l’abolizione della spontaneità del comportamento dei singoli, il rafforzamento delle strategie anti-crisi. La “piccola azienda psicologica” fallisce e viene sostituita dal “grande magazzino” della coscienza manipolata10 e quegli stessi valori che avevano fornito il propellente indispensabile al decollo del capitalismo di concorrenza (individuazione, 159

autodeterminazione, libertà di pensiero, conflittualità) sono ora condannati come un lusso antiquato e dannoso. Dal soggetto autocosciente, propugnato dall’idealismo classico tedesco, si ritorna così alla sostanza amorfa, alla comunità conformistica americana, alla Gleichschaltung, ossia al livellamento coatto nazionalsocialista o al partito dai mille occhi di brechtiana memoria. In ogni caso, con le catene della paura o con quelle dei bisogni, l’essere sociale viene indissolubilmente legato alla coscienza. La “struttura” penetra e pervade la “sovrastruttura”, facendo cadere, da una parte, l’apparenza residua di una zona autonoma rispetto alla sfera economica, ma appiattendo, insieme, il singolo a mero portatore dei meccanismi economici, così da inceppare in esso il motore soggettivo del mutamento, che aveva iniziato a operare a basso regime con l’individuazione. Una volta lacerati gli involucri protettivi dell’individuo – autonomia soggettiva, famiglia, amore, amicizia, solidarietà di classe – questi viene ancora una volta a trovarsi a diretto contatto con la primordiale totalità, che piega il particolare al “cattivo” universale. La parabola del “rischiaramento” (Aufklärung) porta da una barbarie a un’altra, dalla rozzezza naturale a quella pianificata. E nel clima della dotta barbarie del presente la rivoluzione è aggiornata a una data da precisare. Solo piccole minoranze possono contrastare l’oppressione vigente, con una resistenza quantitativamente debole, ma certo ben più che simbolica. Al concetto di lotta di classe Adorno contrappone quello di resistenza al dominio; alla lotta collettiva e organizzata, quella singola o di ristretti 160

gruppi; alla guerra di movimento, per servirci della terminologia gramsciana, quella di posizione, in trincee sparse. La “realtà bloccata” può essere lentamente fluidificata solo dall’opera di pochi, dei reietti, degli eretici, dei perseguitati da questo ordine: “I deboli, gli impotenti, che la storia ha gettato in un canto e annientato secondo il verdetto di Spengler, personificano negativamente, nella negatività di tale civiltà, ciò che permette sia pur debolmente di spezzarne l’imperio e di metter fine all’orrore della preistoria. Nella loro protesta vi è l’unica speranza che destino e potere non abbiano l’ultima parola”.11 Il soggetto storico dell’emancipazione, il proletariato, sembra essere divenuto incapace, in quanto tale, di opporsi alla potenza dell’esistente, compresso com’è tra socialismo burocratico, enfatizzazione dei consumi e terrore fascista. Del resto, la degradazione della vita si manifesta in mille modi e “malata” appare spesso anche “ogni cosa che diviene”, perché il nuovo si fa strada a fatica tra vincoli, sbarramenti, arretramenti e sentieri che non conducono da nessuna parte. In una impietosa e insieme commossa fenomenologia dell’esistenza quotidiana, si squadernano dinanzi agli occhi di Adorno tutte le miserie e i vuoti mascherati da maggiore libertà e immediatezza che la logica “capitalistica” dell’identità (in quanto scambio di equivalenti in cui la sottrazione di plus-valore viene cancellata) promuove e fa penetrare sino alle più intime manifestazioni della coscienza individuale e del comportamento sociale: gli uomini disapprendono l’arte del dono, giacché “c’è qualcosa di assurdo e di incredibile nella 161

violazione del principio di scambio; spesso anche i bambini squadrano diffidenti il donatore, come se il regalo non fosse che un trucco per vendere loro spazzole e sapone”. La ricerca di una maggiore comunione tra individui privi ormai di spontaneità e di legami affettivi profondi avviene attraverso la falsa vicinanza di un “cameratismo a base di spintoni”, il quale “non è che un altro segno della crescente impossibilità della convivenza umana nelle attuali circostanze”.12 Contro la scomparsa virtuale e l’ottundimento dell’esperienza, la filosofia e l’arte possono costituire degli antidoti, la prima mitridatizzando gli uomini nei confronti della “strapotenza della suggestione” che l’esistente emana, la seconda presentandosi come il “luogotenente” del soggetto collettivo autentico ma non ancora apparso. Filosofia e arte devono stravolgere l’apparente ovvietà e immutabilità del reale, indicare soprattutto le sue linee di frattura latenti e visibili, il suo essere solcato da contraddizioni per il momento incomponibili. Fin da giovane Adorno ha affermato di aver utilizzato un’idea per lui fondamentale, quella di una “logica della disgregazione”, che egli ebbe modo di vedere all’opera non solo nelle avanguardie musicali viennesi, nelle tecniche dodecafoniche, ma anche nelle filosofie “atonali” di un Benjamin o di un Bloch o nella pittura di un Picasso. La “dialettica negativa”, che rinuncia alla conciliazione attuale, è di conseguenza lo strumento per scardinare la presunta impenetrabilità e intrasformabilità del reale, per svelare – purtroppo ancora a pochi – come il gigante del dominio abbia i piedi d’argilla e 162

la sua durata dipenda dall’assenso involontario o estorto degli oppressi. Teoricamente essa è la “coscienza conseguente della non identità”, ma la “speranza della conciliazione accompagna il pensiero inconciliabile”. La dialettica negativa deve risarcire il non-identico per la sua eliminazione dalla totalità vigente, deve far leva su quanto ancora resiste nella periferia della realtà o combatte contro di essa, sull’“aconcettuale individuale e particolare” per esprimere così la “storia congelata delle cose”, sciogliendo l’identità, la totalità e la reificazione sociale con l’acido corrosivo delle contraddizioni. I residui dell’attuale società sono il lievito della società futura, non la sua completa configurazione. E la lotta per il suo concreto albeggiare è fattiva, non banalmente utopica, non inevitabilmente votata alla sconfitta. 1 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano

1967, p. 77. 2 Ivi, p. 80. 3 Ivi, p. XXI. 4 Th.W. Adorno, Filosofia della musica moderna (1949),

Einaudi, Torino 1959, p. 130. 5

Id., Epilegomeni dialettici, in Parole chiave. Modelli critici, cit., p. 214. 6 Id., Minima moralia‚ cit., p. 68. 7

Th.W. Adorno, Dialettica negativa (1966), Einaudi, Torino 1970, p. 126. 8

Id., Filosofia della musica moderna‚ cit., pp. 129-130.

9

Th.W. Adorno, Dialettica negativa‚ cit., p. 165. 163

10

Cfr. M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1972, p. 216. 11 Th.W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura

(1955), Einaudi, Torino 1972, p. 63. 12 Th.W. Adorno, Minima moralia‚ cit., pp. 32, 27.

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VII. Il mondo e lo sguardo

1. Husserl: la visione della cosa Compiamo ora un passo indietro nel tempo per vedere come i “filosofi puri” hanno affrontato il rapporto soggettooggetto – lo sguardo e la cosa – e tentato di fondare nuove certezze. Ripartiamo da Husserl, in cui il superamento dello psicologismo, del relativismo storicistico e della opposizione soggetto-oggetto è ottenuto grazie a una complessa strategia conoscitiva che introduce la coscienza comune al sapere scientifico, la guida verso punti di vista più alti, strappandola, non senza violenza, al suo spontaneo atteggiamento naturalistico per cui la realtà è semplicemente davanti a noi e non si deve far altro che rifletterla. Ma “una realtà assoluta vale quanto un quadrato rotondo. Realtà e mondo sono per noi titoli di determinate unità di ‘senso’, relative a determinati nessi significativi della coscienza pura, i quali conferiscono appunto questo senso e non un altro e ne mostrano la validità”.1 Questo non significa cadere in un idealismo di tipo berkeleyano o dichiarare il mondo prodotto della coscienza. Vuol dire soltanto che la coscienza è “intenzionalità”, è sempre coscienza di qualcosa, dimodoché non esiste da un lato la coscienza e dall’altro la cosa, da una parte il soggetto e dall’altra l’oggetto, ma sempre un legame bipolare inscindibile e costitutivo. E noi non abbiamo soltanto la percezione sensibile di dati 165

individuali, ma anche la percezione diretta degli universali, la visione delle “essenze”, degli eide, che riceviamo nel pensare. Nell’atto del pensare siamo quindi passivi, non partecipiamo alla costruzione dei concetti della logica pura, ma ne accettiamo la datità. Adorno ha visto in tale impostazione una forma di terrorismo e di “assolutismo logico”, per cui la verità diventa qualcosa di sovrumano che si impone alla coscienza con una evidenza priva di mediazioni, il congelamento in essenze eterne del movimento delle cose e della storia, che riflette l’avvenuta abdicazione della soggettività borghese a una potente totalità sociale anonima. La visione delle essenze e l’epoché (ossia la tematizzazione dell’indagine attraverso la messa tra parentesi dell’atteggiamento naturale) sono per Adorno la negazione della dialettica e il prevalere della staticità: “Pari al fotografo di vecchio stampo, il fenomenologo si ammanta col panno nero della sua epoché, scongiura gli oggetti di restare immobili e immutati e alla fine realizza passivamente, senza la spontaneità del soggetto conoscente, ritratti di famiglia, come quello della madre, ‘che posa lo sguardo affettuoso sulla schiera dei suoi piccoli’ ”.2 Ma in Husserl c’è dell’altro: si tratta di vedere, di lasciarsi impregnare dal mondo, sospendendo il giudizio, dando nuovamente voce all’oggetto, riscoprendo il senso e l’ordine delle cose, che il modificarsi continuo dei sistemi di riferimento e di appoggio ha reso incerti e problematici. L’analisi eidetica riproduce a un più alto livello di intellegibilità quell’ordine che l’epoché aveva sospeso. Il metodo fenomenologico si presenta così come una continua 166

donazione di senso a un’esperienza muta o che tende a diventar tale nella coscienza comune. Quest’ultima può, come Orfeo, salire dagli Inferi del “vissuto” verso il luminoso regno delle essenze, del sapere, solo se è capace di non voltarsi indietro, di non ripiombare nell’atteggiamento naturale. In tal modo, compiendo uno sforzo per disancorarsi dalla spontaneità delle abitudini, le risulterà evidente che gli oggetti non esistono per natura, che sono unità intenzionali, punti nodali della rete di coordinate con cui il mondo viene strutturato. Ma come orientarsi in esso? Come separare l’intenzione conoscitiva (che non ha per la maggior parte degli uomini una particolare eccellenza o costanza) dalle altre modalità di riferimento al mondo? E come ritrovare, al di sotto delle stratificazioni culturali e storiche, il sostrato materiale della “cosa”? Il mondo circostante ha diverse valenze, anche pratiche: “Esso mi è costantemente ‘alla mano’, ed io stesso sono un suo membro. E mi è dinanzi non soltanto come un mondo di cose, ma, con la medesima immediatezza, anche come un mondo di valori, mondo di beni, mondo pratico. Davanti a me trovo le cose fornite di caratteri di valore, come le proprietà fisiche, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, gradite e sgradite ecc. Le cose si presentano immediatamente come oggetti d’uso, la ‘tavola’ con i suoi ‘libri’, il ‘bicchiere’, il ‘vaso’, il ‘pianoforte’ ecc. Anche questi caratteri assiologici e pratici appartengono costitutivamente agli oggetti come tali, che io presti o non presti attenzione ad essi e agli oggetti. E, come per le mere cose, ciò vale naturalmente anche per gli uomini e gli animali che mi circondano e riguardo al loro 167

carattere sociale. Essi sono miei ‘amici’ o ‘nemici’, miei ‘inferiori’ o ‘superiori’, ‘estranei’ o ‘parenti’ ecc.”3; “L’uomo, essendo un ‘corpo vivo’, è anche soggetto di bisogni, è immerso in un sistema di dipendenze che lo fa agire in vista del conseguimento di uno scopo, è circondato da oggetti utili che hanno il carattere di ‘merce’ ”.4 Ma se io voglio conoscere la costituzione materiale della cosa (impresa a cui Husserl si dedica già nella Lezione sulla cosa del 1907 e nelle Idee II) devo penetrare al di sotto di queste valenze individuali e sociali sino a coglierne lo strato di materialità che la distingue dal puro fantasma, cioè dalla “datità priva dello strato di apprensione della materialità”. Prendiamo l’esempio del colore, affrontato, oltre che nelle Idee II, anche in un manoscritto in parte ancora inedito del 1910, Fantasma e cosa,5 e poniamoci la semplice domanda di sapere qual è il colore di un oggetto. Intanto, la distinzione tra forma e colore di una cosa si trasforma fenomenologicamente nella differenza tra “colore” e “colorazione”, ossia tra il colore e la sua estensione. In secondo luogo, poiché il colore si dà soltanto in presenza di una fonte luminosa, il colore dipenderà dalla sua illuminazione e si presenterà, col suo variare, in “adombramenti” sempre diversi. Ma noi attribuiamo al corpo un colore oggettivo, le cui modificazioni vengono imputate a elementi di disturbo. Una cosa avrebbe così sempre uno stesso colore, sia nel buio di un armadio che in una luce fioca e in pieno sole. In realtà, però, il colore oggettivo attribuito a una cosa è una norma, è un pensato e non un visto. Noi stabiliamo delle condizioni ottimali e 168

normali che determinano il colore dell’oggetto: “Così certe condizioni risultano essere le condizioni ‘normali’: la visione nelle condizioni costituite dalla luce del sole e da un cielo chiaro, senza l’intervento di altri corpi capaci di influire sul colore dell’apparizione. L’‘optimum’ che viene così ottenuto vale come il colore stesso, a differenza per esempio del rosso di sera che ‘soffoca’ tutti i colori propri del corpo. Tutti gli altri colori della qualità sono un ‘aspetto di’, ‘apparizioni di’ questo privilegiato colore dell’apparizione”.6 La “cosa” si presenta così come unità normativa che rimane uguale in tutte le sue modificazioni (che possono sempre essere eliminate ripristinando le condizioni ottimali) e che, a differenza del “fantasma”, produce intrecci causali, agisce. Il non aver capito, da parte delle scienze naturali, il carattere costitutivo delle cose, l’averle intese naturalisticamente, ha portato a un oscuramento del senso della razionalità europea. La crisi delle scienze europee (libro composto tra il 1935 e il 1937, ma uscito solo nel 1954) descrive appunto questo smarrimento, la perdita dello slancio teleologico. In quest’epoca tragica, in cui i totalitarismi dilagano e la razionalità sembra servire solo a fini distruttivi o essersi posta a disposizione del potere, la scienza ha le sue responsabilità, in quanto ha contribuito a trattare anche l’uomo come cosa. I filosofi, questi “funzionari dell’umanità”,7 devono comprendere il perché della crisi e contribuire alla sua soluzione, indicando nel “mondo della vita” (Lebenswelt) il fondamento dimenticato delle scienze, l’origine delle loro domande. Ora la filosofia 169

non è più considerata da Husserl come una “scienza rigorosa”, ma come oltrepassamento pratico del naturalismo.8 Nel 1917, quando Husserl conia il neologismo Lebenswelt, esso ha già assunto il carattere di sintomo. Rivela infatti la profonda frattura tra l’atteggiamento teorico di chi si rivolge al “mondo”, alla totalità del reale, e di chi invece si situa nel “mondo della vita”, al centro cioè di un “orizzonte di cose che non sono meri corpi, bensì oggetti di valore”. La prima attitudine espunge il soggetto, considerandolo con distacco un oggetto tra gli altri; la seconda ritesse incessantemente la fitta rete di rapporti conoscitivi e affettivi entro cui il soggetto è di fatto impigliato nel mondo. L’una si fonda sulla categoria di “causa” e si sforza di assegnare un senso preciso ai singoli fenomeni; l’altra si appoggia sul criterio della “motivazione” e interroga i fattori che inducono il soggetto stesso “a pensare, a valutare, a desiderare, ad agire”. La condotta di quanti operano sul piano dell’oggettivazione del mondo tende a racchiudere ogni ente ed “essenza” nell’ambito dell’univocità; quella di coloro che si sentono inseriti nella Lebenswelt mira invece a conservare una tollerante apertura nei confronti della pluralità di significati dell’esperienza, dei diversi livelli di realtà. I soggetti capaci di comunicare informalmente senza porsi troppi problemi ma anche senza trincerarsi nella dimensione dell’ineffabile, gli uomini che patiscono e agiscono a diretto contatto con il loro mutevole ambiente sono in genere gli stessi che – in determinate culture e circostanze – indossano i “paraocchi abituali” 170

dello scientismo naturalistico, credendo così di elevare il loro pensiero al di sopra dell’opacità dell’esperienza irriflessa. Una domanda appare in Husserl sin d’ora abbozzata: l’atteggiamento teoretico oggettivante è l’unico consentito al sapere della specie umana o si può ipotizzare un tipo di conoscenza altrettanto efficace, che non sia riconducibile, da un lato, all’oggettivazione e, dall’altro, alle torbide intuizioni del vitalismo o agli indistinti barlumi soggettivi dell’Erlebnis?9 Che tale ardua impresa sia destinata anch’essa a rimanere incompiuta lo dimostrano tanto il lungo percorso che conduce Husserl alla Crisi delle scienze europee (e oltre, sino alle ultime conversazioni trascritte dalla sorella), quanto il privilegio accordato al termine stesso di Lebenswelt. Prima di ricevere pieni diritti di cittadinanza linguistica, il vocabolo doveva apparire a molti un ibrido mostruoso, un “centauro concettuale”, composto da Welt, che allude alla totalità compatta, durevole, corposa del “mondo” e da Leben, che rinvia alla multiforme, fragile, caduca finitezza della “vita”. Rinunciando provvisoriamente ai vantaggi garantiti dall’ordinato universo delle scienze, Husserl rischia di cadere o nel relativismo o nelle nebulose filosofie dell’intuizione, in quelle forme di pensiero che ha cioè sempre aborrito. In esse ogni cultura umana – secondo le dottrine di Spengler o di Toynbee –, isolata dalle altre, accampa le medesime pretese di legittimazione. Qualsiasi canone per misurare il grado di attendibilità di pregiudizi, opinioni e valori o per discutere idee, costumi, stati d’animo risulta pertanto infondato. Se il coinvolgimento della 171

filosofia nel mondo della vita superasse dunque – nella Crisi delle scienze europee – un determinato livello, tutto ciò che costituisce il lato di contingenza e di arbitrarietà del vissuto riacquisterebbe quella forza e quel prestigio che la scienza moderna è riuscita a strappargli dopo dure lotte. In questo caso, l’universalità della “coscienza trascendentale” – l’irriducibilità della coscienza a oggetto, che accomuna tutti gli uomini – verrebbe distrutta a beneficio della molteplicità empirica di soggetti psicologici irrelati e di civiltà che si proclamano sovranamente incommensurabili. Il discorso e la comunicazione sarebbero consentiti solo grazie al fatto di condividere determinati vissuti e specifiche tradizioni, spontanee o indotte. Diventerebbero una mera questione di appartenenza e di omogeneità culturale ai differenti gruppi umani. Lo strumento della “riduzione fenomenologica” permette comunque a Husserl una via d’uscita da queste difficoltà. Gli lascia una ragionevole speranza, che si manifesta in una parafrasi del detto evangelico “chi perde la propria vita, la salverà”. La perdita del mondo della vita – ossia la sua messa tra parentesi attraverso l’epoché – diventa in effetti la premessa della sua riconquista. Grazie al patrimonio di universalità accumulato dal “soggetto trascendentale” che riflette radicalmente su se stesso ed esibisce così le forme e le vie di donazione del senso, anche il mondo della vita è riscattato e illuminato. Sospendendo provvisoriamente il giudizio si rende problematica l’ovvietà. Si inibiscono simultaneamente tanto la prevaricazione soggettivistica, che tende a proiettare abitudinariamente e fantasmaticamente sulla “cosa” schemi percettivi, pensieri 172

consolidati e interessi provenienti dal mondo della vita, quanto la tentazione oggettivistica che (al fine di conservarle lo strato di apprensione della materialità) le sottrae poi la complessità delle dimensioni e la varietà degli approcci per privilegiare come normativo un solo atteggiamento e squalificare di conseguenza tutti gli altri. L’epoché consente di ascoltare nuovamente l’intreccio di voci che vengono dal polo della cosa e da quello del soggetto, di rinegoziare il senso al di fuori dell’obbligo dell’ovvietà. 2. Schütz: migrazioni di senso Nel sociologo e filosofo austriaco Alfred Schütz l’indistinto e unitario mondo della vita husserliano (rimasto, peraltro, in Husserl sostanzialmente inesplorato nella sua concreta cartografia) si articola e si specifica. Non assume l’aspetto di “sub-universi di realtà”, come in William James, ma di “province finite di significato”, ciascuna dotata di una sua autonomia. Ognuna è un universo simbolico, virtualmente autosufficiente, entro il quale si resta, sino a quando un trauma, un passaggio brusco e discontinuo, un “salto kierkegaardiano”, non induca a varcarne i confini: “Vi sono tanti innumerevoli generi di esperienze traumatiche quante sono le diverse province finite di significato sulle quali io posso porre l’accento della realtà. Ecco alcuni esempi: il trauma di addormentarsi come salto nel mondo dei sogni; la trasformazione interiore cui noi siamo sottoposti quando si alza il sipario come transizione nel mondo del palcoscenico; il mutamento radicale del 173

nostro atteggiamento se, dinanzi a un quadro, facciamo in modo che il nostro campo visivo si limiti a ciò che è dentro la cornice, come passaggio nel mondo pittorico; il nostro imbarazzo, che si rilassa nel ridere, se, nel dare ascolto a una storia scherzosa, siamo per un momento disposti ad accettare il suo mondo fittizio come una realtà in relazione a cui il mondo della nostra vita quotidiana assume un carattere di assurdità; il volgersi del bambino verso il suo giocattolo come passaggio al mondo del gioco e così via”.10 All’interno di ciascun mondo tutte le esperienze sono di per se stesse coerenti e compatibili fra loro. L’epoché segna il confine fra le diverse province: noi emigriamo continuamente e rientriamo da questi altri mondi. Dividiamo l’esperienza secondo zone di significato, per cui i diversi mondi sono costituiti da agglomerati di senso, e non da una molteplicità di elementi eterogenei raggruppati a caso la cui sintesi spetta all’io. La società stessa – come mostrano gli articoli di sapore simmeliano Lo straniero: saggio di psicologia sociale e Il reduce – è infatti già virtualmente in possesso degli “stampi” di riproduzione dei mondi psicologici e istituzionali deputati a filtrare gli eventi. Ciò avviene secondo regole che catturano la ricchezza di significati spalancata dalla moltiplicazione delle sfere di realtà. Solo il mondo vitale del quotidiano (che Husserl peraltro non distingueva dal mondo della vita) riesce a esercitare un dominio sulle altre province di senso, proclamando la sua “suprema realtà” o paramount reality. La scienza è per Schütz una delle tante province di significato, che non ha una superiorità assoluta sulle altre, 174

ma a cui si è richiamati dal variare degli interessi, dei “criteri di rilevanza”. Il passaggio dai vari mondi vitali alla dimensione della scienza non è un passaggio dal noto al conosciuto, dal senso alla verità, bensì un’apertura da ciò che è più o meno familiare a ciò che non lo è, ma che può diventarlo: “La familiarità […] indica la possibilità di riferire nuove esperienze, per quel che riguarda la loro tipicità, al mio fondo abituale di conoscenza già acquisita. […] Ogni esperienza che è entrata a far parte del nostro possesso abituale (e perciò ci è familiare) porta seco l’anticipazione che, in linea di principio, riconosceremo certe future esperienze come riferentesi ai medesimi oggetti precedentemente esperiti, o almeno ad oggetti che sono identici o tipicamente simili”.11 L’“accento della realtà” si sposta e si ritira da una provincia finita di significato all’altra. Ogni provincia finita di significato ha ora la sua specifica tensione della coscienza, la sua specifica epoché, la sua specifica modalità di percepire il Sé, la sua specifica socialità e la sua specifica temporalità che stabilisce la successione o la simultaneità dei fenomeni. La recente ripresa di tali tematiche conduce a una sdrammatizzazione del transito attraverso le varie “province di significato”. Così in Peter Berger, sociologo tedesco trapiantato negli Stati Uniti, non vi è più bisogno di traumi per passare da un mondo vitale a un altro. In una società moderna e urbanizzata, noi siamo già, da subito, all’interno della loro molteplicità e nell’area delle loro intersezioni, in quanto i mondi vitali non appaiono così separati e compatti come accadeva nelle società tradizionali. Sono semmai 175

diventati tra loro estranei o indifferenti. La nostra attuale esistenza, specie nelle metropoli, ci introduce incessantemente e ormai quasi impercettibilmente in più mondi, le cui soglie oltrepassiamo continuamente e che continuamente intersechiamo (più che una rotta, si direbbe un sistema di scambi ferroviari). Non esiste più alcun mondo autentico, non manipolato, da contrapporre al mondo non autentico: la coscienza è costituita da un assemblaggio di “pacchetti” (packages) di consapevolezza pre-confezionati, forniti dai mondi vitali di appartenza, che non abbiamo il tempo, la voglia o la competenza per aprire e controllare criticamente, essendo già un’impresa faticosa imparare saperi formalizzati, pratiche e professioni.12 Essi vengono tenuti insieme sino a quando le dissonanze cognitive o morali non diventano troppo stridenti, impedendo un fruttuoso “accesso alla realtà”. Si scoprono nelle società occidentali i vantaggi e gli svantaggi della modernità: da un lato la coscienza componenziale, dall’altro la coscienza aperta, che non si sente più legata alla sua collocazione nella paramount reality del mondo quotidiano. Possiamo pensarci come forniti di biografie differenti, immaginare come potremmo essere o diventare, distanziandoci dall’identità o dal ruolo attualmente ricoperti e scoprendo o attivando molti io potenziali attraverso un più accentuato dispiegamento delle if attitudes (dell’immaginare i “se…”). È necessario un Io componenziale, smontabile, che permetta simmetricamente la transizione “morbida” da un mondo vitale all’altro, evitando le crisi di disadattamento. Dobbiamo trovarci “a 176

casa” in più mondi possibili, il che equivale a dire che non dobbiamo avere una casa, che siamo homeless. Da tale punto di vista, la moltiplicazione delle sfere di realtà sembra spostare i problemi invece di risolverli. Frantumata in una pluralità di mondi vitali coesistenti e compossibili, l’husserliana Lebenswelt conduce alla fine a mondi divergenti e incongruenti, “ingovernabili”. La casa diventa però un edificio a più stanze e la “provincia dell’uomo” si estende sino a trasformarsi in un mappamondo colorato che ingloba tutti i territori separati. In Berger i mondi vitali – diversamente dall’accento posto da Husserl e da Schütz sulla loro relativa stabilità – subiscono in effetti incessanti trasformazioni, molecolari o catastrofiche, che ritraducono e riqualificano i loro contenuti e le loro forme. Siamo, di conseguenza, circondati non solo da innovazioni e ibridazioni, ma anche da simboli morti, soggetti a depotenziamento e a declassamento, che sopravvivono incapsulati nelle pieghe dei nostri mondi vitali. Questi risultano, a loro volta, percorsi da continui flussi di investimento e disinvestimento di senso, da atti di significazione e da fasi di oblio, attraversati o punteggiati da spazi o enti contigui ma non comunicanti. Sotto questo profilo, l’esperienza si presenta anche come un viaggio entro i diversi mondi della vita del quotidiano e dell’extraquotidiano, una migrazione tra sfere di senso talvolta dissonanti che inducono l’individuo a comporre da sé, con un margine sempre più ampio di discrezionalità, il proprio “piano di vita” come integrazione continua di segmenti di mondi vitali e costruzione di una identità mobile, 177

disincantata o tragica. Al pari dell’eroe omerico o del moderno protagonista dell’Ulysses di Joyce, esperire significa acquistare la competenza necessaria a distinguere, a penetrare e a capire gli innumerevoli mondi della vita (presenti e vicini, scomparsi e lontani, “reali” o “immaginari”) che vengono percorsi rispettivamente in dieci anni di peregrinazioni per mari e terre sconosciute o nell’arco di ventiquattro ore, negli anfratti o nei luoghi aperti della propria città. Analogamente ai personaggi di Beckett, in cui “il soggetto muore prima di aver raggiunto il verbo”,13 nel duplice senso che rimane sempre incompiuto (in quanto non raggiunge mai il verbo per eccellenza, l’essere, o l’azione) e che non riesce mai a completare una frase sensata, a dire qualcosa che valga la pena di esser detto: si rischia di morire senza memoria e senza coscienza, in un mondo della vita in cui l’assurdo e l’ovvio scambiano i loro ruoli, in cui si aggirano uomini ridotti a larve, a “nonio”, Not-Me, felici soltanto nell’oblio inebetito e nella negazione del mondo e dei suoi rapporti (come in Murphy o ne L’Ultimo nastro di Krapp). La teoria dei mondi vitali pone indirettamente problemi filosofici di importanza decisiva. Se si nega infatti l’esistenza di un’unica realtà e si sostiene invece che ne esistono molte, ciascuna delle quali occupa una diversa e specifica provincia di senso, si incrinano ipotesi e soluzioni che a lungo hanno legittimato i più diffusi modi di pensare e le più svariate pratiche politiche e religiose. Quando il mondo cessa di rappresentare un tutto coerente, che si articola secondo un ordine mirabile, dotato di intrinseca bellezza e razionalità 178

(quando perde cioè gli attributi che lo costituivano quale kosmos o mundus), anche le opposizioni canoniche di natura e artificio, verità come adeguamento a strutture oggettivamente vincolanti e verità come costruzione della mente, finiscono per perdere la propria ragion d’essere. L’alternativa non è inoltre più quella secca tra pluralità dei mondi e mondo al singolare, tra vite parallele e vita unica, tra identità assoluta e “uno, nessuno e centomila”, tra realismo e utopia. Tutto diventa incomparabile, incommensurabile. Senza un’unica realtà da rispettare, rispecchiare e trascendere, il solo movimento possibile risulta il passaggio “orizzontale” da un mondo vitale all’altro. Questo transito rende superflua la fatica di chi intende dimostrare che il mondo nel suo complesso procede verso una determinata direzione, squalificando indirettamente ogni ricerca di autenticità e persino la risposta – con il vocabolario di Simone Weil – al déracinement, allo “sradicamento”, mediante un nuovo enracinement o “radicamento”. La ricerca delle radici si presenta come un rimedio patetico alla dilagante impressione di perdita di un articolato e perspicuo mondo della vita, della propria dimora, perdita avvertita – di volta in volta – nichilisticamente come luttuosa o serenamente come inevitabile. Tanto Husserl quanto, in maggior misura, Schütz non procedono nella direzione di un “reincantamento” del mondo, di un salto nello straordinario o di una creazione di nicchie protette come quelle descritte dalla più attenta sociologia contemporanea, allorché individua, ad esempio, 179

nello spazio concavo e protettivo dei bar della grande metropoli un vero e proprio microcosmo, un piccolo mondo della vita, in quanto luogo di distensione e di conflitto, di attività lecita e illecita, surrogato della casa ed evasione da essa. All’interno di questo “sub-universo” di realtà valgono regole e criteri di rilevanza che altrove sarebbero impensabili: si parla più facilmente con degli sconosciuti, ci si lascia trasportare dalla casualità degli incontri, si abbordano donne e uomini, si raccontano storie incontrollabili sulla propria esistenza, leggende come proiezione di desiderio.14 Ma Husserl o Schütz non mostrano neppure atteggiamenti di disprezzo, di commiserazione o di sufficienza per la quotidianità, come accade invece nell’analisi che Heidegger compie del “si” (Man), dell’adeguarsi cioè, nella “chiacchiera”, dell’individuo all’impersonale pensare e agire di “tutti e nessuno” (come nelle locuzioni “si dice così…”, “si fa così…”). Essi non temono l’“americanizzazione del mondo”, il dominio della società di massa, sebbene – per contrasto – non siano però in grado di avvertire l’ambigua e disperata protesta dell’individualità, del “se-stesso” autentico che non si rassegna al suo tramonto nella sfera dell’anonimato. Non contrappongono l’“autenticità” dell’extra-quotidiano alla banalità dell’esistenza di tutti i giorni, né cercano di nobilitare e riconsacrare la vita attraverso una immersione nella tonalità affettiva dell’“angoscia” o della “chiamata” (voce inarticolata della coscienza che, nel silenzio, intima la scelta del definitivo). In essa la coscienza risveglia il “se-stesso” del singolo dalla sua 180

perdita nel si: “La chiamata non è mai progettata né preparata né volutamente effettuata da noi stessi. ‘Qualcuno’ chiama contro la nostra attesa e contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata non proviene certamente da un altro che sia nel mondo insieme a noi. La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me”. Questa voce inarticolata non appartiene a un altro essere che ne sia il “possessore”. È il Dasein, o “Esserci”, la realtà dell’uomo, che chiama se stesso in maniera inarticolata, senza parole, attraverso la tonalità emotiva dell’angoscia e che si ritrova soltanto nella prospettiva della distruzione finale dell’individualità: “il Chi del chiamante non è determinabile che come nulla. Esso è infatti l’Esserci nel suo spaesamento, cioè l’originario e gettato essere-nel-mondo come non-sentirsi-a-casa-propria, il nudo ‘che’ nel nulla del mondo”.15 L’oggetto del mio desiderio – il non voler essere, pirandellianamente, “nessuno”, ma “uno” e autentico – può essere conseguito non nel ricollegarmi al filo del passato, ma nell’ekstasis dell’“essere-per-la-morte”, della proiezione verso un futuro che annienterà inesorabilmente il mio io. Ossia: proprio ciò che cerco lo trovo in quanto – pur nella permanenza dell’Essere e nel variare degli enti, persone e cose – è destinato a sprofondare nell’abisso del nulla. 3. Heidegger: il disvelamento dell’Essere In Heidegger, e in particolare nel “secondo Heidegger”, la conoscenza della cosa non si presenta più come visione o giustezza della visione, quale era apparsa alla “metafisica 181

occidentale” sin da Platone, la cui teoria prelude al più tardo trasformarsi del mondo in immagine e dell’uomo in soggetto costituente e producente. Nel periodo aureo della vita greca, che si riscopre nel pensiero dei presocratici, quando ancora la metafisica non è nata, “è piuttosto l’uomo ad essere guardato dall’ente cioè dall’autoaprentesi all’esserpresente in esso raccolto. Guardato dall’ente, sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo dissidio: ecco l’essenza dell’uomo nel periodo della grandezza greca […]. L’uomo greco è [ist] in quanto percepisce l’ente; di conseguenza in Grecia il mondo non può divenire immagine. Per contro il fatto che in Platone l’entità dell’ente si definisca come eidos (aspetto, veduta), è il presupposto storico remoto, operante una lunga e nascosta mediazione, perché il mondo divenga immagine”.16 La metafisica è in realtà una fisica, un errare fra gli enti, dimenticando l’essere e la verità, che non è esattezza del rappresentare, calcolo e dominio degli enti, come nell’era della tecnica, ma disvelamento (a-letheia), e aprirsi dell’essere attraverso il linguaggio a quell’ente diverso che può comprendere l’essere e che è l’uomo. Il linguaggio è la “casa dell’essere”,17 il luogo dove l’essere si rivela a chi gli si abbandona e verso cui da sempre “siamo in cammino”, il rapporto di tutti i rapporti che non è solo comunicazione: “Il linguaggio è il recinto (templum), cioè la casa dell’essere. L’essenza del linguaggio non si esaurisce nel significare, né è qualcosa di connesso esclusivamente a segni e a cifre. Essendo il linguaggio la casa dell’essere, possiamo accedere all’ente solo passando costantemente per questa casa. Se 182

andiamo alla fontana, se attraversiamo un bosco, attraversiamo già sempre la parola “fontana”, la parola “bosco”, anche se non pronunciamo queste parole e non ci riferiamo a nulla di linguistico […]. Se mai in qualche luogo, è unicamente in questa regione che potrà avvenire quel rivolgimento del dominio degli oggetti e della loro rappresentazione nel più interiore del cuore”.18 Dal predominio del vedere della metafisica classica si passa, nel pensiero “ultrametafisico”, che comincia ad aprirsi faticosamente un sentiero e di cui Heidegger si fa il banditore, al predominio del sentire e del parlare (si compie a ritroso, si direbbe, quel passaggio dalla prevalenza del senso dell’udito a quello della vista che molti studiosi hanno esaminato per la fase di transizione in Grecia dalla cultura orale alla civiltà della scrittura). Il trapasso dalla metafisica, dall’oblio dell’essere, al pensiero successivo – che avviene spezzando i nessi sintattici del linguaggio, rendendolo più sensibile alla voce dell’essere, frugando nelle sue pieghe e rivelandone le stratificazioni – non è breve. Il riappropriarsi nel linguaggio del senso dell’essere, dei significati, durerà quanto la metafisica stessa (un tempo assai lungo, visto che la metafisica copre l’epoca fra Platone e Nietzsche) e sarà opera dell’essere: “La metafisica non si lascia metter da parte come una opinione. Non si può lasciarsela alle spalle come una dottrina a cui non si crede e che non si sostiene più. Il fatto che l’uomo si trovi, come animal rationale – e cioè, ora, come l’essere vivente che lavora – a errare attraverso i deserti della devastazione della terra potrebbe essere un segno che la metafisica accade a partire dall’essere 183

stesso, e che l’oltrepassamento della metafisica accade come accettazione-approfondimento (Verwindung) dell’essere […]. Se è così non possiamo immaginarci di esser fuori dalla metafisica solo sulla base di un presentimento del suo trapasso. La metafisica oltrepassata non scompare. Essa ritorna sotto forma diversa e mantiene il suo dominio come permanente distinzione dell’essere rispetto all’essente. Tramonto della verità dell’essere significa: l’evidenza (Offenbarkeit) dell’essente e solo dell’essente perde l’esclusività con cui finora si imponeva come criterio base”.19 In questa seconda fase della filosofia heideggeriana, successiva alla “svolta” di Hölderlin e l’essenza della poesia, l’essere diventa il centro delle sue meditazioni, mentre l’“esserci”, l’uomo, è solo il suo “pastore” (è da tali posizioni che si svilupperà in Francia nel secondo dopoguerra, in consonanza con temi strutturalistici, l’antiumanismo di Lacan, Althusser e Foucault). Le analisi di Essere e tempo sull’angoscia, la deiezione, l’esistenza inautentica e quella autentica, la quotidianità e il conformismo vissuti come rifugio che ottunde dinanzi alla scelta significante dell’essere-per-la-morte, la finitezza e la temporalità dell’esserci (che influiranno invece in maniera determinante su Sartre, Binswanger e le varie correnti “esistenzialistiche”): tutto ciò sembra completamente dimenticato o agire debolmente. Viene invece ulteriormente approfondito un problema toccato in Essere e tempo, quello della manipolazione delle cose, della tecnica e dell’essenza delle scienze della natura. La tecnica moderna, che sorge 184

appunto nell’“epoca dell’immagine del mondo”, non è soltanto un semplice sapere strumentale, ma un modo in cui la verità si disvela, una forma di manifestazione dell’essere in cui le risorse e le energie naturali vengono piegate all’utilità umana: “Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una provocazione (Herausforderung) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumuliamo”.20 Il fine è la massima utilizzazione al minimo costo delle energie della natura messe allo scoperto, trasformate, immagazzinate, ripartite, commutate (tutti modi del disvelamento). La natura stessa è finalizzata a un progetto umano e in esso inserita: “La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale”.21 Nel sussumere la natura entro le finalità umane si forma una grande corrente di interdipendenze che coinvolge uomini e cose: “La guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall’industria del legname, che lo sappia o no. Egli è impiegato al fine di assicurare l’impiegabilità della cellulosa, la quale a sua volta è provocata dalla domanda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate. Questi, a loro 185

volta, spingono (stellen) il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire ‘impiegabile’ per la costruzione della ‘pubblica opinione’ costruita su commissione (bestellte)”.22 Ma la tecnica moderna, in quanto disvelamento della verità, non è tuttavia un operare meramente umano. È l’essere che manifesta all’uomo la natura come “insieme di forze calcolabili”. L’essere si rivela però anche in altre forme e il pericolo consiste nello spacciare la tecnica come l’unico modo del disvelamento e nel non intendere la sua essenza, che non ha nulla di tecnico. Il volere, espresso nella tecnica e nelle sue necessarie conseguenze (lo “Stato totalitario”, la separazione dell’uomo in quanto soggetto e del mondo in quanto oggetto, la formazione di un mercato mondiale che “tien mercato nella stessa essenza dell’essere”), dispone integralmente della natura e dell’uomo: “Per questo volere, tutto diviene forzatamente – sin dall’inizio e quindi in seguito – materiale della produzione autoimponentesi. La Terra e la sua atmosfera divengono materie prime. L’uomo stesso diviene materiale umano, impiegato secondo scopi prestabiliti. L’organizzazione incondizionata dell’imposizione integrale della produzione progettata di tutto secondo i voleri dell’uomo è un processo che scaturisce dall’essenza ancora nascosta della tecnica”.23 Non c’è in Heidegger solo la nostalgia per il mondo contadino o per i suoi boschi della Selva Nera, il rimpianto per quelle “cose, un tempo cresciute nella calma” e che oggi scompaiono rapidamente sostituite, per una sorta di legge di 186

Gresham, da “pseudo-cose, aggeggi per vivere”, ma la consapevolezza (comune a tutta la cultura tedesca di quest’epoca, compresi gli avversari di Heidegger, come il Lukács di Storia e coscienza di classe, Bloch e Adorno) che una civiltà basata sullo sfruttamento della natura e dell’uomo, in cui la tecnica è al servizio di un potere manipolante, non può essere tollerata ancora a lungo. C’è, in sostanza, il rifiuto della weberiana “gabbia di acciaio” e il tentativo di uscirne mediante l’indebolimento dell’essenza del pensiero tecnico e metafisico e l’attivazione di un “pensiero rammemorante”, filosofico-poetico, che passa attraverso la ricerca di un supplemento di senso nella densità del linguaggio. In tal modo, anche ciò che è più semplice e ovvio, le cose che ci circondano, comincia a parlare diversamente. Consideriamo (dice Heidegger, riprendendo un esempio di Cartesio, di Simmel e di Bloch)24 una brocca. Essa si presenta fisicamente come un recipiente con un fondo, una parete e un’ansa. Per il pensiero tecnico scientifico, che pretende di cogliere le cose prima e meglio di ogni altra esperienza, la brocca è il risultato della produzione di un vasaio e il suo vuoto è pieno d’aria. E così – a prescindere da possibili misurazioni o analisi della forma e del materiale – si crede di aver esaurito l’argomento. Ma il vuoto della brocca è un contenere quanto si deve versare (schenken), è un dono e un’offerta (Geschenk). In essa si condensa il “quadrato” del mondo (cielo e terra, uomini e dèi: è un concetto platonico, cfr. Platone, Gorgia, 507-508): “Nell’acqua che viene offerta permane (weilt) la sorgente. Nella sorgente permane la 187

roccia, e in questa il pesante sonnecchiare della terra, che riceve la pioggia e la rugiada del cielo. Nell’acqua della sorgente permangono le nozze di cielo e terra. Questo sposalizio permane nel vino, che ci è dato dal frutto della vite, nel quale la forza nutritiva della terra e il sole del cielo si alleano e si congiungono […]. L’offerta del versare dà da bere ai mortali. Essa calma la loro sete. Anima il loro riposo. Rallegra le loro riunioni. Ma l’offerta della brocca viene talvolta offerta anche in consacrazione. Se il versare ha questo senso di consacrazione, esso non calma una sete. Esso quieta la festosità della festa solennizzandola. In questo caso, l’offerta del versare non avviene in una osteria, né l’offerta è una bevanda per i mortali. Ciò che è versato è la bevanda offerta agli dèi immortali”.25 A prescindere da alcuni fastidiosi giochi linguistici e concettuali, il significato del discorso heideggeriano è che le cose hanno una pluralità di sensi, incorporano relazioni sociali e naturali, assorbono una patina mitica, un valore simbolico che non è riducibile al valore d’uso o a schemi conoscitivi. Nella bruna brocca di Franconia, su cui è rappresentato un uomo barbuto, Bloch aveva cercato il segno della storia e della tradizione popolare: vi aveva individuato l’immagine delle brocche romane di poco prezzo usate dai legionari, soldatesche, rese poi nordicamente rozze,26 le insegne delle osterie (quelle dei vivi e quelle, secondo le favole, dei morti) con il selvaggio barbuto. Heidegger invece – al pari del Bachelard della Psicoanalisi del fuoco o de La fiamma di una candela – cerca nelle cose che ci sono familiari i significati rimossi 188

dall’incalzare del pensiero tecnico-scientifico e che si conservano, latenti e indeboliti, nel mito (i valori simbolici del fuoco, il piacere di guardarlo, il suo calore diverso rispetto al termosifone). Non si tratta però di ritrovare gli oggetti così come essi appaiono nell’oblio, quali oggetti desueti, ormai inservibili, non funzionali, com’è l’Odradek di Kafka nell’interpretazione di Walter Benjamin27: Odradek, che a tutta prima “si presenta come un rocchetto piatto, a forma di stella, e sembra avere intorno del filo”, che può stare “a seconda dei casi, in soffitta, per le scale, nei corridoi, nell’andito”, che a volte “si rende invisibile per mesi, forse è passato in altre case; ma invariabilmente torna da noi”, è ciò che ha perduto il suo senso eppure resiste ancora, ha una sua testarda durata (è la figura stessa del “padre di famiglia” per Kafka?): “Invano mi domando cosa sarà di lui. Può morire? Tutto quello che muore, ha avuto uno scopo, una attività che l’hanno logorato; ma non è il caso di Odradek. O non dovrà, per caso, un giorno rotolare ancora dalla scala, dinanzi ai piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli, trascinando un pezzetto di filo? È evidente che non nuoce a nessuno: eppure quasi mi fa male, l’idea che mi debba sopravvivere”.28 Per Heidegger bisogna, al contrario, sottrarre le cose dall’oblio della metafisica, farle aprire nuovamente a un dialogo, dar voce alla loro alterità, rifondarne il senso, renderle, attraverso il linguaggio, crocevia di relazioni, supporti di una diversa possibile esperienza non manipolata. 4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo 189

Al pari delle ultime ricerche di Heidegger, tutta la filosofia di Wittgenstein ruota sul linguaggio e sul rapporto linguaggio-mondo. Nel Tractatus logico-philosophicus (in cui confluiscono in modo originale i risultati delle riflessioni sull’opera di Frege, di Russell, di Whitehead, di Moore) il mondo è “la totalità dei fatti”, che sono costituiti da altri fatti elementari o “stati di cose”, i quali, a loro volta, son formati da oggetti, enti, cose, non ulteriormente scomponibili. Il linguaggio è la totalità delle proposizioni e la proposizione è la raffigurazione di uno stato di cose che – qualora la proposizione sia sensata e non abbia esclusivamente un carattere logico – ha in comune con lo stato di cose la relazione strutturale, una delle possibili forme di combinazione degli oggetti. Esiste quindi un isomorfismo tra linguaggio e mondo e la forma persiste attraverso possibili trasformazioni e proiezioni: “Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, tutti stan l’uno all’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. A essi tutti è comune la struttura logica […]. Nell’esservi una regola generale – mediante la quale il musicista può ricavare dalla partitura la sinfonia; mediante la quale si può derivare dal solco del disco la sinfonia e di nuovo, secondo la prima regola, la partitura – appunto in ciò consiste l’ulteriore somiglianza di queste conformazioni, apparentemente tanto diverse. E questa regola è la legge della proiezione, la legge che proietta la sinfonia nel linguaggio delle note. Essa è la regola della traduzione delle note nel linguaggio del disco fonografico”.29 190

Il linguaggio è quindi simile a una “grafia geroglifica, che raffigura i fatti che descrive”30 e che si conserva tale, in senso raffigurativo, anche quando diventa alfabetica. Le immagini però non sono la copia di un fatto, ma un fatto esse stesse. I fatti sono indipendenti l’uno dall’altro, per cui non solo ogni induzione è impossibile, ma anche “la credenza nel nesso causale è la superstizione”.31 Dalla sfera dei fatti, della mera esistenza, a quella della logica non c’è passaggio. Le proposizioni della logica, così come quelle della matematica, sono bensì necessarie – mentre “fuori della logica tutto è accidente” –,32 ma solo perché sono tautologiche, non dicono nulla del mondo. L’enunciato “Piove o non piove” è incondizionatamente vero, mentre un enunciato che contiene una contraddizione logica (ad esempio: “Tutti gli scapoli sono sposati”) è incondizionatamente falso. Ma né la forma logica del linguaggio, né il suo isomorfismo con il mondo sono esprimibili. È possibile solo mostrarli, quali condizioni formalmente necessarie al nostro linguaggio, un linguaggio di cui non possiamo trascendere i limiti. Esiste quindi l’ineffabile, il “mistico”, ciò che va al di là dei fatti (che riguardano unicamente come il mondo è): “Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è”.33 Di questo non si può dir nulla e, secondo la famosa proposizione conclusiva del Tractatus, “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ma al di qua del “mistico” noi abbiamo non solo il dovere di parlare, ma di parlare correttamente. Invece succede che ci impigliamo nelle regole del nostro stesso linguaggio, ci confondiamo e formuliamo proposizioni che non sono 191

significanti. Ossia, afferma Wittgenstein (che sviluppa qui una distinzione tradizionale: tra verità di ragione e verità di fatto in Leibniz, tra relazioni fra idee e relazioni fra fatti in Hume e tra giudizi analitici e giudizi sintetici in Kant), proposizioni che non sono né tautologiche, né empiricamente verificabili. La filosofia diventa, in queste condizioni, un’attività che ha per compito quello di perimetrare l’area del linguaggio significante e di chiarificare la logica del pensiero, eliminando le espressioni confuse e senza senso. Dopo la pubblicazione del Tractatus, Wittgenstein – che credeva di non aver più niente da dire, di aver attinto i confini del suo linguaggio e del suo mondo – si chiuse coerentemente in un lungo silenzio filosofico, lavorando per anni come maestro elementare, architetto e, per alcuni mesi, anche come aiuto-giardiniere in un convento. Ma, poi, proprio la sua attività fra i bambini e le discussioni con il logico inglese Ramsey lo convinsero a modificare il suo precedente impianto teorico di spiegazione del linguaggio e del suo rapporto con il mondo. L’insegnamento in una scuola elementare lo indusse a riscoprire il linguaggio ordinario nei suoi più semplici meccanismi d’apprendimento e d’uso, mentre le innumerevoli conversazioni con Ramsey gli rivelarono come il linguaggio fosse pragmaticamente connesso a contesti extra-linguistici di comportamento, di credenze, di aspettative. A partire dalle Osservazioni filosofiche del 1929-30, Wittgenstein sgancia la sua analisi dalla ricerca di un linguaggio in se stesso perfettamente significativo e si rivolge allo studio dei 192

“giochi linguistici”, delle diverse pratiche linguistiche, apprese per consuetudine o addestramento e organizzate secondo regole flessibili, che conservano attorno a sé un alone di indeterminatezza, ma che sono declinabili in un numero virtualmente infinito di modi. Nelle Ricerche filosofiche, in particolare, egli cerca di distinguere i diversi giochi linguistici (ad esempio: “Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova – Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – Inventare una storia; e leggerla – Recitare in teatro – Cantare in girotondo – Sciogliere indovinelli – Fare una battuta; raccontarla – Risolvere un problema di aritmetica applicata – Tradurre da una lingua in un’altra – Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare”)34 senza ridurli a una mitica unità, ma vedendoli come semplicemente legati da somiglianze: “Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base alla quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti ‘linguaggi’ ”.35 Attraverso un’indagine volutamente umile, circoscritta spesso nell’ambito del quotidiano, nell’esame delle situazioni concrete della vita associata, Wittgenstein rifiuta l’esistenza di una logica rigida ed esatta, quasi un distillato del nostro linguaggio o una regola di tutte le regole, un “superordine” capace di sussumere tutti gli ordini. Se il linguaggio non è infatti un tutto omogeneo; e se il 193

denominare – “quasi un battesimo dell’oggetto”36 – non è una sua funzione esclusiva; se il significato non è naturalisticamente e occultamente inchiodato al segno, né esprime l’essenza dell’oggetto (ma è in relazione con un gioco linguistico, una pratica sociale, una “forma di vita”), allora la logica non è qualcosa che si nasconda dietro il linguaggio, il suo fondamento, quasi la piattaforma di questo continente, ma una serie di paradigmi, di modelli grammaticali fra loro imparentati e immanenti ai giochi linguistici. Per questo nella logica non c’è niente da costruire, né niente di nuovo da apprendere, perché tutto è già davanti ai nostri occhi (anche Hegel diceva, con tutt’altra prospettiva, che si trattava appunto di conoscere quel che era noto). Ma senza una logica compatta ogni ragionamento non perde forse il suo rigore? No, perché quello della “purezza cristallina” della logica è un pregiudizio che “può essere eliminato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni. (Si potrebbe dire: La considerazione dev’essere rotata, ma attorno al perno del nostro reale bisogno)”.37 E il nostro reale bisogno varia con le nostre esigenze, secondo lo scopo che ci prefiggiamo. Possiamo così normalmente accontentarci di un certo margine di incertezza, ma vi sono situazioni in cui si richiede maggior precisione e allora nasce l’esigenza dell’esattezza, della precisione, della logica. Ma: “ ‘Inesatto’ è propriamente un rimprovero, ed ‘esatto’ una lode. E questo vuol dire: ciò che è inesatto non raggiunge il suo scopo così perfettamente come ciò che è più esatto. Dunque tutto dipende da ciò che chiamiamo ‘lo scopo’ ”.38 194

Spingendoci troppo avanti in questa esigenza di rigore, di esattezza, feticizzandola, giungiamo alla logica pura, essenzialistica, quella che incanta il nostro intelletto e lo induce in errore: “Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.39 Se la logica non è più separabile dalle regole di una molteplicità di giochi linguistici, se il linguaggio ordinario non è principio separato da quello scientifico, neppure i dati osservativi sono divisibili dal pensiero. Attraverso una suggestiva riflessione su temi gestaltistici (che sarà appunto ripresa in funzione anti-neopositivistica da Hanson e Toulmin), Wittgenstein mostra come non esista una “immacolata percezione”, neutra e puramente passiva, come la relazione fra la cosa e lo sguardo non sia cioè analoga a quella fra l’originale e la copia, ma come nel percepire ci sia un “pensiero che echeggia nel vedere”,40 un vedere sempre carico di teoria. 5. Sartre: lo sguardo dell’altro In Sartre la tematica psicologistica francese (da Ribot a Janet sino a Bergson) e gli apporti della fenomenologia husserliana e del primo Heidegger, incontrandosi con le filosofie di Hegel e di Marx, danno luogo a uno degli innesti culturali più rappresentativi di questo secolo. La scoperta di Husserl della coscienza come “residuo” irriducibile, 195

trascendente, non reificabile, viene relativizzata. Sartre, che ha seguito a Parigi le lezioni di Kojève sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel – in particolare sulla “lotta per il riconoscimento” e sul rapporto signoria-servitù –, introduce nell’ambito della coscienza e della visione un elemento conflittuale. Solo un’altra coscienza, lo sguardo di un altro individuo, può reificare la coscienza, può solidificarne il flusso. Pur senza aver seguito i corsi di Kojève, una posizione analoga ma più radicale avrà Simone Weil. L’Iliade ovvero il poema della forza è un saggio esemplare in cui si esamina, da un’altra angolatura, il tema in lei ricorrente del dominio della necessità e dell’oppressione che rende la libertà umana prigioniera di insormontabili condizionamenti. Quale protagonista senza volto degli eventi narrati, Omero – equanime nei confronti dei vincitori e dei vinti – mette appunto in scena la forza stessa, “ciò che fa di chiunque le sia sottomesso una cosa”. Ma alla fine tra chi è in grado di infliggere la morte agli altri, credendosi con ciò libero, e chi invece subisce la morte, trasformandosi in cosa, in cadavere, non vi è differenza. Achille (che “sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, tanto naturalmente come si recidono i fiori per una tomba”) non sfuggirà al destino comune della morte, unica e inesorabilie vincitrice. Sebbene ci si illuda di maneggiarla, la forza si può infatti soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere ucciso a sua volta. L’uomo si trova così sospeso tra la prospettiva reale di soccombere alla necessità biologica e il desiderio, destinato a fallire, di ergersi verso la libertà. Nell’intercapedine tra 196

queste due condizioni, testimoni involontari, si trovano coloro che conoscono l’esperienza della sventura, quanti “senza morire sono diventati delle cose per tutto il corso della loro vita”.41 Al pari di tutti gli sventurati della storia, simili in ciò agli operai delle moderne fabbriche, i Troiani sconfitti e avviati alla servitù conoscono l’essenza della forza e si rendono conto dell’impossibilità di sfuggirle. Simone Weil, che ha voluto vivere di fatto l’esistenza anonima degli sfortunati, sa per loro tramite che “il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è la sventura. Non c’è da stupirsi che degli innocenti siano stati uccisi, torturati, cacciati dal proprio paese, ridotti in miseria o in schiavitù, chiusi in campo di concentramento o in carcere, dal momento che esistono i criminali capaci di compiere tali azioni”.42 In Sartre il dominio delle cose è meno tragico, ha esiti meno letali. Nel guardare il mondo io mi abbandono a esso, mi lascio assorbire dalle cose “come l’inchiostro dalla carta assorbente”. Ma ecco che, all’improvviso, lo sguardo dell’altro mi deruba del mio mondo: io posso cogliere il verde dell’erba che vedo, ma non vedo il verde quale appare a un altro. Qualcosa mi sfugge, qualcosa di inquietante che limita la mia libertà. Sembra “che il mondo abbia come un foro di scarico, al centro del suo essere, e che esso scoli continuamente in questo buco”.43 L’altro è vissuto in Sartre sempre come antagonista, simbolo di pericolo, l’inferno, colui che, oggettivandomi a me stesso, mi rimanda a me stesso: “Ciò che provo quando sento scricchiolare i rami dietro di me, non è che vi sia qualcuno, ma che io sono 197

vulnerabile, che ho un corpo che può essere ferito, che occupo uno spazio e che non posso, in nessun caso, evadere dallo spazio in cui sono senza difesa, in breve, che sono visto. Così lo sguardo è prima di tutto un intermediario che mi rimanda da me a me stesso”.44 Se immagino di essermi messo per gelosia, interesse o vizio a guardare dal “buco di una serratura” e un altro mi sorprende, mi fa vergognare, ritornare in me, allora lo sguardo dell’altro non è che “la mia trascendenza trascesa”.45 Si rispecchia in Sartre l’esperienza di vita quotidiana delle metropoli, con i suoi metrò, i suoi autobus, le condotte di solitudine degli individui nella folla, la disintegrazione del singolo accelerata negli anni fra le due guerre, il suo essere “abbandonato sotto milioni di sguardi”. Si potrebbe dire, come uno dei protagonisti del romanzo Il rinvio, che lo sguardo dell’altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza, la testimonianza che non sono una nullità, che conto pure qualcosa: “Tu hai certamente provato, nel metrò, nel ridotto di un teatro, in treno, quella sensazione improvvisa e insopportabile d’essere spiato alle spalle. Ti volti, ma già il curioso ha riabbassato il naso sul suo libro […]. Dirti che cosa sia quello sguardo m’è cosa facilissima: perché non è nulla, è un’assenza; ecco, immagina la notte più oscura che sia possibile immaginare. È la notte che ti guarda. Ma una notte abbacinante; la notte in piena luce; la notte segreta del chiarore diurno. Io sono irrorato di luce nera […]. Che angoscia scoprire a un tratto quello sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere. Ma che riposo, anche! So infine di essere. Trasformo a mio uso 198

e per la tua più grande indignazione la parola imbecille e criminosa del vostro profeta, quel ‘penso, dunque sono’ che mi ha fatto tanto soffrire – perché più pensavo, meno mi sembrava di essere – e dico: mi si vede, dunque sono. Non ho più da sopportare la responsabilità del mio vischioso dissolvermi: colui che mi vede mi fa essere; sono come egli mi vede”.46 Più tardi, nel Santo Genet, commediante e martire (1952), la tematica dello sguardo assumerà una dimensione più direttamente sociale e politica e si preciserà come attribuzione di ruoli e funzione colpevolizzante che la società si assegna. Genet, il futuro ladro e scrittore, è figlio di N.N., viene rinchiuso in orfanotrofio e poi adottato da una famiglia di contadini. Egli non è nessuno e cerca, quasi trasognato e in gioco, di essere attraverso l’avere: “Il bambino giocava in cucina; tutto ad un tratto si è accorto della propria solitudine e l’angoscia lo ha colto, come di solito. Allora si è ‘assentato’. Una volta di più; si è immerso in una sorta di estasi. Adesso non c’è più nessuno nella stanza: una coscienza abbandonata riflette degli arnesi. Ecco che un cassetto si apre; una manina si protende… Preso con le mani nel sacco: è entrato qualcuno e lo guarda. Sotto questo sguardo il bambino torna in sé. Non era ancora nessuno, diventa improvvisamente Jean Genet […]. Una voce dichiara pubblicamente: ‘Tu sei un ladro’. Ha dieci anni”.47 La società lo ha oggettivato e catalogato, trasformando un bambino in mostro. Complementare allo sguardo, alla percezione oggettivante, è il tema dell’immaginazione. L’immagine non 199

è un piccolo simulacro della cosa percepita, ma è husserlianamente un modo diverso di intenzionare lo stesso oggetto della percezione. In quale aspetto se ne differenzia, allora? “Consideriamo questo foglio di carta, posato sul tavolo. Più lo guardiamo, più ci rivela le sue particolarità. Ogni orientamento nuovo della mia attenzione, della mia analisi, mi fa scoprire un particolare nuovo: l’orlo superiore del foglio è leggermente rialzato; alla terza riga, la linea continua finisce con l’essere soltanto punteggiata… ecc. Ora, io posso tenere sotto il mio sguardo un’immagine per tutto il tempo che voglio: non potrò mai trovarvi altro che quel che vi ho messo.”48 L’oggetto percepito si presenta inoltre in una infinità di scorci, mentre l’immagine è unica e povera. L’atto dell’immaginazione parte da un’assenza, da una lacuna reale avvertita nel mondo, che cerca di colmare attraverso un’operazione magica, di evocazione: “È un incantesimo destinato a far apparire l’oggetto pensato, la cosa desiderata, in modo che se ne possa prender possesso. In tale atto, c’è sempre qualcosa di imperioso e di infantile, un rifiuto di tener conto della distanza, delle difficoltà. Così il bimbo, dal suo letto, agisce sul mondo per mezzo di ordini e di preghiere. A questi ordini della coscienza gli oggetti obbediscono: appaiono”.49 Attraverso l’immaginazione introduco il nulla nel mondo: il mondo dell’immaginario è un nulla posto come essere o un essere posto come nulla. L’immaginazione non è una ricucitura di brandelli tratti dalla realtà percettiva, ma una regione in cui vedo le falle del reale e cerco di chiuderle mediante il desiderio: 200

“l’apparizione di un amico morto come reale avviene sullo sfondo d’apprensione affettiva del reale come mondo vuoto di questo punto di vista”.50 L’immaginario mi apre quindi spiragli di libertà, mi permette di vedere i vuoti sullo sfondo della pienezza del reale, di individuare le possibilità di cambiarlo. Mi pone di fronte all’angoscia della mia libertà come autodeterminazione e mancanza di fondamento ontologico. Nel periodo “esistenzialistico” della produzione di Sartre, l’individuo è solo dinanzi alle sue scelte, isolato in un universo sociale essenzialmente ostile. In seguito, quando l’impegno politico si fa più diretto (con l’opposizione allo stalinismo e al colonialismo) e più deciso l’accostamento al pensiero di Marx, Sartre tenterà una mediazione tra individuo e società, senza tuttavia presupporre soluzioni armoniche. Con Stalin il marxismo si è irrigidito e pietrificato, è diventato burocratico e oppressivo nella pratica e catechistico e volontaristico nella teoria. Nel suo idealismo, che pretende di adeguare a priori la realtà a uno schema dottrinale, lo stalinismo è violenza sulla verità e sull’esperienza concreta: “La metropolitana di Budapest era reale nella testa di Rákosi; se il sottosuolo di Budapest non permetteva di costruirla, ciò significava che il sottosuolo di Budapest era controrivoluzionario […]. Per anni l’intellettuale marxista ha creduto di servire il proprio partito violando l’esperienza, trascurando i particolari imbarazzanti, semplificando grossolanamente i dati e soprattutto concettualizzando l’avvenimento prima di averlo studiato”.51 In quest’ottica la concretezza e l’individualità 201

reale viene dissolta in un “bagno di acido solforico” e quel che rimane, l’universalità vuota, viene spacciata per marxismo ortodosso. Ma il marxismo non è morto. Anzi, poiché hegelianamente una sola filosofia è viva in ciascuna epoca, oggi è il marxismo a rappresentare per il Sartre degli anni cinquanta e sessanta l’orizzonte di massima intellegibilità dei problemi contemporanei. Ma per diventare veramente vitale, per eliminare le incrostazioni staliniste, esso deve misurarsi nuovamente col concreto e con la dinamica innovativa della soggettività; deve, in altri termini, inglobare l’esistenzialismo, espungendone così le chiusure esasperatamente individualistiche e privatistiche. È quindi necessaria una ricognizione delle forme di vita del presente, dell’intreccio fra attività umana e materia, della “penuria” che condiziona l’esistenza di tutti e impedisce alla maggior parte del genere umano di soddisfare i più elementari bisogni di cibo e di salute, della compresenza esteriore o della solidarietà sostanziale che si forma tra i singoli partecipanti a una stessa esperienza, della “controfinalità” per cui un determinato progetto produce effetti opposti a quelli previsti ecc. Anche qui c’è, all’interno di un più vasto impianto teorico e storico, una penetrante fenomenologia della vita quotidiana, in particolare delle grandi città. L’attività umana si materializza sempre in cose, in istituzioni, che a loro volta retroagiscono sugli individui raggruppandoli, dividendoli, aggiungendo o togliendo loro potere, sottoponendoli a regole o a pressioni: “Mi basta aprire la finestra: vedo una chiesa, una banca, un caffè: ecco tre collettivi; questo 202

biglietto da mille franchi è un altro collettivo; un altro ancora il giornale che ho appena comperato”.52 Non vi è praxis che non si oggettivi, né relazione umana che non venga filtrata dalla materialità, che talvolta contagia con la sua inerzia, col peso di tutto il passato di azioni altrui ivi rappreso, ogni individuo (anche se questo non vuol dire, come appare dalla minuziosa ricostruzione della vita e dell’opera di Flaubert ne L’idiota della famiglia, che il singolo sia da essa meccanicamente determinato). Gli oggetti, socialmente mediati, ad esempio l’“autobus delle 7 e 49”, riuniscono una serie di individui, estranei gli uni agli altri, radunati soltanto dalla funzione materializzata, in questo caso dall’attesa della “vettura che apparirà all’angolo del boulevard”.53 Unicamente in situazioni eccezionali, come nella presa della Bastiglia o nell’assalto al Palazzo d’Inverno, gli uomini ritrovano insieme la capacità di cambiare e di sottrarsi all’inerzia, ritrovano la solidarietà e diventano “gruppo”. Ma questi momenti “al calor bianco”, questi attimi di creazione collettiva di storia, non durano a lungo e l’inerzia riprende il sopravvento: la burocrazia si insedia sulle conquiste rivoluzionarie e le masse, spossate e private del potere, ritornano passive: il gruppo si degrada nuovamente a serie. 6. Laing e Bateson: gli inestricabili nodi Tutti questi temi sartriani hanno avuto risonanza anche al di fuori dell’ambito filosofico: ne Il negro e l’altro di Frantz Fanon e ne Il caso di Peter (contenuto ne L’io diviso) di 203

Laing, per quanto riguarda l’oggettivazione attraverso lo sguardo; in Laing, Cooper, Esterson, e in generale nel movimento dell’“anti-psichiatria” anglosassone per quanto riguarda l’eziologia familiare della schizofrenia (e, più in generale, il carattere patogeno delle istituzioni sociali), in cui giocano le categorie sartriane di “identità alterata”, “malafede”, “serializzazione” e “gruppo familiare” (Laing e Cooper hanno d’altronde scritto un libro su Sartre, Ragione e violenza). È interessante notare come la problematica esistenzialistica, che aveva acuminato l’intelligenza più desta negli anni fra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, fornisca ora strumenti alla politica dei paesi excoloniali e alla psichiatria, continuando cioè ad agire dove l’uomo è più devastato. È, appunto, il concetto di “identità alterata” a fornire a Laing e a Esterson la chiave principale per interpretare la schizofrenia. L’Altro, di cui interiorizzo il giudizio, incrina l’asse su cui imposto la mia identità, l’immagine “portante” che ho di me stesso e che mi sostiene nel mio proprio progetto di esistenza, per lo più implicito.54 Qualora il disorientamento prodotto dall’alterazione dell’identità sia così squilibrante da costringermi a dubitare radicalmente di me stesso, da introdurre un cuneo tra i miei pensieri, percezioni, sentimenti e quelli che gli altri mi attribuiscono, ecco che può sorgere la follia. Prendiamo un esempio, tra i tanti analizzati. All’interno della famiglia Danzig, la giovane Sara – a partire dall’età di diciasette anni – comincia a dare segni di stranezza: sta tutto il giorno a letto, per poi leggere la Bibbia durante la notte. Tale atteggiamento, in apparenza 204

incomprensibile e assurdo, svela alla fine il significato dei sintomi, ossia l’espressione della sua combattuta ostilità nei confronti del padre, in precedenza idealizzato. La dichiarata scoperta che egli non è affatto l’uomo di specchiata e scrupolosa onestà in cui aveva creduto, provoca la colpevolizzazione della ragazza da parte dei familiari, che possono invece, impunemente e senza rimorsi, dire male di lui. Il fratello John è anzi incoraggiato dalla madre a vedere il padre “come è in realtà” (ossia a criticarlo aspramente), mentre a Sara questo comportamento viene rigorosamente interdetto. La ragazza è caduta, senza sapere più come uscirne, nella vischiosa ragnatela di perverse alleanze familiari, di astiose recriminazioni reciproche, restando però comunque isolata, esclusa da tutte le combinazioni, contraddetta, fuori gioco. Cercando di dare un senso alla sua “sconcertante” situazione – alla scoperta che i familiari osservano una “doppia morale” e considerano ufficialmente falso quel che sostengono poi, in privato, essere vero –, si smarrisce e si perde nella malattia. La follia è una fuga in cerca di soluzioni, è “la strategia speciale che una persona inventa allo scopo di vivere in una situazione in cui non può vivere”. Il malato mentale appare così come un “esule dall’Essere”,55 un viaggiatore che si è inoltrato più a fondo di altri in territori inesplorati, da cui molti si ritraggono con paura. Perché generalmente ci si nasconde che la vita può essere tremenda, crudele, senza senso, ineffabilmente dolorosa. Laing, che ha lavorato a lungo negli ospedali, porta alcune testimonianze sconvolgenti delle sue esperienze cliniche. La prima illustra 205

la fragilità di una esistenza indifesa, assalita da cieca e divorante forza distruttiva: “Aveva dieci anni ed era affetto da idrocefalia, dovuta a un tumore inoperabile delle dimensioni di un minuscolo pisellino, proprio al posto giusto per arrestare il deflusso dalla testa del liquido cerebro-spinale, il che è come dire che aveva dell’acqua nel cervello che gli faceva scoppiare la testa, tanto che il cervello si riduceva sempre più a un sottile strato esterno, e ciò accadeva anche delle ossa del cranio. Soffriva senza rimedio […]. Aveva cominciato a leggere Il circolo Pickwick. Mi disse che tutto quello che chiedeva a Dio era che gli fosse consentito di finire questo libro prima di morire. Morì prima di arrivare a metà”.56 La seconda tocca il puro orrore del vivere: “Stavamo assistendo alla nascita di un bambino e le cose si protrassero per sedici ore. Finalmente incominciò a venire fuori, grigio, freddo… uscì… un grosso ranocchio umano, un mostro anencefalico, senza collo, senza testa, con occhi, naso, bocca di rana, lunghe braccia… Lo avvolgemmo in carta di giornale… e con questo involto sotto il braccio, per portarlo al laboratorio di patologia, che sembrava invocare tutte le possibili domande che mi ero posto, due ore più tardi camminavo per O’ Connell Street. Avevo bisogno di bere qualcosa. Entrai in un bar e appoggiai l’involto sul banco. E improvvisamente mi venne il desiderio di toglierlo dalla carta, di tenerlo alto perché tutti lo vedessero, spaventosa testa di Gorgone da pietrificare il mondo”.57 Da questo abisso, quasi per dimenticarlo, sorgono le modalità di addomesticamento dell’angoscia, della 206

“insicurezza ontologica” che tutti attanaglia: legami personali contorti, simmetrie e asimmetrie nei rapporti umani, proiezioni allucinatorie dell’immagine di sé e degli altri, prigioni psichiche mortificanti, trappole banali ma ineludibili di cui l’esistenza è piena. I conflitti stessi diventano, paradossalmente, tanto più inestricabili, quanto più mirano a un “sistema del falso io”, a una “normalità” imposta, di facciata: “Maria pensa che Giovanni è meschino e incontentabile / Giovanni pensa che Maria è meschina e incontentabile / più Maria ritiene che Giovanni è meschino / più Giovanni ritiene che Maria è incontentabile / più Giovanni ritiene che Maria è incontentabile / più Giovanni ritiene che Maria è meschina”.58 Difficile, sempre, è mantenere la coesione armonica delle relazioni interpersonali, stabilendo regole di condotta che non portino a vicoli ciechi o che non implodano. Come mostra l’antropologia e la “nuova teoria della comunicazione” – Bateson, Goffmann, Watzlawick, Hall –, le norme sono sempre insidiate da interne tendenze “scismogenetiche”, da un movimento quasi tettonico di differenziazione che tende a sgretolarle, a trasmetterle distorte, a invalidarle, a porle in contraddizione con se stesse, a stabilire rapporti di “doppio vincolo” (double bind, ossia situazioni senza via d’uscita, che riproducono il conflitto, come nel caso dell’alcolizzato che, dopo aver ingiunto solennemente a se stesso di non bere più, raggiunge infine una tensione psichica intollerabile, tale da farlo ricadere nell’atto che voleva evitare, tranne poi pentirsi con altrettanta forza e ricominciare da capo il ciclo). Alcune 207

società come quella balinese, esaminata da Gregory Bateson e da Margaret Mead,59 sono tuttavia in grado, mediante un addestramento che parte dall’infanzia, di congelare i conflitti a un determinato stadio, eludendo l’alternativa tra logos e polemos. Le madri, nel trattare i loro figli, alternano infatti – con mutamenti improvvisi e inspiegati – la più dolce tenerezza alla più marmorea indifferenza, le calde carezze alla glaciale distanza. Questa sorta di doccia scozzese psichica disorienta i bambini e disattiva la loro partecipazione emotiva ai comportamenti altrui, abituandoli a non sentire né forti ostilità, né forti attaccamenti. In questo modo i conflitti naturalmente permangono, ma non si cerca per loro né una soluzione ragionevole, né una soluzione violenta. Si accantonano semplicemente i contenziosi, delegandoli a un arbitro esterno: ad altri ragazzi, a maggiorenti locali o, sino all’occupazione giapponese del 1941, al povero governatore britannico, costretto a dirimere le più spinose liti tra i notabili. Dal doppio vincolo si può uscire solo in maniera inventiva, riquadrando le situazioni, creando strumenti in grado di spezzarlo, ossia di sbloccare o aggirare sbarramenti che sembrano normalmente insormontabili. Esempio efficace di riquadramento è quello espresso in un aneddoto reso celebre tra gli psicologi da Watzlawick. A un ufficiale giunge il comando di far sgombrare la piazza durante una rivolta. Si reca così sul luogo e proclama: “Signore e signori, ho ricevuto l’ordine di sparare sulla canaglia. Ma, siccome vedo dinanzi a me molti cittadini onesti e rispettabili, chiedo loro di andarsene in modo da poter sparare senza rischio 208

sulla canaglia”.60 Il change, l’innovazione, è un atto di audacia, che scardina un sistema chiuso o riformula una situazione fossilizzata e piena di tensioni. La teoria del doppio vincolo, che “si occupa della componente di esperienza dei grovigli che si formano nelle regole o premesse dell’abitudine”, permette di sciogliere questi nodi promuovendo la loro “trans-contestualizzazione”, ossia l’abbandono delle posizioni assunte entro una cornice che ne rendeva impossibile lo sblocco.61 7. Merleau-Ponty: la tovaglia bianca L’attenzione e, si direbbe, l’ossessione del vedere, della spazialità, della corporeità, che costituivano uno degli aspetti della fenomenologia husserliana, vengono enfatizzati in alcuni settori della cultura francese, anche come reazione al privilegio accordato da Bergson e dallo spiritualismo alla temporalità e all’interiorità. Ci si accorge che la res extensa non è separabile dalla res cogitans, né rappresenta, di per se stessa, un male, un disvalore; che il corpo non è la prigione dell’anima, ma, al contrario, è “l’anima, prigione del corpo”.62 A questa tendenza appartengono, a diverso titolo, Merleau-Ponty e Foucault. In Maurice Merleau-Ponty, amico e collaboratore di Sartre nella direzione della rivista “Temps modernes”, c’è lo sforzo di restituire, attraverso l’esame della corporeità e delle sue relazioni, una rinnovata freschezza alla vita percettiva, una profondità di campo e una pluralità di sensi che il riduttivismo di stampo meccanicistico e naturalistico le hanno fatto perdere. 209

Guardare diversamente, guardare più a fondo, scoprire l’intersezione dei corpi, delle forme, dei colori, al di fuori della banalità dell’abitudine: a tutto questo dà accesso la Fenomenologia della percezione. Ma anche l’arte ci permette questo affondo, come appare nel breve e denso saggio Il dubbio di Cézanne. Il pittore racconta di aver desiderato per tutta la vita di dipingere ciò che Balzac aveva descritto in Pelle di zigrino: una “tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fresco e sulla quale si elevavano simmetricamente le posate coronate da panini biondi”. Ma come fare? Se si recingono gli oggetti con un contenuto netto, si è fedeli alla geometria ma non al mondo visibile, in cui il contorno è il limite ideale verso cui i lati dell’oggetto fuggono in profondità. Ma non stabilire nessun contorno, avvolgere, come gli Impressionisti, gli oggetti in un “involucro luminoso”, utilizzando solo i sette colori del prisma e ottenendo la vibrazione del colore locale con l’aggiunta del suo colore complementare, vuol dire far perdere all’oggetto la pesantezza e la materialità sua propria: “Non segnare nessun contorno significherebbe togliere agli oggetti la loro identità. Segnarne uno solo, significherebbe sacrificare la profondità ossia la dimensione che ci dà la cosa, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve e come realtà inesauribile. Ecco perché Cézanne seguirà in una modulazione colorata il rigonfiamento dell’oggetto e segnerà a tratti turchini parecchi contorni. Lo sguardo, rinviato dall’uno all’altro, avverte un contorno nascente tra loro tutti come fa nella percezione”.63 Non si può, inoltre, fare più affidamento alla prospettiva 210

geometrica o fotografica, perché nella percezione reale “gli oggetti vicini sembrano più piccoli, e gli oggetti lontani più grandi, di quanto non lo sembrino su una fotografia, come si può osservare al cinema quando un treno si avvicina e ingrandisce molto più rapidamente di un treno reale nelle medesime condizioni”.64 Per questo le deformazioni prospettiche nei quadri di Cézanne (la tavola sghemba con la “tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fresco”) sono meno arbitrarie di quanto si creda e vengono comunque riequilibrate nell’insieme, dando a chi le guarda “l’impressione di un ordine nascente, d’un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi”.65 Lo scopo di Merleau-Ponty è appunto quello di produrre dovunque questa impressione di “nascita prolungata” di un mondo che si stacca dalle rovine dell’ovvietà percettiva e che vuole dimenticare, assieme ai suoi condizionamenti e ai suoi schemi, anche l’inerzia del déjà vu. Tale mondo ha perso quella presunta oggettività che il pittore dovrebbe limitarsi a riprodurre in maniera mimetica, passiva, trasformandosi in una lastra fotografica casualmente impressionabile. La pittura pone bensì in contatto con il reale, con l’“Essere muto”, con il “visibile”, con l’immanenza delle cose, rivelandone però appunto l’“invisibile”, l’inafferrabile trascendenza, il “fuori” del “dentro” e il “dentro” del “fuori”. Entra in contatto con “un mondo quasi folle, perché è completo e parziale nello stesso tempo […] risveglia, porta alla sua estrema potenza un delirio che è la visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura 211

estende questo bizzarro possesso a tutti gli aspetti dell’Essere, che devono in qualche modo farsi visibili per entrare in lei”.66 Per suo tramite lo spazio racchiude e fissa il tempo nel suo fluire, differenziando, scandendo e articolando l’Essere indiviso e amorfo. Ogni quadro diventa così “una cristallizzazione del tempo, una cifra della trascendenza”.67 8. Foucault: lo sguardo del potere e le tecniche dell’io Diversa l’intenzione di Foucault nell’affrontare gli stessi temi della corporeità e della spazialità. Nella sua formazione si concentrano idee ed esperienze di varia e complessa matrice: dalla filosofia di Nietzsche, Heidegger, Bataille, Blanchot o Klossowski alla storia della medicina e delle istituzioni manicomiali e carcerarie, dalla letteratura e dalla semiotica alla polemologia e all’economia politica, dalla geografia (questa scienza dello spazio che ha ricevuto in Francia la grande lezione di Vidal de la Blache) alla storiografia (soprattutto quella delle “Annales”, con la sua attenzione per la storia apparentemente minore, lontana dagli eventi ufficiali come “guerre e battaglie”, e rivolta invece agli aspetti collettivi e ai fenomeni di lunga durata: storia della mentalità e della sensibilità, delle epidemie, delle variazioni demografiche, del clima, del paesaggio agrario, dei vestiti, del cibo ecc.). Foucault vuole appunto ritrovare, attraverso l’“erudizione”, il frugare anche su avvenimenti ritenuti marginali, la storia segreta del “potere” nelle sue vaste e infinite ramificazioni (un tema, questo del potere, 212

che acquisterà progressivamente un esplicito e riconosciuto valore unificante di tutto il campo delle sue ricerche, sia nella forma del “governo” degli altri che del “governo” di se stessi). Nella Storia della follia nell’età classica il potere si presenta come razionalità che ha bisogno della figura del pazzo, dell’antagonista, per delimitarsi e imporsi. Il malato mentale che nel Medioevo – per quanto la sua vista fosse perturbante – continuava a vivere all’interno della comunità, riunendosi talvolta persino in una sorta di corporazione, viene poi rinchiuso, isolato, utilizzando dapprima i lazzaretti e gli edifici rimasti vuoti quando si attenuò l’incidenza delle epidemie. Egli è ora considerato pericoloso, perché il suo esempio di rifiuto delle regole del gioco imposte dalla nascente “razionalità” è suscettibile di contagiare tutti gli altri scontenti. Nella Nascita della clinica è il nuovo “sguardo medico” a essere esaminato, il momento in cui la percezione del curante ringiovanisce, negli ultimi decenni del Settecento, e si cominciano a vedere e a esprimere cose che prima non apparivano. Lo spazio percettivo si è ristrutturato, la distribuzione del visibile e dell’invisibile è mutata, le parole si sono alleate alle cose in maniera diversa. Non si passa in realtà da una medicina aprioristica a una sperimentale, da una cervellotica combinatoria di umori e di umido e secco alla lettura vigile dei sintomi e alla cura efficace, ma da un ordine dello spazio e del discorso a un altro. Ora, “le forme della razionalità medica s’immergono nel meraviglioso spessore della percezione, offrendo come primo volto della verità la grana delle cose, il loro colore, le 213

loro macchie, la loro durezza, la loro aderenza. Lo spazio dell’esperienza sembra identificarsi al dominio dello sguardo attento, della vigilanza empirica aperta all’evidenza dei soli contenuti visibili. L’occhio diventa il depositario e la fonte della chiarezza; ha il potere di portare alla luce una verità che accoglie solo nella misura in cui le ha dato vita […]. Alla fine del XVIII secolo, vedere consiste nel lasciare all’esperienza la più grande opacità corporea; il solido, l’oscuro, la densità delle cose rinchiuse in loro stesse hanno poteri di verità che non traggono dalla luce, ma dalla lentezza dello sguardo che le percorre, le contorna e le penetra a poco a poco, non portando mai altro che la propria chiarezza. La permanenza della verità nel nucleo cupo delle cose è paradossalmente legata a questo potere sovrano dello sguardo empirico che mette in luce la loro notte […]. La singola qualità, l’impalpabile colore, la forma unica e transitoria, acquisendo lo statuto dell’oggetto, hanno assunto il suo peso e la sua solidità. Nessuna luce potrà più dissolverli nelle verità ideali; ma l’applicazione dello sguardo, volta a volta, li desterà e li farà valere su uno sfondo di oggettività”.68 Dall’âge classique in poi (l’espressione va intesa in riferimento alla storia della cultura francese, dalla metà circa del Seicento in poi) una rete di sguardi copre il mondo: sguardi che si incrociano secondo diversi assi prospettici, come nel quadro di Velázquez Las Meninas, analizzato da Foucault ne Le parole e le cose, oppure sguardi dissimmetrici di dissociazione, come nella struttura carceraria del Panopticon, descritta in Sorvegliare e punire: 214

“alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte […]. Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedereessere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti”.69 Il potere segrega, sorveglia, punisce, criminalizza chi gli si oppone, si esercita nei luoghi umili più che nello splendore delle aule parlamentari o delle corti: nelle camerate dei manicomi e delle caserme, nelle corsie degli ospedali, nelle stanze dei collegi, nelle aule scolastiche. Esso non lavora infatti all’ingrosso, irradiandosi da un’unica testa ben individuabile e lungo canali di trasmissione privilegiati, ma al dettaglio, in modo “microfisico”, infiltrandosi e permeando ogni piega della società. E chi lo rappresenta non sono solo i grandi personaggi ma una miriade di uomini piccoli e medi e, al limite, tutti, dal medico all’infermiere, dal burocrate al sottufficiale, dal poliziotto al professore. E il potere non è sopra ma dentro la società, non si diffonde attraverso l’ideologia o il consenso soltanto, ma attraverso mille pratiche che coinvolgono il corpo e lo spazio. Suddivide minuziosamente il territorio e gli ambienti, regola le distanze tra gli individui, si insinua attraverso la disciplina e la sessualità nel corpo dei singoli. Nell’età feudale il potere 215

pretendeva dagli individui segni di fedeltà e procedeva al prelevamento di parte dei loro beni; a partire dall’età classica si chiedono loro prestazioni produttive. Il corpo deve essere nello stesso tempo politicamente più docile ed economicamente capace di un maggiore rendimento. Deve essere più sensibile e più malleabile. Inizia così (con l’economia politica, la medicina, le “scienze umane” ecc.) la scoperta dell’uomo, questo essere nuovo, corporeo, plasmato dal potere e dal sapere. Il potere infatti non è per Foucault basato sulla pura repressione, sulla proibizione, sul dire di no, sull’ideologia e sulla falsa coscienza. Contro la tradizione, contro Reich, contro Althusser, egli rivendica la funzione produttiva del potere, il suo carattere affermativo, la sua capacità di produrre verità, sapere, scienza. Il sapere è anzi inscindibile dal potere ed essi si generano a vicenda: “la verità non è al di fuori del potere, né senza potere (essa non è, nonostante un mito di cui bisognerebbe riprendere la storia e le funzioni, la ricompensa degli spiriti liberi, il parto delle lunghe solitudini, il privilegio di quelli che hanno saputo affrancarsi). La verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni. E vi detiene effetti obbligati di potere. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua ‘politica generale’ della verità: i tipi di discorsi cioè che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che 216

funziona come vero”.70 Tra “teoria” e “ideologia” non vi è dunque quella separazione netta, quella coupure, che vi trova Althusser. Allo stesso modo, sul piano della sessualità, il potere non la reprime, come crede Reich, ma dà solo l’impressione di conculcarla, di penalizzarla. In realtà, traducendola in discorso, ne La volontà di sapere, questo stesso potere elettrizza il corpo, lo sensualizza, lo trasforma in problema continuamente discusso, promuove lo studio delle sessualità periferiche e “perverse” unicamente quale fase preliminare a un loro progressivo inglobamento in una sessualità polimorfa “normale”. Sorge un nuovo tipo di specificazione dell’individuo che è già in atto sotto la guida di strategie anonime, mute, dispersive messe in opera dai biopoteri, forme cioè di gestione politica della vita, che mirano al controllo della riproduzione e al nesso (ormai avvertito come inscindibile) della coscienza con la corporeità. Essi non cercano di distrarre i soggetti dalla politica, di spostare il suo baricentro dall’agorá all’alcova, ma di creare un potere “somatizzato”, capace di entrare in ogni fibra, e di esercitarsi sulle dinamiche demografiche. Il corpo è avvolto nelle “spirali perpetue del potere e del piacere”71 a partire dallo stesso periodo in cui la punizione dei delitti non avviene più attraverso supplizi efferati ed esecuzioni pubbliche, ma attraverso dolori più “felpati”, la reclusione nelle carceri (che diventano vere e proprie fabbriche statali di delinquenza, un prodotto di cui il potere ha bisogno per mantenere sveglia la paura in quegli stessi che opprime e che vengono così indotti a richiedere la sua protezione) e la pena 217

di morte comminata sempre più raramente, di nascosto e in forma istantanea. Nelle società industriali, del resto, il corpo ha un valore maggiore che non in quelle precedenti, dove la morte era, per giunta, una presenza più familiare e meno temuta, per l’imperversare della fame, dei massacri, delle epidemie o per l’alto tasso della mortalità infantile. Se il potere è oggi onnipervasivo, microfisico, non sempre identificabile nelle sue fonti di emissione, serve a poco combatterlo su un piano generale, elaborare strategie complessive e utopie di riforma sociale. Poiché esso opera sui particolari, è sui particolari che bisogna scardinarlo (non perché possa, in quanto tale, essere abolito e sostituito con uno migliore, ma semplicemente perché in questa forma è diventato intollerabile), portando la battaglia sul terreno accidentato e discontinuo dei focolai di insubordinazione. Stimolato dalla tradizione francese di studi polemologici – si pensi soprattutto a Bouthoul –, dal libro di Aron su Clausewitz e dalla teoria matematica dei giochi applicata alla guerra, Foucault delinea un modello militare di interpretazione della politica e della teoria: non la dialettica, che schiva la realtà “sempre aleatoria ed aperta”, né la semiologia, che ne schiva “il carattere violento, sanguinoso, mortale, schiacciandola sulla forma pacificata, e platonica, del linguaggio e del dialogo”,72 possono spiegare il mondo politico e intellettuale, ma la guerra. E non solo quella guerreggiata, ma quella “silenziosa” che pervade il corpo sociale, dimodoché la politica, rovesciando il detto di Clausewitz, è la prosecuzione della guerra con altri mezzi e la teoria è sempre un’arma che produce potere, rafforzando 218

il vecchio o contribuendo a crearne uno nuovo. La dimensione politica, come attività collettiva tesa alla modificazione della società nel suo insieme, cade contestualmente all’idea di totalità e alla dialettica. L’immagine della totalità è inibitoria, e anche sul terreno teorico sono i saperi particolari, discontinui, specialistici, che hanno incidenza reale e che possono progredire, mentre le costruzioni generali (quali il marxismo o la psicoanalisi) hanno una funzione solo se vengono smontate e utilizzate in singole parti. Il concetto di totalità è d’altronde strettamente legato a quello di dialettica ed è destinato a scomparire gradualmente con esso. L’homo dialecticus, “l’essere della partenza, del ritorno e del tempo, l’animale che perde la sua verità e la ritrova illuminata, l’estraneo a se stesso che ridiventa familiare”,73 sta per essere superato in una prospettiva di lungo periodo, analoga a quella heideggeriana dell’avvento del pensiero ultrametafisico. Finora l’uomo occidentale ha dovuto conquistare la propria identità solo contrapponendosi all’altro da sé, al rimosso, al negativo di se stesso (il folle, il peccatore, il delinquente), per poter poi rientrare in sé, fortificato da questa lotta e immunizzato contro l’attrazione esercitata da quelle stesse alterità che si combattono. La dialettica è così la cifra teorica di una pratica sociale diffusa da secoli in Europa (qui la cronologia è incerta: dal Concilio Lateranense del 1215, come appare da La volontà di sapere, o dall’âge classique, o da Hegel?), una sorta di rito iniziatico per diventare adulti in un mondo conflittuale, per conciliarsi, sotto il pungolo del potere e dopo lunghe 219

peripezie, con se stessi e con la realtà. Oggi, si direbbe, la conciliazione non è più possibile né auspicabile e i privilegi accordati alla particolarità contro l’universale, all’esperienza diretta e locale contro le mediazioni e la totalità, a una pluralità di “ragioni” contro la ragione una e monolitica sono sintomi della dichiarata disintegrazione del modello dialettico, del recupero dell’unità attraverso l’opposizione e il molteplice (l’idea della dialettica come sviluppo attraverso le contraddizioni si attenua contestualmente alla crisi dello sviluppo reale, all’imbrigliamento delle contraddizioni dirompenti in un mondo minacciato dalla distruzione nucleare e alla caduta del grande progetto classico di riunificazione del genere umano sotto una ragione unica ma in grado di accogliere, in tensione, la molteplicità?). Foucault è qui vicino alle posizioni di Deleuze e di Guattari, che respingono l’alternativa e l’opposizione tra uno e molteplice, tra identità e contraddizione – le categorie fondanti della dialettica da Platone a Hegel – e a esse sostituiscono l’alternanza di “differenza” e “ripetizione” e una concezione disseminativa, “rizomatica”, della razionalità, in cui esistono innumerevoli connessioni tra regioni del sapere non unificabili, un arcipelago di ragioni non riconducibile all’identità.74 Ma Foucault non considera questa sporulazione di forme razionali come un fenomeno eterno. C’è in lui l’idea (al limite dell’utopia, tanto disprezzata) che in un remoto futuro, quando la consumazione del pensiero dialettico sarà completa, diventerà possibile una incorporazione non dialettica dell’alterità, analoga all’assorbimento già in atto delle 220

sessualità periferiche in una nuova sessualità normale polimorfa. Allora, in questa situazione pacificata, “tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo” e la ragione dialettica diventerà altrettanto incomprensibile quanto lo sono per noi i comportamenti dei primitivi: “Il gioco così familiare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e per sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche”.75 Nell’ultimo decennio della sua vita Foucault (scomparso nel 1984) opera una svolta nel proprio pensiero. Passa dall’analisi delle procedure di trasformazione degli esseri umani in oggetti a quella della loro trasformazione in “soggetti” (nel duplice, divergente senso dell’assoggettamento e del rendersi padroni di sé), dalla volontà di potere a quella di verità, da temi affrontati in età moderna a questioni già “problematizzate” nell’antichità greca e romana. L’individuo capace di organizzare la propria esistenza e di darle significato rappresenta ora il nodo principale della riflessione di Foucault, che non cade tuttavia in una prospettiva individualistica, neo-liberale o anarchico-libertaria. Lo Stato moderno, occidentale, del resto, conosce bene la questione dell’individualità, perché 221

non cessa di produrla, intrecciandola però indissolubilmente a forme di totalizzazione. Assorbe con ciò più remote tecniche di controllo dei singoli, la cui origine risale al “potere pastorale” della Chiesa, orientato alla salvezza degli individui più deboli, dell’ultima “pecorella del gregge”, anche a costo del sacrificio del “pastore”, del capo. Sia la Chiesa che lo Stato moderno sono costretti a conoscere l’interiorità degli individui e a organizzare la loro verità “singulatim”. Lo Welfare State non si interessa certo della salvezza dell’anima dei cittadini, ma del loro benessere e protezione da tutte le intemperie della vita. In tal modo permette loro, tuttavia, di dedicarsi maggiormente ai propri privati obiettivi. Per quali strade il soggetto moderno può, nello stesso tempo, sfuggire al paradosso dell’individualizzazione totalizzante e abbandonare l’illusorio rifugio della chiusura in se stesso, della dimensione contemplativa espressa dal “conosci te stesso!”? Come fare per accedere al campo pratico del “governa te stesso!”? Foucault cerca ora la risposta nel mondo antico, pagano e cristiano. In un’epoca, avvertita come analoga alla nostra (in cui i codici morali legittimati dalla tradizione hanno cioè perduto autorità e prestigio) non resta al singolo che ricorrere alla “cura di sé”. In mancanza di norme socialmente condivisibili, egli è infatti tenuto a scolpire se stesso al pari di una statua, diventando legislatore della propria vita. In questa fase un valore esemplare assume, per Foucault, l’ideale del saggio stoico di età romana (Seneca, Musonio Rufo, Marco Aurelio), che vuole trasformarsi, con “esercizi spirituali” 222

quotidiani, in opera d’arte. L’“estetica dell’esistenza” si presenta pertanto quale unica etica degna di questo nome, “lavoro” condotto da ciascuno su di sé, misura che ci si dà – come insegna la filosofia greca del IV secolo a.C. – anche nel godimento dei piaceri.76 Non si tratta più di imporre una disciplina agli altri per mezzo dei manicomi, delle prigioni, delle fabbriche o delle scuole, ma di sottomettersi individualmente a principi liberamente accettati e lungamente meditati. Una ulteriore conquista – di cui il pensiero moderno si impadronirà – viene compiuta dal cristianesimo. La “cura di sé” degli stoici, l’esame di coscienza teso a perfezionare la propria vita, si trasforma nel monachesimo dei primi secoli dell’era volgare in un corpo di tecniche per costringere la “carne” a confessare i suoi peccati, per estrarre le verità più nascoste dalle profondità del proprio animo e formularle con chiarezza, autoaccusandosi dinanzi a Dio, che tutto vede e comprende. Allo scopo di trascendere se stesso, purificandosi dalle scorie terrene, il cristiano deve pertanto “sondarsi per sapere chi è, quel che succede all’interno di se stesso, gli errori che ha potuto commettere, le tentazioni a cui si è esposto. Ma, ciò che è più importante, ognuno deve dire queste cose ad altri, e portare così testimonianza contro se stesso”.77 L’esporsi allo sguardo di Dio rende trasparente non tanto la fantasmatica essenza del soggetto, quanto le “tecnologie dell’io”, i meccanismi anonimi della sua ininterrotta costruzione. Negli ultimi corsi al Collège de France, tra il 1979 e il 1984,78 il filo conduttore del pensiero di Foucault è 223

costituito dalla domanda su come abbia potuto formarsi l’esperienza di sé, tipica del soggetto occidentale.79 Si tratta, certo, di una delle tante tecniche, “come ne esistono probabilmente in ogni civiltà, che vengono proposte o prescritte agli individui per fissare la loro identità, per mantenerla o trasformarla in funzione di un certo numero di fini, e questo grazie a rapporti di padronanza di sé su se stessi o di conoscenza di sé da parte di se stessi”. L’aspetto specifico della cultura occidentale consiste, tuttavia, nell’impegno ad approfondire, in misura maggiore rispetto alle altre, le forme di scissione e di presa di distanza da sé, le procedure dello sdoppiarsi e del guardarsi come un altro da sé per rientrare successivamente in se stessi allo scopo, da un lato, di conquistare l’autonomia della propria soggettività, dall’altro, di modificarsi, di auto-sovvertirsi. Consiste nel porsi insistentemente queste domande: “Che fare di se stessi? Che lavoro operare su se stessi? Come ‘governarsi’ esercitando azioni di cui si è l’obiettivo, il campo di applicazione, lo strumento utilizzato e il soggetto agente?”.80 Ciò vale soprattutto da quando, alla fine del Settecento, il soggetto occidentale non si interroga tanto sul rapporto verità/soggetto, come si presenta in Descartes, quanto sul rapporto verità/vita, come appare nel Kant della Critica del Giudizio, nello Hegel della Fenomenologia dello spirito, nell’intera opera di Nietzsche o nello Husserl della Krisis.81 Questi autori convocati da Foucault a sostegno delle sue ultime posizioni mostrano come, per dire la verità su se stessi e modificarsi, vi sia oggi bisogno, più che di maîtres à 224

penser, di maîtres d’existence. 9. Parfit o il tunnel di vetro dell’identità Per effetto della crescente complessità della vita sociale e per l’espandersi della globalizzazione, la domanda sull’identità di ciascuno e su quella di interi gruppi o popoli ha acquistato una maggiore urgenza. Da termine logico e matematico per designare l’eguaglianza di qualcosa con se stessa, la parola “identità” è così passata a indicare una forma di appartenenza ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Inflazionata, come il suo opposto complementare, l’“alterità”, è ormai diventato difficile descriverla una volta depurata dalle sue spesse incrostazioni retoriche.82 Proprio per questo è necessario capire a quali esigenze obbedisca il bisogno di identità, perché sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia questa costanza nel tempo e nello spazio, e in quante forme, accettabili o meno, esso si declini. Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano, infatti, di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. La formazione del “noi” esige dunque rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, spesso, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per 225

suo tramite la propria determinazione a essere se stesse. Essa è l’espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile neppure in cambio di vantaggi economici e politici. Sebbene si manifesti attraverso una larga gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l’identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere cioè dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell’alterità. Certo, i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, proprio perché l’identità è un cantiere aperto. Il regolamento dei rapporti con i non appartenenti a un determinato gruppo mostra pertanto una costitutiva ambiguità. Ma il costruire se stessi, nella forma dell’identità, della coerenza, della massima consapevolezza e vigilanza morale è davvero importante? Ne dubita il filosofo inglese Derek Parfit. Nella sua prospettiva “riduzionista”, infatti, identity does not matter, l’identità personale non è ciò che importa, ciò di cui dobbiamo preoccuparci. Essa mi interessa solo come mezzo per un fine, che consiste nell’assicurare la mia continuità psicologica futura in qualsiasi forma (e non solo come persona fisica, ma anche, poniamo, come ricordo incorporato nella memoria di altri). 226

Il non preoccuparsi più dell’identità viene presentato da Parfit sia quale liberazione dall’angoscia di fronte alla morte e dalle connesse, inevitabili preoccupazioni centrate esclusivamente su se stessi, sia quale simultaneo rafforzamento del senso di solidarietà con gli altri: “Se smettessimo di pensare che ciò che conta sia la nostra identità, questo fatto potrà influire su alcune nostre emozioni, per esempio il nostro atteggiamento nei confronti della vecchiaia e della morte”. Con una specie di consolatio stoica, Parfit aggiunge che, se, invece di dire: “Sarò morto”, dicessi “Non ci sarà alcuna esperienza futura che sia collegata in certi modi alle mie esperienze presenti”, tale riformulazione del mio pensiero e atteggiamento, “ricordandomi che cosa comporti il fatto della mia morte, me la rende meno deprimente”. Il non pensare all’identità come permanenza di me stesso, ma come sganciamento delle mie esperienze dalla continuità psicologica col passato, renderebbe tutto assai più semplice. In un’epoca in cui i progressi delle biotecnologie, dei trapianti di organi, della clonazione possono trasformare in scienza quella che prima era science-fiction, anche l’identità personale cessa di essere legata al criterio della continuità fisica dell’individuo integro nel tempo e della continuità psicologica legata alla totalità della persona. È vero che l’identità non viene, come avrebbe detto Locke, scalfita qualora mi si asporti il “mignolo”. Ma cosa succederebbe se il mio cervello o parte di esso venisse trapiantato nel corpo di un altro e viceversa? E cosa accadrebbe se, mediante un’ipotetica macchina, il teletransporter, un’esatta replica di 227

me stesso venisse riprodotta su Marte (tanto “identica” che sul viso vi è anche il taglio che mi sono prodotto questa mattina mentre mi facevo la barba)? E se poi, per un qualche guasto, il me stesso rimasto sulla Terra morisse e quello di Marte sopravvivesse, quale dei due sarebbe il vero io? Attraverso questi esperimenti per ora soltanto mentali di duplicazione e di produzione di replicanti seriali di un io (token persons) giungiamo per Parfit ad ammettere che quel che ha valore non è la permanenza dell’individualità in quanto indivisibilità, ma, per l’appunto, la continuità psicologica comunque raggiunta attraverso dei mediatori. Il criterio di tale tipo di continuità (relazione R) sostituisce così quello dell’identità personale: “Ciò che conta è la relazione R. R è la connessione e/o la continuità psicologica dovuta al giusto tipo di causa”. Il sereno abbandono dell’identità personale produce una effettiva emancipazione dalle paure, poiché – cessando di mirare all’immortalità – si guadagna una maggiore pienezza di senso. Esso è paragonabile a un paradossale sistema zen per ritrovare se stessi. Accade, in altri termini, qualcosa di analogo al lancio di una freccia quando non si è più ossessionati dall’incalzante volontà di far centro e si finisce così – per il fatto stesso di essere completamente rilassati e non concentrati – per cogliere effettivamente il bersaglio. Tradotto ancora in altri termini, si potrebbe dire: non pensare all’identità, perché tanto è l’identità che pensa a te stesso. Tale atteggiamento ci permette così di uscire da un lungo incubo: “Quando credevo che la mia esistenza fosse quel fatto ulteriore, io mi sentivo imprigionato in me stesso. 228

La mia vita mi sembrava un tunnel di vetro in cui, anno dopo anno, mi muovevo sempre più velocemente, e alla fine del quale c’era il buio. Quando cambiai opinione, le pareti del mio tunnel di vetro scomparvero. Ora vivo all’aria aperta. C’è ancora una differenza tra la mia vita e quella degli altri, ma una differenza minore. Gli altri mi sono più vicini. Io mi interesso di meno del resto della mia vita e mi interesso di più della vita degli altri”.83 1

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965, p. 123. 2

Th.W. Adorno, Sulla metacritica della gnoseologia, SugarCo, Milano 1964, p. 203. 3 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una

filosofia fenomenologica‚ cit., p. 59. 4 Ivi, p. 584. 5 E. Husserl, Ms. D 13 xxiv, cit. in G. Piana, Un’analisi

husserliana del colore, in “aut aut”, marzo 1966, 92, pp. 2130. 6 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una

filosofia fenomenologica‚ cit., pp. 455-456. 7

Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, p. 46. 8 Cfr. ivi, p. 47. 9 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una

filosofia fenomenologica‚ cit., ii, Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, pp. 764-765, 49, 580. 10

A. Schütz, Sulle realtà multiple, in Scritti sociologici, Utet, Torino 1979, p. 205. 229

11 Id., Il problema della rilevanza, Rosenberg & Sellier,

Torino 1975, pp. 56-57. 12 P. Berger, B. Berger, H. Kellner, The Homeless Mind,

Penguin Books, Harmondsworth 1973 e P. Berger, Le piramidi del sacrificio. Etica, politica e trasformazione sociale, Einaudi, Torino 1981, pp. 140-143. 13 S. Beckett, Testi per nulla, in Primo amore. Novelle.

Testi per nulla, Einaudi, Torino 1979, p. 111. 14

Sh. Cavan, Liquor Licence: An Ethnography of Bar Behavior, Aldine Publications, Chicago 1966. 15 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi,

Milano 1970, Sezione ii, ii, §§ 57, pp. 414, 416. 16

M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 89-90. 17 Id., Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, p. 287. 18 Ibid. 19

M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 46. 20

M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi‚ cit., p. 11. 21 Ivi, p. 12. 22 Ivi, p. 13. 23 M. Heidegger, Perché i poeti?‚ cit., p. 267. 24 Cfr. Cartesio, Opere, Laterza, Bari 1967, ii, pp. 81-82;

G. Simmel, Der Henkel, in Philosophische Kultur (1911), ora in Das individuelle Gesetz. Philosophische Exkurse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968, pp. 96-104 e E. Bloch, 230

Una vecchia brocca (1918), in Spirito dell’utopia, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 11-14 (su cui cfr. anche Th.W. Adorno, Henkel, Krug und frühe Erfahrung, in Aa.Vv., Ernst Bloch zu ehren, a cura di S. Unseld, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1965). 25 M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi‚ cit., p. 114. 26 E. Bloch, Una vecchia brocca‚ cit., p. 13. 27

Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 282. 28 F. Kafka, Racconti, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 147-

148. 29

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964, 4.014, 4.0141. 30 Ivi, 4.016. 31 Ivi, 5.1361. 32 Ivi, 6.3. 33 Ivi, 6.44. 34 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino

1967, I, § 23, p. 22. 35 Ivi, I, § 65, p. 46. 36 Ivi, I, § 38, p. 31. 37 Ivi, I, § 108, p. 65. 38 Ivi, I, § 88, p. 59. 39 Ivi, I, § 107, p. 65. 40

Ivi, II, p. 290.

41

Cfr. S. Weil, L’Iliade ou le poème de la force (1940-41), in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1988 sgg., t. ii, iii 231

(1989), pp. 227-253, in particolare pp. 227, 236, 231. 42 Id., Attente de Dieu (1942), La Colombe, Paris 1949, p.

87. 43 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano

1965, p. 325. 44 Ivi, p. 328. 45

Ivi, p. 333.

46

J.-P. Sartre, Il rinvio, Mondadori, Milano 1973, pp. 384-385. 47

J.-P. Sartre, Santo Genet, commediante e martire, il Saggiatore, Milano 1972, p. 18. 48 Id., Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1948, p. 21. 49 Ivi, p. 193. 50 Ivi, p. 284. 51 J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, il Saggiatore,

Milano 1963, i, p. 29. 52 Ivi, i, p. 65. 53 Ivi, i, p. 387. 54

Cfr. A. Esterson, Foglie di primavera. Un’indagine dialettica sulla follia (1970), Einaudi, Torino 1973, p. 42: “Per esempio, Giovanni si considera un uomo affettuoso e amichevole e vede che Giacomo lo considera freddo e riservato. Se Giovanni si identifica con l’opinione che Giacomo ha di lui, la sua identità è significativamente alterata”. 55

R.D. Laing, La politica dell’esperienza (1967), Feltrinelli, Milano 1968, pp. 114, 133. 232

56 Ivi, pp. 177-178. 57 Ivi, p. 178. 58 R.D. Laing, Nodi (1970), Einaudi, Torino 1974, p. 55.

Cfr. Id., Mi ami? (1976), Einaudi, Torino 1978, p. 47: “Lei è odiosa con me, / così io sono odioso con lei / lei segue me / così io seguo lei”. 59

Cfr. G. Bateson, M. Mead, Balinese Charachter. A Photographic Analysis, The New York Academy of Sciences, New York 1942; il volume è corredato da circa 700 fotografie. 60 Questo e altri esempi in P. Watzlawick, J.H. Beavin,

D.D. Jackson, Change (1974), Astrolabio, Roma 1978. 61 G. Bateson, Doppio vincolo (1969), in Verso un’ecologia

della mente, Adelphi, Milano 1978, p. 299. 62

M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 33. 63 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non

senso, Garzanti, Milano 1974, p. 33. 64 Ivi, p. 32. 65 Ivi, p. 33. 66

M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), SE, Milano 1989, p. 23. 67 Id., Il visibile e l’invisibile (1964), Bompiani, Milano

1993, pp. 223, 232. 68 M. Foucault, La nascita della clinica, Einaudi, Torino

1969, pp. 8-9. 69 M. Foucault, Sorvegliare e punire‚ cit., pp. 218, 220.

233

70

M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 25. 71 Id., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1985. 72 M. Foucault, Microfisica del potere‚ cit., p. 9. 73 M. Foucault, La follia, l’assenza d’opera, in appendice

alla seconda edizione italiana di Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1977, p. 628. 74

Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1971; Id., Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975; G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975 e G. Deleuze, F. Guattari, Rizoma, Pratiche, Parma 1977. 75 M. Foucault, La follia, l’assenza d’opera, cit., p. 627. 76

Cfr. M. Foucault, La cura di sé (1984), Feltrinelli, Milano 1985; Id., L’uso dei piaceri (1984), Feltrinelli, Milano 1985. 77

M. Foucault, Interview de Michel Foucault (1981, pubblicata nel 1984), in Dits et écrits, 4 voll., Gallimard, Paris 1994, vol. IV, p. 659. 78

Mi riferisco, soprattutto, a M. Foucault, Le gouvernement des vivants, Paris, Gallimard, 1994, trad. it. Il governo dei viventi, in Id., I corsi al Collège de France. I Resumés, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 91-96; Subjectivité et vérité, in Resumés des cours 1970-1982, Gallimard, Paris 1994, trad. it. in Id., Soggettività e verità, in I corsi al Collège de France. I Resumés, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 97-103; Lezione del 1° febbraio 1982, in L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Seuil-Gallimard, 234

Paris 2001, trad. it. in Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003; Le courage de la verité. Le gouvernement de soi et des autres: cours au Collège de France 1983-1984, Seuil/Gallimard, Paris 2009, trad. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Colège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011. 79 Cfr. Id., Lezione del 1° febbraio 1982, trad. it. cit., p.

202. 80 M. Foucault, Subjectivité et vérité, trad. it. cit., pp. 97-

98. 81

Cfr. Id., Lezione del 24 febbraio 1982, in L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 19811982, trad. it. cit., pp. 275-276. 82 Cfr. F. Remotti in Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari

2007 e per la valorizzazione dell’Altro che ci vede tutti reciprocamente stranieri, cfr. E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, Milano 1991 e J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990. 83

D. Parfit, Ragioni e persone (1984), il Saggiatore, Milano 1989, pp. 277, 359, 333, 358.

235

VIII. I vincoli della tradizione

1. Il viaggio della vita: Blumenberg e le metafore L’efficace metafora del tunnel ci introduce in un campo contiguo di problemi. Tradizionalmente, le metafore vengono ritenute o un ornamento retorico, un’infiorettatura del linguaggio, oppure un vestibolo del pensiero concettuale. Il termine metafora (da metaphoré, che, in greco, vuol dire trasloco, trasporto) indica il congiungere, mediante dislocazione, ciò che è distante. Vi sono metafore morte, diventate concetti, che utilizziamo senza accorgerci – secondo il paragone di Nietzsche – che si tratta di monete le cui immagini si sono cancellate con l’uso e che valgono ormai soltanto per il metallo. Vi sono poi metafore vive (il cui ruolo è stato sottolineato da Paul Ricoeur), continuamente prodotte dal linguaggio normale o da quello poetico. Esse gettano degli arditi ponti tra nozioni che non siamo abituati a vedere unite. Quanti subordinano invece la metafora al problema della conoscenza, la ritengono una forma inferiore o spuria di pensiero, che funge da battistrada al concetto puro, chiaro e distinto. Hans Blumenberg cerca di spezzare il nesso istituito tra pensiero aconcettuale e pensiero concettuale, in modo da non considerare le metafore come mero introibo alla razionalità, impalcatura provvisoria per erigere

236

concetti.1 Collegandole all’husserliano “mondo della vita” (trama irriflessa di strutture di pensiero, di sentire e di credere che abbiamo acquisito e che fanno da sfondo alla nostra consapevolezza), egli restituisce loro l’autonomia. Il mondo della vita è la sfera di quanto non viene esplicitamente tematizzato, che rimane sullo sfondo e permette a ciò che di volta in volta diciamo o pensiamo di campeggiare sul non detto o sull’impensato. Ogni nostra affermazione ha quindi senso perché si staglia sullo sfondo di un universo simbolico semplicemente presupposto. Mentre i concetti hanno dunque a che fare con la coscienza focalizzata, le metafore si riferiscono invece al mondo della vita, sono sciabolate di luce trasversale che illuminano nessi significativi non direttamente analizzabili. Esprimono orientamenti, modalità di rivolgerci all’esperienza non destinate a precipitare in cristalli concettuali. I concetti puri pagano il privilegio della loro relativa chiarezza e univocità con una perdita della molteplicità di sensi del mondo della vita. Ogni volta, cioè, che pensiamo qualcosa di preciso, conseguiamo, certo, il vantaggio di vederlo chiaro e distinto con gli occhi della mente, ma nello stesso tempo, recidiamo tutte le possibili connessioni di senso con quanto resta sullo sfondo. Le metafore godono, al contrario, del dubbio vantaggio, per ciò che riguarda la conoscenza, di avere un ambito di riferimento estremamente vasto, di potersi, al limite, connettere con l’intera estensione del mondo della vita, ma pagano questo beneficio con una maggiore imprecisione. Per questo motivo si tende a espungerle dalla filosofia e a ritenere che si debba fare a meno di esse, quasi 237

costituissero una macchia impura nell’adamantino universo dei concetti. In realtà, nemmeno il pensiero più astratto può fare a meno delle metafore, per quanto non si riduca completamente a esse. Vi sono infatti quelle definite da Blumenberg metafore assolute, indeducibili e irriconducibili ad altre metafore o idee, e le metafore derivate. Le metafore assolute esprimono orientamenti non ulteriormente scomponibili, come l’atteggiamento che ciascuno tiene nel viaggio rischioso dell’esperienza. La metafora della navigatio vitae implica pertanto che vi siano coloro che scelgono di essere attori nella propria esistenza e quelli invece che, meno propensi ad affrontare i pericoli, preferiscono essere spettatori piuttosto che attori.2 L’elemento dell’ignoto, di ciò che ci aspetta, del rischio, è appunto l’aspetto che caratterizza tanto la metafora della navigatio vitae, quanto il sorgere dei miti. Poiché ciascuno ha davanti a sé un cammino che non potrà mai conoscere in anticipo, sorge l’idea che la rotta stessa, la navigazione intrapresa porti consiglio, che si formi, grazie a essa, un’esperienza. In italiano il vocabolo “esperienza” è, in questo caso, meno pregnante che in altre lingue. In tedesco “esperienza” si dice Erfahrung, parola che contiene in sé la radice di fahren, “viaggiare”. Perciò fare esperienza significa viaggiare o, per estensione, navigare. Corrisponde al paradigma di Odisseo, l’eroe che molto ha viaggiato e molto ha sofferto e che, proprio per questo, è capace di indirizzare la sua perigliosa rotta attraverso tutti gli ostacoli divini e umani che gli vengono frapposti. Nel passato l’esperienza si accumulava. Oggi, invece, ci 238

troviamo in una situazione in cui – cambiando rapidamente le cose – gli insegnamenti del passato perdono di peso rendendo indeterminate anche le aspettative del futuro. L’età moderna, segnata dall’apparire dell’“uomo copernicano”, segna la fine delle sicurezze teologiche, fondate (per quanto riguarda il nostro mondo) sul Libro per eccellenza, sulla Bibbia. È un’epoca che inaugura la ribellione e l’“autoaffermazione” dell’uomo nei confronti della sottomissione alle autorità che si richiamano al sovranaturale, accende il desiderio del nuovo, spinge a compiere viaggi di scoperta in terra incognita (non solo in senso geografico, ma anche come circumnavigazione del globus intellectualis o proiezione verso il mondo dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, degli astri e dei microbi). Anche il mito costituisce per Blumenberg – uno dei protagonisti della cosiddetta Mythos-Debatte, assieme a Manfred Frank e a Karl-Heinz Bohrer – una strategia per far fronte all’ignoto, per resistere all’angoscia amorfa e senza nome provocata negli uomini dallo strapotere della realtà. Il mito depotenzia infatti il suo “assolutismo” inventando spiegazioni per l’inspiegabile, così da rendere il mondo più familiare. Per questo l’antitesi tra mito e ragione non sorge subito. Essa è “una tarda e cattiva invenzione, perché rinuncia a considerare la funzione del mito, nel superamento di quella estraneità arcaica del mondo, come una funzione anch’essa razionale, per quanto opportuna potesse apparire, a lavoro fatto, la scomparsa dei suoi mezzi […]. Il mito stesso è un pezzo di impareggiabile lavoro del logos”.3 239

Riconosciamo che qualcosa è un mito quando non ci crediamo più, quando le retrovie del mondo della vita non forniscono più sufficiente alimento al nostro pensiero. 2. “Nessuno conosce se stesso”: Gadamer e l’ermeneutica Blumenberg è un avversario della “secolarizzazione”. Non crede, nella fattispecie, che il pensiero moderno sia in relazione di continuità con quello medioevale, nel senso che le idee “laiche” elaborate nel suo ambito siano una traduzione o un adattamento di precedenti dogmi teologici o metafisici. L’“uomo copernicano” ha introdotto nel suo mondo novità inaudite e, interrompendo i legami con la tradizione, ha realmente lasciato il passato libero di passare, aprendo il “tempo nuovo”, Neuzeit, ossia la modernità. Per Gadamer, al contrario, noi non possiamo mai strapparci dalla tradizione. La coscienza dell’individuo non costituisce infatti un centro autosufficiente, isolato rispetto alla realtà della storia che lo circonda: fa parte del mondo, con cui comunica mediante il linguaggio. Interpretiamo gli eventi solo all’interno dell’orizzonte determinato dalla nostra appartenenza a una tradizione, ai suoi specifici – e dapprima inspiegati – presupposti. Il nostro intendere non è, di conseguenza, mai logicamente puro, neutro, incondizionato. Come già per l’ultimo Wittgenstein, anche per Gadamer è illusorio immaginare che il nostro animo sia come una tabula rasa privo di condizionamenti o di certezze pregresse: “Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la 240

certezza […]. Il bambino impara, perché crede agli adulti. Il dubbio vien dopo la credenza”.4 Si capisce qualcosa solo perché disponiamo già della “precomprensione” di essa, ossia di un’idea recepita che ci segna e ci orienta, almeno fino a quando non siamo spinti a cercare ulteriormente, ad approfondire questa nozione irriflessa perché nel frattempo è diventata problematica e insoddisfacente. Il “circolo ermeneutico” mostra appunto all’opera tale precomprensione del tutto, in quanto provvisoria anticipazione dell’articolata conoscenza delle parti, la quale – una volta avvenuta – modificherà l’immagine dell’insieme, in un processo ricorsivo e mai concluso di successive rettifiche e aperture. La storicità significa dapprima che ogni precomprensione è un pregiudizio e, generalizzando, che la tradizione è una rete di pregiudizi. Ma “pregiudizio” non equivale a giudizio falso, a qualcosa di intrinsecamente negativo: si giudica sempre, e necessariamente, da un proprio punto di vista limitato, prima ancora di aver capito più a fondo una questione. Nessuno è esente da pre-giudizi: “Chi pensa di essere sicuro della propria libertà dai pregiudizi fondandosi sull’oggettività del metodo e negando la propria condizionatezza storica subisce poi la forza dei pregiudizi che lo dominano in modo inconsapevole e incontrollato, come una vis a tergo. Chi non vuol riconoscere i giudizi che lo determinano, non saprà vedere neppure le cose che alla luce di essi gli si mostrano”.5 Alla ricerca di vitree trasparenze, l’Illuminismo ha screditato l’idea di pregiudizio, dichiarandogli guerra: “Così 241

facendo, esso ha compiuto anche una specie di liberazione, un’emancipazione dello spirito. Se però se ne trae la conclusione che si possa diventare trasparenti a se stessi, sovrani nel proprio pensare e agire, allora ci si sbaglia. Nessuno conosce se stesso. Portiamo da sempre impressa in noi una traccia, e nessuno è un foglio bianco”.6 Noi tutti siamo indelebilmente segnati da quanto abbiamo ereditato e assorbito dalla tradizione. Anche volendo, non possiamo quindi depurare noi stessi dai nostri pregiudizi e dai precondizionamenti storici, non possiamo cancellare quanto la storia ha scritto sopra il “foglio” della nostra vita: possiamo solo riscriverlo, rielaborarlo incessantemente. Non attingeremmo infatti, nel caso dell’eventuale evaporazione dei pregiudizi, delle verità eterne: raggiungeremmo, al contrario, il puro vuoto mentale. Eliminate le tracce, fatte scomparire le impronte della tradizione, non rimane nulla. L’importante è non restare attaccati caparbiamente o presuntuosamente ai pregiudizi: “Il discorso non è un puro e semplice sciorinare dei nostri pregiudizi, ma li mette in gioco, li espone ai nostri dubbi, come alla replica dell’altro […]. La semplice presenza dell’altro che ci si fa innanzi aiuta, già prima che questi prenda la parola per replicare, a scoprire i nostri pregiudizi e la nostra parzialità, a disfarcene”.7 Esistono peraltro “pregiudizi legittimi”, che dovrebbero essere rivendicati, come quelli relativi all’“autorità” o alla “tradizione”. Tra ragione e tradizione, soprattutto, non vi è affatto quell’inimicizia assoluta a cui l’Illuminismo vuol far credere, allorché identifica la tradizione con la cieca 242

sottomissione ad autorità indimostrabili e arbitrarie: “Anche la più autentica e solida delle tradizioni non si sviluppa naturalmente in virtù della forza di persistenza di ciò che una volta si è verificato, ma ha bisogno di essere accettata, di essere adottata e coltivata. Essa è essenzialmente conservazione, quella stessa conservazione che è in opera accanto e dentro ogni mutamento storico […]. Persino dove la vita si modifica in modo burrascoso, come nelle epoche di rivoluzione, nel preteso mutamento di tutte le cose si conserva del passato molto di più di quanto si immagini, e si salda insieme al nuovo acquistando una rinnovata validità”. Piuttosto che liberarci dalla tradizione considerata come un peso, occorre scoprirne l’intima ricchezza, per il fatto che non è mai né univoca, né chiusa: “Ciò che riempie la nostra coscienza storica è sempre una molteplicità di voci, nelle quali risuona il passato. Solo nella molteplicità di tali voci il passato c’è: questo costituisce l’essenza della tradizione di cui siamo e vogliamo divenire partecipi”.8 Il sentire se stessi come appartenenti a una storia implica il riconoscimento di altre storie e di altre persone, il lasciare che voci diverse e discordanti si contrappongano all’interno di ciascuno di noi e così lo delimitino. Solo comprendendo l’alterità in noi stessi, mettendoci alla prova, siamo in grado di allargare il nostro orizzonte e, per converso, di definirci e individualizzarci. Infatti, proprio perché il nostro orizzonte è circoscritto, esso può in seguito estendersi. Capire significa provocare una “fusione di orizzonti”, proprio perché la verità non è monologica, ma dialogica, perché non svela qualcosa che preesiste, ma il risultato dell’intendere e 243

dell’interpretare in comune. In una simile ottica la storia e l’arte generano conoscenze validissime, per quanto prive della rigidità del metodo scientifico. Più vicine al “gioco” (le cui regole si impongono ai partecipanti senza per questo inibire la loro capacità di innovare entro contesti dati), entrambe permettono di comprendere il mondo come rielaborazione discontinua di vissuti in cui inserire attivamente la propria attività, considerandosi parte di una più generale Wirkungsgeschichte, di una “storia degli effetti” che non riguarda nudi fatti, bensì eventi già interpretati da altri, oggetti intrisi di soggettività e soggettività mediate con l’oggettività. 3. La mitologia bianca di Derrida Seppure sotto un altro profilo, anche per Jacques Derrida non bisogna abbandonare i condizionamenti della tradizione in favore dell’Autentico e dell’Originario che si celerebbe dietro la varietà dei fenomeni. Per questo – a differenza di Blumenberg – non si danno “metafore assolute” che precedano il pensiero concettuale. Nessuna metafora è infatti in grado di uscire dal cerchio magico della “metafisica”, della “mitologia bianca, che rassomiglia e riflette la cultura dell’Occidente” (quella in cui l’uomo bianco scambia il proprio pensiero con la forma universale della razionalità). La metafora non può sfuggire al concetto. Entra necessariamente a far parte del corteo delle sue antinomie metafisiche: di senso proprio e non proprio, di sostanza e accidente, di pensiero e linguaggio o di 244

intellegibile e sensibile. È dunque interna al pensiero filosofico stesso nel suo inesausto e sempre incompiuto procedere dal figurato al proprio, che non giunge mai a superare il mito, a svelare qualcosa, a mostrare la nuda verità. Ogni ri-velazione è, insieme, un velare di nuovo. Chi non lo capisce e vuole rinvenire il senso proprio dietro il senso figurato ricade nella “metafisica della presenza”, crede nel manifestarsi della verità “in persona”, davanti a lui. Le metafore non si usurano nel senso di un loro dissolversi finale nel concetto (pur compensato dal rampollare continuo di metafore vive e potenti), ma di una accumulazione e di un prestito continuo. Si spostano così circolarmente, escono ed entrano nell’orizzonte percettivo del pensiero, rappresentando l’Altro ineliminabile della concettualità. Anche la dimensione concettuale, di conseguenza, non scompare, se non transitoriamente, nella metafora stessa, sua permanente riserva di senso.9 La “metafisica” – a partire dalle origini della filosofia occidentale sino a Husserl – associa la verità all’immediata presenza dell’essere alla coscienza, in quanto significato che si rivela al soggetto nella forma privilegiata della parola. Con la vittoria del “fono-logo-centrismo” la scrittura appare quale lettera morta, degradazione del parlato.10 Derrida rivendica invece la supremazia della scrittura, già attaccata da Socrate nel Fedro. Essa è infatti oggettività che trascende il soggetto, la voce della coscienza, traccia che sussiste dopo la morte degli individui. È simultaneo rinvio dei segni ad altro da sé e a se stessi, a un corpo aperto di testi e situazioni da interpretare in un infinito gioco labirintico di rimandi, 245

deviazioni, disseminazioni, scarti, ritardi, ripetizioni e differimenti da cui non si esce (“différance”). Di ogni testo o situazione interpretata non possiamo dunque venire a capo interamente. Anzi, l’assoluta trasparenza li distruggerebbe, sottraendo loro quell’eccesso di senso che travalica l’immediata presenza e che travalica i confini del logos. Identità e differenza (“différence”), autoriferimento e allusione, si implicano infatti originariamente a vicenda, in quanto i segni stessi della scrittura costituiscono la presenza di un’assenza. Soprattutto in un mondo in cui la raccolta e registrazione di informazioni e di testi sta diventando monumentale, nessuna esperienza può diventare satura, così come nessuna interpretazione esaustiva: prendendo congedo dalle pretese di ricostruzione sistematica e unitaria del senso, ogni testo può venire “decostruito”, così da mostrare il fitto tessuto di rimandi e differimenti, che non conducono però ad alcun originale, ad alcun essere come pura presenza. Gadamer ricorda di essere scampato alla dissoluzione della dialettica attraverso l’uscita di sicurezza del dialogo, mentre Derrida, dice, ha scelto la strada della decostruzione, in cui l’unità di senso non si dissolve “nel vivo colloquio, ma nella trama dei rapporti di senso che sta alla base di ogni parlare”.11 Il termine “decostruzione”, ormai alla moda soprattutto nella cultura americana, non va tuttavia inteso come desiderio iconoclastico di impossibile distruzione del logos, quanto piuttosto come volontà di disarticolare il sistema dei rimandi, di “slogare l’unità verbale” in modo da renderla meno anchilosata e più consapevole dei propri condizionamenti, cioè di quanto le impedisce di conseguire 246

la verità e l’autenticità assolute.12 Al pari della “lettera rubata” del racconto di Poe (esaminato, tramite Lacan, in Il fattore della verità, del 1975), l’evidenza è la cosa più nascosta e l’eccesso di evidenza acceca. Le tenebre non si dissiperanno mai, anche perché la “violenza della luce” non costituirebbe una vittoria. Come ben sapevano Platone e Hegel, nella pura luce ci si vede altrettanto poco che nell’oscurità più totale. Solo le differenze, le sfumature, le comparazioni permettono il vedere e il comprendere (soprattutto al di fuori della metafisica e della metaforica della luce e della presenza). E poiché la metafisica ha proceduto alla “cancellazione della traccia”, si impone ora il compito di procedere verso il suo “oltrepassamento”. Ma ciò non è possibile attraverso un “salto”. Il lungo congedo dalla metafisica non la distrugge: la tiene insormontabilmente sullo sfondo, mostrandone le infinite ramificazioni nei nostri modi di pensare, di sentire e di atteggiarci. Non potendo conseguire una più fedele immagine del mondo irriducibile alla pura presenza (in quanto, heideggerianamente, l’essere si sottrae mentre si dà), la filosofia risulta “parassitaria” rispetto alla sua tradizione metafisica. È soltanto in grado di mostrarne le esitazioni, le ambiguità, i riverberi e gli spostamenti. 1 Cfr. H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia

(1960), il Mulino, Bologna 1960; Id., La leggibilità del mondo (1981), il Mulino, Bologna 1984. 2

H. Blumenberg, Naufragio con spettatore (1979), il Mulino, Bologna 1985.

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3

H. Blumenberg, L’elaborazione del mito (1979), il Mulino, Bologna 1991, pp. 75, 35. 4

L. Wittgenstein, Della certezza (1950-51), Einaudi, Torino 1978, proposizioni 115 e 160, pp. 22, 29. 5

H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Bompiani, Milano 1983, p. 417. 6

Id., in Dialogando con Gadamer, a cura di C. Dutt, Cortina, Milano 1995, pp. 17-18. 7

H.G. Gadamer, Ermeneutica e decostruzionismo, in Verità e metodo 2 (1986-93), Bompiani, Milano 1996, pp. 296-297. 8 Id., Verità e metodo, cit., pp. 330, 333. 9 J. Derrida, La mythologie blanche, in “Poétique”, 1971,

5, pp. 1-52, in particolare pp. 4, 52 (ora in Marges de la philosophie, Éditions de Minuit, Paris 1972). 10 Cfr.

Id., La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1971; Id., Della grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 1969; Id., La farmacia di Platone, in La disseminazione (1972), Jaca Book, Milano 1972. Si potrebbe banalmente obiettare: la scrittura non è forse più permanente e “presente” della parola che dilegua dopo essere stata pronunciata? E perché, poi, la scrittura, l’“architesto”, dovrebbe precedere il parlato? L’argomento che la parola presuppone la “spaziatura” tra lettera e lettera non presuppone, a sua volta, l’isolamento e la scelta, storicamente situabili, dei singoli segni all’interno di un alfabeto costruito? 11 H.G. Gadamer, Decostruzione e interpretazione, in “aut

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aut”, 1985, 208, p. 7. 12 Gli interessi di Derrida si sono anzi più tardi allargati in

direzione maggiormente “ricostruttiva” e politica. Si è così occupato dei motivi dell’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, del significato del pensiero di Marx, in una fase in cui il suo pensiero sembra travolto dal crollo dei regimi socialisti dell’Est, del ruolo dell’Europa oggi nel suo proiettarsi verso la civiltà mondiale, dell’amicizia o dell’ospitalità; cfr. J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione (1987), Feltrinelli, Milano 1989; Id., Oggi l’Europa (1991), Garzanti, Milano 1991; Id., Gli spettri di Marx (1993), Cortina, Milano 1994 e Id., Politiche dell’amicizia (1994), Cortina, Milano 1995.

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IX. Vita activa

1. Arendt: pensare, volere, giudicare Esaminando le catastrofi prodotte dai totalitarismi del nostro secolo e la conseguente, ulteriore, degradazione della politica, Hannah Arendt ne ha cercato le radici profonde nel progressivo stravolgimento della “vita della mente”, nella distorsione subita dalle nostre tre irriducibili facoltà: il pensare, il volere e il giudicare. Alla base di questo invisibile disastro storico sta la separazione moderna di teoria e prassi, per cui si ritiene l’agire mera applicazione di un concetto o di un progetto già autonomamente elaborato dalla teoria. Quando la volontà si trasforma in braccio secolare del pensiero, finisce tuttavia per diventare cieca. A sua volta, la pura contemplazione, dopo avere per millenni affermato la propria supremazia, è costretta a dichiarare la sua impotenza. Il prevalere della moderna convinzione che l’uomo conosce solo quello che fa, conduce poi al definitivo privilegiamento dell’operare e alla complementare svalutazione di ogni forma di pensiero che non si traduca immediatamente in azione. Nel sostenere che “i filosofi si sono finora limitati a interpretare il mondo, ma si tratta di cambiarlo”, il Marx dell’undicesima delle Tesi su Feuerbach legittima, contro le sue stesse intenzioni, una valanga di pregiudizi. Lascia credere che interpretare il mondo costituisca un lusso, che il pensiero sia un parassita e che 250

basti l’azione rivoluzionaria a rivelare il nuovo mondo racchiuso nella crisalide del vecchio. Ponendo fortemente l’accento sul valore del “lavoro”, inteso come modificazione del mondo e automodificazione dell’uomo, Marx ha contribuito inoltre a cancellare la distinzione, chiara agli antichi, tra poiesis e praxis, tra l’operare o fare (produzione di un mondo artificiale di cose) e l’agire (“sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”). Il fare dà luogo all’homo faber, capace di controllare la realtà mediante la tecnica; l’agire alla vita politica, o vita activa, come la chiamavano i latini. Bisognerebbe aggiungere che la praxis e l’agire sono considerati, da Aristotele a Hegel, una forma di conoscenza: quella che si prende cura degli eventi umani e naturali nella loro mutevolezza, non coglibile attraverso leggi o schemi rigorosi e a priori (ma che posseggono tuttavia consistenza, se non altro perché la regolarità del mondo umano viene assicurata dal fatto che siamo attorniati da istituzioni e cose più durevoli dell’attività che le ha prodotte). La scienza, al contrario, si occupa delle “cose che non possono essere diversamente da ciò che sono”, degli enti della matematica o dell’astronomia, che – proprio in quanto immutabili ed eterni – possono diventare oggetto della teoria. Nel rivendicare il ruolo della politica, Hannah Arendt recupera la tradizione del pensiero ciceroniano, che poneva la vita activa addirittura al di sopra della vita contemplativa, tanto che i romani impiegavano come sinonimi “vivere” ed “essere tra gli uomini (inter homines esse)”.1 Se la politica è dunque inter homines esse, la sua essenza si rinviene proprio 251

in questo “tra”, nell’ottimizzare la relazione reciproca di individui e gruppi aventi interessi e progetti differenti. La politica, al pari dell’azione, è infatti plurale, presuppone sempre gli altri: “si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini […] tratta della convivenza e comunanza dei diversi”.2 Sotto questo profilo, essa rispetta la molteplicità dei punti di vista e la loro incomponibilità, rifiutando l’intimazione ad appiattire tutte le opinioni sotto la ferrea dittatura di una presunta verità incondizionata che ne eliminerebbe il carattere ottusamente parziale. Alla politica è dunque costitutivamente necessaria la “libertà”, l’agire autonomo degli individui in quanto capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo, di non previsto dai meccanismi causali del mondo. La libertà è, con le parole di Kant, quel “miracolo del mondo fenomenico” che introduce il non esistente nell’esistente. Non si è però liberi soltanto quando si agisce: “Disgraziatamente, a differenza di ciò che si pensa di solito circa la proverbiale indipendenza da torre d’avorio dei pensatori, nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e difatti è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non pensare”.3 Avendo ricevuto la delega di prefigurare attivamente un futuro sempre più aperto, la volontà ha comunque assunto, in età moderna, un ruolo dominante. La percezione dell’aumentata indeterminatezza dell’avvenire acuisce il bisogno di specificare e visibilizzare in forme riconoscibili da tutti i principali obiettivi politici. Favorisce così il sorgere di ideologie e di utopie radicali, che mobilitano tanto più massicciamente le popolazioni, quanto più difficili e incerti 252

sono gli scopi da raggiungere. Proprio perché, in genere, i singoli sono costretti a un’intima solitudine, senza essere in grado di concepire piani di vita sensati, i regimi totalitari esercitano su di loro un’attrazione che li induce a sottomettersi senza riserve. Tale potere appare salvifico proprio nel far dimenticare le differenze, essenziali alla politica. Sotto la maschera della solidarietà di razza, di nazione o di classe, il terrore fissa ulteriormente tale atomismo, chiedendo una incondizionata fedeltà al partito o alla patria a persone senza saldi legami con familiari o amici: “La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali”. L’etica del sacrificio, propagandata e imposta, non si appella quindi all’abnegazione come virtù, “ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità”.4 Si chiede agli individui l’obbedienza automatica, la regressione al regno animale, alla pura vita biologica, a una condizione in cui la catena di comando resti salda e indiscussa. Come ricorda Elias Canetti, “l’ordine è più antico del linguaggio, altrimenti i cani non potrebbero conoscerlo. L’addestramento degli animali si fonda proprio sul fatto che essi, pur ignorando il linguaggio, imparano a capire ciò che si richiede loro […]. Il potere del comando non deve essere messo in dubbio; se si è affievolito, deve essere pronto a riaffermarsi con la lotta. Per lo più, tale potere continua a essere riconosciuto per molto tempo. Sorprende notare quanto di rado si esigano nuove decisioni: ci si accontenta degli effetti delle decisioni ormai consuete. Nei comandi 253

rivivono le battaglie vittoriose, ogni comando eseguito rinnova una vecchia vittoria”.5 Sia il totalitarismo che la perdita di significato dell’esistenza nelle democrazie contemporanee sono il prodotto degli automatismi e della passivizzazione di tutte le tre facoltà: del pensare, che non riesce a comprendere il senso degli eventi; dell’agire, che fallisce nella concertazione collettiva delle differenze politicamente rilevanti per il conseguimento della “vita buona”; del “giudizio”, che manifesta la sua debolezza nello spuntarsi dell’acume, nella sopraggiunta, diffusa incapacità di discriminare. Il giudizio è la “radice comune” del pensare e dell’agire, il tentativo di gettare un ponte tra loro. Rappresenta “il misterioso talento della mente in virtù del quale vengono congiunti il generale, che è sempre una costruzione della mente, e il particolare che è sempre dato all’esperienza dai sensi”. Analogamente al “gusto” nel campo dell’estetica – che si afferma quando vengono meno i pretesi criteri oggettivi della bellezza – anche la facoltà di giudizio, per determinare il suo oggetto, non può far ricorso agli strumenti e ai metodi prefissati in uso nel pensare. Al pari del “giudizio riflettente” formulato da Kant (che valuta i particolari senza sussumerli sotto concetti generali), nel giudizio politico elaborato dalla Arendt la riflessione conserva il suo originario significato ottico, quasi di un rimbalzare del giudizio, che ritorna su se stesso per venire poi nuovamente rinviato sul suo oggetto. Con una differenza di intonazione rispetto al “circolo ermeneutico”, questa forma di giudizio non si sottrae però alla responsabilità del 254

prendere posizione. L’antidoto agli errori, sempre in agguato, è fornito, per compensazione, dalla dichiarata disponibilità a rettificarli in presenza di argomentazioni convincenti. Senza il giudizio, il pensare rimarrebbe statico e inerte contemplare. Ma “la manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto”. Le mostruosità commesse da Eichmann nei campi di sterminio – con buona coscienza, quasi fossero normale amministrazione – dipendono dal diffuso deperimento della facoltà di giudicare, dell’incapacità di distinguere tra il bene e il male, tra l’agire e il lavorare.6 Quando il giudizio si ottunde, libertà e autorità divengono parimenti ingiustificabili. Gli uomini non sono in grado di istituire rapporti di cooperazione soddisfacenti e la menzogna e la “banalità del male” trionfano incontrastati. 2. Habermas: il deserto avanza L’“agire comunicativo” – che è una “interazione mediata simbolicamente” – rappresenta in Habermas un modo (diverso da quello di Hannah Arendt) per riannodare le relazioni tra teoria e prassi e per coordinare le azioni degli uomini nelle società “post-tradizionali”. In esse i processi introdotti dai media – denaro, potere, organizzazione burocratica – hanno finito per incatenare strettamente gli individui alle loro funzioni, restringendone le aree di autonomia. Vi domina cioè una “ragione strumentale”, che guarda soltanto ai mezzi necessari al conseguimento di fini 255

non giustificabili razionalmente. Dopo la consumazione del “cuscinetto di grasso della tradizione” – che continuava ad alimentare il pensiero e l’azione, fornendo loro una sorta di pilota automatico – viene ora aggredito direttamente il tessuto connettivo astratto del “mondo della vita”, l’universo simbolico condiviso. Esso è già corroso dall’incurabile “malattia della tradizione” provocata dall’avvento della Rivoluzione industriale. Sradicando dalle campagne milioni e milioni di persone, espellendo donne e bambini dall’ambito della casa, modificando i modi di pensare e di sentire di tutti, il deperimento della tradizione ha ibridato codici etici rimasti a lungo isolati e sviluppato comportamenti orientati più sull’attesa di tempi storici migliori che non sull’imitazione di ideali santificati dal passato. Le autorità che detenevano in precedenza il monopolio nell’interpretazione delle regole morali tendono così a scaricare sugli individui la responsabilità di scegliere. Da almeno due secoli, si assiste infatti, in una sorta di crescente deregulation etica, a una pluralità non coordinata e spesso conflittuale di fonti erogatrici di norme. Il costume e l’abitudine cessano così di rappresentare la base della condotta morale, il paradigma degli atteggiamenti che un’intera comunità accetta e promuove come modelli da condividere. Si passa, secondo Alisdair MacIntyre, dal sistema delle “virtù” – dei comportamenti collettivi omogenei e relativamente costanti, motivati da una tradizione riflessa, come poteva presentarsi nell’Etica Nicomachea di Aristotele – al sistema delle preferenze individuali. La loro natura è di essere soggettive, 256

mobili, autoreferenziali, non argomentabili, orientate secondo il principio che in economia si usa chiamare di “sovranità del consumatore” (le cui scelte sono indiscutibili, perché “il cliente ha sempre ragione”). Nel loro ambito, l’esclusiva facoltà di deliberare si attribuisce, di conseguenza, alle intuizioni e alle inclinazioni emotive dell’agente. E, dato che i binari dell’abitudine non ci guidano più e il ritorno a un’etica di valori largamente condivisi appare improbabile, la cosa migliore è, secondo MacIntyre, seguire l’esempio di san Benedetto: in quest’epoca di corruzione, paragonabile alla fine dell’Impero romano, ritirarsi in piccoli gruppi a praticare una morale comunitaria in attesa che sorga ancora il sole di una civiltà migliore.7 Nelle società post-tradizionali neppure l’ermeneutica è più capace – come credono Dilthey, Gadamer o Rorty – di rivitalizzare l’esperienza aumentandone lo spessore. Il suo inaridirsi rischia di essiccare quella sorgente comune da cui derivano i flussi di significato e di consapevolezza degli individui, minacciando l’efficacia dei meccanismi di costruzione dell’identità personale e collettiva. I media hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato ragione. Sotto questo profilo, la teoria habermasiana costituisce un tentativo per irrobustire i morenti mondi vitali per mezzo del Diskurs, dell’agire comunicativo, che ne ritesse incessantemente lo sfilacciato tessuto simbolico. Viene razionalmente ricostruito sia quanto distrutto dalla “razionalità strumentale”, sia quanto è stato scosso da “terremoti” avvenuti nella vasta e inselvatichita area dei 257

mondi della vita, che assumono carattere problematico quando vengono alterati da eventi esterni alla coscienza. Allora vacillano e in parte crollano, senza però stravolgere completamente la percezione che abbiamo della realtà: “Soltanto un terremoto richiama la nostra attenzione sul fatto che avevamo ritenuto saldo il terreno sul quale ogni giorno stiamo e camminiamo. Anche in queste situazioni diventa incerto soltanto un piccolo frammento del sapere di sfondo, che viene staccato dalla sua inclusione in tradizioni complesse, relazioni solidali e competenze”.8 L’“Illuminismo” o, meglio, il processo di rischiaramento (Aufklärung) dell’umanità europea culminato nel Settecento – che nella ragione intesa hobbesianamente come calcolo introduceva il telos dell’emancipazione – è stato il vero “terremoto” del mondo moderno, quello che ha portato alla luce aspetti prima invisibili di ovvietà del mondo della vita. Mediante il ricorso a principi universali, esso ha accelerato il metabolismo e l’instabilità degli universi simbolici scalzando tradizioni, pregiudizi e privilegi. La realizzazione distorta dell’Aufklärung ha condotto però alla distruzione dei mondi della vita condivisi, spingendo la coscienza a surrogarli attraverso una faticosa, instancabile e spesso infruttuosa opera di aggiornamento. In tale contesto la capitalizzazione ordinata e stabile dell’esperienza, la sua previdente accumulazione non appare più praticabile, in quanto essa si inflaziona rapidamente, scorre senza cristallizzarsi o senza sedimentarsi a sufficienza. L’Aufklärung ha così prodotto una “patologizzazione” del mondo della vita e – per contraccolpo – delle forme stesse della razionalità, che 258

hanno rivelato aspetti inadeguati o pericolosi. Una simile degenerazione non è però imputabile all’abuso di potere da parte della ragione, quanto piuttosto al suo deficit. L’Illuminismo è rimasto un “progetto incompiuto”, da riprendere dopo aver inglobato in esso tutti i successivi “teoremi anti-illuministici” che hanno avuto il merito di segnalarne i limiti o i punti dolenti dell’impatto con le strutture sociali. Lo storicismo e l’ermeneutica sono, ad esempio, preziosi perché segnalano il quoziente di rallentamento, di distorsione e di relativizzazione subìto dalle tendenze universalistiche ed emancipative, e indicano indirettamente la strada per rafforzare adeguatamente le esigenze di universalità e di liberazione di tutti gli uomini. Ponendo l’accento sulla specificità di situazioni determinate secondo parametri di spazio e di tempo e sulla circolarità del comprendere, storicismo ed ermeneutica hanno però perduto di vista l’asse di avanzamento cumulativo della storia e il rispetto per l’universale. Entrambi scontano la “desertizzazione” del mondo della vita, a cui reagiscono mediante l’enfasi posta sulla fluidità della storia e sul movimento circolare infinito dell’attività ermeneutica. Habermas manifesta invece una solida fiducia nella diffusione di processi evolutivi di apprendimento di norme universali, sia di natura intellettuale che morale. Essi appaiono l’unica via razionalmente percorribile in vista dell’emancipazione del genere umano dalle barriere particolaristiche che ne soffocano le potenzialità. Le energie inceppate e compresse da una “modernità” ridotta a mera ragione strumentale verrebbero pertanto nuovamente 259

attivate dall’agire comunicativo, il solo capace di generare accordi razionalmente condivisibili. Esso darebbe senso compiuto all’interrotto processo dell’“Illuminismo”, facendone simultaneamente diminuire la virulenza causata dalla sua permanente instabilità e consentendogli inoltre di abbandonare quel lato di irrazionalità “mitologica” che aveva indotto Horkheimer e Adorno a diffidarne. Secondo Habermas (che segue qui i risultati della psicologia evolutiva di Piaget e di Kohlberg) occorre tendere a una Aufklärung che sia anche morale, a un rischiaramento non semplicemente cognitivo, ma pratico. Come nell’educazione dell’individuo, così in quella delle società umane si possono percorrere successivi stadi di sviluppo. Una volta giunti a un livello superiore, risulta poi irreversibile, soprattutto nelle società democratiche, il cammino verso uno inferiore: sarebbe come rispedire un adulto istruito, che ha frequentato l’università, in prima elementare, a imparare le aste o le quattro operazioni. Adorno, che aveva vissuto il passaggio dalla democrazia sui generis della Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo, non avrebbe certo approvato tale ottimistica prospettiva. Le ripetute scosse telluriche della razionalizzazione pongono il problema di come istituire una forma di dialogo che renda nuovamente tra loro congruenti i dispersi tasselli del frammentato mondo della vita. Questo rimane sullo sfondo, come se fosse di per sé privo di autonoma consistenza. E, in effetti, costituisce “quella strana cosa che si sgretola e scompare dinanzi ai nostri occhi non appena ce lo vogliamo portare dinanzi pezzo per pezzo”.9 260

Bisognerebbe tuttavia abituarsi a vivere – oltre che in oasi di razionalità comunicativa illesa e di intersoggettività risparmiata dalla distruzione – anche in una specie di California dei mondi vitali e dei sistemi simbolici. Si dovrebbe cioè apprendere a far fronte non solo alle scosse di terremoto più violente (quelle che mettono allo scoperto elementi in precedenza non focalizzati del mondo della vita), ma anche ai movimenti sussultori di assestamento che, susseguendosi con frequenza, modificano impercettibilmente sia le cose, sia il modo di rivolgerci a esse. L’agire comunicativo svolge anche una funzione terapeutica nel ricostruire incessantemente il mondo comune, salvandolo dai disastri provocati dalla crescita ipertrofica della ragione strumentale. Quest’ultima sostituisce alle ideologie globali del passato la parcellizzazione della coscienza, defraudandola così della sua forza sintetica e innescando una crisi che si manifesta su diversi piani: culturalmente come emorragia di senso, socialmente come anomia e indebolimento dei rapporti di solidarietà; individualmente come serie di disturbi che colpiscono la personalità. 3. Rawls: “lotteria naturale” e giustizia L’insistenza su criteri normativi di carattere universale, che rendano possibile una interazione non violenta e non manipolativa tra gli uomini, si intreccia anche altrove con la ricerca di modelli di società mediante i quali valutare gli assetti delle comunità storiche concrete. Sullo sfondo di 261

questi convergenti interessi sta la percezione del venir meno della fiducia in una storia automaticamente indirizzata verso il meglio e dell’emergere di fattori di disagio e di disgregazione all’interno dei sistemi democratici. In seguito alla bancarotta del “Dio che ha fallito”, al tramonto cioè del comunismo sovietico, e alla conclusione dei tre “decenni d’oro” (1960-1990), in cui l’umanità occidentale ha conosciuto un benessere senza precedenti, sembra iniziare ora un’epoca di aspettative decrescenti. E poiché gli ideali di egualitarismo assoluto appaiono ormai irrealistici, se non funesti, e lo Stato sociale non risulta più in grado di distribuire indiscriminatamente abbondanti risorse a tutti i cittadini, diventa imprescindibile il compito di stabilire criteri rigorosi per una più equa ripartizione di costi e benefici. La riformulazione del patto sociale secondo nuovi schemi di cooperazione appare ancora più urgente in un periodo in cui la piena occupazione si presenta come un remoto miraggio e in cui le frontiere dei paesi più ricchi diventano permeabili a consistenti flussi migratori di uomini e donne provenienti dalle zone meno favorite della Terra. Il riconoscimento della fragilità dello Stato sociale e della miseria crescente a livello planetario pone un’alternativa, a cui si è mostrata ben presto sensibile la filosofia politica statunitense. Si devono attribuire le disuguaglianze al caso, come afferma Robert Nozick, o bisogna invece respingere la “lotteria naturale”, schierandosi per una giustizia che salvaguardi i ceti e gli individui più deboli, come sostiene John Rawls? Per Nozick siamo tutti figli del caso, già nell’istante del nostro concepimento, poiché uno solo tra 262

miliardi di spermatozoi ha fecondato quel determinato ovulo.10 Dobbiamo quindi guardarci bene dal mettere in discussione il ruolo dell’accidentalità, perché, altrimenti, stroncheremmo alla base la legittimità stessa della nostra esistenza. Rischioso è anche far ricorso a criteri di riequilibrio e di giustizia basati sulla commensurabilità tra i differenti individui rispetto a un presunto “bene comune”. Gli individui sono infatti tra loro incommensurabili e il bene comune non è che una chimera: sacrificare un individuo a vantaggio di altri significa semplicemente nuocere a lui e giovare ad altri. Morale, anarchica e conservatrice insieme: ciascuno per sé e nessuno per tutti. Combattendo su due fronti, tanto contro queste versioni “libertarie” di individualismo possessivo, quanto contro l’utilitarismo vecchio e nuovo (da Bentham a Harsanyi), John Rawls inaugura una rinnovata tradizione contrattualista, erede del diritto naturale moderno. Essa si contrappone sia alla lotteria naturale, alla giustificazione delle norme di giustizia a partire da contesti fattuali o storici, sia al sacrificio del singolo in nome della felicità del maggior numero. Occorre servirsi, secondo Rawls, di un metro di giudizio degli eventi esterno agli eventi, giacché l’unità di misura non può misurare se stessa. Per elaborare un’etica e una politica fondate su principi di valore universale e condiviso è pertanto indispensabile ricorrere a modelli trascendentali di origine kantiana, a forme cioè che non derivano dall’esperienza ma strutturano e rendono intellegibile l’esperienza stessa. Il situarsi fuori dalla storia o dall’accidentalità naturale vuol dire pertanto che – nel 263

giudicare qualcosa dal punto di vista dell’etica pubblica – si prescinde dalla infinita varietà delle situazioni, allo stesso modo in cui il fisico, nel formulare le leggi del movimento, non tiene conto dell’attrito reale. Se la giustizia è commensurabilità, i canoni per stabilire se una società è giusta possono venir elaborati mediante un accordo razionale tra gli uomini. Compiamo un esperimento mentale e immaginiamo che ciascuno debba scegliere a priori un modello di società sotto un “velo d’ignoranza” che gli nasconde la propria futura collocazione al suo interno. Dato che la sorte potrebbe riservargli il punto più basso della scala sociale, ognuno tenderà coerentemente a minimizzare il rischio e a preferire quella società dove il più svantaggiato riceva, per compensazione, il massimo dei vantaggi. Ponendosi nell’ottica dello spettatore imparziale e generalizzando la propria scelta, ciò significa che egli riterrà, insieme, utile e giusto per lui e per tutti un assetto sociale in cui le diseguaglianze possano essere sfruttate a beneficio dei più sfavoriti. Tali criteri di giustizia non rappresentano però rigide e inesorabili leggi di natura. Costituiscono semmai la conseguenza di un possibile patto tra individui, di un contratto capace di conciliare interesse del singolo e interesse collettivo. Contro il weberiano “politeismo dei valori” Rawls reintroduce così l’idea classica di una loro gerarchia. La giustizia (preliminarmente definita “la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”) è intrinsecamente connessa alla dignità della persona, “bene primario” che non ha prezzo, che non può 264

cioè essere scambiato con nient’altro. La libertà, che riassume in sé tutti i beni primari, è “lessicograficamente” sovraordinata all’eguaglianza, ha cioè una validità superiore. Il “principio di differenza”, a sua volta, sostiene che le diseguaglianze sociali ed economiche devono essere mantenute solo se vanno nella direzione di assicurare i maggiori benefici ai meno avvantaggiati o, con un’altra formulazione, che “tutti i valori sociali – libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno; l’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti”.11 Ciò significa però, in termini classici, che la conservazione della libertà è più importante dell’eliminazione delle diseguaglianze o, meglio, che, senza la difesa dei “beni primari” da distribuire con giustizia, non è possibile la riduzione delle diseguaglianze. Sebbene Rawls riconosca che tale criterio vale per le società democratiche a scarsità moderata, ossia non eccessivamente gravate dalla povertà, e che l’ordine lessicografico prevede delle eccezioni (si danno infatti fasi storiche, come quella della rivoluzione industriale, in cui la libertà di singoli privilegiati è meno importante della conquista dell’eguaglianza dei più sfavoriti), si può in generale dire che la prima manifestazione della giustizia si riscontra nella distribuzione delle libertà, bene a fondamento di ogni altro. L’égalité non è più la meta agognata della giustizia sociale, così come non lo è il 265

mantenimento delle diseguaglianze esistenti, la stabilizzazione del caso. Rawls non solo diffida del carattere stagnante delle società egualitarie, ma le giudica responsabili degli effetti perversi che inducono a violare la libertà senza realmente ridurre la forbice delle diseguaglianze. Il “principio di differenza” rappresenta quindi anche un’alternativa moderata alla lotta di classe, la rinuncia al capovolgimento rivoluzionario di tutte le diseguaglianze esistenti. Il progetto di Rawls è tra i più elaborati tentativi di pensare l’ordinamento delle società democratiche, di fissare un punto di equilibrio fra la tradizione liberale di difesa delle libertà individuali e quella democratico-radicale di promozione delle chances di vita dei più svantaggiati. Egli è convinto che le diseguaglianze siano in qualche caso positive, che costituiscano degli incentivi, in quanto strumenti per indirizzare le risorse “nelle mani di chi può farne l’uso sociale migliore”.12 La giustizia si lega però in lui a un principio di solidarietà e di fratellanza, a un criterio così inesorabile di riparazione sociale dei torti e degli svantaggi da non indietreggiare neppure dinanzi alla condanna delle doti naturali come fonte di allocazione dei benefici sociali. I “talenti” dei singoli non solo vengono considerati una ricchezza collettiva da ridistribuire all’interno della comunità, ma la loro stessa promozione non risulta affatto prioritaria per la collettività. Così, ad esempio, nel campo dell’educazione scolastica giustizia vuole che non vengano aiutati i più intelligenti o i più svegli, bensì i meno intelligenti e i più lenti, che si rettifichino, di conseguenza, 266

per quanto è possibile, sia le diseguaglianze naturali che quelle dovute al background familiare. Vi è probabilmente in Rawls, oltre all’impianto giusnaturalistico del suo pensiero, un sensibile pathos religioso: il concetto di “società ben ordinata” viene infatti esplicitamente dichiarato un’estensione del concetto di tolleranza religiosa e una interpretazione del kantiano “regno dei fini”. Come è tuttavia possibile mantenere la solidarietà in regimi democratici caratterizzati dal pluralismo e dall’individualismo, dove a ciascun cittadino e a ciascun gruppo è lecito raggiungere a suo modo quello che crede sia un bene? Come stabilire, in tale contesto, norme che permettano di rispettare la divergente molteplicità dei valori e dei piani di vita, mantenendo una “neutralità liberale” in relazione alle differenze constatate, senza per questo distruggere il vincolo sociale e precipitare tutti nel caos? Come può uno Stato conservare la propria stabilità in mancanza di concreti valori unificanti ed effettivamente condivisi, al di là di un loro non impegnativo riconoscimento di modelli astratti di giustizia? I temi della durata delle istitituzioni e della giustizia nella prospettiva delle generazioni future si intrecciano nell’ultimo Rawls con l’elaborazione di uno schema di convivenza tra le diversità ottenuto mediante il “consenso per intersezione”. Tutta la sua opera più recente si concentra così nello sforzo per rispondere alla domanda “com’è possibile che permanga costitutivamente nel tempo una società giusta e stabile di cittadini liberi ed uguali che restano profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli?”.13 267

1 H. Arendt, Vita activa (1958), Bompiani, Milano 1964,

pp. 13-15. 2

Id., Che cos’è la politica? (frammenti degli anni cinquanta, pubblicati nel 1993), Comunità, Milano 1995, p. 5. 3 H. Arendt, Vita activa, cit., p. 349. 4

Id., Le origini del totalitarismo (1963), Comunità, Milano 1967, pp. 439, 437. 5 E. Canetti, Massa e potere (1960), Rizzoli, Milano 1972,

pp. 331, 333. 6 Cfr. H. Arendt, La vita della mente (1978), il Mulino,

Bologna 1987, pp. 151, 288-289; Id., La banalità del male (1963), Feltrinelli, Milano 1964. 7

Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù (1979), Feltrinelli, Milano 1988. 8

J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1982), il Mulino, Bologna 1986, ii, p. 1084. 9 J. Habermas, Dialettica della razionalizzazione (1981), in

Dialettica della razionalizzazione, Unicopli, Milano 1983, p. 240. 10

Cfr. R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia (1974), Le Monnier, Firenze 1981, p. 240. Quest’opera di Nozick appare due anni dopo quella di Rawls, Una teoria della giustizia, che è del 1972. 11 J. Rawls, Una teoria della giustizia (1972), Feltrinelli,

Milano 1982, p. 67. 12

J. Rawls, A Kantian Conception of Equality, in “The

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Cambridge Review”, febbraio 1975, p. 97. 13 J. Rawls, Liberalismo politico (1993), Comunità, Milano

1995, p. 23.

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X. Guardando avanti

1. Gli orizzonti della Terra Trasportando gradualmente il problema dal piano della giustizia all’interno degli Stati a quello del rapporto tra le differenti popolazioni e culture del pianeta, i critici di Rawls mettono in dubbio i presupposti fondamentali della sua teoria. Obiettano: la “situazione originaria” del contratto sociale, in cui i singoli appaiono spogliati di qualsiasi determinazione storica, mossi soltanto dal calcolo di minimizzare i rischi, non presuppone forse dei soggetti di cui si “dà per scontata la individuazione antecedente”, costituitasi cioè in maniera astratta, al di fuori di ogni legame sociale?1 E questi individui, preesistenti a ogni forma di comunità, sono davvero in grado di accordarsi in base a regole dotate di una razionalità neutrale, appresa peraltro in maniera misteriosa? I communitarians contrappongono, di conseguenza, all’“atomismo” dei liberals (o all’“individualismo metodologico” di quanti ritengono che si debba partire dalla prospettiva dei singoli per giungere ai beni sociali come aggregato di beni individuali) l’idea che “il vivere in società è una condizione necessaria” tanto dello “sviluppo della razionalità”, quanto della possibilità di ciascuno di divenire “un essere pienamente responsabile, autonomo”. L’“obbligo di appartenere” a una comunità è quindi inscindibile sia 270

dall’essere titolari di diritti, sia dal prendersi cura dei propri interessi privati.2 Il “dialogo tra sordi” che oppone i “comunitaristi” (Michael Sandel, Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, in parte Michael Walzer) ai liberals o “universalisti” (John Rawls, Jürgen Habermas, Ronald Dworkin) verte dapprima sulla possibilità di ancorare i diritti o a determinate società, che articolino in maniera specifica le diverse capacità e attese dei singoli, oppure all’umanità in quanto tale. La questione si è poi estesa e trasformata, quasi per linee interne, in quella del “multiculturalismo”, dei criteri da adottare per la convivenza tra culture ed etnie diverse, ciascuna mossa da valori spesso contrastanti (e, per il momento, incomponibili). I problemi precedenti vengono così riformulati a grappolo: come limitare o preservare l’eguaglianza e la parità d’accesso ai diritti tra appartenenti a popoli e culture diverse? Ancora: si devono proteggere le minoranze e, più in generale, quanti risultano comunque svantaggiati dal potere di qualche gruppo dominante, concedendo loro dei benefici riequilibratori? E, infine, una società liberale – ossia che mantiene la massima neutralità dinanzi al conflitto tra valori – deve rispettare anche quei gruppi o quelle culture che non riconoscono i diritti degli altri? Si innesca, in termini logici, una formidabile tensione tra estremi, peraltro, empiricamente inesistenti: la differenza irrelata e l’universalismo monolitico. Di fatto esiste un’ampia gamma di gradazioni intermedie, di compensazioni variate, di dosaggi accorti tra questi due 271

margini generalmente inaccettabili (che hanno tra loro una relazione di complementarità, come quella che si instaura tra il concavo e il convesso). Quali esempi di tali pratiche di rettificazione si può vedere come nelle società liberali, prevalga la propensione a salvaguardare le differenze con spirito di tolleranza e di rispetto dell’alterità. Si genera tuttavia, al loro interno, un’inevitabile richiesta di limiti traducibile nell’interrogativo: tolleranti (rispettose, ospitali e cosmopolite) sino a che punto? Con simmetria specularmente rovesciata, anche le società chiuse, che scelgono determinati valori come assoluti, sono indotte a domandarsi: intolleranti (xenofobe, nazionaliste e integraliste) sino a che punto? Lo sfondo sul quale campeggiano tali domande è costituito dai processi di “globalizzazione”, che continuano a estendersi, modificando i nostri modi di vivere e di pensare. Meno velocemente, però, e con minore impatto psicologico di quanto si pensi. Certo, il mondo si “restringe”, in quanto le sue parti entrano in una più fitta trama di rapporti; la società si “macdonaldizza”, mediante la creazione di standard di consumo comuni a tutte le latitudini; le élites transnazionali (tecnici, piloti d’aereo, scienziati, artisti, rappresentanti di organismi internazionali, utenti e venditori di tele-lavoro) si moltiplicano. Eppure si radicalizza, per contro, da parte di molti popoli, culture e sub-culture, la simultanea volontà di separazione dal contesto planetario. I modelli più antichi di convivenza e di mentalità si “disassemblano” senza che quelli più recenti si sedimentino allo stesso ritmo. L’assunzione di abitudini o di 272

idee di origine straniera non incide molto sulle strutture profonde dell’identità, almeno per l’immediato. Il fatto che un giapponese beva la Coca-Cola non lo rende in effetti più americano di quanto un americano diventi giapponese mangiando il sushi. Si assiste così allo strabismo, alla divergenza tra globalizzazione e frammentazione, al parallelo espandersi dell’isolamento centrifugo e della “mondializzazione” centripeta. Proprio mentre aumenta il tasso di integrazione fra continenti e popoli, cresce – con pari o maggiore intensità – lo sforzo di alcuni paesi e culture per svincolarsi da questo abbraccio, avvertito come soffocante. Si crea così una miscela esplosiva di risentimenti verso le potenze egemoni, di orgoglio etnico, di fanatismo religioso, di tradizioni illustri talvolta inventate, di ricerca di vie alternative rispetto ai “disvalori globali” del progresso incessante, del consumismo o dell’individualismo. Molte civiltà subiscono il trauma dello sradicamento, della “deterritorializzazione”, della perdita di contatto con l’humus delle tradizioni in cui i loro componenti erano, sino a poche generazioni indietro, quasi totalmente inseriti. Ci si può leggittimamente chiedere se la rinascita dei cosiddetti “particolarismi” e “localismi” non costituisca, almeno in parte, una formazione reattiva all’inserimento di singoli, ceti e popoli nel reticolo a maglie sempre più strette (e per alcuni opprimenti) dei rapporti planetari di interdipendenza. Si alimenta infatti, in coloro che sono meno “attrezzati” o meno disposti a sintonizzarsi con tale sistema altamente coordinato, un acuto e doloroso senso di 273

inferiorità, si fomenta indirettamente il ripudio di una omologazione imposta, il sospetto di una ingiusta retrocessione, la certezza di una perdita di sovranità e di ruolo nell’arena internazionale. Si reagisce così, per “eccesso di legittima difesa”, rafforzando sproporzionatamente in maniera compensativa la propria identità, ritenuta minacciata o disprezzata. Ne consegue la volontà di barricarsi in se stessi e l’auto-esaltazione dei propri valori, fedi e costumi, l’esibito trionfalismo riguardo alle proprie “radici” nazionali e religiose. Si osserva talvolta, in alcune popolazioni, la manifestazione di una sorta di amore tradito e respinto, l’ira luttuosa per non essere stati davvero coinvolti, con pari dignità, dai paesi più ricchi e più potenti, nei grandi progetti di modernizzazione. È possibile elaborare un codice morale entro cui articolare e rendere compatibili, in modo innovativo, regole e criteri di giudizio tra i più diversi? È davvero praticabile l’ipotesi di un’“etica planetaria”? I comunitaristi tendono generalmente a dare una risposta negativa a entrambi i quesiti, mentre gli universalisti sono generalmente propensi a rispondere in termini positivi, per lo meno nella prospettiva dell’approssimazione infinita. Tale etica dovrebbe corrispondere all’effettivo sviluppo della coscienza morale e civile transnazionale, modellata su esperienze confrontate e condivise. Appare, tuttavia, estremamente arduo conciliare regole morali e giuridiche forse dotate di maggiore universalità e plausibilità, ma prive del sostegno di consolidati costumi locali, con bisogno di identità e di autostima, scarsamente negoziabile, espresso da 274

molte comunità. È poi dubbio che esistano al momento schemi di convergenza e di compatibilità tra culture eterogenee. L’ostacolo maggiore risiede comunque nel fatto che le grandi civiltà mondiali sono ancora in cammino, stanno cercando faticosamente di incontrarsi e di intendersi più a fondo. E ciò malgrado il fatto che ci troviamo, secondo la formula di Edgar Morin, nel “quinto secolo dell’era globale”, a partire cioè dal momento in cui il Vecchio e il Nuovo Mondo si sono conosciuti nel 1492. Certo, un’etica planetaria minima (fondata su un ristretto numero di norme universalmente diffuse e ragionevolmente difendibili) sarebbe preferibile a conglomerati di valori che si escludono o si ignorano reciprocamente. Infatti, in linea di principio, l’universale può comprendere il particolare, ma il contrario non accade mai. Ma di quale universalismo si parla? Di quello stabilito su leggi rigide e immutabili, che esigono di venire riconosciute da tutti gli “uomini di buona volontà”? In questo caso si sarebbe tenuti a seguire la regola aristotelica, secondo la quale contra principia negantes non est disputandum, ossia a rifiutare qualsiasi dialogo con coloro che negano principi per noi razionalmente fondati o auto-evidenti. Essi, infatti, sarebbero simili a “un ceppo” o, in linguaggio più moderno, moralmente ciechi o daltonici. Bisogna però essere sicuri che tali principi rappresentino effettivamente le premesse di un accordo universale e non, piuttosto, la sublimazione di pregiudizi etnocentrici. D’altronde (pensando al neokantismo di Karl-Otto Apel o, in misura minore, di Jürgen Habermas e di John Rawls) è irrealistico ritenere che la 275

maggior parte degli uomini si lasci convincere da semplici ragionamenti che poggiano su una “fondazione ultima” delle norme etiche, sul mero “agire comunicativo” o su modelli contrattualistici di società giusta. È forse più sensato credere – come ritiene anche un allievo di Habermas – che l’incontro tra uomini e culture differenti implichi una “lotta per il riconoscimento” (posizione questa condivisa anche da Taylor).3 In altre parole, che, di fatto, le identità individuali e collettive siano il risultato non solo – e non tanto – di interazioni razionali, quanto piuttosto di una mistura variamente dosata di violenza e di consenso oppure di violenza che si razionalizza in consenso e di compromessi che riflettono rapporti di forza variabili. Ciò non esclude, ovviamente, che, dal punto di vista filosofico e civile, si debbano usare solo le ragioni dell’intelligenza e respingere quelle della violenza e della manipolazione. Per procedere fruttuosamente nel dibattito occorrerebbe però comprendere meglio i processi di formazione dei “ponti di senso” tra particolare e universale o tra l’“io” e il “noi”. Le idee di “umanità” o di “umanesimo”, oggi avvolte da un alone di diffidenza e di sospetto, rappresentano una casa sufficientemente ospitale per accogliere tutte le differenze o confondono invece, in maniera irrimediabile, l’essenza dell’uomo con una sua particolare forma storica (bianco, di origine europea, o, come si specifica sempre più spesso, anche “maschio”, “eterosessuale” e “giudeocristiano”)? In quest’ultimo caso, si scambierebbe l’autentico universalismo con i valori “locali” forzatamente imposti dagli europei al mondo attraverso secoli di 276

colonialismo e di sfruttamento. Il significato dell’umanesimo si capisce meglio per contrasto, mettendolo a confronto con gli attacchi più virulenti che gli sono stati rivolti nella seconda metà del secolo scorso, a partire dai più recenti per giungere a quelli più lontani nel tempo. Nel 1999 Peter Sloterdijk provocò un notevole scandalo per aver sostenuto la necessità di programmare gli uomini secondo tecniche “zoopolitiche” di selezione prenatale e di modificazione del patrimonio genetico. Piuttosto che lasciare al caso la loro nascita o affidarsi esclusivamente a strumenti culturali per addomesticarne il lato bestiale, bisognerebbe cogliere le opportunità offerte dalle biotecnologie per migliorarli, dato che l’umanesimo ha fallito nel suo tentativo di tenere sotto controllo le tendenze all’imbarbarimento.4 Secondo il Nietzsche dello Zarathustra, che Sloterdijk cita e approva, l’umanesimo (specie quello cristiano e quello che scaturisce dalle ideologie democratiche o socialiste fautrici dell’eguaglianza) ha “rimpicciolito” l’uomo, spossandone lo slancio verso il potenziamento delle proprie forze e facoltà. Si è così acuito il conflitto, da sempre latente, tra la tendenza ad addomesticare la brutalità della specie e dei singoli mediante l’indebolimento degli impulsi e quella, antagonistica, che mira a un incremento delle potenzialità umane mediante una “antropotecnica” oggi accessibile grazie alle biotecnologie. La proposta di Sloterdijk (come sembra pensare Jürgen Habermas)5 non riguarda solo le scelte che i genitori compiono per i propri figli, ma l’intera struttura sociale che 277

finirebbe per somigliare a quella descritta nel romanzo del 1932, Il mondo nuovo, da Aldous Huxley: una società in cui gli esseri umani vengono programmati in base ai ruoli che dovranno svolgere e fabbricati in provette e macchine. Vi è chi è destinato a comandare e chi a essere schiavo, ma tutti sono soddisfatti della loro condizione grazie a una droga, il soma. In sostanza, le persone sarebbero trasformate in uomini di allevamento, una soluzione diametralmente opposta a quella propugnata dall’umanesimo. Un altro insidioso attacco contro l’umanesimo, al quale lo stesso Sloterdijk indirettamente si collega, è quello sferrato da Heidegger nella Lettera sull’“umanismo”,6 con il rifiuto, discusso anche altrove, in particolare, della filosofia romana e dell’intera cultura umanistico-rinascimentale, considerate retoriche e filosoficamente prive di valore (in ciò contrastato dal filosofo italiano, Ernesto Grassi, che insegnava in Germania). All’esaltazione dell’uomo a scapito dell’Essere si contrappone l’invito ad ascoltarne la “voce silenziosa” e ad averne cura diventandone il semplice “pastore”. Nel sostenere che bisogna far scendere l’uomo dal suo piedistallo per inserirlo nuovamente nel Tutto, pur ponendo un problema su cui meditare, Heidegger oscura il ruolo della coscienza, della razionalità e della responsabilità morale e dell’individuo. Per contrasto, vale la pena ricordare che nello stesso anno e presso lo stesso editore (Francke di Berna) uscì in tedesco il libro di Eugenio Garin Der italienische Humanismus in cui si rivendicavano gli Studia humanitatis come espressione di una nuova visione dell’uomo e della vita, posta a 278

fondamento della modernità e caratterizzata dall’impegno civile contro ogni forma di barbarie e dal valore etico della razionalità e della ricerca di senso nel mondo. Si è, appunto, accusato spesso l’umanesimo di mancare del requisito dell’universalità, di riguardare sostanzialmente la sola civiltà occidentale, trascurando le altre. L’umanesimo è stato quindi a lungo presentato come “incolore” pur essendo, di fatto, bianco, europeo. Nell’erigere per secoli un monumento al suo ideale di uomo come campione di intelligenza, di forza e di armonia, ha escluso o messo ai margini del suo campo visivo quanti ha considerato selvaggi o barbari senza storia. Si tratta di un modello che ha avuto una gloriosa parabola e che si è affermato a partire dall’immagine dell’uomo “misura di tutte le cose” di Protagora, dal terzo stasimo dell’Antigone di Sofocle (dove l’uomo viene presentato come deinos, formidabile nel duplice senso di temibile o mirabile, un essere che s’impone con violenza alla natura, squarciando la terra con l’aratro e fendendo il mare con le navi) sino a Leon Battista Alberti, a Filippo Brunelleschi, a Leonardo o a Giovanni Pico della Mirandola (che però lo presenta come “camaleonte”, capace di diventare tutto, o quale essere intermedio, che può innalzarsi fino agli angeli o degradarsi fino alle bestie). Tali concezioni, si sostiene, si sono talvolta trasformate in un alibi atto a coprire e giustificare la conquista di interi continenti. Con il pretesto di portare ai nativi una superiore civiltà e la vera fede, i valori “umanistici” sono stati inculcati nella mente dei rappresentanti delle classi dirigenti locali, allo scopo di farne, nella loro patria, i cani da guardia 279

dell’Occidente. Proprio all’inizio della prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon, Sartre ha così descritto questo fenomeno: “L’élite europea prese a fabbricare un indigenato scelto; si selezionavano gli adolescenti, gli si stampavano in fronte, col ferro incandescente, i principi della cultura occidentale, gli si cacciavano in bocca bavagli sonori, parole grosse glutinose che si appiccicavano ai denti; dopo un breve soggiorno in metropoli, li si rimandava a casa, contraffatti. Quelle menzogne viventi non avevano più niente da dire ai loro fratelli; da Parigi, da Londra, da Amsterdam noi lanciavamo parole: ‘Partenone! Fratellanza!’ e da qualche parte, in Africa, in Asia, labbra si aprivano: ‘… tenone! …lanza!’ ”. 7 Per contrastare questa colonizzazione delle coscienze e per ricostruire l’identità delle popolazioni africane e afroamericane, Léopold Sédar Senghor, poeta, filosofo e futuro presidente del Senegal, ha elaborato – fin dagli anni trenta del Novecento – una teoria della négritude assieme al poeta caraibico Aimé Césaire. Ha voluto intenderla come contributo a un umanesimo più ampio e accogliente, che non esclude l’apporto dell’Occidente alla civiltà planetaria, ma lo integra.8 Nel suo bisogno di definire l’identità africana, Senghor procede tuttavia attraverso taglienti dicotomie. Il bianco è, per lui, “uomo volitivo, soldato, uccello predatore, puro sguardo”, soggetto che si distingue dall’oggetto, tenendolo a distanza, fissandolo, assimilandolo a scopi pratici e di dominio. Allo stesso modo si comporta con gli esponenti di altre culture. È lui il vero “cannibale” che vuole divorare il 280

mondo. Il nero, al contrario, è inserito nel cosmo, legato alla terra e agli altri elementi, sintonizzato con un universo fatto di suoni, colori, ritmi, forme e odori. Sotto la scorza materiale e sensibile egli percepisce però un “mondo d’anime”, di energie spirituali che danno vita a “ogni essere, ogni pianta, ogni cosa provvista di un carattere proprio: montagna, caverna, roccia, lago”. Questa esaltazione dell’animismo africano serve a tessere l’elogio del nero, dotato in sommo grado della predisposizione a emozionarsi e a sentirsi in comunione con tutto ciò che esiste. Poiché questa accentuazione degli elementi emotivi, immaginativi e sentimentali del nero africano hanno fatto pensare (per alcuni versi giustamente) a una rinuncia alla razionalità, svenduta e lasciata in proprietà all’uomo bianco, Senghor ha dovuto, senza molto successo, correre ai ripari. Ha così operato una distinzione tra la “ragione analitica” europea, che seziona cose morte, simile a un anatomista alla presa con i cadaveri, e la “ragione sintetica” africana, un modo di conoscenza che non impoverisce e non fa violenza alle cose, ma che anzi penetra “nella spiritualità dell’oggetto”, abbandonando ogni forma di volontà di potenza e di desiderio di asservire la realtà. Occorre, certo, guardare alla nostra cultura anche dall’esterno, con gli occhi di uomini appartenenti ad altre civiltà, per poterne così stabilire la specificità nell’arena mondiale, per constatarne gli eventuali limiti e per promuovere una crescita comune che abbia al centro l’uomo. Per malinteso multiculturalismo non si deve, 281

tuttavia, svendere il nostro specifico patrimonio, il nostro contributo alla storia dell’intera umanità: l’umanesimo basato sulle idee di libertà, dignità umana, ricerca, dubbio, razionalità, pace. Occorre piuttosto depurarlo delle scorie della vichiana “boria delle nazioni” e confrontarsi con altre culture (cosa che, del resto, è avvenuta nel passato, ad esempio, sia per quanto riguarda gli apporti delle culture asiatiche ed egizie sulla Grecia antica, sia per quanto riguarda il ritorno dei classici greci in Occidente attraverso la Casa della sapienza di Baghdad, dove venne recuperato il patrimonio di testi filosofici, medici, astronomici e matematici portati a Edessa dai filosofi greci cacciati da Giustiniano e poi tradotti in latino a Toledo, sia per l’introduzione dei numeri arabi che avevano già preso lo zero dall’India). Anche perché, malgrado le apparenze e la crescente globalizzazione, le civiltà umane non si conoscono ancora fra loro in profondità: barriere linguistiche, religiose, di costume e di mentalità lo impediscono. Il mondo sembra unificato, ma non è così. Anzi, per certi versi, i confini mentali tendono a diventare più rigidi con la difesa a oltranza della propria identità. L’ultimo potente assalto all’umanesimo occidentale è venuto da Claude Lévi-Strauss, che attacca l’ipertrofia del soggetto, il porre l’uomo al centro del mondo, staccandolo così dalla natura e facendone un gigante, un Assoluto. Non ci si è pertanto resi conto della fragilità della nostra specie e del fatto che “il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui” e “con la sua scomparsa ineluttabile dalla 282

superficie di un pianeta anch’esso votato alla morte, le sue fatiche, le sue pene, le sue gioie, le sue speranze e le sue opere diventeranno come se non fossero mai esistite […]”.9 Sembra di sentire il Leopardi del Cantico del gallo silvestre. Il bersaglio più vicino di Lévi-Strauss è rappresentato soprattutto da Sartre e da tutti i filosofi che “preferiscono un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto”.10 Non senza forzature, egli attribuisce loro la responsabilità di aver contribuito al colonialismo, al fascismo e ai campi di sterminio, giacché hanno contrapposto l’ideale dell’uomo compiuto nella sua perfezione a quello di razze e civiltà inferiori (mentre nessuna società è assolutamente buona o cattiva) e di individui nietzschianamente “malriusciti”. Per questo è necessario dissolvere l’“uomo” per poi reintegrarlo nella natura. Piuttosto che continuare a costruirlo e rafforzare la convinzione del suo splendido isolamento di essere razionale che si arroga il diritto di comandare dispoticamente sugli altri esseri viventi e sull’intera natura, bisogna, infatti, inserirlo nuovamente nel contesto di cui è, di fatto, parte. La sfida posta dall’anti-umanesimo e dall’implicita polemica contro l’identificazione di umanesimo e Occidente è seria e bisognerebbe avere un doppio coraggio: da un lato, di non lasciarsi intimidire dall’aggressività e dalla blindatura in se stesse (a carattere “adolescenziale”, con un negativismo e un’aggressività tipici di identità ancora fragili) di minoranze talvolta più politiche che numeriche; dall’altro, di guardare al lato oscuro del nostro universalismo, ascoltando 283

le voci altrui e domandandoci dove esso potrebbe aver torto. I particolarismi e i “fondamentalismi” nascono infatti soprattutto all’interno dei popoli e dei gruppi che sono stati esclusi dal banchetto dell’universalismo e che perciò rifiutano difensivamente un gioco in cui sono sempre stati abituati a perdere. Resta il compito ciclopico, ma irrinunciabile, di provare a intrecciare pazientemente nella “corda” dell’umanità (che risulta tanto più robusta, quante più storie parziali riesce a connettere tra loro) tutte le varie differenze, senza proporsi di ignorarle o di azzerarle. Un’impresa disperatamente votata allo scacco, secondo molti. E, certo, al suo buon esito non concorre la maggior parte degli strumenti concettuali di cui la filosofia tradizionalmente dispone. I criteri dell’universalismo poggiano infatti su dei presupposti metafisici che, indebolendosi, conducono a forme di relativismo più o meno “ironico”. La constatata perdita di prestigio di quelle filosofie che avevano cercato di articolare la realtà e il sapere sulla base di una ragione universale unitaria, marmorea ed eterna, in grado di fondare una conoscenza certa e incrollabile, produce uno scettico disincanto. Si enfatizzano così la pluralità e l’autonomia delle culture umane, ponendo in evidenza tutto ciò che si presenta come diverso, anomalo, caotico, non riconducibile all’unità o costituito – come ritiene Jean Baudrillard – di “simulacri” caratteristici della società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa.11 Dietro l’idea di unità della “ragione” si sospetta ora una volontà di potenza che inibisce l’evoluzione divergente di altre espressioni di pensiero e di civiltà o, in maniera più 284

benevola, una sua immagine simile a quella di una remota stella spenta che non esiste più ormai, anche se noi continuiamo a vederne la luce. Invece di considerare gli uomini come esseri integralmente storici – radicati in credenze, desideri e pregiudizi appresi all’interno di determinate comunità – vi si scorge la Fata Morgana di una loro coscienza individuale fuori dal tempo e dallo spazio, sede della verità e della morale. E mentre la maggior parte delle filosofie del passato aveva concentrato i suoi sforzi nel cogliere le strutture invariabili, astoriche, del pensiero umano o nell’individuare un comune terreno d’incontro chiamato “ragione”, la cultura filosofica odierna sembra invece porre spesso l’accento sull’improponibilità di ogni schema unificante. Il serrato confronto tra idee e culture si riduce in tal modo a una non impegnativa, “lunga conversazione del genere umano”, alla quale ciascuno può intervenire creativamente inventando o rilanciando argomenti, consapevole però che ogni intendere è anche un fraintendere. In questo modo, da un lato, la discussione diventa più agevole, perché le divergenze di opinione vengono composte in modo garbato e tollerante; dall’altro, si evita accuratamente di approfondire le questioni, considerando semplicemente “folli” coloro che non abbiamo voglia di prendere in considerazione, solo perché le loro tesi esulano da quanto “è determinato dalla nostra educazione, dalla nostra situazione storica”.12 2. Dall’Italia

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Se con mutamento di scala, passiamo da una prospettiva globale (o, almeno, europea e americana) a una locale, siamo in grado di valutare, quasi per campionatura, corrispondenze e peculiarità nazionali rispetto allo scenario mondiale. La filosofia è per sua natura transnazionale. Se si dovessero tracciare isobare o isoipse del pensiero, come accade nelle carte meteorologiche o geografiche, si constaterebbe facilmente come la diffusione delle idee prescinde dai confini degli stati. Eppure, nella polarità ineliminabile tra assorbimento dall’esterno ed emanazione verso l’esterno, una specificità della filosofia italiana esiste.13 Dopo il declino della filosofia analitica nei paesi anglosassoni e la perdita di smalto della French Theory (che ha dominato negli ultimi decenni la cosiddetta filosofia continentale), la filosofia italiana si affaccia oggi sulla scena internazionale e – intrecciandosi con la riflessione di pensatori di altre aree culturali – comincia ad assumere un certo peso a livello internazionale (tra gli autori più tradotti: Gianni Vattimo, Giorgio Agamben, Remo Bodei, Roberto Esposito). Essa corrisponde a un diffuso bisogno di concretezza e di realtà dopo le minuziose indagini dei filosofi analitici e le (apparenti) acrobazie concettuali degli esponenti della French Theory. Se, quindi, come sosteneva Gadamer la filosofia analitica è simile al panno per pulire gli occhiali – serve cioè a vedere più chiaramente, ma non affronta le grandi questioni – e il pensiero di un Derrida rischia di ridurre la realtà a ciò che sta dentro il linguaggio o il testo, la filosofia italiana si presenta con uno sguardo diverso, più attento alla storia e ai conflitti. 286

Sin dalle origini umanistico-rinascimentali gli interlocutori privilegiati della filosofia italiana non sono gli specialisti, i chierici o gli studenti che frequentano l’università, ma un pubblico più vasto che si cerca di orientare e di persuadere. La prima cerchia è costituita, per i filosofi e i letterati, dai connazionali, eredi decaduti di un grande passato, cittadini di una comunità dapprima soltanto linguistica, politicamente divisa in una pluralità di fragili Stati regionali e spiritualmente condizionata da una Chiesa cattolica sin troppo forte. La seconda, con una accentuazione dei tratti “universalistici”, da tutti gli uomini. I filosofi italiani maggiormente rappresentativi non si sono perciò chiusi entro ristrette cerchie locali o dedicati a questioni di particolare sottigliezza logica, metafisica o teologica. Essi hanno assunto come oggetto di indagine questioni che virtualmente coinvolgono la maggior parte degli uomini (i “non filosofi”, come li chiamava Benedetto Croce), ben sapendo che si tratta non solo di animali razionali, ma anche di animali desideranti e progettanti, i cui pensieri, atti o aspettative si sottraggono ai precedenti statuti argomentativi o a metodi rigorosamente definiti. La filosofia italiana dà pertanto il meglio di sé nei tentativi di soluzione di problemi in cui si scontrano universale e particolare, logica ed empiria. Questi stessi problemi scaturiscono dai nodi della vita associata e dagli intrecci variabili, nella coscienza individuale, fra la consapevolezza dei limiti imposti dalla realtà e le proiezioni di desiderio, fra l’opacità dell’esperienza storica e la sua trascrizione in immagini e concetti, tra l’impotenza della morale e la 287

durezza del mondo, tra il pensato e il vissuto. Da qui i numerosi (e riusciti) tentativi di strappare zone di razionalità a territori che ne apparivano privi, di dar senso a saperi e a pratiche che si presentavano dominati dall’imponderabilità dell’arbitrio, del gusto o del caso: alla filosofia politica, alla teoria e alla filosofia della storia, all’estetica o alla storia della filosofia (tutti quei campi, peraltro, in cui il peso della soggettività e dell’individualità risulta decisivo). Rovesciando l’ottica prevalente, bisogna porre l’accento sul fatto che non si tratta di un “indebolimento” delle pretese di intellegibilità del reale, ma anzi dello sforzo di bonificare aree troppo in fretta abbandonate (e inselvatichitesi) da parte di una ragione che si era eccessivamente identificata con i modelli allora vittoriosi delle scienze fisico-matematiche sino al punto di appiattirvisi. Le filosofie italiane sono quindi, spesso, più filosofie della “ragione impura”, che tiene conto cioè dei condizionamenti, delle imperfezioni e delle possibilità del mondo, che non della ragion pura rivolta alla conoscenza dell’assoluto, dell’immutabile o del rigidamente normativo. Curiosamente poi, malgrado il fondamentale contributo offerto dall’Italia agli studi scientifici, negli ultimi secoli e sino a pochi decenni fa non è in genere esistita una costante riflessione autoctona sulla filosofia della scienza o sulla logica (se si escludono Galilei e le figure, rimaste a lungo solitarie, di Peano, Vailati o Enriques). E malgrado l’importanza della Chiesa e l’ampia diffusione delle pratiche religiose, o forse proprio grazie a esse, è poi essenzialmente mancata una filosofia dell’interiorità, del drammatico 288

dialogo con se stessi (del tipo che si è avuto in Francia da Pascal a Maine de Biran). Ciò non dipende soltanto dalla spesso sottolineata tendenza alla teatralità del rito cattolicoromano o dai blocchi psichici provocati dalla paura dei controriformistici “tribunali della coscienza”, quanto piuttosto dall’istituzionalizzazione, fortemente gerarchica, dei rapporti tra i fedeli e la divinità, dall’essere la Chiesa di Roma depositaria di una cultura giuridica, formalizzata nei secoli, che regola minuziosamente e sapientemente i comportamenti dei fedeli. Nel secondo dopoguerra la filosofia politica italiana si trova ad agire in una fase storica in cui lo Stato etico fascista di stampo gentiliano ha lasciato il posto al partito etico, che si erge a portatore di ideali e di valori di carattere universale, dirige i militanti, esige una rigida disciplina, diffonde una concezione della vita sostanzialmente incentrata sulla politica ed elabora ideologie che pretendono di fornire risposte a ogni questione. La cultura si trasforma così in una pedagogia politica caratterizzata dalla volontà di educare le masse attraverso “intellettuali” che – pur di far quadrato attorno alla loro fede politica – vanno spesso incontro, in opposti schieramenti, a un inaridimento della capacità di giudicare. Rispetto al periodo dei totalitarismi, la Guerra fredda ha portato a un diverso isterilimento della capacità di giudicare, al chiudere occhi e orecchie per far quadrato attorno alla propria parte politica. In tale contesto, il magistero di Norberto Bobbio si è esercitato nel combattere il dogmatismo e la rigidità ideologica e nello stabilire, tra 289

cultura e politica, un rapporto che non fosse di sudditanza della prima alla seconda, ma neppure di distacco reciproco. Ha rivendicato “l’indipendenza ma non indifferenza” della cultura e la sua “autonomia relativa” rispetto alla politica, ha insistito sul fatto che “il primo compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità”.14 Con parole che mantengono tutta la loro attualità, ha stabilito quale debbano essere le virtù di chi svolge un lavoro intellettuale: “l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose”.15 Nel dibattito pubblico e in quello specialistico Bobbio si era distinto per l’esemplare chiarezza del suo ragionare, il rifiuto di ideologie preconcette, l’assenza di toni faziosi e propagandistici, la capacità di riformulare incessantemente i problemi, soppesando argomenti e accogliendo obiezioni: “Al di là del dovere di entrare nella lotta, c’è, per l’uomo di cultura il diritto di non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione”. Da qui, replicando a Togliatti, la rivendicazione della libertà contro qualsiasi sclerotizzazione delle idee in forme dogmatiche: “Ciò che può dar vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l’alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell’insofferenza dell’ordine stabilito, quell’aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere”.16 290

Della democrazia Bobbio presenta una immagine sobria e realista, che include non solo i nobili ideali, ma anche la buona amministrazione e la laboriosa ingegneria degli assetti sociali, la prosa più che la poesia. Guardando indietro a un quarto di secolo trascorso, confessa però l’abbandono delle pretese di un tempo, che ora gli appaiono esorbitanti: “Ci eravamo posti di fronte alla democrazia reale nell’atteggiamento dei padri offesi, e sorpresi che la nostra creatura fosse cresciuta così male, tanto da non poter durare probabilmente a lungo […]. Abbiamo imparato a porci di fronte alla società democratica senza illusioni. Non siamo diventati più soddisfatti. Siamo diventati meno esigenti. La differenza tra le ansie di allora e le preoccupazioni di oggi, è tutta qui. Non è migliorata nell’insieme la qualità della nostra vita in comune, anzi sotto certi aspetti è peggiorata. Siamo cambiati noi, diventando più realisti o meno ingenui”.17 Il compito della democrazia è interminabile, in quanto regime imperfetto che è però l’unico perfettibile, e il desiderio di trasformare il mondo, senza smettere di interpretarlo, è continuo e ingrato. Non resta che proseguire il cammino intrapreso per avanzare nella tenace espansione della sfera dei diritti, passando da quelli politici ed economici a quelli – oggi sempre più importanti – sociali di ultima generazione: “Si tratta di nuovi diritti che hanno fatto la loro apparizione nelle costituzioni dal primo dopoguerra in poi e sono stati consacrati anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e da altre carte internazionali successive. La ragion d’essere dei diritti sociali 291

come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, è una ragione egualitaria. Tutti e tre mirano a rendere meno grande la disuguaglianza tra chi ha e chi non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior numero possibile di individui di essere meno diseguali rispetto a individui più fortunati per nascita e condizione sociale”.18 Dalla fine degli anni sessanta, con percorsi e voci originali, anche la filosofia italiana si è sostanzialmente inserita nel più ampio dibattito internazionale. La fase più acuta e innovativa del cambiamento di prospettive corrisponde al declino di tendenze una volta egemoni nella Penisola, in particolare, delle varie famiglie della dialettica e dello storicismo. Il pathos per la storia e per il valore salvifico della politica si muta allora sia in disincanto che nel prendere sul serio il “nichilismo”. A livello sociologico, tale svolta si accompagna alla sostituzione del rapporto privilegiato della filosofia e delle ideologie italiane con i “partiti etici” a quello con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione di massa. La riabilitazione di pensatori già condannati come “reazionari” o “irrazionalisti” (Nietzsche, Wittgenstein, Schmitt, Heidegger) fornisce ora le armi per una sorta di attacco concentrico contro le posizioni precedenti. Alle concezioni tragiche, seppure con finale ottimistico – che dipingono una umanità approdata, dopo lungo travaglio, sulle spiagge del regno della libertà o su quelle della società senza classi –, Massimo Cacciari contrappone così l’idea di krisis, di emergenza permanente. Essa non garantisce alcuna salvezza. Racchiude però nuove opportunità intellettuali e 292

indica esemplari stili di condotta, rinvenibili ad esempio negli “uomini postumi”, nei grandi maestri della décadence che popolano la Vienna della finis Austriae. Il “pensiero negativo” suggerito da Cacciari, che ha assunto con il tempo toni sempre più neoplatonici, non pretende tuttavia di cogliere la verità disvelata. Mira piuttosto a mantenere la presenza dell’irrappresentabile nel rappresentabile e dell’invisibile nel visibile. Alle teorie filosofiche che andavano alla ricerca di un modello di rigore nelle inesorabili procedure della scienza subentra con Aldo Giorgio Gargani, un “sapere senza fondamenti”, che individua nei “rituali epistemologici” pratiche consolatorie tese a eliminare le incertezze denunciate poi dalla “crisi della ragione”.19 La filosofia cambia così vocazione, abbandona le velleità di competere con le scienze a statuto forte ed elabora un particolare “stile di analisi”: il “pensiero raccontato”, che intreccia la riflessione alla narrazione, lo sviluppo delle idee alle vicende personali, la filosofia agli apporti conoscitivi della letteratura. Esso soltanto è in grado di esplorare – con valori “non ancora protetti” – i luoghi, i percorsi e i “dintorni” enigmatici lungo cui si articola l’esistenza di ciascuno”.20 Una volta privi di garanzie preliminari, sempre sospette, i nostri pensieri appaiono così dotati di pericolante instabilità, transitano su ponti irreali sospesi sul vuoto, simili ai “numeri immaginari” della matematica, che funzionano senza che si sappia il perché. Una inaspettata consistenza e solidità interiore ci giungono tuttavia dall’abbandono del “teatro del soggetto autocentrato”, dal riconoscimento del 293

suo carattere di “grande esorcismo nei confronti della realtà”.21 In questo modo la cultura filosofica più recente sposta l’accento dalla responsabilità del singolo nei confronti della Storia collettiva e della politica alla ricerca personale del proprio “destino” in rapporto ad altri destini da parte di esseri che non possono più beneficiare di fondamenta preliminarmente date al pensare e all’agire. Ognuno è perciò rinviato a riscoprire se stesso, tenuto a farsi carico del sempre improvvisato mestiere di vivere. Si scinde ora anche la struttura della storia, dialetticamente intesa quale divenire mediante contraddizioni. Da un lato vi è chi, come Emanuele Severino, nega l’esistenza stessa del divenire, considerando una assurdità logica l’oscillazione tra l’essere e il nulla. Gli enti sono infatti eterni e, pertanto, non nascono e non muoiono: pur restando nell’orizzonte dell’essere, escono semplicemente dal campo di visibilità dell’apparire, per ritornarvi secondo ritmi ciclici. Esorcizziamo paradossalmente il fantasma del divenire, da noi stessi creato, mediante il ricorso ad altri enti fittizi (gli “immutabili”, prodotti della scienza e della religione, come le leggi fisiche o Dio). Essi ci stanno a cuore perché rappresentano la soddisfazione indiretta del nostro desiderio di sottrarci alla caducità e alla morte. Dall’altro lato, Gianni Vattimo, utilizzando l’ermeneutica per invalidare ogni progetto di riappropriazione di se stessi o di fuoriuscita dalla realtà alienata, accentua invece il tema dell’impossibilità di trovare un senso compiuto alla storia, 294

minacciata da un divenire che indossa le vesti della caducità e della fragilità. L’heideggeriana Verwindung, intesa quale congedo dalle idee e dai valori forti della tradizione metafisica, viene in tal modo contrapposta sia alla hegeliana e marxiana Aufhebung, sia alla Überwindung di quanti pensano di “superare” l’orizzonte della metafisica stessa. Così, se il volume collettivo Crisi della ragione è stato il tentativo estremo di salvare il potere di sintesi all’interno del tessuto simbolico, della “ragione” appunto, Il pensiero debole ha piuttosto segnato il compiuto abbandono di tale obiettivo. A causa della loro insostituibilità, gli “immutabili” e le tracce sbiadite della ragione unitaria, con tutte le sue esorbitanti pretese, non devono però essere cancellate. Occorre anzi salvaguardarle e rammemorarle, esprimendo nei loro confronti una pietas analoga a quella che si manifesta verso tutto ciò che, in quanto finito, si consuma e muore.22 A prescindere dalla ricchezza dei temi che sono stati trattati in questo periodo,23 l’ultimo quarto di secolo è stato caratterizzato dal dibattito sulla biopolitica, che ha come esponenti Giorgio Agamben e Roberto Esposito e rappresenta una rielaborazione e una ripresa originale di temi di Foucault e Schmitt sulla natura del potere e della sovranità. Già Foucault intendeva la biopolitica come controllo del potere sui corpi degli individui e come intervento programmato e sempre più cogente non solo sulla natalità, la sanità o l’igiene e, quindi, sulla promozione della vita (per lo più grazie alla seduzione piuttosto che alla punizione), ma 295

anche mediante la sistematica distruzione di determinati gruppi umani. La modernità ha per lui mutato il senso della politica: “Per millenni l’uomo è rimasto quel che era in Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente”,24 in cui cade cioè la distinzione tra la vita fisica (zoé) e la vita politica (bios). Il paradigma della biopolitica è stato più precisamente individuato da Agamben nella figura dell’homo sacer della religione romana arcaica, un individuo che aveva commesso un delitto ma che non poteva essere sacrificato, un uomo che chiunque poteva impunemente ammazzare (dato che la sua vita era, appunto, “sacra”, ossia uccidibile perché abbandonata dalla legge). Il campo di sterminio nazista è la versione novecentesca su larga scala di questa figura, rappresentata ora dai deportati, la cui “nuda vita” è in balia dei loro aguzzini, che esercitano su di essi una sovranità assoluta. A differenza di Foucault, Agamben non crede quindi che la biopolitica sia un fenomeno moderno. Riguarda, anzi, sia il passato remoto delle civiltà umane, sia il mondo attuale. Esso è, infatti, sia il fenomeno originario che fonda le città e la convivenza umana attraverso l’“esclusione inclusiva” di determinate persone e popoli, sia la condizione odierna della politica – anche di quella democratica – che ha reso permanente lo stato di eccezione teorizzato da Carl Schmitt di temporanea sospensione della legge, trasformando virtualmente tutti noi in homines sacri.25 Il problema di Agamben consiste nell’articolare una 296

teoria che riformuli il senso e il ruolo della sovranità e della politica grazie a pratiche di soggettivazione in grado di contrastare tale tendenza. Roberto Esposito sviluppa, a sua volta, i temi biopolitici soprattutto sotto il segno della “immunizzazione”, del chiudersi in se stesse delle società che si sentono minacciate dall’Altro e che sono quindi indotte – in maniera analoga alle vaccinazioni – a includere in se stesse l’elemento della minaccia. La vita deve, di conseguenza, assorbire il principio letale e la biopolitica deve comprendere la “tanatopolitica”.26 Al di là dei campi di sterminio nazisti o dei gulag sovietici, sono stati problemi più recenti a indirizzare la ricerca sulla questione dell’immunità: il moltiplicarsi, su scala planetaria, dei conflitti con motivazioni etniche; le migrazioni di massa con il conseguente rimescolamento delle popolazioni; l’accoglienza o l’espulsione dei migranti; il diffondersi delle nuove povertà e del terrorismo, con le connesse paure degli individui per la propria sopravvivenza e integrità fisica; le lacerazioni del corpo sociale sulla liceità dell’aborto e dell’eutanasia. Il loro contraccolpo sulle nozioni e sulle pratiche della sovranità e del potere non è stato ancora assorbito e tarda a tradursi in una riformulazione della politica. In un suo recente libro, Esposito ha fornito una cornice più ampia alla sua teoria, riportando il problema biopolitico nel quadro della “macchina della teologia politica”, vale a dire di quello schema che “funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la 297

sottomissione di una parte al dominio del tutto”, uno schema difficile da abbandonare in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, “non perché la porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire”.27 3. Rorty: comunità e verità È stato in particolare Richard Rorty a combattere la “metafisica” e a sottolineare il ruolo dei contesti sociali. Riallacciandosi alla tradizione del pragmatismo americano (per cui la verità è il risultato di regole e procedure accettate all’interno di una data comunità), egli rifiuta i presupposti plurimillenari del pensiero occidentale tesi a garantirne l’incondizionata assolutezza pur nell’insormontabile contingenza delle situazioni umane. Rifiuta così sia il concetto di realtà esattamente riproducibile senza deformazioni dallo “specchio” o dall’“occhio” contemplativo della mente,28 sia quello di coerenza puramente logica del ragionamento e dell’azione. Rorty, che non vuole abbandonarsi alla “nevrotica ricerca cartesiana di certezza” e preferisce di gran lunga una filosofia in grado di offrire almeno qualche cenno sul modo in cui “le nostre vite potrebbero cambiare”,29 delinea due posizioni esemplari relative alla verità. La prima, che viene fatta risalire a Platone, àncora la verità stessa a una dimensione sovraumana, alla nostra “vitrea essenza” che coglierebbe in modo trasparente una “oggettività” posta al di sopra di ogni 298

criterio concordato da gruppi umani concreti; la seconda, che viene fatta risalire a William James e a John Dewey, lega invece la verità a pratiche sociali condivise di giustificazione e di controllo. Platone ha elaborato una teoria della verità che non si collega affatto alla comunità dei dialoganti effettivi. E ciò per evitare un doppio relativismo: sofistico ed etnologico (quello per cui, ad esempio, secondo Erodoto, i Massageti mangiavano i loro genitori, in quanto ritenevano che la tomba migliore fosse lo stomaco dei figli, ma avrebbero rifiutato con sdegno di bruciarli sulla pira, secondo il costume dei Greci). Egli inventa, a tal proposito, una comunità artificiale di filosofi che legifera sulle regole di validità del discorso agganciandole a essenze (“idee”) che, una volta raggiunte, si imporrebbero all’uomo per la loro luminosa, indiscutibile evidenza. La verità risulta così fondata su procedure di carattere autoriflessivo proprie di un ristretto gruppo che si arroga il diritto di rappresentare l’intera umanità di ogni luogo e tempo. Si deve però osservare che in realtà – malgrado le critiche di Rorty – Platone cerca proprio di “edificare” la verità attraverso una ricerca comune. Tutti gli uomini dotati di logos (e persino uno schiavo ignorante), se opportunamente guidati, possono raggiungere conoscenze certe. Il dialogo passa infatti al setaccio i differenti punti di vista, mostra come alcune opinioni trovano la strada sbarrata, risultano sterili e intransitabili, mentre altre permettono la confluenza e lo sbocco delle diverse linee argomentative, dimodoché, alla fine, conducono a soluzioni convincenti per ognuno. Si 299

ottiene così una verità che è, soggettivamente, un punto d’arrivo, sempre provvisorio, ma che ha la propria “oggettività”, extra-territoriale rispetto alle diverse culture e ai punti di vista individuali. La verità suprema è come il sole, che non si può guardare a lungo senza perdere la vista. Ma la ragione che la contempla, anche nei suoi riflessi, diventa comunque la patria di tutti, la tradizione condivisa dell’umanità. Il nucleo più consistente del pensiero occidentale ha proceduto appunto su questa strada maestra, da cui la verità stessa appare salda perché fondata non sulle sabbie mobili delle opinioni soggettive, ma sul suolo granitico dell’episteme, della scienza. A tale prospettiva Rorty contrappone la trasformazione dell’oggettività in “solidarietà”, che definisce cioè il vero in rapporto a ciò che crede e argomenta una specifica comunità, il “noi” dei parlanti o dei pensanti. In questo senso, dunque, “verità” è ciò che incontrerebbe meno resistenze a essere accettato da coloro che seguono determinate regole storiche di verificazione; falsità il contrario.30 La filosofia dovrebbe evitare la tentazione di cercare le fondamenta ultime della realtà e del pensiero e limitarsi a proporre discorsi “edificanti” (nel doppio senso architettonico e morale). Dovrebbe cioè innalzare dimore accoglienti, dove la convivenza umana possa svilupparsi al meglio, senza necessità di far ricorso a pratiche comunicative irrigidite in schemi prefissati. Lo scopo della filosofia in un’epoca “post-filosofica”, che non ha più bisogno di pratiche fondative, consiste appunto nel mantener viva la creatività di forme di dialogo che non 300

presuppongono alcun “vocabolario dato”. Per Rorty non si tratta affatto di delegittimare la razionalità o la morale. Egli è anzi talmente affezionato alla “speranza sociale” da ritenere che i valori astrattamente universalistici devitalizzino le singole comunità storiche, impedendo loro di risolvere questioni urgenti e concrete. Del resto, dice, le libertà dal bisogno, dall’oppressione e dalla crudeltà non necessitano di altra giustificazione che quella della loro desiderabilità. Ciò che conta, per noi abitanti dell’Occidente, “ironici liberali”, è una democrazia che possa fare a meno sia della fondazione religiosa che della legittimazione filosofica. È sufficiente l’autorità “costituita da un accordo coronato da successo tra individui che si scoprono eredi delle stesse tradizioni storiche e posti di fronte agli stessi problemi”. Questa forma di democrazia è talmente preziosa che, qualora “l’individuo reperisca nella propria coscienza credenze che sono rilevanti per la politica pubblica ma indifendibili sulla base delle credenze condivise dai suoi concittadini, egli deve sacrificare la sua coscienza sull’altare del bene pubblico”.31 Come evitare allora l’arbitrio delle opinioni e la preferenza accordabile ai propri valori, anche nella forma di pregiudizi etnocentrici? La sfiducia sulla possibilità di gettare ponti di comunicazione tra gli appartenenti a diverse culture è diventata in Rorty sempre più forte. Così, se ne La filosofia e lo specchio della natura aveva osservato che i coloni inglesi e gli aborigeni della Tasmania non avevano maggiori difficoltà a comunicare tra loro di quanta ne avessero i primi ministri britannici Gladstone e Disraeli, ora 301

crede piuttosto che esistano, sotto il profilo teorico, tanti criteri di verità e di giustificazione quante sono le culture. Nessuno di noi è realmente capace di scostarsi dalle proprie tradizioni e pregiudizi, di superare la barriera dell’alterità. Siamo infatti talmente condizionati dalle regole che abbiamo appreso e a cui siamo stati abituati nella nostra comunità da essere inevitabilmente costretti a diventare etnocentrici. Per parafrasare Hegel, non possiamo uscire dai nostri condizionamenti storico-culturali, così come non possiamo uscire dalla nostra pelle. L’ideale di unificazione delle forme di pensiero sotto l’egida di una verità e di una razionalità supercomunitaria obbedisce, del resto, a un pregiudizio inconscio: quello per cui la storia del genere umano procederebbe inesorabilmente verso la convergenza tra le varie civiltà. Appoggiandosi anche a Feyerabend,32 Rorty sostiene invece che bisognerebbe puntare sull’idea di un’umanità che procede in direzioni divergenti, privilegiare la differenziazione rispetto all’unificazione. La cosa migliore che si possa fare è rendersi consapevoli del peso ineliminabile delle proprie tradizioni e tenerne conto quando ci si confronta con altri, usando possibilmente l’arma dell’ironia, della consapevolezza, cioè del peso della contingenza per relativizzare ogni pretesa di assolutezza. Eppure qualche criterio generale esiste, come quello di combattere la crudeltà nei riguardi di tutti gli esseri senzienti e nel “saper togliere importanza a più differenze tradizionali (di tribù, religione, razza, usi, e simili) in confronto alla somiglianza nel dolore e nell’umiliazione, nel saper includere nella sfera del ‘noi’ persone immensamente 302

diverse da noi stessi”.33 4. Fame di realtà Al pari di Rorty, anche Gadamer, Derrida e Lyotard diffidano dell’idea di una verità che abbia valore intrinseco. Sono persuasi, rispettivamente, che la verità non conti se non come credenza utile alla società, che non si possa sfuggire alla forza della tradizione e dei pregiudizi, che al di fuori del linguaggio o del testo non si dia alcuna realtà autonoma e che ogni pretesa di verità abbia senso solo nell’ambito delle “grandi narrazioni”. In ultima analisi, tutti si appoggiano sulla tesi di Nietzsche secondo cui “contro il positivismo che si ferma solo ai fenomeni, ‘ci sono soltanto fatti’, io direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni”.34 È stato, tuttavia, lo stesso Nietzsche a modificare più tardi questa affermazione. Da “vecchio filologo”, ha, infatti, rivendicato l’onestà e il coraggio di chi possiede l’“incondizionata volontà di verità” e ha dichiarato l’errore espressione di viltà: “Ogni briciola di verità abbiamo dovuto strapparla a furia di lotta; in compenso abbiamo dovuto sacrificare quasi tutto ciò cui di solito sono attaccati il nostro cuore, il nostro amore, la nostra fiducia nella vita. Per questo occorre grandezza d’animo: servire la verità è il più duro dei servizi”.35 Le illusioni possono, certo, aiutarci a sopportare le asprezze della vita, ma la verità – pur rivelandosi spesso sgradevole, contraria ai nostri interessi e ai nostri desideri e perfino pericolosa – ci evita le sconfitte e 303

le delusioni imputabili alla condizionamenti dell’esistenza.

sottovalutazione

dei

Pur contribuendo a mettere in guardia contro la radicata concezione di una realtà immobile, assoluta, extra-umana, il pragmatismo, l’ermeneutica, il decostruzionismo e il postmodernismo (talvolta al di là delle intenzioni degli autori) hanno alimentato la convinzione che la verità non sia importante per le nostre vite, che qualsiasi pretesa di conseguirla sia ingenua o iperbolica, che il mondo sia essenzialmente plasmabile secondo punti di vista dettati dall’utilità sociale o da determinati schemi culturali e che sia impraticabile ogni criterio di controllo logico ed empirico della realtà. Nei confronti di chi nel pensiero novecentesco ha sostenuto la dissoluzione della verità è recentemente cresciuto il bisogno di un più solido ancoraggio a una verità non strumentale. Che esista una fame di verità e di realtà (o di senso) lo si capisce oggi nel constatare, già sul terreno della diffusione delle filosofie, l’estenuazione di quelle che hanno accompagnato l’ultimo mezzo secolo. Oltre alle teorie appena ricordate, si possono aggiungere quella relativa all’equazione tra sapere e potere del primo Foucault e quella che ruota attorno alle molteplici versioni dell’idea di “modernità liquida” di Bauman e dello sciogliersi “nell’aria di tutto ciò che è solido” di Berman.36 Il merito che va comunque loro riconosciuto è stato quello di aver messo in discussione l’idea di una verità dogmaticamente assoluta, quale si presenta non solo nel campo della filosofia, ma anche in quello della teologia, dove lo “splendore della 304

verità” viene identificato con le credenze di una particolare religione. Il bisogno sia di veracità (di voler cioè conoscere la verità, rispettarla e comunicarla agli altri, promuovendola attraverso le virtù della precisione e della sincerità), sia di verità incondizionata verso cui dirigersi è necessario al fine di evitare che le società si dissolvano. Nessun gruppo umano potrebbe, infatti, durare se attribuisse alla verità soltanto lo statuto di una benefica illusione: “La speranza non può più essere che la verità, una verità sufficiente, tutta la verità, ci possa rendere liberi. Ma questo è molto di più della speranza che semplicemente le virtù della verità continueranno a esistere; in una o nell’altra forma, esse debbono continuare a esistere fino a quando gli esseri umani comunicheranno. La speranza è che esse continueranno a vivere in qualcosa di simile alle forme più coraggiose, intransigenti e socialmente efficaci acquisite nella loro storia; che possano esistere istituzioni le quali sostengano ed esprimano tali virtù; che i modi in cui nel futuro si arriverà a dare senso alle cose saranno anche in grado di mettere le persone in condizioni di vedere la verità, e non di essere schiacciate da essa”.37 Sia contro i negatori della verità, che vorrebbero allegramente sbarazzarsene, sia contro i fautori del senso comune che sono incapaci a replicare alle ragioni dei primi, giacché pensano che la verità abbia una evidenza aproblematica nella vita ordinaria, Bernard Williams – pur riconoscendo l’esistenza di una tensione essenziale tra la veridicità e la verità – ne difende il valore intrinseco e si 305

chiede se sia “possibile stabilizzare le nozioni di verità e veridicità dal punto di vista intellettuale, in maniera tale che ciò che sappiamo sulla verità e sulle nostre possibilità di arrivarci possa essere reso congruente con il nostro bisogno di veridicità”.38 Peraltro, le prime critiche contro la riduzione di tutta la realtà a interpretazione (per quanto ripetutamente rettificata grazie al “circolo ermeneutico”), sono manifestate già negli anni novanta del secolo scorso.39 Più recentemente è stato però l’invito a distinguere tra oggetti “saturi”, che conservano a lungo una loro interpretazione, e oggetti “insaturi”, che sono esposti a un più rapido cambiamento di interpretazione, a stabilire che, se tutto viene sottoposto a una interpretazione infinita, i pensieri finiscono effettivamente per sciogliersi e diventare “liquidi”.40 A sua volta, il decostruzionismo aveva virtualmente eroso i suoi presupposti quando Derrida alla fine si era accorto del rischio che l’eccessiva fluidità delle idee da lui analizzate e il loro inserimento in un contesto che prescinde dai riferimenti a qualcosa di “indecostruibile” possano stingere (o addirittura cancellare) la linea di demarcazione tra verità e menzogna e tra bene e male. Ciò era avvenuto grazie alla scoperta, in termini morali, che l’idea di giustizia non è interpretabile a piacere proprio perché dotata di una propria consistenza, che non può essere smontata se non al prezzo di legittimare, appunto, ogni arbitraria confusione tra il bene e il male.41 Anche attraverso il riferimento a questo ultimo Derrida, da un filosofo italiano è stato da poco riproposto il ruolo 306

dell’ontologia, in quanto “ontologia analitica”, vale a dire del riconoscimento dell’esistenza di una realtà fuori di noi, di un mondo naturale e ideale (come quello degli enti matematici) che, d’accordo con il senso comune, esiste senza che le interpretazioni possano ridurlo a un fattore culturale, a un sapere: “Ontologia significa semplicemente questo: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare […]. Resta che quello che percepiamo è inemendabile, non lo si può correggere: la luce del sole è accecante, se c’è sole, e il manico della caffettiera scotta, se lo abbiamo lasciato sul fuoco. Non c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti; le sole alternative sono gli occhiali da sole e le presine”.42 Questo è l’attuale panorama della ricerca, sempre in tensione tra veridicità e verità, tra negazionisti e difensori del senso comune, ma il cammino verso la verità e la realtà appare ancora lungo (anche a prescindere dagli aspetti più tecnicamente logici e malgrado le acute intuizioni di Bernard Williams). 5. Incertezza e disimpegno L’agire comunicativo di Habermas e la teoria della giustizia di Rawls rappresentano, nelle società democratiche (caratterizzate da una pluralità di poteri e di valori in concorrenza), un’alternativa sia al ricorso alla forza nella soluzione dei conflitti, sia alla pratica di una defatigante negoziazione in cui vince chi ha maggiori riserve di potere oppure maggiore abilità strategica nel perseguimento dei 307

propri interessi. Purtroppo, quando le distanze tra i dialoganti o tra i contendenti si dimostrano incommensurabili, succede spesso che chi convince non vince e chi vince non convince. Si ricorre allora alla manipolazione o alla violenza, più o meno mascherate. Jean-François Lyotard propone perciò di non cercare il consenso, quanto piuttosto di promuovere l’incontro tra i dissensi, di tentare di comporre il contenzioso o dissidio (différend) senza farsi soverchie illusioni. A suo parere, basandosi su due assunti poco realistici, Habermas sbaglia. In primo luogo, non è infatti vero che gli interlocutori siano in grado di accordarsi su regole universalmente valide per tutti i possibili “giochi linguistici” (di per sé eterogenei e incompatibili, dato che il comandare, ad esempio, non coincide affatto con il descrivere o il pregare). In secondo luogo, è falso “che la finalità del dialogo sia il consenso”, in quanto esso costituisce soltanto “uno stato delle discussioni e non il loro fine”. Il consenso rappresenta cioè un orizzonte provvisorio e mobile, mai definitivamente acquisito. Nel seguire una prospettiva emancipatoria, anche Habermas cade per Lyotard nell’illusione dei méta-récits, teorie estrapolate dalle “grandi narrazioni”, da miti quali la vittoria finale del progresso o l’avvento delle società senza classi. Alcune di queste favole per adulti sorgono in età moderna in vista della legittimazione di autorità che – non affondando più le loro radici nel passato della tradizione – hanno bisogno sia di uno scopo nuovo e macroscopico da raggiungere nel futuro, sia di eroi collettivi che lo rappresentino (classe operaia, rivoluzione o democrazia). 308

Oggi però, nella “condizione post-moderna”, i méta-récits hanno perso di credibilità, lasciandoci eredi di conflitti e tensioni difficilmente governabili, ma di cui è necessario conoscere almeno la cartografia.43 In tali società, dove – secondo un’espressione di Marx – “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, una volta infrante le norme morali deducibili da valori assoluti, si possono ancora mantenere forme di condotta largamente condivise e relativamente stabili? Se si guarda ai comportamenti effettivi delle persone, sembra proprio di no. È stata infatti rilevata come caratteristica una tenace, quanto inconsapevole, resistenza ad assumere obbligazioni morali di lunga durata. Si diffonde cioè la propensione a prendere quasi esclusivamente “impegni che non impegnano”, revocabili e comunque rettificabili. Sono questi i non-binding commitments di cui parla Nozick, allorché esamina la tendenza dell’uomo contemporaneo a modificare le proprie decisioni passate, in modo da non sentirsi mai definitivamente vincolato a esse. La sua argomentazione è che non compiamo mai scelte motivate da “ragioni” provviste di un presunto peso specifico oggettivo; siamo noi, piuttosto, ad attribuire – di volta in volta – il peso adeguato ai motivi delle nostre decisioni (peso che varia a seconda del contesto e delle giustificazioni che ne offriamo). È dunque possibile riformulare continuamente le proprie scelte in base alle nostre variabili valutazioni.44 I nonbinding commitments implicano di fatto che, accanto alla coerenza, anche il senso di responsabilità si affievolisca. Se si pensa, per contrasto, all’importanza centrale che nelle scale 309

di valori tradizionali assumeva il rispetto degli impegni e della parola data, della promessa, non si può fare a meno di vedere come la possibilità di ritornare sulle proprie decisioni marginalizzi e sdrammatizzi molte scelte, svincolando il singolo dalla propria anelastica identità con il passato e disincagliandolo dal vecchio se stesso. L’etica della coerenza e della responsabilità – per quanto non sempre esplicitamente ripudiate – vengono diluite in favore di un “mutamento endogeno” delle preferenze individuali e dell’acclimatarsi di una concezione dell’identità personale non più strettamente confinata alla continuità psicologica dell’individuo. Questi non si sente più saldamente ancorato alle proprie scelte passate, bloccato da esse, perché è come se le sue precedenti decisioni fossero state prese da qualcun altro. Nella cesura netta con il proprio passato personale, resa possibile dalla revocabilità degli impegni, nell’infedeltà persino a se stessi presentata da Nozick, si manifesta – assieme a una maggiore libertà e scioltezza dell’agire dell’individuo – anche il suo progressivo isolamento, la perdita della sua “placenta sociale”, l’allentamento dei vincoli con gli altri. Privato del pieno e organico inserimento nei “corpi intermedi” che l’avvolgevano (famiglia, comunità di vicinato, ceto o classe) e posto a diretto contatto con i suoi simili e con le istituzioni, egli è insieme più libero e più solo. Questa più immediata vicinanza con la società nel suo complesso, infatti, invece di proiettarlo ulteriormente nella dimensione pubblica, lo induce ad arroccarsi nella sfera privata. Christopher Lasch ha focalizzato la genesi di tale 310

condizione nell’analisi di come si allentano o si trasformano i legami di solidarietà in uno dei più classici corpi intermedi: la famiglia. La tesi sostenuta è che la famiglia ha cessato di essere un porto sicuro in un “mondo senza cuore”, il luogo che doveva ritemprare l’uomo nella sua dura lotta contro la realtà e i condizionamenti esterni e servire da protezione e involucro per moglie e figli. Oggi essa non ripara più sufficientemente né adulti, né bambini. La disgregazione dell’istituto familiare si accompagna inoltre a una disattivazione emotiva di quei vincoli che intrecciavano amore e potere, sentimenti e istituzioni. La famiglia è ormai divenuta più porosa ai mutamenti esterni, meno isolata, più simile alla società che la circonda. I genitori si sono “proletarizzati” e vi è stato un netto indebolimento dell’autorità “verticale”, con un parallelo incremento di legittimazione dei rapporti “orizzontali” egualitari (da qui la concezione del matrimonio come companionship o la maggiore vicinanza tra genitori e figli), ma anche con l’ininterrotta negoziazione dei ruoli. Costretti a difendere i residui della loro autorità non più garantita in anticipo, i genitori spesso abdicano alla loro figura tradizionale, ricorrendo a trattative logoranti o a nascoste manipolazioni.45 A cambiare non è, tuttavia, solo la struttura delle famiglie o delle società, ma anche quella degli individui. Da “moderna” essa sarebbe divenuta, almeno in certe zone del pianeta, “post-moderna”. L’individuo moderno viene infatti caratterizzato da un’identità solida e durevole, costruita “in acciaio e cemento”; l’individuo post-moderno da una 311

identità di “plastica”, mobile, cancellabile e riciclabile come un video-tape. I moderni appaiono inoltre come pellegrini nel tempo, uomini che si muovono secondo una meta e un progetto, per cui l’identità diventa in loro costruzione, previsione e tragitto. I post-moderni, al contrario, si sarebbero adattati ad abitare il deserto, a vivere l’esperienza della frammentazione del tempo e ad avere la percezione netta della distanza incolmabile tra gli ideali dell’io e la loro realizzazione. Non si prefiggerebbero quindi il compito di costruire qualcosa di stabile, bensì quello di soggiornare in una serie di identità provvisorie, cangevoli e fluttuanti. In tal modo, soprattutto in Occidente, la mobilità – che prima era tipica di gruppi o popoli marginali – sarebbe oggi praticata da maggioranze. Il nomadismo si sarebbe cioè trasformato in turismo di massa. L’identità cessa così di possedere un valore assoluto. Si assiste, infatti, alla sua “adiaforizzazione”, ossia al suo divenire indifferente, come risposta difensiva a dosi eccessive di esperienze di sradicamento.46 Si potrebbe tuttavia lecitamente dubitare del fatto che il problema dell’identità passi attraverso fasi così drasticamente contrapposte. La sua conquista è stata infatti sempre difficile e il movimento oscillatorio e squilibrante nel mantenimento della personalità attraverso il tempo non è certo una caratteristica esclusiva del mondo post-moderno (e poi, per inciso, siamo davvero tutti così post-moderni, mobili, nomadi e nemici di ogni stabilità?). Pare, al contrario, di percepire attualmente una quantità di segnali di contro-tendenza, ancora da analizzare, che mostrano reazioni di rigetto allo sradicamento, ma che convivono ciò 312

nonostante con l’avversario che combattono, sostenendosi a vicenda mediante meccanismi involontari di connivenza antagonistica. Sembrano in effetti all’opera due contrastanti e simultanee linee di forza: da un lato, in alcune zone economicamente e socialmente privilegiate del mondo, si moltiplica il numero degli individui “liberamente fluttuanti”, che tendono a svincolarsi dai condizionamenti della tradizione; dall’altro, crescono altrove in parallelo – erodendo la fascia centrale degli individui definiti “moderni” – tipi di personalità che vogliono rifondare la propria identità agganciandola a istituzioni ed entità tradizionali (ritenute, fino a poco tempo fa, “pre-moderne” e, come tali, disprezzate in quanto considerate sconfitte dall’Illuminismo, dalla Scienza o dal Progresso). Le etnie e le grandi religioni monoteistiche paiono, di conseguenza, riprendere il proprio antico ruolo di protagoniste e di agencies di radicamento. Dietro i “fondamentalismi” religiosi, i “particolarismi”, i “nazionalismi” recenti – in qualsiasi modo si intendano – si pone comunque un rinnovato, inequivocabile bisogno di radicamento. Ed è proprio tale bisogno che permette di vedere, come sotto una lente di ingrandimento, un elemento strutturale che rischierebbe altrimenti di passare inosservato: ossia che l’identità individuale discende sempre, per mille fili, dall’identità collettiva e che è addirittura impensabile senza di essa. Si scopre così che la nostra illusione di non avere rapporti di dipendenza con le istituzioni collettive di senso, deriva dal pathos con cui l’individuo ha rivendicato in questi ultimi secoli la sua autonomia rispetto ai soffocanti vincoli 313

del passato, dipende cioè dalla sua volontà di sottrarsi all’arbitrio altrui (in quanto l’idea di “libertà”, prima di diventare retorica, conteneva qualcosa di molto concreto: il rifiuto della schiavitù e della dipendenza personale). Sotto questo profilo, il fatto che si cerchi una ridefinizione di se stessi ricorrendo al radicamento in identità esterne forti (come le Chiese o le “comunità” nazionali, “pre-moderne” proprio perché si pensava di averle metabolizzate, digerite, per poi scoprire che non è vero), mostra semplicemente che l’aggancio alla dimensione collettiva è cambiato, non che non avevamo agganci, e che le nostre zavorre stabilizzatrici istituzionali hanno spostato il nostro baricentro, non che in precedenza queste non esistevano. 6. Il ritorno della responsabilità Di fronte al temuto dilagare dei non-binding commitments, viene sempre più spesso invocato l’obbligo per ciascuno di sentirsi personalmente impegnato a rendere conto di determinate forme di condotta a lui imputabili. Paul Ricoeur connette così l’identità personale, in campo etico, non all’“io” (termine vacante, entità disancorata), ma al “sé” (riflessività che integra in un tertium datur identità e alterità). Questo “sé”, poi, non è l’Idem, caratterizzato dalla permanenza nel tempo e dalla comparazione dei vari stadi del soggetto tra loro, ma l’Ipse, la personalità che si conserva proiettandosi verso la parola data, mantenendosi fedele alla “promessa”. L’Ipse rimane coerente a se stesso congiungendo simultaneamente al presente sia il “debito” 314

del passato che l’impegno del futuro.47 È però, soprattutto, Hans Jonas a teorizzare più direttamente il “principio responsabilità”, in simmetrica opposizione al “principio speranza” di quanti – come Ernst Bloch – hanno favorito il pensiero utopico o gli atteggiamenti prometeici di dominio della natura e di progresso senza limiti. Essi, infatti, non si sono accorti che – invece di produrre grandi trasformazioni in positivo – hanno finito per minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutto il pianeta, prendendo sul serio le utopie e trasformandole così da innocuo esercizio letterario o filosofico in pericolosi programmi di stravolgimento del mondo.48 L’atteggiamento di Jonas (basato su una “euristica della paura”, ossia sulla scelta in negativo di evitare il sommo male dell’autodistruzione dell’uomo, allorché non è possibile né giusto trovare un accordo generalizzato su cosa sia e come si debba perseguire il “sommo bene”) si scontra con le posizioni dell’ultimo grande teorico dell’etica della responsabilità, Max Weber. Questi aveva infatti sostenuto, nel quadro di un elogio della lungimiranza appassionata, che “il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.49 Oggi che l’uomo è diventato un essere altamente nocivo incapace di valutare adeguatamente il risultato congiunto delle azioni di tutti e di ciascuno, con il rischio effettivo di alterare delicati equilibri, in parte ignoti; oggi che ognuno contribuisce, per la sua parte, alla degradazione dell’ambiente e al depauperamento delle risorse, la responsabilità, la cautela, la riflessione costituiscono un obbligo vincolante e ineludibile. Anche 315

perché le potenzialità distruttive della specie umana aumentano proprio nel momento in cui diminuiscono le sue doti di previsione e di controllo dei processi di autoperpetuazione. Paradossalmente, la minaccia della catastrofe deriva non dal fallimento, ma dallo “smisurato successo” della tecnica. Ed è proprio perché si amplia in maniera inaudita la sfera degli effetti inattesi di ogni azione che deve proporzionalmente estendersi, prima che sia troppo tardi, anche il raggio della responsabilità personale. Ne consegue la necessità inversa di attutire l’impatto sull’esistente dei grandi progetti di trasformazione, così che essi penetrino nel mondo gradualmente e senza provocare violenti contraccolpi. Ognuno di noi ha infatti una responsabilità collettiva nei confronti della Terra e dei suoi abitanti, in particolare della biosfera, sottile fascia di una trentina di chilometri di spessore che avvolge il pianeta. Il nuovo imperativo ecologico di Jonas, formulato alla maniera di Kant, suona pertanto così: “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”. E se è vero che l’esistenza dell’umanità è il “primo comandamento”, da esso segue la necessità della difesa della vita nel suo insieme. All’altra famosa domanda kantiana, “in che cosa dobbiamo sperare?”, sembra sostituirsi quella se è ancora lecito sperare o se non sia piuttosto illusorio e regressivo abbandonarsi alla speranza, farsi cullare da essa, invece di assumersi con coraggio e disincanto le proprie responsabilità. Anche la prospettiva di Jonas (come quella, in un altro ambito, di Rawls) si fonda sulla minimizzazione del rischio. 316

A tale scopo è necessario frenare in altri e inibire in noi stessi la propensione al pensiero utopico, giacché esso è fondato su pretese esorbitanti e su desideri impossibili – o umanamente costosi – di perfezione, nonché sull’idea di radicali sconvolgimenti che il mondo, nella sua attuale fragilità, non è in grado di tollerare. La maggior parte degli uomini sembra oggi, per giunta, incline a pensare in forma di aspettative a più corta gittata rispetto ai tempi misurati dal succedersi delle generazioni. Per servirsi di una metafora militare, si potrebbe dire che Jonas alza moderatamente il tiro verso il futuro, senza appiattirsi nell’alzo zero sul presente puntuale, ma anche senza sparare a obice verso un avvenire remoto e indeterminato. Si è per lui responsabili nei confronti di un futuro che coinvolga noi e le generazioni che seguiranno, ma questo non dovrà assolutamente mettere a repentaglio l’esistenza e le attese delle generazioni attuali. Il “principio responsabilità” appare comunque sotto forma di un ulteriore tentativo di delegittimazione delle utopie, come sintomo dell’esaurimento di quella spinta in avanti che le aveva giustificate. Esse sembrano perdere il fascino e il potere dei tempi in cui riuscivano a mobilitare interi popoli alla loro costruzione, a impegnarli in “immodeste” speranze di riuscita, coinvolgendoli però nel fallimento di cause che richiedevano pesanti sacrifici personali, mentre promettevano la sicura conquista del futuro per l’intera umanità. Sotto processo sono, più in generale, le filosofie della storia che sorreggono le moderne utopie, adornandole della loro illusoria natura di “quasi previsione”, per cui un fine 317

storicamente lontano si potrà realizzare qualora i suoi promotori siano coerenti nel perseguirlo e investano e mobilitino la loro operosa energia nel prepararne l’avvento. Si produce così una serie di cortocircuiti teorici, in base ai quali il conseguimento dello scopo viene dichiarato immancabile, sebbene si aggiunga poi che esso esige l’intervento diretto dei singoli; la coerenza rispetto al fine dell’agire individuale viene proclamata in tutta la sua importanza, proprio mentre si sostiene che la storia può andare avanti nella direzione “giusta” ignorando astutamente le intenzioni dei singoli; la responsabilità personale nei confronti dell’umanità viene solennemente esaltata come valore etico e politico supremo, ma nello stesso tempo non appare indispensabile all’economia complessiva di un processo dotato dei propri automatismi. 7. Bioetica e biotecnologie Accanto all’impetuoso sviluppo dell’informatica, dell’intelligenza artificiale, delle neuroscienze e dei social networks, due, soprattutto, sono gli elementi di novità che caratterizzano il panorama attuale e, di conseguenza, la riflessione filosofica: l’impatto delle biotecnologie e il sorgere della bioetica; il nostro mutato atteggiamento nei confronti della storia e del futuro per effetto di eventi traumatici e inattesi (quali la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la distruzione delle Torri gemelle e il diffondersi del terrorismo giustificato in termini religiosi o etnici con il relativo moltiplicarsi dei conflitti). 318

Sulla spinta di problemi emergenti, specie nel campo delle scienze biologiche e mediche, è sorta di recente una nuova disciplina filosofica, la bioetica. Il nome stesso ha pochi decenni: nasce nel 1971 dal titolo di un libro del cancerologo V.R. Potter, che intendeva gettare un ponte tra le scienze della vita e l’etica, ma che non pensava ancora esplicitamente a valutare le scelte umane in questo campo alla luce di valori e scelte possibili.50 Da quando si è diffusa, la bioetica è diventata un campo di battaglia, che s’allarga sempre di più e che provoca lacerazioni tra i sostenitori di opposte visioni del mondo. Le biotecnologie e, in genere, gli sviluppi delle tecniche mediche e farmaceutiche pongono, infatti, in discussione convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria, ritenute finora fondate sulla roccia di evidenze incrollabili o addirittura sull’autorità della rivelazione divina. Niente è apparso finora meno dubbio del fatto che un individuo viene al mondo secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e a deformità congenite, e che soffre, gode e muore assieme a tutti i suoi organi. Le biotecnologie ci obbligano a riformulare rapidamente, anche a livello di senso comune, molti parametri grazie ai quali la vita quotidiana si è orientata nel succedersi delle generazioni. In particolare: la nozione di persona e di identità personale, le norme etiche e giuridiche che regolano i diritti dei singoli e delle famiglie, i cicli vitali, la grana, la varietà e l’intensità di determinate passioni. Sta cambiando, in quest’ultimo caso, il sistema dei sentimenti che 319

scandiscono tutti i momenti più solenni dell’esistenza umana: il concepimento, la nascita, il matrimonio, la paternità e la maternità, la malattia, la morte. Si modifica persino la configurazione dell’immaginario in quanto condizionato dai precedenti limiti biologici o mentali e dal complementare desiderio di eluderli. Quello che appariva imposto dalle dure leggi della necessità o dall’imperscrutabile volontà di Dio si trasforma in oggetto di scelta, permettendo di essere madri nell’età della menopausa o genitori di figli sconosciuti, perché nati da una donna a cui è stato donato il seme, da un utero in affitto o da una vedova a distanza di anni dalla morte del marito oppure perché – mediante i trapianti – ci si dota di organi che non sono quelli di appartenenza del proprio corpo. In prospettiva, attraverso la manipolazione delle cellule staminali, anche i trapianti potrebbero diventare inutili, rigenerando direttamente tessuti del pancreas o del fegato e debellando diabete o cirrosi epatica. Quelle funzioni, inoltre, che si mostravano moralmente o naturalmente inseparabili – la sessualità e la procreazione – ora, grazie ai contraccettivi, soprattutto chimici, diventano autonome. Lo stesso accade nel caso della procreazione e della figura parentale. Grazie alle tecniche di fertilizzazione, anch’esse, infatti, si disaggregano, trasformando le precedenti energie di legame affettivo in energia fluttuante e inquieta che non sa ancora come distribuirsi e che provoca sconcerto e dolore. Il corpo, in quanto organismo composto da parti indissolubili, si divide e i singoli organi si possono scambiare 320

passando da un organismo all’altro, da un morto a un vivo. La materia diviene trasportabile, viene resa compatibile operando mediante la biologia molecolare sui cromosomi del nucleo della cellula e sui loro costituenti elementari: le molecole del Dna. Si mettono così in relazione esistenze e storie umane differenti che si incontrano anche oltre la morte. Cadono poi, virtualmente, le barriere tra le specie. I progressi sono rapidi, anche se, dato l’alto numero delle malattie genetiche, il cammino sarà lungo. Anche se si è lontani dall’aver trovato la cura delle varie forme di cancro, della schizofrenia o del diabete, i risultati sono, tuttavia, molto incoraggianti. Nel 1990 ha, infatti, avuto successo il primo tentativo di curare una immunodeficienza ereditaria a opera del dottor French Anderson del National Institute of Health di Bethseda, nel Maryland. Soprattutto dopo la mappatura del genoma (effettivamente portata a termine nel 2006), quest’impresa lascia la porta aperta alla guarigione di tante altre malattie e malformazioni. Lo spostamento delle frontiere della vita nella sua conoscenza, oltre che nella sua genesi, qualità, durata ed esito, modifica anche le aspettative del singolo e, pertanto, la comprensione che ciascuno ha di sé e degli altri: quello che appariva legato alle dure e imperscrutabili leggi della necessità si trasforma in oggetto di scelta, in anti-destino. Occupandosi delle questioni ultime, la bioetica rende problematico ciò che prima era considerato normale e si situava come sfumato sullo sfondo inerte delle nostre preoccupazioni morali dirette. La soluzione alle nostre difficoltà era, infatti, 321

generalmente offerta dalle singole fedi e lasciata alla dimensione della coscienza individuale. Si scaricano, invece, ora sui singoli responsabilità inedite e gravose in quanto sono chiamati non solo a prendere decisioni rispetto a criteri in precedenza lasciati ai grandi emissori di norme (alle “banche etiche”, come le Chiese, gli Stati e i partiti), ma anche rispetto al futuro, prossimo e remoto, dei figli e dei pronipoti. Si tratta di questioni veramente metafisiche, che obbligano il singolo a confrontarsi con scenari che riguardano i massimi sistemi: vita e morte, aborto ed eutanasia, intervento sul proprio patrimonio genetico. Nel caso dell’eutanasia, ad esempio, ci si può interrogare sulla liceità o meno del testamento biologico: in che misura si lede la dignità dell’individuo impedendone la validità in previsione della sua futura incapacità di intendere e di volere e dell’intollerabilità delle sue sofferenze? L’eutanasia non è il contrario dell’apologia del dolore, non implica la risoluzione delle pene quando ogni cura è risultata inutile? Certo, serve prudenza: la nostra vita non appartiene solo a noi, ma ai familiari, agli amici, alla comunità. Ogni volta che muore qualcuno un intero mondo scompare e si perde per sempre. Data la posta in gioco, è quasi inevitabile che si scatenino conflitti e fanatismi che, oltre a lacerare la coscienza del singolo, pongono in virtuale rotta di collisione culture e fedi religiose del mondo, allargando ulteriormente un contenzioso già alto per effetto dei fenomeni di globalizzazione, che mettono in contatto parti distanti del pianeta, e di convivenza di diverse etnie nello stesso 322

territorio. Da un lato, vi sono coloro che difendono la “sacralità della vita”, l’idea che la vita è un dono divino e che comunque non ci appartiene (e non si tratta soltanto di cristiani). In termini quasi biblici essa è come la livrea che il servo riceve all’inizio del suo periodo di servizio e che dovrà alla fine restituire integra al Padrone. Questa impostazione si richiama spesso all’idea di “persona”, in quanto individuo dotato della sua unicità e irripetibilità. Dall’altro lato, vi sono famiglie di etiche che, in senso lato, si possono definire laiche e che partono dall’ipotesi dell’etsi deus non daretur, ossia ragionano sui valori e sulle scelte come se Dio non ci fosse. All’interno del “fronte laico” vi è però chi, come Hans Jonas, occupa una posizione particolare, che lo avvicina al sentire religioso. Egli difende, infatti, la non programmabilità della vita, nel senso che ciascuno dovrebbe essere “una sorpresa per se stesso”. Questo significa che non si deve toccare la linea germinale, un patrimonio che non appartiene solo all’individuo, ma anche ai suoi discendenti.51 Per effetto delle biotecnologie aumenta pertanto il divario tra le possibilità di innovazione e la loro recettività a livello sociale, culturale e religioso. Si verificano anzi spesso reazioni di rigetto o di forte diffidenza e si approfondisce il solco tra norme etiche o religiose consolidate e atteggiamenti sensibili alle opportunità aperte dalla ricerca scientifica. Accade anche che, nella difesa a oltranza delle proprie ragioni e dei propri dogmi, vengano toccati livelli di 323

radicalità tali da porre talvolta il cittadino in aperto contrasto con le norme di legge del proprio paese e da spingere il credente o a opporsi al magistero della propria confessione o ad accettarne le direttive volte a combattere quanti attentano al suo credo. Per rendersi conto della magnitudine del problema, si pensi soltanto alle polemiche sull’aborto o sull’eutanasia. Quello che cambia è, sostanzialmente, la preponderanza, riguardo al mondo dei sentimenti e delle passioni che costituiscono gli individui, di sentimenti acquisiti, di legami non ascrittivi, ma elettivi, e insieme a essa la paura che la morte, la vita, il dolore, la gioia perdano la loro maestà e la loro venerabilità; con la modificabilità del corpo si scopre di essere un corpo più che di avere un corpo e la bioetica – così come le biotecnologie, le pratiche mediche, i progressi farmaceutici – va incontro a paradossi. Quali conseguenze già si danno e, presumibilmente, si daranno sul terreno dei sentimenti, dell’identità e di certe forme di tutela della persona? Si amplia, in primo luogo, la longitudine dei desideri e della loro realizzabilità: avere figli quando prima non era possibile, guarire quando c’erano malattie congenite o acquisite. In generale, si amplia la possibilità di vivere meglio, ma ciò provoca anche dei paradossi, intendendo il termine nel suo significato etimologico, cioè di ciò che va contro la doxa, ossia contro le opinioni ricevute. In questo caso la doxa è soprattutto relativa alla famiglia a cui eravamo tradizionalmente abituati, in cui una coppia normalmente monogamica o metteva al mondo dei figli o non era in grado di metterne. 324

Oggi, con le tecniche di fertilizzazione si scombinano le forme elementari della parentela, che viene alterata anche nell’architettura dei ruoli: in Francia, ad esempio, già nel 1994 il 2% dei nuovi nati veniva al mondo attraverso la fecondazione assistita eterologa o attraverso l’ovodonazione. La famiglia tradizionale cambia così aspetto. L’atto procreativo, il più intimo e segreto, rischia di ridursi al rango di un esperimento scientifico, artificiale e programmato, e soprattutto la famiglia basata sui vincoli di sangue risulta, in prospettiva, incrinata. Quelle che venivano considerate le forme elementari della parentela della civiltà – “nozze, tribunali ed are / [che] diero alle umane belve esser pietose di sé stesse e d’altrui” – cambiano. Eppure, tali pratiche di fecondazione artificiale non sono recenti: in campo veterinario le tecniche di fertilizzazione sono conosciute fin dal Medioevo e, in campo umano, è stato scoperto un caso del 1884, che ha come scenario la città di Philadelphia, dove la moglie di un quacchero sterile, venne inseminata attraverso un prelievo di sperma del best looking student della locale università. Del resto, in se stesse le biotecnologie non sono nuove. Se le definiamo quali applicazioni di determinate tecniche agli organismi viventi in vista della loro modificazione, allora gli uomini le hanno utilizzate sin dagli albori della civiltà in campo animale e vegetale in forma di selezione di razze equine, bovine, canine o di sementi e piante. Nuove sono le loro applicazioni e la loro estensione e nuovo è lo spostamento d’accento nel nostro immaginario, abituato a pensare a tecniche da applicarsi principalmente alla materia inerte, ai 325

metalli o ai prodotti chimici. Con il prevalere dei legami elettivi rispetto a quelli ascrittivi, delle scelte rispetto ai naturali rapporti di sangue, ci si domanda quale uso si saprà fare di queste maggiori opportunità. I problemi, a questo proposito, non mancano. Tale tipo di famiglie artificiali – come vengono chiamate – porta infatti a un disorientamento, almeno iniziale, del bambino al loro interno. Duplica, triplica la figura materna: madre biologica, madre gestante, quando porta in sé l’uovo fecondato di un’altra donna, madre sociale; duplica la figura paterna: il padre biologico e il padre sociale. Questi vissuti dei bambini che nascono nelle cosiddette famiglie artificiali, soprattutto per fecondazione eterologa o per ovodonazione, provocano delle tempeste emotive al momento della nascita perché si ha la cosiddetta procreazione scorporata, disembodied procreation, nel senso che non viene praticata attraverso il normale atto sessuale, ma attraverso forme di inseminazione artificiale. Anche per i bambini che nascono in questo ambito le conseguenze psicologiche possono essere gravi – non necessariamente. La procreazione assistita attraverso donatore produce, infatti, instabilità nella coppia e la spinge alla dissimulazione, più o meno onesta, sull’origine del bambino nella trama dei rapporti interpersonali. Nel caso, infatti, della donazione eterologa di seme maschile, quando il padre è impotente, il bambino è di lei e non di lui, nel caso dell’ovodonazione il bambino è di lui e non di lei. La figura paterna viene messa in discussione sia sul piano reale, sia sul piano – forse più importante – 326

dell’immaginario. Si ha paura, ad esempio, che si crei una sorta di esclusione del padre, un’alleanza tra madre e bambino oppure un’alleanza tra padre e bambino. L’ignoranza, poi, dell’identità del padre – tranne in Svezia: è presto anche in altri paesi – può creare una forma affannosa di ricerca tormentata di esso che dura tutta la vita. Coloro che difendono l’inseminazione assistita eterologa insistono, però, sul fatto che le famiglie sorte in questo modo sono molto più stabili delle altre e meno toccate dai divorzi e l’equilibrio psicofisico dei bambini nati con questa procedura è generalmente buono. L’argomento forte, inoltre, è che senza l’inseminazione assistita attraverso il donatore non sarebbe mai nato quel determinato bambino, quindi ci sarebbe una privazione di esistenza, eppure tutto questo ha provocato dei problemi. Dinanzi all’aprirsi di questo ventaglio di possibilità, si è presi da vertigine – anche nel senso positivo dell’euforia portata dai “giochi di vertigine”, come l’altalena, di cui parla Roger Caillois – e, nello stesso tempo, da sconcerto o da disorientamento. Quest’ultimo sentimento dipende anche dal fatto che non siamo, inevitabilmente, ancora in grado di assorbire lo choc dei grandi mutamenti, attuali e potenziali, introdotti dalle biotecnologie e dalla farmacologia. Non abbiamo ancora potuto misurare – depurato dagli elementi fantasiosi o retorici che gli fioriscono attorno – il senso della metamorfosi in corso dallo stadio dell’umano a quello del post human, dai corpi organici agli esseri formati di carne e di metallo, di silicio e di plastica, di parti umane e animali, trasferibili con i trapianti da un individuo all’altro.52 Le 327

paure prevalgono quindi sulla ponderazione dei pro e dei contro, trasformando frequentemente anche la soluzione dei problemi bioetici in un ripetuto referendum, fondato più su convinzioni non esaminate che su ragionamenti. Risulta, inoltre, difficile elaborare idee e valori che siano all’altezza dei cambiamenti in corso. Infatti, la vita, così com’è normalmente intesa, perde il suo carattere di spontaneità, quella facoltà che si usa chiamare autopoiesis, ossia la capacità di mantenersi rinnovandosi in modo automatico: come quando le cellule si rigenerano, il cuore batte, le ghiandole secernono i loro ormoni, i globuli bianchi intervengono sulle infezioni, sacrificandosi per noi a centinaia di migliaia (e tutto questo senza che noi impartiamo loro alcun comando). Nella nostra civiltà occidentale, del resto, si è sempre ritenuto che l’“anima vegetativa”, come la chiamava Aristotele, quella che esprime la spontaneità del corpo vivente, non potesse essere influenzata o indirizzata dalla volontà. E questo a differenza di altre culture, come quella indiana, in cui si pensa di poter influire sul corpo modulando la respirazione o rendendosi insensibili al dolore. Poiché la natura ha cessato di rappresentare un metro e un modello, la fiducia nelle sue leggi spontanee si è parallelamente indebolita. Anche perché si pensa, a causa di un fraintendimento diffuso, che le biotecnologie violino le leggi naturali. Ciò, tuttavia, è falso, in quanto qualsiasi modificazione introdotta artificialmente nel corpo umano, animale o vegetale, opera poi attraverso automatismi “naturali”. Semmai si turbano e si modificano equilibri 328

precedentemente raggiunti o ci si scontra, sul piano sociale, con convinzioni religiose o morali consolidate. La bioetica deve affrontare oggi tutti questi enormi problemi. È però opportuno ricordare che essa funziona meglio come guida che non come freno. È quindi bene non solo conoscere con una certa esattezza come stanno i fatti e poi decidere, ma anche salvaguardare l’inevitabile alone d’ignoranza che circonda tali questioni. L’ignoranza, infatti, non dà nessun diritto, né a credere né a non credere. L’atteggiamento migliore da assumere consiste pertanto nell’esercitare quella perplessità e quella perspicacia che ci aiuti a comprendere gradualmente attraverso quali valori possano venire efficacemente governate le innovazioni introdotte dalle biotecnologie e dalla medicina. 8. Un mondo diverso Il prodursi degli eventi traumatici che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni ha mutato il panorama esistenziale, intellettuale, emotivo e immaginativo di miliardi di uomini (e questo anche sul piano filosofico, dove è iniziato un serio confronto con il pensiero delle civiltà extraeuropee).53 Ma ha anche cambiato il nostro atteggiamento nei confronti dell’avvenire. Sta, infatti, drasticamente diminuendo la capacità di pensare a un futuro collettivo comune, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private. A molti la storia appare quindi orfana di quella logica intrinseca che si credeva dovesse indirizzarla verso un determinato obiettivo: 329

il progresso, il regno della libertà o la società senza classi. Tramonta una cultura che tra Otto e Novecento aveva indotto a ritenere che gli eventi marciassero ineluttabilmente in una certa direzione, annunciata o prevedibile. A lungo, infatti, siamo stati abituati a ritenere che l’intervento umano consapevole fosse in grado di abbreviare il tempo necessario al prodursi dell’inevitabile, di “accelerare le doglie del parto”. Caduta, senza essere stata confutata, l’idea di un’unica Storia orientata, il senso del nostro vivere nel tempo sembra, ora più che mai, disperdersi in una pluralità di storie (con la s minuscola) non coordinate, in destini personali blandamente connessi alle vicende comuni. Ciò comporta un mutamento radicale nella nostra percezione del futuro e obbliga a una riflessione ulteriore sugli strumenti razionali per affrontarlo, connettendo in maniera diversa le vicende individuali a quelle collettive. Non potendoci più situare all’interno di un’epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, sembra riprodursi un’atmosfera intellettuale simile a quella descritta da Tocqueville nel 1840 per indicare lo stato d’animo prevalente degli americani: “In mezzo a questo continuo fluttuare della sorte, il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli uomini non vogliono pensare che al giorno dopo”.54 L’avvenire riacquista la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio). Pare così realizzarsi 330

l’affermazione di John Maynard Keynes, secondo cui “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. I contraccolpi di questa situazione sono molteplici e ancora da analizzare a fondo. In termini etico-politici, ne vedo sostanzialmente tre. In primo luogo, le valenze tradizionalmente legate al futuro come tempo dell’attesa, della redenzione e dell’imminenza del Regno di Dio o della Rivoluzione, hanno virato di senso. La rappresentazione della propria esistenza come momento preparatorio a un’altra vita, in senso religioso, o come strumento laico di edificazione di un avvenire radioso – che però conosceranno solo i nostri pronipoti – diventa ardua da concepire e da difendere. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono ora intimamente giudicate irredimibili, perché non possono più essere ritenute seriamente riscattabili né in un aldilà religioso, in una condizione di beatitudine celeste, né in un futuro terreno di armonica ricomposizione dei conflitti. La trasformazione “alchemica” del negativo in positivo teorizzata da certe varianti della dialettica e le promesse di risarcimento delle sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell’avvenire, sembrano essere improvvisamente diventate lettera morta. Ciò produce talvolta una sorta di implosione nell’arco dell’esistenza individuale, sottratta alla speranza, ma non all’angoscia, alla rassegnazione o all’indifferenza. Interi blocchi di esperienza e ampie regioni di significato – prima considerati nell’ottica dell’eternità o del futuro remoto – vengono riformulati e trascritti secondo nuovi 331

criteri di rilevanza. Quel che vale per le esperienze “negative”, vale anche per le “positive”: il desiderio di fruire immediatamente, come doni irripetibili, dell’amore, dell’amicizia, del piacere o del benessere sembra concentrare in istanti puntuali e discontinui i “momenti d’essere” di una vita degna di se stessa. La contrazione delle aspettative all’arco della sua sola esistenza fisica, immerge il singolo nel tempo irredimibile della caducità, lo costringe a elaborare il lutto causato dal dover trapiantare le radici del proprio io dal solido e immutabile terreno dell’aldilà o dai tempi epocali della storia nel friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia o dell’entourage delle persone e delle istituzioni a lui più vicine. A questo disagio si reagisce oggi mediante la prevalente strategia di mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttare rapidamente, senza preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato. Ciò comporta però la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria. In secondo luogo, il tramonto delle grandi attese collettive, che sino a un quarto di secolo fa (quando il mondo era ancora diviso in due blocchi) orientavano, seppur ideologicamente, miliardi di uomini, porta tendenzialmente a una privatizzazione del futuro stesso e alla fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa. Gli ideali di abolizione delle disuguaglianze che colpiscono l’“intera umanità” o di espansione della libertà al maggior numero di individui, con la parallela promessa di un avvenire aperto all’iniziativa di ciascuno, finisce – soprattutto in Occidente – per diffondere le frustrazioni. Le 332

società tradizionali possedevano infatti strumenti abbastanza efficaci sia per compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione, sia per giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva religiosa di una ricompensa in cielo. Le ideologie dominanti facevano sì che di rado venisse in mente ai più sfavoriti di aspirare ai livelli alti della scala sociale. Le società democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla nel dispositivo di inibizione delle aspettative, collaudato da millenni. Proclamando solennemente il diritto di tutti gli uomini all’effettiva eguaglianza e all’eliminazione di tutti gli ostacoli che potrebbero frenarla, legittimano le aspirazioni di ciascuno a superare la soglia della propria condizione di partenza per innalzarsi ai vertici della piramide sociale, alle cariche, alla ricchezza o al prestigio. Di fronte al presagibile naufragio dei molti che non riusciranno mai a far collimare i propri ideali con la realtà, tali società hanno dovuto elaborare molteplici tecniche per gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere per principio esaudite. I progetti di donazione di un senso collettivo alla storia costituivano, appunto, una delle forme di compensazione e di risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Rinviando la realizzazione di una società perfetta alle future generazioni, legittimando il sacrificio delle generazioni presenti, mettendo la ragione al servizio di programmi epocali, a lungo termine, riempivano di senso la vita degli individui. Oggi questo transfert, questo meccanismo di 333

dilazione non funziona più. Non si deve certo rimpiangere il passato e ignorare i preponderanti benefici del diffondersi dell’eguaglianza, ma rendersi conto di quali nuovi problemi ponga l’accorciamento dei piani di vita dei singoli e il ridursi della forza di proiezione in avanti delle istituzioni. In terzo e ultimo luogo, giunge a conclusione un ciclo bicentenario di pensiero e di prassi che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli o classi una felicità futura grazie al suo innesto nel corso della storia. Inserendosi nella corrente degli eventi, cavalcandone la cresta dell’onda, sintonizzandosi su processi già in atto, seguendone la “meccanica razionale”, la politica pensava di fruire dell’energia ascensionale del movimento storico per giungere felicemente alla meta. Oggi anche questa spinta propulsiva è venuta meno, perché non funziona più il dispositivo che la generava. Con l’abbandono di tale modello di storia “vertebrata”, innervata di utopia e tesa verso la conquista di una società migliore o perfetta su questa Terra, ci troviamo oggi dinanzi a una lacuna del presente, a una sorta di vuoto che non è soltanto privativo, teso a sottolineare il drammatico scisma tra la nostra esperienza e le nostre aspettative, ma anche ricco di chance inespresse. Il presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. Come ha notato Reinhardt Koselleck, si restringe l’area dell’esperienza e si abbassa, simultaneamente, l’orizzonte 334

delle attese.55 Queste espressioni, che descrivono i due fenomeni caratteristici della modernità, possono a prima vista apparire oscure. Significano però, rispettivamente, che, con l’accelerazione degli eventi, l’esperienza – ossia il passato significativo – diventa sempre più povera, in quanto il presente non somiglia più al passato, e che la prevedibilità del futuro diminuisce, perché la sua immagine tende sempre meno ad avere i tratti del passato e del presente. Proiettarsi verso il futuro, pensare alle generazioni a venire diventa quindi un atteggiamento sempre meno diffuso. Da una parte, il passato non preme più come prima, non sostiene a sufficienza la scelta delle norme dell’agire, dall’altra, si fanno sentire i contraccolpi del collasso di temporalità epocali. Prima – nelle società tradizionali a base religiosa – l’individuo proiettava, di norma, la sua esistenza oltre la morte, nell’abisso dell’eterno. Successivamente si è guardato di più ai tempi lunghi della realizzazione di progetti collettivi di edificazione di un mondo migliore. Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico e insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro – che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto – tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente. Si capovolge in tal modo una delle tendenze della modernità che si erano acclimatate da oltre due secoli, da quando il futuro – sottratto all’andare verso il peggio, all’avvento dell’Anticristo e all’apocalittica catastrofe finale 335

– comincia ad apparire come un “magazzino di possibilità”, una serie di orizzonti temporali aperti e centrati sul presente, ossia come “futuro che non può cominciare”. L’orizzonte è, infatti, invalicabile per definizione: si sposta con il nostro stesso spostarci lungo l’asse dei presenti successivi. In questo senso noi “defuturiamo” il futuro, cercando di renderlo prevedibile già nel presente. Restringiamo così successivamente l’eccessivo numero delle possibilità mediante statistiche, proiezioni e previsioni. E, soprattutto, mediante l’azione programmata, che trasforma il “futuro presente” dentro il nostro orizzonte in “presente futuro”, quello che si realizzerà effettivamente a un momento dato e rivelerà quali previsioni erano adeguate e quali no.56 Come possiamo oggi defuturizzare il futuro, aumentare le nostre capacità di previsione, passare da una cultura della necessità a quella della congettura razionale e della complessità a essa collegata? L’attuale turbine degli eventi, la moltiplicazione degli attori sociali (oltre sette miliardi di uomini distribuiti in oltre duecento Stati), lo sviluppo impressionante delle tecniche e dei saperi scientifici, la volatilità dei mercati finanziari, la situazione storica in cui le grandi civiltà della Terra continuano a non riconoscersi sufficientemente nei loro peculiari valori, la biforcazione tra processi centripeti di globalizzazione e processi centrifughi di isolamento, lo strabismo tra integrazione e frammentazione che caratterizzano il nostro presente storico, permettono ancora un qualche credibile pronostico razionale d’insieme? È evidente che alcune previsioni a 336

livello locale o in campi specialistici ristretti mostrano una sufficiente attendibilità. È però altrettanto chiaro che la loro confluenza, il loro incastro o il loro montage in un disegno complessivo rivelano un’arbitrarietà e un’incertezza ben misurabili attraverso lo scarto tra il futuro presente e il presente futuro. Ciò accade, a maggior ragione, al livello intermedio tra il locale e il globale. Pur disponendo di un altissimo numero di informazioni e di scenari – come accadde al presidente americano Kennedy durante la crisi dei missili a Cuba nel 1962 –, il rischio e l’incertezza dell’agire teso al “futuro del presente” lascia ampi e ineliminabili margini di indecidibilità. Nessun individuo o organizzazione appare oggi capace di fornire previsioni globali a medio raggio su cui fare affidamento (con l’eccezione, forse, delle proiezioni demografiche sino al 2030). Ciò non esclude, ovviamente, che si debba puntare a una ricomposizione di congetture parziali, razionalmente ed empiricamente vagliate nei loro gradi di probabilità. Anzi, è questo l’imperativo più urgente, soprattutto perché il tempo per rimediare a situazioni di crisi annunciate sembra sempre più scarso. Agli albori del nuovo millennio la riflessione filosofica si chiude con una nota di sobria modestia, che insiste sul richiamo alla responsabilità nei confronti di un incerto avvenire e sull’urgenza di ripensare i limiti e i valori delle proprie ristrette tradizioni entro un orizzonte planetario (e forse, in un futuro non lontano, interplanetario). Il ritrarsi del pensiero sulle sue stesse premesse (il lavoro di scavo, inventario e sgombero che accompagna l’apertura di nuovi 337

cantieri concettuali) prelude forse al ritorno di grandi scenari teorici? Difficile dirlo, anche se la magnitudine dei problemi da affrontare spinge spesso a pensare in grande. Malgrado i ricorrenti annunci, è però certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto “morta”. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire. 1

M. Sandel, La giustizia e il bene (1982), in Aa.Vv., Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 22. 2 Cfr. Ch. Taylor, Atomism, in Philosophy and the Human

Sciences. Philosophical Papers, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 190-207. 3 Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung, Suhrkamp,

Frankfurt a. M. 1992 e Id., Riconoscimento e disprezzo, Rubettino, Messina 1993. 4 Cfr. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, in “aut-

aut”, nn. 301- 302 (gennaio-aprile 2001), pp. 120-139, ora anche in Id., Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266. 5

Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002. 6

Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (1947), 338

Adelphi, Milano 1995. 7 J.-P. Sartre, Prefazione a Frantz Fanon, I dannati della

terra (1961), Einaudi, Torino 1962. 8 Cfr. L. Senghor, Négritude et humanisme, Éditions du

Seuil, Paris 1964. 9

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), il Saggiatore, Milano 2004, p. 402. 10

C. Lévi-Strauss, L’uomo nudo, il Saggiatore, Milano 1974 [1971], p. 648 e cfr. Aa. Vv., Simposio Lévi-Strauss. Uno sguardo sull’oggi, a cura di Wolfgang Kaltenbacher, il Saggiatore, Milano 2014. 11

Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 1979; Id., Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981. 12 R. Rorty, La priorità della democrazia sulla filosofia, in

Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, i, p. 248. 13 Sulle costanti degli sviluppi della filosofia italiana, cfr.

R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998, pp. 63-80 e R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010. 14 N. Bobbio, Intellettuali e potere, in Il dubbio e la scelta.

Intellettuali e potere nella società contemporanea, Carocci, Roma 1993, pp. 124, 125. 15 Id., Politica e cultura (1957), Einaudi, Torino 1995, p.

281. 16

Ivi, pp. 17, 280.

339

17 N. Bobbio, Prefazione alla seconda edizione di Italia

civile. Ritratti e testimonianze, Passigli, Firenze 1986, p. 6. 18

Id., Destra e sinistra. Ragioni e significato di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994, p. 79, ma cfr., soprattutto, Id., L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990. 19

Aa.Vv., Crisi della ragione, a cura di A.G. Gargani, Einaudi, Torino 1979. 20

A.G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 18. 21 A.G. Gargani, L’attrito del pensiero, in Filosofia ’86, a

cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 22. 22 Cfr. M. Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del

primo Novecento, Adelphi, Milano 1980; Id., L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1986; Id., Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990; A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975; Aa.Vv., Crisi della ragione, cit.; E. Severino, L’essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1995 (nuova ed.); Id., Il destino della necessità, Adelphi, Milano 1980; Aa.Vv., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983; G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, Milano 1985. 23 Tra le opere filosofiche che hanno avuto un maggiore

impatto, si possono vedere: R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991; Id., Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia (Laterza, Roma-Bari, 2000); Id., Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze 340

(Feltrinelli, Milano 2002); Id., Immaginare altre vite. Ragione, realtà, desideri (Feltrinelli, Milano 2013); S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, il Saggiatore, Milano 1988; Id. Metafisica della peste. Colpa e destino, Einaudi, Torino, 2012; G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Id., Contro il potere. Filosofia e scrittura, Bompiani, Milano 2011; S. Veca, Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione, Feltrinelli, Milano 1990; Id., Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 1997; Id., L’idea di incompletezza. Quattro lezioni, Feltrinelli, Milano 2011. 24 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 17. 25 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda

vita, Einaudi, Torino 1995; Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimonio, Bollati Boringhieri, Torino 1998; Id., Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 26

R. Esposito, Immunitas, cit; Id., Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 27 Id., Due. La macchina della teologia politica e il posto

del pensiero, Einaudi, Torino 2014. 28 Cfr. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura,

Bompiani, Milano 1986. 29 Id., Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano

1986, pp. 168, 180. 30

R. Rorty, Solidarietà od oggettività? (1983), in Scritti filosofici, cit., i, pp. 29-46. 31 R. Rorty, La priorità della democrazia sulla filosofia, in

341

Scritti filosofici, cit., i, pp. 245, 238. 32 Cfr. P.K. Feyerabend, Science in a Free Society, Nlb,

London 1978. 33

R. Rorty, Solidarietà, in La filosofia dopo la filosofia (1989), Laterza, Roma-Bari 1989, p. 221. 34 F. Nietzsche, Frammenti postumi [1885-1887, 7 (60)] in

Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964- vol. VIII/1 (1967), p. 299. 35 Id., La gaia scienza, par. 284, in Opere complete, cit.,

vol. V/2, p. 192. Su questo aspetto ha insistito B. Williams, in Genealogia della verità, Fazi, Roma 2005, pp. 17-23. 36 Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari

2002 e M. Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, il Mulino, Bologna 2012. 37 B. Williams, Genealogia della verità, Fazi, Roma 2005,

p. 247. 38 Ivi, p. 9. 39 Si veda U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani,

Milano 1990. 40 Cfr. S. Veca, L’idea di incompletezza, cit., pp. 55-63. 41 Cfr. J. Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico

dell’autorità”, Bollati Boringhieri, Torino 2003, ma cfr. anche Diritto alla giustizia, in Aa.Vv., Diritto, giustizia, interpretazione, a cura di G. Vattimo e J. Derrida, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 3-36. 42

M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 49 e cfr. Id., Ricostruire la decostruzione.

342

Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010. 43 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna (1979),

Feltrinelli, Milano 1981, pp. 119, 56-57. 44

Cfr. R. Nozick, Spiegazioni filosofiche (1981), il Saggiatore, Milano 1987, pp. 354 sgg. 45

Cfr. Ch. Lasch, Rifugio in un mondo senza cuore (1979), Bompiani, Milano 1982. 46

Cfr. Z. Bauman, Intimations of Postmodernity, Routledge, London 1992; Id., Le sfide dell’etica (1993), Feltrinelli, Milano 1996, in particolare pp. 244 sgg. 47 Cfr. P. Ricoeur, Se stesso come un altro (1990), Jaca

Book, Milano 1993. 48 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la

società tecnologica (1979), Einaudi, Torino 1990, pp. 3 sgg. 49 M. Weber, La politica come professione (1919), in Il

lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966, p. 121. 50

Cfr. V.R. Potter, Bioethics, Bridge to the Future, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1971. 51

Cfr. H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997; Id., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991. 52 Cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di

esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 53 Si vedano indicazioni, ad esempio, in N. Smart, World

Philosophies, Routledge, London-New York 2000 e R.

343

Bodei, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Zanichelli, Bologna 2005. 54 A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti

politici, Utet, Torino 1968-69, II, p. 640. 55

Cfr. R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova

1986. 56

Cfr. N. Luhmann, The Future Cannot Begin: Temporal Structures in Modern Societies, in The Differentiation of Society, Columbia University Press, New York 1982, pp. 271-288.

344

Indice

Nota introduttiva Premessa alla nuova edizione 2015 I. Le filosofie dello slancio 1. Il tempo ritrovato 2. Le cicatrici della crescita 3. Periferie della vita 4. Sperare nel tragico 5. L’orrore della stagnazione II. Verso nuove evidenze: filosofia e sapere scientifico 1. Il pensiero matematico 2. La relatività 3. Lo spazio interiore III. Il pathos dell’oggettivazione 1. Durkheim e Weber 2. Da Croce a Gramsci IV. I dislivelli della storia 1. Lo storicismo di Dilthey 2. Le umanità altre: filosofia dell’antropologia 3. Il pensiero rivoluzionario 4. Mito e ragione strumentale nel nazionalsocialismo V. L’incontro delle filosofie e la nuova epistemologia

345

1. “Da sponda a sponda” 2. La filosofia americana 3. L’epistemologia del neo-positivismo e la sua critica VI. Il pensiero dialettico 1. Coscienza e totalità 2. La dialettica negativa VII. Il mondo e lo sguardo 1. Husserl: la visione della cosa 2. Schütz: migrazioni di senso 3. Heidegger: il disvelamento dell’Essere 4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo 5. Sartre: lo sguardo dell’altro 6. Laing e Bateson: gli inestricabili nodi 7. Merleau-Ponty: la tovaglia bianca 8. Foucault: lo sguardo del potere e le tecniche dell’io 9. Parfit o il tunnel di vetro dell’identità VIII. I vincoli della tradizione 1. Il viaggio della vita: Blumenberg e le metafore 2. “Nessuno conosce se stesso”: Gadamer e l’ermeneutica 3. La mitologia bianca di Derrida IX. Vita activa 1. Arendt: pensare, volere, giudicare 2. Habermas: il deserto avanza 3. Rawls: “lotteria naturale” e giustizia

346

X. Guardando avanti 1. Gli orizzonti della Terra 2. Dall’Italia 3. Rorty: comunità e verità 4. Fame di realtà 5. Incertezza e disimpegno 6. Il ritorno della responsabilità 7. Bioetica e biotecnologie 8. Un mondo diverso

347

INDICE Nota introduttiva Premessa alla nuova edizione 2015 I. Le filosofie dello slancio 1. Il tempo ritrovato 2. Le cicatrici della crescita 3. Periferie della vita 4. Sperare nel tragico 5. L’orrore della stagnazione

II. Verso nuove evidenze: filosofia e sapere scientifico 1. Il pensiero matematico 2. La relatività 3. Lo spazio interiore

7 9 10 10 14 21 25 29

41 41 50 58

III. Il pathos dell’oggettivazione 1. Durkheim e Weber 2. Da Croce a Gramsci

70 70 75

IV. I dislivelli della storia

86

1. Lo storicismo di Dilthey 86 2. Le umanità altre: filosofia dell’antropologia 93 3. Il pensiero rivoluzionario 108 4. Mito e ragione strumentale nel nazionalsocialismo 119

V. L’incontro delle filosofie e la nuova epistemologia 348

128

1. “Da sponda a sponda” 2. La filosofia americana 3. L’epistemologia del neo-positivismo e la sua critica

128 131 137

VI. Il pensiero dialettico

150

1. Coscienza e totalità 2. La dialettica negativa

150 155

VII. Il mondo e lo sguardo 1. Husserl: la visione della cosa 2. Schütz: migrazioni di senso 3. Heidegger: il disvelamento dell’Essere 4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo 5. Sartre: lo sguardo dell’altro 6. Laing e Bateson: gli inestricabili nodi 7. Merleau-Ponty: la tovaglia bianca 8. Foucault: lo sguardo del potere e le tecniche dell’io 9. Parfit o il tunnel di vetro dell’identità

VIII. I vincoli della tradizione 1. Il viaggio della vita: Blumenberg e le metafore 2. “Nessuno conosce se stesso”: Gadamer e l’ermeneutica 3. La mitologia bianca di Derrida

IX. Vita activa

165 165 173 181 189 195 203 209 212 225

236 236 240 244

250

1. Arendt: pensare, volere, giudicare 2. Habermas: il deserto avanza 3. Rawls: “lotteria naturale” e giustizia 349

250 255 261

X. Guardando avanti

270

1. Gli orizzonti della Terra 2. Dall’Italia 3. Rorty: comunità e verità 4. Fame di realtà 5. Incertezza e disimpegno 6. Il ritorno della responsabilità 7. Bioetica e biotecnologie 8. Un mondo diverso

350

270 285 298 303 307 314 318 329