Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo 8842421227, 9788842421221

Una rilettura dell'opera cinematografica e dell'ideologia di Pier Paolo Pasolini alla luce del suo rapporto co

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Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo
 8842421227, 9788842421221

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Luca Caminati

Orientalismo eretico Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo

®

Bruno Mondadori

Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo della Colgate University

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www.bnuiomondadori.com

Indice

LX

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11 11 13 14 15 20 22 24

Prologo

Introduzione. Le mura di Sana'a, o «solo i marxisti amano il passato» 1. «Il primo calco della superfìcie esterna»: Pasolini e Eodore dell’india 1.1 La tradizione orientalista in Italia 1.2 La parola “Oriente” 1.3 II viaggio orientale e il problema dell’identità 1.4 A casa con Freud: il “ perturbante postcoloniale” 1.5 L’odore dell’india? 1.6 Lo sguardo esotico 1.7 La resa della parola

31 31 32 35 41 43 46

2. Dalla parola all’immagine 2.1 II problema di “un certo realismo” nel cinema di Pasolini

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3. Fare sopralluoghi, fare cinema: la produzione documentaristica 3.1 Pasolini artista-etnografo: Sopralluoghi in Palestina (1963-64) e Appunti per un poema sul Terzo Mondo 3.2 Appunti per un film sull’india ( 1968) come

53

58 68

2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

3.3

Tra Bazin e Metz Pasolini tra realtà e codice Una possibilità di sintesi? I documentari Nel Terzo Mondo

etnografia sperimentale Esperimento con l’Africa: Pasolini e gli Appunti per un’Orestiade africana (1969)

81

Foto di scena scattate durante la lavorazione di Appunti per un film sull’india

97 97 98 100 101 103 105 108 109

4. Le storie “altre”: da Edipo a Sheherazade

117

Epilogo. Il padre selvaggio (1963-75), ovvero “il sogno di una scuola”

121

Bibliografìa

131

Ringraziamenti

4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8

Primitivo libero indiretto Edipo e Freud La struttura ciclica II complesso di Edipo A Delfi L’antropologia e l’arte D personale e il politico E triste Fiore

Questo libro è dedicato alla memoria di Giulia e Lena

Prologo

Sempre più spesso la critica anglosassone (la prima a sviluppare un di­ scorso critico di post-colonial studies relativo ai prodotti culturali del e sul Terzo Mondo) si incaglia in discussioni semplicememte passa­ tiste. È interessante notare, a prova di questo, come certo pensiero marxista italiano degli anni sessanta e settanta, con tutte le sue chiu­ sure zdanoviane e appelli al prospettivismo, risuoni tristemente nei sottoprodotti della critica post-coloniale contemporanea. Questa si­ tuazione ha creato uno stato di caccia all’uomo (bianco) grazie ad un uso poliziesco degli ormai classici della critica orientalista contem­ poranea. La mia analisi di Pasolini terzomondista vorrebbe in questo senso essere esemplare di un ritorno al testo e al contesto dell’opera. Sarebbe facile accusare Pasolini - per esempio parlando del suo pri­ mo reportage indiano, L’odore dell’india (1962) - di visione orienta­ lista e, di conseguenza, di completare un saggio infarcendolo di esem­ pi che farebbero la gioia della squadra dei nuovi censori dell’etica postcoloniale. Più difficile è chiedersi perché: partire dalle dichiara­ zioni dell’autore (senza necessariamente crederci, ovviamente: ab­ biamo tutti imparato che il traditore non è solo il traduttore, ma an­ che, e soprattutto, l’autore), analizzare il testo dal punto di vista sti­ listico e del contenuto in relazione sia alla intentio auctoris sia alla teoria letteraria e fìlmica più appropriata, e quindi passare alla ri­ sposta critica e ideologica, il momento di vero reading del testo. Ricordo che, in un vecchio saggio, T.S. Eliot ci rammenta come la teoria non debba essere un cappello che appoggiamo sopra il testo, ma come la critica nasca dalla lettura (Eliot, 1975, p. 15 ). Questa scel­ ta può sembrare troppo modernista in quest’epoca di mal capiti cul­ tural studies-, ma non lo è. Vuole essere invece un richiamo contro la politica dei “bollini blu” appiccicati alle opere e agli autori. Pochi co­ me Pasolini, tornando al merito, avevano chiaro, nell’Italia ultracon­ IX

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formista degli anni cinquanta e sessanta, quella dei “panni lavati in ca­ sa”, la necessità non solo di una possibile alternativa al modello neo­ capitalistico occidentale, ma di una vera e profonda alterità, di cui Pa­ solini si sentiva non solo portavoce - nei tentativi di raccontare e rap­ presentare modelli diversi di vita non occidentali - ma, in un certo senso, incarnazione: comunista radiato dal partito, omosessuale sen­ za far parte del movimento gay, opinionista e intellettuale comunque controcorrente. H mio “ritorno al reale”, per citare un testo molto im­ portante di Hal Foster (2006) sulla relazione tra l’arte e il suo conte­ sto socio-politico, non è scaturito dalla lettura di vecchi critici pa­ triarcalmente imbronciati ma dall’analisi di testi di critica postcolo­ niale che si prefigurano un approccio comprensivo del problema del­ la rappresentazione del diverso nell’arte e nella letteratura. In parti­ colare mi sono servito delle tecniche psicologiche lacaniane di Homi Bhabha, dell’analisi storica e culturale dei viaggiatori europei in Afri­ ca e in Sudamerica di Mary Louise Pratt, del ritorno allo studio et­ nografico dell’arte di James Clifford e di Hal Foster, e infine dell’in­ teressantissimo volume Experimental Ethnography dove l’autrice, Ka­ thrine Russel, come chi scrive, cerca di reintrodurre il discorso etno­ grafico - per lungo tempo scienza isolata nelle sue eroiche scoperte di mondi lontani - all’interno del dibattito sulla cultura della mo­ dernità. Scopo di questo volume non è né condannare né celebrare Pasoli­ ni viaggiatore e film-maker. Se mai si vuole arrivare a capire il modo in cui uno dei più attenti intellettuali italiani del suo tempo si pones­ se in relazione all’alterità, per poi, “attraverso” Pasolini, investigare la crisi esistenziale di ima generazione e forse di una nazione intera al­ la frontiera di un’epoca: la modernità forzata italiana e la nascente glo­ balizzazione postcoloniale. La società italiana tra boom economico e riflusso, il processo di industrializzazione in atto dopo la fase della ri­ costruzione, il nuovo ruolo assunto dagli intellettuali, da separati a or­ ganici, da elitari a opinion-makers si riflette nel modo in cui Pasolini interagisce e rappresenta il Terzo Mondo nei suoi film. Questo libro vuole accompagnare Pasolini nei suoi viaggi con la macchina da pre­ sa, e insieme ricostruire, attraverso un’analisi serrata dei testi, gli an­ ni della loro (nostra) “meglio gioventù”.

Introduzione Le mura di Sana’a, o «solo i marxisti amano il passato»

Cominciamo il nostro viaggio di esplorazione del profondo e com­ plesso rapporto di Pasolini con il Terzo Mondo da un punto di arri­ vo inconsueto, la città di Sana’a, capitale dello Yemen. Nella nostra storia è la domenica mattina del 10 ottobre 1970 quando Pasolini e il direttore della fotografìa Tonino Delli Colli, concluse le riprese del­ l’episodio àiAlibech per l’adattamento del Decameron a cui il regista sta lavorando da molti mesi, si trovano per l’ultimo giorno del loro soggiorno proprio nella capitale yemenita. Dopo aver girato in Cam­ pania, in Lazio e in Trentino, Pasolini era riuscito a convincere il pro­ duttore Franco Rossellini a portare la troupe nello Yemen per un sin­ golo episodio. Quella domenica di ottobre, però, Pasolini non sape­ va ancora che in sede di montaggio quelle immagini non avrebbero trovato posto nella versione finale del film. Aveva invece capito di es­ sersi innamorato di un posto: e non era la prima volta. Durante i suoi sopralluoghi Pasolini rimane spesso folgorato (per usare un termine a lui caro) dalla bellezza di certi luoghi, a volte arida e ingrata, come in Africa o nel Meridione italiano, altre lussureggiante e ricca, come certe immagini che ci sono rimaste del subcontinente indiano o del­ le campagne laziali o toscane. H primo viaggio nello Yemen con la macchina da presa Arriflex (Pasolini vi tornerà nel 1973 per girare al­ cune parti di IIfiore delle Mille e una notte} sarà però ricordato non per il pezzo mancante del Decameron, ma per un corto di poco me­ no di quattordici minuti dal titolo Le mura di Sana’a, “documentario in forma di appello all’UNESCO” come recita il sottotitolo del film. «Era l’ultima domenica che passavamo a Sana’a, capitale dello Yemen del Nord», ricorda Pasolini: Avevo un po’ di pellicola avanzata dalle riprese del film. Teoricamente non avrei dovuto possedere l’energia per mettermi a fare anche questo do­ cumentario; e neanche la forza fisica, che è il requisito minimo. Invece 1

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energia e forza fìsica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare. Ci te­ nevo troppo a girare questo documento, (cit. in Chiesi, s.d., s.p.)

H breve film rimane a testimonianza di quella mattina di sole, dove la gioia di filmare e l’azione politica, come spesso in Pasolini, si muo­ vono di pari passo: Sana’a infatti sta crollando, e come «Praga, Am­ sterdam, Urbino» (riferisce Pasolini nel commento off, ora in Pasoli­ ni, 2001, p. 2108), deve essere salvata da se stessa. A perpetrare il cri­ mine sono gli abitanti della città, in un disperato desiderio di mo­ dernizzazione. H documentario inizia con una visita alle istituzioni del paese: l’inquadratura a campo lungo con m.d.p. a spalla si ferma sul ministero della Pubblica istruzione, il palazzo presidenziale, la ban­ ca centrale: tutti edifìci fatiscenti, non si capisce se a metà della co­ struzione o già cadenti. Proprio come all’inizio di un medio-metrag­ gio per la TV di qualche anno prima, Appunti per un film sull’india (1967), l’occhio di Pasolini si sofferma althusserianamente sugli ap­ parati statali, come a porre una domanda - se non addirittura a lan­ ciare una sfida - a chi è responsabile di quello che vediamo. Questo sguardo partecipatorio ma anche chiaramente sarcastico pone subi­ to in primo piano il problema centrale dell’ideologia pasoliniana nel momento in cui entra in contatto con l’alterità del Terzo Mondo de­ colonizzato: gli effetti della modernità e del progresso tecnologico sul mondo preindustriale, con, naturalmente, tutte le contraddizioni di questo sentire, di cui Pasolini è, come vedremo, profondamente consapevole. Il messaggio conclusivo del documentario è chiaro: si aiutino que­ ste giovani nazioni a rendersi conto del valore assoluto del loro pa­ trimonio artistico, insomma le si aiutino a sviluppare una coscienza storica. La contraddizione ideologica del messaggio - l’Occidente neocapitalista dovrebbe fermare il processo di modernizzazione in­ dustriale, e anzi aiutare il Terzo Mondo a diventare cosciente della propria unicità e alterità - non,fa certo paura a Pasolini, amante del contraddirsi, che in questo giorno d’ottobre ha già ben chiaro che la battaglia contro la modernità che sta combattendo da alcuni anni, e cioè dal suo arrivo a Roma sul finire degli anni cinquanta, è non solo lunga e difficile, ma per molti versi già persa. Che questo sia un sen­ timento profondamente personale lo testimonia un’altra dichiara­ zione di Pasolini sempre in relazione a Le mura di Sana’a1.

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Introduzione

Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sa­ na’a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di im­ potenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui so­ no stato perentoriamente costretto a filmare, (cit. in Chiesi, s.d., s.p.)

Lo capiamo dopo pochi minuti di introduzione, in cui il commento fuoricampo narra brevemente gli anni più recenti della storia yeme­ nita (la rivoluzione repubblicana, l’arrivo dei cinesi, i primi beni di consumo) e si chiude con la constatazione che Sana’a «non avendo subito mai nessuna contaminazione con nessun mondo diverso e tan­ to meno col mondo moderno radicalmente diverso», ha mantenuto una purezza originaria: «la sua bellezza ha una forma di perfezione ir­ reale, quasi eccessiva ed esaltante» (Pasolini, 2001, p. 2108). H film prosegue quindi con un taglio netto: passiamo d’improvviso alle im­ magini di una piccola cittadina del viterbese, Orte, su una collina nel­ la valle del Tevere. Queste sono immagini girate durante le riprese di un altro breve film in genere archiviato tra le interviste filmate: il ti­ tolo ufficiale è Pasolini. ..eiaforma della città, di circa quindici minuti, prodotto dalla RAITV e diretto da Paolo Brunatto nell’autunno del 1973 (la trasmissione avvenne il 7 febbraio 1974).1 Orte appare nel­ la sua perfezione medievale, fino a che la m.d.p. non allarga per mo­ strare un condominio moderno alle pendici del colle. Pasolini dice nel commento: Ormai, del resto, la distruzione del mondo antico, ossia del mondo reale, è in atto dappertutto. L’irrealtà dilaga attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo; al posto dell’Italia bella e umana, anche se povera, c’è ormai qualcosa di indefinibile che chiamare brutto è poco. (Pasolini, 2001, p. 2108)

H regista Paolo Brunatto accompagna con la m.d.p. la piccola lezio­ ne di architettura che il “maestro” Pasolini impartisce all’amico Ninetto e ai telespettatori.2 La città di Orte infatti, come molte piccole città italiane durante la massiccia campagna di speculazione edilizia di quegli anni, è stata deturpata nella sua forma. La difesa di Pasoli­ ni non è solo quella dell’esteta e umanista tardo-romantico che tanto amava Wordsworth e Shelley in gioventù, inquietato dalla bruttezza dei nuovi edifìci, ma è quella del materialista storico terrorizzato da

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questa vera “lebbra” che sbriciola il passato, la memoria storica, ar­ chitettonica e sociale dell’Italia e del mondo.5 La modernità che per Pasolini non è nient’altro che nuova preistoria, deturpa e disintegra gli uomini come il paesaggio. Italia e Yemen si trovano agli occhi di Pasolini uniti nello stesso destino di modernizzazione forzata, di in­ sensato e non programmato sviluppo: Pasolini vuole fermarlo. Il to­ no è ovviamente quello degli Scritti corsari se si pensa al noto artico­ lo Sviluppo e progresso (ora in Pasolini, 1999a, p. 455): «Il “progres­ so” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “svi­ luppo” è un fatto pragmatico ed economico». Pasolini teme che que­ sto sviluppo senza progresso riduca il mondo allo stesso modo in cui ha ridotto l’Italia degli anni settanta. Ecco perché le nazioni del Ter­ zo Mondo non diventano mai “paesi in via di sviluppo” nel vocabo­ lario pasoliniano, ma rimangono cocciutamente paesi del Terzo Mon­ do: uno spazio esterno, proprio quel third space teorizzato da Homi Bhabha come «quello spazio postcoloniale di liminalità e ibridazio­ ne che permette la possibilità di nuove negoziazioni di significato e di rappresentazioni» (Bhabha, 1990, p. 220, trad. d. A.). Il Terzo Mon­ do pasoliniano sarà proprio questo spazio liberato per la creazione di nuovi significati.

H metodo pasoliniano L’intertestualità dei due corti, già notata da Chiesi, può funzionare da concetto operativo per cominciare a pensare al rapporto tra Pa­ solini e il Terzo Mondo, in particolare mettendo in risalto due ele­ menti: l’uso dei metodi dell’antropologia comparata (Maraschin, 2004, p. 191), e il peculiare rilievo del mezzo audiovisivo per rac­ contare il Terzo Mondo. Per quel che riguarda il primo termine, si rimanda alla discussione del secondo capitolo. Ci basti qui ricorda­ re che Pasolini non fu, e mai si'considerò, un antropologo. Per usa­ re la definizione di Clifford Geertz, Pasolini oscilla tra la thin de­ scription, la descrizione immediata ed espressionistica, e la thick de­ scription, la “descrizione densa” che comprende l’analisi teorica del­ la relazione tra i dati raccolti ed i processi politici e sociali di cui so­ no parte (Geertz, 1990, p. 21). In particolare Pasolini amava porta­ re due realtà a confronto: 4

Introduzione

L’Italia è [...] un paese da laboratorio, perché in essa coesistono il mon­ do moderno industriale e il Terzo Mondo. Non c’è differenza fra un vil­ laggio calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due va­ rianti di un fatto che al fondo è lo stesso, (cit. in Camon, 1973, p. 116)

Rimane però indubbio come Pasolini anticipasse un problema teori­ co recentemente affrontato dal più interessante tra i meta-antropologi americani, James Clifford. Clifford attacca nel suo studio tutti gli er­ rori di molta sinistra liberal degli ultimi anni che spera di combatte­ re la globalizzazione preservando le culture autoctone nel tentativo fallimentare - di ricreare “purificazioni estetiche artificiali”, e allo stesso tempo mette in guardia contro i prelati delle “magnifiche sor­ ti e progressive” che vedono le realtà locali come inconvenienti nel­ la strada verso il progresso (è questa per esempio la posizione marxi­ sta-ortodossa di Moravia sulla situazione indiana degli anni sessanta nel suo Lidea dell’india). Per Clifford il mondo non è popolato da “autenticità in via d’estinzione”; lo studioso si preoccupa invece «di seguire nuovi percorsi attraverso il moderno», una nuova “poetica creativa della realtà” dove «è finito il tempo in cui un’autorità privi­ legiata poteva periodicamente “dare voce” (o storia) all’altro senza paura di contraddirsi» (Clifford, 1988, p. 4). Liberatosi dalla nozio­ ne ottocentesca di cultura come progresso occidentale, Clifford ri­ pensa il concetto di etnografia come “scrittura sulla cultura da parte di un osservatore partecipe” (Clifford, 1988, p. 5). In questo senso molti artisti, poeti, scrittori e cineasti dell’era moderna sono etno­ grafi; anche la loro diventa ima meditazione in corpore vivo della cul­ tura a loro contemporanea. Le posizioni di Clifford sembrano a pri­ ma vista suonare come atto d’accusa contro le invasioni pasolianiane del territorio altro: i suoi tentativi di imporre l’antica Grecia sulle na­ scenti democrazie africane nelTOrertó^Ze, l’uso tutt’altro che apolo­ getico di modelli visuali occidentali nella ricerca dei personaggi in Appunti per un film sull’india, per non parlare dell’uso dei nudi eso­ tici nel Fiore. Una più attenta analisi però rivela non solo che Pasoli­ ni era profondamente conscio del proprio bagaglio ideologico occi­ dentale (se ne darà prova nelle analisi individuali dei film), ma che gli esperimenti terzomondisti sono attuati allo scopo di andare oltre il desiderio di rappresentare e tradurre culture altre per la scopofilia dello spettatore europeo. La forte spinta metalinguistica, l’autori­ 5

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flessività delle opere, il connubio di immagini “reali” e di “realtà citazionali” (come Rodhie definisce l’inserimento di citazioni pittori­ che, più o meno implicite, nel cinema pasoliano e che dà vita a un pa­ linsesto visivo dalle molteplici letture), genera una produzione fìlmi­ ca in cui aspetti prettamente sperimentali, didattici e politici si inter­ secano fino a formare un risultato finale a dir poco ambiguo, e certa­ mente di difficile etichettatura. Dalla constatazione di questa complessità nasce l’idea di riparlare di alcuni film e documentari di Pasolini degli anni sessanta e settan­ ta che sembrano già sollevare i problemi che la critica postcoloniale contemporanea ha ri-portato alla ribalta del dibattito accademico. La spinta antropologica pasoliniana si sviluppa, come vedremo nel capitolo dedicato a Appunti per un film sull’india, verso una combi­ nazione di sperimentalismo visivo e antropologia sociale a cui dare­ mo il nome di “etnografìa sperimentale”, e cioè il desiderio di mo­ strare e tradurre per lo spettatore occidentale (stabilendo didatticamente continui rapporti con l’Italia, in modo da dare punti di riferi­ mento al lettore/spettatore), e quello di sperimentare nuove tecniche visive e narrative. H termine etnografia sperimentale diventa una len­ te utilissima per riguardare alcune di queste opere con occhi nuovi. Mentre gli intellettuali contemporanei a Pasolini dimenticavano ra­ pidamente - dopo critiche di leggerezza e mancanza di idee (o forse di ideologia) - questi film, una loro rilettura offre uno spunto inte­ ressante per riparlare del ruolo dell’artista messo a confronto con il problema della rappresentazione dell’alterità. H ruolo unico che il mezzo audiovisivo svolge per Pasolini terzo­ mondista lo si trova in un brano di Lettere luterane: Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, campestre o urbano, può escludere un’infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servo­ no. Lo sguardo di un regista - su quello stesso paesaggio - non può inve­ ce non prendere coscienza - quasi elencandole - di tutte le cose che vi si trovano. Infatti, mentre in un letterato le cose sono destinate a divenire pa­ role, cioè simboli, nell’espressione di un regista le cose restano cose: “i se­ gni” del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i segni del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire viventi, di se stesse [...] Dunque se fossi andato nd-

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Introduzione

lo Yemen in quanto letterato, sarei tornato con un’idea dello Yemen com­ pletamente diversa da quella che ho essendoci andato in quanto regista. Non so quale delle due sia la più vera. In quanto letterato sarei tornato con l’idea - esaltante e statica - di un paese cristallizzato in una situazione sto­ rica medievale: con alte e strette case rosse, lavorate di fregi bianchi come in una rozza oreficeria, ammassate in mezzo a un deserto fumigante e co­ sì limpido da scalfire la cornea: e qua e là villette con villaggi, che ripeto­ no esattamente la forma architettonica della città, tra sparuti orti a ter­ razza, di grano, di orzo, di piccole viti. In quanto regista ho visto invece, in mezzo a tutto questo, la presenza “espressiva”, orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce pian­ tati caoticamente - casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c’erano le mura della città - edifìci pubblici in uno sti­ le Novecento arabo spaventoso, eccetera. E naturalmente i mie occhi han­ no dovuto posarsi anche su altre cose, più piccole o addirittura infime: oggetti di plastica, scatolame, scarpe e manufatti di cotone, miserabili pe­ re in scatola (provenienti dalla Cina), radioline. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo babelico sistema espressivo. (Pasolini, 1976, p. 138)

La realtà, la rappresentazione e l’altro(ve) del non-occidentale sono le tematiche che Pasolini enfatizza in quelle che sente come differen­ ze ontologiche tra la rappresentazione scritta e quella visiva (e a que­ sta “fleboclisi”, come la chiama Siciliano [1978, p. 441], dalla lette­ ratura al cinema, dedichiamo ampio spazio nel secondo capitolo). Mentre la parola “cristallizza” e blocca la rappresentazione «in una situazione storica medievale», incapace di mostrare la dinamica del­ lo sviluppo di un luogo, la macchina da presa, vista da Pasolini sen­ za il filtro del dispositivo, ma come macchina che rappresenta le co­ se per quello che sono, “elencandole”, penetra nella verità dell’alie­ nazione moderna: solo così la “lebbra”, il caos, lo spaventoso nonsense del moderno si apre di fronte agli occhi del regista e dello spet­ tatore. Mentre il letterato può non vedere certi elementi, a causa del­ la incapacità della lingua di significare, gli occhi del regista «hanno dovuto posarsi» sulla waste land del Terzo Mondo colonizzato. Su questo fondamentale passaggio dalla parola scritta alle immagini, e sulle sue implicazioni per questo volume, si veda il secondo capitolo (pp. 31-41).

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Orientalismo eretico

Incorporare l’alterità

Il processo di verifica marxista nelle cose - che Pasolini identifica con il ruolo riproduttivo della m.d.p. - e il movimento di spola tra cul­ ture del suo metodo antropologico chiariscono come l’incorporazio­ ne dell’alterità, insieme alla contaminazione, sia più di una semplice figura retorica. Si tratta di un “piano” (lo intendo qui nel senso deleuziano del termine, cioè nel senso di completa immanenza) che è parte fondamentale della creatività pasoliniana, dove «convenziona­ lità [...] non significa che questo: una pratica di scrittura attraverso cui non passa più alcuna alterità. Infatti si tratta non di accettare, osser­ vare, ma “lasciarsi penetrare” da quelle culture sopravviventi» (Be­ nedetti, 1998, p. 30). I due mondi “semanticamente diversi” non so­ no solo Italia e Yemen, moderno e antico, Storia e Preistoria, ma i dif­ ferenti codici di significazione: parola scritta e documento visivo, do­ cumentario e appello politico, poesia e prosa. L’incorporazione del­ l’altro dunque deve avvenire anche a livello stilistico: ed è qui che il concetto di pastiche diventa operativo nel sistema pasoliniano, e su questa commistione di stile discuteremo più avanti. La battaglia condotta imbracciando la fida Arriflex non è contro i mulini a vento donchisciotteschi della novità, ma bensì contro quel­ la che Pasolini stesso definisce “irrealtà”: è il nuovo mondo neoca­ pitalistico dei mezzi audiovisivi presentati come aideologici. È per questo che in un noto brano di Empirismo eretico Pasolini invoca: «dobbiamo deontologizzare, dobbiamo ideologizzare» (Pasolini, 1991, p. 226). Questo appello invita a combattere l’irrealtà della rap­ presentazione appiattente della (allora) nascente “società dello spet­ tacolo” (teorizzata proprio in quegli anni da Guy Debord) che di­ rettamente agisce, in una interessante inversione del rapporto tra base e struttura, sul mondo della realtà. Diretta interazione tra mez­ zi audiovisivi, urbanizzazione, perdita delle tradizioni (a cui Pasoli­ ni contrappone la “realtà”), passato agricolo e sottoproletario, sen­ timento religioso primitivo, Terzo Mondo non come fuga ma bensì come alterità geografica possibile: questi, uniti all’alterità tempora­ le (e si pensi ai viaggi nel passato nella Canterbury di Chaucer o nel­ l’Italia di Boccaccio), divengono elementi da incorporare nella sua visione di artista engagé.

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Introduzione

Il “da farsi”

L’incorporazione dell’alterità si attua in una forma di sperimentali­ smo fondamentalmente linguistico collegabile a quella che Eco ne­ gli stessi anni chiamava “opera aperta”, e che qui possiamo defini­ re, usando la terminologia pasoliniana, come poetica del “ da farsi ” .4 Si tratta di opere “a canone sospeso”, nelle parole di Eco, «che de­ vono essere portate a termine dall’interprete nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente» (Eco, 1962, p. 33). Come ha già no­ tato Rumble (1999, p. 350), il “da farsi” per Pasolini rappresenta più di un semplice non-finito: si tratta della necessità di creare un’opera dalla struttura fluida che rifletta da una parte la visione so­ cio-politica marxista della società da farsi (particolarmente utile se si pensa all’Africa degli anni sessanta) e dall’altra quella che Eco, ri­ ferendosi al teatro di Brecht, chiama “pedagogia rivoluzionaria” (Eco, 1962, p. 45). Alla poetica del “da farsi” dedicheremo ampio spazio nel capitolo relativo Appuntiper un’Orestiade africana, in particolare rifacendoci all’acuto studio di Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino: a mo’ di introduzione ci basti dire come il rifiuto pa­ soliniano di rifinire l’opera e certa approssimazione di cui il cinema di Pasolini è spesso accusato sono da collegare proprio alla necessi­ tà di resistere alla trasformazione dell’opera d’arte in oggetto di con­ sumo. L’apertura dell’opera rispecchia le possibilità politiche del nuovo mondo de-colonizzato, il processo di democratizzazione che Pasolini segue con intensa partecipazione. La visione orientale di Pasolini, a differenza di quanto in molti ci hanno fatto credere, non è solo né quella romantica-decadente dell’intellettuale europeo, né quella del cacciatore sessuale in cerca di esperienze forti (anche se qui non si vuole negare nessuna delle due componenti), ma anche, e soprattutto, quella dell’intellettuale marxista che cerca di capire nella materialità degli eventi il mondo che lo circonda. Ecco dunque il titolo del presente volume: Orientalismo eretico. Modellato sul ti­ tolo della celebre collezione di saggi del 1972, Empirismo eretico, in cui Pasolini proclamava il suo stato “altro” rispetto alle culture uf­ ficiali dell’epoca (quella cattolica, comunista e laica), il mio studio in­ tende analizzare l’orientalismo pasoliniano in tutte le sue contrad­ dizioni stilistiche, politiche e ideologiche.

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Orientalismo eretico

Note 1 La prima versione di Le mura di Sanaa trasmessa dalla RAI il 16 febbraio 1971 ovviamente mancava della parte su Otte, girata tre anni dopo. È infatti nel 1974 (a

distanza di pochi mesi dalla trasmissione di La forma della città) che Pasolini pre­ sentò a Milano una seconda versione di Le mura di Sana'a (rimasta, da allora, quel­ la definitiva), che comprende l’aggiunta di una nuova sequenza di alcuni minuti gi­ rata davanti al paesaggio di Orte. Come nota sempre Chiesi, le immagini di Orte non sono esattamente quelle di La forma della città, anche se decisamente girate nella stessa occasione. 2 Sui commenti di Pasolini in materia architettonica si veda Colusso et al., 1985. 3 Si veda per esempio questa dichiarazione: «Bisogna strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non ama­ no nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o “monumentale”, come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e ca­ pace di nuova storia...» (citato da Siciliano, 1978, p. 260. Originariamente in Gian­ carlo Ferretti, Introduzione a Le belle bandiere, Editori Riuniti, Milano 1977). 4 Una bibliografìa completa sul concetto del “da farsi” si trova in Rumble, 1998, p. 361. Si veda anche l’introduzione al volume di Carla Benedetti, Pasolini contro Cal­ vino, in particolare la sua discussione su Petrolio come opera di «eterogeneità costi­ tutiva» (p. 47), misto, come dice Pasolini stesso relativamente alla Divina Mimesis, «di cose fatte e di cose da farsi, di pagine rifinite e di pagine in abbozzo, o solo in­ tenzionali» {ibid. ).

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1. «Il primo calco della superficie esterna»: Pasolini e L'odore dell'india

1.1 La tradizione orientalista in Italia Dov’è finita l’odeporica nella storia della letteratura italiana? Mentre molte letterature europee - quella francese e britannica in particola­ re - possono annoverare nelle loro antologie per le scuole innumere­ voli narratori/viaggiatori, rarissimi sono gli scritti di odeporica che trovano posto all’interno del canone letterario italiano (Cachey, 1992, p. 55). Cardona nella sua brillante analisi di questa grave lacuna in­ dividua alcune interessantissime problematiche: Ci si può chiedere dunque per quale motivo l’immensa potenzialità di da­ ti ed idee nuove contenute nella letteratura di viaggio rimanessero senz’eco nella nostra letteratura, nella formazione del canone letterario, nel mo­ dellamento dei grandi temi ideologici. La risposta non potrà che essere congetturale, ma almeno due fattori sembrano però prevalenti: 1) l’as­ sunzione dell’egemonia letteraria da parte di Firenze e la riduzione dei centri editoriali delle altre città [...] Non saranno i Fiorentini, uomini di terra e di mura, ad apprezzare una letteratura di mare e di fuor di casa. 2) H fattore politico [...] le signorie italiane vengono ben presto escluse da qualsiasi partecipazione alla corsa coloniale e anche l’attività commercia­ le è sempre più debitrice al capitale straniero {...] C’è una sostanziale estraneità alle vicende del viaggio per mare e alla presentazione della di­ versità, che fa annegare nella piattezza dell’indifferenziato fait-divers l’evento grandissimo e l’avvenimento curioso ma di poco rilievo storico. È una scelta consapevole a favore dello strapaese, del provincialismo sen­ za scosse e senza confronti, che lascia spegnere senza scintille e senza rim­ pianti la splendida stagione delle scoperte. (Cardona, 1986, p. 712)

Manca soprattutto nella letteratura della Penisola quel filone di let­ teratura esotica nato da un’ideologia che dà vita a una visione dell’Oriente definita da Edward Said come «in un certo senso un’in­ 11

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venzione dell’occidente, sin dall’antichità luogo di avventure, po­ polato da creature esotiche, ricco di ricordi ricorrenti e paesaggi, di esperienze eccezionali» (Said, 1999, p. 11). Mentre l’Ottocento in­ glese e francese sia in letteratura sia nelle arti visive è segnato da un’in­ credibile quantità di materiale in un modo o nell’altro collegabile a questo filone orientalista (basti qui fare i nomi di Kipling e Pierre Loti, o di John Singer Sargeant e Jean-Léon Géróme),1 in Italia non si va oltre Salgari (comunque relegato alla letteratura per ragazzi) e pochi altri. Ne è testimonianza l’assenza nella letteratura critica ita­ liana di un numero consistente di volumi dedicati proprio a questo genere, anche se non mancano molti studi su singoli testi o autori.2 L’assenza di un’avventura coloniale vera e propria dà spazio a una di­ versa tradizione rispetto agli altri paesi europei più direttamente coin­ volti in una narrativa imperiale: si tratta nel caso italiano - come no­ ta Pezzini - di personale assunto da compagnie private che cercano di stabilire contatti commerciali con porti dell’Oriente (ma senza l’in­ gombrante presenza di un equivalente della Compagnie delle Indie) oppure di viaggiatori soli, partiti per motivi scentifìci o per il puro gu­ sto del viaggio. Il punto di partenza, è la constatazione della assenza di situazione coloniale italiana. Mancando uno spiccato clima co­ loniale, sarebbe d’altra parte venuta a mancare da noi quella particolare forma di esotismo ad esso legata solitamente accentuata nelle esperienze di artisti e di letterati, nutrita da moventi complessi e sovente contraddit­ tori, e perfino da conflitti drammatici. Non ci furono, quindi, Kipling ita­ liani. (Pezzini, 1984, p. 238)

Con questo non si vuole naturalmente negare la grande importanza politica e storica di certe narrazioni di viaggio (vere o presunte), né negare il ruolo di Daniello Bartoli o di Marco Polo come possibili mo­ delli (tanto per fare due nomi tra i più importanti narratori italiani che hanno scelto l’Oriente per le loro avventure): quello che si è visto in Italia è stato l’assenza di un modello coloniale solido, di una vera ideologia della conquista imperiale presente a livello sintomatico an­ che nei testi che a tale ideologia certamente non si sentivano allinea­ ti (si pensi a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, per esempio).

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«Il primo calco della superficie esterna»

1.2 La parola “Oriente”

Quello che certo salta subito all’occhio è come, al di là degli stretti ar­ gini highbrow, le scrittrici e gli scrittori italiani abbiano prodotto e pubblicato di tutto sui loro viaggi orientali. Basta una breve scorsa al­ le pubblicazioni di viaggio in Italia nel corso del XX secolo per intui­ re il grande interesse - editoriale e di pubblico - che il racconto di viaggio stimola tra i lettori della Penisola (Pezzini, 1984, p. 239). For­ se nel corso degli ultimi anni è mutato l’approccio, la televisione ha riempito i salotti italiani di immagini esotiche accessibili fino a pochi decenni orsono a una minuscola élite di intellettuali. Di una cosa que­ sta ricerca mi ha senz’altro convinto: non sono cambiati i temi dei rac­ conti, e sopratttuto non è cambiato l’orizzonte delle aspettative dei lettori/spettatori. Come in ogni ricetta tradizionale che si rispetti, in tutti i racconti, i film, le memorie e i documentari che ho analizzato negli ultimi anni - a volte risvegliati da lunghi sonni in archivi am­ muffiti, a volte accessibili nelle edicole delle stazioni ferroviarie o de­ gli aeroporti - ho ritrovato ima serie di ingredienti la cui assenza pre­ giudicherebbe la riuscita del piatto esotico. Allora, prendiamo l’in­ dia per esempio: datemi una tigre, un santone, qualche fiume sacro (basta anche una pozza d’acqua stagnante), un funerale con tanto di pira, donne colorate, qualche smagrito vegliardo, nani, scimmie am­ maestrate, panorami mozzafiato, ma soprattutto lui, il viaggiatore (Kaplan, 1996, p. 50). A volte in sahariana, come si fa sempre ritrar­ re il rubicondo Rossellini durante il lungo anno passato nella giungla, a volte partecipe e commosso, come Pasolini, altre metodico come il Moravia africano, oppure un po’ malaticcio e millantatore come Goz­ zano, che fa fìnta di essere stato ovunque per mandare dei resoconti su cose e posti mai visti alle rivistucole che pubblicavano i suoi scrit­ ti. O magari spirituali post-hippie come Petrignagni, coinvolta in un corso di elevazione trascendentale in un’università hindi. O ancora il più divertente di tutti, Manganelli, professore sovrappeso, che arri­ va in India sprezzante, ma si ritrova poi al limite del suicidio a metà del viaggio? La parola Oriente è un significante fortissimo e profon­ damente radicato nell’immaginario italiano e occidentale, e tale for­ za segnica affascina tutte le parti coinvolte in questo processo mitopoietico, dal narratore al lettore. Quello che cambia è lo spirito di questi viaggiatori: la fine dell’avventura coloniale europea e l’emer­

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gere di nuove realtà politiche terzomondiali spinge anche il meno en­ gagé degli autori a un piccolo esame di coscienza: con risultati diver­ si, comunque interessanti da seguire, in particolare per il tipo di ri­ flessione che invita a fare sulla situazione italiana del momento.

1.3 II viaggio orientale e il problema dell’identità

Nell’era dei jet il viaggio ha perso il suo fascino? «Non è più la stessa cosa» si lamenta l’amica iper-viaggiante che era andata sola a Islama­ bad nei primi anni novanta, e che al ritorno nel 2006 vi trova Burger King. Forse è vero, eppure il fascino del viaggio prosegue, non più og­ gettivamente- avventuroso, ma gnoseologicamente altrettanto ecci­ tante: viaggiare costringe a guardare, forse a riguardare, a capire.4 Niente in particolare poi: le immagini le abbiamo già viste tutte. Ep­ pure arrivarci, lì, qualcosa cambia. Come scrive Perussia: il viaggio si prefìgge di spezzettare l’esperienza esaltandone le potenziali­ tà. Sia esso operato con l’eleganza intellettuale di uno scrittore, o con la più modesta curiosità dell’uomo della strada, il viaggio rappresenta comunque un modo per ampliare le alternative del mondo e della propria vita. At­ traverso la frattura fra l’universo della normalità e quello dell’eccezione, il soggetto può sperimentare livelli diversi di esperienza. La fenomenolo­ gia del quotidiano si moltiplica, si specchia, si qualifica attraverso una nuova strategia di traduzione dei fatti in concetti. Alla realtà come dato si sostituisce la realtà come condizione possibile. (Perussia, 1985, p. 134)

B mondo possibile aperto dal viaggio non è “là fuori” ma “qui den­ tro”. Quello che diventa davvero interessante nei film e nei vari ma­ teriali che ho raccolto per prepararmi a questo lavoro non sono le de­ scrizioni, gli elenchi, i ragionamenti analitico-politici in cui più o me­ no tutti si cimentano, quanto il nuovo e bizzarro modo di resistere espresso in vari modi dai vari autori - all’altrove. La domanda posta dall’ignoto pone il soggetto viaggiante in una condizione di instabi­ lità psicologica e di paura, quel sentimento di sentirsi in qualche mo­ do ancora a casa che infatti si perde immediatamente nel momento in cui si abbandona l’Occidente per avventurarsi nell’incognito delle terre dell’oriente. Nel confronto con l’altro - nell’individuazione della sua irriconciliabile alterità - l’occidentale perde “l’orientamen14

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to”. Questo sentimento, che come abbiamo visto può essere inteso in veri e propri termini gnoseologici, è profondamente radicato nella psiche del viaggiatore: ho cercato di definirlo in termini freudiani con Unheimlich, il perturbante.

1.4 A casa con Freud: il “perturbante postcoloniale” L’europeo che dalla Persia va in India constata perciò un con­ trasto enorme; e mentre nel primo di questi paesi si trova an­ cora come a casa sua, e vi incontra idee europee e virtù e pas­ sioni umane, egli avverte invece, appena varcato l’indo, il più grande contrasto, che si manifesta in ogni singola cosa. Così il residente inglese a Cabul, Lord Elphinstone, dice che l’eu­ ropeo può credere, fino all’indo, d’essere ancora in Europa. (Hegel, 1947, p. 174)

Dei molti viaggi descritti nella letteratura trovo sempre più avvin­ centi quelli fatti senza troppo muoversi: quelli della fantasia dei fan­ ciulli, per esempio, come nel caso del piccolo Pasolini di fronte a un manifesto pubblicitario affisso, mi piace immaginare, sul muro del ci­ nema di Casarsa. Se non sbaglio la prima immagine-ricordo che ho del cinematografo è un manifesto. Avevo forse quattro o cinque anni: era l’immagine di una tigre scatenata, che stava divorando un uomo di cui il meno che possa dire è che aveva l’aria di soffrire squisitamente. (Duflot, 1983, p. 36)

Non sorprende trovare questa immagine salgariana ed erotica tra i primi ricordi di Pasolini su di sé bambino nell’intervista rilasciata a Jean Duflot nel 1968, in cui l’Oriente viene delineato attraverso una serie di significanti che sono un piccolo scrigno di termini presi di­ rettamente in prestito dal linguaggio freudiano. Dal voyeurismo al­ lo smembramento, dal masochismo alla castrazione, questi stessi te­ mi sono già presenti nel reportage L’odore dell’india (1962), primo di una lunga serie di lavori nati da viaggi orientali che porteranno Pa­ solini ai quattro capi del mondo. Che cos’è allora l’Oriente per Pasolini? Dal punto di vista politico e ideologico, come si è detto, è il luogo della ri-scoperta del premo15

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demo (dopo la delusione del subproletariato occidentale), del tem­ po mitico e naturale prima dell’alienazione, il posto dove l’industria­ lizzazione e il consumismo non hanno intaccato i valori millenari del­ la cultura contadina. Dal punto di vista artistico è la possibilità di ima nuova libertà stilistica: il cinema, che è «in fondo una questione di sole» (Pasolini, 1993, p. 392), vi troverà nuovi paesaggi, nuovi vol­ ti, e, soprattutto nuove storie da raccontare. Ma l’Oriente rappre­ senta anche il paradiso erotico di una nuova libertà sessuale, così co­ me psicologicamente sarà il luogo edenico dell’infanzia. Il Terzo Mondo riporta Pasolini indietro nel tempo, alla ingenuità e innocen­ za delle borgate romane degli anni cinquanta che la “mutazione an­ tropologica” degli italiani - come scrive in Lettere luterane (Pasolini, 1976, p. 50) - ha distrutto, ma prima ancora al Friuli dei temporali e delle primule, nelle profondità del mondo presimbolico e preedipi­ co dell’infanzia, della vicinanza al volto materno (di cui Pasolini ci dà una breve visione nei primi minuti di Edipo re). H mondo prima del­ l’ingresso nella lingua, nel simbolico, che, secondo Lacan, avviene nel momento del falso riconoscimento dell’io durante “lo stadio del­ lo specchio”, viene ritrovato da Pasolini nell’altro(ve) del non-occidentale (Lacan, 1974, pp. 87-94). La gioia del ritrovamento è visibi­ le nella nuova fiducia contenutistica della “Trilogia della vita”, ma è anche presente nella ulteriore libertà stilistica e narrativa - pensiamo al mise en abime delle storie del Fiore delle Mille e una notte e del De­ cameron - che l’Oriente sembra offrire. Tornando alla citazione iniziale di questo capitolo, conviene analiz­ zarla con attenzione per definirne in termini psicologici le conse­ guenze. Gli elementi dell’immagine che così tanto affascinano e tur­ bano il bambino sono riconducibili a quel fenomeno “perturbante” che Freud analizza nel saggio del 1917 Das Unheimliche. H testo freu­ diano si propone come una interessante chiave di lettura per collega­ re gli elementi psicologici presenti nella citazione riportata e il tema dell’esotismo che fa da sfondo al desiderio erotico. Come spiega Freud, Unbeimlich è quello che è familiare e non dovrebbe esserlo; ciò che dovrebbe rimanere represso e invece riemerge al livello incon­ scio. La traduzione italiana “perturbante” coglie solo parte del con­ cetto. Se Heimlich è ciò che è familiare, noto, Unheimlicb definisce il quasi familiare, il quasi noto, ed è legato a un sentimento di disagio, al non sentirsi completamente a proprio agio, all’essere eppure non sen­

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tirsi a casa. Traducendo il concetto di Unheimlich in inglese, Homi Bhabha utilizza il termine unhomeliness, letteralmente, il non sentirsi a casa (diverso da homeless, senza casa), che in italiano possiamo ren­ dere con il concetto di “spaesamento” (la definizione del dizionario legge “a disagio, disorientato”).5 Il manifesto esotico che si trasforma in un manifesto erotico nella memoria di Pasolini rivela lo stato di ec­ citazione e allo stesso tempo di paura di fronte al familiare che diven­ ta improvvisamente incomprensibile. La reazione di fronte al poster cinematografico, ma soprattutto la struttura che il ricordo assume nel­ l’intervista di Pasolini con Duflot (verrebbe da dire di “revisione” o “elaborazione secondaria” se si trattasse di un sogno) diventa signifi­ cativa di uno stato di “spaesamento” causato daU’assottigliarsi del confine tra “casa” e “mondo”, da quello spazio liminale che viene at­ traversato ma il cui attraversamento produce paura e ansia. Lo stato d’animo del Pasolini bambino di fronte al poster cine­ matografico è del tutto simile a quello del Pasolini viaggiatore nel mondo postcoloniale. Il senso di extraterritorialità, il confronto ser­ rato con l’alterità, costringe il viaggiatore a una revisione dei concetti di spazio e territorio familiari; ed è questo processo che induce il senso di spaesamento. Qual è infatti la peculiarità del viaggio nelle zone di recente decolonizzazione rispetto al classico viaggio esotico? L’Altro postcoloniale è percepito come Altro, non-io, non-occidentale, non-razionale, e allo stesso tempo come Sé imperfetto, almost the same but not quite (“quasi la stessa cosa ma non esattamente”, Bhabha, 1994, p. 86). Mentre l’alterità è radicale in quelle zone del mondo in cui l’Occidente non ha segnato - politicamente e cultu­ ralmente - il territorio, nelle “zone di contatto” i confini diventano ambigui: l’alterità è mascherata da somiglianza, la dicotomia netta di­ venta friabile.6 Chi sono io e chi sono loro? Che cosa abbiamo in co­ mune e che cosa ci separa? Questa osmosi tra i due mondi è eviden­ te nel momento in cui il viaggiatore occidentale avverte un senso di straniamento causato dal vedere certi segni occidentali riprodotti nel cuore stesso dell’alterità. L’India è un esempio paradigmatico di confusione semiotica tra Occidente e Oriente. Chi ha viaggiato in In­ dia riconosce immediatamente che la lunga e profonda dominazio­ ne coloniale ha prodotto una vita quasi occidentale, in cui le vestigia dell’impero interpellano il viaggiatore a ogni passo, tra alberghi, stra­ de, country clubs e luoghi di villeggiatura, il tutto calato in un conte­

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sto tropicale del tutto “perturbante”. Il fattore destabilizzante del viaggio fuori dalla casa occidentale e nel mondo postcoloniale pone il viaggiatore/narratore di fronte alla necessità di ridefinirsi. In par­ ticolare, nota Bhabha: Questi spazi “inter-medi” (in-between spaces) costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé - come singolo o gruppo - che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la colla­ borazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di so­ cietà. (Bhabha, 2001, p. 12)

Il viaggiatore/narratore in India si trova a interagire con questa ma­ teria nuova, traumatica, in due modi: abbracciandola in una fusione mistica, oppure dando vita a un processo di normalizzazione e stereotipizzazione fondato psicologicamente sulla negazione del re­ presso (Verleugnung). Questo processo, il senso di questa Verleugnung, è ambiguo, e spiegabile solo per mezzo delle leggi che regolano l’inconscio. Bhabha e altri studiosi del postcolonialismo individuano nel meccanismo psicologico responsabile della creazione dello ste­ reotipo gli stessi principi che sono alla base della nozione freudiana di feticismo: il feticismo e lo stereotipo sono processi originati dallo stesso tipo di negazione. Per usare le parole di Agamben, «la fissa­ zione feticista nasce dal rifiuto del bambino di prendere coscienza dell’assenza del pene nella donna (nella madre)» (Agamben, 1977, p. 39). La scelta viene risolta in una sostanziale ambiguità: Nel conflitto fra la percezione della realtà, che lo spinge a rinunciare al suo fantasma, e il contro-desiderio, che lo spinge a negare la sua percezione, il bambino non fa né una cosa né l’altra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, giungendo a uno di quei compromessi che sono possibili so­ lo sotto il dominio delle leggi dell’inconscio. Da ima parte, con l’aiuto di un meccanismo particolare, smentisce l’evidenza della sua percezione; dall’altra, ne riconosce la realtà e, per mezzo di un sintomo perverso, as­ sume su di sé l’angoscia di fronte a esso. H feticcio è quindi [...] nello stes­ so tempo la presenza di quel nulla che è il pene materno e il segno della sua assenza. (Agamben, 1977, p. 39)

Sia il feticismo sia lo stereotipo hanno una struttura comune: l’ansia per l’ignoto, il tentativo di sostituzione metonimica, la necessità di

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colmare l’assenza/differenza. Questo collegamento tra i due concet­ ti è chiarito da Bhabha: Quanto al legamefunzionale tra la fissazione del feticcio e lo stereotipo (o lo stereotipo come feticcio), si tratta di un aspetto ancor più rilevante: in effetti il feticismo è sempre un “gioco” o un’oscillazione tra l’affermazione arcaica di pienezza/somiglianza - in termini freudiani: «Tutti gli uomini hanno un pene»; nei nostri: «Tutti gli uomini hanno la stessa pelle/razza/cultura» - e l’ansia che si associa alla mancanza e alla differenza - di nuovo, per Freud «alcuni non hanno peni»; per noi «alcuni non hanno la stessa pelle/razza/cultura». (Bhabha, 2001, p. 109)

H rapporto che Bhabha stabilisce è utile per capire la persistenza e la resistenza di fenomeni razzisti, per lo meno a livello della rappresenta­ zione. Porre feticismo e razzismo sullo stesso piano psicanalitico per­ mette di spiegare perché questi temi siano onnipresenti nella letteratura di viaggio occidentale, e come si colleghino con l’ansia del viaggiatore vittima di questo Unheimlich postcoloniale. Ma questo non sentirsi a casa assume, come spesso in Pasolini, un valore ancor più che auto­ biografico, ontologico. Lavita dell’escluso Pasolini, “volontariamente martirizzato” (come scrive nella poesia Una disperata vitalità, Pasolini, 2003, p. 1182) nellTtalia della democrazia cristiana, diventa per il poe­ ta modo d’essere. Tra i tanti esempi di “spaesamento” che potremmo ritorvare nella vasta produzione in prosa, versi, e per immagini, vorrei soffermarmi su una poesia dal titolo «La ricerca di una casa», da Poe­ sia in forma di rosa, ora raccolta in Tutte le poesie (Pasolini, 2003, voi. I, pp. 1103-1106): Pasolini è al quartiere EUR di Roma, in cerca di un «sognato nido dei miei poemi» di pascolano afflato. Ma già dall’inci­ pit il poeta è fuor di posto: «Ricerco la casa della mia sepoltura:/ in gi­ ro per la città come il ricoverato/ di un ospizio o di una casa di cura». I palazzi fascisti che sembravano confortevoli sono ora «orrore e ba­ sta». Cerca quindi una via di fuga il poeta, e lo fa nei posti che gli sono diventati più congeniali: «La casa/ che cerco sarà, perché no?, uno scantinato//o una soffitta, o un tugurio a Mombasa [...]». Ma sarà dav­ vero possibile sentirsi a casa fuori dall’occidente? Esiste davvero la possibilità di un’«Africa/ unica mia alternativa» come scrive nella poe­ sia «Frammento alla morte» in La religione del mio tempo (Pasolini, 2003,1, p. 1049)? Un’analisi attenta del primo resoconto di viaggio in India ci aprirà all’analisi dell’esperienza pasoliniana dell’altrove.

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1.5 L’odore dell’india? Dopo poche righe dall’inizio del reportage sull’india, così Pasolini chiarisce la sua poetica di viaggiatore assetato di conoscenza e di espe­ rienze: Non è il caso, oh, non è il caso di andare a dormire, in quelle camere gran­ di come dormitori, piene di mobili di un mesto novecento ritardatario, con ventilatori che sembrano elicotteri. (Pasolini, 1992, p. 9)7

«Io non so dominare la bestia chiusa dentro di me» (p. 9), ribadisce poco dopo. La “disperata vitalità”, tratto fondamentale della sua ope­ ra poetica e critica, lo accompagna anche in viaggio, anche dentro le mura del laccato Hotel Taj Mahal di Bombay. Pasolini non è venuto in India a scoprire se stesso, come tanti viaggiatori ottocenteschi, né a tentare di condurre una metodologica ricerca dello spirito indiano, a cercare l’essenza, “l’idea” dell’india, come è invece nelle intenzio­ ni del suo compagno di viaggio Moravia. L’immagine della bestia ci riporta alla figura della tigre: sia nel manifesto cinematografico che colpisce la fantasia del Pasolini bambino sia nel diario di viaggio scrit­ to dal Pasolini già adulto, l’Oriente evoca il primitivo, l’incontrolla­ bile. In maniera simile la “bestia assetata” Pasolini così ci presenta i primi indiani: quegli esserifavolosi, senza radia, senza senso, colmi di significati dubbie inquietanti, dotati di un fascino potente, che sono i primi indiani di un’esperienza che vuole essere esclusiva come la mia. (p. 9) [cors. d. A.]

Questo paragrafo merita un’attenta analisi perché qui si trovano in nuce molti elementi che si ripeteranno nel testo. Pasolini è consa­ pevole di essere solo uno dei tanti occidentali che hanno viaggiato in India, eppure vuole resistere alla tradizione e impedire che penetri nelle sue pagine. Infatti Pasolini insiste e ribadisce di non avere let­ to niente, di non essere preparato come Moravia: è insomma pron­ to a essere il primo a guardare l’india. Si noti come il testo insista proprio sulla nozione di originalità: “i primi indiani”, “la prima not­ te”; il narratore sembra voglia garantire al lettore una narrazione unica, esclusiva, quasi a sottolineare l’originalità e la veridicità del­

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l’esperienza dell’alterità indiana. “Prima immagine-ricordo” sono anche le esatte parole usate da Pasolini nell’intervista a Duflot. Ep­ pure, come spiega Edward Said, l’innocenza del primo venuto è un sogno già morto all’inizio del nostro secolo in cui la narrazione eso­ tica può solo essere un riscrivere. All’inizio dell’Odore dell’india, Pasolini chiede a Moravia di uscire a fare due passi: «persuado Mo­ ravia a fare almeno due passi fuori dall’albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana!» (p. 9). Come se fosse arrivato a Pa­ rigi o a Venezia, con nonchalance Pasolini invita l’amico a una pas­ seggiata tonificante. Appare chiaro che Pasolini non sa come af­ frontare questa nuova cosa che si chiama Terzo Mondo, India, Altro. Non è un’avventura nell’ignoto ma un tentativo di normalizzazione di ciò che non si conosce, di ciò che non si riconosce. Così il tenta­ tivo di resistere allo stereotipo, di riguadagnare la purezza del primo venuto e guardare il mondo con occhi nuovi si rivela fin da subito un fallimento. Allora, quanto è davvero esclusiva l’esperienza di Pasolini? Che ti­ po di posizione assume di fronte alla sua materia (il viaggio, l’india, gli indiani)? Questo passo preso da Orientalism di Edward Said aiu­ ta a chiarire il concetto di posizione del narratore nel racconto orien­ talista, ovvero la sua collocazione strategica {strategic location)-. Chiunque voglia parlare dell’oriente deve prendere posizione di fronte a esso; in rapporto a un testo, ciò si riferisce alla scelta della persona narra­ tiva, al tipo di struttura che l’autore costruisce, al tipo di immagini, temi e motivi da lui scelti, tutti fattori che insieme vengono a formare un ben preciso modo di rivolgersi al lettore, di “comprendere” l’Oriente e infine di rappresentarlo e prenderne le difese {representing it or speaking in its be­ half). (Said, 1999, p.29)

La collocazione strategica non si misura dalle intenzioni, bensì nelle immagini, nei temi e nei motivi che compongono il testo. L’innocen­ za proclamata dalla voce narrante all’inizio del racconto di viaggio è interpretabile come una forma di “strategia”, per usare la definizio­ ne di Pratt in Imperial Eye:6 il narratore occidentale si auto-assolve dai suoi possibili peccati coloniali in anticipo, proponendosi con la pu­ rezza del primo venuto.

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1.6 Lo sguardo esotico

Uno dei tipici elementi che strutturano il racconto di viaggio è il rap­ porto di potere che si instaura tra l’alterità e lo sguardo del narrato­ re (Said, 1979, p. 29; Pratt, 1992, p. 7). Questo sguardo prende for­ ma nel testo tramite strategie retoriche che tendono a descrivere l’Altro come irrazionale, inspiegabile nei suoi comportamenti se non attraverso l’imposizione della parola dell’occidentale che ne “pren­ de le difese” {speaking in its behalf, Said, 1979, p. 29). Chi più da vi­ cino ha cercato di scrivere una tassonomia delle strategie retoriche del narratore occidentale nel Terzo Mondo è il già citato critico postlacaniano Homi Bhabha. In particolare il suo volume di saggi Loca­ tion ofCulture (tradotto cornei luoghi della cultura) individua e apre all’interpretazione alcune strategie retoriche come lo stereotipo, la ripetizione e l’a-storicità che sono ben visibili nelle pagine del libro. Questi “esseri favolosi senza radici” sono bloccati, “fissati”, in un non-tempo mitico.9 Sono “senza senso”, colmi di significati dubbi e inquietanti perché all’orientale manca la capacità di auto-definirsi; così come i gesti e le azioni non hanno significato a meno che que­ sto non venga imposto dall’esterno, e cioè dallo sguardo del viag­ giatore (Inden, 1986, pp. 401-446; Bhabha, 1994, pp. 64-65). La dif­ ferenza è percepita come assenza, determinata dal “senza” che l’oc­ cidentale impone sull’orientale: è solo per quello che non c’è che l’india esiste agli occhi della voce narrante del diario pasoliniano. In­ fatti l’ordine non appartiene alla mente indiana, ma a quella del­ l’orientalista. La narrazione de L'odore che Pasolini vorrebbe “pri­ ma”, non basata su una tradizione, si fonda solidamente su descri­ zioni steoreotipizzate che fanno parte della visione letteraria occi­ dentale del viaggio in Oriente. Una delle immagini più interessanti, almeno dal punto di vista ideo­ logico, ài Appunti per un film sull'india, girato da Pasolini nel 1967, ci mostra il regista con in mano un grosso libro di stampe indiane. Mentre la voce fuoricampo - sempre di Pasolini - annuncia le inten­ zioni del film, lo scorrere sullo schermo di queste tradizionali imma­ gini di divulgazione serve a mostrare l’awenuta presa di coscienza da parte del regista dell’inevitabile presenza residua di immagini ste­ reotipiche nel momento in cui ci si avvicina alla rappresentazione dell’alterità. L’assiduita ne Lodore di certe immagini dell’india che ri-

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cordano quelle riprodotte e filtrate attaverso i secoli da viaggiatori, colonizzatori e chi altri rientri in quella affollata schiera degli orien­ talisti, segnala proprio quei topoi visuali Sull’Oriente che sono la ma­ teria prima con cui il viaggiatore si confronta con ciò che vede.10 La tradizione alla quale Pasolini narratore tenta di resistere nella pre­ messa al testo è invece, come abbiamo visto, parte integrante della narrazione. Appena giunti a Bombay, Pasolini e Moravia visitano il Gate ofIndia-. Ancora ai margini di questa grande porta simbolica, altre figure da stam­ pa europea del Seicento: piccoli indiani coi fianchi avvolti da un drappo bianco e, sui visi mori come la notte, il cerchio dello stretto turbante di stracci. Solo che, visti da vicino, questi stracci sono luridi, di una sporci­ zia triste e naturale, molto prosaica, rispetto alle suggestionifigurative di un’epoca a cui essi, del resto, si sono fermati, (p. 11) [cors. d. A.]

H narratore sembra stupito di non trovare gli indiani come se li im­ maginava, e l’incontro con la realtà della sporcizia e dell’orrore lo co­ glie impreparato. Pasolini si aspettava di ritrovare ciò che ha visto nelle stampe di qualche biblioteca occidentale e si stupisce della pro­ saicità della realtà indiana. Altrettanto credo facessero i lettori negli anni e nei secoli passati, che dell’Oriente condividevano le stesse immagini. Nel corso della narrazione ritornano a galla spesso queste visioni dell’india frutto di latenti memorie orientaliste. Per esempio, una piazza di Bombay diventa «un paesaggio da cartolina esotica dell’Ottocento, da arazzo di Porta Portese» (p. 16); oppure i ricordi di narrazioni esotiche, di libri letti da ragazzo come nel caso di questo improvviso accenno a Salgari e alle sue “accurate” descrizioni di pae­ saggi lontani: «La cadaverica sensualità del paesaggio indiano regge come corpi estranei, nelle sue salgariane radure, i monumenti dei do­ minatori musulmani» (p. 98). O, ancora, la gioia divedere degli «studentelli che sono fratelli gemelli di quelli romani» (p. 98). L’Oriente di Pasolini, così pesantemente carico di memorie del­ l’inconscio occidentale, è, come abbiamo visto, combattuto da subi­ to e mai completamente accettato. È interessante notare come la pa­ rola “Oriente” compaia stranamente una volta sola in tutto il libro: a Aurengbad «era già notte, le cose apparivano e sparivano come vi­ sioni, incapsulate in grappoli di luci dall’aria indicibilmente orienta23

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le» (p. 67). Pasolini non vuole essere orientalista, non vuole parlare dell’india come gli altri, reprime la tradizione e la memoria del pas­ sato per poter essere il primo a raccontarci (“bestia assetata”) l’espe­ rienza dell’india. Il suo vitalismo, l’odore, la prima impressione che equipara a sincerità, non sono altro che il frutto di una rimozione. Ma questo trucco, smascherato àsULhapax, è visibile in tutto il libro nel­ la tensione tra razionalizzazione e istinto.

1.7 La resa della parola Sia ben chiaro che l’india non ha nulla di misterioso, come dicono le leg­ gende. In fondo si tratta di un piccolo Paese, con solo quattro o cinque grosse città, di cui una sola, Bombay, degna di questo nome [...]. In real­ tà un Paese come l’india, intellettualmente, è facile possederlo, (p. 61)

Potrebbe essere questa la summa del viaggio. In India in fin dei con­ ti c’è poco da scoprire, c’è invece molto da fare. Di certo possiamo leggere in questa citazione un riferimento diretto a Moravia. Pasoli­ ni in un certo senso condivide l’approccio di Moravia all’idea del­ l’india; ma sembra anche riferirsi a se stesso, quasi a giustificare una certa semplicità e superficialità della narrazione. Come possiamo riassumere e valutare, in conclusione, la prima esperienza pasoliniana dell’india? Anche il critico più parziale nell’analizzare l’opera di Pasolini non può non rimanere stupito di fron­ te ad alcune semplificazioni divulgative: «certe rozze etichettature, un gusto bozzettistico per il “curioso” dove la descrizione tende perfino a farsi caricaturale, divertente ma anche un po’ scontata» (Rinaldi, 1981, p. 97). Dobbiamo forse aggiungere tra i molti aggettivi che so­ no stati usati per descrivere Pasolini (e non sempre positivi) anche quelli di innocente e ingenuo? O ingenuamente innocente? Massimo Riva scrive a proposito di alcune descrizioni dell’Odbre: «Il testo di Pasolini si accende di toni e tònalità (stilemi) che, se non se ne sotto­ lineasse l’ingenuità provocatoria, il calcolato candore, sarebbero for­ se (e sono) imbarazzanti, dal punto di vista di un’analisi in chiave “post-coloniale”» (Riva eParussa, 1997, p. 253). Come ho spiegato, L’odore dell’india si basa apertamente su false premesse da parte del narratore. La persona che narra, e che vuole essere percepita come in­

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nocente (perché non aggravata dal peso della tradizione orientalista europea) e istintiva (a garanzia dell’autenticità della propria espe­ rienza) scrive reprimendo la memoria orientalista; ma questo tenta­ tivo fallisce. Il testo va nella direzione opposta a quella che ci era sta­ ta annunciata nell’incipit del diario. La tradizione della letteratura europea penetra e dà forma al volume. Alla fine del viaggio Pasolini è stremato: Quell’odore di poveri cibi e di cadaveri, che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre. È quell’odore, che, diventato un po’ alla volta un’entità fisica quasi animata, sembra interrompere il corso normale della vita nei corpi degli indiani, (p. 59)

La febbre degli ultimi giorni, e degli ultimi capitoli, è un susseguirsi di tirate contro l’india: «bisognerebbe avere la potenza iterante di un salmodista medievale per poter riaffrontare a ogni suo ripresentarsi la monotonia dell’india» (p. 106), «questo immenso Buchenwald che è l’india» (p. 89). E poi contro i costumi indiani: «la furia mal re­ pressa che dà togliersi le scarpe per la centesima volta» (p. 97); con­ tro le persone: «e ci stringono in un cerchio di membra nude, di ri­ catto, di minaccia, di contagio, di rapacità, di angoscia. Intorno gri­ dano, gridano le cornacchie» (p. 95). Alla fine il viaggiatore disperato desidera solo la casa occidentale: «Ah, il Clark’s Hotel [...] lussuosissimo, l’edificio a due piani, con due grandi ali, con portichetti e terrazzini, si adagia tra cascate di bouganville» (p. 106, e il gioco tra superlativi e diminutivi, con la bouganville finale, sono testimoni della gioia del viaggiatore). Le zi­ telle inglesi di cui Pasolini si faceva beffe all’inizio del viaggio non avrebbero, credo, fatto una descrizione diversa dell’hotel. I “toni e le tonalità” di cui parla Riva si materializzano in un coa­ cervo di stereotipi orientalisti, degni della più economica letteratura pulp esotica dei primi del Novecento. Le citazioni dal libro ne sono un esempio, ma vorrei ricordare qualche frase che non può non sor­ prendere. Gli indiani sono «questa enorme folla praticamente vesti­ ta di asciugamani» (p. 2), «figure da stampa europea» (p. 11), «vesti­ ti come nella Bibbia» (p. 13). Le case indiane sono o «viscere di un animale squartato» oppure «palazzine residenziali degne dei Parioli», e così via. Ognuna di queste brevi citazioni suggerisce un’analisi

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in senso postcoloniale quasi troppo facile: vediamo infatti nel testo i concetti di normalizzazione dell’Altro (i Parioli), di stereotipo (gli asciugamani), e di “fissità” come termine pensato da Homi Bhabha per definire il soggetto Altro bloccato, fissato in un momento astori­ co (le figure da stampa europea). Come superare “l’ingenuità calcolata” ipotizzata da Riva? Per ri­ spondere mi sembra opportuno ricostruire la cronologia pasoliniana nel periodo che va dal 1960 al 1961, il lasso di tempo che corre tra il completamento di La religione del mio tempo, nel luglio del 1960, e l’inizio delle riprese di Accattone, nel marzo del 1961. In questi mesi avviene quel passaggio cruciale nella carriera di Pasolini dalla scrit­ tura al cinema. In molti, tra cui Fortini,11 non hanno mai perdonato al poeta il tradimento del sacro verbo delle Muse per un nuovo me­ dium percepito ancora come compromesso tra denaro, pubblico, di­ stributori e sale cinematografiche. Ma questo cambiamento di rotta artistica era motivato da profonde necessità ideologiche e artistiche. Come nota Rumble: La scelta di Pasolini, nei primi anni sessanta, di spostare il suo interesse primario dal romanzo al cinema era una funzione del suo incontenibile de­ siderio di confrontarsi con la realtà del presente e di avere un impatto sul pubblico che stava velocemente abbandonando il romanzo per la più im­ mediata gratificazione del cinema (e, dopo, della televisione). Questo im­ pulso gramsciano di rinnovare il mandato dell’intellettuale durante un periodo di grande transizione culturale e politica spiega l’adozione del ruolo di regista civile. (Rumble, 1996, p. 6, trad. d. A.)

Oltre al mandato nazional-popolare è importante menzionare un’al­ tra categoria artistica centrale all’interno della poetica del Pasolini de­ gli anni sessanta: il realismo, quello che lui stesso definisce «un allu­ cinato, infantile e pragmatico amore perla realtà» (Duflot, 1983, p. 119). H cinema, che in seguito Pasolini definirà «lingua scritta della realtà» (Pasolini, 1991, p. 198) diventa lo strumento, il medium, ap­ punto, che consente all’artista di rappresentare, non allegoricamen­ te o simbolicamente ma, con gli oggetti della realtà, la realtà stessa. Inodore è un sintomo di questa crisi, di questo momento di passag­ gio che non è semplicemente un cambio di mezzo espressivo, ma è una crisi filosofica documentata da Pasolini nei suoi scritti teorici. L’ina­ deguatezza della lingua scritta è a questo punto già chiara a Pasolini, 26

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e a tratti è evidente nel testo: «Dovrei restare più a lungo in India per spiegarmi: la mia non è che ima impressione irrazionale» (p. 99). Ma quello che colpisce è l’insistenza con cui il narratore descrive l’impat­ to degli stimoli esterni sull’organo della vista: «Nell’interno di questa vita, di cui ho solo nella retina un primo calco della superfice esterna» (p. 15). E poi: «Le cose mi colpivano ancora con violenza inaudita: ca­ riche di interrogativi e, come dire, di potenza espressiva [...], tutto mi riverberava nella cornea, imprimendosi con tale violenza da scalfirla» (p. 81). È chiaro che la vista, lo sguardo e la sua capacità di cogliere la realtà sono al primo posto tra le preoccupazioni teoriche di Pasolini in questo viaggio. Pasolini ritorna in India nel 1967 con una troupe RAI e con Ninetto Davoli per filmare Appunti per un film sull'india, con approcci e risultati ben diversi.12 Mi piace pensare, proprio a causa di questo ri­ torno, al termine “calco” che Pasolini usa per spiegare la superficia­ lità della sua comprensione dell’india, e di cui parla come metafora del rapporto tra realtà e rappresentazione. Calco come impronta di un rilievo, come copia di una superfìcie. Sarà proprio la coscienza del­ la superficialità degli scritti dell’O^ore a convincere Pasolini a rilan­ ciare la sua sfida con l’india, ma questa volta il poeta sarà armato del­ la invincibile macchina da presa Arriflex, la macchina che rappre­ senta la realtà con la realtà.

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Note 1 La letteratura critica sull’argomento è vastissima. Sono a mio avviso particolar­ mente utili, oltre al seminale studio di Said già citato, per quel che riguarda le arti vi­ sive il catalogo della mostra 'Noble Dreams, Wicked Pleasure: Orientalism in Ameri­ ca, 1870-1930 (Edwards, 2000), da tenere d’occhio in particolare per il suo afflato transatlantico. 2 È di recentissima pubblicazione il volume di Attilio Brilli, Il viaggio in Italia, che

però si focalizza sulle narrazioni straniere del Belpaese. 3 Si veda su questo argomento il bel volume di Rossana Dedola, La valigia delle In­ die e altri bagagli (2006). In particolare su Manganelli si veda Menechella (2002). Per quel che riguarda un’interessante esplorazione del cinema esotico commerciale ita­ liano, inclusi gli esperimenti splattered! exploitation dei vari “mondi cani”, si veda Farassino (2000 e 2001). H rapporto tra questo genere pseudo-documentaristico e il cinema terzomondista di Pasolini è invero tenue, e ha più a che fare con il generale spirito dell’epoca (la fine del colonialismo, la nuova relativa facilità dei viaggi esoti­ ci, le nuove m.d.p. a spalla) piuttosto che con una diretta influenza dell’uno sull’al­ tro. A tenerli ben separati stanno sia intenzioni (cash per Jacopetti, poesia per Paso­ lini) sia risultati; il freddo gore fascista di Mondo cane (1962) è solo un esercizio di co­ lonialismo visuale, e perciò inutile. H fenomeno àxST exploitation del corpo nudo e esotico che si diffonde rapidamente in quegli anni in Italia, certo interessante dal punto di vista ideologico e sociologico, vede Pasolini tra i protagonisti malgré lui, proprio per la serie di copie e imitatori che i suoi film generarono. In particolare la vena boccaccesca ispirò una lunga serie di tristi seguaci, tra i quali, vale la pena ri­ cordare, più per la wit del titolo che per il valore dell’opera, Quel gran pezzo delITJhalda tutta nuda e tutta calda (1972). 4 Come nota James Gibson nel suo interessante The Ecological Approach to Visual Perception, «si suppone che il moto da un luogo a un altro sia “fìsico” mentre la per­ cezione sarebbe “mentale”, ma questa dicotomia è fuorviarne. La locomozione è guidata dalla percezione visiva. Non soltanto essa dipende dalla percezione, ma la percezione dipende a sua volta dalla locomozione, nella misura in cui è necessario un punto d’osservazione in movimento per conoscere in maniera adeguata l’ambiente circostante. Dobbiamo dunque percepire per muoverci, ma dobbiamo anche muo­ verci per percepire» (Gibson, 1979, p. 223; trad. it. in Leed, 1992, p. 88). 5 H traduttore del volume non coglie la genealogia freudiana del termine che così va completamente persa per il lettore italiano (Bhabha, 1994, p. 22). 6 Per il concetto di “zone di contatto” si veda Pratt, 1992, p. 4, dove l’autrice de­ finisce le zone postcoloniali come una contact zone dove «lo spazio di incontri colo­ niali, lo spazio dove popoli storicamente e geograficamente separati entrano in con­ tatto gli uni con gli altri e stabiliscono solidi rapporti che in genere includono con­ dizioni di coercizione, radicali ineguaglianze e irrisolvibili conflitti» (trad. d. A.). 7 Da qui in poi la pagina da cui è tratta la citazione verrà citata nel testo tra paren­ tesi. Parti del libro erano state pubblicate in precedenza su “Il Giorno” nel periodo dal 26 febbraio al 3 marzo 1961. 8 Così Pratt, 1992, p. 7, spiega il concetto di “strategie di innocenza” (strategies of

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innocence)-, «Mi riferisco qui alle strategie di rappresentazione laddove soggetti bor­ ghesi europei cercano di assicurarsi la loro innocenza mentre allo stesso tempo af­ fermano la loro egemonia europea [...] Nella scrittura di viaggio e d’esplorazione queste strategie di innocenza sono costituite in relazione a precedenti retoriche im­ periali di conquista associate con l’era dell’assolutismo. Il protagonista [.,.] è una fi­ gura che chiamo a volte “l’uomo che vede” (the seeing man), una definizione ovvia­ mente poco gentile per il maschio europeo raffigurato dalla tradizione paesaggisti­ ca - colui che passivamente guarda con i suoi occhi imperiali e possiede» (trad. d. A.). 9 Proprio Bhabha (1994, p. 66) chiarisce: «Un tratto importante del discorso co­ loniale è la sua dipendenza dal concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità. La fissità, come segno della differenza culturale/storica/razziale nel di­ scorso del colonialismo, appare una modalità di rappresentazione paradossale: con­ nota rigidità e ordine immutato tanto quanto disordine, degenerazione e ripetizio­ ne demoniaca. In modo simile lo stereotipo, strategia discorsiva di primo piano, è una forma di conoscenza e identificazione fra ciò che è “al suo posto”, già noto, e qual­ cos’altro che deve essere impazientemente ripetuto». È mia convinzione che il ter­ mine “fissità” (fixity) sia giunto a Bhabha via Hegel. Nella traduzione inglese di Vorlesungen iiher die Philosophic der Geschichte, The Philosophy ofHistory (Dover Pu­ blications, New York 1956, p. 139), il termine fixed appare proprio in relazione alla staticità della storia indiana: «India, like China, is a phenomenon antique as well as modem: one which has remained stationary and fixed». 10 Per un accurato catalogo degli orientalisti italiani, si veda Pezzini, 1984, e il re­ cente volume di Rossana Dedola, La valigia delle Indie e altri bagagli (2006). 11 Si veda il saggio del 1977 Pasolini poeta, ora raccolto in Fortini, 1993, pp. 151172. 121 diversi compagni di viaggio sono significativi del nuovo approccio. Pasolini la­ scia a casa la razionalità ideologica - Moravia - e porta con sé la spontaneità del “borgataro” Ninetto.

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2.1 . Il problema di “un certo realismo” nel cinema di Pasolini1 La passione di Pasolini per le cose e il mondo ha assunto ai nostri giorni i toni di una piccola mitologia privata, e ogni commentatore esita a cominciare una discussione dell’opera del poeta senza fare ri­ ferimento alla “disperata vitalità” dell’autore (per ricordare il titolo di ima nota poesia autobiografica raccolta in Poesie in forma di rosa [Pasolini, 2003, pp. 1182-1244]). Pasolini è certamente uno dei po­ chi artisti della seconda metà del Novecento che non ha paura della realtà. Non ha paura di parlarne, di esserne parte, di usare il termine ambiguamente come arma retorica contro i suoi detrattori. In Paso­ lini «l’allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà» (come Pasolini si descrive in Duflot, 1983, p. 119) si esplica in una pratica artistica e teorica che prende spunto e contemporaneamente ritrae il mondo contemporaneo. Nei primi romanzi, Ragazzi di vita (1955) e \Jna vita violenta (1959), il problema di rappresentare la realtà feno­ menica è risolto con una parziale mimesi linguistica, attraverso l’uso del dialetto e della parlata dei borgatari, dove però il romanesco as­ sume le connotazioni del ready made duchampiano - come già era stato prima per il dialetto friuliano - piuttosto che quello della ne­ cessità di assoluta mimesi linguistica.2 Solo in seguito Pasolini trove­ rà nel cinema - come si è detto nella conclusione del capitolo prece­ dente - la possibilità di essere più vicino al mondo grazie alla sua concezione ontologica della m.d.p. Come rivela nell’intervista rila­ sciata a Paolo Castaldini nel 1967: «Io amo il cinema perché con il ci­ nema resto sempre al livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà» (Castaldini, 1967, p. 33). La svolta artistica degli anni sessanta con la conversione al cinema testimonia proprio questo de­

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siderio di cambiamento, «questa esplosione di amore per la realtà» che vuole abbattere il “filtro simbolico” tra l’artista e il mondo (Pa­ solini, 1969, p. 29). La fiducia di Pasolini nella capacità riproduttiva della macchina da presa - con le cautele di cui parleremo - sembra diventare, unitamente al mandato gramsciano dell’intellettuale, la chiave per spiegare il drastico voltafaccia verso la letteratura e il po­ tere della parola scritta.3

2.2 Tra Bazin e Metz

Negli anni sessanta, al momento in cui Pasolini si fa più attivo non so­ lo nel mondo della produzione cinematografica ma anche come cri­ tico e teorico del cinema, si erano ormai consolidate due posizioni, due campi distinti in cui i teorici del cinema venivano inevitabilmen­ te sistemati. Da una parte i formalisti, tra cui spiccavano le posizioni di Amheim e dei film-maker e teorici sovietici Ejzenstejn e Vertov, fi­ no ad arrivare ai nuovi semiologi italiani e francesi (Metz, Bettetini, Eco); dall’altra i realisti, rappresentati da Kracauer e Bazin. Il rigido manicheismo di questa versione “standard” della storia delle teorie filmologiche ci serve per meglio inquadrare il Pasolini filosofo del ci­ nema.4 Da che parte sta Pasolini, allora? Per i realisti l’assioma fondamentale rimane quello della fedeltà del­ la m.d.p. alla realtà fenomenica. Per Bazin l’ontologia del cinema è la rappresentazione meccanica e fotografica della realtà. Il compito del regista è quello di restare il più possibile legato alla materia, fedele al profìlmico e alla sua rappresentazione. Sia Bazin sia Kracauer pro­ fessano il loro amore per il neorealismo italiano - in particolare i pri­ mi esperimenti di Paisà (1946) e La terra trema (1948) - schierando­ si decisamente contro il film di montaggio e l’astrattismo surrealista. Nelle loro teorie promovuono il set trovato - il luogo dove si gira -, e la capacità del regista di sfruttarlo appieno. Cesare Zavattini porte­ rà al limite questo concetto con l’invito al “soggetto scritto durante”, l’idea del film che nasce (quasi mitologicamente) dal luogo, e non im­ posto dalla storia o dal regista (Casetti, 1992, p. 27). Da questo amo­ re per la realtà, e quindi dal desiderio di vederla vivere sullo schermo, derivano le preferenze tecniche ed estetiche dei realisti: la strada al posto del set, lunghe inquadrature invece di un montaggio veloce e

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frenetico, l’uso del carrello che sostituisce le inquadrature fisse. Que­ sto è cinematico, cioè a dire è il modo migliore, il più adatto e il più appropriato per ritrovare e “redimere” (come auspica Kracauer) la realtà che il mondo moderno e tecnologico ci ha alienato.5 Le divergenze tra formalisti e realisti vanno oltre l’idea di arte e di rappresentazione, e hanno invece direttamente a che fare con il con­ cetto di natura e realtà, e con i processi gnoseologici e conoscitivi. Per i realisti esiste una realtà fenomenica che i sensi percepiscono e cata­ logano. Per i formalisti la realtà è irrappresentabile come tale in quan­ to prodotto di una serie di segni che devono essere decodificati pri­ ma di essere appresi. Per questi ultimi, e in particolare per Ejzenstejn, il problema prati­ co e teorico che si sono trovati di fronte al momento di fare e parlare di cinema è stato quello di cercare di raggiungere la realtà attraverso la distruzione del realismo: rompere le apparenze della realtà feno­ menica per ricostruirla a posteriori secondo un principio di realtà dialettico. Partendo da una posizione marxista-leninista, Ejzenstejn vedeva la natura e la storia attraverso la lente del processo dialettico, e per questo l’unico modo di essere realista in arte era riuscire a re­ plicare nell’opera lo stesso tipo di dinamiche presenti nella realtà. Non solo: anche i processi mentali di apprendimento umano sono dialettici. Da questa filosofia politico-estetica Ejzenstejn costruisce il suo cinema di “attrazioni”, dove la tensione del processo dialettico è visibile tanto nelle contrapposizioni metaforiche extradiegetiche del montage quanto nella rapidità e asprezza delle immagini contrappo­ ste e nella ricerca di linee e ombre all’interno di una medesima in­ quadratura.6 Lo spettatore, liberato dal processo di “sutura”7 - già ti­ pico all’epoca nel cinema di intrattenimento hollywoodiano - cessa di essere cooptato passivamente nella narrazione, e viene invece coin­ volto in un processo di smascheramento del dispositivo cinemato­ grafico che di lì a pochi anni Brecht teorizzerà nell’effetto di aliena­ zione. La rottura con il naturalismo e il verismo del romanzo otto­ centesco è drastica e evidente: il film come film di Ejzenstejn non tende a riprodurre e ritradurre gli stilemi e i codici della tradizione narrativa dei grandi romanzieri europei, quanto piuttosto a ricreare un nuovo realismo dialettico riflessivo. Dal punto di vista tecnico, questo desiderio estetico si esplica soprattutto in fase di editing, in particolare nel “montaggio dialettico” in cui due oggetti apparente­

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mente distanti vengono sinesteticamente aggiogati per creare meta­ foricamente un nuovo concetto e una nuova sensazione. L’esempio classico è quello di Sciopero (1924), in cui il massacro della folla in ri­ volta perpetrato dalla polizia zarista è alternato a immagini di un ma­ cello in cui gli animali vengono impietosamente uccisi. Questo ac­ coppiamento arbitrario rappresenta per Ejzenstejn il momento di su­ peramento del naturalismo borghese, e l’ingresso in una nuova for­ ma stilistica di realismo.8 La scuola semiotica francese ha tentato negli anni settanta di com­ piere quel difficile lavoro di scientificizzazione della filmologia che l’approccio fenomenico baziniano aveva tenuto, a suo parere, su livelli di inaccettabile misticismo. Partendo da una prospettiva rigidamen­ te materialista, Metz ridefinisce l’approccio della teoria del film, ri­ formulando la domanda “che cos’è il cinema” in “come funziona il ci­ nema”. La semiologia ha come scopo primo quello di capire il pro­ cesso di significazione dell’immagine, per poi individuare i codici che determinano il funzionamento del sistema significante chiamato ci­ nema, dove per significazione si intende il processo attraverso cui il messaggio, come codice in/di un testo, viene comunicato allo spetta­ tore. Dopo avere rifiutato l’idea che il cinema sia una lingua (almeno dal punto di vista semiologico), Metz analizza i modi in cui codice e messaggio, sistema e testo, interagiscono come segni sullo schermo. H credo baziniano nella capacità riproduttiva della macchina da presa è sostituito da una sfiducia nell’analogia fotografica immagini-ogget­ ti (parallelo - se si pensa bene - a quella tra parole e cose del coevo pensiero foucaultiano): non esiste la possibilità di una comunicazio­ ne immediata (non-mediata), ma solo quella connotata da un codice che ci permette di “fare senso” delle immagini del film. Nel passaggio dalla realtà alla celluloide, l’oggetto viene processato attraverso una se­ rie di codici rappresentativi, non ultimo quello della prospettiva ri­ nascimentale alla base della pittura e della fotografia occidentale (già questo è un atto che viene percepito come naturale, ma è in realtà il prodotto di un pensiero e di una cultura ben precisa, come chiarisce Heath, 1981, p. 29). Metz individua nella narrazione l’arma principale nelle mani del cinema (in particolare del cinema di cassetta di Holly­ wood) per spacciare il film come realtà attraverso i noti processi di montaggio classico (non a caso chiamato negli Stati Uniti invisible editing). Presa coscienza di questo, il cinema deve smascherare le ri-

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produzioni naturalistiche e offrire allo spettatore una possibilità di fuga: gli esperimenti tecnici e narrativi delle avanguardie degli anni sessanta e settanta sono direttamente collegati a questo tentativo di li­ berarsi dal regime dello sguardo imposto dal cinema commerciale: Godard in questo senso rimane un modello, anche per Pasolini.

2.3 Pasolini tra realtà e codice

Pasolini realista o formalista? Per rispondere a questa domanda mi sembra importante considerare la filosofìa del cinema di Pasolini non limitandosi alle dichiarazioni e agli scritti, semmai guardando all’opera fìlmica come una specie di saggio in movimento. Anche Pasolini, co­ me i formalisti, vede nell’uso autoriflessivo della macchina da presa uno dei punti di forza del cinema. H cinema deve essere guardato co­ me un prodotto artistico e non come un documento. La realtà deve ve­ nire presentata non nella finzione della continuità baziniana neorea­ lista, ma nella frammentarietà dei segni contrastanti. Stilisticamente lo vediamo nella predilezione per il montaggio rapido, i primi piani fron­ tali, il rifiuto del controcampo, i jump-cut temporali; e poi nella ric­ chezza delle citazioni pittoriche, nei pastiches musicali e, più in gene­ rale, nella spinta politica rivoluzionaria. Qual è il rapporto di Pasolini con i realisti? Casetti scrive che se per Pasolini «il cinema è un dispositivo simbolico, lo è solo in quanto tra­ scrizione di segni presistenti, di segni naturali» (Casetti, 1992, p. 44). La fiducia democratica dei realisti trova Pasolini alleato in una vena che potremmo chiamare di misticismo naturale. E, almeno a prima vi­ sta, sembra essere d’accordo con Kracauer nel sottoscrivere l’equa­ zione realtà e film.9 Pasolini sviluppa un amore mistico e laico per la realtà materiale, ma spinge ancora più in là l’ideale kracaueriano ver­ so la terra incognita del premodemo, dell’antichità rurale e agricola dei non-occidentali. Come in Mizoguchi e Dreyer, vi è in Pasolini un approccio sacro alla vita visibile nella paziente indagine dell’espe­ rienza del reale. Con una profonda eccezione: se la natura è per Pa­ solini un dato di fatto, non lo è la realtà, che è invece altamente codi­ ficata.10 La realtà si impone sulla natura, la cambia, e ne rende im­ possibile l’appercezione diretta e immediata (non-mediata) che ne vorrebbero avere i realisti.11

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Fin da subito la posizione di Pasolini fu aspramente criticata dai semiologi professionisti, e su tutte si ricorda la stroncatura di Eco nel suo Trattato di semiotica generale.12 Ma per chiarire una volta per tutte il rapporto tra Pasolini e la semiotica mi sembra fondamentale affron­ tare alcune questioni preliminari. Primo, la lingua della semiotica vie­ ne incorporata da Pasolini per essere riusata nel tentativo sia di crea­ re un dialogo con gli intellettuali del suo tempo che di «sconvolgere un tentativo di ricerca razionale (che indubbiamente c’è) con clamo­ rose esibizioni eretiche, che disorientano il lettore. [...] Pasolini si serve della semiologia come di uno spazio di discorso piuttosto che co­ me di una metodologia effettivamente seguita» (Turigliatto, 1976, p. 124). Come il friulano o il romanesco, il linguaggio semiotico di que­ gli anni è un ready-made che Pasolini raccoglie per strada e idiosincraticamente frulla e mistura con il lessico che già gli apparteneva. Con questo non si vuole ricadere nelle accuse di amatorialità o di lin­ guaggio critico usato solo en poète-. al contrario, si vuole solo ricorda­ re come molte delle incomprensioni che hanno circondato e tuttora circondano l’opera di Pasolini scaturiscano dalla incapacità, nata da scarsa frequentazione, di certi critici di fronte al magmatico vocabo­ lario pasoliniano. In seconda battuta, a rendere meno eretico il Paso­ lini semiologo basta tenere d’occhio il dibattito che stava avvenendo in quegli anni sulle riviste e nei circoli culturali italiani più vicini alle novità d’oltralpe. Tra i molti esempi vorrei riportare alcuni brani del saggio di Bettetini Produzione del senso e messa in scena, dove appare evidente come l’autore sia su posizioni teoriche molto vicine a quelle di Pasolini. In particolare se si guarda la sezione dedicata al realismo cinematografico sembra di vedere addirittura un dialogo (non di­ chiarato) con certi passaggi di Empirismo eretico, in particolare in re­ lazione al concetto di realtà come codice. Scrive infatti Bettetini: H cinema non rappresenta una realtà inerte e insignificante, ma un com­ plesso di oggetti già articolati secondo un sistema semantico, cha a sua vol­ ta rinvia a un sistema di valori (secondo l’uso che di questo termine fa De Saussure invece di rappresentazione). Il film non agisce dunque riprodut­ tivamente su di un universo anomalo e senza forma, ma su di un comples­ so di elementi già codificati nel sapere della società, nella sua prassi, nei si­ stemi ideologici che si iscrivono l’uno nell’altra; l’operazione filmica si im­ batte, al livello dei contenuti del suo primo lavoro, in codici precostituiti e molto forti dai quali deriva l’articolazione della materialità profilmica. [... ] 36

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H cinema, cioè, tende a mascherare la natura “schematica’’ e “codica” del­ le sue manifestazioni e a riaffermare un’attività naturalmente riproduttiva. Lo spettatore, abituato dal contesto produttivo a vivere l’immagine come sostituto “totale” della realtà, si aspetta una sollecitazione emotiva forte e “diretta” come quella propostagli dalla realtà rappresentata. (Bettetini, 1975, p. 189 e p. 193)

Quando in Medea (1969) il centauro saluta per l’ultima volta Giaso­ ne prima del suo ingresso nel mondo (nella realtà), gli ricorda che «non c’è nulla di naturale nella natura». Questo non significa che non vi sia nulla di naturale nella natura del mondo mitico (pre-modemo, a-modemo) dei centauri, bensì nel mondo in cui sta per en­ trare, nel mondo “reale” dell’alienazione del xx (e XXl) secolo. Chia­ rita questa fondamentale oscurità lessicale pasoliniana, la differenza fra natura e realtà, diventa evidente come Pasolini entri nel cinema co­ me realista per uscirne come formalista. Nel senso che Pasolini radicalizza la fiducia cattolica-liberale di Bazin (senza ribaltarla), inse­ rendo nel paradigma un’incognita irrisolvibile filtrata proprio attra­ verso le letture dei semiologi degli anni sessanta: il concetto di codi­ ce. La realtà è il prodotto mutato e codificato di vari strati di culture e di visioni del mondo. Pasolini si sistema insomma, molto pasolinianamente, in una posizione “tra”, forse “da farsi”, tra realismo ba­ ziniano e formalismo semiotico. E questa la chiave per capire Pasolini e la sua idea di realismo co­ me negazione del naturalismo: «Ora, io odio il naturale (che del re­ sto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto, in arte, tutto ciò che attiene al naturalismo» (Duflot, 1983, p. 114). Con questo Pasolini intende una riproduzione che viene intesa dallo spettatore come “naturale”, non artefatta, di­ retta. Pasolini è convinto invece che, grazie alla capacità della mac­ china da presa di penetrare la realtà e il processo del montaggio che segue le riprese, il regista debba mostrare la frammentarietà del mon­ do attraverso le immagini. Come scrive in Empirismo eretico-. Il mio amore feticistico per le cose del mondo mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le le­ ga in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente, ima per una. (Pasolini, 1991, p. 235)

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H «giusto fluire», che in ambito cinematografico si identifica con le tecniche di riprese neorealiste - sequenze lunghe, predilezione per le carrellate che lasciano sviluppare la scena senza ricorrere al montag­ gio -, è percepito da Pasolini come un tradimento della realtà. La ne­ cessità pasoliniana di demistificare l’apparato ha una profonda ra­ gione pedagogica: si tratta di un programma politico-ideologico più largo. Pasolini, intellettuale e pedagogo, usa il cinema per combatte­ re la pseudo-oggettività del mezzo audiovisivo, proprio quell’atto del cinema di «mascherare la sua natura “schematica” e “codica”» che Bettetini individua nel suo scritto. La polemica contro la televisione diventa parte di questo progetto di svelamento dell’apparato. Basti in questo senso pensare agli spie­ tati attacchi contro il mezzo televisivo in Lettere luterane. La sfida è contro chi produce rappresentazioni che non danno spazio e non spiegano l’ambiguità che permea sia la realtà rappresentata sia gli strumenti tecnici usati. Ancora in Empirismo eretico scrive: Le tecniche audiovisive sono gran parte ormai del nostro mondo, ossia del mondo del neocapitalismo tecnico che va avanti, e la cui tendenza è ren­ dere le sue tecniche, appunto, aideologiche e ontologiche; renderle taci­ te e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose. Noi siamo degli umanisti laici, o almeno dei platonici non misologi, dobbiamo batterci, dunque per demistificare “l’innocenza della tecnica”, fino all’ultimo san­ gue. (Pasolini, 1991, p. 226)

Il grido finale del saggio: «bisogna ideologizzare, bisogna deontologizzare» (Pasolini, 1991, p. 226) è una chiamata alle armi gramscianabrechtiana di smascheramento e straniamento del dispositivo anche, e soprattutto, dei mezzi audiovisivi di riproduzione di massa. L’in­ fluenza di Brecht e di Shklovskij è evidente: il Verfremdung-Effekt, per molti aspetti simile alla ostranenie shklovskijana, è un modello operativo dell’ideologia pasoliniana.13 Mi sembra che una scena di Mamma Roma (1962) aiuti a chiarire questo nodo fondamentale del rapporto tra realtà codificata e la sua rappresentazione filmica, contro il “giusto fluire” aideologico (a-ideologico, non-ideologico) dei media contemporanei. Nei primi minuti del film vediamo un gruppo di ragazzi seduti in un prato. Dietro di lo­ ro, le rovine di un acquedotto romano, e ancora sullo sfondo le case popolari INA del nuovo quartiere di Cecafumo, nella più tipica con­

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trapposizione pasoliniana di vecchio e nuovo. Ecco i vari segni so­ vrapposti: il prato, con poche pecore a pascolare da millenni, i giova­ ni burini di recente urbanizzazione, il passato di Roma delle rovine co­ me memento mori benjaminiano.14 È proprio Benjamin a ricordare che «le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che son le rovi­ ne nel regno delle cose» (Benjamin, 1980, p. 184). La potenza delle immagini pasoliniane collega, come Benjamin fa con allegoria e ru­ dere, memoria e oggetti fisici; questo dà alle rovine un valore di em­ blema allegorico, residui, briciole che punteggiano la geografia psicogeografica di Roma. Ma le rovine sono anche un riferimento colto al­ la storia dell’arte italiana, e questi ruderi cosa sono se non un topos del­ l’iconografìa rinascimentale e barocca, il più tipico dei fondali dei quadri e degli affreschi delle chiese della Penisola?15 La realtà paso­ liniana è dunque un palinsesto formato dalla realtà profilmica - già “codica” (le rovine, i ragazzoni neo-urbanizzati, l’edilizia popolare, ecc.) - e da immagini che fanno parte della memoria visuale colletti­ va, un archivio visuale nazionale (conscio o inconscio che sia) che esi­ ste in uno stato di flusso tra memoria, iconicità e riproduzione. Si trat­ ta di un uso citatorio di immagini iconiche (ai nostri giorni le chia­ meremmo “logos”, per prendere in prestito il linguaggio della pub­ blicità) che forma uno strato ulteriore in cui Pasolini costruisce una “realtà citazionale” (Rohdie, 1995, p. 3) presente nella sua pratica fìl­ mica con le citazioni dirette di Pontormo e Rosso Fiorentino in La ri­ cotta, nei riferimenti alla storia dell’arte in vari momenti della “Trilo­ gia della vita” (da Giotto a Bosch), o nelle allusioni a altri film o ge­ neri filmici (come nel caso di Ejzenstejn per quel che riguarda Appunti per un film sull’india). In una poesia scritta in un periodo molto vici­ no alla produzione di Mamma Roma è Pasolini stesso a chiarire la sua visione della realtà in «La Guinea», raccolta in Poesie in forma di ro­ sa: «Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti// profili del fogliame, che si spezzano,/ riprendendo il motivo di una pittura rustica / ma raffi­ nata - il Garutti? Il Collezza?// Non Correggio, forse: ma di certo il gusto/ del dolce e grande manierismo/ che tocca col suo capriccio dolcememnte robusto// le radici della vita vivente: ed è realismo...». Questa contaminazione tra realtà e arte del resto è percepibile in ogni singola inquadratura dell’opera pasoliniana, nel modo in cui l’autore cerca di incorporare immagini che sono già parte del bagaglio visivo della cultura occidentale: è quell’”effetto dipinto”, come viene defì-

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nito da Costa (1989), per cui nei film di Pasolini la citazione (palese o implicita) fa appello al livello metalinguistico della rappresentazio­ ne.16 La realtà delle pale d’altare, degli affreschi delle chiese di cam­ pagna o dei capolavori medievali o manieristi creano un pastiche ideologico-visuale di immagini che rimandano alla tradizione pittorica, o più in generale a clichés (come li definisce Deleuze), veri e propri cal­ chi mentali, che tirano fuori lo spettatore dalla logica della fiction («la maschera» di cui parlava Bettetini) verso l’altro lato della finzione, quello della scrittura che l’ha prodotta. L’effetto estraniente dina­ mizza l’immagine, la scuote dalla sua immobile sincronia per farla esplodere in tutta la sua diacronicità de-ontologizzante. Hal Foster (2006, p. 134) nota come, a partire dagli anni sessanta, in molti campi artistici, incluso il cinema, si insista a leggere l’opera d’arte con rigidi modelli epistemologici: o come oggetto referenziale indissolubilmente legato alla realtà del mondo, o come simulacro in­ dipendente e arbitrario, per cui tutte le forme di rappresentazione (in­ cluso il realismo) non sono altro che forme autoreferenziali. Pasolini risolve questa dicotomia con la nota formula del cinema come “lin­ gua scritta della realtà”, cioè del cinema come momento di incisione sulla celluloide di quello che succede nella vita di tutti i giorni. Ma questo mondo rappresentato è già a priori un codice: «La natura in­ somma è già artifìcio, cultura, spettacolo; non esiste più nulla di ele­ mentare, primario; ogni cosa rimanda ad un codice preesistente [...] La realtà si atteggia ad arte, meglio, è già arte» (Vallora, 1978, p. 120). In un brano di Empirismo eretico Pasolini spiega il rapporto tra real­ tà e rappresentazione usando la metafora happening. Vivendo, dunque, noi d rappresentiamo, e assistiamo alla rappresenta­ zione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresenta­ zione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco hap­ pening, se vogliamo. (Pasolini, 1991, p. 206)

H riferimento, preso in prèstito dall’arte contemporanea, chiarisce a mio avviso la filosofìa pasoliniana e rimanda a una recente teoria sul­ la fruizione dell’opera d’arte sviluppata da Nicolas Bourriaud col no­ me di esthétique relationnelle. Sviluppata negli ambienti dell’arte con­ temporanea abituati agli exploits degli artisti post-concettuali, l’este­ tica relazionale prevede una forma di epistemologia comunitaria do­

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ve il significato dell’opera esiste in una forma di investimento gno­ seologico comune su e intorno all’opera da parte dei partecipanti al­ l’evento, quello che non molti anni fa veniva definito come happening artistico. Come anche notato da Benedetti (1998), Pasolini aveva del­ l’arte una visione partecipativa che ricorda quella di recenti performing artists, dove il connubio poesia e vita, realtà e rappresentazione au­ diovisiva coincidono. La vita che è il cinema, e il cinema la vita, si specchiano e si rappresentano (ri-rappresentano), ma in forma me­ diata. La macchina da presa non può rendere fedelmente questo con­ nubio se non attraverso un processo di frammentazione e smaschera­ mento. La forma a palinsesto delle immagini pasoliniane, con il suo ef­ fetto straniarne, risulta in fin dei conti essere un di più rispetto a quan­ to teorizzato da Pasolini: come nota sempre Rodhie, non solo il cine­ ma di Pasolini è una scrittura della realtà (come il grafo dell’elettro­ cardiogramma che registra le micro-scosse del muscolo cardiaco), ma ima meta-lingua della realtà, una «non-fictionalfiction» (Rohdie, 1995, p. 3). Insomma, il «cinema come lingua scritta della realtà» ha più a che fare con la consapevolezza del cinema come codice (e perciò por­ tatore di una realtà codica), cioè già codificata, che non con il tentati­ vo di Pasolini di dare status di langue al mezzo cinematografico.

2.4 Una possibilità di sintesi? Nel vasto dibattito critico sul rapporto tra Pasolini e la semiologia, in cui si è passati da studi di grande attenzione interpretativa ad accuse di approccio amatoriale, mi sembra interessante commentare la po­ sizione di Turigliatto, che già in un saggio del 1976 aveva colto come ci si potesse muovere al di là di questo “tra” in cui Pasolini cineasta e critico sembra lasciarci - a dire il vero in piena sintonia con la figu­ ra della sineciosi fortiniana - per esplorare la possibilità di una via d’uscita, una sintesi - temporanea e ambigua, forse - della dialettica irrisolta, e farlo esplorando l’ipotesi dell’Altro come terzo momento dialettico. L’ostilità di Pasolini verso ogni forma di hegelianismo te­ leologico è ben nota. Si pensi a questa battuta con Sergio Arecco: «Io sono contro Hegel (esistenzialmente-empirismo eretico). Tesi? An­ titesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non è più ternaria ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili» (Arec-

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co, 1972, p. 72). L’identificare nel passato mitico e nel Terzo Mondo la svolta della dialettica binaria pasoliniana fa scrivere a Turigliatto, a dire il vero anch’egli “contaminato” da uno stile eri poète-. «Anche nella riflessione sul linguaggio Pasolini è “una forza del passato”: il se­ gno affonda le sue radici nelle origini magiche, e tutto quanto è so­ vrapposto dalla civiltà e dalla storia è ricondotto alla natura del puro pragma incosciente, la lingua scritta alla lingua orale, a sua volta ori­ ginatasi nel grido, la storia al mito e al tempo sacrale. Ma il passato è inestinguibile, può ridiventare futuro attraverso “la Negritudine, di­ co, che sarà ragione”» (Turigliatto, 1976, p. 125). Possiamo allora, se­ guendo questo suggerimento e parafrasando un verso di Pasolini, scrivere «Africa, mia unica sintesi»? In questo seguire Turigliatto nell’analisi della semiotica pasolinia­ na, che era interessata a elaborare un Codice dei Codici da un lato, e dall’altro ossessionata dal referente, che in Pasolini sono prima i sot­ toproletari e poi i contadini del Terzo Mondo, avvolti però da una co­ stante aria mitologica, si nota come il discorso semiotico pasoliniano si trovi abbozzolato all’interno di una specie di regressione mitica, dove il Codice dei Codici si avvicina a una specie di linguaggio ar­ chetipo. Ma è qui necessario fare alcuni distinguo: quando Pasolini nell’intervista ad Arecco si riferisce al Codice dei Codici come “gli ar­ chetipi comunicativi naturali” (Arecco, 1972, p. 171), o quando ne La sceneggiatura come “struttura che vuole essere altra struttura” (Pa­ solini, 1991, pp. 188-197) parla di “cinòmi” come “immagini pri­ mordiali” e di “monadi visive” che formano un sistema di im-segni, questi non devono essere confusi con gli archetipi junghiani (con­ trariamente a quanto scrive Francese, 1999, p. 142). L’affermazione di Zigaina che Pasolini conosceva Jung a memoria - che qui non si vuole certo negare - deve essere letta in filigrana con la passione semiologica che attanaglia il Pasolini teorico del cinema. Gli archetipi pasoliniani, mi sembra, sono da intendersi dal punto di vista semiologico: si va dalla comunicazione non verbale (vedi il saggio 11 non verbale come altra verbalità raccolto in Empirismo eretico, Pasolini, 1991, pp. 263-265) agli “archetipi comunicativi naturali” in II cine­ ma dipoesia (Pasolini, 1991, p. 169).17 Parallelamente a questa spin­ ta semiotica, è allo stesso tempo innegabile la presenza nella lingua pasoliniana di un forte elemento di misticismo: così, per esempio, in Empirismo eretico scrive: «Che io sappia, tutta la linguistica “scien­

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tifica”, fino allo strutturalismo compreso, col grande De Saussure ecc., nel definire il rapporto tra segno e significato, ha sempre igno­ rato il momento magico originario: naturalmente la linguistica è scienza, e scienza dell’ottocento e del primo Novecento - quando ancora vigeva il razzismo allo stato puro e innocente ecc. - la Gran­ de Europa - la grande borghesia bianca ecc. la magia era tutta di co­ lore» (Pasolini, 1991, p. 151). Anche a livello teorico, come nella poesia, la tensione dell’ossimoro irrisolto non offre una risposta definitiva, ma degli slanci verso una potenzialità di qualcosa. Si tratta, per tornare alla definizione di Homi Bhabha, di quello “spazio terzo” - third space - dove il mon­ do postcoloniale offre la possibilità di nuove negoziazioni di signifi­ cato (Bhabha, 1990, pp. 207-221).

2.51 documentari

Il documentario e i film etnografici sono recentemente diventati un popolarissimo soggetto di dibattito per studiosi di cultural studies, in quanto offrono la possibilità di affrontare i problemi relativi al­ l’identità nazionale, razziale, etnica e alla loro rappresentazione vi­ suale. Anche se non è certamente solo negli ultimi anni che queste te­ matiche sono venute alla ribalta, soprattutto in un contesto di critica sociologica, recentemente 1’apparire di nuove forze ideologiche emer­ genti, come il femminismo, la psicologia lacaniana e gli studi postco­ loniali, per citare i fenomeni critici più prominenti, hanno ulterior­ mente complicato il dibattito. In ambito nordamericano i lavori di Hal Foster e Trinh-T. Minh-ha hanno portato all’attenzione dei cri­ tici il ruolo fondamentale giocato dal film documentario come pos­ sibile fonte di modelli per la rappresentazione di culture altre. H lo­ ro contributo è stato fondamentale nello spostare la questione dal­ l’ontologia della conoscenza (Come si conosce? Che cosa si cono­ sce?) alla sua localizzazione e sistematizzazione all’interno di forze egemoniche (In che modo la conoscenza viene gestita da gruppi di potere? Chi possiede la verità?). I nuovi approcci teoretici, decisa­ mente influenzati da Benjamin e dalla scuola di Francoforte, negano la possibilità di una conoscenza oggettiva; anzi, di ogni tipo di og­ gettività in generale. Una delle vittime eccellenti di questa battaglia

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epistemologica è stata proprio l’inseparabile coppia scienza e cono­ scenza. L’occhio oggettivo e obiettivo delle scienze esatte è finito sot­ to la scure del nuovo relativismo postmoderno. Il documentario, con la sua presunta oggettività scientifica, è uno dei generi più criticati da questi nuovi approcci teorici. Il film etnografico ha il doppio svan­ taggio di essere sotto un tiro incrociato: da una parte le accuse alla sua presunta oggettività, dall’altra quelle rivolte dalla critica postcoloniale tesa a mostrare come le forme di rappresentazione dell’Altro sia­ no di per sé frutto di un pensiero colonizzante.18 Pasolini non si è mai pensato un etnografo. Eppure molte delle te­ matiche del dibattito in corso sul documentario etnografico sono già presenti sia nel suo lavoro di film-maker che di intellettuale. Massi­ mo Riva in un recente articolo suggerisce la possibilità di leggere Pa­ solini come un “autore bastardo” in cui «la tensione e l’ibridazione tra il creare seducenti “strutture linguistiche” (il poeta) e il mettere in scena un linguaggio (il regista) con la instancabile volontà di comu­ nicare (l’intellettuale) [...] risultano in uno dei più interessanti coa­ cervi tra il discorso antropologico e letterario nella cultura (non solo italiana) del secondo Novecento» (Riva e Perussa, 1997, p. 247). Te­ mi come quello del rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappre­ senta, il ruolo del dispositivo cinematografico nel dare forma al mo­ do in cui la realtà viene percepita come reale, e più in generale lo sta­ tus epistemologico del mezzo di riproduzione audiovisivo come fon­ te di dati scientifici sono problemi su cui Pasolini toma frequente­ mente tanto nei suoi scritti, soprattutto in quelli raccolti in Empirismo eretico, quanto nella produzione fìlmica. Cocco ha fatto notare ima li­ nea demartiniana visibile nell’approccio pasoliniano in quella «storicizzazione del primitivo» in cui viene assegnato «al mondo arcaico un proprio luogo storico» (Cocco, 1995, p. 19). È evidente che il nuovo milieu culturale dell’etnografìa anglosassone e transalpina importa­ ta da De Martino doveva essere nota all’onnivoro lettore.19 Mentre altri documentaristi europei si confrontavano con le tecni­ che del neorealismo italiano o della nouvelle vague francese, Pasoli­ ni comincia a pensare al documentario sotto parametri compietamente diversi. In particolare la possibilità di applicare lo stile di “ci­ nema di poesia”, cioè di un cinema slegato dalle direttive rigidamen­ te descrittive del tradizionale reportage etnografico, per muoversi verso la strada del documentario creativo tipica, per esempio, del ci­

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nema di Robert Flaherty.20 Pasolini commenta proprio su Uomo di Aran del regista americano: Parlando di cinema di poesia, io intendevo sempre parlare di poesia nar­ rativa. La differenza era di tecnica: anziché la tecnica narrativa del ro­ manzo, di Flaubert o di Joyce, la tecnica narrativa della poesia. Osserva­ te il montaggio dell’Uomo di Aran.21 Ecco, avrete un’idea del montaggio piegato a ima tecnica narrativa di cinema di poesia: sia pure di una poesia esiodea, come dicono gli agiografi. Ora, quello che mi chiedo, in seguito agli esperimenti sbagliati dell’avanguardia, è se non sia possibile un cine­ ma di poesia non narrativa: di poesia-poesia, o, come si suol dire, poesia lirica. E possibile? (Pasolini, 1991, pp. 254-255)

In Pasolini abbiamo da una parte l’amore per la realtà, che però non trova quello che sarebbe il suo sbocco “naturale” nelle tecniche neo­ realiste o post-neorealiste (come per esempio negli esperimenti in­ diani di Rossellini nel documentario per la televisione lìlndia vista da Rossellini, 1957-58, o il lungometraggio India Matri Bhurni, 195759), dall’altra una specie di tensione verso il lirico, il non narrativo, verso quello che potrebbe diventare cinema sperimentale, ma che in Pasolini rimane sempre legato a una poetica di narratività.22 Le due anime convivono, e le si possono vedere mischiarsi e fondersi nella produzione cinematografica, ma sempre al servizio di una storia. Nei documentari, e per la precisione nella serie dei “sopralluoghi” e de­ gli "appunti”, inaugurata nel 1964, Pasolini trova il veicolo ideale per sfidare sia le tradizionali strutture narrative, sia per ripensare criticamente al ruolo del documentarista come traduttore di culture altre per la scopofilia dello spettatore occidentale.23 Inserendosi nella tra­ dizione modernista di registi che si sono dedicati anche al documen­ tario - Chris Marker, Wim Wenders, Werner Herzog, Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini - Pasolini produce una serie di corti e mediometraggi montando materiale raccolto durante sopralluoghi in varie location in Africa e in Asia. Questo girato, che originalmen­ te sarebbe dovuto servire come materiale per un futuro film, in cui scene di fiction e di interviste documentaristiche si sarebbero dovu­ te alternare l’una a fianco dell’altra, viene invece montato con la vo­ ce di Pasolini fuoricampo.

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2.6 Nel Terzo Mondo La lunga storia d’amore tra Pasolini e il Terzo Mondo cominciò nel gennaio del 1961 con il primo viaggio in India, affrontato in compagnia di Alberto Moravia, e per parte del viaggio anche da Elsa Morante. L’approccio razionale e illuminista di Moravia si incarna nella compassata narrazione di Un’idea dell’india.2* Pa­ solini, al contrario, non era affatto preoccupato di mostrarsi naif di fronte all’orrore e alla bellezza del continente indiano, co­ me mostra lo stile espressionistico - e a tratti bozzettistico - del suo volume L’odore dell’india. Non credo si tratti di un’esage­ razione affermare che questo primo viaggio - che dopo l’india lo porterà in Africa - è forse uno dei momenti più importanti nella vita artistica di Pasolini.25 Il rapporto tra il Terzo Mondo e Pasolini è lungo e prolifico. I film: Edipo re (1967), Il fiore del­ le Mille e una notte (1974); i documentari, e i medio e corto­ metraggi: Sopralluoghi in Palestina (1963-64), Appunti per un film sull’india (1968), Appunti per un’Orestiade africana (1969), Le mura di Sana’a (1971); la sceneggiatura di II padre selvaggio. E ancora, il grande e ambizioso progetto irrealizzato di Appun­ ti per un poema sul Terzo Mondo, di cui Appunti per un’Orestiade africana e Appunti per un film sull’india dovevano essere parte. Come disse Pasolini, fu «l’agnizione dell’altrove» a spingerlo ver­ so il romanzo (Anzoino, 1974, p. I).26 Sarà l’agnizione dell’“altro” a spingerlo fuori dall’occidente. Come molti altri artisti della tarda modernità, Pasolini è testimone di un radicale cambiamento: l’“altro” non è più solamente identificato con il proletario e la classe operaia, ma con l’“altro culturale”, sia che si tratti del non-occidentale o del marginalizzato per motivi di razza o di pratiche sessuali, all’interno della società occidentale. Come scrive Hal Foster (2006, p. 177), que­ sto cambiamento da un soggetto definito in termini di relazioni eco­ nomiche a uno definito in termici di identità culturali è significativo dal momento che cpstringe l’artista impegnato a muoversi oltre i con­ fini nazionali e a esplorare nuove forme espressive, e soprattutto a ri­ volgersi ad altre discipline, come l’antropologia, la sociologia e l’et­ nografìa. Pasolini fu senz’altro uno dei primi intellettuali italiani a essere testimone attivo di questo cambiamento epocale. Non è un caso che spesso i proletari occidentali e gli abitanti del Terzo Mondo

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siano messi gli uni di fianco agli altri nel suo studio della loro inno­ cenza premodema. Su questo, che forse è il tema e il problema più scottante e dibat­ tuto della visione pasoliniana del Terzo Mondo, il suo tiers-mondisme, il dibattito accademico è viziato da posizioni rigide, e da pre­ sunzioni molto spesso false o male informate. In questo senso è esemplare, negativamente, il lavoro di Chris Bongie, che non esita a condannare Pasolini, prima giudicandolo minore (Bongie, 1991, p. 203 ), poi definendo Pasolini come vittima di un certo decadentismo estetizzante, e infine accusandolo di ghettizzare il Terzo Mondo in una specie di preistoria degna del miglior “buon selvaggio”. I pro­ blemi del testo di Bongie sono vari: prima di tutto è evidente il suo tentativo di far sì che Pasolini trovi posto nel paradigma generale del libro, titolato Exotic Memories: Literature, Colonialism and the Fin de Siècle, per cui Pasolini è messo in compagnia di Segalen e Conrad; inoltre una superficiale conoscenza di certi tic verbali di Pasolini fanno prendere fischi per fiaschi al critico non preparato. Ecco allora il problema sull’uso del termine “preistorico”, che Bongie associa in qualche modo a “selvaggio”, quando Pasolini chiaramente si riferi­ sce a un periodo prima della storia occidentale. La preistoria paso­ liniana è un momento a-storico, ma certamente non a-ideologico: è invece il mondo dell’infanzia per sempre perduto ma il cui sogno persiste, è il mondo prima del neocapitalismo, e, soprattutto, è il momento “prima della rivoluzione”. Non dobbiamo dimenticare che nella apparente superficialità teorica pasoliniana, in cui termini come “subalterni”, “mondo contadino”, “preistorico” si confondo­ no e si alternano nei suoi scritti, rimane evidente il forte interesse po­ litico, che vedeva, come molti intellettuali marxisti dell’epoca, una diretta connessione tra il nascente nazionalismo africano e la lotta per la vera democrazia socialista. Per Pasolini, le ceneri di Gramsci, fredde tra il proletariato e il sub-proletariato europeo, sono vive nel Terzo Mondo in rivolta. Anche se sono evidenti, soprattutto nei te­ sti sia in prosa che in poesia certi mielosi avvicinamenti all’alterità di chiaro debito romantico, se non appunto decadente, mi sembra che l’approccio di Bongie al Pasolini terzomondista sia fondamental­ mente fuorviarne. La produzione fìlmica, la più ricca sul Terzo Mon­ do, riscrive e ridirige la visione pasoliniana verso una materialità e un “diretto intervento rivoluzionario” (come Pasolini scrive nel mani­

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festo programmatico di Appuntiper un poema sul Terzo Mondo) che inevitabilmente ci costringono a ripensare questo latente, e presun­ to, decadentismo.

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Note 1 II titolo del paragrafo fa riferimento al volume di Maurizio Viano, A Certain Realism (1993). 2 Si veda su questo il bel saggio di Turigliatto. Sull’uso del friulano si vedano le stes­ se dichiarazioni del poeta, per esempio nel breve articolo pubblicato nel 1946, e ora raccolta nella sezione “Saggi giovanili” in Saggi sulla letteratura e sull'arte (Pasolini, 1999, pp. 173-174): «Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna, senza conoscere ne­ anche un poeta in questa lingua, e leggendo invece abbondantemente i provenzali. Allora per me il friulano fu un linguaggio che non aveva nessun rapporto che non fos­ se fantastico col Friuli e con qualsiasi altro luogo di questa terra». 3 «Il cinema fu una sorta di fleboclisi per lui: un rinnovamento nel circolo del sangue. La parola scritta non ebbe più l’evidenza, la necessità totalizzan­ te, dentro la fisiologia della sua ispirazione, che aveva avuto fino ad allora» (Si­ ciliano, 1978, p. 241). 4 A smantellare questa approssimativa storia della filosofìa del cinema si adopera brillantemente David Bordwell in On the History of film Style. In particolare si ve­ da il cap. 2: “Defending and Defining the Seventh Art: The Standard Version of Sty­ listic History”, Bordwell, 1997, pp. 46-82. 5 U titolo originale del saggio di Kracauer è proprio Theory of Film: The Redem­ ption of Physical Reality. La traduzione italiana Film: ritorno alla realtà fisica, pone meno l’accento sul tono messianico (e tale diventa Kracauer nell’ultimo capitolo del suo volume) del titolo. 6 Esempi di questo tipo di montaggio per attrazioni sono visibili soprattutto in Scio­ pero (1924) e La corazzata Potèmkin (1925). Ci riferiamo qui alla prima fase della car­ riera del regista sovietico, prima cioè di quel epistemological shift (inversione epi­ stemologica) degli ultimi anni. Si veda su questo Bordwell, 1974-75, p. 32. Pasolini cita spesso Ejzenstejn, anche se mai in termini lusinghieri. Ne riconosce però l’im­ portanza stilistica, e lo rinfaccia spesso ai sostenitori del presunto realismo del cine­ ma-verità (si veda per esempio le battute raccolte in “Appendice: battute sul cinema” in Empirismo eretico (Pasolini, 1991, p. 231). 7 II termine sutura (suture) deriva dalla critica fìlmica althusseriana-lacaniana, e spiega quel tipo di processo psicologico per cui lo spettatore è passivamente in­ trappolato nel dispositivo cinematografico attraverso alcune tecniche narrative e di montaggio. Per il concetto di sutura vedi Heath, 1981, pp. 76-112 e Casetti, 1992, pp. 217-219. 8 È interessante notare come recentemente l’approccio dialettico di EjzenStejn al­ la realtà venga rivalutato in senso documentaristico da Bill Nichols (1994, pp. 107116) in un saggio intitolato, non a caso, Eisenstein's Strike an d the Genealogy ofDo­ cumentary. Superando la dicotomia tra EjzenStejn, da sempre considerato un pre­ cursore del film di fiction, e Vertov, considerato a sua volta l’autorità nel campo del documentario, Nichols vede in EjzenStejn un precursore di un nuovo tipo di docu­ mentario basato sulla ricostruzione degli eventi, come The Thin Blue Line (1988) di Errol Morris o Shoa (1985) di Claude Lanzmann. Allargando il concetto di docu­ mentario e di rappresentazione della realtà, Nichols afferma che Ejzenstejn è fedele

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Orientalismo eretico nel suo approccio non tanto ai fatti in sé, quanto al processo storico dell’epoca. Nel discutere Appunti per un film sull’india, Ejzenstejn e il suo realismo dialettico tor­ neranno utili. 9 Mentre Bazin insiste sulla somiglianza, sul “cinema come asindeto” della real­ tà, Kracauer è ancora più radicale nella sua fedeltà al mezzo riproduttivo. Nel­ l’Epilogo del suo complesso volume Theory ofFilm, Kracauer invoca contro l’alie­ nazione della modernità un più diretto contatto con la natura e la materia, e il ci­ nema giocherebbe un ruolo essenziale in questo riavvicinamento (Kracauer, 1962, pp. 300-311). 10 Devo questa fondamentale distinzione a Patrick Rumble, Pasolini^ Futures, in­ tervento letto alla conferenza su Pasolini tenutasi alla Brown University nel maggio 1996. 11 Si veda l’articolo di Giuliana Bruno: «The relation he (Pasolini, [n.d.A.]) esta­ blished between reality and cinema is much more complex than the simple collapse of reality onto cinema. Reality itself is not monolithic, unitary, ontological entity. Ra­ ther, it is a site that inhabits the dynamics of social negotiation, contradiction and communication [...] his reality is a social practice - the site of interaction of histori­ city and the social text with the language of film» (Bruno, 1991, p. 32). 12 Per un elenco completo delle critiche a Pasolini si veda Viano, 1993, pp. 18-38. 13 Per una discussione del Verfremdung-Effekt in Pasolini si veda Costa, 1989, e Rumble, 1999. Pasolini menziona spesso Brecht nei suoi scritti. In relazione al cine­ ma si veda l’intervista “Il teatro di parola” in II sogno del centauro, ora raccolta in Sag­ gi sulla politica e la società, pp. 1521-1525, in particolare a p. 1524, dove Pasolini, in risposta a una domanda sulla tecnica della distanziazione risponde: «In effetti que­ sta sospensione del significato è brechtiana [...] All’interno della narrazione, giun­ to il momento di concludere il percorso ideologico [...] lo interrompevo». Si veda su questa nozione del “canone sospeso” la mia discussione del concetto di “opera aperta” al cap. 3.3. Si veda anche l’intervista “Mamma Roma”, anch’essa raccolta in sulla politica e la società, pp. 1315-1339:1319; Pasolini era a conoscenza delle teoria AdT ostranenie di Sklovskij, autore da lui molto letto e citato. Sui punti di con­ tatto tra Brecht e Sklovskij in relazione alle loro teorie di straniamento si veda Ja­ meson, 1982, pp. 57-58. 14 «Nel rudere la storia si è fusa fisicamente nel paesaggio». È l’immagine di Be­

njamin in II dramma barocco tedesco, delle rovine come memento mori, un emblema che rimane a testimoniare che questo presente è fragile e transeunte. «La natura, quando porta su di sé il calco della storia, assume una qualità numismatica. La ma­ teria è segnata, coniata come una moneta dalla presenza fìsica dell’umanità, per­ dendo per sempre la sua innocenza.» (Benjamin, 1980, p. 178). 15 «Amo lo sfondo, non il paesaggio. Non si può concepire ima pala d’altare con le figure in movimento» (Pasolini, 1993, p. 381). 16 Oltre all’articolo di Costa, vedi Rumble (1996, pp. 29-36) per una discussione del concetto di “effetto dipinto”. 17 Su questo si veda l’ottimo lavoro di Mancini e Perella (1981), che offre una ve­ ra tassonomia della gestualità nel cinema pasoliniano. Sempre Turigliatto legge que­ sto desiderio di Pasolini come «sintomo di regressione dai sistemi storicamente de­

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Dalla parola all’immagine terminati dalla nostra cultura verso linguaggi sentiti in qualche modo come più na­ turali, originari e fondanti: il sistema dei segni mimici (che accompagna il sistema del­ la lingua verbale nella sua manifestazione orale), le immagini dell’ambiente in quan­ to viste e interpretate dall’uomo (primo nucleo, insieme al precedente, di quello che sarà il linguaggio della Realtà), le immagini della memoria (più tardi teorizzate in­ sieme alle immagini della previsione come codice della Realtà immmaginata) e infi­ ne le immagini del sogno» (Turigliatto, 1976, p. 127). 18 Per una presentazione del dibattito si veda Russell, 1999, pp. 11-17. 19 Pasolini e De Martino vinsero ex aequo il premio letterario Crotone, Pasolini per Una vita violenta e De Martino per Sud e Magia, e lì si incontrarono il 6 novembre 1959 (Maraschin, 2004, p. 177). 20 L’influenza dell’opera di Flaherty sui documentari di Pasolini è sottolineata da Rohdie, 1995, pp. 71-77. 21 Uomo di Aran (Man of Aran, 1934) di Robert Flaherty segue alcuni mo­ menti della vita di un gruppo di pescatori in una remota isola irlandese. Usan­ do una tecnica mista, documentario e fiction, Flaherty continua nella tradi­ zione di ricostruzione documentaristica dei suoi film precedenti, Nanuk l’eschi­ mese (1922) e Louisiana Story (1948). Vedi Barnouw, 1993 per una presenta­ zione più approfondita dell’opera di Flaherty. 22 «Quanto a me, io continuo a credere nel cinema che racconta, ossia nella con­ venzione per cui il montaggio trasceglie dai piani-sequenza infiniti che si possono gi­ rare, i tratti significativi e valevoli» (Pasolini, 1991, p. 254). La polemica di Pasolini contro il cinema sperimentale degli anni sessanta (tra cui Andy Warhol e Jonas Mekas, anche se non viene esplicitamente nominato) è evidente nel saggio I segni viventi e i poeti morti raccolto in Empirismo eretico (Pasolini, 1991, pp. 250-255), che si conclude: «Ma che orrore! Nel futuro la poesia del cinema non potrà essere che espressionistica, macro-pop, deformante, gigantesca, angosciosa, allucinogena? [...] Non credo a un cinema di poesia lirica ottenuta attraverso il montaggio e l’esaspe­ razione della tecnica» (Pasolini, 1991, p. 255). 23 Per il concetto di etnografo come traduttore si veda MacDougall (1969-70, p. 19). L’idea del piacere scopofilie© è di Mulvey (1975, p. 15). Sul rapporto di potere, e le connessioni con la pornografia, rintracciabile nel film etnografico tradizionale, vedi Nichols, 1991, pp. 201-228. 24 Sul testo di Moravia vedi Rumble, 1993, pp. 195-197. 25 Antonio Sichera (1997, pp. 11 -12) sottolinea l’importanza del viaggio africano nel­ l’evoluzione artistica di Pasolini rintracciabile nella raccolta Poesia in forma di rosa. 26 «Ho scritto i miei romanzi tardi e perché mi sono trovato in situazioni “nuove” in cui l’ambiente era soprattutto “romanzesco” per me. Scrivere romanzi per me è signi­ ficato vivere nella scrittura la situazione romanzesca dell’agnizione dell’altrove. Non escludo che questo nella mia vita possa succedere un’altra volta. Ma è difficile, perché gli ambienti in Italia non sono molti: quello dei privilegiati, quello borghese e piccolo borghese, quello operaio, quello contadino e sottoproletario. L’unico ambiente che non conosco fisicamente, per partecipazione diretta, per coazione, è l’ambiente operaio. Dunque è quest’ultimo che potrebbe farmi rivivere una situazione romanzesca e far­ mi di conseguenza ritrovare il diritto di essere narratore» (Anzoino, 1974, pp. 1-2).

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3. Fare sopralluoghi, fare cinema: la produzione documentaristica

3.1 Pasolini artista-etnografo: Sopralluoghi in Palestina (1963-64) e Appunti per un poema sul Terzo Mondo

Il primo esperimento di Pasolini con quello che diventerà un nuovo genere avviene dopo il primo viaggio in Palestina nel 1964. Mi sem­ bra utile, per meglio capire a che tipo di operazione culturale ci tro­ viamo di fronte, offrire una definizione di queste pratiche filmiche: et­ nografia sperimentale. Prendo in prestito il termine dal volume epo­ nimo di Catherine Russell, in cui l’autrice definisce questa pratica ibrida come un’incursione metodologica dell’estetica nel campo del­ la rappresentazione culturale, una collisione di teoria sociale e speri­ mentazione formale nata dal dibattito in corso sulla «critica dell’au­ tenticità» (Russell, 1999, pp. XI-xn). Queste due discipline - l’etno­ grafia e la rappresentazione artistica - sono state da sempre tenute se­ parate. Da una parte l’etnografìa, con le sue pretese di esattezza scien­ tifica e l’interesse nel tradurre costumi culturali per le platee occi­ dentali, dall’altra il film sperimentale e d’avanguardia interessato a rompere le tradizionali convenzioni narrative del cinema narrativo e a sperimentare strutture e forme fìlmiche. Queste due tradizioni modem(-ist)e spesso si sovrappongono nel lavoro di molte nuove figu­ re del mondo artistico, ribattezzate “artisti-etnografi” (Russell, 1999, p. 7). Nella loro doppia poetica, questi artisti hanno multiple finali­ tà: produrre film e video che hanno come oggetto di studio l’Altro culturale (il non-occidentale) e continuare dal punto di vista stilisti­ co la tradizione della sperimentazione, tipica del film d’avanguardia. Molti di questi film-maker rientrano nel campo degli studi postcolo­ niali, in quanto si adoperano per affrontare problematiche connesse alla rappresentazione stereotipizzata dell’alterità.1 Tra i molti artisti che hanno cominciato a operare negli anni novanta, Tracey Moffatt,

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di origini aborigene australiane, dichiara il suo debito verso Pasolini, in particolare verso Accattone e Edipo re.2 Le sue opere si occupano soprattutto di problemi connessi al razzismo, in particolare facendo ampiamente riferimento alla sua storia personale di aborigena cre­ sciuta in una famiglia bianca. In Night Cries: A Rural Tragedy (1992), per esempio, vediamo la ricostruzione altamente stilizzata di una sce­ na familiare che ritrae un’anziana donna bianca e una giovane abori­ gena che la assiste. La scenografia deve tanto al teatro e alla pittura quanto alla storia del film, in particolare in alcuni dettagli caravag­ geschi che conferiscono alla scena una strana aria di photo tableaux (Cooke, 1998, p. 24). La radice pasoliniana del lavoro dell’artista au­ straliana è visibile, dal punto di vista stilistico, nell’antinaturalismo teatrale delle riprese frontali su uno sfondo fìsso «come una pala d’al­ tare» (come scrive Pasolini, 1993, p. 392), e nell’uso della pittoricità delle immagini; dal punto di vista tematico nella scelta di soggetti marginalizzati dalla società a causa della loro situazione economica o della loro pelle. Allo stesso modo in cui Pasolini inseriva queste te­ matiche di investigazione culturale all’interno di un prodotto artisti­ co completo, così Moffatt, nonostante i suoi lavori siano esposti in musei e apprezzati per lo stile, continua a pensarsi come un’etnografa per il modo in cui combatte per cercare di presentare una cultura all’altra (in questo caso la cultura meticcia aborigena e il mondo oc­ cidentale), affrontando problemi tipici di una situazione di postco­ lonizzazione come quella vissuta dalle tribù native australiane. Ciò che distingue i documentari “orientali” di Pasolini è senz’altro da ricercarsi nel processo di avvicinamento alle realtà altre che già Gualtiero De Santi definiva «cinema antropologico», cogliendo in parte quella ben specifica «estetica del sopralluogo» in cui Pasolini dava «risalto ai corpi e al reale» (De Santi, 1983, p. 49). Assieme a questo è importante sottolineare l’aspetto della sperimentazione vi­ siva presente fin da subito nel Pasolini regista ed evidente nel suo sti­ le innovativo.3 La natura ibrida di questa serie di “Appunti” riman­ da alla nozione pasoliniana di “cinema di poesia”, un cinema libero dalle direttive rigidamente descrittive del documentario tradiziona­ le e indirizzato verso il documentario creativo. Pasolini può senz’altro essere associato con un gruppo di precur­ sori dell’etnografia sperimentale con la creazione del genere degli “Appunti”. Mentre si trovava in Palestina in cerca di location per II

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Vangelo secondo Matteo, un cameraman accompagnava il piccolo gruppo di viaggiatori.4 Il viaggio si svolse dal 27 giugno all* 11 luglio 1963. Ad accompagnare Pasolini, oltre allo staff tecnico, due sacer­ doti della Pro Civitate Christiana, associazione religiosa postconci­ liare con sede ad Assisi, con cui Pasolini era in dialogo da alcuni an­ ni. Ritornato a Roma, Pasolini decide di montare il materiale, di ag­ giungervi la sua voce fuoricampo e di farne una specie di diario di viaggio, con parti di conversazione in diretta, in particolare con don Andrea Carraro che lo accompagnava nel viaggio. Il materiale riesce a trovare una sua unità interna nel tema centrale di Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, e cioè nella modernità del paesaggio che non si prestava a essere usato per le riprese. Lo spet­ tatore è condotto lungo il percorso, incontrando arabi ed ebrei che vivono nei kibbutz. Le produzioni degli anni a venire saranno un’ela­ borazione di questo primo esperimento. Perché Pasolini era così attratto da questa pratica filmica che suc­ cessivamente prenderà il nome di “Appunti”? L’idea era così inte­ ressante che Pasolini sviluppò un progetto per un vero e proprio lun­ gometraggio che si sarebbe dovuto intitolare Appunti per un poema sul Terzo Mondo, costituito da cinque episodi della serie degli “Ap­ punti” da girarsi in India, Africa, nei Paesi arabi, in America latina e nei ghetti neri degli Stati Uniti. Oltre ad alcune ragioni pratiche trovare le location adatte ai suoi film -, ritroviamo motivi ideologici e politici. Come spiega Pasolini: Il sentimento del film sarà violentemente e magari anche velleitariamen­ te rivoluzionario: così da fare del film stesso un’azione rivoluzionaria (non partitica, naturalmente, e assolutamente indipendente) [...] L’im­ mensa quantità di materiale pratico, ideologico, sociologico, politico che viene a costituire un film del genere, impedisce obiettivamente la mani­ polazione di un film normale. Esso seguirà dunque la formula: “Un film su un film da farsi” [...] Ogni episodio sarà formato da una storia, narra­ ta per sommi capi e attraverso le sue scene più salienti e drammatiche, e dai sopralluoghi per la storia stessa (interviste, inchieste, documentari ecc.) [...] Stilisticamente il film sarà dunque molto composto, comples­ so e spurio: ma a semplificarlo provvederanno le nudità dei problemi trattati e la sua funzione di diretto intervento rivoluzionario. (Mancini e Perrella, 1981, p. 7)

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La poetica dell’etnografìa sperimentale è chiaramente attestata da Pasolini stesso in questo passaggio. A delimitare il terreno dello spe­ rimentalismo ritroviamo termini tipici del pastiche pasoliniano come “composto”, “complesso" e “spurio”. Il valore politico dell’opera­ zione è palese nel «diretto intervento rivoluzionario», che si attuerà nel tentativo di analizzare le culture visitate nel corso delle riprese. È proprio attraverso questo specifico canale, che possiamo chiamare della pedagogia rivoluzionaria, che la confusione apparente e la com­ plessità del materiale presentato trova una sua leggibilità e coerenza interna. Il genere degli “Appunti” mostra il tentativo di Pasolini di imporre uno sguardo artistico sul Terzo Mondo senza perdere il con­ tatto con la realtà del soggetto rappresentato. Come scrivono Man­ cini e Perella: [...] il “fare sopralluoghi” - che ha interessato la vita di Pasolini oltre che la “preparazione” del film - ha risposto all’esigenza angosciosa dell’intel­ lettuale di interpretare, di stabilire, e praticare una “semiologia del mon­ do e della vita”. Si è trattato di andare a verificare lo snaturamento e l’alie­ nazione culturale e sociale prodotta dal neocapitalismo - su scala mon­ diale - col passaggio dal mondo contadino al mondo industriale. Mentre nella civiltà industriale cade ogni differenza tra il qui e l’altrove, poiché ogni luogo diventa solo un luogo di transito e il viaggiare uno spostarsi nel non-luogo della velocità, PPP fa emergere differenze etniche e sociali, per­ mette che si dia alla visibilità sociale la materialità e l’onirismo dei luoghi. (Mancini e Perella, 1981, p. 277)

La materialità, la fedeltà alla natura, alle persone, alle cose si in­ contra, a questo strano crocevia etico-estetico, con l’oniricità del ci­ nema vissuto come sperimentazione. E qui che la poetica di Paso­ lini di fronte all’Oriente trova la sua giustificazione politica ed este­ tica. La realtà viene redenta non attraverso la sua rappresentazione oggettiva, ma con un approccio sperimentale alla tecnica docu­ mentaristica. Nel saggio La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura” (Pasolini, 1991, p. 188) Pasolini teorizza che la sceneggia­ tura, “lo sceno-testo”, sia un genere spurio che si sistema ontologi­ camente tra due mondi: quello scritto e quello visuale.

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La poetica del “da farsi”

Come nota Bertini (1979, p. 77) lo stato “tra” della sceneggiatura, il suo essere “altra” struttura, è ovvia metafora della poetica contami­ nata di Pasolini. Allo stesso modo, il genere degli “Appunti” e dei “Sopralluoghi” si pone all’incrocio di varie convenzioni filmiche: la ricerca delle location, tipica di ogni regista che rifiuti il set; la speri­ mentazione visiva dell’artista liberato dalle imposizioni della con­ venzione narrativa; e infine il documentario etnografico visto sia co­ me diario di viaggio sia come ricerca culturale dei paesi visitati. Ci tro­ viamo di fronte a una forma di sperimentalismo fondamentalmente linguistico collegabile a quella che Eco negli stessi anni chiamava “opera aperta” (nel volume eponimo del 1962), e che qui possiamo definire, usando la terminologia pasoliniana, come poetica del “da farsi”.5 Si tratta di opere, nelle parole di Eco, «che devono essere por­ tate a termine dall’interprete nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente» (Eco, 1962, p. 33). Come ha già notato Rumble (1999, p. 358), il “da farsi” per Pasolini rappresenta più di un semplice nonfìnito: si tratta della necessità di creare un’opera dalla struttura flui­ da che rifletta da una parte la visione socio-politica marxista della so­ cietà da farsi (particolarmente utile se si pensa all’Africa degli anni sessanta) e dall’altra quella che Eco, riferendosi al teatro di Brecht, chiama “pedagogia rivoluzionaria” (Eco, 1962, p. 45). Ancora Eco chiarisce che quella dell’opera aperta È la stessa concreta ambiguità dell’esistenza sociale come urto di proble­ mi irrisolti ai quali occorre trovare ima soluzione. L’opera qui è “aperta” come è “aperto” un dibattito: la soluzione è attesa e auspicata, ma deve ve­ nire dal concorso cosciente del pubblico. (Eco, 1962, p. 45)

Il metodo del “da farsi” è parte integrante di questa dialettica aper­ ta, binaria, e i “Sopralluoghi” rientrano precisamente nella poetica degli “Appunti” (Naldini, 1989, pp. 326-341). I “Sopralluoghi”, co­ sì come altre opere non finite (s’intende, da non confondersi con le incompiute, il non-fìnito) fa parte di questa poetica, che è anche tec­ nica, che è anche ideologia. Sempre nello stesso saggio sulla “struttura”, si nota anche il forte ele­ mento di regressione: la sceneggiatura è struttura letteraria che si muo­

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ve in direzione di una forma «irrazionalistica» (Pasolini, 1991, p. 190), termine con cui Pasolini indica qualcosa di simile al pre-simbolico, se non addirittura al pre-ideologico althusseriano: questo irrazionalismo dà quindi al cinema questa doppia qualità, onirica (nel senso di non causale) e oggettuale. H termine irrazionale è importante in Pasolini perché indica mito, passato e tradizione. Nell’Orertó: Je vedremo co­ me per Pasolini il momento fondamentale della tragedia sia l’incorporamento delle Erinni in Eumenidi, e cioè l’assunzione dell’irrazio­ nale nel razionale, non la sua distruzione.

3.2 . Appunti per un film sull’india (1968) come etnografia sperimentale

Il mediometraggio (35 min.) Appunti per un film sull’india viene presentato alla Mostra di Venezia del 1968 con un altro film di Pa­ solini, Teorema. La bagarre suscitata dal controverso dramma bor­ ghese, come era ovvio, offuscò il dibattito sul documentario. Baste­ rà ricordare per sommi capi gli eventi più importanti di quelle setti­ mane del settembre ’68. Infiammano le polemiche: alcuni autori, tra cui Pasolini, occupano il Palazzo del Cinema (e per questo subiran­ no un processo), Pasolini invita i critici a disertare la proiezione co­ me protesta contro l’organizzazione della Mostra. Ma non è tutto: nonostante il film riceva la Coppa Volpi (a Laura Betti quale miglior interprete), e il Premio dell’office Catholique International du Cinéma, la critica, soprattutto cattolica, è divisa. Segue - ormai ima co­ stante della carriera artistica di Pasolini - una denuncia per osceni­ tà da cui fu poi assolto perché il film venne giudicato “opera di poe­ sia” (Schwartz, 1992, p. 254). Del documentario filmato per la televisione con una piccola trou­ pe RAI sembra non accorgersi nessuno allora, e, forse per non essere mai stato distribuito nelle sale cinematografiche, Appunti sembra un film dimenticato dal pubblico e dalla critica.6 Quando si vuole par­ lare del Pasolini documentarista si preferisce il dramma free jazz de­ gli Appunti per un’Orestiade africana, oppure il giro d’Italia dei Co­ mizi d’amore (1964). Come altri documentari, “il film su un film da farsi” finisce al meglio “fuori orario” nel palinsesto ghezziano di RAI TRE: Because the night belongs to lovers...

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Molti critici non hanno colto la connessione tra questo primo do­ cumentario e la successiva produzione pasoliniana, in particolare il fatto che esso «anticipi e preannunci» l’interesse «nel mito e nella nostalgia dei popoli perduti» (De Giusti, 1983, p. 100). Il documen­ tario Appunti per un film sull’india diventa di notevole importanza nello spiegare e ribadire i motivi del passaggio di Pasolini dalla lette­ ratura al cinema: la chiamata nazionalpopolare verso il nuovo me­ dium di massa, e la rinnovata tensione verso il reale. Nel 1967 Paso­ lini toma in India a saldare un debito lasciato in sospeso con il suo pri­ mo viaggio e il fallimento della raccolta di L’odore dell’india. Di nuovo in India Appunti per un film sull’india fu realizzato nel 1968 da Pasolini e una piccola troupe della RAI (più Ninetto). Come è tipico nel genere de­ gli “Appunti”, il film vive una situazione spuria tra due diversi regi­ stri - l’artistico e il documentaristico -, ed è nella tensione e nel pa­ stiche tra i due che deve essere analizzato per poter capire le strategie retoriche che lo dominano. Nella sua narrazione interrotta, nella vo­ ce fuoricampo che spiega e ripete interviste svolte, nell’altemarsi di belle inquadrature e di riprese cinéma vérité, la struttura di Appunti per un film sull’india è contaminata visivamente e narrativamente. Una delle prime scene è un chiaro esempio di questa tecnica in cui documentarismo e poesia si intersecano. Dopo che i titoli di testa sono passati sull’inquadratura fissa di un volto indiano (scopriremo dopo che si tratta di uno dei possibili maharajah per il futuro film da farsi), veniamo precipitati nella realtà dell’india con tre successive inqua­ drature: una carrellata in avanti verso il Gate ofIndia, una verso la se­ de del Parlamento indiano e un primo piano della bandiera naziona­ le. Queste inquadrature ci portano indietro nel recente passato del­ la dominazione coloniale e dei moderni simboli dell’indipendenza indiana, alternate nel montaggio con riprese del più tipico orrore in­ diano. Al Gate ofIndia si succedono le immagini di un avvoltoio che divora un cadavere, dopo il Parlamento vediamo un uomo senza braccia che mendica per strada, dopo la bandiera si vede un fedele islamico pregare inchinandosi ripetutamente e freneticamente. Ogni scena si presta a una evidente interpretazione: la colonizzazione bri­ tannica diventa l’avvoltoio che priva il paese delle sue risorse, la de­

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mocrazia e l’uomo che mostra i moncherini sono il simbolo di una transizione diffìcile e incompleta, e la modernità della bandiera, em­ blema del nuovo patto sociale di una democrazia liberale, è contrap­ posta all’irrazionalità di ataviche pratiche religiose. Questa sequenza è per molti aspetti una dichiarazione di poetica. Stilisticamente e ideologicamente ambigua nel modo in cui la realtà delle cose (il Gate of India, la bandiera) è contaminata dalla tecnica di montaggio per cui immagini da contesti differenti vengono ag­ giogate nella stessa sequenza (gli avvoltoi, lo storpio e il fedele), que­ sta scena crea un pastiche dove realtà e commento (visivo) sulla real­ tà diventano inseparabili. Pasolini ricorre per questo incipit alla ci­ tazione di una tecnica anti-neorealista di smascheramento del di­ spositivo cinematografico, il montaggio dialettico ideato e speri­ mentato da Ejzenstejn in particolare negli anni venti e trenta, per rendere palese il messaggio politico di “deontologizzazione” che è parte integrante del suo cinema, e per sottolineare l’autoreferenzialità del prodotto cinematografico. Le prime immagini di Appunti presentate in questo modo, già glossate, forzano lo spettatore a met­ tere in dubbio fin da subito il contenuto di verità del testo filmico. Come nota Page, per potere riscoprire la realtà Pasolini riporta il ci­ nema indietro alla realtà della sua lingua con la problematizzazione della perdita e dell’assenza del reale, piuttosto che con il creare un’il­ lusione della sua esistenza (Page, 1998, p. 19). Il cinema di Pasolini e il genere degli “Appunti” si salvano dalla banalità di un poema ro­ mantico in onore dell’irrazionale e del primitivo grazie a un forte im­ pulso metalinguistico, per creare al contrario un cinema intensa­ mente razionale e intellettuale.7 Sull'Oriente

L’Oriente (e la storia dell’orientalismo occidentale) è ben presente a Pasolini in questo secondo viaggio indiano. Mentre il reportage del’Odore dell’india si presta, per i suoi toni espressionisti - per non di­ re semplicistici - a forti critiche da una prospettiva postcoloniale (co­ me si è detto nel cap. 1.5), in questo secondo lavoro Pasolini si rende conto della necessità di problematizzare il suo approccio sia al con­ tenuto sia allo stile del film. Il montaggio iniziale del film, teso a sot­ tolineare la rappresentazionalità delle immagini, e quindi indiretta­

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mente a commentare sullo stato del rapporto tra realtà e realismo della rappresentazione, implica che le immagini sono “reali”, e sono impresse sulla pellicola allo stesso modo in cui la lingua scritta ripro­ duce sulla carta la lingua parlata (Pasolini, 1991, pp. 198-226). Per Pa­ solini esiste un realismo semiotico, cioè la possibilità di rappresenta­ re la realtà in quanto tale, ma solo tenendo presente che la “realtà” è già codice, segno, cultura, o, secondo un’interessante idea di Rohdie (1995, p. 9), di un realismo “citazionale”, costruito cioè citando im­ magini già esistenti (si veda il cap. 2.3). In Appunti per un film sul­ l’india sperimentiamo qualcosa di simile e opposto: la seconda sce­ na del film ci mostra un’inquadratura di Pasolini con in mano un grosso volume, aperto, di stampe indiane (rivedremo un primo pia­ no ravvicinato di queste immagini nella quarta scena). Questa in­ quadratura è sistemata all’inizio del testo come “certificato di garan­ zia”, a testimoniare la presa di coscienza da parte del regista dell’Oriente come invenzione occidentale (secondo la definizione di Said, 1999, p. 1). Questa lenta panoramica dal basso in alto è ac­ compagnata dalla voce fuoricampo che ricorda: «Io non sono venu­ to qui per fare un documentario, una cronaca, un’inchiesta sull’india, ma per fare un film su un film sull’india (Pasolini, 1968, p. I).8 Ne­ gando allo spettatore, almeno a parole, il piacere voyeuristico del­ l’osservazione della cultura “altra” - non è un documentario - e allo stesso tempo dichiarando di essere conscio dell’Oriente come co­ struzione intellettuale (e le stampe sono una forma di memoria attra­ verso cui l’Occidente accede all’Oriente), Pasolini vuole porsi al di là della tradizione del diario di viaggio esotico. Ma allo stesso tempo questa immagine, che ricorda nella sua teatralità quella di certi ri­ tratti del Cristo o di santi che mostrano il cuore sanguinante, vuole mostrare al pubblico le sue debolezze, le sue ferite di italiano bor­ ghese impotente di fronte alla tradizione che ha formato il suo modo di pensare e di immaginare l’india.9 È per questo che Pasolini non fa un documentario: crea, invece, e costruisce una realtà che tiene pre­ sente i rottami di vecchi stereotipi e i pezzi di immagini già viste. So­ lo così può emergere, per Pasolini, un’immagine reale dell’india. Questo “film su un film” - presentato dall’autore come una modesta serie di sketch, appunti, buttati giù sulla pellicola senza particolari pretese (né una cronaca, né un documentario, né un’inchiesta), fini­ rà per diventare una delle più interessanti meditazioni di Pasolini sul­

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l’alterità e sulla rappresentazione, mentre dal punto di vista stilistico sarà uno dei momenti più alti di sperimentazione formale. Come ho detto, Pasolini non era interessato a nascondere la natura paradossa­ le dei suoi metafìlm, quanto piuttosto a renderla evidente, e anzi a far­ la esplodere. La sovrapposizione dell’idea di Oriente, l’oniricità di certe immagini (soprattutto nei primi piani dei volti raccolti per stra­ da), e la dimensione realistica delle interviste danno forma ai deside­ ri documentaristici e artistici dell’autore. Questi volti pasoliniani, co­ sì tipici della sua cinematografìa, sono infatti, allo stesso tempo, le fac­ ce reali dell’india e la proiezione dello sguardo del regista sull’india, il prodotto della sua visione precostituita, mediata, dell’india. Lavo­ rare sotto l’egida del “sopralluogo” permette a Pasolini di ritrarre gli indiani senza ridurli a meri “tipi” (in senso lukacsiano) e stereotipi (in senso etnografico) di ima cultura, dove spesso vediamo l’attore so­ dale individuale diventare un esempio di qualche teoria etnografica (Russell, 1999, p. 33).

Film su un film, metafìlm, due film (forse tre) H soggetto di Storia indiana10 di Pasolini, breve dattiloscritto reperi­ bile al Fondo Pasolini e ora ripubblicato in Per il cinema (Pasolini, 2001, pp. 1075-1078) racconta di «un maragià il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’india); e, dopo l’in­ dipendenza, sempre idealmente, cioè implicando i problemi moder­ ni dell’india, la famiglia di questo maragià scompare perché i suoi membri muoiono ad uno ad uno di fame durante una carestia» (Naldini, 1989, p. 326). Pasolini parte dall’Italia per controllare se è ancora possibile, in In­ dia, raccontare una tale storia di devozione, o se l’india moderna non offre più gli elementi morali e fisici necessari per raccontare una pa­ rabola del genere. Lo spunto dunque, come nei Sopralluoghi per il Vangelo, è quello della verifica, dell’investigazione delle giuste loca­ tion per il film. E come già in Sopralluoghi, vedremo che Pasolini non si limiterà a questo semplice-lavoro di scouting. Altre emergenze riaf­ fiorano durante il film: politiche, etiche, estetiche. Il film su un film è, strutturalmente, composto da due film che si inseguono, si inter­ secano, si incrociano; da una parte «il film su un film» e dall’altra «i

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temi della religione e della fame» (Pasolini, 1968, p. 1), il tutto sotto quella spinta etnografica-artistica con cui abbiamo cercato di defini­ re l’esperimento. La divisione tra il lato documentaristico (le intervi­ ste, le riprese dei costumi e dei modi indiani) e le prove per le location e la ricerca degli attori (con la loro carica estetica) sono difficili da di­ videre in maniera netta. Le prime due scene del film, che ho appena descritto, danno già un’idea del tipo di magma che il testo presenta. Diffìcile è separare i “personaggi” del film da farsi dalle classiche immagini antropologiche della filmografìa pasoliniana. I due stili si sovrappongono come nella quarta scena, in cui Pasolini intervista un vero maharajah e sua moglie. Pasolini chiede se «un maharajah sa­ rebbe disposto a dare il proprio corpo a una tigre» (p. 4). L’uomo è palesemente imbarazzato, tentenna, così come la moglie quando le viene chiesto che farebbe «se cadesse in miseria, o meglio, se lei fos­ se l’attrice del film in cui facesse la parte della moglie di un mahara­ jah caduto in miseria» (p. 4). La coppia rappresenta la mediocrità della nuova borghesia indiana (contro cui Pasolini si era già scaglia­ to nel reportage L’odore dell’india (Pasolini, 1992, p. 66), intrappo­ lata in una tensione tra l’Europa inglese e il desiderio di mantenere la propria indianità. A questa intervista Pasolini fa seguire altre im­ magini di stampe indiane, questa volta di donne in abiti tradiziona­ li. La realtà esce dal contrasto di questi due mondi: quello cristalliz­ zato delle immagini sul libro, che il maharajah vorrebbe emulare per decoro e tradizione, e la realtà del loro stato intermedio di borghesi postcoloniali. H disprezzo di Pasolini per i borghesi indiani - «marionette scolo­ rite» (Pasolini, 1992, p. 66) - si fa palese nella quinta scena, che co­ mincia con un primo piano di un giovane (lo stesso che abbiamo vi­ sto durante i titoli di testa) mentre la voce fuoricampo di Pasolini esordisce: «Ecco: questo è il giovane indiano che sceglierei per la par­ te del maharajah» (p. 5). Alla mediocrità borghese Pasolini contrap­ pone la bellezza e la “realtà” del giovane preso per strada. Perché questo personaggio sembra a Pasolini più reale (e quindi più adatto per il film) del vero maharajah? Rohdie (1995, pp. 71-77) nota come per Pasolini e per Flaherty l’unico modo di riprodurre la realtà sia at­ traverso la fiction della citazione. Flaherty, per esempio, in Uomo di Aran ri-insegna ai pescatori la caccia con l’arpione, in disuso nel­ l’isola da decenni. La salvage ethnography ricostruisce, sia in Pasoli­

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ni che in Flaherty, la realtà mitica e premodema che tutti e due an­ davano cercando. Il giovane diventa il maharajah del film perché si conforma a una immagine “reale” che Pasolini aveva dell’india, quel­ la che emerge nel film nelle brevi sequenze in cui vediamo immagini tradizionali di stampe indiane. Dopo ima breve ricerca di un possibile palazzo per il maharajah («questo palazzo sul lago, forse un po’ troppo esotico [...] No! Il pa­ lazzo che sceglierei sarebbe questo di Jaipur», p. 5), il film prosegue con un’intervista a Mr Farooqui, il segretario del partito comunista di New Delhi sul problema della sterilizzazione, uno dei sistemi ideati dal governo per ridurre la sovrappopolazione. La spocchiosa figura del­ l’intellettuale di sinistra, elegante e occhialuto, è accentuata dalla ri­ presa dal basso verso l’alto (alla Welles) che dona alla figura un’aria di onnipotente superiorità. Questa scelta stilistica è visibilmente paro­ dica: come più avanti nel corso del film (la sedicesima scena, in cui un gruppo di scrittori e registi dibatte sulla possibilità di girare il film; ve­ di prima immagine inserto fotografico) Pasolini è conscio del distac­ co che separa le masse sia dai borghesi che dagli intellettuali. Se dei pri­ mi si evidenzia la boria fìloocddentale, dei secondi si mostra lo iato che li isola in una torre d’avorio. Ancora una volta il contenuto (il dialogo tra Pasolini e il segretario comunista) non è presentato “oggettiva­ mente”, ma connotato dalla scelta stilistica. Questa critica diventa ancora più evidente se letta in contrasto con la decima scena del film. Pasolini stacca su una ripresa nel villaggio di Bhavani. La m.d.p. a spalla si muove su un prato arso fino a incontrare un vecchio, casualmente “pittorico” con un secchio sulle spalle, in un approccio al personaggio (il movimento in avanti con la m.d.p. a spal­ la) tipico del cinema di Pasolini. Con lui un breve scambio di saluti che conduce la troupe all’interno del villaggio. È finalmente l’incon­ tro con l’india pre-storica, intoccata dal colonialismo e dalla moder­ nizzazione, il luogo del “naturale” che Pasolini andava disperatamente cercando nel Terzo Mondo. La m.d.p. a spalla, con i suoi mo­ vimenti sobbalzanti e la ripresa ad altezza d’uomo, riproduce nel ci­ nema di Pasolini lo sguardo antropologico dell’occhio. Inoltre, evi­ tando di editare la sequenza, il regista riproduce l’aspetto temporale, il tempo necessario ad arrivare a piedi al centro del villaggio. L’antropomorfìtà della scelta stilistica, il tono dolce della voce con cui Pa­ solini si rivolge al contadino, introducono il commento fuoricampo:

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Il villaggio era immerso in una profonda pace meridiana. Una pace prei­ storica che non è priva di una certa dolcezza, quasi elegiaca. Gli abitanti del villaggio ci hanno accolto sorridendo. Con una grande dolcezza e uno spirito di ospitalità addirittura commovente, essi ci hanno accolto e sor­ riso. Ci hanno mostrato come lavorano, quali siano le loro tecniche, che sono le stesse di due, tremila anni fa. (Pasolini, 1968, p. 9)

Dopo questa pausa idillica, si toma al film su un film, e al momento centrale in cui, dopo la morte del maharajah la sua famiglia, povera e dispersa, vaga per l’india. Come film su un film, nella sua doppia, spuria natura formale, Ap­ punti per un film sull’india trova una specie di convergenza esempla­ re nella scena centrale: si tratta di una lunga carrellata da una mac­ china che corre veloce lungo un oleodotto. Lo stile è astratto e futu­ ristico: l’automobile guadagna velocità finché la forma del lungo tu­ bo diventa un’indistinta massa di materia grigia, un’informe macchia di colore, un dipinto astratto in movimento, un’immagine dove non si distinguono quasi più i contorni di terra e cielo. A questa inqua­ dratura Pasolini sovrappone la sua voce fuoricampo che spiega, di­ datticamente, al pubblico i radicali cambiamenti nella storia indiana da rurale ad agricola. La prima parte del film [...] rappresenta non soltanto l’india di prima del­ l’indipendenza, ma l’intera preistoria indiana. La seconda parte del film, la storia della famiglia impoverita, rappresenta non soltanto l’anno della Liberazione, ma tutta la storia dell’india moderna. Questi problemi si possono riassumere con una sola parola: industrializzazione. (Pasolini, 1968, p. 10)

fi commento imposto sull’inquadratura dell’oleodotto segna la con­ vergenza dei due generi che animano il film. Per evitare di presenta­ re questo momento con una perfetta coincidenza di immagini e suo­ no - dove si correrebbe il rischio di offrire delle “verità” come dati di fatto allo spettatore -, Pasolini decide di complicare la composizio­ ne dell’inquadratura, contaminandola, sciogliendo i contorni del­ l’immagine in una sorta di quadro astratto in movimento.11 La mas­ sa di materia informe contamina la voce di Pasolini che “spiega” la storia indiana, attacca la sua potenziale riduttività di osservatore co­ loniale e costringe lo spettatore a confrontasi con stimoli emotivi e in­

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tellettuali contrapposti.12 L’occhio imperiale del viaggiatore occi­ dentale, proprio nel momento di imporre la sua visione storica sul­ l’altro, perde di senso storico, cronologico e deduttivo. 13 La piccola storia dell’india della voce fuoricampo, la corsa lungo il profilo della modernità, rappresentato dall’oleodotto come effet­ tivo oggetto metonimico dell’industrializzazione indiana e la scelta stilistica del regista di privare lo spettatore di una visione chiara, so­ stituita dalla indefinitezza e ambiguità dell’immagine, sembrano per molti aspetti rispondere alle preoccupazioni di alcuni teorici del­ l’immagine - tra cui Trinh T. Minh-ha - sul contenuto di verità del­ la realtà inquadrata, e sulle conseguenze politiche implicite nell’uso del documentario etnografico per tradurre una cultura per un’altra. Pasolini risponde a queste domande a suo modo, cioè attaccando e mettendo in dubbio la verità stessa del codice della rappresentazio­ ne visuale. Incastrato tra la critica tardo-moderna all’autenticità di ogni possibile rappresentazione della realtà - iniziato dal discorso se­ miotico -, Pasolini trova una fruttuosa risposta nel frammentare il problema nei suoi minimi termini e nel portarlo alle sue estreme conseguenze. Pasolini usa i film per interrogare la realtà, e il Terzo Mondo sembra essere lo scenario perfetto per mettere in dubbio da un “altrove” - la cultura cinematografica occidentale dominante fondata sulla continuità narrativa. L’altro, il marginalizzato, il rifiut(at)o, l’escluso, vengono a rappresentare allegoricamente l’Al­ tro dell’Occidente. Il precario equilibrio stilistico, il mischiarsi dei generi, l’apparente mancanza di ima solida struttura retorica sono te­ stimoni del desiderio di Pasolini di sistemarsi al di fuori del suo mon­ do (l’Occidente) per affrontarlo in maniera critica. Non è certo una sorpresa scoprire come la forma libera degli “Appunti” diventi un vero foro in cui Pasolini si sente libero di esprimersi sull’Italia e sul­ la propria cultura in generale, in particolare nei riguardi della mo­ dernizzazione e della tecnologia. Ilfilm in fumo (letteralmente)

Come per il Vangelo, l’india non offriva a Pasolini le location che ave­ va in mente partito da Roma, ma soprattutto non offriva lo stesso tes­ suto morale che i temi della storia indiana richiedevano: abnegazione, religiosità, disinteresse. Ecco perché il film Storia indiana non si farà,

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ed ecco perché bisogna pensare a questo Appunti per un film sull’in­ dia non più come a «scarabocchi» da riaggiustare in seguito, o come provini per un futuro progetto, ma come un’idea e una realizzazione voluta e completata così come la vediamo. Nel saggio che preparava il grande progetto irrealizzato per un poema sul Terzo Mon­ do, Pasolini detta i parametri di questa serie di film-documentari da svolgersi in ogni parte del mondo (Mancini e Perella, 1981, p. 35). Quando Pasolini va in India nel 1967 ha già in mente per sommi capi come si delineerà il progetto. Gli Appunti per un film sull’india, pur mancando della consistenza strutturale di Appunti per un’Orestiade africana, dove vediamo un vero alternarsi di fiction e documentario, devono essere letti come progetto in sé concluso. H film infatti ha una sua struttura - benché sperimentale e aperta - e una sua conclusione retorica nel funerale. Come nell’OJbre dell’india, il funerale hindi, con il corpo che brucia sulla pira, attrae l’attenzione dell’occidentale. Il film allora, non va in fumo, sulla pira, con i cadaveri indiani. H film sull’india di Pasolini è questo. Mentre il fumo sale verso il cielo, la vo­ ce di Pasolini commenta: «Un occidentale che va in India ha tutto ma in realtà non dà niente. L’India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto. Ma che cosa?» (Pasolini, 1968, p. 16). La frase d’effetto, con­ clusione retorica adeguata, sembra richiedere allo spettatore una spe­ cie di esame di coscienza. Possiamo rigirare la domanda a Pasolini stesso, e chiederci che cosa ha dato l’india al poeta che arriva dal dia­ letto friulano, dalle lezioni all’università di Bologna, dalle borgate ro­ mane. Io credo che la risposta sia nel piacere dello spaesamento offerto dal viaggio fuori dall’occidente, nel Unheimlich freudiano che fa per­ dere le coordinate di casa, nell’incontro con la «fisicità onirica» (co­ me Pasolini definisce il cinema, in Pasolini, 1991,p. 173) chel’Oriente offre all’occhio del viaggiatore occidentale, nel nuovo senso di li­ bertà formale. Ma ancora: nella nuova responsabilità politica di pre­ sa di coscienza dei problemi del Terzo Mondo, nella spinta rivoluzio­ naria che l’incontro con la povertà dei paesi sottosviluppati rinforza, nella certezza ideologica di investigare un elemento fondamentale del­ la cultura moderna. La materia e il sogno, la realtà e l’attrazione, rap­ presentano la contraddizione - l’ossimoro - alla base del concetto di etnografia sperimentale entro cui ho cercato di circoscrivere il film di Pasolini, nella sua sostanziale ambiguità e completezza.

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33 Esperimento coni’Africa: Pasolini e gliAppwwriper un’Orestiade africana (1969)

Durante la lavorazione di Medea (1969), Pasolini compie un viaggio in Uganda e in Tanzania alla ricerca dei set per un nuovo progetto, un lungometraggio tratto daH’Orestiade di Eschilo da girarsi in Africa. Così Pasolini spiega le motivazioni di questo nuovo esperimento: La ragione essenziale e profonda è [...] che mi sembra di riconoscere del­ le analogie tra la situazione dell’Orestiade e quella dell’Africa di oggi, so­ prattutto dal punto di vista della trasformazione delle Erinni in Eumenidi. Cioè mi sembra che la società tribale africana assomigli alla civiltà ar­ caica greca. E la scoperta che fa Oreste della democrazia, portandola nel suo paese che sarebbe Argo nella tragedia e l’Africa nel mio film, è la sco­ perta della democrazia che ha fatto l’Africa in questi ultimi anni. (Naldini, 1989, p. 341)

Nonostante il lungometraggio così progettato non veda mai la luce, ci resta di questi sopralluoghi un documentario prodotto dalla RAI dal titolo Appuntiper un’Orestiade africana, girato tra il 1968 e il 1969, ma presentato al pubblico solo nel settembre del 1973 alla Mostra del ci­ nema di Venezia. L’opera è composta dal materiale raccolto in tre di­ verse fasi: nella prima, vediamo Pasolini e la sua piccola troupe alla ricerca dei personaggi e delle location del film; nella seconda, il regi­ sta incontra un gruppo di studenti africani dell’università di Roma ai quali proietta le immagini girate in Africa e li invita a commentare il progetto; nella terza parte Pasolini sperimenta una messa in scena della tragedia greca a Roma usando cantanti jazz afroamericani.14 Questa tripartizione è tutt’altro che rigida: non solo le tre diverse fa­ si si alternano e si avvicendano le une con le altre in una successione cronologicamente non lineare, ma a questo materiale Pasolini ag­ giunge in sede di montaggio ulteriori filmati d’archivio relativi alle guerre civili africane. Lo stile «composto e spurio» del documentario (come lo definisce Pasolini, 2001, p. 2681) è programmaticamente evidente nei primi metri di pellicola: nella stessa inquadratura si vedono a destra le pa­ gine aperte di una traduzione in italiano del testo greco dell’ Ore­ stiade di Eschilo e a sinistra una cartina dell’Africa.15 Mentre scor­ rono i titoli di testa, lo spettatore è portato per alcuni secondi a va­

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lutare la fattibilità del progetto: si possono concepire due testi così culturalmente e ideologicamente lontani? Da una parte, la mappa che rappresenta, proprio come miniaturizzazione metonimica, il so­ gno tassonomico coloniale del cartografo imperiale; dall’altra il te­ sto greco, la tragedia studiata a scuola e poi tradotta, rinegoziata e ri­ pensata in quello che ora vuole essere un più vasto progetto di com­ prensione del passato e dell’alterità.16 Quella che sembrava una sem­ plice dichiarazione poetica d’intenti da parte di Pasolini - la messa “in visione” del progetto di “tradurre” YOrestiade in Africa - si tra­ sforma, a una più attenta analisi, nella presentazione al pubblico di un vitale dilemma personale e politico: il progetto pasoliniano di fa­ re “cinema di poesia”, unendo antropologia e sperimentazione ci­ nematografica.17

Il metodo in Africa La prima immagine di girato a seguire i titoli di testa del film è quel­ la di un riflesso a cui immediatamente fa seguito la narrazione fuori­ campo dell’autore: «Mi sto specchiando con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana» (Pasolini, 2001, p. 1178).18 La sequenza è sintomatica del metodo pasoliniano di avvici­ namento all’Altro: la partecipazione diretta e autoriflessiva dell’au­ tore. Lo spettatore è infatti messo di fronte a un’altra immagine dop­ pia, non più, come nel caso del libro e della mappa, posizionati “a fronte”, l’uno a fianco all’altro, ma in una posizione di mise en ahimè, un’immagine dentro l’altra. L’apparentemente facile coppia della pri­ ma inquadratura si è complicata presentando una serie di istanze con­ densate in pochi secondi. Il modello etnografìco-sperimentale adot­ tato da Pasolini nei suoi documentari orientali prevede la presenza stessa dell’autore: ima forma di etnografìa partecipativa che dovreb­ be garantire uno sguardo libero da velleità colonialiste.19 Al tradizio­ nale documento-verità, come già in Appuntiper un film sull’india, Pa­ solini contrappone la partecipazione diretta del regista/narratore sia come ulteriore prova di veracità dell’incontro con l’Altro, sia come elemento destabilizzante all’interno della narrazione fìlmica, non più concepita come diretto veicolo di informazione scientifica: il “certo realismo” pasoliniano usa la m.d.p. sia come mezzo di conoscenza, sia come forma di riflessione sul dispositivo. Ne dà conferma la voce

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fuoricampo del regista: «Sono venuto evidentemente a girare, ma a gi­ rare che cosa?» (p. 1177).20 L’immagine speculare rimanda a un’altra fondamentale problematica del film a cui si è già accennato, quella della mimesi. Se il teorema da comprovare è la possibilità di tradur­ re Eschilo in Africa nel tentativo di creare un’analogia tra le due sto­ rie, il problema che sorge immediatamente è quello del rapporto tra realtà e rappresentazione, il problema cioè della verità attraverso le immagini. La risposta credo stia nell’analisi approfondita della prima sequenza. Assieme all’immagine riflessa del regista, notiamo i pove­ ri oggetti della vetrina, la merce in vendita (vestiti, libri, foto di Mao) e allo stesso tempo un enorme albero dalle larghe fronde che si trova nella strada esattamente dietro alla troupe cinematografica. La real­ tà africana emerge da questo singolo fotogramma: politica e natura, economia e storia, compresse in pochi metri di pellicola. È lo stesso narratore fuoricampo a spiegare il problema: «Ho scelto per ì'Orestiade ima nazione africana che mi sembra tipica, una nazione socia­ lista a tendenze, come vedremo, filo-cinesi, ma la cui scelta non è an­ cora evidentemente definitiva, perché accanto all’attrattiva cinese c’è un’altra attrattiva non meno affascinante: l’americana, o per meglio dire neocapitalista» (p. 1177). L’immagine fortemente ossimorica, ri­ badita dal narrato, condensa il problema degli Stati africani di re­ cente decolonizzazione e la dialettica politica in corso. Il nuovo e l’antico, l’arcaico e il moderno, la preistoria e la nuova Storia, sono riassunti nel momento stesso in cui viene fatto esplodere il problema semiotico ed epistemologico del film, a cui l’immagine riflessa, spe­ cularmente en ahimè, dà una risposta ambigua. La questione rimane dialetticamente irrisolta: una contraddizione che lo spettatore deve essere in grado di sostenere per tutto il corso del film. Se infatti è la sineciosi la cifra stilistica dell’arte pasoliniana, allora vediamo come nella prima sequenza questa qualità ossimorica venga impiegata da Pasolini per compiere una doppia azione: da ima parte smascherare il dispositivo fìlmico e quindi spiazzare lo spettatore (una Verfremdung brechtiana a cui il regista ci ha già abituato in passato), e dall’al­ tra presentare visivamente il problema culturale e politico della nuo­ va Africa degli anni sessanta. Ancora una volta dunque, sperimenta­ zione artistica e antropologia culturale si muovono in consonanza nel genere degli “Appunti”. Quindi, non una tendenza onirica (cinema come sogno) e una documentaristica (cinema solamente come «lin­

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gua scritta della realtà»), bensì un cinema che è allo stesso tempo di trasparenza assoluta rispetto alla realtà e di poesia: non separate e/o parallele, ma frutto della stessa - seppur contraddittoria - spinta pe­ dagogica.21 Pedagogia pasoliniana che non è mai didatticismo, ma dimostrazione di un processo, di un “da farsi”: l’autoriflessività del genere degli “Appunti”, con il suo senso di non-finito, è esemplare di questo tentativo di non volere dare risposte, ma di problematizzare le domande. Non dunque un documentario su (Africa, India, Pale­ stina, Sana’a), ma un film su un film per (Africa ecc.). Solo così «il di­ retto intervento rivoluzionario», che Pasolini pone alla base del suo progetto Appunti per un poema sul Terzo Mondo, si trasforma da nar­ razione coloniale a esperienza linguistica aperta (in questo caso quel­ la del cinema) e filosofica (la scoperta dell’Altro). I personaggi e i luoghi

La dimensione più chiaramente antropologica del progetto emerge nella ricerca dei personaggi. Quello del casting è uno dei momenti es­ senziali del processo di produzione e organizzazione dei film di Pa­ solini, autore sempre alla ricerca di volti nuovi. Alcuni di questi in­ contri fanno ormai parte di una specie di mitologia pasoliniana: da quello tra il giovanissimo poeta friuliano appena giunto nella perife­ ria romana e un truce Sergio Cittì, al fortuito incontro del giovane stu­ dente spagnolo che darà il volto al Cristo del Vangelo (Naldini, 1989, p. 153 e p. 272). Procedimento non certo inusuale per un regista pronto a sacrificare una prima scelta per il buon esito del film, ma cer­ to idiosincratìca in Pasolini regista, che fa della serendipity una vera scelta programmatica. I volti e i corpi colpiscono la fantasia pasoli­ niana, che così li incorpora nelle sue immagini. Ma se nelle borgate la scelta dei volti soddisfaceva un’esigenza di varietà antropologica e un gusto per certi tratti umani, nel momento in cui ci si trova a ope­ rare al di fuori degli schemi occidentali il processo di selezione deve ora tenere conto delle aspettative orientaliste dello sguardo. Nel Ter­ zo Mondo Pasolini non cerca visi e corpi reali, ma le proiezioni di quei volti di cui ha già impressa l’immagine prodotta dalle sue letture orientali. Si tratta di una «realtà citazionale», come la definisce Rhodhie (1995, p. 71), in cui Pasolini - contraddittoriamente - sostitui­ sce una visione personale alla realtà “vera”. Un chiaro esempio lo si

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vede in Appunti per un film sull’india'. Pasolini si mostra nelle scene iniziali del film con in braccio un libro di stampe indiane; in poche pa­ role, i volti che cerca sono quelli. Per esempio, quando incontra un vero maharajah - bolso, borghese, occidentalizzato - ne rimarrà tal­ mente deluso che deciderà di scegliere per quel ruolo un popolano in­ contrato al mercato. Il realismo pasoliniano messo a confronto con l’Alterità non si vergogna di riappropriarsi di immagini tradizionali e stereotipiche. Per YOrestiade Pasolini riesce più che in altri casi a li­ berarsi dal suo fardello occidentale e a investigare il mondo come gli si presenta. Ad aiutarlo in questo - come spiega Pasolini stesso - vi è senz’altro l’intento del film, il cui carattere è essenzialmente popolare. Quindi vorrei dare un’enorme importanza al coro, al coro che nelle tragedie greche parla all’unisono, fermo sotto il palcoscenico, mentre qui vorrei naturalmente distribuirlo nelle sue situazioni reali, realistiche, quotidiane, (p. 1179)

La «scelta popolare» pasoliniana si concretizza in una serie di inqua­ drature, filmate tra la Tanzania e l’Uganda, che sembrano concen­ trarsi più sul movimento che sui primi piani frontali e statici a cui Pa­ solini ci ha abituato. Gruppi di giovani donne intente a trasportare merci, giovanetti colti in gruppi giocosi: l’aspetto popolare e corale del progetto porta Pasolini anche dentro le case - ne è un esempio la baracca nei pressi del lago Vittoria - per vedere da vicino la realtà abi­ tativa dei personaggi di questo coro da farsi; insomma, «gente colta nel suo daffare quotidiano» (p. 1180). La scelta realistica pasolinia­ na propone anche la questione dell’ambiente: nel film devono emer­ gere le contraddizioni dell’Africa, con i suoi aspetti ancestrali e mo­ derni. Non è un caso che non vi sia inquadratura in cui ossimoricamente passato e presente non si contrappongano tra sfondi e figure in primo piano, abiti e attrezzi da lavoro, edifìci e capanni, e così via in un costante processo fìlmico che cattura la cultura contemporanea africana attraverso l’assidua registrazione del profìlmico.

Riflessioni sull’apparato: l’esempio di Rouch La seconda delle tre parti che compongono YOrestiade africana met­ te direttamente in crisi la struttura stessa del film: in un’aula del­

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l’Università di Roma, Pasolini discute del suo progetto con un grup­ po di studenti africani. Il flusso poetico della prima parte, dove la macchina da presa sonda antropologicamente le varie popolazioni africane incontrate durante il viaggio, si blocca per trasformarsi in un momento di riflessione non solo sulla validità dell’ardito accosta­ mento Africa/antica Grecia, brillantemente reso dalla prima inqua­ dratura del film, ma anche sullo stesso apparato cinematografico. Ancora una volta questa sezione si apre con la presenza di fronte al­ la m.d.p. di Pasolini stesso, che dopo aver mostrato alcune immagi­ ni (le stesse che hanno visto gli spettatori fino a quel momento?) po­ ne domande al gruppo: se il film avesse più senso se fosse stato am­ bientato negli anni sessanta, all’inizio del processo di democratizza­ zione africano, e, soprattutto, in quali zone dell’Africa girare il film. Il gruppo di giovani intellettuali regisce freddamente, e anche con un po’ di ironia, al progetto pasoliniano: l’Africa non è un’unità cultu­ rale e politica, e la democratizzazione non ha necessariamente portato un miglioramento delle condizioni di vita. Insomma, l’incontro con gli studenti non è altro che una sonora bocciatura; i pochi possibili­ sti circa il progetto, sembrano esserlo più per cortesia verso l’intervi­ statore che per vera adesione ideologica. Perché Pasolini ha voluto dunque lasciare questa intervista come parte del film? Perché ha de­ ciso di incorporare nell’opera un possibile segno del fallimento ideo­ logico e politico dell’equazione? Un punto di partenza per una pos­ sibile risposta viene da Pasolini stesso, quando, di fronte a una criti­ ca pressante di uno studente sul fatto che gli europei sembrano os­ sessionati dall’immagine di un’Africa ancora tribale, risponde: «Non bisogna avere paura della realtà» (p. 1182). La replica vuole quindi partire dalla materialità della storia, dai fatti storici nel loro formar­ si, ma si muove poi verso una vera rivendicazione del lavoro dell’in­ tellettuale, del suo diritto di formare ipotesi e cercare soluzioni. In­ vece di giustificare le critiche, Pasolini passa alla fase successiva del­ la sua ricerca dei personaggi. C’è in questo taglio netto, visibile anche a livello del montaggio nel brusco stacco, una certa spocchia intel­ lettuale, indubbiamente, ma anche una rivendicazione forte del di­ ritto di porsi domande, che può anche essere intesa in senso peda­ gogico come uno dei tanti elogi dell’eresia così cari a Pasolini. La scelta stilistica di Pasolini - l’uso di momenti metafìlmici come l’intervista agli “informatori” - è indubbiamente da intendersi come

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un movimento in direzione della nuova antropologia visuale ai suoi esordi negli anni sessanta, nata in ambito francese in particolare gra­ zie al lavoro di Jean Rouch. Proprio uno dei suoi primi film, Cronaca di un’estate (Chronique d’un été, 1961), vede l’antropologo Jean Rouch e il sociologo Edgar Morin per le strade di Parigi durante una torrida estate, nel tentativo di cercare “la felicità” tra operai, immi­ grati africani, gruppi di amici al bar.22 Questo breve documentario, che molti considerano uno dei primi esperimenti di cinema vérité, vede il gesto dell’antropologo che sposta lo sguardo dall’Altro al Sé. Un momento epocale in prospettiva scientifica ed ermeneutica, che apre per il mondo del cinema una nuova fase: quella dell’investiga­ zione della realtà e del reale sotto una prospettiva autoriflessiva (Rouch, 2003, pp. 229-330). L’esperimento di Rouch, che toglie dal piedistallo la figura dell’antropologo-scienziato per re-immergerlo nel quotidiano, è stata giustamente sottolineata da molti (Nichols, 1991, p. 89), in particolare per avere coscientemente evidenziato non solo la presenza fisica del documentarista sulla scena, ma anche per aver reso palese il ruolo del regista nel dare forma nella mise en scè­ ne, al vissuto dei protagonisti e l’inevitabile relazione gerarchica pre­ sente in ogni tipo di contatto antropologico. H messaggio stilistico-politico di Rouch viene prontamente raccolto da Pasolini, se si pensa al­ le tante interruzioni metafìlmiche tipiche del suo cinema, e partico­ larmente evidenti nel suo documentario Comizi d’amore e nel gene­ re degli “Appunti”. Questa scelta (auto)riflessiva dell’Orestiade afri­ cana, posta com’è nel cuore del film, solo apparentemente indeboli­ sce la validità del progetto: in realtà sembra incorporare, anticipan­ dole, le critiche che il film inevitabilmente scatenerà. Dal punto di vi­ sta narrativo, il dialogo in prima persona ribadisce la profonda con­ sapevolezza del regista dei limiti sia del suo ruolo di intellettuale oc­ cidentale, sia di quelli del dispositivo cinematografico. Il «non avere paura della realtà» significa anche non avere paura del cinema come arma di conoscenza e come strumento pedagogico. H film-maker non ferma la cinepresa di fronte alla realtà: semmai la include e la ripro­ pone nel testo. La poetica dell’etnografìa sperimentale si fonde con quella del non-fìnito. Possiamo considerare Pasolini un antropologo tout court? O semplicemente un artista imprestatosi a quella che al­ l’epoca era certo ima nuova scienza alla moda? Allo stesso modo in cui Pasolini usava la terminologia della semiotica allora in auge più

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come spazio di conversazione che come metodo di studio, ecco che il documentario sulle realtà altre diventa l’ennesimo fruttuoso cana­ le di espressione per l’artista Pasolini. Un afroamericano a Roma La seconda parte si chiude su una delle inquadrature più memorabi­ li del film: le Furie, che Pasolini sceglie di rappresentare con degli al­ beri mossi dal vento, sono «le dee del momento animale dell’uomo» (p. 1183). La narrazione fuoricampo prosegue: «Le Furie dell’Orestiade sono destinate a essere sconfìtte, a scomparire. Con esse scom­ pare dunque il mondo degli avi, il mondo ancestrale, il mondo anti­ co; e nel mio film, con esse, è dunque destinata a scomparire una par­ te dell’Africa antica» (p. 1183). A questo momento poetico seguono immagini di repertorio della guerra del Biafra che Pasolini intende usare per il ritorno dei soldati dalla guerra di Troia, a ribadire ancora una volta il tema del rapporto tra l’antico e il moderno presente in tut­ to il film. Ed ecco che la terza parte del film irrompe sullo schermo: «Ma un’improvvisa idea mi costringe a interrompere questa specie di racconto, lacerando quello stile senza stile che è lo stile dei docu­ mentari e degli appunti. L’idea è questa: far cantare anziché far reci­ tare l’Orestiade. Farla cantare per la precisione nello stile del jazz e, in altre parole, scegliere dunque come cantanti-attori dei negri ameri­ cani» (p. 1185). Tutto è permesso nello “stile senza stile” degli “Ap­ punti”, e Pasolini procede sperimentalmente per tentativi: non così casuali come ci vorrebbe far credere. La scelta della musica jazz è di­ rettamente influenzata dall’emergere sul panorama intemazionale dei neri americani all’interno del movimento dei diritti civili. Poco più avanti nella sua narrazione off-screen, Pasolini chiarisce: «È ben chia­ ro infatti a tutti, che venti milioni di sottoproletari negri dell’Ameri­ ca sono i leaders di qualsiasi movimento rivoluzionario del Terzo Mondo» (p. 1185). Con questa dichiarazione politica, in cui Pasolini allarga l’orizzonte della sua ricerca sul contemporaneo dall’Italia, all’Africa e alla comunità afro-americana, si chiude il documentario.23 La conclusione del film è, come ammette lo stesso Pasolini, sospe­ sa: la sineciosi, la contraddizione irrisolta, conclude il film e l’esperi­ mento africano del regista. La ricerca, che si è espressa attraverso i modi e le forme dell’etnografia sperimentale, non chiude il discorso,

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ma lo riapre: il lungo viaggio, che è iniziato nella Grecia antica e che ha portato lo spettatore in Africa e in America, si conclude con l’in­ quadratura finale del film. Un gruppo di contadini e contadine sono curvi sul raccolto mentre una canzone rivoluzionaria sovietica ac­ compagna il loro lavoro. Se le domande non hanno trovato risposte adeguate è solo perché sono più interessanti per Pasolini le nuove domande che questo film ha generato e continua a generare. Si capi­ sce dunque che la doppia poetica del film, che ho definito etnografi­ ca e sperimentale, fa parte del più generale progetto pedagogico pasoliniano di investigazione delle complesse realtà del mondo con­ temporaneo di fronte alle sfide della modernità. Come già in Appun­ ti per un film sull’india, Sopralluoghi in Palestina e Le mura di Sana’a, il genere del documentario orientale è radicalmente trasformato da Pasolini: non più documento che rappresenta la realtà “altra” per il pubblico occidentale, ma meditazione sul soggetto studiato (l’Altro e l’Alterità) e sull’apparato filmico. È proprio questo elemento autoriflessivo a fare dell’esperimento africano di Appunti per un’Orestiade africana un momento fondamentale all’interno della cinematogra­ fìa pasoliniana, e anche un imprescindibile contributo nel dibattito sull’uso e l’abuso del documentario etnografico come documento scientifico; e di conseguenza sul valore epistemologico dell’immagi­ ne nell’era della televisione globale.24

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Note 1 Negli ultimi tempi molti artisti e studiosi si sono occupati di questo tema. Per un riassunto convincente del dibattito vedi Geertz, 1988. 2 Si veda il catalogo della recente mostra Pasolini e noi (Cherubini, 2005). 3 Come molti hanno ricordato (da Bertini, 1979, a Costa, 1989) l’approccio di Pa­ solini al cinema è stato fin da subito eretico nel suo tentativo di rompere con la gram­ matica della tradizione filmica. Tra le tante dichiarazioni sullo stile pasoliniano, le più interessanti mi sembrano le memorie del giovane Bernardo Bertolucci, assistente sul set di Accattone raccolte nel saggio II cavaliere della valle solitaria in Per il cine­ ma (Pasolini, 2001, pp. xm-xvn). Tra i molti studi critici rimane fondamentale Ber­ tini, 1979. Tra le dichiarazioni dello stesso Pasolini trovo utili le Confessioni tecniche raccolte in Per il cinema, pp. 2768-2784, e la bella intervista con Comolli originaria­ mente apparsa sui “Cahiers du Cinéma”, 169, agosto 1965, e ora raccolta in Per il ci­ nema (Pasolini, 2001, pp. 2890-2907). 4 Pasolini ricorda il viaggio nell’intervista con Stack (Pasolini, 1969, p. 73), sotto­ lineando come non vi fosse alcuna intenzione di utilizzare il materiale girato. H film non fu mai realizzato in Africa, e Pasolini troverà un set più biblico nel Meridione italiano, specialmente nella zona intorno a Matera. 5 Una bibliografìa completa sul concetto del “da farsi” si trova in Rumble (1999, p. 361). Si veda anche l’introduzione al volume di Carla Benedetti, in particolare la sua discussione su Petrolio come opera di «eterogeneità costitutiva», mista, come di­ ce Pasolini stesso relativamente alla Divina Mimesis, «di cose fatte e di cose da farsi, di pagine rifinite e di pagine in abbozzo, o solo intenzionali» (cit. in Benedetti, 1998, p. 47). 6 De Giusti nota come «perfino gli studi monografici liquidino l’episodio in poche righe». Lo studioso cita come esempio la critica di Sandro Petraglia contenuta in Pier Paolo Pasolini (1974, p. 99), in cui Appunti viene considerato come «scarabocchi con la mano sinistra, frettolosamente impaginati come opere d’occasione, sui quali vale la pena di soffermarsi solo per ribadire il già detto a proposito dell’inaridimento del­ la grande vena narrativa e del deterioramento dell’ottica ideologica». H recente la­ voro di Rohdie, The Passion of Pier Paolo Pasolini (1995), che dedica un intero ca­ pitolo all’esperienza indiana di Pasolini, ristabilisce l’importanza dell’opera all’intemo dell’opwr pasoliniano. 7 II mostrare la realtà del reale mi ricorda il concetto lacaniano di Reale, come è sta­ to recentemente riletto da Slavoj Ziiek. Proprio Ztèek (1989, p. 44) puntualizza la differenza del concetto di realtà tra Freud e Lacan. Un padre veglia sul figlio morto: si addormenta. A un tratto il figlio gli appare in sogno dicendo: «Papà, non vedi che sto bruciando?». H padre si sveglia e una candela è effettivamente caduta sul letto e un braccio del ragazzo è in fiamme. Per Freud il sogno incorpora la realtà sensoria circostante (l’odore del fumo, i bagliori della fiamma) per riportare la coscienza del padre a svegliarsi nella realtà (nel mondo) e quindi agire, per Lacan svegliarsi nella realtà ci salva dalla vera Realtà, quella del sogno, orribile e inconfrontabile, il kernel impenetrabile dell’inconscio che non vogliamo conoscere, quella dell’imperdonabile responsabilità di sentirsi colpevole della morte. La realtà del mondo è contrapposta

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alla vera realtà, quella dell'inconscio che precede la lingua e il Simbolico. Mi sembra che si possa fare un parallelo tra i due modi di rappresentare la realtà da parte dei rea­ listi e dei formalisti o, come li definisce Bazin, i registi del montaggio e i registi del­ la realtà. I secondi, tra cui i neorealisti italiani, sembrano volere riprodurre il mon­ do nella sua continuità, i primi ricostruirlo attraverso la lingua del cinema, facendo sentire il dispositivo. Pasolini opera a questo livello, mostrando nei suoi film anche la realtà Reale (in senso lacaniano) dell’inconscio e del represso. 8 Da qui in poi il manoscritto sarà citato solo con il numero di pagina tra parentesi. 9 Su certe posizioni pasoliniane di imitatio Christi si veda Rohdie, 1995, p. 68. 10 II film che sarebbe dovuto nascere da questa storia avrebbe dovuto essere com­ posto in parte da episodi di fiction, espressamente girati dal regista (la storia della fa­ miglia raminga), e in parte da scene tratte da Appunti per un film sull’india, in cui le une spiegavano ed esemplificavano le altre. 11 Trihn T. Minh-ha (1986, p. 59) nota come la sincronia suono/immagini sia nel­ la tradizione documentaristica una forma tipica del discorso orientalista teso a pre­ sentare una cultura senza problematizzarla. 12 La voce fuoricampo, la “voce di Dio”, è da sempre il mezzo più comune nel genere documentario per fornire informazioni “vere” al pubblico (Barnow, 1993, p. 118). 13 La nozione di “occhio imperiale” è presa in prestito dal titolo del volume di Pratt, Imperial Eye (1992), in cui l’autrice discute delle forme di visione coloniale im­ plicite nel racconto di viaggio. 14 Vighi (2002, p. 501) legge nella tripartizione del film un diretto riferimento al­ la struttura hegeliana di tesi, antitesi e sintesi, anche se si premura di chiarire che la parte finale, il sogno di Cassandra interpretato da artisti jazz afroamericani, è in ef­ fetti una sintesi mancata, o perlomeno alquanto precaria. Mentre l’ipotesi di uno schema hegeliano comprovato da una visione “sintetica” era già ipotesi sostenuta da De Santi (1983), la struttura retorica del film si presta poco a una rigida tripar­ tizione (hegeliana o meno). Più interessante mi sembra la lettura offerta da Bonan­ no, che senza mezzi termini interpreta il film come un «abbozzo di traduzione fìl­ mica dell’Orbito commentata dalla voce fuoricampo di Pasolini [...] [e] interrotta da tre sequenze: due riprese in una saletta di proiezione e una al Folk-Studio di Ro­ ma, dove Pasolini “professore” riflette per proprio conto e dialoga con alcuni stu­ denti africani sul sacro testo eschileo» (Bonanno, 1995, p. 61). L’idea di una tradu­ zione volutamente frammentata e interrotta mi sembra più in linea con l’ideologia generale dell’opera, e in particolare con i motivi del pastiche e della sineciosi, onni­ presenti in Pasolini, e anche qui visibili sia a livello di stile che di contenuto. In una intervista, già ricordata, con Sergio Arecco, Pasolini commenta: «Io sono contro Hegel (esistenzialmente - empirismo eretico). Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non è più ternaria ma binaria. Ci sono solo op­ posizioni, inconciliabili» (Arecco, 1972, p. 72). 15 H primo incontro con YOrestiade era avvenuto grazie a Vittorio Gassman che aveva commissionato una traduzione della tragedia per il teatro di Siracusa. Sul lun­ go e proficuo rapporto di Pasolini con la Grecia antica si veda Fusillo (1996). 16 Sul rapporto tra cartografìa e colonialismo si veda Pratt (1992) e Clifford (1988).

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17 Per quel che riguarda il concetto di contaminazione e pastiche, se ne fa risalire la prima menzione all’intervista di Pasolini apparsa nel 1964 su “Bianco e nero” dal titolo Una visione del mondo epico-religiosa, in cui Pasolini dichiara di lavorare «sot­ to il segno della contaminazione», e alla conseguente individuazione della “sineciosi” da parte di Franco Fortini come figura fondamentale della poesia di Pasolini (Fortini, 1974, p. 12). 18 D’ora in poi le citazioni dalla trascrizione del film saranno riportate solo con il numero di pagina tra parentesi. 19 Sulla participatory ethnography rimane fondamentale il testo di Clifford (1988). La sincerità dell’etnografo è stata ampiamente messa in discussione negli anni più re­ centi. Fondamentale in questo senso, almeno in ambito italiano, rimane il lavoro di Marco Aime. La critica nordamericana si è dilungata spesso in virulenti e a tratti sconsiderati attacchi sul ruolo dell’etnografo, in particolare sulla scia della divulga­ zione della critica postcoloniale. Rimangono a mio avviso comunque fondamentali i lavori di Said (1979), Pratt (1992) e Russell (1999). 20 A differenza di altri, che relegano il metodo pasoliniano a una forma di narcisi­ smo (Ricciardi, 2000), sono dell’avviso che l’incipit autoriflessivo voglia essere una richiesta, se non un vero e proprio appello al pubblico, perché partecipi come testi­ mone all’evento filmico, allo stesso modo in cui l’autore si mette in gioco in prima persona. 21 Sulla pedagogia pasoliniana si veda Golino (1985). 22 Ferrero ( 1977, p. 51) nota che il film aveva suscitato «interesse e discussione» in Italia. Anche se, in un’intervista del 1965 (Pasolini, 2001, p. 2887), Pasolini dichiara di non conoscere né Marker né tantomeno Rouch, la nuova atmosfera importata in Italia dal cinema vérité è visibile già in Comizi d'amore ( 1964). È chiaro che la lezione di Rouch e Rossellini (il suo In dia Matri Bhumi è del 1959) era già percolata addirit­ tura nelle stanze più infime del cinema popolare italiano. La nuova vena terzomon­ dista del cinema italiano ha infatti tra i suoi tristi precursori gli esperimenti di Cava­ ta e Jacopetti (Mondo cane, 1962; Africa addio, 1966) di cui si occupa Farassino (2000 e 2001). Pasolini mai menziona questi esperimenti di sfruttamento imperialista e co­ lonialista nei suoi scritti, e così anche noi ce ne liberiamo velocemente. 23 Sul rapporto tra Pasolini e la musica jazz si veda il breve saggio di Furfaro (1992) che include un’interessante appendice di musiche e musicisti. 24 Si veda su questo argomento l’introduzione al volume di Russell (1999). Sul rap­ porto tra Pasolini e i media, e soprattutto sull’influenza che il suo fantasma ancora esercita ai nostri giorni, rimane ancora molto da fare.

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Foto di scena scattate durante la lavorazione di Appunti per un film sull’india

4. Le storie “altre”: da Edipo a Sheherazade

4.1 Primitivo libero indiretto Le esperienze cinematografiche nei luoghi altri (Palestina, Africa, India) hanno spinto Pasolini regista in direzioni nuove e inesplorate non solo dal punto di vista prettamente ideologico e politico, ma, come si è detto, anche dal punto di vista stilistico (se si pensa in par­ ticolare al metodo etnografico sperimentale). Si nota subito come la scoperta dell’Altro, la commistione di tecniche narrative tra la fiction e il documentario, l’investigazione della modernità nel corpo vivo del colonialismo e delle prime fasi dell’era postcoloniale, siano ben visibili anche nella scelta di girare Edipo re in Africa. Non più nella forma spuria e ibrida degli “Appunti”, ma come opera per molti ver­ si tradizionale. Perché questa scelta? La fedeltà di Pasolini al rac­ conto (anche se “poetico”) è una delle caratteristiche del suo meto­ do, ed è ben visibile nelle opere cinematografiche. Anche nel mo­ mento in cui sembra saltare nello sperimentalismo stilistico (si pen­ si alla parte centrale di Appunti per un film sull’india, o al finale jazz dxAI’Orestiadé), Pasolini rimane lontano dall’avanguardia america­ na, il tanto detestato “macro-pop” di Warhol o l’astrattismo di Stan Brakhage, per arrivare a una poesia “esiodea”, esemplificata dal­ l’opera spuria di Flaherty.1 Sulla forma della narrativa pasoliniana, e sulle sue profonde contraddizioni interne, basta rileggere alcune in­ terviste di quegli anni. Se Pasolini dichiara nel 1969: «i miei film so­ no opere estremamente chiuse, perché la mia formazione letteraria iniziale mi porta sempre a fare quella che si chiama “opera chiusa”» (Pasolini, 2005, p. 57), in un saggio del 1966 spiega di essere profon­ damente influenzato dalla forma a “canone sospeso” brechtiana e dall’“opera aperta” di Eco (Pasolini, 1991, pp. 139-140). Certo è che Edipo re segna il primo incontro tra la forma-lungometraggio e il Ter-

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zo Mondo, e un primo allontanamento di Pasolini dall’etnografia sperimentale degli “Appunti”: allontanamento formale, non certo dall’ideologia che informava queste opere. In questo capitolo si in­ tende analizzare i due lungometraggi che più direttamente pertengono allo scopo di questo volume: in Edipo re e il Fiore ritroveremo molti degli aspetti ideologici ed estetici dei primi film, anche se ab­ bozzolati dentro la narrazione di “storie altre”.2

4.2 Edipo e Freud La scelta di mettere per immagini il mito edipico assume nelle di­ chiarazioni di Pasolini l’immediatezza della necessità autobiografica. A Stack (Pasolini, 1969, p. 120), Pasolini parla di questo film come del più autobiografico, tanto è vero che più che una lettura freudia­ na di Edipo possiamo dire trattarsi di una rilettura freudiana del mi­ to greco applicata alla biografìa dell’autore. Lo stesso Pasolini nota, imbeccato da una domanda di Stack (Pasolini, 1969, p. 119), come il parricidio più che l’incesto sembri essere al cuore della traduzione in immagini del mito. Anche se l’importanza della figura patema, il se­ vero militare di carriera membro del partito fascista e prigioniero di guerra in Africa, è stata investigata da vari biografi - e lo stesso Pa­ solini non lesina nelle sue dichiarazioni di commentare sulla profon­ da natura conflittuale del loro rapporto - Pasolini sembra trascendere nelle sue dichiarazioni il mero dato autobiografico per trasportare l’analisi dell’opera a livello politico e ideologico: Ciò che produce la storia è la relazione di odio e amore tra il padre e il fi­ glio, il che naturalmente mi interessa più che il rapporto tra il figlio e la ma­ dre [...] che non è un rapporto storico [...] èun rapporto interiore,una re­ lazione privata, cioè fuori dalla storia, invero è meta-storica e perciò ideo­ logicamente improduttiva. (Pasolini, 1969, p. 120)

A differenza di chi legge il film come ima lunga divagazione esisten­ ziale, la dichiarazione di Pasolini ci costringe a trascendere l’inizia­ le volontà biografica per leggere Edipo re in termini pedagogici, al­ l’interno di quel piano di “diretto intervento rivoluzionario” che l’autore assegnava agli Appuntiper un film sul Terzo Mondo. Mentre

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sulla questione della donna e più in generale a proposito della cate­ goria del femminile all’interno dell’opera pasoliniana ci sarebbe mol­ to da dire (e l’argomento è stato a dire il vero snobbato dalla critica, in particolare quella femminista), la volontà di Pasolini di sottoli­ neare l’aspetto patriarcale di questo film suona da campanello d’al­ larme per letture rigidamente esistenziali-biografiche. In particola­ re la scelta terzomondiale per il set del film, il deserto marocchino, non può non essere letta nell’ambito del piano marxista di com­ prensione della realtà del neocapitalismo postcoloniale. Ciò che emerge nella dichiarazione a Stack è la connotazione ideologica e po­ litica con cui Pasolini interpreta il rapporto tra il mito e il vissuto. Si ritorna a quella dialettica irrisolta, la “sineciosi” fortiniana (Fortini, 1974, p. 12), intesa come spinta contraddittoriamente propulsiva del pensiero pasoliniano, elevato dall’ambito familiare a quello so­ ciale, politico e storico: il personale, per Pasolini, è sempre politico. Edipo re si presenta a un tempo come autobiografìa mitizzata del suo autore, ma anche come narrazione sulla necessità storica del conflitto tra le generazioni e possiamo aggiungere, marxianamente, tra le classi. In particolare se si tiene presente che il film nasce du­ rante il periodo di ribellione studentesca del ’68 viene facile pensa­ re a questo Edipo africano come a un commento sulla situazione ita­ liana. Pasolini non è nuovo a questa antropologia dal metodo com­ parativo (Maraschin, 2004, p. 191), che va dal raffrontare i contadi­ ni africani ai neourbanizzati della provincia romana, o le villette a schiera della costa laziale con quelle della borghesia indiana. Ma questo procedere per confronti tra culture e continenti è il modo in cui anche ideologicamente si è evoluto il tentativo di capire il Terzo Mondo: portare YOrestiade in Africa, per esempio, Medea in Cap­ padocia, il Cristo a Matera. Questo procedimento per confronti, certo a rischio di banali semplificazioni, è senz’altro vivo e presente in Edipo re: tutti i temi del ’68 - e soprattutto il conflitto di classe e conflitto generazionale (i padri contro i figli) - sembrano essere di­ rettamente affrontati da Pasolini. Che gli argomenti fossero all’ordine del giorno dell’agenda pasoli­ niana ce lo testimonia una delle più note poesie di quegli anni scritta nel marzo 1968 proprio durante la produzione del film, i “brutti ver­ si” di “H pei ai giovani” (pubblicata originariamente su “Nuovi Ar­ gomenti” nel numero di aprile-giugno 1968). Proprio qui compaio­

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no alcuni interessanti raffronti tra la situazione italiana, il Terzo Mon­ do e l’alterità. Nella Apologia che accompagnava la poesia nella sua prima edizione, Pasolini si definisce parte degli intellettuali «marcusiani e fanoniani [...] ante litteram», e identifica i “negri americani” come fondamentale forza resistente contro “l’entropia borghese” neocapitalista in quanto svolgono negli Stati Uniti la stessa funzione di presenza altra che gli operai e i contadini avevano mantenuto in Europa fino agli anni cinquanta (Pasolini, 1991, pp. 157-158). In dia­ logo ideale con le poesie “La Guinea” e “La realtà”, scritte tra il 1961 e il 1964 e raccolte in Poesia in forma di rosa, dove il poeta incitava «negri: odiate!... straziate il mondo degli uomini bennati», l’alterità nera è letta in filigrana alla propria diversità di intellettuale comuni­ sta e omosessuale perseguitato. «La Negritudine, dico, che sarà ra­ gione» (da La Guinea, Pasolini, 2003, vol. I, p. 1092) riempie di sen­ so, anche se solo per pochi anni, il vuoto ideologico della rivoluzio­ ne: gli intellettuali più attenti, già letto Fanon, si gettavano a capofit­ to nelle rivoluzioni nazionali africane al seguito ideale del coman­ dante Che Guevara giunto in Congo nel 1965. H Terzo Mondo come momento di sintesi temporanea della dialettica capitale/socialismo reale diventa in questi anni uno spazio ideale per guardare dal­ l’esterno il sistema occidentale.

4.3 La struttura ciclica

Per capire la logica di uno dei film più complessi, difficili e visiva­ mente tra i più affascinanti del corpus fìlmico pasoliniano, è neces­ sario individuare e dirimere i vari piani narrativi che si intersecano sullo schermo. La narrazione di Edipo re è divisa in tre parti:3 un prologo girato nel­ l’Italia degli anni venti (e non fatichiamo a riconoscere un paese mol­ to simile a Casarsa nella piazza fascista e nei tetti rossi delle case), la narrazione vera e propria del mito, dove invece della Grecia antica ve­ diamo i colori del deserto marocchino, e quindi un epilogo tra i por­ tici della Bologna contemporanea (città natia di Pasolini, dove con­ dusse i suoi studi universitari). La tripartizione non deve trarre in in­ ganno. Siamo lontani da una visione hegeliana dove a un movimen­ to di tesi e antitesi si sostituisce armonicamente uno di sintesi: la su-

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blimazione dell’epilogo è se mai un ritorno alla meditazione auto­ biografica con cui il film comincia. Ci troviamo di fronte a una strut­ tura non circolare ma ciclica, dove il ritornare non porta all’inizio della narrazione, cioè allo stesso punto di partenza, bensì a quello stesso luogo spostato sull’asse temporale e psicologico. L’epilogo del film dunque non è un ritorno all’inizio, ma un ritornare a guardare le proprie origini attraverso la lente dell’adulto. Un’operazione di in­ vestigazione e di disvelamento dell’evoluzione della psiche di Edipo/Pasolini, dalla visione dell’infante allo stato dell’inconscio pre­ simbolico su cui si apre il film, nello stesso prato su cui si chiude: che non è un semplice ritorno a una natura intatta prima della storia, una sorta di tuffo in un passato archetipo come atto di cancellazione del­ la storia personale, ma la parte conclusiva di un’analisi psicologica del se stesso artista e del suo tempo, che lo riporta a vedere «il paese di primule e temporali» (Naldini, 1989, p. 38) con uno sguardo accre­ sciuto. Edipo re è quindi un film sul passaggio: sulla presa di coscienza del proprio malessere psicologico e intellettuale, sui traumi dell’in­ fanzia che si riflettono sulla visione del mondo esterno, e su una nuo­ va coscienza che questo passaggio porta con sé.

4.4 II complesso di Edipo

Il fulcro principale dell’opera, quello del conflitto padre/figlio, è in­ trodotto dai due temi musicali che si alternano sui titoli di testa: pri­ ma ima marcetta militare, a cui si sostituisce il suono di un bosco, ci­ cale, cinguetti d’uccelli, frusciare di fronde. È quella piccola patria “di qua dall’acqua” celebrata nelle prime poesie in dialetto friulano in cui il dramma edipico avrà il suo inizio. Le due melodie sono quelle del padre e del figlio, della rigida vita militare e della vita ancora natura­ le dell’infante. Dopo le prime inquadrature che mostrano prima una pietra miliare che indica la direzione di Tebe (il destino del protago­ nista), poi una scena di parto (e siamo già nel periodo moderno del film), l’inquadratura successiva presenta, in campo/controcampo, il primo, mitico scontro tra i due rivali. Nella forma di interritoli (e que­ sto è sia un riferimento al cinema muto sia una forma di straniamen­ te, anche se diegerica), leggiamo i pensieri del padre: «Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tut-

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to quello che ho. E la prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che amo [...] Anzi già mi rubi il suo amore» (Pasolini, 2001, p. 1038). Ma questo rigido campo/controcampo lascia presto spazio per l’intera durata del film a ima costruzione che si sviluppa attraverso l’uso insistito della m.d.p. a spalla, così da sottolineare in Edipo re l’aspetto da documentario antropologico. La lezione degli “Appun­ ti” è qui evidente. Questo uso della m.d.p. fa sì che il punto di vista del protagonista sia riportato attraverso una serie di soggettive non tradizionali: intendo quello stile partecipatorio della m.d.p. che Je­ an Mitry definisce immagine semisoggettiva o associata {image semisubjective ou associée), e cioè con un punto di vista condiviso {point de vuepartagé) tra il personaggio e il pubblico (Mitry, 2001, pp. 294302). La semisoggettiva pasoliniana domina la parte centrale del film, la narrazione del mito, e fa sì che ogni evento sia percepito dal­ lo spettatore come filtrato dal protagonista della storia. Così ai pri­ mi piani del volto di Edipo (un Franco Citti quanto mai truce e bar­ baro ripreso nello stile frontale tipico di Pasolini) su cui sono inne­ state immagini di raccordo della linea dello sguardo (la tipica tecni­ ca hollywoodiana del shot/counter-shot), si alternano immagini in semisoggettiva, facendo sì che manchi completamente nel film la vi­ sione oggettiva di un narratore onniscente. È solo così che una tra­ gedia parlata, nota Greene, può essere trasformata quasi in un film muto (Greene, 1990, p. 151), dove bastano pochissime frasi per in­ dirizzare lo spettatore. Non ci sono in Edipo re momenti esterni al­ la storia. La tragedia edipica è vista, letteralmente, attraverso gli oc­ chi del protagonista. Lo stile della semisoggettiva teorizzata da Mitry è una tecnica non nuova a Pasolini, e può essere letta come uno degli elementi che for­ mano la pratica della soggettiva libera indiretta (s.l.i. ), così cara a Pa­ solini e da lui esplorata nella prassi del suo cinema e in molti saggi cri­ tici. La s.l.i. è quella tecnica letteraria e cinematografica per cui l’au­ tore e il protagonista della storia parlano all’unisono, e in cui le idee e l’ideologia dell’autore vengono filtrate attraverso il personaggio della storia. È lo stesso Pasolini a citare Deserto rosso di Michelange­ lo Antonioni e il suo stesso Vangelo come esemplari di questa tecni­ ca narrativa di compenetrazione ideologica di due mondi distanti.4 La prima soggettiva libera indiretta del film è quella del bambino Edipo/Pasolini: poggiato su una coperta in un prato, il bambino ve­

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de la madre allontanarsi con delle amiche. La m.d.p. in soggettiva dal basso usa un grandangolo che distorce lievemente i contorni del­ l’immagine. È questo il momento in cui l’autore rivive la propria espe­ rienza di bambino filtrata attraverso la narrazione del mito: Pasolini regista (ri)vede attraverso gli occhi di Edipo/Pasolini bambino: la finzione è penetrata dall’enunciazione autoriale, o per meglio dire, l’enunciazione autoriale è allineata con quella del personaggio nella diegesi. Come già ricordava Benedetti, Pasolini lascia che l’Altro (l’Alterità) penetri la narrazione per incorporarla (Benedetti, 1998, p. 19): lo sguardo del regista allineato a quello del personaggio rappre­ senta l’Altro dell’immagine, quello che nella narrazione cinemato­ grafica è nascosto o sussunto alla supremazia del narratore oggettivo. Su questa specifica scena conviene tenere presente la lettura che De­ leuze propone della tecnica pasoliniana della s.l.i.5 H «concatena ­ mento enunciativo» della s.Li. è un «sistema sempre eterogeneo, lon­ tano dall’equilibrio» (Deleuze, 1984, p. 93). Questo processo che Pa­ solini chiamava di mimesis e che, giustamente, Deleuze chiarisce non essere affatto un caso di imitatio, bensì una «correlazione tra due processi dissimmetrici che agiscono nella lingua proprio come vasi comunicanti», produce, sempre secondo Deleuze, un cinema che «ha acquisito il gusto di “far sentire la cinepresa”» (Deleuze, 1984, p. 94). La soggettiva libera indiretta diventa nelle mani di Pasolini ima vera forma cinematografica di incorporazione dell’alterità. Questa re­ gressione dell’autore nell’ambiente descritto era già ben visibile nel­ le poesie in friulano, nei romanzi romani (sia a livello di contenuto che di stile) e nei primi esperimenti cinematografici delle borgate. Oltre alla presenza diretta del regista, questa visione allineata di Pasolini/Edipo permette una terza incorporazione: quella dello spettatore. La visione partecipe e partecipatoria della s.l.i. fa sì che l’unico in­ gresso nella storia sia proprio attraverso gli occhi di Edipo. Per que­ sto diventa significativo il momento centrale del film, l’incontro con l’oracolo e il successivo accecamento.

4.5 A Delfi

La peste infuria a Corinto e Edipo si mette in cammino verso l’oracolo di Delfi. Qui scopre il suo destino: l’oracolo, rappresentato da Paso­

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lini attraverso una figura da stregone africano (e torneremo su questa scelta più avanti), gli rivela il suo destino di parricidio e incesto. Edi­ po è frastornato e scosso. Incredulo si allontana barcollando verso la folla che circonda l’oracolo. Pasolini monta una serie di soggettive in cui Edipo vede in maniera offuscata la folla dei pellegrini, ma, dopo un primo piano del volto in controcampo, la folla sembra scomparsa tra la polvere del deserto, a «riprodurre la visione di un uomo in la­ crime che guarda verso il sole» (Fusillo, 1996, p. 80). Si alternano tre tipi di inquadrature: a) soggettive offuscate con m.d.p. a spalla (sog­ gettiva di Edipo circondato dai pellegrini); b) controcampo di Edipo che avanza come attonito tra la folla e m.d.p. che arretra; c) stessa in­ quadratura, ma Edipo è ora improvvisamente solo, in un jump-cut narrativo altamente espressionista. Piuttosto che leggerlo semplicemente come simbolo della nuova solitudine di Edipo, è utile inserire questa scena cruciale all’interno dell’analisi del libero indiretto. È proprio grazie alla sii. che Edipo diventa, nelle parole di Deleuze, un nuovo «tipo antropologico» (Deleuze, 1984, p. 95): come giusta­ mente legge Schwartz, la s.l.i. «esprime soggettività al momento del­ la loro differenziazione piuttosto che come sempre già differenziate (Schwartz, 2005, p. 132). La sii. ripropone sullo schermo il proces­ so di autodefìnizione del personaggio: lontano dal determinismo del racconto oggettivo, Edipo diventa Edipo di fronte agli occhi dello spettatore, e, soprattutto, lo spettatore esperisce il divenire Edipo di Edipo attraverso la ripresa in soggettiva dal suo punto di vista. Di fronte quindi all’annoso dibattito fra innocentisti e colpevolisti, tra chi vede in Edipo una vittima del destino ineluttabile e chi invece lo ve­ de punito per i suoi atti immorali, Pasolini sembra voler concentrar­ si sul processo psicologico di Edipo di fronte al suo destino. A livello formale la scena non solo è costruita visivamente contro i canoni della narrazione lineare, ma, come in tutto il film, la colonna sonora gioca un ruolo fondamentale. La scelta di usare una musica folclorica romena rielaborata da Luigi Malatesta (flauto e tamburo, sognante il primo, ossessivo il secondo), che risentiremo alla fine del film, impone sulla scena uno strato ulteriore di significato. La de­ contestualizzazione creata dal contrasto tra la figura mitica di Edipo (impersonata però daWAccattone delle borgate), i colori ctoni del de­ serto, la scelta delle maschere surreali, la musica fuori contesto, au­ mentano il senso di spaesamento dello spettatore di fronte alla sco­

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perta edipica. Inoltre le soggettive offuscate riprese con la m.d.p. a spalla ricordano lo stile delle riprese antropologiche degli “Appun­ ti” per la loro vivida presenza. La sii. porta Pasolini e Edipo a sovrapporsi: la rivelazione della Pi­ zia può essere letta come la scoperta dell’omosessualità, il destino ineluttabile di differenza. Basta ricordare la prima vera esperienza traumatica del giovane Pasolini: radiato dall’insegnamento e dalla se­ zione del partito comunista locale dopo essere stato denunciato al­ la polizia per le sue esperienze omosessuali. A riprova della doppia soggettivazione messa in atto nella scena, subito dopo avere lascia­ to Delfi, a Edipo viene offerta ima donna. La vediamo ripresa anco­ ra con la m.d.p. a spalla, ma non più in soggettiva pura: si tratta di una inquadratura a profondità di campo, con la ragazza nuda sullo sfondo e la spalla e parte del capo di Edipo in primissimo piano (ri­ corda certe inquadrature drammatiche di Sergio Leone; e il diretto­ re della fotografìa Giuseppe Ruzzolini lavorerà qualche anno dopo sul set di Giù la testa, 1971, di Sergio Leone e il super-trash 11 mio no­ me è nessuno, 1973). In modo diverso rivediamo una semi-soggetti­ va, questa volta diegetica: l’occhio del regista (attraverso la m.d.p.) e quello del protagonista sono letteralmente allineati. Leggere allo­ ra il destino di Edipo come la condanna all’alterità anche sessuale spiega il suo gesto di rifiuto, il volgere improvvisamente lo sguardo lontano dal corpo nudo sempre a fuoco della giovane. Il fatto che ra­ ramente Pasolini usi la profondità di campo, a cui preferisce la bidimensionalità dell’inquadratura con lenti telescopiche, indica l’im­ portanza di questa scena.

4.6 L’antropologia e l’arte Come si è detto, l’attenzione etnografica visibile negli “Appunti” si muove necessariamente in secondo piano nei lungometraggi. O per meglio dire, si integra all’interno della storia. Non sono pochi i com­ mentatori che affascinati dai paesaggi e dai colori del film hanno ipo­ tizzato la presenza di riferimenti pittorici più o meno evidenti.6 Ma l’effetto “primitivo” di Edipo re mi sembra più vicino esteticamente a certe istanze dell’arte povera o del primitivismo dell’arte contem­ poranea italiana ed europea di quegli anni.7 Come nota Carolyn Chri-

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stov-Bakargiev la visione degli artisti dell’arte povera che si oppone­ vano all’assioma modernista della coazione al nuovo è visibile nell’antiavanguardismo pasoliniano. La critica alla cultura marxista uf­ ficiale portata avanti dal movimento e teorizzata da Germano Celant, il forte interesse verso il mitico e il premodemo investigato in particolar modo nelle zone di contatto delle periferie urbane, si as­ sociano a un immaginario arcaico visibile per esempio negli Attrezzi agricoli di Pino Pascali, negli animali (i famosi dodici cavalli) di Jannis Kounellis, nei laboratori e nelle macchine di Gilberto Zorio, o nella carriola di Piero Gilardi. Questa estetica arcaica si nota nel vo­ lume che raccoglie le foto dei costumi di scena prodotti dall’Atelier Farani dove si ricorda Pasolini dichiarare di volere costumi «barba­ ri e arbitrari», e di un «barbaro indistinto» (Farani, 1996, p. 45).8 II forte eclettismo, che mischia abiti aztechi a maschere africane dimo­ stra come in questa fase Pasolini fosse più influenzato dal contem­ poraneo piuttosto che dalla tradizione della pittura occidentale, a lui certo cara. L’uso di maschere primitive, costumi e cappelli volutamente ed eccessivamente barbari rimanda a ima ricerca sulla materia e la materiata dell’arte che fanno senz’altro parte del bagaglio intel­ lettuale di Pasolini regista: allo stesso modo in cui gli artisti dell’arte povera promuovevano la loro critica artistica anti-modernista di esplosione del medium espressivo (oltre, quindi, i limiti tradizionali del quadro e della pittura sia figurativa che astratta), così Pasolini pensava al potenziale ideologico dei suoi film, al loro “diretto inter­ vento rivoluzionario” anche dal punto di vista formale, e quindi, bre­ chtianamente, smascherati dalla loro patina ontologica. In particola­ re l’uso dei costumi di Edipo re sembrano rivelare un interesse ai ma­ teriali poveri - il sacco, la terra, il ferro, il bruciato, ecc. - non dissi­ mile dalle ricerche contemporanee di Alberto Burri, Lucio Fontana, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, e, fuori dall’ambito ita­ liano, di Joseph Beuys, fino ai limiti estremi dell’azionismo viennese, la cui origine è da ricercare nella rappresentazione dei corpi deformi e lacerati di Oscar Kokoshka, Gustav Klimt e Egon Schiele. Il rapporto tra Pasolini e l’arte contemporanea è abbastanza com­ plesso. Da una parte raramente troviamo nei suoi scritti note e com­ menti su pittori che non siano figurativi (si pensi alle recensioni gio­ vanili per l’amico Zigaina9), ed è noto il poco velato disprezzo per le avanguardie sia fìlmiche che letterarie (la polemica contro la pop art

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americana, il New American Cinema e il Gruppo ’63 in Italia).10 Se non bastasse, l’intero apparato figurativo di Teorema può essere let­ to come un saggio di taglio manicheo sull’arte contemporanea: i cor­ pi sconnessi di Bacon sì, l’informale e Pollock no (e giustizia è fatta con ima action painting fisiologica a opera del figlio Pietro). D’altra parte è impensabile che l’attento Pasolini non fosse per lo meno al corrente della ricerca sui materiali e le forme degli artisti dell’arte po­ vera italiana, attivi in quegli anni anche a Roma. In questo senso già Germano Celant aveva identificato un relazione tra Piero Manzoni e Pasolini per quel che riguarda il valore catartico dell’escrementizio (Celant, 1981, pp. 8-9). È vero che Pasolini menziona solo Burri (e so­ lo una volta!) nei suoi scritti sull’arte, e che l’unica collaborazione artistica con artisti dell’avanguardia è l’installazione L'intellettuale: il Vangelo di/su Pasolini presentato nel 1975 alla GAM di Bologna, a opera di Fabio Mauri (vecchio amico di Pasolini, con cui aveva fon­ dato la rivista “Il Setaccio”), dove il film viene proiettato sulla cami­ cia di Pasolini seduto di fronte al proiettore, ma è anche vero che an­ cora una volta Pasolini sembra incorporare certo eclettismo primitivista, straniando Edipo sofocleo per trasformarlo in una meditazio­ ne sul processo “ da farsi” : agendo questa volta tanto sulla forma film (come nella serie degli “Appunti”), quanto sulla mise en scène. Que­ ste non devono essere intese come citazioni letterali (come nel caso di Pontormo e Rosso nella Ricotta, o di Giotto nel Decameron) ma semmai nel modo in cui Pasolini offre un intero mondo pittorico di un determinato artista. Si pensi, per esempio, al finale di Mamma Ro­ ma in cui Ettore viene ripreso disteso in una posizione che ricordò a molti critici il Cristo morto di Mantegna. Subito Pasolini bacchettò i più («Ma il Mantegna non c’entra affatto, affatto ! », Pasolini, 1993, p. 28) per la superficialità del raffronto. H chiaroscuro realista masaccesco che domina il film è il tentativo non di citare questo o quel qua­ dro (operazione pedante e gratuita) ma di riprodurre «un intero co­ smo figurativo». Come spiega Marchesini nel suo puntuale Citazioni pittoriche in Pasolini, «l’equivoco nasce dal fatto che Pasolini, rifiu­ tando il prestito pittorico “archeologico” e colto, insegue nell’arte di [...] Masaccio [...] un modello di alta pregnanza visiva, capace di lie­ vitare l’immagine verso una dimensione non naturalistica» (Marche­ sini, 1994, p. 33). Questa vera “fuga dalla citazione” incorpora «la Weltanschauung di Masaccio, secondo le coordinate di Longhi» (p.

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34) in Accattone e Mamma Roma. In Edipo re, l’incorporazione della ricerca sulla materia può senz’altro essere letta al di là di una sempli­ ce influenza del contemporaneo in maniera politica come specchio del dramma parricida elevato al mondo dell’arte. Piuttosto che usa­ re la tradizione pittorica, Pasolini decide, nel suo film più autobio­ grafico, di inserire aspetti dell’avanguardia con cui, pur nelle diffe­ renze, condivide un forte interesse verso la meditazione sul mezzo espressivo. La vena “primitivista” è inoltre ben visibile nel cupo in­ cipit di Meleti (1969): il sacrifìcio umano e la seguente dispersione del sangue richiama, ben al di là della semplice citazione cristologica, fe­ nomeni di sadomasochismo teatrale come si vedeva per esempio nel­ le performance di Giinter Brus, Hermann Nitsch, o Otto Muhl (de­ bitori loro stessi del grand guignol di fine secolo). Di quest’ultimo si pensi a Kreuzigung (Crocifissione) del 1961, e di Nitsch a l.aktion (1962), dove si fa scempio della figura della croce, nel primo caso con l’uso di materiali “trovati”, nel secondo dove sangue d’animale viene versato sull’artista crocefisso al muro. Un’altra citazione azio­ nista la si vede nel Fiore delle Mille e una notte, nel momento in cui Butur decide di castrare Aziz (il povero Ninetto). Il lacciolo con cui viene avvitato il membro, mostrato in primo piano, ricorda le foto di scena di 8. Aktion (1965) di Hermann Nitsch. La presenza di Carmelo Bene e di Julian Beck del Living Theatre ci aiuta a pensare a Edipo re come a un’opera in dialogo con il contem­ poraneo (allo stesso modo in cui Fellini un anno dopo, nel 1969, in­ farciva il Satyricon di chiari riferimenti alla scena pittorica romana di quegli anni) o per lo meno come prodotto della stessa Weltanscha­ uung. Si tratta inoltre di un ovvio interesse per il corpo che prefigu­ ra la gioiosa ricerca della “Trilogia della vita” e che culminerà nel bordello estetico-politico di Salò o le 120 giornate diSodoma), ma an­ che un ovvio riferimento al corpo e alla vita del poeta come opera d’arte, in questo senso avvicinando Pasolini a Joseph Beuys, secondo un’acuta intuizione di Achille Bonito Oliva (1995, p. 90).

4.7 II personale e il politico

Molti critici già prima di questo saggio hanno letto l’autobiografìcità di Edipo re in chiave direttamente personale, vedendo in Edipo la

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figura dell’artista comunista e omosessuale il cui correlativo è iden­ tificabile nella scelta del deserto come presenza metonimica, a signi­ ficare l’abbandono della società e solitudine interiore.11 Ma l’epilo­ go del film testimonia la necessità di ritornare dal personale verso il politico, e, in ultima analisi, di tentare di comunicare a ogni costo. La scelta di riportare Edipo a Bologna, città degli studi longhiani, e di ri­ percorrere le fasi della vita artistica di Pasolini, da poeta borghese a poeta marxista, con il ritorno al prato originario, segnala un forte messaggio positivo: si tratta ancora ima volta di incorporare i falli­ menti. È per questo che nella triste processione finale vediamo Edipo/Pasolini, poeta con il flauto, portare le sue melodie prima tra i borghesi nella piazza Maggiore di Bologna, poi tra le fabbriche, e quindi continuare il suo viaggio con la bellissima chiusura sui due personaggi di Angelo e Edipo che camminano sotto i portici. Sono questi i portici del periodo universitario di Pasolini, il momento del­ la scoperta del mondo. Ecco dunque che il ritorno al prato finale non è una fuga, ma il punto di arrivo di un percorso ciclico. Il ritor­ no al «luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero la madre» (Pasolini, 2001, p. 1052) d introduce al finale «fantasmago­ rico» (Pasolini, 1969, p. 120), dove (l’)Angelo “vede” al posto di Edi­ po. Il regista in questa ultima fase esce dalla soggettiva libera indi­ retta, e l’ultima, statica inquadratura del prato, anche se fa riferi­ mento con l’uso del grandangolo a quella prima visione del bambi­ no Pasolini, è ora presentata con uno sguardo non espressionistico, doè dove non si “sente” la macchina da presa. Questa inquadratura “oggettiva” (né lo sguardo dell’autore, né lo sguardo del personaggio, è lo stato intermedio della s.l.i.) non è un rifiuto, ma un’accettazione assoluta della propria storia, del proprio passato; in breve della pro­ pria assoluta alterità.

4.8 II triste Fiore

In alcune recensioni raccolte in Descrizioni di descrizioni (ora in Pa­ solini, 1999, pp. 1687-2219) scritte tra il 1973 e il 1974, Pasolini sem­ bra girare e rigirare attorno a un tema: quello di un libro dentro a un libro. Così scrive in occasione della ripubblicazione di Controcor­ rente di Huysmans: «A rebours è contemporaneamente due libri: il

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primo libro è un romanzo, il secondo è un diario intellettuale, o, me­ glio ancora, letterario» (p. 1743), e poi a proposito di Paolo Volponi: «In Corporale di Volponi, sotto il romanzo che vedremo - e che è quello che si presenta come “ufficiale”, come “valore culturale” scorre un secondo romanzo. Forse è ad esso che si riferisce il titolo...» (p. 2020). Le due recensioni sono sintomatiche di un modo di lettu­ ra en poète-. erano quelli gli anni del Decameron e del Fiore delle Mil­ le e una notte (1974), anni in cui Pasolini lavorava assiduamente sul­ le possibilità offerte dalla narrazione e sulla narrabilità stessa: in par­ ticolare sulla trasposizione da romanzo a film.12 Chiudiamo con il Fiore il viaggio dentro il viaggio orientale di Pasolini, in ima progres­ sione che la sua morte, a posteriori, rende triste e ominosa. È inevita­ bile leggere questo ultimo film terzomondista in luce della abiura che di lì a poco cancellerà questa parentesi felice dei pochi anni dedicati alla gioia del corpo nella “Trilogia”; così come l’aria di nuova sessua­ lità postsessantottina che aveva penetrato l’Italia a che tanto aveva en­ tusiasmato Pasolini e altri intellettuali di sinistra italiani si era velo­ cemente trasformata in un mercimonio di corpi. Il sesso che più non libera ma incatena e soggioga: l’iniziale resistenza del Sistema si è ve­ locemente adattato a macchina di sfruttamento. La ’’mutazione an­ tropologica” è arrivata agli organi sessuali. Apparentemente il più terzomondiale dei film di Pasolini - in fon­ do si tratta di storie originali pan-arabe - il Fiore si presenta come il più problematico dei testi orientali di Pasolini. H suo gusto per il fabulare, la decorazione ricercata e volutamente esotica, l’infittirsi del­ le storie, finisce per essere un esperimento narrativo “chiuso” in cui il sistema delle scatole cinesi e della “messa in abisso” si fa goffo e for­ zato. Si tratta inoltre di un film, questo sì, girato in fretta e furia con in testa chissà quale altro progetto. Se i costumi di Edipo re brillano di luce barbara, questi sembrano mal pensati avanzi tirati fuori dalle cantine dell’Atelier Farani, e mal messi da Dante Ferretti. Ancora più strana è la situazione che si crea con la scelta dei luoghi: tutto gi­ rato in loco (Yemen del Sud, Yemen del Nord, Iran, Nepal, Etiopia, India) e tutto nel giro di soli due mesi, dal 2 marzo al 3 maggio 1973 ! Non certo una novità per un regista veloce come Pasolini, ma ecces­ sivo se si pensa che il film è un vero e proprio giro del mondo.13 Il Fio­ re, che avrebbe tutti i requisiti per essere il più antropologico dei film terzomondisti di Pasolini, risulta invece essere più un pezzo di Bol-

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lywood senza musica e senza balletti, dove l’intreccio delle storie si fa noioso perché prevedibile (qualcuno ha visto Ali Baba e i 40 ladroni, titolo originale in hindi Alibaba aur40 choir, 1980, coproduzione in­ diana-sovietica diretta da Latif Faiziyev e Umesh Mehra?). Se Medea era un film sul tempo, piuttosto che su un luogo preciso e identifica­ bile (il tempo prima della storia contrapposto alla storia degli uomi­ ni), il Fiore è un film su se stesso. L’intreccio diventa il soggetto della storia, e i bellissimi posti del film, giardini, terrazzi, palazzi, castelli, rimangono solo luoghi da favola, piacevole decorazione. Nonostante sia stato lo stesso Pasolini nelle sue dichiarazioni a in­ dicare come i tre film della “Trilogia della Vita” fossero tra i più po­ litici, il sentimento che rimane allo spettatore è di un indietreggiamento in quel processo di “pedagogia rivoluzionaria” che animava le opere “da farsi”, e il profondo dramma esistenziale di Edipo. È lo stesso Pasolini che dichiara: È possibile la lettura critica di un testo al di fuori di ogni storicismo? Evi­ dentemente no. Ma c’è qualche compenso. Per esempio la mia cono scenza esistenziale del mondo arabo. Posso dire di conoscere più gli ara­ bi che i milanesi. (Cosa che si inquadra nella mia extravagante compe­ tenza del Terzo Mondo.) Ho quindi potuto storicizzare le Mille e una notte per ciò che esse sono adesso nel loro contesto popolare. (Pasolini, 1991a, p. 287)

Ma questa iniziale spinta antropologica, che ideologicamente lo po­ ne allo stesso livello degli esperimenti degli “Appunti” o di Edipo re, non appare nelle immagini del film. Il marxista cha ama il passato ha in mano solo un’arma nel Fiore: la forma stessa del film. Ma mentre il “da farsi” delle opere aperte mima il “da farsi” delle società a veni­ re, il profìlmico del Fiore indirizza verso un passato favolistico e di­ stricato dal presente di post- e neocolonizzazione. Vera nota d’interesse del film è il rifiuto della prospettiva. Allo stes­ so modo in cui nei primi film Pasolini cercava di riprodurre il mon­ do masaccesco, nel Fiore è ovvio il tentativo di riprodurre lo stile del­ le miniature indiane: si pensi per esempio al momento della scena d’amore tra Aziz e Butur in cui l’arco e la freccia diventano oggetti sessuali. Patrick Rumble ha identificato l’originale di quella scena in una miniatura rajput (Rumble, 1996, pp. 71-76), e a questo testo si ri­ manda per una discussione del processo di imitazione dello stile

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orientale a livello formale chiaramente visibile in alcuni momenti del film. In particolare il tentativo di andare contro le norme della pro­ spettiva quattrocentesca attraverso l’uso di lenti appiattenti e altre procedure della mise en scène (come una forte retroilluminazione che “taglia” le linee di fuga della prospettiva) in cui luce e oggetto sono interposti alla “fuga” dello sguardo dello spettatore. Tecniche simili a quelle usate da Sergej Parajanov nei suoi recuperi delle tavole naif della tradizione armena-georgiana proprio in quegli stessi anni {Il co­ lore del melograno è del 1969). Più interessante dal punto di vista postcoloniale è la sceneggiatu­ ra del film. Molto diversa dal suo risultato fìlmico, parte con una scena di masturbazione collettiva, di cui non si leggerà di uguali si­ no al postumo Petrolio. Ci troviamo insieme a quattro giovani nei quartieri poveri della periferia del Cairo: sono vestiti di «blue-jeans e magliette americane» (Pasolini, 2001, p. 1575) e stanno andando a giocare a pallone in uno spiazzo terroso che ricorda il prato dei builetti di Mamma Roma. Dopo la partitella si sdraiano e con quella grazia che solo certi personaggi di Pasolini possono avere si slaccia­ no i pantaloni e cominciano a masturbarsi. Proprio queste visioni a occhi aperti dei ragazzi eccitati sono le storie delle Mille e una notte che vediamo nel film. La scelta di moltiplicare Sheherazade trasfor­ mandola in quattro sottoproletari arabi è una geniale inversione so­ ciale e di genere. Pasolini sostituisce l’immagine della donna - cifra dell’astuzia e della passività orientale - con una - i giovani neourba­ nizzati - di forte significato sociale e politico. Inversione anche nar­ rativa, dove alla singolarità si sostituisce la molteplicità delle voci, da una parte a emulare la plurivocità delle storie, dall’altra a evidenzia­ re il ruolo di stato e classe di questi nuovi narratori. La bella Shehe­ razade ha una nuova coscienza di classe e una nuova concezione del suo rapporto con il sesso! Perché Pasolini ha deciso di abbandonare lo script - così forte, co­ sì diretto - per una pentolacpa carnevalesca dove nessuno di questi elementi politici è visibile? L’eros e il Terzo Mondo Del resto l’omosessualità è, con la magia, l’elemento antagonista delle Mil­ le e una notte: l’elemento protagonista, ripeto, è il destino, che tuttavia non

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Le storie “altre": da Edipo a Sheherazade

si accorgerebbe di sé se non fosse contraddetto da ciò che esso non può recuperare [...] Mi si lasci dire, un po’ tautologicamente, che per me l’ero­ tismo è la bellezza dei ragazzi del Terzo Mondo. (Pasolini, 1991a, p. 297)

Scheletro nell’armadio di questo studio, e tenuto per ultimo non per timore ma per scelta ideologica, la nostra discussione del Fiore non può tralasciare l’unico vero elemento di interessante novità del film: la passione omosessuale di Pasolini per i ragazzi africani. La questio­ ne dell’eros in Pasolini sembra avere creato sempre un certo imba­ razzo: i primi commentatori evitandolo del tutto, i più recenti facen­ done una vera e propria bandiera ideologica.14 Qualcuno è arrivato a dire che era solo per questo che Pasolini viaggiava nel Terzo Mon­ do: per trovare “marchettari” più a buon mercato. Insomma, come spesso succede quando si parla di alterità, si ritorna a modelli essenzialisti. I negri sono solo oggetti sessuali, e i bianchi sono lì per sfrut­ tarli (economicamente e sessualmente), così che il Terzo Mondo di­ venta un paradiso di perfetto capitalismo. La realtà è ovviamente più complessa. Intanto Pasolini non ha mai nascosto queste sue prefe­ renze (a differenza di altri), e sia negli scritti sia nei film non vi è nul­ la di ambiguo su questo argomento; e poi non dobbiamo dimentica­ re la battaglia contro la censura combattuta causa dopo causa nei tri­ bunali italiani e che solo a metà degli anni settanta sembra avere da­ to alcuni frutti con certe aperture verso il nudo.15 Nelle intenzioni di Pasolini, il Fiore doveva essere il culmine della celebrazione di ima nuova eguaglianza tra eterosessualità e omoses­ sualità (Greene, 1990, p. 195). Si prendano per esempio le scene del poeta-re che invita i ragazzi nella sua tenda. Immediatamente gli or­ gani sessuali dei giovani ci sono presentati in campo medio con la m.d.p. posta all’ingresso della tenda a inquadrare due volte i sogget­ ti, situando il pubblico in una situazione di voyeurismo. Oppure il ri­ congiungimento finale di Nur-ed-Din e Zumurrud e il suo gender in­ version. Per una lunga serie di eventi (il solito destino, motore di ogni storia delle Mille e una notte), Zumurrud è divenuta re, e nessuno si è accorto della sua vera identità. Quando Zumurrud vede Nur-ed-Din tra la folla, lo fa portare nella sua camera e lo costringe a mettersi pro­ no sul letto. Solo alla fine Zumurrud rivela la sua identità, e i due amanti finalmente sono di nuovo insieme. Interessante dal punto di vista stilistico è la scelta di evitare in queste scene di sesso l’uso del­

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l’inquadratura in soggettiva da parte di uno dei personaggi della diegesi. Questa tecnica di distanziamento diventa ancora più chiara nel­ la scena degli amplessi dei due giovani scelti dal re e dalla regina nel­ l’episodio della migrazione della corte nomade. Questi sono presen­ tati non dal loro punto di vista (come inizialmente indicava la sce­ neggiatura), ma da un punto di vista frontale, in cui re e regina na­ scosti in alto (in una specie di balconata) formano la cima di una per­ fetta forma geometrica che Pasolini ha preso in prestito dalle chiese copte arcaiche (Pasolini, 1991a, p. 295). Evitando il punto di vista dei personaggi nella diegesi, ma creando una ripresa soggettiva autoriale, Pasolini evita di “suturare” il pubblico nella tradizionale situazio­ ne hollywoodiana di voyeurismo diegetico messa in luce da Laura Mulvey nel suo seminale saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (Mulvey, 1975). H senso di distacco con cui queste scene erotiche ven­ gono riprese, da una parte distanzia lo spettatore, dall’altro indica la presenza dell’autore e la sua responsabilità “morale”. Ma già l’“abiu­ ra” è alle porte, e i corpi nudi presto saranno solo carne posta sotto l’inflessibile sguardo fascista dei Léger alle pareti della villa di Salò.

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Le storie “altre”: da Edipo a Sherazade

Note 1 Anche se poi Pasolini e Dacia Marami cureranno l’edizione italiana dei dialoghi di Trash di Paul Morrisey nel 1973 (Galluzzi, 1994, p. 144). 2 Si deve considerare il Vangelo secondo Matteo (1964) un film terzomondista? Lo è per molti aspetti, e senz’altro lo sono i Sopralluoghi in Palestina. Manca però nel Vangelo quel movimento di spola tra Oriente e Occidente che è visibile nelle altre opere che ho selezionato per questo volume, e manca anche la dimensione geogra­ fica, l’esser-ci degli altri film. Simile problema si pone per Medea (1969), per molti aspetti il film più antropologico di Pasolini, ma anche il più allegorico, e forse il più distante dall’analisi in chiave orientalista di questo studio. 3 In un’intervista (ora in Pasolini, 2001, pp. 2919-2920) Pasolini descrive quattro piani o livelli di discorso codificati nel film: «La prima parte è quella dei ricordi d’in­ fanzia, al tempo stesso molto sintetici e molto ricchi, poi c’è la parte fantasmagori­ ca, che chiamo allucinatoria, e che mi sembra la migliore [...] Poi viene la terza par­ te che non è né più né meno che l’Edipo di Sofocle [...] C’è infine l’ultima parte, sen­ za dubbio la più arbitraria, e anche un po’ didattica [...] È il momento della subli­ mazione». 4 Si veda in particolare il saggio “Il cinema di poesia” raccolto in Empirismo ereti­ co (Pasolini, 1991, pp. 167-187). 5 Deleuze affronta il complesso problema dello stato dell’immagine, sempre tesa tra oggettiva e soggettiva, nel volume Limmagine-movimento: «E non è forse il de­ stino costante dell’immagine-percezione nel cinema, quello di farci trascorrere da uno dei suoi poli all’altro, cioè da una percezione oggettiva a una percezione sog­ gettiva e inversamente?» (Deleuze, 1984, p. 92). 6 Durgnant vede l’uso ancora non del tutto canonizzato della prospettiva al tem­ po della corte dei Medici e alla tradizione del Kabuki, Amengual vi vede Poussin e Delacroix, e Toumès riconosce in Silvana Mangano le madri blu di Picasso. 7 Sull’arte povera si vedano gli esaustivi cataloghi di Christov-Bakargiev (1999) e Celant (2001 ). Per il rapporto tra Pasolini e l’arte povera devo ringraziare la mia stu­ dentessa Teodora Georgieva per il prezioso lavoro di ricerca. 8 Piero Farani dichiara in un’intervista: «Per Edipo re credo non sia stato adope­ rato neanche un metro di stoffa normale, fatta a macchina, comprata dalle manifat­ ture, tutta è stata lavorata a mano, in maniera artigianale vera. I materiali usati era­ no diversissimi, c’era la pelle, il rame battuto, la lana. Usavamo anche il sughero per certi copricapi, usavamo per altri abiti tessuti larghi sempre fatti a mano, e poi c’era­ no collane pesantissime di piombo, e conchiglie, insomma non abbiamo usato nes­ sun materiale normale... I cappelli erano fatti di cocco... mentre la struttura sotto­ stante era fatta di sughero e attorno c’era il cuoio che era tutto inciso e bruciato» (Fa­ rani, 1996, p. 14). 9 Si veda Pasolini, 1999, p. 231, p. 237, p. 290, p. 302 e p. 615. 10 Si veda per questo il saggio raccolto in Empirismo eretico “I segni viventi e i poe­ ti morti "(Pasolini, 1991, pp. 250-255 e pp. 93-95), l’intervista con Oriana Fallaci ap­ parsa su “L’Europeo” nell’ottobre del 1966 (ora in Pasolini, 1999a, pp. 1597-1606, e p. 870) eia recensione apparsa sul “Il tempo” del 25 giugno 1972 dal titolollmon-

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Orientalismo eretico goloide alla Biennale è ilprodotto della sottocultura italiana, dove si dichiara che la pa­ lingenesi neocapitalista aveva trovato «i suoi servi - sciocchi e teppisti - nei lettera­ ti della neoavanguardia» (Pasolini, 1999, p. 2613). Per un’accurata presentazione del rapporto tra Pasolini e la pittura contemporanea si veda Galluzzi, 1994, pp. 114-149. 11 «Nel deserto io vedo l’abbandono della società e la solitudine interiore dell’in­ dividuo» (Pasolini, 2001, p. 2948). 12 Sulla “Trilogia della vita” e in particolare sull’adattamento da libro a film si ve­ da Rumble, 1996, pp. 16-81. Più in generale sulla questione dell’adattamento cine­ matografico in Italia si veda Marcus, 1993. 13 Si veda l’intervista a Dante Ferretti in Bertini, 1979, pp. 187-194. 14 Si veda su questo Golino, 1985. 15 Si veda il volume curato da Laura Betti, 1993.

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Epilogo. Il padre selvaggio (1963-75), ovvero “il sogno di una scuola”

C’è un profondo senso di sconfitta nell’ultimo Pasolini, chiuso nella gabbia del bell’appartamento all’EUR, alla guida dell’Alfa Romeo che diventerà così tristemente famosa dopo il suo assassinio. Quel ragaz­ zetto che Pasolini aveva tirato su alla stazione e che quella notte si vo­ leva scopare, e non limitarsi alla solita fellatio che compassionevol­ mente i marchettari si lasciavano fare dal cinquantatreenne poeta, coi capelli tinti, con quei patetici jeans attillati, con quelle camicie in sintetico così “di moda” che insisteva a portare. Al poeta rimaneva­ no gli occhi guizzanti sotto le lenti spesse, ma con quelli non si ra­ mazzava certo i burberi mascalzoni di periferia che gli piacevano co­ sì tanto: ci voleva la macchina, i soldi e pure un po’ di fortuna. Paso­ lini era già stato assalito varie volte; una, memorabile, in una tenda marocchina proprio durante le riprese di Edipo re. Se l’era sempre ca­ vata. Ha organizzato la sua morte, come ha scritto Zigaina (1987)? Una specie di messinscena finale che vedeva lui stesso come oggetto d’arte, il suo corpo morto. Non credo: anche se il tono si fa sempre più cupo, la parola suicidio non è nel vocabolario pasoliniano. Lo sono invece fino alla fine: rivoluzione, corpo, cinema, popolo. Il cuore di questa nuova sfiducia lo si trova ben spiegato nella sua Abiura dalla Trilogia della vita (Pasolini, 1976, p. 72): « [...] nella pri­ ma fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli Anni Sessanta - in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sot­ tocultura dei “mass media” e quindi della comunicazione di massa l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali». È questa la celebrazione a cui abbiamo assistito nella “Trilogia” e nel Fiore in particolare, ma l’entusiasmo ha lasciato presto il posto al senso di sconfìtta. H sogno «fanoniano e marcusiano» di un Terzo Mondo in rivolta si è afflosciato di fronte al neocapitalismo e ai nuovi naziona­ 117

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lismi. Sono morti Che Guevara, John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King, Malcom X. Per concludere questo viaggio nell’Oriente eretico pasoliniano po­ trebbe essere utile analizzare uno dei tanti progetti incompiuti per il cinema: la sceneggiatura di II padre selvaggio, scritta nel 1963 al ri­ torno da un lungo viaggio africano che lo ha portato in Yemen, Kenia, Ghana, Nigeria e Guinea. H film prevede un solo attore bianco, e poi tutta una serie di comparse trovate sul campo. Ma Pasolini non ha fat­ to i conti con la legge italiana. Il mediometraggio La ricotta, parte del film a episodi RoGoPag, uscito nelle sale nel marzo del 1963, gli ga­ rantisce una condanna a quattro mesi di reclusione per “vilipendio della religione di Stato” (Naldini, 1989, p. 263). Le banche e gli isti­ tuti di credito non sono certo pronti a rischiare soldi per Pasolini. La storia del Padre selvaggio riflette accuratamente la situazione so­ cio-politica dell’Africa di quegli anni, dilaniata da guerre civili, in­ terventi militari delle vecchie potenze coloniali non del tutto pronte a mollare l’osso africano e interventi umanitari di varie associazioni occidentali. Proprio a uno di questi gruppi appartiene il protagoni­ sta bianco della storia, un idealista insegnante elementare. Durante le vacanze estive i giovani rientrano nei loro villaggi, incluso il migliore della classe, Davidson. Proprio nel villaggio di questi, di cui il padre è il capo (da qui il titolo del film), scoppia una guerra fratricida che coinvolge le truppe ONU. Quando Davidson ritorna a scuola è psico­ logicamente distrutto, ed è solo con le poesie che curerà il suo trau­ ma. Basta entrare poche pagine dentro questo testo incredibilmente preciso ed efficace per vedere l’Africa materializzarsi davanti ai no­ stri occhi: è quel potere tutto particolare della letteratura di cui ci ha già convinto Proust mostrandoci un’intera città emergere da una taz­ za di tè. Qui ci troviamo di fronte a quella “struttura che vuol essere altra struttura”, quell’abilità di Pasolini di scrivere grandi film (e la critica, presa com’è dall’immensa massa di grande e affascinante ma­ teriale che ci ha lasciato, si dinlentica di questo importante aspetto; è forse tempo di uno studio monografico dedicato a Pasolini sceneg­ giatore). Ben presto però dietro al «rosa dell’Africa» (Pasolini, 1975, p. 3) che circonda questo romantico e idealistico maestrino bianco s’intravede un luogo che conosciamo bene: è la piccola scuola di cam­ pagna improvvisata da Pasolini e da sua madre nella stanza di Versuta dove sono sfollati nel 1944. 118

Epilogo. Il padre selvaggio (1963-1975): ovvero “ilsogno di una scuola"

A Versuta c’era una ventina di ragazzi che non potevano, a causa dei pe­ ricoli, frequentare la scuola di San Giovanni. Io e mia madre divenimmo i loro maestri [...] Si appassionarono talmente che la nostra non fu più una scuola, ma una specie di cenacolo, a cui io offrivo il meglio di quelle ener­ gie che mi si erano serbate pure. (Naldini, 1989, p. 81)

Nel leggere gli stralci dei giovanili Quaderni rossi che Naldini ha pa­ zientemente ricucito si riconosce la stessa ideologia e la stessa spinta pedagogica che anima le pagine dello script', il protagonista infatti è giunto nel villaggio africano di Kado da «un paese, perduto nei freschi prati bagnati da uno dei fiumi che scendono giù dalle Alpi» (Pasolini, 1975, p. 20). Presto anche la fondazione Accademiuta de lenga furlana, messa in piedi da Pasolini con qualche amico e gli studenti del­ la scuola (tra cui lo stesso Naldini), risuona nelle parole del testo: Il professore - felice, eccitato - cerca di dare qualche spiegazione, ma le parole non bastano. Gli viene un’idea. Fondare un’associazione scolasti­ ca, autonoma, con il diritto di “autogoverno” e di “autocritica.” (Pasoli­ ni, 1975, p. 24)

È impossibile nel rileggere queste pagine non pensare agli scritti sul­ la “mutazione antropologica” degli italiani - fenomeno globale, cer­ to - ma che ha i suoi boia negli apparati ideologici dei media mo­ derni. Creare consenso - per ritornare, via Althusser, a Gramsci non è più necessario: il cambiamento è diventato una resa a tutto campo all’avanzata del neocapitalismo, dove scuola e televisione so­ no i teologi dell’irrealtà (che giustamente Pasolini propone di abo­ lire nelle swiftiane Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia-, Pasolini, 1976, pp. 165-171). Questo Padre selvaggio, scrit­ to nel periodo tra il 1962 e 1963, mi sembra esemplare del percorso di Pasolini. Composto sulla scia dell’entusiasmo iniziale, pubblica­ to a brani su varie riviste, mai concluso sullo schermo, può diventa­ re allo stesso tempo sintomo e simbolo del pensiero terzomondista pasoliniano. L’iniziale speranza, la cocente delusione postfanoniana e il lucido pessimismo degli ultimi anni, sono tutti già riscontrabili in questo piccolo testo. Il maestrino che non si arrende e alla fine rie­ sce a far capire ai suoi giovani allievi che l’Africa stessa può essere il luogo della libertà e della poesia, rappresenta il lascito pedagogico di Pier Paolo Pasolini. L’iniziale perturbante postcoloniale con cui 119

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si era cercato di descrivere lo stato psicologico e conseguentemente ideologico del primo viaggio di Pasolini in India non è mai sparito, ma si è trasformato in un desiderio di affrontare e capire l’alterità. Credo che la frase «non dobbiamo avere paura della realtà» con cui Pasolini risponde alle critiche ndT Orestiade potrebbe essere il mes­ saggio pedagogico più importante dell’opera pasoliniana. Partico­ larmente in questa nuova era di migrazioni di massa, mentre la mu­ tazione antropologica degli italiani non è più un’azzardata previsio­ ne, ma la realtà dei nuovi tratti somatici, delle nuove pratiche reli­ giose e sociali, dei nuovi modi di vita di migliaia di ragazzi e ragazze nelle scuole italiane figlie e figli di genitori nati altrove, la pedagogia pasoliniana dell’apertura e del confronto serrato con l’alterità di­ venta chiamata alle armi gramsciana per tutti gli intellettuali e gli ar­ tisti coinvolti in questa battaglia per l’inevitabile futuro multietnico e democratico del nostro Paese.

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Ringraziamenti

Questo libro è il frutto di una ricerca iniziata presso il Dipartimento di Italianistica della University of Wisconsin-Madison sotto la dire­ zione di Patrick Rumble e i consigli di Grazia Menechella che in tut­ ti questi anni non hanno mai negato il loro aiuto, incoraggiamento e amicizia. Una versione del terzo capitolo è apparsa su “Nuova Prosa” (30, 2001), e in lingua inglese su “Romance Languages Annual” (XI, 2001). Ringrazio Luigi Grazioli e Ben Lawton rispettivamente per averli pubblicati. In molti hanno contribuito al buon esito di questo progetto: Carlo Antonelli, Natasha Chang, Emanuela De Cecco, Anna Giaufret, Er­ nesto Livorni e Gerry Milligan hanno letto le prime bozze e i loro con­ sigli sono stati determinanti; Christian Dusi e Anna Paparcone han­ no letto le prime versioni del manoscritto; Andrea Lissoni (LAO!) ha subito creduto in questo progetto e se n’è fatto portavoce presso que­ sta casa editrice, dove ha trovato ascolto presso l’attenta editor An­ nalisa Angelini. Per il loro ottimo lavoro editoriale vorrei ringraziare Loretta Russo e lo studio Arta di Genova. Per il loro aiuto nelle ricerche vorrei ringraziare Roberto Chiesi, Rossana Dedola e Anita Trivelli, Liliana Forina per l’ospitalità, e Ghi­ se Montini e Maura Rota per la loro infinita generosità. Grazie a Millicent Marcus per aver seguito con entusiasmo questa e altre mie ri­ cerche. Un ringraziamento ai miei colleghi della Colgate University per il loro incoraggiamento. Grazie alla mia famiglia e a Vinicio in particolare per l’aiuto e l’in­ coraggiamento, e grazie a Masha, che da vera pioniera non s’arrende mai «Bud’gotov, vsegda gotov!».

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