183 14 11MB
Italian Pages 128 [132] Year 1999
1) SG] PO) alcI ‘@,
Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation
Nttps://archive.org/details/pierpaolopasolin0000spil
1 Grandi del Gio collana diretta da Giovanni Grazzini
1 Grandi del e: Monografie di cinema e spettacolo per la scuola e l’università
e 7 Grandi del Cinema è una nuova collana dedicata ai protagonisti dello schermo, agli attori e ai registi che con le loro opere hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema. Si tratta di volumi monografici che ripercorrono in modo vivo e immediato l’intera attività cinematografica dell’attore o del regista fino a suggerire un esauriente ritratto critico dei maggiori protagonisti del cinema mondiale. Ogni monografia ripropone la vita e la carriera, la formazione professionale, ifilm diretti o interpretati dall’attore o dal regista. I testi sono integrati da un prezioso
corredo iconografico costituito dalle fotografie dei film scattate sul set o “rubate” alla vita privata. Attraverso i
vari volumi i lettori avranno l’impressione di seguire un unico, lunghissimo film fatto di momenti fondamentali, volti amati, immagini entrate nella memoria di tutti. I Grandi del Cinema non è soltanto una biblioteca di base destinata a
offrire strumenti di utile documentazione e di valutazione critica alle scuole e alle università che affrontano lo studio del cinema, dei suoi percorsi storici, dei suoi meccanismi di fascinazione, ma anche una collana rivolta al pubblico sensibile al fascino dello spettacolo.
PIERO SPILA
PIER PAOLO PASOLINI
GREMESE EDITORE
Copertina: Sergio Alberini Ricerca iconografica: Enrico Lancia
Fotografie: Giinter Rakete copertina. Centro Studi Cinematografici pag. 6, 10, 19, 21, 24, 28, 30, 32, 35, 39, 46, 52, 70, 72, 73, 74, 75, 101, 106, 107. Ente dello Spettacolo pag. 25, 54, 56, 57, 58, 60, 62, 83, 89, 90, 98, 100, 102. Ansa pag. 8. PEA pag. 68, 96, 109, 110, 111, 120. Divo Cavicchioli pag. 31, 33. Gianni Pignat pag. 37, 88. Angelo Novi pag. 48, 50, 81, 82. Alfonso Avicola pag. 64, 78. M. Tursi pag. 11, 109, 113. Anatole Saderman pag. 18. Deborah Beer pag. 94. Ferrari & Nasalvi pag. 76. Per quanto è stato possibile l’ Editore ha cercato di risalire al nome dell’autore di tutte le foto pubblicate in questo volume, per darne la doverosa segnalazione. Non sempre però le ricerche sono state premiate dal successo ed è pertanto con vivo rammarico che l’Editore chiede scusa degli eventuali errori, lacune od omissioni, dichiarandosi fin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941. Fotolito e fotocomposizione:
Graphic Art 6 s.r.l. - Roma Stampa: La Moderna — Roma
GREMESE EDITORE 1° Edizione © 1999 New Books s.r.l. Via Virginia Agnelli, 88 - 00151 Roma Fax 39/06/65740509 E-mail: gremese @ gremese.com Internet: www.gremese.com
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata 0 trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’ Editore.
ISBN 88-7742-195-9
Come Orfeo che perde Euridice, Pier Paolo Pasolini è un eroe del nuovo, ma con la testa volta al passato, un rivoluzionario incline alla contraddizione e all’autocritica, un autore votato alla classicità che si rimette in gioco ogni volta, pronto a sperimentare linguaggi per lui inediti, portato allo spiazzamento e all’intempestività, in lotta col suo tempo e con i segnali più smodati del progresso; di certo è un intellettuale raro, se non unico, in Italia, con la sua voglia di stare in mezzo alle cose, di viverle in prima persona, non solo di interpretarle e raccontarle. Di qui anche la particolarità del suo cinema: un universo estetico e linguistico stratificato, primitivo e insieme complesso, raffinato, spesso estremo, inconciliabile con i modelli preesistenti, eppure ossessivamente attaccato a temi eterni e generali come il destino dell’uomo, l’immanenza della realtà, il mito della natura e della Storia, il senso sacro della vita e della morte. Temi che Pasolini ha trattato come momenti
ineludibili del presente,
facendone materia di confronto e di sfida. È soprattutto per questa impostazione artistica ed esistenziale che Pasolini è stato di volta in volta poeta d’opposizione, scrittore “corsaro”, fino a costituire un “caso” politico nazionale e non solo. Pasolini appare sulla scena lette-
raria e culturale italiana alla metà degli anni Cinquanta e non l’abbandona più, attraversandola e occupandola clamorosamente, spesso da protagonista, fino all’anno della sua morte, il 1975, e poi ben oltre. A più di vent’an-
brile intensità, i sopralluoghi, i diari di viaggio (dai santuari consumistici del capitalismo occidentale alle realtà più estreme e povere del Terzo Mondo, in Tanzania e in India, nello Sri Lanka e nell’Africa più primiti-
ni dalla sua fine violenta, infatti,
va, nel Tibet e nello Yemen). E
si continua a parlare di lui come di un protagonista del nostro tempo, e si discute della sua opera e delle sue idee con una passione niente affatto mitigata. La sua morte è una ferita non rimarginata, una mancanza che la
poi le feroci, estenuanti polemiche giornalistiche, le prese di posizione spiazzanti, i processi
società italiana contemporanea, per fortuna, non è riuscita a me-
tabolizzare. Non poteva essere altrimenti. Ancora non è dato immaginare da quale dolore mortale né da quale nostalgia antica sia nata una vitalità prorompente, disperata e creativamente fertile come quella espressa da Pier Paolo Pasolini. E questo malgrado la vasta letteratura prodotta sulla sua opera. Innanzitutto è un problema di abitudini. Personaggio anomalo nel panorama culturale italiano, autore fuori dalle regole, dai comportamenti e dagli agi borghesi, con un piacere innato di operare al limite, spesso oltre; era quello, d’altra parte, il suo
modo di «gettare il proprio corpo nella lotta», senza calcoli e senza cautele: la vita pubblica e privata mischiate insieme, la letteratura e la poesia, il cinema e la politica interpretati con feb-
(trentatré, dal 1949 al 1977), le
partecipazioni ai festival, gli scandali, le invettive. Una voglia di protagonismo, una spinta, quasi masochistica, a “venire alle mani” con il giudizio corrente, a mettere in discussione i valori di quella borghesia italiana da lui definita la «più ignorante d'Europa». Un ritmo di lavoro e un modello di vita che sgomentano e inquietano per primi coloro che gli stanno più vicini e lo amano. Alfredo Bini, amico, produttore dei suoi primi film, ha scritto a caldo, all'indomani del suo assassinio, uno straziante post mortem: «Cristo, Pier Paolo, hai
visto che alla fine ti hanno ammazzato? lo ero preparato; però quando poi succede... Dal ‘59 al ’66, sette anni per dieci e anche venti ore al giorno, insieme. Beh, lo sai che a ogni fine di giornata mi dicevo: chissà se domani mattina questo qui torna o se invece si fa spaccare la testa da qualche parte?». E Dacia Maraini ha ricordato le 2)
mattine che nella casa di Sabaudia vedeva uscire Pier Paolo dal-
la sua stanza con una faccia stranissima, «come se venisse fuori
dal nulla o dall’inferno, da qualcosa di terribile che era la notte».
La vita, dunque, consumata fino in fondo, la morte tenuta presen-
te come un'ossessione, più volte rappresentata, profetizzata con un’insistenza addirittura sospetta. Perché alla morte, e alla morte violenta in particolare, Pasolini ha sempre pensato, dalle prime poesie friulane ai saggi teorici, dai suoi romanzi ai suoi
film, fino alle riflessioni semiologiche sul cinema come lingua scritta dell’azione o sulla funzione del montaggio cinematografico inteso come senso compiuto, “mortale”, e dunque irreversibile, di quel lungo piano sequenza che è la vita.
Per Pasolini, autore di cinema, la morte è un archetipo poetico, ma è soprattutto un sentimento
nostalgico
e familiare,
da cui scaturisce un dolore sincero e anche una preziosa febbre creativa. È sempre con la morte Che'il:suo cinemai si
chiarifica, si impenna e raggiunge il massimo di tensione dialettica, il momento più alto della verità e dell’equilibrio formale. La morte come liberazione di Accattone (supino e agonizzante sull'asfalto, che confida con il suo ultimo soffio di vita: «Ahhh! Mo’ sto bbene») o la morte come messa in scena di puro orrore nelle geometriche ecatombi di Salò o le 120 giornate di Sodoma; la morte sublimata dal movimento del dolly (l'inquadratura di Ettore legato
sul letto di contenzione in Mamma Roma) o la morte grottesca e narrativamente ‘“ideologizzata” (Stracci che muore sulla croce, per fame e indigestione, sul set de La ricotta o la
sottoproletaria Assurdina che in
Intellettuale raro, se non unico nel panorama culturale italiano, a
Pasolini piaceva gettarsi e stare in mezzo alle cose, viverle in prima persona, non solo interpretarle e raccontarle nei film.
La Terra vista dalla Luna precipita dal Colosseo scivolando su una buccia di banana gettata da ricchi turisti in visita). O an-
cora, la morte come purificazione
catartica
in Porcile
(i
protagonisti “non integrati” che esercitano le armi dello scandalo e del peccato, le più estremistiche possibili: il cannibalismo e la coprolalia), o la morte come pura necessità naturale, punto zero esistenziale e ideologico da cui avviare una nuova stagione dell’ Uomo e della Storia (Uccellacci e uccellini); 0, infine, la morte come improv-
visa e sorprendente rivelazione del mondo (la «bellezza infinita
del cielo» ammirata per la prima e ultima volta da Totò e Ninetto, marionette innocenti linciate dal pubblico, in Che cosa sono le nuvole?). E accanto al cinema, alla letteratura, naturalmente la vita.
La morte violenta di Pasolini, vissuta e assaporata come fedele compagna di strada, immaginata e descritta in versi di sconcertante precisione. Il gruppetto di gente che il sole porterà qui delegati dall’immenso mondo della storia (i vicini di casa, in silenzio, i
poliziotti col loro triste sudore, gli infermieri
venuti dalla campagna: come li vedo!) st troveranno davanti a un
fenomeno espressivo indubbiamente nuovo, così nuovo da fare un grande scandalo e da smerdare, praticamente, ogni loro amore. Quasi esattamente così, la mat-
tina di domenica 2 novembre 1975, giorno dei Morti, una piccola folla di poliziotti e curiosi si raccoglie intorno al corpo di Pier Paolo Pasolini, straziato dalle bastonate e dalle ruote dell’auto condotta dall’assassino. La foto Ansa pubblicata sulle prime pagine di quasi tutti i giornali sembra provenire direttamente dal magma narrativo, da quel senso di morte dalle radici arcaiche che in Pasolini è sempre stato consueto. La figura più avanti è quella di un uomo giovane e robusto, evidentemente un poliziotto in borghese, duro e senza emozioni. Solo, indossa un giubbotto di pelle con la chiusura lampo tirata fino al collo, i pantaloni chiari attillati con il cavallo basso. Una sigaretta in bocca e le due mani impegnate a riporre il pacchetto nella tasca di sinistra. Dietro di lui, più lontani, due poliziotti in divisa, il più giovane ha i baffi e tiene le mani conserte, il più anziano le 7
La foto Ansa pubblicata sulle prime pagine di quasi tutti i giornali all’indomani dell’assassinio di Pasolini. La luce e il taglio dell’inquadratura, l’ambiente, il comportamento e le espressioni della gente, la sospensione un po’ solenne del momento, tutto fa pensare al set di un film pasoliniano.
tiene raccolte pazientemente dietro la schiena. L’atteggiamento indifferente, un po’ annoiato. Sul fondo, incorniciata da una quinta di baracche di legno, la folla di curiosi, in maggioranza ragazzi che ridono e scherzano. Tra loro, una bambina che passa davanti a una scala di legno aperta, arrivata lì chissà come. Tutti — i poliziotti in divisa e in borghese, le decine di curiosi, la bambina — guardano fissi in avanti, verso la “cosa” distesa in terra, in primo piano, al centro della foto. Una povera cosa informe, ricoperta da un lenzuolo bianco imbrattato di sangue e terra che lascia intuire la forma di un corpo. «Un mucchio de monnezza»,
l’ha definito la donna
che per prima, alle sei e mezza di mattina, ha scoperto i resti di Pasolini. Al momento dello scatto doveva esserci un po’ di vento perché sui lati del lenzuolo qualcuno ha messo dei mattoni per non farlo volare via. La foto in bianco e nero inquieta soprattutto per la sua indifferente casualità, che sembra contraddire la straordinarietà dell’evento (il fotoreporter l’ha evidentemente scattata senza altre intenzioni che non quelle della cronaca, per lui era una foto come un’altra). Eppure, la luce e il taglio dell’inquadratura, l’ambiente, il comportamento e le espressioni della gente, la sospensione un po’ solenne del momento, tutto fa quasi pensare al set di un film di Pasolini, ai momenti di pausa che precedono l’ordine del regista. A distanza di tanti anni che senso hanno quella foto, quella morte? Nel 1967, a Pesaro, nel corso di una tavola rotonda organizzata
dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pasolini presenta per la prima volta la sua similitudine semiologica tra la vita e il cinema, la morte e il montaggio: l’azione di un uomo
(come
il materiale cinema-
tografico prima dell’intervento del montatore in moviola) manca di unità, ossia di senso, fin-
ché non raggiunge il momento in cui si definisce e fissa per sempre. Il montaggio opera sul materiale cinematografico (costituito da inquadrature e frammenti lunghissimi o infinitesimali) quello che la morte opera istantaneamente sulla vita, sulla
miriade di azioni che la compongono. Insomma, solo la morte riesce a dare senso definitivo all’esistenza di un uomo. Ci può essere un uomo onesto, dice Pasolini, che a sessant’anni compie un reato vergognoso: tale azione biasimevole modifica tutte quante le sue azioni precedenti, ed egli si presenta quindi come altro da ciò che è sempre stato. «Finché io non sarò morto — scrive Pasolini — nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi e agiamo, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita è un linguaggio intraducibile». Attenzione, però. Per Pasolini, più che un modo di sospendere il giudizio questo è un modo per dare più valore alle azioni compiute in vita. E allora la morte, nel suo significato generale e nelle modalità del suo accadimento, diventa anche una chiave di lettura per compren-
dere meglio gli atti e i momenti (apparentemente anche minimi e insignificanti) della vita e dell’opera di un uomo (e di un autore).
Dunque, se il mistero della morte diventa un problema di polizia, la morte, quel tipo di morte, la coerenza o la contraddizione rispetto agli atti (le opere, i film) che l'hanno preceduta o precostituita, sono anche un'opportunità per rileggere, e nel caso reinterpretare, il percorso e l’esito di quella vita e di quelle opere. Con Pasolini, purtroppo, questa operazione non ha portato a risultati soddisfacenti, poiché l’ ingombrante mistero della morte (con il relativo seguito di ipotesi, polemiche e discussioni)
è come
se
avesse posto una gigantesca lente deformante sulla materia. Da più di vent'anni si susseguono i libri, gli studi e le rassegne. La Fondazione intitolata a Pasolini, generosamente animata da Laura Betti, ha svolto e svolge un lavoro di straordinario valore nel recupero, nella conservazione, nel restauro e nella divulgazione dell’opera pasoliniana. Ci sono state trasmissioni televisive, documentari e film, sono state pubblicate importanti opere scritte da amici
ed estimatori
(Siciliano,
Golino, Schwartz, Zigaina), tante e notevoli monografie critiche. E tuttavia non c’è stata, e forse non poteva esserci, nessuna sedimentazione in quella materia magmatica rappresentata dalla vita e dalle opere di Pasolini. Nel ventennale della morte, tutti i giornali hanno pubblicato inserti o numeri speciali per ricordare l’autore. Una mole di saggi, interventi, dichiarazioni,
9
testimonianze, messe a punto: tutto esattamente uguale a quanto pubblicato nella prima ricorrenza, dieci anni prima. A più di vent'anni, gli stessi interrogativi sulla collocazione ideologica, lo stesso dibattito su quanto estetismo e quanto
A oltre vent’anni dalla sua fine violenta, si continua a parlare di lui come di un protagonista del nostro tempo. La sua morte è una ferita non rimarginata, una mancanza che la società italiana, per fortuna, non è ancora riuscita a metabolizzare.
realismo ci fossero in Pasolini,
sulla confusione politica e sul rischio formalista, o addirittura su dove l’autore avesse espresso il meglio di sé (se in cinema o in teatro, se in poesia o nel romanzo). È stata raccolta l’intera opera poetica (Bestemmia, Garzanti); sono stati pubblicati postumi gli straordinari materiali del romanzo incompiuto Petrolio (Einaudi), progettato 10
con dimensioni gigantesche e “definitive”, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto, fra l’altro, testimoniare l’im-
possibilità di «fare un romanzo» (e un critico letterario l’ha
definita la cosa migliore scritta da Pasolini). Non sono mancate
le strumen-
talizzazioni, le appropriazioni
ideologiche azzardate, come quella incredibile tentata dalla destra. Da una parte, questo è comprensibile poiché i temi più controversi sollevati da Pasolini e i suoi famosi “attacchi al Palazzo” negli anni Settanta si sono rivelati quasi sempre di un’attualità sconvolgente; dall’altra, la stessa attualità dei temi denuncia anche la sostanziale impotenza di una società chiusa in se stessa, bloccata nei suoi rapporti di potere e di rappresentanza, pigra e fondamentalmente amorale, incapace di affrontare i problemi di fondo e dunque di uscire dall’impasse, riscattarsi, in qualche modo evolvere.
AI di là del personaggio Pasolini, e dell’ingombrante fama che lo circonda, che impressione fanno oggi i suoi film, così linguisticamente complessi ed emotivamente datati, allo sguardo di uno spettatore nuovo? Il timore, da verificare, è che quei film propongano l’atmosfera delle feste finite, l’odore dei teatri chiusi da tempo, delle antiche dimore che hanno conosciuto momenti di splendore e grandi passioni ma che ora a nessuno verrebbe in mente di riutilizzare. La speranza è, invece, che quei film mantengano il sapore autentico del cinema d’autore: opere capaci di superare indenni le barriere del tempo e delle mode, pronte a toccare il cervello e il cuore degli spettatori di ogni generazione, a offrire emozioni, momenti
di gioia e verità. È una verifica non facile, innanzitutto perché, a parte alcuni titoli più abbordabili e popolari (Accattone e Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re e Il
Per Pasolini il cinema è la rappresentazione linguistica più rivoluzionaria della realtà perché riesce a rappresentare con la fisicità delle immagini ciò che a livello letterario rischia sempre di apparire didascalico, sociologico e pedante.
Pier Paolo fotografato con il fratello minore, Guido, nel 1928, a Belluno, dove la famiglia Pasolini si era momentaneamente trasferita per seguire il padre,
ufficiale di carriera.‘
Decamerone, Uccellacci e uccellini e poco altro), la maggioranza dei film di Pasolini rivive ormai soprattutto per merito degli specialisti, dei compilatori di tesi universitarie, di coloro che li studiano in moviola, e sono visibili grazie all’impegno di chi li conserva con rispetto e amore, li programma in qualche cineforum 0 nelle fasce notturne dei palinsesti televisivi. Il problema principale, come già detto, è che troppo ingombrante appare il personaggio Pasolini rispetto al suo cinema, troppo presente ancora il suo gesto e la sua voce, troppo vasta e articolata infine la sua opera, declinata in tutte le forme artistiche possibili — il cinema certo, ma anche la poesia, il romanzo,
il teatro, la saggistica, l’analisi sociopolitica, la pittura —, al punto che il cinema finisce per essere considerato una parte tra le altre parti, e forse neppure la principale. Capita così che, a causa di questa anomalia percettiva, si rischi di sottovalutare il valore specifico e lo spessore di un cinema straordinario per originalità linguistica, vivacità e tensione di stile. AI punto che della sua potenzialità capita ma-
12Li
gari di avere solo testimonianza indiretta, attraverso qualche rispettoso omaggio d’autore 0 grazie alle folgoranti citazioni di qualche film americano, come ad esempio L'ultima tentazione di Cristo o Casinò di Martin Scorsese (un regista che, non a caso, dice di conoscere e amare Pasolini solo per il suo cinema).
Lo sforzo, allora, è di analizzare 1 film di Pasolini soprattutto nella loro autonomia linguistica e, naturalmente, nella loro fertile “diversità” rispetto al contesto in cui sono stati realizzati. Si vedrà allora che il cinema di Pasolini non è affatto definibile una volta per tutte “pasoliniano” (una delle definizioni, ahimé, più inflazionate, imprecise e mistificatorie),
e che non
consente alcuna semplificazione; in altri termini, è indispensabile tenere presenti le numerose contaminazioni artistiche, i prolungamenti e gli infiniti segnali proposti, per poi ritornare, sempre e soprattutto, al cinema e ai suoi film. Non è facile. Tutti i film di Pasolini, infatti, da Accattone a Salò, sono accompagnati da un impressionante apparato di testi e materiali spuri (poesie, prose,
diari di lavorazione, articoli giornalistici, interviste, difese giudiziarie, autocritiche), predisposti dall’autore stesso, preoccupato, più che di difendere le proprie opere nel momento dell’incontro con il pubblico e dell’analisi critica, di prolungarne il senso e di precisarne le ragioni, completando con le sue intenzioni d'autore ciò che teme di non essere riuscito a dire con le immagini o che sente di aver detto in modo sempre parziale e impreciso. E a causa di tale parzialità essere ingiustamente giudicato, tradito. In questo senso, il processo creativo adottato è unico. Dalla vita Pasolini assume l’ispirazione delle storie, dei personaggi, dei corpi, degli ambienti dei film; come scrittore sviluppa sceneggiature e ampi trattamenti in prosa, di notevole qualità
letteraria, quasi sempre autonoma rispetto alla successiva utilizzazione cinematografica; da regista, recupera forme e luci pittoriche, musica colta o popolare, citazioni filmiche; da autore, inventa il linguaggio più idoneo a rappresentare quelle tensioni e quei furori e, infine, come filologo, analizza puntualmente il senso e le ragioni dei suoi film producendo uno sterminato apparato critico e autocritico.
In tali condizioni,
se diventa difficile analizzare le opere di Pasolini senza tenere conto del generoso materiale a
disposizione, allo stesso tempo è necessario provare a “guardare oltre”, non lasciandosi condizionare da questa “guida” amorosa e un po’ invadente e ritrovando, per quanto è possibile, quel distacco e quella freschezza di sguardo capaci di far scoprire o riscoprire, a più di vent'anni di distanza, ciò che è stato dimenticato o forse trascurato. Una buona scommessa. Perché, come i luoghi dell’infanzia e della memoria, i film di Pasolini crescono e si modificano a distanza di tempo, e acquistano spessore proprio in quanto non legati a formule espressive datate, e perché affrontano temi e conflitti ancestrali, a-storici e, quindi, sempre attuali. Provare dunque a distanziarsi criticamente non per tradire quel cinema nelle sue ragioni di fondo, ma per rintracciare in quei film ciò che è ancora attuale, recuperando al cinema di Pasolini anche quel culto dell’intempestività a cui Gilles Deleuze attribuisce uno dei fattori positivi dell’arte. È soprattutto da questo tentativo di risarcire una qualche curiosa e pervicace reticenza, che il presente lavoro intende partire, cercando di stare il più vicino possibile al corpus dei film di Pasolini, scoprendo, quasi didascalicamente, quello che essi possono dirci ancora oggi, oltre a quello che hanno detto allora. Forse è anche il modo più utile per raccontare nuovamente un cinema tra i più originali e fertili che siano mai stati prodotti. Ed è confidando in tali ragioni che dedico questo lavoro, con riconoscenza e ammirazione, a un Maestro indimenticato.
A tre anni, in una foto con la madre Susanna. Sarà con lei, nell’inverno
del 1949, che deciderà di lasciare per sempre Casarsa della Delizia per fuggire, «come il personaggio di un romanzo», a Roma, dove vivrà la sua maturità di uomo e la fase più intensa della sua carriera artistica.
CI a SU
eco
berSRIFRTZIA
+tra
Le
, %
*Ittosdi
14
ba *
attosctaiti
GSDERTTTTO: anto
Ir ba »*
rat 4* pa p
Par
gonti terg dropugr va dorr vestesa Pa, fee?
PA
A,
r Fa
%
«derò Et ristes,
Ae eddie
ppi sur
* su è sui
pupa
ig Uathg
rt
dii
divsase
lied PRAbAi
ps
PPREIZASb39117
*
9%
drdrizioa
SATESILHSS: tinirisio.
CRETA
(a48444); 4$:
RL
so sappia ssttttiiooe LI DORETETETIION ‘ “
SII PFEFISRIRTE pe
IREnezsgazerti La ERP.
iii
tor rrisiiti
PEVIotsiti ‘ Le Pippo er t7i 4 PEREticso. TEZIIORIINIIIANA vert
rpg i rit tti
ditte
44414 dirisies
pe
DEI
AESTE d2,
pirpapriotota.
ATTS annaVIVARILAERItt
î:
$
Pisis, Bbrisisi
apre rtsit. SIRelpzgi TIRI erapazezeeenttà
ST£L4sa
FATERtI .
bisi
4:
dipniniostittità,: Puissosoritiza Metti: PERI TTTILPSIIILIIII
Eriziose? 4
TTTZI,E.
Iprrosi «sos tERiàii
LES
FPisscstizs
et
paprt pera
“ALLES
RAI
divornisstito i iatisitizioa Pio.
Pitpesst Vidsetoi
-s 6» CwIsttiti CALL
did.
votbtiio
MULCRERECELII itpbrtttpis
NL
TM,»
Per Pasolini Accattone non è solo il primo film da regista, è anche la svolta della sua carriera. Un esordio nel cinema preparato a lungo, addirittura fin dal suo arrivo a Roma, a ventisette anni, in un momento diffi-
cilissimo della sua vita di uomo e di scrittore. Pasolini aveva ormai chiuso l’esperienza friulana (al suo attivo c’erano soprattutto un volumetto di poesie in dialetto, recensito positivamente dal grande critico Gianfranco Contini, e un romanzo che verrà dato alle stampe molti anni più tardi, // sogno di una cosa) e nell’inverno del 1949 era fuggito a Roma «come il personaggio di un romanzo», da Casarsa della Delizia, la cittadina natale della madre, dove da ragazzo era giunto sfollato nel corso della guerra dopo una serie di continui spostamenti a seguito del padre, ufficiale di carriera.
In una foto degli anni Sessanta, a Roma, durante un sopralluogo per un film. L’amore per la
periferia è viscerale perché essa è precaria, una forma sul punto di scomparire, inghiottita dalla città nuova che avanza. Tutto è prezioso quando sai che “deve” morire.
Nato il 5 marzo 1922 a Bologna («una città di portici e nebbia»),
qui, da adolescente, aveva anche studiato all’ Università frequentando le lezioni di storia dell’arte tenute da Roberto Longhi, che rimarrà sempre uno dei maestri più importanti. Aveva avuto, tra l’altro, una brevissi-
ma parentesi come
militare, a
Pisa, dal 1° all’8 settembre 1943, quando, disobbedendo
agli ordini di consegnare le armi ai tedeschi, decise di fare ritorno a Casarsa. Il 1943 è un anno durissimo per tutti, che Pasolini ricorda però come «uno dei più belli della sua vita». È in quel periodo infatti che ricomincia a scrivere versi e inizia a svolgere attività politica. Vive nascosto e braccato dalle SS e dai fascisti, con il terrore fisico di finire uncinato, come poteva capitare in quei giorni ai giovani renitenti alla leva o agli antifascisti che operavano nell’alto litorale adriatico. Il fratello più giovane, Guido, comunista, fugge in montagna a fare il partigiano e Pier Paolo lo accompagna in stazione tenendogli la pistola nascosta in un libro di poesie. È una vicenda che si concluderà tragicamente, perché Guido, arruolato nella divisione Osoppo, una forma-
zione “bianca”, viene ucciso nell’oscuro episodio di Porzus da una squadra di partigiani garibaldini legati a Tito. Alla fine della guerra inizia per Pasolini il periodo più amaro: il dolore inconsolabile della madre per la morte del figlio, il ritorno a casa del padre, frustrato e ammalato, che comincia a bere e ad incupirsi, l'episodio “scandaloso” vissuto nella scuola in cui insegna e per cui viene accusato di omosessualità e pedofilia, 1’ espulsione dal partito comunista (era segretario della locale sezione PCI) per ‘“indegnità mora-
le e politica”. Nell'inverno del 1949 la decisione di lasciare Casarsa della Delizia e di fuggire a Roma. Ad accompagnarlo c’è solo la madre, ed è con lei, amatissima, che Pasolini vive la sua maturità di uomo e la nuova straordinaria fase della sua carriera artistica. L'arrivo a Roma è una soglia esistenziale varcata con apprensione e coraggio, un passaggio che chiude la stagione indimenticabile dell'adolescenza e l’esperienza creativamente fertile del dialetto (inteso come forma ideale di purezza linguistica, occasione inesauribile di approfondimento e ricerca), fase vissuta in una dimensione deca-
15
che avanza. Tutto è prezioso quando sai che “deve” morire. Niente di apocalittico quindi in tale atteggiamento, ma una specie di tragedia che Pasolini vive quasi fisicamente e che sovrappone alla sua polemica ‘“scandalosa”, e spesso fraintesa, contro la modernità come “rivoluzione
conformistica”, la mutazione antropologica degli italiani, 10mologazione culturale e, ancora, contro quella diffusa rete di ingiustizia e di ferrea interdipendenza che lega popoli e continenti. È una polemica presente in tutta la sua opera, dall’arrivo a Roma, quando descrive ne Le
In Marocco, sul set di Edipo re. Per i suoi numerosi viaggi, Pasolini è il poeta dello spaesamento: essere in ogni luogo se stesso, e ricercare se stesso nei vari luoghi del mondo, soprattutto là dove c’è emarginazione e ingiustizia.
dente e irreale, muovendosi in una specie di universo fiabesco magicamente sospeso nel tempo e nello spazio, «rischiarato dalla luce delle comete» e ravvivato dai soprassalti dell’eros; un universo permeato da un senso panico e misticamente religioso, ma anche da un arcaico rifiuto della storia e dalla gioiosa, irrefrenabile capacità di percepire (e trasfigurare) la realtà circostante nella luce del mito e della poesia. È un’età bellissima improvvisamente violata dall’irruzione della morte (la guerra, l’uccisione del fratello innocente) e dalla cattiveria e incomprensione del mondo (l'accusa e la condanna, l’espulsione dal PCI). Il capitolo friulano si
16
chiude così sotto il segno della sconfitta e della vergogna. Roma è la scoperta e la conquista di una nuova realtà, certo più estranea e difficile, ma ancora filtrata dalla vena nostalgica di una giovinezza vissuta intensamente nella luce poetica di una diversità che lo rende e renderà per sempre “segnato”: non sarà la città, con la sua durezza e il suo respiro quotidiano, il fulcro principale della ispirazione artistica di Pasolini quanto piuttosto la situazione di chi dalla città viene escluso e rigettato ai margini, ed ecco quindi l’attrazione irresistibile per i «luoghi sconfinati dove credi/ che la città finisce, e dove invece/ ri-
comincia, nemica, ricomincia/ per migliaia di volte...»; non il presente delle ingiustizie o dei conflitti sociali, ma ancora una volta il tempo a-storico di una condizione di isolamento e di separazione. Pasolini ama visceralmente la periferia perché essa è precaria, una forma sul punto di scomparire, inghiottita dalla città nuova
ceneri di Gramsci per la prima volta la capitale con versi già definitivi («Stupenda e misera città/ che mi hai insegnato ciò che allegri e feroci/ gli uomini imparano bambini,/ le piccole cose in cui la grandezza/ della vita in pace si scopre, come/ andare duri e pronti nella ressa...»), fino alla parte più matura della carriera, quando in lui viene meno ogni fiducia e la critica si fa allora più estrema e radicale, quando a un certo punto dichiarerà di abbandonare |’Italia «al suo destino», alla «mo-
dernità», alle «omologazioni» e ai «genocidi», per battere le infinite periferie del mondo, l’India, l'Africa, l'Asia, per incon-
trare il colore e l’odore del passato, per testimoniare ogni volta la solidarietà per tutto ciò che sia emarginazione e sacrificio. A Casarsa della Delizia come a Roma, a Sana’a come a Nairobi, Pasolini è il poeta dello spaesamento: essere in ogni
luogo se stesso, e rincorrere e declinare se stesso nei vari luoghi del mondo. Non la storia, dunque, ma sempre il suo superamento in una Vitalistica espe-
rienza soggettiva; non la cultura imposta dalla borghesia ma il «lessico vivente» di un mitizzato proletariato pre-industriale, sopravvissuto ad ogni sopraffazione. A Roma, nei primi anni Cinquanta, Pasolini vive un periodo di estrema povertà. Lavora come insegnante in una piccola scuola privata di Ciampino, e ogni mattina si sobbarca due ore di tram per gli spostamenti tra casa (un piccolo appartamento diroccato) e posto di lavoro. La scoperta del cinema arriva prima da spettatore, poi, per guadagnare qualche lira, attraverso un oscuro lavoro di comparsa a Cinecittà (Attilio Bertolucci ricorda di avergli visto il tesserino, conservato ancora molti anni dopo), con piccole recensioni per riviste e rivistine letterarie, e soprattutto,
(pubblica, tra l’altro, importanti
mentale dell’uso del dialetto, è
raccolte poetiche come Le ceneri di Gramsci, L’usignolo della Chiesa Cattolica, La religione del mio tempo; scrive i romanzi I ragazzi di vita e Una vita violenta, le raccolte di saggi Passtone e ideologia e La poesia popolare italiana). Una tale produzione letteraria e poetica potrebbe far apparire quasi residuale l’attività per il cinema, ma non è così. L'esperienza letteraria e quella cinematografica sono in Pasolini naturalmente complementari, ma è il cinema — trasposizione visiva e diretta della pagina scritta senza più l’intermediazione della lingua — l’approdo creativo inevitabile, il prolungamento di una modalità espressiva che è ormai insoddisfacente. Il cinema come «lingua scritta dell’azio-
dunque soprattutto il cinema ad apparire a Pasolini un terreno insondato da scoprire. Ci sono, naturalmente, anche ragioni più specifiche che nascono dalla curiosità intellettuale e dall’in-
infine, scrivendo soggetti e sce-
ne» (nella famosa defi-
neggiature. Il cinema è la sua strada, e Pasolini intensifica rapidamente e proficuamente l’attività di sceneggiatore collaborando, tra gli altri, con Mario Soldati (per cui firma ufficialmente il suo primo copione, La donna del fiume, 1954), Mauro Bolognini (Giovani mariti, La
nizione pasoliniana) è la rappresentazione linguistica più rivoluzionaria della realtà perché riesce a rappresentare con la fisicità e la verità delle immagini ciò che a livello letterario rischia sempre di essere didascalico, sociologico, simbolico e pedante. Dopo aver esaurito la
notte brava,
Il bell’Antonio),
Franco Rossi (Morte di un amico) e Federico Fellini, per cui effettua una revisione del parlato romanesco di Le notti di Cabiria e, successivamente, scrive una scena (non utilizzata)
per La dolce vita. Per quasi un decennio, fino al 1961, anno dell’esordio alla regia con Accattone, Pasolini si sottopone a uno sforzo creativo e letterario che non ha paragoni; è una fabbrica inesauribile
di
invenzioni ed elaborazioni espressive, di materiali ed espe-
rienze tra loro anche eterogenee
Ancora una foto degli anni Sessanta. Roma è la scoperta e la conquista di una realtà più estrema e difficile, ma ancora filtrata dalla nostalgia per una giovinezza vissuta intensamente, nella luce
di una diversità che lo BILL] “segnerà” per sempre.
spinta innovatrice e quasi speri-
soddisfazione,
o c’è, sia pure
ancora inespressa, quella che Tullio Kezich ha chiamato «la volontà di avviare un’integrazione dell’intellettuale italiano con la società contemporanea». Una figura, in effetti, quella dell’intellettuale, fino allora chiusa nell’isolamento editoriale e universitario, e che solo con Pasolini si aprirà, irresistibilmente, ai mezzi di comunicazione di massa. Le ragioni principali sono comunque enunciate da Pasolini stesso nel momento in cui si po-
ne dietro la macchina da presa e puntualmente si autointerroga: «Perché sono passato dalla letteratura al cinema? Questa è una domanda prevedibile in un'intervista, una domanda inevitabile e lo è stata. Rispondevo sempre ch’era per cambiare tecnica, che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova, o il contrario, che dicevo la stessa cosa, come sempre, e perciò dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione. Ma ero solo in parte sincero: il vero era in quello che avevo fatto fino allora. Poi mi accorsi che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi appartenente alla stessa lingua con cui si scrive: ma era essa stessa una lingua.
In realtà, il problema linguistico, sempre fortissimo in Pasolini, si porrà in particolare nel prosieguo della carriera. Il suo approdo al cinema nasce inizialmente da un’esigenza creativa insopprimibile e anche dalla delusione per come fino allora le sue sceneggiature (il suo mate-
Pasolini ha piena coscienza, anzi la teorizza. La sceneggiatura è solo una fase del film, ne influenza la struttura e la drammaturgia, ma non può determinarle. D’altra parte, nel momento in cui la sceneggiatura è «una struttura che vuole essere altra struttura» (le parole trasformate
riale letterario) erano
in immagini),
(...) Ma non ero del tutto since-
stesse situazioni, gli stessi personaggi, lo stesso senso immanente del destino e della morte, eppure basta tenere presente l’impatto visivo ed emotivo di una qualunque inquadratura di AGCOITONCMPEI convincersi che quei film, pur nati dalla stessa matrice, appartengono a universi linguistici incomparabili. Di questa separatezza
ro, ancora. Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica».
state tra-
dotte e «linguisticamente tradite» per mano di registi, da lui anche amati e stimati, come Bo-
lognini o Rossi. Il lavoro svolto da sceneggiatore è fondamentale per capire la qualità dei risultati conseguiti da Pasolini regista. Tra i film da lui solo scritti e quelli invece scritti e diretti, la differenza è abissale. Negli uni e negli altri ricorrono gli stessi ambienti, le
Con Anna Maria Ferrero sul set de Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani, dove interpreta con grande efficacia la parte di Leandro detto “er Monco”, il membro di una banda operante a Roma nell’immediato dopoguerra.
essa può e deve
essere contraddetta e tradita. Nel suo caso particolare, Pasolini descrive la prostituta protagonista de La notte brava di Mauro Bolognini come una «biondaccia ossigenata, con sotto i capelli un viso un po’ buffo, da spazzacamino», ma poi per interpretarla nel film viene chiamata un'attrice come Antonella Lualdi. Bisogna partire da questa condizione di impotenza autoriale e da questa sommatoria di scostamenti estetici e ideologici, per capire l'entusiasmo con cui Pasolini vive finalmente il proprio passaggio alla regia. La preparazione di Accattone inizia nel 1960, con la neonata Federiz, una casa di produzione fondata da Federico Fellini, An-
gelo Rizzoli e Clemente Fracassi. Dopo aver letto il copione del film, corredato da centinaia di foto dei luoghi e dei protagonisti, questi ultimi scelti direttamente dalla strada, Feltini invita Pasolini a girare alcuni provini — in realtà si tratta di due scene intere, 150 metri di pellicola consumati in tre giorni di riprese. Il risultato tecnico è un mezzo disastro. Kezich, a cui capita di assistere alla proiezione del provino, lo ricorda così: «Quel-
le immagini così traballanti, quel raccontare così incerto, non incoraggiavano a dare un parere positivo». Il film non si sarebbe infatti mai fatto se non ci fosse stato Alfredo Bini, all’epoca
giovane produttore ancora alle prime armi, con cui Pasolini aveva collaborato per la sceneggiatura de // bell’Antonio. Bini accetta di vedere il materiale girato, insieme a Bolognini, artefice dell’incontro, e al suo montatore di fiducia Nino Baragli, e la prima impressione, anche questa volta, non è un granché. «Il materiale — racconta Bini — era proprio brutto. Una cosa scombinata, girata da un dilettante domenicale. Però si capiva che il regista aveva qualcosa da dire, e che voleva dirla sinceramente». Non solo, si sarebbe anche dovuto capire che quella fotografia bruciata, quel modo di girare discontinuo, a scatti ed arresti violenti, costituivano già l’idea di uno stile e sarebbero
Durante una proiezione in un cineforum parrocchiale. L’approdo al cinema nasce da un’esigenza creativa insopprimibile e dalla delusione per come le sue sceneggiature sono state tradotte e “linguisticamente” tradite.
infatti diventati la cifra estetica,
il linguaggio inimitabile di Accattone e dei primi film pasoliniani. Più tecnico il ricordo di Baragli: «Quando ho visto il materiale m’è preso un colpo! Pasolini girava un uomo che correva. Poi improvvisamente lo faceva ritrovare fermo, davanti alla macchina da presa. Noi montatori siamo abituati alle uscite e alle entrate in campo.
Pasolini, invece, un controcampo lo faceva a Frascati e un altro a Venezia. Ma io riuscii a capire quello che lui voleva». Era evidente, insomma, che Pasolini non sapeva usare la macchina da presa in modo tradizionale, ma avrebbe imparato prestissimo, e dunque non era quello il problema. Per Bini il vero problema è scegliere le persone giuste da affiancargli durante la lavorazione, e in questo non sbaglia un colpo, grazie a un montatore come Baragli e a un operatore esperto e duttile come Tonino Delli Colli. Delli Colli ricorda così quell’esperienza: «Al tempo di Accattone lui non sapeva spiegarmi bene che tipo di fotografia voleva esattamente. Però in testa aveva una sua LO
idea molto chiara. Mi disse che voleva una fotografia sgranata e continuava a parlarmene senza riuscire a dirmi di più, e allora mi venne in mente di prendere un vecchio settimanale di attualità e di mostrargli una di quelle foto scattate con il flash che si sgranano subendo un processo di ingrandimento eccessivo. Pasolini disse che grosso modo già c'eravamo, però dopo mi condusse anche a vedere Giovanna d’Arco di Dreyer e Luci della città di Chaplin e aggiunse che, come idea di cinema, la sua era
proprio quella. Difatti a lui non gliene fregava niente se non aveva la panoramica, tanto faceva tutte scene fisse, tutti campi e controcampi. Ecco, in Accattone alla base ci fu questa ricerca del contrasto. Io avevo scelto la pellicola Ferrania proprio perché era la più dura rispetto alle altre pellicole allora sul mercato e perché rendeva meglio il tono particolare che voleva lui». Oltre agli aspetti tecnici, c’era poi il problema della distribuzione, perché un film come quello sarebbe stato difficile farlo uscire. A Bini viene in mente Cino Del Duca, un vecchio produttore che da tempo si era distaccato dal cinema e che si era ritirato a Deauville dove aveva acquistato una scuderia di cavalli. Bini lo incontra all’ippodromo cittadino durante una corsa di trotto, un ambiente elegantissimo ed esclusivo, e mentre siede in tribuna prova a raccontargli in due parole la storia del film. «È una storia che costa poco ed è bellissima, si tratta di un magnaccia che alla fine grazie all’amore si redime». Del Duca continua a seguire la corsa col binocolo, in 20
silenzio, come se non avesse voglia di ascoltare. Quella storia di ladri e di puttane a Bini sembra improvvisamente quanto di più lontano possa esserci da un ambiente come l’ippodromo di Deauville. E invece, alla fine, Del Duca fa un atto di generosità e accetta di partecipare al 50% dei costi. E con quel 50%, che sono però soldi veri, si farà tutto il film.
Con Alberto Moravia. Nel corso della loro lunga amicizia, i due fecero insieme numerosi e importanti viaggi di lavoro in India e in Africa. Di tali esperienze è rimasta traccia in reportages e in film in forma di appunti.
Durante un intervento pubblico. Feroci ed estenuanti sono sempre state le polemiche giornalistiche, le prese di posizione spesso spiazzanti, i processi giudiziari (ben trentatré, dal 1949 al 1977), gli scandali, le invettive. Una spinta quasi masochistica a «venire alle mani» con il giudizio corrente e con i valori di una borghesia spregiativamente considerata la «più ignorante d'Europa».
*
:È È
5
Franco Citti e Adele Cambria in Accattone. Personaggi che non recitano ma si rappresentano. A Pasolini non interessa dare una visione documentaristica 0, peggio, sociologica della loro vita e dei loro comportamenti, quanto cogliere di loro la vitalità ancora primitiva, la traiettoria oscura di un destino inevitabile.
«Tutto brucia. Il sole tenero della mattina di fine estate, come calce rovente. Una faccia bruciata, in primo piano, alza la scucchia coi due buchi sulle guance e lo sguardo acquoso. L'uomo guarda dritto dentro la macchina da presa e parla con marcato dialetto romanesco. “Ecco la fine del mondo. Fateve vede bene, nun v’ho mai vi-
sto de giorno! V’ho sempre visto a lo scuro! Ché, le donne v’hanno fatto sciopero?”. E ride sdentato». È l’inizio di Accattone descritto nella sceneggiatura originale ed è anche la prima scena ufficialmente girata e montata da Pasolini regista. Una scena figurativamente solenne, visualizzata in sceneggiatura con il puntiglio e l’enfasi di uno storyboard letterario e girata poi con un obiettivo brutale — il 50 mm - che lascia già il segno. L’azione si svolge in esterni e dal vero, in un «baretto beduino» della Marranella, ed è interpretata da un coro di personaggi straordinari che ingaggiano tra loro un duello di battute sarcastiche e feroci. Scucchia e Giorgio il Secco, Mammoletto e Cartagine, il Moicano e naturalmente Accattone, sono ladri e magnaccia («la
società
della
Metro
Goldwyn Mayer», li definisce ridendo un personaggio con il gesto arranfante del leone) che
pongono tra loro e la società civile una distanza insuperabile. A fronte di questa loro separatezza immobile e proterva c’è il popolo che lavora e soffre, ma che soprattutto non si ribella, pronto a integrarsi, e quindi è già “complice” e merita il “disprezzo”; c’è il ‘carro bestiame”, il gremito tranvetto della Stefer che ogni mattina porta in città operai e studenti, e c’è Sabino, il fratello minore di Accattone che con la rassegnazione del ragazzo già adulto si reca tutti i giorni al lavoro e deve subire la derisione degli amici («Va a lavorà?! Ha bestemmiato! Ha bestemmiato!»). Perso-
naggi come questi, così epici e così veri, sullo schermo non ci sono mai stati, almeno per co-
me sono rappresentati (perché di film con ladri e magnaccia la storia del cinema è piena). Scucchia, Giorgio il Secco, Cartagine e i loro degni compari sono nel film personaggi di contorno che hanno la funzione di un coro disperato e blasfemo, a cui però Pasolini dedica la cura riservata normalmente ai protagonisti principali: primi piani frontali, luce scolpita, scansione sottolineata delle battute, dei tempi e dei silenzi, sorrisi timidi o aggressivi, e
sottofondi musicali tratti da Bach. Personaggi che non recitano, ma si rappresentano, che non entrano o escono dall’in-
quadratura, ma costituiscono l’inquadratura, la incarnano. A Pasolini non interessa dare una visione documentaristica 0, peggio, sociologica, della loro vita e dei loro comportamenti. Piuttosto, vuole coglierne la vitalità ancora primitiva, il rifiuto istintivamente anarchico delle regole, la traiettoria oscura del loro destino segnato da una sconfitta inevitabile, la deriva
autodistruttiva e soprattutto l’incombente senso di morte che si portano dietro (appunto la “periferia” fisica e umana che sta per scomparire per sempre), per poi trasferire tutto questo materiale in una proiezione poetica, sacrale e già mitica, nel confronto con un mondo culturalmente
lontano
(le
forme della città si intravvedono, estranee e nemiche, sullo sfondo) ma fisicamente già interiorizzato in un’operazione mimetica che il cinema, a differenza della letteratura, sembra improvvisamente consentire meglio e di più. È un cinema che già dalle prime inquadrature è straordinariamente ricco dal punto di vista linguistico ed espressivo. In realtà, lo stile di Pasolini appare quasi scolastico, ripetitivo, incerto, ma sono chiaramente già delineati i tratti di un progetto che avrà elaborazioni e sviluppi impressionanti per profondità e complessità, sem-
23
pre salvaguardando una coerenza di fondo. La trama del film non segna alcuna discontinuità con l’opera pasoliniana precedente. Vittorio, detto Accattone, vive alla giornata, in una borgata ai margini della sterminata periferia romana, sfruttando una prostituta chiamata
Maddalena
(la
scelta dei nomi nei film di Pasolini non è mai casuale). Quando la donna finisce in car-
cere, Accattone cerca di tornare dalla moglie Ascenza, dalla quale ha avuto un figlio, ma viene malamente cacciato dai suoi parenti. Una soluzione sembra arrivare da Stella, una ragazza ingenua e poverissima, che si innamora di Accattone e
24
In un «baretto beduino» all’estrema periferia della capitale, un coro straordinario e blasfemo di ladri e magnaccia che ingaggiano tra loro un duello di battute sarcastiche e feroci. La distanza con la società civile appare insuperabile.
che lui prova a mettere sulla strada. Il tentativo non riesce, perché la timida Stella crolla tra le lacrime davanti al primo cliente. Dopo aver inutilmente provato a lavorare da un fabbro («qui è peggio di Buchenwald!»), disperato e pedinato dalla polizia (dal carcere Maddalena, che ha saputo di Stella, lo ha denunciato),
Accattone
accetta di andare a rubare con l’amico Balilla («Da quando il mondo è mondo non c’è mai stato un ladro disoccupato»). Durante
un piccolo furto, per
sfuggire alla polizia, Accattone ruba una motocicletta e va a schiantarsi contro un camion. Ai soccorritori, prima di morire, ha solo la forza di mormorare una frase: «Mo'sto bene». La traiettoria umana di Accattone è illusoria perché predestinata: non tanto perché continua a girare a vuoto tra gli amici ladri che lo deridono, i protettori napoletani che vogliono vendicarsi e i questurini che lo spiano, quanto per la luce di sacralità che lo rende diverso e isolato. Il suo itinerario è sospeso, sem-
a Il deposito di bottiglie dove lavora Stella e dove Accattone si reca a trovarla. Lo stile di regia appare ancora scolastico e quasi incerto, ma sono già chiaramente delineati i tratti di un progetto estetico impressionante per profondità e complessità.
mai è un procedere a ritroso, una specie di discesa agli inferi che neppure l’incontro con l’amore riuscirà ad arrestare. Il primo film è in genere un reperto prezioso dove è possibile trovare condensati il massimo dei sintomi, delle qualità, delle ossessioni di un autore. Il film d’esordio è per un regista come l’intrico delle linee della mano decifrato da una chiromante, un’opera in cui si può teorica-
proletario, mitologico, terzo-
mente intravvedere (a posteriori
mondista); c'è, ancora solo ac-
e sia pure per grandi linee) il successivo sviluppo espressivo. Per Pasolini l’opera prima è qualcosa di più. In Accattone c’è già manifestata, violentemente, tutta la tensione del suo cinema. C’è l’adesione totale
ad un mondo subalterno (di volta in volta contadino, sotto-
cennata, la denuncia dei guasti di una feroce mutazione urbana e industriale, ma a livello di stile, (ad esempio nelle immagini
del sogno di Accattone, quando in un controluce accecante Si trova di fronte ad una catasta di
cadaveri nudi), c'è già presente anche l’eco delle livide ecatombi girate venticinque anni dopo per Salò o le 120 giornate di Sodoma, V ultimo film, che uscirà postumo. Per il resto, non conoscere bene la tecnica di base del linguaggio cinematografico (il mistero ottico degli obiettivi, la forza prospettica della luce, l’emozione dei movimenti di macchina, la scansione del montaggio) non rappresenta per Pasolini un limite, ma è anzi la sfida a usare un mezzo espressivo sconosciuto, da utilizzare in tutta la sua inesplorata potenzialità. Dunque, alla provocazione sociale e politica del soggetto si accompagna, in Accattone, la
25
provocazione,
altrettanto forte,
di rottura e discontinuità della norma linguistica e della tecnica audiovisiva.
«Metta,
metta,
Tonino,/il cinquanta, non abbia paura/ che la luce sfondi — facciamo/ questo carrello contro natura!», dice Pasolini a Tonino
Delli Colli, suo operatore, in una poesia del 1962. E ricorda Bernardo Bertolucci, assistente di Pasolini
zione del campo lungo o del primissimo piano». AI film d’esordio, dunque, lo stile cinematografico di Pasolini è rudimentale, ma già personalissimo: da una parte è permeato dalla conoscenza e dall’ammirazione di alcuni autori classici — Chaplin, Griffith, Dreyer ed Ejzenstein tra i primi —, dall’altra è profondamente se-
in quel film, e an-
ch’egli all’esordio cinematografico: «Alcuni metri di binario venivano buttati sulla polvere, sembravano caduti per caso, e invece, per me, era la prima carrellata della storia del cinema. E quando Pasolini decideva di fare un campo lungo o un primissimo piano, avevo l’impressione di assistere all’inven-
La morte di Accattone nell’ultima scena del film. Ai soccorritori, prima di morire, ha solo la forza di mormorare una frase: «Ah, mo’ sto bene!». L’itinerario umano del
protagonista è una discesa agli inferi che neppure l’incontro con l’amore riesce ad arrestare.
gnato dalla presenza figurativa della grande pittura italiana (Masaccio, Giotto, Piero della Francesca, Raffaello) e da un
uso molto personale della musica (in Accattone,
“La passione
secondo San Matteo” di Bach, nel successivo Mamma Roma i grandi concerti di Vivaldi) a fare da contrappunto emotivo all’apparente casualità dei movimenti di macchina, alla disadorna brutalità della materia, e a sottolineare con un intervento “esterno” la sacralità dei personaggi e la loro deriva umana.
Per il resto non c’è alcun riferimento stilistico-narrativo al cinema italiano di quegli anni; nessuna indulgenza formalistica che non sia coerente all’esigenza estetica del film, nessuna
concessione spettacolare o a squisitezze calligrafiche. Pasolini addensa le tinte, scandisce ed enfatizza il montaggio campo/controcampo, spezza il ritmo e imprime alla dinamica dell’azione e del racconto un andamento solenne, un’energia che è tutta interna all’inquadratura, al gesto, al momento di realtà che il cinema riesce a isolare. E stato detto che, soprattutto in Accattone, la composizione delle inquadrature, i primissimi piani dei volti, l’uso dello sfondo come emozione più che come paesaggio, l'alternarsi dei vuoti e dei pieni, le luci sempre contrastate, tutto tradisce un’ispirazione prevalentemente pittorica, dove l’uomo è centro di ogni possibile prospettiva e l’immagine è costruita più sulla staticità che sul movimento. In effetti, nei primi film di Pasolini, il punto di vista riservato allo spettatore è frontale come quello del visitatore che si fermi ad ammirare una tela posta sulla parete, e anche quando la macchina da presa si muove lateralmente in panoramica, a scoprire un paesaggio o un gruppo di personaggi in attesa, essa scorre come lo spostamento di uno sguardo. Occorre però fare un’aggiunta. Se fin dall’inizio nello stile cinematografico di Pasolini è fortissima la presenza di una cultura pittorica, è altrettanto vero che fin dall’inizio quello di Pasolini è cinema al cento per cento della sua capacità espressiva, cinema che recupera totalmente, ed anzi esaspera, la centralità della macchina da presa. Davanti a
un affresco o seduti in teatro, l’occhio dello spettatore si sposta, privilegia un particolare
piuttosto che un altro, si distrae. Nelle inquadrature di Pasolini — fisse e reiterate nella cadenza simmetrica campo/ controcampo, panoramica/primo piano, con gli attori immobili che spesso guardano in macchina, a cercare lo spettatore come diretto, esclusivo interlocutore — chi è in platea non ha scelte ed è costretto, cinematograficamente, a non perdere nulla di quanto passa sullo schermo. Anche il montaggio adottato è inconsueto,
scandito
da primi
piani misteriosi e insistiti campi totali, ma anche pieno di strappi e pause narrative (ad esempio il sogno di Accattone, l’incontro con Stella), di contrappunti stilistici e panoramiche che più di un ritmo interno alla sequenza sembrano inseguire cadenze e assonanze emotive. Da un punto di vista più tecnico, Pasolini si concede solo alcuni momenti forti: ad esempio, le due lunghe carrellate indietro, sulle strade del Pigneto (nella prima con Accattone che parla con l’amico Barabba, nella seconda quando cerca di convincere la moglie a tornare con lui), o la bella sequenza in cui Accattone e il cognato lottano rotolandosi in terra, costruita con dissolvenze interne e accompagnata dalla musica di Bach. Ambientato nella cintura delle borgate romane — Pietralata, il Quarticciolo, Gordiani, la grandiosa metropoli plebea già cantata da Pasolini nei romanzi e nelle poesie — Accattone è espressione dunque di un cinema dichiaratamente povero, apparentemente elementare nella grammatica, ma già prezioso nella consapevolezza dello sti-
le, un cinema che non nasconde le proprie difficoltà tecniche e produttive, viceversa le esalta. Per il resto, a dominare è il senso della morte. Basti pensare all’istinto suicida di Accattone
(la reiterata sfida
di buttarsi da ponte Sant’ Angelo), alla sua ghignante maschera di fango mentre Stella balla con lo sconosciuto 0, ancora di più, al sogno del funerale, girato con la luce di un sole macabro perché nato nel cuore della notte, mentre gli amici vestiti a lutto compongono un misero corteo, con il biancore delle 0ssa dissepolte e abbandonate nella polvere
del cimitero,
e
l’invocazione al becchino intento a scavare la fossa: «un po’ più in là, verso la luce». Il fatto è che Accattone, con la sua rabbia e la sua ribellione, è già stato sconfitto per sempre. E il paradiso può solo sognarlo. La condanna che incombe sul mondo di Accattone (e che ritroveremo sviluppata nei successivi Mamma Roma e La ricotta, e in qualche modo anche nel film-inchiesta Comizi d’amore e nel film in forma di appunti Sopralluoghi in Palestina) è purtroppo irreversibile perché funzionale allo sviluppo neocapitalistico del paese. Pasolini non ha dubbi e si schiera dalla parte di coloro che si vedono preclusa ogni strada che non sia l'omologazione, che sono «iscritti in un’anagrafe/che da ogni storia li vuole ignorati». E un destino con cui Pasolini si identifica, sia pure de-
lineando, quasi didascalicamente, analogie e differenze, con i versi de La religione del mio tempo, scritti quasi contemporaneamente all’uscita del film. 20)
La nostra speranza è ugualmente ossessa: estetizzante in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletario spetta la stessa ordinazione
gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia, in un mondo che non ha altri varchi che verso il sesso e il cuore altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Drammatico,
arcaico, feroce e
mortuario, Accattone
esce nel-
le sale agli inizi degli anni Sessanta, in un periodo che Pasolini ha chiamato «un’età repres-
rico e quella situazione socioculturale dando voce e corpo a coloro che vivono nell’emarginazione: senza complicità, ma neppure atteggiamenti consolatori. Di fronte alla «nuova barbarie capitalistica e tecnocratica», basata sul rifiuto di ogni diversità, di ogni tentativo di resistenza al processo dell’omogeneizzazione e della mercificazione, secondo Pasolini al sottoproletario non resta che l’urlo individuale
(Accattone)
o una
specie di etica senza morale (rappresentata da tanti personaggi dei suoi film), in una deriva senza riscatto, perché in chi si ribella non c’è coscienza di classe e neppure solidarietà,
siva», in cui la continuità tra il
regime fascista e i governi centristi appariva esplicita (era appena caduto il governo Tambroni), in cui il sottoproletariato
viveva in condizioni di marginalità e lo Stato si esprimeva con le forme di una censura moralistica e opprimente. Pasolini affronta quel momento stoini
RE ui
Ao Sac %
mo su È
c’è solo una disperata vitalità e una solitudine infinita. All’uscita del film (la prima av-
viene il 31 agosto 1961 alla Mostra di Venezia, dove il film è proiettato fuori concorso), Ac-
cattone sgomenta e divide un cinema italiano impreparato, per temi trattati e linguaggio usato, a quell’irruzione. Alla proiezione seguono polemiche, interrogazioni parlamentari, accuse di pornografia o di presunta solidarietà nei confronti del mondo della prostituzione e del suo sfruttamento. Scatta anche il blocco imposto dalla commissione di censura, che determina la scesa al fianco di Pasolini di intellettuali, cineasti e parlamentari di sinistra. È una reazione violenta e un po’ isterica, che dimostra però come Pasolini con il suo film (o me-
Sul set di Mamma Roma. L’incontro con Anna Magnani inaugura una nuova fase nelle scelte di regia: far convivere attori improvvisati, reclutati dalla strada o fra gli amici intellettuali, e attori professionisti con forte temperamento artistico.
glio, con il suo modo di trattare certi argomenti) abbia toccato un nervo scoperto della società italiana. Il film alla fine riesce a uscire nelle sale grazie ad un intervento diretto del Ministro dello Spettacolo, Folchi, che eccezionalmente impone l’obbligo del divieto “ai minori di anni 18” (il limite vigente era di 16 anni). Le proiezioni del film sono
accompagnate da gravi incidenti provocati, a Roma e Milano, da militanti del Fronte nazionale (fra cui si distinguono personaggi della destra eversiva come Stefano Delle Chiaie e Serafino Di Luia) che lanciano volantini e bottiglie di inchiostro contro lo schermo. In una di queste aggressioni, al cinema Quattro
Fontane
di Roma,
è
coinvolto personalmente Pasolini, seduto in platea con alcuni compagni. Sarà denunciato per rissa.
Un diffuso senso di morte, se possibile ancora più disperato, attraversa anche il successivo Mamma Roma, film ispirato a un episodio realmente accaduto: la tragica morte di un giovane detenuto nel carcere romano di Regina Coeli legato al letto di contenzione. Da quello spunto di cronaca Pasolini costruisce una storia ellittica e metaforica i cui protagonisti appartengono allo stesso ambiente di Accattone, ma sono visti nel momento in cui provano a compiere un passo più in là, attratti dal miraggio di un riscatto per loro impossibile perché viziati da un peccato originale da cui non potranno affrancarsi. Mamma Roma vorrebbe per il figiio quello che Accattone
non
avrebbe
neppure potuto sognare (un lavoro, degli amici per bene, una fede religiosa), ma in questa dedizione sbaglia — per troppo amore, drammaticamente — ogni mossa. Il film rappresenta per Pasolini anche l’occasione dell’incontro con un’attrice amata come Anna Magnani, alla cui immagine neorealistica aveva dedicato versi che sembrano già annunciare il finale di Mamma Roma («Quasi un emblema, ormai, l’urlo della Magnani,/sotto le
ciocche disordinatamente assolute./risuona nelle disperate panoramiche,/e nelle sue occhiate
vive e mute/ si addensa il senso della tragedia»). L'incontro con la Magnani inaugura anche una nuova fase nella carriera dell’autore, che diventerà una specie di cifra stilistica: far convivere insieme, sul set, attori improvvisati, reclutati dalla strada o fra gli amici intellettuali, e attori professionisti o comunque personalità artistiche con un marcato temperamento
(ad affiancare
Citti, e poi Ninetto Davoli, dopo la Magnani sarà la volta di Totò, Silvana Mangano, Maria Callas e tanti altri). .
Mamma Roma racconta la storia di una prostituta di mezza età che, approfittando del matrimonio del suo giovane protettore, Carmine, con una ragazza di campagna, decide di dare un taglio al passato e dedicarsi all’educazione di suo figlio Ettore, un sedicenne scontroso, cresciuto in provincia. Con i risparmi messi da parte, Mamma Roma prende la licenza per un banco di frutta e si trasferisce con il figlio in una casa nuova, in un quartiere periferico altrettanto anonimo e disumano della squallida borgata dove ha vissuto fino allora. Il desiderio più grande della donna è raggiungere attraverso Ettore una rispettabilità piccolo-borghese, e per questo è disposta a qualsiasi azione, arri-
vando perfino al ricatto per trovare al figlio un posto da cameriere in una trattoria di Trastevere. Intanto Carmine riappare per chiedere soldi e, per averli, costringe con le minacce Mamma Roma a ritornare sulla strada. Ettore, malinconico e solo, vive le prime esperienze sessuali con Bruna, una ragazza più grande di lui, e per farle dei regali ricorre a piccoli furti in casa. Sarà proprio Bruna a rivelare a Ettore il vero lavoro della madre. Il ragazzo reagisce chiudendosi ancora di più in se stesso, lasciando il posto di lavoro e cominciando a rubare insieme ai suoi compagni più grandi. Assalito dalla febbre, per spavalderia e come gesto di sfida, tenta il furto di una radiolina a un ricoverato in ospedale (interpretato da Lamberto Maggiorani, protagonista di Ladri di biciclette). Il giovane viene arrestato e, in carcere, colto da una crisi di nervi, muore in cella di isolamento, legato al letto di contenzione. All’annuncio della sua morte, Mamma Roma si abbandona a una corsa disperata (che ricorda quella della Magnani in Roma città aperta, ma qui non c'è nessun urlo e nessuna apertura verso il futuro: solo uno sguardo muto verso la città bianca e lontana che fa da crudele controcampo).
Rispetto al film precedente,
29
1 i;i | %
-
Mamma Roma ha in più la struttura e il respiro del romanzo, i personaggi sono disegnati con un maggiore spessore psicologico, lo sviluppo narrativo ha una drammaturgia più tradizionale, circolare,
senza l’an-
damento epico, rettilineo e picaresco di Accattone. Più in particolare, mentre quella di Accattone è una crisi individuale che si consuma nel cerchio angusto del suo destino, Mamma
Roma ha in sé, sia pu-
re malintesa e corrotta, la coscienza di un altro mondo e di un altro modo di vivere. È una coscienza piccolo-borghese assimilata attraverso i mezzi di diffusione di massa
(la televi-
sione) e alimentata dalla spinta
30
fl
tag
A
6
tà
e e» ga
Anna Magnani in due momenti di Mamma Roma. Famosi, durante la lavorazione, i contrasti, soprattutto stilistici, tra il regista e l’ attrice: lei alla continua ricerca della spontaneità del gesto e della battuta, lui sempre preoccupato di cadere nel naturalismo.
L*
4
= Li
ma la sconfitta sta nella sua acritica adesione a un mondo che le è estraneo, nella sua di-
sponibilità a ogni compromesso e a ogni corruzione; il suo è lo scacco drammatico di un’in-
tegrazione, che per le classi subalterne significa solo rinnegarsi per assomigliare a coloro — ignoranti, corrotti e infelici —
consumistica
(il frigorifero, il
giradischi, gli abiti alla moda, la motocicletta), dalla scimmiottatura di comportamenti indotti (la casa nuova, la ritualità della messa domenicale,
l’odio ostentato per i comunisti ci Mortludi. tane#4Mes cer Accattone, insomma, il destino
è già segnato, in Mamma
Ro-
che pure vengono presi a modello. Rappresentato con il tramite di una grande storia popolare — quella incarnata da Mamma Roma con le sue speranze e illusioni di madre — ecco già il tema del «genocidio culturale» su cui Pasolini ritornerà più volte negli anni a venire. «Sul niente non si costruisce nien-
te», ricorda il prete (interpretato dallo scrittore Paolo Volponi) a Mamma Roma, quando la donna gli chiede una raccomandazione per il figlio. Ed è quella la condanna più inesorabile, perché insinua per la prima volta nella donna il sentimento della responsabilità, che da quel punto in poi ricorrerà come un'ossessione. Di chi è infatti la responsabilità se Mamma Roma è una puttana, e quindi se suo figlio Ettore non potrà mai essere un bravo ragazzo? Ubriaca e rabbiosa, Mamma Roma una risposta se la dà quando, tornata a battere per 1 viali che aveva creduto di abbandonare, enuncia, nello straordinario piano
32
Il banchetto nuziale con gli stornelli cantati a dispetto in una cornice da ultima cena. Attorno al tavolo disposto a ferro di cavallo i parenti della sposa, contadini, e gli amici di Mamma Roma, papponi e ladri.
sequenza notturno, una condanna ancora una volta, deterministicamente, già emessa: «Ettore è un ladro perché il padre era un farabutto disgraziato e la madre del padre ‘na strozzina; perché il padre del padre era un ladrone e il padre della madre un boja; la madre del padre ‘na ruffiana e er padre der padre ‘na spia. E allora di
chi è la colpa? Di chi la responsabilità. Spieghemelo te — e Mamma Roma alza gli occhi
al cielo — io che nun so’niente ele cHRe delie: Certamente,
la sconfitta del fi-
glio è prima di tutto la sua sconfitta. E la morte del figlio è perfettamente speculare alla disperazione muta, all’impotenza storica della madre e di ciò che essa rappresenta. Anche la presenza della città diventa un ulteriore elemento narrativo. Il tentativo di affrancamento dei protagonisti è infatti sottolineato dall’evoluzione del paesaggio, delle case e dei quartieri dove abitano. Si pensi ai vagabondaggi di Ettore tra i prati di una periferia
ii
racchiusa tra i ruderi romani e gli orrendi palazzoni dell’annunciata modernità. In Accattone, la città è lontana e vista sempre con prospettive curiosamente sfalsate (il ponte Sant’ Angelo inquadrato dal greto del fiume) o quasi fosse un miraggio da raggiungere con il passo incerto del sonnambulo (Accattone che, in sogno, segue il suo funerale). In
Mamma Roma la città diventa invece una presenza incombente, narrativamente significativa, in cui da una parte c’è il desiderio illusorio di un’evoluzione sociale (dall’edificio popolare di Casal Bertone si passa all’edificio “moderno” delL’INA-Casa a Cecafumo, con
Anna Magnani, sorretta dai vicini, nel finale del film. Non
l’urlo disperato di Roma città aperta e nessuna apertura verso il futuro: solo uno sguardo muto verso la città bianca e lontana che fa da crudele controcampo.
gli stessi appartamenti ben tenuti, i mobili poveri e modernissimi, di compensato e metallo), dall’altra ci sono, inve-
ce, i luoghi istituzionali del rifiuto e dell'espulsione (la chiesa, l'ospedale, il carcere). Famosi, durante la lavorazione del film, i contrasti professionali e i dissapori anche umani tra Pasolini e la Magnani. L’in-
contro, per tanti versi inevitabile, è stato da loro fortemente voluto. La Magnani ha visto Accattone a Venezia e ne è rimasta letteralmente sconvolta per la sua potenza e per il modo di rappresentare la realtà delle borgate romane. Per Pasolini la Magnani rappresenta il mito del cinema più amato e uno spirito autentico della città. A parte loro, che si stimano ed esternano sincere manifestazioni di affetto, tutti gli altri si guardano bene dall’incoraggiare la collaborazione. In particolare è contrario il produttore Bini, che conosce il ca-
rattere ombroso dell'attrice, ma che si preoccupa anche perché negli ultimi tempi i suoi 95
film, sempre più rari, hanno avuto scarso successo COMmmMErciale. Argomenti naturalmente del tutto ininfluenti per Pasolini che, infatti, non li prende in minima considerazione: con lei sceglie i luoghi in cui effettuare le riprese, gli abiti di scena che dovrà indossare Mamma Roma, gli attori di contorno con cui l’attrice dovrà recitare. I problemi arrivano però presto e si giunge al limite della rottura, malgrado il rispetto reciproco che sarà sempre salvaguardato. Anche se la Magnani, anni dopo, confesserà di essere rimasta delusa da Pasolini perché anche lui alla fine l’aveva “usata”, il dissidio è in realtà puramente stilistico. Pasolini,
infatti, è abituato
a
girare per piccole inquadrature, di due-tre minuti al massimo, tutti stacchi e primi piani che la macchina da presa riprende stando quasi incollata sull’attore; viceversa
i totali (cioè le
vedute integrali degli ambienti) e i movimenti di macchina sono limitati, tecnicamente ele-
mentari, segmenti che poi vengono messi in sequenza in fase di montaggio. È una tecnica congeniale soprattutto agli attori improvvisati dei film di Pasolini, di certo non per un'attrice di grande tecnica, ma anche molto naturale come la Magnani, che invece ha bisogno di essere lasciata libera di interpretare la scena, di far crescere in lei l’emozione e il clima recitativo giusto, i quali a loro volta devono prendere corpo e morire all’interno della scena stessa, e non possono essere spezzati. Lei è abituata a recitare delle scene lunghe e compiute, lui, invece, vuole inquadrature bre34
vi e autonome; lei cerca la spontaneità e la naturalezza del gesto e della battuta, della risata e del pianto, lui invece non vuole quel tipo di spontaneità, anzi teme soprattutto la caduta nel naturalismo e nell’affettazione. La spontaneità cercata da Pasolini non arriva dalla recitazione, ma dall’irruzione na-
turale della realtà e dai ‘“momenti magici” in cui il cinema riesce a coglierla. C'è una scena di Mamma Roma che, in questo senso, è illuminante. Quando Ettore e la madre ballano il tango sulle note di
“Violino tzigano”, ad un certo punto tentano una figura e cadono pesantemente sul pavimento. Tra le risate che non riesce a trattenere, Ettore grida: «Ammazza a ma’, che casché che avemo fatto!». Dice la battuta scritta sul copione ridendo, ma subito dopo ridiventa serio, guardandosi intorno evidentemente a cercare lo stop del regista fuori campo. È uno stop che non arriva e Pasolini gira (e poi usa nel montaggio definitivo) proprio quello spaesamento e quello sguardo incerto, che sono dell’attore prima che del personaggio scritto. Il dissidio tra Pasolini e la Magnani è, dunque, soprattutto di natura estetica e come tale irrisolvibile, ma è anche ricco di conseguenze positive. Dopo i primi scontri, nel prosieguo della lavorazione il regista riesce infatti a utilizzare benissimo il guizzo e l’estro di un'attrice davvero straordinaria, a cui lascia delle scene memorabili, come le due carrellate notturne (l’addio alla vita di
puttana e il simmetrico disperato ritorno) o il banchetto nu-
ziale con gli stornelli cantati a dispetto in una cornice da ultima cena, dove attorno a un tavolo a ferro di cavallo sono disposti i parenti della sposa,
‘contadini, e gli amici di Mam-
ma Roma, papponi e ladri. Alla fine del film Pasolini scrisse della Magnani: «Da Anna può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre, comunque, é_che canti». Mamma Roma viene presentato alla mostra di Venezia nel 1962 e scatena, prima ancora della proiezione, una feroce campagna denigratoria. I! giornali della destra si esercitano con cronache gonfie di razzismo (un titolo, fra i tanti: «Pa-
solini e la sua corte sottratta ai piaceri delle marane romane per essere trasferita sulla Laguna»), gli uffici della Biennale
vengono sommersi da centinaia di lettere anonime piene di insulti e minacce, mentre i muri del Lido sono ricoperti da manifesti del Fronte della Gioventù eloquenti del clima che si sta preparando («Basta con gli apostoli del fango! Sbarria-
mo il passo alla cultura capovolta, avanguardia del comunismo!»).
;
All’indomani della prima veneziana, salutata da fischi e contestazioni, ma anche dal sostanziale consenso della critica, giunge puntuale la denuncia alla magistratura, questa volta effettuata da un colonnello dei carabinieri,
per ‘offesa
al comune senso del pudore”. Denuncia che, come tutte le altre, sarà successivamente giudicata infondata dal tribunale. Ma tutto questo è niente in confronto a quello che accadrà con il successivo La ricotta.
Grazie al successo e al clamore di Accattone e Mamma Roma, Pasolini è ormai un uomo di cinema affermato ed è in questa veste che impegna gran parte della sua creatività. Durante le riprese di Mamma Roma, scrive di getto la sceneggiatura de La ricotta, film inizialmente progettato come lungometraggio e in seguito trasformato, su proposta del produttore Bini, in un
episodio di Rogopag: il curioso titolo è l’acronimo formato con le prime lettere dei cognomi dei registi coinvolti nell’operazione (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Sarà soprattutto il breve episodio pasoliniano, 30 minuti folgoranti e sublimi, girato in poche settimane e praticamente in un unico set, a fare del film un autentico “caso” nazionale e a scatenare intorno a Pa-
solini una nuova, furiosa battaglia giudiziaria e censoria. Corollario in chiave grottesca di Accattone e Mamma Roma, il film è un’opera buffa e tragica che racconta, sui toni della pochade, Vultima giornata di Stracci, borgataro romano che lavora come comparsa in un film sulla vita di Cristo, impersonando la parte del ladrone che muore sulla croce. A dirigere il
Orson Welles nella parte del regista, “intellettuale marxista”. Ad un giornalista rivolge battute amare e versi autobiografici: «Io sono una forza del Passato, solo nella
tradizione è il mio amore».
55
film è un regista, “intellettuale marxista” (Orson Welles), che si
aggira stancamente sul set immerso nei suoi pensieri sublimi e, durante una pausa, intrattiene un giornalista venuto a intervistarlo con citazioni e battute premonitrici («Il padrone del mio film è anche il padrone del suo giornale»). Affamato e senza una lira, Stracci è costretto a cedere il cestino del pranzo alla sua numerosa famiglia, venuta a trovarlo sul set. Con un sotterfugio riesce a rimediare un nuovo cestino ma, richiamato sul lavoro, deve nasconderlo in una grotta ripromettendosi di mangiarlo in santa pace. Ma quando giunge il momento atteso, Stracci scopre
36
La crocefissione di Stracci. In un luogo tutto finto come un set cinematografico, l'attore per un attimo diventa ‘vero’, morendo,
mentre il regista si piega, ancora una volta, al servizio di una classe dominante che disprezza.
che il contenuto del cestino è stato divorato dal volpino della prima attrice (Laura Betti). Per
vendetta, Stracci vende il cane e con le mille lire ricavate si compra un gigantesco paniere di ricotta che divora famelicamente, insieme agli avanzi della scena dell’“ultima cena”. Intanto il produttore del film giunge sul set scortato dal drappello della stampa specializzata venuta per
assistere alle riprese della crocifissione. Potranno solo vedere Stracci che muore sulla croce per indigestione. Davanti a quell'evento straordinariamente vero in un luogo tutto finto, è il regista a commentare amaramente: «Povero Stracci: crepare... non aveva altro modo per ricordarci di essere vivo». La condanna più dura che in quel contesto possa essere espressa, per la religione e per il cinema. In La ricotta tutto è eccessivo, buffo, irreale: dalle comparse che ballano sguaiate il twist e accennano un blasfemo spogliarello sotto la croce, alle gag che si susseguono (le comparse che cadono dalla scala durante la
scena della “deposizione”, i carabinieri che raccolgono le margherite ecc.), alle corse accelerate alla maniera di Charlot, ai quadri viventi ricostruiti con gli squisiti colori dei grandi pittori manieristi (Rosso Fiorentino e Pontormo). Su questo sfondo irreale, dove la macchina del cinema è denunciata con i suoi orpelli e i suoi trucchi scenici (fondali dipinti, luci, costumi) e la cultura si ma-
nifesta con le intelligenti e ciniche battute del regista, le uniche cose vere sono la fame atavica e il calvario di Stracci, che è anche l’aggancio più significativo con i film precedenti di Pasolini (tra l’altro, l'attore che interpreta Stracci è lo stesso che faceva Barabba in Accattone). Lo scarto
tra il prima e il dopo è nella dichiarata separazione, che Pasolini registra con un raggelato pessimismo, tra le due realtà che si fronteggiano e si ignorano — Stracci (il sottoproletariato,
la
fame) e il regista (la classe intellettuale, la cultura) — e che solo alla fine del film si riconoscono in una sconfitta in qualche modo speculare: Stracci per un attimo diventa “vero” morendo (e non risorgerà al terzo giorno né mai), il regista si piega ancora una volta, con tutta la sua sapienza,
al suo lavoro sempre più insoddisfacente, delegato a divertire (o scandalizzare, che alla fine è
la stessa cosa) una classe dominante che serve e disprezza. In quest’operazione puramente “formale” Pasolini calca molto sull’aspetto parodistico delle situazioni e della recitazione; in più, e rischiosamente, gioca soprattutto sulla discriminante tra un autentico sentimento religioso che è nella vita di tutti i giorni e l’irrisione involontariamente
Nel film tutto è eccessivo, buffo, irreale. In particolare, riutilizzando
le pagine evangeliche dedicate alla Passione a modo suo, Pasolini organizza un discorso parodistico che riguarda sia la Chiesa che il cinema, con i relativi orpelli e le evidenti inadeguatezze.
blasfema che c’è nella rappresentazione (la divisione del pane e del vino compiuta dalla famiglia di Stracci, il buffet sacrilego predisposto ai piedi delle croci, le tentazioni sofferte sulla croce
piacere formalista della messinscena ad una dimensione più direttamente personale. Nell’intervista concessa al cronista di
CCC)
tura») confessa le sue contraddi-
Riutilizzando le pagine evangeliche dedicate alla Passione e rideclinandole a modo suo, Pasolini organizza un discorso parallelo che riguarda sia la Chiesa sia il cinema. Mette in luce, e non è poco, quanto di profondamente spirituale può esserci nella piccola realtà dei derelitti (la parabola umana di Stracci, girata in bianco e nero e con citazioni di “cinema popolare”) piuttosto che nella vuota pompa dei rituali
zioni e soprattutto esterna un giudizio pesantissimo sulla borghesia italiana («Ma lei non sa cosa è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!»). E quando, al termine dell’intervista, il regista legge in primo piano alcuni versi che Pasolini ha scritto poco tempo prima, il film raggiunge uno dei momenti più autobiografici e malinconici di tutto il cinema pasoliniano.
e dell’arte (i sontuosi
tableaux
vivants in technicolor, mosaici luminosi con pose e respiri trattenuti, e la prosaica inadeguatezza degli attori). È un deficit di spiritualità che coincide con il vuoto di tensione morale e l’opportunismo del regista-intellettuale che si interroga sulle ragioni dell’arte (il mito della poesia,
il miraggio estetico del cinema) e intanto mette in scena un ennesimo kolossal sulla vita di Cristo, e che dovendo rappresentare la realtà la insegue manieristicamente senza accorgersi della realtà, ben più vitale, che gli agisce e gli muore accanto. Stracci non ascende al cielo, eppure è nella sua morte, per fame e ingordigia, che il messaggio evangelico sembra trovare una nuova forza, restituito al suo valore più genuino. La ricotta è anche il primo film in cui Pasolini mostra una piena maturità di stile: sono presenti infatti diversi registri espressivi, dal tono neorealistico alla parodia, dall’accelerazione delle gag alla sospensione del tempo, dal
8
(9°)
“Telia Sera”, il regista (che Pa-
solini definisce una «autocarica-
Io sono una forza del Passato Solo nella tradizione è il mio
amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini e le Prealpi, dove sono vissuti ifratelli. Giro per la Tuscolana come un Pazzo, per l'Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui to assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E to, feto adulto, mi aggiro più moderno d’ogni moderno a cercare ifratelli che non sono più.
Appena uscito nelle sale il film è sequestrato con modalità clamorose: la polizia irrompe a proiezione in corso in un cinema di Roma e se ne va con la pellicola tra le proteste del pubblico. L'accusa stavolta è grave, “vilipendio alla religione di Stato” (è la prima volta che accade nel cinema),
e al processo
celebrato
per direttissima, il 1° marzo 1963, il rappresentante della pubblica accusa, Di Gennaro, si distingue per il furore sanfedista della requisitoria. Tra le varie amenità che pronuncia (purtroppo prese sul serio), il film è de-
finito «il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio». La condanna è dura: Pasolini è riconosciuto colpevole e condannato a 4 mesi di reclusione con la condizionale; in più, il film è sequestrato sull’intero territorio nazionale. A parte il procedimento penale, che fa il suo corso, il film può riuscire nelle sale qualche mese dopo, con alcuni tagli imposti dalla commissione di censura e con un nuovo titolo, ‘che nelle “intenzioni avrebbe dovuto sottolineare la
dimensione grottesca dell’opera, ma che è solo uno stupido titolo: Laviamoci il cervello. Un anno dopo la Corte d’ Appello di Roma, cui Pasolini ha fatto ricorso, assolve il regista ‘perché il fatto non costituisce reato”.
Con Enrique Irazoqui, il giovane interprete di Gesù, sul set de 7/ vangelo secondo Matteo. Nei due anni che precedono l’inizio del film Pasolini si dedica a un periodo di riflessione teorica e alla realizzazione di filminchiesta e di montaggio.
Tra l’uscita nelle sale di La riCOlgn(cons
suoi
strascichi
giudiziari) e l’inizio delle riprese di /! Vangelo secondo Matteo passano quasi due anni, che Pasolini utilizza continuando a lavorare intensamente per il cinema, dando vita a una miriade di progetti e iniziative, in particolare misurandosi con forme espressive: alternative come il film inchiesta, il film di montaggio 0, come lui stesso lo definisce, il film «in forma di appunti». Se in Accattone era evidente la tensione della scoperta di un nuovo linguaggio, a partire da
La ricotta si apre per Pasolini un fecondo periodo di riflessione teorica che assume anche aspetti di specializzazione,
co-
me ad esempio il progetto semiologico di una lingua del cinema
(l’identificazione del se-
gno cinematografico, la doppia articolazione fonema/monema)
o l’ipotesi di una grammatica cinematografica (con la quadripartizione: riproduzione o ortografia, sostantivazione, qualificazione, verbalizzazione o montaggio). Tutti testi raccolti negli anni Settanta nel volume Empirismo eretico (GarzantiMilano, 1972), che all’epoca
della loro prima presentazione suscitano scalpore soprattutto tra gli specialisti e gli addetti ai lavori. Innumerevoli sono le eccezioni teoriche (spesso solo pedanti) e anche le accuse di improvvisazione culturale (Pasolini è pur sempre un “poeta”) da parte di semiologi e linguisti puri; ma ci sono anche apprezzamenti sinceri e segnali di interesse in un dibattito comunque stimolante, a cui partecipano, tra gli altri, studiosi come
Roland Barthes e Christian Metz, certamente più adusi alle contaminazioni scientifiche e più predisposti all’uso poeticamente “arbitrario” dei modelli teorici comparati. Come sempre Pasolini si getta a capofitto nelle polemiche, elaborando instancabilmente studi teorici e saggi che avranno grande diffusione come Cinema di prosa e cinema di poesia, Appunti sul piano sequenza e altri. Parallelamente, sul piano pratico, comincia
a
lavorare su un uso diverso del mezzo cinematografico, più agile e alternativo alla fiction: si susseguono reportage di viaggio, documentari d’intervento, fino alla realizzazione di veri e propri appunti filmati in attesa di una successiva ela-
39
Una scena “scandalosa” de La ricotta. Prima del Vangelo Pasolini realizza una serie di film-inchiesta e documentaristici. Con Comizi d’amore, in
particolare, analizza i sentimenti e le abitudini sessuali dell’Italia degli anni Sessanta.
40
borazione,
alla maniera
dei
materiali preletterari predisposti da un romanziere prima di passare alla stesura definitiva. Sono progetti anomali ed eterogenei, occasionali e spesso appena abbozzati, al punto che solo pochi tra essi troveranno una forma, se non definitiva,
almeno soddisfacente. Riprova ulteriore della inesauribile creatività di un autore, capace di lavorare contemporaneamente a tre-quattro progetti anche molto dissimili tra loro, e nel contempo di preparare gli ulteriori sviluppi della sua opera.
All’inizio del 1963, un produttore specializzato in cinegiornali, Gastone Ferranti, coinvolge Pasolini nella controversa operazione de La rabbia. L’idea è di realizzare un documentario di montaggio sulla storia politica contemporanea utilizzando un vasto materiale di repertorio proveniente dai cinegiornali dell’Istituto Luce e soprattutto da filmati inediti di produzione cecoslovacca, sovietica e americana (in particolare della testata Mondo Libero, molto-attiva negli anni della guerra fredda). Nelle intenzioni di Pasolini
il film avrebbe dovuto rispondere all’impegnativa domanda: «perché la nostra vita è ancora dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?». In realtà si tratta di un’operazione commerciale scopertamente qualunquista che in un momento piuttosto aspro della vita politica italiana intende far rievocare e commentare, “da sinistra” e “da destra” — quindi neutralizzando ideologicamente le tesi contrapposte — gli avvenimenti e i protagonisti che hanno più caratterizzato la storia del mondo e dell’Italia a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con la consueta generosità e confidando nel potere della dialettica, Pasolini accetta l’impegno di confrontarsi con un con-
traddittore “di destra” come Giovannino Guareschi, popolare autore della saga Don Camillo e l’onorevole Peppone, ma anche inventore delle vignette con i comunisti “trinariciuti” che settimanalmente appaiono sulla prima pagina del foglio filofascista Candido. Polemista di grana grossa, Guareschi incarna perfettamente lo spirito reazionario del ‘48 e coglie l'occasione per diffondere un manifesto apologetico della destra più retriva, in cui il processo di Norimberga viene definito una «vendetta delle nazioni vincitrici», e vengono giustificate le azioni dei paras in Algeria e la segregazione razziale negli Usa. Alla visione del film, completo delle due parti (cioè quella rea-
lizzata da Pasolini e quella di Guareschi),
Pasolini
allibisce,
si rende conto dell’errore compiuto e cerca di correre ai ripari chiedendo al produttore di ritirare la firma. Una richiesta che si rivelerà inutile, perché il film, odiato e criticato tanto a destra quanto a sinistra, scatena violente polemiche sui giornali ma il totale disinteresse del pubblico, che difatti diserta i cinema dove viene proiettato. Visto l’insuccesso, sarà il produttore stesso a ritirare il film dopo pochissimi giorni di programmazione (solo due giorni a Roma e Milano, uno a Firenze).
È però un peccato, perché l’episodio pasoliniano de La rabbia, indipendentemente dalle sue sfortunate vicende produttive, ha motivi di interesse che meriterebbero di essere riconsiderati. Intanto, anche se si tratta di un film programmaticamente “minore”, Pasolini vi si dedica con tutto l’entusiasmo di cui è capace. La tesi di fondo che emerge è il pericolo della normalità subentrata nel mondo dopo la stagione del dopoguerra, una normalità però patologica, in cui l’uomo dimentica di riflettere, perde l'abitudine di giudicarsi, non si pone più le domande necessarie. Dunque, una normalità che diventa conformismo e rende possibili micidiali ingiustizie: il colonialismo, la condanna alla fame per interi popoli, il razzismo, i linciaggi, di nuovo la guerra. E in questo scenario terribile e passivamente accettato dall’uomo, il poeta — dice Pasolini — diventa servile, si annulla, vanificando i problemi e riducendoli a “pura forma”. Scosso da questo sincero furore civile, Pasolini scrive per il film un notevole testo in versi, e lo fa leggere da due speaker d’eccezione: Giorgio Bassani, per la parte più ironica e poetica, e Renato Guttuso, per la parte in prosa, documentaristica e politicamente più sentita, quella proposta con la «rabbia in corpo». 4l
Il film è un inventario di eventi
e pagine di cronaca politica: ci sono le guerre di liberazione del Terzo Mondo (Algeria, Cuba, Congo) e l'insurrezione ungherese del ‘56, il continente africano in rivolta e i cortei di Parigi, l'assassinio di Lumumba e il trionfo di Fidel Castro alla Baia dei Porci, De Gaulle e Giovanni XXIII, definito il papa «dal misterioso sorriso di tartaruga». Ma non solo. All’interno di questo materiale magmatico, Pasolini si ritaglia spazi di autentica poesia, come gli ispirati omaggi dedicati all’astronauta 42
Gagarin e a Marilyn Monroe. Nell’astronauta sovietico vede il volto familiare della guerra di potere che è diventata la conquista dello spazio, il simbolo di chi apre timidamente, con il sorriso della vera
speranza,
le
vie del cosmo. E nella persona di Marilyn Monroe, dolce «sorellina ubbidiente», e nella sua tragica fine, Pasolini non può che vedere un triste presagio: «Sciocca come l’antichità, crudele come il futuro.../ e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere/ si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente».
Con Giorgio Bassani, durante il doppiaggio de La rabbia, a cui lo scrittore presta la voce per la parte più ironica e poetica del commento. La tesi del film è il pericolo della normalità subentrata alla stagione del dopoguerra: una normalità che diventa conformismo e rende possibili le più micidiali ingiustizie.
Molto più felice è l’esperienza di Comizi d’amore, in cui Pasolini si trasforma per qualche settimana, tra il marzo e il novembre del 1963, in una specie di coinvolto commesso viaggiatore che gira l’Italia dal nord industrializzato al sud arcaico e contadino, dalle campagne alle fabbriche, dalle piazze alle scuole, per sentire gli italiani su ciò che pensano dell’amore e sui loro gusti sessuali. Le domande poste da Pasolini sono volutamente ingenu® (ai bambini chiede «come nascono i bambini», ai ragazzi e alle ragazze se in Italia c’è libertà sessuale, agli uomini maturi cosa pensano dell’omosessua-
lità). Ma è dall’ingenuità della domanda che spesso scatta il confronto sincero, il miracolo del comunicare. Con una struttura originale
(almeno
per il
tempo in cui il film è realizzato), a metà tra il saggio filosofico e l’inchiesta giornalistica di tipo televisivo, in Comizi d’amore emerge a tratti l’Italia che Pasolini sente visceralmen-
Con Antonella Lualdi, al Lido di Venezia, ancora in Comizi d’amore. Dalle interviste e dagli atteggiamenti nei confronti del sesso, emerge l’immagine di
una società retrograda e ripiegata in se stessa.
te di amare, ma emergono
an-
che i baratri di ignoranza e pregiudizio, le mille contraddizio-
ni che la soffocano e la rendono a volte invivibile. Da una parte c’è il sapore delle dome-
niche piene di vento e di mare, dei cinemini affollati del pomeriggio, con l’ingenuità disarmata dei ragazzi e delle ragazze sulla spiaggia o nelle balere, ma anche con la reticenza e l’imbarazzo della Sicilia mafiosa (le interviste fatte a Corleone) come dell'Emilia benestante e conformista. Dall'altra
c’è l’approfondimento
con i
rappresentanti della cultura, che Pasolini talvolta incalza con le stesse domande fatte
agli intervistati: la normalità e l'omosessualità (Ungaretti: «Personalmente sono un uomo, un poeta; quindi incomincio col trasgredire tutte le leggi facendo della poesia...») o la libertà sessuale e lo scandalo (Moravia? «Lo scandalo in fondo è paura di perdere la propria personalità. La persona che si scandalizza è una persona profondamente incerta»; Musatti: «La paura dello scandalo fa parte dell’istinto di conservazione»).
Così facendo, Comizi d’amore parte con l’obiettivo di un confronto spregiudicato con i tabù, le aberrazioni e i pregiudizi che regolano i rapporti sessuali — e, quindi, gran parte della vita sociale — e si conclude con la fotografia di un paese sostanzialmente sconosciuto e che in qualche modo spaventa. Come abbiamo visto, il filo conduttore di tutte le interviste è il sesso, spesso più idealizzato che praticato, ma dalle risposte e dalle reticenze emerge la verità di una società retrograda e ripiegata in se stessa.
Il film tevole quenza ragazzi
si conclude con un nocolpo di regia: la sedel matrimonio fra due di borgata, Tonino e
Graziella (che è anche l’unico
momento di fiction). Qui, improvvisamente, Pasolini smette di porre domande e si limita a guardare. La macchina da presa segue i due giovani separatamente, nelle loro case, mentre si vestono, scendono in strada, stanno insieme in chiesa davanti all’altare, e poi di nuovo all’aperto, in posa per la tradizionale foto ricordo, nella luce di una domenica primaverile, prima di andare verso l’ignoto (del matrimonio, e non solo). Fuori campo, la voce di Pasolini legge un testo che è
Un altro momento di Comizi d’amore: viene intervistata una famiglia di contadini. In un momento in cui la scienza compie incredibili progressi, sembra giusto avviare un dialogo tra “chi sa” e chi, per condizioni di vita, “non può sapere”.
anche seriale sdelttilmanae l’augurio sia che al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore». Più che un augurio, sembra il senso vero dell'inchiesta. In un momento in cui la scienza compie incredibili progressi (il cosmo è attraversato dalle prime navicelle spaziali), Pasolini sceglie di fare luce sulla parte più intima degli uomini, che resta ostinatamente al buio della ragione e della coscienza, e così facendo avvia un dialogo tra “chi sa” e “chi non può sapere”, un dialo-
go intrecciato davanti alla macchina da presa (e lì pur-
troppo relegato) tra poeti, uomini di scienza e gente del popolo. Il risultato è una linea di comunicazione di notevole efficacia, sentimentale e poetica: la vita, malgrado tanta ferocia e tanta tenebra, è nel fondo innocente,
e, a saper guardare, è semplice e pura. Ma questo non basta, e non basterà a Pasolini, per avere una visione ottimistica della società italiana e a tenere lontani la sconfitta e il dolore.
A giugno del 1963, prima di iniziare la lavorazione de // Vangelo secondo Matteo ormai in avanzata fase di preparazione, Pasolini si reca in Israele e in Giordania per visitare i luoghi descritti dagli evangelisti. Ad accompagnarlo nel viaggio ci sono l’operatore Aldo Pennelli, don Andrea Carraro, consulente spirituale, e qualche funzionario della produzione. L'intenzione è verificare sul posto la possibilità di girare il film
laddove
si è effettivaménte
svolta la predicazione di Gesù, ma il sopralluogo offre lo spunto per un’operazione che si rivelerà preziosa dal punto di vista linguistico: la realizzazione di una sorta di diario filmato sotto forma di appunti ripresi in tempo reale con la macchina da presa. Per Pasolini il viaggio è anche la possibilità di dare forma compiuta a un'intuizione registica che è già matura. A lui infatti non interessano le forme architettoniche delle città della Palestina («precristiane e tutte un po’ funeree»), vuole soprattutto incontrare gli uomini, l’odore e il colore delle strade, sentire la sensazione della polvere e dell’aria di quei luoghi un po’ sospesi nel tempo, con ancora addosso quella strana at-
mosfera del dopo-evento. Come un sonnambulo, Pasolini vive quell’esperienza con una sensibilità esasperata (e a testimoniarlo restano gli articoli e le pagine scritte nell’occasione) e riceve da quei luoghi un’impressione di umiltà e di infinita desolazione, ma anche di misteriosa grandezza, data evidentemente da colui che passò «e che ci lasciò soli a cercarlo». È un'idea quasi mistica, tipicamente intellettuale, in cui la visione delle cose non sta nella realtà delle cose stesse, ma è sospesa nella memoria e nel cuore. Un’idea letteraria più che cinematografica, che ricorda il Borges del racconto Avvicinamento
ad Almotasim
(la
presenza di Dio misurata dai segnali lasciati in chi è stato testimone del suo passaggio), ma che Pasolini saprà poi rendere cinematograficamente a costo di un totale (e in fondo solo apparente) tradimento: cercare | luoghi del Vangelo là dove i segni di quel passaggio sembrano ancora vivi, dove il paesaggio della Palestina si sovrappone al paesaggio dell’Italia meridionale: i sassi di Matera, il borgo medievale di Caserta, le mura a secco e le campagne delle Murge. Da quel viaggio Pasolini ritor-
na con le idee più chiare e con uno straordinario materiale cinematografico (sei rulli di pellicola) realizzato dalla piccola troupe al suo seguito. Materiale che, grazie alle insistenze di Bini, Pasolini trasforma in un documentario (in realtà mettendo semplicemente in sequenza i brani più significativi), a cui dà il titolo di Sopralluoghi in Palestina. Malgrado l’occasionalità produttiva e l'evidente incompiutezza formale, il film è di grande interesse perché registra puntualmente le emozioni e i trasalimenti del viaggio solo attraverso lo sguardo, senza mediazione intellettualistica o riflessioni a posteriori. Nella disadorna essenzialità delle immagini (i grattacieli di Nazareth e l'espansione edilizia intorno a Betlemme, i pescatori al lavoro sul lago Tiberiade o i contadini che curano umilmente il fazzoletto di terra del Getsemani) c’è tutta la violenza di luoghi in cui convivono la preistoria e l’industrializzazione più rozza; e in quel contrasto, fisico prima che politico, c’è già anche il tono duro, arcaico e “non riconciliato” di quell’autentico capolavoro che sarà Il Vangelo secondo Matteo.
Con il produttore Alfredo Bini. In attesa di iniziare le riprese de Z/ Vangelo secondo Matteo, Pasolini gira un documentario nei luoghi descritti dagli evangelisti, ricevendone un’impressione di umiltà e desolazione, ma anche di misteriosa grandezza. Un’idea quasi mistica,
che sarà poi resa cinematograficamente a costo di un totale tradimento (il film venne girato nel Sud d’Italia).
Il 2 ottobre 1962 Pier Paolo Pasolini è ad Assisi, ospite della locale Pro Civitate Christiana. Sono giorni di festa perché sta per arrivare in visita Papa Giovanni XXIII che viene a pregare sulla tomba del Santo alla vigilia del Concilio. Nella città migliaia di fedeli invadono le vie che portano alla basilica. Pasolini è nella sua stanza, in attesa di scendere in strada per andare anche lui all’incontro con il papa, ma non si decide. Ad un tratto — scrive in una pagina di diario — quel desiderio svanisce. «Mi resi conto che sarei stato una irritante distrazione per molta gente; che mi avrebbero accusato di cercare una facile pubblicità. Non mi sentivo il figliol prodigo, e per molti quel gesto sarebbe stato soltanto una sceneggiatura di cattivo gusto». Quasi a difendersi, ma cercando comunque di partecipare al clima per lui un po’ estraneo della festa, Pasolini allunga la mano al comodino e prende il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e
comincia a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro testi, quello di Matteo. L’idea di un film sulla vita e la predicazione di Cristo a Pasolini è venuta più volte in mente, informalmente risale addirittura all’adolescenza,
all’epoca delle prime
poesie friulane, mai però in maniera così irresistibile come quella notte. Lì, in quelle pagine «dure ma anche tenere, così ebraiche e così iraconde» (tra i
vangeli quello di Matteo è il più intransigente ed estremo), c’è già tutto delineato, l’abbozzo della sceneggiatura nella scansione perfetta delle scene e degli episodi cruciali, ma anche l’idea figurativa del film, con quel tono particolare del bianco e nero, con la giustapposizione già ritmica tra la staticità dei primi piani di Gesù e degli apostoli, che di volta in volta emergono rispetto agli altri, i piani medi dei sacerdoti del sinedrio ripresi nel loro contesto, quasi espressione incarnata del potere che esercitano, e la mobilità emozionata,
quasi rubata documentaristicamente, della folla che assiste agli avvenimenti. L’idea di Pasolini, naturalmente, è lontanissima da una semplice illustrazione evangelica 0, peggio, da una rilettura in chiave marxiana di quelle pagine (anche se questa impostazione gli costerà poi una delle critiche più ingiuste che gli verranno rivolte). Viceversa l’idea è tutta interna al Vangelo, nel desiderio di attualizzarlo nella storia politica degli anni Sessanta o addirittura, in qualche modo, nella vicenda esistenziale dell’autore, senza per questo tradire la fedeltà del testo. Una fedeltà recuperata nella immediatezza della rappresentazione popolare, nella naturale vitalità sottoproletaria e terzomondista, in un equilibrio formale e ideologico in cui il fascino dell’irrazionale e del divino riesca a coniugarsi con una lettura evangelica più materialistica, disposta a mettersi in discussione con i fatti della storia e le esperienze degli uomini.
47
Le riprese del film iniziano nell’aprile del 1964 e si svolgono per lo più in Basilicata, Calabria e Puglia. Ci sono voluti due anni, impiegati da Pasolini alla ricerca dei finanziamenti, a scrivere e riscrivere la sceneggiatura, a leggere testi e a confrontarsi con teologi e religiosi, a effettuare sopralluoghi in Terra Santa. La lunga attesa ha generato un’ansia icbbriletmelMZautore, che si getta a capofitto nel lavoro per vedere finalmente realizzate quelle immagini che ha ormai visto e rivisto mille volte nella sua mente. Eppure l’inizio della lavorazione determina in lui una crisi gravissima. Nei primi giorni di riprese Pasolini adotta il suo solito modo di girare, fatto di inquadrature frontali e di lente panoramiche. Una tecnica dall’andamento solenne, quasi sacrale, che ha avuto esiti felici nella
Il Vangelo secondo Matteo è un film che determina una rottura stilistica nel cinema pasoliniano. La grande scena di Giovanni Battista sul fiume Giordano viene realizzata quasi interamente con il teleobiettivo, per salvaguardare l’aspetto documentaristico della situazione e per cogliere con più efficacia gli atteggiamenti naturali delle comparse.
rappresentazione del mondo sottoproletario di Accattone e Mamma Roma, e che sembra fatta apposta per esaltare anche l'atmosfera delle pagine evangeliche. Non è così, e la delusione è sconvolgente. «Ho fatto delle cose
orrende,
in-
sopportabili — scrive Pasolini, nelle note di lavoro — in proiezione, dopo la visione dei primi due e tre giorni di riprese, sono stato sul punto di piantarla, di arrendermi». Il motivo del fallimento è chiaro ed è lo stesso Pasolini, come sempre lucidissimo, ad analizzarlo. Rappresentare gli episodi de Il Vangelo con la tecnica di sempre è come ricalcare immagini già impresse nella mente: quello che per Accattone era veramente “scandaloso” e stilisticamente efficace, per I! Vangelo diventa scolastico e formale. Un Cristo ieratico non è un Cristo; una panoramica solenne, maestosa, sugli Apostoli intenti ad ascoltare il Messia che predica non suscita emozione. In pochi giorni, e in poche notti insonni, Pasolini rivoluziona completamente il progetto stilistico del film. Comincia ad usare obiettivi per lui nuovi e certo più raffinati — invece del solito 50 mm fa dei primi piani col 25 oppure col 100 o addirittura col 300, che diventa l’obiettivo principale perché
gli consente con la sua profondità di salvaguardare la casualità documentaristica delle situazioni ma anche di “schiacciare” e quindi rendere ancora più pittoriche le figure e i paesaggi; usa il teleobiettivo per seguire gli Apostoli che vanno dietro Gesù, e per girare da lontano la straordinaria sequenza della strage degli innocenti, ma anche per “rubare” le espressioni talvolta incerte e quindi ancora più naturali delle comparse; usa anche la macchina a mano, per rendere lo stile concitato della cronaca, per ‘“drammatizzare” i due processi davanti a Caifa e Pilato — spiati da dietro la nuca degli spettatori che assistono alla scena — o per inseguire la camminata nervosa di Giuseppe che, offeso e incredulo, corre da Maria per sapere dell’inattesa gravidanza. Infine, anziché rispettare la solita simmetria delle inquadratu-
re — campo e controcampo — e delle panoramiche che introducono o spezzano il primo piano del personaggio o il dettaglio del gesto, Pasolini comincia ad utilizzare una grammatica più imprevedibile e di volta in volta diversamente espressiva: ad esempio gira la stupenda sequenza del “Discorso della Montagna” in studio, con un'unica inquadratura fissa su Gesù, solo cambiando
49
la luce — dal giorno pieno alla notte e di nuovo al giorno — a sottolineare il succedersi del tempo e delle stagioni, e a rompere la temporalità realistica dell’evento. Anche le spezzature logiche, gli stacchi e i salti narrativi sono sempre sottolineati dalla musica, scelta da Pasolini senza alcuna attenzione filologica ma solo in funzione dell’emotività della scena: si va dalla solennità della Messa massonica di Mozart (per l'apparizione di Cristo al fiume Giordano), ai can-
ti popolari dei battellieri russi (le scene
della predicazione),
fino ai ritmi africani della messa Liuba personalmente registrati da Pasolini durante un viaggio in Congo (per le 50
Gesù (Enrique Irazoqui) con gli apostoli. Il Cristo pasoliniano è una straordinaria invenzione poetica che lo riporta allo stato puro delle parole e dei gesti, e lo ripropone con la sorpresa e l’entusiasmo di un testimone privilegiato come Matteo.
Giuseppe e la giovanissima Maria, che risolve in pochissimi attimi una delle pagine del vangelo ‘oggettivamente più difficili da rappresentare), e dove anche le concessioni a un autobiografismo un po” meccanico
scene dei miracoli e della salita del Calvario).
Anche per questa rottura stilistica, il Vangelo è il film più libero e ispirato di Pasolini, un’opera in cui l’autore usa una tecnica volutamente discontinua, un espressionismo «irto come un istrice», in cui si concede momenti di puro cinema (si pensi al muto e inquieto gioco di sguardi tra
(il ruolo della Ma-
donna anziana è affidato alla madre del regista, Susanna Pasolini, gli apostoli sono amici intellettuali come Alfonso Gatto, Enzo Siciliano
e Giorgio Agamben, mentre Natalia Ginzburg interpreta Maria di Betania) in qualche modo rendono l’operazione cinematografica più “vera” e coinvolgente. Epico, lirico, drammatico, il film, pur discontinuo nella struttura narrativa e nelle so-
luzioni espressive proposte, è però sempre efficace nel suo grido di rivolta e nel sofferto richiamo all’ascolto, ed è emozionante quando si scioglie nella malinconia e nella passione. Anche i moduli figurativi ricavati dai grandi pittori toscani — soprattutto Duccio e Piero della Francesca — e declinati nei costumi e nelle scene di un bravissimo Danilo Donati restano comunque sullo sfondo, chiamati a fornire un’eco e un'atmosfera soprattutto emotive alla scena, su cui predomina la forza interiore del Cristo, interpretato dal giovane attore esordiente Enrique Irazoqui, che con la sua magrezza e il volto sottile e allungato sembra appena
I sacerdoti nel tempio con i bellissimi costumi di Danilo Donati. Il Cristo di Pasolini predica la rivoluzione più difficile, quella interiore dei comportamenti e delle scelte conseguenti.
Matteo. Un Cristo duro e non riconciliato, mite con i bambini, iracondo con i mercanti (si
pensi alla furia con cui li scaccia dal tempio), veemente contro gli ipocriti, gli scribi, i farisei, e intransigente nella fede («Non sono venuto a portare la pace ma
sceso da una tela di El Greco. Un Cristo, quello del Vangelo pasoliniano, certamente tra i più memorabili che siano stati rappresentati nel cinema, una straordinaria invenzione poetica che lo riporta allo stato puro delle parole e dei gesti, e che lo ripropone con la sorpresa e l'entusiasmo dello sguardo di un testimone privilegiato.(everedente) come
la spada»).
Il
Cristo rappresentato da Pasolini predica la rivoluzione più difficile, che è quella interiore dei comportamenti e delle scelte conseguenti, e il film indica come auspicio (purtroppo utopico) quel tanto di rivoluzionario che c’è nel rigore morale autentico e nella corretta applicazione delle regole evangeliche. E ritorna ancora una volta, anche nella trasposizione fedele del Van-
SI
Epico, lirico, drammatico, il film, pur discontinuo nella struttura narrativa e nelle soluzioni espressive, è sempre efficace nel suo grido di rivolta, ed emozionante quando si scioglie nella malinconia e nella passione.
gelo (non una parola è stata cambiata dal testo originale), il tema prediletto da Pasolini: «Nulla — scrive in un appunto preparatorio al film — mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura del Cristo: mite nel cuore, ma mai nella ragione». Contrapposto al Cristo di Pasolini c'è il popolo. Una specie di coro ejzensteiniano, fatto di volti in primo piano, di espressioni assenti o ilari (il sorriso ambiguo di chi non capisce bene); o, ancora meglio, un tipico coro pasoliniano, il sottoproletariato muto testimone di una vicenda che lo vede subalterno, coro di figuranti anonimi che soffrono e non lottano, e che si affidano ancora una volta a una speranza sempre troppo lontana. Il dibattito intorno al film è molto intenso e stavolta supera anche i confini nazionali. Nell’occasione,
Pasolini viene
ufficialmente sostenuto dalle organizzazioni religiose che, alla Mostra di Venezia, gli as-
segnano il premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma). A Roma il film viene proiettato a più di mille
cardinali convenuti nella capitale per il Concilio, che gli tributano venti minuti di applausi. A Parigi, alla vigilia del Natale 1964, con il consenso delle autorità religiose,
viene
celebrato un vero processo al
film nella cattedrale di Notre Dame, alla presenza di ottomila giovani cattolici. La difesa è svolta dal prof. Marrou, titolare di Storia del Cristianesimo alla Sorbona, secondo cui Pasolini è riuscito a tenersi meravigliosamente in equilibrio tra le due tendenze opposte che il cinema manifesta ogni volta che mette in scena la figura del Cristo: da una parte la spinta alla modernizzazione a tutti i costi, dall’ al-
tra la tendenza all’arroccamento e all'archeologia, altrettanto pericolosa perché fa sentirei Cristo estraneo. e lontano. E alle obiezioni dell'accusa che lamenta, tra Valtro, una mancanza di aureola al personaggio di Gesù, Marrou ribatte: «Se Cristo avesse avuto l’aureola non l’avrebbero condannato». Le critiche più dure provengono invece dalla sinistra, che sostanzialmente rimprovera a un autore che si professa marxista-leninista una concessione al cinema commerciale e di aver realizzato una versione agiografica del Vangelo. Sempre in Francia, Pasolini riscuote la sincera solidarietà di Jean Paul Sartre, ma il critico marxista Michel Cournot scrive sul prestigioso Le Nouvel Observateur che il film sembra fatto apposta per quegli uomini che vanno a messa la domenica di Pasqua e che
all’inizio dell’anno prendono la tessera del partito comunista. L’ottusità di tali critiche, anche dal punto di vista strettamente politico, è provata dal fatto che esse si basano esclusivamente sulla parte contenutistica del film senza nessuna attenzione all’aspetto formale e simbolico, evidentemente prevalente in un autore come Pasolini. Nei soldati di Frode, che irrompono di notte nel villaggio e uccidono i bambini buttandoli in aria, è facile riconoscere le squadracce fasciste viste all'opera nell’ultima guerra; e le immagini della fuga di Giuseppe e Maria attraverso l'Egitto non possono che ricordare le immagini di altre fughe di profughi verso l'esilio. E soprattutto, aver deciso di girare gran parte delle scene de // Vangelo nel Mezzogiorno d’Italia, e di ambientare la Palestina colonizzata dai romani — gli imperialisti di duemila anni fa — nelle grotte di Matera e nei sobborghi medievali di Crotone è un segno politico che non poteva sfuggire, e che invece sfuggì. A parte le critiche, o forse grazie anche a queste, // Vangelo secondo Matteo fu per Pasolini il primo vero grande successo internazionale, e fu il film che gli consentì di intraprendere la parte più fortunata e intensa della sua carriera.
N (0)
T$A£% (o) beat, creta
sens?i è *
Veli
PARTITE
si
«Dove va l’umanità?», «Boh!»: lo scambio di battute, sintesi di un'intervista di Mao concessa a Edgar Snow, è messo come epigrafe di Uccellacci e uccellini, a sottolineare la condizione di incertezza incarnata dai protagonisti del film e soprattutto la natura di un’opera tra le più singolari del cinema italiano, e anche quella più anomala e formalmente astratta della filmografia pasoliniana. Dopo i primi film, realizzati sotto la spinta dell’entusiasmo creativo e ispirati all'idea gramsciana dell’opera nazional-popolare — quindi film con personaggi e storie che nascevano da una realtà magari esasperata ma riconoscibile, e in cui l'itinerario narrativo,
quasi didascalico,
e
l'andamento epico dello stile aiutavano il coinvolgimento del pubblico — molte cose sono cambiate nel paese e nell’atteggiamento di Pasolini. È il momento della disillusione, la fase in cui si interrompe in Italia la deriva confusamente solidaristi-
Totò nella parte di Fra Ciccillo. Pasolini utilizza l'attore come un materiale linguistico e ne sfrutta tutte le risorse espressive: la clownerie, la snodatura del corpo, le smorfie, i lazzi verbali, ma anche la dolcezza, il qualunquismo, la disperata malinconia.
ca che in qualche modo era sopravvissuta al clima del dopoguerra e della ricostruzione, e in cui la realtà si fa improvvisamente più complessa e vengono meno gli schemi e gli strumenti ideologici utili ad interpretarla. Pasolini, che peraltro aveva anti-
cipato per tempo i pericoli di questo passaggio, vive il consolidarsi delle sue ossessioni con una sofferenza particolare, si rende conto che il popolo come categoria sociale (e nella conce-
zione gramsciana) semplicemente non esiste più: si è trasformato in massa indifferenziata, omologandosi in una piccoloborghesia disimpegnata e passiva, chiusa nell’individualismo e nel circuito consumistico. Questo momento di crisi personale e
artistica viene espresso con intensità nel volume di versi Poesie in forma di rosa e, per quanto riguarda l’attività cinematografica, attraverso
una rottura
che l’autore stesso definirà «cinema d'élite», e che si traduce in film via via più problematici, formalmente complessi, sempre provocatori. Il linguaggio cinematografico si fa più attento alla ricerca e alla sperimentazione, l’aspetto visivo, non più recuperato dalla cultura pittorica, viene autonomamente esasperato e predomina sulla parola, i film diventano universi espressivi dominati dalla metafora, dall’apologo, dalla contaminazione linguistica dei codici (il cinema comico, il teatro, il fumetto).
Per molti versi esemplare di questo periodo è Uccellacci e uccellini, che Pasolini gira nel 1966, definendolo «un’operetta poetica scritta nella lingua della prosa». Film itinerante e insieme claustrofobico, racconto sghembo, favola picaresca che mischia metafore e riferimenti cinematografici (la staticità di Keaton e la poesia di Chaplin, i saltimbanchi
con quanto fatto in precedenza, con la ricerca di una nuova e più rischiosa strada espressiva. Scrive Pasolini: «Se oggi facessi un’opera semplificata, ad andamento epico-sacrale (come erano appunto Accattone, Mamma
apologo filosofico che racconta la fine delle ideologie e la crisi del marxismo sullo sfondo dello scontro atavico e ormai irrimediabile tra dominati e dominatori (gli uccellacci e gli uccellini
Roma, La ricotta e anche Il Van-
del titolo), ma anche incontro
gelo, ndr), non la farei più rivolta ad un popolo ideale, sia pure
infelice tra coloro che hanno la grazia del sapere, il Corvo sapiente, e coloro che sopravvivono a se stessi, senza neppure la coscienza di essere al mondo: Totò e Ninetto, un padre e un fi-
idealizzato all'estremo, ma farei
solo un’opera di volgarizzazione a favore di una massa». È l’annuncio di un nuovo capitolo,
di Fellini e i frati di Rossellini),
55
glio che ritorneranno più volte in questa fase del cinema pasoliniano, personaggi beckettiani che percorrono a piedi le interminabili strade di un universo metafisico e senza pietà, discettando di cose altissime con la banalità dei luoghi comuni ed esprimendosi nell’unico modo che è loro consentito, cioè con gli istinti primari (gli stimoli del corpo, ma anche l’odio per i più deboli e il servilismo verso i potenti). «Beati voi — li saluta il
Corvo, con la voce salmodiante di Alfonso Leonetti — che ve ne andate per le strade di periferia, incontrate ragazze vestite da angeli, parlate della vita e della morte, così come vi viene in mente».
Alfredo Bini e Totò scherzano con il corvo parlante, protagonista ideologo di Uccellacci e uccellini. Nella pagina accanto, un “si gira” dell’episodio dei frati, ambientato davanti a una basilica medievale di Tuscania, nel viterbese.
In una geografia surreale e ironica (i cartelli stradali indicano
le distanze chilometriche delle capitali del Terzo Mondo — Pechino, Istambul km 4.253, L’'Avana km 13.257 — ma ricordano anche i nomi dei sottoproletari ormai usciti dalla storia: “Via Antonio Mangiapasta scopino”, “Via Lillo Strappalenzuola scap-
pato di casa a 12 anni”), i due protagonisti, Totò e Ninetto, percorrono senza meta una periferia delimitata da autostrade sospese tra cielo e terra e sorvolata da jet che sfiorano paludi e canneti. È una terra vista come da un altro pianeta o evocata da un poeta che abbia deciso di rappresentarla non per quello che è, ma per come sta diventando, in un processo di inarrestabile degrado. Nel loro cammino i due protagonisti si imbattono nel mistero della vita e della morte (la nascita di un bambi-
no in un accampamento di girovaghi, la famiglia suicidatasi con il gas, i funerali solenni di Togliatti), e soprattutto nell’angoscia di chi vive nella fame (la
DI
famiglia di contadini che si nutrono con i nidi delle rondini,
mentre la madre cerca di convincere i figli che è ancora notte non potendo dare loro da mangiare). Improvvisamente, salutato da un canto partigiano, appare il Corvo parlante «nato nel paese di Ideologia e figlio del Dubbio e
Totò durante la lavorazione
del film. Mentre si moltiplicano le conoscenze scientifiche e le ideologie si frantumano, Pasolini sceglie di raccontare l’incomprensibilità del mondo, ma anche di
testimoniare il suo malessere e il suo disagio personale.
di Utopia». Dotto e logorroico,
il Corvo si mette ad accompagnarli nel loro cammino e ad assillarli con la sua ormai inutile sapienza. Durante la marcia, per passare il tempo, il Corvo racconta un apologo ambientato nel 1200: la storia di due poveri frati inviati da Francesco d'Assisi a evangelizzare i falchetti e i passeri, educandoli all'amore cele-
58
ste. Dopo anni di sforzi e sacrifici, quando i due frati, fra Cic-
cillo e il novizio Ninetto, credono di aver compiuto finalmente la propria missione, sono costretti a verificare che purtroppo, anche se conquistati alla parola di Dio, i falchi continuano ad aggredire e a divorare gli uccelli più deboli. Disperati e de-
lusi, i due ritornano da France-
sco per comunicare il loro fallimento («Che ce posso fa’ — dice fra Ciccillo — se così va il mondo, se ce sta la classe dei falchi e quella dei passerotti?»). Francesco, però, non è d’accordo perché «tutto si può fare», perché «il mondo va cambiato», e misteriosamente profetizza l’avvento di un uomo dagli occhi aZzZuIti. Il racconto del Corvo lascia perplessi Totò e Ninetto, tanto più che nel loro mondo non vedono avanzare nessun uomo dagli occhi azzurri e, anzi, di lì a poco assistono in silenzio al passaggio dei funerali di Togliatti. Confusi e stanchi del loro fastidioso compagno di viaggio, i
due uccidono il Corvo e se lo mangiano («Tanto, se non ce lo mangiamo noi, se lo mangia
alle loro spalle e li supera. Loro
Totò e Ninetto, ma anche, autocriticamente, nell’eloquio moralista del Corvo che cerca di spie-
qualcun altro»).
non arriveranno mai là dove in-
gare (formalisticamente) il mon-
Al cuore del passaggio tra mondo industriale e realtà post-indu-
do com'è e dove va. D'altra parte il pessimismo del film non è solo ideologico. Dopo il Ventesimo Congresso, dopo i fatti di Budapest e di Danzica, dopo la morte di Togliatti, il tempo è scaduto, e soprattutto per il Corvo, trasparente metafora di una contraddizione tra 1 valori da salvare e un’ideologia in crisi profonda. Per gli altri la sconfitta è accettabile perché, in fondo, vitalisticamente, si può sempre ripartire da zero; per il Corvo no, per lui e per ciò che
difesi come Charlot in tanti film, mentre un aereo rombante passa
striale (la Nuova Preistoria de-
vece giungerà l’aereo, perché il loro passo è il passo del passato, e la loro sorte è dunque segnata.
nunciata da Pasolini nelle poesie
Pasolini, evidentemente, si iden-
e negli scritti corsari) Vlumanità
tifica nella condizione umana di
divora quello che deve divorare per sopravvivere e per poter andare oltre, verso chissà quali traguardi (appunto: «Dove va l’umanità?», «Boh!»). Nell’ultima immagine di Uccellacci e uccellini, Totò e Ninetto
continuano il loro viaggio camminando lungo una strada rettilinea e polverosa, speranzosi e in-
Totò e Ninetto, personaggi beckettiani, percorrono a piedi
le interminabili strade di una periferia metafisica, circolare e senza pietà, discettando di cose altissime con la banalità dei luoghi comuni ed esprimendosi con i loro istinti più primari.
99
rappresenta, la coscienza della sconfitta è la morte. In un momento storico in cui le conoscenze scientifiche si moltiplicano e le ideologie si frantumano, Pasolini realizza un film per raccontare l’incomprensibi-
cun altro verrà a prendere la mia bandiera. Io piango solamente su me stesso. È umano, no, in chi sente di non contare più».
lità del mondo, ma anche per te-
Con Uccellacci e uccellini il linguaggio cinematografico si fa più attento alla sperimentazione, mentre l’aspetto visivo si esaspera _ e predomina sulla parola.
stimoniare il suo malessere e il suo disagio personali. «Non pensi però, signor Totò — dice ad un certo punto il Corvo — che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono convinto che qual-
E il momento della metafora, dell’apologo, della contaminazione linguistica dei codici.
Uccellacci e uccellini rappresenta anche l’occasione dell’incontro artistico con Totò, un attore straordinario spesso maltrattato dalle produzioni più corrive del cinema italiano. Pasolini utilizza Totò come un vero e proprio materiale linguistico e ne sfrutta tutte le corde espressive (la naturale clownerie,
la
snodatura del corpo, le smorfie grottesche, i lazzi verbali, ma anche la dolcezza, il qualunquismo, la malinconia
disperata di
una maschera tipica del sottoproletariato napoletano e universale). Il risultato di questa «decodificazione di un codice» è un Totò diverso dal solito, anche se continua a fare, benissimo, le cose che ha sempre fatto. Per Pasolini, lavorare con Totò, farlo interagire in coppia con un attore esordiente e istintivo come il giovanissimo Ninetto Davoli («insieme sono come uno stradivario e uno zufoletto»
scrive in un articolo) è la gioia più grande in un film che, anche se accolto dalla critica in maniera generalmente favorevole, procurerà all'autore, sul piano personale, difficoltà e sofferenze. Accanto a Uccellacci e uccellini Pasolini gira anche l’episodio Totò al circo (0 anche L’aquila), poi non utilizzato nel montaggio definitivo e quindi destinato a restare inedito. Si tratta di un breve film che, preso da solo, per la sua schematicità e anche per alcuni eccessivi compiacimenti nella recitazione di Davoli, può risultare ‘“minore”, mentre è invece fondamentale per comprendere meglio l’apologo di frate Ciccillo, di cui costituisce l'evidente compendio. Protagonista dell’episodio (anch’esso un aneddoto che avrebbe dovuto essere raccontato dal Corvo) è un domatore francese, interpretato da Totò,
chiamato Monsieur Cournot (in onore del critico de Le Nouvel Observateur, che aveva stroncato Il Vangelo secondo Matteo). Razionalista e manicheo, il domatore è convinto che sia possibile ammaestrare qualsiasi animale, dunque anche una bellissima aquila reale a cui cerca di imporre, inizialmente con pazienza e garbo raffinato, il
modello del pensiero razionalista francese. L'aquila, naturalmente, è refrattaria ad ogni insegnamento e questa indisponibilità fa perdere la testa a Cournot. Come estremo affronto il rapace viene rinchiuso nella gabbia che ospita gli animali già addomesticati: tigri, leoni, serpenti e anche uno spaurito assistente umano, interpretato da Davoli. Tutti parlano perfettamente la lingua del domatore e si comportano secondo le buone regole della borghesia parigina. L'aquila però non recede dal suo comportamento e, per la rabbia, Cournot rischia l’infarto. Il paziente Ninetto scongiura allora l’animale di accontentare il suo padrone, e a quella preghiera l'aquila si intenerisce confessando di non poter rispondere alle richieste di Cournot perché deve pregare. Alla inattesa rivelazione, il domatore cambia metodo e comincia a leggere all’aquila, mellifluamente, lunghi testi di Pascal, ma ancora senza risultato. È la sconfitta totale. Demoralizzato, Cournot si appollaia su un trespolo posto di fronte all’aquila e inizia lui a imitarne i gesti. Infine, si reca su una montagna e spicca il volo verso il cielo. Fuor di metafora, mentre l’apologo di fra Ciccillo e fra Ninetto racconta l'impossibilità di modificare la natura umana, l’apologo dell’aquila e del domatore condanna la funzione “civilizzatrice” assunta dalla classe intellettuale, secondo cui tutto ciò che è difforme dai modelli normativi o dalle proprie capacità interpretative deve essere razionalizzato, assimilato e in qualche modo reso coerente. Per Pasolini, di fronte alle ra-
gioni dell’irrazionalismo preindustriale incarnato dal Terzo Mondo, l’intellettuale occidentale paga un enorme ritardo e si piega a una colpevole complicità con il potere dominante; in più, vive la profonda crisi cercando semplicemente di esorcizzarla senza rimettere in discussione il proprio ruolo, rischiando così di decretare una mortale sconfitta. Alternativa a questo atteggiamento è la follia liberatrice di Cournot che, dopo vani tentativi, si immedesima
alla fine con le ragioni dell’aquila (il mondo pre-industriale)
e vola via. Come detto, l’episodio non viene montato da Pasolini, però il fatto non gli evita di essere protagonista ancora una volta di un’astiosa polemica politica. Infatti, il soggetto viene pubblicato sul settimanale Vie Nuove, dove lo scrittore cura una rubrica, e ciò scatena un acceso dibattito tra i lettori, molti dei quali criticano il disfattismo pessimista su cui si è incamminato Pasolini, rivendicando i meriti del razionalismo occidentale e soprattutto elogiando la funzione, più che mai decisiva, che dovrà essere
svolta da-
gli intellettuali. Come sempre, Pasolini non fa calcoli di opportunità e se accetta di sacrificare l'episodio dell’aquila e del domatore, lo fa probabilmente solo per un’incertezza sulla qualità estetica del materiale girato. In realtà, per Pasolini si tratta solo del rinvio di un discorso — sul senso di generale disfatta respirato nel Dopostoria che sono ormai diventati per lui gli anni Sessanta —, che da quel momento diventerà un tema centrale e ricorrente della sua opera.
61
La terra di Uccellacci e uccellini è vista come da un altro pianeta o evocata da un poeta che abbia deciso di rappresentarla non per quello che è, ma per come sta diventando, in un inarrestabile degrado. Nel loro cammino i due protagonisti si imbattono nel mistero della vita e della morte, e soprattutto nell’angoscia di chi vive nella fame e nell’ingiustizia.
La vena comica presente in Uccellacci e uccellini viene sviluppata in due mediometraggi che fanno parte di altrettanti film a episodi prodotti da De Laurentiis. I due brevi film — La Terra vista dalla Luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? (1968) — sono sempre in-
terpretati dalla coppia TotòDavoli e approfondiscono con stralunata poeticità una fase del cinema di Pasolini da lui definita dell’«ideologia della morte».
Partendo dal tema unico assegnato dal film Le streghe (il potere esercitato dalle donne in epoca di femminismo), La Terra vista dalla Luna racconta le vicende di un padre (vedovo) e di un figlio (orfano) alla ricerca della «donna ideale», una moglie-madre capace di accudirli e di ridare un senso alla loro vita. La continuità con Uccellacci e uccellini è per la verità solo apparente: depurato dalle citazioni e dalle accentuazioni ideologiche, il mediometraggio pone sul tappeto le stesse fondamentali domande sulla vita e sull’insensatezza di ogni esperienza umana, ma lo fa accentuando i toni farseschi e ricorrendo agli inediti codici espressivi del fumetto. Inoltre, è il primo film completamente a colori di Pasolini
(che coglie
l’occasione per spingersi al limite dello sperimentalismo cro-
matico, utilizzando tinte piatte alla Disney, senza contorni e senza ombre) ed è girato senza
una sceneggiatura tradizionale, ma sulla base di uno storyboard disegnato personalmente dal regista con la tecnica appunto delle storie a fumetti. Nella loro ricerca, Ciancicato (Totò) e Baciù (Ninetto) si im-
battono in una donna bellissima, Assurdina (Silvana Manga-
no), sordomuta e con i capelli verdi. Accettata la proposta di matrimonio di Ciancicato, dopo una rapida cerimonia, la donna viene condotta nella casa dei due uomini, una lurida baracca dove stanno ammassati rifiuti di ogni genere: bandiere, bombe a mano,
una vecchia radio,
una foto di Charlot, addirittura un piccolo cinese. La donna non si perde d’animo e, con i gesti accelerati di una gag da cinema muto, trasforma la catapecchia in una dimora ordinata e graziosa. Ma gli uomini non si accontentano mai di quel che hanno, e Ciancicato e Baciù escogitano una messa in scena per guadagnare un po’ di soldi e comprarsi così una casa più grande. Costringono Assurdina a fingere di volersi buttare dal Colosseo, mentre loro fanno una colletta tra i curiosi richiamati dalla scena. La recita finisce tragicamente, perché Assurdina scivola su una buccia di banana lasciata cadere da due
turisti americani in visita e si schianta al suolo. Quando Ciancicato e Baciù, affranti dal dolore e dal senso di colpa, tornano a casa VI ritrovano Assurdina, vestita da sposa, sorridente e remissiva come se niente fosse accaduto. Che sia viva o sia un fantasma poco importa, e sull’ultima scena appare un cartello con una piccola e disperata morale: «Essere vivi o essere morti è la stessa cosa». Come a dire che in un mondo di miseria e di ingiustizia, ai poveri e ai diseredati non restano che il sogno e l’illusione. Una filosofia di derivazione indiana, come orientale è la curiosa atmosfera di mistero che permea il film, con la trasfigurazione del paesaggio (la baraccopoli agghindata con colori aggraziati e fiori di carta) e la morfologia da cartoon dei protagonisti (truccati appunto come personaggi a fumetti).
La Terra vista dalla Luna è anche l’occasione per Pasolini per una elegante esercitazione teorica sulla essenza del segno cinematografico (si veda l’uso puramente estetico del colore), al punto che qualche critico sospetta nel film, in effetti un po’ freddo e artificioso, una specie di esemplificazione visiva della sua grammatica cinematografica. A parte le considerazioni teoriche, il film consente a Pasolini
63
64
è x“)
seal E
Ninetto Davoli, Silvana Mangano e Totò in due scene de La Terra vista dalla Luna. È il primo film girato completamente a colori da Pasolini, che si ispira all’estetica dei fumetti e utilizza tinte piatte alla Disney, senza contorni e senza ombre.
di riformulare ancora una volta, e stavolta con il tono leggero del fumetto e dell’allegoria, alcune sue ossessioni politiche: la speranza terzomondista, il declino del sottoproletariato, il colonialismo economico e culturale dilagante nel mondo (i due turisti americani buffamente travestiti che fotografano tutto, senza fare differenza tra le baracche di cartone e il Colosseo).
Di diverso, rispetto alle opere precedenti, c'è che Pasolini in questo caso non prova a dare risposte ma propone semplicemente una «favola interrogativa», un racconto per adultibambini in cui sembra dolorosamente dissolversi ogni logica (al punto che la vita arriva ad equivalere alla morte), un universo espressivo quasi lunare, dunque in qualche modo più misterioso e inquietante. 65
66
Totò e Ninetto, clown senza storia né futuro, sono anche i protagonisti dell’altro episodio, Che cosa sono le nuvole?, realizzato da Pasolini per il film Capriccio all’italiana. Girato, quasi per scommessa, in una settimana e mezzo e in attesa dell’inizio delle riprese di Edipo re, il film è in realtà un vero capolavoro per il perfetto equilibrio formale (la comicità picaresca di Totò e Ninetto coniugata con l’altera drammaturgia dei pupi siciliani) e per la profondità tragica e insieme malinconica dell’assunto narrativo. Interamente ambientato tra le tavole del palcoscenico, il film racconta la breve vita (un giorno appena) del burattino Otello (Ninetto Davoli) che, appena nato, è chiamato a interpretare con i compagni lago (Totò, qui alla sua ultima interpretazione prima della morte), Desdemona (Laura Betti), Cassio (Franco Franchi) e
Bianca (Adriana Asti), una versione popolaresca della omonima tragedia shakespeariana. La vita di Otello si rivela sin dall’inizio piena di misteri: infatti, si innamora di Desdemona eppure
Totò nella parte del burattino lago. Nell’episodio, la comicità picaresca dei protagonisti si coniuga con l’altera drammaturgia dei pupi siciliani in un perfetto equilibrio formale.
la deve uccidere, è amico since-
ro di Iago eppure lo vede ordire subdoli complotti ai suoi danni. Ma allora, si chiede angosciato, dove sta la verità? Perché deve continuare a credere a lago, quando sa che lo sta ingannando? Perché deve uccidere Desdemona se poi sa che si dovrà pentire? Il burattinaio (interpretato dallo scrittore Alfonso Leonetti) dà al giovane Otello spiegazioni involute e raziocinanti che non lo possono soddisfare («Chissà — gli dice — forse Otel-
prima volta, il cielo. «Ih, belle, che so’quelle?», chiede Ninetto. «Come che sono? Sono le nuvole!», gli risponde Totò. «E che cosa sono le nuvole?». E un estasiato Totò, quasi mormorando a se stesso: «Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato». Il cammino, per loro, è appena iniziato e il viaggio è già giunto al termine. Come poveri che passano da una morte ad un’altra (Uccellacci e
davvero Desdemona; e poi, chissà, forse alla donna piace essere
uccellini), i protagonisti di Che cosa sono le nuvole? passano da una condizione di prigionia e finzione (le marionette legate a un filo, il sogno dentro un sogno
uccisa»). Viceversa il vecchio
del teatro) alla morte come rifiu-
lago, abituato ai doveri del teatro («Siamo in un sogno dentro un sogno») e rassegnato al suo destino di malvagio, dà una spiegazione più modesta e accettabile: la verità è qualcosa che si sente dentro, basta però nominarla e non esiste più. Si va in scena, e il pubblico che assiste allo spettacolo, inferocito dalla cattiveria dei protagonisti, irrompe sul palcoscenico e fa a pezzi Otello e Iago prima che possano compiere il loro delitto. E la morte. I due burattini vengono caricati su un furgoncino guidato da un addetto alle puli-
ti. Eppure è proprio questa morte che consente a Totò e Ninetto di scoprire la verità, di essere per una volta se stessi, senza dover recitare un copione e scoprendo così la bellezza del cielo e il mistero delle nuvole. Pasolini gira questo ennesimo apologo in vero stato di grazia, dove la comicità è continuamente intrecciata al pensiero della morte, e dove c’è un uso strepitoso degli attori di volta in volta uomini 0 burattini, di volta in volta meccanici protagonisti di una finzione (il teatro sottolineato dall’uso espressionistico del colore: il verde di lago, il nero di Otello, il rosso delle lingue, l'azzurro
lo, nel profondo, vuole uccidere
zie (Domenico Modugno) che li
getta in un prato pieno di rifiuti. Sdraiati supini e immobili, staccati dai fili che li tenevano in vita, vedono con stupore, per la
dei fondali)
o umane
e vulnera-
bili pedine, confuse davanti al grande mistero della vita.
67
L’età dell’innocenza si è conclusa per sempre e compito dell’intellettuale non è più rappresentare l’armonia, bensì mettere in crisi e scandalizzare. La nuova fase del cinema di Pasolini è contrassegnata da un marcato allontanamento dalla realtà sociale: alla ricerca di un nuovo sguardo, per andare oltre il progetto formalistico della rappresentazione.
La Grecia antica e preistorica è un mondo in cui Pasolini può ritrovare le radici di molte sue posizioni ideologiche. L’infrazione del tabù sessuale e non (il parricidio e l’incesto di Edipo), lo scontro in atto tra le ‘forze del passato” e il moderno (Medea che uccide i propri figli) sembrano fatti apposta per attrarre Pasolini, di certo per la natura psicoanalitica delle storie, ma anche per l’opportunità che esse gli offrono di affrontare alcuni fantasmi personali e di approfondire, con la mediazione alta del Mito, un tema
centrale
della sua
elaborazione d’autore: il dovere di trovare la verità per prima cosa dentro se stessi, per poi denunciarla senza rimozioni. L’età dell’innocenza è conclusa, e compito dell’intellettuale non è più rappresentare il mondo dell’armonia e della consolazione, bensì mettere in crisi e turbare, se necessario scandalizzare. È un pensiero che Pasolini sviluppa nei suoi interventi pubblici e in numerosi articoli che scrive in quel periodo. Per quanto riguarda il cinema, tale posizione si concretizza con film dolorosi e disperati come Edipo re e Medea, con opere ancora più
esplicite, come Teorema e Porcile, e infine con la messinscena di un vero e proprio incubo, Salò. Per quanto riguarda Edipo e Medea, c’è evidentemente anche una forte identificazione autobiografica per la sofferenza umana dei personaggi e per l’idea poetica e visionaria del passato da cui essi provengono. All’Edipo di Sofocle Pasolini pensa da anni, ma la decisione di realizzarne un film è solo del 1967, presa durante un viaggio in Marocco, dove in lui scatta l’idea di ambientare in quelle zone desertiche e ancora barbariche, insomma nel cuore più antico e aspro del Terzo Mondo, la terribile lotta del potere e della conoscenza descritta dal grande tragico greco. Edipo re inaugura una nuova stagione del cinema pasoliniano, una fase contrassegnata da un marcato allontanamento dalla realtà sociale del suo tempo (nei suoi film non ci saranno più borgate e periferie, né personaggi identificabili con il sottoproletariato). Questo allontanamento però non è un rifiuto della realtà, è semmai la ricerca di un nuovo sguardo, la spinta ad andare oltre il semplice progetto for-
malistico della rappresentazione, a favore di un modo più estremo o semplicemente meno convenzionale di porsi nei confronti del presente che si rinnega. A partire da Edipo re Velemento narrativo è dato da cose
da cui Pasolini si sente ormai «fisicamente lontano», in cui la vita quotidiana si fa essenza di gesti e sentimenti estremi, la cronaca diventa Mito; in termini stilistici è un cinema più maturo e anche più spettacolare per la bellezza delle ambientazioni (i deserti, il rosso delle antiche città marocchine), per
la fastosità delle maschere e dei costumi, in cui però la visualizzazione del tabù infranto (i climax narrativi di Edipo re e Medea) o dell’effrazione morale (lo “scandalo” di Teorema,
Porcile, Salò) avviene sempre a livello di ritualità, con inquadrature fisse e oggettivate, con
una messa in scena fortemente straniata (che cita Brecht e il
Living di Julian Beck o che ricorre al melodramma incarnato dalla Callas), sempre con la sottolineatura del gesto esemplare (e narrativamente predeterminato), l'esercitazione linguistica, il peso antinaturalistico dei silenzi e delle pause. 69
Con Silvana Mangano, in abito di scena, L’infrazione del tabù sessuale consente grazie alla mediazione alta del Mito, un cinema pasoliniano: il dovere di cercare stessi per poi denunciarla senza
sul set di Edipo re. di approfondire, tema centrale del la verità dentro se rimozioni.
Nel film, Pasolini spoglia il Mito da ogni interpretazione culturale e trasferisce la storia in un contesto fisico fuori del tempo. La tragica grandiosità di Edipo è nella sua inutile lotta contro il destino; una condizione umana, la sua, in cui la felicità (nella dimensione privata) è sempre provvisoria e sembra dipendere dall’inganno o dalla non conoscenza, e in cui l’esercizio del potere (nella
dimensione pubblica) è illusorio, oltreché ingiusto, e deve essere comunque pagato con sacrifici durissimi. A interessare Pasolini nel testo di Sofocle è soprattutto il contrasto tra l'innocenza colpevole di chi si illude della propria felicità e l'obbligo di conoscere anche le verità più terribili. Il problema di Edipo (e dell’umanità) sembra
risiedere
soprat-
tutto in questo, poiché «non è la crudeltà della vita a determinare i crimini, ma il fatto che la gente non tenti di comprendere la storia, la vita e la realtà». Nel film, tale contrasto è interamente compreso nella figura di Edipo, dall’innocenza
incri-
nata sin dalla nascita (lo sguardo incattivito e geloso di suo padre) alla colpa di non voler prendere coscienza della realtà, al peccato originale che gli preesiste. La cecità non è soltanto
un deficit fisico,
x
è una
condizione ineludibile dell’uomo, e nel film sono disseminati numerosi segnali in questo senso: il gesto di Edipo di chiudere gli occhi ogni volta che si trova di fronte ad un bivio (e ogni volta prenderà la strada per Tebe); e nel finale, quando Edipo, cieco e vestito con abiti moderni, sembra camminare senza meta, in realtà ritorna esattamente dove è giusto che ritorni, presso i luoghi e i sentimenti dell’infanzia. Una scelta che non è una regressione, bensì un recupero di valori e verità: un passaggio dalla metastoria all’infanzia della storia. Film tra i più complessi e personali di Pasolini, Edipo re ha una struttura scandita in quattro movimenti. Il primo, un prologo straordinario per inventiva e ispirazione, è ambientato negli anni Venti. Il secondo e il terzo, esteticamente più eclettici e visivamente quasi fantasmagorici (per definirli Pasolini parla di allucinazione), sono
ambientati
in una
Grecia arcaica e immersa in un onirico “tempo perduto”. Il quarto tempo è un epilogo più “arbitrario” (la definizione è sempre di Pasolini), spostato alla fine degli anni Sessanta (il periodo in cui esce il film). Il prologo e l'epilogo, ambientati nei luoghi dell’infanzia e della maturità dell’autore, si pongo-
no evidentemente come una parentesi autobiografica al racconto centrale, ma in realtà ne
costituiscono la premessa e la conclusione, in uno sviluppo narrativo drammaturgicamente lineare. Il film inizia in un prato circondato dagli alberi, con una donna
bellissima
(Silvana
Mangano) che si avvicina ad una culla, prende teneramente in braccio il suo bambino e lo allatta. Una soggettiva dal basso che inquadra il volto della donna incorniciato dai pioppi svela che il bambino ha aperto gli occhi e che è quella la prima immagine da lui veduta. In una scena seguente, la culla con il bambino si trova in una camera deserta. Un uomo in divisa da militare (il padre di Pasolini era ufficiale di fanteria)
si avvicina e stringe con forza le caviglie del bambino fino a fargli male. Una didascalia rivela il pensiero dell’uomo: «Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna
che
io
amo. Anzi già mi rubi il suo amore». La scena si sposta nell’antica Grecia, dove un bambino è appeso per le caviglie ad una pertica portata a spalla da un servitore di Laio, re di Tebe. L'uomo ha l’incarico di uccidere il bambino per evitare 7A
che si avveri la terribile profezia dell’oracolo di Delfi, secondo cui il figlio di Laio, una volta cresciuto, ucciderà il padre e giacerà con la madre. Il servitore non ha però il cuore di uccidere il bambino e lo affida ad un pastore che, a sua volta, lo porta presso il re di Corinto, che lo adotta come figlio, dandogli il nome di Edipo (che letteralmente significa «colui che ha i piedi gonfi»). Cresciuto e venuto a conoscenza della profezia che lo riguarda, per evitare il rischio di uccidere quello che crede essere suo padre, Edipo (Franco Citti) fugge da Corinto, e sulla strada si imbatte nel corteo regale di Laio. Tra lui e il sovrano scop72
Un servitore di Laio, re di Tebe, trasporta il piccolo Edipo: ha l’incarico di ucciderlo ma non ne avrà il coraggio. La tragica grandiosità del protagonista si esprime nell’inutile lotta contro il destino.
pia un violento diverbio ed Edipo, fuori di sé, uccide il re e tutti gli uomini della scorta. Giunto
a Tebe, libera la città
dall’incubo della Sfinge, una terribile creatura che semina la morte. Come compenso per il suo eroismo, ad Edipo spetta di convolare a nozze con la vedova regina Giocasta (Silvana Mangano). Con lei Edipo consuma la prima notte d'amore,
ed è così che si avvera quanto previsto dall’oracolo. Mentre la peste infuria su Tebe, solo il veggente cieco Tiresia (Julian Beck) svela a Edipo il motivo dell’ira divina e l’orribile verità. Folle di dolore, Giocasta Si uccide ed' Edipo si ‘acceca con la spilla che tiene le vesti della madre. Accecato e sanguinante per aver «scoperto il segreto degli dèi», Edipo esce dal palazzo reale e si allontana brancolando nel buio, accompagnato solo dal suo fedele servitore (Ninetto Davoli).
Negli portici Edipo, suona sempre
anni Sessanta, sotto i di Bologna, ritroviamo invecchiato e cieco, che il flauto per i passanti, amorevolmente guidato
dal giovane compagno. I due percorrono le strade di una periferia operaia, passano davanti a una fabbrica, a una chiesa (che è, didascalicamente,
l’iti-
nerario compiuto da un poeta
La cecità di Edipo (Franco Citti) non è soltanto un deficit fisico, ma è la condizione ineludibile dell’uomo che non vuole prendere coscienza di una realtà che gli preesiste.
civile come Pasolini), e alla fi-
ne arrivano sul prato circondato da pioppi e acque che abbiamo visto all’inizio del film, dove la madre allattava il bambino e dove è possibile finalmente ritrovare la pace. Così rappresentato, Edipo su-
pera la tragicità della figura di Sofocle, caricandosi di un’ansia e di uno sgomento tipici dell’eroe moderno. Tra la verità e la cecità, il protagonista vive uno sdoppiamento che lo rende inquieto e violento:
in-
torno a lui tutto è stato detto e deciso (ci sono profezie, testimoni, vittime, segni del destino), eppure Edipo rifiuta finché può di guardare l'abisso «dentro di lui». La differenza più significativa introdotta da Pasolini è che mentre nel testo teatrale la presa di coscienza di Edipo avviene progressivamente, attraverso una serie di incontri e dialo-
ghi, nel film è misteriosamente interiorizzata, quasi presupposta sin dall'inizio (Edipo chiama «madre» Giocasta nel momento
in cui giace con lei), ed
è risolta quasi solo a livello di immagini: rari dialoghi, lunghi silenzi, improvvisi e feroci scoppi d'ira. Dal punto di vista della regia Edipo re è forse il film più complesso e maturo tra quelli realizzati da Pasolini. La tecnica di ripresa, inizialmente basata solo su piccole inquadrature e lenti movimenti di macchina, ora si esprime con una ricerca di immagini sempre più elaborate, con lunghi piani sequenza e con notevoli soluzioni espressive. Notevole è so-
te;
prattutto la compattezza stilistica del film che, alternando cadenze nervose e pause di suggestiva liricità, riesce a tenere insieme le varie parti del racconto, malgrado le diverse coordinate temporali ed espressive. Da sottolineare lo scenario terzomondista, con il “coro” delle centinaia di comparse marocchine che, vestite con gli eleganti costumi disegnati da Danilo Donati, subiscono passivamente le pestilenze e le ingiurie del fato, e assistono solo da lontano, senza voce né potere, alle lotte che si svolgono nel chiuso dei palazzi reali. Una dimensione espressiva sottolineata anche dalla colonna so-
Giocasta (Silvana Mangano) ed Edipo consumano la loro prima notte d’amore facendo
così avverare la predizione dell’oracolo. Nella pagina accanto, il dolore consapevole della regina.
nora molto “contaminata”: si va dai canti popolari russi e rumeni alla ritmica nordafricana, mentre i momenti più alti e decisivi vissuti da Giocasta ed Edipo sono accompagnati dalla musica di Mozart. Edipo re è un film fondamentale per Pasolini anche perché è quello che più lo tocca nel profondo. Riflettendo sul mistero di Edipo e, in particola-
re, sulla figura di Giocasta, personaggio senza tempo, «solo sensualità e volontà di non sapere», Pasolini scrive in seguito una cosa che trovo bellissima: «Quanta ambiguità nelle creature in cui suona una nota sola! E che incredibili, incoerenti e ossessive apparizioni nel tempo esse hanno! L’ideale loro morte, che restringe la loro vita ai sommi capi, ne fa degli enigmi, che, nel tempo, si ramificano e avvolgono senza evolversi, come meduse nell’acqua, che cangiano incredibilmente forma finché la morte (ma com'è possibile che esse muoiano?) le in-
chioda a una forma definitiva ed è questo l’unico possibile risvolto finale».
Attratto più che mai dal Terzo Mondo, visto ancora come un continente frammentato, ma ideologicamente unitario, in cui popoli diversi stanno edificando, pur tra contraddizioni e sconfitte, la loro storia, Pasolini elabora nel corso del 1967 un progetto audiovisivo di ampio respiro che avrebbe dovuto chiamarsi Appunti per un poema sul Terzo Mondo. Il progetto prevede la documentazione e l’analisi degli atti che presiedono alla nascita e all’ affermazione della democrazia in cinque aree del mondo frica, l'India,
(l’ Arabia, |AAmerica Latina
e 1 ghetti del Nord America). Naturalmente Pasolini non pensa di imbarcarsi in un’inchiesta giornalistica di tipo televisivo; la sua idea, pur all’interno di un'operazione dichiaratamente politica, è di dare forma poetica
ad alcune storie emblematiche delle varie realtà prese in consi-
Tra i giovani dell’India come della Palestina o del Mezzogiorno d’Italia, Pasolini trova accenti di poesia quando mette in evidenza la disarmata infinita dolcezza dei sorrisi e dei gesti quotidiani di fronte ai gravi problemi che incombono. In loro ritrova l’esperienza personale che lo ha portato a sentirsi vicino ai ghetti e alle periferie del mondo.
derazione, possibilmente attingendo alle culture locali. Purtroppo il progetto non si concretizzerà, anche se Pasolini continuerà a pensarci fino alla fine. Nel dicembre 1967, cogliendo l’occasione di un contratto firmato con la Rai (deve
realizzare per la rubrica giornalistica TV7 un documentario su un paese del Terzo Mondo), parte per l'India con la non dichiarata intenzione di girare in forma di appunti (come già aveva fatto in Palestina) l'embrione di
quello che sarebbe stato eventualmente il capitolo indiano. Il risultato è di grande interesse: interviste, riflessioni, paesaggi, volti e figure dei futuri protagonisti, e soprattutto la testimonianza in “presa diretta” delle laceranti contraddizioni di una società ancora bloccata e di una democrazia dolorosamente lontana dalla sua realizzazione. Nelle immagini, molte girate da Pasolini stesso con la macchina da presa in spalla, emerge lo stupore sincero di ritrovare l’India favolosa e misterica di tanta letteratura, il Gange, il chiostro di Gita Bhavan, le deliranti architetture di Jaipur. Ma dietro c’è, lancinante, l’angoscia per una barbarie che è già stata commessa, per i delitti di un neocapitalismo che si sovrappone ed esaspera una miseria preistorica già tanto estesa. Nel progetto originario, il capi-
tolo dedicato all’India doveva incentrarsi su un racconto che Pasolini ha ascoltato da Elsa Morante. Un maharajà ricco, colto, padrone di immensi territori, un giorno si reca in visita nei suoi possedimenti più lontani, quasi ai confini dello Stato. E inverno e fa un freddo glaciale, tutto è sommerso da una spessa coltre di neve. Ad un tratto, tra gli alberi e l'erba, appaiono due giovani tigri disperse che, affamate e stremate dal freddo, stanno morendo. Il maharajà è preso da un così grande senso di pietà che, sceso da cavallo, si avvicina, da solo, offrendosi in pasto ai due animali famelici. Pasolini pensa di rifare questa storia, evidentemente in bilico tra un'epoca feudale (ma ricca di valori alti) e la nuova stagione segnata dalla lotta per l’indipendenza, e nel corso dei sopralluoghi la racconta a molti degli intervistati (fra cui anche intellettuali e politici) chiedendo se un simile episodio sarebbe concepibile nell'India contemporanea. Ben presto, però, Pasolini lascia questa traccia troppo idealistica e comincia a puntare lo sguardo della macchina da presa sulla realtà che gli si presenta, senza alcun filtro culturale: ed ecco allora i mercati gremiti di umanità disperata, le periferie sterminate e miserabili, i bambini e i vecchi 77
abbandonati nelle strade, l’angosciosa esistenza degli “intoccabili”’, la fatica disumana del lavoro dei portatori d’acqua e degli spaccatori di pietre, e poi le immagini della morte, con i cimiteri all'aperto, i corpi disfatti, le carogne aggredite dagli avvoltoi. Pasolini intervista i ragazzi nelle strade e gli operai fuori dai cancelli della Fiat di Bombay, i
giornalisti del Times of India e il segretario del partito comunista indiano, chiedendo cosa pensano dei piani di sviluppo 0 della “Family Planning”, la legge sulla sterilizzazione che in quei giorni è in discussione al Parlamento cercando insomma di individuare attraverso loro quale forma potrà avere il futuro del paese. Ancora una volta il cinema di Pasolini si esalta nel contrasto tra arcaicità del mon-
do rurale e inurbazione violenta del proletariato, e trova accenti di particolare poesia quando mette in evidenza la disarmata, infinita dolcezza dei sorrisi e dei gesti quotidiani di fronte ai gravi problemi che incombono. È in questa attesa non sottomessa, che Pasolini assimila i giovani indiani ai giovani palestinesi come ai contadini lucani protagonisti del suo Vangelo e vi ritrova anche, in qualche modo, l’esperienza personale che lo ha portato a sentirsi così vicino al ghetti e alle periferie del mondo. «La borghesia — scrive in un articolo — da ragazzo, nel momento più delicato della mia vita, mi ha escluso: mi ha elencato nelle liste dei reietti, dei diversi: e io non posso dimenticarlo. Ne è rimasto in me un senso di offesa, e appunto, di male: lo stesso che deve provare
un negro di Harlem quando passeggia per la Quinta Strada. Non èstata una pura coincidenza, il fatto che io abbia trovato ‘consolazione,
cacciato dai cen-
tri, nelle periferie» (L'Espresso, 30 giugno 1968). Il film si conclude con la lunga sequenza di un corteo funebre e con la solenne cremazione del defunto su una catasta di legna. Come il maharajà che dona se stesso per salvare la vita delle due tigri, il rischio evidente è che nel processo di democratizzazione avviato, l'India più vera, almeno quella che Pasolini ha più a cuore, non possa dona-
re altro che la propria morte. Certo, non è una tesi incoraggiante, ma Pasolini è più che mai convinto che compito dell’intellettuale non sia dare consolazione, ma gridare cose anche sgradevoli se necessarie.
I grandi temi della responsabilità individuale e del mistero della vita, affrontati con Edipo re nella dimensione atemporale del Mito, vengono spostati con Teorema al tempo presente (esattamente il ‘68) e all’inter-
no delle contraddizioni più acute della morale borghese. Il teorema a cui allude il titolo del film è quello di chi cerca di rispondere ai problemi del mondo (la giustizia sociale, la lotta di classe) e ai propri bisogni esistenziali con una geometria formalista basata su modelli comportamentali omologati, su scelte ideologiche conseguenti, su reticenze consolidate. Una società come quella neocapitalista,
si chiede
perché gli abitanti della casa comincino a fare i conti con ciò che realmente sono e, da soli, si autodistruggano. Ed è questa, puntualmente,
la geometrica
scansione del teorema e della trama del film.
Milano, 1968. Un postino suona alla porta di una grande villa e consegna un telegramma in
cui è annunciato l’arrivo di un ospite, che infatti arriva il giorno dopo. L’Ospite misterioso (Terence Stamp), bellissimo e schivo, legge le poesie di Rimbaud e si aggira per la casa estraneo a tutto quello che lo circonda. Ad uno ad uno, i componenti della famiglia sono soggiogati dal fascino di quella
Pasolini,
strutturata su equilibri così indiscussi, così perbenista e soddisfatta di sé, alla fine non può essere vera. Dietro la patina esteriore, dietro gli schermi di protezione, a ben guardare, ci sono il vuoto e l’infelicità. A provarlo, basta un evento fuori della norma, come l’arrivo di un Ospite inatteso, perché quell’equilibrio sia messo in crisi,
Terence Stamp,
1’ Ospite misterioso amante dei versi di Rimbaud e irresistibile oggetto del desiderio per i borghesi protagonisti di Teorema.
19
presenza: il figlio Pietro, studente con incerte attitudini artistiche; la figlia I4enne Odetta, introversa e succube dell’autorità paterna; la moglie Lucia (Silvana
Mangano),
sessual-
mente repressa e scrupolosa 0sservante della morale borghese; il padrone di casa, Paolo (Mas-
simo Girotti), capitano d’industria e personaggio complesso e consapevole; infine la serva Emilia (Laura Betti), una conta-
dina che ha lasciato la vita dei campi per fare la domestica in città. Con tutti l'Ospite ha dei rapporti sessuali,
determinando
una
svolta decisiva nella loro vita,
Dopo l’improvvisa partenza dell’Ospite, la giovane Odetta (Anne Wiazemsky), introversa e succube dell’autorità paterna, trova rifugio nella follia e viene rinchiusa in manicomio.
soprattutto quando, richiamato da un nuovo telegramma, se ne va così come era venuto. Restati soli, tutti imembri della famiglia precipitano nella disperazione e, ognuno a suo modo, cerca di realizzare ciò che per un attimo è riuscito a intravvedere di se stesso. Emilia, la vecchia contadina, prende la strada del misticismo, ritorna in campagna, cominciando a cibarsi di ortiche e di terra, nell'attesa del ritorno dell'Ospite, fin quando, come una santona toccata dalla grazia, salirà sul tetto e si librerà nel cielo. La giovane Odetta si rifugia nella follia e finisce in manicomio. Pietro prende coscienza della sua diversità e con la pittura astratta cerca di dare una qualche fisionomia alla disperazione in cui si trova. Lucia, la moglie monogama e moralista, vive una serie di vuote esperienze erotiche con giovani sco-
nosciuti; e infine, il Padre dona agli operai la sua fabbrica e, come un novello San Francesco, si spoglia dei suoi abiti nella ‘stazione di Milano Centrale. Il finale del film lo trova a vagare nudo nel deserto, a cercare Dio e se stesso, verso la solitu-
dine e il nulla. Con una marcata “assenza di regia” (atmosfera rarefatta, inquadrature rigorose, dialogo ridotto al minimo, movimenti di macchina essenziali, ritmo quasi monodico del montaggio), Pasolini sembra voler nascondere la presenza della macchina da presa o l’esistenza della pagina letteraria, quasi a sottolineare il valore autonomo della materia espressiva e simbolica proposta nel film. Nato inizialmente come tragedia in versi, sviluppato poi come progetto di un romanzo, realizzato
infine come
film,
Teorema è certamente l’opera più difficile e ambigua di Pasolini, e infatti finirà con lo scontentare in qualche modo tutti. Accusato di misticismo e di ispirazionè reazionaria da una parte e dall’altra di perversione e morbosità, il film sembra inizialmente difeso dalle istituzioni cattoliche che gli conferiscono il premio OCIC alla Mostra del Cinema di Venezia (dove il film viene presentato in un clima di aperta contestazione politica alla Biennale, per volontà del produttore e contro il parere dell’autore); ma l’appoggio delle autorità religiose viene ben presto ritirato, quando l’ Osservatore Romano pubblica un attacco durissimo e, soprattutto, quando Pasolini, nella sua solita foga polemica, cerca di spiegare il senso del film facendo
S0
un’azzardata comparazione tra sessualità e senso del sacro nella religione. In realtà, Teorema è opera assolutamente coerente, per tema e scelte stilistiche, con la filmografia pasoliniana. Anche se l'ambientazione è per una volta esclusivamente borghese, il film affronta le consuete opposizioni passato-presente, naturaprogresso, ma dislocandole tra le corde pazze del misticismo e dell’irrazionalità. Come sempre capita con Pasolini, la polemica viene però spo-
In una squallida camera d’albergo, Lucia (Silvana Mangano), moglie monogama
e sessualmente repressa, vive la sua prima esperienza erotica con un giovane sconosciuto (Carlo De Mejo).
stata su un terreno sbagliato. È vero, l'Ospite di 7eorema allude chiaramente a Dio, ma questo mix di religione, eros e lotta di classe è solo una proiezione soggettiva di chi (come i personaggi del film) ha solo una pos-
sibilità — drammatica — di prendere coscienza dell’ Altro, e in questa operazione trasformarsi o misurare il proprio fallimento. E anche l'erotismo del film è solo un abbaglio, perché il sesso è evidentemente l’unico mezzo con cui l'Ospite può mettere in discussione la società-famiglia, essendo il sesso l’arma più “scandalosa” per le regole borghesi vigenti; per il resto, quello rappresentato da Pasolini è sesso devitalizzato, “asessuato”, niente altro che «un sistema di segni». 81
antiborghese, Pasolini finisce col fare tabula rasa anche dei possibili modelli alternativi e | antagonistici al sistema capitalistico, e tra l’apparizione dell’Altro (l'Ospite) e la crisi sen-
za scampo della borghesia (la famiglia protagonista del film) c’è un vuoto che sembra incolmabile. Il rischio giustamente avvertito da una parte della critica è che la denuncia del presunto dominio borghese-neocapitalistico, se enucleato dal contesto delle forze che comunque si oppongono o cercano di mettere in discussione quel dominio, diventa solo resa e disperazione. Il film esce nel 1968, l’anno del maggio francese e dei carri armati a Praga, ed è il momento in cui Pasolini è più isolato politicamente e vive un aspro dissenso con il Movimento studentesco: ha, infatti, appena denunciato, nella famosa poesia // PCI ai giovani,
il «vizio bor-
ghese» degli studenti che a Valle Giulia hanno aggredito 1 poliziotti, «veri proletari e figli del popolo»._ Qualche giorno dopo l’uscita nelle sale di Teorema, la Procura della Repubblica di Roma dispone il sequestro del film su tutto il territorio nazionale e denuncia Pasolini per oscenità. Paolo (Massimo Girotti), capo famiglia e capitano d’industria, reagisce all’incontro con l’Ospite donando la sua fabbrica agli operai e denudandosi nella stazione di Milano Centrale. Nella pagina accanto, Ninetto Davoli in La sequenza del fiore di carta.
In questo senso, la migliore analisi critica sembra quella formulata da Jean Renoir, dopo la proiezione del film a Venezia: «In ogni immagine si sente il turbamento che Pasolini porta sullo schermo investendo la coscienza dello spettatore. Ciò che scandalizza non è l’oscenità, totalmente assente. Lo scandalo è piuttosto la sincerità». Più seria l’obiezione politica, perché in Teorema, nella foga
Oltre al sequestro,
stavolta c’è
il rischio concreto che siano bruciati i negativi del film (come del resto capiterà con U/ltimo tango a Parigi). Tra un processo e l’altro, e con
l'inevitabile sequela di polemiche, la mortificante vicenda si conclude solo anni dopo, nel 1970, quando il film verrà rimesso in circolazione — ormai troppo tardi — tra la quasi totale indifferenza del pubblico.
Dopo Edipo re e Teorema, a concludere un ideale trittico dedicato alla cosiddetta «innocenza colpevole», Pasolini realizza
un film meno impegnativo dei due lungometraggi (è appena uno “short”) ma narrativamente
più esplicito. È La sequenza del fiore di carta che fa parte del film a episodi Amore e rabbia. Gli altri registi coinvolti nell’operazione
sono
Carlo Lizzani,
Marco Bellocchio, Jean-Luc Godard e Bernardo Bertolucci, e l’idea unificante è che ognuno di essi si ispiri a una parabola evangelica traducendola cinematograficamente nella maniera più libera possibile. La scelta di Pasolini cade su uno degli episodi più discussi e inesplicabili del Vangelo, quello del “fico innocente” che scatena l’ira di Dio perché è senza
frutti (Matteo,
21, 18-19). Il film è per Pasolini anche l’occasione di una vera performance tecnica, perché il breve episodio — meno di 11 minuti — viene girato in un solo giorno, con un solo protagonista e praticamente in un unico piano sequenza: la passeggiata di Riccetto (Ninetto Davoli) che percorre per intero Via Nazionale, a Roma, saltellando allegro e spensierato fra il traffico e la folla che guarda le vetrine dei negozi, portando tra le mani un lungo fiore di carta, a sottolineare l’effimera consistenza della sua felicità.
Il ragazzo accenna qualche passo di twist in mezzo alla strada, corteggia le ragazze, scambia battute con gli automobilisti fermi ai semafori, scherza con gli operai al lavoro («Ahò, a che servono ‘ste buche?», «A tirà avanti!»). Riccetto vive alla giornata, è curioso
ma si ferma alla superficialità delletcosemies:colpevolmente? non si accorge di ciò che invece gli capita accanto (didascalicamente il montaggio interrompe il piano sequenza per inserire scene in bianco e nero di guerre, eccidi,
manifestazioni politiche). A quell'innocenza “scandalosa” si rivolge più volte la voce tonante di Dio, che da dietro nuvole sempre più fosche avverte Riccetto. Perché in un mondo così ingiusto e infelice nessuno può tirarsi fuori, nessuno è innocente. «Tu non sei innocente e chi è innocente non sa, e chi non sa non vuole, ma io che sono il tuo Dio, ti ordino di sapere e di volere». Ma Riccetto neppure lo sente. Per Pasolini, ancora una volta, il
peccato più imperdonabile è
continuare a non vedere (come in Edipo re) o nel rifiuto e nella perdita dell’ Altro (come in 7eorema): due condizioni dell’ uomo che trasformano la vita in
sopravvivenza.
Ingenuamente
fedele a se-stesso, Riccetto crede invece all’eternità del suo so-
gno, e come il fico del Vangelo morirà senza nemmeno
render-
sene conto, folgorato da un fulmine nel chiasso di Via Nazionale, con il sorriso sulle labbra.
Il breve episodio merita di esse-
i (5 i i |
S4
re ricordato almeno per la sfida di Pasolini nel mettere in pratica le sue ipotesi linguistiche (il cinema di poesia o il cinema come
lingua scritta dell’azione) e
per la perizia tecnica delle riprese, in cui risalta la recitazione vivace e piena di estro di Davoli, che improvvisa in tempo reale dialoghi e battute con persone anche sconosciute o con amici e vicini di casa che la produzione ha predisposto in gran segreto lungo il percorso.
Marco Ferreri, Oreste Lionello
e Ugo Tognazzi nell’episodio tedesco di Porcile. Nell’epoca della controriforma come in pieno neocapitalismo rampante, le anomalie e le ribellioni più estreme servono alla fine per costituire degli alibi o per consolidare gli equilibri che si vogliono mettere in crisi.
Sulla base di una tragedia in versi scritta durante una lunga convalescenza, Pasolini realizza nel 1969 Porcile, per molti versi uno dei suoi film esteticamente più estremi. Se Teorema era un film programmaticamente di “prosa” (secondo la nota terminologia pasoliniana), Porcile è il film più teso verso il cinema di “poesia”: non c’è infatti una sola inquadratura che possa dirsi realistica, non c’è una situazione o un comportamento che non alludano ad altro, e tutti i personaggi, tutti gli ambienti, sono calati in un universo allucinato al limite dell’astrazione. Il film è costruito su due storie speculari e tra loro opposte, che Pasolini mette in contatto come in un arco voltaico: una nichilista e anarchica,
ambientata
nel
Cinquecento, nello scenario di un deserto lavico (le pendici dell'Etna); l’altra, cinica e amorale, ambientata a Godeberg, in Germania, nei “felici” anni Ses-
santa, nel cuore del potere neocapitalistico. La prima, fatta praticamente di sole immagini, girata senza parole, con lunghi silenzi, suoni reali e pochissimi gesti; la seconda ipertrofica di situazioni
e dialoghi,
fino al
non-sense di molte battute, girata con lo stile della pochade e le cadenze di un musical. Sul vulcano, un allucinato protagonista (Pierre Clementi), con un elmo in testa, una spada e un
fucile, vaga senza meta nutrendosi di farfalle e serpenti, e quando può anche di carne umana (i viandanti che aggredisce e uccide senza pietà). Finché, dopo l’ultima efferatezza, i maggiorenti della città inviano sulla montagna l’esercito con l’incarico di catturarlo. Circondato e senza scampo, l’uomo si denuda e come un Cristo blasfemo si consegna ai soldati. In città, viene giudicato e condannato a morte. Sul luogo del supplizio, mentre il boia sta piantando i pali per l'esecuzione, pronuncia l’unica frase dell’episodio, e la ripete per quattro volte: «Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia». A Godeberg, nel 1967, il capitano d’industria Klotz (Alberto Lionello) sarebbe un uomo in-
vincibile se non avesse il problema del figlio, Julian (JeanPierre Léaud). Il ragazzo infatti
sembra disinteressarsi di tutto — della fidanzata, con cui intrattiene un rapporto solo formale, dei movimenti giovanili che in quei giorni contestano duramente il sistema — per coltivare invece una morbosa passione per i maiali. Quando Klotz crede di avere in pugno il suo più temibile concorrente, Herdhitze (Ugo Tognazzi), un ex criminale nazista che si è arricchito rubando i denti d’oro dei prigionieri dei campi, questi ha da opporgli un ricatto ancora più scandaloso
del suo (la prova che il giovane Julian si accoppia con i maiali). Tra i due nemici non c’è che una soluzione: unire le forze e fondare così la più grande industria del paese. Durante un ricevimento organizzato per celebrare la fusione, l’unico estraneo è Julian, che infatti si allontana, si inoltra nella campagna ed entra nella porcilaia. Dopo qualche tempo, alcuni contadini raggiungono il luogo della festa per annunciare al padre che Julian è stato divorato dai maiali. È Herdhitze a prendere le redini della situazione: saputo che di Julian non è rimasta traccia («né
un brandello di carne, né un lembo di camicia, né un bottone»), intima a tutti i testimoni di
tacere per sempre. Divorati dai cani o dai maiali: in epoca sia di controriforma sia di neocapitalismo rampante, il risultato non cambia. Come suggerisce Pasolini, la società — ogni società — divora tanto 1 figli disobbedienti quanto i figli né disobbedienti né obbedienti: «i figli devono essere obbedienti e basta». Anomalie o ribellioni, estreme come quelle di Ju-
lian e del patricida cannibale, 0 politicamente compatibili come quelle dei giovani che contestano sotto il muro di Berlino, non hanno spazio, anzi spesso servono a costituire alibi, a rafforzare difese, a consolidare equilibri che invece si vogliono 85
solini sembra essere diventato padrone dello stile, inizia per lui la fase più acuta della lotta con l’industria culturale: Il suo cinema — e Porcile ne è la prova evidente — non scende a patti e diventa anzi sempre più incompatibile con le regole del mercato («l’unico modo per opporsi al cinema come medium della cultura di massa è fare del cinema aristocratico, inconsumabile», scrive in un intervento su Cinema Nuovo). È una strada che Pa-
Pierre Clementi, allucinato protagonista dell’episodio medievale, accanto al cadavere del soldato ucciso. Nel film non c’è un’inquadratura che possa definirsi realistica e i personaggi sono calati in un universo al limite dell’astrazione.
mettere in crisi. E se non è la morte (o l’autoriassorbimento,
campi lunghi e primissimi piani di dettaglio
(a sottolineare
il
predominio della natura, dove l’uomo è visto come un minerale o un reperto botanico) o con panoramiche estenuanti dove i personaggi si perdono e si ritrovano in un delirio senza fine, con colori di astratta bellezza; ma da segnalare anche le asciutte sequenze della sentenza e dell'esecuzione,
girate da lontano,
sarà allora l'1-
con la precarietà e l'emozione
solamento, che poi diventa ascesi o vizio, scandalo e autodistruzione. Per un’opera dalle tematiche così negative, Pasolini realizza un film di notevole impatto visionario, ricco di pagine di grande cinema: ad esempio, tutto l’episodio sull’Etna, girato solo con
della macchina a mano; o anco-
l'omologazione),
86
ra la varietà dei registri stilistici e dei materiali utilizzati nell’episodio germanico (la teatralità della recitazione, i dialoghi in versi, il musical, Brecht e Sartre, Marx e Freud, i disegni di Grosz e la filosofia di Hegel). Eppure, nel momento in cui Pa-
solini intraprende in sintonia con gli angeli maledetti che, autobiograficamente, racconta. Nel rispondere alle polemiche e alle critiche che accolgono il film, Pasolini è ancora più esplicito riguardo al contenuto di Porcile. «Sbaglierebbe — dice — chi considerasse il personaggio di Pierre Clementi un rozzo bandito: egli è invece un intellettuale, diciamo pure, nietzschiano, che aspira alla santità. È un santo, per dirla umoristicamente, della contestazione globale: un santo sgradevole». In realtà Porcile rappresenta un passo importante nell’evoluzione linguistica del cinema di Pasolini. Scompare infatti l’unità
stilistica di Edipo re e il controllato rigore di Teorema, a favore di una rappresentazione più estrema, dove il tragico si trasforma in grottesco, la smorfia in un ghigno atroce, e la società
neocapitalistica è un porcile dove grufolano i maiali, dove i figli uccidono i padri e viceversa. Niente mondo
migliore, niente
più speranze. Al diavolo i figli e i padri. Per Pasolini non resta più niente e con Porcile inaugura una tabula rasa
che, dopo la
parentesi favolistica e felice della “Trilogia della vita”, si concluderà con Salò.
A dicembre del 1968, nel pieno della lavorazione di Porcile, Pasolini coglie una fortunata opportunità produttiva per compiere un breve viaggio in Kenia e in Tanzania e girare così un ulteriore capitolo, forse il principale, del suo Poema sul Terzo Mondo, a cui non cessa di pensare. Teatro delle riprese è il continente africano, protagonista in quegli anni di sconvolgenti avvenimenti politici. L'idea artistica è una trasposizione cinematografica dell’Orestea di Eschilo. All’Orestiade Pasolini pensa da quando ha scritto, nel 1959, una riduzione teatrale per Vittorio Gassman che intendeva portarla in scena. A colpire Pasolini è soprattutto la modernità del tema che si intravvede nella struttura dei personaggi, in una società primitiva sul punto di trasformarsi in una forma più evoluta di sistema sociale, in un passaggio epocale che, a livello individuale, determina angoscia e incertezza. E per quanto riguarda l’Africa, Pasolini ha scritto anche una notevole sceneggiatura per un film, // padre selvaggio, che purtroppo non sarà realizzato. La sceneggiatura,
pubblicata inedita su una rivista specializzata (Cinema &
turale” dell’uomo) e le Eumenidi (le divinità della demo-
Film,
crazia e della ragione); e ancora, uno scontro in cui l’ Africa primitiva sembra coincidere in maniera quasi perfetta con la Grecia preistorica. Ecco allora le stragi nel Biafra che ripetono l’assedio e la distruzione di Troia, la fucilazione “vera” di un soldato
1967) e successivamen-
te in volume, racconta la storia di un giovane africano che abbandona la sua tribù per trasferirsi nella moderna città di Kado, dove, con l’aiuto di un insegnante della locale “scuola bianca”, si renderà conto delle contraddizioni in cui si sta realizzando il nuovo stato democratico, e di come l’incontro tra mondo arcaico e modello capitalistico rischi di segnare il passaggio da un colonialismo ad un altro. In Africa, dopo molti anni, Pasolini mette in scena, ancora una volta «in forma di appunti», il progetto di un film in divenire, svolge sopralluoghi, cerca ambienti, fa provini a dei ragazzi africani che potrebbero impersonare Oreste e Agamennone, Elettra e Clitennestra, e soprattutto racconta in chiave problematica lo scontro in atto tra due culture, in un inedito scenario (quello appunto fornito dall’ Africa) in cui tutto può ancora accadere. Uno scontro che a Pasolini ricorda la lotta mitologica adombrata da Eschilo tra le Erinni (la forza del terrore esi-
stenziale, il momento più ‘“na-
(mostrata
in un sacrale silen-
zio) che riecheggia la morte di Agamennone, e i giganteschi alberi frustati dal vento che sembrano alludere alla furia incontrollabile delle Erinni. Di fronte all’orrore e al disordine, all’indifferenza e alle continue profanazioni del moderno, le immagini del film non sono affatto tranquillizzanti e l’esito del confronto tra le forze in campo sembra già, purtroppo, segnato. Di fronte a un simile rischio (la scomparsa di un mondo “selvaggio” a favore di un mondo “indistinto”) Pasolini ripiega sull’elegia nostalgica e invita a salvaguardare un equilibrio così gravemente messo a repentaglio. La soluzione sembra a portata di mano, eppure andrà perduta. Ribellarsi a questo è il compito che spetta all’Oreste africano (cioè ai laureati nelle uni-
87
Con la macchina in spalle, su un set africano. Ancora il progetto di un film in ‘forma di appunti” per raccontare, con gli accenti della tragedia greca, lo scontro in atto tra due mondi e due culture tra loro inconciliabili.
versità occidentali che ritorna-
no in patria, o ai personaggi pubblici come Cassius Clay che si fanno onore nel mondo), e questa è la sfida storica che deve affrontare l’ Africa
contemporanea, trasformando la Maledizione in Benedizione, facendo sì che l’incertezza
esistenziale e l'ingiustizia, pur
S8
presenti nella società tribale, permangano nella società evoluta almeno come forma di fantasia e come rifiuto all’omologazione. Pasolini utilizza materiali molto ibridi, dai cinegiornali in bianco e nero alle scene di vita africana da lui girate sul posto: i suk e i supermarket moderni, le nuove città artificiali e i villaggi con le capanne di paglia e fango, i primi preoccupanti segnali consumistici e i riti tribali, ma soprattutto 1 volti felici degli africani. «Volti che sorridono — dice nel commento Pasolini — e pare che non sappiano fare altro
che ridere e accettare la vita come una festa». Alle immagini del documentario Pasolini aggiunge le riprese di una jam session di musica nera e di un dibattito tenuto al Folkstudio di Roma con un gruppo di studenti africani residenti nella capitale, chiamati a commentare il materiale girato. Quest'ultima è forse la parte più datata del film, dove quasi ogni studente finisce con esprimere un giudizio che è già nelle cose. Anche questa però è un’operazione tipicamente pasoliniana, a testimoniare l'adesione unilaterale a un'idea poetica piuttosto che al taglio documentaristico, e anche un’evidente incertezza dell“autore “sullaftesazehe emerge dal girato. Nel film e nel dibattito, naturalmente, non ci sono conclusioni, c’è solo l'annuncio dato fuori campo dal regista di un esito che resta sospeso e non lascia presagire nulla di buono. «Una nuova nazione è nata, i suoi problemi sono infiniti, ma i problemi non si risolvono, si vivono». Il tempo per l'ipotesi di un’Africa libera e democratica rischia di essere lunghissimo, e l’ansia del futuro lascia dunque il posto a una «grande, infinita pazienza». Su questo testo passano le immagini di un contadino africano che lavora sotto un sole a picco, con gesti senza tempo.
Sul finire degli anni Sessanta, Pasolini è ormai un autore dotato di un buon potere contrattuale, capace di imporre idee e progetti economicamente impegnativi. È così che, grazie a una coproduzione internaziona-
mentalismo. Con Medea Pasolini ritorna al cinema più ideologico, dando un’interpretazione fortemente classista del tragico personaggio di Euripide, visto come protagonista e vittima dell’incontro-scontro tra
le (italo-franco-tedesca), realiz-
società e culture diverse, in un
za nel 1969 Medea, il film a più alto budget della sua carriegrado le ricche scenografie, l’uso di centinaia di comparse e il coinvolgimento di una diva come Maria Callas, l’autore radicalizza ancora di più la natura anticommerciale del suo ci-
impasto di crudeltà e innocenza, sacralità barbarica e civiltà senza valori. Nel film il Mito è rappresentato da Medea e da un universo caratterizzato dalla ferocia di costumi primitivi e dall’ignoranza, ma anche capace di esprimere dei valori su cui fare leva per un'evoluzione
nema, fino al limite dello speri-
e un riscatto. Viceversa,
ra, ma anche quello in cui, mal-
la so-
cietà laica e tecnocratica (incarnata da Giasone) genera alienazione e ansia distruttiva, e si fonda su un ordine dove le opposizioni sono impotenti o si bruciano in gesti estremi e irrazionali. La violenza del confronto è denunciata sin dalla prima sequenza del film. In un paesaggio arcaico e lunare, la leggendaria Colchide in cui è conservato il vello d’oro, si svolge il rito della fertilità, un sacrificio
umano (Maria
guidato Callas),
da
Medea
sacerdotessa
figlia del sovrano. La vittima viene crocefissa, orrendamente
Il giovane Giasone (Giuseppe Gentile) alla conquista del vello d’oro. Accusato di estetismo formalista, Medea è in realtà un film moderno e sulfureo, immerso nel silenzio immoto di una terra completamente reinventata.
smembrata, il suo sangue versato sulla terra, il cuore riposto in un recipiente dove gli eletti si lavano le mani. Nel silenzio rotto dalle note di un canto funebre, Medea gira la ruota del.Sole in mezzo a un campo sacro. In un altro paese, il giovane e affascinante Giasone (Giuseppe Gentile, campione olimpionico di atletica), con la promes-
sa di un regno accetta la sfida di andare a recuperare il vello. Insieme con gli argonauti, Giasone approda nella Colchide, si abbandona a ogni genere di 90
Maria Callas in una scena
segna a Giasone. Non solo. Per
del film. Nel personaggio impressionante e grandioso di Medea, Pasolini vede ancora una volta la traiettoria di un popolo del Terzo Mondo nel momento in cui esaurisce la sua spinta innovatrice.
fermare i soldati del re che inseguono gli argonauti, Medea getta loro i pezzi del cadavere
saccheggio, ma non potrà mai riuscire nell’impresa senza l’aiuto di Medea. Infatti, sconvolta da un sogno in cui vede il volto del giovane straniero, la sacerdotessa ruba il vello con l’aiuto di suo fratello e lo con-
del' fratello, da lei ucciso Giunta nella nuova terra, men-
tre Giasone è subito distolto da altre avventure, Medea si sente perduta, senza più le sue radici e il suo retroterra magico. Dieci anni dopo, a Corinto, Medea ha dato tre figli a Giasone, ma il suo uomo l’abbandona per chiedere la mano della giovane Giauce, figlia del re Creonte
(Massimo
Girotti).
Umiliata e ferita, Medea im-
La grande scena della processione girata in un aspro scenario della Cappadocia. Malgrado fosse alle prese con il film a più alto budget della sua carriera, con centinaia di comparse e ricco di scenografie, Pasolini radicalizza la natura anticommerciale del suo cinema, al limite dello sperimentalismo.
pazzisce (o rinsavisce), regre-
assai moderno. Un cinema co-
dendo alla sua antica cultura. alla sua fede, alla sua infanzia,
lorato e sulfureo,
e organizzando
una terribile
vendetta. Con i suoi artifici induce al suicidio Giauce e
Creonte, poi chiama i tre figli, li fa entrare in casa, li lava, li fa addormentare e li uccide uno a uno. Non è l’atto vendicativo di una donna tradita, è la riaffermazione di una “diversità” non riconciliabile. Mentre Me-
dea recupera la forza e la magia di un passato e di una verità che sgomentano, il moderno e laico Giasone deve fare i conti
con il proprio dolore. Nel personaggio grandioso e impressionante di Medea, Pa-
immerso
nel
silenzio immoto di una Colchide reinventata e terzomondista (le riprese sono
effettuate
nei
deserti della Siria e della Turchia), fotografato con degli incantamenti struggenti o con la frenesia della macchina a mano, con immagini di pura tensione emotiva, in cui tutto è essenziale, la parola è sostituita dal gesto, la comunicazione dal rito. Anche dal punto di vista narrativo, Pasolini gioca la scommessa
più difficile, accen-
nando appena, e sempre oscuramente, gli snodi contenutistici della storia (l’amore e la vita
matrimoniale di Medea, il tra-
solini vede ancora una volta la
dimento
traiettoria di un popolo del Ter-
punto di mettere in seria difficoltà chi non conosca il testo di Euripide. Tutto questo per privilegiare il dolore e l'angoscia esistenziale dei personaggi, e per trovare un diverso terreno di intesa con lo spettatore, sulla base delle pure emozioni e in un crescendo emotivo vissuto attraverso lo sguardo visionario di Medea, in cui si rincorrono senza tregua amore e morte, rimpianto e vendetta. Particolare anche la tecnica di ripresa, con una ricerca di povertà delle immagini che contrasta ancora di più con l’evidente ricchezza dei mezzi a disposizione. I movimenti di macchina per inseguire le comparse che si spostano in scena sono spesso imprecisi e traballanti; le immagini hanno talvolta degli sbalzi di luce, quasi a suggerire fretta e improvvisazione. Le testimonianze di chi era sul set attribuiscono quel materiale alle riprese parallele effettuate da Pasolini stesso, in alternativa o, meglio, in con-
zo Mondo
che (in Africa come
in Asia) esaurisce la sua spinta innovatrice nel catastrofico incontro con la modernità e la civiltà occidentale.
Medea è il film più disperato di Pasolini, quello che sancisce la perdita delle ultime illusioni sul futuro della società moderna (alla fine, senza figli ed ere-
di, Medea
e Giasone ritornano
nei rispettivi mondi di appartenenza), ma nello stesso tempo rappresenta anche l’esperimento (pur all’interno di una grande produzione commerciale) di una sorta di cinema etnologico. Medea, accusato di estetismo formalista, è in realtà un film
Maria Callas in uno splendido costume di scena. Con la sua naturale ieraticità,
i suoi lineamenti scheggiati, i suoi occhi penetranti, la grande cantante sarà l’autentica musa ispiratrice del film.
di Giasone
ecc.), al
trapposizione, alle inquadrature ufficiali girate dalla troupe. È un metodo di lavoro che Pasolini ha seguito sin dai tempi di Accattone, per studiare altre possibili e più vere angolazioni rispetto alle scene girate, ma è a partire da Medea che questo materiale trova sempre più spazio nel montaggio definitivo. È la spia di un’insoddisfazione evidente verso la convenzionalità del cinema, ed è anche una precisa idea di stile che man mano prende corpo, per azzerare ogni tentazione formalista, per inseguire la verità che sta dietro o accanto alla ricostruzione del set. Per Pasolini il film è anche l'occasione dell'incontro umano e professionale con Maria Callas. Con la sua naturale ieraticità, con i suoi lineamenti scheggiati, 1 suoi occhi penetranti, la sua durezza, la Callas è l'autentica musa ispiratrice del film e incarna in maniera perfetta la complessità di Medea: il mondo arcaico greco contadino in cui però si scorge il segno delle progressive stratificazioni culturali e sociali intervenute. La Callas è una donna dal carattere aspro, ma nel fondo ci sono in lei uno sgomento e una paura così umani che Pasolini ne viene attratto. Tra i due prende corpo un breve e intenso incontro, che si esaurisce però in un pugno di versi: «Vada, vada quella Donna in quei regni;/ ... ma ritorni poi alla terra, e portando teco quell’odor d’oltretomba,/ canti e arie composte da Verdi e divenute rosse del sangue/ la cui esperienza (che non ne pronuncia la parola)/ insegna la dolcezza, la vera dolcezza».
93
All’inizio degli anni Settanta si apre un capitolo intenso e artisticamente assai felice nella carriera di Pasolini, che tra l’altro, con alcuni suoi film, riscuote finalmente un indiscusso successo di pubblico.
L’insuccesso commerciale di Medea compromette la realizzazione di alcuni progetti che stanno molto a cuore a Pasolini, tra cui il più importante è certamente il San Paolo, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto concludere il discorso avviato sulla spiritua-
lità nel mondo moderno attraverso la rappresentazione di un momento cruciale della storia della Chiesa, quando la religione precristiana, tormentata e vitale, si trasforma in istituzione fondata sul dogma e poi in un’organizzazione del potere temporale. Con un personaggio esasperato e intransigente come San Paolo (contrapposto al più umano San Pietro), Pasolini pensa di poter scrivere un ennesimo episodio di quella storia che non ha mai smesso di raccontare. Purtroppo non gli sarà consentito. E dunque in un momento di difficoltà professionale, sul nascere degli anni Settanta, che prende corpo il progetto della “Trilogia della vita”. Pasolini è stanco, sfiduciato per la caduta di molte illusioni, sente di aver ormai esaurito la ricerca che lo ha portato a scavare nel cuore della sacralità e del Mito. E cosa si fa quando
si tocca il fondo? «Si risale in superficie e si ricomincia con un nuovo discorso», scrive Pasolini, che racconta
di avere
avuto l’idea della svolta all’improvviso, mentre è ancora impegnato nelle riprese di Medea, tra un viaggio e l’altro, in aeroplano. L’idea è di raccontare un mondo altrettanto popolare, però non barbarico e tragico come quello dell’ Ellade o dell’Africa, viceversa gioioso e vitale, felicemente sensuale, senza ancora l’ango-
scia del peccato e con una voglia (magari atroce) di ridere. E la scelta cade allora sul Boccaccio del Decamerone, e poi sull’inglese Geoffrey Chaucer di Canterbury Tales, infine sull’erotismo di un Oriente fantastico e lieto come quello rappresentato da Le Mille e una notte. Per Pasolini è l’approdo a un cinema nuovo, in cui il sesso non è più reso allusivamente (come colpa o scandalo) bensì è rappresentato come elemento drammaturgico centrale della messinscena, in cui il corpo, «unico territorio non ancora colonizzato», diventa lo strumento per recuperare una dimensione esistenziale perduta, o mai goduta per intero, e per affrontare la
realtà in modo più spontaneo e gioioso. Partendo dalla letteratura Pasolini reinventa con felicità creativa un universo figurativo formicolante di uomini, vicende, destini, che non ha alcun aggancio visibile con la realtà contemporanea e prefigura invece un paradiso terrestre senza morale, una idealizzata «età
del pane» fatta solo di esigenze primarie (la fame, il sesso, i bisogni corporali, l’avidità di denaro) e di comportamenti mirati a soddisfare quelle esigenze a qualsiasi prezzo (dalla beffa al furto, dall’atto sacrilego all’omicidio efferato). È anche il
modo più diretto per rappresentare la vita semplice e plebea di un mondo fuori della Storia e non contaminato dai veleni dell'ideologia. Per Pasolini, come è stato giustamente rilevato (Serafino
Murri),
è anche
la
confessione di una sconfitta, perché, nel fondo, la “Trilogia della vita” è la rappresentazione di una dimensione sociale ed esistenziale che non c’è o, peggio, non c’è mai stata, un mondo di fantasmi, un’età del pane creata con l’artifizio del cinema o solo attraverso i s0gni del pittore protagonista del Decamerone (non a caso inter95
ferie più estreme del mondo, con la differenza che qui è resa in una chiave evocativa che quasi la santifica. E per quanto riguarda il sesso, pur così massicciamente presente, esso è prima di tutto strumento di libertà e forma di comunicazione (è in fondo l’u-
nico modo in cui plebei, poveri di spirito e analfabeti possono esprimersi). Pasolini rappresenta il sesso, o meglio il teatro del sesso, superando la prosaicità e il naturalismo della materia con una elaborazione puramente stilistica, quasi “straniante” Con la Trilogia della vita Pasolini reinventa un universo figurativo formicolante di uomini, vicende, destini: quasi un paradiso terrestre “senza morale”. Nella pagina accanto, Franco Citti in una scena de I racconti di Canterbury.
pretato dallo stesso Pasolini) che confessa il proprio sgomento davanti alla comprovata inefficacia della sua arte. La “Trilogia della vita” è un capitolo intenso e artisticamente anche felice per Pasolini che, tra l’altro, finalmente riscuote un indiscusso successo di pubblico (Decamerone resta ancora oggi uno dei cam-
96
pioni d’incasso del cinema italiano); un capitolo che può apparire un segno di discontinuità rispetto alla filmografia precedente dell’autore, mentre in realtà è l'occasione per portare ancora più in profondità, e in una dimensione di pubblico più ampia, il discorso che più gli sta a cuore. A parte il modo esplicito di affrontare la sessualità e la generosa esibizione del nudo (anche maschile), per ilresto ittadrt leSputtanegti bottegai, i contadini, i peccatori e i preti che si avvicendano nei racconti della trilogia, costituiscono quella dimensione “sottoproletaria” che l’autore ha inseguito per anni nelle borgate di Roma o nelle peri-
(l’esaltazione del-
la meccanicità dell’atto e della fatica fisica, l’urgenza e la repentina caduta del desiderio), e traducendo la fisicità della messinscena in puro senso espressivo, in semplice occasione di spettacolo. Non solo. Complementare al sesso c’è, come senso
sempre fortissimo, il della morte, un cupo
pessimismo che circonda il destino degli uomini, con segnali diffusi che annunciano la perdita dell’antica innocenza del popolo. A dispetto di ogni discontinuità, dunque, c’è invece
la conferma del tema «centrale di tutta l’opera di Pasolini, per una volta riproposto in una dimensione espressiva di apparente felicità, forse solo perché completamente inventata.
«Ho scelto Napoli perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e così di lasciarsi morire: come certe tribù dell’Africa». AI di là della provocazione culturale, la scelta di Pasolini di ambientare il Decamerone di Boccaccio in una Napoli carnale e mefitica, in
una città devastata eppure misteriosamente felice, contrappuntata da chiese fastose e vicoli rigurgitanti di miseria e voglia di vivere, risponde a una eccellente intuizione espressiva ma è anche la spia che rivela la coerenza dell’operazione pasoliniana che, nello spostare il discorso su tematiche e modalità molto diverse, lo aggancia però a un’identica esigenza d’autore. Alla vitalità laica e anticlericale della società borghese toscana del Trecento (descritta da Boccaccio),
Pasolini sostituisce l'innocenza primitiva di un popolo relegato (o autorelegatosi) ai margini della Storia, che può ancora esprimersi nella sua lingua originaria (il dialetto) e nell’esaltazione della sessualità.
Grazie a un sotterfugio (un letto trasportato in terrazza
per vincere la calura della notte), la giovane Caterina e l’innamorato Riccardo riescono a coronare il loro sogno d’amore contro la volontà dei parenti.
A parte l'incredibile campionario di interpreti presi dalla strada (maschere e caratteri che costituiscono un vero punto di forza del film), la struttura narrativa
dell’opera di Boccaccio viene smontata e rimontata in due blocchi di episodi di volta in volta tragici o grotteschi, tenuti insieme da due fili conduttori tra loro complementari, che ad un certo punto si avvicendano: il primo è costituito da Ser Ciappelletto (Franco Citti), un peccatore incallito (assassino,
ladro,
stupratore, pederasta) che morendo in una città del nord compie l’ultima beffa al confessore facendosi credere un santo, al punto che il pover'uomo lo porterà ad esempio nelle sue prediche e lo farà venerare dai credenti; il secondo è un artista dell’ Alta Italia, il «migliore allievo di Giotto» (interpretato dallo stesso Pasolini), sceso a Napoli per af-
frescare la parete della chiesa di Santa Chiara. Intorno a questi due personaggi guida — uno visceralmente attaccato alle cose della vita, l’altro ossessivamente votato alle ragioni dell’arte — si snodano le altre sette vicende: il furbo Masetto che fingendosi sordomuto entra come ortolano in un convento di suore finendo per accoppiarsi con ognuna di loro; l’ingenuo Andreuccio (Ninetto Davoli), giunto a Napoli per acquistare dei cavalli, che passa da un in-
ganno all’altro, prima facendosi derubare e poi derubando a sua volta due ladri sacrileghi; i giovani Caterina e Riccardo che riescono a coronare il loro sogno d'amore a dispetto dei loro parenti e la povera Lisabetta che, invece, deve accontentarsi di coltivare in un vaso di fiori la testa dell'amante ucciso dai suoi fratelli; Tingoccio che, rispettando la promessa fatta, torna dall’al di là per comunicare all'amico che fare l’amore non è considerato peccato; Don Gianni che possiede una donna davanti agli occhi del marito, facendo credere che così potrà tramutarla in cavalla;
infine, la furba Peronella che fa entrare il marito in una giara per finire di concedersi all’amante. Più che i personaggi e le vicende scelte da Boccaccio, a contare sono il ricco affresco corale, l’atmosfera lieta e sensuale che circonda il destino spesso amaro dei protagonisti, la trasformazione del materiale letterario e cinematografico in materia prepotentemente fisica, fatta di erezioni, sudore, dolori di pancia, fame. Si
ride della vita e del sesso e ridendo capita che si incontri la morte; si ride degli altri e si è derisi a propria volta. Nel film c’è un continuo movimento circolare, alla fine illusorio, in cui tutti i personaggi sono spinti dalla voglia di migliorare la loro condizione di vita (attraverso il denaro, il potere) e di esaudire in 99
qualche modo i loro desideri, e in questa determinazione conoscono l’inganno e la delusione, e soprattutto fanno i conti con la realtà di un mondo che è comunque ingiusto e diviso. Ci sono i poveri e i ricchi (i fratelli di Lisabetta, commercianti ben vestiti, uccidono il loro lavorante Lorenzo, vestito come un pezzente), ma ci sono anche i furbi e gli ingenui, i santi e i peccatori, coloro che fidelisticamente si accontenterebbero della condizione in cui vivono e coloro che non glielo consentono. Pasolini dà al film una regia molto rigorosa: numerose inquadrature sono costruite con la sapienza compositiva dei tableaux vivants (il grande totale alla Bosch che segna il passaggio al 100
Silvana Mangano nelle vesti della Madonna, protagonista del quadro sognato dall’allievo di Giotto («Perché realizzare un’opera se è già così bello . solo sognarla?»).
naggio, un’angolazione ad effetto; e infine, il montaggio, con il contrappunto equilibrato tra ambiente e figura umana, tra inquadrature statiche (a sottolineare la
meraviglia o l’allegra furbizia dei personaggi) e sfrenati movimenti di macchina (la bellissima
Nord di Ciappelletto, l’affresco “alla Giotto” sognato ad occhi aperti dal pittore, con Silvana Mangano nelle vesti della Madonna); i primissimi piani caricati espressivamente al limite del grottesco (i volti sfigurati da lineamenti incredibili e dentature devastate, oppure esaltati dall’innocenza e dal desiderio); le sce-
ne d’insieme, brulicanti di gente e colori, dove spicca quasi sempre la scelta di un taglio di luce particolare, il gesto di un perso-
rincorsa nel bosco tra Lorenzo e i suol assassini, e poi, in un atti-
mo, l'arresto, che segna il passaggio dalla lietezza del gioco all'ombra presaga della fine). Coscienza critica del film, Paso-
lini interpreta il pittore allievo di Giotto, e questa scelta dà all’opera un senso ulteriore rispetto al progetto originario. Il personaggio, inizialmente, doveva essere interpretato dal poeta Sandro Penna, che all’ultimo momento si rese indisponibile. Pasolini de-
cise di interpretare egli stesso quel ruolo pur sapendo che tale scelta avrebbe accentuato la dimensione autobiografica del film. Il risultato è in realtà un arricchimento perché aggiunge un coinvolgimento personale ad un'operazione che a prima vista poteva essere definita soprattutto commerciale. Il personaggio del pittore è forse un po’ manierato rispetto agli altri; tuttavia con la divertente autoironia dei suoi gesti (arriva dai committenti vestito
di stracci, si gratta la testa quando gli altri si fanno il segno della croce, dà una pennellata sul naso di un giovane apprendista) sottolinea con efficacia la leggerezza di un film che vuole anche essere un gioco e sembra quasi sognato. Dopo tanta fatica e tante notti in-
Angela Luce e Vincenzo Ferrigno nell’episodio di Peronella e la botte. Nel film si ride molto della vita e del sesso, e ridendo capita a volte che si incontri la morte.
sonni, il pittore si ritrova alla fine davanti al suo lavoro concluso, ed esclama: «Perché realizzare un’opera se è già così bello sognarla?». Dice però questa battuta — che è anche l’ultima inquadratura del film — girando ostentatamente le spalle alla macchina da presa. E questo è un segnale stilistico così forte da dimostrare come anche in un film che dichiaratamente vuole essere “popolare”, Pasolini non ha cambiato l’atteggiamento nei con-
fronti del pubblico, e anzi è sulla via di ulteriori esasperazioni. Alla sua uscita, Il Decameron viene generalmente accolto dal pubblico come un film erotico, se non addirittura pornografico. Il risultato è un enorme successo di cassetta e anche una vera e propria persecuzione giudiziaria (sono più di ottanta i procedimenti avviati contro Pasolini con l’accusa di pornografia). Un fatto incredibile perché, nello stesso periodo, passano indenni, tra la disattenzione dei moralisti e dei giudici, decine e decine di film che costituiranno il fortunato filone boccaccesco (spesso pornografico già a partire dai titoli) e comincia anche a prendere corpo, senza eccessivi problemi, il fenomeno dei cinema a “luci rosse”.
101
A Pasolini l’idea figurativa del film viene a Londra, durante un soggiorno di lavoro. Ad Hyde Park si imbatte in un uomo dall’aspetto impressionante — è l’ex autista di Al Capone — intento a predicare a una piccola folla stando in piedi su una cassetta di legno. Pasolini, sempre in cerca di volti e personaggi per il suo film, gli affiderà una parte, ma a colpirlo sono quei proletari londinesi intenti ad ascoltarlo, che assomigliano molto a quelli di Napoli.
Con
una
differenza,
però, che li rende più cupi, rassegnati e senza speranza. La stessa differenza che Pasolini trova in
Chaucer, un autore inglese, picaresco e prolifico, da cui emerge il volto selvaggio e sgradevole della stessa materia raccontata dal colto e raffinato Boccaccio. E in effetti, quanto è diretto e vitale // Decameron, tanto è figurativamente più lussuoso, cupo e cifrato / racconti di Canterbury, che è il secondo episodio della Trilogia pasoliniana e quasi un ricalco in negativo del primo: c’è sempre l’ostentazione del gioco sessuale, ma stavolta c’è in più anche la dimensione della colpa e dell’abiezione degli uomini; c’è il gusto beffardo della sfida e della trasgressione, ma c’è anche
l’ombra della persecuzione e del ricatto; c’è il demone in persona (interpretato da uno straordinario Franco Citti) che si rispecchia nella malvagità degli uomini, e
c’è addirittura, sia pure mediata dal sogno, la visione grottesca di Lucifero e dell’inferno. Più in particolare, alla luce solare del paesaggio mediterraneo su-
Il personaggio dello scrittore inglese Geoffrey Chaucer (interpretato dallo stesso Pasolini) e, nella pagina accanto, una scena de I racconti di Canterbury.
bentrano il tono chiaroscurato del
La donna di Bath (Laura Betti)
Nord Europa, la luce delle candele e l’angustia degli interni soffocati dal fumo, mentre la gioiosa vitalità dei vicoli napoletani svanisce nell’universo claustrofobico e labirintico di Chaucer, riproposto con accenti elisabettiani e con i toni ferrosi della pittura fiamminga. Anche dal punto di vista narrativo si registra uno spostamento analogo: l’iperbole del racconto o la sfida a chi è più potente 0 più ricco appaiono come devitalizzati e, privi di gioia e di istinto liberatorio, ripiegano nella malinconica atmosfera dei pellegrinaggi o nella malata allegria delle locande. Di più, rispetto alla prorompente spinta vitale del De-
porta all’altare il suo quarto marito. Alla luce solare del
104
paesaggio mediterraneo, presente ne ZI! Decameron, subentrano i toni cupi e ferrosi della pittura fiamminga.
cameron c’è qui insistente il controcanto della malattia, della vecchiaia e, ancora,
della morte
(l'improvvisa cecità di Sir Gennaio che non può più ammirare e controllare la giovane moglie, Maggio; la signora di Bath che con i suoi eccessi ha schiantato i suoi quattro mariti e così via). Ne / racconti di Canterbury c’è, di fondo, una maggiore consape-
volezza,
un gusto per la forma
più attento, il disegno di una struttura itinerante e picaresca che tende sistematicamente ad accennare e a lasciare aperti i discorsi per non chiuderli in tesi precostituite, nonché l’inserimento di alcuni omaggi d’autore che sottolineano il sottofondo scherzoso dell’intera operazione: ad esempio, la sequenza di Ninetto Davoli inseguito dai poliziotti che rifà una tipica comica di Charlot, o la grande scena finale alla Bosch, un “giudizio universale” blasfemo con peccatori sodomizzati da uomini alati, donne stuprate con spade roventi e centinaia di diavoli e frati defecati da un Lucifero gigantesco.
Insomma la dimensione “popolare” della Trilogia piega, già al suo secondo capitolo verso lo humour nero della cultura nordica, mentre alla pura rappresentazione dell’azione (la “vita colta sul fatto” invocata dalle avanguardie cinematografiche) si sovrappone, nuovamente, il pessimismo disperato dell’autore che, visto il successo e la facilità della sua ispirazione, sembra ora accorgersi, paradossalmente, di essere come imprigionato in un gioco a volte incontrollabile. Un gioco troppo comodo, da cui è tempo di prendere le distanze. Il film si compone di otto racconti introdotti da un lungo prologo che presenta alcuni pellegri-
La giovanissima Maggio (Josephine Chaplin), promessa sposa del vecchio mercante Gennaio. L’iperbole del racconto appare come devitalizzata e il sesso non si propone più come istinto liberatorio.
ni in viaggio verso Canterbury, tra cui spicca lo stesso Chaucer (interpretato da Pasolini). Duran-
te il cammino gli uomini e le donne, stimolati dallo scrittore, si raccontano le solite storie di tradimenti coniugali, di scontri tra padri e figli, di desideri lussuriosi e beghe fra preti astuti e suore troppo ingenue. Da sottolineare, oltre all’elegante
tessitura cromatica delle storie, la capacità di Pasolini di far emergere un elemento comune — il cammino, lo spostamento — nel suo rovesciamento speculare e contraddittorio: la stasi. Il movimento del film (il pellegrinaggio a Canterbury) è infatti del tutto illusorio, dato che i personaggi e le loro storie sembrano sempre girare intorno allo stesso punto, disegnando infinite trame di un arazzo, coloratissimo ma immobile. Per il resto, ci sono piccoli e significativi spostamenti nella narrazione: ad esempio, la degradazione fisiologica dell’eros, assecondato senza allegria, come esaudimento di un bisogno fisiologico (spesso i personaggi inter-
105
sopravvivere. Di più, quella rappresentata ne / racconti di Canterbury) è una morte “medievale”, profondamente allegorica, che emerge spesso come punizione, come risultato del comportamento amorale o a causa dell’abiezione degli uomini (si pensi al reciproco assassinio dei tre giovani complici o al delatore del Tribunale ecclesiastico che fa mettere a morte i sodomiti).
Presentato al Festival di Berlino (insieme al documentario politico /2 dicembre, firmato da Pasolini insieme a un collettivo di “Lotta continua”), / racconti di
Sopra, un’ambientazione inglese de / racconti di Canterbury. Sotto, Ninetto Davoli in un’altra scena del film. Il sottofondo scherzoso dell’operazione è sottolineato dall’inserimento di numerosi omaggi d’autore, dalle comiche di Chaplin ai dipinti di Bosch.
106
rompono il coito per bere o per mangiare) o la presenza della morte sempre colta nell’estraneità della natura — e in questo dato sembra emergere il primordiale destino dell’uomo alle prese con l’asprezza del vivere o del
Canterbury vince inaspettatamente l’Orso d’oro tra l’apprezzamento unanime del pubblico e della critica. Un riconoscimento che conferma Pasolini come uno degli autori di punta del cinema internazionale (ed è curioso che ciò avvenga proprio per il film che l’autore stesso considera come il meno riuscito della Trilogia).
Altre due immagini del film, in cui è evidente l’ispirazione pittorica delle scenografie. Presentato al Festival di Berlino, / racconti di Canterbury vinse l’Orso d’oro tra l’apprezzamento unanime della critica internazionale.
Zu sa
Pier Paolo Pasolini in un’altra scena de / racconti
di Canterbury, dove nei panni di Chaucer assume la funzione di io narrante.
A contraddire la cupezza malinconica dei Racconti di Canterbury, giunge inattesa una svolta vitalisticamente gioiosa con l’ultimo episodio della Trilogia, I! fiore delle Mille e
una notte. Si conclude con questo film l’extravagante lettura esistenziale e sensuale del mondo proposta da Pasolini con le ultime opere, ed è come se la tessitura orientale della storia e la rasserenante dolcezza del paesaggio avéssero stemperato e addolcito i furori espressivi del regista. Ai set claustrofobici e ribollenti di umanità e di passioni, si sostituiscono uomini sorridenti e ospitali, città dal colore della sabbia, torri merlate e cortili segreti, oasi di verde e carovane che spariscono dietro le dune. Un mondo magicamente sospeso nella ineludibilità degli accadimenti, quasi un laboratorio segreto in cui con il tempo lineare dell’eternità si mettono in scena le solite vicende dell’esistenza: l’amici-
é s
d
zia e il tradimento, la felicità e il dolore, l’amore e la rinun-
cia. Un piccolo grande miracolo espressivo in cui tutti — i poveri e i ricchi, i giovani e i vecchi, i vincitori e gli sconfitti — pur agendo con motivazioni contrapposte, credono negli stessi valori di fondo e combattono contro gli stessi problemi (la cattiva magia che
La bellissima Zumurrud (Ines Pellegrini), perduta dall’innamorato
per distrazione e rapita dai briganti. E il film che porta più avanti il sogno utopico di Pasolini: un mondo in cui il rispetto della tradizione conviva con le necessità del futuro.
109
confonde
mondo, santezza
le idee e avvelena il
il pregiudizio, la pedel senso
comune).
Tra i film che compongono la Trilogia, Il fiore delle Mille e una notte è certamente il più fantastico e insieme quello che porta più avanti il sogno di Pasolini: un mondo in cui il rispetto della tradizione riesca a convivere con le necessità del futuro, e in cui si affermi,
finalmente e davvero, la parità tra i sessi così come quella dell’amore omo ed eterosessuale. L’unità stilistica del film è data non solo dalla scelta quasi esclusiva di girare in esterni (i deserti rossi dell’Eritrea e del Corno d'Africa, le città da fiaba dello Yemen e del Nepal) ma soprattutto da un /eif motiv narrativo: tutti i racconti, in110
fatti, iniziano in viaggio o sono accaduti a un viaggiatore. Ci sono dunque nel film, e nel luogo del racconto, sempre un “altrove” e un'anomalia del destino. Ed è solo il compimento del viaggio, l'avventura della conoscenza,
a poter con-
quistare l’altrove e a risolvere l’anomalia attraverso un’iniziazione al mistero. La storia centrale del film è quella del giovane Nur-ed-Din alla ricerca dell’amata,
la bellissima
Zumurrud, perduta per distrazione e rapita dai briganti. Dopo varie peripezie l’uomo la ritrova sotto le vesti e l’identità maschili di un re e raggiunge così, dopo un'ultima prova, l’esaudimento del suo sogno d'amore. In questo momento di sublime felicità il giovane dà un’incantata defi-
nizione dell’esperienza umana, che è anche il senso più intimo del film: «Che
notte, in-
fine! Dio non ne ha create di uguali. L'inizio fu amaro,
ma
come è dolce la sua fine». Ancora una volta, sia pure intro-
dotto da una situazione di serenità,
è il presentimento
del-
la morte che ritorna a vincere su tutto. Attorno al racconto principale si snodano, come in
un gioco di scatole cinesi e in un perfetto gioco d’incastri, le altre storie: il poeta e i tre gioVani, che reciprocamentessi donano piacere e sapere; il re e la regina che spiano una giovane coppia di amanti, meravigliandosi della perfezione dei loro corpi e del loro incontro; Yunan costretto a uccidere un innocente per sconfiggere un maleficio, e che per il
mane sempre lo stesso, enigmatico, irrisolto. La fedeltà è certamente un valore, ma è un valore anche la
leggerezza, e le tante storie del film dimostrano che si può godere o morire di fedeltà (staticità, attesa) come
di leg-
gerezza (ricerca e movimento). E allora, che fare? È purtroppo solo nel sogno, o nella molteplicità dei sogni, che si trova quello che nella realtà non è dato trovare. rimorso si fa monaco; Aziz che fa morire di dolore, senza saperlo, la fidanzata Aziza, per perdersi dietro una ragazza misteriosa e crudele; Shahzaman che, trasformato in scimmia da un demone, è riportato alla forma umana grazie al sacrificio di una principessa. In questo rincorrersi e sciogliersi di incontri e legami, di sogni dentro altri sogni, di veglie e risvegli, tutti i personaggi sembrano aiutarsi ed es-
scia intravvedere varie chiavi d’ingresso: più che la fisicità della natura e del sesso, a contare è soprattutto una dimensione onirica; più che un discorso chiuso e circolare, c’è una struttura che si avvolge in se stessa fino alla vertigine, e
in cui ogni interruzione apre la strada ad un altro inizio, e dove alla fine il problema ri-
sere pronti al sacrificio, ma ad
ogni piacere corrisponde puntualmente un dolore, ed ogni passo compiuto verso la propria felicità si paga con un passo in avanti dell’infelicità altrui. Se ne Il Decameron il personaggio del pittore si chiedeva perché fare le opere quando basterebbe semplicemente sognarle, ne // fiore delle Mille e
una notte il giardiniere ricorda alla principessa Dunja che la «verità intera non è mai in un solo sogno, ma in molti so-
gni». Che sono appunto le diverse letture possibili di un film in apparenza compatto e rasserenato, ma che pure la-
Il giovane Nur-ed-Din in due momenti della sua ricerca della donna amata. Nella
pagina accanto, il gioco d’amore di Aziz con la bella sconosciuta. Come dice un personaggio del film: «La verità non è mai in un solo sogno, ma in molti sogni».
Durante le lunghe e faticose riprese di Le Mille e una notte, Pasolini fa il suo incontro con Sana’a, splendida capitale dello Yemen del Nord e soprattutto emblema di tutto quello che lui intende come periferia della Storia, emarginazione, dissipazione di valori e cultura. «In tutto lo Yemen — scrive — non c’è una palma, ma si sente una fantasticità più profonda, che viene da quella sua mirabile architettura tutta in verticale, di case alte e povere, l’u-
na a fianco dell'altra nelle anguste stradine. Lo Yemen è il paese più bello del mondo. Sana’a, la capitale, è una Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e senza la Giudecca: una città-forma, una città la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incomparabile suo disegno. Una delle poche città-forma che un urbanista dovrebbe conservare intatta nell’esterno, rifacendone magari solo gli interni». E invece non c’è naturalmente alcuna conservazione e a Pasolini capita di testimoniare e registrare, isolato e impotente, inauditi episodi di violenza urbanistica contro strutture e 0ggetti di straordinaria bellezza, retrocessi nel tempo, arcaici, retrospettivi. E questo indipendentemente dai regimi e dalle ideologie, perché dal punto di 112
vista della difesa dell’identità culturale la «scelta neocapitalistica o socialista sono intercambiabili», e un tecnico americano e una guardia rossa si porranno sempre allo stesso modo (sia pure per ragioni 0pposte) di fronte al passato. A Yazd, in Persia, fra il Golfo Persico e il deserto, con le piccole case di creta color ocra e le cupole delle moschee di un verde azzurro stupendo, lo scià ha fatto distruggere le antichissime strutture architettoniche che assicuravano una perfetta ventilazione alla città; a Mukalla, nello Stato di Aden, il regime comunista, per far passare gli autocarri diretti al porto, ha fatto saltare con la dinamite una stupenda e gigantesca porta di granito, bianca come tutto il resto della città; ad Esfahan, la grande Piazza della Moschea è stata trasformata in una banale piazza occidentale con la vasca centrale, le panchine e gli alberelli. E a Sana’a la deturpazione è come
una lebbra che, a
poco a poco, invade tutto. Per Pasolini è dolore fisico, rabbia, senso di impotenza e nello stesso tempo febbrile desiderio di fare qualcosa. «Uno dei miei sogni — scrive Pasolini in quei giorni — sarà occuparmi di salvare Sana’a e il suo centro storico: per questo sogno mi batterò. Ma in-
tanto ogni giorno che passa è un pezzo delle mura di Sana’a che crolla o che viene nascosto da una catapecchia moderna». Più che un sogno è un’ennesima battaglia impossibile che Pasolini affronta pur conoscendo le difficoltà che dovrà incontrare. A Sana’a, infatti, non c’è ancora una intellighenzia capace di mobilitarsi, non c'è nemmeno un'opinione pubblica a cui fare appello, non esistono giornali e televisione, e le radioline trasmetto-
no a tutte le ore del giorno musichette o solenni notiziari. Per un cineasta l’unico mezzo a disposizione è il cinema e così, una domenica mattina, l’ultima domenica che la troupe del film deve trascorrere a Sana’a
(il 18 ottobre
1970),
Pasolini decide di utilizzare un po’ di pellicola avanzata dalle riprese per girare, da solo, un breve e straordinario documentario in forma di “appello all’Unesco”
(nel cui ambito
opera da anni una sezione che si occupa della tutela del patrimonio artistico dei paesi in via di sviluppo). Il documentario Le mura di Sana’a si apre con le immagini di un contadino yemenita impiegato come spaventapasseri che passa le giornate facendo schioccare sotto il sole la sua frusta, e rappresenta meglio di qualsiasi altro scritto
la poetica pasoliniana nei confronti del Terzo Mondo. Pasolini non è un archeologo, e per lui non si tratta tanto di salvare la forma di una città, quanto di alzare una protesta, di denunciare la rivolta del nostro passato (che coincide con quanto accade oggi in Asia Minore o in Africa del Nord) contro il nostro presente. E le immagini mute ed eloquenti del documentario sono commentate dalla voce di Pasolini che invoca l'Unesco «perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana’a; perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è; in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della
scandalosa forza rivoluzionaria del passato». Il documentario, mai uscito nei circuiti commerciali, ha avuto comunque un suo impatto e una certa diffusione nei circuiti televisivi di tutto il mondo. Nel 1984, a quasi dieci anni dalla sua morte, il sogno di Pier Paolo Pasolini prende finalmente forma. L’Unesco lancia una campagna internazionale per la conservazione e il restauro di Sana’a. Il 6 aprile 1988 una delegazione ufficiale composta, tra gli altri, da Romano
guardia,
Abdulrahman
tutto questo a Pasolini». Il 6 settembre 1988, a Venezia,
le giurie per i Premi Pier Paolo Pasolini (tesi di laurea e poesia) consegnano ad Al-Haddad un riconoscimento in denaro come contributo alla ristruttu-
razione della Samsarah Yahya Bin Quasim,
un piccolo alber-
go «dove Pasolini pensava di inventarsi una vita futura».
Prodi, allora presi-
dente dell’IRI, e da rappresentanti del Ministero dei Beni Culturali e del Fondo Pasolini, si reca a Sana’a. Spetta infatti all'Italia realizzare una parte del progetto complessivo con il restauro di un’area pilota. Una copia del documentario Le mura di Sana’a, sottotitolata in arabo, viene donata al direttore del progetto di salva-
Al-
Haddad, che durante la cerimonia dichiara: «Dobbiamo
Pasolini a Sana”a, la capitale dello Yemen del Nord. La città è in qualche modo l’emblema di ciò che accade nelle periferie della storia, dove ogni giorno si assiste impotenti alla dissipazione di valori e culture millenarie.
Nella “Trilogia della vita”, soprattutto in qualche momento del Decameron o del Fiore delle Mille e una notte, nella leggerezza della novella cinquecentesca o nella felice contaminazione del sogno con la prosaicità del quotidiano, è sembrato che Pasolini avesse quasi ritrovato lo stupore e la mestizia consapevole di certe poesie friulane, l'ispirazione e la voglia di rappresentare la realtà non più nella sua diretta brutalità, ma in una trasfigurazione che consentisse il distacco e il giudizio più sereno. Invece anche la Trilogia è una parentesi che si chiude repentinamente e con un giudizio inappellabile dello stesso autore, che arriva persino a parlare di «abiura». D'altra parte il Terzo Mondo rappresentato negli ultimi film di Pasolini è un mondo di polvere e di sogni, frutto di un’idealizzazione estetica e linguistica che non può durare. Soprattutto perché non è più tempo di sogni, neppure cinematografici. Negli stessi anni in cui gira per il mondo a raccontare storie sempre più fantastiche e apparentemente distaccate dalla realtà del suo tempo e del suo paese, sui giornali a cui collabora
(Corriere
della
Sera
e
Tempo) Pasolini inasprisce la polemica politica, assumendo il ruolo del polemista “corsaro”, 114
dell’oppositore indocile e controcorrente, non riconciliato e, quindi, anche isolato. Sono articoli e interventi, i suoi, che affrontano i temi più disparati, dal consumismo alle mode giovanili, dall’ecologia al divorzio e all’aborto, dai guasti della televisione alle contraddizioni della sinistra, dallo scontro frontale con la DC al clamoroso invito a «processare il Palazzo». Trasversale a tutti gli interventi c'è sempre la denuncia del “genocidio” perpetrato contro le classi più deboli dalla cultura edonistica espressa dal nuovo potere. Un mese prima di morire, Pasolini ha la sorpresa di vedere programmato dalla televisione, in prima serata, il suo film d’esordio, Accattone. Un evento che arriva con ben quindici anni di ritardo dall’uscita del film e dunque forse davvero fuori tempo massimo. Che impressione avrebbero fatto quelle immagini così violente e anche figurativamente così “datate” ai milioni di telespettatori? Nell'occasione, Pasolini scrive per il Corriere della Sera un articolo in cui non prova neppure a spiegare il senso del film al pubblico della TV, che pure in gran parte lo vedrà per la prima volta, ma si dilunga ad elencare i guasti arrecati nella società italiana da quegli ultimi quindici anni, e parla appunto
di genocidio. Pasolini, autore e personaggio pubblico, vive sempre più evidentemente il dramma di una comunicazione interrotta, per lui un punto di non ritorno rispetto a una devastazione culturale che sente irrimediabile. Il mondo contadino, religioso e mitologico, ma pur afflitto da un’eterna ineguaglianza sociale o l’Italia del periodo fascista e post-fascista, in «cui la vita era come la si era conosciuta da bambini e per venti/trent'anni non è più cambiata» sembrano a Pasolini ormai preferibili alla distruzione prodotta dalla mutazione urbana, industriale e moderna. Le sue sono parole violente, sicuramente eccessive, che inquietano soprattutto pensando a quello che sarebbe accaduto pochi giorni dopo. È comunque così che Pier Paolo "Pasolini, nel 1975, guarda al suo cinema e al rapporto che questo può ormai intrattenere con il pubblico. Di fronte all’orrore e alla vastità della sconfitta, il dovere dell’intellettuale, secondo Pasolini, è smetterla di continuare a inseguire i sogni. In termini cinematografici ciò significa realizzare una rottura ancora più violenta nel tradizionale ciclo produzione-consumo e artemerce, facendo opere che siano «estremistiche e inaccettabili»
(“Tre riflessioni sul cinema”, in
Annuario
1975 — Biennale di
Venezia).
E in questo contesto che Pasolini prende le distanze da una parte pur così importante e significativa della sua storia di regista. «Io abiuro alla Trilogia della vita — scrive Pasolini il 15 giugno 1975, in un testo che sarà pubblicato postumo — benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso... Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Il crollo del presente implica anche il. crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine. ...Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto’ accettando l’inaccettabile. Manovro
per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti — pian piano senza più alternative — il presente. Riadatto il mio impegno a una maggiore leggibilità». Sullo sfondo di queste intenzioni Pasolini decide di avviare una nuova fase del suo cinema, ancora più intransigente perché stavolta diretta al cuore dell’or-
Caterina Boratto (una delle narratrici) circondata da un
gruppo di giovani vittime e carnefici sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Di fronte all’orrore e alla vastità della sconfitta, il dovere dell’intellettuale è di fare opere sempre più estremistiche e inaccettabili.
rore e dell'inferno della contemporaneità. È anche l’annuncio di quella che doveva essere una specie di “Trilogia della morte”, di cui Salò o le 120 giornate di Sodoma
sarà il pri-
mo e ultimo capitolo. Un film “oltre i limiti”, realizzato da un regista «pronto per un mondo moderno» che lui sente nemico. Un film a cui Pasolini si dedica anima e corpo, vivendo, almeno al livello di lavoro, uno dei periodi più intensi e sereni della sua vita. Ha 55 anni e ha raggiunto quell’età lieta in cui «il fatto di avere davanti a sé un breve futuro, sempre più, finalmente, permette di vivere secondo l'insegnamento del Vangelo, cioè senza pensare al domani. Come i gigli nei campi e gli uccelli nel cielo. Cosa che mette di buon umore e che riconcilia con la vita».
Geometrico e freddo come un cristallo, inerte e implacabile come un'operazione matematica, Salò o le 120 giornate di
Sodoma è un film agghiacciante, soprattutto perché non ammette speranza. Distante anni luce dall’atmosfera della “Trilogia della vita”, qui non c’è gioia possibile, nemmeno quella del sesso. Se nei film della Trilogia, non a caso ispirati da opere scritte in secoli passati, l’esercizio
del sesso è un momento liberatorio e di irrisione al potere, in Salò si riduce a mercificazione e sfruttamento, e può essere esercitato solo per costrizione o di nascosto. Il primo impegno dei quattro mostri protagonisti del film, infelici rappresentanti di uno Stato senza popolo che sopravvive alla propria fine (la Repubblica di Salò) è ridurre a “cose”
delle
vittime umili, è fare mercato e consumo dei loro corpi e delle
loro manifestazioni di vitalità. Il teatro organizzato nella villa — l’Antinferno e i tre gironi in cui esplode l’accumulazione iperbolica degli orrori — vive solo in funzione di questo. La storia. Repubblica
di Salò,
1945. Dietro le mura antiche di una villa che si affaccia sul lago, quattro personaggi (un duca, un banchiere, un magistrato e un monsignore) prendono il tè, fanno dotte citazioni da Klossowski e Baudelaire,
Nelle foto, il rastrellamento in città e alcune giovani vittime delle perversioni dei quattro Signori. Con una notevole idea di regia, le sarabande infernali |
e le scelleratezze deliranti descritte da Sade sono ambientate nell’atmosfera malata della Repubblica sociale, teatro ideale per un esercizio del potere arbitrario e incontrollato.
‘ *
|
RL
Pasolini sul set di Salò. Un rigore e una durezza che sgomentano, quasi a sottolineare la scelta personale dell’autore di vivere dentro l’inferno che sta mettendo in scena.
e mettono alla prova il loro superomismo nietzschiano stilando l’efferato regolamento che dovrà presiedere di lì a poco la macabra festa-carneficina. Le vittime sono decine e decine di ragazzi catturati nei paesi e villaggi circostanti, per lo più figli di partigiani o parpisdamicssisstessimRer 120 giorni, seguendo alla lettera i rituali descritti nell’opera del marchese de Sade, le giovani vittime devono sottostare ad ogni volontà espressa dai quattro Signori, che hanno il potere di disporre liberamente della loro vita. Ogni minima resistenza, ogni insubordinazione, viene punita con la morte. Coadiuvati da una schiera di aguzzini e da quattro Megere, ex puttane, i Signori della Villa sfrenano la loro perversione scandendola in quattro giornate, corrispondenti ad altrettanti gironi. Il Girone delle Manie (le perversioni), il Girone della Merda (l’analità e la coprofagia), il Girone del Sangue (le 118
torture, le amputazioni, le uccisioni rituali) e infine |Epilogo: nel mezzo di tante efferatezze, due giovani collaborazionisti impegnati in un turno di guardia, per un attimo, si astraggono dal luogo terribile in cul vivono per accennare due passi di danza sulle note della radio e per cominciare a
la definizione del “sogno dentro il sogno”, Salò ripropone
fare amicizia
Con una notevole idea di regia, Pasolini ambienta le sarabande infernali e le scelleratezze deli-
(«Come
si chia-
ma la tua ragazza?», «Margherita»).
In un film bloccato da una geometria inesorabile, il finale tra.i due ragazzi è come un lampo che sembra per un attimo annullare la memoria e azzerare l’orrore. Eppure è proprio quell’incontro occasionale e toccante a dare una dimensione, se possibile, ancora più disperata al film e alla realtà a cui il film allude: perché, apparentemente, è solo distraendosi da quel che si è o si è diventati, solo guardando altro od oltre, che ci si può salvare. Se // Fiore delle Mille e una notte sì sintetizzava nel-
la stessa struttura rovesciandola nel suo orrore: l’ “incubo
dentro l’incubo”, e in questo porta alle estreme conseguenze i segnali di morte presenti in tutto il cinema di Pasolini, da Accattone a Decameron e
Canterbury.
ranti descritte da Sade nell’at-
mosfera malata della Repubblica di Salò, immaginando quest’ultima istituzione come il teatro ideale per ambientare l'esercizio di un potere arbitrario e incontrollato. Ancora una
volta, però, siamo alla trasparente dislocazione di una realtà dolorosamente attuale. Con i suoi cerimoniali, con l’ossessi-
vo rispetto della forma, con l’invito all’obbedienza
assolu-
ta, il fascismo di Salò riecheggia un fascismo contemporaneo che per Pasolini è più subdolo e pericoloso: quello che,
nel rispetto della democrazia e nella passività di chi avrebbe invece dovuto opporsi, ha realizzato il genocidio degli antichi valori e ha contrabbandato con il volto del progresso una feroce regressione.
È in questa luce che il film propone un universo chiuso e senza scampo, una sequenza interminabile di vuoti cerimoniali (i matrimoni
irridenti, i
pranzi allucinanti, le ispezioni crudeli), un lager perfettamente organizzato sul principio dell’obbedienza, in cui gli atti di ribellione possibili sono comunque sempre individuali e dunque inutili (il saluto con il pugno chiuso del ragazzo sorpreso a fare l’amore con una donna di colore o il suicidio della pianista sfinita da tanto
la sfida di rappresentare il cuore della violenza fino all’estremo limite consentito. E forse oltre. A chi gli rimprovera i suoi metodi, Pasolini risponde giustificandosi con le ragioni del lavoro. «Se uno dei miei attori deve cadere a terra morto — scrive in una pagina del diario di lavorazione — glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un corpo che cade morto».
Il film viene proiettato in anteprima a Parigi, il 22 novembre 1975. Appena venti giorni prima, il tenue filo che legava Pasolini al presente di un’Italia che gli appariva sempre più estranea e lontana si era spezzato per sempre all’idroscalo di Ostia. Con quella morte si era anche spezzata la foga creativa e la rabbia di vivere di uno dei più grandi autori del dopoguerra.
orrore).
Film di una crudezza intollerabile (certamente tra i più estremi che siano mai stati girati), ma soprattutto viaggio dentro la notte del nostro tempo, negli orrori di una società omologata e abitata da robot senza sentimenti. Pasolini gira e monta Salò con un rigore e una durezza che sgomentano (scoppiano anche delle polemiche per i metodi di lavoro che sarebbero stati imposti sul set); lo fa quasi a sottolineare la scelta personale di vivere dentro l’inferno che sta mettendo in scena, nonché
Salò o le 120 giornate di Sodoma viene proiettato per la prima volta a Parigi, il 22 novembre 1975. Venti giorni prima si era spezzato il tenue filo che legava l’autore ad un paese che gli appariva ormai estraneo e lontano.
IS)
«Non so perché, ma non c’ero mai venuto», dice la voce fuori campo e poi è silenzio fino alla fine. La lunga passeggiata in vespa di Nanni Moretti in Caro diario si conclude all’idroscalo di Ostia, fra le spiagge gremite di bagnanti, le stradine costeggiate dalle macchine con la lamiera ribollente al sole, le dune di sabbia costellate dai cespugli incolti, le fontanelle del Comune con la fila di gente in attesa, le stesse ba-
racche di vent’anni prima. Il luogo dove è stato ucciso Pasolini si intravvede da lontano, dietro un filo spinato che separa il vecchio campetto di calcio dalla stradina sterrata che fiancheggia il mare. Poi, solo un’inquadratura fissa, di qualche secondo, dedicata al brutto monumento eretto in ricordo. Racchiuso nel segno del rispetto e del pudore, questo è forse l'omaggio più giusto che il cinema italiano abbia saputo rendere al discorso spezzato di Pier Paolo Pasolini. Dopo tanti anni, sono molti quelli che hanno tardato o non riescono ancora a fa-
120
re quella “visita all’idroscalo”, che vuol dire anche, semplicemente, rifare i conti, al di là dei dibattiti, delle polemiche e delle celebrazioni, con le cose che davvero ci restano e resteranno per sempre di Pasolini, e cioè i film, i documentari, gli appunti filmati, i reportages. Ecco, la rimozione dell’idroscalo, quel monumento provvisorio che nessuno ha più avuto il tempo e la voglia di sostitui-
re, ricorda una certa curiosa ritrosia critica nei riguardi del cinema di Pasolini: un universo magmatico e complesso, ambizioso nel progetto e diretto e violento nella forma espressiva, un cinema che sembra attrarre più gli studiosi che non gli spettatori incuriositi, e, soprattutto, più i ‘“coetanei” che di quel filma(efdel momento storico che li ha espressi) sono stati testimoni, che non i giovani che li potrebbero conoscere, riscoprire e decifrare a posteriori, liberi da qualsiasi condizionamento. Il risultato è che il cinema di Pasolini rischia di apparire autoreferenziale, frutto di una stagione lontana e irripetibile, e non invece un cinema stimolante, capace di parlare e interagire ancora con un pubblico contemporaneo. La speranza, giunto alla fine di questo lavoro, è di aver raggiunto sia pure in minima parte l’obiettivo iniziale: dimenticare (con grande sforzo) Pasolini per poter ritornare a vedere, con «occhi limpidi», i suoi film.
ACCATTONE Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; collaborazione ai dialoghi: Sergio Citti; aiuto regia: Bernardo Bertolucci: fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Flavio
(un malato), Franco Ceccarelli (Carletto), Marcello Sorrentino (Tonino), Sandro Meschino (Pasquale), Franco Tovo (Augusto); produzione: Alfredo Bini
Mogherini; musica: Bach (‘Passione secondo Mat-
per Arco Film; distribuzione: Cineriz; origine: Ita-
teo” BWV 244); montaggio: Nino Baragli; interpreti: Franco Citti (Cataldi Vittorio, Accattone),
lia, 1962: durata: 105°.
Franca Pasut (Stella), Silvana Corsini (Maddalena), Paola Guidi (Ascenza), Adriana Asti (Amore), Adriano Mazzelli (il cliente di Amore), Adele Cambria (Nannina), Romolo Orazi (suocero di Ac-
LA RICOTTA (4° episodio del film Rogopag)
cattone), Massimo Cacciafeste (cognato di Accat-
(un cliente), Maria Bernardini
(la sposa), Santino
Citti (il padre della sposa), Lamberto Maggiorani
Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggia-
tura: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Sergio Citti, Carlo Di Carlo: fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Danilo
tone), Danilo Alleva (Iaio), Mario Guerani (il commissario), Stefano D’ Arrigo (il giudice istruttore), Sergio Citti (il cameriere), Elsa Morante (una detenuta), Luciano Conti (il Moicano), Luciano Gonini
Donati; musica: Scarlatti (“Cantata”), Verdi (“La Traviata”), Giovanni Fusco (“Eclisse Twist”), con
(Piede d’oro), Renato Capogna (il Capogna), Alfredo Leggi (Pupo biondo), Galeazzo Riccardi (il
Mario Cipriani (Stracci), Laura Betti (la ‘“diva”), Edmonda Aldini (un’altra “diva”), Vittorio La Pa-
Cipolla), Leonardo
glia (il giornalista), Maria Bernardini (la stripteaseuse), Rossana Di Rocco (la figlia di Stracci), Ettore Garofalo, Tomas Milian, Alan Midgette, Lamberto Maggiorani, Giovanni Orgitano, Franca Pasut (le comparse), Giuseppe Berlingeri (il produt-
Muraglia (Mommoletto),
Giu-
seppe Ristagno (Peppe il folle), Roberto Giovannoni (il Tedesco), Mario Cipriani (Balilla), Rober-
to Scaringella (Cartagine), Silvio Citti (Sabino), Giovanni Orgitano (lo Scucchia), Piero Morgia (Pio), Umberto Bevilacqua (Salvatore), Franco Be-
vilacqua (Franco), Amerigo Bevilacqua (Amerigo), Sergio Fioravanti (Gennarino), Enrico Fioravanti (1° agente), Nino Russo (2° agente); produzione: Alfredo Bini per Arco Film/Cino Del Duca: distribuzione: Cino Del Duca (poi Nuova Comunicazione/Arci); origine: Italia, 1961: durata: 120°. MAMMA ROMA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; collaborazione ai dialoghi: Sergio Citti; aiuto regia: Carlo Di Carlo; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Flavio Mogherini; musica: Vivaldi (“Concerto in do maggiore”, “Concerto in re minore”), con il coordinamento di Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli: interpreti: Anna Magnani (Mamma Roma), Ettore Garofalo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini (Bruna), Luisa Orioli (Biancofio-
re), Paolo Volponi (il prete), Luciano Gonini (Zaccaria), Vittorio La Paglia (il Sig. Pellissier), Piero Morgia (Piero), Leandro Santarelli (Begalo, il Roscio), Emanuele Di Bari (Gennarino), Antonio
Spoletini (un pompieretto), Nino Bionci (un pittoretto), Roberto Venzi (un avieretto), Nino Venzi
il coordinamento di Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Orson Welles (il regista),
tore), Andrea
Barbato,
Giuliana Calandra,
Adele
Cambria, Romano Costa, Elsa de’ Giorgi, Gaio Fratini, John Francis Lane, Enzo Siciliano, Letizia Paolozzi
(gli invitati); produzione:
Alfredo
Bini
per Arco Film (Roma), Cineriz (Roma), Lyre Film (Paris); distribuzione: Cineriz; origine: Italia, 1963; durata: 35°.
LA RABBIA Regia: Pier Paolo Pasolini; commento in versi: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Carlo Di Carlo; voci: Giorgio Bassani, Renato Guttuso; musica: canti della rivoluzione algerina, canti popolari russi; montaggio: Pier Paolo Pasolini, Nino Baragli, Mario Serandrei; produzione: Gastone Ferranti per Opus Film; distribuzione: Warner Bros; origine: Italia, 1963; durata: 53°.
COMIZI
D’AMORE
Regia: Pier Paolo Pasolini; interviste e commenti: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Vincenzo Cerami; fotografia: Mario Bernardo, Tonino Delli Colli; musica:
varie; montaggio:
Nino Baragli; interven-
ti: Alberto Moravia, Cesare Musatti, Camilla Ce-
derna, Oriana Fallaci, Adele Cambria, Peppino Di
Capri, squadra di calcio del Bologna, Giuseppe Ungaretti, Antonella Lualdi, Graziella Granata, Ignazio Buttitta, Graziella Chiarcossi (la sposa); produzione:
Alfredo Bini per Arco Film (Roma);
sco Leonetti (la voce del corvo); produzione: Alfredo Bini per Arco Film (Roma); distribuzione: CIDIF: origine: Italia, 1966; durata: 86°. Premi: Menzione speciale a Totò al XX Festival
origine: Italia,1964; durata: 92°.
del Cinema di Cannes.
SOPRALLUOGHI IN PALESTINA Regia: Pier Paolo Pasolini; commento: Pier Paolo Pasolini; fotografia: Aldo Pennelli; musica: Bach
LA TERRA VISTA DALLA LUNA (3°epi- ’ sodio del film Le streghe ) Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Sergio Citti; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia, Piero Poletto; costumi: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Totò (Ciancicato Miao), Ninetto Davoli
(“Passione secondo Matteo”, BWV
244); interven-
ti: Pier Paolo Pasolini, don Andrea Carraro; produzione: Alfredo Bini per Arco Film (Roma); origi-
ne: Italia, 1963; durata: 52°. IL VANGELO SECONDO MATTEO Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “Il Vangelo secondo Matteo”; aiuto regia: Maurizio Lucidi; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; musica: Bach (“Passione secondo Matteo”, “Fuga a sei voci”, “Messa in si minore”), Mozart (“Adagio e fuga”), Prokof’ev
(“Aleksandr Nevskij”), spiritual, Missa
Luba congolese, canti rivoluzionari russi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Enrique Irazoqui (Cristo), Margherita Caruso (Maria giovane), Susanna Pasolini (Maria anziana), Marcello Morante
(Giuseppe), Mario Socrate (Giovanni Battista), Rodolfo Wilcock (Caifa), Alessandro Clerici (Ponzio Pilato), Amerigo Bevilacqua (Erode I), France-
sco Leonetti (Erode II), Franca Cupane (Erodiade),
8
(Baciù Miao), Silvana Mangano (Assurdina Caì), Mario Cipriani (un prete), Laura Betti (un turista),
Luigi Leoni (la moglie del turista); produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Paris); distribuzio-
ne: Dear Film/United Artists Buropa; origine: Italia, 1967; durata: 31°. CHE
COSA
SONO
LE NUVOLE?
(3° epi-
sodio del film Capriccio all’ italiana )
Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Sergio Citti; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia e costumi: Jurgen Henze; canzone: “Cosa sono le nuvole?” di Modugno-Pasolini, cantata da Domenico Modugno; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Totò (Jago),
Paola Tedesco (Salomé), Rossana Di Rocco (1 Angelo del Signore), Renato Terra (un fariseo), Eliseo
Ninetto Davoli (Otello), Laura Betti (Desdemona), Franco Franchi (Cassio), Ciccio Ingrassia (Roderigo), Adriana Asti (Bianca), Francesco Leonetti (il
Boschi (Giuseppe D° Arimatrea), Natalia Ginzburg
burattinaio), Domenico
(Maria di Betania), Ninetto Davoli (pastore), Settimio Di Porto (Pietro), Otello Sestili (Giuda), Fer-
mondezza), Carlo Pisacane (Brabanzio), Mario Ci-
ruccio Nuzzo (Matteo), Giacomo
Morante (Gio-
vanni), Alfonso Gatto (Andrea), Enzo Siciliano (Simone), Giorgio Agamben (Filippo), Guido Cer-
Modugno
(l’uomo della
priani, Piero Morgia, Luigi Barbini, Remo Foglino; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma): distribuzione: Dear Film/United Artists; origine: Italia, 1968; durata: 22°.
retani (Bartolomeo), Luigi Barbini (Giacomo di Zebedeo), Marcello Galdini (Giacomo di Alfeo),
Elio Spaziani (Taddeo), Rosario Migale (Tommaso); produzione: Alfredo Bini per Arco Film (Ro-
ma), Lux Compagnie Cinématographique de France (Paris); distribuzione: Titanus; origine: Italia, 1964; durata: 137°.
Premi: Premio Speciale della Giuria e Premio O.C.I.C. (Office Catholique International de Cinéma) alla XXV Mostra del Cinema di Venezia. UCCELLACCI
E UCCELLINI
Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggia-
tore: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Sergio Citti; fotografia: Tonino Delli Colli, Mario Bernardo; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Totò (Innocenti Totò/Frate Ciccillo), Ninetto Davoli (Innocenti Ninetto/Frate Ninetto), Femi Benussi (Luna, la prostituta), Gabriele Baldini (il dantista/dentista), Riccardo Redi
(l'ingegnere), Lena Lin Solaro (Urganda), France-
EDIPO RE Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “Edipo re” e “Edipo a Colono” di Sofocle; aiuto regia: Jean-Claude Biette; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; musica: Mozart (“Quartetto in do magg.” K 465), suite di motivi popolari rumeni, arie della rivoluzione russa, musica antica giapponese; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Silvana Mangano (Giocasta), Franco Citti (Edipo), Alida Valli (Merope), Carmelo Bene (Creonte), Julian Beck (Tiresia), Luciano Bartoli (Laio), Ahmed Belhachmi (Polibo), Pier
Paolo Pasolini (il Gran Sacerdote), Giandomenico Davoli (pastore di Polibo), Ninetto Davoli (Anghelos), Francesco Leonetti (servo di Laio), JeanClaude Biette e Ivan Scratuglia (sacerdoti); produzione: Alfredo Bini per Arco Film (Roma), con la
partecipazione di Somafis (Casablanca); distribuzione:
Euro
International
1967; durata: 104”.
Film; origine:
Italia,
APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto, sceneggiatura, fotografia: Pier Paolo Pasolini; collaborazione: Gianni Barcelloni Corte; montaggio: Jenner Menghi; produzione: Rai Radiotelevisione Italiana: origine: Italia, 1968; durata: 35°. TEOREMA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Sergio Citti; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Luciano Puccini; costumi: Marcella De Marchis; musica originale: Ennio Morricone; musica: Mozart (“Requiem in re min.” K 626); montaggio: Nino Baragli: interpreti: Silvana Mangano (Lucia, la madre), Massimo Girotti (Paolo, il padre), Andrès José Cruz Soublette (Pietro, il figlio), Anne Wia-
zemsky (Odetta, la figlia), Terence Stamp (l’Ospite), Laura Betti (Emilia, la serva), Adele Cambria
(l’altra serva), Ninetto Davoli (il postino), Luigi Barbini (il ragazzo della stazione), Carlo De Mejo (un ragazzo), Cesare Garboli (l’intervistatore), Alfonso Gatto (il medico), Susanna Pasolini (la vecchia contadina); produzione: Franco Rossellini e Manolo Bolognini per Aetos Film (Roma); di-
stribuzione: Euro International Films: origine: Italia, 1968: durata: 98°. Premi: Coppa Volpi a Laura Betti per la migliore interpretazione femminile è premio OCIC alla XXIX Mostra del Cinema di Venezia.
LA SEQUENZA DEL FIORE DI CARTA (3° episodio del film Amore e rabbia) Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Maurizio Ponzi; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; musica originale: Giovanni Fusco: musica: Bach (“Passione secondo Matteo” BWV 244): montaggio: Nino
Baragli; interpreti: Ninetto Davoli (Riccetto), Rochelle Barbieri (una ragazzina); le voci di Dio: Bernardo Bertolucci, Graziella Chiarcossi, Pier Paolo Pasolini, Aldo Puglisi; produzione: Carlo Lizzani per Castoro Film (Roma)/Anouchka Film (Paris); distribuzione: Italnoleggio Cinematografico: origine: Italia, 1969; durata: 11° PORCILE Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini: aiuto regia: Sergio Citti, Fabio Garriba; fotografia: Armando Nannuzzi Delli Colli, Giuseppe
(primo episodio), Tonino
Ruzzolini (secondo episodio); costumi: Danilo Donati; musica: Benedetto Ghiglia; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Pierre Clementi (primo cannibale), Franco Citti (secondo cannibale), Luigi Barbini (il soldato),
Jean-Pierre
Ninetto
Léaud
(Klotz), Margherita
Davoli
(Maracchione),
(Julian), Alberto Lozano
(M.me
Lionello
Klotz), Anne
Wiazemsky (Ida), Ugo Tognazzi (Herdhitze), Mar-
co Ferreri (Hans Gunther); produzione: Gianni Barcelloni Corte per BBG (primo episodio), Gian
Vittorio Baldi per IDI Cinematografica (Roma), CAPAC Filmédis (Paris); distribuzione: INDIEF; origine: Italia, 1969; durata: 98°. APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto, sceneggiatura, fotografia, commento: Pier Paolo Pasolini; musica: Gato Barbieri: cantanti: Yvonne Murray e Archie Savage; montaggio: Cleofe Conversi; produzione: Gian Vittorio Baldi per IDI Cinematografica (Roma)/I film dell'Orso; distribuzione: DAE;
origine: Italia, 1969-1973; durata: 63°.
MEDEA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “Medea” di Euripide; collaborazione alla regia: Sergio Citti; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Piero Tosi: musica: canti d'amore iraniani e musiche sacre giapponesi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Maria Callas (Medea), Laurent Terzieff (il Centauro),
Massimo
Girotti (Creonte),
Giuseppe Gentile (Giasone), Margareth Clementi (Glauce), Sergio Tramonti (il fratello di Medea), Anna Maria Chio (nutrice), Paul Jabara, Gerard
Weiss, Luigi Barbini, Gianni Brandizi, Piera Degli Esposti, Graziella Chiarcossi, Mirella Panfili; produzione: Franco Rossellini, Marina Cicogna per San Marco SpA (Roma)/Les Films Number One (Paris)/Janus Film und Fernsehen (Frankfurt); di-
stribuzione: Euro Internation Films; origine: Italia, 1969; durata: 110°.
IL DECAMERON Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggia-
tura: Pier Paolo Pasolini da “Il Decameron” di Giovanni Boccaccio; aiuto regia: Sergio Citti, Umberto Angelucci; forografia: Tonino Delli Colli: scenografia: Dante Ferretti; costumi: Dani-
lo Donati; musica: Ennio Morricone, canti popolari napoletani; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Franco Citti (ser Ciappelletto), Ninetto Davoli (Andreuccio da Perugia), Jovan Jovanovic (Rustico), Vincenzo Amato (Masetto da Lamporecchio), Angela Luce (Peronella), Pier Paolo Pa-
solini (l’allievo di Giotto), Guido Alberti (un ricco mercante), Gianni Rizzo (il Padre superiore), Giuseppe Zigaina (il frate confessore), Elisabetta Genovese (Caterina), Silvana Mangano (la Madonna), Giorgio Jovine, Salvatore Bilardo, Vincenzo Ferrigno e altri; produzione: Franco Rossellini per PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Paris)/Artemis Film (Berlin); distribuzione: United Artists Europa; origine: Italia, 1971: durata: 110°. Premi: Orso d’argento al XXI Festival di Berlino. NO)(OS)
12 DICEMBRE Crediti ufficiali - Ideazione: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Giovanni Bonfanti, Goffredo Fofi; fotografia: Giuseppe Pinori, Sebastiano Celeste, Enzo Tosi, Roberto Lombardi; musica: Pino Masi; montaggio: Maurizio Ponzi; produzione: Giovanni Bonfanti per “Lotta continua”; distribuzione: DAE; origine: Italia, 1972; durata: 104°. Nella realtà alcune scene del film sono state girate direttamente da Pier Paolo Pasolini, altre da Giuseppe Bonfanti e Maurizio Ponzi.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “Le 120 giornate di Sodoma” di D.A.F. de Sade; collaborazione alla sceneggiatura: Sergio Citti, Pupi Avati; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Danilo Donati; musica: consulenza di Ennio Morricone, canzoni popolari, Chopin (“Preludio in mi min.” op. 28 e “Valer in la min.” op. 34), Orff (“Carmina
Burana”);
montaggio:
Nino
Baragli, Tatiana Casini Morigi; interpreti: Paolo
I RACCONTI DI CANTERBURY Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “The Canterbury Tales” di Geoffrey Chaucer; aiuto regia: Sergio Citti, Umberto Angelucci; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Danilo Donati; musica: Ennio Morricone, musiche popolari inglesi e irlandesi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Hugh Griffith (sir January), Laura Betti (la donna di Bath), Ninetto Davoli (Perkin), Franco Citti (il dia-
volo), Josephine Chaplin (May), John Francis Lane (il monaco), Alan Webb (il vecchio), J.P.Van Dyne (Cook), Pier Paolo Pasolini (Chaucer), Vernon
Bonacelli
(il Duca), Giorgio Cataldi (il Vescovo),
Uberto Paolo Quintavalle (Sua Eccellenza il Presidente di Corte d’ Appello), Aldo Valletti (il Presidente Durcet), Caterina Boratto (signora Castelli),
Elsa de’ Giorgi (signora Maggi), Hélène Surgère (signora Vaccari),
Sonia Saviange
(la virtuosa),
Sergio Fascetti, Bruno Musso, Antonio Orlando, Franco Merli, Giuliana Melis, Faridah Malik, Graziella Aniceto, Renata Moar, Rinaldo Missaglia, Giuseppe Patruno, Fabrizio Menichini, Ezio Manni, Paola Pieracci, Ines Pellegrini e altri; produzione: Alberto Grimaldi per PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés
(Paris); distribuzione:
Dobtcheff, Adrian Street, Derek Dreadmin, Nicho-
United Artists Europa; origine: Italia, 1975; dura-
las Smith e altri; produzione: Alberto Grimaldi per
ta: 116°.
PEA (Roma); distribuzione: United Artists Europa;
origine: Italia, 1972; durata: 110°. Premi: Orso d’oro al XXII Festival di Berlino.
IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini da “Le mille e una notte”; collaborazione alla sceneggiatura: Dacia Maraini; aiuto regia: Umberto Angelucci, Peter Shepherd;
fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Danilo Donati; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi: interpreti: Ninetto Davoli (Aziz), Franco
Citti (il Genio), Franco
Merli (Nur-ed-
Din), Tessa Bouché (Aziza), Ines Pellegrini (Zumurrud), Abadit Ghidei (la principessa Dunja), Gian
Idris
(Giana),
Fessazion
Gherentiel
(Berthané), Alberto Argentino (il principe Shahzaman), Francesco Paolo Governale (il principe Tadji), Salvatore Sapienza (il principe Yunan), Zeudi Biasiolo, Barbara Grandi, Elisabetta Genovese, Luigi Antonio Guerra, Franca Sciutto e altri; produzione: Alberto Grimaldi per PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Paris); distribuzione: United Artists Europa; origine: Italia, 1974; durata: 129. LE MURA DI SANA’A Regia: Pier Paolo Pasolini; commento: Pier Paolo Pasolini; fotografia: Tonino Delli Colli; montaggio: Tatiana Casini Morigi; produzione: Franco Rossellini per Rosima Anstalt; origine: Italia, 1971-1974; durata: 13°.
COLLABORAZIONIA SOGGETTI E SCENEGGIATURE La donna del fiume di Mario Soldati (1954) Il prigioniero della montagna di Luis Trenker (1955) Le notti di Cabiria di Federico Fellini (1957) - non accreditato Marisa la civetta di Mauro Bolognini (1957) Giovani mariti di Mauro Bolognini (1958)
Morte di un amico di Franco Rossi (1959)
La notte brava di Mauro Bolognini (1959) La dolce vita di Federico Fellini (1960) - non accreditato Il bell’Antonio di Mauro Bolognini (1960)
La giornata balorda di Mauro Bolognini (1960) Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini (1960)
La lunga notte del ‘43 di Florestano Vancini (1960) La ragazza in vetrina di Luciano Emmer (1961) La comare secca di Bernardo Bertolucci (1962) Ostia di Sergio Citti (1970)
Storie scellerate di Sergio Citti (1973)
Traduzione e adattamento dialoghi Trash di Paul Morrissey (1973) Sweet Movie di Dusan Makavejev (1974)
OPERE NON CINEMATOGRAFICHE «I romanzi
L'intera opera poetica è pubblicata in Bestemmia. Tutte le poesie a cura di Graziella Chiarcossi e Walter Siti (Garzanti-Milano, 1993)
Ragazzi di vita (Garzanti-Milano, 1955; poi in Einaudi-Torino, 1979) Una vita violenta (Garzanti-Milano, 1959; poi in
* Teatro Affabulazione
Einaudi-Torino,1979)
Il sogno di una cosa (Garzanti-Milano, 1962) Alì dagli occhi azzurri (Garzanti-Milano, 1965) Teorema (Garzanti-Milano, 1968) Amado mio (Garzanti-Milano,
1982)
Pilade Orgia Porcile Bestia da stile Calderon
Tutto il teatro in versi di Pier Paolo Pasolini è pub-
Petrolio (Einaudi-Torino, 1992)
blicato nel volume Teatro (Garzanti-Milano,
1988)
* Poesia * Saggistica
La meglio gioventù (Sansoni-Firenze, 1954) Le ceneri di Gramsci (Garzanti-Milano,
1957)
L’usignolo della chiesa cattolica (Longanesi-Milano, 1958) La religione del mio tempo (Garzanti-Milano, 1961) Poesie in forma di rosa (Garzanti-Milano, 1964) Trasumanar e organizzar (Garzanti-Milano, La nuova gioventù (Einaudi-Torino,
1975)
La Divina Mimesis (Einaudi-Torino, 1975)
1971)
Passione e ideologia (Garzanti-Milano,
1960)
La poesia popolare italiana (Garzanti-Milano, 1960) Empirismo eretico (Garzanti-Milano, 1972) Scritti corsari (Garzanti-Milano, 1975) Lettere luterane (Einaudi-Torino, 1976) Le belle bandiere (Editori Riuniti-Roma, 1977) Descrizioni di descrizioni (Einaudi-Torino, 1979) Il caos (Editori Riuniti, 1979)
(N°)N
Pur limitata all’attività cinematografica, la letteratura critica prodotta su Pier Paolo Pasolini ha dimensioni sterminate (per un'idea approfondita si veda il fondamentale volume Le regole di un’illusione a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, edito dal Fondo Pier Paolo Pasolini). Qui di seguito si riporta una bibliografia essenziale, basata unicamente sulle monografie critiche e sui testi comunque tenuti presenti dall’autore.
Monografie Maurizio Ponzi, Pier Paolo Pasolini, AIACE — Torino, 1972 (Ponzi è anche autore di un interessante documentario, in 35 mm, // cinema di Pasolini — Appunti per un critofilm, 1966) Sergio Arecco, Pier Paolo Pasolini, Partisan — Roma, 1972
Mare Gervais, Pier Paolo Pasolini, Seghers — Paris, 1973 Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, Il CastoroNuova Italia-Firenze, 1974 Adelio Ferrero, I! cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio — Venezia, 1977
Jean Duflot, Pasolini, Albatros — Paris, 1977 Paul Willeman (a cura), Pier Paolo Pasolini, British Film Institute — London, 1977 Luigi Bini, Pier Paolo Pasolini, Edizioni Letture — Milano, 1978 Gian Luca Tiso, Gianni Minello, Appunti sull’opera cinematografica di P.P.P., Unione Circoli Cinematografici ARCI — Roma, 1978 Antonio Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni —- Roma, 1979 Michele Mancini, Giuseppe Perrella, PPP. Corpi e luoghi, Theorema -Roma,1981 Fabien S. Gérard, Pasolini, ou le mythe de la barbarie, Les Editions de l’ Université — Bruxelles, 1981 Luciano De Giusti, / film di Pier Paolo Pasolini, Gremese — Roma, 1983 AA.VV. Une vie future, Ente Autonomo Gestione Cinema/Fondo Pier Paolo Pasolini, 1987 AA.VV. Le regole di un'illusione, Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991 Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro — Roma, 1994
Tor
adcpassaf0
e
n
i
oe
cha
La
5
Comeuniflash-back Lon RAIN iI RO Icon: ombra RE NERE n eo elogia LE nt Nellisrandiosa metropoliiplebtas; tia la o IA ACGRONES RARE RSI i rac detta MORONI O LI ANA INA VENA PRIANO RITA PATTI, TTI SOTA PONTIOOTO E, COIN OO RO
7 Il 15 23 29 DÌ
Jeamneercaldella line ia (J063S1906N TRO Le Eosrabbiafs Stia Raina dol lens Sa MOTO, CARDITO AZORATE MIE GARA IA TI AIR OASI
39 41 43
SOPIGIMO RIEN ROlESIMONSE
fe
RA
VAVA:NOC/O:SEGONGO MGUC0TOSTA E ARTO WOCCNOCCOCUICCRMME bogleroanisto dalla Ema BICOSSONO TC NUVOCE iglt-z0Mondoealvitol
Rn
ASSI
Id eoloriaio rele ]one GIOOA-14963)
OO
I
TI
45 I
ME Rn ARE RIO LOI
OTTÌ iLOAA a PTSSI IE, SORT IO IRR 90 C107OIS SERIE
EROE SIOE N RE ANIDRI RIE DE RM
SECCA
ERO DI
INCISA
RIENIO TERA EI
ATA
GROMO
IAA
E
Pogliiosia della viti GO ZIOTDI
IRON
e
RIN IOR SA
rr e ne A
49 55 63 67 69
(oi 16) 79
Gabiano
RIONE
MO AO (ME
ORE
RSA
LIONS
Wrspaiencade nto
47
RI
Saperne
83 85
87 39
95
AIA RESA E ERE COCEREA ORE ER (]RAEKINOREO RIOEI RT OOO RE IA AGRA II E ASTI NES AIR
99 103 109 Le
e e eee lTulkdaivceiea IRE TIE ATTIRAIRR RE
114 Je:
ALIA RA
éia
ANSA IPPIVIPIL
1 aaea
DIE
ETRO ABELE OLE
II OE ZEIASIEIIRCOOIOI
SIRIO PETE PERE ZIORE RON CI AGO I A TIROSgIA.. Bibiosialiale Senziale Rei
120
12) 126
NELLA COLLANA
| GRANDI
DEL CINEMA
Ermanno Comuzio - ERICH VON STROHEIM RENATO VENTURELLI
- ARNOLD SCHWARZENEGGER
TuLLio Masoni - MARCO FERRERI ROBERTO Lasagna - MARTIN SCORSESE PaoLo VERNAGLIONE - FRANCIS FORD COPPOLA SeastiaNO Lucci - RICHARD GERE Ciro Ascione - MARILYN MONROE
Lucia Marzo — JACK NICHOLSON GIULIANA Muscio - ROBERT REDFORD ELIO Girranpa - MERYL STREEP FaBrIZIO Born - WOODY ALLEN
Franco MontTINI - CARLO VERDONE LeoNARDO GanpINI - BRIAN DE PALMA
CLAVER SaLIzzato - MARLON BRANDO VALERIO CAPRARA — STEVEN SPIELBERG GIOVANNA GRassI —-SEAN CONNERY GEMMA STORNELLI - DIEGO ABATANTUONO SILvANA SiLvesTRI
- KEVIN COSTNER_
novità novità
PAOLO VERNAGLIONE - RAINER WERNER FASSBINDER_ Piero Spia — PIER PAOLO PASOLINI
novità
novità
I GRANDI DEL CINEMA Collana diretta da Giovanni Grazzini
Una collana dedicata agli attori e ai registi che con la loro opera hanno fatto o stanno facendo la storia del cinema. In ogni volume i film diretti o interpretati, la vita e la carriera, la formazione professionale dei protagonisti del cinema mondiale, accompagnati dalle più belle fotografie tratte dai film, scattate sul set o “rubate” alla loro vita privata.
» vLL-S9
EIN ATN CA
| N 88 ill 9
9178 88 (04421951