La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro 8885095402, 9788885095403

La produzione cinematografica di Pier Paolo Pasolini è percorribile per più vie, che a volte si presentano come impervi

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La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro
 8885095402, 9788885095403

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FRAMES Collana diretta da Dario E. Viganò

Tomaso Subini

LA NECESSITÀ DI MORIRE Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro

E ENTE d dello S SPETTACOLO

ISBN 978-88-85095-40-3 Copyright © 2007 by EdS® Fondazione Ente dello Spettacolo Via G. Palombini, 6 – 00165 Roma tel.: 06/6637455; e-mail: [email protected] Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.

Indice

Introduzione

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1. Una religiosità “atipica” 1.1. Il dibattito sulla religiosità di Pasolini 1.2. Al cospetto della “comare secca” 1.3. La “teoria del sacro” di Ernesto de Martino 1.4. Ernesto de Martino nell’opera di Pasolini 1.5. Morte e pianto rituale 1.6. Le “regole di una illusione”

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2. Una proposta di periodizzazione 2.1. L’aria di Casarsa (1943-1950) 2.2. I giovani sanno a stento chi è la Madonna (1950-1960) 2.3. Una macchina che immortala (1960-1962) 2.4. La mia vita è il contrario della vostra, benché… (1962-1966) 2.4.1. Le premesse del dialogo 2.4.2. La felicità del dialogo 2.4.3. Lo scandalo del dialogo 2.4.4. La difficoltà del dialogo 2.5. La ricerca del sacro attraverso il mito (1966-1970) 2.6. La scomparsa del paradiso (1970-1975)

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3. Il lavoro del cordoglio ne Il Vangelo secondo Matteo 3.1. La morte di Erode 3.2. La morte di Giuda 3.3. La morte di Gesù

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LA NECESSITÀ DI MORIRE Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro

Tavola delle sigle: AP: Archivio Pasolini, presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. CI1, 2: P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 2 voll., Mondadori, Milano 2001. FC: Fondo Caruso, presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. FP: Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, presso la Cineteca di Bologna. LE1: P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986. LE2: P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988. PO1, 2: P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003. RO1, 2: P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1998. SLA1, 2: P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1999. SPS: P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999. TE: P.P. Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 2001.

Introduzione

Nella personalità di un artista, quand’anche magmatica e sfaccettata, è sempre possibile rinvenire alcune linee guida che, di opera in opera, consentano di tracciare un quadro di sviluppo unitario. Anche la produzione cinematografica di Pasolini è percorribile per più vie, che a volte si presentano come impervi sentieri, altre come vere e proprie strade maestre: se non esaustiva, è certamente di grande rilievo quella segnata dall’interesse per la dimensione del sacro, lungo cui si muove la presente ricerca. Da posizioni spesso provocatorie, Pasolini ha affrontato quello che lui stesso definiva il “momento religioso dell’umanità” in due periodi contigui ma distinti della sua opera degli anni Sessanta: il primo lo vede intrecciare significative relazioni con il mondo cattolico, o meglio con la sua ala progressista; il secondo lo vede invece risalire alle radici stesse del sacro in quanto fondamento aconfessionale di ogni espressione religiosa. Al fine di mettere a fuoco le dinamiche con cui l’opera pasoliniana transita tra questi due periodi si propone qui una periodizzazione differente da quelle fino ad oggi avanzate. Tra le più influenti ricordiamo quella enunciata nel 1977 da Adelio Ferrero: «il cinema come luogo del sacro», da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964); la cesura costituita da Uccellacci e uccellini (1966); «il “cinema di poesia” e la riscoperta del mito», da Edipo re (1967) a Porcile (1969); «la ricerca dei popoli perduti», da Medea (1969) a Il fiore delle Mille e una notte (1974); «il presente come orrore», ovvero Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)1. Ugualmente significativa è la periodizzazione avanzata a più riprese da Lino Micciché: «il cinema della borgata», da Accattone a La ricotta (1963); «il cinema dell’ideologia», da La rabbia (1963) a Uccellacci e uccellini; «il cinema del mito», da Edipo re a Medea; «il cinema della vita e della morte», da Il 1

A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977.

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Decameron (1971) a Salò o le 120 giornate di Sodoma2. Non meno rilevante infine è la periodizzazione proposta nel 1991 dal “Fondo Pier Paolo Pasolini”: «il cinema “nazional-popolare”», da Accattone a Il Vangelo secondo Matteo; «il cinema d’élite», da Uccellacci e uccellini a Medea; «la trilogia della vita», da Il Decameron a Il fiore delle Mille e una notte; «abiura dalla trilogia della vita», ovvero Salò o le 120 giornate di Sodoma3. Sulla base di una serie di ricerche4 compiute sulle carte del Fondo Lucio Caruso, viene avanzata una nuova periodizzazione, sia della vita sia dell’opera (dimensioni, queste, in Pasolini inscindibili), che riconosce come unitario il cinema sorto dalla collaborazione con la Pro Civitate Christiana di Assisi, quello cioè compreso tra La ricotta e Uccellacci e uccellini5. La prospettiva prescelta, focalizzata sui film maggiormente interessati dalla riflessione sul sacro, rende necessaria una premessa di matrice teorica, sviluppata nel primo capitolo, che sgombri il campo da facili appropriazioni e inquadri la natura dei rapporti intrattenuti dall’opera pasoliniana con la religione nel rispetto di quell’“atipicità” da Pasolini stesso più volte rivendicata. Il secondo capitolo affronta il cinema pasoliniano discutendo la proposta di periodizzazione. Al fine di motivare la sua principale novità si è qui concesso ampio spazio al ruolo avuto dalla Pro Civitate nel fornire al cinema compreso tra La ricotta e Uccellacci e uccellini unitarietà di ispirazione, identificabile nella volontà di dialogare con i cattolici. Il terzo e ultimo capitolo, infine, prende in esame alcune sequenze de Il Vangelo secondo Matteo, film nel quale trova particolare riscontro la premessa teorica avanzata nel primo capitolo. 2

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L. Micciché, Promemoria per un itinerario attraverso il cinema di Pasolini, in Aa. Vv., Tutti i film di Pier Paolo Pasolini, Amministrazione Provinciale di Siena e Centro Studi sul cinema e sulle comunicazioni di massa, Siena 1985: si riporta qui la forma definitiva di una proposta di periodizzazione già fissata nelle sue linee principali in L. Micciché, Il cinema italiano degli anni ’60, Marsilio, Venezia 1975, p. 158. L. Betti, M. Gulinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma 1991, p. 5. Già in parte pubblicate: cfr. T. Subini, La chiesa e l’usignolo, «Bianco & Nero», nn. 1-3, 2003 (numero unico speciale), pp. 265-292; T. Subini, Il dialogo tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana sulla sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo, in R. Eugeni e D.E. Viganò (a cura di), Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, vol. 2, Roma, EdS, pp. 223-237. Pur avendo lavorato sulle copie dei documenti donateci da Caruso, abbiamo indicato in nota gli estremi con cui i documenti originali sono catalogati presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, al quale l’intero Fondo è stato ceduto. Una copia informatica degli stessi documenti è disponibile presso gli Archivi della Pro Civitate Christiana.

Quanto ai criteri redazionali, occorre precisare che le opere di Pasolini hanno spesso storie editoriali complesse, con edizioni plurime e relativa variantistica. Scioglierle ogni volta avrebbe appesantito il già copioso apparato di note. Di ogni testo ci si limita pertanto ad indicare la prima edizione e quella più recente, solitamente contenuta in uno dei dieci Meridiani che, in teoria, vorrebbero raccogliere l’opera omnia. Di fatto molti testi sono confluiti nei Meridiani in versioni parziali: in quei casi si cita direttamente dalla prima edizione o dall’ultima edizione integrale. I testi stranieri sono citati nella loro lingua, tranne nei casi in cui esista una corrispettiva edizione italiana. Vorrei ringraziare innanzitutto Lucio Caruso e Graziella Chiarcossi per avermi permesso di consultare i documenti in loro possesso. Desidero ringraziare inoltre Guido Bertagna, Roberto Chiesi, Luca Daino, Virgilio Fantuzzi, Mauro Giori, Domitilla Leali, Mario Musumeci, Enrico Nosei, Nicola Scaldaferri, Tullio Seppilli, Marco Vanelli, Davide Zordan. In questo libro confluisce la prima parte di una ricerca più ampia sui rapporti tra Pasolini e la Pro Civitate Christiana, per la quale attualmente usufruisco di un Assegno di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano, sotto la direzione di Raffaele De Berti che ringrazio per il sostegno. Pur proiettata nel futuro, questa ricerca nondimeno affonda le sue radici nel lavoro di tesi di laurea, per il quale furono preziosi i consigli di Giovanni Agosti e di Massimo Gioseffi. Dal lavoro di tesi ad oggi ho potuto contare senza riserve sulla guida sicura di Elena Dagrada, che voglio qui ringraziare di cuore.

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1. Una religiosità “atipica”

1.1. Il dibattito sulla religiosità di Pasolini I primi studi di qualche rilievo sulla religiosità1 di Pasolini sorgono all’indomani de Il Vangelo secondo Matteo, sulla scia del forte impatto mediatico con cui il film si impone a livello sia nazionale sia internazionale. La principale questione affrontata in quegli anni di dialogo tra cattolici e marxisti è la definizione dell’impianto ideologico del film, alla luce del quale si comincia a rileggere l’opera precedente2. A segnare un momento di svolta giunge nel 1994 lo studio di Giuseppe Conti Calabrese3, al quale è ascrivibile il merito di aver indagato, tra le altre cose, l’influenza esercitata su Pasolini dagli storici delle religioni. Nonostante l’indagine di Conti Calabrese sia quasi esclusivamente concentrata sui rapporti con Mircea Eliade, il filone di ricerca risulta aperto, al punto che di lì a poco non mancano di intervenire nel dibattito (sebbene in modo occasionale) gli stessi storici del1

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Occorre distinguere tra “religione” e “religiosità”. Il primo termine indica per il Battaglia il «complesso di dogmi, precetti morali e riti costituenti ciascuno dei vari culti che esistono, o sono esistiti, secondo le molteplici, concrete differenziazioni storiche del senso del sacro presso i vari popoli», il secondo la «convinzione religiosa (non necessariamente e rigidamente legata ai dogmi e ai precetti di una religione positiva, bensì anche liberamente formulata sulla base delle sole istanze razionali o di spinte emotive)» (Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1961-2002, ad vocem). Tale distinzione è puntualizzata dallo stesso Pasolini, in riferimento a sé, nei mesi successivi a Il Vangelo secondo Matteo: «[…] io non sono credente. La mia situazione è quella tipica di molti borghesi come me […] che hanno superato la “fede” infantile attraverso un’educazione prima di tipo laico e liberale, e poi, definitivamente, con l’ideologia marxista. Tuttavia, nel profondo, la fede infantile, i miti, i traumi infantili, specie in uno che faccia poi la professione dello scrittore, sono incancellabili: ed è per questo che si parla tanto spesso – e per forza genericamente – di “religiosità”» (P.P. Pasolini, Religione e religiosità, «Vie Nuove», n. 45, 5 novembre 1964; ora in I dialoghi, a cura di G. Falaschi, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 337). Cfr., ad esempio, M. Bongioanni, Il Vangelo secondo Matteo, «Teatro dei Giovani», 1965, pp. 48-78. G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994.

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le religioni. È quanto avviene nel 1995 a Venzone, dove si svolge un convegno su Pasolini e il sacro, la cui novità, come rilevato dal suo stesso coordinatore, Remo Cacitti, risiede «nell’ottica con la quale è svolto: che non è quella della critica o della storia letteraria, ma è quella degli studi – storici o filosofici – sulla religione»4. Ugualmente, è «da un punto di vista storicoreligioso»5 che nel 1997 Bruno Zannini Quirini si occupa di Medea. Di non minore interesse è un recente articolo di Alessandro Barbato, compendio di una ricerca di tesi di laurea assegnata da Marcello Massenzio, nel quale si legge: Nel corso della sua vicenda umana e intellettuale Pier Paolo Pasolini scoprì in vari storici delle religioni, pur diversamente orientati, altrettanti punti di riferimento per la propria ricerca artistica. Certo egli privilegiò soprattutto quegli studiosi, come Kerényi, Lévy-Bruhl o Eliade, che ponevano l’accento sul côté irrazionale dell’esperienza religiosa; ma nel contempo, con la sua peculiare volontà di giungere a delle sintesi concettuali capaci di conciliare posizioni anche spiccatamente antitetiche, non trascurò coloro (come Angelo Brelich ed Ernesto de Martino) che si ponevano sull’altro versante, quello storicista.6

L’articolo citato si interroga sulle conoscenze pasoliniane in relazione alla storia delle religioni sottolineando, sulla scia di Conti Calabrese, la loro predominante irrazionalistica. Quel che ci proponiamo di fare è verificare cosa accada piuttosto sul versante storicista, quello che con acuta coscienza storica Pasolini stesso definì «la “via italiana” alla storia delle religioni»7, individuandone gli iniziatori in Ernesto de Martino e Raffaele Pettazzoni. Anzitutto occorre rilevare come la stessa frequentazione pasoliniana di Eliade risulti in qualche modo sempre mediata dalla tradizione italiana, che esercita la sua influenza tanto nel momento del primo incontro8 quanto in quello del suo 4 5

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R. Cacitti, Introduzione a Aa.Vv., Su Pasolini e il sacro, Darp Friuli, Udine 1997, p. 13. B. Zannini Quirini, Medea: l’eroe greco, il personaggio euripideo, la creazione pasoliniana, in T. De Mauro, F. Ferri (a cura di), Lezioni su Pasolini, Sestante, Ripatransone 1997, pp. 367-384. A. Barbato, L’ombra dell’Altro: un itinerario nel cinema di Pier Paolo Pasolini, in M. Massenzio, A. Alessandri, De Martino: Occidente e alterità, Biblink (Annali del Dipartimento di Storia, n. 1), Roma 2005, p. 258. P.P. Pasolini, Quando il grande Iddio si mette a ridere (recensione a A.M. Di Nola, Antropologia religiosa, introduzione al problema e campioni di ricerca, Vallecchi, Firenze 1974), «Tempo», 27 settembre 1974; ora in SLA2, p. 2134. È possibile che Pasolini abbia letto Eliade per la prima volta in un’antologia curata da de Martino: cfr. 1.4.

più esplicito utilizzo9. In secondo luogo, va precisato che solo una parte della filmografia pasoliniana è interessata da uno stretto legame con il pensiero di Eliade: quella successiva al biennio 1964-1966, «oltre il quale – secondo Walter Siti – niente è più come prima»10. Fino ad allora il costante punto di riferimento di Pasolini è proprio quel “versante storicista” che gli studi hanno lasciato in ombra e la cui influenza sulla riflessione pasoliniana si configura invece, a nostro avviso, di non minore importanza di quella, già ampiamente indagata11, avuta dall’indirizzo irrazionalista. 1.2. Al cospetto della “comare secca” La questione religiosa nell’opera di Pasolini è determinata da un “problema” (così lo definiva Pasolini12) a monte: il problema della morte. La “comare secca”13 occupa, come noto, il centro dell’opera di Pasolini, tanto di quella letteraria quanto di quella cinematografica: «il tipico 9

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Il consulente a libro paga di Medea (il film maggiormente influenzato dal pensiero di Eliade) è infatti Angelo Brelich, erede di quel Pettazzoni che aveva ricondotto la religione nell’alveo dello storicismo italiano, guardandola come un prodotto storico dell’umana creatività. Brelich fornisce a Pasolini «alcune cartelle dattiloscritte, con la descrizione di diversi riti religiosi […] praticati nell’India vedica, nell’antico Egitto, o presso gli Hittiti, i pellerossa della California, ecc.» (Note e notizie ai testi, in CI2, p. 3140). Il primo a riferire della collaborazione di Brelich è stato Natale Spineto (Pier Paolo Pasolini e il sacro. L’Appunto 55 di Petrolio, in Aa.Vv., Su Pasolini e il sacro, cit., p. 20), informato di ciò da Giulia Piccaluga, allora assistente di Brelich. Spiega il motivo per cui il nome di Brelich sia rimasto per tanti anni nell’ombra una lettera datata 26 novembre 1969 inviata a Pasolini dall’allora docente di Storia delle religioni all’Università “La Sapienza” di Roma: «Caro Pasolini, dopo il nostro ultimo incontro non ho più avuto (se non sui giornali) notizie sue e della Medea. Ma poiché leggo che il film è ancora in fase di montaggio, spero di fare in tempo a pregarla di non farvi figurare in alcun modo il mio nome. Lei sa benissimo che la mia non è stata una “consulenza scientifica”, di cui, del resto, lei non aveva bisogno; e capirà facilmente che ciò che artisticamente sarà – ne sono sicuro – valido nelle scene dei riti, “scientificamente” mi comprometterebbe. […]» (Note e notizie ai testi, in CI2, p. 3140). Walter Siti, L’opera rimasta sola, in PO2, p. 1931. Cfr. G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, cit.; N. Spineto, Pier Paolo Pasolini e il sacro…, cit.; B. Zannini Quirini, Medea…, cit.; M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1998; A. Barbato, L’ombra dell’Altro…, cit. P.P. Pasolini, Intervista con Pier Paolo Pasolini, a cura di L. Faccini e M. Ponzi, «Filmcritica», a. XVI, nn. 156-157, aprile-maggio 1965; ora in CI2, p. 2885. Si intitola La comare secca sia l’ultimo capitolo di Ragazzi di vita sia il trattamento con cui Pasolini avrebbe dovuto esordire nel 1960 (ora in CI2, pp. 2613-2633) se non fosse emerso, con maggiore urgenza, il progetto di Accattone. Come è spiegato in Note e notizie sui testi, CI2, p. 3216, l’espressione è ripresa «dal Belli, dove “la Commaraccia Secca” (vedi il sonetto Er tisico, vv. 13-4) è nome popolare dato a un’effige della Morte nella chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte in via Giulia».

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finale tragico, con la rappresentazione diretta della morte»14 si configura come uno dei luoghi pasoliniani per antonomasia. Intorno alla morte ruota inoltre la riflessione sul cinema elaborata negli anni Sessanta, che ne ribadisce anche sul piano teorico il ruolo cardine: L’uomo [...] si esprime soprattutto con la sua azione [...] perché è con essa che modifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa azione manca di unità ossia di senso, finché essa non è compiuta. [...] Finché io non sarò morto nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso [...]. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi, [...] e li mette in successione, facendo del nostro presente [...] un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile [...]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.15

Per Pasolini tanto il cinema quanto l’esistenza sono decifrabili unicamente dopo il “montaggio” operato dalla morte, che per questa via si configura pertanto come “necessaria”. Non è difficile riconoscere all’origine di una tale prospettiva il bisogno di fornire alla morte una spiegazione16. Pasolini coltiva l’idea della propria morte – intesa, fin dal giorno della morte del fratello, quale supremo atto sacrificale17 – come una vera e pro14 15

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M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 174. P.P. Pasolini, La paura del naturalismo (Osservazioni sul piano-sequenza), «Nuovi Argomenti», n.s., n. 6, aprile-giugno 1967; ora in SLA1, pp. 1560-1561. Si tratta della relazione con cui Pasolini interviene alla Terza Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (27 maggio-4 giugno 1967). In I sintagmi viventi e i poeti morti, «Rinascita», a. XXIII, n. 33, 25 agosto 1967; ora in SLA1, p. 1574, Pasolini torna sulla relazione di Pesaro esplicitandone alcuni passaggi e giungendo alla perentoria conclusione: «Da ciò la ragione della morte». Guido Pasolini raggiunse i partigiani della divisione Osoppo sui monti della Carnia nel maggio del 1944. Così Pasolini racconta a Luciano Serra, in una lettera datata 21 agosto 1945, la morte del fratello: «Gli osovani di quella zona, a capo dei quali era De Gregoris (Bolla) col suo stato maggiore a cui apparteneva Guido, non vollero piegarsi alle richieste slavo-comuniste di passare nelle file del nostro nemico Tito. [...] Un gruppo di disoccupati e facinorosi che militavano tra i garibaldini della zona, fingendosi scampati da un rastrellamento, si fanno ospitare da Bolla e i suoi; poi, improvvisamente gettano la maschera, fucilano Bolla, gli levano gli occhi [...]. Quel giorno mio fratello si trovava a Musi con Roberto ed altri, e stava recandosi da Bolla per portargli alcuni ordini; ed ecco che sentono le prime fucilate, e vedono uno fuggente, che dice loro di scappare, tornare indietro, che non c’è nulla da fare. Tutti si lasciano convincere a ritirarsi. Ma mio fratello e Roberto [R. d’Orlandi], no; vogliono andare a vedere, a portare il loro aiuto» (LE1, pp. 197-201). Nella stessa lettera emerge in modo evidente la lettura sacrificale che Pasolini diede della morte del fratello: «E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore […] egli si è scelto la morte, l’ha voluta [...]. Ora tut-

pria ossessione, figurandosela e mostrandocela innumerevoli volte per il tramite della crocifissione di Cristo. La figura di Cristo è infatti l’archetipo18 di colui al quale è necessario morire per dare un senso alla vita, alla propria come a quella altrui: è cioè la dimostrazione mitica dell’assunto pasoliniano per cui è necessario morire. Il processo per cui la morte di Cristo, con la sua necessità, viene trasferita sugli eroi pasoliniani è esemplificato dal finale de La ricotta. Che per Stracci fosse necessario morire viene spiegato, in termini quanto mai espliciti, dalla battuta con cui Welles porta a chiusura il film e il processo di sovrapposizione della figura di Cristo a quella del protagonista: «Povero Stracci! Crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione»19. Come Cristo, che per dare senso compiuto alla propria rivoluzione è dovuto morire, muore dunque anche Stracci. La morte si configura nell’opera pasoliniana come la realtà da mediare per eccellenza, ciò che per definizione non può essere vissuto nella sua immediatezza e che richiede di essere velato. Velare la realtà della morte significa proiettarla su un piano simbolico nel quale vengano spersonalizzati tanto il morto, quanto il comportamento di chi resta. Tra i vari modelli culturali elaborati dall’uomo nel corso della sua storia attraverso i quali guardare alla morte senza esserne scioccati, quello ereditato e incessantemente lavorato da Pasolini, attraverso la letteratura prima e il cinema poi, affonda le proprie radici nel simbolismo cristiano: è il mito di Cristo che muore e resuscita. Nell’atto di velare la morte, assegnandole un senso simbolico attinto dal patrimonio mitico del cristianesimo, l’opera di Pasolini si apre alla dimensione del sacro: La morte determina la vita, io sento così […]. Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito. Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’e-

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to questo amore che quel ragazzo aveva per me e i miei amici, tutta quella sua stima per noi e per i nostri sentimenti (per i quali è morto) mi tormentano sempre [...]. L’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio» (ivi, p. 198). È lo stesso Pasolini ad usare il termine in un’intervista filmata trasmessa dalla Rai l’8 marzo 1974 all’interno di una serie (intitolata Cristianesimo e libertà dell’uomo) del programma Sapere. Alla domanda «Per lei chi è Gesù?», Pasolini risponde: «Come archetipo di ogni possibile rapporto con il mondo è il più alto che io conosca perché sono nato nel ’22 e sono stato educato in Friuli» (cfr. Archivio Rai Teche, consultato presso Mediateca S. Teresa di Milano). In seguito al processo per vilipendio della religione di Stato (di cui in 2.4.1), la battuta divenne: «Povero Stracci! Crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo». Cfr. L. Betti, M. Gulinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, cit., p. 69.

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pico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico.20

Il rapporto condizionante che, per Pasolini, la morte intrattiene con la vita sfiora il fatto religioso perché, da un lato, la morte è riconosciuta come sacra (“il massimo del mito”) e perché, dall’altro, tale realtà sacra condiziona la vita al punto da “determinarla”21. Tale condizionamento si configura per Pasolini come ineluttabile. Quand’anche infatti il socialismo risolvesse il problema del condizionamento sociale, l’uomo si troverebbe comunque a dover fare i conti con il condizionamento determinato dalla morte, ovvero con un problema di natura religiosa: […] il marxista deve porsi di fronte al momento religioso dell’umanità. Ci sarà sempre un momento irrazionale, religioso […] quando l’uomo avrà davanti a sé, finita l’oppressione di classe, solo la sua natura umana, la morte.22

Il condizionamento che può derivare dalla morte è spiegato da un celebre testo di Ernesto de Martino: l’uomo di fronte alla morte fa l’esperienza del «“radicalmente altro” che sgomenta» in quanto «rischio radicale di 20

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P.P. Pasolini, Pasolini on Pasolini, a cura di O. Stack [pseudonimo di J. Halliday], Thames and Hudson, London / New York 1969; tr. it., Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992; ora in SPS, pp. 1318-1319. Per una definizione del fatto religioso di matrice teologica cfr. G. Ragozzino, Il fatto religioso. Introduzione allo studio della religione, EMP, Padova 1990, p. 17: «Ricercando l’essenza del fatto religioso, ci pare che l’aspetto primario della religione possa riconoscersi nella instaurazione di un rapporto di natura non visibile, per quanto sperimentabile, con una realtà che diciamo “sacra” e che costituisce un superum e un prius, concepiti come condizionanti l’esistenza stessa del mondo». Per un approccio più problematico al concetto cfr. G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Einaudi, Torino 2004, p. 75-126: «una definizione della religione dovrebbe tener conto del fatto che in genere i fenomeni religiosi presuppongono una relazione triangolare tra un dato teologico o ideologico (la dimensione della parola sacra, della credenza, della dottrina, della riflessione teologica), un dato pratico o rituale (la dimensione dell’azione) e la base sociale delle credenze e delle pratiche (dal momento che non esiste una religione individuale)» (ivi, p. 86). P.P. Pasolini in M.A. Macciocchi, Cristo e il marxismo, «l’Unità», 22 dicembre 1964, p. 3. Risulta al riguardo emblematica la conferenza stampa veneziana per Il Vangelo secondo Matteo nel corso della quale Pasolini invita a riflettere sulla morte di Gramsci in carcere («non […] meno cristiana di quelle che avvengono col cappellano ai bordi del letto»: in G. Carnazzi, Un Cristo recuperato attraverso la memoria, «Relazioni Sociali», 5 dicembre 1964) e sulle immagini dei compagni che si fanno il segno della croce durante i funerali di Togliatti. Qualche mese dopo Pasolini dirà a Lucio Caruso di intendere per “religione” il binomio «mistero e morte»: cfr. lettera di Caruso del 7 ottobre 1965 in CI2, p. 3092.

non esserci, l’alienarsi della presenza»23. Sono questi i termini con cui Morte e pianto rituale traduce il Ganz Andere, ovvero il concetto di “sacro” fissato negli anni Dieci da Rudolf Otto24. Nelle molte occasioni in cui si è riferito al concetto di sacro, Pasolini non ha mai nominato Otto: se vi è entrato in contatto (come la sua opera lascerebbe intendere), è stato per via indiretta, attraverso le letture di storia delle religioni che a più riprese dà prova di aver fatto fino al termine della sua vita25. Un breve compendio del pensiero ottiano si trova ad esempio in testa a Mircea Eliade, Das Heilige und das Profane, posseduto da Pasolini nell’edizione francese, Le sacré et le profane, edita da Gallimard nel 196526. Come abbiamo già rilevato, la storia dei rapporti intrattenuti dal cinema di Pasolini con il concetto di sacro vede una cesura nel biennio 1964-1966, nel corso del quale non è improbabile che Pasolini abbia letto Le sacré et le profane. Di fatto, è proprio nella seconda metà degli anni Sessanta che il cinema pasoliniano (con Teorema e con Medea in particolare) comincia a riferirsi al concetto di sacro come ad una realtà di ordine metafisico. Nella prima metà degli anni Sessanta, invece, il concetto di sacro rinvenibile nell’opera pasoliniana parrebbe piuttosto filtrato dal de Martino di Morte e pianto rituale27. Non è distinzione irrilevante, se è vero che «nel fare sua 23

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E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958; ora con il nuovo titolo Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 20003 (da cui d’ora in poi si cita), p. 38. Cfr. R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalem, Breslau 1917; tr. it., Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, N. Zanichelli, Bologna 1926; poi Feltrinelli, Milano 1966; ora Feltrinelli, Milano 1984. Il volume non è tra quelli conservati nella biblioteca di Pasolini (comunicazione personale di G. Chiarcossi). Otto individua nella categoria del sacro il momento centrale e costitutivo dell’esperienza religiosa. L’essenza del sacro, definita con il termine das Numinöse, risiede nel rapporto ambivalente di timore e venerazione che caratterizza l’incontro dell’uomo con ciò che è «ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale» (ivi, p. 17). Tale ambivalenza trova espressione nella celebre definizione del sacro come mysterium tremendum et fascinans. Le ultime sono documentate dalle recensioni, scritte il 30 agosto e il 27 settembre 1974 su «Tempo», di M. Eliade, Mito e realtà, Rusconi, Milano 1974 e di A.M. Di Nola, Antropologia religiosa…, cit.; ora in SLA2, rispettivamente alle pp. 2113-2118 e 2134-2137. M. Eliade, Das Heilige und das Profane, Rowohlt, Hamburg 1957; tr. fr., Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1965; tr. it., Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967. Il volume è tuttora conservato nella biblioteca di Pasolini (comunicazione personale di G. Chiarcossi). Cfr. in particolare E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., pp. 36-42, dove viene fornita una sintesi dell’impianto teorico ottiano e sottolineato «il carattere dialettico del nesso che lega il rischio della perdita della presenza e la sfera del sacro» (ivi, p. 37). Cfr. anche E. de Mar-

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tale nozione [il concetto di sacro come “radicalmente altro”], de Martino ribalta l’impostazione filosofica di Otto, trasformando l’alterità radicale del sacro da dato metafisico assoluto in rischio concreto, terrestre di alienazione dell’umano»28. Ernesto de Martino e Mircea Eliade sono le due figure principali con cui, nell’ordine, la riflessione pasoliniana sul sacro entra in dialogo. Se i rapporti con il secondo sono già stati studiati, quelli con il primo risultano ancora tutti da indagare29. 1.3. La “teoria del sacro” di Ernesto de Martino Scontrandosi con non poche resistenze interne al PCI30, de Martino fornisce alla cultura progressista italiana degli anni Cinquanta e Sessanta la

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tino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, «Nuovi Argomenti», n. 37, marzo-aprile 1959, pp. 4-48, del quale Pasolini ha letto, se non l’originale, certamente l’estratto antologizzato in F. Fortini (a cura di), Profezie e realtà del nostro secolo, Laterza, Bari 1965, pp. 531-551. M. Massenzio, Introduzione a E. de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, pp. 21-22. Come meglio si vedrà in 1.3, la dimensione del “radicalmente altro” è implicata, nella teoria del sacro demartiniana, dalla nozione di “destorificazione religiosa”, che proietta il piano propriamente umano della storia sul piano “radicalmente altro” (o sacro) del mito (cfr. M. Massenzio, Il problema della destorificazione, in C. Gallini, a cura di, Ernesto de Martino. La ricerca e i suoi percorsi, «La ricerca folklorica», n. 13, aprile 1986, pp. 25-26). Risulta emblematica dello stadio attuale della ricerca una nota di R. Calabretto, “Portate dal vento… le allegre musiche popolari, cariche di infiniti e antichi presagi”. La musica nella “trilogia classica” di Pier Paolo Pasolini, in E. Fabbro (a cura di), Il mito greco nell’opera di Pasolini, Forum, Udine 2004, p. 156, che definisce i rapporti di Pasolini con de Martino «ben visibili ma purtroppo poco documentati», ricorda l’assegnazione nel 1960 del Premio Crotone a Sud e magia di de Martino e a Una vita violenta di Pasolini e conclude: «A parte quest’episodio, null’altro è rintracciabile sulla loro amicizia e collaborazione, come ci ha confermato Chiara Gallini e lo stesso Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino. Vittoria de Palma ricorda alcuni incontri romani, forse dovuti a comuni frequentazioni più che a forme reali di collaborazione o di scambi (intervista telefonica a Clara Gallini, 5 settembre 1997, e lettera, della stessa, del 17 settembre 1997)». Da noi nuovamente contattato, l’Istituto Ernesto de Martino forniva nel 2007 sostanzialmente la stessa risposta di dieci anni prima. Ci si può fare un’idea dei rapporti problematici intrattenuti da de Martino con il PCI leggendo lo studio di Pietro Angelini sulla difficile vita della collana di studi religiosi, etnologici e psicologici diretta da Cesare Pavese (con l’aiuto di de Martino) e poi dallo stesso de Martino per Einaudi. Il motivo per cui de Martino è «attaccato indirettamente da Togliatti, da Salinari e da Donini, ed esplicitamente prima da Fortini e poi da Alicata», è presto spiegato: «[...] è proprio l’oggetto delle sue ricerche – il magico nel quadro dell’arretratezza culturale – e la comprensione etnologica di esso – intessuta di vibrante pietas storica – che sembrano esulare dal campo e dagli intendimenti del marxismo che circolava in Italia» (P. Angelini, Introduzione a C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 41).

possibilità di pensare storicisticamente il fatto religioso senza snaturarlo o degradarlo: è un passaggio fondamentale, tanto quanto l’avvento di Roncalli al soglio pontificio, perché divenga possibile un film come Il Vangelo secondo Matteo. Nella Prefazione alla prima edizione italiana del Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, de Martino espone il presupposto fondamentale intorno cui, a suo avviso, ruota ogni fatto religioso: «l’aspirazione religiosa fondamentale [è] l’evasione dalla storia»31. Che la filmografia pasoliniana sia profondamente interessata da tali forme di evasione – sebbene non di rado accompagnate da altrettanto forti spinte demitizzanti – è facilmente rilevabile. Per convincersene basta anche solo scorrere i “commenti d’autore” che Pasolini regolarmente rilasciava prima e dopo l’uscita dei suoi film. Quelli relativi a Il Vangelo secondo Matteo risultano particolarmente emblematici: Raccontando la storia di Cristo non volli ricostruire Cristo come effettivamente fu. Se avessi ricostruito la storia di Cristo qual era non avrei fatto un film religioso, perché non sono un credente. Non credo che Cristo sia il figlio di Dio. Avrei fatto al massimo una ricostruzione positivista o marxista, e quindi nel migliore dei casi la storia di una vita che avrebbe potuto essere quella di uno qualsiasi dei cinque o seimila santoni che a quel tempo predicavano in Palestina. […] Non volevo ricostruire la vita di Cristo come fu veramente; volevo invece fare la storia di Cristo più duemila anni di tradizione cristiana, perché sono stati duemila anni di storia cristiana a mitizzare quella biografia, che altrimenti, come tale, sarebbe stata quasi insignificante.32

Altrove Pasolini ribadiva: «Il mio interesse principale, il mio obiettivo non era la storia, ma il mito»33; «Ho fatto un film in cui si esprime, attraverso un personaggio, l’intera mia nostalgia del mitico, dell’epico e del sacro»34. Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo la lettura di Eliade, Pasolini porrà l’indagine sul sacro programmaticamente alla base dell’intera sua opera: 31 32 33 34

E. de Martino, Prefazione a M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954, p. IX. P.P. Pasolini, Pasolini on Pasolini, cit.; ora in SPS, pp. 1336-1337. P.P. Pasolini, Intervista con Pier Paolo Pasolini, cit.; ora in CI2, p. 2881. P.P. Pasolini, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, intervista a cura di J. Duflot, Belfond, Paris 1970; 2a edizione accresciuta: Pier Paolo Pasolini. Les dernières paroles d’un impie. Entretiens avec Jean Duflot, Belfond, Paris 1981; tr. it., Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1983; ora in SPS, p. 1422.

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La permanence des grands mythes dans le contexte de la vie moderne m’a toujours frappé, mais plus encore l’incessante ingérence du sacré dans notre vie quotidienne. C’est cette présence, à la fois indiscutable, et qui éschappe à l’analyse rationelle que je tente de cerner dans mon œuvre écrite ou filmée [...].35

Fa luce su tali forme di evasione dalla storia (vale a dire sulla dialettica storia-mito alla base della religiosità pasoliniana) la “teoria del sacro” di Ernesto de Martino. Elaborata nel corso degli anni Cinquanta sulla rivista di Raffaele Pettazzoni, «Studi e materiali di storia delle religioni», la “teoria del sacro” di de Martino si sviluppa attorno alla nozione di “presenza”, intesa come «movimento che trascende la situazione nel valore»36. La “presenza”, per de Martino, definisce la capacità dell’uomo di porsi di fronte alle situazioni in cui storicamente si trova coinvolto secondo modalità culturalmente attive, in grado di conferire loro un significato (il valore). Tuttavia, tale dinamismo culturale è labile, costantemente minacciato da eventi o circostanze che possono metterlo in “crisi”37. I fattori che provocano la “crisi della presenza” sono definiti da de Martino il negativo dell’esserci nel mondo, la consapevolezza del quale scatena l’angoscia dei soggetti. Proporzionalmente alla gravità dell’angoscia che si impadronisce di loro, i sintomi che i soggetti manifestano possono essere diversi: tremore, afasia, depressione, panico, esplosioni di violenza, fino alla cosiddetta “ebetudine stuporosa” (così de Martino definisce lo stato di catatonia in cui la presenza, nei casi più gravi, letteralmente si perde). La caratteristica di tutte queste manifestazioni (anche nelle loro forme più lievi) è l’essere irrelate: i soggetti vittime della “crisi della presenza” non sono in grado di mettere in relazione la propria sofferenza con una causa né, di conseguenza, con una possibile risoluzione. La magia è per de Martino una risorsa culturale che permette di risolvere la crisi della presenza. Ugualmente, ma su un piano culturale più complesso, opera la religione. 35 36

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P.P. Pasolini, Pasolini sur Théorème, intervista a cura di A. Capelle, «La Quinzaine littéraire», n. 68, 1-15 marzo 1969, p. 25. E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 103. Il concetto demartiniano di “presenza” è elaborato a partire dal Dasein heideggeriano. Sulle modalità con cui de Martino rilegge Heidegger cfr. M. Massenzio, Introduzione a Ernesto de Martino, Storia e metastoria…, cit., pp. 22-26. Come meglio si vedrà in 1.5, tra le varie forme di crisi che minacciano l’integrità della presenza quella che forse sporge maggiormente è la “crisi del cordoglio”.

Interessato non tanto all’aspetto dottrinale del fenomeno religioso quanto piuttosto all’ambito della prassi, de Martino studia il rito in quanto tecnica fondata sulla ripetizione di un modello mitico: De Martino legge la ripetizione rituale come una forma di arresto deliberato, istituzionalizzato, del flusso del divenire profano: arresto che media l’evasione nel regno extratemporale delle origini mitiche, al cui interno si trovano i modelli di risoluzione delle varie crisi che compromettono l’integrità della presenza. Si tratta di modelli sacri, dotati di validità permanente, che occorre iterare al fine di rendere certo il deflusso delle crisi che di volta in volta fanno la loro comparsa. […] il simbolismo religioso attiva un processo in virtù del quale ogni situazione contingente ‘negativa’ è culturalmente assunta non per quello che essa oggettivamente è, ma in quanto replica di una situazione analoga, dotata di valore esemplare, situata al di fuori della durata irreversibile. […] De Martino parla di “destorificazione religiosa” per sintetizzare la complessa dinamica culturale di cui abbiamo appena illustrato le linee essenziali; grazie all’efficacia della tecnica destorificante ciascuna delle crisi contingenti perde il carattere di novità che la rende inquietante a causa dell’imprevedibilità dell’esito finale. […] In definitiva, i dispositivi religiosi consentono di affrontare le situazioni rischiose per la presenza umana non in modo immediato, ma attraverso il velo protettivo dei simboli.38

La religiosità di Pasolini si inquadra in tale dinamica, transitando senza sosta tra processi di destorificazione e processi di demitizzazione39. L’opposizione che plasma il mondo religioso pasoliniano, e che Massimo Fusillo individua «fra il Cristo umano e diverso e il Dio autoritario e oppressivo»40, di fatto è riflesso dell’opposizione tra il mito (di Cristo) e la storia (della sua Chiesa autoritaria). Tale dialettica trova nel corso degli anni Sessanta alcune formule, seppur parziali, di sintesi41, acuendosi sempre più a ridosso degli anni Settanta. Negli Appunti per un’Orestiade 38 39

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M. Massenzio, La religione cristiana vista da Ernesto de Martino, cit., p. 133. Lo stesso Pasolini ha affermato: «[…] da un parte, sì, la mia formazione razionalistica, il mio atteggiamento razionale e storicistico nell’interpretare il mondo, fa sì che io lotti contro gli idoli, ma, al tempo stesso, ambiguamente, io continui ad adorare questi idoli perché parte di me stesso è ancora immersa in un mondo mitico e irrazionale» (P.P. Pasolini, L’ultima Medea, intervista a cura di V. Pisanelli Stabile, «la rassegna», a. IV, n. 1, gennaio 1970, p. 60). Tale dialettica si inserisce coerentemente nel sistema delle antitesi pasoliniane, fissato in F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, «Il Menabò», n. 2, 1959; ora in Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, pp. 21-22. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 7. La rielaborazione del mito di Cristo ne Il Vangelo secondo Matteo ad esempio risponde ad esigenze formulate da contesti storicamente definiti: il Vaticano II, il dialogo tra marxisti e cattolici, il centro-sinistra.

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africana (1968-1969, data delle riprese) e in Medea viene avanzata per l’ultima volta la prospettiva di un progresso armonico che assorba le culture arcaiche, sulla base della constatazione che sempre «ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata»42. Negli anni Settanta a Pasolini sembrerà invece che la storia abbia definitivamente cancellato dal proprio orizzonte la dimensione del sacro su cui le antiche civiltà contadine erano fondate e che il dialogo tra la storia e il mito sia ormai divenuto impossibile. All’interno di tale dinamica, il “problema della morte” si configura come una vera e propria miccia d’innesco, ciò che di fatto spinge Pasolini ad interrogare il piano del mito43. L’insondabile mistero della morte è infatti il problema non demitizzabile, e dunque da destoricizzare, per eccellenza: Io avrei potuto demistificare – dichiara Pasolini terminato Il Vangelo secondo Matteo – la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma, poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile.44

Il mistero in cui è avvolta la morte, la sua irriducibilità, ne fa qualcosa di sacro45, per relazionarsi con il quale Pasolini necessita del “velo protetti42 43

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P.P. Pasolini, Medea. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1970; ora in CI1, p. 1280. In questa direzione si mosse da subito L. Micciché, Il cinema italiano degli anni ’60, cit., p. 158: «La morte è in Pasolini non già, o non tanto, il biochimico concludersi dell’esistere biologico, quanto la legge caratterizzante dell’esistenza […]. Una siffatta idea del Thanatos che sovrasta ogni umano operare, è metastorica per definizione poiché non coincide che in un solo momento (l’atto del fisiologico morire) con l’esistere storico. Al tempo stesso l’unico modo di esorcizzare tale incalzante fantasma è quello di inserirlo in un tessuto mitico, facendone l’ultima conclusiva maglia. Nasce da qui, a nostro avviso, e non importa quanto conscia, l’astrazione metastoricizzante (e sostanzialmente mistica e metafisica) del cinema pasoliniano». P.P. Pasolini, Intervista con Pier Paolo Pasolini, cit.; ora in CI2, pp. 2885-2886. Il termine “demistificare” è usato da Pasolini sempre come sinonimo di demitizzare. Si veda ad esempio l’uso che ne fa nel seguente brano, di qualche mese prima: «Credo […] che nella nuovissima generazione dei futuri dirigenti cattolici sia in gran parte demistificato il mito anticomunista» (P.P. Pasolini, I problemi sul tappeto, «Vie Nuove», n. 42, 15 ottobre 1964; ora in SPS, p. 1028). A sua volta il termine “mitico” è spesso associato ai termini “religioso” e “sacro”, di modo che demistificare, demitizzare e dissacrare coincidono: «I preferred to leave things in their religious state, that is, their mythical state» (P.P. Pasolini, An Interview with James Blue, «Film Comment», a. IV, n. 3, 1965, p. 26). «La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l’uomo, non potendo dominare, avverte come

vo dei simboli”, elaborato a partire dal patrimonio mitico del Friuli contadino. Cogliendo l’incessante invito di de Martino ad interpretare il Cristianesimo come la «maestosa elaborazione di un lutto esemplare»46, Pasolini trova il velo protettivo di cui necessita nell’archetipo di Cristo. Ma, come si diceva, si tratta di una dialettica che ai momenti di destorificazione fa seguire processi di demistificazione, in perfetta aderenza con la “teoria del sacro” di de Martino, per il quale «la fuga dalla storia […] è una finzione, che giova a stare nella storia “come se” non ci si stesse, e ha quindi carattere tecnico e transitorio»47: Se la destorificazione religiosa fosse effettivamente salvezza dalla esistenza umana, rifiuto radicale e definitivo della storicità, ne risulterebbe una insanabile opposizione fra religione e cultura, e resterebbe senza spiegazione il fatto che le civiltà hanno tratto alimento dalla vita religiosa – che la religione greca rese possibile la poesia di Omero e la religione cristiana la poesia di Dante. Al contrario, sebbene la destorificazione religiosa sia vissuta dal credente come rifiuto della “condizione umana”, ciò che da essa procede non è una reale destorificazione (che nella forma più conseguente dovrebbe dar luogo al suicidio fisico o psichico), ma il dispiegarsi delle potenze operative dell’uomo, onde all’ombra del divino si matura l’umano, e per entro il sacro si dischiude il profano e il laico.48

La funzione della magia, ovvero di ogni sistema religioso, ovvero di ogni strumento cui viene assegnato un valore mitico-rituale, è contribuire alla «salvezza della presenza, ma non già dalla storia, sibbene nella storia, onde attraverso la magia e i suoi istituti la presenza, che non si mantiene davanti al divenire storico, cerca di “esserci” in qualche modo in esso, secondo i tempi e i modi di un dramma esistenziale caratteristico»49. Per de Martino, insomma, la fuga “transitoria” dalla storia ha il compito di aiutare a stare nella storia: «nella magia e nella religione la ritualità dell’agire media, attraverso l’orizzonte mitico, una piena reintegrazione culturale»50.

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superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione […] pensata come “separata” e “altra” rispetto al mondo umano» (U. Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 13). P. Angelini, L’uomo sul tetto, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 102. Ivi, pp. 96-97. E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, «Studi e materiali di storia delle religioni», aa. XXIV-XXV, 1953-1954; ora in E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 63. E. de Martino (recensione a M. Eliade, Le Mythe de l’éternel retour, archétypes et répétition, Gallimard, Paris 1949; Psycologie et histoire des religions, à propos du symbolisme du ‘Centre’, «Eranos Jahrbuch», XIX, 1951, pp. 247-282; Le Chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, Paris 1951), «Studi e materiali di storia delle religioni», a. XXIII, 1951-1952; ora in P. Angelini, L’uomo sul tetto, cit., p. 114. E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 33.

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Il fatto religioso, in definitiva, è interpretato da de Martino nei termini di una “destorificazione istituzionale” che protegga dalla “destorificazione irrelativa”, il cui sbocco sarebbe nella perdita della presenza, e consenta in sostanza la «reintegrazione culturale della destorificazione» 51: ugualmente, quando affronta la realtà della morte, l’opera di Pasolini mette in opera processi di destorificazione regolamentata (cioè disciplinata culturalmente), in grado di assegnare valore ad una realtà che, qualora non fosse velata, condurrebbe ad una destorificazione irrelativa e alla perdita della presenza. 1.4. Ernesto de Martino nell’opera di Pasolini Pasolini e de Martino hanno avuto, nel corso della prima metà degli anni Cinquanta, numerosi contatti diretti. Tullio Seppilli (allora assistente di de Martino) ricorda in particolare la frequentazione da parte di Pasolini del Centro Etnologico Italiano, associazione romana vicina al PCI, attorno a cui si costituisce tra il 1953 e il 1955 un gruppo di lavoro di ispirazione gramsciana. Oltre che con Seppilli, Pasolini ha modo di confrontarsi con Giovanni Battista Bronzini, Romano Calisi, Franco Cagnetta, Diego Carpitella, Alberto Mario Cirese, Vittorio Lanternari, e naturalmente de Martino, che tiene la presidenza del Centro fino al 195452. Se il motivo di tali frequentazioni è certamente il Canzoniere italiano53, il collante gramsciano del gruppo ci suggerisce di leggere quell’esperienza al di là della sua contingenza e di riconoscerle un ruolo formativo non trascurabile54. 51

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E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, «Studi e materiali di storia delle religioni», a. XXVIII, n. 1, 1957; ora in E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 80. Comunicazione personale di T. Seppilli. Cfr. anche F. Marano, Il film etnografico in Italia, Pagina, Bari 2007, p. 17. P.P. Pasolini, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Guanda, Parma 1955. In una lettera del 31 agosto 1953 Pasolini chiede consiglio a Gianfranco D’Aronco per il Canzoniere italiano specificando: «Toschi e De Martino [...] mi hanno promesso qualche aiuto qui a Roma» (LE1, p. 595). Cfr. anche la lettera del 18 gennaio 1956 a Fortini (che rimproverava al Canzoniere di avere trascurato l’«integrazione estetica» della musica) in cui Pasolini parla di un originario accordo con Diego Carpitella «per fare un’appendice musicale all’antologia» (LE2, p. 152). Sono del resto diversi i luoghi dell’opera pasoliniana degli anni Cinquanta che fanno esplicito riferimento agli studi di de Martino. Cfr., tra gli altri, P.P. Pasolini, Poesia popolare e poesia d’avanguardia, «Paragone», a. VI, n. 64, aprile 1955; ora in SLA1, pp. 595 e 598, in cui Pasolini dà prova di avere recepito immediatamente le spedizioni lucane.

Tra il 1958 e il 1961 de Martino pubblica i suoi libri più noti: Morte e pianto rituale (Einaudi, Torino 1958), Sud e magia (Feltrinelli, Milano 1959), La terra del rimorso (Il Saggiatore, Milano 1961). La conoscenza, da parte di Pasolini, di Morte e pianto rituale è attestata dalla collaborazione, nel 1960, a Stendalì (Suonano ancora) di Cecilia Mangini, documentario di ispirazione demartiniana su una lamentazione funebre eseguita da alcune donne di Martano, per il quale Pasolini traduce alcuni canti funebri greco-salentini a suo tempo studiati per il Canzoniere55. Il volume di Morte e pianto rituale è tuttora conservato presso la biblioteca di Pasolini, insieme ad un altro libro demartiniano di non minore influenza56: Magia e civiltà (Garzanti, Milano 1962), un’antologia curata da de Martino che propone in chiusura di volume un lungo estratto di Sud e magia57 (vincitore, nel 1960, insieme ad Una vita violenta, del Premio Crotone58). Con Magia e civiltà Pasolini incrocia inoltre alcuni studiosi destinati a incidere con forza sulla sua opera della seconda metà degli anni Sessanta: è in questa antologia infatti che legge per la prima volta il James Frazer di The Golden Bought (Macmillan, London 1911), il Lucien Lévy-Bruhl di L’expérience mystique et les symboles chez les primitifs (Alcan, Paris 1938) e soprattutto il Mircea Eliade di Le mythe de l’éternel retour (Gallimard, Paris 1949). Che tali incontri siano stati mediati dalle introduzioni e dai commenti critici di de Martino non ci pare un fatto trascurabile. Le occasioni che Pasolini ha nel corso dei successivi anni Sessanta di leggere de Martino non si contano. Ne segnaliamo solo una. Tra i saggi antologizzati da Franco Fortini in Profezie e realtà del nostro secolo (Laterza, Bari 1965), sulla cui importante influenza ha più volte insistito Walter Siti59, vi è anche un estratto da un saggio demartiniano, nel quale «lo studioso di storia delle religioni»60 denuncia il pericolo del venir 55

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Su questo film e sul gruppo dei documentaristi demartiniani si veda G. Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù. Ernesto de Martino e il cinema etnografico, Palomar, Bari 2006 e F. Marano, Il film etnografico in Italia, cit. Comunicazione personale di G. Chiarcossi. Feltrinelli, Milano 1959, pp. 110-129. Cfr. A. Furfaro, La Calabria di Pasolini, Periferia, Cosenza 1990, p. 39, in cui sono pubblicate anche due foto che ritraggono insieme Pasolini e de Martino (ivi, pp. 49-50). Sulle valenze “politiche” di quel premio cfr. G.C. Ferretti, Sedici anni di ricordi. 1959-1975 in F. Colombo, G.C. Ferretti, L’ultima intervista di Pasolini, Avagliano, Roma 2005, p. 17: «Si dovette verosimilmente ad Alicata la premiazione di Una vita violenta al premio Crotone, presieduto da Giacomo Debenedetti». Cfr., Note e notizie sui testi, in TE, p. 1159 e W. Siti, L’opera rimasta sola, cit., p. 1931. F. Fortini, Profezie e realtà del nostro secolo, cit., p. 531.

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meno del senso del sacro nella società contemporanea, gettando il seme di quel che diverrà, qualche anno dopo, un vero e proprio leitmotiv pasoliniano: […] il sacro è entrato in agonia e davanti a noi sta il problema di sopravvivere come uomini alla sua morte, senza correre il rischio di perdere – insieme al sacro – l’accesso ai valori culturali umani, o di lasciarci travolgere dal terrore di una storia cui non fa da orizzonte o da prospettiva la meta-storia mitico-rituale.61

Accade così che, a partire dai primi anni Sessanta, riferimenti al pensiero di de Martino facciano capolino in testi pasoliniani di vario argomento: il loro utilizzo fuori dall’ambito specialistico (come ancora avveniva negli anni Cinquanta) ne attesta l’avvenuta acquisizione. Per non fare che l’esempio più eclatante, è attraverso de Martino che Pasolini teorizza la diversità antropologica del sottoproletariato su cui si fonda uno dei principali assi oppositivi della sua opera. A Nino Ferrero, che gli chiedeva se con Accattone si fosse proposto un’analisi marxista dell’angoscia contemporanea, Pasolini rispondeva: […] restando su di un piano di comunicazione strumentale come siamo adesso, direi che l’angoscia è un fatto borghese... Il sottoproletariato ha un altro tipo di angoscia quella che studia De Martino facendo ricerche nella poesia popolare in Lucania, per esempio, cioè un’angoscia preistorica rispetto all’angoscia esistenzialistica borghese, storicamente determinata. Io in Accattone ho studiato questo tipo di angoscia preistorica rispetto alla nostra […] l’angoscia di un contadino lucano che canta un canto funebre su un parente morto, è un’angoscia che ha altre componenti storiche da quelle che prova un borghese come quello della Noia di Moravia per esempio... È tutta un’altra cosa!62

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E. de Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, «Nuovi Argomenti», n. 37, marzoaprile 1959, p. 45 (in F. Fortini [a cura di], Profezie e realtà del nostro secolo, cit., p. 548). Già Ferrero riconduceva a tale brano la pasoliniana «denuncia […] di un mondo scristianizzato e “profano”» (A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 48, nota n. 45). P.P. Pasolini, Incontro con Pier Paolo Pasolini, intervista a cura di B. Voglino, R. Iotti e N. Ferrero, «Filmcritica», a. XIII, n. 116, gennaio 1962; ora in CI2, p. 2812. Riferimenti espliciti al pensiero demartiniano si trovano anche in P.P. Pasolini, Guerra civile, «Paese Sera», 18 novembre 1966 (ora in SLA1, p. 1434); in P.P. Pasolini, Droga e cultura, «Tempo», n. 53, 28 dicembre 1968 (ora in SPS, p. 1168); in un brano destinato alla rubrica Il caos, «Tempo», n. 29, 17 luglio 1969, rimasto nel cassetto e pubblicato in I dialoghi, cit., p. 775; in P.P. Pasolini, Gli intellettuali che non conoscono l’espressione “cultura popolare”, «Tempo», 15 febbraio 1974 (ora in SLA2, p. 1995). Fa da traît-d’union tra de Martino e Pasolini la figura di Carlo Levi. L’influenza avuta da Cristo si è fermato a Eboli sull’opera demartiniana è stata

1.5. Morte e pianto rituale Il de Martino che ha lasciato le maggiori tracce nell’opera pasoliniana è senz’altro quello di Morte e pianto rituale. Il libro vincitore della ventesima edizione del Premio Viareggio affrontava il problema della morte secondo «un punto di vista essenzialmente storico-religioso»63, delineando e discutendo i termini di quella crisi che aveva investito anche il giovane Pasolini, quando, tra il 1943 e il 1945, rischiò «di passare con ciò che passa», «invece di far passare ciò che passa (cioè di farlo passare nel valore)»64: Per l’uomo moderno, che è passato per l’esperienza cristiana e che si è aperto all’umanesimo storicistico, conquistando la persuasione della origine e della destinazione umane dei valori culturali, l’incontro con la morte altrui si configura come documento del permanente conflitto fra natura e cultura. Per l’uomo moderno la morte degli individui storici manifesta nel modo più crudo il conflitto tra il morire naturale come espressione tipica di ciò che passa senza e contro di noi e quel dovere di procurare la morte secondo valori che costituisce l’ethos fondamentale della cultura. In rapporto alla radicalità di questo conflitto si configura anche il rischio radicale del cordoglio, cioè il crollo dell’ethos culturale che sostiene la presenza nel mondo e quindi il profilarsi della possibilità di passare col morire naturale invece di farlo passare, con noi e per noi, nel valore. Ciò però significa il perdersi della presenza, il suo dileguarsi e il suo trovarsi prigioniera di una esistenza a vario titolo inautentica.65

Morte e pianto rituale si sofferma a lungo sui diversi «sintomi di questa malattia»66, ovvero sull’orizzonte di rischio affrontato da Pasolini in

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più volte notata (cfr., tra gli altri, D. Fabre, Carlo Levi nel paese del tempo, in G. Charuty, a cura di, Nel paese del tempo. Antropologia dell’Europa Cristiana, Liguori, Napoli 1995, pp. 17-45). Lo stesso de Martino ha esplicitamente riconosciuto il debito contratto: cfr., tra gli altri, E. de Martino, La morta in piazza in E. de Martino, L’opera a cui lavoro, a cura di Clara Gallini, Argo, Lecce 1996, pp. 19-22. I rapporti tra Pasolini e Levi sono altrettanto documentabili, a partire dalla copertina e dall’introduzione – entrambe firmate da Levi – della sceneggiatura di Accattone (FM, Roma 1961). E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 332. Ivi, pp. 20-21. Ivi, pp. 308-309. «[…] l’assenza totale e la conversione della potenza etica della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica, la ebetudine stuporosa senza anamnesi della situazione luttuosa e le varie forme di planctus irrelativo, lo scacco del trascendimento stesso (furore distruttivo, fame insaziabile, erotismo), il senso di colpa mostruoso e di miseria estrema quanto immotivata, il ritorno irrelativo del morto come visione allucinatoria o come rappresentazione ossessiva, l’amnesia della situazione luttuosa ed il suo periodico irrelativo riapparire in crisi che mimano i contenuti esistenziali rescissi e perduti, i vari deliri di negazione

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occasione della morte del fratello. Intervistata da Fernaldo di Giammatteo nel 1967, Susanna Pasolini parlando del cordoglio per la morte di Guido quasi sottovoce confessava: «avevo paura proprio di impazzire»67. Nella medesima occasione, lo stesso Pasolini ricordava, in termini non dissimili, il cordoglio per il fratello: Mio fratello rappresenta, continua a rappresentare, non soltanto un dolore, rappresenta quello che io avrei voluto essere. Tutto questo ancora resiste insieme col dolore che provo per la sua morte che non ho mai esaurito, perché quando è morto, nell’aiutare mia madre a sopportare, a superare questo momento, ho costretto me stesso a non pensarci, a esserne come immune, illeso, a essere abbastanza forte per sostenere mia madre. Quindi non ho smaltito, ce l’ho ancora dentro.68

Manca uno studio sistematico delle modalità con cui l’opera pasoliniana destoricizza, proiettandolo sul piano del mito, l’evento critico della morte di Guido69. Se, come noto, il cordoglio per la morte sacrificale di Guido trova la sua espressione più compiuta nella sequenza della crocifissione de Il Vangelo secondo Matteo70, di fatto non manca di operare, con una pervasività quasi ossessiva, nei testi più vari. Ad esempio, ne Il Cappellano, dramma steso tra il 1946 e il 1947 e rimaneggiato negli anni Sessanta più volte. Una di queste è documentata da uno scritto diaristico uscito su «Il Giorno» il 16 ottobre 1960 con il titolo Il 4 Ottobre: L’aver ripreso in mano un dramma che avevo scritto nel 1944 […] è un fatto che ha in questo momento un significato particolare: non so se è consolazione o

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dell’accaduto che non mediano nessun riadattamento alla nuova situazione e che segnano una frattura progressiva con la realtà storica e culturale di cui si fa parte» (ivi, p. 309). S. Pasolini, in F. di Giammatteo, Confessioni di un poeta, Radiotelevisione della Svizzera italiana, 1967. P.P. Pasolini, in F. di Giammatteo, Confessioni di un poeta, cit. Non sarà inutile riportare una testimonianza di Dacia Maraini relativa alla crisi del cordoglio per la morte di Pier Paolo, a partire dalla quale possiamo immaginare quale fu (tanto per Susanna quanto per Pier Paolo) il rischio, almeno in potenza, del cordoglio per la morte di Guido: «La madre dopo quel giorno è come impazzita, perché lei continuava a parlare come se lui fosse sempre vivo e diceva, quando la andavamo a trovare: “Pier Paolo è in giardino, adesso arriva”» (D. Maraini, testimonianza filmata contenuta nella puntata andata in onda nel 2005 dedicata a Pasolini de La storia siamo noi, programma RAI curato da G. Minoli). In questa direzione si è in parte mosso il lavoro di I. Quirino, Pasolini sulla strada di Tarso, Costantino Marco, Lungro 1999. S. Pasolini, ricordando le riprese del Vangelo, ebbe a dire: «sono riuscita a entrare nel personaggio pensando al dolore che ho provato quando è morto quell’altro mio figlio, ho pensato a Guido» (in F. di Giammatteo, Confessioni di un poeta, cit.).

disperazione. […] Scrivo: e mia madre, intorno, sfaccenda per la casa. Mi viene vicino, guarda. Sento che deve dirmi qualcosa. Lo dice, infine, con lo straccio della polvere in mano: “Oggi sarebbe la festa di Guido… Avrebbe trentacinque anni, pensa…”. […] Il dramma che sto scrivendo è pieno di quei giorni in cui Guido è morto: della nevrosi che avevo ricavato dal dolore: mi pare che non siano passati sedici anni, ma sedici giorni.71

Il rischio corso dalla presenza nella crisi del cordoglio è definito da de Martino come quel «rischio di non poter oltrepassare la situazione luttuosa»72, per affrontare il quale la storia della civiltà ha approntato una serie di strumenti culturali: «La vita culturale di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha messo a disposizione degli individui vari sistemi tecnici per facilitare il lavoro del cordoglio, cioè per riprendere le tentazioni della crisi e per ridischiuderle al mondo dei valori»73. È possibile leggere parte dell’opera pasoliniana secondo quest’ottica, come un’operazione cioè sostanzialmente “tecnica”, per quanto culturalmente raffinata, atta a «procurare la seconda morte culturale a ciò che appare come scandalo del morire naturale»74; come un’operazione chiamata cioè a rispondere al “problema della morte” non fornendo false illusioni alla ragione, bensì proteggendo la presa di coscienza dell’ineluttabile irreversibilità della morte75. Tale presa di coscienza, debitamente protetta, si configura in Pasolini come una vera e propria “ideologia della morte”: […] l’idea della sopravvivenza dell’anima […] non è poi così indispensabile, per mantenere davanti al terrore della morte un comportamento virile. Perché? Perché anche noi abbiamo una ideologia della morte.76

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Poi con qualche taglio e con il titolo la vigilia: il 4 ottobre in P.P. Pasolini, Accattone, cit.; ora in RR1, pp. 1552-1553. E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 309. Ibidem. Ibidem. «Per quanto questo passare possa essere destorificato con determinate tecniche protettive mitico-rituali, esso comunque sporge nel modo più crudo, denunziando il conflitto fra cultura e natura. Il ritornello emotivo dei lamenti funebri egiziani poteva scongiurare “torna a casa, torna a casa!”, ma per quanto restasse tra i vivi il corpo incorruttibile della mummia il fatto era che il morto non tornava vivo “come prima”. La destorificazione religiosa aveva soltanto il compito di proteggere questa presa di coscienza, di allontanare il morto nel regno dei morti e al tempo stesso di mediare l’unico possibile ritorno benefico, quello che aveva luogo nella memoria morale dei sopravvissuti» (ivi, p. 313). P.P. Pasolini, Paura della morte, «Vie Nuove», n. 18, 3 maggio 1962; ora in I dialoghi, cit., p. 253. Definendo, nello stesso brano, la propria “ideologia della morte” «umanistica, non reli-

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È in tale “ideologia della morte” (elaborata a partire dal patrimonio cristiano) che risiede il cuore della religiosità pasoliniana. Ci pare di poter affermare che la caratteristica precipua della religiosità pasoliniana consista proprio nel fatto che sia tutta concentrata sul problema della morte e tutta si risolva nel “lavoro del cordoglio”. Alla vocazione centrifuga dell’esperienza religiosa tradizionale, la cui pervasività tende ad irraggiarsi verso le più diverse dimensioni del vivere, si sostituisce in Pasolini una religiosità di natura centripeta, rigidamente circoscritta alla gestione del “problema della morte”. È precisamente in ciò che la religiosità pasoliniana può essere definita «atipica»77. 1.6. Le “regole di una illusione” Un testo del 1967 mette in luce il grado di coscienza con cui Pasolini elabora, su base demartiniana, il velo protettivo (le celebri “regole di una illusione”) dietro il quale si gioca il proprio cinema e, di riflesso, la propria vita: Il cinema […] è fondato dunque sul tempo: e obbedisce perciò alle stesse regole che la vita: le regole di una illusione. Strano a dirsi, ma questa illusione bisogna accettarla. Perché chi […] non l’accetta, anziché entrare in una fase di maggiore realtà, perde la presenza della realtà: la quale dunque consiste unicamente in tale illusione.78

Il 28 dicembre 1968, in un brano per la rubrica Il caos intitolato Droga e cultura, il riferimento a de Martino e il parallelo con la propria vita è espresso in termini ancora più espliciti:

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giosa» (ibidem), Pasolini ribadisce il proprio ateismo: l’idea di una vita ultraterrena non è abbracciata con la fede, bensì con l’arte, chiamata a lavorare il mito di Cristo che muore e resuscita in modo da “velare” la realtà della morte. Sulle dichiarazioni di ateismo di Pasolini cfr. Remo Cacitti, Introduzione, cit., p. 12: «L’ateismo non è, per lui, quieta indifferenza nei confronti del problema del sacro; non è coscienza della natura fallace e strumentale della religione “oppio dei popoli”, ma è sentimento, acuto e drammatico, della lontananza di Dio dagli uomini, è la situazione disperante di chi sa che non potrà cessare di cercare il divino, pur nella convinzione che è strutturalmente in attingibile». «La mia religione è di un genere piuttosto atipico: non si conforma a nessun modello» (P.P. Pasolini, Pasolini on Pasolini, cit.; ora in SPS, p. 1287). P.P. Pasolini, Perché quella di Edipo è una storia, in Edipo re. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1967, p. 12 (il corsivo è nostro).

È chiaro che chi si droga lo fa per riempire un vuoto, un’assenza di qualcosa, che dà smarrimento e angoscia. È un sostituto della magia. I primitivi sono sempre di fronte a questo vuoto terribile, nel loro interno. Ernesto de Martino lo chiama “paura della perdita della propria presenza”; e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria presenza. In realtà, tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema.79

Sulla base del sillogismo posto dal brano citato (“la droga è un sostituto della magia” e Pasolini “si droga facendo il cinema”), il cinema si configurerebbe per Pasolini come un sostituto della magia, attraverso cui tessere intorno al “problema della morte” un “velo protettivo” e così scongiurare la “paura della perdita della propria presenza”. È per questo che non vi è morte nell’opera di Pasolini intesa come fine definitiva. Laddove non può giungere con la fede, Pasolini arriva con la sua arte: se vi è infatti una certezza visceralmente radicata nel cuore dell’opera pasoliniana è che la morte non è una soluzione di continuità radicale, non è una rottura definitiva. L’orizzonte mitico da cui l’opera pasoliniana, applicando “le regole di una illusione”, attinge tale certezza è quello dell’ideologia della morte cristiana, secondo la lezione di Morte e pianto rituale, in cui è sottolineata con forza la superiorità “storica” (sulle altre religioni, come sul marxismo) che il cristianesimo può vantare in relazione al “problema della morte”80. Nella tradizione cristiana la morte viene infatti velata in modo risolutivo e l’“oltre la morte” prende la forma della miglior vita, della vita eterna, al punto che con il Cristianesimo non si muore più veramente:

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P.P. Pasolini, Droga e cultura, cit.; ora in SPS, p. 1168. «[…] la crisi decisiva del lamento funebre come rito pagano ha luogo soltanto con l’avvento del Cristianesimo. Quando la “storia santa” di Israele trovò il suo coronamento con l’incarnazione, un nuovo grande evento irreversibile si impiantò nel cuore della storia umana: e il divino di questa storia non fu più patto di alleanza di Dio con un popolo speciale, e drammatica attesa del giorno di Jahve, ma assunzione della morte e riscatto compiuti dal DioUomo, dal Cristo, per tutti i popoli della terra» (E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 288).

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Alla destorificazione pagana orientata verso la iterazione rituale delle “origini” metastoriche, e alla destorificazione giudaica orientata verso l’attesa del “termine” della storia, si contrappone ora la destorificazione di un evento “centrale” che ha deciso il corso storico: un evento per cui la salvezza è data, e già comincia il Regno che ha reso la morte apparente, sino alla seconda definitiva parousia.81

Parte dell’opera pasoliniana, e in particolare della sua filmografia, si configura nei termini di una destorificazione secondaria chiamata a rinnovare la destorificazione primaria dell’“evento centrale che ha reso la morte apparente”; ovvero di un rituale chiamato a velare la realtà della morte assegnandole un senso simbolico, attinto dal patrimonio mitico del cristianesimo.

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Ibidem.

2. Una proposta di periodizzazione

2.1. L’aria di Casarsa (1943-1950) Tra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947, rivolgendosi esplicitamente ad un «Caro lettore», Pasolini affida alle pagine di cinque quaderni dalla copertina rossa i ricordi dei suoi primi venticinque anni di vita 1. In essi si legge: La mia educazione non fu precisamente cattolica. […] Ma spirava un’aria cattolica nella mia casa; un’aria morale e spirituale, questo sì. Ed elevatissima, non per nulla mio fratello è morto a neanche vent’anni offrendo la sua vita per un ideale di libertà.2

Se è possibile rinvenire nell’opera di Pasolini una specifica componente religiosa, essa non deriva dunque da un’educazione cattolica tradizionalmente intesa (al punto che Pasolini non venne nemmeno cresimato3). Contò molto di più l’“aria”, ovvero il clima culturale, in cui Pasolini si trovò immerso negli anni della sua giovinezza; in particolare, fu decisiva l’aria di Casarsa, cui Pasolini fa ritorno dopo l’8 settembre 19434. Nel clima tragicamente mortifero in cui è immersa Casarsa nei mesi della Repubblica di Salò Pasolini vive una vera e propria crisi religiosa: 1

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Alla vigilia della sua partenza per Roma all’inizio del 1950 (dopo sette anni di stabile permanenza in Friuli) Pasolini consegna i cinque quaderni al cugino Nico Naldini, che ne pubblicherà parzialmente il contenuto, centellinandolo negli anni. P.P. Pasolini, brano tratto dai quaderni rossi cit. in N. Naldini, Nei campi del Friuli (La giovinezza di Pasolini), All’insegna del pesce d’oro, Milano 1984, p. 26. Cfr. P.P. Pasolini, La risposta non spedita, «Vie Nuove», n. 43, 22 ottobre 1964; ora in I dialoghi, cit., p. 329. L’8 settembre 1943 il reparto nel quale da qualche giorno Pasolini presta servizio viene catturato dai Tedeschi a Livorno. Approfittando di un mitragliamento aereo sulla sua colonna in marcia, Pasolini riesce a fuggire e a fare ritorno a Casarsa, dove si nasconde fino al termine della guerra. Cfr. N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989, pp. 60-61.

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Vivevo – scrive nel diario giovanile – in un continuo rischio di perdere la vita; per vari mesi anzi ero certo che uscire vivo da quell’inferno non era che una speranza assurda. Questo mi dava un continuo senso del mio cadavere [...]. È in questo tempo che ebbi il senso di quel “limite” oltre il quale c’era non più io, ma un altro. Tale fu la mia vera crisi religiosa.5

Il faccia a faccia con la morte si concretizza al termine della guerra quando giungono notizie del fratello, caduto nella strage di Porzùs. A questa data Pasolini è già passato per lo storicismo di Roberto Longhi ed ha già piena coscienza del proprio antifascismo; gli manca solo di mettere insieme i pezzi e di dare sistematicità ad un pensiero che, nella sostanza, si è già indirizzato verso il marxismo. Se l’ideologia marxista fornisce al giovane Pasolini pressoché tutte le risposte alle domande fondamentali che va ponendosi, essa non ha tuttavia nulla da dire in relazione al problema della morte, appena toccato con mano e pertanto non eludibile6. L’incapacità di sorvolare sulla morte con la sicumera di un materialismo fanatico7 spinge Pasolini ad interpellare Cristo. È a questi anni che risale il progetto, rimasto tale, di una «Parafrasi della Messa»8, pratica religiosa evidentemente frequentata. Il mito di Cristo morto e risorto che regola in termini religiosi la vita arcaica di Casarsa si rivela infatti agli occhi di Pasolini perfettamente adeguato ad accogliere l’orizzonte della crisi che la guerra ha spalancato davanti a lui9. 5 6

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Ivi, pp. 35-36. Come ha spiegato M. Massenzio, Introduzione a E. de Martino, Storia e metastoria…, cit., p. 27, «una delle costanti della speculazione teorica demartiniana risiede nello sforzo di ampliare gli orizzonti dello storicismo tradizionale. […] tale sforzo si obiettiva anche nella capacità di immettere nell’alveo di detto storicismo problematiche ad esso originariamente estranee, come quella relativa alla complessa dimensione del sacro». Non diversi sono gli obiettivi della polemica pasoliniana nei confronti del marxismo ortodosso: «[…] il marxismo non ha mai affrontato in modo soddisfacente il problema dell’irrazionalità. Tutto esso potrà spiegarmi del pensiero e dell’azione di Gramsci, per esempio, ma non quel “sentimento”, quella “fede”, che gli hanno fatto sopportare la prigione e la morte piuttosto che piegarsi al fascismo» (P.P. Pasolini, risposte a 8 domande sulla critica letteraria in Italia, «Nuovi Argomenti», nn. 4445, maggio-agosto 1960; ora in SLA2, p. 2765). Tale incapacità è ironicamente proiettata nella risposta al problema della morte che Pasolini fa recitare a Orson Welles ne La ricotta: «Come marxista è un fatto che io non prendo in considerazione». Il progetto rientra in un “piano di opere” che denuncia con tutta evidenza la deriva religiosa cui Pasolini si sente attratto nei primi anni del dopoguerra: insieme alla «Parafrasi della Messa» vi figurano una «Teogonia», una «Cosmogonia» e un «Saggio sul pensiero dell’infinito» (cfr. W. Siti, L’opera rimasta sola, cit., p. 1901). Orizzonte rievocato in Salò o le 120 giornate di Sodoma: «Un altro elemento di rievocazione del film è rievocare quei giorni che io ho vissuto, i giorni della Repubblica di Salò. […]

L’esperienza del sacro regolato dalle pratiche della religione cattolica confluisce in molte liriche de L’Usignolo della Chiesa Cattolica10, pensato inizialmente come un vero e proprio «libretto di meditazioni religiose»11, non mancando di lasciare tracce indelebili nell’opera a venire: soprattutto dopo l’azione di recupero rappresentata da Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini utilizzerà spesso nei discorsi e nei contesti più disparati riferimenti precisi ai testi religiosi della sua giovinezza12. Il rapporto che il giovane Pasolini intrattiene con il Dio della sua crisi religiosa si caratterizza da subito per una pronunciata tensione conflittuale, strettamente connessa ad un’omosessualità mai del tutto accettata. Pasolini sottopone il proprio peccato allo sguardo di Dio sostanzialmente per sfidarlo: «Non ha colpa l’azzurro / d’essere azzurro, e poi / a che serve punirlo?»13. Ad un certo punto la crisi religiosa parrebbe risolversi nell’abbandono al mondo dei sensi14; ma è una vittoria, quella sulla norma morale, tutt’altro che definitiva. E che la “crisi religiosa” non termini nei primi anni del dopoguerra, è Pasolini stesso a rilevarlo, sempre nel diario: «mi ritrovo, nell’ottobre del ’47, ormai privo di impedimenti, addirittura pagano... Non è vero; io più che laico, irreligioso, sono continuamente occupato da una mia interminabile crisi religiosa»15.

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ho passato giornate spaventose in Friuli. C’è stata una delle più forti lotte partigiane e mio fratello c’è morto» (P.P. Pasolini, intervista filmata, a cura di G. Bachmann, in G. Bertolucci, Pasolini prossimo nostro, Ripley’s Film Srl / Cinemazero, 2006). Il volume è edito nel 1958 da Longanesi, ma raccoglie liriche scritte tra il 1943 e il 1949. P.P. Pasolini, lettera a Luciano Serra, 26 gennaio 1944, in LE1, p. 188. Limitiamoci ad un solo esempio. Dialogando con Franco Citti, durante le riprese di un’intervista filmata il 23 luglio 1966, Pasolini definisce l’amico con un’amata metafora evangelica: «Sei come dice il Vangelo, sei come i gigli dei campi e gli uccelli del cielo che non pensano mai al domani» (P.P. Pasolini, Pasolini l’enragé, intervista televisiva a cura di J.A. Fieschi, registrata nel 1966 per la serie Cinéma, de notre temps). Negli stessi mesi scrive di Emilia, la domestica contadina di Teorema: «Tu vivi tutta nel presente. Come gli uccelli e i gigli dei campi, tu non ci pensi al domani…» (P.P. Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 1968; ora in RR2, p. 978). Per spiegare alla stampa le motivazioni che lo spingono a realizzare Il Decameron, nel 1970 Pasolini torna a fare uso della stessa metafora evangelica: «Finalmente vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani mi godo un po’ di libertà e di vita» (P.P. Pasolini, in N. Naldini, Pasolini, una vita, cit., p. 348). P.P. Pasolini, Madrigali a Dio, da L’Usignolo della Chiesa Cattolica, cit.; ora in PO1, p. 486. Scrive nel diario: «Metto dunque tutto a tacere, sono passato, dopo una breve visita al Calvario, dall’orto dell’infamia al giardino di Alcina e mi ci trovo bene» (P.P. Pasolini, brano tratto dai quaderni rossi cit. in N. Naldini, Nei campi del Friuli, cit., p. 49). P.P. Pasolini, brano tratto dai quaderni rossi cit. in N. Naldini, Nei campi del Friuli, cit., p. 48. Ed è davvero una crisi interminabile, se nel 1964 torna a parlarne: «una crisi di coscienza che non è di un giorno e di un momento, di una stagione, ma che mi accompagna da tutta la vita: cioè il mio è un continuo stato di crisi. In questo senso il mio Vangelo non è altro che la

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2.2. I giovani sanno a stento chi è la Madonna (1950-1960) Nel gennaio 1950, per sfuggire allo scandalo causato dai fatti di Ramuscello16, Pasolini si trasferisce a Roma. Qui fa subito una scoperta sensazionale, così riferita dal cugino Nico Naldini con cui è rimasto assiduamente in contatto: Già pochi mesi dopo il suo arrivo, prima con un tram, poi con un autobus sgangherato, arriva alle prime borgate: Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino, Pietralata. Una periferia completamente pagana – «i giovani sanno a stento chi è la Madonna» – popolata da diseredati, chiusi in una loro vita particolare, salvati da antica vitalità e sacrilega, felice incoscienza.17

Anni dopo, nel 1964, quando oltre al Carlo Levi del Cristo si è fermato a Eboli anche il de Martino meridionalista è ormai assimilato, Pasolini spiegherà che «il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo»18: I miei personaggi [...] non sanno che cos’è l’amore in senso cristiano, la loro morale è la morale tipica di tutto il meridione d’Italia, che è fondata sull’onore. La filosofia di questi personaggi, benché ridotta a brandelli, ai minimi termini, è una filosofia precristiana di tipo stoico-epicureo, sopravvissuta al mondo romano e passata indenne attraverso le dominazioni bizantine, papaline o borboniche.19

A Roma Pasolini vede per la prima volta separati popolo e religione, dalla quale può pertanto cominciare a prendere le distanze: nell’estate del

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manifestazione più clamorosa di questo mio stato di crisi» (P.P. Pasolini, Una discussione del ’64, trascrizione del dibattito organizzato ad Alessandria dal locale Circolo del Cinema il 21 novembre 1964, pubblicato postumo in Atti del Convegno “Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo”, Alessandria, 19-20 febbraio 1977, Amministrazione provinciale di Pavia / Comune di Alessadria, Pavia 1977; ora in SPS, p. 753). «La sera del 30 settembre, a Ramuscello, […] durante la sagra di Santa Sabina, Pier Paolo incontra un ragazzo che già conosce assieme a due suoi amici. Durante la festa si nascondono tra i cespugli. Il 22 ottobre viene denunciato dai carabinieri di Casarsa per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico» (N. Naldini, Pasolini, una vita, cit., p. 133). N. Naldini, Cronologia, in PC1, p. LXXVIII. P.P. Pasolini, Una visione del mondo epico-religiosa, «Bianco e Nero», a. XXV, n. 6, giugno 1964, p. 19; ora in CI2, p. 2853. Ivi, pp. 2853-2854. Un simile discorso è svolto in C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1945, 19903, p. 123: «Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli».

1952 in una lettera a Silvana Mauri, contrappone i conformismi del popolo romano a quelli del popolo friulano: «il sesso, non la religione, l’onore, non la morale»20. Mentre le liriche friulane trasudavano tutte incenso, proprio perché l’incenso era parte integrante del mondo allora amato21, a partire dal momento in cui muta l’oggetto d’amore e i nuovi ragazzi si rivelano essere, a differenza dei contadini di un tempo, tutt’altro che religiosi, la fede cristiana comincia ad essere vista e definita nelle sue connotazioni borghesi. In bilico tra crisi religiose e processi di scristianizzazione, Pasolini si riconoscerà nella posizione di un San Paolo caduto da cavallo con un piede rimasto impigliato nella staffa22. Di questa sua condizione liminale Pasolini ha coscienza fin dagli anni Cinquanta, come si evince da uno scambio epistolare avuto con Carlo Betocchi nel 1954: Ora io invidio lei e quelli della sua generazione che hanno già pronta quella risposta [la risposta del cristianesimo]: e invidio coloro che credono nella risposta ancora potenziale della filosofia della società marxista. Io mi trovo nel vuoto, né qua (benché ancora qua per la violenza della memoria, per la coazione di un’infanzia e di un’educazione) né là (benché già là nell’aspirazione, nella simpatia per una vita che si rinnovi, e proponga una fede se non altro nel suo essere in atto).23

Il conflitto, montato lungo l’arco dell’intero decennio (a partire, come visto, dal trasferimento romano), tra la religione contadina della propria 20

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LE1, p. 490. Nella stessa lettera Pasolini riconosce a Roma un ruolo centrale della sua (parziale) scristianizzazione: «Roma mi ha fatto diventare abbastanza pagano per non credere alla validità di certi scrupoli, che sono tipicamente settentrionali e che in questo clima non hanno senso» (ivi, p. 489). L’assenza di remore religiose nei ragazzi di borgata fornisce alla vita sessuale di Pasolini possibilità impensabili in Friuli: «After the “mystical Christianity” of Friuli, Rome seemed to exude a pagan sensuality: erotic adventures were easy, inconsequential, and daily occurrences» (N. Greene, Pier Paolo Pasolini, Princeton University Press, Princeton 1990, p. 16). Perfino delle sezioni del PCI: sia quella reale di San Giovanni di Casarsa, alla cui parete stava «il crocifisso accanto al ritratto di Stalin» (N. Naldini, Cronologia, in PC1, p. LXXIV), sia quelle trasfigurate nei romanzi (cfr. Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962, p. 93; ora in RR2, p. 68: «Eligio […] stava vicino al tavolo sfasciato sotto il Crocifisso e il ritratto di Stalin»; e Romans, Guanda, Parma 1994; ora in RR2, p. 233: «La sezione del Partito era sopra un’osteria […]. Sulla parete erano appesi un Cristo e un ritratto di Lenin»). Cfr. P.P. Pasolini, Una discussione del ’64, cit.; ora in SPS, pp. 749-750 e P.P. Pasolini, lettera a Giovanni Rossi, 27 dicembre 1964, in LE2, pp. 576-577. P.P. Pasolini, lettera a Carlo Betocchi, 26 ottobre 1954, in LE1, p. 695. Il 17 novembre 1954 Pasolini confessa a Betocchi: «non c’è niente in cui creda di più che in quello che Lei scrive nella sua lettera: la libertà dell’io in direzione basso-alto, ch’è una direzione metastorica. Ed è questo che mi fa non essere comunista» (LE1, p. 709); ma ribadisce anche: «Per me, in questo momento le parole di Cristo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” significano: “Fa’ delle riforme di struttura”» (ibidem).

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madre e la religione borghese del proprio tempo trova infine il suo approdo nel poemetto La religione del mio tempo: «Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; […] che la Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato»24. L’opposizione tra il mito (di Cristo) e la storia (della Chiesa) si precisa con l’accusa rivolta ai rappresentanti delle istituzioni ecclesiastiche di vivere di compromessi, dimentichi della radicalità dell’insegnamento di Cristo. L’epigramma A un Papa, scritto in occasione della morte di Pio XII, può essere considerato la più esplicita manifestazione di tale accusa: […] nella tua religione non si parla di pietà? / Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato, / davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili. / Lo sapevi, peccare non significa fare il male: / non fare il bene, questo significa peccare. / Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: / non c’è stato un peccatore più grande di te.25

L’epigramma viene pubblicato per la prima volta nel 1959 quando Pasolini sta già accarezzando l’idea di esordire nella regia. 2.3. Una macchina che immortala (1960-1962) Pasolini conosce il cinema sul set de La dolce vita (1960), assiduamente frequentato su “convocazione” dello stesso Fellini26. Tale esperienza esercita sul futuro regista (in misura incomparabile rispetto a quella già fatta per gli altri film a cui ha collaborato come sceneggiatore a partire dal 1954) una serie di suggestioni la cui importanza è ancora tutta da indagare27. Salito con autorità sul carrozzone dei difensori del film, Pasolini capisce, inoltre, qual è la reale forza di penetrazione del cinema, la portata potenziale dello “scandalo” che da esso può derivare28. 24 25 26 27

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P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961; ora in PO1, pp. 968-970. P.P. Pasolini, A un Papa, «Officina», n.s., n. 1, marzo-aprile 1959; poi in La religione del mio tempo, cit.; ora in PO1, pp. 1008-1009. Cfr. T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano 2002, p. 195. Qui conosce non solo la Stella di Accattone (Franca Pasut), ma anche la voce di Cristo de Il Vangelo secondo Matteo: Pasolini è infatti tra i consulenti chiamati ad esprimersi sul provino di Enrico Maria Salerno per il personaggio di Steiner (cfr. ivi, p. 198). In AP si conserva inoltre una lettera non datata di Yvonne Furneaux che declina l’invito a recitare per Pasolini, non si sa in quale film (AP: 365). Pasolini otterrà la medesima attenzione mediatica di cui ha usufruito, nel bene e nel male,

Al di là delle suggestioni fornite dalla Dolce vita, i motivi profondi che legarono a doppio nodo Pasolini al cinema sono stati esaurientemente spiegati da Massimo Fusillo: «nel cinema Pasolini trovò […] la sua idea di linguaggio del mito e del sacro»29, un linguaggio cioè in grado di rappresentare quel che di «ontologicamente poetico»30 è insito nel reale, facendo leva su uno «strumento linguistico […] di tipo irrazionalistico»31. Fin dai suoi primi interventi sul cinema, Pasolini sottolinea la capacità del mezzo cinematografico di riprodurre la sacralità del reale, ovvero di «giungere al mistero ontologico delle cose»32. Intervenendo nel dibattito intorno alla “religiosità” di Accattone, Pasolini sposta l’attenzione dai contenuti espliciti del film alla “sacralità tecnica del mezzo” che quei contenuti veicola: Non c’è niente di più tecnicamente sacro che una lenta panoramica. Specie quando questa sia scoperta da un dilettante, e usata per la prima volta. […] Sacralità: frontalità. E quindi religione. In tanti hanno parlato dell’intima religione di Accattone; della fatalità della sua psicologia, ecc. [...] è tenendo conto di questo – di questo procedimento tecnico o se vogliamo stilistico – che è lecito parlare, io direi, di “religiosità” a proposito di Accattone, come si è spesso fatto: perché solo attraverso i procedimenti tecnici e gli stilismi è riconoscibile il valore reale di quella religiosità: che si fa approssimativa e “giornalistica” in chi la identifichi coi contenuti, espliciti o impliciti. In definitiva, la religiosità non era tanto nel supremo bisogno di salvezza personale del personaggio […] ma era “nel modo di vedere il mondo”: nella sacralità tecnica del vederlo.33

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La dolce vita con Il Vangelo secondo Matteo: cfr., tra gli altri, Somma, Sull’equivoco di Fellini, avanza Pasolini, «Il Giornale del Mezzogiorno», 14 febbraio 1963. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 8. Ivi, p. 11. Così Pasolini definisce il cinema intervenendo alla Prima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (29 maggio-6 giugno 1965), «Marcatré», nn. 19-22, aprile 1966; ora in SLA1, pp. 1463-1464. «In questa esaltazione feticistica della realtà, anzi della Realtà (con una maiuscola mistica), che potrebbe sembrare un residuo neorealista, c’è invece un’idea decadentista (pascoliana): la poesia è una sostanza che c’è già nel reale, prima di ogni espressione artistica. La novità pasoliniana è la convinzione che il cinema, proprio perché arte giovane, poco codificata e codificabile, possa ancor più della poesia giungere al mistero ontologico delle cose» (M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 130). P.P. Pasolini, Confessioni tecniche, «Paese Sera», 27 settembre 1964; ora in CI2, pp. 27682769.

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A Pasolini pare insomma che attraverso il cinema (molto più che attraverso la letteratura) il proprio “modo di vedere” entri in relazione con il mistero insito nel reale, là dove si annida il “problema della morte”: questo è ciò che rende lecito, per Pasolini, l’uso del termine “religiosità”. In questo modo Pasolini esalta una caratteristica del mezzo messa in luce da André Bazin34: la capacità del cinema di vincere la morte conservando le fattezze del reale. Il cinema è infatti, spiega Elena Dagrada sulla scorta del pensiero baziniano, «una macchina in grado […] di reiterare il presente e per ciò stesso immortalare – letteralmente: rendere immortale – tutto ciò che filma e che a ogni nuova proiezione sembra rinascere sullo schermo»35. Come si evince sia dai testi teorici sul cinema, sia dalle più estemporanee dichiarazioni rilasciate in relazione al passaggio al cinema, quel che affascina Pasolini del mezzo cinematografico è, sostanzialmente, la sua base fotografica. Il motivo di tale fascino può essere inteso proprio a partire da un celebre saggio di Bazin, intitolato Ontologie de l’image photographique36, nel quale viene individuato all’origine delle arti plastiche il cosiddetto “complesso della mummia”. Tale complesso definisce il bisogno psicologico dell’uomo di vincere la morte tramite un processo che conservi l’apparenza del reale. Se esso deriva la propria origine, oltre che il proprio nome, dalla pratica dell’imbalsamazione esercitata dagli egizi, trova piena soddisfazione, secondo Bazin, soltanto con l’avvento della fotografia e, in seguito, del cinema, capace di integrare la base fotografica e la dimensione temporale. La foto34

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Antonio Costa sostiene che «le idee di fondo della semiologia pasoliniana presentavano singolari e significative convergenze con le teorie del critico francese André Bazin. Non esistono citazioni dirette che permettono di affermare con certezza la conoscenza da parte di Pasolini del pensiero di Bazin. (È vero che Pasolini accolse un’antologia di scritti di Bazin nella collana da lui diretta per Garzanti, ma ciò avvenne solo nel 1973). Si possono fare solo delle ipotesi, suffragate però da precise coincidenze» (A. Costa, Immagine di un’immagine, Utet, Torino 1993, p. 155). Se bisogna attendere il 1973 per avere il primo riscontro documentato, non va dimenticato che, nella loro veste originale, gli scritti di Bazin circolano ampiamente all’interno della cerchia dei contatti pasoliniani: il tramite può essere stato Bertolucci, se non lo stesso Godard. Non si dimentichi infatti che a partire dall’agosto del 1965 Pasolini è in contatto con la baziniana redazione dei «Cahiers du cinéma». E. Dagrada, La seduzione del vero. Genesi e risultato nella base fotografica dell’immagine filmica, in E. Dagrada, E. Mosconi, S. Paoli (a cura di), Moltiplicare l’istante. Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, Il Castoro (Quaderni Fondazione Cineteca Italiana, n. 12), Milano 2007, p. 13. A. Bazin, Ontologie de l’image photographique, in D. Gaston (a cura di), Les problèmes de la peinture, Confluences, Paris 1945; poi in Qu’est-ce que le cinema? I. Ontologie et Langage, Cerf, Paris 1958.

grafia e il cinema soddisfano finalmente la necessità di «sauver l’être par l’apparence»37 non per la qualità del risultato («la photographie restera longtemps inférieure à la peinture dans l’imitation des couleurs»38) ma per la particolarità del procedimento riproduttivo, ovvero della sua genesi. Accostato a «le moulage de masques mortuaries»39, il procedimento riproduttivo da cui la fotografia ricava il calco della realtà trova per Bazin perfetta esemplificazione nella Sacra Sindone di Torino, di cui Qu’est-ce que le cinéma? riproduce una foto a tutta pagina40. Ugualmente, l’immagine cinematografica di Pasolini soddisfa il “complesso della mummia” (tanto dello spettatore quanto – e in questo caso forse ancor più – dell’autore) non per la sua qualità (a tal punto imperfetta da spingere Fellini al “gran rifiuto” di produrre Accattone), ma appunto per la particolarità del suo procedimento riproduttivo, che Pasolini poeticamente definisce con il termine cui ha affidato, nel corso degli anni, il compito di riassumere la sua visione del mondo: per Pasolini si tratta di una tecnica “sacra” per il fatto che «rappresenta […] la realtà attraverso la realtà»41 e così facendo aderisce antologicamente alla sacralità del reale. Tuttavia, se è vero che “il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo”, è altrettanto vero che quello di Pasolini ne è fortemente imbevuto; se la materia del film di esordio è pagana, l’ottica con cui è osservata denuncia a chiare lettere un orizzonte cristiano di riferimento. La parabola di Accattone si configura come una discesa verso una condizione di crescente miseria morale, ma, come spiega l’epigrafe del film (vera e propria chiave d’accesso, non solo ad Accattone, ma all’intera filmografia pasoliniana)42, basta una lacrimetta in punto di morte per risollevarsi e ottenere infine la salvezza dell’anima43. La prospettiva sote37 38 39 40 41 42 43

A. Bazin, Ontologie de l’image photographique, in Qu’est-ce que le cinema?, cit., p. 11. Ivi, p. 14. Ivi, p. 16. La foto della Sacra Sindone è riprodotta solo nell’edizione francese da cui si è pertanto deciso di citare. P.P. Pasolini, Dialogo I°, «Cinema & Film», a. I, n. 1, inverno 1966-1967, p. 5; ora in SLA1, p. 1543. «[…] l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno | gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi? | Tu te ne porti di costui l’etterno | per una lacrimetta che ’l mi toglie» (Pg. V, 106-107). Pasolini esplicita il proprio pensiero intorno alla lacrimetta dantesca in I sintagmi viventi e i poeti morti, «Rinascita», a. XXIII, n. 33, 25 agosto 1967; ora in SLA1, p. 1575: «Osserviamo un momento questa lacrimuccia. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di […] male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa: il male è diventato un […] contrario del bene, una volontà di essere

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riologica sottesa al film ne fa un vero e proprio contraltare al modello (o, sarebbe meglio dire, a questo punto, all’anti-modello) de La dolce vita. Se ne confrontino i rispettivi finali. De La dolce vita conosciamo tre finali diversi che, nella loro sequenza temporale, indicano la progressiva deriva pessimista in cui sprofonda il film. Il più antico è conservato presso la Fondazione Federico Fellini di Rimini in un esemplare del copione recante sulla prima pagina, manoscritto, il nome «PIERO»44. Rispetto alla sceneggiatura data alle stampe, tale copione presenta una sola variante, ma di grande interesse, relativa al finale. Sull’ultima pagina sono infatti cancellate con decisi segni di penna alcune frasi (in grassetto nella trascrizione) che, riferendosi ad un evidente pentimento di Marcello, ne attestavano la salvezza: Marcello è preso da una profonda, inesplicabile commozione: si sente salire le lacrime agli occhi, ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza. Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano. Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate. La commozione di Marcello è struggente. Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici: ha gli occhi bagnati di lacrime. Guarda di nuovo le povere scarpe che stringe in mano, chino sulla sabbia. Marcello: Innocente Paolina... Innocente...

Il finale della sceneggiatura data alle stampe recepisce le cancellature operate sul copione di Gherardi, ma conserva, pur mancando della lacrimetta che salvò Bonconte, una medesima tensione salvifica: Marcello si lascia infatti ugualmente attirare dal richiamo dell’innocenza di Paola45. Come noto, nel corso delle riprese il finale positivo documentato dal copione di

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bene, un bene inespresso, una rabbia di non essere bene […]. S’egli non fosse mai morto, mai ci sarebbe stata quella lacrimuccia e il linguaggio della sua azione umana, del suo essere uomo sulla terra, sarebbe stato un esempio inconcluso di male e basta». Presumibilmente Piero Gherardi, scenografo e costumista del film. Un identico esemplare è conservato in AP. «Marcello è preso da una profonda, inesplicabile commozione: ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza. Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano. Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate. La commozione di Marcello è struggente. Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici misteriose messaggere di una nuova vita» (T. Kezich, a cura di, La dolce vita di Federico Fellini, Cappelli, Bologna 1960, pp. 242-243).

Gherardi e dalla sceneggiatura data alle stampe trascolora invece in un «irresistibile e definitivo trionfo del male»46: Marcello si è a tal punto corrotto da non essere più in grado di sentire la voce di Paola. Anche Pasolini viene chiamato a fornire una sua versione (poi scartata) del finale de La dolce vita. Sebbene il copione (conservato in AP) a partire dal quale elabora la sua proposta presenti le medesime cancellature del copione di Gherardi, Pasolini reintegra la lacrimetta salvifica: Marcello è preso da una profonda, inesplicabile commozione: si sente salire le lacrime agli occhi, ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza. Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano. Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate. La commozione di Marcello è struggente. Marcello (guardando le scarpe, che stringe tra le dita): Voi… innocenti… innocenti… Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici: ha gli occhi bagnati di lacrime. Guarda di nuovo le povere scarpe che stringe in mano, chino sulla sabbia. Marcello: Innocenti...47

Il pentimento del Marcello di Pasolini è suscitato da un contrasto ancora più marcato tra la propria condizione di corrotto e l’innocenza delle scarpine, che con una piccola variante vengono ad essere correlativo oggettivo dell’innocenza non solo della ragazza ma dell’intera sua classe sociale, dalla quale Marcello si è pericolosamente allontanato. Nel momento in cui mette mano ad Accattone, Pasolini è appena stato travolto dall’esperienza de La dolce vita, che, come anticipato, esercita sul suo primo film un’influenza (in positivo e in negativo) determinante. Tanto l’eroe felliniano quanto quello pasoliniano si trovano infatti a percorrere il crinale discendente di un’esistenza corrotta, al termine del quale si gioca la loro possibilità di salvezza nell’incontro con un angelo salvatore: Accattone Stella 46 47

(ancora amaro) Come te chiami, te? (alzando gli occhi verso di lui) Stella.

E. Baragli, Dopo La Dolce Vita. Critici, registi e pubblico, parte II, «La Civiltà Cattolica», a. 111, vol. IV, quad. 2648, 15 ottobre 1960, p. 170. P.P. Pasolini, La dolce vita, in CI2, pp. 2343-2344. Il grassetto segnala le varianti rispetto al “copione Gherardi” da cui Pasolini è partito.

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Accattone

Io Vittorio, piacere! (ci pensa un po’) Eh, Stella, Stella! Indicheme er cammino! Stella ridacchia un po’ imbarazzata a quella battuta. Accattone insiste. Accattone Insegna a ’st’Accattone qual è la strada giusta… pe’ arrivà a un piatto de pasta e facioli! […] Accattone (dopo un breve silenzio, osservandola meglio, incuriosito) Ma dimme un po’… me pari così ingenua… così ragazzina… così bona, senza cattiveria… boh, nemmeno io te lo so spiegà… ma non sei de Roma? Stella Io sì! Accattone Mah… strano! Eppure… Boh… (con un sospiro amaro) Eh, beata te che nun capisci niente! Stella lo guarda, continuando a rimestare le sue bottiglie sporche, e sorride, imbarazzata, innocente.48

Pasolini elabora la vicenda di Accattone a partire dai medesimi schemi narrativi su cui si regge la “sua” versione de La dolce vita. Come il “suo” Marcello anche Accattone è infatti toccato dalla Grazia, incarnatasi in un angelo che gli giunge in soccorso indicandogli il cammino49. Pasolini, operando una proiezione fin troppo manifesta, definì il film di Fellini cattolico, laddove la documentazione pervenutaci (tanto quella felliniana, quanto quella pasoliniana) parla chiaro: tra i due, è Pasolini colui per il quale la vita è risolta dalla discesa della Grazia e fornita di senso dalla morte. In quest’ottica è possibile leggere la celebre recensione pasoliniana a La dolce vita come una recensione ante litteram ad Accattone50. Che Accattone sia “regolato” dalla discesa della grazia, chiamata a 48 49

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P.P. Pasolini, Accattone, cit.; ora in CI1, pp. 50-51. In P. Rumble, Accattone, in G. Bertellini (a cura di), The Cinema of Italy, Wallflower Press, London 2004, p. 106, Stella è definita «a cinematic stilnovistic lady, as it were, a Dantesque Beatrice of the borgata». «L’ideologia di Fellini si identifica così con un’ideologia di tipo cattolico: l’unica problematica ravvisabile alla lettera, o quasi, nella Dolce vita è il rapporto non dialettico tra peccato e innocenza: dico non dialettico perché regolato dalla grazia. [...] Soltanto delle goffe persone senza anima – come quelle che redigono l’organo del Vaticano – soltanto i clerico-fascisti romani, soltanto i moralisti capitalisti milanesi, possono essere così ciechi da non capire che con La dolce vita si trovano davanti al più alto e al più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni: per cui i dati del mondo e della società si presentano come dati eterni e immodificabili, con le loro bassezze e abiezioni, sia pure, ma anche con la grazia sempre sospesa, pronta a discendere: anzi, quasi sempre già discesa e circolante di persona in persona, di atto in atto, di immagine in immagine» (P.P. Pasolini, La dolce vita: per me si tratta di un film cattolico, «Il Reporter», 23 febbraio 1960; ora in SLA2, pp. 2276-2277).

sacralizzare le “bassezze” del mondo, è esplicitato in particolare dalla musica sacra con cui Pasolini commenta gli eventi: In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, “sacro”, l’ho aggiunto con la musica. Ho detto, cioè, che la degradazione di Accattone è, sì, una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni.51

Il riferimento è ad una sacralità meno generica di quanto Pasolini voglia ammettere: tramite Bach infatti, «un grande e tragico destino di morte» (quello di Cristo, alluso dalla Passione secondo San Matteo) «si sovrappone a una piccola, infima, sporca vicenda sottoproletaria»52, la proietta sul piano del mito e qui le assegna un significato salvifico. Accattone è dunque il primo personaggio del cinema pasoliniano per cui “è necessario morire”. Come Cristo53, Accattone è impegnato «in un viaggio esistenziale, progressivo e fatale, di avvicinamento alla morte»54. Se all’inizio del film la sfida spavaldo, tuffandosi per scommessa nelle acque del Tevere, più avanti ne invoca il soccorso: dopo essersi degradato facendo ballare Stella con un potenziale cliente, cade vittima di un’esplosione parossistica55 che lo conduce sul greto del Tevere dove si cosparge il capo con la sabbia, gesto da leggersi, con de Martino, come «una simbolica autoinumazione»56. Più avanti, sognando il proprio funerale, Accattone invoca di fatto la salvezza della propria anima, chiedendo al 51 52 53

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P.P. Pasolini, in Glauco Pellegrini, Colonna sonora, «Bianco e Nero», a. XXVIII, nn. 3-4, marzo-aprile 1967, p. 22. P.P. Pasolini, …una forza del Passato…, «Vie Nuove», n. 42, 18 ottobre 1962; ora in I dialoghi, cit., p. 309. L’archetipo cristologico è direttamente evocato dalla sceneggiatura, che ad esempio descrive Accattone al lavoro come un «ecceomo» (P.P. Pasolini, Accattone, cit.; ora in CI1, p. 126): «[…] va a tirar su l’ultimo mucchio di ferro, trasportandolo con una smorfia dolorosa verso il furgone: pare Cristo sotto la croce» (ivi, p. 127). Il riferimento cristologico si stempera nel passaggio dalla sceneggiatura al film, ma non scompare. Attutito, è rinvenibile ad esempio nella battuta (già di Cristo al Getsèmani: cfr. Mt 26, 42) con cui Accattone chiude la sequenza: «Sia fatta la volontà de Dio!». A. Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano 1998, p. 57. La sceneggiatura specifica che Accattone si muove «come qualcuno lo sospingesse, come un atroce automa» (P.P. Pasolini, Accattone, cit.; ora in CI1, p. 101); poco dopo «gli viene un nuovo impeto di rabbia convulsa, una esplosione intrattenibile di nervi» (ivi, p. 103). E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 197.

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becchino di scavare la sua tomba «un po’ più in là, nella luce»57. In questo modo il film riproduce al suo interno le dinamiche che lo hanno creato. Accattone proietta infatti sul piano destorificato del sogno il proprio “problema della morte”, prospettando una soluzione che, per quanto angusta, si configura pur sempre come una redenzione58: Proprio ieri sono andato – scrive Pasolini su «Vie Nuove» – a scegliere il posto dove girare le ultime inquadrature di Accattone. […] Dovevo scegliere una vallata che, in un sogno di Accattone – verso la fine del film, poco prima della sua morte – raffigurasse un rozzo e corposo paradiso. Insomma Accattone non soltanto muore, ma va in paradiso.59

L’incontro con Stella lo ha salvato60. 2.4. La mia vita è il contrario della vostra, benché… (1962-1966) 2.4.1. Le premesse del dialogo Il confronto con il mito cristiano che già informa i primi due film si fa via via sempre più diretto a partire dal primo soggiorno presso l’assisana Pro 57

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P.P. Pasolini, Accattone, cit.; ora in CI1, p. 133. L’opera del becchino è nell’immaginario pasoliniano connotata sempre positivamente: figura ad esempio tra le opere di carità compiute da Re Scucchione e dal suo servo Baffetti nella rivisitazione elaborata nel 1968 per Giulia Maria Crespi del soggetto di Porno-Teo-Kolossal (cfr. CI2, p. 2759). In ogni caso il riferimento di Pasolini è a Biruma no tategoto (L’arpa birmana, 1956) di Kon Ichikawa. Per una lettura di Accattone come parabola di redenzione cfr. P.A. Sitney, Vital Crisis in Italian Cinema. Iconography, Stylistics, Politics, University of Texas Press, Austin 1995. P.P. Pasolini, Accattone e Tommasino, «Vie Nuove», n. 26, 1 luglio 1961; ora in SPS, pp. 941-942. Il secondo lungometraggio si colloca nel solco tracciato dal primo. Anche Mamma Roma si sviluppa infatti intorno ad una morte esemplare (ispirata a un fatto realmente accaduto: cfr. P.P. Pasolini, Mi ribello alla morte di Elisei, «Noi donne», 27 dicembre 1959; ora in SPS, p. 734), proiettata sul piano del mito, ovvero ricondotta all’archetipo cristologico: nella sceneggiatura Ettore, sul letto di contenzione, viene esplicitamente presentato «come un piccolo crocifisso» (P.P. Pasolini, Mamma Roma, Rizzoli, Milano 1962; ora in CI1, p. 258; cfr. anche ivi, pp. 259-260). Quanto al noto debito verso il Cristo morto di Mantegna, cfr. T. Subini, Quale Cristo? Le opzioni figurative del cinema cristologico di Pier Paolo Pasolini in L. Bellocchio, M. Giori, T. Subini, Guarda bene, fratellino, guarda bene, Cuem, Milano 2005, pp. 35-52. Non diversamente che in Accattone, vi opera inoltre la contaminazione dell’orizzonte culturale pasoliniano (di matrice cattolica) con l’irridente cattolicesimo pagano tipico della borgata: risulta emblematica al riguardo la prima sequenza del film in cui un matrimonio di burini è rappresentato come se fosse un’Ultima Cena (cfr. A. Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 25-28).

Civitate Christiana61, la cui frequentazione, funzionando da catalizzatore, mette in moto dinamiche fino ad allora solo parzialmente espresse. I rapporti tra il regista e l’associazione di don Giovanni Rossi iniziano l’8 febbraio 1962, quando Lucio Caruso, l’allora direttore della Sezione Cinema della Pro Civitate, scrive a Pasolini chiedendogli un’intervista62, avuta luogo presumibilmente nei primi di marzo del 196263. Vinti gli iniziali sospetti, Caruso invita Pasolini ad Assisi. Si parla di una probabile visita in una lettera scritta da Caruso l’8 marzo, nella quale comincia a delinearsi la prospettiva del dialogo che sarà alla base della collaborazione degli anni successivi: «Se Lei crede alla possibilità di stima al di là della divergenza di alcune idee e alla possibilità d’intendersi conversando senza toni polemici, sarcastici né assiomatici, La prego di credere anche nella mia leale e disinteressata amicizia»64. Scusandosi con Caruso per non aver trovato il tempo di fermarsi ad Assisi, anche Pasolini prospetta un orizzonte di convergenze: «La mia vita è il contrario della vostra, benché la vostra sia in fondo il mio ideale. Ma spero di trovare il modo di venire a trovarvi, tra un film e l’altro, tra un processo e l’altro!»65. Negli stessi mesi Pasolini entra in contatto con i fermenti del “dialogo” tra cattolici e comunisti. Ne è tramite Lucio Lombardo Radice, uno dei futuri protagonisti del “dialogo alla prova”66, che con una lettera aperta interviene, il 26 luglio, nella rubrica che Pasolini tiene su «Vie Nuove»67. Oggetto della lettera di Lombardo Radice è la perentoria 61

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La Pro Civitate Christiana è un’associazione laicale fondata da Giovanni Rossi nel 1939. Per una storia della Pro Civitate Christiana cfr. M. Toschi, Per la chiesa e per gli uomini. Don Giovanni Rossi 1887-1975, Marietti, Genova 1990; G. Zizola, Don Giovanni Rossi, Cittadella, Assisi 1997. Cfr. AP: 166.1. Il 6 marzo Giovanni Rossi ringrazia Pasolini per aver accolto Caruso (cfr. AP: 723.6). AP: 166.2; copia carbone in FC: n. 2; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, «Bianco & Nero», nn. 1-3, 2003 (numero unico speciale), p. 253. FC: n. 54; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 254. Cfr. M. Gozzini (a cura di), Il dialogo alla prova. Cattolici e comunisti in Italia, Vallecchi, Firenze 1964. Si tratta della prima importante pubblicazione sul dialogo tra cattolici e comunisti in Italia: vi partecipano Mario Gozzini, Lucio Lombardo Radice, Nando Fabro, Luciano Gruppi, Ruggero Orfei, Alberto Cecchi, Gian Paolo Meucci, Ignazio Delogu, Danilo Zolo, Salvatore di Marco. Su tale esperienza cfr. G. Scirè, La democrazia alla prova. Cattolici e laici nell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta, Carocci, Roma 2005. I dialoghi su «Vie Nuove», che per anni sono stati ingiustamente sottovalutati, schiacciati dai successivi interventi giornalistici raccolti ne Le lettere luterane e negli Scritti corsari, hanno recentemente richiamato l’attenzione degli studi. Si veda ad esempio il ruolo ad essi assegnato in G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 11: «I “Dialoghi” su “Vie nuove” ricoprono una certa

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risposta che Pasolini ha dato, il mese prima, ad un lettore cattolico: «[…] fra noi non c’è possibilità di dialogo. Parliamo due lingue diverse»68. Al contrario, l’intervento di Lombardo Radice si colloca già in una prospettiva di cooperazione: «[…] il grande, difficile problema dalla soluzione del quale dipendono e consolidamento della democrazia e avanzata verso il socialismo in Italia, nel nostro periodo storico [è] il problema della collaborazione tra marxisti e cattolici in un’opera politica rivoluzionaria»69. Dal canto suo, Pasolini cerca di difendersi, per quanto gli è possibile: glissa sulle questioni centrali, non comprendendo ancora appieno le istanze portate avanti da Lombardo Radice. E tuttavia, tra le altre, fa una dichiarazione che in prospettiva suona assai significativa: [...] nulla di ciò che è stato esperimentato storicamente dall’uomo, può andare perduto: […] quindi non possono essere andate perdute neanche le parole di Cristo. Esse sono in noi, nostra storia. E io sono ancora (e ancora ingenuamente) convinto che per un borghese una buona lettura del Vangelo è sempre un fertilizzante per una buona prassi marxista.70

Gli effetti di “una buona lettura del Vangelo” hanno modo di agire su Pasolini stesso qualche mese dopo, quando Caruso torna ad invitarlo ad Assisi: l’occasione è fornita dal Convegno di cineasti che annualmente si svolge presso la Cittadella (il complesso dove ha sede la Pro Civitate) in margine alla cerimonia di assegnazione del Gran Premio dell’Office

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importanza all’interno del percorso di Pasolini. [...] Le risposte di Pasolini ai lettori mostrano in maniera inequivocabile la sua cattolicità: i suoi interventi si avvicinano molto alle lettere pastorali dei vescovi, con cui hanno in comune uno stesso giudizio empirico e moralista». P.P. Pasolini, Orgoglio di vecchi cappelli, «Vie Nuove», n. 25, 21 giugno 1962; ora in I dialoghi, cit., p. 269. L. Lombardo Radice in P.P. Pasolini, Le parole di Gesù e di Marx, «Vie Nuove», n. 30, 26 luglio 1962; ora in I dialoghi, cit., p. 273. Ivi, p. 275. Cfr. anche P.P. Pasolini, Dietro il Vangelo, «Vie Nuove», 23 agosto 1962; ora in I dialoghi, cit., pp. 282-284. Qualche mese dopo, dal X Congresso del PCI (2-8 dicembre 1962) esce una Tesi controversa di grande novità: «Si tratta di comprendere come la aspirazione a una società socialista non solo possa farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare in una sofferta coscienza religiosa uno stimolo, di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo». Tale Tesi è citata e così commentata in Lucio Lombardo Radice, Un marxista di fronte a fatti nuovi nel pensiero e nella coscienza religiosa, in Mario Gozzini, a cura di, Il dialogo alla prova cit., p. 90: «Difficile sopravvalutare la novità e l’importanza di questa Tesi […]. È stata la prima volta, se non andiamo errati, che un Partito comunista, con un gruppo dirigente profondamente marxista, ha affermato che nella religione vi può essere una carica rivoluzionaria, anche nella presente epoca storica».

Catholique International du Cinéma (d’ora in poi O.C.I.C.). Questa volta Pasolini accetta l’invito, giungendo in Pro Civitate il 3 ottobre, quando il convegno sta per concludersi. Nelle ore in cui, tra il 3 e il 4 ottobre 1962, Pasolini si trattiene presso la Pro Civitate Christiana di Assisi, Lucio Caruso fa suonare, non senza una certa abilità, alcune delle corde cui il poeta è più sensibile: da un lato organizza una lettura comunitaria de La religione del mio tempo che ne stuzzica il narcisismo71, dall’altro gli mostra una realtà del cattolicesimo, tanto marginale quanto autentica, in grado di rispondere alla richiesta di umana carità la cui assenza Pasolini aveva lamentato nell’epigramma rivolto a Pio XII: «[…] lo portai – ricorda Caruso – nella casa, sotto San Damiano, delle piccole sorelle di Charles de Foucauld, la cui azione di carità era diretta proprio nei confronti dei sottoproletari. Ne fu molto impressionato»72. Il 4 ottobre Pasolini è bloccato ad Assisi: la presenza di Giovanni XXIII, in pellegrinaggio per il Concilio che avrebbe aperto l’11 ottobre, paralizza la città. Per evitare il caos, Pasolini si ritira in camera73 e qui si imbatte nel Vangelo di Matteo: D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. […] L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta anche altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore.74 71

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«Per avere un dialogo con lui decidemmo di leggere a tutta la comunità alcune sue poesie dal libro La religione del mio tempo. Le scelsi tra quelle che avevano un senso religioso più spiccato. Pasolini fu commosso ed entusiasta di come noi avevamo compreso queste poesie, al di là di ogni prevenzione polemica» (L. Caruso in S.M. Paci, a cura di, E Pier Paolo incontrò Matteo, «30Giorni», a. XII, n. 11, novembre 1994, p. 55). L. Caruso, Conversazione con Lucio Caruso, in T. Subini, Il Vangelo di Pasolini. Cristo e San Paolo nell’ispirazione religiosa del cinema di Pier Paolo Pasolini, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, relatrice prof.ssa E. Dagrada, a.a. 2000-2001. In una lettera del 3 febbraio 1964 (FC: n. 27; pubblicata in T. Subini [a cura di], Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 257), Pasolini ringrazia Caruso per avergli donato «le “Opere spirituali” di Charles de Foucauld», da cui scaturirà qualche anno dopo un vago progetto cinematografico (cfr. SPS, pp. 1376, 1508). «Tutta la città era in subbuglio. Una incredibile confusione. Non mi andava di uscire e sono rimasto in camera» (P.P. Pasolini in D. Argento, “Vedrò Cristo come ‘Accattone’” ci ha detto Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», 9 febbraio 1963). P.P. Pasolini, «dal nastro di una lontana intervista» pubblicata in N. Fabbretti, Quello che mi è rimasto di Pasolini fra incontri, paure, dolorosa poesia, «Stampa Sera», 19 novembre 1984.

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Leggere Matteo, ovvero “il primo dei quattro Vangeli”, e decidere di trarne un film fu tutt’uno. Successivamente, Pasolini vorrà fare intendere di aver operato una scelta tra i quattro evangelisti sulla base di ponderate ragioni, ma saranno giustificazioni posteriori, tanto approssimative quanto contraddittorie. La visita di Pasolini ad Assisi non passa inosservata. Ne dà immediatamente conto, il 6 ottobre, «La Nazione»: […] che accade a Pier Paolo Pasolini? Si parla sommessamente di una sua crisi religiosa, di un angosciato problema di coscienza che da tempo tormenterebbe il giovane scrittore, malgrado la sua ostentata “rabbia” e il largo uso di problematica marxista con cui condisce le sue squallide cucine romanesche. Si parla di un turbamento, di una perplessità che starebbero per invadere l’animo del discusso letterato e di un suo conseguente desiderio di chiarezza, forse anche di un estremo bisogno di conforto.75

Stando al ricordo di Caruso, pare che Pasolini non abbia affatto gradito il servizio: «Quando gli telefonai a Roma, […] mi rispose bruscamente: “Ogni rapporto tra noi è terminato. Io non ci tengo a passare per un convertito”»76. Nel frattempo, infatti, «Il Secolo d’Italia» ha dato segno di aver recepito la notizia in un trafiletto dall’emblematico titolo: Il diavolo si fa frate77. Ma è su «Il Borghese» che si spendono le parole più dure. L’articolo di Magi è commentato da Claudio Quarantotto all’interno della rubrica di recensioni librarie: il libro in esame è Omossessualità e morale di Michael J. Buckley78. «L’inquietante problema», come viene definito, è considerato di grande attualità, per il fatto che «in passato [...] questi signori erano molto meno numerosi di oggi, quelli che lo erano cercavano di nascondere tale “vergogna” e, infine, i pastori d’anime d’allora non li invitavano ai convegni indetti per la costruzione di una “cultura cristiana”»79. L’articolo avvia la pratica, che diverrà consueta su «Il Borghese» dei mesi successivi, di rivolgere il proprio biasimo, più ancora che a Pasolini, a quei cattolici dai quali ci si aspetterebbe ben altro comportamento: 75 76 77 78

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P. Magi, Pier Paolo Pasolini a Assisi nella “cittadella cristiana”, «La Nazione», 6 ottobre 1962. L. Caruso in S.M. Paci (a cura di), E Pier Paolo incontrò Matteo, cit., p. 54. Acro, Bargello-Antirubrica. Il diavolo si fa frate, «Il Secolo d’Italia», 12 ottobre 1962. M.J. Buckley, Morality and the Homosexual. A Catholic Approach to a Moral Problem, Newman Press, Westminster 1960; tr. it., Omossessualità e morale, Le Edizioni del Borghese, Milano 1962. C. Quarantotto, Omosessualità, morale e scrittori di vita, «Il Borghese», 25 ottobre 1962, p. 314.

Il giorno dopo, il Pasolini è ripartito [...] riaffermando la sua integerrima fede marxista. Così, il buon don Giovanni Rossi […] è rimasto con un bel palmo di naso a meditare sulle difficoltà dei rapporti tra i sacerdoti e gli omosessuali.80

Con l’idea di realizzare un film tratto dal Vangelo di Matteo, Pasolini rientra a Roma, dove, una decina di giorni dopo (il 17 ottobre), avvia le riprese de La ricotta81. Il progetto nel frattempo venuto alla luce entra in relazione con la sceneggiatura precedentemente stesa de La ricotta e avvicina ulteriormente (più di quanto già non lo fossero) il personaggio del regista alla prese con un film su Cristo e Pasolini stesso (ugualmente alle prese con un progetto, appena abbozzato, di film su Cristo). Il personaggio di Orson Welles, che fino a qualche mese prima era la trasfigurazione ironica di un generico regista marxista vendutosi all’industria, diviene ora un vero e proprio alter ego: si definisce marxista e nel contempo dichiara il proprio profondo intimo arcaico cattolicesimo; è caratterizzato da un palato estetico sufficientemente colto per essere pasoliniano (i due manieristi che Welles ricrea sono due pittori amatissimi da Pasolini); ma soprattutto si esprime attraverso una poesia dello stesso Pasolini, tratta, come chiaramente si evince dalle immagini del film, dal volume con la sceneggiatura di Mamma Roma. L’identificazione con Welles è la causa di un’importante modifica della sceneggiatura avvenuta nel corso delle riprese. Nella sceneggiatura il 80 81

Ibidem. La sceneggiatura de La ricotta, la cui prima stesura risale all’aprile del 1962, viene inizialmente concepita per un film a episodi, intitolato La vita è bella, che il produttore Roberto Amoroso non riesce a portare a termine: «Amoroso dice per colpa di Pasolini, che consegnò in ritardo una sceneggiatura “impossibile”; Pasolini dice per colpa di Amoroso, che non è riuscito a combinare l’affare con i distributori» (G. Del Re, Pasolini rivendica a “La ricotta” un contenuto rigorosamente morale, «Il Messaggero», 15 ottobre 1963). La prima proposta di Pasolini (di cui si conserva il soggetto: cfr. P.P. Pasolini, Il viaggio a Citera, in CI2, pp. 2635-2642) racconta di un insegnante omosessuale che, innamoratosi di un allievo e da questi respinto, si impicca. Di fronte al netto rifiuto di Amoroso, Pasolini propone una nuova storia, suggeritagli da un fatto di cronaca: «Durante l’eclisse di sole del 1961 fu girata la scena di una crocefissione destinata ad un film le cui riprese non erano state ancora iniziate. Uno degli uomini crocefissi fu colto da malore per il freddo» (P.P. Pasolini in [redazionale], Pasolini: non ho offeso il cattolicesimo, «Avanti!», 6 marzo 1963: il film cui Pasolini fa riferimento è Barabba [Id., 1962] di Richard Fleischer). A metà maggio Pasolini consegna la sceneggiatura che, nuovamente rifiutata da Amoroso, gli procura una citazione in giudizio per inadempienza contrattuale. Qualche mese dopo Alfredo Bini vara a sua volta il progetto di un film a episodi, consentendo così a Pasolini di recuperare la sceneggiatura de La ricotta. Ma a questo punto è già emersa l’idea de Il Vangelo secondo Matteo.

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giornalista di «Tegliesera» originariamente domandava a Welles: «Qual è la sua opinione... sul regista-scrittore P.P. Pasolini?»82. Nel corso delle riprese, in un momento cioè successivo all’elaborazione del progetto de Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini avverte la necessità di sostituire il proprio nome (che ora sente associato a quello del personaggio interpretato da Welles) e la domanda diventa: «Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?». La risposta alla domanda è sia nella sceneggiatura sia nel film «Egli danza!». In origine, riferendosi a sé ironicamente, Pasolini indicava ciò che lui non sarebbe mai riuscito a fare: danzare sul mondo, con la leggerezza di un sottoproletario. Nella risposta confluita nel film a danzare è il regista de La dolce vita. Terminata La ricotta, Pasolini torna ad Assisi con una richiesta: «“Per me è vitale fare un film sul Vangelo di Matteo. Non riesco a pensare ad altro. Però non voglio farlo con spirito di polemica. E, se lo realizzo da solo, chissà quante eresie ci infilerei pur non volendo”»83. Di fronte alla dichiarata volontà di perseguire la strada dell’ortodossia, la risposta della Pro Civitate non si fa attendere. Giovanni Rossi in un colloquio privato agli inizi del 1963 comunica a Giovanni XXIII le intenzioni di Pasolini ricevendo un importante incoraggiamento84. La posizione di Pasolini viene ufficializzata con la lettera “concordata” inviata a Caruso il 30 gennaio, in cui il regista esplicita le proprie “buone intenzioni”: «Vorrei che il mio film potesse essere proiettato nel giorno di pasqua in tutti i cinema parrocchiali d’Italia e del mondo. [...] Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica non contraddi82 83 84

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Dalla sceneggiatura conservata in FP e pubblicata in CI1, p. 336. P.P. Pasolini cit. in L. Caruso in S.M. Paci (a cura di), E Pier Paolo incontrò Matteo, cit., p. 56. «Don Giovanni Rossi andò a parlare con papa Giovanni XXIII, di cui era amico sin dalla giovinezza. Nel suo studio privato gli parlò a lungo di questo progetto, su cui già si polemizzava sulla stampa. Papa Giovanni alla fine gli disse: “Io sono contento. E ho visto che anche i più restii al dialogo, in Curia, non ne parlano male. Quindi avanti, con coraggio e con prudenza”» (L. Caruso in S.M. Paci [a cura di], E Pier Paolo incontrò Matteo, cit., p. 56). Il segretario di Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla, interrogato da «Avvenire» in seguito alla pubblicazione dell’intervista di Caruso su «30Giorni», ha mostrato qualche perplessità: «L’unica ipotesi che Capovilla accetta è “che nel corso di un’udienza, in cui si raccontano al Papa tante cose, possa essere stata accennata anche questa possibilità”» (A. Fagioli, Un sì del Papa a Pasolini?, «Avvenire», 26 novembre 1994, p. 17). Il mese successivo «30Giorni» riporta il commento di Virgilio Fantuzzi: «Pasolini ha sempre mostrato un’estrema simpatia per Giovanni XXIII, un affetto tale che ha spesso stupito i critici. L’aver saputo che il Papa aveva incoraggiato il suo desiderio di girare un film sul Vangelo motiva in maniera più precisa questo singolare entusiasmo» (V. Fantuzzi in S.M. Paci, a cura di, Un ciak benedetto, «30Giorni», a. XII, n. 12, dicembre 1994, p. 72).

cessero mai la vostra sensibilità di credenti»85. Tale lettera verrà utile in più di un’occasione: prima ancora di finire citata nel comunicato stampa con cui alla Mostra di Venezia la Pro Civitate assicurerà dell’ortodossia del film, viene inviata per conoscenza all’arcivescovo di Genova, cardinal Giuseppe Siri, che, fortemente impressionato, assicura il proprio sostegno al progetto: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio – scrive a Giovanni Rossi il 23 febbraio 1963 –, qualcosa bisogna pur rischiare. Non siamo dispensati dai canoni della prudenza; ma anche la prudenza in taluni casi consiglia la audacia. Esclude solo la temerarietà»86. L’8 febbraio Pasolini è di nuovo ad Assisi. Questa volta con lui ci sono anche Alfredo Bini e Mons. Francesco Angelicchio, consulente ecclesiastico del Centro Cattolico Cinematografico (d’ora in poi C.C.C.). Un fotografo dell’Ansa, allertato probabilmente da Bini, li attende presso la Cittadella87. L’agenzia batte anche la seguente notizia: Assisi 8 febbraio – Il produttore Alfredo Bini è giunto stamane ad Assisi accompagnato da un sacerdote. Si supponeva che le recenti voci del suo matrimonio con Rosanna Schiaffino venissero così confermate sino a quando non si è visto il produttore Bini, il consulente ecclesiastico del Centro Cattolico Cinematografico don Francesco Angelicchio e lo scrittore Pier Paolo Pasolini uscire dalla cittadella cristiana. Si è appreso allora che il motivo della loro visita ad Assisi è stato la discussione e la messa a punto con don Giovanni Rossi di un ambizioso progetto: la realizzazione cinematografica del “Vangelo secondo San Matteo” che sarà prodotto da Bini e girato da Pasolini nei luoghi descritti dai Sacri Testi.88 85

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LE2, p. 509. Secondo L. Caruso, Conversazione con Lucio Caruso, cit., tale lettera ebbe la funzione di documentare l’accordo avvenuto. Secondo G. Zizola, Don Giovanni Rossi, Cittadella, Assisi 1997, p. 331, l’accordo tra le parti fu assai più vincolante, prevedendo una sorta di vero e proprio, per quanto blando, final cut: «Si intensificarono le riunioni alla Cittadella per il controllo dell’ortodossia del copione, secondo l’accordo stabilito fra le parti, il quale comprendeva anche la supervisione del film una volta ultimato, con la più ampia facoltà di disporre tagli e cambiamenti, da parte della Pro Civitate Christiana, del Centro Cattolico Cinematografico e del Centro San Fedele di Milano». La facoltà di disporre cambiamenti da parte della Pro Civitate Christiana si inscrisse in realtà in una dinamica di dialogo per la quale furono molte le concessioni che Pasolini fece volentieri ai suoi amici di Assisi, come furono molti i luoghi del film che la Pro Civitate avrebbe voluto diversi, ma che Pasolini non fu disposto a modificare (cfr. T. Subini, Il dialogo tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana…, cit., pp. 223-237). Pubblicata in S.M. Paci, Ci voleva un corsaro, «30giorni», a. XII, n. 12, dicembre 1994, p. 71. La foto è pubblicata, tra gli altri, in [redazionale], Vangelo di S. Matteo per Pasolini regista, «Corriere Lombardo», 9 febbraio 1963. [Redazionale], Pier Paolo Pasolini realizza “Il Vangelo secondo San Matteo”, «Notiziario Cinematografico A.N.S.A.», 9 febbraio 1963.

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Il giorno dopo, la notizia viene pubblicata sui principali quotidiani nazionali. Gianfranco Zizola, un giornalista vicino a Giovanni Rossi (autore, anni dopo, di una sua biografia89), rassicura i lettori cattolici de «L’Avvenire d’Italia»: «Don Giovanni Rossi ci ha confermato la cosa, aggiungendo che il film sarà messo in cantiere in ottobre» 90. Dall’importante articolo di Zizola, che sappiamo a disposizione di fonti dirette, pare che il progetto originario avesse tempi assai più stretti di quelli che poi si dimostreranno necessari: Pasolini verrà alla Pro Civitate Christiana, mediterà il Vangelo e scriverà in loco la sceneggiatura del film. Poi, partirà per la Palestina; nei luoghi santi, realizzerà il film, con la supervisione teologica di un volontario della Pro Civitate Christiana, il critico cinematografico Lucio Caruso e con la consulenza del Centro Cattolico Cinematografico.91

Anche Zizola, sebbene con maggior prudenza di Magi, non manca di interrogarsi sul percorso di Pasolini: «Tutto fa pensare che qualcosa sia mutato, in questi ultimi tempi, in Pasolini. [...] Tutto fa credere [...] che la decisione di Pasolini possa essere il segno di un lungo travaglio spirituale»92. Sull’altro versante, per dare conferma della fondatezza della notizia ai lettori comunisti di «Paese Sera», Dario Argento si rivolge direttamente a Pasolini, che fornisce i primi dettagli del progetto. Dice di voler girare il film a settembre, in Palestina, con interpreti presi dalla strada; ma soprattutto già assicura che metterà in scena il Vangelo di Matteo «senza tagli o aggiunte»93 e che in ciò sarà aiutato dalla consulenza della Pro Civitate Christiana. 89 90 91 92

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G. Zizola, Don Giovanni Rossi, cit. G. Zizola, Pasolini girerà nei Luoghi Santi un film ispirato al Vangelo di Matteo, «L’Avvenire d’Italia», 9 febbraio 1963. Ibidem. Ibidem. L’articolo di Zizola viene duramente criticato da alcune testate conservatrici che, secondo una dinamica subito innescatasi, tengono un occhio su Pasolini e l’altro sui suoi amici cattolici: «L’autore di Accattone e Mamma Roma, il conferenziere nei circoli comunisti, il titolare di una rubrica di “consigli ai lettori” sul rotocalco del P.C.I., lo scrittore che ha bassamente insultato in una cosiddetta poesia Pio XII verrebbe dunque accolto nella “Pro Civitate Christiana” per dirigere un film sul Vangelo? Questa è la domanda che molti si pongono con addolorato stupore nel dubbio di trovarsi nel bel mezzo della “confusione delle lingue”. Lo sconcerto è stato poi aggravato dallo atteggiamento preso da alcuni giornali di tendenza cattolica i quali non hanno esitato un momento, lasciata da parte ogni pur doverosa prudenza, ad esaltare il fatto parlando in chiari termini di conversione, di travaglio spirituale e simili» ([redazionale], Avremo un Vangelo... secondo Pasolini?, «Vita Nuova», 16 febbraio 1963). P.P. Pasolini in D. Argento, “Vedrò Cristo come ‘Accattone’”…, cit.

«Il Secolo d’Italia» pubblica, lo stesso 9 febbraio, un primo commento alla «sconcertante notizia», rifacendosi, non senza una certa malizia, ad un brano del Vangelo di Matteo: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi travestiti da pecore; ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si coglie forse l’uva dalle spine, o dei fichi dai triboli? Così ogni albero buono dà buoni frutti, ed ogni albero cattivo dà frutti cattivi. […] Quale albero sia Pasolini e quali frutti abbia dato lo sanno tutti.94

Il film di Pasolini, immediatamente letto da una prospettiva politica, diviene il pretesto per parlare dell’“accordo tra cattolici e marxisti” e per un regolamento di conti tra correnti ideologiche opposte, quella di chi scrive e quella dei «padri della Cittadella Cristiana», definiti «modernisti e aperturisti»95: Ora, è comprensibile che alcune conventicole di monsignori, fazioni anche potenti, siano bendisposte verso il consolidarsi dell’accordo tra cattolici e marxisti, e che quindi ostentino una certa simpatia verso i campioni del “sinistrismo” letterario e cinematografico, ma non è affatto pensabile che il Santo Padre si appresti a varare un nuovo dogma: quello cioè della divinità di Carlo Marx. [...] Comunque ci siamo arrivati, e davvero c’era, prima o poi da aspettarselo. La presunzione arrogante e sfacciata degli scrittorelli pornografici del nostro tempo, dei poeti del letto e del cesso [...] non poteva non approdare all’interpretazione rinnovata e spregiudicata dei Testi Sacri. Era ormai tempo che Pier Paolo Pasolini affrontasse il Vangelo con “l’occhio di un realista”, ossia sentendo e interpretando Gesù Cristo come Accattone, la Madonna come Mamma Roma e il giorno della Passione come la Giornata balorda.96

La conclusione dell’articolo è rivolta «ai dotti membri della comunità di Don Luigi [sic] Rossi»: «è bensì vero che il Vangelo ci insegna a non scagliare la prima pietra, ma nemmeno ci obbliga ad andare a letto con l’adultera, per la buona pace del mondo»97. Dalle pagine di «Vita», Giovanni Rossi replica ai dubbi avanzati da più parti: «Meglio con noi che senza di noi. [...] son venuti da noi senza malizia e durante la lavorazione del film potremo sempre richiamarli alle 94 95 96 97

[Redazionale], Tutto sbagliato. Mala pianta, «Il Secolo d’Italia», 9 febbraio 1963. C. Cesaretti, Il Vangelo secundum Pasolini, «Roma-Napoli», 16 febbraio 1963. Ibidem. Ibidem.

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loro responsabilità. Se vi è un sincero slancio dello spirito, se le cose son dette e fatte senza secondi fini...»98. «Il Borghese» chiude questo primo giro di interventi, a commento dell’annunciato progetto di un film pasoliniano dal Vangelo di Matteo, riconducendo lo scontro al cuore del dibattito politico allora in corso, nel clima della campagna elettorale per le elezioni del 28 aprile. Per la prima volta compare, associato a Pasolini, un nome che, nei mesi successivi verrà più volte evocato, sommessamente ma con una certa costanza; un nome di grande rilievo per quel che sul piano strettamente politico significa: quello di Giorgio La Pira. Nei giorni scorsi si è molto parlato del film sul Vangelo che Pier Paolo Pasolini, comunista, invertito, condannato per un episodio di rapina, dovrebbe realizzare fra breve, con l’assistenza della Pro Civitate Christiana di Assisi. Pochissimi sanno, però, che dietro questa faccenda si nasconde la più spregiudicata “trovata” elettorale, il cui merito sembra vada tutto a Giorgio La Pira, ispiratore politico del Presidente del Consiglio. L’idea di La Pira sarebbe questa, molto semplice: “convertire” Pasolini. Lo scrittore, fino ad ora, è stato al giuoco, ma nessuno è in grado di dire se lo ha fatto sinceramente; o se, piuttosto, arrivato all’ultimo giorno, non manderà tutto all’aria, d’accordo con i suoi amici del PCI. Intanto Pasolini è “coccolato” da tutto quel mondo clericale che si ispira al “Sindaco Santo”.99

Al di là delle tante inesattezze e della volgare omofobia, la lettura fatta da «Il Borghese» è sostanzialmente corretta: il mondo rappresentato politicamente da La Pira vede effettivamente di buon grado (e lo dimostrerà quando si tratterà di recensire il film) quel che Pasolini e la Pro Civitate Christiana vanno facendo. Nel frattempo, tra il gennaio e il febbraio del 1963, Pasolini lavora al film di montaggio La rabbia, dal quale emerge, oltre all’accorato omaggio a Giovanni XXIII (che anticipa la dedica de Il Vangelo secondo Matteo), un’attenzione a tratti ossessiva per la morte di Marilyn Monroe 100, che troverà una spiegazione nel 1967, quando Pasolini espliciterà la propria teoria sulla morte come montaggio: la morte ha ridisegnato l’intera 98 99 100

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[Redazionale], Il Vangelo di Pasolini, «Vita», 21 febbraio 1963, p. 58. [Redazionale], I candidati di Fanfani, «Il Borghese», 28 febbraio 1963, p. 390. Lo fa notare, fra gli altri, N. Greene, Pier Paolo Pasolini, cit., p. 68: «One of the film’s longest sequences […] is devoted to the death of Marilyn Monroe. […] admist images of the “old” world (tribal ceremonies, folklore) and the “new” (skyscrapers, the Oscar awards) the same photographs of her return obsessively».

vita di Marilyn caricandola di un senso fino ad allora sospeso se non addirittura inimmaginabile. Non passano due mesi da quando è stata data alla stampa la notizia del progetto di trarre un film dal Vangelo di Matteo che la Magistratura scaglia il suo più violento attacco, fra i tanti che nel corso degli anni si sono succeduti, contro l’opera di Pasolini. L’1 marzo 1963 (qualche giorno dopo la prima del 19 febbraio) la proiezione serale de La ricotta al cinema Corso di Roma viene interrotta da un decreto di sequestro. L’incriminazione è per vilipendio della religione di Stato. Il processo viene celebrato per direttissima: il 7 marzo viene pronunciata la sentenza, che condanna Pasolini a quattro mesi di reclusione con la condizionale101. Quel che più stupisce di tale vicenda è il fatto che la Magistratura abbia intentato un processo per vilipendio della religione di Stato senza che i rappresentanti di tale religione abbiano espresso alcuna significativa nota di biasimo nei confronti del film. Al contrario, La ricotta colpisce favorevolmente padre Domenico Grasso, titolare della Cattedra di Teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, che il 5 aprile scrive a Pasolini: Per il suo film non posso non ripeterle quanto le dissi a voce. Mi ha fatto una grande impressione e mi ha fatto pensare, anche se per valutarlo in tutti i suoi aspetti non si possa prescindere dai suoi riflessi sul pubblico. La purezza delle sue intenzioni per me non lascia dubbi. Dalla stessa realizzazione credo sinceramente che non si possa tirare la conclusione di un voluto vilipendio alla religione. Le sue spiegazioni e, in particolare, il contatto avuto con lei mi fanno escludere il dolo nella maniera più evidente. Spero che questo primo contatto sia soltanto il primo. Per me sarà sempre un piacere discutere con lei dei problemi che interessano ogni uomo.102

La posizione di Grasso non è isolata. Il 29 aprile 1963 il C.C.C. (guidato da quello stesso Mons. Angelicchio che poche settimane prima si era recato ad Assisi con Pasolini e Bini) pubblica, sulle «Segnalazioni Cinematografiche», la scheda del film. Il film non è, come ci si sarebbe aspet101

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In novembre il film ottiene il permesso di girare per le sale con alcuni tagli e modifiche. Il 6 maggio 1964 la Corte d’Appello di Roma assolve Pasolini «perché il fatto non costituisce reato». Il 24 febbraio 1967 la Corte di Cassazione annulla questa sentenza, pur dichiarando il reato «estinto per amnistia» (cfr. L. Betti, M. Gulinucci, a cura di, Le regole di un’illusione, cit., p. 69). Pasolini renderà nota la lettera pubblicandola in P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1964, p. 18.

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tato, “escluso”, ma solo “sconsigliato”. E nello specifico del giudizio morale, sebbene venga stigmatizzata la «polemica classista, che ripete i logori schemi del marxismo protestatario»103, al film è riconosciuto proprio quel che mancava al finale de La dolce vita, un anelito di salvezza: «Nell’episodio di Pasolini l’identificazione del diseredato morto in croce con il Cristo non è aliena dall’oscura percezione di una realtà cristiana di redenzione»104. Se La ricotta non viene condannato da un’esclusione, non è perché nel 1963 operino commissioni eccessivamente indulgenti. Nel corso di quell’anno viene proibita la visione nelle sale parrocchiali a 103 film sui 510 visionati, poco più del 20%. Tra i molti film “esclusi” – oltre a Viridiana (Id.) di Luis Buñuel, anch’esso condannato (nella Spagna di Franco) per vilipendio della religione di stato105 – figurano, ad esempio, Una storia moderna: l’ape regina di Marco Ferreri106, La parmigiana di Antonio Pietrangeli107, Il disprezzo di Jean-Luc Godard108 e I mostri di Dino Risi109. Perché un trattamento ugualmente severo non è riservato ad un film già condannato dallo Stato? Laddove la magistratura giudica severamente La ricotta, perché severamente guarda all’eventualità di una collaborazione tra cattolici e comunisti ventilata dal progetto de Il Vangelo secondo Matteo, gli enti ecclesiastici (tra cui il C.C.C. di Mons. Angelicchio) si dimostrano al contrario ben disposti verso La ricotta, perché altrettanto benevolmente guardano a Il Vangelo secondo Matteo. 103 104 105 106

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C.C.C., Rogopag, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIII/17, 29 aprile 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIII, C.C.C., Roma 1963, p. 149. Ibidem. C.C.C., Viridiana, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIII/14, 8 aprile 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIII, C.C.C., Roma 1963, p. 120. Che, secondo la commissione giudicatrice, avrebbe «a bersaglio un ambiente, che si pretende informato a costumi e convenzioni di rigida marca cattolica» (C.C.C., Una storia moderna: l’ape regina, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIII/25, 24 giugno 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIII, C.C.C., Roma 1963, p. 230). Per «l’inserzione di personaggi ecclesiastici presentati in modo ridicolo e ipocrita» (C.C.C., La parmigiana, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIII/25, 24 giugno 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIII, C.C.C., Roma 1963, p. 231). Del quale paradossalmente viene criticata la «nudità della protagonista», nonostante le scene di nudo siano state epurate nella versione italiana giudicata (C.C.C., Il disprezzo, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIV/21, 18 novembre 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIV, C.C.C., Roma 1963, p. 208). Per «la presenza di alcune scene gravemente sconvenienti e di molte situazioni moralmente condannabili» (C.C.C., I mostri, «Segnalazioni Cinematografiche», a. 30, n. LIV/26, 23 dicembre 1963; poi in C.C.C., Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIV, C.C.C., Roma 1963, p. 265).

In novembre La ricotta ottiene il permesso di girare per le sale, a condizione che vengano apportate alcune modifiche, tutt’altro che irrilevanti110. Il processo subito per La ricotta è per Pasolini un’esperienza fondamentale: le varianti imposte dalla magistratura infatti sono tutt’altro che “varianti trasparenti”111. Pasolini capisce che se vuole far salvi i propri intenti, ideologici oltre che estetici, deve abbassare la voce, smussare gli spigoli più acuminati, dissimulare i propositi belligeranti. A fronte dell’esperienza fatta, ne Il Vangelo secondo Matteo modificherà strategia, trovando soluzioni meno dirette per rappresentare la propria religiosità scandalosa. Nel frattempo, Pasolini ha dato corpo al progetto dei Comizi d’amore, ed è fra un’intervista e l’altra dei Comizi, effettuate tra il marzo e il novembre del 1963, che stende la sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo. Secondo Alfredo Bini, produttore di entrambi i film, Pasolini ha esplorato alcune località della Puglia, della Calabria e della Sicilia con lo scopo segreto di cercare nel Meridione luoghi, scenari e volti per Il Vangelo secondo Matteo112. Una sorta di “Sopralluoghi nel Sud d’Italia” prima di effettuare quelli in Palestina113. Comizi d’amore si colloca nel bel mezzo della collaborazione con la Pro Civitate ed è per gli amici di Assisi motivo di qualche imbarazzo. In 110

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Originariamente, per non fare che un esempio, il cartello iniziale recitava così: «[…] voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti» (in L. Betti, M. Gulinucci, a cura di, Le regole di un’illusione, cit., p. 68). In seguito al processo risulterà così modificato: «[…] io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, la Storia della Passione – che indirettamente La ricotta rievoca – è per me la più grande che sia mai accaduta, e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti». Nel passaggio dal primo al secondo cartello muta l’espressione con cui ci si riferisce alla storia della Passione: tra «la più grande che io conosca» (del cartello originario) e «la più grande che sia mai accaduta» (del cartello modificato) la differenza è notevole; nel primo caso si tratta di una storia raccontata sulla cui veridicità chi parla non si impegna, nel secondo di una storia che prima è accaduta e che poi è stata raccontata. Il concetto di “variante trasparente” è stato elaborato, in riferimento al cinema di Rossellini, in E. Dagrada, La variante trasparente, «Bianco & Nero», n. 1, gennaio-febbraio 1999, p. 59: «malgrado le non poche varianti apportate, di versione in versione, la sostanza del “messaggio”, il suo senso più profondo, e profondamente disturbante, resiste e si mostra immune a ciascuna modifica o manomissione, anche la più violenta. Dal punto di vista di ciò che il film contiene di eversivo e di scomodo, insomma, anche le varianti più vistose divengono in qualche modo “trasparenti”, tanto che il senso, quasi, ne esce rafforzato». Cfr. anche E. Dagrada, Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, Led, Milano 2005. A. Bini, I primi passi del regista Pasolini, «L’Europeo», 28 novembre 1975, p. 53. È da un medesimo ribaltamento di prospettiva che scaturisce l’affascinante titolo di una recente mostra fotografica sui luoghi scelti da Pasolini per Il Vangelo secondo Matteo: cfr. G. Gammarota, Sopraluoghi in Lucania. Sulle tracce del «Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini, CMC, Milano 2007, catalogo della mostra svoltasi presso il Centro Culturale di Milano e la Libreria Ulrico Hoepli di Milano, 17 settembre-13 ottobre 2007.

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una lettera del 22 ottobre 1963 indirizzata a Caruso, Pasolini rassicura sulle sue buone intenzioni: Il mio film-inchiesta, non solo sarà privo di tutti quegli elementi di compiacimento erotico o scandaloso (nel senso facile della parola) di cui viene accusato: ma sarà addirittura un film severo, e assolutamente rigoroso nel non concedere nulla, nulla, al pubblico qualunquista e superficiale.114

La conclusione della lettera, lasciando intendere la più completa disponibilità da parte di Pasolini al dialogo, spiega bene la natura dei rapporti intercorsi in quegli anni tra Pasolini e la Pro Civitate: Ad ogni modo […] le prometto che appena finito io lo farò vedere, prima di ogni altro, a lei e ai suoi colleghi della “Pro Civitate”. È assolutamente mio dovere, data la collaborazione così cara, sincera e veramente cristiana, che voi mi avete dato finora per il Vangelo. Questa anteprima assoluta se mai ve ne fu, avrà tre possibilità: 1) Se il film vi piacerà […] benissimo: Bini lo potrà far uscire quando vorrà. 2) Se il film non vi piacerà, per fondamentali discordanze nel tono e nell’interpretazione […], allora metteremo il film nel cassetto, aspettando almeno che prima esca il Vangelo. 3) Se il film vi piacerà così così, in modo che apportandovi alcune modifiche, possa andare, ebbene, apporterò queste modifiche, discusse insieme.115

Tre mesi dopo, tutti i pensieri di Pasolini sono già per Il Vangelo secondo Matteo, in funzione del quale è possibile leggere anche le sperimentazioni intorno al cinéma-vérité praticate in Comizi d’amore116. In una lettera a Caruso del 3 febbraio 1964 Pasolini confessa: […] passo giornate orribili, di ansie, di autofagocitazione: Bini non ha ancora combinato la parte finanziaria del Vangelo, e non si può partire, ancora. Così mi macero a finire quell’impossibile documentario sul sesso, in uno stato di terrore, perché se non riuscissi a fare il Vangelo, per ragioni esterne, non so cosa farei della mia vita, a questo punto.117 114 115

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FC: n. 17; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 256. Tra le tre opzioni ventilate da Pasolini fu la prima a realizzarsi. Il film viene infatti presentato al Festival di Locarno il 26 luglio 1964, un mese prima della presentazione de Il Vangelo secondo Matteo alla Mostra di Venezia il 4 settembre. L’espressione «cinema verità» è pronunciata da Moravia nel film, segno che la direzione stilistica impressa al lavoro era cosciente: Comizi d’amore (trascrizione dialoghi), in CI1, p. 420. FC: n. 27; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 257.

Nell’aprile del 1963 Pasolini fa un’esplicita dichiarazione di voto comunista attraverso un bollettino del partito radicale118. Parallelamente lavora alla sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo, che a maggio può già sottoporre agli amici di Assisi. 2.4.2. La felicità del dialogo È sul copione de Il Vangelo secondo Matteo che, concretamente, ha avvio il dialogo tra Pasolini e i cattolici. In AP si conserva l’esemplare (datato 8 maggio 1963) che don Andrea Carraro, il biblista della Pro Civitate, chiosò e restituì a Pasolini perché vi apportasse le correzioni proposte119. Walter Siti e Franco Zabagli attribuiscono unicamente alla responsabilità di Andrea Carraro i suggerimenti ivi contenuti120. Il reperimento di un secondo esemplare del copione (conservato in FC), coincidente con quello di AP nella parte dattiloscritta ma leggermente differente nella parte autografa, è in grado di far luce sulle reali modalità con cui la Pro Civitate Christiana attese, nel maggio del 1963, al compito di consulenza affidatole, dimostrando inequivocabilmente che i suggerimenti inviati a Pasolini furono in realtà il risultato di un lavoro di squadra, e che il dialogo, lungi dall’essere una bizza assisana, rappresentò in quegli anni una disponibilità culturale diffusa121. 118

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Si tratta di una confessione senza filtri, nella quale Pasolini non solo riconosce l’ondata di irrazionalismo da cui è attraversato, ma individua nella stessa ondata di irrazionalismo che lo spinge a realizzare Il Vangelo secondo Matteo il motivo del suo voto comunista: «Posso rispondervi da uomo emotivo, ingenuo, oltre che per la natura, anche per le circostanze che mi respingono indietro, ai margini, là dove l’uomo se ne sta solo con le sue ansie. Una ondata di irrazionalismo, dunque, sul castello del razionale che ho tentato di costruirmi, con letture e vita pubblica, durante gli Anni Cinquanta» (P.P. Pasolini in Aa. Vv., Il voto radicale, opuscolo ciclostilato, aprile 1963, pp. 3-4, in AP: 44.5). Il doppio strato di scrittura offre l’opportunità di operare un confronto tra l’originario e non mediato approccio di Pasolini al testo di Matteo e quello successivo, condizionato dall’opera della Pro Civitate, confluito nella sceneggiatura a stampa e nel film: cfr. T. Subini, Il dialogo tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana…, cit. Note e notizie sui testi, in CI2, pp. 3083-3086. A differenza dell’esemplare di AP, quello di FC (cronologicamente precedente) riporta annotazioni riconducibili a due mani differenti: di fianco alla scrittura di Andrea Carraro, si riconosce infatti anche quella di Lucio Caruso. Le annotazioni dell’esemplare di FC sono identiche nella sostanza a quelle dell’esemplare di AP: queste ultime non sono altro infatti che la trascrizione in bella copia (operata dalla sola mano di Carraro) di quelle riportate sull’esemplare di FC. Tra le carte di FC si conservano inoltre tre distinti elenchi di osservazioni del tutto corrispondenti alle annotazioni trascritte sui due esemplari glossati del copione. I primi due elenchi giungono ad Assisi da Roma, allegati, parrebbe, a due ulteriori esempla-

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Terminata la stesura della sceneggiatura, tra il 27 giugno e l’11 luglio del 1963 Pasolini si reca in Palestina per fare dei sopralluoghi. Prima di partire dichiara alla stampa che il film sarà dedicato a «Giovanni XXIII, angelico nonno e il più grande Papa dei tempi moderni»122. In Palestina trova conferma l’idea, maturata durante i sopralluoghi dei Comizi d’amore123, di utilizzare per gli esterni lo stesso scenario di Sud e magia124: l’impressione che ancora oggi si ricava dalla visione dei Sopraluoghi in Palestina (1965), documentario realizzato con il materiale girato durante quel viaggio, è che lo scopo segreto di Pasolini sia di vagliare le opzioni italiane (raccolte con i sopralluoghi meridionali) sulla base della loro più o meno aderenza ai corrispondenti originali. Il viaggio serve inoltre per giustificare, di fronte ai rappresentanti della Pro Civitate che lo accompagnano, la volontà di girare in Italia125: Pasolini: Quello che più mi intriga è appunto questo paesaggio, questa scelta che Cristo ha fatto di un luogo così terribilmente arido e così terribilmente disadorno, così terribilmente privo di qualsiasi amenità. Quattro clivi spelacchiati, il fondo di un lago tenebrosamente caldo, e nient’altro. Tutto questo posso ricostruirlo altrove, evidentemente.

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ri del copione (andati perduti): la spedizione del primo è annunciata da una lettera di don Andrea Penna (biblista dell’Ordine dei Canonici Regolari) del 15 maggio 1963 (cfr. FC: nn. 9, 13), quella del secondo da una lettera di padre Domenico Grasso del 19 maggio 1963 (cfr. FC: nn. 10, 14). Le osservazioni contenute nei due elenchi confluiscono quasi tutte, per mano di Carraro, nell’esemplare del copione di FC. Sullo stesso esemplare, annotano inoltre poi le proprie osservazioni sia Carraro sia Caruso. Quest’ultimo, infine, forse per distinguere il proprio contributo da quello di Carraro, stila a sua volta un elenco (FC: n. 12) delle pagine da lui glossate e delle relative annotazioni. È Carraro, da ultimo, a trascrivere in bella copia le osservazioni di tutti i consulenti (compreso le sue) sull’esemplare di AP inviato al regista il 6 giugno 1963, e non nella primavera del 1964 come indicato in Note e notizie sui testi, in CI2, p. 3083: la data corretta è riportata sulla lettera con cui Caruso annuncia a Pasolini l’imminente arrivo del copione (AP: 166.4). [Redazionale], A Giovanni XXIII, angelico nonno, «Annabella», 7 luglio 1963. «Avevo già deciso di far così [girare il film nel Sud d’Italia] anche prima di recarmi in Palestina, dove andai solo per mettermi la coscienza a posto» (P.P. Pasolini, Pasolini on Pasolini, cit.; ora in SPS, p. 1335). Il riferimento al testo di de Martino è suggerito da alcune dichiarazioni di Pasolini, come questa: «un contadino meridionale […] vive ancora in una cultura magica nella quale i miracoli sono reali come lo erano nella cultura in cui visse e scrisse Matteo» (ivi, p. 1340). Se Pasolini avesse espresso subito il desiderio di girare il film in Italia avrebbe offerto un significativo pretesto polemico a coloro che si aspettavano da lui un tradimento del testo evangelico. Per questo il primo comunicato stampa precisa tra i principi che ispireranno il film anche la volontà di ripercorrere i luoghi attraversati da Cristo: cfr., tra gli altri, m. c., Girerà il film nei luoghi dove Cristo visse e operò, «Il Resto del Carlino», 10 febbraio 1963.

[...] Se io […] ritornassi a ispirarmi addirittura a quei pochi metri quadrati di... di... di erba spelacchiata, bruciata e di rocce che c’erano qui: lei lo approverebbe o lo disapproverebbe? Carraro: Non vedo nessuna difficoltà e la credo pienamente autorizzata.126

Rientrato in Italia, mentre Bini si danna per la ricerca dei finanziamenti, Pasolini riprende le interviste dei Comizi d’amore e cerca gli interpreti per Il Vangelo secondo Matteo. Nella scelta degli attori Pasolini cerca di aderire con realismo alla narrazione dei Vangeli, lasciandosi nel contempo guidare dalla vena autobiografica alla base del film. Da un lato chiede a Carraro informazioni sulle «caratteristiche biografiche e psicologiche»127 di ogni apostolo, dall’altro apre il cast ad amici e parenti, affidando in particolare il personaggio della Madonna anziana alla propria madre. A ridosso delle riprese Pasolini deve però ancora risolvere il problema più grande, la scelta dell’interprete di Cristo. L’idea iniziale di usare «un ebreo con gli occhi azzurri, forse un ebreo polacco»128 cade presto. Col tempo Pasolini si convince che solo un poeta possa interpretare il suo Cristo. Andrebbe bene un poeta comunista, sarebbe perfetto se dissidente di un paese dell’Est, ma l’invito rivolto a Evgenij Evtušenko129 incontra l’opposizione delle autorità sovietiche. Sul futuro interprete di Cristo si avanzano le ipotesi più azzardate. Il 4 gennaio del 1964 su «Stampa Sera» esce un trafiletto intitolato Forse il Sindaco La Pira sarà Cristo sullo schermo: Il prof. Giorgio La Pira, attuale sindaco di Firenze, sarà forse Gesù Cristo in un film. La “notizia” finora sussurrata nei circoli politici, vi ha prodotto un certo scalpore perché ha coinciso con il pellegrinaggio di Paolo VI in Terra Santa. Nei corridoi di Montecitorio soprattutto i deputati democristiani si scambiano commenti sulla “notizia” che, tuttavia, non è ancora tale giacché non si sa ancora se il prof. La Pira accetterà l’invito dello scrittore-regista Pier Paolo Pasolini di interpretare il ruolo del Redentore nel suo film Vangelo secondo Matteo.130

La notizia, riportata anche dal «Corriere di Napoli»131, suona poco credibile: si tratta probabilmente di un falso, creato ad arte per mettere in 126 127 128 129 130 131

Sopraluoghi in Palestina (trascrizione dialoghi), in CI1, pp. 665-666 e 669. P.P. Pasolini, lettera ad Andrea Carraro, 10 maggio 1963, in LE2, p. 513. P.P. Pasolini in D. Argento, “Vedrò Cristo come ‘Accattone’”…, cit. Cfr. P.P. Pasolini, lettera a Evgenij Evtušenko, non datata, in LE2, p. 518. [Redazionale], Forse il sindaco La Pira sarà Cristo sullo schermo, «Stampa Sera», 4 gennaio 1964. [Redazionale], Pasolini vuole La Pira attore, «Corriere di Napoli», 5 gennaio 1964.

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difficoltà La Pira. Quel che conta è però che fra i nomi dei papabili interpreti sia stato fatto anche quello dell’uomo di punta del dialogo in ambito strettamente politico: a dimostrazione di quanto questo film debordi, prima ancora di venire girato, dai suoi confini prettamente cinematografici. Alla fine la scelta cade su uno sconosciuto, uno studente spagnolo che del tutto inaspettatamente si presenta a Pasolini per interrogarlo su Ragazzi di vita, in vista di uno studio universitario. In aprile, a ridosso dell’inizio delle riprese, Pasolini scrive a Livio Garzanti dello «stato di nervosismo e di tensione nella preparazione del Vangelo», aggiungendo: «sto lavorando a Bestemmia, che spero sia pronto per il prossimo anno»132. Secondo Virgilio Fantuzzi, Pasolini, di fronte ai due progetti antitetici de Il Vangelo secondo Matteo e di Bestemmia133, avrebbe optato per il primo con il desiderio di perseguire la strada dell’ortodossia a lui in quel momento più confacente134. La lettera a Garzanti lascia invece intendere come Pasolini stesse portando avanti parallelamente entrambi i progetti, quello ortodosso e quello eretico. «L’ipotesi del santo eretico medievale» non viene «scartata»135, ma solo accantonata, in vista di future possibilità. Risulta assai illuminante quanto si legge in una lettera a Mario Alicata, dell’ottobre del 1964, in cui Pasolini parla esplicitamente de Il Vangelo secondo Matteo come di un’opera che gli darà la possibilità di “fare nel futuro ciò che vuole”: Volevo dirti che, pure essendo fin troppo chiaro che il Vangelo è stato un’opera sincera – che ha radici antiche nella mia costituzione psicologica di non credente – è stata anche un’opera che mi ha dato la possibilità di fare nel futuro ciò che voglio. Tu sai bene in che condizioni ero ridotto. [...] Ero ridotto a un reietto, a cui tutti potevano fare tutto. [...] Col Vangelo le cose sono cambiate di colpo, da reietto sono d’incanto tornato su posizione almeno di rispetto. E potrei fare il mio film in Africa: il primo film in cui si parli “esplicitamente” un linguaggio marxista e rivoluzionario, senza mezzi termini, senza sentimentalismi. Oppure potrei realizzare il mio antico sogno di fare una vita di Gramsci (mi pare di avertene parla132 133 134

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LE2, pp. 542-543. Su Bestemmia cfr. S. Rimini, La ferita e l’assenza. Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini, Bonanno, Acireale / Roma 2006, pp. 118-147. «[…] invece di optare per un ritorno all’eresia friulana, ha preferito compiere un’operazione religiosa ortodossa, approfittando dei sintomi di apertura avvertiti nella Chiesa Cattolica con l’avvento al pontificato di Giovanni XXIII» (V. Fantuzzi, La “visione religiosa”, «Bianco e Nero», a. XXXVII, nn. 1-4, gennaio-aprile 1976, cit., p. 76). Ivi, p. 78.

to, qualche tempo fa). Quando tu vedrai con i tuoi occhi il Vangelo, vedrai come questa opera non mi precluda affatto di fare quelle per cui in pratica l’ho fatta.136

È dunque possibile che Pasolini pensasse di poter realizzare il progetto eretico facendo affidamento sul credito acquisito con quello ortodosso. La dedica di Bestemmia a Giovanni XXIII137 parrebbe infatti volerlo indicare quale perfetto pendant de Il Vangelo secondo Matteo. In aprile iniziano le riprese. Qualche giorno prima un Pasolini spaventato come uno scolaro alla vigilia di un esame difficile scrive a Carraro tempestandolo di domande: Pare che finalmente lunedì si incominci (sono in uno stato di esaltazione e di spavento, non lo so neanch’io), e ho dei chiarimenti da chiederle. La prego di fare ancora questa piccola fatica per me. Per le scene con cui comincio, vorrei sapere: sono stati soldati erodiani o romani ad andare ad arrestare Cristo nell’orto del Getsemani? O reparti di tutti e due? Come avveniva l’atto battesimale di Giovanni Battista? C’erano dei gesti o delle formule precise e documentate? […] perché non mi viene per qualche giorno accanto, qui a Roma? Da lunedì 13 al giorno 23-24, giro infatti a Roma e nei dintorni: basterebbe che lei fosse qui i primi giorni, a impostare le prime essenziali cose (giro fra l’altro subito l’Ultima Cena).138

Impossibilitato a raggiungerlo, Carraro risponde a tutte le domande di Pasolini in due lunghe e dettagliate lettere139. Le riprese terminano alla fine di luglio. La quantità di materiale impressionato è da capogiro: «approssimativamente furono girati 70.000 metri di pellicola»140. Difficile dire se Pasolini abbia sempre saputo che ad un certo punto avrebbe dovuto fare una selezione e dunque abbia in qualche modo bluffato sostenendo in pubblico la volontà di seguire Matteo passo per passo senza eliminare nulla, o se nella più disarmante ingenuità e incoscienza si sia trovato infine costretto a quelli che in una lettera, scritta a Caruso tra luglio e agosto, definisce come «dolorosi tagli e omissioni coatte del “Vangelo”»141. 136 137 138 139 140 141

LE2, pp. 566-567. Probabilmente la lettera non è stata spedita (ivi, p. 567). Note e notizie ai testi, in PO2, p. 1726. Lettera pubblicata in F. d’Andrea, E mi vedo trascinare via, col capo nella polvere..., «Oggi», nn. 45-46, 13 novembre 1985, pp. 39-42. Cfr. AP: 162.4, 162.5. L. Betti, M. Gulinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, cit., p. 111. FC: n. 28; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 259.

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Di certo c’è che Pasolini ha sempre sostenuto, senza mostrare la benché minima incertezza, il progetto di non omettere alcun brano dal testo di Matteo. Lo sostiene a partire dalla lettera “concordata” inviata a Caruso nel febbraio del 1963142. Lo sostiene poi nella sceneggiatura, fatta circolare negli ambienti cattolici più avanzati, come il Centro San Fedele o l’Università Gregoriana, per avere sì una consulenza, ma anche per conquistare difensori alla causa. Lo sostiene infine in una serie di dichiarazioni alla stampa143. Non è certo un caso poi che la sceneggiatura sia pubblicata prima dell’uscita del film144: se gli intenti di Garzanti sono di sfruttare la scia pubblicitaria del film per vendere la sceneggiatura, quelli di Pasolini sembrerebbero di altra natura. Nel volume un’avvertenza precisa: La sceneggiatura qui pubblicata corrisponde ad una prima stesura del film, quando il progetto prevedeva misure produttive e artistiche diverse da quelle poi realizzate. Non per questo – anzi – il suo significato letterario e documentario viene a diminuire.145

Quella de Il Vangelo secondo Matteo è, tra le sceneggiature di Pasolini, la più lontana dal film, principalmente a causa dei numerosi tagli (vengono eliminate ben 44 sequenze su un totale di 131)146. La stessa avvertenza a inizio volume, sottolineandone il «significato letterario e documentario» è rivelatrice: ciò che a Pasolini preme documentare sono le intenzioni ortodosse di fondo, prima che il film esca. 142

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«La mia idea è questa: seguire punto per punto il “Vangelo secondo San Matteo”, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto» (FC: n. 5; pubblicata in P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo…, cit., p. 16). «[…] non ho aggiunto una battuta e non ne ho tolta nessuna, seguo l’ordine del racconto tale quale come in S. Matteo» (P.P. Pasolini, Una visione del mondo epico-religiosa, «Bianco e Nero», a. XXV, n. 6, giugno 1964; ora in CI2, pp. 2876-2877; «colloquio» con gli studenti del Centro Sperimentale registrato il 9 marzo). P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo…, cit., è il prototipo di una collana cinematografica dal titolo «Film e discussioni», diretta da Pasolini e curata da Giacomo Gambetti. La prima edizione riporta la seguente data d’uscita: «Finito di stampare l’I settembre 1964». Fin da Accattone Pasolini ha l’abitudine di pubblicare la sceneggiatura prima dell’uscita nelle sale del film. Ivi, p. 39. «[…] as regards the structure of his screenplay, Pasolini could claim with considerable justification that it remained faithful to the narrative flow of the Gospel. It would, however, have been difficult for him to make a similar claim as regards the narrative organization of his film» (Z.G. Barañski, The Texts of Il Vangelo secondo Matteo, in Z.G. Barañski, a cura di, Pasolini Old and New. Surveys and Studies, Four Courts Press, Dublin 1999, p. 289).

In una lettera del 25 luglio, Caruso chiede, con tatto, di essere messo a parte del girato147. L’8 agosto giunge a Giovanni Rossi, in via del tutto confidenziale, la lettera di un membro della Commissione di Censura istituita presso il Ministero per l’assegnazione del visto che afferma di aver visionato il film e di averlo trovato meritevole dei più ampi elogi148. Tra la due lettere, ovvero tra il 25 luglio e l’8 agosto, deve essere dunque stata approntata una copia di lavorazione. Secondo il ricordo di Caruso si trattava di una copia «abbastanza lunga, tre ore e mezza, quattro ore» che rispetto a Matteo denunciava già diverse assenze, avendo Pasolini «già scartato molto»149. Il film viene presentato alla XXV Mostra di Venezia il 4 settembre dello stesso anno. Pasolini ha avuto poco più di un mese per montarlo: tempi stretti, che la critica presente a Venezia non manca di sottolineare, rilevando una serie di «difetti facilmente eliminabili»150. Chi si aspetta un’occasione per barricate ideologiche rimane tuttavia deluso: «La Mostra – riporta la stampa – ha vissuto una giornata squisitamente mistica, dalla proiezione del film alla conferenza-stampa del regista, che pareva una riunione di dotti padri della Chiesa»151. A tutti risulta chiaro che si tratta di una svolta nella storia della fortuna critica del regista: «Pasolini, col suo Vangelo, si è certamente aperto le porte dei cinema parrocchiali, degli ora147 148 149 150

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Cfr. AP: 166.8; copia carbone in FC: n. 29. Cfr. FC: n. 30. L. Caruso, Conversazione con Lucio Caruso, cit. L. Castellani, Il Vangelo secondo Matteo, «Rivista del Cinematografo», nn. 9-10, settembre ottobre 1964, p. 432. Esplicitamente invitato a correggere il montaggio in diverse recensioni (cfr., tra gli altri, F. Sacchi, I film del Festival che dovete vedere, «Epoca», 20 settembre 1964, p. 92), al termine della Mostra Pasolini rimette mano al film apportando più di una modifica. Innanzi tutto ne riduce la durata: nell’approntare l’edizione per le sale Pasolini toglie un minuto circa al termine della prima parte (nell’edizione veneziana si vede la sacra famiglia che, avvisata dello scampato pericolo, si rimette in viaggio per fare ritorno a casa; una bella soggettiva di Maria ci mostra la comunità che ha dato loro ospitalità; sulla strada la sacra famiglia incontra l’angelo che li invita ad andare in Giudea perché tutto si compia); l’inquadratura della colomba al termine della sequenza del battesimo di Gesù; alcuni brani (in tre luoghi diversi) del discorso della montagna; alcuni primi piani del Battista in ingresso alla sequenza della sua decapitazione; alcune inquadrature nella sequenza in cui Cristo invita i discepoli a seguirlo passando all’altra riva. In secondo luogo, muta la posizione di alcuni episodi (la sequenza del miracolo dei pani e dei pesci, la sequenza di Cristo che cammina sulle acque e la sequenza dell’incontro con il giovane ricco). Infine, la sequenza dell’elezione di Pietro, girata ma non montata nella versione veneziana, viene reinserita in quella distribuita nelle sale per assecondare una richiesta della Pro Civitate. L’elenco delle varianti è stato approntato confrontando l’edizione corrente con la copia del Fondo ASAC conservato presso la Fondazione Cineteca Italiana di Milano, che ringraziamo per la disponibilità. [Redazionale], Pasolini ce l’ha fatta, «ABC», 13 settembre 1964, p. 14.

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tori e forse anche di San Pietro. Nulla di più probabile che il Papa un giorno o l’altro faccia proiettare il film e si congratuli con il suo autore»152. Pasolini, che si aspettava il Leone d’oro153, deve accontentarsi di tre premi minori: il premio Speciale della Giuria, il premio dell’Unione Internazionale della Critica e il premio O.C.I.C. Ma per quest’ultimo ad Assisi si esulta154. L’assegnazione del premio O.C.I.C.155 è all’origine di feroci polemiche all’interno del mondo cattolico (preludio di quelle, ancora più accese e dalle conseguenze ben più cocenti, che monteranno intorno al premio O.C.I.C. di Teorema). Come già era accaduto in occasione de La dolce vita tutti si sentono in dovere di esprimere il proprio giudizio. Renato Barillari, spettatore semplice, l’11 ottobre, in un cinema romano, dopo qualche minuto di proiezione, dà in escandescenza, lanciando insulti contro l’autore e rompendo un cristallo del cinema156. Parallelamente, il ministro Giuseppe Togni dichiara attraverso la sua agenzia stampa: Quando si scrive, come si è scritto, che questo premio, oltre a facilitare una maggiore comprensione (leggi contaminazione ideologica) tra cattolici e comunisti, rende omaggio al merito inconfondibilmente marxista di una interpretazione 152 153

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Ibidem. Pasolini individua nel mancato sostegno della stampa comunista il motivo decisivo della sconfitta. Nella già citata lettera (probabilmente non spedita) ad Alicata si lamenta dell’«ondata di profonda antipatia che nei giornali di sinistra ha suscitato il mio film, da l’Unità al Paese Sera: non tanto per gli articoli sul Vangelo, molto rispettosi e impegnati, anche se fondamentalmente e chiaramente scontenti, quanto per la “dichiarazione di voto”, così faziosamente “aggiunta” in calce agli articoli, così brutalmente proclamata nei titoli in favore di Antonioni: questo, data la composizione della giuria, mi ha tolto ogni possibilità di avere il “Leone”. Potevate fare tutto questo con una maggiore delicatezza, e un maggiore rispetto per le mie speranze» (LE2, p. 565). Cfr. AP: 723.15. «Per aver espresso in immagini d’una autentica dignità estetica le parti essenziali del Testo Sacro. L’autore – senza rinunciare alla propria ideologia – ha tradotto fedelmente, con una semplicità e una densità umana, talvolta assai commoventi, il messaggio sociale del Vangelo – in particolare l’amore per i poveri e gli oppressi – rispettando sufficientemente la dimensione divina di Cristo» (il giudizio della giuria è riportato integralmente in [redazionale], Il Vangelo secondo Matteo, «Cinereferendum Centro Culturale San Fedele», a. II, n. 19, 22 ottobre 1964). Intendendo lo sforzo compiuto da Pasolini nel voler rimanere fedele alla lettera del Vangelo “senza rinunciare alla propria ideologia”, la giuria dell’OCIC riconosce e premia l’audacia del film. La stessa espressione fu motivo di scandalizzata ironia per «Il Borghese»: «Senza rinunciare alla propria ideologia, che, come tutti sanno, è il marxismo, Pasolini si è visto consegnare le chiavi d’oro delle sale cinematografiche cattoliche» (P. Buscaroli, Il nuovo evangelista, «Il Borghese», 17 settembre 1964, p. 105). Cfr. [redazionale], Scenata in sala di un professionista contro l’ultima pellicola di Pasolini, «Il Messaggero», 12 ottobre 1964.

marxista di un sacro testo quale è il Vangelo, non si può non restare colpiti, non si sa più se dalla disinvoltura provocatrice dei “partners” del premiato o se dalla incredibile ingenuità autolesionista dei premiatori.157

L’assegnazione del Gran Premio O.C.I.C., conferito a Il Vangelo secondo Matteo il 27 settembre al termine del IX Convegno di cineasti presso la Pro Civitate Christiana158, riaccende a distanza di qualche settimana l’attenzione sul film. Due episodi ci paiono particolarmente significativi. Il primo vede uscire allo scoperto la figura di un personaggio più volte evocato: il 3 ottobre giungono infatti a Pasolini le congratulazioni del sindaco di Firenze, Giorgio La Pira 159. Il secondo vede, il 5 ottobre, ottocento padri conciliari applaudire il film di un marxista nel contesto di una proiezione straordinaria sulle cui dinamiche circolano versioni discordanti160. Alfredo Bini ne ha parlato come di una sua iniziativa161, mentre Pasolini ha voluto leggere l’episodio come espressione di un movimento frondista162. Una dichiarazione del segretario di Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla, smentisce entrambi: Ricordo perfettamente come durante il Concilio venne dato pubblicamente l’annuncio che ci sarebbe stata una proiezione de Il Vangelo secondo Matteo riservata ai Padri. Fu una proiezione ufficiale, non certo fatta alla chetichella. Credo che sia stata la Segreteria del Concilio, d’intesa con l’Ufficio cattolico internazionale del cinema, a prendere l’iniziativa. Nessun’aria di fronda: tutt’altro.163 157 158

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Citato in [redazionale], Pier Paolo il cattolico, «ABC», 25 ottobre 1964. Cfr., tra gli altri, G. Gambetti, Gran Prix al Vangelo secondo Matteo, «Rocca», a. XXIII, n. 18, 1 ottobre 1964, pp. 42-44; [redazionale], Gran Prix 1964 “Il Vangelo secondo Matteo”, «Revue International du Cinéma», n. 85, 25 ottobre 1964. AP: 455.2. Cfr., tra gli altri, [redazionale], Proiezione speciale del film di Pasolini, «Il Giorno», 5 ottobre 1964. A. Bini, Il Vangelo secondo Pasolini, «L’Europeo», 28 novembre, a. XXXI, n. 48, p. 53. P.P. Pasolini, 3 risposte a «Mondo Nuovo», «Vie Nuove», n. 47, 19 novembre 1964; ora in I dialoghi, cit., p. 344: «[…] i vescovi che […] hanno visto il mio film sono i vescovi chiamati “progressivi” del Concilio: non è stata una proiezione in nulla e per nulla ufficiale». Probabilmente Pasolini è spinto a credere ciò da una lettera di p. Nazareno Fabbretti che, l’8 ottobre 1964, appena pochi giorni dopo la proiezione pubblica per i padri conciliari, a nome di Mons. Capovilla gli chiede una copia del film invitandolo al riserbo (AP: 316.1). Una dichiarazione di Caruso fa pensare che tale copia fosse destinata ad una proiezione per Paolo VI: «Una copia del film di Pasolini venne chiesta, attraverso il Centro cattolico cinematografico, all’Arco film, la casa produttrice. La copia fu trattenuta per due giorni, e poi restituita. Quasi certamente, il Papa vide il film in quella occasione» (L. Caruso in S.M. Paci, a cura di, Un ciak benedetto, cit., p. 72). L. Capovilla, cit. ivi, p. 73.

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2.4.3. Lo scandalo del dialogo Dopo una lunga pausa, dovuta «all’estremo impegno di lavoro richiesto dal Vangelo»164, il 15 ottobre 1964 Pasolini riprende la sua rubrica su «Vie Nuove». L’argomento centrale di quasi tutti gli interventi apparsi tra ottobre e dicembre è il dialogo con i cattolici. La prima lettera che Pasolini riceve pone immediatamente e senza riserve tutte le questioni sul tavolo: […] per poter instaurare un proficuo discorso si devono accettare alcune tesi dell’avversario. Nel tuo caso quali sono queste tesi? E può un’opera d’arte conciliare diverse ideologie? [...] Qual è lo scopo del «Vangelo secondo Matteo»? Dobbiamo concludere che ti stia avviando verso una clamorosa conversione?165

Pasolini risponde allegando la recensione de Il Vangelo secondo Matteo apparsa il 4 ottobre su «Mondo Nuovo» e la sua «reazione, sotto forma di eventuale lettera aperta ma non spedita al direttore di quel giornale»166. Il critico di «Mondo Nuovo», dopo aver condannato «questi tempi di scatenati – e non sempre interpretati in modo ideologicamente irreprensibile – dialoghi con i cattolici» (da cui nascerebbero «strani baratti del tipo: tingete un po’ di rosa la bianca bandiera della fede e noi lasceremo intravvedere un pezzettino di croce dietro la falce e il martello»), tiene a «ricordare che Pasolini è forse un egregio scrittore, un regista interessante anche se discutibile, ma è sempre stato un cattolico, sia pure aperto e democratico: per cui filmando il “Vangelo” non ha fatto altro che dialogare con se stesso»167. La recensione si conclude sentenziando: «tra Vangelo e comunismo continuerà a esserci questa fondamentale differenza: che i credenti del primo, se schiaffeggiati, porgono l’altra guancia, mentre i seguaci del secondo fanno la rivoluzione. Pasolini a parte»168. Nella sua “risposta non spedita” Pasolini provocatoriamente nega di essere cattolico, e nel ricostruisce la propria biografia opera “demistificando”: Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana. Mio padre ufficiale dell’esercito e non cre164 165 166 167 168

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P.P. Pasolini, Accusa arbitraria, «Vie Nuove», a. XIX, n. 45, 5 novembre 1964, p. 30; ora in I dialoghi, cit., p. 334. Giuseppe Pernice, in P.P. Pasolini, La risposta non spedita, cit.; ora in I dialoghi, cit., p. 327. P.P. Pasolini, La risposta non spedita, cit.; ora in I dialoghi, cit., p. 327. F. Valobra, Vangelo rosso, «Mondo Nuovo», 4 ottobre 1964. Ibidem.

dente, mia madre credente, forse, ma non praticante: non ho mai frequentato catechismo e chiese. E fra l’altro non sono nemmeno cresimato. Non ho subìto nelle mie letture nessuna fondamentale influenza cattolica, perché a quattordici anni ho cominciato con Dostoiewsky e Shakespeare, e per quella strada ho continuato: unica influenza la lettura pura e semplice del Vangelo, una volta, la prima, nel ’43, e la seconda, a Assisi, dove mi è venuta l’idea del film, nel ’62. Ho amato, alla fine degli anni Quaranta, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vesperi. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani, nell’immediato dopoguerra: e da allora tutta la mia angolazione culturale e le mie letture sono state marxiste.169

Infine, secondo un procedimento tipico della prosa dialettica di Pasolini, le argomentazioni del proprio avversario finiscono per essere letteralmente ribaltate: Forse appunto perché sono così poco cattolico, che ho potuto amare il Vangelo e farne un film: non ho dentro di me le resistenze interne contro la religione che inibiscono un marxista che sia stato veramente un borghese cattolico. [...] io ho potuto fare il Vangelo così come l’ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo [...] come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo).170

Il numero successivo di «Vie Nuove» ripropone sostanzialmente le stesse questioni (lo stesso Pasolini non può far altro che prendere atto dell’attualità dell’argomento: «evidentemente ormai, per me, questo, di discutere del Vangelo, è un dovere che mi è imposto dalle cose, e richiede che io vinca ogni incertezza e ogni pudore»171). La lettera alla quale Pasolini è chiamato a rispondere pone le seguenti domande: Caro Pasolini, ho letto spesso sulla stampa che nella preparazione del tuo film «Il Vangelo secondo San Matteo» hai avuto contatti con alte gerarchie cattoliche 169 170

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P.P. Pasolini, La risposta non spedita, cit.; ora in I dialoghi, cit., p. 329. Ibidem. L’affermazione di Pasolini è ripresa da Fantuzzi quando scrive: «Bisogna essere un po’ laici, cioè un po’ lontani, per apprezzare la forza d’urto contenuta nella sconvolgente novità del Vangelo; chi vi è troppo vicino, o se ne considera addentro, rischia di soggiacere a una forma di assuefazione che è nemica della dimensione più autentica del sacro» (V. Fantuzzi, Vangeli cinematografici a confronto, «La Civiltà Cattolica», a. 128, quaderno n. 3048, vol. II, 18 giugno 1977, p. 585). P.P. Pasolini, Il “Vangelo” e il colloquio, «Vie Nuove», n. 44, 29 ottobre 1964; ora in SPS, p. 1029.

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ed in particolare con l’organizzazione nota con il nome di «Pro Civitate Christiana». Contrariamente a quanto tu possa pensare non ti critico per questo. Vorrei invece sapere se questa esperienza ti abbia portato a fare qualche riflessione sulla possibilità di un dialogo tra cattolici e non.172

La risposta, intitolata Il “Vangelo” e il colloquio, rappresenta il maggior contributo al dialogo elaborato da Pasolini sul versante della scrittura. Quando, qualche mese dopo, Pasolini tenterà di proporsi anche a livello editoriale quale punto di riferimento del dialogo tra cattolici e comunisti, si presenterà ai suoi potenziali collaboratori con tale testo173. «Perché dovrei pensare che mi critichi per aver avuto contatti con la “Pro Civitate Christiana”?», chiede provocatoriamente al suo lettore: I preti non sono mica il diavolo: altrimenti dovremmo adottare, rovesciata, la posizione manichea di quasi tutti i cattolici nei nostri confronti. […] Ora, da parte dei comunisti verso i preti, e da parte dei preti verso i comunisti, c’è una specie di atteggiamento «razzistico»: essi, volendolo o no, cedono a una specie di tentazione discriminatoria […]. Papa Giovanni era psicologicamente, direi, incapace di discriminare [...]. Ve lo immaginate Papa Giovanni scandalizzato o indignato contro gli otto milioni di votanti comunisti in Italia? Io no. [...] Comunque tutto questo proceda, due cose permangono certe: 1) Una filosofia atea non preclude il rispetto per la religione; 2) Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo – tanto è vero che la base marxista e operaia è sempre stata nella sua maggioranza credente, ed anche ad alto livello si sono avuti molti marxisti cattolici. Ed è comunque un fatto corrente e tipico del marxismo contemporaneo quello di contenere molti elementi della cultura borghese e irrazionalistica, elaborandoli in forma complessa e originale.174 172 173

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G. Bassetti in P.P. Pasolini, Il “Vangelo” e il colloquio, cit.; ora in SPS, 1028. Nei primi mesi del 1965 Pasolini e Giacomo Gambetti lavorano al secondo volume della collana «Film e discussioni». Il volume, dedicato a E venne un uomo (1965) di Ermanno Olmi, vorrebbe, fra le altre cose, raccogliere un capitolo a più voci sulla figura di Giovanni XXIII. I collaboratori invitati sono i dieci autori de Il dialogo alla prova, cit., ritenuto da Pasolini «il documento più concreto e più sincero del nuovo corso dei rapporti privati tra comunisti e cattolici» (P.P. Pasolini, lettera a L. Lombardo Radice, 11 febbraio 1965, in Fondo Lucio Lombardo Radice presso Fondazione Istituto Gramsci, pubblicata in G. Sciré, La democrazia alla prova, cit., pp. 412-413). A tutti Gambetti invia Il “Vangelo” e il colloquio, con l’invito a servirsene come spunto. Il progetto di rifare a due mesi di distanza dalla sua uscita l’esperienza de Il dialogo alla prova è destinato a fallire. Ne spiegano i motivi le lettere di risposta di Mario Gozzini e di Lombardo Radice, pubblicate da Sciré (ivi, pp. 412, 416-417): il gruppo fiorentino in particolare (Gozzini, Zolo, Cecchi e Meucci) ritiene di non poter condividere il nesso diretto tracciato dal progetto pasoliniano tra Giovanni XXIII e l’avvio del dialogo. Rimane tuttavia significativa la volontà di Pasolini di inserirsi, anche sul piano editoriale, nel dialogo in corso. P.P. Pasolini, Il “Vangelo” e il colloquio, cit., pp. 1029-1030.

Riconosciuto in Giovanni XXIII il modello umano cui guardare e inquadrato il dialogo secondo la prospettiva comunista, nei termini di un superamento filosofico di posizioni frondiste ormai invecchiate, il ragionamento di Pasolini prosegue analizzando la questione dalla prospettiva cattolica: Bisognerebbe che una sola idea si facesse strada tra le alte gerarchie della Chiesa, oltre che tra l’umile clero: che il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma è il materialismo borghese. Il primo è teorico, filosofico, speculativo, e comprende quindi i momenti più assoluti della religione, il secondo è totalmente pratico, empirico, strumentale, esclude come contrario a se stesso ogni momento sinceramente religioso o conoscitivo del reale, e lo accetta solo se finto secondo i vecchi canoni dell’ipocrisia. L’ateismo di un militante comunista è fior di religione in confronto al cinismo di un capitalista: nel primo si possono sempre ritrovare quei momenti di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volontà conoscitiva, di fede – che sono elementi, sia pure disgregati, di religione – nel secondo non si trova che Mammona.175

Le posizioni di Pasolini, mai esternate in termini tanto espliciti quanto facili da intendere, suscitano il biasimo della stampa clericale. Su «Documenti di Attualità Politica» qualche giorno dopo esce un articolo dai toni violentemente accusatori: «L’estremo accorgimento dei marxisti è quello di abbandonare il rifiuto dei testi del nemico e di infilarcisi dentro e coprirsene, trasformandoli»176. Il 26 novembre 1964, all’ennesima lettera polemica rispetto a quanto va sostenendo su «Vie Nuove» nelle ultime settimane («È pura follia – gli scrive un lettore – considerare con rispetto esseri che vivono sul nostro sfruttamento»177), Pasolini risponde fornendo un ritratto della Chiesa che spiega la natura delle speranze da lui riposte nel rinnovamento determinato da Giovanni XXIII e dal Vaticano II: È vero, è vero: i preti furono con gli Zar, furono con Mussolini e Hitler, furono e sono con Franco. […] Se ti è lecito identificare un momento storico della Chiesa con la classe sfruttatrice, ciò non significa che lo puoi fare sempre. […] con Papa Giovanni la Chiesa si è mossa […]. Il Papa si è tolto dalla testa la mitra e l’ha 175 176 177

P.P. Pasolini, Chi è nemico di Cristo, «Vie Nuove», n. 44, 29 ottobre 1964; ora in I dialoghi, cit., pp. 333-334. [Redazionale], Il nuovo Evangelista, «Documenti di Attualità Politica», 5 novembre 1964. U. Rossi, in P.P. Pasolini, Ingenuità e schematismo, «Vie Nuove», n. 48, 26 novembre 1964; ora in I dialoghi, cit., p. 345.

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donata ai poveri, sollevando un alto applauso tra tutti i vescovi e i cardinali avanzati che pensano la Chiesa come la Chiesa dei Poveri. È difficile ormai oggi, nel giro di pochi anni, identificare così crudamente e drasticamente la Chiesa con il Capitalismo, vecchio o nuovo.178

Il 17 dicembre, di fronte ad una lettrice che gli chiede: «Con “gente” che pur di mantenere i suoi privilegi secolari è pronta a rinnegare le parole dei Vangeli quale colloquio aprire?», Pasolini torna a definire gli obiettivi del dialogo: Cosa vorremmo, noi marxisti? Che coi cattolici ci fosse un rapporto democratico, che si trasformasse in una conoscenza reciproca reale. È il minimo che si richieda per una convivenza civile. Non vogliamo mica farci convertire, o convertire! Questo implica da parte nostra una richiesta minima alla Chiesa (richiesta fatta implicitamente, e senza alcuna pretesa): quella cioè di non compromettersi con la classe finora al potere fino al punto di accettarne le reazioni fasciste.179

L’ultimo numero di dicembre chiude la questione affrontando direttamente il suo nucleo centrale. Alla domanda «Può il comunista credere?», Pasolini risponde affermativamente: «[…] ce n’è molti, ai più vari livelli, dai cosiddetti “comunisti cattolici” […] [a] quelli che si segnavano davanti alla bara di Togliatti»180. 2.4.4. La difficoltà del dialogo Tra l’aprile e il maggio del 1965, mentre vive sotto la Pasqua il sogno di vedere Il Vangelo secondo Matteo proiettato nelle sale parrocchiali181, Pasolini pubblica su tre numeri consecutivi di «Vie Nuove» tre soggetti cinematografici, L’aigle, Faucons et moineaux, Le corbeau, chiedendo il 178 179 180 181

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P.P. Pasolini, Ingenuità e schematismo, cit.; ora in I dialoghi, cit., pp. 346-347. P.P. Pasolini, Il peccato del compromesso, «Vie Nuove», n. 51, 17 dicembre 1964; ora in I dialoghi, cit., pp. 356-357. P.P. Pasolini, Teologia di ritorno, «Vie Nuove», n. 52, 24 dicembre 1964; ora in SPS, pp. 1038-1040. Tanto di paese quanto di città. A titolo di esempio si riporta il trafiletto di un giornale locale del cuneese che il 17 aprile informa del «notevole, atteso successo di pubblico anche nella imminente temperie pasquale» raccolto dalla proiezione del Vangelo secondo Matteo presso il «Cinema-Teatro di Santa Caterina» ([redazionale], Una pellicola di eccezione, «Alta Val Tanaro», 17 aprile 1965). Il film è programmato nella settimana pasquale anche a Bologna: cfr. A. Magnani, “Il Vangelo secondo Matteo” presentato al clero della diocesi, «L’Avvenire d’Italia», 20 marzo 1965.

parere dei lettori della sua rubrica: «I tre soggetti – è specificato in una nota redazionale – formano una trilogia per un film che sarà intitolato Uccellacci e uccellini»182. È stato notato, confrontando la sceneggiatura di Uccellacci e uccellini con il film stesso, come si sia «in presenza di due opere che condividono l’autore e il titolo ma […] che propongono livelli diversi di approfondimento»183. Ciò è ancor più vero se si confronta il film non con la versione della sceneggiatura data alle stampe, ma con la versione originaria conservata in AP. Di stesura in stesura la sceneggiatura è infatti sottoposta ad un progressivo prosciugamento ideologico che sfocia infine nel compromesso costituito dal film. A tale risultato si giunge proprio in seguito all’intervento inibitore della Pro Civitate184, che Pasolini, a fronte della felice collaborazione sperimentata in occasione de Il Vangelo secondo Matteo, torna a interpellare. Il progetto di Uccellacci e uccellini si pone infatti nel solco del dialogo avviato da Il Vangelo secondo Matteo, come spiega Pasolini stesso ai suoi amici di Assisi: «La chiave è leggera e comica, ma il tema è la continuazione del Vangelo: il dialogo tra chi crede e chi non crede, lo sforzo reciproco di “concepirsi” a vicenda»185. 182

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P.P. Pasolini, Le corbeau, «Vie Nuove», n. 19, 13 maggio 1965; ora in I dialoghi, cit., p. 405. Uccellacci e uccellini è l’ennesimo film pasoliniano centrato sulla morte. All’inizio lo spettacolo della morte («M’ha detto l’appuntato che l’ha visti, ch’erano tutti sporchi de vomito… Lui sul letto, e lei sdraiata dentro a l’ingresso co’ le mano stirate verso la porta…»: P.P. Pasolini, Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1966; ora in CI1, p. 760) suscita le riflessioni di Totò. Alla fine il cerchio si chiude con la rappresentazione della morte dell’ideologia. Sia la morte di Togliatti sia quella del corvo sono ricondotte da Pasolini all’archetipo sacrificale e così caricate di senso: «In realtà, la storia di Togliatti non finisce qui, perché dopo che loro sono stati via con la donna ricompare il corvo. I due compiono un atto di cannibalismo, quello che i cattolici chiamano comunione: ingoiano il corpo di Togliatti (ossia dei marxisti) e lo assimilano» (P.P. Pasolini, Pasolini on Pasolini, cit.; ora in SPS, p. 1350). E. Cerquiglini, Uccellacci e uccellini: vincitori e vinti, in F. Tuscano (a cura di), Pier Paolo Pasolini, intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico, Cittadella, Assisi 2005, pp. 206-207. Dal recente convegno su Pasolini organizzato dalla Pro Civitate non emerge nulla al riguardo. Nella relazione di Enrico Cerquiglini viene riconosciuto «quanto il progetto iniziale sia stato stravolto durante la realizzazione cinematografica» (E. Cerquiglini, Uccellacci e uccellini…, cit., p. 221), ma se ne ignorano completamente le cause. Il principale motivo per cui «nel film Uccellacci e uccellini percepiamo che il discorso dell’autore-regista è lasciato interrotto» (ivi, p. 207) è di fatto riconducibile alla volontà di venire incontro agli amici di Assisi. La lettera, pubblicata in F. d’Andrea, E mi vedo trascinare via…, cit., p. 39, non è datata: va collocata presumibilmente tra la fine di giugno e l’inizio di agosto del 1965. Cfr. U. Casiraghi, A proposito di Uccellacci e uccellini, «Civiltà dell’Immagine», n. 1, luglio 1966: «Mai il marxismo cristiano, o il cristianesimo marxista di Pier Paolo Pasolini, ha trovato sullo schermo un’applicazione più dichiarata che in Uccellacci e uccellini».

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Risale, con ogni probabilità, ai primi di agosto del 1965 la lettera (non pervenutaci) con cui Pasolini mette in allerta Andrea Carraro. L’8 agosto Carraro gli risponde: «Mi congratulo anche per il suo prossimo lavoro: offrirle la mia... collaborazione? Boh, è forse una grossa pretesa: ad ogni modo lei sa che le voglio bene e allora possono diventar possibili tante cose, senza burocrazie e piani strategici»186. È tra settembre e ottobre, quando Pasolini già si sta accingendo a girare il film, che giunge ad Assisi la sceneggiatura. I giudizi sono risolutamente negativi: la lettera del 7 ottobre in cui Caruso parla di «un film che da noi purtroppo non può che essere totalmente disapprovato»187, è certamente preceduta da una telefonata che induce Pasolini a scrivere immediatamente, allarmato, a Giovanni Rossi: «le scrivo subito, senza aspettare la lettera di Caruso. La sua telefonata mi ha così sconvolto, che non riesco a aspettare»188. Dallo scambio epistolare sembra che la principale riserva degli amici di Assisi riguardi il radicale dissenso opposto dal film alla società e alle sue istituzioni. Pasolini risponde che tale opposizione è compiuta in nome di valori religiosi: Sì, io critico questa società, e la critico con tutta l’anima, con tutto me stesso, senza compromessi e quindi anche con violenza. Certo, non ho rispetto per degli istituti sociali che mi sembrano ingiusti e ipocriti. Critico le istituzioni borghesi, e tra queste la famiglia, come sede dell’ipocrisia e della difesa dei privilegi economici, l’esercito, come sede della volontà di guerra apportatrice di vantaggi economici ecc. ecc. Ma in nome di cosa, critico tutto questo? […] Io critico questa società in nome di valori sostanzialmente religiosi. E questa è la tematica del mio film. Che vuol dimostrare, che, da qualunque parte lo si prende, l’uomo è un “animale religioso”: non ne esauriscono la sua estensione immensa, né il razionalismo liberale o socialdemocratico (I episodio) né il marxismo (III episodio). Può esaurirlo la Chiesa (II Episodio), a patto che essa tenga chiaramente presenti però queste parole sintetiche di Paolo VI (che metterò probabilmente come epigrafe di quel II episodio): “Sappiamo che la giustizia è progressiva; e sappiamo che man mano che progredisce la società, si sveglia la coscienza della sua imperfetta composizione e vengono alla luce le disuguaglianze stridenti e imploranti che affliggono l’umanità. Non è forse questa avvertenza della disuguaglianza fra classe e classe, fra nazione e nazione, la minaccia più grave alla rottura della pace?”.189 186 187 188 189

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AP: 162.11; citata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 268. Pubblicata in CI2, p. 3092. FC: n. 43. La lettera, non datata, presenta il timbro postale dell’8 ottobre 1965. FC: n. 43.

La lettera tocca toni a tratti imploranti: «Caro Don Giovanni, le giuro su mia madre che è questo che voglio dire nel mio film. Se Lei non mi crede allora vuol dire che non esiste possibilità di comprensione tra gli uomini, e noi non siamo che dei lupi l’uno verso l’altro»190. Pasolini carica l’episodio di significati forse eccessivi, che rimettono in discussione il dialogo avvenuto in occasione de Il Vangelo secondo Matteo: Voi dovete concedermi di dare il vostro giudizio sull’opera quando sarà conclusa: perché altrimenti vorrebbe dire che la nostra amicizia era basata sul nulla, o su un equivoco. Non è possibile che avessero ragione i vostri nemici. Voi avete visto le mie opere, me stesso, mia madre: dovete essere sicuri del vostro giudizio su di me. Lo so, sono un amico difficile e scomodo: ma non gettatemi a mare giudicandomi da un’opera non fatta!191

Emerge chiara la volontà di frenare: nel momento in cui Pasolini scrive questa lettera l’autocensura è già intervenuta in nome di un fine più grande, quello di non interrompere il dialogo. Pasolini chiede un elenco dei brani incriminati dichiarandosi disposto, prima ancora di sapere quali, a sopprimerne una parte: Credo che sia vostro dovere di amici, e più di cristiani, aiutarmi in quest’opera che vuole continuare il “dialogo”: non più nel “tono” del Paradiso (com’è stato per il Vangelo) ma nel “tono” della Commedìa (l’inferno e il purgatorio umani). Per aiutarmi vi basta poco: un po’ di fiducia, un po’ di pazienza, e soprattutto facendomi avere un elenco dei punti concreti che vi scandalizzano. Così alcuni li sopprimerò, altri li attenuerò, altri li chiarirò. Voglio, come dicevo con Don Andrea e con Caruso, che alla fine del film salti fuori lo spirito che ha animato il film, e che si attenuino192 i particolari crudi che non possono però totalmente sfuggire al mio sguardo realistico e pessimista. Per questo vi ho scritto prima di avere la lettera di Caruso, che non vorrei neanche aprire, prima che voi abbiate risposto a questa…193

Qualche giorno dopo giunge la lettera di Caruso, dai contenuti a quel punto per Pasolini prevedibili: Anche tagliando le parti più irriverenti (per carità, tolga in ogni caso la parodia delle beatitudini e del cantico delle creature!) temo che questo film non potrà 190 191 192 193

FC: n. 43. FC: n. 43. Lezione manoscritta di un precedente dattiloscritto «spariscano». FC: n. 43.

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evitarLe dolorose conseguenze. Se Lei è tuttora dell’idea espressami l’altro ieri di voler parlare della «religione» (cioè quello che Lei intende: mistero e morte) senza attaccare o ridicolizzare il cattolicesimo, dovrà adottare delle decisioni radicali, togliendo tutte le parole e immagini che sono pertinenti al cristianesimo o anche lontanamente lo adombrano.194

La lettera termina con la «preghiera vivissima» di cambiare la location prevista per l’episodio centrale: «se proprio vuole fare questo film (e tanto meglio sarebbe, per lei innanzitutto, se ci rinunziasse), non giri alcuna scena ad Assisi o che può sembrare ambientata ad Assisi»195. La lettera di Pasolini dell’8 ottobre ha però nel frattempo ricucito lo strappo: «La tua lettera mi ha vivamente commosso – gli scrive Giovanni Rossi il 13 ottobre –. Voglio subito assicurarti che l’amicizia, la stima, la preghiera nostra per te non avranno mai un’attenuazione, e saranno sempre più cordiali. Ci domandi fiducia e pazienza, e te le diamo con molto cuore»196. Lo stesso giorno gli scrive anche Caruso: «Abbiamo lavorato per tre giorni e sono felice che si è giunti alla decisione della quale Don Giovanni Le scrive in pari data. La Sua lettera è stata determinante nel darci icasticamente conferma del Suo stato d’animo di poeta che si accinge a fare opera di alta poesia e della Sua sincerità alla quale abbiamo sempre creduto»197. Il 26 ottobre 1965 giunge a Pasolini una lunga lettera di Andrea Carraro che elenca con precisi riferimenti di pagina tutti i luoghi della sceneggiatura considerati problematici e che Pasolini nella maggior parte dei casi finisce effettivamente per modificare198. A differenza di quanto fece per Il Vangelo secondo Matteo, la Pro Civitate evita di pronunciarsi ufficialmente intorno a Uccellacci e uccellini. Tuttavia, la lettera con cui Caruso, il 12 aprile 1966, invita il film ad aprire l’annuale Convegno di cineasti presso la Cittadella suona come un pieno avallo199. Il film è inoltre accolto positivamente dalla critica cattolica e in particolare dalla «Rivista del Cinematografo», che il 12 luglio 194 195 196 197 198 199

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Pubblicata in CI2, p. 3092. La sceneggiatura manterrà l’ambientazione dell’episodio francescano ad Assisi, ma il film sarà girato altrove. AP: 723.21; copia carbone in FC: n. 45; pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana, cit., p. 268. AP: 166.15; copia carbone in FC: n. 44; parzialmente pubblicata in CI2, pp. 3092-3093. Cfr. T. Subini, La chiesa e l’usignolo, cit., pp. 265-292. Cfr. AP: 166.17.

Mons. Angelicchio si premura di spedire a Pasolini allegata ad una lettera. Il dialogo con i cattolici si sta aprendo alle alte gerarchie ecclesiastiche: è solo un piccolo spiraglio, che subito si richiude per il repentino mutare del clima culturale. La posta in gioco è alta, lo sanno entrambe le parti: è il film su San Paolo200. Mons. Angelicchio chiede notizie, si augura che l’accordo con la Sampaolofilm vada a buon fine e confessa che intorno al progetto c’è molta attesa201. 2.5. La ricerca del sacro attraverso il mito (1966-1970) Quel che segue a Il Vangelo secondo Matteo e a Uccellacci e uccellini butta all’aria gli equilibri così duramente conquistati. Come già rilevato, è possibile riconoscere nel biennio 1964-1966 «un crinale oltre il quale niente è più come prima»202. Cosa accade all’opera di Pasolini di così grave da farla mutare? Cosa segna il passaggio «dagli anni della fiducia nella ragione e nella politica agli anni del disinganno e del ritorno ai miti irrazionali e alle passioni private»203? Insomma, cos’è che ha visto Pasolini in quei due anni, tra le capriole della propria intelligenza? Ha visto sparire la realtà, inghiottita dalla borghesia; e ha capito che in quella mancanza di realtà (“irrealtà” è la parola che gli presta l’amica Morante) non c’è più una sponda sicura per il Poeta.204

È allora che Pasolini si rivolge al mito greco: sia nelle riscritture creative di Edipo re, dell’Orestiade e di Medea, sia nella stesura di tragedie di ambientazione contemporanea ispirate nella struttura al teatro greco. 200

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Sul progetto di trarre un film dalla vita di San Paolo cfr. T. Subini, La caduta impossibile: San Paolo secondo Pasolini, in M. Gioseffi (a cura di), Il dilettoso monte. Raccolta di saggi di filologia e tradizione classica, LED, Milano 2004, pp. 227-274. Rispetto a quanto lì pubblicato, rimane da segnalare uno scambio epistolare (AP: 649.5-7) di cui siamo venuti a conoscenza successivamente. Data 31 maggio 1960 una lettera di Neri Pozza contenente una proposta di lavoro, che inizialmente Pasolini parrebbe accettare, ma che per qualche ragione sconosciuta non si concretizza (nell’Archivio Neri Pozza presso la Biblioteca Bertoliana di Vicenza non risulta nulla al riguardo): la proposta (probabilmente non estranea al fatto che Pasolini ha appena concluso la traduzione dell’Orestiade) è di tradurre, nuovamente dal greco, la Lettera agli Ebrei di San Paolo. AP: 14.2. W. Siti, L’opera rimasta sola, cit., p. 1931. V. Russo, Riappropriazione e rifacimento: le traduzioni, in U. Todini (a cura di), Pasolini e l’antico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 141. W. Siti, L’opera rimasta sola, cit., p. 1934.

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Secondo quanto affermato da Pasolini, anche Teorema fu originariamente concepito come tragedia in versi, prima di diventare un film205. Si configura come premessa di tale stagione una rinnovata riflessione sul “problema della morte”, elaborata nel dittico tragi-comico de La terra vista dalla luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? (1968), la cui «ideologia di fondo – ha spiegato Pasolini – è un’ideologia picaresca, la quale, come tutte le cose di pura vitalità, maschera una ideologia più profonda, che è l’ideologia della morte»206. Entrambi i film mettono infatti in scena una morte intesa come momento di passaggio ad un altrove non dissimile dalla vita: se la morale de La terra vista dalla luna recita esplicitamente che «essere morti o essere vivi è la stessa cosa»207, Che cosa sono le nuvole? addirittura individua nel transito un miglioramento di stato. Le due marionette di Che cosa sono le nuvole? vivono all’interno di una rappresentazione: «Siamo in un sogno dentro un sogno» 208, spiega Jago ad Otello. Per conoscere la realtà, ovvero “che cosa sono le nuvole”, è necessario prima morire. Al ritrovarsi al cospetto della “comare secca”, Totò e Ninetto inizialmente gridano per la paura. Ma ecco l’epilogo inaspettato: la morte porta con sé un risvolto positivo, la rivelazione della «straziante meravigliosa bellezza del creato». Di fronte all’inquadratura finale di Totò che si abbandona a tale bellezza tornano alla mente le ultime parole pronunciate da Accattone prima di morire: «Mo’ sto bene». La morte si configura nuovamente come un momento di rivelazione, che apre l’accesso ad una nuova vita: le carcasse di legno dei due burattini potranno giacere nella discarica, perché le loro anime si sono già librate, 205

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«Circa tre anni fa ho cominciato a scrivere, per la prima volta in vita mia, delle cose di teatro; ho scritto quasi contemporaneamente sei tragedie in versi e Teorema era, come prima idea, una tragedia in versi, la settima» (P.P. Pasolini, intervista a cura di L. Peroni, «Inquadrature», nn. 15-16, autunno 1968; ora in CI2, p. 2934). P.P. Pasolini, da un’intervista RAI-TV del 1967 a cura di L. Lucchetti, in parte trascritta in L. De Giusti, a cura di, Pier Paolo Pasolini, Cinemazero, Pordenone 1979, p. 65. In L. Betti e M. Gulinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, cit., p. 139 è specificato che si tratta di una morale «desunta dalla filosofia indiana». Sono gli anni in cui l’India esercita su Pasolini una considerevole attrazione (sui rapporti tra Pasolini e la religione indiana cfr. N. Spineto, Pier Paolo Pasolini e il sacro…, cit.). Dal 20 dicembre 1967 e il 10 gennaio 1968 Pasolini gira, in India, gli Appunti per un film sull’India (1968), la cui vicenda ripropone l’archetipo sacrificale lungamente lavorato: il soggetto (in CI1, pp. 1075-1078) narra infatti la storia di un maharajah con la vocazione al martirio che dona il proprio corpo per sfamare degli innocenti tigrotti. Tanto in Italia, quanto in India, Pasolini persegue la costruzione di un cinema che metta in scena delle morti cariche di senso. Il riferimento è alla risposta all’agognato “problema della morte” fornita da La vita è sogno di Calderón de la Barca, secondo cui la vita non sarebbe altro che un sogno dal quale ci si risveglia con la morte.

come il sorriso dei loro volti lascia intendere. Per tale motivo Pasolini può parlare di quella discarica come del loro paradiso209. Il secondo importante momento di riflessione sul problema della morte cui sono collegati i film sui miti degli anni immediatamente successivi è la relazione con cui Pasolini interviene alla Terza Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (27 maggio-4 giugno 1967), di cui si è già scritto210. Applicando la teoria della “morte come montaggio” alla storia di Edipo, nello scritto che introduce il volume della sceneggiatura di Edipo re, Pasolini sviluppa le riflessioni da poco elaborate in una direzione assai significativa per la nostra prospettiva. Il testo individua nella morte di Edipo «la condizione necessaria e insostituibile per fare della sua vita una storia»211. Pasolini spiega di non aver fatto altro che selezionare i «momenti veramente ineluttabili della vita di Edipo»212 e di averli connotati di «estetismo» e di «umorismo»213, per concludere affermando che «la ragione più profonda sia dell’estetismo che dell’umorismo […] è il terrore della morte»214. “Il terrore della morte”, ciò che il Welles de La ricotta “non prende in considerazione”, ciò che il Pasolini de Il Vangelo secondo Matteo “non può demistificare”, viene definito qui la ragione ultima del fare artistico: Pasolini confessa insomma di scrivere e di fare film spinto dal terrore della morte. Edipo re, in quanto «trasposizione, sul piano del mito, delle persistenti ossessioni dell’autore»215, è da intendersi come un sofisticato processo di destorificazione il cui fine è riconquistare la possibilità di tornare alla storia. La rappresentazione del mito viene infatti collocata all’interno di una cornice storica (costituita da un prologo e da un epilogo) che interpreta alla perfezione il pensiero demartiniano secondo cui la destorificazione, fondata sull’evasione dal mondo umano, ha però sempre un carat209

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«Queste due marionette vengono gettate da un immondezzaro (che è Modugno, e che quindi lo fa cantando) in un orribile immondezzaio; ma lì, in questo immondezzaio, scoprono il mondo, che sarebbe il loro paradiso» (P.P. Pasolini, da un’intervista RAI-TV del 1967 a cura di L. Lucchetti, in parte trascritta in L. De Giusti, Pier Paolo Pasolini, cit., p. 65). Cfr. 1.2. P.P. Pasolini, Perché quella di Edipo è una storia, in Edipo re. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1967, p. 11. Ivi, p. 11. «L’estetismo e l’umorismo hanno dunque presieduto alla scelta dei momenti tipici della vita di Edipo, quelli che acquistano valore dopo la morte del protagonista» (ivi, p. 12). Ivi, p. 13. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 89.

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tere parentetico e si risolve nel suo contrario, vale a dire nel recupero della pienezza dell’“esserci nel mondo”. Una volta accecatosi, Edipo ritorna infatti in società sublimando le sue colpe attraverso la poesia. Prima suona per la borghesia una musica decadente; poi, fuori dalle fabbriche, una musica dal chiaro valore connotativo: la stessa che risuonava, diversamente orchestrata, nella sequenza delle invettive antifarisaiche de Il Vangelo secondo Matteo. Attraverso la figura di Edipo poeta, Pasolini rappresenta in sintesi la propria evoluzione artistica dagli anni Quaranta agli anni Sessanta; parallelamente, attraverso la dialettica tra storia e mito rappresenta le modalità con cui si è “preservato” nel corso di quei tre difficili decenni. Nel 1968, con Teorema, le riflessioni intorno al sacro sfociano in una prima compiuta e originale formulazione “teorica”. Se, come visto, il concetto di sacro è stato recepito nel corso della prima metà degli anni Sessanta per via demartiniana, in seguito alla lettura di Le sacré et le profane di Mircea Eliade esso comincia ad essere avvicinato nella sua accezione metafisica. Teorema rappresenta efficacemente il rapporto ambivalente di timore e venerazione che caratterizza, per Rudolf Otto, l’incontro dell’uomo con il mysterium tremendum et fascinans del sacro. Esperire il sacro, in quanto mysterium, sconcerta la ragione, lascia senza parole, sconvolge, suscita cioè gli stati emotivi espressi nei monologhi con cui i singoli personaggi di Teorema salutano il giovane ospite che sta per abbandonarli: la meraviglia, lo stupore, lo sbigottimento. Il movimento verso il mysterium, che la creatura tremante è spinta irresistibilmente a compiere, culmina per Otto in una sorta di smarrimento ed ebbrezza, che si placa solo nel supremo momento della grazia e dell’amore divino. Secondo Otto, il “sacro” è una categoria a priori «attraverso la quale lo spirito apprende il numinoso. Questo apprendimento è immediato in coloro che Otto chiama i profeti, è mediato nei fedeli. Tale teoria sottolinea il carattere irriducibile del sentimento del sacro, carattere sul quale si fonda l’istinto religioso dell’uomo»216. Un’ottica simile, sebbene innestata su una visione classista del mondo e mediata da una prospettiva antropologica, plasma Teorema, la cui tesi, in termini ottiani, potrebbe essere così formulata: per gli umili di Pasolini l’apprendimento del numinoso è 216

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J. Ries, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità, Jaca Book, Milano 1982, terza edizione aggiornata 1995, p. 44.

immediato né più né meno che per i profeti di Otto, laddove invece alla classe borghese risulta inesorabilmente interdetto. L’estasi divina è infatti concessa in Teorema unicamente alla serva Emilia, che a contatto con il sacro diventa santa e fa miracoli217, mentre gli altri personaggi sono lasciati nello smarrimento più disperato. Il teorema alla base del libro e del film218 procede ad una dimostrazione per assurdo: ammettendo che la borghesia possa essere sensibile alla manifestazione del divino, cosa succederebbe quando il sacro irrompesse prepotente nella vita di una famiglia borghese? In Teorema libro Pasolini esplicita le proprie intenzioni simboliche, collocando la vicenda in un luogo e in un tempo sacri in cui «i fatti […] sono compresenti e contemporanei»219 e il principio di non contraddizione non ha potestà. In questo modo Pasolini pone sul piano destorificato del mito (elaborato dalla sua arte) un luogo ed un tempo in grado di opporsi all’ordine dissacratore della storia: Teorema parla ancora di un’esperienza religiosa. Si tratta dell’arrivo di un visitatore divino dentro una famiglia borghese. Tale visitazione butta all’aria tutto quello 217

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Emilia è il personaggio chiamato a risolvere in Teorema il rinnovato problema della morte. Una spia della centralità che tale problema ricopre all’interno dell’opera è fornita dalla presenza de La morte di Ivan Ilych (letto a Paolo dall’ospite), testo che Martin Heidegger ha ricondotto alla problematica dell’“essere per la morte”: «L. N. Tolstoj, nel suo racconto La morte di Ivan Ilijc, ha descritto il fenomeno di sconvolgimento e di disfatta di questo “si muore”» (M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; tr. it., Essere e tempo, Bocca, Milano / Roma 1953; ora Longanesi, Milano 2005, p. 304). Il problema della morte, introdotto dal racconto di Tolstoj, viene risolto (in chiave mitica) nella vicenda di Emilia, la quale non muore “veramente”, bensì torna alla terra per rinascere come fonte purificatrice. «Sono venuta per piangere – dice Emilia –, non per morire». In occasione della conferenza stampa veneziana Pasolini spiegò: «Il sottoproletariato è l’unico che possa avere una coscienza religiosa. Che venga a farsi seppellire nella città, non è morire, ma essere ancora presente sotto un’altra forma» (resoconto stenografico della conferenza stampa tenuta il 5 settembre 1968 alle ore 12.30 presso l’Hotel Quattro Fontane, trascritta in L. Chiarini, Un leone e altri animali, Sugar, Milano 1969, p. 79). A seppellirla è, non a caso, Susanna Pasolini. Teorema ha una genesi alquanto complessa: «Teorema [libro] è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibiologica, non so sinceramente dire quale sia quella prevalente, quella letteraria o quella filmica. Per la verità Teorema era nato come piéce in versi circa tre anni fa» (P.P. Pasolini, Teorema, Garzani, Milano 1968, risvolto di copertina firmato). Ideato nel 1966 per il teatro, Teorema viene convertito due anni dopo in progetto cinematografico: da tale progetto scaturirono un libro, che deve molto al genere letterario della sceneggiatura, e un film, che al libro spesso chiede di sciogliere alcuni suoi nodi, al punto che è possibile pensare a Teorema come ad un’opera con due facce distinte, ma contigue, in dialogo tra loro. P.P. Pasolini, Teorema, cit.; ora in RR2, p. 918.

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che i borghesi sapevano di se stessi; quell’ospite è venuto per distruggere. L’autenticità, per usare una vecchia parola, distrugge l’inautenticità. Però quando egli se ne va, ognuno si ritrova con la coscienza della propria inautenticità e, in più, l’incapacità di essere autentico: per l’impossibilità classista e storica di esserlo.220

I personaggi di Teorema fanno a turno l’incontro con un dio senza nome, ovvero con ciò che sottende ogni divinità. Pasolini parla di un «incontro con l’alterità, che non ha niente a che fare con la psicologia. La religiosità non viene vista come religiosità cattolico-cristiana ma in assoluto»221. L’interrogazione sull’identità dell’ospite misterioso è quindi una “falsa”, per quanto inevitabile, questione. Quell’ospite non ha e non può avere un’identità definita perché non rappresenta un “dio storico”, bensì l’essenza stessa del divino, ciò che gli storici delle religioni hanno definito con il termine “sacro”. Per sfuggire al rischio di storicizzare questa figura, Pasolini la costruisce ibridando le principali tradizioni che la cultura occidentale ha conosciuto per rappresentare il sacro: la tradizione greca e la tradizione cristiana. Queste, negandosi l’un l’altra, scongiurano di fatto la possibilità di identificare la figura divina alla base del film. Le caratteristiche dell’ospite riconducibili alla tradizione greca sono state esaurientemente evidenziate da Massimo Fusillo, che dedica a Teorema una parte consistente del suo libro su Dioniso, nel capitolo dedicato all’«irradiazione di temi dionisiaci nella narrativa del Novecento e nel cinema»222. Teorema rientrerebbe in quei «casi in cui la presenza di Dioniso e delle Baccanti è più esplicita»223. In effetti, Teorema riproduce la struttura portante delle Baccanti: l’incontro-scontro di Penteo (il cui ruolo di rappresentante dell’ordine e del potere è incarnato dalla famiglia borghese224) con Dioniso (incarnato dall’ospite divino). I personaggi di Teorema vivono, come Penteo, una serie di incontri perturbanti di ascendenza dionisiaca, che fanno perdere loro le più elementari coordinate con cui sono soliti muoversi nel mondo. 220 221

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P.P. Pasolini, intervista a cura di L. Peroni, cit.; ora in CI2, pp. 2931-2932. P.P. Pasolini, Discorsi corsari, intervista a cura di M. Lupano registrata il 23 giugno 1972, «Westuff», n. 4, giugno-agosto 1986, p. 21. Non è difficile riconoscere nel termine “alterità” il Ganz Andere ottiano. M. Fusillo, Il dio ibrido, il Mulino, Bologna 2006, p. 169. Ibidem. Fusillo limita tale ruolo al capofamiglia «in quanto rappresentante del potere patriarcale» (M. Fusillo, Il dio ibrido, cit., p. 217). Di fatto tutti i membri della famiglia subiscono la sorte di Penteo: affascinati dal Dio, vengono travolti e vedono la loro vita andare in pezzi.

Fusillo sottolinea come le cinque seduzioni siano tutte caratterizzate da una preponderante dimensione dionisiaca, consistente in: insistenza sulla comunicazione non verbale, feticismo dei dettagli del corpo (gli occhi, il sesso) e degli abiti, carattere magnetico della folgorazione erotica, improvvisa e violenta, come una sorta di possessione e di rivelazione (nel romanzo si sottolinea spesso che le vittime della seduzione compiono un’azione decisiva prima ancora di averla pensata, quasi costretti a farla).225

I riferimenti al mito greco sono ibridati però con una serie equivalente di riferimenti al mito cristiano, per elaborare i quali Pasolini torna a chiedere aiuto agli amici di Assisi (il cui ruolo tuttavia risulta qui, in un’ultima analisi, non determinante). Il substrato cristiano emerge in particolare nelle due citazioni bibliche (in voce over), che, dopo il Prologo, aprono rispettivamente la prima e la seconda parte del film: «Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto»226; «Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai violentato e hai prevalso […]»227. Mentre la prima citazione esprime l’ipotetico postulato da cui ha origine il teorema (se Dio, oggi, riconducesse il suo popolo nel deserto, cosa accadrebbe?), la seconda manifesta la violenza con la quale il sacro irrompe in una vita inautentica228. 225

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M. Fusillo, Il dio ibrido, cit., p. 216. Fusillo insiste molto inoltre sulla componente dionisiaca delle modalità narrative adottate da Pasolini, spiegate con la bi-logica di Matte Blanco: «Il narratore di Teorema sottolinea spesso che gli eventi narrati sono “compresenti e contemporanei”: seguono quindi una logica onirica e simmetrica, non lineare, tranne che per lo svolgimento complessivo dello schema» (ibidem). Da Es 13, 18. Da Ger 20, 7 e 20, 10. In Teorema libro la stessa citazione è corredata di un intervento pasoliniano tra parentesi quadre: «Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai violentato [anche nel senso fisico] e hai prevalso» (P.P. Pasolini, Teorema, cit.; ora in RR2, p. 1060). In AP si conservano due fogli dattiloscritti, riportanti una serie di citazioni scritturali (Dt 1, 30-33; Es 13, 17-18; Sal 78, 13-17; Is 32, 15-17; Os 2, 12-17), allegati al biglietto da visita di Caruso datato 13 aprile 1968 (nel bel mezzo dunque delle riprese che si protraggono da marzo a maggio). A quella data il libro (anch’esso corredato di un allegato di citazioni, alcune delle quali bibliche) era già uscito. Delle due citazioni che compaiono nel film, solo la prima è dunque da ricondurre alla consulenza di Caruso, in quanto assente nel libro, mentre la seconda, già presente, è da ascrivere completamente alle conoscenze bibliche di Pasolini. È da correggere dunque quanto riportato in L. Caruso, Il Cristo severo di Pasolini, «Avvenire», Roma, 2 settembre 1988, p. 10: «A Teorema come tale la Pro Civitate Christiana non collaborò, per affettuoso consiglio dello stesso Pasolini. Ma collaborai io: dall’articolazione e dai significati dei soggetti, alla ricerca dei brani biblici che dovevano ispirare le immagini. Pasolini mi chiese una frase che esprimesse l’incarnazione, l’irrompere violento di Dio nelle vicende terrene. Gli fornii la citazione di Geremia 20, 7: “Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre”».

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I riferimenti al mito greco e quelli al mito cristiano intrecciandosi rendono misterioso il giovane ospite, sulla cui identità le stesse dichiarazioni di Pasolini risultano volutamente ambigue229. L’identità di questo Dio è insomma avvolta nel mistero, perché esso è “il mistero”, il “radicalmente altro” nel quale gli storici delle religioni, a partire da Otto, hanno identificato il concetto di sacro. È ascrivibile a tale ambiguità la causa della rottura dei rapporti (assolutamente determinanti, come abbiamo visto in 2.4, per l’opera pasoliniana tra il 1962 e il 1966) con i cattolici progressisti230. Sebbene alla chiusura del XXIX Festival di Venezia i critici cattolici, membri della giuria O.C.I.C., abbiano premiano il film di Pasolini, il 14 settembre, solo pochi giorni dopo, «L’Osservatore Romano» pubblica il giudizio negativo del C.C.C., che si dimostra verso Teorema tanto severo quanto era stato indulgente nei confronti de La ricotta: La sconvolgente metafora con cui si è preteso di rappresentare il problema dell’incontro dell’uomo con una realtà che vorrebbe essere simbolo di una trascendenza è in radice minata dalla coscienza freudiana e marxista che traspare nel film, in cui l’autore, paradossalmente, tenta di raggiungere un approdo religioso percorrendo vie a esso contrarie. Il misterioso ospite del film pasoliniano non è l’immagine di un essere che libera e affranca l’uomo dai suoi tormenti esistenziali, dai suoi limiti e dalle sue impurità, ma è quasi un démone complice che, “possedendo” le sue creature e scomparendo poi come un’allucinazione, le lascia sconvolte e alienate. […] Escluso.231

Lo stesso giorno la procura della Repubblica di Roma ordina il sequestro dell’opera per oscenità. Ma ciò che più contribuisce al precipitare degli eventi è un discorso di Paolo VI, pronunciato il 18 settembre e pubblicato il giorno dopo su «L’Osservatore Romano» con il sottotitolo Pre229

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Pasolini parla di volta in volta di Dio Padre, di Cristo, di Dioniso e addirittura di Lucifero: cfr. rispettivamente P.P. Pasolini, intervista a cura di L. Peroni, cit. (ora in CI2, p. 2933); P.P. Pasolini, intervista a cura di A. Aprà registrata nell’autunno-inverno 1968-69, «La Cosa vista», n. 2, 1985 (ora in CI2, p. 2940); P.P. Pasolini, Lettera aperta a Silvana Mangano, «Tempo», n. 47, 16 novembre 1968 (ora in SPS, pp. 1140-1143); P.P. Pasolini, Incontro con Pasolini, «Controcampo», aprile 1969 (ora in CI2, p. 2968). Le vicende che determinano tale rottura sono state ricostruite in modo puntuale in I. Moscati, Pasolini e il teorema del sesso, Il Saggiatore, Milano 1995. C.C.C., Teorema, in Segnalazioni Cinematografiche, a. 35, vol. LXV, C.C.C., Roma 1968, p. 68. Il giudizio è riportato (con qualche imprecisione) in [redazionale], “Negativo e pericoloso” il film di Pasolini, «L’Osservatore Romano», 14 settembre 1968, p. 6. Il quotidiano del Vaticano aveva del resto già recensito negativamente il film: cfr. C. Sorgi, Enigmatico ed anche ambiguo, non trasparente il “teorema”, «L’Osservatore Romano», 7 settembre 1968, p. 3.

cisi moniti del Santo Padre contro tendenze non conformi all’autorità ed alla disciplina della Chiesa: Che cosa diremo poi di certi recenti episodi di occupazione di Chiese Cattedrali, di approvazione di films inammissibili, di proteste collettive e concertate contro la Nostra recente Enciclica, di propaganda della violenza politica per scopi sociali, di conformismo e manifestazioni anarchiche di contestazione globale, di atti di intercomunione contrari alla giusta linea ecumenica?232

Il disappunto per l’approvazione di “films inammissibili” determina di fatto una chiusura nei confronti di Pasolini che porterà alla ritrattazione del premio stesso. Il 7 ottobre Monsignor Jean Bernard (presidente dell’O.C.I.C.) scrive a Paolo VI, ammettendo che alcune giurie, messe di fronte a certi film «difficili»233, possano commettere errori di prospettiva. Il 26 ottobre il Papa risponde a Bernard con una lettera stesa dal Cardinale Segretario di Stato, chiedendo che siano presi provvedimenti: [...] non si può ammettere che una giuria cattolica, con un atto pubblico, incoraggi l’immensa folla degli utenti del cinema a vedere un’opera riprovevole, quali che possano essere le sue qualità artistiche.234

Tra il 16 e il 19 marzo 1969 il Comitato direttivo dell’O.C.I.C. elabora un comunicato nel quale esprime il proprio «rincrescimento del fatto che un premio dell’O.C.I.C. sia attribuito a questo film da una delle sue giurie»235. Il 31 marzo un Pasolini piuttosto risentito risponde: Che l’Ufficio cattolico internazionale del cinema si tenga il suo premio e possono riprendersi indietro anche quello che mi diedero per il Vangelo secondo Matteo. Sto preparando un film sulla vita di san Paolo, per cui naturalmente, continuerò il mio “dialogo” ma con preti indipendenti e colti e forse un giorno con preti separatisti.236

Di fatto, di preti indipendenti e colti non ne troverà più: il dialogo è concluso, suo malgrado. I possibili produttori del film su san Paolo già fan232 233 234 235 236

Il discorso di Paolo VI è riportato integralmente in [redazionale], Amare la Chiesa: il dovere dell’ora presente, «L’Osservatore Romano», 19 settembre 1968, p. 1. J. Bernard, cit. in I. Moscati, Pasolini e il teorema del sesso, cit., p. 170. A.G. Cicognani, cit. ivi, p. 172. [Redazionale], Giudizio negativo dell’O.C.I.C. sul premio a Teorema, «L’Osservatore Romano», 24-25 marzo 1969, p. 3. P.P. Pasolini, cit. in I. Moscati, Pasolini e il teorema del sesso, cit., p. 181.

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no marcia indietro: Pasolini non abbandonerà il progetto, ma non troverà mai i necessari finanziamenti. L’interrompersi del dialogo non determina tuttavia il venir meno della riflessione sul sacro, ovvero sul mistero della morte. Al contrario, è proprio ora che essa si radicalizza, spingendosi, con Porcile e soprattutto con Medea, oltre i confini confessionali, alle radici stesse del sacro, contrapposte, sia nel primo sia nel secondo film, alla religione borghese della società neocapitalista, che nella Chiesa Cattolica trova la propria istituzione rappresentativa. Pasolini ha esplicitamente indicato nel Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade il presupposto teorico alla base di Medea237. Il Trattato di Eliade di fatto dà forma ad una serie di intuizioni coltivate da tempo. La cosiddetta «lezione definitiva», ad esempio, che l’uomo avrebbe appreso dall’agricoltura (l’idea della resurrezione) era spiegata infatti anche dal de Martino di Morte e pianto rituale238. Sebbene più d’una testimonianza segnali entrambi gli autori tra le fonti del film239, non c’è dubbio che Eliade ha ormai assunto rispetto a de Martino un ruolo preminente. Le ricerche di de Martino appartengono infatti ad un mondo – quello degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta – che ancora investe molto nella fiducia nella storia240, ormai tramontata per il Pasolini del237

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P.P. Pasolini, Ho sognato un verso, «Tempo», 12 aprile 1969; ora in SPS, pp. 1203-1204: «sto preparando un film, Visioni della Medea, per cui sono immerso nella rilettura (la lettura è stata recentissima e casuale) del Trattato di storia delle religioni, uno stupendo libro di Eliade». Il nome di Eliade viene speso nella stessa sceneggiatura, in riferimento all’educazione di Giasone: P.P. Pasolini, Medea. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1970; ora in CI1, p. 1211. Cfr. M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Payot, Paris 1948; tr. it., Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954 (con Prefazione di E. de Martino); ora Bollati Boringhieri, Torino 1999. Non è dato sapere quale edizione del Trattato Pasolini possedesse (nel frattempo erano uscite anche Einaudi 1957 e Boringhieri 1966 senza la Prefazione di de Martino) in quanto il volume non figura più nella sua biblioteca (comunicazione personale di G. Chiarcossi). «Nelle civiltà religiose del mondo antico il centro culturale della esperienza della morte […] è in organico rapporto con […] la vicenda della scomparsa e del ritorno delle piante coltivate» (E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 215). Di grande efficacia sono poi gli esempi portati da de Martino per attestare una sopravvivenza della passione vegetale nel pane eucaristico cristiano: «nel Paternoster medio alto-tedesco di Johannes von Krolewitz (XIII sec.) […] si legge che Cristo fu “seminato” dal creatore, “germogliò”, “venne a maturazione”, “fu mietuto”, “legato in un covone”, “trasportato nell’aia”, “trebbiato”, “vagliato”, “macinato”, “chiuso in un forno”, e infine dopo tre giorni “tratto fuori” e “mangiato” come pane» (ivi, p. 306). Cfr., ad esempio, G. Zigaina, Pasolini e la morte. Un giallo puramente intellettuale, Marsilio, Venezia 2005, p. 43. Si leggano le ultime righe della Prefazione di Morte e pianto rituale: «Per queste povere donne che vivono negli squallidi villaggi disseminati fra il Bràdano e il Sinni, non sapremmo

la seconda metà degli anni Sessanta. Dopo la cesura ideologica che, con Siti, abbiamo individuato a metà del decennio, emergono una serie di esigenze cui de Martino non è più in grado di rispondere; è da allora che alla prospettiva progressista del versante storicista degli studi di storia delle religioni viene preferita la visione nostalgica di Eliade241. Sono anni tuttavia in cui anche da sinistra si possono trovare nel reazionario Eliade armi polemiche contro lo status quo242, prima che lo studioso rumeno venga travolto dalle accuse per il suo giovanile impegno politico nelle fila della destra filonazista243. Da qui Medea, in cui «quella barbarie che è mito di origine decadente […] diventa […] un modello di vita da contrapporre all’“universo orrendo” della tecnologia neocapitalistica»244. Il nucleo di senso del film è racchiuso in «una scena dal taglio programmatico»245 che (all’inizio della seconda parte) espone la proposta ideologica che lo ha ispirato e formato. Nella prima sequenza ambientata a Corinto, Giasone reincontra il Centauro da cui era stato educato e che nella prima parte del film era apparso sotto duplice forma: il primo Chirone, per metà uomo e per metà cavallo, aveva insegnato a Giasone la genealogia degli dei, spiegandogli che non c’è nulla in natura che sia naturale; il secondo Chirone, interamente uomo, gli aveva insegnato a razionalizzare e a sconsacrare. Ora Chirone ricompare con le sue duplici sem-

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disgiungere il nostro ringraziamento dal caloroso augurio che, se non esse, almeno le loro figlie e le loro nipoti perdano il nefasto privilegio di essere ancora in qualche cosa un documento per gli storici della vita religiosa del mondo antico, e si elevino a quella più alta disciplina del pianto che forma parte non del tutto irrilevante della emancipazione economica, sociale, politica e culturale del nostro Mezzogiorno» (Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 5). Per Eliade «il mito traduce una nostalgia per una situazione originaria idilliaca dove la vita si espandeva in tutto il suo calore» (R. Boyer, Approccio antropologico al sacro, Jaca Book, Milano 1992, p. 46). Negli Stati Uniti la teoria della religione prospettata da Eliade entra in dialogo ad esempio con «la controcultura giovanile e l’interesse per l’India e per la spiritualità non occidentale» (D. Allen, L’ermeneutica di Mircea Eliade e la storia delle religioni, in J. Ries, N. Spineto, a cura di, Esploratori del pensiero umano. Georges Dumézil e Mircea Eliade, Jaca Book, Milano 2000, p. 320). La questione del passato politico di Eliade esplode negli anni Settanta in seguito alla pubblicazione di un dossier compromettente, il cui contenuto è diffuso in Italia a partire dal 1977: per un’analisi dell’intera questione cfr. N. Spineto, Mircea Eliade storico delle religioni, cit., pp. 25-45. Pasolini già nel 1974 ne prendeva le distanze, recensendo negativamente M. Eliade, Mito e realtà, cit.: cfr. P.P. Pasolini, Gratta gratta ritorna sempre a galla la logica del mito, cit.; ora in SLA2, pp. 2113-2118. M. Fusillo, “Niente è più possibile, ormai”: Medea secondo Pasolini, in U. Todini (a cura di), Pasolini e l’antico, cit., p. 96. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 134.

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bianze compresenti sulla scena. Giasone, stupito né più né meno dello spettatore, chiede se si tratti di una visione: Centauro Giasone Centauro

Giasone

Centauro

Se lo è, sei tu che la produci: noi due siamo infatti dentro di te. Ma io ho conosciuto un solo Centauro. No! Ne hai conosciuti due: uno sacro, quando eri bambino, uno sconsacrato, quando sei diventato adulto. Ma ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata. Ed eccoci qua, uno accanto all’altro! Ma qual è la funzione del vecchio Centauro, quello che ho conosciuto da bambino, e che tu, Centauro Nuovo, se ho ben capito, hai sostituito, non facendolo scomparire, ma sostituendoti a lui? […] È sotto il suo segno che tu – al di fuori dei tuoi calcoli e della tua interpretazione – in realtà ami Medea.

Come ha spiegato Fusillo, «si tratta di una scena che, al centro del film, ne svela il nucleo assiologico: a livello psichico, l’errore di Giasone consiste nel rimuovere l’istanza dell’Es, e nel non riconoscere l’amore per Medea […]; a livello antropologico, l’errore della società razionalistica rappresentata da Giasone consiste nell’eliminare il sacro dalla nuova dinamica sociale»246. La scena si chiude sulla disperazione di Giasone che angosciato si avvia verso la reggia. È secondo modi diametralmente opposti invece che Medea prende coscienza dei propri errori. Anch’ella compie una conversione al contrario, nel suo caso assai più radicale, per il fatto che nella Colchide era ministro del culto. Per seguire Giasone, Medea si trova improvvisamente catapultata in un mondo sconsacrato. Nella sequenza sulla spiaggia di Iolco, di fronte ai compagni che piantano le tende senza seguire alcun rituale, ha un sussulto e si ribella, ma senza alcun esito. Solo nel momento in cui si congiunge con Giasone ritrova l’orientamento247. Scrive Fusillo: «come in Teorema, anche in questo film il sesso è l’unico sostituto del sacro perduto per sempre»248. Ma Medea non ha perduto il sacro per sempre. La seconda parte del film rappresenta infatti l’epico ritrovamento di quel sacro che rischiava di essere perduto. 246 247

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Ivi, p. 137. «[…] nell’amore – è scritto nella sceneggiatura – trova […] un sostituto della religiosità perduta; nell’esperienza sessuale ritrova il perduto rapporto sacrale con la realtà» (P.P. Pasolini, Medea. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1970; ora in CI1, p. 1238). M. Fusillo, “Niente è più possibile, ormai”, cit., p. 109.

Qui risiede la principale differenza tra il film e la tragedia di Euripide. La Medea di Euripide di fronte al torto subito diviene lucida come non lo era mai stata, esce dalla sfera delle emozioni ed entra in quella della razionalità, mette in azione tutte le sue capacità di pensiero per elaborare la vendetta. In altre parole, sposa pienamente l’ideologia razionalista greca. Nel film di Pasolini invece il piano vendicativo non è il frutto di un cinico e spietato ragionamento, ma viene ispirato in sogno dal Dio Sole. La Medea pasoliniana riesce a vendicarsi solo nel momento in cui si ricollega alla sua terra d’origine, nel momento in cui recupera il suo originario rapporto con il sacro. Il sogno di Medea (i cui contenuti riproducono la vendetta quale effettivamente accade nella tragedia di Euripide) è seguito dal suo corrispettivo reale: quanto la prima serie di sequenze è connotata come onirica (attraverso alcuni effetti di sovrimpressione), tanto la seconda si dà come realmente accaduta. Nella prima serie di sequenze Medea sogna la propria vendetta in chiave mitica, visualizza nella sua mente gli eventi e gli oggetti in quanto simboli. Tale sogno ispira poi la vendetta reale, che traduce nella realtà i simboli sognati. La veste, che nel testo di Euripide e nel sogno incendia Glauce, nella realtà non fa altro che ispirarle un senso di colpa tale da spingerla al suicidio. La doppia articolazione del finale risponde positivamente agli assunti di fondo del film, rappresentando in termini ancora dialettici (ma si tratta dell’ultimo sforzo compiuto da Pasolini in direzione di una sintesi) i due processi che abbiamo riconosciuto alla base della riflessione pasoliniana sul sacro: il primo finale destorifica, il secondo demistifica249. Non diversamente si spiega la sequenza dell’infanticidio. La Medea della Colchide viene descritta da Fusillo come una figura «in preda a una forza inconscia, oscura, che non conosce motivazioni verbali e razionali, ma solo la logica fisica dell’emozione»250: è nel segno di tale forza che 249

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Fusillo ha spiegato in questi termini l’operazione compiuta sul testo di Euripide da Pasolini: «o ritualizza il testo euripideo per renderlo più arcaico, come nella visione, oppure lo modernizza con delle aggiunte psicologiche, come nella parte realistica» (M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 156). Come già nell’Edipo re, dove il processo di destorificazione era collocato all’interno di una cornice storica per cui la fuga nel mito si risolveva nel suo contrario, ugualmente in Medea il riferimento al mito non si configura pertanto come “evasione”: «non ci sono evocazioni di felicità remote; l’epoca mitica, l’età dell’oro non è recuperabile […]. Il mito polarizza in maniera significativa i conflitti del mondo contemporaneo» (U. Albini, Pasolini e la storia dell’antico, in U. Todini, a cura di, Pasolini e l’antico, cit., p. 22). M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 168.

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Medea ruba il vello d’oro e uccide Apsirto. La vicenda che segue la vede allontanarsi pericolosamente dalle proprie radici inconsce fino al momento in cui, ritrovato il contatto con il Dio della propria terra, le recupera, ma in una forma sintetica, nella quale “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata”251. È su questo punto che la lettura di Fusillo non ci pare del tutto convincente. Lo studioso riconosce nelle riduzioni moderne del mito l’intervento di una dissociazione: «La tradizione posteriore a Euripide – sia creativa, a partire da Corbeille, che critica, a partire dall’ambiente stoico – ha schematizzato tutta la dinamica psichica di Medea nei termini un po’ angusti del conflitto tra ragione e passione»252 (mentre il personaggio di Euripide possiede sempre una piena consapevolezza della sua condizione emotiva – che vede in conflitto l’amore materno e l’eros per Giasone – espressa in un monologo di natura intellettuale). Secondo Fusillo «Pasolini è più vicino a Euripide rispetto a una buona parte della tradizione moderna, perché non dissocia Medea fra razionale e irrazionale, ma se ne discosta in quanto elimina ogni forma di conflittualità monologica»253. L’aver eliminato ogni forma di conflittualità (tanto quella euripidea tra affetto materno e eros, quanto quella posteuripidea tra ragione e passione) ha addolcito l’esito tragico della vicenda, al punto che la Medea di Pasolini uccide i figli con una serenità non inquinata da nulla. Tale serenità è rico-

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Spesso si cita in riferimento a Medea l’intervista raccolta da Sergio Arecco nella quale Pasolini si dichiara anti-hegeliano negando la possibilità di una sintesi alla coppia dialettica alla base del film: «la situazione “tesi” (mondo barbarico mitico-realistico) e la situazione “antitesi” (mondo moderno laico-manieristico) non ottengono in alcun modo […] di pervenire a una sintesi» (P.P. Pasolini, Conversazione con P.P.P., in S. Arecco, Pier Paolo Pasolini, Partisan, Roma 1972, p. 69). Di fatto le dichiarazioni di Pasolini al riguardo sono contraddittorie e vanno storicizzate. L’intervista raccolta da Arecco si colloca già all’interno di quella spirale pessimista che ha come sbocco Salò: «Son privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza. […] Da cosa nasce la “speranza”, quella della prassi marxista e quella della pragmatica borghese? Nasce da una comune matrice: Hegel. Io sono contro Hegel» (ivi, p. 75). Lo stesso concetto, solo qualche mese prima, era espresso in termini affatto diversi: «C’est que, comme le dit le Centaure, le monde du sacré n’est pas dépassé par sa propre désacralisation. Le profane et le sacré subsistent côte à côte. Je ne suis pas hégélien; il y a bien la thèse: le sacré: l’antithèse: le profane; mais pas de synthèse, seulement juxtaposition. Le sacré, dit le Centaure, reste en toi, même si tu le profanes. Mais il assume une forme différente» (P.P. Pasolini, Entretien avec Pasolini, a cura di A. Tournès e R. Rouquette, «jeune cinéma», n. 45, marzo 1970, p. 19). Cos’è questa “forme différente” se non una sintesi? M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 169. Ivi, pp. 169-170.

nosciuta anche da Fusillo, ma letta in una chiave negativa che stravolge il senso ultimo del film: secondo lo studioso, l’atto che è sempre stato paradigma di naturalità abnorme, l’uccisione dei figli, viene rappresentato da Pasolini con la calma naturalità del rito, che ripete, stravolgendolo, il sacrificio umano visto all’inizio del film. […] La violenza del sacrificio umano colchico era una violenza inscritta intimamente nel sacro […]. Quando Medea passa all’universo ricco e borghese della Grecia, la sua violenza perde senso sacrale, diventa ripetizione vuota, contro natura.254

Crediamo invece che Medea possa uccidere con serenità i propri figli proprio perché tale azione è iscritta intimamente nel sacro, né più né meno del sacrificio iniziale 255, come ha spiegato Pasolini stesso alcune settimane prima delle riprese: […] nel film il sentimento profondo che la induce a far morire la fanciulla che deve andare sposa a Giasone e a sopprimere gli stessi figli suoi e di Giasone, non nasce da uno spasimo di vendetta, razionale e ragionato, per l’odio e la passione, come in Euripide, ma da un lungo sogno in cui ella torna alla sua infanzia, alla sua fede, alla valutazione, in cui venne educata, della realtà del mondo come una estrinsecazione della sacralità. […] Non è esatto, penso […] neppure parlare di 254 255

Ivi, p. 170. La lettura di Fusillo è debitrice qui di M. Covin, Médée, la violence et le symbole, «Revue d’Esthétique», n.s., n. 3, 1982, pp. 59-64. Si muove in questa direzione la letteratura recente (in particolare quella di ispirazione femminista), sottolineando la “necessità” del gesto. Per N. Fusini, Il grande occhio di Medea, in L. Betti, M. Gulinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, cit., p. 396, l’infanticidio non è altro che la rappresentazione simbolica del ritorno di Medea al suo stato originario di ministra del culto: «L’assassinio che compie non è un atto empio. Pasolini […] lo rappresenta secondo un tempo lento, che distrae dall’atto ogni carattere nefando. Nel modo dell’immagine l’atto si associa piuttosto alla dolcezza di un sonno che la madre regala ai suoi bimbi. È chiaro che Medea ama i propri figli. Se li uccide è perché deve». M. Rubino, Medea di Pier Paolo Pasolini. Un magnifico insuccesso, in E. Fabbro (a cura di), Il mito greco nell’opera di Pasolini, cit., p. 108, parla di «eutanasia». L. Vitali, Il personaggio femminile, la “dissoluzione” del personaggio e il recupero del tragico nel teatro e nel cinema di Pasolini, «Quaderni del ’900», n. 1, 2001, p. 95, definisce l’infanticidio un «fatto rituale» legato «ad una idea necessaria di rinnovamento e di rigenerazione». Recentemente è stata pubblicata la trascrizione (di cui però già davano in parte conto L. Betti, M. Gulinucci, a cura di, Le regole di un’illusione, cit., p. 236 e B. Zannini Quirini, Medea…, cit., p. 376) di un colloquio tra Pasolini e Franco Rossellini relativo alla preparazione del film: qui Pasolini sostiene che la sequenza rituale all’inizio del film è «importante perché le uccisioni compiute da Medea si ricollegheranno a questi atti: quando farà a pezzi il fratello, in realtà adempirà a un atto rituale. Questo impedisce a Medea di provare orrore per l’assassinio che compie, perché è codificato e lei lo ha prefigurato, l’ha preparato, sia l’omicidio del fratello che quello dei figli nel finale» (P.P. Pasolini in R. Chiesi, a cura di, Pasolini, Callas e Medea, FMR-ART’È, Bologna 2007, p. 22, catalogo della mostra svoltasi presso Ta Matete, Bologna, 18 ottobre-8 dicembre 2007).

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vendetta. I sacrifici umani che mostrerò all’inizio del film chiariscono come per Medea e la sua gente, la morte non fosse la fine, ma, nella convinzione sia dei sacrificati che dei sacrificanti, rappresentasse invece soltanto il preludio della rinascita come seme della terra.256

La fonte pasoliniana, tanto nella sequenza della morte di Glauce quanto in quella dell’infanticidio, è il dramma Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro (testo del 1949, rimesso in circolazione nel 1966 da Bompiani) in cui Medea uccide i figli con lo scopo di sottrarli al linciaggio della folla, ovvero per motivi avulsi dalla furia vendicativa257. In coda al volume Bompiani, Alvaro spiega l’«appiglio ben moderno» con cui intese animare «quel tanto di vivo e di attuale che rendesse leggibile a noi quella tragedia e che giustificasse una nuova opera sull’antica»258: Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi profughi. Secondo me ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame.259

L’impressione è che Pasolini sia partito proprio da qui260. Come la Medea di Alvaro, anche quella di Pasolini riconosce infatti nell’infanticidio un gesto ineludibile. Pasolini non spiega, come invece fa Alvaro, i motivi che costrinsero Medea a quel gesto necessario261: ma quel che conta è che Medea agisca costretta, nella consapevolezza che la salvezza per i figli è nella morte, ovvero che la loro morte è necessaria. Crediamo insomma 256 257 258 259 260 261

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P.P. Pasolini, Il primo film di Maria Callas, intervista a cura di A. Ceretto, «Corriere della Sera», 24 aprile 1969. Fusillo limita invece i rapporti tra il film di Pasolini e il dramma di Alvaro alla sola morte di Glauce (cfr. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 134). C. Alvaro, La Pavlova e Medea, in Lunga notte di Medea, Bompiani, Milano 1966, p. 116. Ibidem. Cfr. G. Ieranò, Tre Medee del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf, in B. Gentili, F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, Marsilio, Venezia 2000, p. 181. Nella sceneggiatura i figli si salvano nella visione ispirata a Medea dal Dio Sole («lei e i suoi due bambini, allegri, montano sul carro»: CI1, p. 1253), ma muoiono nel momento in cui la visione è tradotta nella realtà: «In cima alla casa, ecco Medea, coi cadaveri dei figli» (CI1, p. 1271). La visione sceneggiata fa pensare che, proprio uccidendoli, di fatto Medea li abbia salvati. Le inquadrature appartenenti alla sequenza della visione in cui Medea ascende al cielo con i propri figli sono state girate ma non montate: sia M. Rubino, I tagli e la Medea, «Nickelodeon», n. 102, 2002, p. 10, sia R. Chiesi, Maria Callas barbara e maga nel cinema di Pasolini, in R. Chiesi (a cura di), Pasolini, Callas e Medea, cit., p. 101, danno l’impressione di confondere il finale della visione con il finale del film.

che Medea di Pasolini sia collochi su quella “linea innocentista” avviata da Alvaro e portata a compimento da Christa Wolf262. Per quanto il secondo processo educativo possa aver dissacrato, demitizzato, razionalizzato, nel fondo di ognuno persiste un senso del sacro, il centauro nella sua doppia natura263. È nel segno del vecchio Centauro che Giasone, al di fuori di ogni calcolo, ama Medea. Ma Giasone è stordito da questa rivelazione, non la comprende, fatica a far convivere i due Centauri264. E invece è proprio su tale problematica convivenza che il film fonda la sua utopia, come ha più volte ribadito lo stesso Fusillo: «Pasolini non propone un ritorno al mondo barbarico, in opposizione al capitalismo tecnologico, come spesso si è creduto; la sua utopia è la coesistenza fra i due poli psichici e culturali […], visualizzata […] dai due Centauri»265. Se tale utopia frana miseramente a confronto con la figura di Giasone, in Medea trova invece risposte significative: Medea è l’ultima eroina in grado di proporre una sintesi del sistema duale su cui poggia l’opera pasoliniana. Concordiamo pertanto con le conclusioni dello studio di Colleen Marie Ryan, che legge il finale del film nel segno del «Medea’s legendary journey with her children back to their mythic origins»266: In the end, Medea repudiates the public sphere of Giasone’s word which had hitherto shunned the otherness of her cultural origins, and retreats to the recesses of her private and spiritual being. Although for some this might signal defeat in the face of patriarchy, I find that this conclusion underscores the poet’s desire to salvage the sacred.267 262

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Cfr. M. Rubino, Medea di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 103: «Il film ribalta completamente il sit Medea ferox della drammaturgia antica, vale a dire quella norma di efferatezza che perfino la versione “innocentista” della Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro conserva. […] Tra le centotrentacinque riscritture importanti catalogate in cinque continenti dopo quella di Alvaro, datata 1949, l’unica eccezione nota a questa “norma”, e di qualche importanza, è costituita dalla Medea incolpevole e perseguitata di Christa Wolf». «Gli è che la bipolarità del film è rispecchiamento di una duplicità spirituale di Pasolini, nel quale la sacralità del cattolico friulano non è mai del tutto venuta meno, ma, come il primo Centauro, è sempre rimasta attiva in forme più o meno latenti, più o meno scoperte» (L. Torraca, Il vento di Medea, in U. Todini, a cura di, Pasolini e l’antico, cit., p. 91). Alla stesso modo non è sempre facile la convivenza dei due Centuari nell’opera pasoliniana: nel segno del vecchio Centauro (l’educazione avuta negli anni Trenta, le influenze ricevute negli anni Quaranta) si consumano i processi di destorificazione, mentre è nel segno del nuovo Centauro, dell’ideale razionale che impronta ad esempio gli anni Cinquanta di «Officina», che operano i processi di demistificazione. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 137. C.M. Ryan, Salvaging the Sacred: Female Subjectivity in Pasolini’s Medea, «Italica», vol. 76, n. 2, summer 1999, p. 193. Ivi, p. 201.

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Ci pare poco condivisibile invece la lettura del finale fornita da Fusillo. Crediamo che Pasolini abbia «eliminato la […] salvazione» di Medea che nel tragico greco ascende al cielo su un carro di fuoco, non per accordarsi al «pessimismo semiotico» con un «finale sospeso»268, bensì perché Medea ha ampiamente trionfato e, recuperato il contatto con il sacro, già si è salvata269. 2.6. La scomparsa del paradiso (1970-1975) Gli appunti per un’Orestiade africana e Medea proponevano la prospettiva di uno sviluppo armonico che assorbisse le culture arcaiche, di modo che le Erinni, senza scomparire, si trasformassero in Eumenidi e il sacro si conservasse accanto alla sua forma sconsacrata. Dopo Medea la partita può invece considerarsi definitivamente chiusa: Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non è più ternaria, ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili. Quindi niente “sol dell’avvenire”, niente “mondo migliore”270.

L’opera pasoliniana degli anni Settanta (soprattutto quella di intervento immediato, costituta dalle interviste e dagli articoli di giornale) rimane centrata sul “problema della morte”, ma il relativo “lavoro del cordoglio” perde parte della sua efficacia, sfociando infine nella disperata lamentazione di Salò. Un contesto apparentemente gioioso, in realtà atto a esorcizzare un’angoscia crescente, accoglie così un numero spropositato di morti. Ma quel che rende diverse queste morti da quelle del decennio precedente non è il loro numero, bensì la loro mancanza di senso. Le morti della Trilogia della vita (con l’eccezione significativa della morte di Ciappelletto) e di Salò mancano in sostanza di quella necessità che, negli anni Sessanta, assegnava senso alla vita: si configurano insomma sempre più come “irrelate dall’ethos”. In Salò in particolare, «gesti rituali, citazioni da testi sacri, evocazioni del martirio emergono, come relitti alla deriva, in un 268 269

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M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 174. Lo stesso Fusillo dà conto, con scetticismo, di una possibile lettura positiva dell’ultima immagine del film, avanzata da M. McDonald, Euripides in Cinema. The Heart Made Visibile, Centrum, Philadelphia 1983, p. 37, secondo cui il sole che sorge «dovrebbe rimandare a una lezione positiva della storia, a un aspetto costruttivo del sacrificio di Medea: il monito a non rimuovere il sacro dalla dinamica esistenziale» (M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 176). P.P. Pasolini, Conversazione con P.P.P., cit., p. 75.

universo senza senso del quale non riscattano, ma se possibile sottolineano ancor più, l’orrore»271. Mentre il “sacrificio” della vita nel cinema degli anni Sessanta forniva di senso, sul modello cristologico, la vita stessa, facendone qualcosa di spendibile in un orizzonte valoriale, in Salò ha come unico fine il piacere dei quattro potenti: «The lives of the victims are not only expendable, that is their explicit purpose. Yet the pleasur derived from murder […] dipends precisely on the aloofness and disengagement of the murderer»272. Fa da cerniera tra il cinema degli anni Sessanta e quello degli anni Settanta la novella di Ciappelletto, posta in posizione forte nella prima parte de Il Decameron, al punto che è possibile assegnarle un ruolo liminale tra un cinema ancora in grado di destorificare il problema della morte ed un cinema che, approssimandosi verso il morire “irrelato” di Salò, si dimostrerà sempre meno capace di conferire alla morte un significato. La novella di Ciappelletto si configura, a partire dal suo interprete, come una sorta di rivisitazione nostalgica e disincantata di Accattone, quasi Pasolini volesse, in questo modo, ritornare alle origini di quel processo di destorificazione la cui efficacia sente ora venir meno: le sottende infatti lo stesso dilemma che governava il destino di Accattone. Se Boccaccio non nega, attraverso il novellatore Panfilo, la possibilità che l’anima di Ciappelletto si sia salvata273, il film di Pasolini fuga al riguardo ogni dubbio: il gesto finale che Ciappelletto compie verso i suoi ospiti è del tutto equivalente alla lacrimetta di Bonconte che già aveva salvato Accattone. L’interpretazione tradizionale della novella pone l’accento sulla irredimibilità del protagonista, che dopo una vita di efferatezze si congeda dal mondo con un’estrema, paradossale burla, quasi un antenato beffardo di Don Giovanni, che sino in faccia alla morte grida la propria impenitenza. Ma è possibile anche un’altra 271 272 273

R. Cacitti, Introduzione, cit., p. 12. Th.E. Peterson, The Allegory of Repression from Teorema to Salò, «Italica», vol. 73, n. 2, summer 1996, p. 221. «Così dunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette» (G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino 19923, pp. 69-70). Come spiega G. Almansi, Introduzione a G. Boccaccio, La novella di Ser Ciappelletto, Marsilio, Venezia 1992, p. 48, «il testo è volutamente ambiguo e ammette la duplice ipotesi della salvezza e della dannazione».

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interpretazione, affatto antitetica alla prima, che rende giustizia ad alcune zone del testo riluttanti a lasciarsi ricondurre alla prima lettura.274

L’adattamento di Pasolini sembrerebbe sposare questa seconda interpretazione, inventandosi una visione premonitrice atta a mettere Ciappelletto nella disposizione d’animo necessaria ad accogliere l’opera della Grazia. Come Accattone anche Ciappelletto sogna infatti il proprio funerale, in una sequenza che, se ad una prima lettura parrebbe descrivere la vita della cittadina del Nord in cui è stato inviato, ad un’analisi più attenta si rivela essere piuttosto una visione dello stesso Ciappelletto: lo stacco conclusivo sul primo piano del protagonista autorizza a rileggerla come una sequenza “mentale”, nella quale egli rivede come in cifra e in allegoria tutta la propria vita, e ne presènte l’esito finale.275

Visitato dal male della morte276 e uditi i timori dei suoi due ospiti, pentiti di aver dato alloggio ad un uomo a tal punto infame da non poter essere assolto da alcun sacerdote, Ciappelletto si offre di aiutarli. Sennonché, durante la sequenza della confessione, Ciappelletto giunge alla risoluzione in grado di trasformare l’intera sua vita. Siamo nel cuore dell’ideologia della morte pasoliniana, che vede appunto nel transito finale un momento capace di ridisegnare l’intera esistenza, facendo di un pederasta un santo. Citiamo direttamente da Boccaccio: Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, e egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente […]. Non pianger, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli.277

Ebbene, messo di fronte a tale verità, il Ciappelletto di Pasolini per la prima volta nella sua vita parrebbe attratto dal bene: 274 275 276

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S. Villani, Il Decameron allo specchio, Donzelli, Roma 2004, pp. 41-42. Ivi, p. 46. Come Accattone anche Ciappelletto, pungolato dalla morte, stramazza improvvisamente sulla tavola. Rimanda ad Accattone anche Fenesta ca’ lucive, usata da Pasolini, sia là che qui, quale elemento premonitore di morte (il testo recita così: «Finestra che lucevi ed ora non luci, segno che Nenna mia sarà malata. S’affaccia la sorella e me lo dice: Nennella tua è morta e sotterrata»). G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 65-66.

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[…] dopo avere dato principio alla messinscena con un certo qual compiacimento, e una punta di malizia, via via che il dialogo progredisce, Ciappelletto assume sempre maggior convinzione, fino a vivere una sofferenza autentica che distilla lacrime vere […].278

Torna insomma ad operare la formula dantesca che già aveva salvato Accattone: «l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno | gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi? | Tu te ne porti di costui l’etterno | per una lacrimetta che ’l mi toglie» (Pg. V, 106-107). E se Accattone si era conquistato la salvezza in “prossimità” della morte, la lacrimetta versata da Ciappelletto è davvero “in punto di morte”: laddove il Ciappelletto di Boccaccio dopo la falsa confessione si macera in agonia per alcune ore, significativamente il Ciappelletto di Pasolini, pentitosi, muore. Dopo una vita di peccatore, Ciappelletto, chiamato nei minuti estremi a interpretare il personaggio di un giusto, entra nella parte, e, sorpreso dalla fine nell’istante più autentico della contrizione fintamente finta, muore santo.279

A sostegno di tale lettura giunge la battuta originale, debitamente enfatizzata da Pasolini che stacca dal primo al primissimo piano, dei due usurai nascosti ad origliare. Se nella novella di Boccaccio il loro giudizio di stupefazione di fronte ad una malvagità tanto più grande della loro, che pure sono usurai, è formulato da un’inequivocabile domanda retorica280, nel film di Pasolini esso è espresso in termini altrettanto inequivocabili, ma ribaltati nel senso: «Ma chìstu sta murenno… e fa tutto questo per noi… Ma allora è davvero ’nu santo!»281. Come fa notare Villani, «ben prima del frate confessore sono loro, sia pure in una forma paradossale, a battezzarlo santo»282. Che il tentativo di Pasolini di ritornare alle origini del proprio cinema, denunciato dalla novella di Ciappelletto, sia disperato e destinato 278 279 280

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282

S. Villani, Il Decameron allo specchio, cit., p. 47. Ibidem. «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far egli così non voglia morire come egli è vivuto?» (G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 67). La sceneggiatura è ancora più esplicita: «I due fratelli di là non ridono e non piangono più. Sono seri, presi da uno stupore profondo: guardano verso Ciappelletto con una specie di ammirata e quasi compunta venerazione. E forse uno dei fratelli mormora, in modo quasi impercettibile: “Ma costui sta morendo: e tutto questo lo fa per noi! È un santo davvero!”» (P.P. Pasolini, Trilogia della vita, Garzati, Milano 1995; ora in CI1, pp. 1328-1329). S. Villani, Il Decameron allo specchio, cit., p. 51.

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a fallire è suggerito dai film che seguono. In particolare, ci pare significativa l’irruzione all’interno dell’orizzonte mitico di matrice cristiana, su cui Pasolini ha fondato gran parte della sua opera, di due archetipi altrettanto mitici: il Diavolo e l’Inferno. Il primo, come ha sottolineato Siti, scomparso negli anni ’40, torna nel 1974 a visitare l’opera pasoliniana. Nelle correzioni a San Paolo, la variante più significativa è appunto l’introduzione del Demonio, che aiuta il santo a fondare la Chiesa; nella sceneggiatura intitolata L’histoire du soldat, il Capo della Televisione (quello che insegna a leggere a Ninetto) si rivela essere il Diavolo.283

Il secondo, oltre ad essere direttamente rappresentato ne I racconti di Canterbury (1972), è alluso dalla prospettiva dantesca attraverso cui Pasolini rilegge Les 120 journées de Sodomie, strutturate in un Antinferno e tre Gironi infernali. Parallelamente alla preminenza accordata a Diavolo e Inferno, si assiste alla progressiva scomparsa del Paradiso284. Quasi tutti gli eroi pasoliniani, a partire naturalmente dal Cristo de Il Vangelo secondo Matteo, hanno un loro, più o meno rozzo, Paradiso cui anelare. Accattone lo invoca in sogno e dà segno di esservi prossimo esclamando in punto di morte «Mo’ sto bene»; Ettore, morendo come un povero Cristo, non può che trovarvi posto; Stracci se lo conquista, in croce, nei panni del ladrone buono; Frate Ninetto lo sogna come se fosse «dipinto da Giotto»285. C’è infine un Paradiso sia per le due marionette di Che cosa sono le nuvole?, sia per la santa Emilia di Teorema, sia per Medea che, riconciliatasi con il Dio Sole, non potrà che ascendere al cielo sul suo carro. Il venir meno del Paradiso emerge con grande evidenza dall’accostamento delle diverse stesure di PornoTeo-Kolossal286 che impegna Pasolini dal 1967 al 1975. Secondo una testimonianza di Sergio Citti287, l’idea iniziale di Porno-Teo-Kolossal risale al periodo di lavorazione de La terra vista dalla 283 284

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W. Siti, L’opera rimasta sola, cit., pp. 1939-1940. Su L’histoire du soldat cfr. Note e notizie ai testi, in CI2, pp. 3206-3207. Sulla dialettica paradiso-inferno è emblematico l’epigramma dedicato a Gian Luigi Rondi: «Sei così ipocrita, che come l’ipocrisia ti avrà ucciso, / sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso» (P.P. Pasolini, A G.L. Rondi, da La religione del mio tempo, cit.; ora in PO1, p. 1023). P.P. Pasolini, Uccellacci e uccellini…, cit.; ora in CI1, p. 727. Su Porno-Teo-Kolossal cfr. L. Salvini, I frantumi del tutto. Ipotesi e letture dell’ultimo progetto cinematografico di Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, Clueb, Bologna 2004. Cfr. Note e notizie sui testi, in CI2, p. 3233.

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luna (novembre 1966), quando Dino De Laurentiis propose a Pasolini uno spettacolo per la televisione americana sul Natale. Nella primavera del 1967 è segnalato tra le locandine degli spettacoli della compagnia di burattini di Che cosa sono le nuvole?: sulla riproduzione del Filippo IV di Velasquez sono annunciate per il giorno dopo Le avventure di Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo. Nel 1968, per sdebitarsi con Giulia Maria Crespi che gli aveva concesso per le sequenze contadine di Teorema di utilizzare la proprietà di famiglia presso Zelata e che ora gli chiedeva di scrivere un testo che i suoi figli potessero recitare in occasione del Natale, Pasolini recupera la storia del “Re Magio randagio”. Questi, nel corso del viaggio intrapreso col suo servo per andare a rendere omaggio al Salvatore, incontra sulla strada morti di guerra da sotterrare, ignudi da vestire, affamati e assetati da sfamare e dissetare, malati da guarire, per scoprire, giunto al presepio su cui la stella si è posata, che tutto è già finito: «Il Re dei Re, è nato, è cresciuto, e se n’è andato: forse è già morto in croce»288. L’epilogo è tuttavia positivo: il Re Magio, morto per la disperazione, viene condotto in Paradiso dal suo servo, rivelatosi un angelo. Pasolini torna sul progetto nel 1973 scrivendo un breve trattamento intitolato Il cinema. Il Re Magio si incammina al seguito della stella, sennonché «per strada gliene capitano tante che quando arriva sul Luogo, non solo il Messia è nato, ma ha trascorso la vita ed è morto, fondando una religione a sua volta finita»289. Tuttavia, anche qui il Re Magio si è guadagnato il Paradiso: Il servo burbero e rozzo e incosciente, che ha accompagnato il Re Mago, in punto di morte si rivela: egli è un Angelo, e prende per mano il Re Mago per portarlo nel Paradiso che egli si è comunque meritato. Ma il paradiso non c’è. I due si voltano indietro come la Figlia di Lot, e restano di sale.290

La data della sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal, o meglio della sua dettatura al registratore, si colloca certamente in prossimità della lettera che Pasolini invia, il 24 settembre 1975, ad Eduardo De Filippo, proponendogli il ruolo del Re Magio. Nei progetti di Pasolini, il film avrebbe dovuto entrare in lavorazione subito dopo Salò291. 288 289 290 291

P.P. Pasolini, Lettera a Giulia Maria Crespi, in CI2, p. 2760. Cit. in Note e notizie ai testi, in CI2, p. 3231. Ibidem. Cfr. P.P. Pasolini, in L. De Giusti (a cura di), Pier Paolo Pasolini, cit., p. 113.

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Rispetto alla versione del 1968 e a quella del 1973, rimane invariata la cornice della storia. Risulta invece molto più complessa l’elaborazione dei contenuti della “realtà” che Epifanio e Nunzio (sono questi i nomi assegnati rispettivamente al Re Magio e al suo servo) scoprono al di là dei falsi fini ideologici che li hanno spinti al viaggio. Dopo molte peripezie, Epifanio e Nunzio giungono comunque a destinazione, ma nella grotta del presepio non trovano che «qualche cagata secca. Ecco tutto quello che c’è, illuminato dalla luce violentissima della Cometa»292. È così che, per il dolore, Epifanio muore. Ma qui si ha un colpo di scena. Ecco che dal corpo di Nunzio si stacca la figura di un altro Nunzio: un Angelo, un vero e proprio Angelo del Signore. Raggiante, egli si avvicina al cadavere di Epifanio, e lo prende per mano. Anche dalla figura morta di Epifanio si stacca la figura di un altro Epifanio, la sua Anima. È elegantissimo, tutto in bianco, con la paglietta, la bagolina e il fiore all’occhiello. Nunzio gli fa l’occhietto e tenendolo sempre per mano, gli fa: “Namo, omo de bona volontà!” e, cantando e ballando, lo guida su, per la strada dei Cieli.293

I due cominciano a salire, sennonché non trovano quel che cercano. Rispetto al soggetto di due anni prima, l’amarezza della disillusione è ulteriormente acuita. Il Re Magio del 1973 scopriva l’inesistenza del Paradiso, quello del 1975 scopre invece che il Paradiso, un tempo esistente, ora non c’è più. «Nunzio si guarda inquietamente intorno, nelle altezze vertiginose del cosmo, come cercando di orizzontarsi. “Eppure stava qua”»294.

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P.P. Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, «Cinecritica», n.s., n. 13, aprile-giugno 1989; ora in CI2, p. 2751. Ivi, pp. 2751-2752. Ivi, p. 2752.

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3. Il lavoro del cordoglio ne Il Vangelo secondo Matteo

«Se volessimo definire l’umana civiltà nel giro di una espressione pregnante – spiega de Martino – potremmo dire che essa è la potenza formale di far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte»1: gran parte del cinema di Pasolini è concentrata in tale compito, tesa com’è, da Accattone a Medea, all’elaborazione di «quella seconda morte culturale che vendica lo scandalo della morte naturale»2. Come abbiamo sostenuto nei capitoli precedenti, Pasolini è spinto ad interpellare il piano del mito dal “problema della morte”, che per lui costituisce il “momento religioso dell’umanità”. A suggello dell’intero percorso fin qui proposto, interroghiamoci ora sul modo in cui Pasolini ha affrontato tale problema ne Il Vangelo secondo Matteo, ovvero nel film in cui il modello mitico – la morte di Cristo – che regge il lavoro del cordoglio pasoliniano è affrontato direttamente. Sebbene la critica d’epoca, con qualche rara eccezione3, abbia sostenuto, suggestionata dalle rassicurazioni tanto di Pasolini quanto della Pro Civitate Christiana, la profonda fedeltà del film a Matteo, di fatto non sono pochi gli interventi compiuti da Pasolini sul testo originario4. Il film può essere suddiviso in tre parti: la prima vede i racconti dell’infanzia; la seconda la vita pubblica, dal battesimo fino all’arresto; la terza la passione. I primi 2 capitoli di un testo che ne ha 28 (circa il 7%) occupano i primi 20’ di un film la cui durata complessiva è di 128’ (circa il 16%): di fatto nella prima parte del film nulla del testo di Matteo viene eliminato; i tagli che infuriano nella seconda parte qui non hanno motivo di esistere 1 2 3 4

E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 214. Ibidem. Si segnala il furente testo di G. d’Aulerio, Il Vangelo secondo S. Matteo di P. P. Pasolini, dattiloscritto datato settembre-ottobre 1965 (una copia è conservata in FC). Cfr. Z.G. Barañski, The Texts of Il Vangelo secondo Matteo, cit., p. 281-320.

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perché Gesù, bambino, non ha ancora aperto bocca. Nella seconda parte si assiste ad un’inversione di tendenza e l’86% del testo originario diviene il 68% del film, a causa dei numerosi tagli operati da Pasolini sulla materia originaria: spariscono gran parte dei miracoli, il discorso in parabole e soprattutto l’intero discorso escatologico. Quanto la prima parte era caratterizzata dal silenzio, tanto questa seconda è caratterizzata dalla presenza dominante della parola. Nella terza parte tornano il silenzio (Cristo è messo a tacere) e la dilazione della materia: il 7% del testo di Matteo torna ad occupare il 16% del film, il medesimo dato che caratterizzava la prima parte5. Siamo quindi in presenza di una struttura simmetrica che vede una narrazione ad ampio respiro nella prima e nella terza parte, laddove la parte centrale è invece caratterizzata da un andamento ellittico. La prima e la terza sono le parti più personali del film, quelle più ispirate, anche per il fatto che non suscitano in Pasolini alcun imbarazzo ideologico. È da esse che provengono gli esempi analizzati di seguito6. 3.1. La morte di Erode Nella prima parte non solo si conserva tutto quanto raccontato da Matteo, c’è anche il caso di un episodio (completamente trascurato dalla tradizione iconografica d’arte sacra) cui Matteo accenna soltanto e che nel film acquista un peso inedito: la morte di Erode. Matteo si limita all’appunto: «morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto»7, avvisandolo dello scampato pericolo. Pasolini invece visualizza sia l’episodio della morte di Erode, sia quello dell’apparizione dell’angelo. La morte – poco importa che sia quella delle vittime (gli innocenti della sequenza precedente) o quella del loro carnefice – ha su Pasolini una tale attrattiva da spingerlo a visualizzare ciò che in Matteo è una semplice annotazione temporale dal peso narrativo irrilevante. 5 6

7

I dati proposti vogliono essere soltanto indicativi di una tendenza. Come già rilevato, de Il Vangelo secondo Matteo esistono due distinte versioni: quella presentata il 4 settembre 1964 alla XXV Mostra del cinema di Venezia; quella distribuita nelle sale a partire dal 2 ottobre 1964. Siccome gli interventi sulla versione distribuita nelle sale furono decisi dallo stesso Pasolini (a ciò spinto dalle critiche raccolte alla Mostra di Venezia) è su di essa che si è deciso di svolgere l’operazione di analisi. Si è infine riconosciuto nel DVD di “Cinema Forever” distribuito da Medusa nel 2004 il «videosimulacro» (L. Micciché, Filmologia e filologia, Marsilio, Venezia 2002, p. 14) meno irrispettoso del testo originario. Mt 2, 19.

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Come noto, per “seguire punto per punto” il testo di Matteo, nella sceneggiatura originaria Pasolini riporta all’inizio di ciascuna sequenza il corrispondente passo evangelico8. Del relativo passo sono solitamente indicati l’attacco e la conclusione, raccordati da un «fino a»9. Il caso della sequenza della morte di Erode rappresenta un’eccezione a tale regola. La frase del testo originario si ritrova infatti, sia nella sceneggiatura sia nel film, spezzata in due sequenze distinte: TESTO: “Morto Erode, ecco l’angelo del Signore…” 13. PALAZZO DI ERODE. INTERNO GIORNO (GIORDANIA) […] TESTO: “… ecco l’Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe nell’Egitto, e gli dice: “Alzati, prendi…” 14. LUOGO IN EGITTO. ESTERNO GIORNO (GIORDANIA)10

Pasolini pensava di raccordare le due sequenze con una «rapida dissolvenza»11. Nel corso delle riprese però la sequenza della morte di Erode acquista un peso ancora più rilevante e soprattutto un’autonomia che la sceneggiatura ancora non prevedeva. La sequenza della morte di Erode consta di 8 inquadrature e dura 1’15” (da 0.19’.27” a 0.20’.42”): 1. Dissolvenza dal nero. Quattro donne attendono sulla porta della stanza la morte di Erode (cfr. fig. 1). Stacco. 2. MPP. Erode che ansima e si contorce sul suo letto. 3. Raccordo sull’asse. FI. Erode che ansima e si contorce sul letto. Stacco. 4. Totale. Un carrello orizzontale inquadra gli Scribi e i Farisei seduti ai piedi del letto di Erode. Stacco. 5. Come 2. Erode muore. Stacco. 6. Come 4. Gli Scribi e i Farisei si alzano in segno di rispetto per il morto; dal fondo della stanza una delle donne avanza verso il letto con in mano un fazzoletto che lega intorno alla testa di Erode. Stacco.

8

9 10 11

Come viene fatto notare in Note e notizie ai testi, in CI2, p. 3082, «tale procedimento viene seguito più o meno per tutta la stesura, anche se diventa più saltuario e compendioso a partire dalla metà circa del lavoro». Ad esempio, la prima sequenza è così introdotta: «TESTO: “Ora la nascita di Gesù Cristo avvenne così:” fino a “pensò di dimetterla segretamente”» (copione di FC, p. 4). Cfr. copione del FC, pp. 32-33. L’indicazione si conserva anche nella sceneggiatura data alle stampe: P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo…, cit.; ora in CI1, p. 496.

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7. Come 2. Stacco. 8. Ripetizione dell’inq. 1.

fig. 1

La sconcertante ripetizione della prima inquadratura, che torna identica in apertura e in chiusura di sequenza, può essere spiegata a partire da un disegno di Pasolini del 1944 che ritrae la nonna materna defunta (cfr. fig. 2)12.

fig. 2

La morte della nonna materna si verifica proprio in quel biennio (19431945) nel quale Pasolini è chiamato a confrontarsi con “ciò che passa”. Una lettera scritta a Luciano Serra del febbraio-marzo 1944 lascia inten-

12

Il disegno (matita su carta, 135 x 185) è pubblicato in Pier Paolo Pasolini. Dipinti e disegni dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux, Edizioni Polistampa, Firenze 2000, catalogo della mostra diretta da E. Siciliano svoltasi presso il Museo Marino Marini, Firenze, 1-28 febbraio 2001. Si ringrazia G. Chiarcossi per l’autorizzazione alla pubblicazione.

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dere l’impatto che quell’evento ebbe sul giovane Pasolini, una prima avvisaglia di quel che accadrà nel momento in cui giungeranno notizie della morte di Guido: Non so se ci rivedremo, tutto puzza di morte, di fine, di fucilazione. […]. Vorrei sputare sopra la terra, questa cretina, che continua a metter fuori erbucce verdi e fiori gialli e celesti, e gemme sugli alni […]. Tutto puzza di fucilate e di piedi. […] Domani (fra sessanta anni; ci tengo) avremo una buca: non sarebbe una novità se non avessi visto con QUESTI occhi calarci dentro una morta, di cui sapevo che era stata viva; e allora in quel corpo che calava giù, ho misurato tutta questa umanità merdosa; viene qualcuno (la morte) a turarti il naso, e tu non senti più niente.13

Al disegno della nonna defunta rimanda inequivocabilmente il primo piano di Erode a cui il fazzoletto ha chiuso la bocca (cfr. fig. 3).

fig. 3

Se si considera la sequenza della morte di Erode nel contesto dell’ideologia della morte pasoliniana, allora il ritorno dell’inquadratura iniziale al termine della sequenza fornirebbe una risposta sul piano destorificato del film all’esperienza fatta in quel biennio traumatico. Facendo tornare indietro il tempo, l’ottava inquadratura nega di fatto l’evento della morte: la donna che occupa il lato destro del quadro nella prima inquadratura torna infatti, nell’ultima, con in mano il fazzoletto che le avevamo visto legare intorno alla testa di Erode, come se nulla fosse accaduto, come se quello della morte fosse un evento apparente, come se morendo in realtà non si morisse veramente. 13

LE1, pp. 190-191. La morte della nonna ispira a Pasolini i versi de I Pianti, Edizioni dell’Academiuta, Casarsa 1946; ora in PO2, pp. 671-687.

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L’episodio, giocando su una serie di coincidenze e di varianti, ripropone inoltre la morte di Ettore in Mamma Roma, a sua volta ispirata al Cristo morto di Mantegna.

fig. 4

fig. 5

Coincide lo scorcio, con la macchina da presa all’altezza del letto, coincidono gli spasimi con cui Erode si contorce, quasi fosse legato al letto come lo era Ettore, coincide la reiterazione dei movimenti di macchina. Con poche varianti insomma (la testa in primo piano invece che i piedi, due carrelli al posto dei tre dolly), Pasolini ripropone una sequenza tipo del suo cinema, riconducendo l’episodio evangelico nel cuore della sua opera, là dove si annida “il problema della morte” (cfr. figg. 4-5).

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3.2. La morte di Giuda La critica d’epoca ha lamentato in diverse occasioni la centralità che a suo avviso il film di Pasolini avrebbe assegnato alla figura di Cristo, a discapito delle figure di contorno14. Tuttavia, se il confronto è fatto non con i coevi film biblici (in cui spesso le vicende di contorno conquistano il primo piano), ma con il testo originario di Matteo, si comprende che semmai è il contrario: «Where the latter strives to concentrate almost exclusively on Christ, in order to prove that he is the Messiah, and so allows no other character to compete with Jesus, Pasolini’s film introduces pluralism and tension into the story»15. Il fatto poi che Pasolini decida di rappresentare la Passione come se fosse un reportage moderno sulla vita di Cristo16 visto attraverso gli occhi di Pietro, di Giuda e di Giovanni, smentisce tutti coloro che ancora oggi sostengono che il rapporto tra Cristo e gli apostoli sia un elemento secondario del film. Secondo Zygmunt Barañski, Giuda in particolare, «in the transition from screenplay to film, becomes the film’s second most important character»17. Dal suo punto di vista osserviamo, tra le altre cose, la pronuncia della condanna e la consegna di Cristo a Pilato. È allora che, resosi conto di aver peccato, Giuda striscia il proprio volto sulla terra in segno di contrizione, gesto che si inquadra – come già quello compiuto da Accattone in riva al Tevere – nel contesto delle teorie demartiniane di auto-inumazione (cfr. fig. 6)18. 14 15 16

17

18

Tale tradizione critica non manca di influire anche sulle più recenti analisi: N. Greene, Pier Paolo Pasolini, cit., p. 79, parla ad esempio di «Christ’s meek and passive followers». Z.G. Barañski, The Texts of Il Vangelo secondo Matteo, cit., p. 300. L’idea di realizzare un film sulla vita di Cristo nello stile del cinema verità è tra i motivi della sua profonda influenza all’interno del genere cristologico: «[…] volevo fare un film su Gesù nello stile del cinéma-vérité, ambientato nel Lower East Side di New York, con i personaggi vestiti con abiti moderni: una sorta di interpretazione contemporanea della storia a noi tutti nota. Così fui al tempo stesso commosso e spiazzato dal film di Pasolini, perché in un certo senso aveva fatto quello che era nelle mie intenzioni fare» (M. Scorsese, Scorsese on Scorsese, a cura di I. Christie e D. Thompson, Faber & Faber, London 1989; tr. it., Scorsese secondo Scorsese Ubulibri, Milano 20032, p. 165). Si tratta di un aspetto del film recepito molto più all’estero che non in Italia (dove il cinéma-vérité ha avuto poca presa): cfr. la nota redazionale in «Film Quarterly», vol. 18, n. 4, summer 1965, p. 31, in cui il film viene definito «a kind of cinema-verite [sic] Passion». Z.G. Barañski, The Texts of Il Vangelo secondo Matteo, cit., p. 309. Sul rapporto tra Gesù e Giuda cfr. la suggesstiva analisi in G. Britagna, Il volto di Gesù nel cinema, Pardes, Bologna 2005, pp. 32-34. Di tale gesto non fa alcuna menzione la sceneggiatura.

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fig. 6

Nella sequenza seguente, tra le più belle di tutto il film, per ritmo, movimenti di macchina e impatto visivo, Giuda si impicca, aggiungendosi alla già lunga lista di morti. La sequenza della morte di Giuda consta di 8 inquadrature e dura 38” (da 1.56’.56” a 0.20’.42”): 1. Panoramica a seguire la corsa di Giuda. Stacco. 2. CL. Giuda prosegue la sua corsa allontanandosi dalla macchina da presa. Stacco. 3. Panoramica a seguire la corsa di Giuda che nel frattempo si è spogliato della maglia e tiene tra i denti la cintura con la quale ha intenzione di impiccarsi. Stacco. 4. PP. Giuda si stringe la cintura al collo ed esce fuori campo a sinistra. Stacco. 5. MF. Panoramica verticale di Giuda che si arrampica sull’albero. Stacco. 6. CL. Giuda lega la cintura al ramo dell’albero. Stacco. 7. Particolare. Le mani di Giuda legano la cintura al ramo dell’albero. Stacco. 8. CM. Giuda penzola dal ramo. Stacco.

Gli stilemi del “cinema di poesia”19 (la macchina a mano, la panoramica documentaristica, il sole in macchina: cfr. fig. 7) che attraversano l’intera sequenza forniscono alla rappresentazione della morte di Giuda un 19

Con l’espressione “cinema di poesia” Pasolini identifica uno stile di ripresa aggressivo e trasgressivo nei confronti dei procedimenti narrativi classici, il cui principio primo è che “si senta la macchina”: «La macchina, dunque, si sente, per delle buone ragioni: l’alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 e un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zoom, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente causali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc.» (P.P. Pasolini, Il “cinema di poesia”, cit.; ora in SLA1, pp. 1485-1486).

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partecipato senso di pietà: “la macchina si sente” dalla prima all’ultima inquadratura, gli eventi sono cioè filtrati attraverso la soggettività empatica di un autore che dichiara la propria presenza.

fig. 7

Significativamente la prima inquadratura della sequenza successiva (montata con stacco netto) è quella della madre di Pasolini che parrebbe iniziare qui il suo cordoglio (cfr. fig. 8).

fig. 8

Sia Erode sia Giuda muoiono nel peccato: e se il primo muore nella più esplicita impenitenza, il secondo, pur pentitosi, si è dannato per essersi tolto la vita. La regia di Pasolini, invece, si comporta non diversamente che se si trattasse della morte di Accattone o di Ettore. Se la storia evangelica condanna sia Erode sia Giuda, la regia di Pasolini sembrerebbe volerli salvare entrambi.

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3.3. La morte di Gesù L’identificazione con il Crocifisso è di vecchia data, risale a L’Usignolo della Chiesa Cattolica: «Tutte le piaghe sono al sole / ed Egli muore sotto gli occhi / di tutti: perfino della madre […] l’Aprile / intenerisce il Suo esibire / la morte a sguardi che Lo bruciano»20. Anche ne Il Vangelo secondo Matteo lo sguardo che sotto la croce più brucia il corpo esposto di Cristo-Pasolini è quello della madre, la cui presenza è il grande scarto compiuto dal film rispetto al testo di Matteo21 (cui invece la sceneggiatura, dove si accenna alla presenza delle Marie ma non della madre, prudentemente si attiene fedele). La sequenza della crocifissione è costruita sovrapponendo al Vangelo di Matteo quello di Giovanni: dal primo provengono le Marie che “stanno a osservare da lontano”, dal secondo la presenza della madre. Pasolini viene dunque meno all’aderenza programmaticamente dichiarata al testo di Matteo laddove si insinua il suo vissuto: nella sequenza più autobiografica del film cade ogni remora di fedeltà, perché quel che conta realmente è riattivare il lavoro del cordoglio per il cui il film è stato ideato e realizzato22. In origine Pasolini pensa ad una crocifissione crudamente realista, come indicato in una nota della sceneggiatura («Mai crocifissione avrà dato l’insopportabile fisicità del dolore, come questa cinematografica: un naturali20 21

22

P.P. Pasolini, La crocifissione, in L’Usignolo della Chiesa Cattolica, cit.; ora in PO1, p. 467. I quattro Vangeli testimoniano la presenza delle donne in due momenti contigui ma distinti della Passione: nei pressi della croce, ma in posizione defilata, prima, e al sepolcro durante la sepoltura poi. Scrive Matteo, riferendosi al momento appena successivo la morte di Gesù: «C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacobbe e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo» (Mt 27, 55-56). E, dopo che il corpo di Gesù è stato deposto nel sepolcro: «Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria [madre di Giacobbe e di Giuseppe]» (Mt 27, 61). In Marco e Luca, mutano solo alcuni particolari: cfr. Mc 15, 40, Mc 15, 47, Lc 23, 49, Lc 23, 55. È in Giovanni che, Gesù ancora vivo, si accenna alla presenza della Madre sotto la croce: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre, e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19, 25). Giovanni a differenza dei sinottici non fa poi menzione della presenza delle donne durante la sepoltura. Completamente fuori bersaglio, a questo riguardo come a molti altri, S. Bouquet, L’Évangile selon Saint Matthieu, Cahiers du cinéma, Paris 2003, p. 14. Secondo il critico dei «Cahiers du cinéma» Pasolini avrebbe scelto tra i quattro Vangeli quello di Matteo (quando sappiamo che in realtà non scelse, ma adattò Matteo perché quello e non altri lesse il 4 ottobre 1962 ad Assisi) perché «L’Évangile de Matthieu fait sa place à Marie».

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smo terribile, da renderne quasi intollerabile la vista»23), che ad Assisi lascia tuttavia perplessi: Caruso la cancella con decisi segni di penna, mentre Carraro invita Pasolini a riflettere sull’opportunità di un eccessivo realismo24. Pasolini riesce in questo caso a venire incontro alla richiesta che gli giunge da Assisi senza tradire la propria ispirazione. Da un lato pubblica il brano nella sceneggiatura nonostante l’invito a disfarsene25, dall’altro supera la difficoltà di mostrare un Cristo Dio che soffre in croce con tutta l’umanità di un uomo qualunque, rappresentando i suoi atroci dolori per interposta persona, il ladrone buono: solo alla sofferenza di quest’ultimo è infatti concesso il primo piano, negato invece a Cristo, il cui spasimo risuona fuori campo (cfr. figg. 9-10).

fig. 9

fig. 10

23 24 25

Cfr. copione del FC, p. 448. Cfr. T. Subini, Il dialogo tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana…, cit., p. 237. P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo…, cit.; ora in CI1, p. 645.

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Un secondo e, per la nostra prospettiva, ben più importante ordine allusivo è attivato dalla figura di Maria nella sequenza del cordoglio per la morte del figlio. Tale sequenza consta di 15 inquadrature e dura 2’31” (da 2.06’.38” a 2h.09’.09”): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

PP. Cristo morto. Stacco. CL. Alcuni giovani armeggiano intorno alla croce di Cristo; in secondo piano la madre osserva raccolta, immobile e muta. Raccordo sull’asse. FI di un giovane che schioda il corpo di Cristo. Stacco. FI. L’apostolo Giovanni, Giuseppe d’Arimatea e, davanti a tutti, raccolta, immobile e muta, la madre. Stacco. Come 3. Una panoramica verticale segue l’azione. Stacco. Come 4. Una donna avanza, recando con sé il sudario; la seguono un’altra donna e Giovanni; Maria rimane sullo sfondo raccolta, immobile e muta. Stacco. PP. Maria raccolta, immobile e muta. Stacco. FI. Tutti gli astanti osservano Cristo che viene avvolto nel sudario. Stacco. CL. Il gruppo si avvia verso il sepolcro. Stacco. FI. Panoramica a seguire il gruppo che procede verso il sepolcro. Stacco. FI. Il corpo di Cristo deposto nel sepolcro. Stacco. PP. Maria raccolta, immobile e muta osserva il corpo del figlio morto. Stacco. PA. Un gruppo di giovani chiude il sepolcro con una pietra. Stacco. Dalla MF al PP. Un movimento misto segue Maria che si avvicina alla pietra e vi poggia sopra una mano. Stacco. CM. Il gruppo è raccolto davanti al sepolcro. Dissolvenza in nero.

fig. 11

Un dato risulta da subito evidente: in quasi tutte le inquadrature è presente la madre (assente sia nel testo di Matteo sia nella sceneggiatura), che si configura così come la vera protagonista di questa sequenza (cfr. fig. 11). 116

Come viene spiegato in Morte e pianto rituale il ruolo storico svolto dalla figura di Maria fu quello di «popolareggiare» la nuova ideologia della morte cristiana recuperando sincreticamente alcuni tratti del pianto antico: Il sommesso e breve versar lacrime di Gesù al sepolcro di Lazzaro, esibito dal Crisostomo come modello di moderazione per una morte che il miracolo avrebbe di lì a poco esemplarmente vinto, costituiva un ideale del comportamento per ogni cristiano: ma affinché questo ideale potesse realmente plasmare il costume nelle condizioni storiche date, occorreva una figura mediatrice interamente umana, come tale suscettibile di concedere di più alla terrestrità del dolore e che al tempo stesso togliesse gli umani cordogli dal loro rischioso isolamento, e tutti li concentrasse e li risolvesse nel simbolo di un unico cordoglio per un morire che cancellava la morte dal mondo. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi drammatici del planctus Mariae.26

La linea di sviluppo del planctus Mariae attraversa i secoli e, conservando intatto il proprio ruolo storico, approda ne Il Vangelo secondo Matteo, nel quale la figura di Maria è eletta da Pasolini a mediatrice del proprio cordoglio: […] la figura di Maria si adattò persino ad accogliere gli aspetti più arcaici del cordoglio antico, come il cadere inanimata ed il percuotersi il petto e il graffiarsi le guance ed il lamentarsi, secondo che narrano gli Acta Pilati: ma la sua figura di madre in lutto resta sostanzialmente legata ad un’altra immagine pedagogicamente egemonica, al suo stare raccolto, immobile e muto del Vangelo giovanneo.27

fig. 12

26 27

E. de Martino, Morte e pianto rituale…, cit., p. 301. Ivi, p. 305.

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L’immagine di Susanna Pasolini che si erge composta di fronte alla morte del figlio nelle vesti della Madonna Addolorata del Vangelo giovanneo (cfr. fig. 12) incarna nei termini più espliciti la volontà del cinema pasoliniano di “non passare con ciò che passa”.

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FRAMES TITOLI PUBBLICATI

Ermanno Comuzio, Musicisti per lo schermo. Dizionario ragionato dei compositori cinematografici, 2 voll. Parole di Cinema. Dizionario Italiano-Inglese / Inglese-Italiano Maria Francesca Piredda, Film & Mission. Per una storia del cinema missionario Massimo Monteleone (a cura di), Ibridazione Uomo=Macchina. Identità e coscienza nel cinema post-moderno Dario E. Viganò (a cura di), Pio XII e il cinema Mario Dal Bello, Primissimo Piano. Incontri con registi, attrici e attori AA.VV., Tentazione di credere. Il cinema di fronte all’assoluto: un percorso Ruggero Eugeni - Dario E. Viganò (a cura di), Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, 3 voll. AA.VV., La cospirazione del silenzio. Appunti su cinema e tragedia del moderno

Finito di stampare nel mese di gennaio 2008 dalla Società Tipografica Romana s.r.l. via Carpi, 19 - 00040 Pomezia (Roma)