La felicità degli antichi 9788860304261

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La felicità degli antichi
 9788860304261

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Scienza e idee Collana diretta da Giulio Giorello

Pierre Hadot

La felicità degli antichi

Raffaello CortinaEdìtm

INDICE

www.raffaellocortina.it

Traduzione Arianna Ghilardotti

Introduzione ( Giulio Guidorizzi)

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1. Teologia, esegesi, rivelazione, scrittura nella filosofia greca

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2. Osservazioni sui concetti di physis e di natura

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3. La filosofia antica: un’etica o una pratica?

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4. La figura del saggio nell’Antichità greco-latina

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5 . 1 modelli di felicità proposti dai filosofi antichi

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6. La fine del paganesimo

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Indice dei nomi

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ISBN 978-88-6030-426-1 © 2011 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2011 Stampato da Press Grafica srl, Gravellona Toce (v b ) per conto di Raffaello Cortina Editore

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INTRODUZIONE Giulio Guidorizzi

Può un saggio essere felice? Nella prospettiva della filosofia antica, deve. Lo afferma del resto Socrate (o meglio, il Socrate di Platone) alla fine ù&WApologia, subito dopo la sua condan­ na a morte: io muoio (è il suo ragionamento), voi vivete, ma il mio destino è migliore del vostro, perché io ho seguito il mio demone e ho costruito la mia vita sulla ricerca della conoscen­ za, e senza conoscenza non c’è virtù, e senza virtù non può es­ servi felicità. La missione fondamentale del filosofo, nell’Antichità, al di là dell’appartenenza a una scuola o a un’altra, consisteva nel reinventare se stesso, creandosi il progetto di una vita autono­ ma fondata su basi razionali; in generale, però, il philosophein non era considerato semplicemente un esercizio della ragione o un’attività puramente teorica, ma una scelta di vita in cui è impegnato tutto l’essere umano, corpo e anima. “Chi dice che è troppo presto o troppo tardi per praticare la filosofia”, scri­ veva Epicuro nella Lettera a Meneceo, “è come se dicesse che è troppo presto o troppo tardi per essere felice {eudaimonein).” Ma Yeudaimonia del saggio è di natura profondamente diversa rispetto a quella della persona comune, poiché è il frutto di un itinerario che, in un certo senso, ha qualcosa di eroico. La visione della filosofia antica di Pierre Hadot muove ap­ punto in questa direzione. Una delle sue idee principali (su cui si può ben convenire) è che la filosofia antica non fu un sapere specializzato, bensì uno strumento onnicomprensivo di pen­ siero e prassi, e che questo deve essere considerato ancora oggi

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INTRODUZIONE

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la prima missione del filosofo. Se si può dire così, occorre una filosofia con anima e ragione. Il filosofo antico - scrive l’autore, in uno dei saggi raccolti in questo libro - non insegnava soltanto a saper parlare e a sa­ per discutere, ma in primo luogo a saper vivere nel senso più nobile e più alto del termine, e incitava i propri discepoli a pra­ ticare quest’arte, essendo la paideia un compito irrinunciabile per chi esercita la filosofia. Lo scopo del filosofo greco, osserva H adot, non era quel­ lo di costruire sistemi. Le scuole filosofiche, nella loro prima e più feconda fase, erano libere associazioni raccolte attorno alla figura del maestro, dove si conduceva vita comune, si condi­ videvano riti e abitudini; spesso vi si celebrava il giorno natale del caposcuola, dopo che questi era morto, nello stesso modo in cui la gente comune festeggiava i giorni consacrati alla na­ scita degli dei. La scuola filosofica dell’Antichità era fondata su criteri as­ sociativi che ereditano le forme delle antiche aristocrazie in­ tellettuali. In epoca arcaica i maschi adulti si raggruppavano in eterie, vale a dire in consorterie di sodali che condividevano intenti politici, ma anche, in generale, un comune programma di vita e un orizzonte culturale. Nei simposi si componevano carmi, si faceva musica, si discutevano temi di varia umanità, in particolare rivolti all’eros: il Simposio di Platone (prototipo di questo genere filosofico) riproduce in termini dialettici il cli­ ma intellettuale di un’epoca passata. Vista così, la filosofia antica è veramente un mondo ricchis­ simo e articolato. L’antiquata formula “dal mito alla ragione” non vale per spiegare la nascita della filosofia greca; certamen­ te la filosofia greca rappresenta una svolta straordinaria nella storia del pensiero umano, ma non tutto ciò che esisteva prima fu smantellato e gettato nel ripostiglio delle superstizioni. Cer­ to, i filosofi greci si guardarono bene dal demolire l’impalcatu­ ra culturale su cui si fondava tutto l’edificio della loro civiltà, e nutrivano interesse per le forme di linguaggio metaforico e simbolico, per i miti degli dei, in una parola per la cultura tra­ dizionale in cui si saldava l’identità delle genti di lingua greca.

Queste tradizioni erano un problema per i pensatori razionali; si può dire però che essi riuscirono a fondare un nuovo siste­ ma d’interpretazione complessivo della realtà senza sbarazzar­ si mai di quello che veniva dai venerandi miti poetici. Questo vale anche per il rapporto con la tradizione religiosa, che al di fuori delle scuole filosofiche continuava a permanere, indiffe­ rente quasi all’operare dei filosofi. Poiché H adot non è stato un semplice filologo della filosofia antica, ma un pensatore autentico, ha saputo misurarsi in modo adeguato, se non anche simpatetico, con la vertiginosa profon­ dità che si apre a un pensiero veramente libero e alto come fu quello della filosofia greca: “La figura del saggio comporta due dimensioni che sono completamente estranee all’uomo della vita quotidiana, cioè la libertà interiore e la coscienza cosmica” . A che può servire la filosofia, infatti, se non a insegnarci a superare gli angusti limiti della coscienza individuale per ren­ derci consapevoli di appartenere alla più vasta comunità degli esseri umani e del fatto che gli esseri umani non sono che un frammento di un’entità che abbraccia tutto il cosmo? Uno dei motivi polemici dei filosofi greci contro la teologia cristiana, verso la fine dell’Antichità, era appunto il fatto che i cristiani ponevano l’uomo, e solo l’uomo, al centro del progetto del­ la Creazione: ma l’Universo, scriveva Celso nel Discorso vero, non è stato fatto per l’uomo più di quanto sia stato fatto per il leone o l’aquila o il delfino. In studiosi come Hadot, il ritorno a quel passato in cui per la prima volta nella cultura occidenta­ le il pensiero razionale si rese autonomo e si diede un metodo appare come un’operazione di storia culturale, proiettata an­ che verso il presente. I saggi contenuti in questo volume, nell’accurata traduzione di Arianna Ghilardotti, appartengono a varie fasi dell’attività di Hadot; vi compaiono alcuni temi di carattere generale, esem­ plificativi di un itinerario di ricerca che tocca alcuni punti no­ dali della riflessione antica nel suo complesso, quali il rapporto tra natura e cultura, i modelli di felicità proposti dalle scuole filosofiche, la figura del sapiente nell’Antichità. Un lungo saggio parla del grande problema della fine del

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paganesimo. Per la verità in queU’“epoca di angoscia” , come la definiva Dodds, le distanze tra intellettuali pagani e cristia­ ni su alcuni versanti sembrano sfumarsi. Temi come il disprez­ zo dei piaceri e della sessualità, l’ascetismo, la svalutazione del mondo sensibile potevano essere condivisi dagli uni e dagli al­ tri. Stoici e neoplatonici praticavano uno stile di vita ascetico, talvolta quasi monacale: Plotino, come scrive il suo discepolo Porfirio, “sembrava quasi vergognarsi di avere un corpo” . Per quanto il Neoplatonismo abbia dato non poco al sistema filo­ sofico dei cristiani, alcune cose rimanevano inspiegabili a un pagano colto: per esempio, l’idea di un dio piagato e sofferente, e quella di resurrezione dei corpi. Per un filosofo neoplatonico, la morte era il momento in cui l’anima, lasciando per sempre la prigione di carne in cui era stata forzosamente reclusa, poteva riacquistare finalmente la purezza dello spirito salendo in spazi siderali. “La nostra patria è lassù”, scriveva Plotino; alcune ma­ nifestazioni della fede cristiana sembravano macchiare l’idea di un dio perfetto, completamente trascendente e separato dal mondo, puro di una purezza davanti alla quale la sola idea di corporeità era una blasfemia. Era difficile per queste persone accettare l’idea cristiana che la morte è invece ciò che riscatta dalla morte stessa; per questo, manifestazioni come il culto del­ le reliquie dei santi erano considerate ignominiose. H adot fu appunto uno specialista della filosofia tarda, in particolare del Neoplatonismo; ma i saggi qui raccolti rispec­ chiano una nozione globale, non parcellizzata, della filosofia greca intesa come espressione di un’antropologia della cultura, maturata negli anni in cui Hadot insegnò all’Ecole pratique des hautes études, avendo come colleghi, tra gli altri, personaggi del livello di Jean-Pierre Vernant e Michel Foucault, entrambi insigni storici della civiltà. Gran parte della libertà di pensiero della filosofia antica sta nella mancanza di una religione rivelata; i Greci non ebbero mai un libro sacro, che dettava la verità all’inizio della loro sto­ ria, ma piuttosto una fantasmagorica varietà di tradizioni, figu­ re sacre, miti. In parte, la filosofia antica fu una specie di religio­ ne laica, una religione della mente, fondata cioè sulla ragione

e sulla dialettica anziché sulla rivelazione. Tuttavia, nel saggio che inaugura questa raccolta, Hadot si chiede sino a che punto al pensiero greco sia stata estranea l’idea di rivelazione, che fu invece fondante per le grandi religioni monoteiste, arrivando anche a sostenere la tesi che la contrapposizione tra teologia rivelata e rivelazione del pensiero fu meno netta di quanto ap­ paia: “Si dà il caso che la teologia dei filosofi greci abbia utiliz­ zato sempre più un metodo esegetico; ma soprattutto [...] essa ha fatto sempre riferimento a una rivelazione” . L’idea di rivelazione agiva, seppure in modo diverso, anche all’interno del pensiero tradizionale. Esiodo, che anche Aristo­ tele nella Metafisica considerava un prefilosofo, affermava di avere ricevuto la “rivelazione” della sua poesia dalle Muse, e in generale i poeti arcaici si proclamavano “ispirati” quando non “posseduti” . Se le Muse rivelano la verità a poeti come E sio­ do, in Platone e nei neoplatonici è l’anima stessa ad andare al­ la ricerca della verità, la quale sta fuori dell’uomo, ma gli è in qualche modo accessibile, anche per via rivelata, come appare evidente nelle correnti di pensiero tarde, quali la teurgia, gli Oracoli caldaici, la gnosi, e anche il Neoplatonismo. La filosofia antica aveva del resto i suoi specifici modelli co­ municativi. Ciò che senz’altro la caratterizzava, rispetto ad al­ tri momenti della storia filosofica, fu il predominio della parola sulla scrittura. Tutta la cultura greca, del resto, almeno fino a Platone e all’Ellenismo, va inquadrata in questa ottica: la pa­ rola parlata conta assai più di quella scritta, e ciò vale anche, e forse particolarmente, per la tradizione filosofica. Vi furono fi­ losofi che non sentirono il bisogno di lasciare alcunché di scrit­ to (Socrate è esemplare, ma come lui, per esempio, molto più tardi, Epitteto), e lo stesso Platone era restio a utilizzare la for­ ma del trattato: l’essenza del suo pensiero non era nei Dialoghi, sebbene a lungo accarezzati e riscritti, ma negli “insegnamenti orali” (agrapha dogmata), di cui molto, anche recentemente, si è discusso. Anche dove esisteva scrittura, la parola era sentita come elemento peculiare del philosophein. Per questo, tanto dell’antico pensiero ci sfugge, poiché pas­ sava in forme dirette da maestro ad allievo: si sa bene che l’es­

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senza del pensiero di Platone erano gli agrapha dogmata, gli “insegnamenti non scritti” . La difficoltà di fermare la libertà del pensiero nella fissità di un sistema di scrittura, divenuto in­ dispensabile per la trasmissione delle conoscenze, era avvertita drammaticamente da Platone stesso, che si trovava al confine tra oralità e civiltà della scrittura: e infatti nel Fedro (274 c-278 b) il filosofo fa dire a Socrate che la parola è più utile della scrit­ tura e che un libro è uno strumento imperfetto nel procedimen­ to filosofico, perché, a differenza di quanto avviene con le paro­ le che scorrono liberamente tra interlocutori, esso non è capace di difendersi e replicare, distrugge la memoria ed è in fondo un ostacolo alla ricerca della verità, che nasce non dall’adesione a un sistema di pensiero già bell’e fatto, ma dall’arte dialettica. Così il saggio attraversa la vita guidato dalla filosofia. Secon­ do l’autore di questo libro, in una prospettiva di antropologia psicologica, questo vuol dire che attraverso la filosofia si svilup­ pa una coscienza sempre più chiara e netta dell’Io, dell’interio­ rità e della personalità. Il saggio è il vero eroe di un metodo di pensiero che si propose il titanico sforzo di dare un senso razio­ nale all’esistenza della parcella di coscienza che vive nell’uomo, circondata da un gran cerchio d ’ombra, dentro e fuori di lui; e che, invece di indurre alla disperazione, conduce a un retto vi­ vere e a un retto sentire, in attesa del compimento del proprio destino. Come diceva Epitteto (Manuale, 7), “viaggiando per mare, se la nave ormeggia e tu scendi per attingere acqua, lun­ go la strada potrà anche capitare di raccogliere una conchiglia o una radice, ma la tua attenzione deve essere sempre volta alla nave. Voltati continuamente indietro, per vedere se il timonie­ re ti chiama, lascia perdere tutto, se non vuoi che ti trascinino sulla nave legato come una pecora. Così nella vita, se non avrai conchiglie e radici, potrai avere moglie e figlio, e nulla t’impedi­ rà di avere la tua famigliola. Ma, se il timoniere ti chiama, lascia perdere tutto, e corri alla nave senza nemmeno voltarti indietro. E quando sarai vecchio, non ti allontanare troppo dalla nave, in modo da non mancare quando verrai chiamato”.

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TEOLOGIA, ESEGESI, RIVELAZIONE, SCRITTURA NELLA FILOSOFIA GRECA*

L’idea di una teologia razionale sembra apparire chiaramen­ te già in Aristotele: “Quindi, ci saranno tre specie di filosofie teoretiche, cioè la matematica, la fisica e la teologia, essendo ab­ bastanza chiaro che, se la divinità è presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta” .1La teologia razionale si presenta qui come una delle parti della filosofia. In Aristotele, questo “discorso sul divino” ha soprattutto lo scopo di dimo­ strare, per mezzo di prove razionali, l’esistenza di uno o più motori dell’universo. È facile, e allettante, opporre a questa teologia razionale la teologia così com’è stata elaborata dal Cristianesimo, teologia che si fonda su una rivelazione divina, sulla parola di Dio; è faci­ le contrapporre il Dio di Abramo al Dio dei filosofi. Del resto, la filosofia rivelata non esclude un approccio razionale, ma il lavoro della ragione in una simile teologia non può che essere un ten­ tativo di esegesi, che cerchi di comprendere e di sistematizzare le parole della scrittura sacra e ispirata in cui si è espresso Dio. Questa contrapposizione fra teologia razionale e teologia ri­ velata non è, peraltro, così netta come si potrebbe pensare. Si dà il caso, in effetti, che la teologia dei filosofi greci abbia utiliz­ zato sempre di più un metodo esegetico; ma, soprattutto, essa ha fatto sempre riferimento - e in misura sempre maggiore man mano che ci si avvicina alla fine dell’Antichità - a una rivelazio­ ne. E quello che il presente studio vuole mostrare. * Originariamente pubblicato in M. Tardieu (a cura di), Les règles de l’interprétation, Centre d etudes des religions du livre, Editions du Ceri, Paris 1987, pp. 13-34.

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ESEGESI E FILOSOFIA ANTICA Prima di tutto prenderemo in esame lo sviluppo progressi­ vo dei metodi esegetici nell’evoluzione della teologia pagana. Questo fenomeno è legato alla trasformazione dei metodi di insegnamento filosofico a partire dal I secolo a.C. Si possono in effetti distinguere tre fasi nella storia della fi­ losofia postsocratica, dal punto di vista sia dell’organizzazione istituzionale, sia del metodo d ’insegnamento (le due cose sono legate). Anzitutto c’è un periodo che si estende dal iv al i se­ colo a.C., e che è contraddistinto da un lato dalla presenza in Atene di istituzioni filosofiche permanenti, e dall’altro da un insegnamento centrato sulla formazione alla retorica e all’arte di vivere. Le grandi scuole - platonica, aristotelica, epicurea e stoica - si organizzano in punti diversi della città di Atene. L’insegnamento è costituito essenzialmente da esercizi dialet­ tici, discussioni, dialoghi, dalla formazione all’esercizio della parola e all’azione politica illuminata dalla scienza (nel plato­ nismo), alla vita scientifica (nell’aristotelismo), alla vita morale (nell’epicureismo e nello stoicismo). Poi, a partire dal i secolo a.C., con la rovina della maggior parte delle istituzioni filosofiche di Atene, causata dalle deva­ stazioni di Siila,2 e con la formazione di numerose istituzioni filosofiche in tutto il bacino del Mediterraneo, si sviluppa una nuova fase della filosofia postsocratica. L e quattro tendenze dottrinali fondamentali sussistono, ma non sono più sostenu­ te dalle corrispondenti istituzioni ateniesi create dai fondato­ ri. Per affermare la loro fedeltà ai fondatori, le quattro scuole filosofiche, sparse in diverse città dell’Oriente e dell’Occiden­ te, non possono più appoggiarsi all’istituzione che essi hanno creato, né alla tradizione orale interna alla scuola, ma possono soltanto fare riferimento ai testi del rispettivo fondatore; per­ ciò, i corsi di filosofia, in questa fase, consistono soprattutto in commenti ai testi. Infine, con il in secolo d.C. ha inizio una terza fase, che pro­ segue sino alla fine dell’Antichità. L’esegesi svolge sempre un ruolo preponderante nell’insegnamento, ma elementi religio­

si, rituali, “teurgici” si inseriscono nella vita e nella formazio­ ne filosofica. Dobbiamo prima di tutto esaminare la fase esegetica della storia della filosofia antica, che si estende dal i secolo a.C. all’i­ nizio del ili secolo della nostra era. Ciò che contraddistingue questo periodo è appunto l’importanza data alla spiegazione del testo, che diventa il principale esercizio scolastico. Tale esercizio aveva cominciato a essere praticato nelle scuole filo­ sofiche già alla fine della fase precedente; sappiamo, per esem­ pio, che Crasso aveva letto il Gorgia di Platone a Atene nel 110 a.C., sotto la guida del filosofo accademico Carmide.3Del resto, i commenti esegetici esistevano già da molto tempo; il più antico che conosciamo è il commento filosofico di un testo orfico, giunto fino a noi grazie al papiro di Derveni, e databile al 350 a.C.4 Sembra che Crantore avesse redatto un commen­ to al Timeo di Platone intorno al 300 a.C.;5 esistevano anche, per esempio, commenti a Eraclito scritti da Antistene, Eraclide Pontico, Cleante e Siero.6 Ma a partire dal i secolo a.C. l’at­ tività esegetica diventa preponderante, come rivelano le testi­ monianze sui metodi di insegnamento dell’epoca e i numerosi commenti a Platone e Aristotele che vengono allora compilati e che conosciamo, perché se ne è conservato il testo o per mez­ zo di citazioni riportate da autori più tardi. Sui metodi di insegnamento dell’epoca, possediamo in par­ ticolare testimonianze che risalgono al π secolo d.C., in E p ite ­ to e in Aulo Gelilo. Lo stoico Epitteto attesta l’esistenza di un vocabolario tecnico preciso, che si ritrova in altri autori e fa ri­ ferimento agli esercizi scolastici di spiegazione del testo; anagignoskein7significa commentare un testo durante il corso di filo­ sofia, che si tratti del maestro che spiega all’allievo o dell’allievo che commenta davanti al maestro; epanagignoskeirP si dice del maestro che supervisiona il commento fatto dall’allievo; sunanagignoskein9 significa ascoltare il commento di un maestro. Aulo Gelilo riferisce che il corso di filosofia tenuto dal platoni­ co Tauro consisteva nel commentare i dialoghi di Platone in un certo ordine.10 Similmente, nel ili secolo della nostra era, all’i­ nizio del terzo periodo della filosofia postsocratica - che non è

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meno esegetico del precedente - i corsi di Plotino consistevano essenzialmente nella spiegazione" dei testi di Platone e Aristote­ le, studiati con l’aiuto di testi di commentatori anteriori: Severo, Cronio, Numenio, Gaio, Attico per Platone, e Aspasio, Ales­ sandro, Adrasto per Aristotele. Questo elenco di commentatori del II e III secolo d.C. ci dà un’idea dell’abbondante fioritura di commenti che si sviluppa a quell’epoca. Tale carattere esegetico dell’insegnamento si spiega in gran parte, come abbiamo visto, con ragioni istituzionali - gli scritti dei fondatori sostituiscono l’istituzione scolastica che essi ave­ vano creato - ma segna anche una tappa nell’evoluzione dei rapporti tra oralità e scrittura. Nel periodo precedente, che va dal iv al i secolo a.C., l’insegnamento filosofico si colloca so­ prattutto nella dimensione dell’oralità: consiste nel dialogo tra maestro e discepolo, è finalizzato essenzialmente all’appren­ dimento della discussione e alla padronanza della parola. Si impara a parlare e, imparando a parlare, si apprende a vivere. Nella fase esegetica che stiamo esaminando ora, non si impara tanto a parlare quanto a leggere, anche se, imparando a leggere, si apprende ancora e sempre a vivere. E il segno di un crescente interesse per il testo scritto. Vero è che per tutta l’Antichità la filosofia resterà prima di tutto una pratica orale; tuttavia, ormai lo sforzo di riflessione non si concentra più sulle idee contenu­ te nel discorso parlato, ma su quelle contenute nei testi scritti. In ogni caso, il fatto che il metodo di insegnamento abbia carattere esegetico non significa, lo ripetiamo, che la filosofia postsocratica smetta di essere quello che era nel suo primo pe­ riodo: essa comporta sempre la formazione all’arte di vivere, esercizi spirituali, l’attenzione al progresso interiore.12 Tale formazione, a questo punto, viene assicurata in due modi. D a un lato, la discussione, la conversazione, il dialogo tra maestro e discepolo continuano a svolgere un ruolo impor­ tante nell’insegnamento filosofico. Aulo Gelilo,13per esempio, racconta che Tauro, dopo le lectiones di ogni giorno, ossia do­ po la spiegazione del testo (è questo il senso del termine lectio), aveva l’abitudine di permettere agli ascoltatori di interrogarlo su un soggetto di loro scelta. In un’occasione del genere, Gelilo

gli chiese se il saggio montasse in collera (e riporta la sostanza della risposta del maestro). Le Diatribe di Epitteto, che ci so­ no state trasmesse da Arriano, non sono altro che dialoghi e dibattiti di questo genere tra maestro e discepolo, condotti in forma piuttosto libera dopo la spiegazione del testo. In questi dialoghi di Tauro o di Epitteto è evidente l’attenzione del mae­ stro per la vita spirituale dei suoi discepoli. Parallelamente, la formazione al progresso spirituale di cui parliamo era assicurata soprattutto dallo studio e dalla medi­ tazione dei testi che venivano spiegati. Abbiamo già accennato al fatto che il corso di filosofia affrontava le opere dei maestri secondo un determinato ordine, che non era casuale, ma di fatto corrispondeva alle parti della filosofia, concepite all’epo­ ca, soprattutto dai platonici, come altrettante tappe del pro­ gresso spirituale: l’etica provvedeva alla purificazione prelimi­ nare dell’anima, la fisica rivelava che il mondo ha un’origine trascendente e invitava così l’aspirante filosofo a superare se stesso nella conoscenza dell’incorporeo, e infine la teologia o epoptica procurava la contemplazione di Dio.141 neoplatonici proposero un ampio programma di letture, allo scopo di far percorrere queste tre tappe.15 Ne troviamo, però, già un ab­ bozzo in Albino, il quale, nella sua Introduzione alla lettura dei dialoghi di Platone,16raccomanda di adottare il seguente ordi­ ne, corrispondente a una formazione morale piuttosto lunga, che alla fine conduce alla fisica e alla teologia: bisogna comin­ ciare con VAlcibiade, per convertirsi e imparare a conoscere se stessi; proseguire con il Fedone, per capire che cosa sia la vita filosofica, e la Repubblica, per scoprire la paideia che porta al possesso della virtù; e infine leggere il Timeo, che, mediante lo studio della natura, permette di contemplare le cose divine. Va detto che non è irrilevante che il Cristianesimo si sia svi­ luppato proprio nel momento in cui la filosofia greca aveva assunto questa forma esegetica. Prima di tutto, il fatto che la dottrina cristiana si fondasse sui testi, biblici ed evangelici, e che la teologia cristiana fosse necessariamente esegetica non la distingueva dalle altre filosofie: anch’esse consistevano nell’e­ segesi dei testi dei loro fondatori. L’insegnamento cristiano po­

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teva, quindi, presentarsi come un insegnamento filosofico, la scuola cristiana poteva avere tutte le apparenze di una scuola filosofica; il Cristianesimo poteva persino avere la pretesa di essere il completamento, la sintesi, la sistematizzazione di tut­ te le altre filosofie. In secondo luogo, il Cristianesimo era una disciplina di vi­ ta, un modo di essere che orientava la vita in ogni suo istante,17 proprio come le filosofie greche; poteva, quindi, definirsi e pre­ sentarsi, anche sotto questo aspetto, come una filosofia. Allo­ ra, però, l’esegesi non era più soltanto il modo della riflessione teologica, ma diventava anche un metodo di progresso spiri­ tuale. Nella vita spirituale cristiana - lo si vede chiaramente in Origene - la meditazione dei testi sacri svolge un ruolo prima­ rio; essa può anche assumere carattere mistico, giacché com­ prendere spiritualmente il testo significa unirsi al logos divino presente nel testo stesso.18 Clemente Alessandrino, Origene e più tardi Evagrio Pontico19adottano, del resto, la divisione pla­ tonica delle parti della filosofia, che concepisce l’etica, la fisica e l’epoptica o teologia come tappe del progresso spirituale; e, come per i filosofi, si stabilisce un programma di letture che accompagni il percorso costituito dalle tre tappe. Per Origene, per esempio, i Proverbi corrispondono all’etica, VEcclesiaste al­ la fisica, il Cantico dei Cantici all’epoptica.20 Pertanto, è perché la filosofia greca, nel i e nel π secolo d.C., era al tempo stesso esegesi e metodo di formazione spirituale - diciamo un metodo esegetico di formazione spirituale - che il Cristianesimo ha assunto le forme di una filosofia, il che ha evidentemente avuto conseguenze fondamentali per la sua ul­ teriore evoluzione. Il procedimento del pensiero filosofico a partire dal I secolo a.C. è, dunque, principalmente esegetico, il che significa che la teologia non consiste più, per esempio, nel riflettere sulle con­ dizioni di possibilità del movimento come fa Aristotele, bensì nell’interpretare ciò che Aristotele ha detto nel libro xn della Metafisica, o ciò che Platone ha detto nel Timeo. I problemi teologici diventano problemi interpretativi. Ci si chiede, per esempio, quale sia il rapporto esatto tra l’essere vivente, le for­

me e la mente in questa frase del Timeo·. “La mente osserva le forme che ci sono nell’essere vivente” .21 La riflessione non ri­ guarda più direttamente i problemi stessi, ma i problemi così come essi sono trattati da Aristotele o Platone. Prima di essere adottato dai filosofi, il metodo esegetico era stato impiegato dai grammatici, in particolare dai commenta­ tori di Omero, e dai retori.22 Quelle tradizioni precedenti ben consolidate furono di aiuto agli interpreti dei testi filosofici; quando si affrontano dei testi, è effettivamente molto utile par­ tire dal punto di vista del grammatico e stabilire l’esatto teno­ re del testo e della sua punteggiatura. G ià Aristotele osserva­ va che era difficile comprendere Eraclito perché non si sapeva dove mettere la punteggiatura.23Nei commenti a Aristotele e a Platone, troviamo spesso traccia di discussioni su quale fosse il vero tenore del testo. Porfirio, ascoltando Amelio spiegare Timeo 37 a 3-8, gli dimostra che le sue difficoltà a fare l’esegesi di quel passo derivano dal fatto che ha sotto gli occhi un testo errato, e che bisogna leggere “legei” con la epsilon (“l’anima dice”) e non con la età (“l’anima cessa” ).24 D el resto, la retorica aveva codificato le regole di esegesi dei testi, in relazione all’interpretazione del diritto. A propo­ sito della controversia riguardante il diritto, si distinguevano quattro questioni: bisogna attenersi al testo o alle intenzioni di chi lo ha scritto? Quale testo accettare in presenza di due testi contraddittori? E possibile, ragionando su due testi, trarne una conclusione che non è nel testo? Come risolvere le ambiguità di un testo?25 Questioni simili, evidentemente, si pongono an­ che nell’interpretazione dei testi filosofici. Appoggiandosi a queste tradizioni grammaticali e giuridi­ che, gli interpreti tentano di formulare regole ermeneutiche. Per esempio, per la lettura dei dialoghi di Platone:

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Prim a bisogna illustrare in profondità quale sia il significato di ciascuna afferm azione, con sid erata singolarm ente; in secon ­ d o luogo, bisogna dichiarare la ragione dell’afferm azione, se è fatta per un principio fondam entale, se tiene luogo di u n ’im ­ m agine o se serve a stabilire la dottrina o a confutare l ’inter-

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locutore. In terzo luogo b isogn a spiegare se l ’afferm azione è corretta op p u re no.26

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Sarà forse utile fare un esempio delle difficoltà che l’esegeta filosofo poteva incontrare e delle soluzioni che egli cercava di proporre. Prenderemo il nostro esempio dal neoplatonico Por­ firio. Platone aveva scritto nel Parmenide·. “Se l’Uno è, com’è possibile che non partecipi dell 'elisia}” .21 Una formula come questa creava una grave difficoltà di interpretazione a un neo­ platonico come Porfirio;28per lui le ipotesi del Parmenide cor­ rispondevano a ipostasi diverse, la prima al primo Uno, la se­ conda al secondo Uno. Quando Platone dice: “Se l’Uno è ... non può che riferirsi al secondo Uno: l’Uno-ente, per i neopla­ tonici. Ora, per il testo di Platone questo secondo Uno deve “partecipare dell'ousia"·, ma “partecipare” significa ricevere una forma da una forma superiore e trascendente. Se Socrate è giusto, egli partecipa della giustizia in sé, che lo trascende. Partecipare àz\Y ousia equivale, dunque, a essere partecipi di un'ousia in sé, che trascende il soggetto partecipante. Tuttavia, nella dottrina neoplatonica canonica, prima del secondo Uno non c’è che il primo Uno, e questo primo Uno assolutamente semplice non può essere un'ousia, dal momento che la prima ousia è appunto il secondo Uno. Come ha potuto Platone par­ lare di una ousia anteriore al secondo Uno? Si capisce come nascono le difficoltà dell’esegeta. Per Por­ firio, influenzato dalla tradizione esegetica specifica della sua scuola, le parole di Platone evocano le entità di un sistema ri­ gido, e la lettera del testo diventa difficilmente conciliabile con quella che secondo lui è l’intenzione di Platone. Nel caso in esame, la soluzione di Porfirio sta nel ritenere che Platone ab­ bia impiegato il termine ousia in modo improprio, al posto di un altro termine il cui senso è vicino a quello di ousia, ovvero einai. Se Platone ha parlato di un’ousia di cui è partecipe il se­ condo Uno, è perché ha voluto far capire che il secondo Uno riceve dal primo Uno la proprietà di essere “ente” e di essere ousia, giacché il primo Uno è lui stesso “essere” {einai), non nel senso di un soggetto che è, ma nel senso di un’attività di essere,

considerata pura e senza soggetto, che è il soggetto di se stes­ sa.29Si vede così comparire nella storia dell’ontoteologia una di­ stinzione degna di nota tra l’essere-infinito e l’essere-participio, tra l’essere come agire e l’ente come soggetto che partecipa di questo agire puro. È un controsenso, certo, ma un controsen­ so creativo, nato dalle difficoltà stesse del metodo esegetico. Questo genere di esegesi si ritrova nel commento di Por­ firio alle Categorie di Aristotele. Laddove Aristotele dice che gli omonimi hanno in comune solo il nome, ma che i discor­ si (logoi) che enunciano le ousiai corrispondenti ai nomi degli omonimi sono diversi, egli impiega il termine ousia in senso improprio. In effetti, per Porfirio, questi discorsi {logoi) che enunciano le ousiai possono essere di due tipi: definizioni pro­ priamente dette {horismoi) che enunciano davvero Vousia di una cosa, oppure descrizioni {hypographai) che enunciano solo delle proprietà e che sono le uniche possibili quando si vuole parlare dei generi supremi o degli individui, che non hanno, né gli uni né gli altri, differenza specifica.30 L’espressione “ di­ scorso che enuncia Γousia” si attaglia sia alle definizioni sia al­ le descrizioni, giacché nel caso delle definizioni si tratta effet­ tivamente di un discorso suN ousia propriamente detta, e nel caso delle descrizioni - dice Porfirio - “si tratta di un discorso che riguarda le proprietà dell’essenza e l’insieme degli attribu­ ti {hyparxis), insieme che è comune sia all'ousia propriamente detta sia alle altre realtà” .31Ritroviamo anche qui lo stesso pro­ cedimento del Commento a l Parmenide. La tradizione esegeti­ ca è arrivata ad ammettere che bisognava far posto alla descri­ zione, accanto alla definizione, nella spiegazione del concetto di omonimo; ma allora il termine ousia impiegato da Aristo­ tele non si addice alla descrizione, che è un discorso che non enuncia Pousia stessa, ma soltanto certi aspetti dell’oggetto da definire. La soluzione consiste, quindi, nel dire che, con ousia, Aristotele ha voluto alludere, al tempo stesso, all'ousia pro­ priamente detta, enunciata dalla definizione, e all’hyparxis, os­ sia agli attributi dell’ousia enunciati dalla descrizione. In altre parole, si cerca di dimostrare che Aristotele ha utilizzato ousia come sinonimo di hyparxis.

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Questo tipo di esegesi si ritroverà nei teologi cristiani all’epo­ ca della disputa ariana. Alcuni teologi si rifiutavano di utilizzare il termine ousia a proposito del Padre e del Figlio, e a maggior ragione il termine homoousios, perché dicevano che quei termi­ ni non erano usati nella Scrittura. Altri teologi, come per esem­ pio Mario Vittorino, si adoperarono per dimostrare che, se la parola ousia non si trova nella Scrittura, la parola hypostasis, pe­ rò, c’è, ed è impiegata in senso analogo alla parola ousia?2Quan­ to alla parola homoousios, se non è testualmente nella Scrittura, si può legittimamente dedurla da essa.33In questo ragionamen­ to riguardo a homoousios, si può individuare il principio della ratiocinatio legalis, di cui abbiamo appena parlato: ragionando su più testi, si può trarre una conclusione che non è nel testo. Cicerone lo formulava in questo modo: “Ex eo quod scriptum sit ad id quod non sit scriptum pervenire” ,34 e Vittorino lo riprende in questa forma: “De lectis non leda componere” ?’ Dal punto di vista giuridico, si tratta di ricavare dai testi della legge una con­ clusione su un termine che non si trova a tutte lettere nella legge. Quintiliano ce ne fornisce un esempio: “Chi ha ucciso il padre, venga cucito in un sacco; [l’accusato] ha ucciso la m adre” .36 Si può ritenere che la parola matricidium sia anch’essa compresa nella legge? L a parola parricidium può riferirsi all’omicidio della madre? Come si vede, si tratta sempre del problema della com­ prensione e dell’estensione di un concetto. Come si è visto, nel caso di Porfirio come in quello dei teolo­ gi à&Whomoousios, l’arte dell’esegeta consiste nel saper conci­ liare la lettera del testo con quella che l’interprete considera la verità, contenuta e celata nel testo. In altre parole, la caratteri­ stica di questa filosofia esegetica sta nel ritenere, da una parte, che la “verità” sia data dai testi del fondatore e dei maestri della scuola, e, dall’altra, che sia necessario far scoprire la verità in questi testi, anche se essa non appare chiaramente. La verità è fornita dai testi del maestro, si tratta soltanto di scoprirla e di esplicitarla:

luta; i nostri attuali ragionam enti, in questo senso, sarebbero interpretazioni che dim ostrano, sulla b ase della testim onianza degli scritti platonici, che tali dottrine sono antiche.37

I nostri ragionam enti non sono né recenti né novità, m a di vec­ chia data, se pure a quel tem po erano espressi in form a invo-

Il che significa che lo stesso Platone ha parlato di queste dot­ trine come di “discorso antico” (palaios logos)?8 Avremo occasione di ritornare sul tema della verità data o rivelata alle origini dell’umanità; per il momento, ci basterà notare che, per la filosofia esegetica, il filosofo non è mai un pensatore solitario, che inventa o costruisce il suo sistema e la sua verità in maniera autonoma. Il filosofo pensa nel solco di una tradizione; la verità si fonda sull’autorità di questa tradi­ zione, ed è data dai testi e dai fondatori di questa tradizione. A partire dal i secolo a.C., non ci sono che sei filosofie possi­ bili: quelle delle quattro grandi scuole, il platonismo (legato al pitagorismo), Γaristotelismo, lo stoicismo, l’epicureismo; e, in aggiunta, il cinismo (che ha avuto origine da Socrate e da Diogene) e lo scetticismo (fondato da Pirrone). A partire dal m secolo d.C., platonismo e aristotelismo si fonderanno e co­ stituiranno un sistema comune, incorporando alcuni elementi stoici, mentre le altre scuole, salvo il cinismo, scompariranno quasi completamente. Dunque, il filosofo pensa in una tradizione e affronta i te­ sti da spiegare dal punto di vista di quella tradizione. Più esat­ tamente, nell’ambito di ogni scuola si creano tradizioni inter­ pretative (lo abbiamo visto prima a proposito del Parmenide), ossia, in pratica, una sistematizzazione del vocabolario e della dottrina, e l’interprete ammette queste tradizioni, questa si­ stematizzazione, come postulati preliminari a ogni interpreta­ zione; tutto il suo lavoro consisterà nel dare al testo un senso compatibile con tali postulati. Alla fine il testo diventa un pre­ testo, che dà l’occasione di ritrovare nel testo la dottrina tradi­ zionale della scuola; e questa dottrina viene esposta in rapporto al testo. È lo stesso fenomeno che si può osservare nell’esegesi e nella teologia cristiane: i commentatori e i teologi ritrovano la dottrina tradizionale della Chiesa nel minimo dettaglio del testo sacro.

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Nei limiti della tradizione, l’esegeta può esprimere una certa originalità. All’epoca di Plotino, era generalmente riconosciuto che quel filosofo aveva un suo modo particolare di spiegare il testo di Platone,39 probabilmente, peraltro, perché egli sapeva conciliare l’arte dell’esegesi e l’espressione della propria espe­ rienza interiore. E sotto l’influenza di tali esegeti originali che la filosofia ese­ getica ha potuto evolversi. Essa non poteva che svilupparsi nel senso di una sistematizzazione sempre più spinta della dottri­ na tradizionale, giacché gli esegeti, con instancabile impegno, si sforzavano di ridurre quanto più possibile le contraddizioni e le incoerenze presenti nei testi dei fondatori.

le, gli stoici, per giustificare questa o quella affermazione, ac­ colgono nel loro insegnamento quelle che chiamano le antiche tradizioni, il discorso antico: con palaios logos si intendono, in sostanza, le rivelazioni originarie fatte agli uomini dagli dei. Per esempio, nel Timeo,n la legge generata da Atena ha rivelato agli ateniesi primitivi le scienze divine, la divinazione, la medicina. All’epoca della filosofia esegetica, si immaginerà che l’autorità dei testi dei fondatori delle scuole che vengono commentati si basi, in ultima analisi, su quella di personaggi ancora molto vi­ cini agli dei, di cui i filosofi posteriori non hanno fatto altro che esplicitare la rivelazione. Platone si fonda su Pitagora e Pitago­ ra su Orfeo. Nel π e nel ili secolo il palaios logos, l’antica tradi­ zione, diventa Yalethes logos, il Discorso vero, per riprendere il titolo dell’opera di Celso, l’avversario del Cristianesimo: una sorta di philosophia perennis che è stata rivelata ai primi uomi­ ni, e che i filosofi greci hanno preservato.43Testimoni di questa antica rivelazione non sono, però, soltanto i filosofi greci, ma anche i filosofi “barbari” . G ià Platone, nel Timeo, aveva rap­ presentato un sacerdote egizio che aveva insegnato a Solone le vere tradizioni dell’umanità.44 Quelle tradizioni anteriori alla Grecia i filosofi ellenistici le andarono a cercare sulle tracce di Alessandro. Clearco di Soli, discepolo di Aristotele, attraver­ sò tutta l’Asia, almeno fino al fiume Oxus, dove un’iscrizione attesta il suo passaggio, per incontrare i filosofi “barbari” , gli ebrei, i magi, i bramani, testimoni di tradizioni primitive.45 E per la filosofia esegetica del π e del in secolo, il palaios logos fa posto alla filosofia dei barbari:

T E O L O G IA , R IV E L A Z IO N E , IS P IR A Z IO N E

Abbiamo detto che il fatto che il Cristianesimo si fondasse sui testi e su un’esegesi testuale non aveva nulla di strano agli occhi di un filosofo greco; dobbiamo aggiungere che anche il suo presentarsi come una rivelazione non era certo cosa che p o ­ tesse ripugnare a un filosofo dell’epoca. D ’altronde, i concetti di rivelazione e ispirazione avevano sempre svolto un ruolo im­ portante nella tradizione filosofica greca. Anzitutto c’era una questione di principio ben espressa da Platone e Aristotele: la conoscenza degli dei - diciamo la teologia e la saggezza - è una cosa sovrumana, che appartiene unicamente agli dei40 e di cui solo gli dei hanno il segreto. Ora, per l’appunto, gli dei greci non sono mai stati quegli “dei silenziosi” di cui parla Hòlderlin;41per i greci, essi parlano in diversi modi. In primo luogo, nelle opere della Grecia antica, l’ispirazione poetica si presenta come una rivelazione divina: “Raccontate­ mi queste cose, o Muse, abitanti deU’Olim po”, scrive Esiodo afl’inizio della sua Teogonia, e se Parmenide sceglie la forma poetica per esporre la propria dottrina, è appunto con l’inten­ zione di presentare il suo messaggio come una rivelazione ri­ cevuta da una dea. In secondo luogo, i filosofi postsocratici, Platone, Aristote­

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E siste una dottrina di gran de antichità [scrive C elso] di cui i pop oli, le città e gli uom ini più saggi si sono sem pre o ccu p a­ ti [ ...] . [P er “popoli sa g g i” C elso intende] gli egizi, gli assiri, gli indiani, i persiani, gli odrisi, gli abitanti di Sam otracia e di Eieusi.46

Analogamente, Numenio scrive: D o p o aver citato e preso com e suggello le testimonianze di P la­ tone, bisognerà risalire p iù in alto e riallacciarle agli insegna­

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menti di Pitagora, poi appellarsi ai popoli famosi, evocandone i misteri, i dogmi, le fondazioni di culti, che sono in accordo con Platone, tutto ciò che hanno stabilito i bramani, gli ebrei, i magi, gli egizi.47

È vero che la maggior parte di questi oracoli rispondeva a do­ mande riguardanti la pratica religiosa, l’azione politica o la vita quotidiana, poste da individui o da città; ciò non toglie che un centro oracolare come Delfi abbia esercitato un’influenza mo­ rale di vasta portata durante quasi tutta l’Antichità. Clearco di Soli,55 di cui abbiamo parlato prima, aveva fatto incidere sulle rive dell’Oxus le “sagge parole degli uomini di un tempo, con­ sacrati nella santa Pytho”, ossia a Delfi: si trattava delle massime dei Sette Sapienti, che erano state effettivamente incise a Delfi e, quindi, condividevano il prestigio di quell’importante sede oracolare. Ma soprattutto, nel π e nel in secolo d.C., a Didima e a Claro compaiono responsi oracolari di carattere nettamen­ te teologico, che propongono definizioni di Dio o affermazioni sull’immortalità dell’anima, e che prescrivono non più sacrifi­ ci, bensì riti depurati, come la preghiera rivolta all’Oriente.56La filosofia penetra negli oracoli, ma anche gli oracoli penetrano nella filosofia. Porfirio potrà scrivere una Filosofia desunta dagli oracoli, spiegando i suoi intenti nel prologo nel seguente modo:

Del resto, anche i cristiani adottarono questo modo di ve­ dere e presentarono il loro messaggio come “antica dottrina di verità”48 {palatoti aletheias mathema). Clemente Alessandrino49 non mancherà di ricordare ai filosofi greci le parole del sacer­ dote egizio del Timeo: “Nelle vostre menti non avete alcuna opinione formatasi per lunga tradizione e nessuna conoscenza incanutita dal tem po” .50La rivelazione ebraico-cristiana potrà allora essere presentata come quell’antico insegnamento che i greci ignorano, come la “legge”51 proveniente da Dio. In com­ penso, i pagani attribuirono un’ispirazione divina ai primi uo­ mini che ricevettero le rivelazioni degli dei: Se credete [afferma Celso] che lo spirito venga da Dio per an­ nunciare gli insegnamenti divini, in questo caso bisogna che questo principio che annuncia gli insegnamenti divini sia quel­ lo spirito di cui erano ricolmi gli uomini antichi, grazie al quale hanno diffuso tante eccellenti dottrine.52 Una terza forma di rivelazione e d ’ispirazione si poteva in­ dividuare nell’attività oracolare, che si svolgeva per esempio a Delfi, Claro (Colofone), Didim a (Mileto). In questo caso si ri­ conosceva esplicitamente che l’essere umano che proferiva l’o­ racolo era in preda a un’ispirazione, se non addirittura a una possessione divina. Per Platone, la profezia, ma anche la poesia o l’amore, sono deliri provocati dagli dei.53 Plutarco, per par­ te sua, cerca di determinare il ruolo dell’agente e quello dello strumento in tale ispirazione: Non al dio appartengono infatti la voce, la pronuncia, lo stile e il metro, bensì alla donna. Egli si limita a suscitare in lei le vi­ sioni, e fa luce nell’anima sua riguardo al futuro: questo è l’invasamento profetico.54

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La presente raccolta conterrà l’esposizione di numerosi dog­ mi filosofici, dato che gli dei ne hanno attestato la verità nei loro oracoli; se questa raccolta ha un’utilità, essa sarà eviden­ te soprattutto a coloro che hanno dolorosamente cercato di partorire la verità e che hanno desiderato che un giorno una manifestazione divina (epiphaneia) mettesse fine alla loro in­ certezza, grazie all’insegnamento degno di fede di coloro che parlano [gli dei].57 Qui si avverte molto nettamente il bisogno di una rivelazio­ ne dettagliata, la necessità di una teologia fondata sulla parola degli dei. E forse a questa necessità, e al desiderio di opporre alla B ib­ bia dei cristiani una scrittura ispirata, che risponde la compi­ lazione, nel π o nel in secolo, dei cosiddetti Oracoli caldaici.™ Conosciamo questa raccolta dalle citazioni dei neoplatonici, da Porfirio a Psello (e Pletone), ma sono citazioni sparse e fram­ mentarie che difficilmente permettono di farsi un’idea dell’in­ sieme dell’opera.59

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In m odo analogo a certi oracoli di Didima o di Claro"1del π e del m secolo d.C., gli Oracoli caldaici hanno un contenuto teologico piuttosto elaborato e propongono una dottrina pla­ tonica fortemente caratterizzata. Un Dio trascendente, il Padre, contiene in sé una mente e una volontà, originariamente confu­ se con lui. Mente e volontà si attivano e conquistano in questo modo un’attività indipendente, durante il processo di creazio­ ne del mondo intelligibile. A sua volta, l’anima universale, ge­ nerata dal Padre, riversa i flutti della vita nel mondo sensibile. Anche la materia è generata dal padre.61Abbiamo qui l’abbozzo di un sistema platonico che non corrisponde esattamente né a quello di Numenio né a quello di Plotino, e che ha posto molti problemi interpretativi agli esegeti neoplatonici. Anche negli Oracoli si trovano descritte entità inferiori al dio trascendente, alla sua mente e alla sua volontà: i principi, le iynges, i connettivi, i teletarchi, i cosmogogi, gli implacabili, le sorgenti. Troviamo qui un procedimento intellettuale analogo a quello dello gnosticismo: la pretesa di descrivere le potenze che governano il mondo astrale e le regioni superiori del cosmo. Infine, analogamente agli altri oracoli dell’epoca,62gli Oraco­ li caldaici non fornivano soltanto una risposta oracolare teori­ ca, il cui contenuto, come abbiamo visto, corrispondeva a una teologia di tipo platonico, ma proponevano anche prescrizioni rituali o liturgiche - possiamo dire sacramentali - relative agli strumenti per entrare in contatto con gli dei. Quindi, in questi Oracoli si trovava una religione completa, con dogmi e sacra­ menti, un miscuglio di platonismo e teurgia - laddove la teur­ gia era una tecnica rivelata dagli stessi dei per permettere agli uomini di mettersi in contatto con loro.63 Questi testi, nonostante i numerosi e ottimi studi che sono stati loro dedicati,64restano ancora molto misteriosi per quanto riguarda l’intento, il contenuto, le origini. Presentandoli come oracoli, ossia come risposte fornite dagli dei, il loro autore ha chiaramente voluto attribuire un’autorità divina sia al sistema platonico che essi espongono, sia ai riti teurgici che prescrivo­ no. Sulla base delle indicazioni di Proclo e Psello, l’autore del­ la raccolta è generalmente identificato con Giuliano il Teurgo,

figlio di Giuliano il Caldeo; del resto, questi due Giuliani erano maghi e teurghi assai noti, che avevano esercitato la loro attività ai tempi di Marco Aurelio.65 Se gli Oracoli sono opera di Giuliano il Teurgo, si deve sup­ porre che questi fosse un filosofo platonico di un certo valore, giacché il sistema che essi espongono presenta, come abbiamo visto, una certa originalità. La cosa è assolutamente possibile. Tuttavia, non credo che i neoplatonici fossero consapevoli del fatto che gli Oracoli, nella loro descrizione del mondo intelli­ gibile, non erano altro, in definitiva, che un sistema platoni­ co presentato sotto forma oracolare, né che abbiano spiegato questa cosa immaginando che gli Oracoli fossero risposte date dall’anima di Platone al medium Giuliano il Teurgo, come pen­ sa H.-D. Saffrey.66 E vero peraltro che secondo Psello, che si basa probabilmente su Proclo, Giuliano il Caldeo aveva messo in contatto l’anima di suo figlio Giuliano il Teurgo con quella di Platone, in modo da poter chiedere a Platone tutto ciò che voleva tramite il figlio. Secondo H.-D. Saffrey,

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per mezzo del medium Giuliano il Teurgo, suo padre Giulia­ no il Caldeo poteva, quindi, interrogare lo stesso Platone, e re­ gistrare come oracoli le parole platoniche che uscivano dalla bocca di Giuliano figlio. [...] Abbiamo qui [aggiunge Saffrey] tutta la spiegazione del carattere platonico di alcuni di questi Oracoli caldaici [che sono quindi] rivelazioni sulla dottrina di Platone [...] una rivelazione platonica, una sorta di trasposi­ zione del Timeo in esametri di stile oracolare.67 In realtà, nulla nel testo di Psello-Proclo permette di affer­ mare che le risposte date dall’anima di Platone al medium G iu­ liano il Teurgo siano proprio gli Oracoli caldaici·, anzi, tutto fa supporre il contrario. Anzitutto, per Proclo, il quale ha proba­ bilmente raccontato questa storia del medium, gli Oracoli non sono affatto “rivelazioni sulla dottrina di Platone” . A dire il ve­ ro, egli considera gli Oracoli anteriori a Platone, dato che ripor­ tano le parole stesse degli dei: “Perché sia Platone, sia gli dei prima di lui chiamano l’anima talvolta libagione (libada), tal­ volta ‘una sorta di sorgente’ (pegen tina) da cui nasce la vita” .68

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Dunque, Proclo distingue chiaramente la rivelazione degli dei negli Oracoli e Platone; del resto, se Proclo, conoscendo le ca­ pacità medianiche di Giuliano il Teurgo, avesse pensato che gli Oracoli fossero “rivelazioni sulla dottrina di Platone” , non avrebbe omesso di farne menzione nelle sue opere. D ato che era stato lui a riferire questa storia del medium, si sarebbe fatto premura di aggiungere che, grazie a Giuliano il Caldeo, l’uma­ nità era in possesso di rivelazioni fatte dall’anima di Platone in persona. D ’altra parte, è impossibile che Giuliano il Teurgo o Giuliano il Caldeo abbiano potuto presentare i loro Oracoli co­ me una rivelazione platonica; se l’avessero fatto, i neoplatonici posteriori avrebbero proclamato che l’anima di Platone, o in generale gli dei stessi, avevano fatto conoscere la vera dottrina platonica. Peraltro, appare plausibile che l’autore della raccol­ ta, chiunque esso fosse, abbia voluto conferire autorità alla sua dottrina filosofica, senza dire che essa era platonica, facendo credere che gli era stata insegnata dagli dei: egli non avrebbe, quindi, avuto interesse a presentare esplicitamente il suo mes­ saggio come una rivelazione sulla dottrina di Platone. Infine, va detto che solo a prezzo di veri e propri tours de force esegetici i neoplatonici avrebbero potuto individuare negli Oracoli quel­ la che credevano essere l’autentica dottrina di Platone. Infatti la dottrina neoplatonica degli Oracoli corrisponde allo stato del platonismo preplotiniano, il platonismo del π secolo,69 e la grande difficoltà, per tutti i neoplatonici, sarà appunto conci­ liare questa dottrina degli Oracoli con il loro neoplatonismo, con quello che ritenevano essere il platonismo autentico. Ne risulteranno problemi esegetici estremamente ardui per loro.70 In ogni caso, chiunque ne sia l’autore, gli Oracoli caldaici svolsero un ruolo fondamentale nell’evoluzione del neoplato­ nismo. Mentre, nei periodi precedenti della filosofia postso­ cratica, lo scopo della filosofia era prima di tutto il progresso spirituale dell’anima, ottenuto per mezzo della meditazione e degli esercizi spirituali, i neoplatonici, influenzati dagli Oraco­ li caldaici, ritenevano che il progresso spirituale fosse possibile solo entrando in contatto con gli dei stessi, con l’aiuto dei ri­ ti teurgici. I filosofi neoplatonici vogliono essere teurgi, ossia

saper utilizzare segni e riti rivelati dagli dei a certi uomini, per permettere a costoro di unirsi agli dei e di vederli apparire. An­ che la purificazione dell’anima, il suo distacco “filosofico” dal corpo, che era l’esercizio spirituale per eccellenza del platoni­ smo, assume, nei neoplatonici, una forma rituale. Marino,71 il biografo di Proclo, racconta che il filosofo, per compiere tale purificazione, praticava notte e giorno espiazioni, abluzioni e tutti gli altri riti purificatori prescritti nei testi orfici e caldai­ ci. La filosofia, lo si capisce, resta pur sempre un modo di vita, un metodo di progresso spirituale; ma, diversamente dai suoi predecessori, il filosofo neoplatonico non si ritiene capace di raggiungere i vertici della vita spirituale con le sue sole forze.72 Per arrivarci, ha bisogno dell’aiuto degli dei, della visione degli dei, che otterrà grazie ai metodi prescritti dagli dei stessi negli Oracoli. La “filosofia teorica” non è in grado di procurare l’u­ nione con gli dei.73 Non può esserci vita spirituale senza vita sacramentale.74Questa concezione della vita spirituale, inciden­ talmente, è del tutto analoga a quella del Cristianesimo. Qui, dunque, troviamo un’idea di filosofia completamente nuova nella storia della filosofia greca: essa diventa una religione, in cui il discorso filosofico propriamente detto è ridotto al servi­ zio di una teologia rivelata e di una teurgia. Per i neoplatonici, gli Oracoli caldaici sono un dato rivelato: si tratta di risposte degli dei, non più a proposito di questio­ ni umane come negli oracoli tradizionali, ma sulle cose divine. Scritti “in modo divinamente ispirato” , “sotto il diretto impul­ so degli dei, essi rivelano la verità stessa in merito agli dei” ;75 sono una theoparadotos theologiaf una “teologia rivelata dagli dei” . In questa rivelazione, gli dei parlano in modo categorico,77 ovvero senza miti, simboli o immagini, esponendo con chiarez­ za le realtà del mondo divino o i riti da compiere. Per questo Proclo, nella sua classificazione dei modi di espo­ sizione, dei generi letterari, della teologia, colloca gli oracoli nella categoria dei generi letterari che si esprimono senza veli. Infatti, secondo Proclo, degli dei si può parlare in modo allu­ sivo {di’endeixeos) o apertamente (aparakalyptos):

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Coloro che trattano le cose divine impiegando un linguaggio allusivo parlano in modo simbolico e mitico o per im m a g in i (ieikones). Fra quelli che invece espongono il loro pensiero sen­ za veli, alcuni compongono il proprio discorso scientificamen­ te, altri seguendo l’ispirazione divina. Il modo di esposizione che mira a rivelare le cose divine per mezzo di simboli è quello orfico, che in generale si addice a chi scrive favole riguardanti gli dei. Il modo che utilizza le immagini è quello pitagorico, giac­ ché le scienze matematiche sono state inventate dai pitagori­ ci in vista della reminiscenza dei principi divini, ai quali essi si sforzavano di arrivare mediante tali scienze, usandole come immagini: per questo essi hanno consacrato agli dei i numeri e le figure geometriche. [...] Il modo che, sotto il diretto impulso degli dei, rivela la veri­ tà stessa in merito agli dei si manifesta con la massima evidenza tra coloro che sono al livello più alto tra gli iniziati ai misteri; costoro, infatti, non ritengono appropriato esporre gli ordini degli dei o le loro proprietà in modo velato, ma, spinti dagli stessi dei, ne rivelano esplicitamente la potenza e i numeri. Infine, il modo di esposizione scientifico è proprio della filo­ sofia di Platone; giacché Platone è l’unico, mi sembra, fra quelli che conosciamo, che abbia tentato metodicamente di stabilire distinzioni corrette e di disporre correttamente l’ordinata suc­ cessione delle varie classi divine e le loro differenze, le proprie­ tà comuni a tutti gli ordini e quelle caratteristiche di ciascuno.78

mitici, inclusi quelli omerici, e rappresenta le tradizioni arcai­ che di cui abbiamo precedentemente parlato, e che attestano la rivelazione originaria fatta dagli dei all’umanità. Questa ri­ velazione è avvenuta sotto forma di simboli, come, nei testi or­ fici, l’uovo primordiale81 o le teste di animali di Phanes:82 sim­ boli che, per essere capiti dal punto di vista teologico, esigono un’interpretazione allegorica,83 così come richiedono un’inter­ pretazione allegorica i miti di Omero e di Esiodo. Il secondo modo d ’esposizione è costituito dalle “imma­ gini” (eikones) pitagoriche. I numeri e le figure geometriche sono immagini, perché imitano i modelli intelligibili sul pia­ no della dianoia,84 Nel prologo del suo commento al primo li­ bro di Euclide, Proclo, spiegando l’utilità dei matematici per la teologia, precisa che “la filosofia dei pitagorici cela sotto ta­ li veli” ,85 ossia sotto il velo dei numeri e delle figure geometri­ che, l’iniziazione al mistero dei dogmi divini: “Così fa infatti tutto il Sacro Discorso, e Filolao nelle sue baccanti, e Pitagora nel metodo di insegnamento a proposito degli dei” .86G ià Por­ firio aveva scritto nella sua Vita di Pitagora-. “I pitagorici, non riuscendo a spiegare attraverso il discorso le forme immateriali e i principi primi, hanno ripiegato sulla rappresentazione per mezzo dei numeri” .87È su questa corrispondenza tra i numeri e gli dei che si fonda un’opera come i Theologoumena arithmeticae, attribuita a Giamblico, in cui si spiega il significato teo­ logico dei numeri. Anche il modo pitagorico di esposizione teologica è ispirato e rivelato dagli dei. Proclo riprende qui quello che Giamblico aveva detto di Pitagora nella sua Vita pitagorica-.

In effetti, questi quattro modi di esposizione sono al tempo stesso quattro fonti di teologia e quattro tipi di rivelazione che, per l’esperto esegeta, si riducono a una, poiché sono gli stes­ si dei che dicono la medesima cosa utilizzando questi quattro tipi di discorsi. Il primo modo è, dunque, quello degli scritti orfici e, più in generale, del discorso mitico sugli dei. Questo primo modo è ispirato e rivelato dagli dei. Vero è che i neoplatonici non sem­ brano attribuire mai ai testi orfici l’epiteto di theoparadotos79 che essi applicano agli Oracoli caldaici-, ciò nondimeno Proclo ritiene che Orfeo abbia ricevuto le rivelazioni dalla madre, la musa Calliope.80D ’altra parte, la theomythia che Proclo mette a confronto con gli scritti di Orfeo comprende tutti i discorsi

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Se poi si volesse comprendere da quale fonte i pitagorici aves­ sero attinto un così profondo sentimento religioso, allora biso­ gnerebbe dire che un modello perspicuo della teologia aritme­ tica pitagorica si trovava in Orfeo. Non c’è dubbio che Pitagora prese spunto da Orfeo nello scrivere il discorso Sugli dei, che proprio per questo denominò “sacro” [HierosLogos] [...]. Il testo suona così: “Questo è il discorso sugli dei di Pitagora, fi­ glio di Mnemarco, che io, Pitagora, appresi quando fui iniziato ai misteri nella tracia Libetro. Aglaofamo, sacerdote respon-

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LA FELICITÀ DEGLI ANTICHI

sabile delle iniziazioni, mi rivelò che Orfeo, figlio di Calliope, il quale era stato istruito dalla madre sul monte Pangeo, aveva detto che l’essenza eterna del numero è il principio provviden­ zialissimo dell’universo cielo, della terra e della natura inter­ media tra l’uno e l’altra, ed è anche la radice che consente ai mortali, agli dei e ai demoni di continuare a esistere” . Da ciò risulta che Pitagora derivò dagli Orfici la dottrina per cui l’es­ senza degli dei è definita dal numero.88

TEOLOGIA, ESEGESI, RIVELAZIONE, SCRITTURA NELLA FILOSOFIA GRECA

Abbiamo qui la storia di una delle correnti della rivelazio­ ne che è alla base della teologia. Prima di tutto, nell’orfismo, la rivelazione assume la forma di simboli mitici, che si rivolgono all’immaginazione, poi, nel pitagorismo, la forma di immagini matematiche, che si rivolgono alla ragione discorsiva, in fin e, nel platonismo, la forma di generi e concetti dialettici, che si rivolgono alla mente. Il quarto modo di esposizione teologica è quello degli Ora­ coli caldaici, ossia degli dei che parlano attraverso gli Oracoli,

senza servirsi di alcun velo per rivelare la verità su se stessi. Gli Oracoli si presentano, infatti, sotto forma di affermazioni, senza dimostrazioni e senza simboli mitici - affermazioni che si riferi­ scono al Padre, alla sua mente e alla sua volontà, all’anima, e poi alla gerarchia degli dei che governano il mondo: iynges, connet­ tivi, teletarchi, cosmogogi, implacabili, sorgenti. Nel caso de­ gli Oracoli, quindi, l’esegeta non potrà applicare né il metodo allegorico, né il metodo matematico, né quello dialettico, ma spiegherà le affermazioni divine confrontandole con i concetti corrispondenti nell’orfismo, nel platonismo o nel pitagorismo. In generale, il compito dei teologi neoplatonici consiste nel mostrare l’accordo (symphonia)93 tra la rivelazione orfica, che comprende gli insegnamenti di Pitagora e di Platone, e la rive­ lazione caldaica. Questo accordo è implicito, giacché nell’una e nell’altra sono gli dei che parlano, e gli dei non possono con­ traddirsi. Essi dicono la stessa cosa in forme diverse: simboli­ ca, matematica, dialettica, categorica. I neoplatonici intrapren­ deranno, quindi, una gigantesca opera di sistematizzazione di tutti i dati rivelati: mitologia, orfismo, pitagorismo, platonismo (già sistematizzato dall’aristotelismo), caldaismo. In tal modo, il metodo esegetico neoplatonico sarà in grado di individuare il platonismo in qualunque testo mitologico o caldaico o filo­ sofico (fosse anche presocratico), ma anche, all’inverso, con un inverosimile, quasi inconcepibile tour de force, di ritrovare, per esempio, le varie classi di dei degli Oracoli caldaici in ogni snodo dell’argomentazione dialettica del Parmenide di Platone. La tendenza sistematizzante, che era già all’opera nella filo­ sofia esegetica del periodo precedente, raggiunge qui il proprio vertice parossistico. Non soltanto le diverse nozioni disseminate nei vari dialoghi di Platone vengono collocate a forza in una ge­ rarchia sistematica, ma anche le idee orfiche e caldaiche trovano a loro volta posto, grazie a un sottile gioco di corrispondenze e di equivalenze, in questo sistema platonico,94in cui esse perdono il senso che potevano avere nel loro contesto d’origine. Una riflessione sui pericoli, sulle tentazioni, sui danni - o sui benefici - dell’esegesi uscirebbe dall’ambito di questo studio. Diciamo unicamente che pensando alle violenze fatte ai testi

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Echi di questa idea si ritrovano nei Theologoumena arithmeticae attribuiti a Giamblico: “I pitagorici, mettendosi al segui­ to di Orfeo, hanno chiamato l’esade Holomeleia [integrità dei membri] ” , oppure: “ Orfeo e Pitagora hanno chiamato l’ennea­ de Curetide”.89 Il terzo modo di esposizione teologica è la dialettica plato­ nica, che, come dice Proclo nel Commento al Parmenide, usa termini come uno, essere, tutto, parti, lo stesso, l’altro, il simile, il dissimile, “formule impiegate, in particolare, dalla dialettica, che le adotta per esprimere le cose divine” ,90 e utilizzate anche da Platone nel Parmenide. Questo modo, benché scientifico e filosofico, è anch’esso ispirato dagli dei. Anzitutto la filosofia platonica è entheosf divinamente ispirata. E, in secondo luo­ go, essa si colloca nel solco della tradizione orfica: Tutta la teologia dei greci è figlia della mistagogia di Orfeo: Pi­ tagora per primo aveva appreso da Aglaofamo i misteri degli dei, seguì Platone che ricevette dagli scritti pitagorici e orfici la scienza perfetta riguardante gli dei.92

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TEOLOGIA, ESEGESI, RIVELAZIONE, SCRITTURA NELLA FILOSOFIA GRECA

dall’esegesi neoplatonica, ma anche da certi esegeti cristiani o da certi seguaci dell’ermeneutica contemporanea, viene da pen­ sare alla triste sorte del libro scritto, così come la evoca Platone nel Fedro: una volta scritto, “se ne va in giro dappertutto” ,35 in balìa di tutte le interpretazioni possibili, incapace di difendersi, perché non può rispondere alle domande che gli vengono poste:

1. Aristotele, Metafisica, vi, i, 1026 a 18, tr. it. Laterza, Bari 1973, voi. 6, p. 176. 2. Su questo punto, vedi J.P. Lynch, Aristotle’s School, University of Ca­ lifornia Press, Berkeley 1972, pp. 135-207; J. Glucker, Antiochus and thè Late Academy, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1978 (Hypomnemata 56), pp. 330-379. 3. Cicerone, De oratore, I, 45-47. 4. Su questo testo, vedi W. Burkert, “La genèse des choses et des mots” , in Études Philosophiques, ott.-dic. 1970, pp. 443-455; P. Boyancé, “Remarques sur le papyrus de Dervéni” , in Revue des Études Grecques, 87, 1974, pp. 91-110; M.S. Funghi, “Una cosmogonia orfica nel papiro di Derveni”, in La Parola del Passato, 34,1979, pp. 17-30; G . Ricciardella Apicella, “Orfismo e interpretazione allegorica”, in bollettino dei Classici, 3a serie, 1,1980, pp. 116-130; “Der orphische Papyrus von Derveni”, in Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik, 47, 1982, pp. 1*-12*. 5. Vedi H.J. Kràmer, “Die Altere Akademie”, in H . Flashar (a cura di), Grundriss der Geschichte der Philosophie, Schwabe, Basel-Stuttgart 1983, voi. 3, p. 161. 6. Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, ix, 15. 7. Epitteto, Diatribe, 1, 10,8; i, 4 ,9 e 14; Marino, Vita di Proclo, 12, p. 157, 15 Boissonade. 8. Epitteto, Diatribe, 1, 10, 8; Manuale, 49. 9. Marino, Vita di Proclo, 10, p. 155,54 Boissonade. 10. Aulo Gelilo, Notti attiche, i, 9, 9-10. 11. Porfirio, Vita di Plotino, 14. 12. P. Hadot, Collège de Trance, Chaire d’Histoire de la pensée hellenistique et romaine. Εεςοη inauguralefatte le vendredi 18février 1983, pp. 28 sgg. 13. Aulo Gelilo, Notti attiche, 1,26. Vedi I. Hadot, Seneca und die griechischrdmische Tradition der Seelenleitung, de Gruyter, Berlin 1969, p. 57, n. 101. 14. Etica, fisica, epoptica; vedi P. Hadot, “Les divisions des parties de la

philosophie dans l’Antiquité”, in Museum Helveticum, 36, 1979, pp. 218231 {infra, pp. 125-158), dove si cita in particolare Origene, Commento al Cantico dei Cantici, prol., p. 75,6 Baehrens. I paralleli con Plutarco, Teone, Clemente Alessandrino sono così chiari ed evidenti da obbligarci a correg­ gere enoptiken in epoptiken nel testo di Origene. Ci si stupisce, quindi, di leggere nell’introduzione di H. Crouzel e M. Simonetti al Traité des principes, in Sources chrétiennes, 252, voi. 1, 1978, p. 21: “La prima serie di trat­ tati, di ordine più filosofico e speculativo, espone quella che in Origene corrisponde alla ‘fisica’ dei greci, ossia alla ‘fisica’ e alT'enoptica’, secondo lo schema della ‘filosofia divina’ del Commento al Cantico dei Cantici” . Si sarebbe dovuto scrivere: “La prima serie di trattati, di ordine più filosofico e speculativo, espone quella che in Origene corrisponde alP'epoptica’ e alla ‘fisica’ dei greci (giacché si tratta di Dio, delle nature raziocinanti e del mon­ do), ‘epoptica’ e ‘fisica’ che si ritrovano nello schema della ‘filosofia divina’ del Commento al Cantico dei Cantici'. 15. Vedi P. Hadot, “Les divisions des parties.. cit., p. 221. 16. Albino, Eisagoge, in C.F. Hermann (a cura di), Platonis opera, Teubner, Leipzig, voi. 6, pp. 149-150; R. Le Corre, “Le prologue d’Albinus”, in Revue Philosophique, 81,1956, p. 36. 17. Vedi P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Einaudi, To­ rino 2005. 18. Vedi Origene, Commento al Cantico dei Cantici, 1,7, p. 75 Rousseau. 19. Evagrio, Trattato pratico, 1; Clemente Alessandrino, Stromateis, i, 28, 176,1-3. 20. Origene, Commento al Cantico dei Cantici, prol., p. 75,6 sgg. Baehrens. 21. Platone, Timeo, 39 e, tr. it. Mondadori, Milano 1994, p. 45. 22. Sulla scienza esegetica nell’Antichità, vedi H. Schreckenberg, “Exegese i”, in Reallexikon fiir Antike und Christentum, Hiersemann, Stuttgart 1962, voi. 6, coll. 1174-1194. 23. Aristotele, Retorica, in, 5,1407 b 14. 24. Proclo, Commento al Timeo, il, p. 300,24 Diehl. 25. Quintiliano, Istituzioni oratorie, vii, 5,1-10,4. 26. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, m, 65, tr. it. Laterza, Bari 1962, p. 148. 27. Platone, Parmenide, 142 b, tr. it. Laterza, Bari 1971, voi. 3, p. 36. 28. Cito qui di seguito un commento anonimo al Parmenide che mi pa­ re debba essere attribuito a Porfirio; vedi P. Hadot, Porphyre et Victorinus, Études augustiniennes, Paris 1968, voi. 1, pp. 102-143 e voi. 2, pp. 61-113 [tr. it. Porfirio e Vittorino, Vita e Pensiero, Milano 1993]. 29. Porfirio, Commento al Parmenide, xn, 25-28, in P. Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., voi. 2, p. 104. 30. Porfirio, in Simplicio, Commento alle Categorie, p. 30,13-15 Kalbfleisch; da confrontare con Simplicio, Commento alle Categorie, p. 29,1620 Kalbfleisch. 31. Porfirio, in Simplicio, Commento alle Categorie, p. 30, 13-15 Kalb­ fleisch. Si noti il senso di hyparxis: i’hyparxis è il sostantivo che corrispon­ de a hyparchein nel senso logico di “appartenere a un soggetto”. Intendere

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Sia chi ritiene opportuno mettere per iscritto una tecnica, sia il de­ stinatario di questo scritto, che pensa che dalla scrittura si possa ricavare qualcosa di certo e stabile, sono entrambi assai ingenui.96

NOTE

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hyparxis come “esistenza” in questo caso non avrebbe alcun senso. La de­ scrizione non enuncia Inesistenza”, bensì le proprietà, gli attributi della cosa (ma riconosco che si potrebbe dare un’interpretazione più semplice, ossia hyparxis = essere in generale. Vedi Simplicio, Commentaire sur Les Categories, tr. commentata sotto la direzione di I. Hadot, fase. 3, commento e note di C. Luna, Brill, Leyde 1990, p. 20, n. 53). 32. Mario Vittorino, Contro Ario, II, 3-6, pp. 398-412 Henry-Hadot; vedi anche il commento nella collezione Sources chrétiennes, 69, p. 902. 33. Mario Vittorino, Contro Ario, il, 7-8. 34. Cicerone, De inventione, n, 50,152. 35. Mario Vittorino, Contro Ario, il, 7,12. Vedi P. Hadot, “De Lectis non lecta conponere... Raisonnement théologique et raisonnement juridique” , in Studia patristica, I (tu 63), Akademie Verlag, Berlin 1957, p p . 209-220 (= supra, p p . 13-25). 36. Quintiliano, Istituzioni oratorie, vii, 8, 6, tr. it. Mondadori, Milano 1999, p. 113. 37. Plotino, Enneadi, v, 1, 8,10, tr. it. Mondadori, Milano 2002, p. 1189. 38. Per esempio, in Platone, Fedone, 70 c. 39. Porfirio, Vita divietino, 14,15 e 20,71. 40. Platone, Simposio, 204 a; Aristotele, Metafisica, 1, 2, 983 a. 41. F. Hólderlin, Menons Klagen um Diotima. Vedi K. Schneider, Die schiveigeriden Getter, Olms, Hildesheim 1966, che ha dimostrato come questa idea del silenzio degli dei, immaginata da Winckelmann, non corrispondesse alla realtà greca. 42. Platone, Timeo, 24 a-c. E a questa legge che probabilmente allude Cle­ mente Alessandrino, Stromateis, 1, 29, 181,4, il quale ha citato Timeo, 22 b, all’inizio del capitolo. Per gli stoici, il linguaggio stesso è, in qualche modo, una rivelazione naturale, che si può interpretare per mezzo dell’etimologia (in particolare quella relativa ai nomi degli dei); vedi A. Le Boulluec, “L’allégorie chez les sto'iciens”, in Voétique, 23,1975, pp. 301-321. 43. Vedi C. Andresen, Logos und Nomos. Die Polemik des Kelsos wider das Christentum, de Gruyter, Berlin 1955, pp. 108-145. 44. Platone, Timeo, 22 b. 45. Vedi L. Robert, “De Delphes à l’Oxus. Inscriptions grecques nouvelles de la Bactriane”, in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions et belles lettres, 1968, pp. 450 sgg. 46. Celso, in Origene, Contro Celso, i, 14. 47. Numenio, fr. 1 des Places, in Numenius, Fragments, Les Belles Lettres, Paris 1973, p. 42. 48. Gregorio il Taumaturgo, Ringraziamento a Origene, 182, in cui D ’an­ tica dottrina di verità” sembra indicare la dottrina cristiana che incorpora il “logos barbaro ed ellenico”. 49. Clemente Alessandrino, Stromateis, i, 29, 80; vedi Timeo, 22 b. 50. Platone, Timeo, 22 b, tr. it. cit., p.13. 51. Vedi nota 42. 52. Celso, in Origene, Contro Celso, vii, 45; vedi C. Andresen, Logos und Nomos, cit., pp. 138-141.

53. Platone, Fedro, 244-245. 54. Plutarco, Gli oracoli della Pizia, 397 c., tr. it. Adelphi, Milano 1983, p. 171. 55. Vedi L. Robert, “De Delphes à l’O xus”, cit., pp. 438-442. 56. Vedi L. Robert, “Un Oracle gravé à Oinoanda”, in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions et belles lettres, 1971, pp. 602-619; “Trois oracles de la Théosophie et un prophéte d’Apollon” , in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions et belles lettres, 1968, p. 589. 57. Porfirio, in Eusebio di Cesarea, Preparazione evangelica, iv, 7, 2 (fr. 303 Smith, Teubner, Leipzig 1993). 58. VediH. Lewy, Chaldaean Oraclesand Theurgy, Études augustiniennes, Paris 1978 (nuova ed. a cura di M. Tardieu). 59. Frammenti raccolti da E. des Places, Oracles chaldaiques, Les Belles Lettres, Paris 1971 e da R. Majercik, The Chaldaean Oracles, Brill, Leyde 1989. 60. VediL. Robert, “Un Oracle gravé à Oinoanda”, cit.,p. 614, sulla men­ talità del personale dell’oracolo di Claro. 61. Patrogenes buie, Psello, Hypotyposis, 27 (des Places, Oracles chal­ daiques, p. 201); G. Lido, Sui mesi, il, 11, p. 32,3: si deve leggere patrogenen hulen, vedi G. Lido, Sui mesi, rv, 159, p. 175, 9. 62. Vedi L . Robert, “Un Oracle gravé à Oinoanda” , cit., pp. 614-619; “Trois oracles de la Théosophie et un prophéte d’Apollon”, cit., pp. 591,597. 63. J. Bidez, “La liturgie des mystères chez les néoplatoniciens”, in Bulletin de l’Académie royale de Belgique, 1919, pp. 415 sgg., aveva proposto un articolato programma di lavoro su questo tema. 64. Per quanto riguarda lo stato attuale della questione, vedi H.-D. Saffrey, “Les néoplatoniciens et les oracles chaldaiques” , in Revue des Études Augustiniennes, 27, 1981, pp. 209-225. Vedi anche il mio articolo, “Bilan et perspectives sur les Oracles chaldaiques”, in H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurgy, cit., pp. 703-720. 65. Vedi H.-D. Saffrey, “Les néoplatoniciens et les oracles chaldaiques”, cit., pp. 210 sgg. 66. Ibidem, pp. 218-219. 67. Ibidem. 68. Vedi Proclo, Commento al Timeo, III, p. 257, 3-5 Diehl. 69. Vedi P. Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., voi. 1, pp. 482-485 e pp. 95-98. 70. Ibidem, pp. 95-98. 71. Marino, Vita di Proclo, 18, p. 160, 32-36 Boissonade. 72. La ragione è probabilmente la caduta originaria dell’anima che, per i neoplatonici dopo Giamblico, fa perdere all’anima la sua unione originaria con il divino; vedi Proclo, Commento al Timeo, ili, pp. 333 sgg. Diehl. 73. Giamblico, Trattato sui misteri, n, 11, p. 96,15 des Places. 74. Sull’ex opere operato dei riti teurgici, vedi Giamblico, Trattato sui mi­ steri, il, 11, p. 97,4 des Places: “Senza che ci pensiamo, i segni (sunthemata) stessi, di per se stessi, svolgono l’opera che è loro propria, e l’ineffabile poten­ za degli dei, relativa a questi segni, riconosce di per se stessa le proprie copie, senza che debba essere destata dall’attività del nostro pensiero”.

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75. Proclo, Teologia platonica, i, 4, p. 20,13-14 Saffrey-Westerink. 76. Marino, Vita di Proclo, 26, p. 164,11 Boissonade; Proclo, Commento al Timeo, i, p. 318,22 e 408,12 Diehl. 77. Proclo, Teologia platonica, I, 2, p. 9, 24 Saffrey-Westerink, il cui pa­ rallelismo con i, 4, p. 20, 6-25, che citiamo nella nota successiva, permette di riconoscere in apophantikoteron il modo di parlare degli dei degli Oraco­ li caldaici. 78. Proclo, Teologia platonica, 1, 4, p. 20,6-25. 79. In una nota della sua opera fondamentale sugli Oracoli caldaici e sul Trattato sui misteri di Giamblico, F.W. Cremer (Die chaldaischen Orakel und Jamblich De mysteriis, Anton Hain, Meisenheim am Gian, 1969, p. 10, n. 22) scrive che Damaselo definisce gli scritti orfici “saggezza rivelata dagli dei”: Damaselo, Sui primi principi, II, p. 177, 21 Ruelle); ma in realtà l’espressio­ ne in questione si riferisce all’oracolo caldaico successivo alla riga 22 (8 des Places) e serve a contrapporre gli Oracoli caldaici al testo orfico. 80. Proclo, Commento al Timeo, III, p. 168,14 Diehl. 81. Ibidem, i, p. 427,25 Diehl. 82. Ibidem, I, p. 427,24 Diehl. 83. La prima spiegazione allegorica di un poema orfico risale al rv secolo a.C e si trova nel papiro di Derveni; vedi supra, nota 4. 84. Vedi Proclo, Commento a Euclide, p. 11,5 sgg. Friedlein. 85. Vedi ibidem, p. 22,11 Friedlein. 86. Vedi ibidem, p. 22,14-16 Friedlein. 87. Porfirio, Vita di Pitagora, 49, p. 59,19 sgg. des Places. 88. Giamblico, Vita pitagorica, 145-147, tr. it. Rizzoli, Milano 1991, pp. 297-301. Sui rapporti tra Pitagora e Orfeo, vedi W. Burkert, Weisheit und Wissenscha/t. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon, Hans Cari Verlag, Niirnberg 1962, pp. 103 sgg. [tr. ingl. Lore and Science in Anctent Pythagoreanism, Harvard University Press, Cambridge (ma )1972, pp. 125-132]; vedi anche F. Graf, Eleusis und die orphische DichtungAthens in vorhellenistischer Zeit, de Gruyter, Berlin 1974, pp. 92-94, e H.-D. Saffrey, L.G. Westerink, Proclus, Théologieplatonicienne, Les Belles Lettres, Paris, libro i, pp. 138-139. 89. [Giamblico], Theologoumena arithmeticae, pp. 48,7 e 78,7 de Falco. 90. Proclo, Commento al Parmenide, coll. 646,32-647,1 Cousin. 91. Proclo, Teologia platonica, 1, 2, p. 8,22 Saffrey-Westerink. 92. Ibidem, i, 2, p. 25,26 sgg. Saffrey-Westerink. 93. Vedi Suda (iv, p. 479,1-2 Adler), che attribuisce a Siriano, il maestro di Proclo, un trattato Sull’accordo di Orfeo, Pitagora, Platone con gli Oracoli. Vedi H.-D. Saffrey, L.G . Westerink, Proclus, Théologie platonicienne, cit., li­ bro I, p. 138 (p. 25, n. 2). 94. In H. Lewy, Chaldaean Oraclesand Theurgy, cit., pp. 481-485, si trova una tavola sinottica delle corrispondenze tra il sistema teologico platonico, quello orfico e quello caldaico, secondo Proclo. 95. Platone, Fedro, 275 e, tr. it. Rizzoli, Milano 2003, p. 303. 96. Ibidem, 275 c, tr. it. cit., p. 303.

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2 OSSERVAZIONI SUI CONCETTI DI PHYSIS E DI NATURA*

Buffon ha ben definito, a quanto pare, i due poli intorno ai quali si raggruppano i diversi significati e impieghi della parola “natura” (e della parolaphysis): “La parola ‘natura’ ha due ac­ cezioni diverse. L’una presuppone un senso attivo e generale: quando si parla di natura pura e semplice, se ne fa una sorta di essere ideale cui si è soliti riferire tutti gli effetti costanti, tutti i fenomeni, in quanto ne è la causa. L’altra accezione ha un sen­ so passivo e particolare, per cui si parla della natura dell’uomo, di quella degli animali [...] questa parola significa la quantità totale, la somma delle qualità di cui la natura, nel senso della prima accezione, ha dotato gli uomini e gli animali” .1 Si può dire, in effetti, che la parola “natura” (o physis) assu­ ma significati assai diversi a seconda che sia usata in modo as­ soluto o sia accompagnata da un genitivo. Il presente studio in­ tende limitarsi2ad alcune questioni legate all’uso assoluto della parola physis-, esso non ha la pretesa di determinare il momento preciso in cui sono apparsi l’uso di physis senza complemento e i significati connessi a tale uso, ma intende piuttosto, trattan­ do determinati punti, dare un modesto contributo alla storia dell’uso della parola physis in senso assoluto.

* Originariamente pubblicato in R. Brague, J.-F. Courtine (a cura di), Herméneutique et ontologie. Mélanges en hommage à Pierre Aubenque, Presses Universitaires de France, Paris 1990, pp. 1-15.

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LA FELICITÀ DEGLI ANTICHI

I TITOLI: PERI PHYSEOS

OSSERVAZIONI SUI CONCETTI DI PHYSIS E DI NATURA

Io non penso che in questo testo si possa mettere la maiu­ scola alla parola “natura” , come fanno certi traduttori: qui, in­ fatti, la parola “natura” non designa l’insieme dell’universo o una forza creatrice. In sostanza, l’autore ci dice che, a suo pa­ rere, la medicina è la sola fonte esatta di conoscenza della na­ tura, poiché ci fa conoscere con precisione le diverse costitu­

zioni (physeis) degli uomini, l’influenza che un certo alimento o un certo esercizio può avere su questa o quella costituzione. Una simile conoscenza non è, evidentemente, la conoscenza dell’insieme dell’universo o di una forza creatrice, bensì, del tutto semplicemente, la conoscenza del rapporto tra cause ed effetti, l’analisi della causalità. Se, dunque, l’autore del trattato La medicina antica afferma che Empedocle e altri hanno scritto peri physeos, ciò non vuol dire che abbiano scritto a proposito dell’universo o della natura universale; significa piuttosto che hanno scritto a proposito della costituzione in generale, inten­ dendo “costituzione” in senso attivo e insieme passivo, come il processo attraverso il quale le cose nascono, crescono e muoio­ no, e il risultato di tale processo. Con questa parola “costitu­ zione” si intende non tanto un oggetto, un ambito del reale, quanto un programma metodologico. Studiare la “costituzio­ ne” significa studiare la genesi delle cose, cercare di esaminare con esattezza le cause che spiegano la genesi di questo o quel fenomeno, i processi precisi che portano alla costituzione di questo o quell’organismo; significa porre la questione dell’e­ satta origine di questo o quel fenomeno.5 Aristotele riprende­ rà tale metodo, modificando peraltro il concetto di physis, che rifiuterà di ridurre a causalità materiale. Lo descrive con chia­ rezza all’inizio della Politica (1252 a 24): “In quest’ambito così come negli altri, il miglior metodo dovrebbe essere vedere le cose nascere e crescere (ta pragmataphyomena blepein)". Nel Pedone (96 a), Vhistoria peri physeos è definita nello stes­ so modo che nel trattato La medicina antica'. “Sapere quali sono le cause di ciascuna cosa, ossia sapere per quale ragione ciascu­ na cosa si generi, per quale ragione perisca, per quale ragione esista”. Ma tale descrizione non presuppone in alcun modo i titoli delle opere dei presocratici e in particolare di Anassago­ ra, evocato da Socrate più avanti nel testo; significa soltanto che alla fine del V secolo e all’inizio del i v le speculazioni dei presocratici venivano definite come una “ricerca sulla physis” . Tutto fa pensare che la parola physis non sia divenuta un con­ cetto filosofico, meditato, esplicito, riconosciuto come oggetto di una parte ben determinata della filosofia, a maggior ragione

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Solitamente si ritiene che un poema di Empedocle e, più in generale, la maggior parte delle opere dei presocratici si inti­ tolino Peri physeos-, ma tale opinione può fondarsi solo su te­ stimonianze della fine del V secolo, le quali, prese in se stesse, altro non offrono se non un’indicazione sull’orientamento ge­ nerale delle speculazioni dei presocratici, senza attestare l’esi­ stenza di un titolo preciso. Per esempio, il trattato La medicina antica3 (probabilmente della fine del v secolo a.C.) prende di mira i medici che si la­ sciano influenzare dagli autori che hanno scritto peri physeos: Alcuni medici e filosofi affermano poi che non sarebbe possi­ bile che conosca la medicina chi non sa che cosa è l’uomo [...] il loro argomentare tende al filosofico, come quello di Empe­ docle e degli altri che trattarono della natura e che scrissero che cos’era inizialmente l’uomo e come si è formato origina­ riamente e di quali elementi è composto. Secondo me, in pri­ mo luogo, tutto quello che è stato detto o scritto da filosofi o da medici sulla natura riguarda meno l’arte medica che quella della pittura (graphike).4 Credo anche che una chiara nozione della natura da nessun’altra fonte possa derivare che dalla me­ dicina, e che possa apprenderla chi ha rettamente abbracciato la medicina stessa nel suo insieme, ma fino a questo momento mi pare che si sia molto lontani da ciò, intendo dire dal sapere esattamente che cos’è l’uomo e per quali cause nasce e tutto il resto. E perciò mi sembra necessario che un medico [...] sap­ pia e faccia ogni sforzo per sapere sulla natura questo almeno, ossia che cos’è l’uomo in rapporto a quel che mangia e a quel che beve e a tutte le altre sue occupazioni, e quali conseguenze ciascuna cosa potrà produrre su ciascun individuo.

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come quel principio esplicativo cui Platone allude nel x libro delle Leggi, se non alla fine del V secolo. Soprattutto - come ha ben mostrato E. Schmalzriedt,6 di cui riassumo ora le analisi - , prima del v secolo le opere filoso­ fiche non avevano quello che noi chiamiamo un titolo. Il titolo Periphyseos, riferito alle opere dei presocratici, altro, dunque, non può essere se non una denominazione tarda. Potrebbe corrispondere a una classificazione aH’interno di una biblio­ teca: per identificare i volumi, si appendeva un epigramma al rotolo di papiro. Generalmente, del resto, in tutta l’Antichità chi scrive un’o­ pera non pensa neppure di darle un titolo (contrariamente alla nostra epoca, nella quale, per ragioni commerciali, il titolo di un libro è spesso più importante del suo contenuto). N el π se­ colo d.C., Galeno7 racconta che egli affidava i propri scritti ad amici o allievi senza mettervi un titolo, poiché non li destinava alla pubblicazione, cosicché a sua insaputa se ne fecero copie, con i titoli più diversi. Nel in secolo d.C., Porfirio riferisce che gli scritti di Plotino “erano riservati a pochi [...] egli stesso non aveva dato [loro] alcun titolo, e quindi ognuno li chiamava in modo diverso” .8 In tutti i casi, l’uso di intitolare un’opera, anche se pubbli­ cata, compare relativamente tardi: a partire dal v secolo a.C., a quanto sembra. Erodoto, per esempio, parla deìì’Iliade, dell’Odissea, degli Arimaspea di Aristea di Proconneso, ma per quan­ to riguarda Saffo e Alceo, li cita solo servendosi dell’espressio­ ne generica “in un canto” ; lo stesso fa per Archiloco (“in un trimetro giam bico” ), per Solone (“in un poema epico” ), per Ecateo (“nei suoi discorsi”, logois). Il prim o titolo che conosciamo di un’opera in prosa p o ­ trebbe essere 1’Aletheia di Protagora, databile alla metà del v secolo. Prima del V secolo, l’autore rivendicava la proprietà della sua opera nelle prime righe del testo, indicando il proprio no­ me e la propria origine e aggiungendo il nome del destinatario, nonché una breve descrizione del metodo o del tema trattato. Per esempio: “Alcmeone di Crotone questo disse, lui, il figlio

di Piritoo, a Brotino, a Leone e a Battilo: sulle cose invisibili e sulle cose mortali solo gli dei hanno la certezza; ma a noi che siamo uomini è dato solo congetturare” .9 Questa descrizione è la sphragis, analoga alla firma dell arti­ sta su un vaso o un dipinto, come dimostra l’inizio del poema di Teognide (vi secolo a.C.): “O Cim o, a questi versi in cui ti parlo di saggezza sia posto un sigillo, in modo che nessuno li possa rubare impunemente né possa guastare quel che hanno di buono. Così ognuno dirà: questi sono versi di Teognide di Megara. Fra tutti gli uomini è illustre il suo nome. [...] E per il tuo bene che formulerò questi precetti, così come, ancora bambino, li appresi io stesso da persone buone” . Questa pratica della sphragis è abbozzata già nel vii secolo nel prologo di Esiodo, che indica il nome dell’autore, la regio­ ne nella quale lo si può collocare e l’origine dell’ispirazione del poema: “Le Muse insegnarono un giorno a Esiodo un bel canto, mentre pasceva gli armenti ai piedi del divino Elicona . Nel v secolo, peraltro, si fa ancora uso della sphragis, aggiun­ gendo eventualmente il genere letterario cui 1 opera appartie­ ne e l’ambito in cui esso si applica, come leggiamo nell 'incipit di Erodoto: “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turi perché le imprese degli uomini, col tempo, non cadano nell’oblio [...] e inoltre per mostrare per qual motivo [greci e barbari] vennero a guerra tra loro” . Occorre ancora aggiungere che, agli inizi della letteratura fi­ losofica, i libri erano relativamente poco numerosi. Un autore, per lo più, scriveva un libro solo, destinato anzitutto a essere letto e discusso in pubblico. Un titolo non era, dunque, neces­ sario: era comunque il libro di quel dato autore. Per esempio, nel Fedone (97 b), Socrate non sente il biso­ gno di indicare con un titolo il libro di Anassagora di cui sta parlando. Dice soltanto: “Un giorno, udii un tale leggere un libro che affermava essere di A n assagora...” . E ugualmente, nell’Apologià (26 d-c), quando precisa che i giovani possono acquistare i libri di Anassagora nell’orchestra per una dracma al massimo, non menziona titoli, benché stia appunto parlan­ do di libri in commercio.

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È, dunque, solo in un’epoca più tarda che furono attribuiti dei titoli ai libri, per poterli classificare nelle biblioteche o nel­ le librerie; in particolare, ai libri dei presocratici fu dato quello di Periphyseos. L’esempio del libro di Eraclito, che alcuni inti­ tolavano Le Muse e altri Della natura,10mostra che uno stesso libro poteva avere titoli diversi.

Nel Fedone ( 103 b ), nel Parmenide ( 132 c), nella Repubblica (597 c), Platone usa l ’espressione en physei o en teiphysei per designare - si direbbe - la realtà ideale di una cosa. Se ne de­ ve concludere che Platone, il quale nel x libro delle Leggi re­ spinge l’accezione materialistica della parola physis, ammetta che “il mondo delle essenze intelligibili” - per usare le paro­ le di L. Robin11- sia “la vera N atura” ? Platone ha qui voluto dire che la realtà ideale di una cosa si colloca en physei, nella Natura, ossia nella vera Natura? Se esaminiamo i tre testi in questione, potremo constatare che il senso dell’espressione en physei è un altro. Nel Fedone (103 b), Socrate dichiara: “Noi diciamo che il contrario non può mai diventare il contrario di se stesso, né in noi né en tei physei”. Per esempio, il grande in quanto grande non può essere piccolo, il piccolo in quanto piccolo non può essere grande. E il soggetto (il soggetto concreto indicato dal soggetto della frase) a diventare grande o piccolo. Questa con­ trapposizione, stabilita da Socrate tra ciò che è in noi e ciò che è en tei physei, si chiarisce sulla base del ragionamento preceden­ te (102 a e sgg.). La grandezza in noi è la grandezza attribuita a questo o quel soggetto. Se dico: “Simmia è grande”, non posso al tempo stesso dire che è piccolo. Simmia può diventare pic­ colo, ma l’attributo “ grande” che era applicato a Simmia non può diventare “piccolo” . A questi attributi che sono “in noi” Socrate oppone la “grandezza” e la “piccolezza” non attribuite, prese nel loro concetto, indipendentemente dal rapporto con un soggetto. E, dunque, ancor più evidente che la “grandezza”

non può, “in quanto grandezza” , diventare “piccolezza” . Come il prosieguo del testo dimostra, Platone qui pensa soltanto al concetto di “grandezza in sé” , senza collocarlo esplicitamente in un mondo delle idee che sarebbe la Natura: “Ora parliamo dei contrari presi in se stessi, i quali, con la loro presenza, dan­ no il proprio nome alle realtà così designate; e sono proprio questi contrari stessi, auta ekeina, che noi affermiamo che non potranno mai nascere gli uni dagli altri” . Nella Repubblica (596 b-598 e), Platone distingue tre letti: il letto en tei physei, il letto fabbricato dal falegname, il letto dise­ gnato dal pittore. Ci si è spesso stupiti che Platone offra qui un oggetto fabbricato quale esempio di un’idea, dal momento che egli sembra ammettere unicamente idee di cose naturali, e non di cose artificiali. E si rimane un po’ perplessi quando si legge klinein en tei physei tradotto con “letto che è nella natura”.12 Sembrerebbe - come ritiene W. Wieland13- che questo pas­ so vada inteso come un’autoironia di Platone riguardo alla sua teoria delle idee. Il Dio apparirebbe qui, piuttosto, come una sorta di simbolo di ciò che l’uomo non è e non può fare. Il fale­ gname può fabbricare il letto, ma non può fabbricare l’essenza del letto, della quale ha bisogno per fabbricare il letto. Più avan­ ti (601 c), Platone dirà, facendo stavolta l’esempio della briglia e del morso, che il sellaio e il fabbro non fanno che eseguire il modello ordinato loro dal cavaliere. Il Dio è, quindi, del tutto sparito; in questo caso il modello è nello spirito del cavaliere. In ogni modo, nulla costringe a immaginare questo letto en physei come quello che si troverebbe nella vera Natura (d’altronde, per Platone il Dio non fabbrica le idee). Si tratta solamente del letto “in sé” , del letto com’è nello spirito del falegname, così come la briglia e il morso sono nello spirito del cavaliere. Ritroviamo lo stesso tipo di espressione, questa volta a pro­ posito della teoria stessa delle idee, nel Parmenide ( 132 d) : “Pa­ re, a me almeno, che sia così: queste forme sono immobili en tei physei come modelli, e le altre cose assomigliano a esse e ne sono le copie” . In quest’ultimo caso, come negli altri due testi, bisogna sicuramente tradurre en tei physei con “in sé” : “queste forme sono immobili in sé” .

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EN PHYSEI PRESSO PLATONE

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Tale significato di en physei va spiegato in relazione all’u ­ so perifrastico di physis (l’espressione “la natura di una certa cosa” equivale a “la cosa stessa”), uso che si può intravedere nello stesso Platone,14 oppure in Isocrate,15 o anche in Aristo­ tele,16 o alla tendenza, incipiente già in Platone, a identifica­ re physis e ousia. A questo si deve aggiungere che, nel x libro delle Leggi, la nozione di physis è strettamente legata a quel­ la di origine, di primato. In effetti, Platone dice (891 c) che i suoi avversari considerano il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria come le prime fra tutte le cose e le chiamano physis (in quan­ to, è sottinteso, sono prime). L a physis è definita come genesin ten peri ta prota (892 c), espressione parallela a geneseos hos en protois esti (892 a). Con quest’ultima espressione, Pla­ tone intende dire che l’anima, per la sua stessa nascita, si col­ loca tra le cose prime. La definizione di 892 c va, dunque, in­ terpretata in questo senso: la physis è “la nascita {genesis) che colloca tra le cose prim e” . Quando (892 c) Platone dice che l’anima esiste physei, intende, dunque, dire che l’anima esiste “originariamente” , “primordialmente” , giacché è nata prima del fuoco, dell’acqua, della terra e dell’aria. Il senso di physei nel x libro delle Leggi è, dunque, diverso da quello di physei nei tre testi di cui sopra. In conclusione, sembrerebbe, quindi, che Platone non ab­ bia immaginato le idee come se costituissero una vera Natura, contrapposta alla “falsa” Natura sensibile.

Eraclito esposto nel frammento 1, che consiste appunto nel “distinguere secondo la natura” (diairein kata physin). Tuttavia, si è anche tentati di riconoscere in questo afori­ sma una formula antitetica, che esprime precisamente la costi­ tuzione antitetica delle cose. Eraclito predilige questo genere di formule; per esempio: “Il mare, salutare ai pesci, nocivo agli uomini” , “Le cose fredde bruciano” , “Il nome dell’arco (bios) è vita, ma la sua opera è m orte” . Si può effettivamente rilevare un’antitesi di questo genere tra physis e kryptesthai. La parola physis, soprattutto all’epoca di Eraclito, può ugualmente significare “ crescita” , “nascita” , “com parsa” , “processo di costituzione” . Ma kryptesthai può avere il significato opposto. L a parola appartiene al vocabola­ rio della morte:17evoca sia la terra che nasconde il cadavere sia il velo che copre la testa dei morti. Questi due significati com­ paiono, per esempio, nell’Ippolito di Euripide (w. 245-250). Fedra, inorridita dalla propria passione per Ippolito, chiede alla nutrice di coprirle il capo con un velo. La donna lo fa, ma aggiunge: “Ti velo. Ma il mio corpo, la morte lo ricoprirà (,kalypsei) quando lo nasconderà?” . La morte è, dunque, un velo, tenebra, una grossa nube. Se si cerca un’opposizione antitetica tra physis e kryptes­ thai, sarà, dunque, tra la nascita e la morte, l’apparizione e la scomparsa.

Sono state proposte le più svariate traduzioni del frammen­ to 123 Diels di Eraclito, a seconda che si intenda physis come l’essenza, l’essere, la natura, la costituzione reale di una cosa oppure, al contrario, il processo di costituzione della realtà. Si potrebbe pensare che Eraclito abbia voluto dire che la costituzione antitetica inerente a ciascuna cosa si rifiuti abi­ tualmente (philei) di apparire. Il frammento 123 alluderebbe, dunque, alla difficoltà di mettere in pratica il metodo stesso di

1. Se si intende physis come il risultato del processo di appari­ zione e di nascita di una cosa, si potrà tradurre: “La forma che è nata tende a scomparire” . L’aforisma lascerebbe così intravedere la perpetua metamorfosi delle cose, il fatto che il processo della vita è, indissolubilmente, processo di pro­ duzione e di distruzione, il fatto che la morte è una necessità inscritta all’interno di ogni cosa. 2. Se si intende physis come un nomen agentis, ossia come il processo che produce una determinata cosa, si potrà allo­ ra tradurre: “Il processo che fa apparire tende anche a fare scomparire” (prendendo kryptesthai come voce media): in questo caso, significa che è il medesimo principio a produr­

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PHYSIS KRYPTESTHAIPHILEI

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re la vita e la morte. L’aforisma di Eraclito sarà allora assai vicino ai versi deìl’Aiace di Sofocle (646 sgg.), contenuti in quello che talora viene chiamato discorso ingannatore e che comincia così: “Il tempo, impossibile a misurarsi, fa appari­ re (phyei) le cose che non erano ancora apparse {adda) e fa scomparire (kryptetai) quelle già apparse. Non c’è, dunque, nulla di impossibile” . In Eraclito e in Sofocle si trova, dun­ que, un uso analogo dell’antitesi phyei-kryptetai\ ma men­ tre in Sofocle questa duplice azione è rapportata al tempo, Eraclito non trasferisce al tempo il potere di velare e svela­ re: per lui, è allo svelamento stesso, alla physis, che compete l’atto di velare.

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Questi aforismi sono tutti costruiti allo stesso modo: si tratta di frasi il cui soggetto è la parola “natura” , e in cui il verbo e il complemento descrivono un comportamento di questa natura la quale, peraltro, può essere la natura individuale di una cosa, astrattamente intesa, oppure, più avanti nel tempo, presso gli stoici e dopo di loro, la natura universale. In questo tipo di frasi la natura non è necessariamente la na­ tura personificata. Così è, per esempio, in un trattato del Cor­ pus hippocraticum, quello Sull’arte (xn, 3), scritto verso la fine del V secolo a.C.: “Quando la natura si rifiuta di mostrare spon­ taneamente i segni che rivelano le malattie, l’arte ha trovato i

mezzi per costringere la natura a lasciarseli sfuggire, forzandola senza farle danno; poi, liberata, essa svela ciò che occorre fare a coloro che conoscono le cose dell’arte” . L a physis qui evocata non designa la natura ipostatizzata, la natura universale, ma rappresenta la costituzione di un de­ terminato corpo umano, il funzionamento di un organismo, astrattamente inteso. Questo testo formula per la prima volta la teoria della sperimentazione che fa violenza alla natura per strapparle i suoi segreti, i quali, nel caso in questione, altro non sono che le malattie nascoste in quelle parti del corpo che non si possono osservare. In questo trattato, la natura “ si rifiuta di rivelare” un se­ greto; in altri testi, essa “condanna a m orte” .19 A proposito di quest’ultima immagine, nulla permette di affermare che la physis che condanna a morte sia una physis universale. Questa formula significa semplicemente che la nostra nascita, la nostra condizione di esseri umani ci condanna a morte. Si intravede qui, però, già l’inizio di quel processo che con­ durrà dalla physis soggetto grammaticale alla physis personifi­ cata. Le formule che Kant chiamerà “massime del giudizio sulla natura” e che sono state enunciate, nella maggior parte dei casi, da Aristotele segnano una nuova tappa in questo processo di personificazione mitica. L a più famosa di queste massime è quella del trattato D el deio (271 a 32): “Il Dio e la natura non fanno nulla invano” . Qui, parlando del Dio, Aristotele sembra alludere al Demiur­ go del Timeo, e il parallelismo tra il Dio e la natura conferisce un carattere personale e mitico alla natura stessa, sebbene sia difficile immaginare in che modo, nel pensiero di Aristotele, la natura possa sussistere come un essere indipendente dalle nature individuali. Generalmente, le massime aristoteliche sulla natura induco­ no a far intendere che i processi di sviluppo messi in opera dal­ le nature individuali seguano un metodo simile a quello di un abile artigiano: ma, come dirà Plotino,20 è solo a posteriori, ossia una volta compiuta l’opera delle nature, che la nostra intelli­ genza raziocinante potrà dire che tutto avviene come se la na­

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La storia delle interpretazioni che sono state date a questo frammento di Eraclito è estremamente ricca, e ci riserviamo di raccontarla in seguito in modo piuttosto dettagliato. Per ora, notiamo soltanto che gli stoici sembrano essere stati i primi a interpretare questo testo come una “massima”, per riprendere l’espressione di Kant,18ovvero come una sentenza che descrive il comportamento della Natura. Questa formula è così diven­ tata il primo esempio di un tipo di aforisma che avrà grandis­ sima fortuna nella storia della filosofia giungendo fino a oggi.

LE “MASSIME DELLA NATURA”

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tura avesse ragionato, mentre, per l’appunto, non l’ha fatto. La formula fondamentale21 è quella della finalità: la natura cerca sempre un fine. Con ciò, Aristotele non intende dire che l’essere naturale cerchi un fine esterno a sé, bensì che cerca la realizza­ zione di sé, il compimento di una certa forma. Poiché la natura non fa nulla invano, ogni movimento del processo naturale ha la sua importanza nel compimento di questo stesso processo. L a natura appare come un buon amministratore, che sa evita­ re al tempo stesso il troppo e il troppo poco. Così, la natura fa in modo che un solo organo serva a svariati scopi; essa offre un organo soltanto agli esseri che sono capaci di servirsene, com­ pensa un eccesso con una mancanza o viceversa, poiché non |3uò distribuire l’eccedenza in più punti contemporaneamente. E il principio di compensazione o equilibrio: “ [Agli animali] che sono sprovvisti di corna la natura ha fornito altri mezzi di difesa, come ad esempio la velocità del corpo, di cui ha dotato i cavalli”.22 E interessante constatare che questa idea sarà ripresa da Plotino: “ All’esaurirsi delle risorse della vita, ecco comparire gli esseri dotati di artigli, di unghie, di zanne e di corna” ,23 Ma in Plotino quell’equilibrio, quella compensazione si colloca già nello spirito, ossia in quel mondo delle forme che contiene i ti­ pi di animali. La ragione di questa compensazione sta nel fatto che ciascuna forma riflette nella propria struttura la struttura dello spirito, che è la totalità delle forme. Quanto più le forme si moltiplicano e si suddividono, tanto più, in esse, la potenza dello spirito si indebolisce; ma esse compensano questa dimi­ nuzione con un aumento in un altro ambito. In altre parole, il principio di compensazione è l’espressione del carattere siste­ matico dello spirito e del fatto che lo spirito è interno a ogni forma. Ciascuna forma riflette a suo modo la totalità dello spi­ rito, è il simbolo dello Spirito. Aristotele, evidentemente, non si fa questa rappresentazione, ma, a quanto pare, ha l’idea che ogni organismo debba essere totale, completo, sufficiente a se stesso. Ogni forma è necessariamente determinata. La natura cerca, dunque, di realizzare il meglio in funzione delle circostanze. In presenza di diverse possibilità, si sforza sempre di raggiungere il meglio.

Questo insieme di formule (la natura non fa nulla invano, compensa un eccesso con una mancanza) si potrebbe definire “principio di economia” . Conseguenza di tale principio di eco­ nomia è il principio di continuità, così formulato da Aristotele: “La natura passa, infatti, senza soluzione di continuità dalle co­ se inanimate agli animali, per il tramite di esseri che, pur essen­ do viventi, non sono tuttavia animali, cosicché, per la reciproca affinità, la differenza fra un gruppo e l’altro appare minima” .24 Si potrebbe dire che la natura rifiuta tanto il troppo quanto il troppo poco; non vuole doppioni inutili, ma nemmeno anelli mancanti: essa cerca di realizzare la serie, la più completa possi­ bile, delle realtà. Qui, bisogna riconoscerlo, il concetto di natura sembra ben superare i limiti delle nature individuali e compor­ tare la prospettiva di un progetto d’insieme. La natura descrit­ ta nelle “massime” di Aristotele assomiglia un po’ a un ammi­ nistratore dalle risorse modeste, ma operoso e risparmiatore. Per gli stoici la natura, che è peraltro una potenza cosmica, è più generosa, più capricciosa, più gioiosa. Nel trattato Sul­ la natura, Crisippo a quanto pare aveva scritto, a proposito di un lusso in se stesso inutile come la ruota del pavone: “La na­ tura ha fatto nascere molti animali avendo di mira la bellezza, poiché essa predilige il bello in tutte le sue forme” .25 La Storia naturale di Plinio gli fa eco, per esempio quando, a proposito delle conchiglie, dice che in esse “si manifesta la grande varie­ tà dei giochi della natura” ,26 oppure quando, a proposito dei fiori, scrive che la natura “si sbizzarrisce e nel grande tripudio della propria fecondità gioca con tanta fantasia” .27E la lascivia naturae. Disinvoltamente, la natura fa prove, abbozzi, tentativi vari: il convolvolo “è come un primo abbozzo fatto dalla natura mentre si esercitava a produrre gigli” .28 Richiederebbe troppo spazio raccontare la storia di tale per­ sonificazione della natura e analizzarne il significato; ci limi­ tiamo a constatare che ancor oggi si ricorre volentieri a questa metafora, come attestano le parole di E Jacob:

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Jacques [Monod] voleva essere logico. Anzi, assolutamente lo­ gico.. . Ma non gli bastava essere lui stesso logico. Bisognava

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che lo fosse anche la natura. Che funzionasse secondo rego­ le rigorose. Che, una volta trovata una “soluzione” a qualche “problema”, vi si attenesse per sempre. Che la applicasse fino in fondo. In tutti i casi. In tutte le situazioni. Con tutti gli esseri viventi. In fin dei conti, per Jacques, la selezione naturale ave­ va forgiato ogni organismo, ogni cellula, ogni molecola fin nei minimi dettagli. Fino a raggiungere una perfezione che finiva per non distinguersi più da quella da altri riconosciuta come il segno della volontà divina. Alla natura Jacques attribuiva cartesianesimo ed eleganza. Di qui, il suo gusto per le soluzioni uniche. Per parte mia, non trovavo il mondo così rigoroso, così razionale. Ciò che mi stupiva non erano né la sua eleganza né la sua perfezione, ma piuttosto il suo stato. Mi stupiva che es­ so fosse così com’è e non altrimenti. La natura la vedevo come una ragazza abbastanza brava. Generosa, ma un po’ sudicia. Un po’ pasticciona. Che andava avanti a tentativi. Che faceva quello che poteva con quello che trovava.29

10. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1, 12, tr. it. Laterza, Bari 1962, p. 427. 11. Platone, CEuvres complètes, a cura diL. Robin, Gallimard, Paris 1959, voi. 1, p. 1370. 12. Platone, Repubblica, x, 597 b, tr. it. in Opere complete, Laterza, Bari 1971, voi. 6, p. 325. 13. W. Wieland, Platon und die Formen des Wissens, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1982, p. 147. 14. Platone, Simposio, 191 a 6. 15. Isocrate, Panatenaico, xn, 228; A Nicocle, n, 12. 16. Vedi H. Bonitz, Index aristotelicus, coll. 838 a 8 sgg. 17. R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, tr. it. Adelphi, Milano 1998, pp. 503-509. 18.1. Kant, “Introduzione”, v, in Critica del giudizio. 19. Gorgia, fr. I l a Diels (Elogio di Palamede)·, Senofonte, Apologia di Socrate, 27. 20. Plotino, Enneadi, v, 8,7,36-47; vi, 7,1, 29-32 (vedi P. Hadot, Plotin, traiti38, Paris 1988, p. 198). 21. Le massime si trovano raccolte in H. Bonitz, Index aristotelicus, cit., col. 836 b. 22. Aristotele, Le parti degli animali, in, 2, 663 a, tr. it. in Opere, Laterza, Bari 1973, voi. 5, p. 69. 23. Plotino, Enneadi, vi, 7,9 ,4 0 , tr. it. Mondadori, Milano2002, p. 1779. 24. Aristotele, Le parti degli animali, cit., 681 a 12, tr. it. cit., voi. 5, p. 113. 25. H. von Arnim, Stoici antichi. Tutti iframmenti, 1163, tr. it. Bompia­ ni, Milano 2002, p. 945. 26. Plinio il Vecchio, Storia naturale, IX, 102: “Magna ludentis naturae varietas” ·, tr. it. Einaudi, Torino 1983, voi. 2, p. 355. 27. Ibidem, xxi, 1: “Lascivienti praesertim et in magno gaudio fertilitatis tam varie Indenti” ·, tr. it. cit., voi. 3, t. n, p. 151. 28. Ibidem, xxi, 23 : “ [Convolvolum] veluti naturae rudimentum lilia facere discentis” ·, tr. it. cit., voi. 3, t. il, p. 165. 29. F. Jacob, La statue intérieure, Éditions Odilejacob, Paris 1987, p. 356.

NOTE 1. Buffon, Histoire naturelle des oiseaux. Discours sur la nature des oiseaux, citato in Le Grand Robert, s.v. “Nature”. 2. In una voce notevole dell’Encyclopaedia Oniversalis (Paris 1985, voi. 14, pp. 640-642), P. Aubenque ha esposto splendidamente, in tutta la sua ampiezza, il significato del concetto greco di physis. 3. Ippocrate, La medicina antica, 20, tr. it. in Opere (a cura di G. Lanata), Boringhieri, Torino 1961, pp. 203-204. 4. Come nota anche A.-J. Festugière nel commento alla sua traduzione in francese dell’opera di Ippocrate (Klinksieck, Paris 1948), qui l’autore cri­ tica il metodo dei fisiologi, che vogliono spiegare ogni cosa per mezzo di un piccolo numero di principi semplici (colori la cui combinazione forma le fi­ gure della graphike-pittuTa, lettere la cui combinazione forma le parole della graphike-scrittura). 5. Come dice ottimamente P. Aubenque, (“Physis” , in Encyclopaedia universalis, cit.): “Physis è il titolo di un interrogativo: da dove vengono le cose? Come nascono e come crescono?”. 6. E. Schmalzriedt, “Peri physeos” . InZur Fruhgeschichte der Buchtitel, Wilhelm Fink Verlag, Mùnchen 1970. 7. Galeno, Det suoi libri, in P. Moraux, Galien de Pergame. Souvenirs d’un médecin, Les Belles Lettres, Paris 1985, pp. 153-154. 8. Porfirio, Vita di Plotino, 4, 10, tr. it. Mondadori, Milano 2002, p. 9. 9. Alcmeone di Crotone, 24 B 1 Diels, tr. it. in A. Pasquinelli (a cura di), 7 presocratici, frammenti e testimonianze, Einaudi, Torino 1958, p. 114.

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3 LA FILOSOFIA ANTICA: UN’ETICA O UNA PRATICA?*

IL CONCETTO DI ESERCIZIO SPIRITUALE Sono stati i miei lavori d ’interpretazione dei testi filosofici dell’Antichità a rendermi consapevole dell’importanza di ciò che possiamo chiamare “esercizi spirituali” . In effetti, come i miei predecessori e come i miei contemporanei, mi sono allora scontrato con il ben noto fenomeno delle incongruenze, anzi delle contraddizioni, che si incontrano nelle opere degli autori filosofici dell’Antichità. Molti storici della filosofia moderni, in effetti, partono dal postulato che Platone e gli altri filosofi an­ tichi volessero costruire sistemi, come i filosofi moderni; e, di fatto, si potrebbe pensare che davvero lo volessero, a giudicare dal numero notevole di divisioni, di classificazioni, di distinzio­ ni di livello gerarchico che troviamo nella filosofia, da Platone fino agli Elementi di teologia di Proclo. I celebri Elementi di Euclide sono del resto il punto d’arrivo dell’ideale platonico di assiomatizzazione, e per tutta l’Antichità saranno il model­ lo dell’esposizione filosofica, per Epicuro come per Proclo. Io stesso ho spesso ricercato le tracce di questo ideale nei vari fi­ losofi, in particolare negli stoici. Non si tratta, dunque, di nega­ re l’esistenza di una volontà di coerenza o di sistematizzazione negli autori filosofici antichi; del resto, come avevano ben visto gli stoici, ogni pensiero, così come ogni realtà, non può esiste* Originariamente pubblicato in Problèmes de la morale antique, sept études [...] réuniesparPaulDemont, Université d’Amiens, Amiens 1993, pp. 7-37.

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re senza cercare di essere coerente con se stesso. Nondimeno, nel leggere le opere degli autori antichi si ha la sensazione che, nel loro modo di svolgere l’esposizione o di utilizzare il loro vocabolario, ci sia qualcosa che sconcerta la nostra mentalità moderna. Sarebbe troppo lungo enumerare le dichiarazioni dei commentatori o degli storici della filosofia antica che lamen­ tano le incoerenze, le goffaggini nell’esposizione e i difetti di composizione degli autori di cui essi si occupano, che si tratti di Platone, Aristotele, Plotino o Agostino. Mi pare, dunque, sommamente aleatorio applicare agli au­ tori antichi il m etodo strutturale di M. Guéroult e dei suoi discepoli V. Goldschmidt, F. Brunner e J. Vuillemin, metodo che peraltro è sicuramente assai fecondo se applicato a filosofi moderni che hanno esplicitamente voluto costruire un siste­ ma, quali Leibniz, Cartesio, Malebranche, Hegel e gli idealisti tedeschi. Penso che il problema fondamentale dell’interpretazione degli autori filosofici antichi stia qui. Ritenevano essi che il compito essenziale della filosofia fosse redigere scritti che espo­ nessero un sistema concettuale? In primo luogo: il compito principale della filosofia era redi­ gere uno scritto? V. Goldschmidt sembrerebbe ammetterlo, nel momento in cui formula in tal modo il postulato su cui si basa il metodo strutturale: “Il metodo strutturale pone incontesta­ bilmente l’accento sull’opera scritta, in quanto unica testimo­ nianza in cui si manifesta un pensiero filosofico” .1In apparen­ za, questa affermazione basta a se stessa. Come conosceremmo il pensiero dei filosofi dell’Antichità senza i loro scritti? Ma l’errore, mi pare, sta appunto nel rappresentarsi lo scrit­ to filosofico antico sul modello dello scritto filosofico moder­ no; anzitutto e in generale, infatti, questi due tipi di scritti sono estremamente diversi. Come ha affermato il linguista A. Meillet: “L’impressione di lentezza data dalle opere letterarie anti­ che deriva dal fatto che esse erano fatte per una lettura orale” .2 Si potrebbe dire che lo scritto antico ha sempre, più o meno, una dimensione orale. A maggior ragione, lo scritto filosofico antico aveva un rapporto stretto con l’oralità; esso è sempre le-

gaio, in un modo o nell’altro, a pratiche orali, sia che, come in Platone o in molti altri dialoghi dell’Antichità, cerchi di dare al lettore l’illusione di partecipare a un avvenimento orale, sia che, in generale, sia destinato a una pubblica lettura. Lo scrit­ to non è scritto al fine della scrittura in sé, ma è soltanto un punto di riferimento concreto per una parola destinata a ridi­ ventare parola, come oggi il disco o la cassetta altro non sono che un intermediario tra due avvenimenti: la registrazione e il riascolto. Alla simultaneità spaziale dell’opera scritta moder­ na si contrappone la successione temporale della parola antica, messa per iscritto. Lo scritto filosofico moderno assomiglia a un monumento architettonico, nel quale tutte le parti coesistono: si può andare dall’una all’altra per verificarne la coerenza. Al contrario, l’opera filosofica antica assomiglia piuttosto a un’e­ secuzione musicale, che procede per temi e variazioni. Legato in un modo o nell’altro alla circostanza dell’insegna­ mento orale, quindi rivolto anzitutto a un gruppo che ascolta il maestro o discute con lui, lo scritto filosofico antico richie­ de, dunque, per essere compreso, non solo che se ne analizzi la struttura, ma che lo si collochi nella praxis concreta dalla qua­ le esso deriva e nella quale si reinserisce. In altre parole, sullo sfondo dello scritto filosofico antico c’è la vita di una scuola, ossia la comunità dei discepoli alla quale il filosofo si rivolge in primis e grazie alla quale il ricordo delle sue parole sarà con­ servato; e c’è un filosofo che parla, e lo fa in primo luogo non per imbastire un edificio di concetti, bensì per formare quel gruppo di discepoli, sia discutendo con loro sia impartendo una lezione cattedratica. Si può dire, dunque, che tutti quelli che i moderni considerano, dal loro punto di vista, come di­ fetti di composizione, incoerenze o addirittura contraddizioni derivano, in primo luogo, dai condizionamenti propri dell’in­ segnamento orale, la cui eco si avverte, in un modo o nell’altro, nello scritto filosofico. M a occorre andare più lontano e dom andarci se il com­ pito del filosofo consista anzitutto nel costruire un sistema concettuale. In effetti, come abbiamo accennato, quell’insegnamento orale non era destinato direttamente ed esclusiva­

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mente a comunicare un sapere enciclopedico, nella forma di un sistema di proposizioni e di concetti che riflettesse, più o meno bene, il sistema del mondo: “ Sarebbe bello” , dichiara Socrate nel Simposio (175 d), “ se la sapienza fosse di tal natu­ ra che scorresse dal più pieno al più vuoto di noi solo a toc­ carci” . No, questo insegnamento orale e le opere scritte che ne derivano non sono destinati a comunicare un sapere com­ piuto e concluso, bensì, anzitutto, a formare una capacità, un saper discutere, un saper parlare, che permetterà al discepolo di orientarsi nel pensiero, nella vita della città, o nel mondo. Come scrive R. Schaerer:3 “L a definizione [alla quale infine si giunge nei dialoghi platonici] in sé non è nulla; tutto è nel cammino percorso per arrivarci. L’interlocutore vi acquisisce una maggiore penetrazione spirituale, una maggiore sicurez­ za, una maggiore abilità in ogni cosa” . Ma, se ciò è vero nella misura più alta per i dialoghi platonici, è altrettanto vero per i metodi di Aristotele e per i trattati di Plotino, nei quali certi lunghi sviluppi ci possono sembrare del tutto inutili. L’opera filosofica scritta, proprio perché è un’eco diretta o indiretta dell’insegnamento orale, ci appare ora come una serie di eser­ cizi, destinati a far praticare un metodo, piuttosto che come un’esposizione dottrinale. Vediamo comparire qui il concetto di esercizio, che altro non è se non un esercizio intellettuale. Ma dobbiamo andare ancora più lontano. In effetti, si p o ­ trebbe concepire questo esercizio intellettuale come puramente formale, insomma come un esercizio di discorso totalmente se­ parato dalla vita, come del resto esso è stato per certi filosofi; e infatti, dall’inizio alla fine della storia della filosofia antica incon­ triamo critiche rivolte ai filosofi che ambiscono solo alla fama e vogliono brillare facendo sfoggio dei loro discorsi filosofici. Nel ni secolo a.C., il platonico Polemone rimproverava a certi suoi contemporanei di volersi fare ammirare per l’abilità dialettica, ma di essere incoerenti con se stessi nel disporre della propria vita;4è nelle cose della vita, diceva, che bisogna soprattutto eser­ citarsi. Vari secoli più tardi, nel li secolo d.C., lo stoico Epitteto parlava con disprezzo di quei filosofi che non vanno più in là della bellezza dello stile o della sottigliezza dialettica.5Ma si

può dire che, nei loro principi, nelle loro scelte fondamentali, tutte le scuole filosofiche dell’Antichità si sono rifiutate di con­ siderare l’attività filosofica come puramente intellettuale, come puramente teorica e formale, ritenendola invece una scelta che impegnava la vita intera e l’anima nella sua totalità. L’esercizio della filosofia non era, dunque, unicamente intellettuale, ma poteva essere anche spirituale. Il filosofo non insegna soltanto a saper parlare, a saper discutere, ma anche a saper vivere nel senso più nobile e più forte del termine. È a un’arte di vivere, a tutto un modo di vivere, che egli incita i propri discepoli. Ne consegue che il discorso del filosofo può assumere la for­ ma di un esercizio destinato non soltanto a sviluppare l’intelli­ genza del discepolo, ma anche a trasformare la sua vita. Pertan­ to, non sono più solo le esigenze pedagogiche, ma le necessità della psicagogia, della guida delle anime, a impedire al discor­ so filosofico antico di essere perfettamente sistematico. Non sempre le proposizioni che lo compongono esprimono adegua­ tamente il pensiero teorico del filosofo, ma esse vanno intese nella prospettiva dell’effetto che mirano a produrre nell’anima dell’ascoltatore. Talvolta, come nei discorsi di Platone, l’eser­ cizio intellettuale è al tem po stesso spirituale, in particolare allorché interviene, come nel Simposio, la figura di un Socra­ te i cui discorsi, appunto, sono presentati come incantatori, o pungenti, o provocatori, tali da sconvolgere l’anima dell’ascol­ tatore;6 ma evidentemente è nel periodo ellenistico e romano che tale fenomeno si può osservare più facilmente, quando il discorso filosofico è considerato solo come un mezzo per pro­ curare all’anima l’atarassia, la pace interiore. Su questo punto, abbiamo affermazioni chiarissime da parte di Epicuro: “Noi occupiamoci della salute delle nostre anime”;7 “ Se non ci tur­ basse la paura delle cose celesti e della morte [...] non avrem­ mo bisogno della scienza della natura” ;8 “L’unico scopo della conoscenza dei fenomeni celesti è l’atarassia” .9Nella stessa di­ rezione va la sentenza a lui attribuita: “Vana è la parola di quel filosofo da cui non è guarita nessuna passione dell’anima” .10In questa prospettiva, la storia del cavallo di Apelle, cui allude lo scettico Sesto Empirico, è doppiamente istruttiva: “Il pittore

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Apelle voleva riprodurre in un dipinto la schiuma di un caval­ lo, ma, non riuscendovi, decise di rinunciarvi. Gettò, dunque, sul tavolo la spugna con la quale puliva i pennelli; e quella, col­ pendo il tavolo, produsse l’esatta imitazione della schiuma di un cavallo” .11Sesto prosegue: “Gli scettici speravano di perve­ nire all’atarassia formulando un giudizio sulla discordanza tra ciò che ci appare e ciò che pensiamo a proposito di ciò che ci appare. Non riuscendovi, sospesero il loro giudizio. E d ecco che, per caso, la pace dell’anima accompagnò la sospensione del giudizio, come l’ombra accompagna il corpo” . Testo doppiamente istruttivo, dicevo, poiché da una parte mostra che gli scettici vogliono in un primo momento imitare gli altri filosofi, cioè trovare la pace dell’anima nell’esercizio della facoltà di giudizio; ma poi, insoddisfatti dagli argomenti delle altre scuole, trovano la pace dell’anima nella sospensione stessa del loro giudizio. E noto anche questo testo di Crisippo, citato da Plutarco: “Non c’è altro mezzo più appropriato [...] per conseguire la virtù e la felicità che partire dalla Natura e dallo studio del go­ verno del Mondo [...]. La teoria fisica è insegnata al solo scopo di apprendere la distinzione dei beni e dei mali [che è la con­ dizione della natura e della felicità]” .12 Quali sono, dunque, le conseguenze di questa concezione della filosofia come esercizio spirituale sulla forma del discor­ so filosofico? Anzitutto, occorre ben riconoscere che tale concezione pre­ suppone l’esistenza di un discorso teorico assai sistematico. A partire dall’Antichità, si è ammirata per esempio la straordina­ ria coerenza del sistema stoico; e si può riconoscere anche il ca­ rattere fortemente sistematico della fisica epicurea. Solo questo discorso filosofico prende avvio dalla formulazione di opzioni vitali essenziali, come per esempio, presso gli stoici: “Il bene morale è l’unico bene; il bene morale consiste nella coerenza con se stessi” . Tali opzioni sono formulate in un numero ridot­ to di principi fondamentali, la cui funzione essenziale è guida­ re le scelte di vita del filosofo. Sono i dogmi, le regole di vita. Questi dogmi, queste regole di vita, il filosofo deve meditarli e

assimilarli, affinché diventino la sostanza della sua vita. Come dice Epicuro, l’atarassia proviene “dal ricordo ininterrotto dei principi generali e fondamentali della dottrina”.13 G li esercizi spirituali del discepolo consisteranno appunto nello sforzarsi di avere sempre presenti allo spirito queste regole di vita. E, dunque, in tale prospettiva che bisogna intendere lo sforzo di sistematizzazione degli stoici e degli epicurei. Il loro sistema non è elaborato come una costruzione intellettuale fine a se stessa, che avrebbe come per caso - per così dire - conseguen­ ze etiche sul modo di vita stoico o epicureo; viceversa, i sistemi stoici o epicurei hanno lo scopo di connettere fortemente i vari dogmi fondamentali, non presentandoli in una forma sviluppa­ ta bensì, al contrario, concentrandoli, affinché il filosofo possa averli sottomano in ogni istante della sua vita. La loro presen­ tazione sistematica produce nell’anima la certezza, e dunque la pace e la serenità. Lo dice abbastanza chiaramente Epicuro all’inizio e alla fine della Lettera a Erodoto, allorché spiega l’utilità del riassunto si­ stematico che ha appena fornito: esso sarà utile sia a coloro che non hanno tempo per fare ricerche dettagliate sulla natura, sia a coloro che invece possono farle. A questi ultimi permetterà di tornare all’essenziale, ossia di prendere coscienza della coe­ renza del sistema, mentre agli altri, a coloro che non sono por­ tati a sottilizzare nel dettaglio, permetterà di percorrere rapi­ damente i dogmi fondamentali al fine di conseguire la serenità. Aggiungiamo che, tanto nello stoicismo quanto nell’epicu­ reismo, il sistema riunisce solo i dogmi fondamentali. I feno­ meni fisici particolari (per esempio, l’arcobaleno o le comete) sono suscettibili di molteplici spiegazioni, che non fanno parte dell’essenziale del sistema, come sottolinea Epicuro.14 Si vede, dunque, che, in maniera generale, il discorso teo­ rico e sistematico è destinato, in tale prospettiva, a produrre un effetto sull’anima dell’ascoltatore o del lettore. Ciò non si­ gnifica che questo discorso teorico non risponda alle esigen­ ze della coerenza logica; tuttavia, la sua presentazione, la sua forma letteraria e il suo contenuto sono modificati dall’inten­ to di influenzare i discepoli. A questo scopo il filosofo utilizza

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abbondantemente gli strumenti retorici; e capita che egli sci­ voli rapidamente dall’esposizione teorica all’esortazione, come spesso avviene nei trattati di Plotino. Grazie a Arriano, che ne ha compilato le Diatribe, possiamo farci una certa idea dell’in­ segnamento di Epitteto: non del suo insegnamento nella sua totalità (consistente, come sempre a quell’epoca, in commenti scritti che peraltro, a loro volta, potevano essere veri e propri esercizi spirituali), ma quanto meno della parte del corso in cui egli discuteva con i suoi allievi parlando con loro liberamente;15 e constatiamo che tutti i suoi sforzi si concentrano sulla guida spirituale, sull’esortazione, sulla conversione. A questi esercizi spirituali del maestro corrispondono gli esercizi spirituali del discepolo. Infatti, i filosofi, da Epicuro a Epitteto, esortano i loro discepoli a meditare sui dogmi che hanno loro esposto: “Tutte queste cose e ciò che a esse è con­ genere medita giorno e notte in te stesso” ;16 “Su queste cose dovrebbero riflettere coloro che si dedicano alla filosofia, que­ ste cose dovrebbero scrivere ogni giorno, in queste allenarsi”;17 “Abbi sottomano queste riflessioni di notte e di giorno; scrivi­ le, leggile; discuti intorno a esse, con te stesso o con un altro”.18 I Ricordi di Marco Aurelio, per esempio, sono un esercizio spi­ rituale dall’inizio alla fine; e proprio grazie a quest’opera pos­ siamo osservare come, in tale sforzo di influenzare se stessi, si possa dire che, in un certo senso, tutti i mezzi sono buoni. Per raddrizzare le opinioni distorte, i pregiudizi tenaci, le paure irragionevoli, occorre in qualche modo torcerli nella direzio­ ne opposta, esagerare per compensare. Quindi non si deve credere, per esempio, che Marco Aurelio fosse personalmen­ te pessimista per il fatto che egli insiste, in maniera peraltro conforme all’ortodossia stoica, sull’indifferenza alle cose che non dipendono da noi. All’esercizio della meditazione sono associati molti altri esercizi spirituali: il distacco interiore nei confronti degli og­ getti e delle persone, o la preparazione interiore necessaria per poter fare fronte alle difficoltà future, per gli stoici; il ricordo dei piaceri passati e la correzione fraterna, per gli epicurei; e, infine, l’esame di coscienza, comune a tutte le scuole.19

LA FILOSOFIA COME “PRATICA”, OPPOSTA AL DISCORSO FILOSOFICO, IN EPOCA ELLEN ISTICA

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Dunque, è difficile negare, credo, che le filosofie dell’epo­ ca ellenistica e romana siano strettamente legate alla pratica di esercizi spirituali. M a dove esattamente si collocano questi esercizi nell’insieme dell’attività filosofica? L’ipotesi più interessante sarebbe quella di collocarli nella parte etica della filosofia. La distinzione della filosofia in tre parti - dialettica, fisica, etica - risale probabilmente all’antica Accademia, e forse esisteva già prima di Platone;20in ogni caso, essa svolge un ruolo importante presso gli stoici.21Si potrebbe, dunque, ritenere che, per gli stoici, la logica e la fisica rappre­ sentino la parte in cui si colloca il discorso teorico, e che l’etica rappresenti la parte in cui si collocano gli esercizi spirituali, le esortazioni, le meditazioni. Ma di fatto quella linea che, per così dire, separa la teoria dalla pratica non separa allo stesso modo l’etica e le altre parti della filosofia; in almeno due di queste, in effetti, tale linea si pone all’interno di ciascuna disciplina. L’e­ tica stessa, infatti, implica un discorso teorico, che ne espone i principi, e le sue applicazioni pratiche, che abbiamo chiamato esercizi spirituali. Peraltro, il discorso teorico dell’etica non si limita a formulare precetti, regole di vita, ma contiene anche un insieme di distinzioni e di divisioni assai sottili a proposito di quelle che gli stoici chiamano cose indifferenti, analisi psi­ cologiche molto dettagliate a proposito delle passioni, dei vizi, delle virtù, e infine la descrizione della figura del saggio. Tutta­ via, come gli stoici dicono e ridicono, la filosofia non consiste in queste distinzioni, definizioni e analisi, bensì nella pratica delle regole di vita fondamentali. Come dice Epitteto: L’architetto non viene a dire: “Ascoltatemi discutere sull’arte del costruire”, ma, fatto il contratto per una casa, la costruisce, e così mostra di possedere l’arte. Agisci anche tu in tal modo: mangia come un uomo, bevi come un uomo, ornati come un uomo, sposati, abbi dei figli, fa’ il cittadino; resisti agli insulti, sopporta un fratello dissennato, sopporta il padre, un figlio, un vicino, un compagno di viaggio.22

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Con la logica o la dialettica, le cose si complicano, poiché oc­ corre distinguere, mi pare, quattro stadi della logica. In primo luogo c’è la teoria astratta della logica, quella che per esempio espone le definizioni della proposizione, le varie forme di sil­ logismi, le diverse maniere di confutare i sofismi. In secondo luogo, ci sono le applicazioni, gli esercizi scolastici che il disce­ polo è tenuto a svolgere durante il corso; Epitteto23 racconta che il suo maestro Musonio Rufo l’aveva rimproverato perché non aveva trovato l’unica omissione che c’era in un certo sil­ logismo. In terzo luogo, c’è l ’applicazione delle regole logiche nel discorso teorico delle altre parti della filosofia, ossia nella fisica e nell’etica: si può per esempio notare l’abbondanza dei termini tecnici di logica nella teoria etica stoica. In quarto luo­ go, infine, c ’è l’applicazione delle regole della logica alla vita di tutti i giorni; esisteva, quindi, una pratica quotidiana della logica, che doveva svolgersi nell’ambito del giudizio e dell’as­ senso, e che nello stoicismo era assolutamente essenziale, dal momento che, per gli stoici, i desideri, le passioni, le tendenze attive si collocano appunto, anzitutto, al livello del giudizio e dell’assenso, e precisamente nella capacità di dare o rifiutare il proprio assenso a una rappresentazione, a seconda che questa sia o non sia esauriente e adeguata. Epitteto contrappone net­ tamente logica teorica e logica pratica: “È come se, nell’ambi­ to dell’assenso, essendo presenti rappresentazioni sia catalet­ tiche sia acatalettiche, non volessimo distinguerle, ma leggere gli scritti Sull’apprensione” ™Anche nella vita di tutti i giorni, dunque, si mette in pratica una logica, che consiste nel non da­ re il proprio assenso a ciò che è falso o dubbio. Si dirà: si può capire che cosa possa essere un’etica messa in pratica, si capisce, al limite, che cosa possa essere una logi­ ca messa in pratica; ma una fisica messa in pratica, che cosa potrebbe essere? Nondimeno, nello stoicismo, e direi anche nell’epicureismo, una fisica messa in pratica, una fisica vissuta, c’è. Questa fisica messa in pratica e vissuta si rileva chiaramente in Epitteto e in Marco Aurelio. Epitteto (e Marco Aurelio nella sua scia) distingue infatti tre esercizi di filosofia:25 c’è l’esercizio che consiste nel disciplinare la tendenza attiva, Yhorme, il cui

ambito è quello che gli stoici chiamavano l’insieme dei dove­ ri, i kathekonta. Si tratta di quell’etica vissuta di cui abbiamo parlato. C ’è poi l’esercizio che consiste nel controllare i pro­ pri sentimenti, i propri giudizi, le proprie rappresentazioni; si tratta della logica vissuta, di cui pure abbiamo parlato. E, infi­ ne, c’è l’esercizio che riguarda la disciplina dei desideri, e che consiste nel desiderare unicamente ciò che dipende da noi, e nell’accettare ciò che non dipende da noi quale volontà della natura universale, della provvidenza, del destino. Tale accetta­ zione presuppone che l’uomo capisca che quanto ci accade non dipende da noi, ma risulta dalla concatenazione necessaria del­ le cause, che altro non è che il destino. In nessuna circostanza, raccomanda Epitteto, “ti adirerai e sarai scontento degli ordi­ ni di Zeus, quelli che Egli ha stabilito e fissato d’accordo con le Moire che, presenti alla tua nascita, hanno tessuto i loro fili. Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto?” .26La disciplina del desiderio presuppone, dunque, che i dogmi formulati dalla fisica teorica a proposito della concatenazione delle cause sia­ no stati meditati e assimilati, che siano stati oggetto di una pre­ sa di coscienza, grazie alla quale la filosofia possa essere intesa come parte del tutto. L a fisica vissuta è, dunque, questo atteg­ giamento di consenso rispetto alla volontà della Natura. A ciò bisogna peraltro aggiungere che in Epitteto27talora si trovano esortazioni a contemplare la bellezza dell’Universo. Ritengo che questa idea di fisica vissuta si possa individuare in Epicuro; abbiamo visto, infatti, che il discorso teorico di Epicuro sulla fisica era destinato a procurare la serenità e la pace dell’anima. Il piacere, scopo della filosofia di Epicuro, può essere puro so­ lo se l’uomo si libera, grazie al discorso teorico sulla fisica, del timore della morte e degli dei. Ma penso che non basti dire, come fa A.-J. Festugière,28che la scienza della natura abbia va­ lore esclusivamente propedeutico; si direbbe, in effetti, che la contemplazione dello spettacolo della natura, così come appare a colui che ammette i dogmi epicurei, produca, in se stessa, il piacere. In un passo famoso, Lucrezio esprime la gioia dell’a­ nima che, grazie al discorso teorico di Epicuro, acquisisce una visione nuova dell’universo: “Appena tu ci mostrasti l’essen­

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za del mondo, / svelata dal tuo genio divino, / ecco sparire i terrori dell’animo, / aprirsi i confini all’immenso universo / e muoversi vedo nel vuoto le cose”.29Spettacolo sublime: il veg­ gente percepisce le quiete dimore degli dei in una luce eterea e intravede la pace della loro anima. Prosegue Lucrezio: “Allora un’ebbrezza quasi divina e un tremore / mi prende al pensiero che nuda in ogni sua parte / si sia la natura per opera tua rive­ lata” . E ancora una visione fantastica della totalità del mondo quella che sembra sottintendere questa sentenza dell’epicureo Metrodoro: “Ricordati che, nato mortale, con una vita limita­ ta, ti sei innalzato, grazie alla teoria della natura, fino all’eter­ nità e all’infinità delle cose, e che hai visto tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà” .30 Questi testi ci presentano la fisica come un modo di guarda­ re il mondo, e non solamente come l’edificazione di una teoria, bensì come un vero e proprio esercizio spirituale e vissuto, che dà all’anima piacere e gioia. G ià all’inizio del suo trattato Le parti degli animali, Aristotele31 aveva affermato che la Natura procura a chi la contempla godimenti meravigliosi. Il tema era già presente nella tradizione platonica. In Filone Alessandrino e in Plutarco, la contemplazione della natura, cioè della terra, del mare, dell’aria, del cielo, degli astri, fa sì che, per il filoso­ fo, ogni giorno sia una festa.32 In tale prospettiva, si può in un certo senso ammettere che il discorso sulla Natura contenuto nel Timeo di Platone non sia solo un discorso teorico, ma si ac­ compagni in duplice maniera a un esercizio spirituale. Anzitut­ to, presentandolo come un gioco, Platone lascia intendere che si tratta di un gioco in onore degli dei, un sacrificio a Atena, ossia un’attività che procura piacere, una festa che risponde al gioco divino; ma soprattutto, questa offerta agli dei è un mo­ vimento reale e vissuto dell’anima, la quale torna a collocarsi nella prospettiva del tutto e prende coscienza della sua paren­ tela con il tutto.33 E il senso, credo, della fine del Timeo (90 d): “Alla parte che in noi è divina sono movimenti affini i pensieri e le rotazioni dell’universo; ciascuno deve conformarsi a essi [...]. Chi contempla deve rendersi simile all’oggetto della sua contemplazione secondo la natura originaria e, ottenuta tale

conformità, deve raggiungere il fine della vita ottima proposto agli uomini dagli dei per il presente e per l’avvenire” . L’idea di una fisica praticata come un esercizio spirituale non è, dunque, esclusiva degli stoici,34ma è radicata in una lunga tradizione. Così, il confine che separa la teoria e la pratica si colloca all’interno di ciascuna parte della filosofia; da un lato c’è un discorso teorico relativo alla fisica, alla logica, all’etica, dall’al­ tro, una fisica messa in pratica, una logica messa in pratica, un’etica vissuta. Ciò ci permette forse di capire la distinzione che gli stoici - tranne Zenone di Tarso, il quale, secondo Diogene Laerzio, faceva eccezione - facevano tra i discorsi filosofici (hoi kata philosophian logoi) e la filosofia stessa.35 Essi affermavano che erano i discorsi filosofici stessi a dividersi in tre parti, ossia fi­ sica, logica ed etica; e ciò comportava che la filosofia in sé non fosse, a rigor di termini, divisa in parti. Ritengo che questa di­ stinzione vada spiegata come segue. . Per gli stoici, la filosofia stessa, in quanto esercizio della virtù e della saggezza, è un atto unico, rinnovato in ogni istante, che si può descrivere, senza romperne l’unità, anche come pratica della logica vissuta, pratica della fisica vissuta, pratica dell’eti­ ca vissuta. In tale prospettiva, logica, fisica ed etica sono virtù, tra loro pari, che reciprocamente si presuppongono: basta pra­ ticarne una per praticare anche le altre. Scrive E. Bréhier: “È impossibile che l’uomo virtuoso non sia il fisico e il dialettico; è impossibile realizzare la razionalità separatamente in questi tre ambiti e, per esempio, cogliere la ragione nello svolgersi de­ gli eventi nell’universo senza contemporaneamente realizzare la ragione nel proprio comportamento” ,36In un certo senso, in questo atto unico, logica, etica e fisica non si distinguono real­ mente l’una dall’altra, se non per la diversità dei loro rapporti con i vari oggetti: il mondo, gli uomini, il pensiero. Ma, per spiegare che cos’è questa philosophie-bloc, come diceva E. Bréhier,37 si è costretti a tagliarla in parti nel discorso filosofico d ’esposizione e d’insegnamento, il quale, dal canto suo, dovrà essere tripartito: fisica, logica ed etica. Ritroviamo così, in questa contrapposizione tra la filosofia

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e il discorso sulla filosofia, la contrapposizione tra il discorso teorico sulla fisica, sulla logica, sull’etica, da una parte, e la fi­ sica, la logica e l’etica vissute, dall’altra. È, dunque, nella filo­ sofia stessa che si colloca quella pratica degli esercizi spirituali di cui abbiamo parlato. A proposito di questa fondamentale contrapposizione, oc­ corre precisare due cose. Da una parte, non bisogna concepire questa filosofia vissuta, questa filosofia praticata, come un’etica e una morale, poiché, come abbiamo visto, il concetto di eti­ ca è già di per sé ambiguo, dato che comporta sia un discorso teorico sia una pratica vissuta; d ’altra parte, la filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma implica anche un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è, dunque, una pratica, un modo di vita, che abbraccia tutta l’attività umana e non soltanto un’etica nel sen­ so stretto del termine. D ’altra parte - e questo è il secondo punto che vorrei preci­ sare - la contrapposizione tra discorso filosofico e filosofia vis­ suta non deve farci concludere che il discorso filosofico teori­ co non faccia esso stesso parte della filosofia. Epitteto segnala come segue la necessità e al tempo stesso i pericoli di una simi­ le considerazione: “Poiché è attraverso la parola e un insegna­ mento come il presente che si deve pervenire alla perfezione, purificare la propria scelta morale e rendere retta la facoltà che usa le rappresentazioni, e poiché, d ’altro canto, l’insegnamen­ to dei principi filosofici avviene necessariamente attraverso un certo tipo di linguaggio e si esprime con una terminologia va­ ria e sottile, ci sono alcuni che si lasciano catturare dalla parola e, di conseguenza, si fermano lì: uno è preso dall’elocuzione, un altro dai sillogismi, un altro dagli argomenti anfibologici” .38 È tuttavia palese che il filosofo, il quale pratica personalmen­ te la filosofia, non può agire su se stesso e sugli altri se non at­ traverso il discorso. L a filosofia è un modo di vita di cui è par­ te integrante un certo modo di discorso; si potrebbe anzi dire che, per chi la pratica, la filosofia consiste nel padroneggiare il proprio discorso interiore in virtù del discorso teorico formu­ lato nella scuola alla quale si appartiene. Questo discorso teo­

rico deriva da una scelta di vita fondamentale, da un’opzione esistenziale che è al tempo stesso una visione del mondo e un modo di vita; e porta colui che l’assimila a scegliere lui stesso tale opzione esistenziale. In qualche modo, il discepolo ripete interiormente il discorso teorico del maestro, così da mettere in ordine il proprio discorso interiore fondandolo sui principi basilari e sulle opzioni che costituiscono il punto di partenza del discorso teorico. Pertanto, il discorso filosofico procede dall’esteriorità all’interiorità; all’inizio puramente teorico, si fa più vicino all’anima nel momento in cui il maestro lo adatta ai discepoli, esercitando la sua direzione spirituale, e infine si interiorizza attraverso il dialogo con se stessi o con gli altri, o anche attraverso la scrittura. Il discorso svolge quindi un ruolo capitale nella vita filosofica; ma la vita filosofica non si riduce al discorso, anche se interiore. In effetti, l’elemento essenziale in essa è per così dire non-discorsivo, nella misura in cui rappre­ senta una scelta di vita, una volontà di vivere in questo o quel modo, con tutte le conseguenze concrete che ciò comporta nel­ la vita di ogni giorno. Tutto questo, che è vero in sommo grado per la filosofia stoi­ ca, può valere, come abbiamo accennato, anche per la filosofia epicurea, che definiva se stessa come un’attività che realizza la vita felice con l’aiuto del discorso e delle discussioni.39 In ogni modo, solo nella filosofia ellenistica si trova una di­ stinzione esplicitamente formulata tra filosofia e discorso filo­ sofico; ma si può dire che tale distinzione fosse implicita già nel periodo precedente, in Platone e in Aristotele. Anche per loro il discorso filosofico non è un fine in sé e non si confonde del tutto con la filosofia.

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PRATICA FILO SO FICA E DISCORSO FILOSOFICO IN PLATONE E IN ARISTOTELE

Questa affermazione si scontra, però, con un pregiudizio ancora oggi tenace, che É. Bréhier così esprime, per esempio, alla fine del suo Chrysippe: “Noi riteniamo che uno dei meto­

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di migliori per comprendere almeno i grandi sistemi di epoca ellenistica dopo Aristotele sia mostrare che la preoccupazione educativa ha in essi molta più importanza che non la pura spe­ culazione” .40 Ciò presuppone che Platone e Aristotele si dedi­ cassero alla speculazione pura, dunque, al discorso puramen­ te teorico. Questo pregiudizio, vivo ancor oggi, consiste nel credere che in epoca ellenistica la vita delle città greche abbia subito una decadenza, e che tale decadenza abbia indotto i fi­ losofi a rinunciare a quella speculazione pura e disinteressata che avrebbe costituito la parte essenziale della filosofia di Pla­ tone e di Aristotele, per accontentarsi di proporre un’arte di vivere destinata ai singoli individui, ormai in preda all’angoscia dell’isolamento. In realtà, i recenti lavori di studiosi come L. Robert hanno dimostrato che la vita delle città greche non subì quella decadenza che gli storici del xix secolo le attribuivano; d’altronde, è difficile sostenere che la speculazione pura e disin­ teressata dei filosofi fosse più in armonia con la vita delle città democratiche della Grecia classica che non la preoccupazio­ ne pedagogica che sarebbe stata pròpria dell’epoca ellenistica. Viceversa, si può sostenere che proprio all’epoca di Plato­ ne e di Aristotele, e proprio nel loro insegnamento, la filosofia sia, in primo luogo, una paideia, una formazione, il cui scopo è guidare verso “lo sviluppo armonioso dell’intera personalità umana, che culmina nell’acquisizione della saggezza quale arte di vivere” .41 Si tratta di formare uomini e, come dice il Socrate dell 'Apologià di Platone (24 d, 36 e), di “renderli migliori”, sia nel ristretto ambito della scuola filosofica, per mezzo di un in­ segnamento propriamente filosofico, sia nel più vasto ambito della città, per mezzo di un insegnamento politico. La prima conseguenza di tale intento pedagogico è la diminuzione del carattere puramente teorico del discorso filosofico. La missione del discorso filosofico, in particolare del discorso dialettico di Platone, ma anche del discorso didattico di Aristotele, più che nel trasmettere conoscenze sta nel far acquisire all’interlocuto­ re o all’ascoltatore un habitus, una capacità intellettuale che gli permetta, anzitutto, di saper discutere bene e parlare bene,42ma anche di saper giudicare bene e agire bene. Come abbiamo già

detto, il dialogo platonico, stando alle parole stesse di Platone, non si prefigge di risolvere questo o quel particolare problema (Politico, 285-286), bensì di migliorare le capacità dialettiche. Si può dire del discorso filosofico platonico quello che Plutar­ co diceva del discorso filosofico in generale: “U discorso filo­ sofico non vuole scolpire statue ‘immobili sul loro piedistallo’ [potremmo aggiungere che queste belle statue sono i sistemi filosofici], ma vuole rendere attivi, efficaci e vivi gli argomen­ ti di cui tratta; vuole ispirare il desiderio di agire, i giudizi che generano atti utili [...] la grandezza d’animo” .43 Allo stesso modo, una delle principali preoccupazioni di Aristotele è di insegnare ai suoi ascoltatori a usare metodi cor­ retti nella logica, nella scienza della natura, nella morale; ma soprattutto, egli ci offre l’occasione di precisare bene quello che vogliamo dire quando affermiamo che la filosofia antica è una filosofia pratica. Si tende, infatti, a ritenere che la filoso­ fia di Aristotele sia essenzialmente teorica, perché essa aspira veramente alla conoscenza per amore della conoscenza; qui, però, si fa confusione tra “teorico” e “teoretico” . “Teorico” si contrappone a “pratico” . Il discorso teorico si contrappo­ ne alla filosofia praticata, vissuta, dunque, “pratica” ; ma l’ag­ gettivo “teoretico” , che designa l’attività contemplativa, la più alta delle attività umane, non si contrappone alla filosofia pra­ ticata e vissuta, proprio perché essa è vissuta, è l’esercizio di una vita, di un’attività che fa la felicità di Dio e dell’uomo. Che “teoretico” non si contrapponga a “pratico” Aristotele lo dice espressamente nella Politica'. “La vita pratica non è necessario che sia tale in rapporto agli altri, come pensano alcuni, né sono pratici solo quei pensieri che sono realizzati dall’agire in vista di risultati concreti, ma piuttosto quei ragionamenti e quei pen­ sieri che hanno in se stessi il proprio fine e sono realizzati per se stessi” .44 In Aristotele, quindi, la vita teoretica non è una pura astrazione, bensì una vita dello spirito, che sicuramente può fa­ re uso di un discorso teorico, ma non per questo cessa di essere una vita e una praxis, e che anzi può lasciare spazio a un’attivi­ tà di pensiero non discorsiva, quando si tratta di percepire gli oggetti indivisibili e Dio stesso mediante l’intuizione noetica.

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La preoccupazione pedagogica ha anche un altro aspetto, che si manifesta soprattutto nella filosofia di Platone. È ben noto il ruolo che in essa svolge l’amore, ma forse non sempre se ne co­ glie tutto il significato. Secondo il Fedro (249 e), la caduta dell’a­ nima nel corpo ha avuto come conseguenza di farle dimenticare ciò che essa aveva visto nel -mondo intelligibile, ossia i valori di verità, giustizia, saggezza; l’anima, una volta caduta nel corpo, non è più in grado di riconoscere tali valori, neppure nelle loro immagini terrene. Come afferma Platone nel Politico (286 a), di queste cose essa può solamente parlare, cercare di definirle col duro lavoro della dialettica, ma non le può più vedere. La sola vi­ sione che l’anima può avere di un valore, di un’idea, è quella del­ la bellezza che si esprime nei corpi belli. L’emozione amorosa che essa allora prova è provocata dal ricordo incosciente - ma che può divenire cosciente - della visione della bellezza trascendente che l’anima aveva avuto nella sua esistenza anteriore. L’esperien­ za dell’amore sensibile, ma sublimato, è, dunque, parte integran­ te della filosofia di Platone, e vi svolge un ruolo duplice: da una parte {Simposio, 209 b-c), l’amore per i corpi belli, e soprattut­ to per la bellezza della loro anima, dà all’anima la fecondità, fe­ condità che si manifesta nei bei discorsi, dice Platone, ossia nel­ la discussione filosofica con l’amato. Apparentemente, dunque, dall’amore ritorniamo al discorso, ma bisogna riconoscere che questa necessità dell’esperienza amorosa introduce nella dialet­ tica platonica un elemento assolutamente irriducibile al discorso e alla razionalità. L a dialettica non è più solo un esercizio logico, bensì il dialogo tra due anime che si innalzano verso il bene solo per il fatto di amarsi. In questo dialogo, ciò che allora conta non è tanto il discorso in sé quanto la presenza dell’essere amato, e non si tratta di concludere un ragionamento con una proposizio­ ne quanto piuttosto di divenire migliori sotto l’influenza di chi si ama. L influenza educativa del maestro si esercita, in qualche modo, del tutto irrazionalmente. C ’è qualcosa di magico nella potenza pedagogica dell’amore. D ’altra parte, secondo il Simposio (210 a), l’esperienza dell’amore, se è ben diretta, se si innalza dalla bellezza che è nei corpi a quella delle anime, delle azioni e delle scienze, con­ 76

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durrà l’anima all’improvvisa visione di una bellezza meraviglio­ sa ed eterna, visione analoga a quella di cui gode l’iniziato nei misteri di Eieusi. Si noterà che, a ogni grado di questa ascesa, l’esperienza dell’amore porta l’anima a generare discorsi belli e magnifici, come dice Platone, mentre una volta al culmine si raggiunge una visione che supera qualsiasi discorsività, ma che permette all’anima di generare la virtù stessa (212 a). L a filoso­ fia diventa l’esperienza vissuta di una presenza. Dall’esperienza della presenza dell’essere amato ci si eleva all’esperienza di una presenza trascendente. D el resto, nel Fedone (67 c-d), la definizione della filoso­ fia come sforzo per separarsi dal corpo, per abituare l’anima a raccogliersi su se stessa, insomma la definizione della filoso­ fia come esercizio della morte presuppone, anch’essa, una di­ stinzione tra filosofia e discorso filosofico. Il discorso filosofico teorico è del tutto differente dagli esercizi vissuti, per mezzo dei quali l’anima si purifica dalle proprie passioni e si separa spiritualmente dal corpo. Questi esercizi vissuti e concreti si ritrovano in tutta la tra­ dizione platonica, in particolare in Filone Alessandrino,45 ma soprattutto in Plotino. In Plotino c’è una coscienza assolutamente chiara della distinzione che separa il discorso filosofico dalla filosofia stessa, a tutti i livelli dell’ascesa dell’anima verso il bello e il bene. Anzitutto, l’anima non può prendere coscien­ za della propria immaterialità se non opera una purificazione morale che la liberi da ciò che non è essa stessa, che la liberi cioè dalle passioni.46Poi, se l’anima vuole elevarsi al livello del­ la mente, le occorre ancora rinunciare al discorso per cercare di elevarsi a un’intuizione immediata e indivisibile del pensiero stesso, il che è peraltro un’eredità del pensiero aristotelico.47E, allorché vuole descrivere l’ascesa dell’anima verso il bene, Pio-. tino insiste sul fatto che da una parte c’è ciò che ci istruisce a pro­ posito del bene, ossia ciò che ci dice qualcosa di astratto a proposito del bene, ossia il discorso della teologia razionale (metodo dell’analogia o della negazione, per esempio), men­ tre dall’altra c ’è ciò che ci conduce effettivamente al bene, ossia, come dice Plotino, le purificazioni, le virtù, i riordini 77

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interiori, insomma gli esercizi spirituali effettivamente prati­ cati.48 Soprattutto, l’esperienza mistica plotiniana prolunga e sviluppa tutto ciò che l’esperienza amorosa platonica rappre­ sentava. Questa dava all’anima il sentimento della presenza della bellezza; l’esperienza mistica plotiniana dà all’anima l’e­ sperienza della presenza del bene stesso, vissuta come inizia­ zione misterica. E tutto un vissuto che sfugge totalmente alla razionalità discorsiva.

La maggior parte delle persone si immagina che la filosofia consista nel discutere dall’alto di una cattedra e nel preparare i loro corsi sui libri, ma l’esistenza di un esercizio ininterrotto dell’attività politica e della filosofia, che si vede in opera ogni giorno, sfugge loro completamente. Come ha notato Dicearco, costoro dicono che quelli che insegnano andando avanti e in­ dietro sotto i portici “passeggiano” (peripatein), ma non usano più questa espressione per indicare chi cammina nei campi o va a trovare un amico [...]. Socrate non faceva preparare gra­ dinate per il suo pubblico, non si sedeva su una cattedra pro­ fessorale; non aveva orari fissi per discutere o per passeggiare coi suoi discepoli; ma filosofava scherzando talvolta con loro o bevendo o andando alla guerra o all’agorà con alcuni di lo­ ro e infine bevendo il veleno. Fu il primo a dimostrare che, in ogni momento e in ogni luogo, assolutamente, in tutto ciò che ci succede e in tutto ciò che facciamo, la vita quotidiana può fare spazio alla filosofia.50

Riassumiamo. N ell’Antichità esiste un’intera tradizione fi­ losofica che troviamo in Platone, Aristotele, Polemone, Epicu­ ro, Zenone, Epitteto, Plotino e che si rifiuta di identificare la filosofia con il discorso filosofico. È indubbiamente evidente che non ci può essere filosofia senza un discorso interiore ed esteriore del filosofo; ma tutti i filosofi di cui ho parlato si con­ siderano filosofi non perché sviluppano un discorso filosofico, ma perché vivono filosoficamente. Il discorso si integra nella loro vita filosofica come un’attività pedagogica esercitata nei confronti degli altri, o come un’attività di meditazione o come espressione di una contemplazione che, per parte sua, non è discorsiva. Per questi filosofi, la filosofia stessa è anzitutto una forma di vita e non un discorso. Si può forse ritenere che l’ini­ ziatore e il modello di tale concezione sia stato Socrate, il qua­ le, a Ippia che gli aveva domandato la definizione di giustizia, rispose: “L a mostro con le mie azioni, più che con le parole” .49 Che Socrate sia rimasto per tradizione il modello di filosofo che, più che parlare, vive, e che non parla se non in funzione della vita, ci è attestato, tra gli altri, dal testo in cui Plutarco contrappone il discorso filosofico, considerato più propria­ mente come il discorso di un professionista della filosofia, e la vita filosofica, che trasforma la vita quotidiana del filoso­ fo. E , qui, è lo stesso Socrate che appare come il modello del vero filosofo. Nel contesto, Plutarco vuole farci capire che la vita politica non si limita alle attività professionali dell’uomo politico, ma permea tutta la vita; e in questo la paragona alla filosofia, la quale, anch’essa, non si limita al discorso profes­ sionale del filosofo: 78

NOTE 1. V. Goldschmidt, “Remarques sur la méthode structurale en histoire de la philosophie”, in Métaphysique et histoire de la philosophie, Recueil d’études offert à Fernand Brunner, Editions de la Baconnière, Neuchàtel 1981, p. 230. 2. A. Meillet, Bulletin de la Société de linguistique de Paris, 32, rendicon­ ti, 1931, p. 23. 3. R. Schaerer, La question platonicienne, Vrin, Paris 1969, p. 87. 4. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 3, 18, tr. it. Laterza, Bari 1962, p. 172. 5. Epitteto, Diatribe, m, 23. 6. Platone, Simposio, 215. 7. Epicuro, Gnomologium Vaticanum, 64, tr. it. in Opere (a cura di G. Arrighetti), Einaudi, Torino 1973, p. 152. 8. Epicuro, Massime capitali, 11, tr. it. in Opere, cit., p. 124. 9. Epicuro, Lettera a Pitocle, 85, tr. it. in Opere, cit., pp. 76-78. 10. Porfirio, Lettera a Marcella, 31, tr. it. Porfirio. Vangelo di un pagano (a cura di A.R. Sodano), Rusconi, Milano 1993, p. 83. 11. Sesto Empirico, Pyrrhoniae Hypotyposes,31. 12. Plutarco, De stoicorum repugnantiis, 9,1035 c. 13. Epicuro, Lettera a Erodoto, 82, tr. it. in Opere, cit., p. 72. 14. Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, tr. it. in Opere, cit., p. 78. 15. Vedi J. Souilhé, “Introduction à Épictète”, in Entretiens, Les Belles Lettres, Paris 1949, p. xxix. 16. Epicuro, Lettera a Meneceo, 135, tr. it. in Opere, cit., p. 116.

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17. Epitteto, Diatribe, i, 1,25, tr. it. Rusconi, Milano 1982, p. 79. 18. Ibidem, in, 24,103, tr. it. cit., p. 410. 19. Vedi P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Einaudi, To­ rino 2005. 20. V. Goldschmidt, “Sur le problème du système de Platon”, in Rivista Critica diStoria della Filosofia, 5,1950, p. 171. 21. Vedi P. Hadot, “La division des parties de la philosophie dans l’Antiquité”, in Museum Helveticum, 36, 1979, pp. 201-223 (vedi supra, pp 125158). 22. Epitteto, Diatribe, ili, 21,4-5, tr. it. cit., p. 365. 23. Ibidem, I, 7,32, tr. it. cit., p. 103. 24. Ibidem, iv, 4,13, tr. it. cit., p. 462. 25. Ibidem, in, 2, et III, 12. 26. Ibidem, i, 12,25-26, tr. it. cit., p. 123. 27. Ìbidem, i, 6,19, tr. it. cit., p. 96. 28. A.-J. Festugière, Épicure etsesdieux, Presses Universitaires de France, Paris 1968, p. 54. 29. Lucrezio, De rerum natura, in, 14-18 e 28-30, tr. it. Sansoni Firenze 1969, pp. 143-145. 30. Metrodoro, fr. 37, in A. Korte, “ Metrodori Epicurei fragmenta”, in ]ahrbucherfùr classische Philologie, i l , 1890, p. 557. 31. Aristotele, Le parti degli animali, 644 b-645 a. 32. Filone Alessandrino, De specialibus legibus, li, 44-48; Plutarco, De tranquillitate animae, 20,477 c. 33. Vedi P. Hadot, “Physique et poésie dans le Fimée de Platon”, inRevue de Théologie et de Philosophie, 115,1983, pp. 113-133 {infra, pp. 277-305). 34. P. Hadot, “La physique comme exercice spirituel”, in Annuaire du Collège de France, 88, 1987-1988, pp. 401-405; e “Marco Aurelio: la fisica come esercizio spirituale, ovvero pessimismo e ottimismo”, in P. Hadot, Eser­ cizi spirituali e filosofia antica, cit. 35. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 39 e 4L 36. É. Bréhier, Histoire de la philosophie, voi. 1,2, Paris 1961, p. 303. 37. Ibidem, p. 300. 38. Epitteto, Diatribe, il, 23,40-41, tr. it. cit., pp. 293-294. 39. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, xi, 169; H. Usener, Epicu­ rea, Teubner, Leipzig 1887, 219, p. 169,5 [tr. it. Bompiani, Milano 2002], 40. E. Bréhier, Chrysippe et ΐ ancien Stoicisme, Éditions des Archives Contemporaines, Paris 1951, p. 270. 41.1. Hadot, Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Vrin, Paris 1984, p. 15. 42. Vedi, per Platone, W. Wieland, Platon und die Formen des VZissens, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1982. 43. Plutarco, Maxime cum principibus philosopho esse disserendum, 1,11 he. 44. Aristotele, Politica, vii, 3, 8, 1325 b, tr. it. Laterza, Bari 1973, voi 9 pp. 228-229. 45. Filone Alessandrino, Quis rerum divinarum heres sit, 253; Legum allegoriarum libri, III, 18.

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46. Plotino, Enneadi, IV, 7 ,1 0 ,2 7 sgg. 47. Ibidem, v, 8,11. 48. Ibidem, vi, 7, 36,5 sgg. 49. Senofonte, Memorabili, IV, 4,10. 50. Plutarco, An seni respublica gerenda sit, 26, 796 c-d.

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4 LA FIGURA DEL SAGGIO NELL’A NTICHITÀ GRECO-LATINA*

Viviamo in una civiltà in cui la scienza è completamente au­ tonoma, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è questo, appunto, il problema, se non il dramma della no­ stra epoca, come ha ben rilevato G. Friedmann nel suo libro ha puissance et la sagesse.1Come può il mondo moderno ritrovare una saggezza, ossia un sapere, una coscienza che non riguardi soltanto oggetti di conoscenza, ma anche la vita stessa nel suo vissuto quotidiano, una saggezza che investa il modo di vivere e l’esistenza nella sua totalità? N ell’Antichità greco-latina, tra scienza e saggezza non c’era separazione. Le parole sophos o sophia, che traduciamo rispetti­ vamente con “saggio” o “saggezza” , quando compaiono —mol­ to presto - nella letteratura poetica o filosofica della Grecia an­ tica, indicano tanto l’abilità tecnica quanto l’eccellenza nell’arte musicale o poetica, e alludono a una capacità che è, al tempo stesso, risultato dell’educazione impartita da un maestro, frut­ to di una lunga esperienza e dono ricevuto grazie a un’ispira­ zione divina.2È ai consigli di Atena che il carpentiere, in Iliade xv, 411, deve la sua sophia, la sua abilità e il suo sapere nell’ar­ te di costruire le navi, ed è grazie alle Muse che il poeta sa che cosa deve cantare e come farlo.3 Troviamo già, qui, quello che diventerà un tratto costante dell’antica dottrina della saggez* Originariamente pubblicato in Les sagesses du monde, Convegno inter­ disciplinare sotto la direzione di G. Gadoffre, Institut Collegial Européen, Éditions Universitaires, Paris 1991, pp. 9-26.

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za: essa è, prima di tutto, una prerogativa divina, segno stesso della distanza che separa gli dei dagli uomini. L e parole sophos o sophia si applicano anche all’abilità p o ­ litica. L o vediamo, in particolare, quando gli antichi parla­ no dei Sette Sapienti, personaggi storici del vii e vi secolo a.C. diventati rapidamente leggendari, i quali possedevano al tempo stesso capacità tecnica e abilità politica. Si tratta di legislatori e educatori, come Solone. L e massime attribuite alla loro saggezza erano incise nei pressi del tempio di Delfi, e l’usanza di iscriverle su stele collocate al centro delle città era ampiamente diffusa, tanto che le si è rinvenute sin nell’an­ tica Battriana, a Ai-Khanum, sulla frontiera afghana, su una stele fatta incidere dal discepolo di Aristotele Clearco, molto probabilm ente nel m secolo. Tra queste massime com paio­ no formule celebri: “Conosci te stesso” , “ Nulla di troppo” , “Cogli l’attimo favorevole” , “Ottima è la m isura” , “È tutta questione di esercizio” .4 Queste massime delfiche avevano, tra gli altri, anche lo sco­ po di rendere gli uomini consapevoli della distanza che li sepa­ rava dagli dei, nonché dell’inferiorità del loro sapere, e quindi della loro saggezza. La saggezza più grande dell’uomo consiste nel riconoscere i propri limiti; o, ancora meglio, come dirà So­ crate, citando appunto un oracolo di Delfi: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciu­ to che in verità la sua sapienza non ha nessun valore” .5 Con il iv secolo, e più precisamente con Socrate e Platone e la riflessione sull’uso del termine philosophia (amore per la sag­ gezza), si giunge a una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio: si prende, infatti, coscienza del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l’uomo non può che riconoscere la distanza immensa che da esso lo separa. Al tempo stesso, la saggezza si identifica sempre di più con Γepisteme, ossia con un sapere concreto e ri­ goroso, che peraltro non è mai concepito come il nostro sapere scientifico moderno, poiché si tratta sempre di un savoir-faire,6 di un saper vivere, in definitiva di un certo modo di essere. In­ fatti, da Platone in poi i greci sentono profondamente che non

c’è vero sapere che non sia un sapere dell’anima tutta, tale da trasformare l’intero essere di chi lo esercita. L’oratore Isocrate, contemporaneo di Platone, concepisce già la saggezza come uno stato trascendente, e scrive, per esem­ pio, nel suo discorso Sullo scambio (Antidosis):

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Poiché non è nella natura dell’uomo raggiungere un sapere {episteme) tale da darci, se lo possedessimo, la certezza su ciò che si deve fare o si deve dire, ritengo allora saggi (sophoi), nei limiti del possibile, coloro che, grazie alle loro congetture, riescono a raggiungere molto spesso la soluzione migliore, e considero filosofi coloro che si dedicano a studi grazie ai quali acquisiranno una simile capacità di giudizio il più rapidamen­ te possibile.7

Qui, dunque, troviamo - ben distinte - la saggezza ideale, ossia un’abilità perfetta basata su un sapere assoluto e indiscus­ so, poi la saggezza compatibile con la natura umana, e infine la pratica che conduce alla saggezza, vale a dire la filosofia. Queste diverse forme di saggezza e la filosofia stessa, secondo Isocra­ te, sono connesse all’arte di vivere nella polis, ossia all’efficacia politica unita alla rettitudine nell’agire. Nel Simposio di Platone, la figura del saggio diventa ancora più ideale, e la distanza tra filosofia e saggezza ancora più ra­ dicale. Socrate vi figura, ancora una volta, come il saggio più saggio di tutti, perché sa di non essere saggio, perché sa di non sapere. Questo lo colloca a metà strada tra gli dei, che sono sag­ gi, che sanno, puramente e semplicemente, e gli uomini, che credono di essere saggi, ma non sanno di non esserlo. Questa posizione intermedia è quella del filosofo che aspira alla sag­ gezza appunto perché sa di non possederla, ed è anche quella di Eros, che ama la bellezza proprio perché non la possiede, Eros che, dunque, non è né un dio né un uomo, ma fa da in­ termediario tra gli dei e gli uomini. Come è detto nel Simposio·. Eros non è mai né povero né ricco. Anche tra sapienza (sophia) e ignoranza si trova a mezza strada [...]. Per questa ragione nessuno degli dei è filosofo [nel senso etimologico di prova­ 85

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re amore per un sapere di cui si è privi], o desidera diventare sapiente, né chi è già sapiente si applica alla filosofia. D ’altra parte, neppure gli ignoranti si danno alla filosofia né aspirano a diventare saggi; ed è proprio per questo che l’ignoranza è terri­ bile, perché chi non è né nobile né saggio crede di aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede di aver bisogno.8

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Solo colui che è stato privato della saggezza e sa di esser­ ne privo desidera tale saggezza: costui è, dunque, un filosofo. Nella classe dei non saggi ci sono, quindi, due categorie: quelli che non sono consapevoli della propria ignoranza e quelli che ne hanno coscienza, ossia i filosofi. Pertanto, la filosofia si defi­ nisce in rapporto a ciò di cui essa è priva, la saggezza, che è la prerogativa degli dei. Isocrate, come abbiamo visto, faceva distinzione tra il sag­ gio ideale, il saggio quale poteva esistere tra gli uomini e infine il filosofo. Platone, per parte sua, sembra mantenere solo i due casi estremi: il saggio ideale identificato con Dio e il filosofo. Evidentemente, la divina saggezza di cui parla Platone non è più solo una capacità politica e pratica come per Isocrate, ma è un sapere universale che ha per oggetto non soltanto le co­ se umane, gli affari della città, ma anche le cose divine, ovvero l’intero cosmo. Del resto, per Platone il sapere politico deve fondarsi su un sapere universale, capace di vedere ogni cosa alla luce dell’idea del Bene. Il saggio, qui identificato con Dio, appare, dunque, come un ideale trascendente e quasi inaccessibile. Questa concezione, come avremo occasione di ripetere, influenzerà profondamen­ te la figura stoica del saggio. Isocrate, abbiam o detto, distingueva tre figure: il saggio ideale, il saggio “um ano” e il filosofo, mentre Platone, a quan­ to sembra, individuava soltanto il saggio ideale identificato con D io e il filosofo. In realtà, però, alcuni indizi fanno su p ­ porre che il saggio “um ano” , il saggio che vive tra gli uomini, esista anche in Platone. In effetti, alla fine del Simposio, Socra­ te vince la gara di saggezza a giudizio di Dioniso, apparente­ mente solo perché resta sveglio dopo una notte intera passa­

ta a bere e a discutere, ma soprattutto perché si è dimostrato saggio per tutta la durata del dialogo;9in particolare, Alcibia­ de, facendone l’elogio, mostra come egli possieda al massimo grado concentrazione di spirito, forza e temperanza.10Soprat­ tutto, in un altro passo —del Teeteto - Platone afferma che il compito del filosofo consiste neH’assimilarsi a Dio, dunque, nel diventare simile al saggio ideale, per quanto possibile (e questa limitazione fa misurare tutta la distanza che separa la realtà umana dall’ideale divino). “Assimilarsi a Dio , preci­ sa Platone, “è acquistare giustizia e santità, e insieme sapien­ za.”11 Un progresso spirituale è, dunque, possibile; il filosofo può sperare di diventare non il saggio ideale e divino, bensì un saggio tra gli uomini, cosciente della distanza che lo sepa­ ra dagli dei - posizione alquanto scomoda, come dimostra la sorte dello stesso Socrate. Pertanto, compito del filosofo sarà praticare la saggezza nella vita, nonché descrivere il saggio ideale nel discorso filo­ sofico; questa descrizione diventa il tema degli esercizi orali che si eseguono nelle scuole filosofiche, e sarà oggetto di nu­ merosi trattati. Il m odo di porre i problem i filosofici risulta spesso condizionato da questa figura del saggio ideale. Così, nel libro i della Metafisica, per descrivere come dev’essere la filosofia prima, Aristotele prende come punto di partenza le opinioni tradizionali sul saggio: il saggio sa tutto, anche le co­ se più difficili, il suo sapere si accompagna alla certezza e si rapporta alla causa stessa delle cose; il suo sapere è determina­ to, domina gli altri saperi e conosce il fine al quale è connessa ogni cosa.12 Analogamente, le discussioni sulla possibilità di una conoscenza sicura, che vedono contrapporsi gli stoici e gli accademici dell’epoca (ossia quelli della scuola di Arcesilao), vertono di fatto sul possibile consenso del saggio a questa o a quella rappresentazione.13 Sappiam o che in tutte le scuole si discuteva della condotta del saggio nelle circostanze im por­ tanti della vita umana: doveva fare politica? Doveva sposarsi? Poteva montare in collera?14 Del resto, ci sono pervenuti di­ versi trattati filosofici dedicati alla discussione di vari aspetti della figura del saggio, per esempio quello di Filone Alessan­

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drino sulla libertà del saggio o quello di Seneca sulla costanza del saggio, o anche vari libri delle Tuscolane di Cicerone; e nei frammenti delle opere dei primi stoici che ci sono rimasti, gli accenni a questo tema sono frequenti. Quale descrizione del saggio si dà nelle diverse scuole filoso­ fiche? Il punto fondamentale, come abbiamo visto a proposito di Platone, è il seguente: la figura del saggio viene identificata con quella di Dio, e ne consegue che la descrizione di Dio nelle diverse scuole corrisponde all’idea del saggio propria di ciascu­ na di esse. E vero che si rappresenta il saggio con tratti umani e nell’atto di vivere una vita umana, ma si trasferiscono su Dio le qualità morali caratteristiche del saggio. Questa· descrizione di D io potrebbe essere chiamata “teologia del saggio” . A tale proposito Michelet scrisse nel suo Diario15una frase illuminan­ te, in data 18 marzo 1842: “L a religione greca finisce con il suo vero Dio: il saggio” . E d è ben vero che in Platone, ma anche nell’aristotelismo, nell’epicureismo e nello stoicismo, la figura di D io è anzitutto un “paradigma etico”, per riprendere l’ec­ cellente espressione di K. Schneider.161 greci avevano sempre attribuito agli dei un sapere e un potere sovrumani e trascen­ denti; ma, nel iv secolo a.C., all’elemento della potenza divina si aggiunge quello della perfezione morale. Si resta comunque nell’antropomorfismo, giacché tale perfezione è concepita co­ me una perfezione umana portata al livello più alto. Nello stesso Platone, Dio appare dotato di qualità morali. Nel Libro ili della Repubblica, Platone ci dice che Dio è buono, veritiero e semplice; nel Fedro (246 d) è definito bello, saggio e buono; e il Demiurgo del Timeo (29 e-30 a) è buono, privo di invidia, sempre desideroso di creare il meglio. Lo stesso passaggio dalla figura del saggio alla figura di Dio si può notare in Aristotele, il quale rappresenta il saggio con i tratti del contemplativo e del sapiente che si dedica allo studio dei fenomeni della natura e delle sue cause ultime; ma, osserva il filosofo, la condizione umana rende fragile e intermittente questo esercizio del pensiero, prolungato nel tempo ed espo­ sto all’errore e all’oblio. Tuttavia, si può immaginare, spingen­ dosi al limite, uno spirito il cui pensiero si eserciti in un eterno

presente; sarebbe un pensiero che pensa se stesso, in un atto eterno.17 Il Dio di Aristotele si presenta, quindi, come il sag­ gio perfetto e il modello di ogni umana saggezza. Secondo ΓΕtica Nicomacheafi i rari momenti in cui il filosofo, o il saggio tra gli uomini, riesce a esercitare la sua attività di pensiero e di contemplazione costituiscono i momenti di maggior piacere e felicità che siano accessibili all’uomo. A tali rari momenti, il li­ bro xii della Metafisica19 contrappone l’eternità della gioia del pensiero divino; del resto, quei rari momenti di pensiero p u ­ ro, secondo il libro x dell’Etica Nicomachea,20sembrano essere al di sopra della condizione umana, come una vita divina che travalica la vita umana e che, tuttavia, corrisponde a ciò che è più proprio all’uomo, ovvero la vita secondo lo spirito. Vi è qui un tema fondamentale che ritroveremo ancora: la saggezza è lo stato in cui l’uomo è, al tempo stesso, essenzialmente uomo e al di sopra della condizione umana, come se l’essenza dell’uomo consistesse nel suo elevarsi al di sopra di se stesso. Anche per Epicuro la figura del saggio viene a coincidere con quella di Dio; ma la saggezza non consiste più nell’eserci­ zio del pensiero, bensì nella pace dell’anima e nella purezza del piacere. Per questo la teoria atomista e materialista dell’univer­ so è così importante per lui: essa gli permette di affermare che gli dei non hanno avuto a che fare in alcun modo con la crea­ zione e Γ amministrazione del mondo. Pertanto, l’essenza del divino non sta nella potenza creatrice, ma nel modo di essere: la pace, il piacere, la gioia. Come dice Lucrezio:21

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Ché infatti gli Dei devono in alta eterna quiete trascorrere il tempo, una vita immortale lontana da noi, dai casi umani divisa e da rischi e pericoli immune; e forti e potenti in se stessi né di noi bisognosi; né i meriti nostri li allettano né l’ira li muove a punirci.

Tuttavia, nella concezione degli epicurei la distanza tra gli dei e gli uomini tende a ridursi; in un certo senso, essa è soltan­ to spaziale e temporale. Infatti, gli dei vivono in quelli che gli

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Epicuro vuol dire che anche Colote è un saggio e ha diritto a onori immortali. Comunque sia, i discepoli di Epicuro con­ siderano il loro maestro come un autentico salvatore, lo riten­ gono portatore di un messaggio di salvezza e provano per lui un amore intenso, che li spinge a imitarlo.24 Ogni cosa deve essere fatta, diceva lo stesso Epicuro, come se Epicuro ne fos­ se testimone.25 Del resto, i seguaci della scuola epicurea si cir­ condavano di ritratti del fondatore e ogni anno la comunità dei discepoli festeggiava l’anniversario del maestro con un pasto frugale, come quello che evoca Filodemo in uno dei suoi epi­ grammi.26Questo culto di Epicuro non ha nulla di grandioso o di solenne, ma è impregnato dell’atmosfera che il filosofo ave­ va saputo dare al movimento spirituale di cui era stato ispira­ tore: serenità, sorriso, benevolenza, amicizia, semplici piaceri, frugalità, distensione - che sono poi i sentimenti che animano

la pietas degli epicurei nei confronti degli dei. Per loro, gli dei sono modelli di serenità, di pace, di semplice gioia; sono degli amici, dei sodali che si invitano per fare festa, in letizia, in oc­ casione delle solennità religiose e che, a loro volta, invitano i saggi a partecipare alla loro vita beata.27 Vivere come gli dei è estremamente semplice, almeno in apparenza. Dice una sen­ tenza epicurea: “Non aver fame, non aver sete, non aver fred­ do; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità” .28Apparentemente, come si diceva, sem­ plicissimo. Ma perché, se non si ha fame né sete né freddo, si può essere pari a Zeus? Perché si è in grado di gioire di questo stato. Ma per poterlo fare, occorrono due cose molto difficili da raggiungere. D a un lato, bisogna aver imparato a sopprime­ re dentro di sé tutti i desideri superflui, che, secondo gli epi­ curei, non sono naturali né necessari - e questo è il risultato di un’ascesi, della rinuncia a tutto ciò che affascina gli uomini, come la ricchezza, la gloria, il lusso, la voluttà sfrenata. Dall’al­ tro, questo presuppone —anche se gli epicurei non lo dicono esplicitamente —che si sia capaci di gioire di tutto ciò che co­ stituisce il piacere dell’esistenza divina, ovvero il piacere della coscienza di esistere. Come ha ben rilevato E. Hoffmann,29 per il fatto stesso di considerare l’esistenza come un puro caso, un successo inat­ teso, l’epicureo l’accoglie con immensa gratitudine, come una sorta di miracolo, come se fosse qualcosa di divino. Anche il saggio degli stoici è pari a Zeus; ma in questo caso non si tratta di eguaglianza nel piacere, bensì di eguaglianza nella purezza dell’intenzione morale e nella virtù, ossia, in defi­ nitiva, di eguaglianza nella perfezione della ragione. Le virtù di Dio non sono superiori a quelle del saggio.30Il Dio stoico non è altro che la Ragione, concepita come una forza organizzatrice immanente al mondo, che produce con ordine tutti gli eventi cosmici. La ragione umana è un’emanazione, una parte, di tale ragione universale, ma può offuscarsi o deformarsi in conse­ guenza della vita nel corpo, per le lusinghe del piacere. Solo il saggio può riportare la propria ragione alla perfezione e farla nuovamente coincidere con la ragione universale.

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epicurei chiamano intermondi, ossia gli spazi vuoti tra i mon­ di, per sfuggire alla corruzione insita nel movimento degli ato­ mi, e dunque i loro corpi sottili, di forma umana, sono eterni. Così, gli dei non sono altro che saggi eterni, e i saggi sono di­ vinità mortali. I saggi, come lo stesso Epicuro, sono eguali agli dei, simili agli dei, e sono dei tra gli uomini.22 A questo propo­ sito possediam o una testimonianza interessante, che si trova in una lettera di Epicuro.23 Un giorno, probabilmente durante uno dei suoi corsi, Epicuro stava esponendo la sua teoria della natura, quando improvvisamente il suo discepolo Colote cad­ de alle sue ginocchia: Come se tu fossi colto da ammirazione per le nostre parole [racconta Epicuro], ti sorse il desiderio, non giustificabile per cause naturali, di avvinghiarti alle nostre ginocchia: e questo modo di afferrare di solito si ha quando si venerano e si sup­ plicano alcune persone. Così facevi, in modo che anche noi fossimo portati a ricambiare il tuo onore e la tua venerazio­ ne. [...] Tuttavia, questo atto di venerazione, quantunque ben compiuto da parte di Colote, non ebbe un degno frutto. Non fu chiamato, infatti, saggio, bensì soltanto gli fu detto: “Avan­ za immortale ai miei occhi, e considera noi pure im m o r t a li ”

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È negli stoici che i paradossi insiti nel concetto di saggio si affermano con più evidenza. Prima di tutto, per gli stoici il sag­ gio è un essere d ’eccezione: ce ne sono pochissimi, forse uno, o addirittura nessuno. Per gli stoici, quindi, la figura del saggio è un ideale quasi inaccessibile, più una norma trascendente che una figura concreta, come era invece quella di Epicuro. Per questo, lo stoico Crisippo scrive, nel III libro del suo trattato Sulla giustizia·. “Per la loro eccessiva grandiosità e bellezza, le cose che diciamo sembrano simili a finzioni, estranee all’uomo e alla natura umana” .31 Ritroviamo qui il paradosso che avevamo già visto in Aristo­ tele: la saggezza corrisponde alla cosa più essenziale per l’uomo - vivere secondo la ragione e lo spirito - e, al tempo stesso, gli appare estranea, sovrumana. Per gli stoici, come per il Socrate del Simposio di Platone, c’è una distanza immensa tra il filosofo e il saggio, per la sem­ plice ragione che il filosofo, dato che si esercita a praticare la saggezza, non è un saggio, è un non-saggio. Vi è, dunque, op­ posizione di contraddizione tra il saggio e il non-saggio: o si è saggi o non si è saggi, non c’è via di mezzo. Rispetto alla sag­ gezza, nella non-saggezza non vi sono gradi intermedi. Non fa differenza, dicono gli stoici, se ci si trova a un cubito o a cinque­ cento braccia di profondità sott’acqua: si annega comunque. N e consegue - ed ecco un altro paradosso - che, dato che il saggio è estremamente raro, per non dire inesistente, tutta l’u­ manità è insensata. Eppure la ragione umana è un’emanazione della ragione divina; ma l’attrazione del piacere, la forza delle passioni, provoca negli uomini la corruzione, una deviazione pressoché totale dalla ragione. L a contrapposizione radicale tra la saggezza e la non-saggezza ha una conseguenza che è un ulteriore paradosso. Non si diventa saggi a poco a poco, in maniera progressiva, ma con una trasformazione istantanea, definitiva e sostanziale, così re­ pentina che il saggio non può averne coscienza nel momento in cui essa si verifica. Tuttavia - e qui abbiamo ancora un paradosso - gli stoici invitano gli uomini a filosofare, ossia a esercitarsi alla saggez­ 92

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za: quindi, essi credono alla possibilità di un progresso spiri­ tuale. Il fatto è che, se è vero che esiste un’insormontabile op­ posizione di contraddizione tra la saggezza e la non-saggezza, e quindi che, da questo punto di vista, non vi sono gradi di­ versi nella non-saggezza, tuttavia, all’interno dello stato stesso di non-saggezza ci sono due categorie, come abbiamo visto a proposito del Simposio di Platone: i non-saggi inconsapevoli della loro condizione (la maggior parte degli uomini) e i non­ saggi che ne sono consapevoli e cercano di progredire nella ri­ cerca dell’inaccessibile saggezza (i filosofi). Dal punto di vista logico c’è, dunque, un’opposizione di contrarietà tra i saggi e gli inconsapevoli, considerati insensati, e questa opposizione di contrarietà ammette una posizione intermedia: i filosofi.32Lo scrittore satirico Luciano, nel suo Ermotimo, si beffa di questa ricerca senza fine: Guardando a chi, dunque, filosoferai, se né il tuo maestro, né il maestro del tuo maestro, né quello che lo precede, nessuno, anche se risalissi alla decima generazione, è stato un saggio per­ fetto? Né potresti dire che basta avvicinarsi il più possibile alla felicità: sarebbe inutile, giacché chi sta presso la porta è fuori, allo scoperto, esattamente come chi si trova più in là; con que­ sta differenza, che chi vede più da vicino ciò di cui è privo sof­ fre di più. E per avvicinarti alla felicità [...] ti affanni tanto? E hai trascorso la maggior parte della tua vita nell’abnegazione di te stesso, tra veglie e studi; e faticherai per altri vent’anni alme­ no, dici, per ritrovarti forse a ottant’anni (e chi ti garantisce che arriverai a quell’età?) tra quelli che non sono ancora felici?33

Comunque sia, il saggio ideale sarebbe quello che fosse ca­ pace di riconoscere in ogni evento dell’universo e della vita la ragione divina all’opera, di percepire il necessario ordine ra­ zionale che governa la concatenazione degli avvenimenti, e di consentire a tale ordine in ogni momento, o meglio, più preci­ samente, di volere intensamente ogni evento, ogni effetto cau­ sato dalla ragione divina. È quello che esprime il motto stoico: vivere secondo natura. Vivere secondo natura significa volere tale ordine razionale universale. In verità, questa è la sola cosa 93

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che dipende unicamente da noi: tutto il resto - malattia o sa­ lute, povertà o ricchezza, oscurità o gloria, morte o vita - non dipende da noi, ma da circostanze indipendenti dalla nostra volontà, dalla concatenazione degli eventi nel mondo. Tutto ciò è indifferente al saggio, o meglio, il saggio non fa differenza tra queste cose, ma le accetta e le ama tutte allo stesso modo, perché sono inevitabilmente connesse all’ordine del mondo. La virtù, ossia il bene morale, consiste appunto in questo atto di libertà, che invece dipende da noi e fa coincidere la nostra volontà con quella della ragione universale. Non c’è altra fe­ licità che il bene morale, ossia la virtù. Il saggio stoico pratica l’eroismo della coscienza morale. La figura del saggio stoico, quindi, presuppone un tale stato di perfezione che si capisce che sia più un ideale trascendente che una realtà concreta. Una simile figura appare strana e para­ dossale se la si considera dal punto di vista della vita quotidiana e delle scelte dell’umanità media; e, infatti, la descrizione dello stato naturale della società delineata dallo stoico Zenone nella sua Repubblica aveva qualcosa di scandaloso, proprio perché egli ne faceva la vita di una comunità di saggi.34 Nella Repubbli­ ca di Zenone c’è una sola patria, il mondo stesso; non ci sono leggi, giacché la ragione del saggio basta a prescrivergli come deve comportarsi, né tribunali, perché il saggio non commette colpe; non ci sono templi, “perché gli dei non ne hanno biso­ gno, ed è assurdo considerare sacre delle costruzioni che sono opera dell’uom o” ; non c’è denaro, non ci sono leggi sul matri­ monio, ma la libertà di unirsi con chi si vuole, anche in modo incestuoso; e non ci sono leggi sulla sepoltura dei morti. Qui si nota che l’atteggiamento del saggio nei confronti delle con­ venzioni sociali è legato a un certo rifiuto della civiltà, all’idea di uno stato di natura superiore a qualunque organizzazione sociale e politica - stato di natura in cui è possibile vivere per­ ché tutti i cittadini sono saggi. La civiltà e la cultura servono solo agli uomini che non sono più saggi. Del resto, la saggezza basta a tutto. Non soltanto il saggio è infallibile, impeccabile, felice, liberò, bello, ricco, ma è an­ che l’unico statista, l’unico legislatore, l’unico generale, l’unico

poeta, l’unico re. Ciò significa, prima di tutto, che il saggio pos­ siede la sola libertà autentica e la sola vera ricchezza, ma vuol dire anche che, dal momento che la saggezza è la perfezione della ragione, la ragione del saggio gli permetterebbe, se fos­ se necessario, di esercitare alla perfezione tutte queste attività. Il filosofo stoico sa bene che non potrà mai realizzare ta­ le figura ideale del saggio, ma essa lo affascina, suscita in lui entusiasmo e amore, lo esorta a vivere meglio e a prendere coscienza della perfezione che egli si sforza di raggiungere. Il filosofo si chiede, in ogni circostanza: “Che cosa farebbe il saggio in questo caso? ” . È per tale filosofo impegnato nella vita quotidiana, cittadino della città terrestre, che già gli stoici an­ tichi - e non soltanto quelli più tardi, come a volte si è pensa­ to - hanno elaborato la teoria dei doveri o delle funzioni, che prescrive che cosa è ragionevole fare nei rapporti con gli dei, con gli uomini e con se stessi. Tuttavia, la vita morale, per lo­ ro, non consiste nell’adempiere scrupolosamente alle norme prescritte, ma nell’utilizzare queste pratiche come occasione per esercitare la ragione e la virtù. Ma questa morale dei dove­ ri non eclissa assolutamente la norma superiore rappresentata dal saggio, poiché solo il saggio è capace di compiere questi doveri alla perfezione, senza peraltro aver bisogno di precetti, dato che, come abbiamo visto, è lui l’unico vero magistrato, l’unico vero generale, l’unico vero re. L a morale dei doveri non eclissa la figura del saggio, ma permette di reintrodurre, al di sotto del saggio assolutamente perfetto, il saggio più umano che Isocrate collocava tra il sag­ gio ideale e il filosofo, ovvero quel saggio relativo che, in modo imperfetto, per via congetturale, raggiunge molto spesso la so­ luzione migliore. Questa figura ricompare in Cicerone35 e poi in Seneca,36il quale parla di uomini virtuosi “di seconda classe” (.secundae notae), giacché l’uomo virtuoso di prima classe, os­ sia il saggio ideale, “nasce forse, come la Fenice, una volta ogni cinquecento anni” . Per Cicerone, l’uomo virtuoso di seconda classe può essere un politico o un soldato, famoso nella storia romana, che ha praticato determinate virtù di coraggio, dirit­ tura morale e onestà in modo particolarmente fulgido. Qui si

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vede spuntare la reazione realistica del romano rispetto a una presunta astrazione filosofica greca; ma non sono sicuro che il concetto di uomo virtuoso {vir bonus), in contrapposizione al saggio ideale, sia stato inventato dallo stoicismo romano. Ro­ mani sono gli esempi scelti, ma il concetto in se stesso forse no. Preferirei pensare che questa idea sia nata in virtù della logica stessa del sistema stoico. A partire dal momento in cui si am­ mette la possibilità di un progresso spirituale, bisognerà ben riconoscere che questo progresso può giungere a un risultato, a una certa perfezione, più o meno relativa. Coloro che progre­ discono possono legittimamente sperare di diventare, se non saggi, almeno uomini virtuosi. D ’altronde - e questo mi sem­ bra molto importante - la figura del saggio ideale non è stata proiettata nell’assoluto in maniera astratta, non è una costru­ zione puramente teorica; viceversa, come si può osservare in Platone, nella figura di Socrate, o in Seneca, in quella di Cato­ ne l’Uticense, che egli ritiene essere uno di quei rarissimi saggi che compaiono una volta ogni cinquecento anni, la figura del saggio perfetto corrisponde, in definitiva, all’idealizzazione, alla trasfigurazione, alla canonizzazione, per così dire, di figu­ re ben concrete, che sono appunto gli uomini virtuosi, questi saggi che vivono in mezzo agli uomini.

nioni, ai pregiudizi, ai dettami della città sia ai capricci del de­ siderio e della passione. Tale nocciolo di libertà inespugnabile è insito nella facoltà di giudizio, come diranno, in modo con­ vincente, Epitteto nel suo Manuale·. “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti” ,38o Marco Aurelio: “Nulla di quanto ci è indifferente può produrre in noi particolare apprezzamento; nulla giunge sino a noi, le cose restano dove sono” .39 In altre parole: le cose agisco­ no su di me solo nella misura in cui io le trasformo in rappre­ sentazioni. Ora, io sono libero di pensare quello che voglio e di scegliere le rappresentazioni che voglio. La grande distinzione stoica tra le cose che dipendono da noi (i nostri giudizi) e le co­ se che non dipendono da noi (le cose) definisce precisamente quel nocciolo inespugnabile della personalità. In tal modo, la figura del saggio permette all’io di prende­ re coscienza della sua capacità di liberarsi da tutto ciò che gli è estraneo e di rendersi indipendente. E la famosa autarkeia, la qualità che tutte le scuole rivendicano per il “loro” saggio, e che i filosofi cercano di raggiungere. Libertà e indipendenza garantiscono la pace interiore, Yataraxia. Questa pace, questa tranquillità dell’anima è il valore più alto dell’Antichità, che è affascinata dall’immagine dell’uomo capace di rimanere imperturbabile nel bel mezzo delle avver­ sità, dei disordini della città e delle catastrofi cosmiche:

Dopo questa brevissima esposizione a proposito della rap­ presentazione del saggio nelle grandi scuole filosofiche, vorrei ora cercare di ricavarne il significato storico e antropologico. Prima di tutto, direi che la comparsa della figura del saggio corrisponde a una presa di coscienza sempre più netta dell’io, della personalità, dell’interiorità. Tale movimento di presa di co­ scienza è inaugurato dalla formula socratica: “Prenditi cura di te stesso”,37che rivela all’individuo che egli può dirigere la propria vita e che il suo io ha un valore proprio, importante tanto quanto quello dell’intera città. Platonismo, aristotelismo, epicureismo, stoicismo sono concordi nel riconoscere la libertà interiore; e il saggio è, per l’appunto, colui che ha saputo conquistare questa libertà interiore, questa libertà di pensiero secondo la norma della religione e della natura, che può contrapporsi sia alle opi­ 96

All’uomo giusto e tenace nei suoi propositi non scrolla il saldo animo il furore del popolo che imporre vorrebbe iniquità, né il volto d’un minaccioso tiranno, né l’Austro turbinoso signore dell’inquieto Adriatico, né la mano possente di Giove che scaglia fulmini; se l’orbe terrestre precipiti infranto, il suo rovinare lo investirà imperterrito.40

Il filosofo che si esercita alla saggezza cercherà di costituir­ si quel famoso nocciolo di libertà interiore inespugnabile, per mezzo di esercizi spirituali di controllo e di attenzione a sé, di 97

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esami di coscienza, di sforzi di volontà e memoria, che gli ga­ rantiranno libertà di giudizio e indipendenza dai desideri e dal­ le passioni. In questo modo si sviluppa tutta una vita interiore che, nei platonici, negli aristotelici e negli stoici, si concentra sullo spirito o daimon presente all’interno dell’uomo. In particolare, ritengo che sia necessario capire bene che co­ sa rappresenta esattamente la presa di coscienza dell’io, di cui si diceva. In effetti, non credo che si possa essere d ’accordo con Michel Foucault, quando scrive, a proposito di tale rapporto con se stessi: “A questo tipo di piaceri violenti, incerti e prov­ visori, l’accesso a se stessi è suscettibile di sostituire una for­ ma di piacere che nasce dall’animo stesso, in perfetta serenità e per sempre” . E Foucault cita, per chiarire la sua affermazio­ ne, la Lettera a Lucilio 23, 3-6 di Seneca. Qui, secondo me, ci sono molte inesattezze. Prima di tutto, nel testo di Seneca non si parla di piacere (voluptas) ma di gioia (gaudium), e la diffe­ renza è fondamentale per gli stoici; ma soprattutto, se si legge il testo di Seneca, ci si accorge che dice all’incirca il contrario di quello che gli mette in bocca Foucault: “Volgi lo sguardo (.specta) al vero bene e gioisci (gaude) di ciò che ti appartiene {de tuo). Mi domandi che cosa ti appartiene? Sei tu stesso e la parte migliore di te” .41 Se si confronta questo testo con quello della Lettera 124,23, troviamo una serie di equivalenze: il vero bene è ciò che appar­ tiene in proprio all’io; ciò che appartiene in proprio all’io è l’io stesso, e la parte migliore dell’io; questa parte migliore dell’io non è altro che la ragione perfetta, ossia la ragione divina, co­ me abbiamo già visto. La parte migliore dell’io è, dunque, un io trascendente, il daimon al quale si accennava prima, o, per Ari­ stotele, lo spirito, che è qualcosa di divino e sovrumano. Quin­ di, Seneca non trova la sua gioia in Seneca, ma trascendendo Seneca, scoprendo di potersi elevare, lui Seneca, a un livello superiore di esistenza dove non è più Seneca, ovvero il Seneca limitato nel tempo e nello spazio, ma la ragione universale, lo spirito, il daimon che era in Seneca e che Seneca è diventato, identificandosi con esso. In questo modo egli è passato dall’in­ dividualità all’universalità. Si potrebbe anche dire: è diventato

il saggio trascendente che è in Seneca e che è, in un certo senso, l’io superiore di Seneca. Qui, ancora una volta, l’uomo appare, in ciò che gli è più proprio, come qualcosa che lo trascende, o meglio, per essere più precisi, il vero io di ogni individuo tra­ scende l’individuo stesso. Evidentemente, nella dottrina epicurea non si trova l’idea di un io trascendente. Ciò non toglie che nemmeno il saggio epi­ cureo trovi il suo piacere in se stesso, bensì in qualcosa d’altro, come l’amicizia con altri filosofi, la contemplazione dell’im­ mensità del mondo, la meraviglia al cospetto di questa specie di grazia inattesa che è la vita. Uno degli elementi più importanti della figura del saggio nell’Antichità è proprio il suo rapporto con il mondo, con il co­ smo. B. Groethuysen ha giustamente insistito su questo punto: “La coscienza che il saggio ha del mondo è una cosa che gli è propria. Solo il saggio non smette mai di avere il tutto costantemente presente allo spirito, non dimentica mai il mondo, pensa e agisce in relazione al mondo. [... ] Il saggio fa parte del mondo, è cosmico. Non si lascia [...] staccare dall’insieme cosmico” .42 Il motto dell’antico saggio si esprime nella formula di Se­ neca: “ Loti se inserens mundo” ,43 “immergendosi nella tota­ lità dell’universo” . G ià Platone {Timeo, 90 d) raccomandava di correggere le nostre orbite mentali, per conformarle alle orbite armoniose dell’universo. Quanto al saggio stoico, egli ricolloca ogni momento della vita nella natura, nella prospetti­ va del cosmo, si conforma alla volontà della natura; dice all’u ­ niverso, come Marco Aurelio {Ricordi, x, 21): “Amo con te” , ossia amo ciò che tu ami produrre; si domanda anche, come lo stesso Marco Aurelio {Ricordi, III, 1 1 ), a proposito dei fatti della vita, “ quale vantaggio possano arrecare e a quale ordine del mondo, per stabilirne il valore esatto rispetto all’univer­ so e all’uom o” . Anche il saggio epicureo, come scrive L. Robin nel suo com­ mento al poema di Lucrezio, “si colloca nell’immobilità, indipendente dal tempo, della natura eterna” .44Grazie alla dottrina fisica di Epicuro, si immerge anche lui nell’infinità dei mondi e nell’abisso del cosmo, come dice l’epicureo Metrodoro:

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Ricordati che, nato mortale, con una vita limitata, ti sei innalzato, grazie alla teoria della natura, fino all’eternità e all’infinità delle cose, e che hai visto tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà.45

La figura del saggio comporta, dunque, due dimensioni che sono totalmente estranee all’uomo della vita quotidiana, cioè la libertà interiore e la coscienza cosmica, e così fa scoprire al filosofo che ci sono cose più essenziali, più vitali, più urgenti delle occupazioni e delle convenzioni della vita sociale e poli­ tica. Come dirà molti secoli dopo Nietzsche: “A questo tendo­ no tutti gli ordinamenti dell’uomo, a fare cioè in modo che la vita, in una continua distrazione dei pensieri, non venga senti­ ta” .1,1Come abbiamo visto nella Repubblica di Zenone, conce­ pita come una repubblica di saggi, la figura del saggio è legata alla rappresentazione di uno stato di natura, in cui l’uomo non

ha bisogno della costrizione delle leggi e delle istituzioni per sapere che cosa deve fare - stato di natura in cui anche l’uomo non è più separato dall’universo a causa delle barriere dell’a­ bitudine e delle convenzioni. Tuttavia, bisogna pure che il saggio viva tra gli altri uomini, nella città. Egli può, evidentemente, rifiutare i vincoli sociali, secondo l’ideale del saggio cinico, con l’impudenza di un D io­ gene. Senza impudenza, ma con fermezza, può anche fare co­ me quel senatore romano del ili secolo, Rogaziano, discepolo di Plotino, il quale, il giorno stesso in cui doveva assumere la carica di pretore, rinunciò a tutte le sue funzioni, lasciò tutti i suoi beni, liberò i suoi schiavi e decise che da quel momento avrebbe mangiato solo a giorni alterni.48Può anche, come l’im­ peratore Marco Aurelio (Ricordi, vi, 13), abituarsi a praticare l’esercizio spirituale della definizione “naturale” , “fisica” del­ le cose, definizione destinata a rivelare quello che le cose sono in se stesse, indipendentemente dai pregiudizi e dalle conven­ zioni della civiltà. “E possibile”, scrive Marco Aurelio, “rag­ giungere un chiaro concetto di ciò che può essere un cibo; per esempio, questo è il cadavere di un pesce; questo il cadavere di un uccello o di un maiale. [...] La porpora è formata di peli di pecora imbevuti del sangue di una conchiglia. ” Così il saggio manterrà la sua libertà di giudizio, nel bel mezzo di quella che possiamo ben definire la commedia umana. Del resto, alcuni saggi hanno adottato nei confronti della vita umana - così come essa è vissuta dai comuni mortali - un atteggiamento di apparente conformismo, che in realtà corri­ sponde, intimamente, a un’assoluta indifferenza, che preserva la serenità e la pace interiore. È il caso di Pirrone, che gli scet­ tici dichiarano essere il loro ispiratore, e a proposito del quale un antico storico riporta il seguente aneddoto: “Visse piamen­ te insieme con la sorella, che era levatrice; [...] talvolta porta­ va a vendere al mercato, secondo i casi, uccellini o maialetti, e faceva le pulizie di casa con perfetta indifferenza” .49 In que­ sto caso, a quanto pare, il saggio non si distingue dall’uomo comune; tutto sta nella libertà interiore. Mi viene spontaneo accostare questa storia a quello che racconta Tchouang Tseu a

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È appunto questa la meravigliosa possibilità che la figura dell’antico saggio ci fa intravedere: la vita, per quanto breve, può essere interpretata come un passaggio per l’infinito; il saggio, grazie a quei pochi istanti di vita che la natura gli concede, diven­ ta in un certo qual modo la coscienza stessa dell’universo, si dila­ ta nell’immensità del cosmo, e così ha accesso alla visione dello splendore della vita universale. G li antichi hanno ben descritto l’incoscienza in cui vivono gli uomini, quella che si potrebbe de­ finire la loro cecità nei confronti dell’universo; il che fa supporre che solo il saggio sappia vedere il cosmo. Come scrive Lucrezio, dopo aver evocato l’azzurro del cielo e lo splendore del sole: Se questo spettacolo adesso i mortali per la prima volta vedessero, scoperto così all’improvviso, che cosa diremmo noi di più stupendo o meno credibile a genti che vissero prima? Nulla, mi pare; tanto sarebbe una tale visione ammirabile. Ma oggi chi c’è che ancora si degni di guardare ammirato le volte del cielo, che stanco non sia a quella vista?46

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proposito di Lieh Tzu: “Rimase tre anni senza uscire di casa. Aiutava la moglie nelle faccende di casa e dava da mangiare ai maiali come se fossero stati esseri umani. Divenne indifferente a tutto ed eliminò ogni orpello, per ritrovare la semplicità” .50 Questo ritorno alla vita più semplice e più umile, soprattut­ to se vissuto in una condizione di indifferenza e libertà inte­ riore assolute, è in un certo senso un ritorno allo stato di natu­ ra, l’abbandono di ogni artificio, di qualunque regola formale. In Epicuro troviamo una tendenza analoga. L a rinuncia ai desideri superflui, ai desideri che non sono naturali né neces­ sari, riporta alla semplicità della natura: “ Siano rese grazie alla beata Natura” , diceva Epicuro, “che ha fatto sì che le cose ne­ cessarie siano facili da ottenere e che le cose difficili da ottene­ re non siano necessarie” .51 In un certo senso, la teoria dei doveri o delle funzioni appa­ re anche negli stoici come una sorta di conformismo che lascia intatta la libertà interiore. Il saggio compirà i suoi doveri di padre di famiglia, cittadino, uomo di Stato, prendendoli come occasioni per realizzare l’unica cosa necessaria, la vita confor­ me alla natura e alla ragione universale. Contrariamente a un’opinione molto diffusa e radicata, gli antichi saggi non rinunciano all’attività politica. In nessuna scuola filosofica dell’Antichità, in effetti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un’azione sugli altri uo­ mini; e se l’ampiezza che egli vuole dare alla sua attività varia secondo le scuole, l’obiettivo è, però, sempre lo stesso: conver­ tire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro cerca di farlo creando piccole comunità ferventi, in cui regna un’atmosfera amiche­ vole e sorridente. Platonici, aristotelici e stoici, per parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle co­ stituzioni o sui sovrani. Tra l’altro, in tutte le scuole si trovano descrizioni del sovrano ideale, più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, cercano di agire per mezzo dell’esempio convincente dato dal loro modo di vivere. In ogni caso, sarebbe sbagliato pensare che la figura del sag­ gio, che il filosofo descrive e imita, autorizzasse un comporta­ mento di fuga e di evasione, lontano dalla realtà quotidiana e

dalle lotte della vita sociale e politica. Per prima cosa la figura del saggio invita il filosofo all’azione, non soltanto interiore, ma anche esteriore: “Agire secondo giustizia al servizio della comu­ nità umana”, scrive Marco Aurelio (Ricordi, vili, 54 e ix, 6); ma soprattutto, questa figura del saggio è, mi sembra, in qualche modo ineluttabile. Essa è l’espressione necessaria della tensione, della polarità, del dualismo che è insito nella condizione umana. Da una parte, infatti, l’uomo ha bisogno, per sopportare la sua condizione, di inserirsi nel tessuto dell’organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e confortevole del quotidiano. La sfera del quotidiano, però, non lo protegge del tutto: l’uomo si ritrova inevitabilmente a confrontarsi con quello che potremmo chiamare l’indicibile, con il terribile enigma del suo essere là, in quel preciso momento, consegnato alla morte, nell’immensità nel cosmo. Prendere coscienza di sé e dell’esi­ stenza del mondo è una rivelazione che infrange la sicurezza dell’abituale e del quotidiano. L’uomo di tutti i giorni cerca di eludere l’esperienza dell’indicibile, che gli appare vuota, assur­ da o terrificante. Alcuni uomini osano affrontarla: per costoro, è la vita quotidiana che appare invece vacua e abnorme. La fi­ gura del saggio risponde perciò a un’esigenza indispensabile: quella di unificare la vita interiore dell’uomo. Il saggio sarebbe allora l’uomo capace di vivere su due piani: perfettamente in­ serito nella vita quotidiana, come Pirrone, eppure immerso nel cosmo; dedito al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella sua esistenza interiore; consapevole, eppure sereno; mai dimentico dell’unica cosa essenziale; e infine, e più di ogni altra cosa, fedele sino all’eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe di essere vissuta. È questo che il filosofo deve cercare di realizzare.52

1. G. Friedmann, La puissance et la sagesse, Gallimard, Paris 1970. 2. G.B. Kerferd, “The image of thè wise man in Greece before Plato”, in Mélanges Verbeke. Images o/Man in Ancient and Medieval Thought, Studia G. Verbeke dicata, Louvain 1976, pp. 18-28; F. Maier, Der Sophos Begriff.

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NO TE

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Zur Bedeutung, Wertung und Rolle des Begriffes von Homer bis Euripides, Universitàt zu Miinchen, Miinchen 1970; B. Gladigow, Sophia und Kosmos, Olms, Hildesheim 1965. 3. Esiodo, Teogonia, 35-115. 4. Vedi I Sette Sapienti. Vite e opinioni nell’edizione di Bruno Snell, tr. it. Bompiani, Milano 2005; L. Robert, “De Delphes à l’Oxus. Inscriptions grecques nouvelles de la Bactriane”, in Comptes rendus de l’Académie des in­ scriptions et belles lettres, Klincksieck, Paris 1968, pp. 416-457. 5. Platone, Apologia di Socrate, 23 b, tr. it. in Opere complete, Laterza, Bari 1971, voi. 1, p. 45. 6. Vedi l’importante opera di W. Wieland, Platon und die Formen des Wissens, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1982. Sulla trasformazione dell’anima, vedi Platone, Repubblica, 518 c. 7. Isocrate, Sullo scambio, 271. 8. Platone, Simposio, 204 a, tr. it. in Opere complete, cit., voi. 3, p. 191. 9. Ibidem, 175 e, 223 d. 10. Ibidem, 215 d-223 b. 11. Platone, Teeteto, 176b,tr. it. in Opere complete, cit., voi. 2, pp. 134-135. 12. Aristotele, Metafisica, I, 982 a. 13. Vedi Cicerone, Lucullo, 57,105,115. Vedi anche G.B. Kerferd, “What does thè wise man know”, in j. Rist (a cura di), TheStoics, University of Cali­ fornia Press, Berkeley 1978, pp. 125-136. 14. Cicerone, Topica, 81; Aulo Gelilo, Notti attiche, i, 26. 15. J. Michelet, Journal (a cura di P. Viallaneix), Gallimard, Paris 1959, p. 382. 16. K. Schneider, Die schweigenden Getter, Olms, Hildesheim 1966, P· 31. 17. Aristotele, Metafisica, xn, 1074 b 35. 18. Aristotele, Etica Nicomachea, x, 1177 b. 19. Aristotele, Metafisica, xn, 1075 a 7,1072 b 15. 20. Aristotele, Etica Nicomachea, x, 1177 b 26. 21. Lucrezio, De rerum natura, n, 646-651, tr. it. Sansoni, Firenze 1969, p. 109. 22. Vedi Lucrezio, De rerum natura, v, 8; Epicuro, Lettere a Meneceo, III, 135. 23. Plutarco, Contro Colete, 1117 b. 24. Vedi Lucrezio, De rerum natura, ni, 5. 25. Vedi Seneca, Lettere a Lucilio, 25,5. 26. Vedi M. Gigante, La bibliothèque de Philodème et Tépicurisme romain, Les Belles Lettres, Paris 1987, pp. 110-122. 27. W. Schmid, “Gbtter und Menschen in der Theologie Epikurs”, in RheinischesMuseum, 94,1951, PP· 97-156 (in particolare, p. 120); A.-J. Festugière, Epicure et ses dieux, Presses Universitaires de France, Paris 1968, p. 34; W. Schmid, “Epikur” , in Reallexikon fùr Antike und Christentum, voi. v, col. 748. 28. Epicuro, Gnomologium Vaticanum, 33, tr. it. in Opere (a cura di G. Arrighetti), Einaudi, Torino 1973, p. 146.

29. E. Hoffmann, “Epikur”, in M. Dessoir, Die Geschichte der Philosophie, Fourier, Wiesbaden 1925, voi. 1, pp. 223-225. 30. Vedi H. von Arnim, Stoici antichi. Tutti i frammenti, 245-252, tr. it. Bompiani, Milano 2002; Seneca, Lettere a Lucilio, 92. 31. Plutarco, De stoicorum repugnantiis, 17,1041. 32. Vedi O. Luschnat, “Das Problem des ethischen Fortschritts in der Alten Stoa”, in Philologus, 102,1958, pp. 178-214. 33. Luciano, Ermotimo o delle sette, 77. 34. Vedi P. Hadot, “Tradition stoicienne et idées politiques au temps des Gracques” , in Revue des Etudes Latines, 48,1970, pp. 150-179. 35. Cicerone, De officiis, i, 4, 13-17. 36. Seneca, Lettere a Lucilio, 42, 1. 37. Platone, Apologia di Socrate, 36 c. 38. Epitteto, Manuale, c. 5, tr. it. Garzanti, Milano 1990, p. 7. 39. Marco Aurelio, Ricordi, xi, 16,2, tr. it. Rizzoli, Milano 1975, p. 193. 40. Orazio, Odi, m, 3,1-8, tr. it. Mondadori, Milano 2004, p. 197. 4 L M. Foucault, La cura di sé, tr. it. Feltrinelli, Milano 1985, pp. 69-70. 42. B. Groethuysen, Anthropologiephilosophique, Gallimard, Paris 1952, pp. 79-80. 43. Seneca, Lettere a Lucilio, 66, 6. 44. A. Ernout, L. Robin, Lucrèce, De la nature, Commentane exégétique et critique, Les Belles Lettres, Paris 1962, voi. 2, p. 151. 45. Clemente Alessandrino, Stromateis, v, 14, 138, 2; vedi in Sources Chrétiennes, 279, p. 369, la nota di A. Le Boulluec. 46. Lucrezio, De rerum natura, il, 1034-1039, tr. it. cit., p. 133. 47. F. Nietzsche, “Schopenhauer come educatore”, tr. it. in Considerazio­ ni inattuali, Adelphi, Milano 1972, voi. 3, p. 399. 48. Porfirio, Vita di Plotino, 7, tr. it. Mondadori, Milano 2002, p. 19. 49. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, ix, 9, 66, tr. it. Laterza, Bari 1962, p. 456. 50. Philosophes tao'istes, Gallimard, Paris 1980, p. 141. 51. H. Usener, Epicurea, Teubner, Leipzig 1887, 469, p. 300. 52. Concludendo, mi si permetta di rimandare all’illuminante studio di J. Perret, ‘Le bonheur du sage” , in Hommages à Henry Bardon, Latomus, Bruxelles 1985, pp. 291-298.

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I MODELLI DI LELICITÀ PROPOSTI DAI LILOSOLI ANTICHI*

LA BEATITUDINE DIVINA

Per gli uomini dell’Antichità, “Beati” (makares) era in qual­ che modo il nome proprio degli dei, i quali, come cantava Ome­ ro, “hanno una vita senza affanni” .1Per loro, tale beatitudine consisteva nell’immortalità, nella giovinezza senza fine, in un’e­ terna vita di piaceri, feste e banchetti. Un po’ alla volta, sotto l’influsso del nascente razionalismo, venne a delinearsi una moralizzazione della rappresentazione degli dei. Se ne colgono i primi segnali in Esiodo, poi nei pre­ socratici e nei tragici.2 Ma è con Platone e con Aristotele che questa tendenza giun­ ge al culmine. Il Creatore, nel Timeo di Platone, è buono e ge­ neroso; vuole che tutte le cose nascano il più possibile simili a lui e siano buone. Il mondo da lui plasmato è anch’esso un dio felice {Timeo, 34 b), perché è in armonia con se stesso: “Soli­ tario e circolare [...], capace per la sua virtù di unirsi a se stes­ so e privo di ogni altro bisogno, provvisto di sufficiente cono­ scenza e amore di sé” . E pensando se stesso che anche il Dio di Aristotele trova la propria felicità e la propria gioia {Metafisica, 1072 b 28), in quanto in tal modo egli esercita l’attività più ec­ cellente e più indipendente. Sei secoli dopo, nel in secolo d.C., il mondo divino di Pio­ tino è ancora un mondo pieno di felicità e di luce. D opo avere * Originariamente pubblicato in La Vie spirituelle, 72,1992, pp. 33-43.

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I MODELLI DI FELICITÀ PROPOSTI DAI FILOSOFI ANTICHI

descritto nell’ordine l’Uno, principio supremo di tutte le cose, poi la mente divina che pensa se stessa, poi l’anima divina che contempla la mente, Plotino conclude (i, 8,3,25): “Tale è la vita senza affanni e beata che gli dei conducono”. Per lui, i banchet­ ti degli dei, di cui si parla nel Simposio di Platone a proposito del mito di Poro e Penta, simboleggiano la beatitudine divina (in, 5 ,9 ,3 9 ); egli riprende l’espressione omerica “avere una vi­ ta senza affanni” per designare la vita degli dei nel mondo spi­ rituale (v, 8, 4, 1). “Solo gli esseri buoni sono felici, perciò gli dei sono felici” (m, 2 ,4 ,4 7 ). Per gli esseri spirituali, la felicità consiste appunto nell’essere spirituali, cioè nell’essere lontani dalla materia, nel conoscere se stessi, nella purezza e nella tra­ sparenza, ma soprattutto nell’essere in contatto con l’Uno-bene che li trascende e da cui emanano. Ma il bene stesso travalica qualsiasi conoscenza e qualsiasi felicità. Come il Dio-mondo del Timeo, come la mente di Aristotele, gli dei di Epicuro sono esseri dalla bellezza perfetta, che vivono nella pace e nella serenità; non sono, però, puro pensiero, ma hanno una forma umana, per quanto diafana e aerea. E la loro beatitudine si fonda sulla loro saggezza e sulla loro virtù, che procurano una totale assenza di preoccupazioni, un’eternità di piaceri. G li dei, secondo Epicuro, non hanno creato il mondo e non influiscono minimamente sulla sua evoluzione né sugli affari degli uomini, poiché il mondo è il risultato di un concor­ so fortuito di atomi. Come gli dei omerici, anzi più di quelli, che prendono partito con passione per l’uno o per l’altro nelle lotte tra gli uomini, gli dei di Epicuro sono felici giacché vivo­ no in perfetta serenità, e non devono occuparsi delle vicende umane e del governo del mondo. In tal modo Epicuro intende proporre un concetto di divinità più puro di quello degli altri filosofi, come Platone o gli stoici, nella misura in cui i suoi dei non sono legati e assorbiti dal compito di occuparsi del mon­ do, non hanno alcuna relazione con alcunché e trovano nella propria perfezione la felicità assoluta.3

LA PARTECIPAZIONE ALLA BEATITUDINE DIVINA

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Il fatto che l’uomo possa partecipare alla beatitudine divina è un’idea anteriore alla riflessione filosofica. Anzitutto, già le feste religiose significavano una comunione con la gioia degli dei. Scrive Platone: “Per l’uomo retto, sacrificare agli dei, es­ sere sempre in relazione con loro per mezzo di preghiere e di offerte, con tutto il culto loro rivolto, è ciò che vi è di più bello, il cammino migliore, più efficace, verso la felicità” (Leggi, IV, 716 d). In questi momenti di gioia collettiva, gli uomini sento­ no intensamente la presenza del dio. “G li dei, misericordiosi verso il genere umano nato a soffrire, concessero una tregua e la fissarono nella successione delle feste in onore delle divini­ tà, e ci hanno dato, quali compagni nelle feste, le Muse, Apollo Musagete e Dioniso” (Leggi, il, 653 d). Del resto, la qualifica di “Beati” accordata agli abitanti delle “Isole dei Beati” dimostra che si riteneva che certi uomini, per la loro eccezionale virtù, potessero meritare una beatitudine analoga a quella degli dei: “Colui che muore dopo una vita in­ teramente giusta e pia va, dopo la morte, nelle Isole dei Beati, dove abita al riparo da ogni male, nella più completa felicità” (Gorgia, 523 b 2). Con lo sviluppo della filosofia, il m odo in cui l’uomo può partecipare della beatitudine divina verrà definito con maggio­ re precisione. In tale prospettiva si possono distinguere, senza peraltro contrapporle del tutto, due grandi tendenze: da una parte la tradizione socratica, per la quale la partecipazione alla felicità divina si basa sulla presenza di Dio nell’anima umana e si realizza, in ultima analisi, nell’amore per il Bene, e dall’altra l’atteggiamento epicureo, assai complesso, e che dovremo ul­ teriormente definire. Benché del Socrate storico sappiamo poco, le testimonianze di Platone e di Senofonte ci permettono di intuire che gli piace­ va parlare di una presenza divina, il famoso daimon che si mani­ festa all’interno di noi stessi, “una certa voce che, ogniqualvolta si fa sentire, mi distoglie da ciò che sto per fare” (Apologia, 31 d). Peraltro, Socrate rimarrà per sempre la figura del filosofo che, 109

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a qualsiasi bene materiale e alla vita stessa, preferisce il bene morale (Apologia, 29 d) e che dichiara: “Il massimo bene per un uomo è discorrere ogni giorno della virtù e degli altri argo­ menti sui quali mi avete udito discutere allorché esamino gli altri e me stesso, e una vita non sottomessa a tale esame non merita di essere vissuta” (Apologia, 38 a). Platone e Aristotele rimangono fondamentalmente fedeli a questo orientamento profondo, ma lo intellettualizzano in mo­ do considerevole. La vita morale ispirata dal dio interiore non è soltanto una vita virtuosa, ma anche una vita di contempla­ zione. Alla fine del Timeo (90 c), Platone dichiara: “Colui che onora sempre la divinità e rispetta il demone che vive in lui è estremamente felice” ; ma nel contesto risulta che è soprattutto regolando i propri pensieri, applicandoli alle cose divine, che l’uomo potrà conseguire tale straordinaria felicità. Per Aristotele, come il divino nel mondo è, al suo vertice, come oggetto d ’amore che muove il cielo, la mente che pensa se stessa, così il divino nell’uomo è la mente, è lo spirito. Si fi­ nisce così in un paradosso: ciò che è più essenziale nell’uomo trascende l’uomo. Questi troverà, dunque, la propria felicità nella vita che gli conviene al livello più alto e che, nondimeno, è sovrumana: la vita dello spirito. “Quanto più si sviluppa la no­ stra contemplazione, tanto più cresce la nostra felicità” {Etica Nicomachea, 1178 b). La felicità suprema dell’uomo è, quindi, una beatitudine divina che non potremo raggiungere se non eccezionalmente: “Questo stato di gioia che noi non possedia­ mo se non in rari momenti, Dio l’ha sempre” {Metafisica, 1072 b 28). Aggiungiamo che Aristotele, sempre realista, sa bene che tale felicità può essere conseguita solo dall’uomo che ha un corpo sano, e che dispone di un minimo necessario di cibo e di mezzi; tuttavia, egli ritiene preferibile che ci si limiti a una quantità minima di beni esteriori {Etica Nicomachea, 1179 a). Anche per Plotino la felicità dell’uomo si fonda sulla pre­ senza divina all’interno dell’anima e sullo slancio, sull’amore deH’anima per il bene. Quello che si intravedeva già in Plato­ ne e in Aristotele, ossia il legame tra la presenza divina e l’amore per il Bene, appare ancora più chiaramente in Plotino. Platone

e Aristotele facevano capire che la presenza divina dello spirito nell’anima non basta, da sola, ad assicurare la felicità dell’uo­ mo; occorreva prendere coscienza di tale presenza, “avere cu­ ra” di questo dio interiore, elevarsi alla vita secondo lo spirito. Questa presenza divina era, dunque, un appello all’amore per il bene, cioè alla conversione di tutto l’essere verso lo spirito divino. Per esprimere questo concetto, Plotino saprà trova­ re formule di forte impatto: “Lo spirito è al tempo stesso una parte di noi e l’obiettivo verso il quale cerchiamo di elevarci” {Enneadi, i, 1, 13, 7); e soprattutto: “Esso è sempre presente, ma noi siamo presenti a lui solo quando abbiamo rigettato ciò che da lui ci allontana” {Enneadi, vi, 9, 8, 33). È il principio del celebre pensiero di Pascal: “Non mi cercheresti se non mi avessi trovato” . E l’inconsapevole presenza del divino in noi a spingerci ad amarlo e a cercarlo. Presenza divina e amore per il bene sono, dunque, intimamente legati. E Plotino non si ac­ contenta di dichiarare che la felicità è partecipare alla vita del­ lo spirito che è in noi. Per lui, l’anima ha una vocazione ancora più alta, anche se la si realizza raramente, giacché, se lo spirito è buono, non è, però, //bene. In fondo, per Plotino, la felicità della coscienza di sé, della relazione con sé, che caratterizza la vita dello spirito, è qualcosa di più basso. Il bene stesso è al di là della felicità, poiché non ha bisogno di nulla, neppure di se stesso: non è un bene per sé, ma è soltanto il bene degli altri. L’anima non si accontenterà quindi di unirsi allo spirito in m o­ menti privilegiati: con lo spirito, in momenti ancora più rari ed eccezionali, essa proverà la presenza del bene in una “ebbrezza amante” {Enneadi, vi, 7,35,24). La felicità suprema per l’anima è, dunque, un’esperienza che si può qualificare come mistica e che è caratterizzata, tra l’altro, da una gioia immensa. All’a­ nima basta essere con Lui, “tanto grande è la gioia alla quale è pervenuta” {Enneadi, vi, 7 ,3 4 ,3 8 ). In qualche modo, in Platone, in Aristotele, in Plotino si po­ trebbe rilevare un certo edonismo: la vita dello spirito e l’amo­ re per il bene si accompagnano a un godimento e a una gioia spirituali. È da notare che, nella tradizione socratica, lo stoici­ smo rappresenta, per parte sua, un ammirevole sforzo di pu­

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rificare al massimo l’intenzione morale da ogni motivazione esterna all’amore per il bene, da ogni edonismo, anche spiri­ tuale. Non v’è dubbio che anche gli stoici fondino la felicità dell’uomo sulla presenza di Dio nell’anima e sull’amore per il bene: “C ’è in noi uno spirito sacro, che osserva e sorveglia le nostre azioni, buone e cattive” . A questa formula senechiana {Lettere a Lucilio, 4 1,2) fa eco Epitteto (li, 8,11-14): “Tu porti Dio ovunque con te [...] e tu l’ignori [...] è in te che lo porti, e non ti accorgi di lordarlo con i tuoi pensieri impuri e con le tue azioni sporche”. E negli stoici ritroviamo lo stesso paradosso di Aristotele e di Plotino: Dio è, al tempo stesso, noi stessi, nella misura in cui noi siamo una sua scintilla e un suo frammento, e qualcosa che è più di noi stessi, qualcosa verso cui dobbiamo volgerci, una norma, una ragione interiore e trascendente, in conformità della quale dobbiamo vivere. Più chiaramente, più esplicitamente di Platone, Aristotele e Plotino, gli stoici han­ no dichiarato che non c’è altra felicità, altro piacere se non la virtù stessa, che il bene morale è ricompensa a se stesso. Per gli stoici non c’è altro bene che il bene morale, ossia la volon­ tà efficace e intera di fare il bene; tutto il resto è indifferente, ossia privo di valore intrinseco. Il saggio stoico è quindi asso­ lutamente libero nei confronti di tutto. Come esempi di cose indifferenti, gli stoici enumerano la vita, la salute, il piacere, la bellezza, la forza, la ricchezza, la fama, la nobiltà di nascita, nonché i loro contrari: la morte, la malattia, la sofferenza, la bruttezza, la debolezza, la povertà, la mancanza di notorietà, i bassi natali. Tutte queste cose non sono né buone né cattive, e dunque non procurano né felicità né infelicità. Non sviluppe­ remo in tale sede quella che gli stoici chiamavano la teoria dei doveri, ossia il modo in cui, per permettere alla buona volontà di trovare una materia d ’esercizio, essi cercavano di formulare un codice di condotta pratica che attribuisse un valore relati­ vo a cose in teoria indifferenti, come la salute, la famiglia o la città. Ci basta avere sottolineato la purezza della morale stoi­ ca. Epitteto e Marco Aurelio, che sono gli eredi e il punto ter­ minale dello stoicismo antico, formulano in modo notevole gli atteggiamenti fondamentali dello stoico rispetto ai vari ambiti

della realtà. Il bene morale consiste anzitutto nel ben giudica re in ogni circostanza della vita, attenendosi alla stretta ogget­ tività, poi nell’accettare devotamente gli avvenimenti che non dipendono da noi e che ci sono destinati dalla provvidenza, e infine nell’agire, per quello che dipende da noi, al servizio del­ la comunità umana e praticando la giustizia.4 Epicuro, per parte sua, si immagina la partecipazione dell’uo­ mo alla felicità divina in modo del tutto diverso, nella misura in cui, per lui, la felicità non risiede né nel bene morale, né nell’e­ sercizio del pensiero, né nell’azione, bensì nel piacere. L’infeli­ cità degli uomini deriva dal fatto che essi temono cose che non sono da temere e desiderano cose che non è necessario deside­ rare e che sfuggono loro; e così la loro vita si consuma nel tur­ bamento dei timori ingiustificati e dei desideri insoddisfatti. La fisica epicurea li libererà da questi timori, dimostrando che gli dei non vanno temuti, dal momento che non agiscono in alcun modo sull’andamento del mondo, ma dimorano in una sereni­ tà perfetta. Quanto alla morte, non fa parte della vita, perché è dissoluzione totale. Ci si libererà dei desideri inappagabili, distinguendo tra desideri naturali e necessari (come mangiare e bere), desideri naturali e non necessari (come i piaceri dell’a­ more) e desideri non naturali e non necessari; l’appagamento dei primi, la rinuncia agli ultimi ed eventualmente ai secondi basteranno ad assicurare la serenità. “Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità.”5Di primo acchito, questa morale può sembrare assai materialisti­ ca; a un esame più attento, tuttavia, essa presuppone una gran­ de delicatezza d’animo, che si esprime anzitutto nella rappre­ sentazione della serenità degli dei. La pietas epicurea, come ha mostrato A.-J. Festugière,6 è un sentimento notevolmente pu­ ro: “È soprattutto grazie agli dei che la voluttà nasce nel cuore dell’uom o” .7 Ciò può riallacciarsi alle feste religiose; non sol­ tanto il saggio vi trova la gioia della presenza degli dei, come si è detto, ma, come affermano gli epicurei, “egli ammira la na­ tura e la condizione degli dei, si sforza di awicinarvisi, aspira per così dire a toccarla, a vivere con lei, e chiama i saggi amici

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degli dei e gli dei amici dei saggi” .8 Dal momento che gli dei non si occupano delle cose umane, il saggio non li invocherà per ottenerne qualche beneficio, ma troverà la propria felicità nel contemplare la loro serenità, nell’associarsi alla loro gioia. Secondo Epicuro, l’amore per gli dei è l’amore per la loro bel­ lezza e la loro perfezione; P. Decharme parla, a questo proposi­ to, di “amore puro” .9Il saggio troverà, dunque, la felicità pren­ dendo gli dei a modello, per vivere in una serenità perfetta e in una perfetta purezza d’animo, disciplinando i propri deside­ ri, esaminando la propria coscienza, accettando la correzione fraterna da parte della comunità unita dai legami di un’intensa amicizia. L a felicità epicurea è forse, come quella degli dei, il puro piacere di esistere.10

Le felicità descritte dalla saggezza antica sono felicità egoi­ stiche? Si potrebbe crederlo, rileggendo la troppo breve de­ scrizione che ne ho appena dato; per parte loro, gli storici e i filosofi non hanno mancato di affermarlo. In effetti, parrebbe proprio che, tra questi modelli di felicità, alcuni siano, in ogni caso, riservati a un’élite in grado di fare proprie, per esempio, la contemplazione aristotelica o l’estasi plotiniana. E soprattutto: ciascuno di questi modelli di felicità non mira forse esclusivamente alla perfezione dell’individuo singolo? Il problema è assai complesso. Anzitutto, non si può negare il carattere “missionario” di molti grandi filosofi antichi, “mis­ sionario” nel duplice significato di “ricevere una missione dalla divinità” e di “cercare di convertire”. Socrate, ancora una volta, è il modello fondamentale. Egli si presenta come l’uomo che “è stato messo ai fianchi degli ateniesi dalla volontà degli dei [...] al fine di pungerli come un tafano” (Apologia di Socrate, 30 e); “Io sono egualmente a disposizione di tutti, poveri e ric­ chi” (.Apologia di Socrate, 33 b); “Che io sia un uomo dato dal dio alla città lo potete riconoscere anche da questo: non è uma­ namente possibile che io abbia trascurato tutti gli affari miei e

sopporti ormai già da tanti anni che siano trascurate le cose di casa mia, e sempre invece io badi alle vostre [...] per persua­ dervi a seguire la virtù” (Apologia di Socrate, 31 b). Epicuro è stato presentato dai suoi discepoli come un dio venuto tra gli uomini, come il salvatore dell’umanità, e ogni epicureo è a sua volta divenuto un missionario, come quel D io­ gene che, nel III secolo d.C., nella città di Enoanda in Licia (Turchia sudoccidentale) fece incidere una gigantesca iscrizio­ ne allo scopo di far conoscere, ai suoi concittadini e alle gene­ razioni future, le grandi linee della dottrina di Epicuro e il suo messaggio di salvezza.11L’Antichità intera, peraltro, concorda nel riconoscere la straordinaria diffusione della dottrina epicu­ rea. Soprattutto, l’originalità della scuola epicurea consisteva nel suo rivolgersi a tutti gli uomini, anche a quelli incolti, anche a quelli privi di una particolare formazione intellettuale, non­ ché nell’accogliere schiavi o donne, persino cortigiane, come quella Leonzia, discepola di Epicuro, raffigurata “in medita­ zione” da un pittore.12 Neppure la filosofia stoica si negava agli schiavi e alle donne, rivolgendosi a tutti gli esseri umani in generale. A tale propo­ sito, si ricorderà questa intelligente osservazione di G. Rodier: “G li stoici hanno voluto [...] che la virtù e la felicità fossero accessibili a tutti; hanno voluto che lo fossero in questo stesso mondo [...]. Ma per questo occorre che il mondo in cui vivia­ mo sia il più bello e il migliore possibile, che non si contrap­ ponga a un mondo superiore [...] che non abbia altre realtà se -non quelle che si offrono ai nostri sguardi nel seno azzurro di Z eus” .13 L’idea di filosofia missionaria non è assente nello stoicismo, nella misura in cui c’è sempre stato un rapporto tra cinismo e stoicismo. A partire da Diogene, i cinici furqno fer­ venti propagandisti, che si rivolgevano a tutte le classi sociali, predicando con l’esempio, per denunciare le convenzioni so­ ciali e proporre il ritorno alla semplicità di una vita secondo natura. In qualche modo, Epitteto fa dei cinici i monaci dello stoicismo. Sono gli inviati, i messaggeri, i portavoce di Dio tra gli uomini; in maniera generale, per Epitteto, il filosofo è il te­ stimone (martys) di D io.14

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È vero, in compenso, che il platonismo di Platone o di Pio­ tino o ancora Γ aristotelismo sono filosofie riservate a un’élite istruita in tutte le scienze. Si può peraltro ritenere che i modelli di felicità concepiti dalle scuole filosofiche dell’Antichità propongano agli indivi­ dui una ricerca egoistica della propria personale perfezione, da raggiungere ripiegandosi su se stessi e fuggendo dal mondo? In definitiva, penso che la risposta a questa domanda sia no. Cominciamo con la cosa più facile. E evidente che gli stoici, per i quali la felicità risiede in un bene morale di cui la dedizio­ ne alla comunità, la pratica della giustizia e l’amore per gli altri uomini sono parti integranti, non possono essere presentati in questo modo. Ma la felicità epicurea non è forse egoistica? E vero che la serenità epicurea e il rifiuto di immischiarsi nei fasti­ di della vita della città potrebbero autorizzare qualche sospet­ to in tal senso. Ma l’ispirazione missionaria dell’epicureismo, il ruolo rilevante che in esso svolge l’amicizia e la costituzione di comunità i cui membri si aiutano a vicenda, spiritualmente e materialmente, sono fatti che bastano a confutare l’idea che la filosofia epicurea sarebbe un edonismo egoistico. Quanto a Platone e a Aristotele, la preoccupazione per la politica, per il miglioramento della città, che è comune a en­ trambi, basta a esentarli da tale rimprovero. Ma Plotino! Che dire di un’opera che, nella presentazione che ne ha dato Por­ firio, suo discepolo, termina con queste parole (Enneadi, vi, 9, 11, 48): “Tale è la vita degli dei e degli uomini divini e felici: affrancamento dalle cose estranee di questo mondo, vita che non prova piacere per le cose di quaggiù, la fuga del solo verso il Solo” . Questa fuga del solo verso il Solo è stata spesso inter­ pretata come un atteggiamento narcisistico, un ripiegamento dell’io su se stesso, dal momento che il Solo, ossia l’Uno o il be­ ne, non è altro che l’io. Sfortunatamente, non possiamo lanciar­ ci in una discussione approfondita di questo problema; diremo soltanto che è essenziale che l’esperienza mistica plotiniana sia al tempo stesso un’esperienza dell’io, nella misura in cui essa è rivelazione dell’interiorità, e un’esperienza del totalmente al­ tro, nella misura in cui essa arriva a scontrarsi con i limiti del

relativo, del linguaggio, del dicibile e del pensabile, e intuisce l’assoluto con il quale è appunto impossibile identificarsi. Un’e­ sperienza simile non si può definire egoistica. Tali sono, dunque, per quanto troppo brevemente descritti, i vari modelli di felicità proposti dalle scuole filosofiche dell’An­ tichità. I cristiani non li dimenticheranno. Il modello stoico sarà ripreso dalla tradizione monastica e ascetica. Ed è straordinario che nel 1605 il celebre padre Matteo Ricci, volendo prepara­ re al Cristianesimo i letterati cinesi, abbia composto un Libro dei 25 paragrafi,15 sorta di catechismo delle regole della felici­ tà, che era in gran parte una traduzione parafrasata di vari pa­ ragrafi del Manuale di Epitteto, adattato sia al Cristianesimo sia al Confucianesimo. Quanto ai modelli platonici, aristoteli­ ci e plotiniani, è noto il ruolo che svolsero nella formulazione dell’esperienza mistica cristiana.

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NOTE 1. Omero, Iliade, I, 339; vi, 138; Odissea, iv, 805. Sul significato di “feli­ ce” (makar) nell’Antichità vedi G. Kittei, G. Friedrich, Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1993, s.v. “M akar’. 2. Vedi il vecchio, ma tuttora interessante, P. Decharme, La critique des traditions religieuses chez les Grecs, des origines au temps de Plutarque, A. Pi­ card, Paris 1904, e, nella collana “Entretiens sur l’AÌitiquité classique”, il primo volume: La Notion du divin depuis Homère jusqu’à Platon, Fondation Hardt, Vandceuvres-Genève 1954. 3. Vedi A.-J. Festugière, Épicure et ses dieux, Presses Universitaires de France, Paris 1968, pp. 71-100; B. Frischer, The Sculpted Word, University of California Press, Berkeley 1982, pp. 83-84. 4. Vedi P. Hadot, “Une clé des Pensées de Marc Aurèle: les trois topoi philosophiques selon Epictète”, in Les Études Phdosophiques, 1978, pp. 225-239. 5. Epicuro, Gnomologium Vaticanum, 33, tr. it. in Opere (a cura di G. Arrighetti), Einaudi, Torino 1973, p. 146. 6. A.-J. Festugière, Épicure et ses dieux, cit., p. 97. 7. H. Usener, Epicurea, fr. 385 a, Teubner, Leipzig 1887, p. 356, 6. 8. Ibidem, fr. 386, p. 258,15. 9. P. Decharme, La critique..., cit., p. 257. 10. Sulla vita nella scuola epicurea, vedi N.W. De Witt, Epicurus and His Philosophy, University of Minnesota, Minneapolis 1954, p. 9, e W. Schmid, voce “Epicurus” ih Reallexicon fùr Antike und Christentum, Hiersemann, Stuttgart 1962, voi. 5, coll. 740-755.

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11. Edizione completa, con traduzione italiana dei frammenti, in A. Ca­ sanova, I frammenti di Diogene d’Enoanda, Firenze 1984. 12. Plinio il Vecchio, Historia naturalis, 35, 99 e 144. Sulla diffusione dell’epicureismo, vedi Cicerone, De finibus, il, 14, 47: “Epicuro ha smosso non solo la Grecia e l’Italia, ma anche tutto il mondo barbaro”, e N.W. De Witt, Epicurus andH is Philosophy, cit., pp. 26-27 e 329. Secondo Lattanzio, Divinae institutiones, III, 25,4, gli stoici e gli epicurei ammettono alla filoso­ fia anche le donne, gli schiavi e gli ignoranti. 13. G . Rodier, Etudes de philosophie grecque, Vrin, Paris 1926, pp. 254255, citato da V. Goldschmidt, Le systèrne sto'icien et Γidée de temps, Vrin, Paris 1977, p. 59, n. 7. 14. Epitteto, Diatribe, m, 22; vedi anche A. Delatte, “Le sage-témoin dans la philosophie stoico-cynique”, in Bulletin de la Classe des Lettres, Académie Royale de Belgique, Bruxelles, serie v, 39,1953, pp. 166-186. 15. Vedi C. Spalatin, “Matteo Ricci’s use of Epictetus’ Encheiridion” , in Gregorianum, 56,1975, p. 551.

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La fine del paganesimo è un fenomeno spirituale, sociale e politico che si estende dal i al ix secolo; se ne vedono i primi sin­ tomi nelle riforme religiose dell’imperatore Augusto, che tra­ discono una crisi di coscienza collettiva, ma ci vorranno nove secoli perché l’ultimo focolaio del paganesimo ellenico si spen­ ga in Laconia. Si tratta, quindi, di un processo lento, che ha co­ nosciuto fasi alterne di accelerazione e di frenata, di flusso e di riflusso. Si crede generalmente che il paganesimo sia stato scon­ fitto e completamente distrutto dal Cristianesimo, ma è proba­ bile che la realtà storica sia molto più complessa. In effetti, ci si può legittimamente chiedere se la scomparsa del paganesimo, o per lo meno la sua radicale trasformazione, non si sia prodotta autonomamente, senza l’intervento del Cristianesimo. Le diffi­ coltà economiche dell’Impero romano, a partire dal m secolo, l’unificazione dell’Impero e la divinizzazione dell’imperatore, lo sviluppo della teologia di un Dio supremo e trascendente, la comparsa di una spiritualità dominata dal rifiuto del mondo sensibile, tutti questi fattori, che vediamo all’opera nel pagane­ simo dopo il i secolo della nostra era, sarebbero forse bastati a portare il mondo antico verso una situazione politica, sociale e spirituale abbastanza vicina a quello che fu realmente l’Im pe­ ro bizantino. Seguendo la propria evoluzione naturale, il p a ­ ganesimo sarebbe forse giunto a quella concezione ieratica del * Originariamente pubblicato in Encyclopédie de la Plèiade, Histoire des religions, Gallimard, Paris 1972, voi. 2, pp. 81-112.

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Il fattore fondamentale che influì su tutta l’evoluzione del paganesimo, a partire dal i secolo, fu la fondazione dell’Im pe­ ro romano; del resto, si tratta di un fenomeno storico che pro­ lunga, nelle cause come negli effetti, l’impresa di Alessandro, che aveva dato origine allo spirito ellenistico. D i prim o acchito, si potrebbe pensare che la potenza dell’imperatore fosse naturalmente tale da mantenere e soste­ nere l’antica religione; ma questa potenza, esigendo un ricono­ scimento universale e assoluto, fu portata a modificare profon­ damente l’universo spirituale che era proprio del paganesimo tradizionale. In primo luogo, la costrizione politica in materia religio­ sa poco per volta sostituì lo spirito di tolleranza. L’antica re­ ligione non era assolutamente unificata, ma comportava una grande varietà di culti e di credenze, tipici delle diverse città, nazioni o confraternite; tuttavia, grazie all’azione centralizzatrice degli imperatori, il mondo greco-romano tende a diven­ tare una nazione unica. Si instaura un’intensa interrelazione; non soltanto i culti si mescolano tra loro, le divinità si confon­ dono e si fondono, ma, soprattutto, il culto di Roma e degli imperatori diventa in qualche m odo una religione di Stato. E quello il fattore determinante che è all’origine delle perse­ cuzioni contro il Cristianesimo. Allorché l’Impero avverte la forza crescente della nuova religione, la repressione diventa

sempre più violenta; così avviene sotto Decio, nel 249, e sotto Diocleziano, dal 303 al 311. D opo la conversione di Costanti­ no, gli imperatori cristiani ereditano la medesima intolleranza. Il Cristianesimo divenne a sua volta, a poco a poco, religione di Stato e le misure contro il paganesimo si fecero sempre più rigorose. L’aristocrazia e il popolo aderirono, per conformismo o per timore, alla religione vincitrice. In secondo luogo, la potenza imperiale assunse sempre più carattere religioso. L’organizzazione del culto degli imperato­ ri, abbozzata sotto Augusto, si sviluppa sotto Caligola, N ero­ ne, Domiziano, Commodo, Aureliano, finché Diocleziano non arriva a pretendere dai suoi sudditi Yadoratio, come un sovra­ no orientale, e instaura un cerimoniale di corte che, del resto, la monarchia bizantina conserverà e rafforzerà. Non soltanto, come abbiamo detto, questo culto degli imperatori introduce un elemento nuovo di costrizione e d’obbligo nel paganesimo tradizionale, ma soprattutto dà origine a un’ideologia che tra­ sformerà completamente le rappresentazioni sacre dell’antica religione. L’immagine della potenza regale verrà, infatti, proiet­ tata nell’assoluto; il mondo divino sarà rappresentato secon­ do il modello della monarchia imperiale. Come l’Impero è do­ minato da un sovrano che trascende tutti i suoi sudditi, anche quelli di più alto rango, così il mondo divino deve culminare in un Dio supremo e trascendente, inaccessibile e ineffabile, che non ha rapporti diretti con l’universo. D ’altra parte, su questa terra la potenza regale è intermediaria e mediatrice tra Dio e gli uomini; proiettata nell’assoluto, tale rappresentazione conduce all’idea di un divino mediatore, che il D io trascendente impie­ ga per creare e governare il mondo. È per questo motivo che molti panegiristi daranno all’imperatore i tratti del Demiurgo platonico, che fa splendere sul mondo le leggi che contempla nel modello divino. Infine, la potenza imperiale concentrata nel monarca si diffonde attraverso molteplici intermediari per raggiungere le estremità dell’Impero; allo stesso modo la po­ tenza divina, che ha origine nel Dio trascendente, si diffonde e si estende attraverso le divinità subalterne, per riempire tutto l’universo. L’ideologia imperiale porta, quindi, a una sistema­

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mondo e dell’imperatore che caratterizzava l’universo di pen­ siero dell’Impero bizantino. In ogni caso, piuttosto che di fine del paganesimo, per definire il fenomeno che ci accingiamo ad analizzare bisognerebbe parlare di fusione del Cristianesimo e del paganesimo. In effetti, se al termine di un violento conflitto politico e spirituale il Cristianesimo sconfisse il paganesimo, è altrettanto vero che, secondo un processo storico che sembra ripetersi in ogni epoca, nel fervore della lotta i due avversari si erano reciprocamente contaminati.

G LI ASPETTI POLITICI, SOCIALI E PSICO LO GICI

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tizzazione del paganesimo: un Dio trascendente, situato al di là e al di sopra di tutti gli dei, un secondo D io mediatore e orga­ nizzatore, e infine una potenza divina unica, che garantisce la continuità del mondo divino e la compenetrazione reciproca di tutti gli intermediari. Questa sistematizzazione conduce, in una certa misura, alla “fine” dell’antica religione; e in effetti essa corrisponde, in definitiva, a un monoteismo gerarchico - mono­ teismo perché la potenza divina si concentra nella figura di un Dio unico e trascendente, gerarchico perché la potenza divina si diffonde attraverso tutta una gerarchia di potenze subalter­ ne, dal secondo Dio fino agli dei, agli angeli e agli uomini. In tal modo si arriva a una rappresentazione della gerarchia celeste e politica che non è molto lontana da quella della monarchia bi­ zantina, nella quale l’imperatore, simbolo del Dio trascendente, è l’incarnazione in terra del Figlio di Dio, o Logos mediatore. In questa evoluzione del paganesimo verso un monoteismo ge­ rarchico, sono significativi i tentativi di instaurare una teologia solare. Ne sarà promotore l’imperatore Aureliano, e il filosofo neoplatonico Porfirio scriverà un trattato specifico per dimo­ strare che tutti gli dei alla fine si riducono alla potenza del sole. Si tratta di un esempio alquanto caratteristico dell’esigenza di unificazione e della sistematizzazione che si manifestano nell’ul­ tima fase della storia del paganesimo. Quindi, possiamo dire che, fino a un certo punto, la monar­ chia imperiale avesse bisogno di un’ideologia monoteista. Era nella natura delle cose che la monarchia di diritto divino sosti­ tuisse a poco a poco il principato di origine popolare. Augusto aveva preparato la strada a Costantino, dal punto di vista po­ litico, ma anche religioso. L’imperatore unico non poteva che essere l’immagine di un Dio unico. Eusebio di Cesarea, teologo di Costantino, lo sottolinea con forza: “Costantino è stato il pri­ mo a riconoscere il dominio di un unico Dio sul mondo, ed egli stesso, governando da solo il mondo romano, dominò tutto il genere umano”. Un solo sovrano, un solo Dio, un solo Impero: tale è la logica di questo sviluppo storico. I fattori economici e sociali hanno svolto un ruolo altret­ tanto importante nella “fine” del paganesimo. Prima di tutto,

i culti pagani potevano essere praticati in modo intensivo solo in condizioni di prosperità pubblica generale e con il sostegno dello Stato, giacché il mantenimento dei templi e dei collegi sacerdotali, i sacrifici e i giochi richiedevano spese assai gravo­ se. A partire dal in secolo, in concomitanza con una grave crisi politica, nell’Impero si diffonde la regressione economica; ed è esattamente a quest’epoca, come ha osservato J. Geffcken, che comincia a manifestarsi la decadenza della vita religiosa pagana. Molti templi vengono chiusi, molte feste scompaiono. Il fenomeno non può che aumentare sotto gli imperatori cri­ stiani; e, infatti, alle istituzioni dell’antica religione viene pro­ gressivamente ritirato l’appoggio statale. Giungerà un momen­ to - è quello che succederà a Roma nella seconda metà del iv secolo - in cui solo le offerte dei privati o il sostegno locale di aristocratici rimasti legati al passato permetteranno di mante­ nere le antiche usanze. L’aristocrazia romana costituì per lungo tempo l’ultimo ba­ luardo della resistenza pagana sotto gli imperatori cristiani. Di fronte a Costantinopoli, la nuova Roma cristiana fondata da Costantino, l’antica Roma, la Città eterna, difendeva l’idea che rappresentava, la divinità che incarnava: “Noi combattia­ mo per le istituzioni dei nostri avi, per i destini e i sacri diritti della nostra patria” , dichiara Simmaco all’imperatore cristiano, per chiedergli di riportare l’altare della Vittoria nella curia del senato di Roma. Diverse epigrafi risalenti alla fine del IV secolo ci rivelano che parecchi personaggi dell’aristocrazia romana si gloriavano delle loro numerose iniziazioni ai vari culti misteri­ ci, dei loro molteplici sacerdozi e titoli religiosi: l’epitaffio de­ dicato al marito Vettius Agorius Praetextatus da Aconia Fabia Paulina è la più famosa e la più caratteristica. In Oriente, la resistenza del paganesimo e la fedeltà alle tradizioni ancestrali si concentrano soprattutto nei retori e nei filosofi delle scuole d’Atene e d’Alessandria. Come nei circoli chiusi dell’aristocra­ zia romana, in questi piccoli gruppi regna un ardente fervore religioso; ma simili movimenti di resistenza restano ai margini della vita politica e sociale complessiva. Del resto, gli impera­ tori romani creano una nuova aristocrazia elevando a clarissimi

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dei personaggi che non appartengono per nascita alla classe se­ natoriale. A poco a poco, aderire all’ortodossia ufficiale diventa di moda. “Abbandonare gli altari degli dei è il nuovo modo di fare la corte”, denuncerà Simmaco. Gli sconvolgimenti politi­ ci, economici e sociali che accompagnano la fine dell’Antichità hanno, quindi, contribuito in misura sostanziale alla scomparsa dell’antica religione. A tali fattori di evoluzione bisogna aggiungere la profonda trasformazione della coscienza religiosa e della mentalità collet­ tiva che, delineandosi a partire dall’epoca ellenistica, non smet­ te di accelerare durante la fine dell’Antichità. Un certo tono affettivo comune caratterizza indiscutibilmente tutta quest’e­ poca; lo si ritrova nei pagani come nei cristiani, nei neoplato­ nici e negli gnostici. Per definire tale fenomeno psicologico, alcuni storici hanno parlato, con una certa esagerazione, di “depressione nervosa” , altri di “crisi d ’ansia“ ; quasi tutti han­ no deplorato il “declino del razionalismo” che si manifesta du­ rante questo periodo storico. Forse non è corretto considerare una trasformazione di così ampia portata come un fenomeno morboso. Certo, una crisi psicologica esiste, ma è provocata da un fenomeno eminentemente positivo: la presa di coscien­ za dell’“io ” , la scoperta del valore del destino individuale. Le scuole filosofiche, epicuree e stoiche prima, neoplatoniche poi, attribuiscono un’importanza crescente alla responsabilità del­ la coscienza morale e allo sforzo per raggiungere la perfezio­ ne spirituale. Tutte le grandi questioni metafisiche - l’enigma del mondo, l’origine e la fine dell’uomo, l’esistenza del male e il problema della libertà - vengono poste in funzione del de­ stino dell’individuo. Ma il prezzo da pagare per questa presa di coscienza è evidentemente molto pesante: essa provoca una tensione spirituale, ansia, inquietudine. La crisi non è limitata ai piccoli circoli filosofici, ma si manifesta anche tra le masse. L’individuo comincia a preoccuparsi della propria salvezza, qui e dopo la morte; si sente minacciato nell’anima e nel corpo da potenze malvagie, e l’universo gli sembra infestato da cattivi demoni che agiscono direttamente sull’immaginazione dell’uo­ mo e cercano di possederne il corpo. La vita morale prende la

forma di una lotta tra buoni e cattivi demoni. Anche il mondo sensibile assume un aspetto ostile e pericoloso, e l’uomo vi si sente estraneo e isolato. Nei suoi studi sulla fenomenologia del­ la gnosi, H.-C. Puech ha ben dimostrato come questa impres­ sione di estraneità possa condurre alla soluzione gnostica. Le potenze malvagie popolano anche l’aldilà; l’individuo teme di incontrarle nel suo viaggio dopo la morte. Da ciò deriva prima di tutto una proliferazione di pratiche magiche, attestata dai numerosi papiri magici che ci sono pervenuti. Maghi ed esor­ cisti affermano di saper allontanare le potenze ostili. Ma sono soprattutto le religioni misteriche a pretendere di offrire la sal­ vezza alle anime inquiete. Che si tratti dei misteri di Iside, pro­ venienti dall’Egitto, di Adone, dalla Siria, di Attis, dalla Frigia, o di Mitra, dalla Persia, questi culti davano ai loro fedeli l’im­ pressione di condividere la saggezza ancestrale dei barbari, il riconfortante sostegno di una comunità fervente, iniziazioni tali da colpire l’immaginazione, speranze di immortalità e di dei­ ficazione - in una parola, la certezza, per l’individuo, di essere protetto quaggiù e salvato nell’aldilà. Bisogna leggere finterò libro xi delle Metamorfosi di Apuleio per comprendere tutto il fervore che poteva ispirare una figura divina come quella di Iside, vera e propria Madonna alla quale si innalza la preghiera: “Santa ed eterna salvatrice del genere umano, sempre prodiga di grazie a favore dei mortali, tu offri il tenero affetto di una madre agli infelici che soffrono” . Non tutti, però, si lasciavano sedurre da questo genere di sentimentalismo religioso; c’era anche chi voleva trarre la certezza della propria salvezza indi­ viduale da una teoria che spiegasse con precisione l’origine e il destino dell’anima. Alcuni si rivolsero alla filosofia platonica, la quale affermava che le anime vivevano già prima della loro esistenza sensibile, e spiegava la presenza dell’anima nei vincoli del corpo in ragione di una caduta, una seduzione, un oblio. La filosofia platonica insegnava il metodo per liberarsi dalla pri­ gione della carne sin da questa vita, ma soprattutto dava al filo­ sofo la certezza che la sua realtà autentica era esterna a questo mondo, che il suo vero io era situato sul piano eterno del Pen­ siero divino e abitava in permanenza nel mondo trascendente.

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Questo sarà l’insegnamento di Plotino: “Se dobbiamo dire ciò che ci sembra giusto, contrariamente all’opinione di altri, non è vero che esistano anime interamente immerse nel sensibile, nemmeno la nostra: una parte dell’anima resta sempre nel mon­ do spirituale” . Altri cercarono la spiegazione nello gnosticismo. Le diverse dottrine gnostiche raccontavano il destino dell’ani­ ma in forma mitica: le anime erano cadute nel mondo sensibile in seguito a un dramma esterno a loro. Una potenza malvagia aveva creato il mondo sensibile e le anime, particelle del mon­ do spirituale, vi si erano ritrovate prigioniere loro malgrado; al­ la fine del mondo, con la distruzione della potenza malvagia, le loro traversie avrebbero avuto fine, ed esse sarebbero ritornate definitivamente nel mondo spirituale. Neoplatonismo, gnosti­ cismo, culti misterici sono tutti risposte a una stessa domanda: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”. E non sono mai risposte puramente teoriche, in quanto richiedono all’indi­ viduo una “conversione” , ossia uno sconvolgimento totale del proprio essere, un tentativo di ritornare al proprio io autentico e alla realtà trascendente in cui esso rimane radicato (epistrophe), una radicale trasformazione del proprio modo di pensare e di vivere (metanolo). La conversione è una “nuova nascita”, sia es­ sa filosofica o gnostica, iniziazione ai misteri o battesimo cristia­ no. Secondo il sacerdote di Iside nel libro XI delle Metamorfosi di Apuleio, coloro che saranno iniziati ai misteri “in un certo qual modo rinasceranno, per grazia di Iside, e saranno avviati su una nuova via di salvezza” . Dunque, il pensiero dell’epoca è dominato da nuove categorie religiose: caduta e ritorno, morte e rinascita, peccato e conversione.

Lo sviluppo della teologia (nel senso di “teologia scientifi­ ca” ) a partire dall’epoca ellenistica è un altro fenomeno rive­ latore della crisi di cui abbiamo parlato. Nel v e nel iv secolo a.C., non esisteva una letteratura teologica propriamente detta; quando Platone e Aristotele parlano degli “antichi teologi” , in­

tendono i poeti che hanno composto favole sugli dei. La “teo­ logia” , nel senso di “discorso scientifico sugli dei” , compare solo in alcune parti delle Leggi di Platone e nella Metafisica di Aristotele, prima di svilupparsi e organizzarsi in un sistema con 10 stoicismo, e poi con il neoplatonismo. Negli ultimi secoli del paganesimo, i manuali e i trattati dedicati a questa materia sono molto numerosi. Uno dei primi grandi manuali sistematici, che ebbe grandissima importanza per i posteri, è quello di Varrone, scritto nel i secolo a.C.; le sue Antiquitates rerum divinarum trattano, in base a uno schema ben organizzato, dei personag­ gi, dei luoghi, dei tempi, degli atti e degli oggetti del sacro (gli dei). In Cicerone si ritrova la traccia dei trattati teologici stoi­ ci, e possiamo farci un’idea di questo genere letterario grazie al Compendio di teologia greca di Cornuto, redatto nel i secolo. Possediamo, inoltre, opere di Plutarco e discorsi di Massimo di Tiro o Dione Crisostomo che si occupano di problemi teo­ logici specifici. Porfirio, il discepolo di Plotino, scrisse nel ili secolo La filosofia desunta dagli oracoli, un trattato Sulle imma­ gini degli dei e uno Sul Sole, che sono altrettanti studi di teo­ logia pagana; in particolare, la sua Lettera a Anebo è una serie di aporie riguardanti i riti sacri e le manifestazioni degli dei. A quest’ultimo testo, il neoplatonico Giamblico rispose con un trattato Sui misteri, che espone la dottrina teologica pagana in modo assai sistematico e coerente. Nella linea di Giamblico, ci è giunto un vero e proprio piccolo catechismo pagano: Degli dei e del mondo, scritto da Sallustio, un amico e contempora­ neo dell’imperatore Giuliano, il quale a sua volta dedicò vari discorsi a soggetti teologici (A Helios re, Alla gran madre degli dei). Ma è con Proclo che la tradizione di teologia sistematica nata da Giamblico raggiunge il culmine: la sua Teologia plato­ nica è un vasto edificio di grandiose proporzioni che, secondo 11 progetto iniziale, avrebbe dovuto esporre, in successione, i postulati fondamentali riguardanti gli dei, poi tutti i gradi del­ la gerarchia divina, e infine i caratteri distintivi degli dei citati nei dialoghi platonici. Si potrebbe pensare che una tale fioritura della teologia pa­ gana nei primi secoli della nostra era sia il segno di un’affer­

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mazione e di uno sviluppo del paganesimo; ma in verità non è affatto così. Già l’impresa teologica di Varrone tradiva una crisi di coscienza; ma, soprattutto, per gli stoici e i neoplatonici la teologia è di fatto una razionalizzazione e una sistematizzazio­ ne dei concetti religiosi, svuotati, dunque, del loro contenu­ to tradizionale per essere ridotti alla “scienza” filosofica. Del resto, avremo modo di constatare come alcuni principi della teologia pagana siano stati ripresi da quella cristiana. Questo significa che la teologia pagana si evolve nella direzione di un monoteismo gerarchico, specialmente sotto l’influenza dell’i­ deologia imperiale. La teologia pagana assume gradualmente la forma di un in­ segnamento sistematico, secondo un programma ben preciso corrispondente ai seguenti punti: fonti della rivelazione, parti della teologia, metodi adatti alle varie parti, principi fondamen­ tali del ragionamento teologico, rapporti tra gli dei, e tra gli dei e gli uomini. Questo disegno è già riconoscibile all’epoca dello stoicismo, ma viene sviluppato in tutta la sua ampiezza dai neo­ platonici, i quali danno ai principi stoici un contenuto nuovo, trasponendoli dal piano fisico al piano metafisico. La teologia pagana, dunque, riconosce tre fonti di rivelazio­ ne a proposito degli dei: logos, mythos, nomos, ossia la ragio­ ne, il mito, la legge. Anzitutto, in ogni uomo vi sono delle idee innate, infuse dalla natura o ragione universale: questi “barlu­ m i” di logos permettono una prima conoscenza dell’esistenza e della natura degli dei, che la filosofia si sforzerà di sviluppare e di elevare a livello scientifico. A questa rivelazione, per così dire, naturale si aggiungono le rivelazioni fatte dagli stessi dei ad alcuni uomini ispirati, generalmente alle origini dei vari p o ­ poli: da un lato, legislatori come Minosse o Licurgo, dall’altro, poeti come Museo, Orfeo o Omero. A tali rivelazioni origina­ rie, infine, sono da aggiungere gli oracoli degli dei, espressi in modi diversi nei vari santuari; ma questi per lo più si riferivano a problemi concreti, divulgando il futuro o la volontà degli dei. La dottrina delle fonti della rivelazione ha una grande impor­ tanza storica; di fatto, essa significa che per il teologo pagano la verità è rivelata, che verità e tradizione, ragione e autorità si

confondono. Su questo punto, teologia pagana e teologia cri­ stiana sono in perfetto accordo. Ne risulta che la teologia non può che essere l’esegesi di un dato rivelato, conservato dalle leggi, dai miti, nelle opere dei filosofi o nelle sacre scritture. A queste fonti diverse della rivelazione corrispondono mo­ di diversi di conoscenza delle cose divine. Sviluppando le idee innate, l’uomo può raggiungere la conoscenza razionale degli dei come cause di fenomeni fisici o spirituali; è la teologia ra­ zionale, tratteggiata da Platone nel Timeo e nelle Leggi, appro­ fondita da Aristotele, orientata in senso esclusivamente fisico dagli stoici e riportata su un piano metafisico dai neoplatoni­ ci. Si potrebbe pensare che questa teologia razionale sia una costruzione sistematica e non abbia carattere esegetico; ma, in realtà, già in Platone e Aristotele essa si riferisce a un dato ri­ velato, che si rinviene negli scritti di filosofi precedenti (i pre­ socratici, e lo stesso Platone per Aristotele), nei miti poetici, nelle leggi e nelle tradizioni nazionali, negli oracoli degli dei. I grandiosi edifici sistematici dei neoplatonici vengono innalzati commentando Platone o gli Oracoli caldaici. Abbiamo qui un modo di pensiero sostanzialmente esegetico. Questo ci conduce al problema dei rapporti tra la conoscen­ za razionale degli dei e gli altri modi di conoscenza delle cose divine. Tali modi di conoscenza esistono di per sé, indipenden­ temente dalla teologia razionale. D a un lato, nei racconti mitici l’uomo conosce gli dei nelle forme che essi hanno voluto assu­ mere nell’immaginazione umana; dall’altro, nelle leggi e nelle usanze delle città egli apprende le modalità di preghiera e di sacrificio secondo le quali gli dei vogliono essere onorati. Stia­ mo, quindi, parlando di una conoscenza immediata del divino, che a quanto pare non ha bisogno di elaborare una teologia ra­ zionale. Questi due modi di conoscenza rappresentano la teo­ logia mitica e la teologia civile. La teologia mitica è di carattere poetico, la teologia civile è di carattere storico e giuridico; ma teologia civile e teologia mitica possono anche diventare ogget­ to della teologia razionale, che farà l’esegesi del dato rivelato contenuto in queste due teologie. Proprio questo incontro - o conflitto - fra la teologia razio-

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naie, da una parte, e la teologia mitica e quella civile, dall’altra, ha svolto un ruolo molto importante nella fine del paganesimo. L’intervento della ragione nel campo dei miti e delle usanze ancestrali doveva necessariamente provocare una crisi di co­ scienza: i miti apparvero immorali e indegni dell’idea che ci si poteva fare della divinità, mentre le leggi religiose si rivelarono assurde. D i fronte alla teologia mitica e a quella civile, la teo­ logia razionale ha solo due atteggiamenti possibili: la critica o la giustificazione razionale. La critica prese il sopravvento so­ prattutto negli ultimi due secoli che precedettero la nostra era; la si può rintracciare, in particolare, negli scritti di Cicerone, in misura tale che alla fine del ni secolo, a detta dell’apologista cristiano Arnobio, i difensori del paganesimo avrebbero voluto far proibire la lettura delle opere del grande oratore. L a giusti­ ficazione razionale consisteva invece nel tradurre in termini di “teologia razionale”, fisica o metafisica, il linguaggio dei miti e delle consuetudini religiose; e fu quello che fecero gli allegori­ sti stoici e neoplatonici. Tuttavia, pur criticando la teologia mitica e quella civile o cercando di giustificarle razionalmente, la teologia razionale non pretese mai di sopprimerle; poteva considerarle totalmente false o svelare la loro verità, ma ritenne sempre che teologie di quella sorta andassero bene per il popolo e fossero utili alla cit­ tà. Bisognava sottostare a quelle tradizioni, necessarie per man­ tenere nell’ordine le classi inferiori, come osservava lo storico Polibio. Quanto alla pratica religiosa dei “teologi razionali” , ossia dei filosofi, essa conobbe gradi d ’intensità molto diver­ si. Alcuni filosofi la consideravano indegna del saggio, giacché questi avrebbe dovuto essere in grado di arrivare direttamen­ te a Dio per mezzo dell’elevazione spirituale del suo pensiero. Altri, viceversa, si sforzarono di osservare nel modo più devoto possibile i riti tradizionali, poiché li ritenevano conformi alla volontà esplicita degli dei. Alla fine dell’Antichità, il primo at­ teggiamento - come avremo modo di ripetere - è quello di Pio­ tino e di Porfirio, mentre il secondo è quello adottato da Giamblico, da Proclo e dalla scuola neoplatonica di Atene. Tuttavia, qualunque fosse l’atteggiamento pratico dei teologi razionali,

l’esistenza stessa di una teologia razionale metteva in pericolo il paganesimo. Che si identificassero gli dei con le forze della natura, come facevano gli stoici, o con le idee platoniche, al­ la stregua dei neoplatonici, si toglieva comunque agli dei tra­ dizionali il loro carattere numinoso, e ci si orientava verso un monoteismo fisico o metafisico. L’opera teologica di Varrone, intrapresa con un evidente in­ tento di restaurazione religiosa, fa già intravedere questi rischi. Varrone stesso è un teologo razionale, in quanto dà un’interpre­ tazione cosmologica dei miti religiosi greco-romani; tuttavia, per salvare la religione romana, egli vuole scrivere un’opera di teologia “civile” , vale a dire restituire un senso storico ai riti tradizionali e ai nomi degli dei. Rispetto alla teologia razionale e a quella mitica, entrambe di origine greca, la teologia civile sarà, grazie a lui, schiettamente romana. In realtà, però, Var­ rone non si libera affatto delle rappresentazioni della teologia razionale. Se vuole restaurare la teologia “civile” , è perché te­ me che gli dei periscano per colpa dell’oblio e della negligen­ za dei suoi concittadini; e, quindi, ciò significa che, per lui, gli dei della teologia civile, gli dei tradizionali di Roma esistono unicamente nella coscienza dei romani: sono rappresentazioni che non hanno una realtà al di fuori del pensiero degli uomini. Se Varrone vuole salvarli, è per motivi esclusivamente politi­ ci; solo gli dei della teologia razionale, ossia le forze cosmiche, hanno consistenza e realtà ai suoi occhi. I metodi della teologia razionale variano a seconda degli og­ getti cui essa viene applicata. Allorché prende a oggetto la teo­ logia mitica, essa utilizza il metodo allegorico, grazie al quale individua nella “favola” un insegnamento riguardante i pro­ cessi fisici (se la teologia è di ispirazione stoica), oppure una lezione sull’origine delle idee e dei modelli intelligibili (se la teologia è di ispirazione neoplatonica). Quando la teologia ra­ zionale viene praticata autonomamente, preferisce utilizzare il metodo analogico (definizione degli attributi divini portando al massimo le qualità più elevate delle cose) o quello negativo (definizione degli attributi divini attraverso la negazione di ogni qualità concepibile).

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L a teologia razionale ha i propri dogmi fondamentali. Essi sono stati definiti da Platone nelle Leggi, in una formulazione che si ritrova fino alla fine del paganesimo: gli dei esistono e si prendono cura degli uomini, la loro giustizia è inflessibile. Que­ sti dogmi fondamentali costituiscono i punti di partenza delle dimostrazioni essenziali della teologia: prova dell’esistenza de­ gli dei, teoria della provvidenza e del libero arbitrio, dottrina della preghiera e della retribuzione. Resta da precisare il ruolo che la teologia razionale ha svolto nell’evoluzione religiosa che ha portato alla fine del paganesi­ mo. A partire dall’era cristiana, la teologia razionale ha assun­ to soprattutto la forma di una giustificazione e di una apologia dei miti e dei riti pagani; ma gli elementi filosofici utilizzati a tale scopo portarono, di fatto, all’elaborazione di un monotei­ smo gerarchico, in modo tale che il politeismo finì per ridursi a una sorta di linguaggio convenzionale, privo di veri contenuti. G li stoici avevano stabilito il principio dell’unità intrinseca di tutti gli dei, i quali, secondo loro, non erano altro che nomi diversi di una stessa potenza cosmica. Varrone esprime questa dottrina nel modo seguente: “Bisogna ritenere che tutti gli dei e le dee siano il solo Iupiter, sia che essi siano parti di Dio, sia che siano potenze di Dio. Tutta questa vita universale è quel­ la di un solo essere vivente, che contiene tutti gli dei a titolo di potenze, di membri o di parti”. Iupiter è concepito come il fuoco originario e raziocinante che, svolgendo la sua attività, diventa successivamente gli altri elementi, l’aria, l’acqua, la ter­ ra, ai quali, jsecondo i principi dell’allegoria stoica, corrispon­ dono i diversi dei. Il miscuglio totale che costituisce la sostanza dell’universo resta integro e invariato, ma in un determinato momento del periodo cosmico certe potenze prendono il so­ pravvento sulle altre; le altre potenze sono allora contenute in quella predominante secondo il modo che le è proprio: gli dei sono contenuti in Zeus secondo il modo proprio a Zeus, in Era secondo il modo proprio a Era. Si tratta del principio della de­ nominazione per predominanza; esso sarà ripreso dalla teologia neoplatonica, che, però, lo traspone sul piano metafisico. Inve­ ce che agli elementi, qui gli dei corrispondono alle idee plato­

niche: il rapporto tra Cronos, Rea e Zeus, per esempio, sarà lo stesso che sussiste tra le idee platoniche dell’essere, della vita e dell’intelligenza. La stessa sostanza intelligibile è presente in tutti e tre, appunto perché tale sostanza intelligibile è costitui­ ta da essere, vita e intelligenza, ma si chiamerà Cronos, Rea o Zeus a seconda di quello che predomina al momento della sua autocostituzione - se l’essere, la vita o l’intelligenza. E impor­ tante sottolineare una cosa: è esattamente lo stesso principio teologico che permette a certi teologi cristiani, in particolare Mario Vittorino, di spiegare la consustanzialità e la distinzio­ ne delle ipostasi divine nella Trinità. Il Padre è più essere, il F i­ glio è più vita, lo Spirito santo è più intelligenza - ma tutti e tre sono in ciascuno dei tre, secondo il m odo proprio a ciascuno. Questa convergenza, assai significativa, si ritrova anche nel­ la dottrina della gerarchia divina. G ià lo stoicismo conosceva il concetto di degradazione progressiva della potenza divina, che, originariamente concentrata nel fuoco, si attenua gradualmente nell’aria, nella terra e nell’acqua. Nella teologia neoplatonica, la degradazione della potenza divina deriva dall’aumentare della molteplicità: concentrata nell’Uno originario e assoluto, la po­ tenza divina si diffonde e si diluisce, prima di tutto al livello del pensiero, poi a quello dell’anima, che sono molteplicità unifi­ cate, per disperdersi infine nel mondo sensibile e nella mate­ ria. Ritroviamo qui le rappresentazioni dell’ideologia imperiale: l’Uno è il Dio trascendente e inaccessibile, il pensiero o logos è il secondo Dio, il mediatore che trasmette la potenza dell’unità alla molteplicità degli esseri; in questo modo, la stessa potenza divina si diffonde attraverso tutti i livelli della realtà. Ora - ed è il caso di sottolinearlo anche qui - , una simile teologia non appartiene solo ai pagani Numenio, Plotino o Porfirio, ma è an­ che quella dei cristiani Origene e Eusebio di Cesarea. Anch’essi distinguono tra “il D io”, che è il Padre trascendente, e il logos, per il quale il termine “D io” non è più un nome proprio, bensì un attributo. Tale logos ha la stessa funzione del secondo Dio dei teologi pagani, che crea e governa il mondo, mentre il Dio trascendente resta immobile e senza contatto con la materia. D a una parte e dall’altra, presso i pagani come presso i cristia­

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ni, si può, quindi, constatare l’esistenza della medesima teolo­ gia, che è un monoteismo gerarchico. E lo stesso tipo di teologia che si ritrova in una raccolta apo­ crifa intitolata Oracoli caldaici, composta all’epoca di Marco Aurelio da Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo. Quel te­ sto divenne, per i neoplatonici posteriori a Plotino, una sacra scrittura altrettanto venerabile quanto le opere del divino Pla­ tone. Vi compare un Dio trascendente, il Padre, il cui intel­ letto e la cui volontà, in origine confusi con lui, si attivano e conquistano così una realtà indipendente, durante il processo di creazione del mondo intelligibile. L’anima universale, ge­ nerata dal Padre, riversa i flutti della vita nel mondo sensibile. Possiamo dire che tutto il neoplatonismo, da Giamblico a D a­ maselo, sia nato dallo sforzo che è stato necessario per conci­ liare la sacra scrittura rappresentata dagli Oracoli caldaici con l’interpretazione plotiniana di quell’altra sacra scrittura che erano le opere di Platone. Mentre gli Oracoli parlavano di un Dio trascendente dotato di intelletto e volontà, per Plotino il D io trascendente era assolutamente Lino e semplice, e non vi era in lui la minima traccia di quel dualismo che la presenza di un intelletto avrebbe comportato. Nella visione di Plotino, l’intelletto non era preesistente al primo Dio, ma nasceva sol­ tanto dall’Uno originale, mediante un processo di emanazione e di conversione che generava tutto il mondo intelligibile. Tut­ ti i neoplatonici, tranne forse Porfirio, si mantengono fedeli a questa idea di un principio primo, assolutamente semplice, che trascende qualunque molteplicità e dualità, anche quella che si può trovare in un intelletto che pensa se stesso; e collocano il Dio degli Oracoli caldaici, il suo intelletto e la sua volontà su un piano inferiore rispetto a questo principio primo. Queste tre entità faranno da modello alla gerarchia di triadi che, agli occhi dei neoplatonici, costituisce la struttura del mondo. “Ri­ poso” , “processione” , “conversione” , oppure “essere” , “vita” , “intelligenza” , o ancora “finito” , “infinito” , “mescolanza del finito e dell’infinito” : questi schemi triadici servono a costruire un ampio sistema in cui vengono organizzati tutti i dati prove­ nienti da Platone, dalle tradizioni orfiche, dagli Oracoli caldaici

e dai miti greci, e tutti gli dei trovano posto al seguito dell’Uno trascendente, secondo i livelli successivi delle “enadi” , degli “ dei intelligibili” , degli “ dei intelligibili e intellettivi” e degli “dei puramente intellettivi” . Vaste costruzioni artificiali, che non avevano quasi più rapporto con il contenuto delle antiche credenze che pretendevano di difendere.

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PIETÀ E MISTICA PAGANE Per quanto riguarda Dio, devono valere soprattutto quattro principi fondamentali: fede, verità, amore, speranza. Bisogna, infatti, credere che l’unica salvezza è la conversione a Dio, e chi ha creduto deve impegnarsi al massimo per conoscere la verità su di lui; chi l’ha conosciuta dovrà amare colui che ha conosciuto, e chi l’ha amato dovrà nutrire l’anima di belle spe­ ranze per tutta la vita.

Si potrebbe pensare che queste righe siano state scritte da un cristiano, invece sono tratte dalla Lettera a Marcella di Por­ firio, il famoso avversario dei cristiani. Tocchiamo qui con ma­ no la straordinaria metamorfosi del paganesimo negli ultimi secoli della sua esistenza. Viene in mente la professione di fede del Faust di Goethe: “E tu riempi il tuo cuore di questo eter­ no mistero, e se questo sentimento ti rende pienamente felice, chiamalo come vuoi: felicità! cuore! amore! D io! Io non so dargli alcun nome. Il sentimento è tutto; il nome solo suono e fumo che annebbia lo splendore celeste” . Per quanto riguarda il “sentimento” , possiamo dire che a quell’epoca pagani e cri­ stiani erano incredibilmente vicini. In questa evoluzione del sentimento religioso pagano, la rap­ presentazione del Dio trascendente, situato al di sopra di tut­ ti gli altri dei, svolse un ruolo fondamentale. Quel Dio unico, fonte di ogni divinità e di ogni essere, che trascende tutti gli dei, assolutamente ineffabile, inconoscibile, mistero insonda­ bile, affascinava le anime assetate di assoluto. Sin dal I secolo, se il frammento che cita Eusebio di Cesarea è autentico, il neo­ pitagorico Apollonio di Tiana - la cui vita, scritta da Filostrato,

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è un bell’esempio di agiografia pagana - collega esplicitamente l’idea di un Dio trascendente e l’esigenza di un culto spiritua­ le: al primo Dio, che è Uno e distaccato da tutto, non si offrirà alcun sacrificio materiale, bensì l’elevazione del nostro pensie­ ro, che è la parte più alta di tutto il nostro essere. Porfirio, nel trattato Dell’astinenza dagli animali, riprende e sviluppa questo concetto: al Dio che è al di sopra di tutto non bisogna offrire incenso, né sacrifici, né parole sensibili, ma lo si deve adorare in silenzio. L’elevazione della nostra anima verso di lui è l’unico sacrificio che gli si addica. Il filosofo è il sacerdote del Dio tra­ scendente, quindi, è superiore ai sacerdoti dei singoli dei; solo il filosofo sa come onorare il dio trascendente e raggiungerlo nel profondo del cuore. Questa dottrina permette probabil­ mente di spiegare l’aneddoto narrato da Porfirio nella Vita di Plotino. Un altro discepolo di Plotino, di nome Amelio, che era devoto e si compiaceva di offrire sacrifici, volle condurre il suo maestro al tempio, ma questi rispose: “Non spetta a me andare dagli dei, sono gli dei che devono venire da m e” . Ciò significa che sicuramente Plotino riteneva di avere un rapporto diretto e immediato con il Dio trascendente, superiore a tutti gli altri dei; e, infatti, Plotino e Porfirio aspirano all’unione senza inter­ mediari con il Dio supremo. Si tratta di quell’esperienza unitiva che i moderni chiamano “estasi mistica” . Porfirio ci racconta che, durante i sei anni vissuti con lui, Plotino raggiunse quat­ tro volte l’obiettivo supremo, ossia l’unione con il Dio primo e trascendente. Gran parte dell’opera di Plotino, del resto, con­ serva la traccia di tali esperienze mistiche. Questo desiderio di un contatto sperimentale e unitivo con il profondo dell’essere resterà presente in tutta la tradizione neoplatonica. Damaselo, che fu uno degli ultimi diadochi della Scuola di Atene, narra che il suo maestro Isidoro non voleva adorare le statue degli dei, ma desiderava piuttosto avvicinarsi agli dei che si celano “all’interno” , ossia nel segreto della non-conoscenza assoluta. Questa non-conoscenza assoluta è lo stato di cui parla lo stes­ so Damaselo all’inizio del suo Trattato sui primi principi·, è lo stato in cui ci troviamo rispetto all’assoluto, che è totalmente inesprimibile, senza alcun rapporto con noi, e che non è nem­

meno più principio, tanto è trascendente e distaccato. È ben lontano dagli dei della religione antica questo Uno, questo as­ soluto, questo Dio trascendente e indicibile, unico e distaccato, che si può raggiungere solo abbandonando ogni forma, ogni determinazione, ogni concetto, ogni discorso, ogni personalità, attraverso un’estasi che riporta l’essere alle sue origini. Eppure questi filosofi neoplatonici si considerano ferventi pagani. Plotino, peraltro, non sembra aver tenuto in gran conto la pratica religiosa, mentre Porfirio, dal canto suo, ebbe su que­ sto punto un atteggiamento alquanto incerto: la sua Filosofia desunta dagli oracoli è un trattato di devozione pagana, mentre la Lettera a Anebo è una serie di aporie riguardanti il culto de­ gli dei. Porfirio, a quanto sembra, pensava che le pratiche re­ ligiose fossero uno strumento di salvezza per i non filosofi, ma che il filosofo, sacerdote del Dio supremo, dovesse dedicarsi al culto spirituale del D io trascendente, di cui egli enuncia le massime fondamentali, riallacciandosi alla tradizione neopita­ gorica, nella sua Lettera a Marcella:

Dunque, Plotino e Porfirio, a quanto pare, consideravano la filosofia come una sorta di religione trascendente, quella del Dio supremo. Invece i loro successori, i neoplatonici della Si­ ria e di Atene, avevano un’idea tutta diversa dei rapporti tra filosofia e religione: essi collocavano al di sopra della filosofia quello che chiamavano lo “ieratico” , ovvero le operazioni sa­ cre, la stretta osservanza dei riti e dei sacramenti voluti dagli dei. Giamblico fu il teorico del “movimento”, con il suo trat­ tato Sui misteri. Ai suoi occhi, la posizione di Plotino e Porfirio è utopistica. Solo un piccolissimo numero di uomini, giunti al crepuscolo della vita, può sperare di raggiungere l’unione con

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In ogni atto, ogni opera, ogni parola, vi sia il sentimento della presenza di Dio che osserva e che vigila [...]. Il solo tempio degno di Dio è l’intelligenza del saggio [...]. Non è la lingua del saggio che conta davanti a Dio, ma le sue opere; infatti, un uomo saggio onora Dio anche se tace, mentre un uomo stolto profana la divinità anche se le offre preghiere e sacrifici.

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il Dio trascendente; ma la natura umana è troppo corrotta, per via della sua unione con il corpo, per poter sperare di arriva­ re normalmente a tale beatitudine suprema. L’unica strada per noi praticabile verso il mondo divino è, dunque, quella che è stata stabilita dagli stessi dei; essa può risultare ripugnante al­ la nostra ragione, che non comprende né il senso dei riti, né le parole stesse che gli dei vogliono che pronunciamo durante le cerimonie. Tuttavia, qui bisogna appunto rinunciare all’intelligenza a favore della fede e compiere i riti senza capirli, giacché i loro effetti travalicano la nostra intelligenza. La loro efficacia non dipende dalla nostra ragione, né dalla nostra coscienza, ma è contenuta nei sacramenti stessi. Queste riflessioni fanno irresistibilmente pensare a certe formule di Pascal a proposito della pratica religiosa. Tali teorie furono ampiamente messe in pratica nelle Scuole di Atene e di Alessandria dal IV al VI secolo, e in certi ambienti dell’aristocrazia romana alla fine del iv secolo. Le Lettere e i Di­ scorsi dell’imperatore Giuliano, le Vite dei sofisti di Eunapio, la Vita di Proclo di Marino, la Vita di Isidoro di Damaselo abbon­ dano di aneddoti edificanti, che ci informano sulla pietas de­ gli ambienti intellettuali. Quei devoti pagani praticavano con fervore digiuni, sacrifici, divinazioni, facevano bagni rituali e pellegrinaggi ai santuari più rinomati; erano attenti a tutti gli avvertimenti divini, ai sogni, ai segni misteriosi, alle guarigioni miracolose, a tutte le molteplici testimonianze della benevolen­ za divina, e credevano agli esorcismi e alle visioni del futuro ne­ gli specchi. Ci si sorprende di trovare tanta credulità, tanta in­ genuità, tante superstizioni in uomini che, per altri versi, erano logici e metafisici di vaglia; d’altronde, già nel π secolo Luciano aveva descritto, nel Philopseudes, alcuni rappresentanti delle scuole filosofiche dell’epoca - platonici, aristotelici, stoici - che rivaleggiavano per superstiziosa ingenuità. La tradizione, come si vede, era solidamente radicata; ma negli ultimi neoplatoni­ ci la pratica religiosa si accompagna a un sentimento religioso quasi estatico. Damaselo, per esempio, racconta che Eraisco era capace di “sentire” fisicamente se la statua di un dio era veramente animata dalla potenza divina: egli provava un tuffo

al cuore, come se fosse in preda a una possessione divina, e la sua anima e il suo corpo fremevano d ’entusiasmo. L’esistenza di questi ultimi fedeli del paganesimo non sol­ tanto è immersa nel soprannaturale e nel meraviglioso, ma è anche governata da un puritanesimo e da un odio per il mondo sensibile molto lontani dall’antica religione. In questi ambienti regna un orrore morboso per tutto ciò che ha a che fare con le realtà sessuali. A Eraisco veniva l’emicrania nelle vicinanze di una donna mestruata, e la filosofa Ipazia guarì un suo discepo­ lo dalla passione che questi provava per lei mostrandogli dei panni macchiati di flusso mestruale. L’ideale di questi circoli pagani è la vita angelica: “Chi è veramente ieratico” , dice Pro­ clo, “brilla come un angelo in tutta la sua virtù” . “Angelica” era anche il termine impiegato dai cristiani dell’epoca per de­ finire la vita monastica. Pagani e cristiani aspirano, dunque, al medesimo ideale: fuggire il mondo. Vero è che gli ultimi paga­ ni, perseguitati dagli imperatori cristiani, e rifugiatisi nell’astra­ zione metafisica, erano divenuti a loro volta stranieri quaggiù.

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PAGANESIMO E CRISTIANESIMO. IL CONFLITTO

“ Stranieri quaggiù” era appunto il rimprovero rivolto ai cri­ stiani dalla polemica pagana. “La figura di questo mondo pas­ sa. ” Alle sue origini, nelle sue stesse radici, il Cristianesimo non era forse una dottrina escatologica? La salvezza si avvicina, la fine dei tempi è imminente, il regno di Dio si manifesterà, si creeranno un nuovo cielo e una nuova terra, la nuova G eru­ salemme scenderà dai cieli. Il Cristianesimo, a motivo di que­ sta sua ispirazione intrinseca, è necessariamente negazione del mondo presente, nella sua struttura politica, sociale, economi­ ca e persino fisica. I filosofi pagani lo avvertirono chiaramente, e fu questa la colpa fondamentale che rimproverarono al Cri­ stianesimo - che la polemica si collocasse su un piano storico­ politico o su un piano metafisico. Prima di tutto, si potrebbe anche pensare che buona parte delle argomentazioni dei filosofi pagani contro i cristiani fosse

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ispirata unicamente da una mentalità conformista, da un cieco rispetto per l’ordine costituito e le usanze ricevute. Si rileva­ va come il Cristianesimo mancasse di prestigio, di eroismo, di splendore. Gesù, durante il suo processo e nel momento della morte, non si era comportato come un saggio o un uomo di­ vino; si era fatto sputare in faccia e incoronare di spine, non aveva tenuto alcun discorso coraggioso ed energico, ma si era lasciato insultare come un qualsiasi malfattore dei bassifondi ed era morto subendo un supplizio ignominioso. L a sua fa­ mosa resurrezione era avvenuta alla presenza di povere donne e semplici di spirito. Gli apostoli erano solo degli zotici e dei disgraziati, che avevano seguito il Cristo per ingenuità, e ave­ vano incontrato una fine altrettanto vergognosa. D ’altronde, la propaganda cristiana si era sempre rivolta ai poveri e agli ignoranti, ispirando loro disprezzo per la vera nobiltà e per la ricchezza. Nel Cristianesimo non vi era, dunque, posto per i valori essenziali dell’ellenismo, ossia l’eroismo, l’eloquenza, la bellezza, la scienza. Per di più, i cristiani si comportavano come “nemici del genere umano”, rifiutando di integrarsi nella vita della città, nelle tradizioni religiose e culturali che le davano coesione; tuttavia, come osserva Celso, mangiavano, bevevano, si sposavano, partecipavano alle gioie della vita nonché ai mali che le sono inerenti - quindi, si giovavano dell’ordine sociale e politico. Era pertanto giusto che anch’essi pagassero il dovuto tributo d ’onore agli imperatori che su questo ordine vegliava­ no, e che adempissero ai doveri imposti dalla vita cittadina. Se rifiutavano di accettare le tradizioni e i costumi della nazione in cui vivevano, i cristiani avrebbero dovuto per lo meno esi­ liarsi e rinunciare a partecipare alla vita comune. NelVOttavio di Minucio Felice, l’interlocutore pagano del dialogo parla dei cristiani come del “popolo che si nasconde e che fugge la luce” . Dietro queste accuse, c’è qualcosa di più della consueta osti­ lità dell’establishment nei confronti di individui che, in un mo­ do o nell’altro, potrebbero turbare l’ordine costituito; in real­ tà, qui c’è tutta una filosofia della storia. Rifiutare le tradizioni religiose nazionali significa condannarsi all’errore, allontanarsi dal divino per lasciarsi accecare dalle invenzioni umane. In ef­

fetti, la verità è stata rivelata all’umanità primitiva dalla natura. All’origine delle tradizioni di ogni popolo ci sono degli uomini divini, legislatori, poeti, re o filosofi ispirati, come per esempio Lino, Museo, Orfeo, Omero, Pitagora per i greci. E poi, del resto, ogni popolo è anch’esso guidato da un suo “genio”, dio o demone, ispiratore e guardiano delle leggi, delle tradizioni, dei costumi, delle credenze, dei riti nazionali. Più una dottrina religiosa o filosofica è antica, più essa è vicina allo stato primi­ tivo dell’umanità, in cui la ragione era ancora presente in tutta la sua purezza, e più essa è venerabile e veritiera. La tradizio­ ne storica è, quindi, la norma della verità; verità e tradizione, ragione e autorità si identificano. Per questo motivo Celso in­ titolò la sua opera di polemica anticristiana Discorso vero: egli intendeva con questo “antica norma” , “vera tradizione” . Tale tradizionalismo è, peraltro, decisamente pluralista. I greci e i romani non sono i soli a possedere preziose tradizioni religiose; gli egiziani, i caldei, gli indiani, gli ebrei furono anch’essi ispi­ rati dagli dei, alle loro origini. Nessuna tradizione, per quan­ to venerabile, può pretendere di essere la sola a possedere la verità; la verità è diffusa sotto forme diverse in tutti i popoli, nessuno dei quali è l’unico depositario dei segreti divini. “Non è possibile arrivare a un mistero così grande per una sola stra­ d a” , scriveva Simmaco alla fine del iv secolo e, cent’anni pri­ ma, Porfirio aveva già affermato che non conosceva alcuna via di salvezza che fosse universalmente valida per tutti gli uomi­ ni. Quando i pagani rimproverano ai cristiani di non integrarsi nella vita della città e di rifiutare le antiche tradizioni, li accu­ sano di mancare di radici storiche, di non avere contatto con le fonti viventi della verità. E interessante esaminare la reazione dei cristiani a tali argo­ mentazioni. D opo che il Cristianesimo ebbe trionfato politi­ camente, allorché divenne a sua volta religione nazionale, esso contrappose un risoluto progressismo a questo genere di tradi­ zionalismo conservatore. Ambrogio parla di evoluzione neces­ saria, di progresso verso il meglio, di maturazione inevitabile; Prudenzio deride la cieca fedeltà dei pagani alle loro obsolete consuetudini. Nei primi secoli dell’era cristiana, per contro, gli

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apologisti avevano tutt’altro atteggiamento, e ammettevano il postulato dei loro avversari. Anche per loro la verità si identi­ ficava con la tradizione e l’antichità; e, infatti, essi sostenevano appunto di rappresentare la più antica tradizione dell’umanità, l’unica vera, essendo tutte le altre niente di più che deforma­ zioni di questa rivelazione primitiva e unica. Peraltro, gli apo­ logisti cristiani avevano ripreso questo m odo di argomentare da quelli ebraici; ma essi lo completano dimostrando che la Chiesa cristiana è l’unica, vera erede legittima della tradizione ebraica, l’autentico Israele, e la sola a comprendere il signifi­ cato della legge e dei profeti. E così pagani e cristiani furono trascinati in un’ampia di­ scussione cronologica, in cui ciascuno cercava di dimostrare che la sua tradizione era più antica di quella dell’avversario. Si cercava, quindi, di datare Mosè, ma anche i legislatori, i poeti, i fondatori delle religioni dei vari popoli. In questa prospettiva, si comprende l’importanza ideologica delle cronografie redat­ te sia da pagani come Flegonte di Tralles, sia da cristiani come Giulio Africano, Ippolito o Eusebio di Cesarea. Porfirio e l’imperatore Giuliano spostarono la discussione su un altro terreno. Essi non misero in dubbio l’anzianità del popolo ebraico, anzi Porfirio, per confermarla, arrivò persino ad appoggiarsi alla testimonianza del misterioso Sanchoniathon, anteriore alla guerra di Troia; però, contestarono ai cri­ stiani il diritto di appropriarsi della storia di un popolo di cui non rispettavano le tradizioni nazionali. Porfirio e Giuliano ammettono pienamente la legittimità e il valore delle tradizioni ebraiche; il Dio degli ebrei ha un posto riconosciuto nel pan­ theon dell’umanità. Tuttavia, gli ebrei hanno il torto di voler fare del loro Dio nazionale un Dio universale. Quanto ai cri­ stiani, non hanno alcun diritto di riallacciarsi a una tradizione alla quale non si mantengono fedeli; degli ebrei, non hanno conservato che l’umore aspro. Per giunta, Porfirio sottopone le scritture ebraiche a una critica storica molto serrata: da un lato, si tratta di testi molto più tardi di quanto si pensi; dall’al­ tro, non hanno nulla a che vedere con il Cristianesimo.

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Di Mosè nulla si conserva; si dice che tutte le sue opere siano state bruciate, insieme con il Tempio. Tutto ciò che va sotto il nome di Mosè fu scritto successivamente, compilato in modo poco accurato da Esdra millecentottanta anni dopo la sua mor­ te. E sarebbero di Mosè quegli scritti in cui il Cristo è definito Dio, Dio-Logos o Creatore del mondo? Chi ha parlato della crocifissione di Cristo? Porfirio dimostra anche che il Libro di Daniele è una profe­ zia post eventum, scritta non all’epoca di Ciro, ma a quella di Antioco Epifane; su questo punto, egli precorre le conclusioni della critica moderna. Porfirio sottopone alla stessa acuta critica i racconti evange­ lici; studia con la massima attenzione il Nuovo Testamento, e non lascia passare alcuna contraddizione, alcuna incongruen­ za, che si tratti delle genealogie di Cristo, dei racconti della pas­ sione o della resurrezione. Insiste sulla stupidità degli apostoli, sulle rivalità e sulle dispute tra Pietro e Paolo, sulle deforma­ zioni subite dall’insegnamento di Gesù. Molto probabilmente, tali critiche corrispondono allo stesso disegno fondamentale: si tratta di dimostrare ai cristiani che la loro religione è priva di fondamento storico, e che non ha nemmeno la certezza dell’au­ tenticità delle proprie tradizioni, benché esse siano assai recenti. In questa discussione, pagani e cristiani hanno, dunque, una concezione analoga della verità: per gli uni e per gli altri, la ve­ rità è un fatto storico di origine divina, una rivelazione fatta, in un determinato momento, da Dio all’umanità. Ne consegue che le loro idee della filosofia e della teologia sono identiche: il pensiero umano non può essere che esegetico, ossia deve cer­ care di interpretare un dato iniziale che è, appunto, la rivelazio­ ne contenuta nei miti, nelle tradizioni, nelle leggi più antiche. Agli occhi dei pagani, quindi, i cristiani non sono veramente inseriti nella storia. Questa situazione spirituale ha ragioni me­ tafisiche. La dottrina cristiana, nel suo contenuto originario, si oppone totalmente alla metafisica ellenica. All’epoca in cui il Cristianesimo comincia a svilupparsi, le scuole filosofiche paga­ ne che restano vive, ossia lo stoicismo e il platonismo, ammet­ tono comunemente i seguenti assiomi: prima di tutto, in virtù 143

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della sua stessa bontà, Dio non può smettere di agire, ow ero di esercitare il proprio intelletto creatore; in secondo luogo, in virtù della sua razionalità, Dio non può concepire altro che un sistema di idee o di ragioni interamente determinato, quindi, finito e immutabile. Ne consegue che il mondo dev’essere al tempo stesso finito e infinito: finito nella struttura o nel dise­ gno, infinito nella durata. Finito nella sua struttura, il mondo comporta un numero finito di anime o di essenze. Infinito nella sua durata, che nasce dall’eternità del pensiero divino, il mon­ do è sottoposto a un eterno movimento (di cui gli astri sono il miglior modello), oppure a un eterno ciclo di nascite e distru­ zioni, in cui lo stesso numero di essenze o di anime o di “ragio­ ni” rimane rigorosamente identico all’interno di ciascuno di tali periodi. Il creatore della metafisica ellenica è un buon re il cui potere è limitato dalla legge (l’universo delle idee, la ragione) cui egli si sottomette. Agli occhi dei neoplatonici la sua opera, il mondo sensibile, è sicuramente inferiore al mondo immuta­ bile delle idee; ma poiché ne deriva e ne è la copia, è quanto vi è di più bello e di più perfetto nel suo genere. Per i polemisti pagani, i cristiani immaginano Dio come un tiranno dai capricci imprevedibili e disprezzano il mondo sen­ sibile, la cui esistenza è peraltro, secondo la loro dottrina, to­ talmente irrazionale. Essi, appunto, credono che D io abbia compiuto e compirà tutta una serie di atti assolutamente im ­ prevedibili e arbitrari: la creazione del mondo in un certo m o­ mento del tempo, l’elezione del popolo ebraico, il rifiuto del popolo ebraico, l’incarnazione, la resurrezione e infine la di­ struzione del mondo. “Con quale disegno”, chiedeva Proclo ai cristiani, “Dio, do­ po essere rimasto inattivo per un tempo infinito, improvvisa­ mente si metterà a creare? Perché gli è venuto in mente che sarebbe meglio? M a che fosse meglio, prima, Dio lo ignorava oppure no? Che lo ignorasse, è strano; e se lo sapeva, perché non ha cominciato prima? ” Allo stesso modo, anche l’elezione del popolo ebraico è del tutto irrazionale: perché lasciare gli idolatri nell’ignoranza più totale per migliaia di anni, e manifestarsi unicamente a un pic­

colo popolo che non abitava che una parte della Palestina? È quello che faceva notare l’imperatore Giuliano, mentre Celso aveva già paragonato gli ebrei e i cristiani a un gruppo di ver­ mi della terra che avrebbero preteso di essere l’unico oggetto delle attenzioni divine:

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E a noi che Dio rivela e preannuncia ogni cosa. Trascurando tutto quanto l’universo e il corso degli astri, senza curarsi del­ la vasta terra, solo per noi governa, solo con noi comunica per mezzo dei suoi inviati [...]. È per noi che tutto è stato fatto, e tutto è stato predisposto a nostro servizio.

Anche il fatto che Dio abbia deciso di incarnarsi a un dato momento è irrazionale, e lo è doppiamente: perché aver lasciato l’umanità priva dei benefici della rivelazione per secoli, perché aver permesso che tante anime si perdessero? Ma soprattutto, come e perché Dio avrebbe avuto bisogno d’incarnarsi? Non è forse presente ovunque? H a forse necessità di mostrarsi come un arricchito che vuole esibirsi davanti alla folla? Se Dio discen­ de personalmente tra gli uomini, sconvolge l’ordine di tutto l’u­ niverso; si sottomette a un cambiamento, il che è impossibile, e, peggio ancora, a un cambiamento verso il basso. L’idea della fine del mondo è ancora più inammissibile. Su questo punto, è Por­ firio a formulare le critiche più veementi. Come può essere pos­ sibile che il creatore faccia “passare la figura di questo mondo” ? Bisogna supporre che non sia stato capace di dare una forma adeguata e appropriata all’universo sin dal primo momento del­ la creazione, e che non se ne sia accorto che a cose fatte? Perché questa imprevedibile decisione di cambiare? Infine, anche la re­ surrezione sconvolge l’ordine dell’universo, perché interrompe la successione definita delle creature, le leggi di trasformazione degli elementi. Porfirio ben riassume la sostanza di tali obiezioni: Si dirà: “Dio può tutto”. Ma questo non è vero. Non può far sì che due per due sia eguale a cento, e non a quattro, giacché la sua potenza non è l’unica regola dei suoi atti e della sua volon­ tà. Egli vuole che le cose abbiano anche una regola intrinseca, e osserva la legge dell’ordine.

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LA CONTAMINAZIONE

Precisiamo che per contaminazione intendiamo il proces­ so in base al quale paganesimo e Cristianesimo sono giunti a adottare idee o comportamenti caratteristici dei loro avversari. La contaminazione del Cristianesimo da parte del paganesi­ mo è iniziata molto presto nella storia del Cristianesimo. Essa era necessariamente legata al carattere missionario del Cristia­ nesimo. Per tradurre il suo messaggio nel mondo del pensiero greco-romano, il Cristianesimo nascente dovette adattarsi alle forme culturali e artistiche preesistenti, in attesa di insinuarsi, successivamente, nelle forme politiche e sociali del mondo an­ tico. La contaminazione fu facilitata dal fatto stesso dell’evo­ luzione del paganesimo, di cui abbiamo già parlato: per motivi politici, sociali, ideologici e filosofici l’antica religione a poco a poco si trasformò, evolvendosi verso il monoteismo gerarchico, verso la mistica e la devozione. È a questo neopaganesimo che il Cristianesimo si mescolò intimamente, mutuandone l’idea stessa di teologia, i metodi e i principi teologici, l’idea stessa e i metodi della mistica. Del resto, i polemisti pagani rimprove­ rarono queste appropriazioni ai teologi cristiani, di cui denun­ ciarono il politeismo travestito; il concetto di “Figlio di D io” pareva loro incompatibile con un monoteismo che si voleva assoluto. L’imperatore Giuliano ebbe buon gioco nel mettere in rilievo questa incongruenza: gli bastò evocare le dispute dei teologi cristiani della sua epoca, che discutevano a proposito della somiglianza o della differenza tra D io e suo Figlio. P e­ raltro, lo stesso apologista cristiano Eusebio di Cesarea aveva accostato le dottrine di Plotino e di Numenio sul primo e sul secondo Dio all’insegnamento cristiano relativo ai rapporti tra il Padre e il Figlio. D ’altra parte, come fece notare Porfirio, la dottrina cristiana degli angeli non implicava forse anch’essa un politeismo intrinseco? Gli angeli non erano forse, come gli dei, potenze subalterne rispetto al Dio supremo, che aveva assegnato loro una funzione particolare neH’amministrazione dell’universo? E d è vero che certe affermazioni di Origene su­ gli angeli differiscono assai poco dalla dottrina pagana riguar­

dante gli dei, gli elementi e le nazioni. Dopo la conversione di Costantino, il fenomeno della contaminazione si prolungò e si intensificò. In effetti, gli imperatori cristiani ereditarono non soltanto il cerimoniale di corte inaugurato da Diocleziano, ma anche e soprattutto l’ideologia imperiale, per cui la figura di Cristo e quella dell’imperatore finirono in un certo senso per sovrapporsi. Cristo fu concepito come un imperatore trascen­ dente, circondato dalla corte celeste, mediatore tra Dio e gli uomini, ma l’imperatore stesso divenne un altro Cristo, una sorta di incarnazione del logos. La filosofia neoplatonica, ben­ ché decisamente pagana, impregnò in misura sempre maggiore la teologia cristiana. L’universo gerarchico di Proclo servì da modello alle gerarchie celesti ed ecclesiastiche dello PseudoDionigi. Gerarchia e ieratismo: due concetti che riassumono tutta l’essenza del paganesimo languente, e che possono servi­ re anche a definire l’universo cristiano bizantino. La contami­ nazione tra neopaganesimo e Cristianesimo raggiunge il suo livello più alto. In senso inverso, la contaminazione fu molto più lenta e molto più limitata. Nei primi secoli, negli ambienti pagani si possono constatare alcuni tentativi, piuttosto superficiali, di assimilare elementi cristiani. L’imperatore Alessandro Severo, per esempio, assegna un posto a Cristo nel suo pantheon. Un certo Mara Bar-Serapion, in una lettera scritta in siriaco, para­ gona Cristo, che chiama “il saggio re” degli ebrei, a Socrate e a Pitagora: pur essendo stati tutti e tre messi a morte dai loro concittadini, sono tutti sopravvissuti - Socrate grazie a Plato­ ne, Pitagora grazie alla statua che gli fu innalzata, Cristo grazie alle leggi da lui promulgate. Più importante di questi effimeri accostamenti fu il fenomeno di simbiosi che si verificò in alcu­ ni momenti, in particolare dopo la conversione di Costantino, nella Roma della prima metà del IV secolo; immagini pagane e immagini cristiane, usanze pagane e usanze cristiane coesisto­ no pacificamente, per esempio nel calendario romano del 354. Questa simbiosi corrisponde a un preciso ideale di tolleranza, che il filosofo Temistio, in quella stessa epoca, e lo storico Ammiano Marcellino, un po’ più tardi, difesero molto nobilmente.

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Q uest’ultimo era un ammiratore dell’imperatore Giuliano, al quale rimproverò le misure repressive da lui adottate contro i retori cristiani; peraltro, egli non faceva mistero di provare una certa ammirazione per la religione cristiana, ma personalmente professava una sorta di “monoteismo neutrale” . Alcuni paga­ ni ebbero addirittura una certa venerazione per Cristo. Questa simbiosi tra paganesimo e Cristianesimo a volte si crea nell’in­ timo delle coscienze individuali. L’esempio più straordinario è quello di Sinesio, discepolo di Ipazia (la filosofa pagana) e ve­ scovo cristiano di Cirene: i suoi Inni possono essere considerati ispirati dalla dottrina trinitaria cristiana, così come, al contra­ rio, rappresentativi di una teologia pagana che si potrebbe rial­ lacciare alla tradizione di Porfirio. Di molti personaggi vissuti a quell’epoca, è lecito chiedersi se fossero pagani o cristiani; è il caso di Ausonio e di Claudiano, i quali, benché ufficialmente cristiani, restano essenzialmente pagani nella loro ispirazione poetica. Analogamente, paganesimo e Cristianesimo convivo­ no anche nella personalità di Boezio: non c’è alcuna traccia di Cristianesimo nella sua Consolazionel E si è dubitato a lungo dell’autenticità dei suoi scritti teologici. Il pensiero cristiano ha influenzato molto poco quello paga­ no; tutt’al più, si può riconoscere che i polemisti pagani siano stati indotti ad accettare la problematica cristiana per confu­ tarla. E possibile, per esempio, che Celso abbia elaborato la sua filosofia della storia per rispondere a quella del cristiano G iu­ stino, come ha mostrato C. Andresen. Forse anche in Plotino si può individuare un certo modo di presentare il mito di Zeus e Cronos utilizzando un vocabolario cristiano, nell’intento di confutare meglio la dottrina gnostica cristiana della fabbrica­ zione deLmondo da parte di un Dio creatore. Porfirio sembra essere quello che si è spinto più avanti su questa strada, al pun­ to che Giamblico gli rimprovera di aver fatto appello, nella Let­ tera a Anebo, alle opinioni degli atei, ossia dei cristiani, i quali pensano che tutta la divinazione sia opera dei demoni cattivi. Porfirio ritenne probabilmente che quell’opinione dei cristiani fosse degna di seria considerazione; tuttavia, non si deve crede­ re, come hanno fatto alcuni storici, che l’evocazione, da parte

di Porfirio, delle virtù della fede, della speranza e dell’amore che si trova nel passo della Lettera a Marcella precedentemente citato provenga dal Cristianesimo. Ciò significherebbe disco­ noscere l’evoluzione del paganesimo di cui abbiamo parlato prima; una simile dottrina si ritrova in altri testi pagani, primi tra tutti gli Oracoli caldaici. Sono le istituzioni cristiane che hanno soprattutto affasci­ nato i pagani; le riforme religiose dell’imperatore Giuliano ne sono la miglior prova. G ià all’inizio del iv secolo, Massimino D aia aveva tentato di riorganizzare il sacerdozio pagano sul modello della Chiesa cristiana, costituendo delle provin­ ce ecclesiastiche governate da un metropolita; però Giuliano va molto oltre. Non soltanto egli riprende l’idea di Massimino Daia, ma soprattutto vuole che la nuova Chiesa pagana imiti la Chiesa cristiana nelle sua varie attività liturgiche, catechistiche e caritatevoli. Pur essendo un po’ tendenziosa, la testimonianza di Gregorio Nazianzeno a questo proposito non manca d’inte­ resse: Giuliano avrebbe voluto istituire in tutte le città un inse­ gnamento religioso riguardante le credenze “elleniche” , ossia pagane, in cui agli ascoltatori sarebbe stata impartita l’esegesi morale e mistica dei miti pagani. Inoltre, l’imperatore avrebbe voluto istituire preghiere litaniche, nonché la pubblica peni­ tenza per i peccatori; e avrebbe desiderato fondare ricoveri e ospizi, asili per fanciulle, monasteri e luoghi riservati alla con­ templazione. Numerose lettere di Giuliano ci rivelano la sua intenzione di imporre al clero pagano una disciplina analoga a quella cui era sottoposto il clero cristiano. I sacerdoti avreb­ bero dovuto condurre una vita irreprensibile, evitando le let­ ture licenziose e la frequentazione dei teatri e del circo; tutta la loro attività doveva essere dedicata alla preghiera, alle let­ ture filosofiche, alla recitazione di inni in onore della divinità, a doveri missionari e caritatevoli: “Ciò che ha maggiormente contribuito allo sviluppo dell’ateismo (cioè del Cristianesimo) è l’umanità nei confronti degli stranieri, la preveggenza per la sepoltura dei morti e una gravità simulata nella vita. Ecco di che cosa dobbiamo occuparci, senza mettervi alcuna finzione”. Giuliano credeva di difendere l’antica religione; ma, da una

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parte, l’imperatore filosofo, volendo dare al paganesimo l’or­ ganizzazione della Chiesa cristiana, rivela la profonda influenza che l’educazione cristiana ricevuta nell’infanzia ha esercitato su di lui. Dall’altra, la religione che egli crede di restaurare non è l’antica religione pagana, bensì un monoteismo filosofico che si esprime nel linguaggio della mitologia greca. La profonda trasformazione subita dalla religione antica è confermata nel modo più evidente dal fatto stesso che Giuliano abbia potuto pensare di imporle le istituzioni della Chiesa cristiana. Perché questo fosse possibile, bisognava che il paganesimo fosse di­ ventato un corpo di dottrina con dogmi stabiliti, dotato di una teologia sistematizzata e di un preciso insegnamento morale; esattamente quello che il neoplatonismo di Giamblico aveva apportato alla religione greca. Ma, in realtà, qui siamo già di fronte alla fine del paganesimo e alla comparsa di una religione nuova, quel neopaganesimo destinato a rivivere in pieno Rina­ scimento nell’animo di tanti umanisti, e al quale Gemisto Pletone tenterà di ridare, a Mistrà, un’esistenza concreta.

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INDICE DEI NOMI

Adrasto di Afrodisiade, 18 Agostino d’Ippona, 60 Albino, 19,39n Alceo, 46 Alcmeone di Crotone, 4 6 ,56n Alessandro di Afrodisia, 18 Alessandro Magno, 27,120 Alessandro Severo, 147 Ambrogio, 141 Amelio, 21,136 Ammiano Marcellino, 147 Anassagora, 45,47 Andresen, Cari, 40n, 148 Antioco Epifane, 143 Antistene, 17 Apelle, 63-64 Apollonio di Tiana, 135 Arcesilao, 87 Archiloco, 46 Aristea di Proconneso, 46 Aristotele, 15,17-18,20-21, 23,26-27,38n,39n, 40n, 45,50,53-55,57n, 60,62,70,73-75,78, 80n, 84,87-89,92,98,104n, 107-108,110-112,116, 126-127,129 Arnobio, 130 Arriano, 19,66 Aspasio, 18 Attico, 18

Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 119,121-122 Aureliano, Lucio Domizio, 121-122 Ausonio, Decimo Magno, 148 Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino, 148 Bréhier, Émile, 71,73, 80n Brunner, Fernand, 6 0 ,79n Caligola, Gaio Giulio Cesare Germanico, 121 Carmide, 17 Cartesio (René Descartes), 60 Catone, Marco Porcio, detto l’Uticense, 96 Celso, 11,27-28,40n, 140-141, 145,148 Cicerone, Marco Tullio, 24, 38n, 40n, 8 8 ,9 5 ,104n, 105n, 118n, 127,130 Ciro (re), 143 Claudiano, Claudio, 148 Cleante di Asso, 17 Clearco di Soli, 27,29,84 Clemente Alessandrino, 20,28, 39n,40n, 105n Colote di Lampsaco, 9 0 ,104n Commodo, Marco Aurelio, 121 Cornuto, Lucio Anneo, 127 Costantino, Flavio Valerio, 121-123,147 151

INDICE DEI NOMI

Crantore di Soli, 17 Crasso, Marco Licinio, 17 Crisippo, 55, 64, 92 Cromo, 18 Damaselo, 42n, 134,136,138 Decharme, Paul, 114,117n Decio, Gaio Messio Quinto, 121 Dicearco di Messina, 79 Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, 121,147 Diogene d’Enoanda, 115, 118n Diogene il Cinico, 25, 101 Diogene Laerzio, 38n, 39n, 57n, 7 1 ,79n, 80n, 105n Dione Crisostomo, 127 Domiziano, Tito Flavio, 121 Ecateo di Mileto, 46 Empedocle, 44-45 Epicuro,.59, 63,65-66, 69, 78, 79n, 89-90, 92, 99, 102,104n, 105n, 108,113-115,117n, 118n Epitteto, 17 ,1 9 ,38n, 62,66-69, 72, 7 8 ,79n, 80n, 9 7 ,105n, 112, 115,117,118n Eraclide Pontico, 17 Eraclito, 17,21,48,50-52 Eraisco, 138-139 Erodoto, 46-47 Esiodo, 2 6 ,3 5 ,4 7 ,104n, 107 Euclide, 35,42n, 59 Eunapio, 138 Euripide, 51, 104n Eusebio di Cesarea, 4 In, 122, 133,135,142,146 Evagrio Pontico, 2 0 ,39n Festugière, André-Jean, 56n, 69, 80n, 104n, 113, 117n Filodemo, 90 Filolao, 35 Filone Alessandrino, 70, 77, 80n, 87 Filostrato, Flavio, 135

Flegonte di Tralles, 142 Foucault, Michel, 9 8 ,105n Friedmann, Georges, 8 3 ,103n Gaio, 18 Galeno, 4 6 ,56n Geffcken, Johannes, 123 Gelilo, Aulo, 17-18,38n, 104n Gemisto Pletone, 29,150 Giamblico, 35-36,4In, 42n, 127,130, 134,137,148,150 Giuliano, Flavio Claudio, detto l’Apostata, 127,138,142, 145-146, 148-150 Giuliano il Caldeo, 31-32,134 Giuliano il Teurgo, 30-32,134 Giulio Africano, 142 Giustino, 148 Goethe, Johann Wolfgang von, 135 Goldschmidt, Victor, 6 0 ,79n, 80n, 118n Gregorio il Taumaturgo, 40n Gregorio Nazianzeno, 149 Groethuysen, Bernard, 99, 105n Guéroult, Martial, 60 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 60 Hoffmann, Ernst, 9 1 ,105n Hòlderlin, Friedrich, 2 6 ,40n Ipazia, 139, 148 Ippia, 78 Ippolito, 142 Ippolito (personaggio mitico), 51 Isidoro, 136, 138 Isocrate, 5 0 ,57n, 85-86, 95, 104n Jacob, Franqois, 5 5 ,57n Kant, Immanuel, 52-53,57n Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 60 Licurgo, 128 Lieh Tzu, 102 152

INDICE DEI NOMI

Plinio il Vecchio, 5 5 ,57n, 118n Plotino, 1 8 ,2 6 ,3 0 ,38n, 40n, 46,53-54,56n,57n, 60,62, 66,77-78, 81n, 10 1 ,105n, 107-108,110-112,116, 126-127,130,133-134, 136-137,146,148 Plutarco, 2 8 ,39n, 41n, 64,70, 7 5 ,7 8 ,79η, 80n, 81n, 104n, 105n, 127 Polemone, 62,78 Polibio, 130 Porfirio, 21-24,29,35,38n, 39n, 40n, 41n, 42n, 4 6 ,56n, 79n, 105n, 116,122,127, 130,133-137,141-143, 145-146,148-149 Proclo, 30-36,38n, 39n, 41n, 42n, 59,127,130,138-139, 144,147 Protagora, 46 Prudenzio Clemente, Aurelio, 141 Psello, Michele, 29-31,4 In Pseudo-Dionigi, 147 Puech, Henri-Charles, 125 Quintiliano, Marco Fabio, 24, 39n,40n Ricci, Matteo, 1 1 7 ,118n Robin, Léon, 4 8 ,57n, 9 9 ,105n Rodier, Georges, 11 5 ,118n Saffo, 46 Saffrey, Henri-Dominique, 31, 4 In,42n Sallustio neoplatonico, 127 Schmalzriedt, Egidius, 4 6 ,56n Schneider, Klaus, 40n, 8 8 ,104n Seneca, Lucio Anneo, 38n, 87, 95-96, 98-99,104n, 105n Senofonte, 57n, 81n, 109 Sesto Empirico, 63-64,79n, 80n Severo, 18 Siero, 17

Lino, 141 Luciano di Samosata, 93, 105n, 138 Lucrezio Caro, Tito, 69-70, 80n, 89, 99-100,104n, 105n Malebranche, Nicolas de, 60 Mara Bar-Serapion, 147 Marco Aurelio, 31,66,68, 80n, 9 7 ,9 9 ,1 0 1 ,103,105η, 112, 134 Marino, 3 3 ,38n, 4 In, 42n, 138 Mario Vittorino, 2 4 ,40n, 133 Massimino Daia, 149 Massimo di Tiro, 127 Meillet, Antoine, 6 0 ,79n Metrodoro, 70, 80n, 99 Michelet, Jules, 8 8 ,104n Minosse, 128 Minucio Felice, 140 Mosè, 142-143 Museo, 128,141 Musonio Rufo, 68 Nerone, Lucio Domizio, 121 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 100,105n Numenio di Apamea, 18, 27, 3 0 ,40n, 133,146 Omero, 2 1 ,3 5 ,1 0 7 ,117n, 128, 141 Orfeo, 27,34-36,42n, 128,141 Origene, 2 0 ,39n, 40n, 133,146 Parmenide, 22-23,25-26,36-37, 39n, 42,48-49 Pascal, Blaise, 111, 138 Pirrone di Elide, 25,101,103 Pitagora, 27-28,35-37,42n, 141.147 Platone, 17-22,25-28,31-32, 34,36-38,39n, 40n,41n, 42n, 46,48-50,57n, 59-61, 63, 67, 70,73-78,79n, 80n, 84-88, 92-93,96, 9 9 ,104n, 105n, 107-112,116,126-127,129, 132.134.147 153

INDICE DEI NOMI

Schaerer, René, 62,79n Simmaco, 123-124,141 Sinesio di Cirene, 148 Socrate, 22,25,45,47-48,57n, 62-63,74,78-79,84-87,92, 9 6 ,104n, 105n, 109,114-115, 147 Sofocle, 52 Solone, 27,46, 84 Tauro, Lucio Calvisio, 17-19

Tchouang Tseu, 101 Temistio, 147 Teognide, 47 Varrone, Marco Terenzio, 127-128,131-132 Vuillemin, Jules, 60 Wieland, Wolfgang, 49,57n, 80n, 104n Zenone di Cizico, 78, 94,100 Zenone di Tarso, 71

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SCIENZA E IDEE

Ultimi volumi pubblicati 190. 191. 192. 193. 194.

I. Tattersall, II mondo prima della storia M.S. Gazzaniga, Human S. Dehaene, I neuroni della lettura M. Gribbin, J . Gribbin, Cacciatori di piante P. Goodchild, Il vero dottor Stranamore. Edward Teller

195. 196. 197. 198. 199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220.

e la guerra nucleare M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana K. Jaspers, Introduzione alla filosofia T. Metzinger, Il tunnel dell’io G. Guidorizzi, Ai confini dell’anima M. Romano, Ascesa e declino della città europea E. Bencivenga, La filosofia come strumento di liberazione A.D. Aczel, Le cattedrali della preistoria A. Noè, Perché non siamo il nostro cervello R.L. Gregory, Vedere attraverso le illusioni J.R. Searle, Creare il mondo sociale P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita R. Scruton, Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino S.S. Gubser, Il piccolo libro delle stringhe C. de Duve, Genetica del peccato originale S. Dehaene, Il pallino della matematica W.G. Naphy, La rivoluzione protestante G. Boniolo, Il pulpito e la piazza N. Carr, Internet ci rende stupidi? C. de Seta, Il fascino dell’Italia nell’età moderna V. Bianchi, Dracula T. Pievani, La vita inaspettata S. Tagliagambe, A. Malinconico, Pauli e Jung K.A. Appiah, Il codice d’onore R. Dunbar, Di quanti amici abbiamo bisogno? T. Nathan, Una nuova interpretazione dei sogni S. Kirshenbaum, La scienza del bacio