Il metodo Aristotele. Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita
 9788858430675

Table of contents :
Indice......Page 252
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 247
L’autrice......Page 249
Cronologia......Page 4
I luoghi di Aristotele......Page 5
Il metodo Aristotele......Page 6
Introduzione......Page 7
I. Felicità......Page 27
II. Potenziale......Page 42
III. Decisioni......Page 60
IV. Comunicare......Page 76
V. Conoscenza di sé......Page 96
VI. Intenzioni......Page 121
VII. Amore......Page 137
VIII. Comunità......Page 152
IX. Tempo libero......Page 172
X. Caducità......Page 188
Ringraziamenti......Page 217
Glossario......Page 218
Testi di approfondimento......Page 220
Indice analitico......Page 228

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Edith Hall

Il metodo Aristotele Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita Traduzione di Duccio Sacchi

Cronologia (tutte le date sono a.C.)

384 372 ca. 367 ca. 348 347 345-44 343 338-36 336

323 322

A Stagira nasce Aristotele, da Nicomaco e Festide. Muore il padre e Aristotele viene adottato da Prosseno di Atarneo. Aristotele si trasferisce ad Atene per studiare presso l’Accademia di Platone. Filippo II di Macedonia distrugge Stagira, che però fa ricostruire su richiesta di Aristotele. Alla morte di Platone, Aristotele lascia Atene e si trasferisce alla corte di Ermia, signore di Asso. Aristotele esegue ricerche zoologiche sull’isola di Lesbo. Filippo II invita Aristotele in Macedonia perché faccia da precettore al figlio Alessandro. Aristotele soggiorna probabilmente per alcuni periodi in Epiro e in Illiria. Filippo II è assassinato e Alessandro diventa re Alessandro III (Alessandro Magno). Aristotele torna ad Atene e fonda il suo Liceo. Alessandro Magno muore a Babilonia. Aristotele è processato per empietà ad Atene e si trasferisce a Calcide, dove muore.

I luoghi di Aristotele

In grassetto sono segnalati i luoghi dove visse Aristotele. Le aree punteggiate indicano il mondo di lingua greca nel IV secolo a.C.

Il metodo Aristotele

Questo libro è dedicato alla memoria di Aristotele di Stagira, figlio di Nicomaco e di Festide.

Introduzione

Le parole «felice» e «felicità» – happy e happiness – vanno alla grande. Potete comprare un Happy meal, o bere un cocktail economico a un happy hour. O magari prendere una «pillola della felicità» per tirarvi su, o postare una faccina felice sui social. Teniamo molto alla felicità. Nel 2014 Happy, di Pharrell Williams, è stato il singolo piú venduto negli Stati Uniti. La felicità, per Williams, era un fugace momento di euforia, era sentirsi leggeri come una mongolfiera. Sulla felicità, tuttavia, abbiamo le idee confuse. Quasi tutti pensano di volere essere felici, nel senso di raggiungere uno stato psicologico di contentezza durevole (diverso quindi da quello cantato da Williams). Quando si dice a un figlio di «volere soltanto che sia felice», si intende per sempre. Paradossalmente, però, nelle conversazioni di tutti i giorni felicità fa assai piú spesso riferimento alla banale gioia passeggera data da una bella mangiata, da un buon cocktail o da un messaggio di posta elettronica. O per dirla con la Lucy dei Peanuts, dopo un abbraccio con Snoopy, da un incontro con un «cucciolo caldo». Un happy birthday, un «compleanno felice», è sancito da qualche ora piacevole trascorsa a festeggiare l’anniversario della nascita. E se la felicità fosse una condizione esistenziale, che dura per tutta una vita? In questo caso, riguardo al modo di intendere una simile condizione, i filosofi si dividono essenzialmente in due partiti. Per il primo la felicità è qualcosa di oggettivo, qualcosa di percepibile, quindi, e anche di valutabile, da parte di un osservatore esterno o di uno storico. Felicità, per esempio, significa godere di buona salute, vivere a lungo, poter contare sull’affetto di una famiglia, essere liberi da preoccupazioni finanziarie o dall’angoscia. Stando a questa definizione, la regina Vittoria, morta ultraottuagenaria, madre di nove figli tutti vissuti fino in età adulta e ammirata in tutto il mondo, trascorse una vita evidentemente «felice». Maria Antonietta, invece, fu con altrettanta evidenza infelice: due dei suoi quattro figli morirono bambini, conobbe l’oltraggio del popolo e fu giustiziata quando aveva meno di quarant’anni. La maggior parte dei libri dedicati alla felicità si riferisce a questa

definizione oggettiva di «benessere», che è poi la stessa che viene studiata dalle ricerche promosse dai governi per misurare la felicità dei cittadini su scala internazionale. Ogni anno, dal 2013, gli Stati Uniti festeggiano il 20 marzo la Giornata mondiale della felicità, che si propone di promuovere la felicità misurabile ponendo fine alla povertà, riducendo la diseguaglianza e prendendosi cura della salute del pianeta. Sul fronte opposto però, ci sono filosofi che rifiutano questa visione, per propugnare al contrario un’idea soggettiva della felicità. A detta loro la felicità non va accostata al «benessere», ma alla «soddisfazione» o alla «letizia». Da questo punto di vista nessun osservatore può sapere se una certa persona è felice oppure no, ed è possibile che il piú chiassoso dei gaudenti sia affetto da una malinconia profonda. Questa felicità soggettiva può essere descritta, ma non misurata. Non possiamo stabilire se a essere stata piú felice per piú tempo nella sua vita sia stata Maria Antonietta o la regina Vittoria. Magari Maria Antonietta visse lunghe ore di immenso piacere, a differenza della regina Vittoria, che rimase presto vedova e trascorse molti anni in solitudine. Aristotele fu il primo filosofo a indagare questa felicità di tipo soggettivo. E mise a punto un programma raffinato e pieno di umanità per diventare persone felici, un programma che mantiene ancora intatta la sua validità. Aristotele fornisce tutto ciò che serve per evitare di fare la fine del protagonista della Morte di Ivan Ilič (1886), di Lev Tolstoj, che ormai agonizzante si rende conto di aver sprecato gran parte della vita a scalare la gerarchia sociale e ad anteporre i propri interessi egoistici alla compassione e ai valori di comunità, sposato per di piú a una donna che detestava. Al cospetto della morte imminente, odia i parenti piú stretti, che non vogliono neanche parlargli di ciò che gli sta accadendo. L’etica aristotelica comprende tutti gli aspetti che i pensatori moderni associano alla felicità soggettiva: l’autorealizzazione, la scoperta di «significato», il «flusso» di coinvolgimento creativo nella vita, le «emozioni positive» 1. Il libro che avete fra le mani presenta l’antica e veneranda etica aristotelica in un linguaggio contemporaneo. Applica cioè gli insegnamenti di Aristotele a svariate sfide pratiche della vita reale: prendere una decisione, scrivere una domanda di lavoro, parlare in un colloquio, usare la tabella dei Vizi e delle Virtú di Aristotele per un’analisi del proprio carattere, resistere alle tentazioni, scegliere gli amici e i partner.

In qualsiasi periodo della vita vi troviate, le idee di Aristotele possono rendervi piú felici. Sono pochi i filosofi, i mistici, gli psicologi e i sociologi che hanno fatto molto di piú se non riformulare le sue fondamentali intuizioni. Ma Aristotele le ha espresse per primo, meglio, piú chiaramente e in modo piú olistico di chiunque le abbia successivamente riprese. Ogni parte delle sue prescrizioni per essere felici si riferisce a una diversa fase della vita umana, ma al tempo stesso le interseca tutte. Diventare individui soggettivamente felici, amava ripetere Aristotele, è la nostra unica e grande responsabilità. È anche un grande dono: ciò che invece è alla portata della maggior parte di noi, a prescindere dalle circostanze, è decidere di diventare felici. Resta il fatto che intendere la felicità come uno stato interiore, personale, presenta comunque alcuni aspetti di ambiguità. Che cos’è insomma la felicità? I filosofi moderni si accostano al problema della felicità soggettiva da tre diverse direzioni. Il primo approccio, collegato alla psicologia e alla psichiatria, suggerisce che la felicità sia il contrario della depressione, uno stato emotivo interiore, percepito come una sequenza continua di stati d’animo. In questo senso per essere felici serve un atteggiamento positivo, ottimistico. In teoria la felicità potrebbe essere provata anche da una persona priva di aspirazioni, seduta tutto il giorno a guardare la tv, ma sempre di buon umore. Potrebbe quindi essere un fatto di temperamento, magari ereditario (sembra in effetti che l’indole allegra sia davvero un carattere di famiglia). Secondo alcune filosofie orientali, questo stato d’animo può essere coltivato per mezzo di tecniche come la meditazione trascendentale. Alcuni filosofi occidentali ipotizzano che sia collegato ad alti livelli innati di serotonina, il neurotrasmettitore ritenuto da molti medici e psichiatri fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio dell’umore, e di cui difettano le persone depresse. Tutti vorremmo avere un’indole allegra, ma sono pochi a nascere cosí. I moderni antidepressivi, di cui può beneficiare chi attraversa un periodo di lutto dovuto a un evento di vita, o chi soffre di una permanente depressione «endogena», funzionano solitamente aumentando i livelli di serotonina. Ma è una felicità di grandi prospettive? È mai possibile definire felice una vita passata davanti al televisore? Aristotele, per il quale la felicità comportava la realizzazione delle potenzialità umane, avrebbe risposto di no. John F. Kennedy riassunse l’accezione aristotelica della felicità in un’unica frase: «Il pieno esercizio delle facoltà umane orientato

all’eccellenza, in una vita che ce ne dia la possibilità» 2. Il secondo approccio della filosofia contemporanea alla felicità soggettiva è l’«edonismo»: l’idea cioè che la felicità sia definita dalla percentuale complessiva di tempo che passiamo a divertirci, a provare piacere, a vivere momenti di gioia e di estasi. L’edonismo (termine derivato dal greco antico hedoné, «piacere») ha radici antiche. La scuola filosofica indiana nota come Charvaka, fondata nel VI secolo a.C., abbracciava la concezione secondo cui «la gioia del paradiso consiste nel mangiare prelibatezze, godere della compagnia di giovani fanciulle, avere bei vestiti, profumi, ghirlande e pasta di sandalo. Lo sciocco si macera con penitenze e digiuni» 3. Un secolo dopo, un allievo di Socrate, Aristippo di Cirene, nel Nordafrica, elaborò un sistema etico chiamato «egoismo edonistico». Aristippo dedicò un libro, Sulla lussuria degli antichi, alle gesta dei filosofi assetati di piacere. Secondo la sua tesi, tutti dovrebbero sperimentare quantità importanti di piacere fisico e sensoriale quanto prima possibile, senza preoccuparsi delle conseguenze. L’edonismo tornò di moda quando gli utilitaristi, a partire da Jeremy Bentham (1748-1832), sostennero che la base corretta delle decisioni e delle azioni morali era qualsiasi cosa permettesse di raggiungere la massima felicità al maggior numero di persone. Per Bentham si trattava di un principio che poteva essere di aiuto anche nella creazione delle leggi. Nel suo manifesto del 1789, Introduzione ai principî della morale e della legislazione, tracciava in effetti un algoritmo per l’edonismo quantitativo, per misurare la quantità totale di piacere generata da una data azione. L’algoritmo è spesso chiamato «calcolo edonistico». Bentham espose le seguenti variabili: quanto è intenso il piacere? Quanto durerà? Sarà l’esito inevitabile dell’azione presa in considerazione o soltanto uno degli esiti possibili? Quanto ci metterà per concretizzarsi? Sarà produttivo, dando vita cioè a piaceri ulteriori? Escluderà sofferenze collaterali? Quanti individui lo proveranno? Bentham era interessato piú all’ammontare totale di piacere che al tipo di piacere. Alla quantità, non alla qualità. Se il divo del grande schermo Errol Flynn disse il vero in punto di morte circa la sua esperienza esistenziale – le sue ultime parole, a quanto si narra, furono: «Mi sono divertito tantissimo e mi sono goduto ogni minuto» –, allora, dal punto di vista dell’edonismo quantitativo, deve essere stato un uomo davvero molto felice.

Ma che cosa intendeva Flynn per «divertimento» e «godimento»? Secondo John Stuart Mill, discepolo di Bentham, l’«edonismo quantitativo» non consente di distinguere tra il piacere umano e quello di un maiale a cui siano forniti continui piaceri fisici. Per questo motivo Mill introdusse l’idea dell’esistenza di diversi livelli e tipi di piacere. I piaceri fisici che ci accomunano agli animali, come quelli che ricaviamo dal cibo o dal sesso, sono piaceri «inferiori». I piaceri mentali, come quelli che derivano dall’arte, dal dibattito intellettuale o dal comportamento virtuoso, sono «superiori» e di maggior valore. Questa versione dell’edonismo filosofico è chiamata in genere edonismo prudenziale o edonismo qualitativo. Tra i filosofi del XXI secolo sono pochi i sostenitori dell’approccio edonistico al raggiungimento della felicità soggettiva. La teoria ricevette un duro colpo nel 1974, quando Robert Nozick, docente a Harvard, pubblicò Anarchia, stato e utopia, in cui immaginò una macchina capace di fornire alle persone, per tutta la vita, continue esperienze piacevoli. Gli individui in questione non sarebbero stati in grado di distinguere queste esperienze generate dalla macchina da quelle prodotte dalla «vita reale». Qualcuno avrebbe mai chiesto di essere collegato alla macchina? Sicuramente no. Vogliamo le cose reali. Di conseguenza, a rigor di logica, la gente non considera le sensazioni positive come unico fattore determinante della felicità soggettiva nel suo complesso. Nozick scriveva appena prima che avesse inizio l’epoca del possesso di massa dei computer e del concetto di realtà virtuale. Il suo esperimento mentale fece un certo effetto sull’opinione pubblica, e venne associato all’«orgasmatic» di Woody Allen nel film Il dormiglione (1973). Verrà forse un giorno in cui la maggior parte dell’umanità opterà per la certezza del perpetuo piacere simulato anziché per questa rischiosa faccenda dell’esperienza vissuta, ma per il momento non è ancora arrivato. Vogliamo essere felici, e sembriamo credere che la felicità consista in qualcosa di piú che in semplici esperienze positive. La felicità comporta di fare qualcosa di piú elevato, di piú significativo, di piú costruttivo. Era questo qualcosa a cui Aristotele, tanto tempo fa, nella Grecia classica, era interessato. La felicità, pensava, era uno stato psicologico, un senso di pienezza e soddisfazione relativo alla propria condotta, ai propri rapporti con gli altri e al modo in cui procedeva la propria vita. La felicità implica una componente di attività e di

orientamento all’obiettivo. Ed è appunto questo il terzo approccio filosofico moderno – dopo quello dell’umore positivo e quello edonistico – alla felicità soggettiva. È un approccio basato sull’analisi e sulla modifica delle proprie ambizioni, del proprio comportamento e delle proprie reazioni al mondo. E viene direttamente da Aristotele. Aristotele credeva che se ci alleniamo a essere buoni, lavorando sulle virtú e tenendo a bada i vizi, scopriremo che uno stato d’animo felice nasce dal fare abitualmente la cosa giusta. Se cominciamo deliberatamente a sorridere in modo accogliente ogni volta che il nostro bambino viene verso di noi, a un certo punto cominceremo a farlo inconsciamente. Alcuni filosofi non sono affatto certi che una vita virtuosa sia piú desiderabile del suo opposto. Ma da qualche tempo l’«etica della virtú» è stata riabilitata dalle cerchie filosofiche e accettata come benefica. Aristotele considerava tutte le virtú come parte di un insieme integrato, ma alcuni pensatori recenti si sono mostrati inclini a dividerle in tre sottocategorie. James Wallace, in Virtues and Vices (1978), descrive tre gruppi: le virtú di autodisciplina, come coraggio e pazienza; le virtú di coscienziosità, ad esempio onestà ed equità; e le virtú caratterizzate dalla benevolenza verso il prossimo, come la gentilezza e la compassione. Le prime due categorie di virtú possono influenzare positivamente il successo dei progetti dell’individuo e dell’intera comunità. Le virtú di benevolenza sono meno nitide, ma possono accrescere la simpatia verso noi stessi e verso chi ci circonda. La virtú produce quindi benefici estrinsechi: è piú probabile essere felici se chi vive intorno a noi è felice e quindi è nel nostro egoistico interesse illuminato essere virtuosi. Aristotele, però, insieme a Socrate, agli stoici e al filosofo vittoriano Thomas Hill Green, era convinto che producesse direttamente anche benefici intrinsechi. Le virtú rivolte al prossimo offrono un contributo essenziale alla propria felicità 4. Nell’Etica nicomachea Aristotele discute quale sia la causa della felicità. Se non è mandata da un dio (e Aristotele non credeva che gli dèi si lasciassero coinvolgere nelle faccende umane), allora «ci arriva a causa della nostra virtú, o deriva da un qualche insegnamento o esercizio» 5. Le componenti della felicità possono essere descritte e analizzate, come si fa con gli oggetti di qualsiasi altro ramo della conoscenza, ad esempio la biologia o l’astronomia. Ma lo studio della felicità è diverso da queste scienze, in virtú della meta precisa che si pone: il raggiungimento della felicità, che rende questo studio piú simile alla medicina, o alla teoria politica.

Inoltre, dice Aristotele, potenzialmente la felicità potrebbe essere uno stato comune, dal momento che può essere raggiunta, «sulla base di un qualche insegnamento o esercizio, da tutti quelli che non hanno qualche impedimento naturale a praticare la virtú» 6. Aristotele riconosce che la capacità di fare del bene può essere danneggiata da circostanze ed eventi di vita. Ma per la maggioranza degli individui la felicità è veramente accessibile, purché questi individui decidano di impegnarsi a crearla. Quasi tutti possono decidere di pensare a essere felici. Non è qualcosa di riservato a una ristretta minoranza di persone con una laurea in filosofia. «Quasi», in questo caso, è ovviamente la parola chiave. Aristotele non sta offrendo una bacchetta magica con cui far sparire qualsiasi minaccia che incomba sulla felicità. La capacità universale di perseguire la felicità è anzi soggetta ad alcune condizioni. Aristotele riconosce che esistono alcuni requisiti vantaggiosi che si hanno o non si hanno. Se abbiamo la sfortuna di essere nati su un gradino molto basso della scala sociale, o di non avere figli o altri familiari o persone care, o di essere molto brutti, «la nostra beatitudine», per usare le sue parole, «risulta intaccata» 7 da queste circostanze, a cui non possiamo sottrarci. Raggiungere la felicità diventa allora piú difficile. Ma non impossibile. Non c’è bisogno di beni materiali, di forza fisica o bellezza per cominciare a esercitare la mente in compagnia di Aristotele, dal momento che lo stile di vita da lui sostenuto ha a che fare con un’eccellenza di tipo morale e psicologico, e non con un’eccellenza basata sui beni posseduti o sulla prestanza fisica. E ci sono ostacoli ancora piú ardui: ad esempio avere figli o amici assolutamente degeneri. Oppure – Aristotele lo cita per ultimo e in altra sede lascia intendere che si tratti del problema piú difficile che l’uomo debba affrontare – perdere una persona cara su cui abbiamo investito tanto, e in particolare un figlio, portato via dalla morte. Eppure, potenzialmente, anche chi è stato in parte sfavorito dalla natura o chi ha patito grandi privazioni può vivere una buona vita, camminando sul lato virtuoso della strada. «Questo genere di filosofia, applicabile da chiunque, è diverso dalla maggior parte degli altri generi di filosofia», spiega Aristotele, in quanto possiede un fine pratico nella vita reale di tutti i giorni: l’etica, sottolinea, «non si propone la pura conoscenza, come le altre [branche della filosofia]: infatti non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtú, ma per diventare buoni, perché altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione» 8. Di fatto, l’unico modo per essere un uomo buono è fare cose

buone. Occorre trattare costantemente il prossimo con onestà. Offrire con serenità al co-genitore di dividersi a metà la cura dei bambini nel fine settimana e versare il salario intero alla signora delle pulizie se le annulliamo l’appuntamento. Secondo Aristotele, molti immaginano che parlare del comportamento ottimale sia sufficiente: anziché agire virtuosamente, chi fa cosí «si rifugia nei semplici discorsi, credendo di filosofare e credendo che in questo modo ciascuno diventerà una persona eccellente». Aristotele li paragona ai «malati che ascoltano con attenzione le cose che dicono i medici, ma non fanno nulla di quello che viene loro prescritto» 9. Pensare da aristotelici significa usare la propria comprensione della natura umana per vivere nel miglior modo possibile. Significa porre a base fondamentale della nostra modalità di analizzare problemi e decisioni la natura, e non un concetto al di là di essa – ad esempio un dio o degli dèi. Era questa la differenza piú importante tra Aristotele e il suo maestro, Platone, il quale credeva che gli uomini dovessero trovare le risposte ai problemi dell’esistenza in una sfera invisibile di idee intangibili o di «forme» essenziali, situata al di là del mondo materiale che potevano percepire. Aristotele, invece, si concentrò sui vividi fenomeni del qui e ora percepibile, come scrisse il poeta e classicista Louis MacNeice nel XII canto di Autumn Journal («Diario d’autunno»): Aristotele, piú bravo, osservava gli insetti procreare, e lo sviluppo del mondo naturale, sottolineando la funzione, e accantonando la Forma in Sé, lasciando galoppare il cavallo che aveva tirato giú dallo scaffale 10.

Aristotele pose l’esperienza umana al centro del suo pensiero. Fu questo a valergli la profonda ammirazione di Tommaso Moro, Francesco Bacone, Charles Darwin, Karl Marx e James Joyce. I filosofi moderni, comprese alcune figure femminili di spicco nate nel XX secolo – Hannah Arendt, Philippa Foot, Martha Nussbaum, Sarah Broadie e Charlotte Witt – hanno scritto importanti opere fortemente influenzate da Aristotele, o a lui dedicate. Aristotele insiste sul fatto che la creazione della felicità non ha a che vedere con grandi regole e principî da applicare in modo fanatico, ma con la disponibilità a impegnarsi con la trama della vita in ogni situazione, con ogni

cavallo al galoppo, quando veniamo a contatto con la sua specificità. Esistono delle linee guida; come in medicina o nell’arte della navigazione, il medico o il capitano possono contare sulla conoscenza di determinati principî, ma ogni singolo paziente e ogni singolo viaggio presenteranno problemi lievemente diversi, che esigeranno soluzioni differenti. Nella nostra vita, in quanto agenti morali «è necessario, sempre, che chi agisce prenda in esame ciò che riguarda l’occasione presente» 11. Ci saranno weekend in cui dovremo badare soltanto noi ai bambini, o in cui non dovremo occuparcene per niente. Non si tratta solo del fatto che ogni circostanza è diversa dalle altre: anche ogni individuo è differente, e il modo di essere virtuoso attraverso l’agire quotidiano varierà da individuo a individuo. Aristotele in questo caso ricorre all’analogia degli atleti, alcuni dei quali hanno bisogno di porzioni di cibo piú abbondanti. Cita Milone di Crotone, il piú celebre campione di lotta che la Grecia abbia mai avuto, come esempio di grande mangiatore. Ognuno di noi deve acquisire conoscenza di sé e decidere il tipo di sostentamento etico di cui ha bisogno per provvedere a se stesso. Si tratterà forse di prestare aiuto, di rinunciare ai rancori, di imparare a scusarsi, o di qualcosa del tutto diverso? Per quanto riguarda me, penso di non essere una persona straordinariamente meritevole o brava. Combatto con alcuni tratti caratteriali poco gradevoli. Dopo aver letto le considerazioni di Aristotele su vizi e virtú, e aver parlato con franchezza con le persone di cui mi fido, posso dire che i miei peggiori difetti siano i seguenti: impazienza, avventatezza, schiettezza eccessiva, oscillazioni emotive e vendicatività. Ma l’idea di Aristotele del cosiddetto «giusto mezzo» fra i due estremi ci fa capire che tutti questi difetti sono buoni, se usati con moderazione: chi non è mai impaziente non ottiene nulla; chi non prende mai rischi vive una vita limitata; chi sfugge alla realtà e non esprime gioia o dolore è psicologicamente ed emotivamente inibito o deprivato; e chi non desidera minimamente pareggiare i conti con chi lo abbia danneggiato inganna se stesso oppure si stima troppo poco. Nel mondo il male abbonda. Sappiamo, o abbiamo sentito parlare, di individui e gruppi che sembrano davvero essere dediti, o perlomeno abituati, a commettere reati e a recare danno agli altri. Ma la maggior parte di noi resta tutto sommato convinta che una percentuale importante di esseri umani, se dotata delle risorse essenziali sufficienti per non essere costretta a essere egoista per sopravvivere, è felice di fare del bene e di coltivare legami sociali.

Queste persone stanno bene quando possono aiutare gli altri. Condurre una vita cooperativa, in associazione con altre persone, in ambiti familiari o di comunità, sembra essere un desiderio naturale dell’essere umano, una sua condizione esistenziale. L’impronta del pensiero aristotelico appare profonda in questi gruppi sociali, che pensano razionalmente, che operano scelte morali, che usano il sano piacere come guida verso ciò che è buono, e che promuovono la felicità in se stessi e negli altri. Anche altri sistemi filosofici hanno trovato sostenitori nell’età moderna, e in particolare lo stoicismo di Marco Aurelio, di Seneca e di Epitteto. Ma lo stoicismo non incoraggia la stessa joie de vivre dell’etica di Aristotele. È una dottrina abbastanza pessimistica e cupa. Pretende la repressione delle emozioni e degli appetiti fisici. Raccomanda una rassegnata accettazione delle sventure, e non il coinvolgimento attivo e concreto nelle affascinanti e sfaccettate minuzie della vita e dei problemi di ogni giorno da risolvere. Non lascia spazio sufficiente alla speranza, all’agency umana, all’umana intolleranza verso l’infelicità. Condanna il piacere in quanto tale. Induce insomma a concordare con Cicerone, quando domandava: «Cosa? Uno stoico che accende l’entusiasmo? Lo spegne piuttosto, anche quando riceve chi brucia d’ardore» 12. Aristotele scriveva per persone coinvolte molto attivamente nella vita comunitaria. Gli epicurei incoraggiavano la gente a smettere di aspirare al potere, alla gloria e alla fortuna e a condurre una vita il piú libera possibile dai problemi. Gli scettici condividevano con Aristotele la convinzione circa la necessità di mettere in discussione tutti i presupposti, ma erano certi che conoscere il vero fosse impossibile, cosí come sostenevano che fosse impossibile esporre i principî generali per vivere insieme in modo costruttivo. I cinici concordavano con Aristotele sul fatto che l’uomo fosse un animale superiore e che il fine dell’esistenza fosse una felicità da raggiungere attraverso la ragione. Ma il percorso che proponevano era piú anticonformista: la felicità poteva essere conquistata per via ascetica, rinunciando alla vita domestica, ai beni materiali, al desiderio di gratificazioni sociali quali la fama, il potere e la ricchezza. Il cinico piú famoso, Diogene (un contemporaneo piú anziano di Aristotele, ben noto all’Accademia di Platone), viveva seminudo all’aperto. Non aveva moglie, non aveva famiglia e rifuggiva qualsiasi coinvolgimento sociale. Molti di noi anelano a un mondo piú semplice, ma assai di meno sono coloro che

vogliono abolire la famiglia e lo Stato e diventare vagabondi solitari. Pur non essendo religioso nel senso convenzionale, Aristotele visse non solo nel quadro di una cultura caratterizzata da una religione che oggi non ha piú proseliti, ma anche centinaia di anni prima che il cristianesimo e l’islamismo fossero anche solo inventati. Questo significa che il suo pensiero non è associato a un’area politica o ideologica contemporanea. Nel corso dei secoli in effetti Aristotele ha ispirato allo stesso modo filosofi con retroterra cristiani, ebraici e musulmani e piú recentemente anche induisti, buddhisti e confuciani. Aristotele non è appannaggio esclusivo di nessuna tradizione intellettuale o culturale contemporanea. È confortante dialogare con una mente di un’epoca tanto lontana, perché ci fa capire quanto poco sia cambiata la condizione umana, a dispetto di tutti i nostri presunti progressi tecnologici. Ci fa sentire parte di un gruppo umano permanente e ci fa trovare un sostegno che ha superato il tempo e la mortalità riservati all’uomo. A partire da Hume e da Kant, alcuni filosofi hanno messo in discussione l’idea che la natura umana sia un punto di riferimento utile nel campo dell’etica, dal momento che la cultura dell’uomo è cambiata enormemente e che anche all’interno di una comunità gli individui sono diversi dal punto di vista temperamentale. Ma Aristotele delinea una serie di problemi etici straordinariamente persistenti. Quando usa il pronome «noi», intende in molti casi l’intera razza umana come collettività, passata, presente e futura. In uno dei passi piú suggestivi della Metafisica, Aristotele critica i racconti mitici e ascientifici dell’origine dell’universo tramandati dai poeti greci anteriori, come ad esempio Esiodo. Esiodo e gli altri cosmologi, scrive, «si sono scordati di noi. Infatti, essi, mentre da un canto consideravano gli dèi come principî e dagli dèi facevano derivare tutto, dicevano altresí che gli esseri che non avevano gustato nettare e ambrosia erano mortali» 13. Invece di pensare a «noi», alla razza umana, i primi cosmologi avevano pensato a «loro», alle divinità privilegiate, per le quali noi eravamo un mero effetto indiretto. Quando leggiamo le descrizioni lasciateci da Aristotele degli individui gretti o iracondi, troviamo tipi umani fin troppo riconoscibili che si comportano oggi esattamente allo stesso modo. Aristotele è anche un ottimo modello per quasi ogni fascia di età. Non solo è riuscito nella vita, nella famiglia e nelle amicizie, ma ha saputo sopravvivere agli eventi politici piú turbolenti fino a soddisfare, dopo mezzo secolo di attesa e di preparativi, la sua personale ambizione di fondare un’università autonoma e depositare su

rotoli di papiro la maggior parte delle sue idee. Aristotele nacque in una famiglia di medici a Stagira, una piccola cittàStato greca indipendente, nel 384 a.C. Stagira si trova appollaiata su due picchi di una scoscesa penisola che si tuffa nell’Egeo settentrionale. Il padre Nicomaco faceva il medico, e deve essere stato un grande nella sua professione: venne scelto come medico personale dal re di Macedonia, Aminta III. L’infanzia di Aristotele, tuttavia, fu presto interrotta. Il nostro eroe perse entrambi i genitori intorno ai tredici anni, sullo sfondo del crescente inasprimento delle tensioni militari nel mondo di lingua greca. Aristotele fu capace di comportarsi con rettitudine in un’epoca e in un Paese in cui gli standard di condotta morale erano spesso spaventosamente bassi. Trasformò il problema in un’opportunità, e passò gran parte della sua vita a perfezionare le sue scoperte. Un uomo di nome Prosseno, che aveva sposato la sorella di Aristotele, accolse il ragazzo nella propria famiglia e si fece carico della sua istruzione. A diciassette anni Aristotele si trasferí ad Atene e si iscrisse all’Accademia di Platone. Passati due decenni, quando Platone morí, lo Stagirita accettò l’invito di Ermia, signore di un regno costituito essenzialmente da due città dell’Asia minore nordoccidentale, Atarneo e Asso. In seguito suggellò questa amicizia sposando la figlia di Ermia, Pizia. Intorno ai quarant’anni, si recò all’isola di Lesbo, dove condusse ricerche sulla fauna e sulla flora locali fondando cosí la disciplina della zoologia. Tutto però cambiò nel 342 a.C., quando Filippo II il Macedone lo chiamò per fare da precettore al figlio Alessandro, che il mondo avrebbe un giorno conosciuto come Alessandro Magno. Filippo fece costruire per Aristotele una scuola in un santuario delle ninfe – con cui dobbiamo intendere un luogo con una fonte di acqua sorgiva – in una spettacolare vallata verdeggiante a Mieza, trenta miglia a sud di Pella, capitale della Macedonia. L’espansione dell’impero macedone avviata da Filippo rese esplosiva la situazione politica internazionale: tra il 338 e il 336 a.C., anno in cui Filippo fu assassinato e il figlio Alessandro salí al trono, Aristotele visse nell’Epiro e nell’Illiria (Balcani occidentali), attento probabilmente a non esporsi. In prossimità dei cinquant’anni, Aristotele colse la sua opportunità. Contrariamente a quanto si racconta nell’epico film di Robert Rossen Alessandro il Grande (1956), con Richard Burton, Aristotele non seguí Alessandro nella campagna d’Oriente. Non era piú giovane e fin

dall’adolescenza era sempre stato agli ordini di altri, che si trattasse di Platone, a capo dell’Accademia, o dei suoi ricchi mecenati reali, Ermia e Filippo. Il suo momento era arrivato. Tornò ad Atene e fondò il suo Liceo, prima università di ricerca e d’insegnamento al mondo. Aristotele aveva già scritto e riflettuto ben prima dei vent’anni, ma la maggior parte degli specialisti ritiene che soltanto nei dodici anni della sua aurea maturità come direttore del Liceo scrisse i trattati oggi sopravvissuti, oltre a quelli – non meno di 130 – che non sono giunti sino a noi. Uno dei testi andati purtroppo perduti è il secondo libro della sua Poetica (l’importanza di questa perdita per la cultura mondiale ha trovato la sua migliore illustrazione nel giallo medievale del 1980 di Umberto Eco, Il nome della rosa, da cui fu tratto un film con Sean Connery, uscito nel 1986. Nel momento culminante sia del libro sia del film l’ultima copia manoscritta sopravvissuta delle riflessioni di Aristotele sulla commedia viene distrutta in un incendio appiccato da un monaco, convinto che tutto il riso fosse peccaminoso. L’invenzione di Eco in questo caso può riflettere davvero il reale motivo per cui quest’opera preziosa non fu trasmessa al mondo moderno: in un monastero cristiano medievale, un trattato sul teatro comico aveva molte meno probabilità di essere ricopiato rispetto a uno di logica o di filosofia morale). Sebbene sia spesso descritto come un autore austero, intransigente e difficile, ci sono decine di momenti, nelle sue opere giunte sino a noi, che si animano d’improvviso e irresistibilmente. Aristotele possiede un umorismo sobrio, e osserva le umane manie con occhio realmente divertito. A una festa organizzata con altri filosofi, ad esempio, gli capitò di incontrare un uomo che ripeteva in modo comico le sentenze di Empedocle – uno tra i piú oscuri pensatori greci, che formulò le sue idee in lunghi poemi esametrici. Aristotele conosceva molti poeti personalmente, e aveva notato che avevano una certa tendenza a stravedere per le proprie creazioni letterarie, che «amano straordinariamente […] e […] hanno care come figli» 14. Gli piacevano gli aneddoti che illustravano l’innocua eccentricità umana: come ad esempio la storia di un uomo di Bisanzio che era divenuto un esperto in previsioni atmosferiche osservando la direzione verso nord o verso sud degli spostamenti dei suoi ricci domestici, o quella dell’ubriacone di Siracusa che teneva al caldo, fino alla schiusa, le uova deposte dalle sue galline, standoci seduto sopra e facendo baldoria con continue bevute di vino. Aristotele si curava del rapporto con il corpo. Era profondamente

convinto che il sesso, il cibo e il vino, gustati in modo costruttivo con le persone che amiamo, costituissero altrettanti tasselli fondamentali della felicità umana. Era affascinato dal senso del gusto, dal cibo e dai modi di cucinarlo: sapeva quali erano le piante commestibili coltivate dalla gente negli orti di casa. Gli piacevano i massaggi e i bagni caldi al gymnasium. L’ampiezza delle sue conoscenze in fatto di musica e di utilità dello studio degli strumenti lascia immaginare che si trattasse di un aspetto importante della sua vita. Il suo tono generalmente misurato svanisce completamente quando parla delle ostinate ma irresponsabili donne di Sparta, facendo pensare che abbia vissuto qualche difficoltà relazionale con una di loro. Fu padre e zio, e descrisse che tipo di regali si usava fare ai bambini: una palla, ad esempio, o una fiasca per l’olio personale. Resta comunque il fatto che i trattati, basati sulle sue personali ricerche e sugli appunti di lezione di cui si serviva per insegnare agli studenti, sono spesso densi di concetti e di lettura impegnativa, anche nelle traduzioni piú aggiornate e scorrevoli. Ma Aristotele rifletté molto sul modo diverso in cui un filosofo o uno scienziato devono rivolgersi al grande pubblico o a un preparato uditorio accademico, ed era convinto che i due registri stilistici avessero pari status. Lungi dal disprezzare i lavori «divulgativi», ne scrisse molti lui stesso. Sappiamo che per il vasto pubblico scrisse e presentò conferenze di altro genere, note nell’antichità come opere essoteriche («essoterico» significa proprio «diretto all’esterno», o «pensato per il pubblico»). Queste opere furono composte con ogni probabilità in quella stessa leggibile e accessibile forma di dialogo resa popolare da Platone. Nei dialoghi aristotelici compare, tra gli interlocutori, lo stesso Aristotele, cosí come Socrate figura nei dialoghi filosofici di Platone e Senofonte. Cicerone, che sullo stile letterario sapeva tutto quello che occorreva sapere, diceva che i discorsi pubblici di Aristotele erano scritti «in modo adatto al popolo» (populariter), e si riferiva con ogni probabilità proprio a questi testi quando affermava che la prosa di Aristotele scorre «come un fiume d’oro» 15. Il piú famoso degli scritti essoterici fu il Protreptico, o Esortazione alla filosofia. Fu un classico molto popolare della filosofia «per tutti»: un filosofo di nome Cratete si imbatté in questo testo un giorno che stava «seduto nella bottega di un calzolaio» 16 e se lo lesse tutto d’un fiato. Il testo esprime la passione di Aristotele per la filosofia e descrive che cosa differenzia maggiormente gli uomini dagli altri animali: il grande potere della mente umana. L’opera

avvicina i lettori a ciò che Aristotele chiamava semplicemente «dio». Per quanto i Greci adorassero molti dèi, i filosofi concepivano un potere divino superiore che muoveva in ultima analisi l’universo. E i pochi frammenti superstiti del Protreptico comprendono frasi che sottolineano tutto il diletto che la filosofia può arrecare: «La cura assidua della filosofia è accompagnata da piacere» 17. Qualsiasi tentativo di recuperare la filosofia di Aristotele, soprattutto se effettuato da una donna, deve fare tuttavia i conti con il controverso argomento del suo pregiudizio, in quanto antico patriarca e capofamiglia benestante, nei confronti delle donne e degli schiavi. Com’è noto, nel primo libro della Politica Aristotele difende la schiavitú, quantomeno quella a opera dei Greci verso i non Greci, e afferma inequivocabilmente che le donne sono inferiori agli uomini sul piano intellettuale. Non mi voglio soffermare in questa sede sui passi (per la verità assai rari) in cui egli rende evidente il suo errore sostenendo che le donne o gli schiavi non greci non nascono con lo stesso potenziale intellettuale degli uomini greci 18. Voglio invece sottolineare la costanza con cui Aristotele argomenta che tutte le opinioni devono sempre essere passibili di revisione. Nell’Etica nicomachea, ad esempio, scrive che anche se la tenacia è essenzialmente una dote, ci sono occasioni in cui è dannoso aderire in modo eccessivamente rigido a una data opinione. Se riceviamo prove incontrovertibili che la nostra opinione è errata, allora cambiare idea – atteggiamento biasimevole a detta di alcuni, in quanto sintomo di incostanza – è una condotta degna di particolare apprezzamento. Anche qui Aristotele mostra quanto profondamente riflettesse sugli esempi morali forniti dalle tragedie. Cita infatti il caso di Neottolemo, nel Filottete di Sofocle. Neottolemo è stato persuaso da Ulisse a mentire allo zoppo Filottete, ma quando vede di persona la sofferenza di Filottete e apprende nuovi particolari sulla sua triste condizione, cambia idea e rifiuta di partecipare al raggiro. Corregge la sua opinione. Mi piace pensare che se potessimo parlare con Aristotele, sapremmo convincerlo a rivedere le sue posizioni sul cervello delle donne. Pur ritenendo che le opinioni tradizionali (endoxai) devono essere prese in seria considerazione, e se necessario sistematicamente confutate, Aristotele non ama l’argomento secondo cui qualcosa è buono solo perché ci è stato tramandato dagli antenati. A suo parere gli uomini primitivi equivalevano ai

contemporanei meno raffinati, «perciò è assurdo restare fedeli alle loro credenze». Ritiene che anche le leggi scritte possano essere corrette in meglio, dal momento che «per l’ordinamento politico è impossibile stabilire con precisione per iscritto tutte le disposizioni» 19. Tradizionalmente la scuola di pensiero di Aristotele è indicata come filosofia peripatetica. La parola «peripatetico» deriva dal verbo peripateo, che in greco, sia antico sia moderno, significa «passeggiare». Come al suo maestro Platone, e prima di lui a Socrate, maestro di Platone, anche ad Aristotele piaceva riflettere camminando; e piacque a molti altri filosofi dopo di loro, compreso Nietzsche, convinto che «soltanto i pensieri nati camminando hanno valore» 20. Ma gli antichi Greci sarebbero rimasti perplessi davanti alla figura romantica del sapiente solingo e girovago celebrata per la prima volta da Rousseau nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario (1778). I Greci preferivano passeggiare in compagnia: mettevano la spinta in avanti generata dalle loro potenti falcate al servizio del progresso intellettuale, dialogando al ritmo dei passi. A giudicare dall’importanza del suo contributo al pensiero umano, e dal numero di libri fondamentali che scrisse, Aristotele, durante i suoi sessantadue anni di vita, deve aver percorso a piedi con i suoi allievi migliaia di chilometri su e giú per i paesaggi scoscesi della Grecia. Nel pensiero greco antico esisteva un’intima connessione tra la ricerca intellettuale e l’idea del viaggio. È un’associazione che risale a ben prima di Aristotele, all’inizio dell’Odissea di Omero, dove si legge che fu grazie ai suoi vagabondaggi che Ulisse visitò le terre di molte genti e ne «conobbe la mente» 21. Nel periodo classico, era metaforicamente possibile scambiare un concetto o un’idea «per una passeggiata»: in una commedia rappresentata per la prima volta ad Atene una ventina d’anni prima della nascita di Aristotele, si ammonisce il tragico Euripide a non «mandare in giro» un’affermazione tendenziosa che non è in grado di dimostrare. E un testo di medicina attribuito al medico Ippocrate paragona l’atto del pensiero a portare a spasso la mente per tenerla in esercizio: «Per gli esseri umani, il pensiero è una passeggiata dell’anima». Anche Aristotele si serví di questa metafora quando cominciò la sua pionieristica indagine sulla natura della coscienza umana nel Dell’anima. In questo testo sostiene che è necessario considerare le opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto se vogliamo sperare «di andare avanti, mentre

cerchiamo di aprirci un passaggio tra i vicoli ciechi». Qui la famiglia terminologica per «passaggio» è poros, che può significare ponte, guado, passo tra gole, o passaggio attraverso stretti, deserti e foreste. Nella Fisica, Aristotele inizia la sua ricerca sulla natura rivolgendo al lettore un invito analogo ad avviarsi insieme a lui non solo sul sentiero, ma sulla strada: la strada (hodòs) della ricerca deve partire da cose familiari e avanzare verso cose per noi piú difficili da capire. Il termine piú comune per indicare un problema filosofico era aporia, ovvero «luogo non attraversabile», vicolo cieco. Ma l’aggettivo «peripatetico» rimase associato alla filosofia di Aristotele soprattutto per due motivi. Il primo è che tutto il suo sistema intellettuale è fondato sulla passione per il dettaglio granulare, tattile, del mondo fisico attorno a noi. Aristotele era uno scienziato della natura empirico oltre che un filosofo della mente, e la sua scrittura celebra costantemente la materialità dell’universo che percepiamo attraverso i sensi e che sappiamo essere reale. Le sue opere biologiche ci fanno pensare a un uomo che interrompe ogni pochi minuti il cammino per raccogliere una conchiglia, per indicare una pianta, o per chiedere una pausa nello scambio dialettico in modo da poter ascoltare gli usignoli. In secondo luogo, Aristotele, lungi dal disprezzare il corpo umano come invece aveva fatto Platone, considerava gli uomini come animali straordinariamente dotati, la cui coscienza era inseparabile dalla loro natura organica, le cui mani erano un prodigio d’ingegneria meccanica, e per i quali il piacere fisico istintivo era una vera guida per una vita di virtú e di felicità. Quando leggiamo Aristotele, sentiamo che sta usando la sua mano esperta per tracciare sul papiro i pensieri che emergono dalla sua mente attiva, parte integrante del suo corpo allenato e amato. Ma c’è ancora un’altra associazione al termine «peripatetico». Il testo greco del vangelo di Matteo ci racconta che quando i farisei chiesero a Gesú di Nazareth perché i suoi discepoli non vivessero secondo le rigide regole ebraiche dei rituali di purificazione, il verbo che usarono per «vivere» fu peripateo. In effetti il termine greco per passeggiare poteva significare anche, in senso metaforico, «condurre la propria vita secondo una determinata serie di principî etici». Anziché intraprendere un percorso religioso, i discepoli deambulanti di Aristotele scelsero di partire con lui sulla strada filosofica verso la felicità. Ho sempre amato camminare, e oggi le mie riflessioni migliori nascono

per la maggior parte lungo i fangosi viottoli del Cambridgeshire. A tredici anni, figlia di un sacerdote anglicano, persi la fede. L’ostacolo piú arduo per la mia fede in rapido dissolvimento fu l’insistenza della Chiesa sul fatto che per essere un buon cristiano occorreva credere in eventi soprannaturali e adorare entità invisibili e inafferrabili ai sensi. Non riuscivo piú a stare in contatto con l’Amico invisibile che fino ad allora avevo chiamato Dio. Ma il ritorno ai sensi mondani lasciò un buco profondo nella mia vita. Quando ero una bimba piú piccola non avevo dubbi che se fossi stata buona sarei andata in paradiso. Adesso mi sentivo come il protagonista del classico film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1957), Antonius Block, scettico religioso che vive durante la peste del XIV secolo, alla ricerca disperata del significato dell’esistenza. «Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza» 22. Può non essere una coincidenza che anche Bergman fosse figlio di un pastore protestante. Non credevo piú che «là fuori» nel cosmo ci fosse qualcuno o qualcosa che vegliava su di me, o che mi premiava e puniva per le azioni virtuose o immorali. E non sapevo che cosa mettere al Suo posto. Ma volevo tanto essere ancora una brava persona, vivere una vita costruttiva e, idealmente, lasciare il pianeta in condizioni migliori di come l’avevo trovato. Intorno ai quindici anni tentai qualche breve esperienza con l’astrologia, il buddhismo e la meditazione trascendentale, a cui fecero seguito incontri ancor piú fugaci con fenomeni piú arcani, sostanze psicotrope e spiritualismo compresi. Lessi il classico di Dale Carnegie Come vincere lo stress e cominciare a vivere (1948) e altri manuali di auto-aiuto, ma continuai a cercare un sistema morale praticabile, interessante e fondamentalmente ottimistico. Quando da studentessa universitaria scoprii Aristotele, Aristotele mi forní la risposta: spiegava il mondo materiale attraverso la scienza e il mondo morale secondo criteri umani, e non sulla base di norme imposte da una divinità esterna. Aristotele fu il primo a sottolineare come nessuna forma di attività filosofica o scientifica possa essere puramente teorica. Le nostre idee, le spiegazioni che diamo di noi stessi e del mondo che ci circonda, dipendono interamente dall’esperienza vissuta. Aristotele visse in otto diverse località della Grecia (si veda la cartina all’inizio del libro), e nell’aprile del 2016 io le visitai tutte per comprendere meglio le sue esperienze. Seguendo i suoi

spostamenti ho cercato di farmi un’idea del mondo reale che stava dietro l’uomo, dei sentieri che aveva fisicamente percorso mentre sviluppava le sue idee filosofiche per affrontare le sfide e le opportunità che la vita gli presentava 23. Uno dei piú importanti commentatori di Aristotele, Temistio, scrisse che lo Stagirita fu «piú utile alla massa del popolo» di altri pensatori. È un giudizio che resta valido. Nel 1986 il filosofo Robert J. Anderson osservò: Non c’è un pensatore dell’antichità che sappia parlare piú direttamente di Aristotele alle preoccupazioni e alle angosce della vita contemporanea. Ed è chiaro che nessun pensatore moderno può offrire altrettanto a persone che vivono in quest’epoca di incertezza 24.

L’approccio pratico di Aristotele alla filosofia è in grado di cambiare in meglio la nostra vita. 1. Karen Horney, Neurosis and Growth, W. W. Norton, London - New York 1991 [trad. it. Nevrosi e sviluppo della personalità, Astrolabio, Roma 1981]; Viktor Frankl, Das Menschenbild der Seelenheilkunde, Hippokrates-Verlag, Stuttgart 1959 [trad. it. Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano 2012]; Mihaly Csikszentmihalyi, Flow, Harper & Row, New York 1992 [trad. it. La corrente della vita. La psicologia del benessere interiore, Frassinelli, Milano 1992]; Martin E. P. Seligman, Authentic Happiness, Nicholas Brealey Publishing, London 2003 [trad. it. La costruzione della felicità, Fabbri, Milano 2007]. [N.d.A.]. 2. John Fitzgerald Kennedy, Progress Report by the President on Physical Fitness, August 13, 1963, in Public Papers of the Presidents of the United States. John Fitzgerald Kennedy, US Govt. Print. Off., Washington 1962-64, p. 625. 3. Sarva Siddhanta Sangraha, vv. 9-12.[N.d.A.]. 4. Cfr. A. W. H. Adkins, Joan Kalk Lawrence e Craig K. Ihara (a cura di), Human Virtue and Human Excellence, Peter Lang, New York 1991, pp. 237-68; Thomas Hill Green, Prolegomena to «Ethics», Clarendon Press, Oxford 1883 [trad. it. Etica, Bocca, Torino 1925]. [N.d.A.]. 5. Aristotele, Etica nicomachea, trad. it. di Carlo Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, 1099b, I, 10, p. 29. 6. Ibid. 7. Ibid. 8. Ibid., 1103b, II, 2, p. 49. 9. Ibid., 1105b, II, 3, pp. 57-59. 10. Louis MacNeice, Autumn Journal, Faber and Faber, London 1940 2, p. 48: «Aristotle was

better who watched the insect breed, | The natural world develop, | Stressing the function, scrapping the Form in Itself, | Taking the horse from the shelf and letting it gallop». 11. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1104a, II, 2, p. 51. 12. Cicerone, De finibus, IV, 3, 7: «Quid? Ille incendat? Restinguet citius, si ardentem acceperit». 13. Aristotele, Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000, 1000a, III, 4, p. 111. 14. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1168a, IX, 7, p. 379. 15. Plutarco, Vita di Cicerone, XXIV, 5. 16. Aristotele, Protreptico, trad. it. di Gabriele Giannantoni, in Id., Opere, vol. XI, Laterza, Bari 1984, fr. 1, p. 134. 17. Ibid., fr. 5, p. 142. 18. Edith Hall, Citizens but Second-Class. Women in Aristotle’s Politics (384-322 B.C.E.), in Cesare Cuttica e Gaby Mahlberg (a cura di), Patriarchal Moments, Bloomsbury, London 2015, pp. 35-42. [N.d.A.]. 19. Aristotele, Politica, a cura di Marcello Zanatta, in Id., Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 2006, 1269a, II, 8, p. 121. 20. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello [1888], trad. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1983, p. 30. 21. Omero, Odissea, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963, libro I, v. 3, p. 3. 22. Ingmar Bergman, Il settimo sigillo. 23. Seguendo i suoi spostamenti … la vita gli presentava: Si veda il cortometraggio al seguente link: www.youtube.com/watch?v=-moYjtCmV8Q/.[N.d.A.]. 24. Robert J. Anderson, Purpose and Happiness in Aristotle. An Introduction, in R. Thomas Simone e Richard I. Sugarman (a cura di), Reclaiming the Humanities. The Roots of Self-Knowledge in the Greek and Biblical Worlds, University Press of America, Lanham-London 1986, pp. 113-30 (p. 113). [N.d.A.].

Capitolo primo Felicità

All’inizio dell’Etica eudemia, Aristotele cita un passo di letteratura sapienziale scolpito su un’antica pietra dell’isola sacra di Delo. La sentenza proclamava che le tre cose migliori della vita erano la giustizia, la salute e la realizzazione dei propri desideri. Aristotele dissente recisamente. Il fine ultimo della vita umana, obietta, è semplicemente la felicità, ovvero trovare uno scopo per realizzare il proprio potenziale e lavorare sul proprio comportamento per giungere a essere la migliore versione possibile di se stessi. Ognuno è l’agente morale di se stesso, ma nel mondo interconnesso in cui tutti noi ci troviamo ad agire le relazioni con gli altri contano molto. Il maestro di Aristotele fu Platone, a sua volta discepolo di Socrate, il quale, com’è noto, aveva affermato che «la vita senza esame non è degna di essere vissuta per un uomo» 1. È una visione un po’ troppo severa, secondo Aristotele, il quale sa che ci sono molte persone – la maggioranza, probabilmente – che vivono istintivamente e spesso senza riflettere, ma che sono davvero felici, come se volassero con il «pilota automatico». Lui quindi avrebbe spostato l’accento sull’attività pratica e sul futuro, e la sua variante al motto socratico avrebbe potuto essere questa: «Una vita priva di programmazione difficilmente è una vita pienamente felice». L’etica aristotelica assegna la responsabilità all’individuo. Come osservava Abraham Lincoln, «la maggior parte delle persone è felice grosso modo quanto ha deciso di esserlo». Anziché lavorare sul pilota automatico, l’etica aristotelica ci fa accomodare al grande pannello di controllo come unici piloti. Altri sistemi etici dànno molta meno importanza alla nostra agency morale individuale o alle responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri. L’etica aristotelica condivide il punto di partenza dell’agente morale con l’egoismo etico, associato al filosofo dell’età moderna Bernard Mandeville (1670-1733), ma soltanto il punto di partenza. Questo sistema raccomanda che ogni individuo agisca consapevolmente in modo da massimizzare il proprio interesse. Immaginate di aver invitato a un tè dieci vicini di casa. E di sapere che due sono vegani. I sandwich vegani però costano il triplo di quelli al prosciutto. Se comprate due porzioni di sandwich

vegani, resterà meno cibo per tutti gli altri. L’egoista lascerebbe perdere i bisogni altrui e sceglierebbe di provvedere o meno al cibo vegano a seconda delle sue personali abitudini alimentari. Se non foste vegani, evitereste certamente di ridurre la vostra porzione di sandwich al prosciutto per soddisfare le differenti predilezioni altrui. Se foste vegani, trascurereste la deprivazione imposta agli otto onnivori che riceverebbero porzioni piú piccole e vi limitereste ad assicurarvi che ci fosse ampia disponibilità di cibo vegano per voi, ordinandone razioni extra a vostro uso e consumo. Gli utilitaristi, dal canto loro, cercherebbero di massimizzare la felicità del maggior numero di persone, concentrandosi perciò sulle conseguenze delle azioni: per gli utilitaristi, un risultato di otto onnivori felici oscurerebbe completamente il problema collaterale di due vegani abbacchiati. L’utilitarismo va in difficoltà quando le minoranze sono molto ampie: un rinfresco con, diciamo, quattro vegani tristi e solo sei onnivori felici comincerebbe ad apparire decisamente poco frizzante. I seguaci di Immanuel Kant sottolineano l’importanza di doveri e obblighi, chiedendosi se ci sia una legge universale riconosciuta circa le proporzioni dei diversi tipi di sandwich da offrire a un rinfresco. I relativisti culturali, per altro verso, hanno affermato con forza che non esiste una legge morale universale. Ognuno, sostengono, appartiene a un gruppo o a gruppi con proprie norme e consuetudini interne. In tutto il pianeta ci sono molte culture e comunità che non mangiano assolutamente alimenti a base di carne di maiale; e ce ne sono altre che non riescono a capire il vegetarianismo e neppure gli inviti ai rinfreschi. Aristotele invece si renderebbe conto che la decisione in merito ai panini non può essere presa in astratto, nel vuoto. Si prenderebbe del tempo per riflettere sul problema e preparare un piano. Penserebbe a che cosa c’è dietro alla scelta del cibo, in modo da rendere coscienti le proprie intenzioni: se quello che desidera è che i dieci vicini si sentano a loro agio e con la pancia piena, perché una simile esperienza renderebbe l’intera comunità un luogo piú piacevole per viverci, contribuendo quindi alla felicità individuale e collettiva, allora la sua decisione dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzazione del suo desiderio. Non avrebbe senso offendere una sia pur ristretta minoranza di ospiti. Consulterebbe quindi le persone interessate, compresi gli invitati e gli addetti ai buffet, per sondare il terreno circa le possibili reazioni. Penserebbe ai rinfreschi che ha già organizzato o a cui ha

partecipato, prenderebbe in esame i precedenti e con ogni probabilità scoprirebbe un modo per aggirare l’intero problema sulla base della storia di questo genere d’inviti – servendo dolci senza lattosio, ad esempio, che piacciono a tutti, anziché i sandwich fomentatori di discordia. Si assicurerebbe anche che i tipi di dolce che ha scelto gli piacciano davvero, dal momento che il sacrificio superfluo non trova posto nella sua filosofia di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Il sistema etico di Aristotele è versatile, flessibile e concretamente applicabile alla vita quotidiana. La maggior parte dei suggerimenti pratici di ordine psicologico per una vita sempre piú soddisfacente presentati nel 2007 dalla psicologa Sonja Lyubomirsky in The How of Happiness. A Practical Guide to Getting the Life You Want («Il come della felicità. Guida pratica per ottenere la vita che volete») rivela una sorprendente somiglianza con le raccomandazioni filosofiche di Aristotele, citate in effetti dall’autrice con approvazione. I Leitmotive di Aristotele sono i seguenti: studio della situazione con cui si è alle prese, ponderazione, continua attenzione alle intenzioni, flessibilità, buon senso pratico, autonomia individuale, importanza di consultarsi con gli altri. E la premessa fondamentale della sua concezione della felicità è straordinariamente semplice e democratica: tutti possono decidere di essere felici. Dopo un certo tempo, agire rettamente diventa un’abitudine radicata, che fa stare bene con se stessi. Lo stato mentale che ne consegue è quello che va sotto il nome di eudaimonia, usato da Aristotele per indicare la «felicità». La ricerca aristotelica dell’eudaimonia attira spesso l’interesse di atei e agnostici, ma in realtà è compatibile con qualsiasi religione che ponga l’accento sulla responsabilità morale individuale delle proprie azioni e che non immagini una frequente elargizione di consigli, ricompense e punizioni da parte di una divinità esterna. Aristotele non credeva che la divinità interferisse con il mondo o in qualche modo se ne curasse, e di conseguenza il suo programma per raggiungere la felicità era un sistema autonomo, che non faceva riferimento a una realtà divina. La donna aristotelica non si aspetta di trovare in qualche sacro testo una regola sui rinfreschi. Né tantomeno si aspetta di essere colpita dal castigo divino qualora il rinfresco da lei organizzato fallisca miseramente. Vivere in modo competente e pianificato è una scelta che si fa per controllare la propria vita e il proprio destino. E dal momento che questa attività di controllo è una funzione

tradizionalmente attribuita a uno o a piú dèi, possiamo dire che essa in un certo senso ci rende «divini». Ciò nonostante, l’eudaimonia non è cosí semplice da spiegare. Il prefisso eu- significa «bene» o «buono»; daimonia deriva da una parola con un’ampia gamma di significati: essere divino, forza divina, spirito custode, fortuna o sorte personale. Eudaimonia venne perciò a significare benessere, o prosperità, e questo benessere comprende certamente anche un sentimento di contentezza. Ma l’eudaimonia è molto piú attiva della «contentezza». L’eudaimonia è «fatta» da noi: ha bisogno di un contributo positivo da parte nostra. Per Aristotele, in effetti, la felicità è attività (praxis). E infatti, fa notare il nostro filosofo, se fosse una predisposizione affettiva con cui alcuni nascono e altri no, potrebbe allora essere posseduta anche da un uomo che trascorre l’esistenza a dormire «e vive come un vegetale» 2. Nella definizione aristotelica di felicità, inoltre, non è compresa la ricchezza materiale. Un secolo prima, un altro pensatore del Nord della Grecia, Democrito, molto stimato da Aristotele, aveva parlato di «felicità dell’anima», insistendo sul fatto che essa non derivava affatto dal possesso di oro o bestiame. Come Democrito, anche Aristotele nell’usare la parola eudaimonia intende «felicità dell’anima», una felicità che l’uomo senziente prova nella sua coscienza. Secondo Aristotele è la vita stessa che consiste nell’avere una mente attiva. Aristotele era convinto che la maggior parte delle persone trae il proprio piacere dall’imparare cose, dall’interrogarsi sul mondo e rimanerne stupiti. Anzi, considerava il raggiungimento della comprensione del mondo – non solo come conoscenza accademica ma come comprensione di ogni aspetto dell’esperienza – il vero fine della vita. Se credete che il fine della vita umana sia massimizzare la felicità, siete degli aristotelici promettenti. Se il fine della vita umana è la felicità, il modo per raggiungerla è pensare seriamente a come Vivere Bene, a come essere vivi nel miglior modo possibile. Per farlo occorre un’abitudine all’autocoscienza, che Aristotele ritiene fuori dalla portata degli altri animali. E quell’avverbio apparentemente semplice, «bene», può avere tre significati: può voler dire «con competenza» in senso pratico; «virtuosamente», nel senso di essere buoni; e «fortunatamente», o «lietamente», nel senso di avere occasioni di felicità e di piacere. Il 4 luglio 1776, il Congresso degli Stati Uniti, appena costituito, ratificò il testo della Dichiarazione di indipendenza redatto da Thomas Jefferson.

Nelle prime righe la frase che fece epoca recita: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità» 3. È noto che l’antica Roma repubblicana fu un modello importante per i padri fondatori degli Stati Uniti, ma quell’espressione cosí indovinata, «perseguimento della felicità», rivela che Jefferson aveva una profonda familiarità con la filosofia di Aristotele. Quattro anni dopo la Costituzione del Massachusetts (1780) si mise sulla stessa scia: il governo veniva istituito per il bene comune, «per la protezione, la sicurezza, la prosperità e la felicità del popolo». Aristotele credeva che l’educazione dei futuri cittadini fosse di fondamentale importanza per la realizzazione del loro potenziale individuale e comunitario. L’Ordinanza del Nordovest del 1787 non poteva suonare piú aristotelica quando affermava che le scuole erano necessarie al «buon governo e alla felicità dell’umanità». Chiunque nel mondo viva conformemente ai principî esposti nella luminosa nuova alba dell’indipendenza americana è, che ne sia consapevole o meno, un aristotelico, impegnato nel progetto dell’umana felicità. La frase piú celebre di Aristotele – talmente celebre che nel febbraio del 2016 fu citata, peraltro in modo impreciso, anche in uno scambio di dichiarazioni tra papa Francesco e Donald Trump – è quella in cui dice che «l’uomo è un animale politico» (zoòn politikòn). Aristotele voleva dire che l’uomo si distingue dagli altri animali per il fatto di tendere per natura ad aggregarsi, allo scopo di vivere in una vasta comunità permanente, la polis, o città-Stato. Aristotele arriva sempre alle definizioni operando una serie di distinzioni, e nell’Etica nicomachea pone la seguente fondamentale domanda: quali sono i tratti distintivi dell’essere umano? Gli uomini, come gli animali e le piante, partecipano alle attività di base di vivere, nutrirsi e crescere. Se anche gli altri animali e le piante vivono, si nutrono e crescono, significa che questi non sono tratti distintivi dell’umanità. Gli animali, al pari degli uomini, hanno anche dei sensi con cui percepiscono il mondo e le altre creature. Di conseguenza, neppure la vita senziente può essere la caratteristica peculiare e fondamentale dell’essere umano. Non c’è nessun altro essere vivente però che condivide quel particolare «tipo di vita attiva, propria della parte razionale» 4. Gli uomini fanno delle cose, e prima di farle, mentre le fanno e dopo averle fatte, sono capaci di pensare. Risiede qui

l’umana raison d’être. Se noi, in quanto esseri umani, non sfruttiamo la nostra capacità di agire esercitando le nostre facoltà razionali, allora non realizziamo le nostre potenzialità. Esercitare la ragione per Vivere Bene significa coltivare le virtú ed evitare i vizi. Essere una brava persona ci renderà piú felici. C’è una ragione se l’ottimistica fantasia di Frank Capra raccontata in La vita è meravigliosa (1946) è il film natalizio piú popolare di tutti i tempi: e la ragione è che il messaggio del film entra in profonda assonanza con i valori di generosità e cooperazione condivisi dalla maggior parte dell’umanità. L’imprenditore e filantropo George Bailey, interpretato da James Stewart, è finito nei guai, perseguitato da un avido capitalista. Alla vigilia di Natale medita il suicidio. Un angelo custode, Clarence, arriva dal cielo per mostrare a George, attraverso una serie di flashback, alcuni episodi della sua vita passata nei quali ha prestato soccorso disinteressato al prossimo, ha aiutato con dedizione i suoi familiari e ha offerto prestiti a persone indigenti che in questo modo hanno potuto comprarsi una casa. Clarence distoglie George dal suo intento suicida mostrandogli una versione alternativa della storia, in cui George non era mai esistito, la sua famiglia non aveva potuto contare su di lui e i poveri avevano dovuto vivere in baracche. George vede che la sua «vita meravigliosa» lo ha fatto entrare in rapporto con le altre persone per mezzo dei suoi sforzi di aiutarle. È un film aristotelico anche per un altro motivo: perché presenta la vita come un progetto, come una continua parabola, tanto meravigliosa quanto noi scegliamo che sia. Per quando sdolcinata possa apparire allo spettatore odierno, la pellicola tocca una corda emotiva assolutamente reale. La promesse (1996), dei registi belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, evita invece ogni sentimentalismo raccontandoci la storia di un giovane sulla soglia dell’età adulta, e della piena responsabilità morale, che impara quanto sia gratificante la bontà. All’inizio del film Igor, apprendista meccanico, ha solo quindici anni ma affronta una sfida etica estrema e riesce a rendersi moralmente indipendente dal padre senza scrupoli. La trama si sviluppa a partire dalla morte accidentale di un migrante clandestino e dalle insistenze del padre di Igor nei confronti del figlio perché lo aiuti a occultare la tragedia. Igor conquista la maturità morale e un certo livello di serenità prestando assistenza alla famiglia del defunto nonostante l’insensibilità paterna, i sensi di colpa, la vulnerabilità sociale e la paura della legge.

L’accentuazione del legame esistente tra felicità e azione virtuosa è una delle fondamentali differenze tra la ricetta per la felicità di Aristotele e quella delle altre filosofie, come l’egoismo, l’utilitarismo e il kantismo. Nella Politica, per illustrare quanto sia difficile raggiungere la felicità senza sforzarsi di essere una brava persona, Aristotele propone una caricatura estrema dell’individuo preda dei vizi, e di conseguenza infelice: Nessuno direbbe beato chi non ha una briciola di coraggio, di temperanza, di giustizia, di saggezza, ma temesse le mosche che gli ronzano intorno, non fosse capace di astenersi dai peggiori eccessi quando è in preda ai desideri di mangiare e di bere, per due soldi vendesse gli amici piú cari e fosse anche nel pensiero cosí insensato e confuso da sembrare un bambino o un pazzo 5.

Con parole diverse, George Washington espresse la stessa correlazione nel 1789, quando, in occasione del suo discorso d’insediamento, disse agli astanti newyorkesi che esisteva «un legame indissolubile tra virtú e felicità». Decidere di perseguire la felicità Vivendo Bene significa praticare l’«etica della virtú», o piú semplicemente «fare la cosa giusta». Analogamente le virtú di Aristotele sono tradotte in termini altisonanti come ad esempio «giustizia», che in realtà significa semplicemente trattare gli altri con onestà e correttezza. L’etica della virtú ha sempre attirato umanisti, agnostici, atei e scettici proprio perché propone, alle persone che vogliono condurre un’esistenza soddisfatta, decorosa e costruttiva, un modo ponderato per farlo. L’etica della virtú ci aiuterà ad affrontare decisioni, questioni morali e le «grandi domande» sulla vita e sulla morte, affidandoci al nostro stesso giudizio e alla nostra stessa capacità di prenderci cura di noi stessi, dei nostri amici e di coloro che dipendono da noi. Ma la mancanza di traduzioni idiomatiche dal greco è stata una delle ragioni per cui il programma sensato ed efficace di Aristotele di perseguire la felicità tramite la decisione di fare la cosa giusta non ha conosciuto una piú ampia diffusione presso il grande pubblico. Se la gente capisse che la felicità personale dipende dalla propria condotta, scrive Aristotele, allora la felicità diventerebbe «piú comune, per il fatto che sarebbe possibile che ne partecipassero piú persone» 6. Aristotele si spinge a dire che, idealmente, «è importantissimo che tutti gli uomini appaiano in accordo sulle cose che saranno dette» 7, o che altrimenti sottoscrivano almeno una parte del programma dettato dall’etica della virtú,

poiché «ciascuno possiede qualcosa di proprio per contribuire alla verità» 8. È stato Aristotele a scrivere i primi libri dedicati alla domanda «come devo comportarmi». Sino ad allora nessuno, nemmeno Platone, aveva riflettuto su questa domanda in modo autonomo rispetto ad altri temi quali la religione o la politica. Sull’etica Aristotele scrisse due grandi libri, l’Etica nicomachea, rivolta – sembra – al figlio Nicomaco, e l’Etica eudemia, che deve il suo nome all’amico Eudemo, possibile curatore del manoscritto. Probabilmente Aristotele non fu a conoscenza né mai fece uso di questi titoli, sebbene nella Politica egli menzioni scritti precedenti dedicati al «carattere», chiamandoli Ethika (in greco antico, «carattere» si diceva ethos). L’Etica eudemia fu scritta probabilmente prima di quella Nicomachea, e rivista in parte in un secondo momento alla luce del testo posteriore. Queste due grandi opere seguono linee di fondo analoghe. Entrambe affrontano il progetto fondamentale dell’eudaimonia quasi all’inizio, poi passano a trattare la natura della virtú in generale (aretè) e delle virtú particolari (aretai) che devono essere coltivate dagli animali umani per Vivere Bene, prosperare ed essere felici. Vengono anche discussi l’amicizia e il piacere, e (brevemente) il rapporto degli uomini con il divino. C’è anche un libro piú piccolo che contiene una spiegazione delle idee di Aristotele, ma può essere stato scritto da un suo seguace ed è noto con il fuorviante titolo di Magna Moralia, o «Grande etica». Negli scritti etici di Aristotele le regole ferree, le norme generali, sono rare. Non ci sono formule rigide, e neppure «codici morali». L’intento è sempre quello di migliorare la nostra vita e orientarla verso il benessere, ma la dimensione etica di ogni decisione è sempre diversa e richiede ogni volta un’analisi specifica e una particolare azione di risposta. Due vostri dipendenti possono prendere dei soldi dalla cassa, ma uno può sfamarci i figli e ogni fine mese restituire il maltolto, mentre l’altro può avere una tossicodipendenza. Aristotele riteneva che i principî generali sono importanti, ma che senza prendere in considerazione le circostanze specifiche i principî generali possono spesso indurre in errore. È per questo che alcuni aristotelici amano definire se stessi «particolaristi morali». Ogni situazione e ogni dilemma richiedono un’analisi minuziosa degli elementi che li caratterizzano. Quando si tratta di etica, il diavolo può davvero nascondersi nei dettagli. Aristotele sa che ci sono persone prive della capacità o dell’intenzione di vivere in questo modo flessibile, ma basato su principî. Questi individui

possono essere semplicemente degli immaturi – e Aristotele non tralascia di precisare che la maturità non è una questione di età biologica, essendoci giovani emotivamente del tutto maturi, e persone piú adulte non ancora psicologicamente e moralmente evolute. Ma lo Stagirita pensa che neppure le persone che reprimono eccessivamente le emozioni sono in grado di vivere la vita perseguendo con successo un buon obiettivo: in questo aspetto il suo messaggio suona molto moderno e freudiano. Gli individui che non prestano attenzione alla propria emotività e alle proprie naturali predisposizioni sono incapaci di centrare un obiettivo valido esattamente come coloro che non esercitano le proprie facoltà di ragionamento morale. Nell’Etica nicomachea Aristotele suggerisce che il rapporto fra ragione ed emozione non sia una polarità, ma si presenti piuttosto «come il concavo e il convesso in una circonferenza» 9. Aristotele inoltre rileva come molte persone confondano la meta positiva e costruttiva di cui sta parlando con altri tipi di cose positive, ad esempio il piacere, la ricchezza o la fama. Il problema di questi obiettivi è che possono essere del tutto influenzati dalla casualità, mentre la sfortuna non danneggia le mete piú socialmente costruttive. Se il vostro fine è la ricchezza, e rimanete poveri o perdete improvvisamente le vostre sostanze a causa della cattiva sorte, non raggiungerete la felicità indicata dal termine eudaimonia. Ciò non toglie che una vita etica autoconsapevole non sia per tutti. Aristotele divide gli uomini che hanno uno scopo in tre gruppi. Il primo gruppo è interessato soltanto a quel genere di «bene» che deriva dal piacere fisico: lo Stagirita paragona i membri di questo gruppo al bestiame, e aggiunge che purtroppo c’è una grande quantità di persone potenti il cui unico scopo è il piacere corporale. Cita in proposito il mitico re dell’Assiria Sardanapalo, il cui motto era: «Mangia, bevi e divertiti, perché il resto non vale lo schioccare di un dito». Aristotele pensava che il piacere fisico fosse importante, costituendo per tutti gli animali una guida al loro bene. Ma per l’animale uomo il piacere fisico è una cosa positiva in quanto strumento che lo conduce alla felicità, e non in quanto felicità in se stesso. Il secondo gruppo è formato dagli uomini d’azione, che passano la vita nella sfera pubblica o politica. La loro meta è la fama o l’onore – insomma, il riconoscimento. Il problema, tuttavia, è che sono preoccupati piú di essere riconosciuti che di essere davvero brave persone. Quel che conta sono gli elogi e non ciò che li motiva. Il terzo gruppo è invece costituito da coloro che

si prefiggono la comprensione del mondo e la soddisfazione dell’intelletto. È molto piú difficile che questo proposito sia sabotato da fattori che esulano dal nostro controllo, quali la buona o la cattiva sorte: non c’è bisogno di essere oggetto del riconoscimento o della lode degli altri. È qualcosa che possiamo fare da noi ed è intrinsecamente connesso con l’autosufficienza. L’autosufficienza, o autonomia (autarkeia), è un elemento chiave nella concezione aristotelica della vita buona e di conseguenza felice. Il termine compare il piú delle volte in contesti economici: la persona autarchica o autosufficiente può essere un individuo finanziariamente indipendente che non ha bisogno di un sostegno economico esterno. A sua volta quest’autonomia lo rende indipendente anche sul piano morale – non deve né assecondare i capricci di chicchessia né prendere ordini. Ed è questo il senso piú importante per Aristotele. Per Vivere Bene occorre essere capaci di operare come un agente morale indipendente e non lasciare che le proprie scelte di azione deliberata siano limitate da obblighi verso altri. Un reddito adeguato può costituire un fattore importante nella libertà di essere virtuosi e di perseguire la felicità. Questa constatazione assegna però alla persona che vuole Vivere Bene ed essere felice anche la responsabilità di trovare in se stessa le risorse caratteriali necessarie. Verso la fine dell’Etica nicomachea Aristotele suggerisce che la vita piú autosufficiente è la vita di pura contemplazione filosofica, dal momento che non necessita di altre persone. Ma anche in questo caso Aristotele afferma che il filosofo a tempo pieno, per quanto possa filosofare da solo, «forse si troverà in condizione migliore se avrà dei collaboratori» 10. Se intendete diventare felici praticando la giustizia nelle vostre relazioni, avete bisogno di qualcuno verso cui essere giusti. Questa concezione distingue nettamente il pensiero aristotelico da quello delle antiche scuole filosofiche, che consigliavano di vivere in isolamento, come eremiti religiosi, lontani dalle relazioni umane e dalle faccende mondane. Per Aristotele le amicizie rendono migliore anche la vita dell’uomo autosufficiente. Lo Stagirita critica apertamente quei filosofi secondo i quali chi Vive Bene non ha bisogno di amici. Se di per sé, nella vita «esteriore», avere amici è una cosa bella, perché mai l’uomo felice non dovrebbe volerli? Sarebbe capace di cavarsela senza di loro, se le circostanze lo richiedessero, ma per quale motivo dovrebbe sempre scegliere di farne a meno? Sulla strada per la felicità, quindi, tenetevi pure i vostri amici. E le buone notizie non sono finite. Per Vivere Bene e praticare la Virtú fino a diventare

la migliore versione possibile di voi stessi, non è neppure necessario avere un «talento naturale». Nel terzo libro dell’Etica nicomachea Aristotele si preoccupa di polemizzare contro chi sostiene che si nasce buoni o si nasce cattivi. Potete farvi carico della vostra felicità e decidere di Vivere Bene in qualsiasi stadio della vostra carriera morale. E soprattutto, nel libro nono dell’Etica nicomachea, Aristotele ribadisce che chi vuole Vivere Bene e trattare gli altri secondo giustizia deve amare se stesso a qualunque costo. È un’idea spesso confortante per le persone cresciute in famiglie rigidamente religiose, che si sentivano dire che avevano peccato, che avevano trasgredito, e che dovevano chiedere perdono a Dio. Ben prima che la psicoanalisi freudiana ci incoraggiasse a considerare naturali e non moralmente spregevoli le nostre esigenze primarie, e molto prima che lo psichiatra dell’Ohio W. Hugh Missildine ci chiedesse di abbracciare il nostro bambino interno in Il bambino che sei stato (1963), Aristotele aveva sostenuto che la felicità è incompatibile con l’avversione per se stessi. Le persone che non riescono a rispettare se stesse e a credere nella propria dignità di fondo non possono amare se stesse, figuriamoci gli altri. I criminali, gli individui assolutamente immorali, non odiano solo gli altri, odiano anche se stessi. Ecco che l’analisi di Aristotele dell’odio per se stessi si approfondisce. Diversamente dalla maggior parte delle religioni e degli altri sistemi etici, l’etica aristotelica è sorprendentemente non giudicante nei confronti degli individui immorali, considerandoli essenzialmente degli infelici. Le persone immorali sono sempre combattute. Fanno ciò che arreca loro piacere, ma in qualche modo avvertono che il perseguimento del piacere per il piacere non conduce alla felicità. Altrettanto combattute sono le persone che sanno qual è la cosa giusta da fare, ma si astengono dal portarla avanti «per viltà e pigrizia» 11. Aristotele, che dopo i quarant’anni conobbe da vicino la dispotica famiglia reale macedone, lo spietato Filippo II e l’astuta schiera di mogli, concubine e luogotenenti, tutti dediti a grandi manovre per rafforzare la propria posizione a corte, deve aver osservato minuziosamente l’infelicità degli individui immorali. Vide criminali seriali che semplicemente si suicidarono. E osservò malvagi che «cercano con chi passare la giornata e sfuggono se stessi, [perché] se stanno da soli si ricordano di molte terribili azioni e ne progettano altre dello stesso tipo, mentre se stanno con altri se ne dimenticano» 12. Questi dissoluti infelici, che non sopportano di stare soli con

se stessi, non «provano nessun affetto verso se stessi, infatti la loro anima è in stato di perpetua rivolta» 13. Si sentono lacerati, quasi fisicamente. Per qualche minuto si compiacciono di indulgere nelle loro brame, ma «dopo pochi istanti si rattristano di avere provato piacere e vorrebbero che tali cose piacevoli non fossero capitate loro: le persone ignobili sono piene di pentimenti» 14. Lev Tolstoj, che conosceva bene la letteratura e la filosofia greca, sembra quasi stia leggendo Aristotele quando inizia Anna Karenina osservando: «Le famiglie felici si somigliano tutte; le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo» 15. Aristotele aveva infatti scritto che «il bene è semplice, mentre il male è multiforme; e la persona buona è sempre simile a sé e non cambia nel carattere, mentre il cattivo e lo sciocco sono diversi dal mattino alla sera» 16. Non esiste analisi piú lucida del multiforme tormento psicologico che le persone immorali si infliggono con il proprio comportamento incostante. Rampollo di una famiglia prospera e apparentemente affettuosa, Aristotele era nato a Stagira, una città-Stato libera e autonoma che sorgeva in una splendida località bagnata dal mare e protetta da boschi e montagne. I ricordi d’infanzia devono avere fornito un contributo fondamentale alla concezione di Aristotele della felicità come attività virtuosa coerente, che si sviluppa all’interno di una comunità piena di vita. Negli anni della maturità Aristotele rimase legato alla città della sua infanzia. Filippo di Macedonia la conquistò nel 348 a.C., distruggendone alcuni edifici e riducendo in schiavitú gli abitanti superstiti. Mitigò tuttavia il suo atteggiamento quando Aristotele gli chiese di riedificarla e di restituire la libertà ai suoi cittadini. Nel centro della città sono visibili i resti di un colonnato con le annesse sedute di marmo, dove i liberi e autonomi stagiriti, compreso il padre di Aristotele, si riunivano per discutere. Condivido l’opinione di Aristotele, il quale, malgrado questi possibili ricordi di infanzia beata, riteneva che i bambini non possano essere propriamente felici, perché hanno cosí poca vita alle spalle, e un desiderio di gratificazione immediata cosí intenso, che non sono praticamente in grado di fare pensieri a lungo termine. Questa condizione mi rende molto solidale anche nei confronti dei giovani adulti: giovani che non solo devono spesso fare i conti con l’insicurezza finanziaria ed emotiva, ma che oltretutto hanno molte piú possibilità, rispetto alle persone anziane o di mezza età, di essere colpiti da gravi sventure dipendenti dal caso. L’unico consiglio da dare è di

mantenersi fedeli a se stessi. Il loro stato mentale non sarà costantemente esposto al cambiamento completo o all’annichilimento, come «un camaleonte, o uno che si regge su piedi d’argilla» 17, per dirla con le parole di Aristotele. La minaccia piú seria alla certezza della felicità è la sfortuna pura e semplice. Nell’Etica eudemia Aristotele dedica molte pagine alla relazione tra il sé interiore come agente morale – la capacità di decidere la propria condotta e controllare il proprio destino – e l’accidentale malasorte a cui possiamo andare incontro, totalmente al di fuori del nostro controllo. L’esempio preferito da Aristotele di sofferenza sventurata su scala epica è quello di Priamo. Sovrano del prospero e felice regno di Troia, e padre di cinquanta figli, Priamo perse per mano degli invasori greci sia il regno sia l’intera prole, prima di morire ignominiosamente sull’altare della sua stessa città. E non aveva fatto niente per meritarsi tutto questo. L’esempio che sceglierei io sarebbe invece quello di Sonali Deraniyagala, docente di economia alla London University, che nel 2004, a causa dello tsunami abbattutosi nello Sri Lanka, perse entrambi i figli, i genitori e il marito. Fu un dolore indescrivibile. Priva di fede religiosa, racconta che solo grazie all’uso disciplinato della rimemorazione intenzionale (una tecnica profondamente aristotelica) riuscí a sopravvivere e infine a recuperare, con uno straordinario sforzo psicologico, alcune parti del suo antico «sé». Ha descritto l’intera esperienza in un elegante testo autobiografico intitolato Onda (2013). È un testo che ci fa sentire piccoli. I piccoli cambiamenti operati dalla sorte, come osserva Aristotele, «chiaramente non hanno peso nella nostra vita» 18; ma «sfortune grandi, e che si verificano in gran numero […] riducono e oscurano la beatitudine, infatti comportano dolori e impediscono molte attività» 19. Eppure Sonali Deraniyagala è ancora viva, frequenta amici, continua a lavorare e ogni tanto ride. Aristotele avrebbe commentato che è possibile subire catastrofi apparentemente insopportabili e continuare a cercare di Vivere Bene: «Anche in questi casi risplende il bello, quando uno sia capace di sopportare con calma molte e grandi sventure, non per insensibilità, ma perché è nobile e fiero» 20. In questo senso il bisogno aristotelico di ricercare sempre e comunque la felicità rispecchia un sistema morale profondamente ottimistico. Un proverbio della Grecia arcaica affermava che nessuno poteva essere detto felice prima che fosse morto. Era una massima particolarmente cara a

Solone, il leader ateniese annoverato fra i «sette savi» della tradizione greca. Una volta Solone si recò in visita presso il re di Lidia, Creso, sovrano dalle favolose ricchezze. Creso pretendeva che Solone sancisse che era proprio lui, Creso, l’uomo piú felice al mondo. Rimase quindi contrariato quando Solone scelse invece un comune ateniese di nome Tello, che visse a lungo, fece in tempo a conoscere tutti i nipoti, nessuno dei quali perí prima di lui, e morí combattendo per l’amata patria. L’idea di Solone era che la sventura è sempre in agguato, e che quindi la felicità complessiva di una persona non può essere valutata fino a che questi non muoia. Una visione delle cose destinata a rivelarsi sinistramente profetica. Non molto tempo dopo il figlio di Creso rimase ucciso in un incidente, la moglie di Creso si suicidò e lui stesso perse il regno per mano dei Persiani. Aristotele cita il precetto di Solone e lo approva, nella misura in cui invita a pensare al futuro e a come ne affronteremo le sfide. Il consiglio di Solone di «guardare alla fine delle cose» vale per qualsiasi età. Non importa se siete adolescenti che cominciano a pianificare la vita, stressati professionisti di mezz’età, o pensionati desiderosi di trarre il massimo dagli anni che ancora vi restano. Sul letto di morte nessuno di noi vuole essere assillato dal senso di colpa o dalla consapevolezza di non avere ottenuto un risultato soltanto perché è stato troppo timoroso per tentare. Nel 2012 Bronnie Ware, un’infermiera di cure palliative che aveva accudito molti pazienti nelle loro ultime settimane di vita, pubblicò un commovente resoconto dei rimpianti piú comuni che i suoi assistiti le avevano raccontato 21. In modo quasi clamoroso questi rimpianti coincidono con le insidie che Aristotele ci consiglia di evitare nel corso della nostra terrena costruzione della felicità. Le persone dicono: «Vorrei aver permesso a me stesso di essere piú felice» 22, riconoscendo di essersi lasciati sfuggire in qualche modo l’opportunità di essere autonomi e di avere scelto di farsi passare davanti la felicità. Ammettono che avrebbero voluto dedicare piú energie all’amicizia (uno dei piú importanti principî di Aristotele). Ma il rimpianto piú ricorrente è questo: «Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele a me stesso e non quella che gli altri si aspettavano da me» 23. 1. Platone, Apologia di Socrate, a cura di Angelica Taglia, in Id., Eutifrone. Apologia di Socrate. Critone, Einaudi, Torino 2010, p. 209. 2. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1176a, X, 6, p. 425. 3. La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, a cura di Tiziano Bonazzi,

Marsilio, Venezia 1999, p. 69. 4. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1098a, I, 6, p. 21. 5. Aristotele, Politica cit., 1323a, pp. 289-90. 6. Aristotele, Etica eudemea, in Id., Etiche, a cura di Lucia Caiani, Utet, Torino 1996, pp. 65-186 (1215a, I, 3, p. 70). 7. Ibid., 1216b, I, 6, p. 75. 8. Ibid. 9. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1102a, I, 13, p. 41. 10. Ibid., X, 7, p. 431. 11. Ibid., 1166b, IX, 4, p. 373. 12. Ibid. 13. Ibid. 14. Ibid. 15. Lev Tolstoj, Anna Karenina [1878], trad. it. di Claudia Zonghetti, Einaudi, Torino 2016, p. 5. 16. Aristotele, Etica eudemea cit., 1239b, VII, 5, pp. 152-53. 17. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1100b, I, 11, p. 33. 18. Ibid., 1100b, I, 11, p. 35. 19. Ibid. 20. Ibid. 21. Bronnie Ware, The Top Five Regrets of the Dying. A Life Transformed by the Dearly Departing, Hay House, London 2012 [trad. it. Vorrei averlo fatto. I cinque rimpianti piú grandi di chi è alla fine della vita, Mylife, Coriano di Rimini 2012]. [N.d.A.]. 22. Ibid., p. 201. 23. Ibid., p. 53 [trad. modificata].

Capitolo secondo Potenziale

Ma cosa significa veramente essere «fedeli a se stessi»? Per Aristotele equivale a realizzare il proprio potenziale, ragion per cui non è mai troppo tardi per cominciare a diventare «fedeli a se stessi». La parola «realizzare» ha due significati: rendersi conto di qualcosa e trasformare in realtà. L’idea di Aristotele li comprende entrambi. Aristotele dovette affrontare problemi e frustrazioni in vari periodi della sua vita adulta, e gli fu impossibile dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e all’insegnamento della filosofia – e realizzare cosí il suo ineguagliabile potenziale – fino a quasi cinquant’anni. Ma doveva anche essere consapevole di essere vissuto dalla nascita fino ai trenta-quarant’anni in un ambiente che era fonte di continui stimoli intellettuali. Il padre Nicomaco poté introdurlo, in quanto medico, alle idee e ai metodi scientifici piú avanzati conosciuti dai Greci. Nel mondo antico la professione medica si passava di padre in figlio, e Aristotele avrebbe potuto seguire le orme paterne: per tutta la vita fu convinto che medicina e filosofia fossero discipline affini. È piú che plausibile che Nicomaco abbia discusso con il figlioletto del concetto di potenzialità umana mentre passeggiavano raccogliendo piante medicinali sulle colline boscose che da Stagira si protendono verso l’interno della penisola Calcidica. Magari l’argomento è saltato fuori quando Nicomaco pose al figlio la classica domanda da genitore: «Che cosa vuoi fare da grande?» Gli antenati avevano trasmesso ad Aristotele anche una reputazione familiare da salvaguardare. Nicomaco apparteneva a un’antica stirpe di medici, che si vantavano di discendere da Macaone, uno dei leggendari guaritori greci presenti a Troia. Macaone era figlio di Asclepio, che era nientemeno che il dio della medicina; Asclepio aveva ricevuto speciali erbe medicinali da Chirone, a sua volta progenitore dei centauri-medici. Il padre di Aristotele scrisse inoltre sei libri di medicina e uno di filosofia naturale, fungendo da esempio per l’intelligente figliolo. Le straordinarie doti naturali di Aristotele, evidentemente riconosciute dagli adulti di famiglia fin da quando era piccolo, ebbero modo di svilupparsi e fiorire. In queste circostanze la sua capacità potenziale di diventare il

filosofo-scienziato piú eminente della sua generazione, e secondo alcuni dell’intera storia dell’uomo, poté realizzarsi. Molto spesso a quei tempi, come anche ai nostri, i potenziali di tanti individui andavano sprecati. Creare felicità significa, in primo luogo, trascorrere la vita potendo fare le cose in cui eccelliamo e che ci dànno piacere. Di tutti i concetti chiave di Aristotele, molti dei quali compaiono sia nelle sue opere filosofiche sia in quelle scientifiche, il piú stimolante è quello di potenzialità. Secondo lo Stagirita tutti gli oggetti dell’universo hanno un fine per cui esistono. Anche un oggetto inanimato come un tavolo ne ha uno: è un luogo a cui far sedere le persone e su cui posare delle cose. Ma le cose viventi hanno un potenziale di tipo diverso, una dynamis, grazie alla quale si sviluppano nella versione matura di ciò che sono: un seme, o una ghianda, è dotato del potenziale per svilupparsi in una pianta, o in un albero; un uovo di pollo, se fecondato, ha la dynamis per diventare un galletto o una gallina. Come è stato riconosciuto dagli odierni biologi e genetisti, nel caso degli animali (compreso l’animale uomo), l’idea aristotelica di dynamis anticipa in modo inquietante i moderni concetti di codice genetico e di Dna: le corna di un animale sono prodotte dall’interazione di una forma e di una materia che hanno sempre avuto al loro interno un potenziale intrinseco programmato per produrre corna, le quali hanno una funzione, uno scopo, o un telos, ben precisi: l’autodifesa dell’animale. L’idea di potenzialità, in Aristotele, è collegata a una delle sue dottrine piú famose, secondo la quale ogni cosa ha quattro cause fondamentali. Una statua, per esempio, ha (1) una causa materiale (la pietra di cui è composta); (2) una causa efficiente (lo scultore che la cesella); (3) una causa formale (il disegno e la forma che lo scultore realizza nella statua); e (4) una causa finale, ovvero la ragione e il fine della sua esistenza (stare in un santuario per ricevere le debite offerte). Nell’essere umano la potenzialità è strettamente associata alla causa finale, che spiega la ragione e il fine della sua esistenza. La causa materiale di un essere umano (1) è la materia organica – il sangue, la carne, le ossa – di cui è fatto. La causa efficiente sono i genitori che l’hanno generato. La causa formale (3) è il Dna che ne ha determinato il corredo genetico, l’aspetto e la conformazione. L’unica causa che soggiace al controllo dell’uomo è la causa finale (4), ovvero la ragione e il fine della sua esistenza. Un impegno universale alla piena realizzazione del potenziale umano in senso aristotelico potrebbe risolvere i problemi con cui oggi si

confronta la razza umana. Il termine utilizzato da Aristotele per potenziale e potenzialità è dynamis, da cui deriva ad esempio l’aggettivo dinamico. In un primo tempo Alfred Nobel aveva chiamato il rivoluzionario esplosivo di sua invenzione «polvere esplosiva di Nobel», ma poi, pensando all’antica parola greca, decise di cambiare il nome in «dinamite». Per questo motivo, purtroppo, la parola viene associata piú facilmente alla devastazione immediata anziché a un lungo e costruttivo processo di autosviluppo. Fin dai tempi della poesia greca arcaica la parola dynamis significava forza o capacità di fare qualcosa. Medici e scienziati se ne erano già serviti per spiegare il moto e il cambiamento. Ma soltanto con Aristotele fu avviata una discussione sistematica della dynamis in rapporto agli esseri umani e alla loro esperienza di vita. Aristotele spiega che cosa intende per dynamis nel nono libro del trattato intitolato Metafisica. Un essere vivente può disporre del potenziale per respirare, crescere o camminare. Una potenzialità di questo tipo può essere messa in atto dalle piante, dagli animali e dagli uomini in modo inconsapevole. Ma c’è anche un altro genere di dynamis, una dynamis particolare, superiore alle altre: Aristotele la chiama «potenzialità razionale». Solo gli umani dispongono di questo genere di potenzialità. Essa infatti non può essere messa in atto senza pensiero cosciente. Un bravo dottore nasce con il potenziale intellettuale necessario per apprendere il sapere medico. Una volta formatosi, il medico dispone del potenziale per guarire i pazienti. Ciò nonostante può anche decidere di non curare il paziente, o di curarlo in un modo che al paziente sarà piú di nocumento che di beneficio. Solo l’attività razionale – il pensiero – intenzionalmente applicata all’obiettivo della guarigione realizzerà il potenziale di guarigione del medico. Il medico deve decidere di riportare il paziente allo stato di salute, e deve anche scegliere quale trattamento abbia maggiori probabilità di raggiungere l’obiettivo. Per essere un bravo medico occorrono i quattro seguenti fattori: potenzialità, formazione, intenzione e ragionamento. E le stesse quattro cose servono anche per diventare una brava persona e una persona felice. Anche un oggetto inanimato ha spesso bisogno di una combinazione di fattori per realizzare la propria finalità, e sono diverse le attività che vi contribuiscono. Aristotele porta l’esempio della costruzione di un tempio. Perché un tempio raggiunga il suo telos adeguato di edificio completo e

adorno di tutto ciò che occorre, bisogna gettare le fondamenta, preparare e adattare uno all’altro i blocchi di pietra, scanalare le colonne e scolpire i fregi ornamentali. Ma da sola, nessuna di queste attività consente di realizzare un tempio completo. L’opera di assemblaggio dell’intera struttura sopra le fondamenta, a partire dalle pietre, dalle colonne scanalate e dalle parti decorative, è molto piú importante. È possibile ottenere il tempio finito soltanto quando ognuno di questi processi specifici ha avuto luogo. Analogamente, un essere umano ha bisogno di essere concepito, partorito, nutrito, protetto, alloggiato, abbracciato, stimolato e istruito. Perché realizzi pienamente il suo potenziale, è necessario identificare quali sono i suoi talenti e le attività che lo rendono felice (che per Aristotele sono la stessa cosa) e permettere il completo dispiegamento di questi talenti e di queste attività per mezzo di una formazione specializzata. Helen Keller, che realizzò il suo notevole potenziale di attivista per i diritti dei disabili, sentí di aver scoperto il segreto della vera felicità: «Non si raggiunge con l’autogratificazione, ma con la fedeltà a un obiettivo di valore». Ma se i genitori, i medici e soprattutto la sua istruttrice Anne Sullivan non si fossero impegnati al massimo per aiutarla, la sordità e la cecità che la affliggevano avrebbero reso impossibile riconoscere e sostenere la sua intelligenza, la sua passione, la sua energia. Per altro verso, in assenza di potenzialità, non ci sarebbe stata formazione, volontà o ragionamento capace di portare al successo. Niente perciò è piú importante che scoprire la potenziale attitudine naturale di ogni individuo. E purtroppo, per un potenziale che necessiti di un riconoscimento razionale, non c’è niente di piú facile che restare irrealizzato. Nella Riproduzione degli animali Aristotele tenta di spiegare in che modo la materia prima di cui è composto un nuovo animale acquisisce la propria forma. Erroneamente Aristotele pensa che questa materia di partenza sia il sangue mestruale femminile all’interno del corpo materno, e che a conferire a questo sangue la sua forma potenziale sia il seme maschile. Aristotele non è chiaro circa il ruolo quantitativamente uguale ricoperto dall’eredità genetica maschile e femminile. Ma non è questo il punto importante. Aristotele – il punto è questo – comprese che tutte le cose viventi si trovano in un continuo processo di cambiamento e sviluppo. Osservò che alcuni cambiamenti impiegano molti mesi o anni, sebbene siano inevitabili una volta avvenuto l’iniziale concepimento. Riconobbe l’azione ritardata della forma, o «codice», che riteneva fosse assegnata al nuovo animale al momento del

concepimento. Nell’animale umano il lasso di tempo che doveva passare tra il concepimento e la piena maturazione fisica del maschio era, secondo Aristotele, come minimo di trent’anni: un uomo – pensava lo Stagirita – non avrebbe realizzato il proprio potenziale intellettuale fino a quando non avesse fatto grande esperienza e imparato molti generi di lezione, all’età (da lui stabilita con curiosa precisione) di quarantanove anni. Aristotele usò il binomio concettuale costituito dalla potenzialità (dynamis) e dalla realizzazione (che chiama energeia), che sarebbe la concreta messa in atto di questa potenzialità, in opere di argomento molto diverso, che vanno dall’etica alla fisica e dalla metafisica alla psicologia e alla cognizione. Per quanto riguarda noi, la dynamis indica l’insieme di qualità naturali, talenti e attitudini di cui la natura ci ha fornito. Nel caso di un adulto maturo, soltanto il soggetto in questione può valutare quali siano realmente questi talenti, sulla base dei propri desideri e delle proprie esperienze, e magari delle discussioni con amici o consiglieri sinceri. Osare nominare e affrontare anche i sogni o le grandi ambizioni che gli altri definiscono folli è fondamentale: sul letto di morte sono in pochi a rimpiangere di aver provato a esaudire i propri sogni, mentre sono certamente molti a rimpiangere di non avere neanche tentato. Abbiamo tutti il dovere di aiutare i giovani a riconoscere e realizzare il potenziale di cui sono dotati: per chi è genitore e per chi svolge professioni d’insegnamento o di cura può essere un impegno a tempo pieno. Alcune potenzialità si traducono immancabilmente in realtà e non c’è nulla che possa arrestare il processo; altre necessitano delle condizioni opportune. L’essere umano ha bisogno di vivere in «condizioni adeguate» alle sue potenzialità. Di vivere cioè in una condizione che gli permetta di essere sostenuto e influenzato da circostanze e agenti esterni. Se non sono nutriti, curati con affetto e messi a contatto con l’alfabeto, i giovani umani deperiscono, riportano danni psicologici e restano illetterati. Oggi sappiamo che fin verso i venticinque anni la parte «razionale» del cervello umano, la corteccia frontale, non è neanche completamente «installata», il che significa che dobbiamo continuare a sostenere i giovani ben dopo il raggiungimento giuridico della maggior età, e spesso per diversi anni dopo il termine formale degli studi. In altre parole, gli uomini possono essere allevati e accuditi in modi che consentono loro di realizzare tutto ciò di cui sono potenzialmente capaci, ma possono anche vedere bloccato lo sviluppo del proprio potenziale

o lasciarlo inutilizzato. Quando consideriamo la dynamis in uno dei contesti che piú interessavano Aristotele – quello del potenziale intellettuale – non dimentichiamo che la sua possibilità di tradursi o meno in realtà dipende dalle circostanze esterne. Questo potenziale inoltre non sarà identico per tipo e quantità in ogni individuo. Gli uomini in quanto specie condividono determinati tipi di potenziale, ma Aristotele osservò che a categorie diverse di persone corrispondono livelli e tipi di potenziale diversi. I bambini, per esempio, non sono ancora capaci di scelte razionali, ma sono dotati di tutto il potenziale necessario per operarle. Sicuramente Aristotele pensava che i potenziali variassero anche da individuo a individuo. Anzi, nella Riproduzione degli animali prova a calcolare la porzione di apporto paterno all’embrione, che rende il potenziale essere umano diverso dagli altri esseri umani. Che cosa rendeva Aristotele piú simile al padre Nicomaco che agli altri padri che vivevano nella città di Stagira, nel Nord della Grecia? E quale percentuale del suo potenziale fu dovuta semplicemente al codice di «specie» che permette all’embrione di diventare un essere umano, un Homo sapiens come qualsiasi altro? E voi, avete riconosciuto e realizzato il vostro peculiare potenziale? O invece avete desiderato tanto fare della vostra vita una certa cosa e non siete mai stati aiutati a sviluppare una certa dote o inclinazione naturale? Volevate fare il pittore, il politico, il cuoco? Aristotele ha cominciato a muoversi seriamente in questa direzione soltanto dopo i cinquanta, ragion per cui avete quasi sicuramente ancora tempo! Pensare a lungo termine, comunque, è essenziale a tutte le età. Felicità, in senso aristotelico, significa decidere che cosa si vuole fare e per quale motivo, e a quel punto attuare un piano per riuscirci. Aristotele apre la sua opera piú importante in materia morale, l’Etica nicomachea, sottolineando come tutto ciò che facciamo abbia una meta positiva, che chiama «un bene». In medicina la cosa buona è la salute; nell’arte nautica, una nave; per l’economia familiare, la prosperità finanziaria. Ogni individuo può decidere per quanto lo riguarda quali scopi vuole ottenere, e impegnarsi allora ad acquisire le competenze, le condizioni e i soci che renderanno possibile raggiungere l’obiettivo. L’asserzione piú sintetica del nostro bisogno di trovare uno scopo nella vita si legge nell’Etica eudemia:

Chiunque sia in grado di vivere secondo la propria scelta deve porre un fine [skopos] del vivere bene – o l’onore o la fama o la ricchezza oppure la cultura – guardando al quale compirà tutte le sue azioni (e certo il non indirizzare la vita verso un fine [telos] è segno di grande stoltezza) 1.

Una vita priva di progettualità vale meno la pena di essere vissuta. Nell’Etica nicomachea Aristotele fa un paragone notevole. Discutendo che cosa renda buone le cose buone, propone, come spesso gli capita, un’analogia tratta dal campo delle arti visive. Suggerisce di cominciare la discussione descrivendo i «contorni» di ciò che è buono, cercando come prima cosa, di darne uno schizzo generale, e poi, in un momento successivo, di descriverlo nei dettagli; sembrerebbe cosa alla portata di tutti andare avanti nell’esposizione e articolare in dettaglio quanto di buono abbiamo detto in modo schematico 2.

Alcuni dettagli possono essere definiti soltanto nel corso del tempo. Possiamo trasferire questa immagine alla programmazione dei nostri obiettivi di vita. Le cose veramente importanti che vogliamo fare devono essere presenti nella nostra mente solo in termini generali: i dettagli, come avviene nei dipinti, potranno essere inseriti in corso d’opera. Per quanto mi riguarda, io desideravo un compagno che mi amasse e con cui crescere dei bambini. Ma volevo anche, oltre a evitare la noia (sono sempre stata consapevole di aver bisogno di dosi abbondanti di stimolazione mentale), lasciare il mondo in condizioni migliori di come l’avevo trovato. La prima parte dello schema (il coniuge e i figli) cominciò a prendere corpo con successo soltanto verso i miei trentacinque anni, piú che altro perché non avevo idea di come riconoscere un partner con obiettivi analoghi ai miei e continuavo a uscire con vitelloni attraenti e invertebrati morali. Mi ci volle un bel po’ di tempo anche per capire come rifinire la seconda parte del mio canovaccio (fare qualcosa d’interessante e costruttivo). Ma in quel caso giunse in mio soccorso prima dei trent’anni un saggio mentore, una docente di letteratura inglese di nome Margot Heinemann, la quale in occasione di un colloquio assolutamente ufficiale mi fece il piú grande favore della mia vita: valutò il mio potenziale. Rilevò che le uniche risorse in mio possesso erano

una patente di guida senza infrazioni a carico, una mente analitica, buone capacità di comunicazione e un curriculum accademico in studi classici. Quel che dovevo fare era immaginare un modo per contribuire al progetto umano sfruttando queste risorse. E cosí, a trentun anni – abbastanza in ritardo rispetto alla maggioranza degli accademici – ottenni finalmente un dottorato, il mio primo contratto universitario e una serie ragionevolmente coerente di sogni da esaudire. Decisi di usare i Greci e i Romani, nei limiti delle mie capacità, per promuovere i «beni» dell’istruzione collettiva, dell’intrattenimento e del progresso sociale. Non c’è dono piú grande dell’aiutare una persona a individuare il suo potenziale e del creare le giuste condizioni perché questo potenziale si sviluppi. Nel mondo un altissimo numero di bambini non realizzerà mai il proprio potenziale a causa della povertà, dell’analfabetismo o del lavoro minorile a cui sono costretti. Ma anche nei Paesi ricchi con tanto di istruzione obbligatoria sono molti i bambini che non tradurranno mai in realtà il loro potenziale. In questo caso o perché vengono pompati e messi sotto pressione troppo presto (ricordatevi della corteccia frontale, che non raggiunge il pieno sviluppo fino a venticinque anni), o perché nessuno prova ad aiutarli. Tutti i bambini sono bravi in qualche cosa, e tutti i bambini in genere si divertono a fare le cose in cui riescono bene. Questo divertimento indica che il talento, una volta identificato, potrebbe servire da utile guida per la scelta di un’occupazione o di una carriera. Mettere vostro figlio a contatto con vari stimoli e tipi di attività, facendo attenzione a cogliere i segni di una risposta entusiasta, non è in fondo cosí difficile. Ma sono incredibilmente pochi i genitori che aiutano i figli a riconoscere i propri talenti naturali. Tra i miei amici e colleghi, spesso super-istruiti e intellettualoidi, ci sono troppi genitori che impongono ai figli il proprio ideale di carriera o di stile di vita. Ne ricordo uno che immaginava, senza la minima prova a sostegno, che il suo pargoletto di tre anni fosse destinato a diventare un pianista di livello mondiale (dieci anni piú tardi il figlio si rifiutò per sempre di continuare a studiare lo strumento). Le sue vere passioni, per quello che sembrava a me, erano la cucina, il campeggio e l’orienteering. Un altro conoscente ignorò la passione della figlia per l’ingegneria e la costrinse a scegliere scuole e università a indirizzo letterario; il risultato è stato una ragazza risentita e frustrata, che poi comunque, diventando un idraulico, ha aggiustato le cose. Quando fate un piano, il principio piú importante è il piacere. Aristotele

considera il piacere uno straordinario strumento per ogni genere di analisi scientifica, sociale e psicologica. Ritiene infatti che la natura usi il piacere per aiutare tutti gli animali senzienti a scoprire e a fare ciò di cui hanno bisogno per prosperare. Animali diversi hanno modi sottilmente diversi di provare piacere: agli asini piace mangiare la biada, mentre ai cani piace dare la caccia agli uccelli da selvaggina e ai piccoli mammiferi. La cosa notevole è che tra gli uomini questa diversità di piaceri si presenta distribuita all’interno della popolazione. «Ciò che giova a uno nuoce a un altro». A voi può piacere il pesce; al vostro partner le salsicce di maiale. Ma l’ampiezza di questa gamma di piaceri trova applicazioni che vanno ben oltre i gusti culinari. Secondo Aristotele le occupazioni che dànno piacere sono le uniche a cui tutti dovremmo puntare: La vita è un certo tipo di attività, e ognuno è in atto in relazione a quegli oggetti, e con gli strumenti, che sono anche l’oggetto principale del suo amore: per esempio il musico con l’udito e in relazione alle melodie, lo studioso con la ragione riguardo ai concetti; e allo stesso modo ciascuno dei rimanenti. Il piacere perfeziona l’atto, e anche il tipo di vita che si desidera; quindi a ragione si persegue anche il piacere, dato che per tutti esso rende perfetta la vita, ed è ciò che scegliamo 3.

Aristotele ha notato che le persone che ricavano piacere dal lavoro che fanno sono quasi sempre tra le migliori nel loro campo. E dice che solo chi ama la geometria ne diventa un grande conoscitore, e che la stessa cosa vale per l’architettura e per tutte le altre arti. Alcune capacità innate hanno piú bisogno di altre di essere affinate con l’istruzione. Nessuno nasce sapendo tutto di geometria, di musica o di architettura. Nella Retorica, per esempio, Aristotele dice che la recitazione è per larga parte un talento naturale, su cui la formazione influisce meno che in altre professioni. Ma quando si passa alla capacità di vivacizzare un discorso o un testo con citazioni di autori passati, massime e proverbi, il successo può dipendere o dal talento naturale o dall’impegno profuso nello studio della letteratura (o anche da entrambi). Quest’ultimo esempio è forse piú rappresentativo della maggior parte dei lavori odierni. Potete avere un’ottima capacità naturale di comunicare e analizzare, ma solo una rigorosa preparazione farà di voi un grande avvocato. Sicuramente sono necessarie sia la predisposizione naturale sia l’applicazione allo studio, se voleste mai

diventare un professionista impareggiabile – quello che Aristotele chiama «un uomo saggio», un sofos – nel vostro particolare campo, per quanto basso possa essere il suo prestigio sociale. Aristotele porta l’esempio di un suonatore d’arpa, e bisogna tenere presente che nel IV secolo a.C. agli strumentisti capaci non erano certo accordati il rispetto e l’alto prestigio sociale di cui godono oggigiorno. Ma Aristotele ribadisce con fermezza che un arpista può consapevolmente decidere se impegnarsi o meno nella pratica dello strumento per diventare un suonatore di spicco. Il trucco è scoprire che cosa vi piace fare e per che cosa siete portati, e poi darci dentro. Può sembrare piú facile a dirsi che a farsi. Ma almeno, in quanto esseri umani, a differenza di un olmo o di una gazzella, possiamo fare una scelta razionale. Aristotele fa anche il nome di due scultori, Policleto e Fidia, quest’ultimo autore della celebre statua di Atena per il Partenone, nell’Acropoli di Atene. In virtú di un talento naturale e di un’applicazione costante, erano divenuti figure eminenti in quel singolo campo. Aristotele riconosce però che ci sono individui estremamente versatili, che grazie alle doti innate possono dedicarsi a molte attività diverse (c’è anche purtroppo un ridottissimo numero di persone che sono del tutto prive di capacità, o che non riescono a trovare il mestiere che fa per loro. A questo proposito Aristotele ricorda un poema eroicomico, il Margite. Di un povero personaggio il poeta aveva detto: «Di campi e vigneti inesperto lo fecer gli dèi | e non altrimenti assennato» 4. È improbabile, comunque, che tra chi ha scelto di leggere questo libro ci sia qualcuno a tal punto sprovveduto). Alcune occupazioni esigono grande impegno o spirito competitivo, e ci sono ovviamente circostanze in cui dobbiamo guadagnarci da vivere con qualcosa che non piace, ad esempio se abbiamo persone a carico da sostenere. Ma il principio generale di scegliersi la professione, e quindi il relativo training, tenendo conto dell’attività che fa sentire piú felici, è di validità intramontabile. Se siete legati a un lavoro gravoso che odiate, fareste bene, anche se avete una giovane famiglia da sfamare, a considerare immediatamente ogni possibile alternativa. La maggior parte dei bambini preferirebbe avere un genitore che lavora in un negozio di quartiere e che è spesso a casa a loro disposizione rispetto a uno stipendio medio-alto tutti i giorni della settimana. Un mio amico, brillante fisico, ha voltato le spalle alla carriera accademica perché lo avrebbe costretto a vivere a un continente di

distanza dal figlio. Si è invece trovato un lavoro in cui riempie gli scaffali dei supermercati, e durante il quale può pensare. La famiglia è contenta e lui pubblica comunque le sue ricerche come studioso indipendente. Anche Aristotele ce ne dà il permesso, nel caso in cui il lavoro che abbiamo ci faccia davvero star male: «Per esempio se a qualcuno lo scrivere o il far di conto risulti sgradito o fastidioso: allora costui non scriverà, e quello non farà le somme, poiché l’attività provoca in loro fastidio» 5. C’è una vena utopistica nel pensiero di Aristotele. È uno dei motivi per cui Tommaso Moro scrisse una volta di amare Aristotele «piú di molti altri» 6 filosofi, e nell’Utopia (1516) raccontò che il viaggiatore estremo Raffaele Itlodeo portò con sé, nel suo viaggio di scoperta, diversi libri dello Stagirita. Piú recentemente Aristotele è stato riclassificato come pensatore utopistico in quanto le sue opere etiche e politiche affermano che il fine della vita umana è di creare le circostanze in cui gli uomini possano prosperare, realizzare pienamente il loro potenziale ed essere felici. Il nostro filosofo immaginò inoltre un mondo in cui le macchine avrebbero svolto gran parte del lavoro manuale, permettendo cosí agli uomini di dedicarsi piú completamente alla vita contemplativa. Oggi, malgrado i computer, l’energia nucleare e a vapore, i motori a combustione interna, le macchine e i robot, la razza umana continua a sfruttare pochissimo il proprio potenziale intellettuale. Non si investono molti miliardi in una situazione in cui la realizzazione del potenziale mentale dipende dall’istruzione. Le sfide ecologiche e politiche a cui la razza umana deve far fronte non sono mai state cosí urgenti, e tuttavia non stiamo affatto coltivando la capacità mentale aggregata di cui siamo dotati. A differenza del maestro Platone, che ammetteva di essere scettico rispetto all’intelligenza delle classi povere e lavoratrici, Aristotele, meno elitario, sottolinea spesso che i maggiori esperti di un dato settore sono il piú delle volte quegli individui di buon senso che hanno accumulato esperienza specifica in quel campo, per quanto basso possa essere il loro status sociale. Nell’Etica nicomachea ammette che le persone con una considerevole esperienza concreta in un’attività possono essere molto piú utili di coloro che ne hanno studiato i principî soggiacenti. Fa intendere che nell’antica Grecia c’erano consulenti dietetici che non andavano mai al mercato e non facevano mai da mangiare. «Se uno sa che le carni leggere sono ben digeribili e sane, ma ignora quali sono le carni leggere, non produrrà la salute» 7. È piú

probabile che sia il cuoco, e non lo studioso di dietetica, a conoscere la differenza tra pancetta e pollo. Nelle Ricerche sugli animali Aristotele descrive «certi esperti pescatori» che hanno visto e anche pescato strane creature – alcune nere, che sembrano pezzi di legno, altre rosse e simili a scudi – che da zoologo gli piacerebbe classificare; ma data la rarità degli avvistamenti, non gli è purtroppo possibile 8. La fiducia accordata da Aristotele al buon senso generale dell’umanità gli permise inoltre di trovare le parole per formulare un prototipo del moderno concetto di «smart mob» – un gruppo, cioè, che anziché comportarsi nel modo sguaiato spesso associato alle grandi folle, attinge all’intelligenza universalmente distribuita per agire con la massima efficacia. L’idea, introdotta da Howard Rheingold in Smart mobs. Tecnologie senza fili, la rivoluzione sociale prossima ventura (2002) 9, è nata dalle osservazioni di gruppi attuali, che possono trasmettere e trovare informazioni grazie alla realizzazione del potenziale intellettuale collettivo. È nel terzo libro della Politica che Aristotele anticipa quello che senza dubbio è il concetto di intelligenza collettiva. I piú, ciascuno dei quali non è un uomo buono, possono tuttavia, se presi tutti insieme, essere migliori di pochi, non di ciascuno ma della loro totalità, come i banchetti organizzati con contribuzioni di piú persone sono migliori di quelli organizzati da una sola persona. Infatti, essendo in molti, ciascuno ha la sua parte di virtú e di saggezza, sicché dalla loro unione si ottiene una specie di uomo solo dotato di molti piedi, di molte mani e capace di ricevere molte sensazioni; che da ciò avrebbe innegabili vantaggi anche nel comportamento e nell’intelligenza. Perciò anche sulle opere di musica e di poesia è migliore il giudizio dei piú, perché ognuno separatamente preso ha la sua particolare competenza, mentre tutti insieme sono in grado di giudicare della totalità dell’opera 10.

Detto in parole povere: la nostra intelligenza collettiva è di gran lunga superiore alla somma delle sue parti. Alcune delle frasi aristoteliche piú illuminanti sul potenziale umano si trovano nella Metafisica, che si apre con il famoso incipit: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere» 11. Successivamente Aristotele definisce la filosofia – stupirsi e chiedersi il «perché» dell’universo – come un’attività peculiarmente umana ed estremamente entusiasmante. In parte questo entusiasmo dipende dal fatto che non si tratta di un’attività direttamente

produttiva: la filosofia non porta ad alcun tipo di arricchimento materiale. Il nostro autore ci racconta come giunse a questa opinione a partire dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà piú semplici, in seguito progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo 12.

Aristotele dice che gli antichi usavano il mito per spiegare queste cose (pensa al mito cosmogonico della Teogonia di Esiodo), e che perciò, in un certo senso, erano filosofi. Si stupivano dei misteri dell’universo, sentivano di essere ignoranti, e cercavano di trovare delle risposte. Aristotele sa che la filosofia e la scienza avevano avuto inizio circa duecento anni prima della sua nascita, e che in principio l’esercizio della «meraviglia» di fronte alle cose misteriose era un passatempo. La filosofia poteva avere davvero inizio soltanto in un posto e in un’epoca in cui ci fosse abbastanza da mangiare e la gente avesse il tempo di poter riflettere per svago. Le necessità pratiche della vita erano già soddisfatte. Domandarsi «perché?» è una tendenza naturale per gli uomini, osserva Aristotele, ma che richiede tempo, oltre al fatto di avere provveduto ai bisogni fisici della mera sopravvivenza. La parola usata da Aristotele per indicare la meraviglia nei confronti del mondo è theoría – la nostra «teoria». Se sulla tomba dello Stagirita ci fosse incisa una sua massima, dovrebbe essere questa: «L’uomo possiede la dynamis theoretikè (la capacità potenziale di teorizzare sul mondo)». Tuttavia oggi come oggi l’idea aristotelica del potenziale intellettuale dell’uomo è assai raramente oggetto di discussione. L’enorme spreco di talento e di potenziale umano è notato di rado, per non parlare di un eventuale rammarico. Il rivoluzionario concetto aristotelico di potenzialità è stato invece a lungo monopolizzato dai filosofi morali cattolici, in un unico e ristrettissimo ambito: quello del dibattito sulla legittimità dell’aborto. Questi pensatori cattolici sostengono che gli embrioni non dovrebbero mai essere abortiti, in quanto possiedono in potenza quegli attributi che solo piú tardi si manifesteranno in modo sviluppato. Il concetto di potenziale

rimarrà legato per sempre al lessico delle campagne abortiste del 1973, anno in cui la Corte suprema degli Stati Uniti, nella sentenza epocale del caso Roe vs Wade, sancí da una parte la legalità di alcuni tipi di aborto, ma dall’altra sottolineò anche che lo Stato ha un «importante e legittimo interesse per la protezione della potenzialità della vita umana dalla ventiquattresima settimana di gravidanza». La decisione della Corte suprema fece sí che l’idea aristotelica di potenzialità fosse successivamente discussa, in relazione allo status morale del figlio non nato, da bioetici, filosofi e teologi. Il piú delle volte questo concetto di potenzialità è invocato da chi è contrario all’aborto, ma fa anche parte dell’armamentario retorico dei loro oppositori, molti dei quali apertamente femministi, quando sostengono il diritto delle donne a scegliere se tenere o meno un figlio. Qui la controversia sulla potenzialità si trasforma nella contrapposizione tra i diritti di un essere umano in potenza e i diritti di un essere umano in atto e in stato di gravidanza. La potenzialità naturalmente non ha attinenza soltanto con l’embriologia. Costituisce in effetti un tema politico, in quanto può aiutarci a pensare al futuro, sia come individui sia come società. La potenzialità può aiutarci a immaginare vari scenari futuri, a provare a tradurli in realtà (Aristotele avrebbe detto «attuarli»), o magari a resistere a futuri indesiderabili – inquinamento ambientale, riscaldamento globale, estinzione di specie animali rare. Anche chi ha raggiunto l’età adulta è dotato di potenzialità, e lungo il percorso di sviluppo del suo potenziale ha viaggiato ben di piú di quanto abbiano fatto degli embrioni al primo trimestre. Per realizzare il proprio potenziale anche Aristotele ricevette costante supporto sia durante l’infanzia sia negli anni in cui diventava adulto. Mantenne sempre rapporti con la corte macedone, presso la quale i ricchi sovrani invitavano gli inventori, gli scienziati, i maestri d’ascia e gli artisti piú innovativi del mondo allora conosciuto. All’Accademia di Atene studiò con il miglior filosofo dell’epoca. Superata la trentina, visse per due anni sull’isola di Lesbo, dove studiò la biologia marina di una grande laguna e conversò con l’amico Teofrasto, anch’egli naturalista, che in quanto nativo dell’isola conosceva bene quel territorio. Successivamente Aristotele rimase in contatto con le armate di Alessandro Magno durante la loro inesorabile avanzata in Oriente, ricevendo probabilmente resoconti regolari su fenomeni naturali e sociali da parte del pronipote Callistene, che varcò l’Ellesponto al seguito del re. Aristotele ebbe anche modo di confrontare per esperienza

vissuta sistemi politici diversi: conobbe infatti sia la democrazia sia la monarchia, oltre alla tirannide, esercitata da Ermia, e all’oligarchia di Lesbo. Dopo le conquiste di Alessandro, vide con i propri occhi quello che allora era il piú vasto sistema di dominio mai esistito nelle mani di un solo uomo. L’ottavo libro della Politica si apre con una celebre affermazione: «Nessuno metterebbe in dubbio che il legislatore debba occuparsi soprattutto dell’educazione dei giovani, dal momento che il trascurarla costituisce un danno per le costituzioni» 13. Lo Stagirita intende dire che l’educazione, a qualsiasi livello, da quella destinata ai bambini piccoli a quella per i giovani adulti, è talmente fondamentale per la prosperità di una comunità, a prescindere dalla forma di costituzione che la governa, che deve essere organizzata dallo Stato e non può assolutamente essere oggetto di una scelta ad hoc da parte di ogni genitore. Dal momento che il fine di una città-Stato è assicurare che i cittadini vivano una vita virtuosa, «è evidente che unica e identica deve essere l’educazione per tutti i cittadini e che essa dovrà essere impartita a cura della comunità e non privatamente» 14. Aristotele non crede cioè che concedere ai genitori di accordarsi privatamente per l’istruzione dei figli serva al bene della comunità. Sarebbe molto meglio, per tutte le materie che definisce «di interesse comune», se tutti i cittadini ricevessero la stessa educazione. Questo non vuol dire che Aristotele proponga un curriculum «universale» per tutti. Lo Stagirita ha osservato il modo in cui gli allenatori sportivi adattano le tecniche di allenamento ai diversi atleti coinvolti. E ricorre all’analogia con la medicina per far notare che in generale a tutti coloro che hanno la febbre giovano riposo e digiuno, «ma forse a una certa persona no» 15. L’importanza dell’accurata osservazione empirica del singolo paziente implica che una persona che non è medico – un parente stretto, per esempio – può essersi fatto un’idea piú attendibile di quale terapia funzionerà meglio; conosciamo tutti, osserva Aristotele, alcuni individui che «sono stimati essere i migliori medici di se stessi, ma non sarebbero capaci di portare soccorso ad altri» 16. Alcuni studenti hanno bisogno di un trattamento particolarmente personalizzato anche nell’ambito di un sistema educativo universale. «E senza dubbio, – conclude Aristotele, – il maestro di pugilato non prepara tutti i discepoli per lo stesso tipo di scontro» 17. Resta comunque convinto che un adeguato sistema di gestione pubblica dell’istruzione sia essenziale. I genitori di oggi che, insoddisfatti di quanto offre lo Stato, si rivolgono a malincuore

alle scuole private, possono trovare un motivo di conforto nella concessione fatta in questo senso da Aristotele, quando scrive che «nel caso che ciò [l’istruzione] sia trascurato a livello pubblico, spetta a ciascuno, a quanto pare, mettersi in grado di aiutare i propri figli e amici a raggiungere la virtú, o almeno a sce-glierla» 18. Ma qual è questo sistema educativo ideale, organizzato dallo Stato per formare tutti i cittadini nelle «cose comuni» 19? L’unico Stato in cui l’iter formativo è effettivamente stabilito per legge, la marziale Sparta, non gode dell’ammirazione dello Stagirita. A Sparta i giovani liberi, ricchi o poveri che siano, ricevono tutti la stessa istruzione (nella Politica leggiamo che questo corrisponde a una delle caratteristiche paradossalmente democratiche dell’oligarchia spartana, per altri versi esasperata). C’è quindi poco spazio per quell’adattamento all’individuo raccomandato da Aristotele. All’estremo opposto Aristotele propone il caso dei mitici giganti, i Ciclopi, uno dei quali, Polifemo, è il protagonista del nono libro dell’Odissea. Polifemo è l’archetipo dell’essere primitivo, che vive in solitudine senza neppure la piú elementare forma di associazione con una moglie. Attento però alle notazioni sociologiche, Aristotele osserva che sulla stessa isola vivono anche altri Ciclopi. E questi altri Ciclopi hanno mogli e figli, ma non hanno costituito nessuna forma di associazione tra le loro famiglie per creare una comunità e facilitare il coinvolgimento dello Stato nel processo educativo. I Ciclopi non hanno né un parlamento né leggi condivise. Ogni maschio è il sovrano della propria caverna tra i monti, e fa le leggi per i propri figli e le proprie mogli, senza curarsi degli altri. Nella nostra società, quali sarebbero le «materie di comune interesse» di cui tutti i giovani dovrebbero essere a conoscenza? Sicuramente le impellenti problematiche sociopolitiche e ambientali. Aristotele usava ripetere che l’istruzione dovrebbe essere la stessa per tutti, in modo tale che ogni membro della comunità possa comprendere i problemi e intavolare dibattiti proficui con i concittadini. L’universalità dell’istruzione massimizzerebbe quindi le possibilità degli individui, la cui dynamis sarebbe in grado di trovare soluzioni ai problemi di ciascuno. In qualsiasi comunità, e in qualsiasi epoca, possono esserci uomini veramente capaci. L’intelligenza è davvero distribuita casualmente. Non riconoscere e non realizzare il potenziale intellettuale umano è come presentarsi sulla linea di partenza della nostra corsa contro il tempo con i ceppi alle caviglie. Nel 2015 ho avuto una prova di quanto

enorme sia il potenziale mentale sprecato. Un rapporto compilato per il governo britannico rivelò che un deprimente 37 per cento dei lavoratori adulti del Paese riteneva che il proprio lavoro non avesse senso e non desse al mondo nessun contributo significativo. Sicuramente i cittadini responsabili del villaggio globale devono prendere l’iniziativa e sostenere la necessità di un’istruzione che si occupi delle «materie di comune interesse» per l’intera cittadinanza. Aristotele avrebbe concordato con Martin Luther King, che il 7 gennaio 1968, poche settimane prima di essere ucciso, pronunciò nella chiesa battista Ebenezer di Atlanta un sermone intitolato «Quali sono i nostri buoni propositi per il nuovo anno?», nel quale, tra le altre cose, diceva: Ho detto ai miei figli: «Lavorerò e farò tutto quello che posso per farvi avere una buona istruzione. Non voglio che dimentichiate che ci sono milioni di figli di Dio che non avranno una degna istruzione e che non possono averla, e non voglio che vi sentiate migliori di loro. Perché voi non sarete mai quello che dovreste essere finché non lo saranno anche loro» 20.

Come cittadini del XXI secolo non potremo realizzare pienamente la nostra dynamis aristotelica finché non faremo quello che ci compete per assicurare che ogni altra persona sul pianeta riceva l’istruzione e il sostegno che le permettano di realizzare anche il suo potenziale. Perché non saremo mai del tutto quello che dovremmo essere fino a quando non potrà esserlo anche la razza umana nella sua interezza. 1. Aristotele, Etica eudemea cit., 1214b, I, 2, pp. 68-69. 2. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1098a, I, 7, p. 23. 3. Ibid., 1175a, X, 4, p. 419. 4. Ibid., 1141a, VI, 7, p. 235. 5. Ibid., 1175b, X, 5, p. 421. 6. Tommaso Moro, A Martin Dorp, Bruges, 12 ottobre [1515], in Id., Lettere, a cura di Francesco Rognoni, trad. it. di Alberto Castelli, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 89-160 (p. 145). 7. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1141b, VI, 8, p. 237. 8. Aristotele, Ricerche sugli animali. Historia animalium, a cura di Mario Vegetti, in Id., Opere biologiche, a cura di Diego Lanza e Mario Vegetti, Utet, Torino 1971, pp. 71-482 (532b, IV, 7, p. 268).

9. Howard Rheingold, Smart mobs. Tecnologie senza fili, la rivoluzione sociale prossima ventura [2002], a cura di Stefania Garassini, Cortina, Milano 2003. 10. «I piú … totalità dell’opera»: Aristotele, Politica cit., 1281b, III, 11, p. 163. 11. Aristotele, Metafisica cit., 980a, I, 1, p. 3. 12. Ibid., 982b, I, 2, p. 11. 13. Aristotele, Politica cit., 1337a, VIII, 1, p. 326. 14. Ibid. 15. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1180b, X, 10, p. 445. 16. Ibid. 17. Ibid. 18. Ibid., 1180a, X, 10, p. 445. 19. Aristotele, Politica cit., 1337a, VIII, 1, p. 326. 20. Un video del sermone è disponibile nel fondo Southern Christian Leadership Conference Records, custodito presso gli Emory University Archives (Program 7652). Indicazioni al link: http://findingaids.library.emory.edu/documents/sclc1083/series19/subseries19.1/. [N.d.A.].

Capitolo terzo Decisioni

I recenti studi sul processo decisionale, condotti per la maggior parte da psicologi e neuroscienziati, sottolineano in linea di massima piú la quantità delle nostre scelte quotidiane – diverse migliaia, secondo alcune stime – che la loro relativa importanza. Nelle società del benessere siamo in effetti bombardati incessantemente da centinaia di proposte di scelta su che cosa mangiare, indossare, comprare e guardare alla televisione. Avendo conseguenze effimere, sono scelte che non richiedono grandi riflessioni. Ci sono però scelte che hanno una tale importanza per le nostre vite, e a volte anche per le vite degli altri, da meritare un serio investimento in termini di tempo e di riflessione propositiva. Quando legarsi stabilmente con un determinato uomo o una determinata donna, se sposarsi oppure no, se e quando avere dei bambini, dove andare a vivere, se avere una relazione extraconiugale o divorziare, o a favore di chi fare testamento… Le decisioni che prendiamo possono riguardare le persone di cui siamo responsabili. Dobbiamo stabilire quale nome dare ai nostri figli, i paletti comportamentali che dovranno rispettare, in che modo organizzarci per badare a loro, a quale scuola iscriverli. Alcune professioni comportano intrinsecamente continue e ripetute prese di decisione: ogni giorno medici, giudici, politici e anche agenti di Borsa devono operare scelte che hanno conseguenze di enorme importanza, e sono attrezzati in tal senso da una formazione relativa agli specifici processi decisionali della loro sfera di competenza. Ma la maggior parte delle persone non ha nessuna formazione nelle tecniche decisionali di base. Una misura di quanto sia diffuso il bisogno di essere aiutati nell’attività decisionale è stata data dal successo mondiale del bestseller Pensieri lenti e veloci, dello psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman. Il libro mette in risalto le differenze esistenti fra le decisioni rapide e intuitive che prendiamo in ogni momento (quello che Kahneman chiama Sistema 1) e il piú lento processo di scelta razionale (il Sistema 2), per quanto non tralasci di sottolineare che le due modalità operano spesso in stretta associazione. Piú di ventitre secoli fa Aristotele aveva espresso un parere quasi identico, sebbene

il suo interesse vertesse soprattutto sulla capacità che ha la sorte di far naufragare anche i piani piú meditati (avendo perso entrambi i genitori quando era ancora un ragazzo, parlava per esperienza vissuta). E aveva indicato inoltre un’ulteriore e indispensabile linea di condotta, trascurata invece da Kahneman: l’analisi dei precedenti. Una delle decisioni piú importanti della vita di Aristotele risale agli anni della sua adolescenza. Dopo la morte dei genitori il ragazzo fu adottato dal cognato, Prosseno, e la nuova famiglia decise che per quel giovane eccezionalmente dotato il luogo ideale era la migliore università del mondo, l’Accademia ateniese di Platone. E cosí Aristotele, l’allievo piú brillante mai avuto da Platone, poté immergersi in ogni branca disponibile del sapere, comprese quelle che a Platone interessavano meno, come ad esempio le scienze naturali. Aristotele diventò il primo filosofo che descrisse concretamente il modo migliore per prendere una decisione, e lo fece con un linguaggio vivace e realistico, scevro di tecnicismi. Il metodo illustra come valutare con competenza tutte le linee di condotta alternative che possono portare o meno al raggiungimento degli obiettivi, come tentare di anticipare le conseguenze di ogni condotta, e come infine operare su questa base una scelta e restarvi fedele. La parola greca che indica l’intero processo di valutazione e scelta competente è euboulia: il verbo «deliberare», bouleuesthai, è associato a termini di origine latina come «volere». Euboulia indica sia la capacità di scegliere per conto proprio sia quella di riconoscere le buone valutazioni e le scelte razionali altrui. Comprende quindi anche il saper chiedere un parere a consulenti ben selezionati. La concezione greca della deliberazione era collegata molto da vicino a una raffinata concezione del governo: se il potere esecutivo deve essere esercitato anche dalle persone piú comuni, occorre che anche queste siano «deliberatori competenti». Il termine greco «deliberare» deriva quindi dalla stessa radice di boulé, la parola che indica il Consiglio democratico ateniese in cui 500 cittadini di tutte le classi chiedevano pareri e meditavano sulla linea politica e sui provvedimenti legislativi prima che fossero votati nell’Assemblea. George Washington aveva in mente l’Assemblea deliberante degli Ateniesi quando concluse il suo discorso d’insediamento del 30 aprile 1789 ben riassumendo gli scopi che Aristotele assegnava al governo. Dio aveva donato al popolo americano le «opportunità per deliberare in assoluta tranquillità»: gli americani potevano lavorare

insieme per «il progresso della loro felicità» facendo ricorso «alle sobrie discussioni e ai saggi provvedimenti su cui deve poggiare il successo di questo governo». Aristotele riteneva che il processo decisionale entrasse in gioco tanto nelle decisioni di ampia portata generale, come l’ammontare degli stanziamenti governativi per la difesa, quanto nelle circoscritte scelte domestiche, come la condotta da seguire con un adolescente ribelle. Dall’insieme delle opere di Aristotele, ma in particolare dall’Etica nicomachea e dall’Etica eudemia, è possibile estrarre una sorta di «ricetta» per il tipo di scelta migliore, una serie di istruzioni o di «regole» da seguire ogni volta che dobbiamo prendere una decisione di qualsiasi portata. Sono andata a parlare delle «regole» aristoteliche per una buona scelta in molte scuole superiori e ho sempre trovato i ragazzi estremamente sensibili a questo tipo di filosofia morale. Le capacità di scelta hanno bisogno di tempo per perfezionarsi: inizialmente non sono che un uso consapevole di buon senso, ma se applicate quotidianamente alle situazioni concrete si sviluppano in quella che Aristotele chiama «saggezza pratica» (phronesis). È significativo che il personaggio storico scelto da Aristotele per elogiarne la phronesis sia Pericle, il semileggendario statista ateniese che nel V secolo a.C. aveva guidato Atene per molti decenni, essendo stato ripetutamente eletto alla sua carica. Pericle continuò a operare buone scelte con straordinaria coerenza, facendo prosperare gli Ateniesi e dando loro modo di creare grandi opere d’arte, fra cui gli edifici dell’Acropoli e le tragedie di Sofocle ed Euripide. La sua evoluzione di statista procedette parallelamente al progressivo perfezionamento della sua saggezza pratica: la sua carriera fu stroncata soltanto dalla morte dovuta alla peste, classico esempio del tipo di malasorte fortuita contro cui Aristotele ben sapeva, al pari del filosofo britannico Bernard Williams nello splendido libro La sorte morale (1981), che la deliberazione umana si dimostra del tutto impotente. Aristotele si soffermò sulla sfortuna piú di quanto facciano in genere gli specialisti moderni. Il problema della sfortuna è la sua assoluta casualità. Questo significa che la vita è ingiusta e che il fato non è provvidente. Pessimi individui e deliberatori incompetenti hanno molte volte successo, mentre brave persone che prendono decisioni con infinita cura spesso falliscono. Il retore Isocrate, intellettuale di spicco nell’Atene degli anni della gioventú di

Aristotele, espresse la tipica concezione greca dell’opposizione tra sorte e scelta deliberata, sottolineando come il vero coraggio fosse messo alla prova piú nel corso dei dibattiti dell’Assemblea che di fronte ai pericoli della guerra, dal momento che «quel che avviene sul campo di battaglia è dovuto alla fortuna, ma quello che si decide nell’Assemblea è indice della nostra capacità intellettuale». Aristotele avrebbe approvato questa distinzione (sebbene, con i suoi modelli di analisi piú sofisticati, avrebbe fatto notare che il successo in battaglia dipende tanto dalla fortuna quanto dalla destrezza). Ma in particolare assonanza si sarebbe trovato soprattutto con la filosofia del persiano Artabano, il quale pensava, a quanto racconta Erodoto, che valesse sempre la pena deliberare rettamente. Anche se un piano ben deliberato fallisce, è importante, con il senno di poi, quando si analizzano le ragioni del fallimento, riconoscere che fu per causa della sorte e non della mancanza d’impegno. Nell’ottavo libro dell’Etica eudemia Aristotele osserva che alcune persone sono effettivamente fortunate. Esistono sfere di attività in cui la fortuna è indispensabile per il successo (un esempio potrebbe essere il gioco dei dadi), e in cui può trionfare anche chi è veramente sciocco. Ci sono altri settori nei quali, per quanto sia necessaria la capacità, il successo dipende tuttavia in larga misura dalla buona sorte (in questo caso Aristotele cita la strategia militare e la navigazione). Come dovremmo spiegare il fenomeno della fortuna? Aristotele, primo filosofo al mondo a sottoporre questo problema ad approfondita analisi, osserva che la maggior parte della gente ritiene che la fortuna sia innata, come avere gli occhi azzurri o gli occhi neri. Altri sostengono che non è una qualità intrinseca, ma che l’uomo fortunato, per quanto moralmente e intellettualmente carente, è comunque amato da Dio. È come una «nave mal costruita», che «spesso naviga meglio, ma non per se stessa, bensí perché ha un bravo nocchiero, cosí come l’uomo fortunato ha come nocchiero il demone» 1. Aristotele non è soddisfatto da queste spiegazioni popolari, e valuta la possibilità che alcune persone usino arbitrariamente la buona sorte meglio di altre, sfruttando le proprie capacità naturali, quali che siano, per trasformare la fortuita casualità – la serendipità – in successo e in felicità. Quando si vincono grandi fortune a una lotteria nazionale, alcuni dilapidano tutto, perdono gli amici perché si mettono a guardarli «dall’alto in basso» e vedono

i propri matrimoni e le proprie famiglie andare a rotoli prima di precipitare in una povertà peggiore di quella precedente al colpo di fortuna. L’incredibile fortuna si rivela una disgrazia. Altri investono le vincite nell’istruzione dei figli, ricompensano gli amici fedeli e i familiari comprando loro case decorose, e fondano addirittura opere di bene. Con capacità di scelta e razionalità riescono a trasformare la fortuita buona sorte in situazioni effettivamente in grado di condurre a una eudaimonia non casuale, ma pianificata e ben realizzata. Forse, come suggerisce Aristotele, in molti casi la fortuna non è affatto cosí inesplicabile. Aristotele traccia un ritratto molto dettagliato degli individui che possiedono per natura le seguenti qualità: un forte desiderio di ottenere buone cose dalla vita o di migliorarsi, e l’energia e l’impegno necessari a perseguire (anche se «con il pilota automatico», piú che riflessivamente) questi obiettivi. Oggi li definiremmo intraprendenti, ottimisti e ambiziosi. Queste qualità, che in loro sono innate, li spingono, senza che ci pensino sopra, su traiettorie di vita dove è piú probabile, per cosí dire, incontrare la fortuna. Non è necessario che sviluppino capacità intellettuali come quella che consente di ben deliberare. Qui il parallelo proposto da Aristotele è quello con «le persone che cantano bene pur senza avere imparato a cantare, [che] sono ben dotate per natura» 2. Ci sono persone che non hanno mai studiato come raggiungere la felicità e il successo, e che quindi non sarebbero in grado di insegnare etica. Intuitivamente, però, si comportano come un consapevole esperto di etica della virtú. Pensate al cantante di talento che non ha mai studiato, ma incanta chiunque l’ascolti. In questa prospettiva, l’etica della virtú e l’arte della deliberazione come capacità apprese possono aiutare le persone a rimediare all’ingiustizia che ha conferito ad alcuni una maggiore tendenza innata a compiere azioni che generano felicità. La saggezza pratica, tuttavia, è cumulativa: per perfezionare l’arte della deliberazione occorre fare esperienza pratica. E occorre farla ripetutamente, e valutare ogni volta i risultati, prima di poter diventare un deliberatore, non diciamo esperto, ma quantomeno capace. È diverso, dice Aristotele, dallo studiare la matematica, che può essere imparata partendo dai principî di base senza mai applicarla praticamente. Prima i giovani cominciano a deliberare razionalmente, meglio è. Lo studio etico del processo decisionale rende il mondo un luogo migliore per tutti.

I giovani hanno un’urgente necessità di istruzione in materia, in quanto – mette in guardia Aristotele – l’atto decisionale può risultare tremendamente difficile. Ci sono situazioni in cui è facile distinguere il giusto dallo sbagliato: una persona fondamentalmente per bene saprà intuitivamente qual è un modo equo per distribuire denaro, cibo o opportunità tra gruppi di persone. Ma conoscere il modo preciso in cui realizzare questa buona azione, osserva Aristotele, «è piú difficile che riconoscere ciò che ci fa guarire» 3. L’etica è ben piú fluida e complicata della fisiologia umana. E da buon figlio di medico, Aristotele aggiunge che anche in medicina, somministrare effettivamente dei rimedi è piú complicato che sapere semplicemente che «il miele, il vino, l’elleboro, la cauterizzazione e l’incisione fanno bene alla salute» 4. Prima, tuttavia, dobbiamo definire la deliberazione. Per Aristotele, deliberazione ha un significato molto preciso. Essa non riguarda i nostri scopi ultimi: un medico non delibera circa la propria intenzione, che ovviamente è di favorire la salute del paziente. La deliberazione riguarda invece la scelta dei mezzi migliori per raggiungere i nostri fini. Il medico delibera in merito alla linea d’azione e alla terapia che ripristineranno lo stato di salute del paziente. Analogamente, sappiamo che la felicità è il nostro scopo, ma deliberiamo rispetto ai mezzi per raggiungerla, rispetto cioè alle linee di condotta che assicureranno con maggiore probabilità la felicità a noi stessi, ai nostri cari e ai nostri concittadini. Per Aristotele la deliberazione è un’attività specifica: ci sono molte cose su cui non deliberiamo, come le leggi di natura o i fatti accertati, ad esempio se un dato oggetto è o meno una pagnotta. È solo sulle cose incerte che deliberiamo, e tra queste non sono inclusi i fenomeni incerti su cui non abbiamo controllo, come il tempo atmosferico, o la scoperta casuale di un tesoro: possiamo deliberare unicamente «sulle cose che dipendono da noi e sono realizzabili» 5. Deliberiamo allo scopo di agire, e questo è il motivo della preminenza della deliberazione nell’ambito dell’etica e della politica, il cui interesse verte sul fare. La deliberazione riguarda inoltre ciò che faremo in futuro, non ciò che è accaduto o che abbiamo compiuto nel passato. Possiamo dispiacerci della decisione presa il giorno prima, come un medico può rimpiangere di aver deciso di somministrare un dato trattamento in caso di effetti avversi. L’esempio portato da Aristotele è l’evento piú clamoroso che possa

immaginare: «Nessuno sceglie di aver saccheggiato Troia» 6, e di avere quindi ucciso migliaia di persone, spazzando via un’intera civiltà. Nessun essere umano, e neppure divino, può togliere l’assedio a Troia o recuperare il latte versato: «Non è possibile che il passato non sia accaduto» 7. Aristotele cita con approvazione un poeta di nome Agatone, che scrisse: «Nemmeno il dio può far che non sia stato l’evento già passato» 8. Tutte queste considerazioni ruotano intorno alla necessità di assumersi la responsabilità della propria vita e di non aspettare che la felicità piova dal cielo (come le donne sono state educate da tempo immemore ad aspettarsi, sotto forma di un «principe azzurro» che, senza sforzi da parte loro, appaia miracolosamente a fornirle di uno scopo). A illustrazione di questa idea Aristotele porta l’esempio di quelle persone che «vogliono alcune cose, anche sapendo che sono di quelle impossibili, come regnare su tutti gli uomini ed essere immortali» 9. La deliberazione è quella che Aristotele chiama «scelta intenzionale», qualcosa che necessariamente dipende da noi, e che di conseguenza non comprende il fatto di diventare re dell’universo o una divinità. Pensando forse all’avanzata verso Oriente dell’esercito di Alessandro Magno attraverso l’Afghanistan, Aristotele dice al suo pubblico in Grecia che non ha senso deliberare «intorno agli affari degli Indiani», in quanto «non dipendono da noi», cosí come non rientra nelle nostre competenze «quadrare il cerchio» 10. Aristotele riconosce che alcune persone sono troppo deboli per assumersi la piena responsabilità di quanto necessariamente dipende da loro. È improbabile che possano imparare a ben deliberare o a mettere in atto le linee di condotta deliberate. Ma la conclusione a cui arriva è la seguente: se volete ottenere la felicità, dovete assumervi la responsabilità delle vostre azioni e sicuramente delle vostre omissioni. L’uomo «è causa di tutte le cose che dipende da lui fare o non fare, e tutte le cose delle quali egli è causa dipendono da lui» 11, scrive Aristotele, affermando che dipende dal libero arbitrio di cui tutti siamo dotati scegliere di agire da brave o da cattive persone. «È chiaro […] anche il fatto che [una persona] compie volontariamente tutte le cose che ha scelto. E pertanto è chiaro che la virtú e il vizio fanno parte delle cose volontarie» 12. È una nozione fondamentale per la nostra moralità: Aristotele arriva ad affermare che «giudichiamo la capacità di qualcuno dalla scelta, ossia dal motivo per cui agisce, ma non da quello che fa» 13. Aristotele è rimasto

colpito da un esempio offerto dalla tragedia in cui Pelia viene ucciso dalle figlie. Il mitico re greco era vecchio e malato. La maga Medea persuase le due figlie del re che il liquido che bolliva nel suo calderone aveva il potere di ringiovanirlo. Ne diede loro anche la prova empirica, utilizzando un montone. E cosí, mosse dalla migliore delle motivazioni filiali, e confortate dall’apparente dimostrazione scientifica, le due Peliadi valutarono le possibilità e decisero di fare il padre a pezzi e buttarlo nel calderone. Il re non sopravvisse. Ma se avessero davvero ben ponderato le cose, le figlie di Pelia avrebbero pensato al possibile movente personale di Medea (che voleva il trono di Pelia per il marito Giasone) e sicuramente non avrebbero mai accettato i suoi consigli. Aristotele raccomanda di fondare i vostri obiettivi, che dovrebbero essere impegnativi ma raggiungibili e commisurati alle vostre capacità e risorse, su buone intenzioni. Riflettete sistematicamente sulla precisa linea d’azione che permetterà di raggiungerli. Confrontate le diverse strategie e poi sceglietene una (il termine usato da Aristotele per questo tipo di scelta, prohairesis, si avvicina al concetto di «preferenza»). Dopodiché passate risolutamente all’azione. È questa la strada che porta a quella che per Aristotele è la vera, profonda, gratificante e durevole felicità. Una felicità che, essendo costruita da voi stessi, può esservi sottratta solo dalla malasorte, come quella di cadere vittima della pestilenza ateniese. E anche in quel caso, i risultati raggiunti prima di contrarre la peste saranno stati probabilmente riconosciuti e faranno sí che morirete da persone piú felici che se aveste vissuto una vita priva di obiettivi e di scelte. Aristotele vede una stretta connessione fra deliberazione e cause ed effetti: puntiamo a raggiungere un obiettivo ancor piú intenzionalmente quando abbiamo riflettuto sul modo in cui raggiungerlo. Le persone meno dedite alla deliberazione, come ha notato Aristotele, sono suscettibili, impulsive e con scarsa consapevolezza del senso della vita. C’è anche una categoria piú vasta di individui che delibera in modo abbastanza corretto, ma manca della disciplina necessaria per portare a compimento e tradurre in pratica le linee di condotta temporaneamente adottate in seguito alle deliberazioni. Naturalmente tutti noi ci siamo trovati in situazioni del genere: quanti di noi ogni gennaio decidono di ridurre il cibo e il vino e di iscriversi in palestra per avere una vita piú sana, e poi abbandonano il progetto prima della fine di

febbraio? È questo tipo di situazione a fare a volte di ognuno di noi quella che Aristotele definiva una persona «priva di autocontrollo [che] non tiene ferme le cose che ha deliberato» 14. Significa che, almeno per quanto riguarda la condotta alimentare, molti di noi assomigliano a «una città che emana tutti i decreti opportuni, e ha leggi eccellenti, ma non se ne serve» 15. Prima ancora di cominciare a deliberare, è necessario un passo preparatorio: decidere cioè se veramente esista una scelta. Per dirla con il pedagogista John Dewey (che fu molto influenzato da Aristotele): «Un problema ben posto è mezzo risolto» 16. A volte manca ogni spazio di manovra, ad esempio se ci troviamo in prigione. Ci sono poi circostanze in cui ci sembra di avere una scelta ma in realtà, se le nostre priorità sono giuste, non l’abbiamo. Aristotele qui fa un esempio che induce a chiedersi di quali fatti fosse stato testimone alla corte macedone, retta da un despota autocratico: se un tiranno arresta i nostri genitori e i nostri figli e ci dice che li ucciderà se non compiamo qualcosa di turpe per lui, può darsi che non abbiamo scelta su cosa fare o non fare. Aristotele cioè ritiene che le relazioni con i propri cari abbiano un peso maggiore degli scrupoli morali. Per me è una considerazione molto confortante. Una volta, in ospedale, saltai una coda in un modo che di norma avrei ritenuto assolutamente inaccettabile. Ma una mia bambina, che all’epoca aveva diciotto mesi, stava molto male. Non avevo intenzione di mettere il mio consueto senso di equità morale – rispettare le persone davanti a me nella coda – al di sopra della sua salute. Mi vergognavo di saltare la coda, ma Aristotele esplicitamente esonera dalla «normale» valutazione morale le azioni scorrette compiute per salvare la vita di un figlio. La perdita di un figlio rientra fra quelle prove, a cui fa riferimento Aristotele, «tali da superare la natura umana e a cui nessuno si sottoporrebbe» 17. Quando si tratta di anteporre la vita ai beni materiali, le persone assennate a volte fanno scelte anomale. Ad esempio, se durante una traversata una tempesta mette a rischio la vostra vita e quella dei compagni di bordo, gettereste in mare i vostri averi per salvarvi? «Tutte le persone ragionevoli lo fanno» 18, conferma Aristotele nel terzo libro dell’Etica nicomachea. Sarebbe quindi rimasto deluso da quanto accadde l’8 settembre 2015 a bordo di un aereo della British Airways, quando il velivolo prese fuoco sulla pista di decollo di Las Vegas. Invitati a evacuare l’aereo e a lasciare i bagagli a bordo per ragioni di sicurezza, molti passeggeri persero tempo per cercare il proprio

bagaglio a mano ed estrarlo dagli armadietti sopra i sedili. Le discussioni sul processo di deliberazione condotte da Aristotele e dai suoi allievi si inserivano in una lunga e ricca tradizione della letteratura sapienziale greca. Il dibattito si sviluppò a partire dalla constatazione che dato che in gioco ci sono fattori arbitrari che esulano dal nostro controllo – vale a dire la sorte – non potremo avere mai la garanzia di aver preso la decisione corretta. Possiamo invece garantire di avere predisposto il processo decisionale in modo tale da massimizzare le probabilità di successo e di felicità. Sappiamo che un trattato intitolato proprio Sulla deliberazione fu messo in circolazione da Simone il Calzolaio, il «filosofo al banco da lavoro» amico di Socrate e di Pericle (nell’area del mercato di Atene è stata scoperta quella che fu la sua effettiva bottega, con tanto di chiodi da scarpe e un coccio di vaso con su scritto «di Simone»). E anche Aristotele scrisse un libro intitolato Perì symboulias («Sulla deliberazione o sul dare e ricevere consigli»), che presumibilmente sviluppava quanto aveva detto sul processo decisionale nei testi giunti fino a noi. Il tema della deliberazione compare per la prima volta nella letteratura occidentale nell’Iliade, nel passo in cui Achille parla della scelta fra due destini alternativi: una vita breve ma gloriosa, o una lunga esistenza che terminasse pacificamente nella propria casa in tarda età (IX, 410-29). Quali sono dunque le regole di Aristotele per ben deliberare, sia quelle da lui esplicitamente discusse, sia quelle che dà per scontate in quanto retaggio della sapienza greca? Immaginate di dover decidere se lasciare la vostra anima gemella. Diciamo che vi è giunta voce di una tresca amorosa. La prima regola seguita dal deliberatore competente secondo gli antichi Greci è «non scegliere in fretta». Nella deliberazione non deve esserci posto per l’impulsività. Può darsi che dopo un litigio vi venga voglia di lasciare il partner, ma spesso a distanza di una settimana le cose appaiono diverse. Un antico proverbio greco in effetti recitava: «Delibera la notte» (noi diremmo «dormici sopra»). Prima che inventassimo la posta elettronica, quando eravamo arrabbiati scrivevamo lettere con carta e penna, e le lasciavamo accanto alla porta di casa, pronte per essere imbucate l’indomani mattina. In molti casi finivano nella carta straccia, quando al risveglio, alla chiara luce del giorno, capivamo che non volevamo davvero divorziare, licenziarci o lasciare il Paese seduta stante. Internet ha reso la corrispondenza impulsiva un rischio ben piú grave: nell’impeto della passione, meglio evitare del tutto

posta elettronica e social. Aristotele in realtà dice che la velocità con cui si giunge a una deliberazione importante non è di per sé significativa: riconosce che alcune persone sono capaci di pervenirvi rapidamente, mentre altri hanno bisogno di molto piú tempo, ma si rivelano comunque eminenti decisori. La seconda regola è verificare tutte le informazioni. Da conoscenze scorrette non deriverà mai una corretta decisione. Otello doveva fare qualche domanda in piú sulla provenienza del fazzoletto prima di decidere di ammazzare Desdemona. Aristotele aveva studiato all’Accademia, e uno dei cavalli di battaglia della scuola platonica era proprio il tema della differenza tra vere conoscenze e opinioni o dicerie. E una diceria su una relazione sentimentale del vostro partner non equivale a un fatto. Può essere una situazione complicata: una mia amica e collega aveva un marito a tal punto convinto di essere tradito da aver assoldato un investigatore privato per ottenere una foto o un video che lo provasse. Tutto ciò che scoprí fu che sua moglie non si separava mai dall’atavico computer Atari su cui digitava le dispense per le lezioni. Assumere un detective può essere eccessivo, ma ci sono altri modi per accertarsi della verità, tra cui chiedere direttamente al partner che cosa ha da dire sulle voci nefaste che circolano e osservare se gli trema il respiro. A livello di politica planetaria, la mancata verifica delle informazioni può avere conseguenze veramente catastrofiche. Il 6 luglio 2016 è stato pubblicato il rapporto di John Chilcot sulla strategia britannica d’intervento in Iraq tra il 2001 e il 2009: nelle conclusioni si può leggere che «i giudizi sulla gravità della minaccia rappresentata dalle armi di distruzione di massa dell’Iraq» erano stati espressi dal governo di Tony Blair «con una sicurezza che non era giustificata». Peggio ancora, Chilcot asseriva come fosse chiaro «che la linea di condotta da tenere in Iraq fu stabilita sulla base di informazioni e valutazioni lacunose, che non furono contestate, ma che avrebbero dovuto esserlo». Le innumerevoli vittime britanniche e irachene che seguirono furono il frutto di informazioni esagerate o incomplete. Aristotele non se ne sarebbe stupito. La verifica delle informazioni è strettamente legata alla terza regola, che suggerisce di consultare un esperto e ascoltarne i consigli. Gli Ateniesi stavano molto attenti a chiedere consigli sulla flotta soltanto ai marinai esperti e a ordinare i progetti dei loro splendidi templi soltanto ai migliori architetti. Non doveva trattarsi per forza di specialisti ateniesi: era la

competenza a contare. Avrebbero quindi applaudito il presidente Obama quando, nel suo discorso di Rutgers del maggio del 2016, fece notare che nessuno metterebbe piede su un aereo di linea guidato da un pilota non appositamente addestrato. L’idea di Aristotele è che se non siete un esperto in una data materia, è meglio che ne interpelliate uno; a riprova della validità di quanto affermato cita l’antica sapienza del poeta Esiodo: Il migliore di tutti è colui che sa tutto da solo buono anche colui che ascolta chi parla bene ma chi nulla conosce, né ascoltando gli altri fa tesoro nel cuore, è uomo da nulla 19.

Chi consiglia deve essere disinteressato (che è diverso da «non interessato»), e non avere niente da perdere o da guadagnare dalla vostra decisione. Otello non avrebbe mai dovuto credere che Iago potesse dargli un consiglio disinteressato. Il datore di lavoro non è mai disinteressato, per definizione. Il migliore amico o la migliore amica – la persona a cui istintivamente ci rivolgiamo in genere nei momenti di tensione o difficoltà emotiva – è anche peggio. Ha i suoi obiettivi, proprio perché per lui, o per lei, rivestiamo una particolare importanza. Invece di agire sulla base dei pettegolezzi dell’amico, chiedete il parere di un consulente di coppia. Il quarto imperativo è considerare o quantomeno osservare la situazione dal punto di vista di tutte le parti che saranno coinvolte. Non sarete soltanto voi e il vostro partner a risentire dell’eventuale separazione. Ne risentiranno anche le vostre famiglie, gli amici, i colleghi, i vicini e piú di tutti i vostri figli. Siete impegnati contemporaneamente in diversi tipi di relazione, e l’effetto domino prodotto dal cambiamento di un singolo rapporto può nascondere amare sorprese. La regola numero cinque è prendere in esame tutti i precedenti conosciuti, sia nella vostra vita personale sia nella storia. Nelle decisioni di poco conto questa parte della scelta può anche essere molto divertente. Se state cercando di decidere che cosa regalare per un compleanno, è piú che sensato cercare di ricordarvi il regalo che avete fatto l’anno prima. Quando pensate alla distribuzione dei posti per una cena con invitati, non metterete fianco a fianco due ospiti di cui vi è ben nota l’antipatia reciproca. Ma su questioni piú serie c’è assai di piú da imparare dal passato. Che cosa succede quando si rompe

una relazione? E a voi in particolare, che cosa succede quando subite un trauma affettivo? Come si comporta il vostro partner quando è sottoposto a un forte stress? Regola numero sei: valutate accuratamente la probabilità dei vari possibili esiti e preparatevi a tutti quelli che ritenete possibili. Qui il rapporto Chilcot rivela in modo agghiacciante come il governo Blair abbia tralasciato questa regola quando iniziò la guerra in Iraq: «Nonostante gli espliciti avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate. I piani e i preparativi per l’Iraq del dopo Saddam erano del tutto inadeguati». Probabilmente le vostre decisioni non avranno mai conseguenze di questa portata, ma ugualmente esigeranno la stessa attenzione per i possibili esiti. Siete sicuri al 99 per cento che il vostro partner si comporterà da persona rispettabile se lo lasciate, e che non vi picchierà, non vi imbroglierà, non si porterà via i bambini? Se la vostra sicurezza è inferiore al 99 per cento, dovete pensarci prima, andare da un avvocato e prendere le necessarie precauzioni. Dovete pianificare in che modo far fronte a ognuna delle possibili conseguenze. Sotto pressione, disporre di una strategia già pronta per l’evolversi degli avvenimenti può rivelarsi prezioso. Oltre agli esiti probabili e prevedibili, la settima regola richiede che pensiate anche a quell’irriverente fattore che chiamiamo fato. Tenete conto di tutte le possibilità casuali che potete immaginare. Quali eventi imprevisti potrebbero influire drammaticamente sul procedere delle cose? Cosa succederebbe se vi ammalaste d’improvviso in modo cosí grave da non poter badare a chi dipende da voi? La malasorte non può essere mai del tutto prevenuta, ma la consapevolezza della sua sinistra incidenza è parte integrante del processo decisionale. Passando a una nota piú amena, va ricordato che la maggior parte dei discorsi degli antichi Greci sul processo deliberativo comprende l’ingiunzione a «non prendere decisioni da ubriachi». Aristotele concorderebbe sicuramente, visto che l’intemperante eccitato dall’alcol compare spesso nelle sue opere come esempio di persona assolutamente incapace di virtú etica. Il che non significa che Aristotele disapprovasse il consumo di vino: al contrario, lo riteneva un genere di piacere addirittura auspicabile, con ovvia moderazione. Sicuramente conosceva le opere di Erodoto, e a volte mi chiedo che cosa pensasse del racconto di quest’ultimo circa il metodo seguito dai Persiani per prendere decisioni collettive in

materie di portata nazionale. I Persiani esprimevano il loro parere quando erano completamente ubriachi, ma in un secondo tempo riesaminavano il verdetto da sobri. Passavano all’azione quando i due verdetti coincidevano: perfetta armonia di cuore e testa, o, se si preferisce, combinazione archetipica del pensiero lento e del pensiero veloce di Daniel Kahneman. Ammetto di aver tradito il mio impegno aristotelico alla moderazione imitando talvolta i Persiani, in compagnia di mio marito, in occasione di importanti decisioni familiari. Stando alla mia esperienza, il metodo funziona. Ma abbiamo sempre seguito scrupolosamente le regole aristoteliche sulla deliberazione prima di entrambe le votazioni. E questo è quanto. Ho tralasciato in ragione del loro anacronismo la regola nove, che dice che gli schiavi non possono deliberare, e la regola dieci, per la quale «donne e deliberazioni non vanno d’accordo». Aristotele purtroppo crede che la parte deliberante della mente femminile sia «incapace» 20, o richieda la «guida» di un uomo, a seconda di come decidete di tradurre l’aggettivo in questione (akyron). Eppure, anche ai suoi tempi, avrebbe potuto rendersi conto che sbagliava. Alcuni Greci antichi hanno sempre riconosciuto che ci furono donne in grado di deliberare con indiscutibile competenza. Nelle Supplici di Euripide, è l’assennato consiglio di Etra, madre del re di Atene Teseo, a indurre quest’ultimo a prendere l’unica decisione moralmente accettabile in quella circostanza; nell’Agamennone di Eschilo, riguardo a Clitennestra, eloquentissima e cerebrale regina di Argo, si dice che fosse una donna che «da uomo decide» 21. L’opera di Aristotele ha avuto un lungo avvenire. E-rasmo inserí la deliberazione tra gli argomenti dei suoi Adagia (1500), bestseller del Rinascimento, mentre quasi un secolo dopo Francesco Bacone, consigliere personale della regina d’Inghilterra, pubblicò il saggio Of Counsel (1597). L’approccio di Aristotele all’atto decisionale sta tornando di moda anche nei moderni ambienti filosofici. I teorici politici lo applicano alle carenze e ai meriti del processo decisionale di gruppo nelle democrazie, e (con modalità che si sovrappongono a quelle della psicologia cognitiva) al funzionamento della soggettività dell’agente morale individuale. Un interessante filone di studi filosofici contemporanei tenta di definire il deliberante ideale, ma tutti gli autori coinvolti riconducono, al pari dello psicologo Kahneman, ad Aristotele e si concentrano su qualità o procedimenti che Aristotele aveva già

analizzato in discreto dettaglio. Recentemente, ad esempio, la deliberazione corretta è stata definita come una valutazione dei fini basata su un insieme d’informazioni completo e corretto (che può contemplare la ricerca di un parere competente da parte di un soggetto disinteressato). A volte questo significa usare i precedenti storici e l’esperienza personale per valutare la probabilità dei risultati. Un altro modello si sofferma sulla necessaria stabilità delle intuizioni e dei giudizi del deliberante. Infine, dal momento che ponderare le scelte e applicare le regole decisionali può richiedere molto tempo, vi godrete di piú la vita evitando di preoccuparvi troppo. L’obbligo di deliberare con competenza semplicemente non vale quando non c’è nulla che possiate cambiare. Se il paziente ha una malattia incurabile non ha senso che un medico deliberi su come curarla – ma soltanto su come renderla piú tollerabile. Questa verità apparentemente semplice è alquanto difficile da assimilare, ma è fonte di straordinario sollievo per le persone con un senso di responsabilità esagerato. Il tempo passato a preoccuparsi di cose che non possono essere cambiate è tempo sciupato. Anch’io mi sono preoccupata eccessivamente, all’ultimo momento, per il risultato dei miei studenti a un esame imminente, quando in realtà nelle settimane, nei mesi e negli anni precedenti avevo fatto tutto quello che potevo perché arrivassero alla prova ben informati, motivati e preparati. Avrei impiegato molto meglio quel tempo in prossimità dei loro esami riflettendo su come la mia esperienza di insegnamento con loro avrebbe potuto aiutarmi a migliorare il mio modo di insegnare alla generazione successiva. Ho anche sprecato mesi della mia esistenza chiedendomi angosciata che cosa fare per l’alcolismo di persone a cui voglio un bene profondo. Mi ci è voluto molto tempo per capire che non c’era assolutamente niente che potessi fare: dipendeva da loro. È assurdo cercare di cambiare qualcosa che esula dal nostro controllo. È ovvio, ad esempio, che il giorno delle nozze può piovere. Ma è possibile usare il ragionamento morale per decidere che cosa fare in caso di pioggia. Aristotele avrebbe semplicemente preparato una location coperta per i fotografi in caso di emergenza, un portaombrelli pieno di parapioggia decorati con motivi nuziali e qualche bomboletta di lacca in piú per la sposa. 1. Aristotele, Etica eudemea cit., 1247a, VIII, 2, p. 179. 2. Ibid., 1247b, VIII, 2, p. 181.

3. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1137a, V, 13, p. 213. 4. Ibid. 5. Ibid., 1112a, III, 5, p. 89. 6. Ibid., 1139b, VI, 2, p. 227. 7. Ibid. 8. Ibid. 9. Aristotele, Etica eudemea cit., 1125b, II, 10, p. 105. 10. Ibid., 1126a, II, 10, p. 107. 11. Ibid., 1123a, II, 6, pp. 95-96. 12. Ibid., 1123a, II, 6, p. 96. 13. Ibid., 1228a, II, 11, p. 102. 14. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1152a, VII, 11, p. 291 [trad. modificata]. 15. Ibid. 16. John Dewey, Logica. Teoria dell’indagine, trad. it. di Aldo Visalberghi, Einaudi, Torino 1974, p. 139 [ed. or. Logic. Theory of Inquiry, Holt, Rinehart and Winston, New York 1938, p. 108]. 17. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1100a, III, 1, p. 79. 18. Ibid., 1100a, III, 1, p. 77. 19. Ibid., 1095b, I, 2, p. 9 (citazione da Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 291-94). 20. Aristotele, Politica cit., 1260a, p. 90. 21. Eschilo, Agamennone, in Id., Orestea, trad. it. di Ezio Savino, Garzanti, Milano 2008, pp. 3116 (p. 7).

Capitolo quarto Comunicare

Aristotele si differenziò dai predecessori sottolineando che la retorica, al pari della logica, è un’abilità neutra, che può essere usata per fare del bene come del male. La retorica, di fatto, è fondamentale per chiunque persegua la felicità. «Sarebbe assurdo, qualora vi sia vergogna nel non essere in grado di difendersi fisicamente, che non vi sia vergogna nel non essere in grado di difendersi con la parola, il cui uso è per l’uomo piú appropriato di quello del corpo» 1. Aristotele paragonò l’individuo formato alla retorica con la figura prediletta del medico professionista. Il medico esperto usa l’intero repertorio delle tecniche di cura, anche se non è in grado di curare ogni singolo paziente. Analogamente il retore deve avere una conoscenza completa delle tecniche disponibili e della loro applicazione, anche se non sempre può avere successo nel convincere chiunque. Aristotele ne era consapevole per esperienza vissuta. Verso la fine della sua vita venne denunciato per empietà davanti alla corte dell’Areopago da un sacerdote ateniese di nome Eurimedone. L’accusa principale era di avere idee che entravano in conflitto con la religione ateniese. Sembra che si sia presentato davanti alla corte, perché alcune fonti antiche parlano dell’arringa di difesa che scrisse e pronunciò di persona, esercitando quelle capacità retoriche di cui aveva scritto con tanta eloquenza. Ma i pregiudizi degli avversari fecero sí che questo discorso, per quanto brillante, non fosse sufficiente per la sua assoluzione. Ciò non toglie che lo studio della persuasione verbale fu comunque rivoluzionato dalla Retorica di Aristotele, in quanto il testo dello Stagirita si soffermava sui fattori che fanno funzionare un discorso, sugli elementi pratici della tecnica argomentativa, e non sul modo di acquisire potere nella polis grazie alla bravura nell’arte oratoria. Il trattato si apre con un’asserzione che dovette apparire abbastanza minacciosa a molti uomini istruiti dell’epoca: la retorica è un’abilità che può essere insegnata e che tutti possono imparare. Tutti «mettono mano a saggiare e a sostenere un discorso, a difendere e ad accusare» 2: la maggior parte della gente lo fa in continuazione, a casa e al lavoro, senza pensare consapevolmente al procedimento che segue, essendosi

familiarizzata con le tecniche argomentative per abitudine e per aver sentito gli altri farne uso. Ma dal momento che si tratta in tutta evidenza di un procedimento appreso, è altrettanto «chiaro che si può procedere anche con metodo» 3. Aristotele pensa che la retorica non debba essere studiata come uno strumento per prepararsi alla carriera politica, ma semplicemente come una capacità per argomentare in qualsiasi ambito sociale, e non solo nell’agone politico. I suoi allievi studiavano retorica per migliorare la capacità di espressione in qualsiasi disciplina intellettuale. È indicativo, ad esempio, che Aristotele si chieda per quale motivo nessuno si preoccupi di dilettare gli astanti quando insegna geometria. Perché non farlo? Tutti gli insegnanti, anche quelli delle materie piú oggettive e fattuali, sarebbero piú efficaci se studiassero retorica. E anche tutti gli esseri umani, se è per questo. Se applicate le regole di base della retorica aristotelica a qualsiasi situazione, dal lavoro alla negoziazione delle faccende domestiche, troverete in esse un aiuto per avere successo. Nel corso dei secoli la Retorica di Aristotele ha avuto un’influenza fondamentale sul nostro modo di discutere. Non solo perché è stata oggetto d’intenso studio, ma anche perché tutti i retori classici, da Cicerone a Quintiliano, che a loro volta furono importanti punti di riferimento per oratori e educatori, hanno assorbito i precetti aristotelici. Un altro motivo è che la teoria di Aristotele della persuasione si sviluppò in costante collegamento con il resto delle sue opere. Emozioni e pensiero sono alla base della virtú etica di Aristotele, ma sono anche parte integrante delle sue opinioni sulla persuasione. Alcune delle sue osservazioni empiriche piú interessanti sulla cognizione per mezzo del discorso – in che modo le persone comprendono le informazioni trasmesse verbalmente – si trovano nella Retorica. Tutta la sua teoria è basata sulla relazione tra chi comunica e chi ascolta e sul modo in cui le emozioni e il linguaggio plasmano questa relazione. Quando Aristotele mise mano alla Retorica, erano secoli che i Greci studiavano i discorsi e scrivevano manuali sui trucchi del mestiere. Ma la retorica aveva acquisito una cattiva reputazione. Era considerata un talento sospetto per mezzo del quale i politici senza scrupoli facevano passare per buono un ragionamento fallace e convincevano i cittadini a prendere decisioni collettive amorali e autodistruttive, non basate su dati di fatto. Nei

dialoghi di Platone troviamo una distinzione strutturale di fondo tra i filosofi, che cercano la verità, e i retori sofisti, interessati soltanto a influenzare le opinioni. Aristotele non si lascia sedurre dai trucchi retorici. Propone degli esempi di come gli oratori possano dare alla presentazione di un evento un «taglio» positivo o negativo: il terrorista di uno diventa per l’altro il combattente per la libertà. L’esempio portato da Aristotele è che è possibile definire Oreste – che uccise la madre Clitennestra per vendicare l’uccisione del proprio padre da parte di quest’ultima – o «vendicatore del padre» o «matricida» 4, a seconda che si voglia indurre il pubblico a prenderne le difese o le distanze. Aristotele nota poi che ai suoi tempi i «pirati» avevano cominciato ad autopromuoversi «approvvigionatori» 5. E porta anche l’esempio del poeta Simonide, a cui era stato chiesto di comporre un’ode per celebrare la vittoria di un concorrente nella corsa delle mule. Simonide declinò l’invito, ritenendo impossibile comporre un’ode – genere poetico intrinsecamente elevato – per un animale cosí poco distinto. Ma quando il committente gli offrí un’adeguata remunerazione, decise di «promuovere» i muli, e scrisse: «Salve, o figlie di cavalli dai piedi di tempesta!» 6 Simonide sarebbe stato un ottimo addetto alla propaganda. L’arte persuasiva può essere usata a fini lodevoli. Prima dei suoi quarant’anni, Aristotele si trasferí fra le scogliere imponenti del regno di Asso e Atarneo, in Asia Minore, per insegnare filosofia al tiranno Ermia. A quanto sembra, ricevette una nomina per occupare un ruolo di consulente ufficiale di Stato, o qualcosa del genere, e convinse Ermia della necessità di adottare un regime piú democratico. Già allora però, avendo vissuto vent’anni nella democratica Atene, non ignorava affatto che spesso i discorsi e lo stile oratorio di avvocati e politici attraevano folle volubili, prevenute o disinformate. Lo Stagirita critica i precedenti manuali di retorica (nessuno dei quali è giunto fino a noi) per aver privilegiato dimensioni dell’oratoria che di fatto erano estranee all’argomento: davano consigli su come distrarre il pubblico dai fatti importanti, su come diffamare e denigrare oppositori e rivali, su come impietosire l’uditorio per mezzo di espedienti vari, come ad esempio presentare i propri pargoli piangenti ai membri della corte. La retorica di questo genere ha successo non perché gli oratori presentano argomenti migliori, ma perché assecondano il gusto del pubblico per il sensazionale o

l’istrionico. Aristotele ritiene che abbandonare lo studio della retorica equivalga a gettare via il bambino dell’eloquenza con l’acqua sporca della demagogia. Per lui la retorica è semplicemente un insieme di strumenti che permettono di discutere i fatti attinenti al caso nel modo piú convincente, dando la possibilità agli ascoltatori di formarsi un giudizio razionale. L’argomento piú convincente è sempre quello incentrato sulla prova, chiamato da Aristotele entimema. Gli entimemi piú efficaci partono da convinzioni già condivise dagli ascoltatori. In un colloquio di lavoro, queste convinzioni sarebbero che i conduttori intendono scegliere i candidati con i requisiti migliori, e che entrambe le parti condividono quali siano questi requisiti. Nel caso di un colloquio per un posto di tassista, l’entimema prenderebbe in considerazione il possesso di una patente immacolata, l’assenza di precedenti penali, e la verifica di diversi anni d’impiego senza problemi presso un’altra compagnia di taxi. Ogni elemento si riduce a una prova valutata secondo credenze generalmente condivise (endoxa). La prova documentabile è ritenuta di gran lunga l’elemento piú convincente del processo di persuasione. La Retorica di Aristotele viene in genere discussa insieme alla sua Poetica, ma in realtà è piú strettamente collegata alle sue sei opere sulla logica, che successivamente gli antichi filosofi raccolsero sotto l’unico titolo di Organon («Strumento»). L’Organon ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione storica della filosofia, della scienza e della matematica. Aristotele non si è limitato a fare uso di argomenti: riteneva che le ragioni che usiamo per sostenere o confutare una teoria sono complicate e richiedono da sole un’analisi a parte. Comprendeva che era necessaria una disciplina che studiasse non il «contenuto» – nel caso della botanica le piante, in quello dell’etica il comportamento umano –, ma la forma assunta dagli argomenti che usiamo quando applichiamo la ragione. Sotto questo aspetto fu un pioniere, come ben sapeva: Mentre riguardo ai discorsi retorici sussistevano già, sin dai tempi antichi, molti studi, sulla deduzione invece non avevamo prima d’ora assolutamente null’altro da ricordare. Ciò che rimane da dire in proposito, è piuttosto che ci siamo noi stessi affaticati per lungo tempo, con un’indagine e un esercizio continuo 7.

Le forme di ragionamento piú elementari e al contempo piú rilevanti sono costituite da semplici asserzioni o «premesse». Unendo due asserzioni possiamo dedurne o inferirne una terza, che rappresenterà una conclusione o una verità. È un procedimento simile all’entimema retorico, ma viene chiamato sillogismo (che in greco significa semplicemente «unione di ragionamenti»). Eccone uno che funziona: PREMESSA 1:

Tutti i filosofi sono esseri umani.

PREMESSA 2:

Aristotele è un filosofo.

CONCLUSIONE :

Dunque Aristotele è un essere umano.

Aristotele è stato il primo pensatore a rendersi conto che quanto sopra può essere scritto in una forma universale: tutti i filosofi (X ) sono esseri umani (Y ); Aristotele (Z ) è un filosofo (X ); dunque Aristotele (Z ) è un essere umano (Y ). Una volta definito il concetto di sillogismo, Aristotele vide che la maggior parte dei sillogismi rientrava in determinate categorie, a seconda della forma assunta dalla premessa e dagli aggettivi modificatori – «tutti i filosofi» o «alcuni filosofi», per esempio. Un modificatore può anche essere negativo, ad esempio «nessun filosofo»: Aristotele comprese infatti che alcuni sillogismi un po’ piú complicati sono costituiti anche da proposizioni negative. PREMESSA 1:

Oggi Aristotele e Teofrasto non sono tutti e due al Liceo.

PREMESSA 2:

Oggi Teofrasto è al Liceo.

CONCLUSIONE :

Oggi, dunque, Aristotele non è al Liceo.

Se entrambe le premesse sono vere, la conclusione è sicuramente vera. Se le premesse sono corrette, è possibile trarre una conclusione valida e utile. Il diavolo tuttavia, nella logica formale, si trova nel dettaglio. All’età di sette anni la maggior parte dei bambini riesce a cogliere una conclusione fallace e illogica di questo tipo: PREMESSA 1:

Tutti gli abitanti del Regno Unito sono esseri umani.

PREMESSA 2:

Alcuni esseri umani sono ghiotti di banane.

CONCLUSIONE :

Dunque tutti gli abitanti del Regno Unito sono ghiotti di banane.

Se le banane piacciono soltanto ad alcuni esseri umani, non possiamo presumere che piacciano a tutti gli abitanti del Regno Unito. Per giungere a questa conclusione non occorrono altre informazioni. Molto piú tempo dovrà invece passare prima che la maggior parte dei bambini impari a contestare una delle premesse che viene loro presentata: PREMESSA 1:

Aristotele è un filosofo.

PREMESSA 2:

Tutti i filosofi sono pedanti.

CONCLUSIONE :

Dunque Aristotele è pedante.

La prima premessa qui è inconfutabile. Anche la conclusione deriva logicamente dalle premesse, se le accettate. Il problema risiede nella seconda premessa. Filosofi, politici e avvocati di lungo corso sanno bene che il luogo piú furbo in cui nascondere un’incertezza logica o un punto di vista tendenzioso è la seconda premessa. Il punto vulnerabile è sempre il termine medio del sillogismo, poiché gli ascoltatori, se hanno accettato la vostra prima premessa, si sono messi nella condizione mentale per considerarvi affidabile e questo li rende maggiormente disposti ad accettare la seconda. I ragionamenti basati su pregiudizi razziali o comunque discriminatori si fondano il piú delle volte su un’affermazione scorretta – di solito una generalizzazione – collocata nella seconda premessa: tutti gli irlandesi sono pigri, tutte le persone rosse di capelli sono irascibili, nessuna donna sa parcheggiare. Una mia collega archeologa, di nome Susan, litigava in continuazione con il marito, un filosofo. Come Spock in Star Trek, lui coglieva sempre i punti deboli delle sue conclusioni, rinfacciandole quanto fosse illogica. Le sue deduzioni, sosteneva, erano tutte affermazioni non pertinenti. Ma all’epoca lei non capiva che il luogo in cui il marito nascondeva le sue criticità logiche – vale a dire le sue indebite generalizzazioni – era la seconda premessa: PRIMA PREMESSA

(del marito): Susan è in psicoterapia.

SECONDA PREMESSA

(del marito): Le persone vanno in psicoterapia perché sono

psicologicamente inadeguate.

CONCLUSIONE

(del marito): Susan è psicologicamente inadeguata.

Dopo che Susan ebbe letto, sottolineato e interiorizzato tutti i trattati di logica di Aristotele per mezzo di un’ottima sintesi pubblicata su un’enciclopedia filosofica, il marito non poté piú cavarsela con questo inserimento surrettizio di seconde false premesse. Fino ad allora Susan passava tutto il tempo a cercare di dimostrare di essere un’eccezione alla seconda premessa del marito, invece di respingerla completamente. Studiando le regole della premessa logica, riuscí però a riformulare il sillogismo del marito nei termini seguenti: PREMESSA 1:

Susan è in psicoterapia.

PREMESSA 2:

Iniziando un percorso di psicoterapia, le persone dànno prova

d’intelligenza e competenza psicologica. CONCLUSIONE :

Dunque Susan è psicologicamente intelligente e competente.

Susan e il marito stanno ancora insieme, e un po’ piú felici! Formare le giovani leve alla logica elementare, e soprattutto insegnare loro piú a contestare le premesse che a concentrarsi sulla deduzione di conclusioni logiche consegnerebbe nelle loro mani un’arma impareggiabile. Potrebbero usarla per difendersi non solo nelle relazioni significative, ma anche dalle persone prive di scrupoli, in particolare dai politici fanatici intenzionati ad approfittare della loro ingenuità. Una falsa premessa fu usata dal presidente George W. Bush per sostenere, mediante il No Child Left Behind Act (legge «Nessun bambino lasciato indietro») del 2001, la necessità di riforme dell’istruzione che avrebbero notevolmente accresciuto l’importanza delle valutazioni tra la terza elementare e la terza media. Il presidente affermò: PREMESSA

1:

In troppi casi i bambini delle scuole mostrano lacune

nell’alfabetizzazione di base e nella preparazione matematica. PREMESSA 2:

Tutti coloro che si oppongono al forte aumento del ricorso ai test non

hanno interesse a ritenere le scuole responsabili della loro incapacità d’insegnare a leggere, scrivere e far di conto. CONCLUSIONE :

Solo un forte aumento del ricorso ai test migliorerà nelle scuole le

capacità di leggere, scrivere e far di conto.

La prima premessa esprimeva un fatto reale, ampiamente riconosciuto. Ma la seconda premessa non era vera. Gli oppositori di Bush erano interessati eccome a addossare alle scuole maggiori responsabilità per le loro prestazioni, e avevano sviluppato svariate proposte di riforma, che però non includevano un incremento dei test. Questo significava che la conclusione tratta da Bush era falsa. Il presidente non aveva assolutamente dimostrato che il solo modo per migliorare le capacità di leggere, scrivere e far di conto fosse l’aumento dei test. Nelle sue seconde premesse Bush faceva spesso ricorso a questo tipo di travisamento delle opinioni dell’opposizione, quando sottoponeva le sue proposte al pubblico. Pensiamo anche al falso sillogismo sulla base del quale George Bush e Tony Blair si procurarono il sostegno necessario all’invasione dell’Iraq nel 2003: PREMESSA 1:

I rapporti dello spionaggio ci dicono che l’Iraq possiede armi di

distruzione di massa. PREMESSA 2:

Mai vi mentiremmo, né mai distorceremmo o esagereremmo i fatti.

CONCLUSIONE :

Dunque dobbiamo invadere l’Iraq e disarmare Saddam Hussein.

Il ricorso al linguaggio emotivo serví a distogliere l’attenzione dalla vaghezza con cui la premessa numero 1 sorvolava sui dettagli dei fatti menzionati, oltre che dall’appello all’integrità morale dei locutori presente nella premessa numero 2. Blair ribadí che il programma iracheno per la produzione di armi di distruzione di massa era «operativo, molto dettagliato e in espansione», mentre Bush dichiarò che l’invasione era necessaria prima che Saddam diventasse «una minaccia per la civiltà». Molti altri tragici eventi storici sono stati causati dalla mancata comprensione, da parte degli elettori, dell’erroneità di questo genere di sillogismi logici. Ma che cosa vi proponete di ottenere con la retorica? Il procedimento è formato da tre componenti: voi, il comunicatore; i vostri ascoltatori; e il vostro «testo», le parole che consegnate loro in una lettera, in una mail, in un discorso o in una lezione. Aristotele divide questi «testi» in tre categorie fondamentali. In primo luogo ci sono i discorsi, come ad esempio quelli

tenuti in tribunale, che descrivono cose già avvenute, e coniugati pertanto al «passato»: Socrate aveva introdotto nuovi dèi, dissero i suoi avversari nel loro discorso di accusa. In secondo luogo ci sono discorsi al presente che criticano o celebrano persone o istituzioni attuali – un buon esempio potrebbe essere il discorso in occasione di un matrimonio in cui si tessono le lodi della coppia appena sposata: Aristotele e sua moglie Pizia amano entrambi la zoologia e sono fatti evidentemente uno per l’altra. Infine, però, ci sono discorsi relativi ad azioni future in cui le persone cercano di decidere il da farsi. Questi discorsi, pensati per convincere gli interlocutori a scegliere determinate linee di condotta, sono coniugati al futuro ed eventualmente al congiuntivo o al condizionale. «Vostra maestà Filippo, se ricostruirete la mia amata città natale di Stagira, sarò ancora vostro amico». Questo modo di intendere la retorica è strettamente associato alla nozione aristotelica di deliberazione. Aristotele è interessato soprattutto a questa oratoria «deliberativa», perché è la retorica di questo tipo a detenere il potenziale per modificare il corso della storia, anche su piccola scala. È una retorica che può influenzare potentemente le vicende relazionali, professionali e politiche. L’abilità nella retorica «deliberativa», persuasiva, rende piú forte chi ne è dotato. E il bello è che può essere imparata. La Retorica di Aristotele si snoda lungo tre libri ed è un testo affascinante. In questa sede ho cercato di condensare in poche pagine le sue regole piú importanti per una comunicazione efficace. Nella mia esperienza accademica, la situazione in cui una comunicazione efficace ha avuto le maggiori conseguenze sulla vita delle persone è stata quella della domanda di lavoro. Di norma, nelle università di oggi, si presentano duecento candidati anche per posti di insegnamento temporanei mal pagati. Può essere quasi impossibile entrare nell’elenco degli idonei, e ancor piú difficile convincere una commissione in venticinque minuti netti che siete una scommessa migliore degli altri cinque che stanno esaminando. Una domanda di lavoro per l’università è uguale a qualsiasi altra, fatti salvi i dettagli di contenuto, ragion per cui quanto segue può valere per tutte le domande d’impiego. Diciamo che stiamo chiedendo ad Aristotele che cosa scrivere nella nostra lettera di accompagnamento, e in che modo prepararci al colloquio: i tre pilastri – o l’Abc – della comunicazione efficace, secondo Aristotele, sono audience (o uditorio), brevità e chiarezza. Prima di cominciare a scrivere, cercate di saperne il piú possibile

sull’uditorio: sui membri della commissione, cioè, e su chiunque altro (ad esempio il capo del personale o delle risorse umane) legga probabilmente la vostra domanda. In genere non è difficile scoprire chi sarà coinvolto nella nomina: non solo molti enti pubblici sono tenuti a rendere noti i nomi, ma nella maggior parte delle professioni le voci circolano. È fondamentale far sentire ai vostri interlocutori, a coloro cioè che stenderanno la rosa degli idonei, che avete compiuto serie ricerche e riflessioni su di loro, che li rispettate e li ammirate, e che vi siete fatti un’idea di che cosa significherebbe lavorare con loro. Per Aristotele la retorica è soprattutto una transazione emotiva: volete che i destinatari del vostro messaggio si trovino bene e desiderino incontrarvi o vedervi ancora. Il trucco è riuscirci senza abbassarsi a un’adulazione ipocrita. Evitare i toni negativi è ovviamente sensato: quando nella richiesta di colloquio il candidato riferisce di odiare il suo impiego attuale e di avere rotto i rapporti con il superiore, la domanda finisce dritta nel cestino. Sono dichiarazioni che possono corrispondere al vero, ed essere anche giustificate, ma è assurdo pensare di vendersi come persona depressa e propensa al conflitto. Lo «studio dell’uditorio» è quindi fondamentale, non solo per compilare la domanda, ma anche una volta ottenuto il colloquio. A un mio amico è stato offerto un ottimo posto di lavoro per cui aveva fatto domanda nel mondo della finanza, in quanto era l’unico dei concorrenti ad avere scoperto le inclinazioni politiche dei commissari piú influenti e la grande passione di uno di loro per Wagner. In ambito accademico è importante vagliare con cura le pubblicazioni di ogni commissario. Questa ricerca vi renderà possibile imprimere al dialogo direzioni che sapete essere d’interesse per chi vi ascolta. Inoltre vi darà modo di conoscere le aree del piano didattico in cui la facoltà può contare su meno insegnanti, consentendovi di dare una descrizione efficace delle lezioni che potreste tenere per colmare le lacune, promettendo cosí di alleggerire i futuri colleghi dal loro carico di lavoro. Ma anche nella domanda devono esserci una frase o due che mostrino che avete pensato a che cosa potrebbe fare la persona scelta per integrare le competenze dell’organico. Riflettere sull’uditorio, e preparare la vostra lettera di presentazione in modo che susciti la giusta risposta emotiva, richiede tempo e impegno. Come anche impostare il tono del discorso per accordarlo perfettamente a chi ascolterà. Ho letto domande di candidatura ridicolmente pompose e affettate,

introdotte da un «Illustrissimi signori», ma ne ho anche lette alcune il cui estensore dava un’impressione di noncuranza quasi offensiva («Salve prof!»)Esiste un aristotelico giusto mezzo, semplice ma dignitoso, fra questi estremi («Gentili commissari»), ma ogni lettera deve essere rifinita su misura per i singoli destinatari. È ovviamente ben piú facile e veloce stampare le copie che occorrono e inviare la stessa lettera a tutti i datori di lavoro a cui vi rivolgete. Ma non è il modo migliore per finire in molti elenchi degli idonei. La seconda regola fondamentale della retorica è la brevità. Quando si tratta di persuadere altre persone, meno è sempre meglio. Gli unici discorsi in cui la lunghezza ha valore di per sé non riguardano azioni future. Nascono per altri propositi. La lunga durata in quanto tale può essere richiesta per un discorso d’intrattenimento (se vi hanno assunto per tenere un discorso di mezz’ora dopo una cena ufficiale e ve ne andate dopo dieci minuti, i vostri clienti si lamenteranno a ragione). Oppure per un discorso commemorativo, in occasione ad esempio di un funerale. Il fine sarebbe allora descrivere cose già avvenute, eventi della vita del defunto. Una brevità eccessiva apparirebbe giustamente irriguardosa. Ma se state cercando di persuadere qualcuno a fare qualcosa nel futuro, per quanto immediato, per esempio a darvi un lavoro, la concisione è essenziale. Per quanto riguarda i dettagli del curriculum vitae, arriverei a dire che se la lettera di accompagnamento oltrepassa una pagina in formato A4, o al massimo due, con carattere 12, è bene ripensare a che cosa scriverci. La persuasione efficace rispetto a un’azione futura prevede due sole componenti. Qualsiasi altra componente è superflua e nuocerà alla causa, o la complicherà. La prima componente è la dichiarazione di che cosa volete che accada (ad esempio, che vi sia offerto il lavoro in questione). La seconda è l’attestazione che dimostri che siete voi il candidato piú desiderabile. In discorsi persuasivi piú lunghi di una richiesta d’impiego, come ad esempio un intervento parlamentare per perorare l’introduzione di una nuova legge, può diventare necessario riassumere in una conclusione quanto è già stato detto. Aristotele aveva scoperto che ci sono limiti praticamente universali alla quantità d’informazioni che un uomo può assorbire e trattenere nel caso in cui l’intera esecuzione – letta o ascoltata che sia – duri piú di circa cinque minuti. Quando però i minuti di ascolto o di lettura sono meno di cinque, il sommario è superfluo. In una domanda di assunzione lunga una pagina, è certamente di troppo.

In questo tipo di lettera la dichiarazione di ciò che volete che accada, e del perché, richiede esattamente due frasi. Vorrei propormi per il posto di assistente in spettromorfologia (rif. F3400) presso il dipartimento di Studi musicali del St Wenceslas College, messo a bando sul «Bollettino istruzione» del 16 aprile 2016. Attualmente ho un incarico a tempo determinato presso la Postlethwaite University, dove mi trovo bene, ma sto cercando un incarico permanente in un dipartimento piú grande e di maggior rilevanza internazionale.

Il resto della lettera elenca brevemente le attestazioni a sostegno del fatto che siete il candidato ideale. Le attestazioni possono essere suddivise soltanto in un limitato numero di punti, alcuni relativi al vostro passato e al vostro presente, altri al vostro futuro. Possedete già titoli adeguati, risultati precedenti, esperienza necessaria e atteggiamento giusto. Credete che la collaborazione tra voi e l’istituto sarà particolarmente efficace. Citate le piú importanti prove per ognuna delle suddette categorie e avrete già scritto una lettera migliore di quelle sottoposte alla commissione da almeno il 75 per cento dei concorrenti. La terza qualità cruciale della prova di retorica è la chiarezza. Se coloro che leggono non capiscono la vostra situazione, non riuscirete a convincerli. È sorprendente quanti incartamenti di aspiranti assistenti non dicano quando, dove e con quale preciso risultato il candidato abbia sostenuto l’esame di laurea o conseguito il Phd, né che cosa esattamente stia facendo al momento, per non dire quale contributo avrebbe intenzione di offrire al dipartimento in futuro. Se state esaminando duecento domande, dover perdere anche solo un minuto per scovare questo tipo d’informazioni è un motivo sufficiente per scartare all’istante quella che avete fra le mani. Le persone non sono stupide, e ambiguità e vaghezza non passeranno inosservate agli occhi della commissione esaminatrice. Entrambe fanno sembrare evasivo l’oratore /autore e indispongono o infastidiscono l’ascoltatore /lettore. Il consiglio di Aristotele, perciò, è di essere precisi: nella domanda non dite: «Per il mio progetto di studio sulle divinità greche farò richiesta dei fondi di ricerca nei prossimi mesi»; dite invece: «Per il mio progetto di studio sui luoghi di culto di Apollo nelle isole Cicladi farò richiesta di fondi di ricerca al termine del primo anno di insegnamento»; o anche: «Nel settembre dell’anno prossimo userò gli utili previsti degli outlet

di Portsmouth per aprire nuovi punti vendita della Peter’s Plimsoll Retailers nella periferia est della Greater Manchester». Preparatevi quindi a spiegare nel colloquio in che cosa consisterà esattamente il vostro progetto e in che modo lo finanzierete. Aristotele è assai istruttivo anche a proposito degli effetti stranianti generati sugli interlocutori da forme di espressione opache e disorientanti. L’esempio specifico a cui ricorre è quello di Eraclito, probabilmente il piú impenetrabile degli antichi filosofi greci. Aristotele cita una frase di Eraclito in cui l’ordine delle parole rende praticamente impossibile essere certi del significato: «Riguardo a questa espressione che è vera sempre gli uomini si mostrano privi d’intendimento» 8. Non è chiaro se sia l’espressione che è sempre vera, o se sono gli uomini che mai la intendono. La frase ha un estremo bisogno di punteggiatura, o di cambiare l’ordine delle parole, che chiarirebbe a quale parte della proposizione si riferisce l’avverbio «sempre». Supponiamo dunque che una lettera impeccabile, unita a un Cv ben organizzato, vi permetta di avere un colloquio. A questo punto passa in primo piano il vostro modo di presentarvi in pubblico di persona, e per Aristotele una componente importante di questa presentazione di voi stessi è costituita dalla «D» dell’alfabeto della retorica efficace: la declamazione. L’intimo amico di Aristotele, Teofrasto, scrisse un intero trattato sulla declamazione, i cui frammenti sopravvissuti suggeriscono che i due filosofi condividessero un forte interesse per l’argomento e discutessero gli stili declamatori dei pubblici oratori ad Atene. L’antica parola greca per declamazione era in realtà hypokrisis, termine usato per indicare che cosa fanno gli attori teatrali quando si esibiscono; in inglese e in italiano la stessa parola ha acquisito il significato distorto di finta sensibilità morale, di «ipocrisia». Ma l’idea di recitare una parte non è priva di utilità quando ci prepariamo a una performance retorica. Una mia affascinante amica dovette comparire un giorno in tribunale, per difendersi dalla fondata accusa di aver usato un apparecchio televisivo in bianco e nero privo di licenza. Si presentò con un abito sciatto, scarpe basse e una crocchia spettinata. Bofonchiando disse al giudice di essere un’insegnante di botanica e di non conoscere la legge sulle licenze degli apparecchi televisivi. Si professò sinceramente dispiaciuta. Se la cavò con il minimo della sanzione. Che tipo di carattere volete mettere in evidenza in un colloquio di lavoro? Potete essere benissimo uno scansafatiche e un irresponsabile parassita che,

in caso di nomina, approfitterà del lavoro dei colleghi. Ma non vi conviene dare questa impressione ai futuri datori di lavoro. Nel capitolo di apertura del secondo libro della Retorica di Aristotele troviamo quest’acuta osservazione: per generare convinzione negli ascoltatori l’oratore deve «fare mostra di sé in un certo modo e porre chi giudica in una certa disposizione d’animo» 9. Per quanto riguarda il carattere, chi parla dovrebbe dare all’uditorio l’impressione di possedere «saggezza, […] virtú e […] benevolenza» 10. Ovviamente, se siete un aristotelico praticante, vi sarete dati da fare per acquisire tali qualità come abitudini radicate, e a questo punto non dovreste avere problemi a far sentire ai vostri intervistatori che le possedete. Aristotele però sviluppa ulteriormente il ritratto dell’individuo generalmente benvoluto. È una persona che non vive alle spalle degli altri, ma si guadagna il pane lavorando sodo. Se anche fino a quel momento il vostro successo è stato frutto di mezzi amorali, come aver flirtato con i superiori o imbrogliato agli esami, portare l’attenzione su qualche inconfutabile sfacchinata compiuta in passato allieta sempre i potenziali colleghi, che probabilmente vacillano sotto il peso dei loro carichi di lavoro. E la descrizione aristotelica delle persone simpatiche a tutti prosegue: sono quelli con cui è piacevole trascorrere la vita e passare le giornate; e questi sono coloro che hanno buon carattere, vale a dire che non sono inclini a contestare chi sbaglia e che non sono ossessionati dalla competizione né sono litigiosi 11.

Buonumore, ottimismo, cortesia sono inestimabili. Altrettanto essenziale è avere il senso dell’umorismo: dovete saper cogliere l’umorismo diretto a voi, oltre a dispensarlo, e dovete dispensarlo con buon gusto. «Sono amati […] quelli bravi a scherzare e a tollerare gli scherzi» 12. Detto ciò, se un intervistatore scivolasse in un comportamento cosí poco professionale come fare una battuta a vostro scapito, il colloquio non sarebbe il contesto opportuno per controbattere, neppure con il miglior buon gusto possibile. Un prezioso consiglio di Aristotele è quello di rispondere agli attacchi di umorismo aggressivo con sobria austerità. Sarcasmo e ironia si spengono di fronte all’espressione autentica di sentimenti o opinioni. Aristotele sa che dietro all’ironia spesso può celarsi il disprezzo e che potete volgere a vostro vantaggio l’ironia a voi diretta.

Non è vero che tutti gli intervistatori si fanno un’idea di voi entro i primi due minuti del colloquio. Gli intervistatori esperti sanno che intorno al diciassettesimo minuto alcuni candidati «dimenticano» il ruolo che stavano interpretando, in particolare quelli troppo sicuri di sé che hanno cominciato a sentirsi a proprio agio e a concedersi un tono un po’ troppo autocelebrativo. Ma ci sono fattori piú superficiali che possono influire sulle reazioni degli intervistatori nei vostri confronti. Le prime impressioni contano, come ben sapeva Aristotele. Nelle sue opere di argomento etico, lo Stagirita parla dell’abbigliamento e della cura della persona. L’uomo magnanimo deve perseguire il giusto mezzo tra la sgradevole stravaganza sartoriale da una parte e, dall’altra, il dare l’impressione di non curarsi minimamente del proprio aspetto. Con sagacia Aristotele commenta che l’eccessiva trasandatezza è di per sé una forma di ostentazione. Nella mia professione molti colleghi erano soliti esibire un’assoluta noncuranza per il proprio aspetto, volendo con ciò far intendere che le loro menti erano impegnate in cose piú elevate. Questo non valeva solo per l’abbigliamento, ma anche per il mancato utilizzo di deodoranti e lucido da scarpe, per non parlare delle prestazioni di dentisti, parrucchieri e tintorie. Fortunatamente nelle giovani generazioni le cose sono migliorate. Il miglior consiglio in questo caso è lo stesso per uomini e donne: nessuno ha mai perso un lavoro per colpa di un abito scuro, semplice ma di buon taglio, sopra una camicia bianca ben stirata, o a causa di un vestito sobrio con un paio di scarpe scure, ben tenute ma senza fronzoli. Vale la pena investire del denaro in un buon prodotto di sartoria. È anche possibile noleggiarne uno, se non ve lo potete permettere. La prima impressione non è data unicamente dall’aspetto fisico. È utile stabilire un contatto visivo, via via, con tutte le persone nella stanza, e mantenere una relazione di sguardi con ognuno, in particolare con l’intervistatore di turno. Nel trattato Sulla declamazione, il collega di Aristotele, Teofrasto, diceva che l’oratore che trascura di guardare negli occhi l’uditorio fa la stessa magra figura di un attore voltato di spalle. E le risposte iniziali hanno un peso enorme: l’inizio di ogni performance retorica, che sia destinata alla lettura o all’ascolto, offre un’opportunità unica, come sottolinea Aristotele, di attirare o allontanare l’attenzione e l’interesse degli ascoltatori. Aristotele racconta che il piú famoso attore tragico dell’epoca, Teodoro di Atene, si faceva sempre riscrivere i testi dei drammi classici in cui recitava in modo che le battute d’apertura spettassero al suo personaggio, per la semplice

ragione che era quello il momento migliore di una rappresentazione teatrale per stabilire un legame con il pubblico. Tra gli svariati consigli di Aristotele per parlare in modo persuasivo, troviamo tante osservazioni utili. Primo: l’inizio del colloquio o del discorso è il momento in cui è piú probabile avere l’attenzione di tutti, ma immediatamente dopo la mente degli ascoltatori può cominciare a vagare. In quanto performer, dovete tenere sempre alta la vostra concentrazione, ma ancor piú importante è che teniate viva l’attenzione degli astanti, dal momento che in qualunque fase del discorso «l’attenzione scema piú di quando cominciano ad ascoltare» 13. L’affermazione è stata verificata in numerosi esperimenti condotti da scienziati cognitivi in contesti pedagogici. Ripetute ricerche sulla capacità umana di concentrarsi durante una lezione hanno mostrato che quasi tutti smettono di stare attenti tra il quinto e il venticinquesimo minuto. Una regola d’oro, quindi, è cambiare rotta o introdurre nozioni di tipo completamente diverso intorno al diciassettesimo minuto, e poi nuovamente, in una lezione di cinquanta minuti, verso il trentacinquesimo. E date pieno risalto al cambio di marcia. Aristotele cita il filosofo Prodico, il quale, ogni volta che gli spettatori cominciavano a ciondolare il capo, diceva: «Dirò a voi […] qualcosa […] di cosí straordinario quale mai avete udito!» 14 A quel punto faceva omaggio al pubblico di un passo selezionato del suo piú celebre discorso da esibizione, per assistere al quale, quando era eseguito per intero, si pagava un biglietto dal notevole costo di cinquanta dracme. Infine, Aristotele ritiene che per persuadere gli ascoltatori l’importanza delle analogie sia inestimabile. Un’analogia indovinata ha una forza persuasiva di gran lunga piú efficace di qualsiasi altro artificio retorico, come potrebbe essere l’inserimento di parole insolite nel discorso. «[Cosa] molto piú grande ancora è essere capace dei traslati; questa sola cosa, infatti, non è possibile ottenerla da altri, ed è segno di un talento naturale: perché far bene i traslati è saper vedere la somiglianza» 15. Nel testo greco si parla specificatamente di «metafore», ma per quanto mi riguarda ho usato piú sopra il termine «analogie» perché Aristotele non crede che ci siano differenze funzionali tra una similitudine («i raggi del sole all’alba erano come dita rosate») e una metafora («l’aurora dalle dita rosate»): l’ascoltatore immagina comunque il sole e i raggi del primo mattino come le rosee dita di una mano. Aristotele era interessato soprattutto alla funzione cognitiva di

questi paragoni. Giustamente pensava che accelerassero il processo di apprendimento. Dovendo capire sotto quale aspetto le due cose messe a confronto sono simili (perché i raggi del sole assomigliano a dita?), gli ascoltatori partecipano attivamente a un processo che permette loro di imparare qualcosa riguardo all’aspetto sia del sole sia delle mani. La capacità di tracciare paragoni originali e istruttivi, e di non riciclare perciò sempre le solite analogie, è una delle pochissime abilità che per Aristotele sono una dote naturale impossibile da apprendere. Certamente sono esistite persone di cui è stato notorio l’uso straordinario che sapevano fare dei paragoni. Winston Churchill, che fu una di queste, ricorreva alle immagini anche per esacerbare negli ascoltatori l’avversione per il nemico: Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvarsi la pelle ha reso l’Italia un Paese vassallo dell’impero di Hitler, viene a fare le capriole di fianco alla tigre tedesca con guaiti non solo di appetito – il che sarebbe comprensibile – ma anche di trionfo.

La scrittrice Dorothy Parker era famosa per i suoi aspri paragoni, caustici e divertenti: «Un po’ di cattivo gusto è come una bella spruzzata di paprica»; «La sua voce era intima come un fruscio di lenzuola». Le immagini usate dall’uomo a cui la Parker lasciò in eredità il suo appartamento, Martin Luther King, aiutarono a realizzare ciò che la migliore retorica è in grado di realizzare, ovvero cambiare in meglio la storia. Il discorso epocale di Martin Luther King, «Ho un sogno», era ricco di immagini visive espresse con metafore e similitudini, molte delle quali evocavano la grandezza del paesaggio americano: «Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza». Ma alcune immagini sono proposte attraverso citazioni: Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non scorrerà come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.

Molti suoi seguaci, che avevano studiato la Bibbia, sapevano bene che lí King stava alludendo ad Amos, profeta dell’Antico Testamento che con le sue visioni del futuro aveva storicamente dato un grande conforto agli

afroamericani: «Ma come le acque scorra il diritto e la giustizia come una fonte perenne» (Amos 5,24) 16. Fu una mossa sapiente, da parte di Barack Obama, quella di citare Martin Luther King (che citava Amos), quando nel 2007 annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti: Abbiamo accolto migranti sbarcati sulle nostre coste. Abbiamo gettato ferrovie verso occidente. Abbiamo fatto atterrare un uomo sulla Luna. E abbiamo sentito l’appello di King affinché «come le acque scorra il diritto» e come un fiume in piena la rettitudine. Questo è quello che abbiamo fatto.

In questo modo utilizzava l’immagine dello slancio sorgivo e ineluttabile della giustizia razziale per un duplice scopo. Oltre a conferire a termini astratti come «giustizia» un senso viscerale e concreto, l’immagine invitava infatti le persone in ascolto a far rivivere nei loro cuori il Martin Luther King che pronunciava il suo discorso davanti al Lincoln Memorial, e a paragonare i cambiamenti che Obama si proponeva di gestire da presidente con quelli prodotti dal movimento per i diritti civili degli anni Sessanta. Sembra che Aristotele andasse particolarmente fiero delle sue folgoranti analogie. Sapeva di essere capace per talento naturale di quello che oggi chiamiamo «pensiero orizzontale» o «fuori dagli schemi». Ripetutamente riesce a chiarire un concetto complicato tracciando un’analogia con una dimensione esperienziale del tutto diversa. Nell’Esortazione alla filosofia paragonò la contemplazione della natura dell’universo all’attività degli spettatori a teatro o a una gara di atletica. Per spiegare il potenziale educativo della tragedia, dice che imparare dall’osservazione di una scena di sofferenza è come imparare guardando il disegno di una brutta e primitiva forma vitale. Paragona l’equità nei problemi di giustizia al regolo flessibile dei capomastri che ha visto lavorare a Lesbo. Un buon insegnante che adatta il programma d’esame a ogni studente è come l’«istruttore di pugilato» che allena tutti i suoi allievi allo stesso sport, ma adegua il programma degli esercizi alle loro doti naturali. Un uomo che rifugge i suoi concittadini e sceglie una vita solitaria è come «una pedina isolata» 17. Tra i paragoni piú utili che troviamo nelle sue opere etiche figurano i celebri episodi mitici dei poemi omerici. Quando sostiene che lo Stato deve avere voce in capitolo nella stesura dei programmi di studio per i bambini, Aristotele ci ricorda che era tipico di una razza brutale come quella dei

Ciclopi che ogni capo-caverna stabilisse unilateralmente quale educazione impartire alla gioventú. E quando riflette sull’importanza del pensiero a lungo termine, come nel caso della minaccia portata da un adulterio alla stabilità della famiglia, raccomanda di immaginarvi nei panni dei Troiani che guardavano Elena di Troia. Potete desiderarne ardentemente la presenza, ma se non le impedite l’accesso, quella presenza distruggerà la città. Infine, l’osservazione di Aristotele che piú di ogni altra può trasformare la vostra capacità di convinzione è che tra un discorso efficace e un testo efficace la differenza è minore di quanto si presuma: «In generale lo scritto deve essere facile da leggere ad alta voce e facile da pronunciare – il che è la stessa cosa» 18. È vero che ai tempi di Aristotele la lettura silenziosa rappresentava piú l’eccezione che la regola. La maggior parte della gente era solita leggere parlando, come fanno anche i bambini di oggi. Ma non per questo è un consiglio che vale di meno. Se una frase non esce bene dalla bocca, entrerà male nell’area cognitiva della mente del vostro lettore. La lunghezza qui appare decisiva. Come dice Aristotele, se la frase è troppo corta, urta il lettore. Occasionalmente una frase di due parole può risultare efficace, ma non piú di due volte per ogni testo o presentazione. Le frasi troppo lunghe sono ancora peggio, perché, osserva Aristotele, il lettore o l’ascoltatore non possono seguirne il senso. E potreste anche non parlare affatto. Cosí, quando scrivete una domanda di lavoro, leggetela a voce alta prima di spedirla. Potrebbe succedere che un membro della commissione legga o citi una parte della vostra lettera ai colleghi, o magari (la peggiore delle evenienze) a voi stesso nel corso del colloquio. 1. Aristotele, Retorica, a cura di Fabio Cannavò, Bompiani, Milano 2014, 1355ab, I, 1, p. 11. 2. Ibid., 1354a, I, 1, p. 3. 3. Ibid. 4. Ibid., 1405b, III, 2, p. 323. 5. Ibid., 1405a, III, 2, p. 319. 6. Ibid., 1405b, III, 2, p. 323. 7. Aristotele, Confutazioni sofistiche, in Id., Opere, trad. it. di Giorgio Colli, Laterza, Bari 1982, vol. II, pp. 225-300 (184a-184b, 34, p. 300). 8. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano 1993, fr. 22 A4 DK, p. 121. Cfr. Aristotele, Retorica cit., 1407b, p. 335. 9. Ibid., 1377b, II, 1, p. 151. 10. Ibid., 1378a, p. 153.

11. Ibid., 1381a, II, 4, pp. 173-75. 12. Ibid., p. 175. 13. Ibid., 1415b, III, 14, p. 383. 14. Ibid., pp. 383-85. 15. Aristotele, Poetica, a cura di Pierluigi Donini, Einaudi, Torino 2008, 1459a, XXII, p. 153. 16. Amos 5,24, in La Bibbia, Conferenza episcopale italiana, Roma 2008. 17. Aristotele, Politica cit., 1253a, p. 66. 18. Aristotele, Retorica cit., 1407b, III, 5, p. 333.

Capitolo quinto Conoscenza di sé

Arrivano momenti in cui, anche se siamo soddisfatti del nostro lavoro e della nostra vita personale, sentiamo che avremmo potuto fare meglio. Un’esperienza difficile, ad esempio un divorzio o una faida familiare, può lasciarci un vago senso di colpa, e indurci a chiederci quanta responsabilità personale abbiamo nella sofferenza altrui. L’arrivo di un primo figlio ci ha reso magari moralmente piú responsabili, dato che egoismo e genitorialità vanno poco d’accordo. Oppure abbiamo incontrato una persona che ha un modo di comportarsi e di contribuire alla felicità umana che vogliamo emulare, favorendo cosí il nostro automiglioramento. Le categorie aristoteliche dei vizi e delle virtú sono uno strumento di autoconoscenza che ci permette di scoprire le nostre migliori e peggiori caratteristiche personali. L’autovalutazione, a cui fa seguito l’azione, espande le nostre virtú e riduce i nostri vizi, e cosí facendo non solo rende piú felici le persone che ci circondano, ma accresce la nostra stessa felicità. I consigli piú particolareggiati elargiti da Aristotele riguardano le buone qualità coltivate dalla persona felice – le virtú – e i difetti corrispondenti. Il rapporto esistente tra la felicità e queste buone qualità è di cardinale importanza per tutta la sua visione etica. Come abbiamo già rilevato, per Aristotele è scontato che chi è sprovvisto delle virtú di base non possa raggiungere la felicità: Nessuno direbbe beato chi non ha una briciola di coraggio, di temperanza, di giustizia, di saggezza, ma temesse le mosche che gli ronzano intorno, non fosse capace di astenersi dai peggiori eccessi quando è in preda ai desideri di mangiare e di bere, e per due soldi vendesse gli amici piú cari 1.

Aristotele riteneva che per il benessere umano fossero indispensabili la giustizia, il coraggio e la temperanza: quel genere di «virtú» che ha fatto sí che i filosofi definissero l’insieme del suo sistema morale «etica della virtú». I termini che impiegava per indicare le «qualità buone» – aretai – e le «qualità cattive» – kakiai – erano parole base di uso quotidiano nel greco

antico, prive di particolari sfumature morali. Le traduzioni correnti «virtú» e «vizi» hanno connotazioni sgradevoli. «Virtú» ha un accento di moralistico rigore formale, mentre «vizio», associato in inglese ad ambienti sordidi, cartelli della droga e prostituzione, è un termine molto piú negativo del greco kakia. Anche «etica della virtú» può suonare affettato e grandioso. Ma invece di decidere di «praticare la giustizia», ditevi di aver deciso di essere onesti con tutti e di adempiere alle vostre responsabilità, aiutando al contempo le persone, voi stessi compresi, a realizzare il proprio potenziale umano. Invece di «praticare il coraggio», pensate ad affrontare le cose che vi spaventano e ad allenarvi a essere meno timorosi. Invece di fare un voto di «autocontrollo», immaginate quale sia il «giusto mezzo», o il livello adeguato di reazione alle emozioni, alle interazioni personali e ai desideri di particolare intensità (che è quanto comporta la «temperanza» aristotelica). Le osservazioni di Aristotele sulle virtú e sui vizi corrispondenti contenute nell’Etica nicomachea e nell’Etica eudemia compongono un manuale pratico di istruzioni alla moralità. Le «virtú», o «vie per la felicità», non sono tanto qualità temperamentali, quanto piuttosto abitudini acquisibili con la pratica. Dopo ripetuti adempimenti, diventano cosí connaturate – come i riflessi automatici di quando guidiamo – da poter sembrare (quantomeno agli altri) qualità permanenti (hexis) del carattere. È un processo che dura tutta una vita, ma molti individui migliorano nella mezza età, quando i desideri piú tenaci diventano in diversi casi piú facili da gestire. Possiamo migliorare moralmente quasi tutti, se lo vogliamo. Come dice Aristotele, non siamo sassi, che non possono essere «abituati» a salire verso l’alto di loro spontanea volontà: appena li lasciate, cadranno sempre verso il basso. Per lui la virtú è una capacità come un’altra, come suonare la cetra o costruire edifici, e quindi si può «imparare». Se dalla cetra strappate note orrende, o se costruite muri che non stanno in piedi, e non fate niente per migliorare, sarete ovviamente e giustamente considerati citaristi o muratori scadenti. Scrive Aristotele: Si ha la stessa cosa anche nel caso delle virtú […] Infatti è compiendo le azioni proprie delle transazioni che si hanno con le altre persone, che alcuni di noi diventano giusti e altri ingiusti, ed è agendo nei casi di pericolo, cioè abituandoci a provare paura o coraggio, che alcuni di noi diventano coraggiosi, altri vigliacchi. Lo stesso vale per i

desideri e le forme di aggressività. Infatti alcuni diventano moderati e miti, altri intemperanti e iracondi 2.

È forse piú facile vederlo nel caso del coraggio. Molti di noi hanno fobie o terrori che superiamo esponendoci ripetutamente all’oggetto o all’esperienza temuta. Da bambina mi capitò di essere attaccata da un cane, e per molti anni feci di tutto per stare alla larga dai cani di ogni tipo. Aristotele mi avrebbe detto di non essere troppo severa con me stessa. Come nel caso di un uomo da lui menzionato, che aveva un terrore esagerato per le donnole, anche la mia paura era nata da un trauma. Fu solo quando mio marito mi convinse a prendere un cucciolo, e io (da principio controvoglia) cominciai a prendermi cura di Finlay tutti i giorni, che dopo un paio d’anni mi sentii (quasi) del tutto tranquilla con quasi tutti i cani (pur continuando a tenerli rigorosamente a distanza dai bambini piccoli). Passando a una situazione piú complicata, un mio amico finiva sempre per rovinare tutte le sue relazioni con le donne, a causa dell’incapacità che aveva di esprimere la rabbia o il malcontento per diversi mesi, finché esplodeva d’improvviso e mandava tutto all’aria (a meno che le compagne avvertissero la sua inautenticità, e lo mollassero prima). Fu solo dopo i trent’anni che, sforzandosi di esprimere con chiarezza i propri sentimenti con la madre dei suoi figli, diventò capace di affrontare i problemi mentre si presentavano, anziché troppi mesi dopo. Gli uomini non nascono con le capacità richieste dalle virtú di Aristotele, basate su una combinazione di razionalità, emozione e interazione sociale: quel che conta, però, è che nascono con il potenziale per svilupparle. L’«etica della virtú» di Aristotele può essere letta come una testimonianza delle discussioni che il filosofo faceva, sia in Macedonia quando era precettore di Alessandro sia ad Atene durante le passeggiate con gli allievi del Liceo, parlando delle vie da seguire per diventare persone rispettabili e virtuose. Per quanto la sua filosofia sia applicabile a ognuno di noi, in alcune occasioni sembra proprio che egli abbia in mente un ben preciso tipo di allievi, e in questi casi si tratta sempre (forse inevitabilmente) di individui maschi, ricchi e destinati a ruoli di pubblica rilevanza. A volte la specificità dell’uditorio si rivela d’un tratto, con effetti addirittura comici, come quando Aristotele parla delle opere di beneficenza a cui sono tenuti i cittadini facoltosi in alcune città-Stato: alla maggior parte di noi non sarà mai chiesto di scegliere se finanziare il coro del teatro nazionale, la costruzione di una nave da guerra o

un banchetto pubblico. Ma il punto importante è che una gioventú cosí privilegiata non aveva scuse che la potessero esimere dal mirare al perfezionamento di ogni virtú. Chi ci fosse riuscito sarebbe stato degno del massimo elogio da parte di Aristotele, quello di avere sviluppato un’anima grande (di essere cioè megalopsychos, dalle parole greche per «grande» e per «anima», o «psiche»). La nostra parola piú vicina ci arriva dal latino, ed è «magnanimo». Mi sembra di sentire Aristotele mentre descrive a una classe di chiassosi adolescenti macedoni il portamento consono all’uomo che ha un’anima grande: «Il passo […] lento, la voce profonda, il modo di parlare pacato […]; la voce stridula e il passo affrettato [derivano da un carattere agitato e nervoso]» 3. La via per la felicità passa dall’impegno a perseguire il progetto esistenziale di diventare un uomo o una donna con una grande anima: insomma, dall’impegnarsi a essere magnanimi. Non importa avere i soldi per armare una nave da guerra, né è necessario camminare piano o parlare con voce profonda. Questo genere di magnanimità, ovvero lo stato mentale dell’individuo veramente felice, è caratteristico del tipo d’individuo che quasi tutti noi, fondamentalmente, aspiriamo a essere. Il magnanimo non cerca il pericolo per il pericolo, ma è disposto anche a sacrificare la vita per una causa importante. Preferisce aiutare gli altri piuttosto che chiedere aiuto per sé. Non lusinga i ricchi e i potenti, ed è sempre gentile anche con gli umili. «Mostra apertamente i suoi odi e le sue amicizie» 4, perché solo chi ha paura del giudizio degli altri ha bisogno di celare i propri veri sentimenti. Evita tuttavia il pettegolezzo, perché in genere si riferisce ad aspetti negativi. Raramente critica gli altri, compresi i nemici, a meno che non si tratti del contesto appropriato (un tribunale, per esempio), ma evita anche le lodi eccessive. In breve, essere magnanimi significa essere pacatamente coraggiosi, autosufficienti, non adulatori, educati, discreti e schietti: è un modello che chiunque può adottare, con entusiasmo e in buona fede. Il fatto che sia stato messo per iscritto piú di ventitre secoli or sono non lo rende certo meno stimolante. Lo stadio successivo è passare in rassegna tutte le caratteristiche e le virtú elencate da Aristotele in un’ottica autoanalitica. La lista di Aristotele offre un’opportunità di riflettere su di sé a chiunque sia capace di guardarsi con onestà. Come recitava un’iscrizione sul tempio di Apollo, «Conosci te stesso» (gnothi seautón): anche Socrate, maestro di Platone, amava ripetere

questa massima. Se però non «conoscete voi stessi» o non siete disposti a riconoscere che siete, per esempio, avari, o malignamente pettegoli, allora potete anche fermarvi qui. L’etica di Aristotele richiede che vi diciate anche le verità spiacevoli, dal momento che non è un sistema censorio ed è fatta per essere usata. L’imperativo non è giudicarsi severamente per cadere in atteggiamenti autopunitivi o di disprezzo di sé. Per Aristotele i tratti del carattere e le emozioni sono quasi tutti accettabili – per non dire, anzi, necessari alla salute della psiche – purché siano presenti nelle giuste dosi. E chiama questa giusta dose la quantità «di mezzo» o «intermedia», il meson. In effetti Aristotele non ha mai usato l’espressione che nelle traduzioni inglesi è resa con «golden mean»: essa risale a quando il principio aristotelico della salutare «via di mezzo» per ciò che riguarda i tratti psicologici e gli appetiti fu associato a un passo delle Odi (2, 10) del poeta latino Orazio. Orazio scrive che le persone che apprezzano l’aurea mediocritas, ovvero l’aurea moderazione – o golden mean –, non devono temere di dover vivere né in un sontuoso palazzo né in una squallida stamberga. Ma se chiamiamo aurea o meno questa «via di mezzo tra gli estremi», non ha molta importanza. Un desiderio sessuale, dal momento che gli uomini sono animali, è una cosa buona nelle dovute proporzioni. D’altro canto, un desiderio sessuale troppo forte o troppo debole conduce in entrambi i casi all’infelicità. La rabbia è essenziale per una persona sana, e chi non prova mai rabbia non sempre farà la cosa giusta e non raggiungerà quindi la felicità. Anche troppa rabbia però costituisce un limite o un difetto – un vizio, insomma. È sempre un problema di giusta dose al momento giusto. Non è stato ovviamente Aristotele ad avere inventato l’altra antica massima greca iscritta sul tempio di Delfi: «nulla di troppo», ma è stato invece lui il primo pensatore a elaborare un dettagliato sistema morale per vivere in accordo con tale principio. Una delle aree piú intricate dell’etica è il complesso tematico che ruota intorno all’invidia, alla rabbia e alla sete di vendetta. Sono tre pulsioni centrali nella trama dell’Iliade, che fu il libro preferito di Alessandro Magno. Il condottiero lo portava con sé in tutte le campagne e deve averne discusso a lungo con il suo precettore Aristotele. In questo poema epico Agamennone, il piú importante sovrano greco in termini di status, invidia Achille perché Achille è il piú grande dei guerrieri greci. Agamennone umilia Achille

pubblicamente, portandogli via, per giunta, l’amata concubina Briseide. Achille è furioso e la sua collera si accresce ulteriormente quando il suo migliore amico, Patroclo, viene ucciso in battaglia dal troiano Ettore. Achille si prende la rivincita su Agamennone ottenendo un indennizzo e la restituzione di Briseide. E spegne la sua sete di vendetta nei confronti di Ettore uccidendolo in singolar tenzone, mutilandone il cadavere, e giustiziando poi dodici giovani troiani del tutto innocenti, che sacrifica sulla pira funebre di Patroclo. Questa è una vendetta eccessiva. Invidia, ira, vendetta: Aristotele scrive con grande acume su questi tre impulsi oscuri. Lo Stagirita fu oggetto di invidia tanto in vita quanto dopo la morte. Pur essendo di gran lunga il miglior filosofo della sua generazione, nel 348 a.C., quando Platone morí, non fu preso in considerazione per assumere la guida dell’Accademia in cui aveva studiato per due decenni. Gli altri filosofi dell’Accademia trovavano dura da digerire la disinvolta genialità di Aristotele e al suo posto scelsero un noioso filosofo di nome Speusippo. Successivamente, invidiarono l’ammirazione e il sostegno che Aristotele ottenne, senza aver dovuto evidentemente chinare il capo, dai sovrani di Asso, in Asia Minore, dove insegnò per due anni, e della Macedonia. Come disse un aristotelico che in seguito redasse una storia della filosofia, il grande uomo suscitava tutta questa invidia semplicemente «per le sue amicizie reali e per l’indiscutibile superiorità dei suoi scritti» 5. L’onestà degli antichi Greci riguardo a emozioni che oggi invece sono spesso censurate è meritoria. Non tutti trovano nell’etica cristiana un particolare aiuto per affrontare i vizi di Aristotele. L’ira per esempio è un peccato mortale, e il buon cristiano, quando viene ingiustamente attaccato, è tenuto a «porgere l’altra guancia» anziché reagire. Ma l’invidia, anche quando non è un elemento centrale del nostro carattere, è inevitabile. Non c’è nessuno che non abbia invidiato le persone piú ricche, piú belle o piú fortunate in amore. Se c’è una cosa che ci piacerebbe molto ma non esiste sforzo che ce la possa assicurare – una salute migliore, avere un bambino, un riconoscimento professionale, una maggiore popolarità – può essere quasi insopportabile vederla ottenere da altri. La psicoanalista Melanie Klein considerava l’invidia una pulsione primaria per l’intero corso della vita, soprattutto nelle relazioni tra fratelli e nelle altre relazioni tra pari, ovvero con sostituti dei nostri fratelli. Non possiamo fare a meno di invidiare chi ha ricevuto piú fortune di noi. E può anche essere una reazione salutare, quando

ci motiva a porre riparo alle ingiustizie di ogni tipo: in ambito lavorativo, ad esempio, promuovendo leggi che garantiscano parità di salario a prescindere dal genere; sul piano politico, disapprovando un sistema sociale che permette divari enormi tra ricchi e poveri. Ma l’invidia di doti assolutamente naturali, come nel caso delle capacità intellettuali di Aristotele, è un distruttore di felicità. Può alterare la personalità stessa dell’individuo invidioso e condurre all’ossessione. E può portare ad attacchi del tutto immotivati all’oggetto dell’invidia: nel mondo di oggi questo accanimento assume spesso la forma delle feroci provocazioni dei troll o degli attacchi informatici. In casi estremi l’invidia può finire per privare un’intera società di opere di genio, quando la carriera di un individuo di talento venga bloccata con «successo». L’effetto tossico di questo genere di invidia viene splendidamente descritto nel dramma Amadeus di Peter Shaffer, del 1979, che lo stesso Shaffer trasformò nella sceneggiatura dell’omonimo film del 1984 di Miloš Forman, vincitore di diversi Oscar. Il mediocre compositore Salieri sviluppa un’invidia ossessiva per la facilità con cui il suo piú giovane rivale Mozart produce sublimi capolavori. Salieri ostacola in ogni modo la carriera di Mozart, diffamandolo presso l’imperatore. Ordisce un piano per far passare come suo l’inarrivabile Requiem dell’odiato rivale. E sul letto di morte confessa di averlo in realtà avvelenato. Questo significa non solo che Mozart non completò mai il Requiem, ma anche che, essendo morto a meno di 36 anni, il mondo fu privato delle decine di opere meravigliose che avrebbe potuto comporre se fosse vissuto piú a lungo. Anche se il complotto omicida di Salieri è invenzione romanzesca (in realtà sembra che il compositore piú anziano sia stato un buon amico di Mozart, e si prese anche cura del figlioletto rimasto orfano), il successo mondiale del film dimostra la grande risonanza transculturale della rappresentazione dell’invidia come forza ossessiva. La fonte originaria della storia di Shaffer è una tragedia del 1832 dello scrittore russo Aleksandr Puškin. Nel testo di Puškin la disamina di Salieri della propria invidia divorante è espressa con brutale lucidità. «E invece – lo dico io stesso – invece | crepo d’invidia, da invidia sono roso; | profondamente, tormentosamente invidio!» 6 Semplicemente, Salieri non può accettare la naturale ingiustizia della società umana, in cui alcuni individui nascono piú dotati di altri.

Dov’è la tua giustizia, se il tuo sacro dono del divino genio immortale non è concesso a chi ti ama ardentemente, ai sacrifici, allo zelo, alla fede, ma illumina la mente d’uno sfaccendato incosciente, d’un vagabondo, d’un demente? Ah, Mozart! Mozart! 7

Aristotele vi invita a chiedervi se invidiate qualcuno perché ha ottenuto un’ingiusta quota di gratificazione sociale o perché con voi la natura è stata meno prodiga di doni. Se nel primo caso la vostra invidia può darvi la spinta per lottare per la giustizia e l’uguaglianza, nel secondo dovete riflettere sul modo in cui i talenti innati di quella persona migliorano in realtà anche la vostra vita. Se i colleghi accademici di Aristotele lo avessero eletto loro direttore, lo Stagirita avrebbe accresciuto il prestigio della loro istituzione, anziché andarsene e a tempo debito fondare ad Atene l’università concorrente, il Liceo. Le loro reputazioni, oggi mediocri, avrebbero beneficiato della possibilità di praticare la filosofia in quella che potremmo dire la «scia» dello Stagirita. E da filosofi quali erano, avrebbero potuto magari imparare a godere della sua compagnia, anziché avercela con lui. Anche l’ira affascina Aristotele. La via di mezzo qui è la cortesia, la calma, la mitezza. A questo proposito Aristotele fa notare che in greco non ci sono in realtà termini precisi per indicare una mitezza eccessiva. Lui proporrebbe «flemma» 8, ma noi forse la chiameremmo apatia, o indifferenza. È un difetto, sostiene Aristotele, e «quelli che non si adirano per i giusti motivi sono giudicati sciocchi, e anche quelli che non lo fanno come, quando e rispetto alle persone con cui è opportuno» 9. Se non cogliete un’offesa o non ne siete ferito, e non andate mai in collera, né in vostra difesa, né in quella dei vostri amici quando le vittime sono loro, questo vostro comportamento è indice di una morale disfunzionale. La gente penserà che siete privi di amor proprio e incapaci di schierarvi per qualsiasi cosa. In alcune circostanze la rabbia, ritiene Aristotele, è lodevole e legittima. Sono molte le cause che muovono all’ira e naturalmente la letteratura greca offre centinaia di esempi, dalla furia di Medea per l’adulterio del marito alla collera del potente guerriero Aiace per non aver ricevuto in premio le

gloriose armi di Achille, dopo che Achille fu ucciso. Ma se soffrite sempre di collere estreme, sarà giusto definirvi colpevolmente irascibili. Gli irascibili possono arrabbiarsi con le persone sbagliate (come il genitore che scarica le tensioni del lavoro sui figli anziché aver reagito con il proprio capo) e possono arrabbiarsi per le ragioni sbagliate (ho una vicina il cui marito non le ha rivolto la parola per due settimane dopo che lei durante le vacanze aveva chiuso per errore nella macchina presa a noleggio la chiave di accensione). Possono anche arrabbiarsi in modo indebitamente violento, e perdere le staffe troppo rapidamente oppure restare arrabbiati troppo a lungo, anche dopo aver ricevuto le scuse e un’offerta di risarcimento. Secondo Aristotele, è l’ultima la categoria piú problematica. La forma migliore di rabbia è quella di coloro che «non trattengono l’ira, ma reagiscono in modo aperto per la vivacità della loro natura, e poi si calmano». Invece gli individui rancorosi, inclini a rimuginare e astiosi per natura sono seriamente problematici: «Dato che trattengono l’impeto, rimangono arrabbiati a lungo». Coloro che non mostrano rabbia quando la provano, sentiranno «il peso dell’ira». La rabbia infatti resta nascosta, nessuno cerca di calmarli, «ma per digerire l’ira che hanno in corpo ci vuole del tempo; tali persone sono particolarmente difficili da sopportare, sia per se stessi che per chi è piú amico» 10. È bene quindi confessare la nostra rabbia a noi stessi e a chi ne è l’effettivo responsabile, spiegarne schiettamente le ragioni e proseguire per la propria strada dopo che le cose sono state chiarite. Per molti di noi riuscirci è difficile, e cominciamo a fare progressi in questo genere di sincerità emotiva quando approdiamo alla mezz’età. Ma Aristotele è consapevole di quanto è difficile gestire la rabbia quando cerchiamo di Vivere Bene: «Non è facile stabilire come e con chi e per quali motivi e per quanto tempo ci si deve arrabbiare, e fino a che punto uno agisce bene, e da che punto in poi si sbaglia» 11. Nel mio percorso di autovalutazione ho scoperto di non essere afflitta da invidia e rabbia, ma di essere per natura vendicativa. Negli ultimi anni ho lavorato abbastanza su questo aspetto, imparando da Aristotele, che in proposito è stato anche citato da Dorothy Parker: «Vivere Bene è la miglior vendetta». Siate superiori alla cloaca dell’invidia e della maldicenza e Siate Felici! Ignorate i detrattori: se state facendo del vostro meglio, le critiche non possono essere benintenzionate. Chi ha un’anima veramente grande perviene a una condizione di serenità in cui «non porta rancore, dato che non è proprio di un uomo magnanimo tenere a mente le cose, specie le cattiverie, ma è

tipico di lui piuttosto non percepirle» 12. Per altro verso Aristotele ritiene davvero che ci siano un tempo e un luogo non solo per sentimenti di vendetta, quali ad esempio la rabbia, ma anche per azioni vendicative. Come è facile aspettarsi da una persona che abbia respirato per molto tempo l’atmosfera politica della Macedonia di Filippo, le idee di Aristotele sulla vendetta sono schiette, profonde e pratiche. Nel quarto libro dell’Etica nicomachea, Aristotele arriva a sostenere che i sentimenti vendicativi possono essere virtuosi e razionali. Aristotele non nega affatto il piacere della vendetta. Ritiene inoltre che spesso la vendetta riguardi il ripristino del nostro onore o del nostro status quando sia stato oggetto di un’offesa. Una mia amica aveva fatto di tutto per essere notata a una festa in ufficio con un vestito nuovo e in compagnia di un bell’uomo, in modo tale che l’ex marito – che l’aveva maltrattata – la rispettasse e si dispiacesse di averla perduta. Mi raccontò che era stato uno dei piú bei momenti della sua vita e che le aveva reso molto piú facile proseguire a cercare la felicità in una nuova relazione. Ma l’idea di Aristotele è che desiderare la vendetta può con maggiore probabilità essere un atto virtuoso e come tale portare alla felicità soltanto se è stato commesso un torto che può essere riparato per mezzo della ritorsione. Riparare il torto dovrebbe aiutare a proteggerci in futuro da un’offesa simile da parte dello stesso responsabile. Quando parliamo di riparare i torti, l’argomento s’intreccia per forza di cose con quello della legge. Nei casi di crimini gravi, come calunnia, furto, aggressione, stupro o omicidio, sia le vittime sia i loro cari possono avere diritto a soddisfare i propri sentimenti vendicativi vedendo il colpevole punito dalla legge. Questa è l’idea alla base delle campagne per i diritti delle vittime e, negli Stati Uniti, per il diritto dei parenti delle vittime di omicidio a insistere per ottenere l’esecuzione capitale. Ma quello che interessa ad Aristotele sono gli affronti quotidiani, che per quanto non siano reati costituiscono torti ben precisi. Nel libro secondo della Retorica, Aristotele definisce in modo molto specifico l’ira associata alla legittima e virtuosa vendicatività come un «doloroso desiderio di [pubblica] vendetta per un’evidente mancanza di rispetto nei riguardi nostri o di qualcuno dei nostri cari, quando l’offesa non è meritata» 13. Le persone che senza giustificazione mancano di rispetto nei confronti vostri o dei vostri amici sono in genere mosse dall’invidia (ad

esempio i troll informatici, che attaccano le persone ricche, belle o di grande successo). Se vi mancano di rispetto e vi danneggiano pubblicamente, è giusto volere un pubblico risarcimento. Che cosa intende Aristotele per «mancanza di rispetto»? A suo parere la mancanza di rispetto può assumere tre forme: il disprezzo, il sopruso e la tracotanza. Di quello che chiama disprezzo, offre due esempi. Il primo toccherà le corde di chiunque abbia mai avuto a che fare con qualcuno che si serve dell’«umorismo» per evitare di affrontare la gravità di ciò che state dicendo. Aristotele li chiama «coloro che usano ironia nei riguardi di chi è serio» 14. Un film che traduce alla perfezione questa osservazione di Aristotele è Ridicule di Patrice Leconte (1996), in cui alcuni aristocratici francesi rispondono con battute alla richiesta drammaticamente seria da parte dei contadini locali di drenare la palude, che è causa di gravi malattie nei loro bambini. Una docente di mia conoscenza si lamentò con il suo dipartimento del personale perché un collega non perdeva occasione per lasciarsi scappare battute sessiste sull’incapacità delle donne di aprirsi le porte da sole. Convocato per riferire in proposito, la risposta dell’uomo fu che la professoressa non sapeva «stare agli scherzi». Il secondo esempio di mancanza di rispetto portato da Aristotele è costituito da «chi è benefattore di altri, se non lo è anche con noi; infatti anche questo implica disprezzo, il non considerare anche noi degni di ciò di cui si ritengono degni tutti» 15. Bullismo, molestie e discriminazioni rientrano tutti in questa categoria. Qualsiasi genitore di un bambino vittima di bullismo capirà benissimo quanto la rabbia sia assolutamente legittima, anzi virtuosa, in simili circostanze, come il desiderio di vedere risarcito il torto subito. Dopo il disprezzo, la seconda categoria di mancanza di rispetto secondo Aristotele è il sopruso. Sopruso, per Aristotele, significa impedire a un’altra persona di realizzare i propri desideri, nel caso in cui il motivo per farlo non sia avere gli oggetti di quei desideri per sé. Il motivo è soltanto impedire che li ottenga la vittima. Mi vengono in mente numerosi esempi di questo tipo di comportamento nella mia vita professionale. Alcuni individui fanno di tutto per intralciare la carriera di una persona che non apprezzano, senza che sia neppure in competizione con loro. In ambito universitario, per «blind peer review» s’intende una valutazione anonima scritta da uno studioso sugli articoli prodotti da un collega. La procedura si presta a legittimare attacchi dispettosi. Una recensione negativa può avere ripercussioni sulla carriera

altrui, soprattutto quando provoca la mancata accettazione dell’articolo. Il sistema consente inoltre ai revisori malevoli di non dover giustificare l’opinione proferita. Nella vita privata, a compiere soprusi di questo tipo sono le donne che ricordano la «Jolene» di Dolly Parton. La voce «narrante» di questa canzone è una donna innamorata di un uomo, ma meno bella di Jolene, alla quale dice: «Per favore, non prendertelo semplicemente perché ne sei in grado». Una mia amica una volta divideva la casa con una donna bellissima che regolarmente seduceva i mariti di altre donne non perché li desiderasse, o avesse in qualche modo intenzione di stare con loro, ma perché aveva una pessima relazione con la propria madre e malevolmente si divertiva a turbare la felicità di ogni donna sposata. La terza e ultima categoria aristotelica di offesa è la tracotanza. Secondo Aristotele, «la tracotanza consiste nel fare e dire cose che sono un’onta per chi le subisce non perché succeda chissà che di diverso da ciò che è accaduto, ma per provare piacere» 16. Il piacere in questo caso è provocato, dice Aristotele, dal senso di superiorità sugli altri che la persona arrogante ricava dal deriderli o maltrattarli. Il semplice fatto di sminuire il prossimo, parlandone male apertamente o dietro le spalle, fa sentire temporaneamente piú contento di sé l’individuo tracotante. Con notevole acutezza psicologica Aristotele osserva che chi ha bisogno di criticare gli altri in continuazione ha problemi di autostima. Tutti i modi di offendere che ricorrono al riso per svilire una cosa detta seriamente da un altro inducono a chiedersi quanto sia compatibile l’umorismo con i nostri tentativi di essere le Migliori Persone Possibili. Alla maggior parte di noi piace ridere, e piace far ridere gli altri. L’umorismo è un mezzo straordinariamente efficace in ogni tipo di situazione sociale, che rende i momenti critici piú facili da sopportare, sgonfia la pomposità e instaura legami a dispetto delle divergenze politiche. Ma per una cosa cosí bella devono proprio esistere dei limiti di utilizzo nella vita di una persona impegnata a praticare la virtú? Dipende tutto dalla nostra intenzione. La gente che mette in burla ogni cosa si preoccupa piú di strappare una risata che del «decoro del discorso», da una parte, e «di non offendere l’oggetto dello scherzo», dall’altra. All’estremo opposto ci sono gli individui mesti, costituzionalmente incapaci di essere loro stessi divertenti: giustamente «sono ritenuti rustici e duri» 17. La giusta via di mezzo è un umorismo frequente che non sia né indecente né offensivo. Questo tipo di umorismo gioioso non

sembra neanche costruito, dice Aristotele, ma è come se sgorgasse con autenticità da un carattere buono. La regola universale è soltanto una: fate unicamente le battute di cui sareste pronti a essere l’oggetto o l’ascoltatore. Immaginate una ragazza di famiglia rigidamente cristiana il cui femminismo può essere oggetto di ogni tipo di facezia da parte dei parenti piú stretti, a differenza delle credenze religiose del padre, che sono invece inviola-bili: non possono cioè essere impunemente prese in giro. Quando si tratta di battute, è fondamentale saperle accettare come saperle fare. Vale a dire, «Fa’ agli altri quel che vorresti fosse fatto a te» 18, come sosteneva la piú brutta delle due fate sorelle in I bambini acquatici (1863) di Charles Kingsley. Nel secondo libro dell’Etica eudemia, Aristotele presenta una preziosa tabella, in cui sono elencate varie qualità caratteriali. Per ogni caso indica la «virtú», che consiste nel possedere la qualità in questione nella giusta quantità, e i vizi corrispondenti ai due estremi opposti, quando cioè la qualità è presente in eccesso o quando ce n’è troppo poca. Chissà, magari un giorno, a Mieza, nella scuola che Filippo fece costruire per il filosofo in una bella vallata della Macedonia, Aristotele chiese al giovane Alessandro e ai suoi compagni di sedersi e fece loro usare la tabella come un test di personalità, per un esercizio di autovalutazione. Per quanto riguarda voi, potete usarla come una checklist per conto vostro oppure con un amico fidato che sia sincero con voi, ma non cercate di fare bella figura e non siate giudicanti 19. IN ECCESSO

IN QUANTITÀ APPROPRIATA

IN DIFETTO

impudenza incontinenza invidia guadagno prodigalità millanteria adulazione piaggeria mollezza vanità

pudore moderazione sdegno giusto generosità sincerità amicizia dignità fermezza d’animo magnanimità

timidezza insensibilità «senza nome» perdita avarizia dissimulazione animosità alterigia rudezza pusillanimità

fastosità scaltrezza

magnificenza saggezza

meschinità ingenuità

La virtú a cui Aristotele dedica maggior trasporto affettivo e vivacità espressiva è la generosità. I vizi correlati sono la prodigalità – lo spreco di denaro – da una parte, e l’avarizia, o parsimonia, dall’altra. So bene, come lo sanno i miei familiari, in quale direzione eccedo a questo riguardo. Spesso sono stata descritta come «troppo generosa» o «generosa fino all’eccesso»: è la stessa cosa che Aristotele avrebbe chiamato essere «prodighi» di denaro, spenderlo cioè irresponsabilmente e in modo non consono ai propri mezzi. È un vizio che mette in pericolo la vostra capacità non solo di essere finanziariamente autosufficienti, ma anche di prendersi cura di chi dipende da voi. San Francesco di Assisi può aver compiuto un nobile gesto donando il suo unico mantello a un povero mendicante, ma cosí facendo cadde malato e rischiò di non essere piú di aiuto a nessuno. L’esempio piú celebre di «generosità eccessiva» nella nostra cultura è il protagonista della tarda tragedia shakespeariana Timone di Atene, basata su un’antica storia greca probabilmente nota anche ad Aristotele. Timone è un ricco nobiluomo troppo generoso: paga i debiti degli amici che a causa dei debiti sono finiti in prigione, aiuta un uomo povero a sposare la sua amata, piú ricca di lui, e organizza feste e cene sontuose interamente a sue spese. L’eccessiva munificenza lo conduce inevitabilmente al fallimento. Deluso e avvilito dal mancato aiuto dei presunti «amici» adesso che è lui a essere caduto in miseria, Timone si ritira in una caverna per condurvi un’esistenza eremitica da amareggiato misantropo. Il dramma rende assolutamente chiaro che il problema non è costituito dalla generosità in sé, nobile e altruistico impulso, ma dal fatto che può essere facilmente sfruttata da falsi amici che non vi ricambieranno quando sarete nel momento del bisogno. Il fervore con cui Aristotele scrive riguardo alla spilorceria è tale da farmi pensare che avesse in mente qualcuno di preciso. Il padre Nicomaco, medico del ceto medio di Stagira, città della Grecia nordorientale, gli passava forse una paghetta che era un quarto di quella dei suoi compagni di scuola? O era magari Filippo II che, nonostante le splendide statue commissionate e i leggendari festini a base di alcol, chiudeva i cordoni della borsa quando si trattava dei suoi dipendenti? Aristotele si sofferma compiaciuto su alcuni

insulti idiomatici destinati al corrispettivo greco antico dello Scrooge di Charles Dickens: pheidolòs («sparagnino»), glischros (appiccicoso, che non gli stacchi i soldi di dosso) e kimbix («spilorcio»). Il migliore di tutti è kyminopristes 20, che alla lettera significa «uno che divide in due anche un seme di cumino», e mi fa pensare al proverbiale taccagno che lascia ad asciugare la bustina di tè per riutilizzarla. Probabilmente non conosceremo mai l’identità dello specifico dimezzatore di cumini di cui parla Aristotele, ma i diversi approcci retorici con cui lo Stagirita considera la virtú della generosità sono ancora applicabili. Uno di questi approcci, applicato alle persone ricchissime, è decisamente politico. Aristotele non reputa la ricchezza qualcosa di particolare. È qualcosa che possiamo usare, come altre cose che ci capita di avere, se la possediamo; e le cose possono essere usate bene o usate male. Aristotele afferma chiaramente che il buon uso della ricchezza dipende dalla generosità. Il super-ricco che non dà mai niente ai meno fortunati non può essere felice, perché impronta la propria vita al vizio dell’avarizia anziché alla virtú della generosità. L’uomo generoso si preoccupa anche di «dare a chi è opportuno» 21 nel momento opportuno, e dedica piú tempo a riflettere su questo problema che a preoccuparsi di arricchire. Aristotele riconosce che gli uomini virtuosi devono assicurarsi che le fonti della loro ricchezza siano oneste. Ma dal momento che i generosi non fanno gran caso alla ricchezza in sé, è improbabile che cerchino di ottenerla da fonti immorali. Le persone generose non chiedono di norma favori agli altri: «Non è degno di uno che agisce bene farsi beneficiare senza troppe distinzioni» 22. La generosità, scrive Aristotele, dipende dalle risorse individuali. Non valutiamo la generosità di un dono dal suo ammontare, ma dalle intenzioni e dal carattere del donatore. Una persona generosa considera attentamente quanto possiede e quale percentuale può permettersi di dare via senza nuocere al proprio benessere o a quello di chi dipende da lei. In un equivalente filosofico del racconto biblico dell’obolo della vedova, commentato da Gesú nei vangeli di Marco e di Luca, Aristotele ci dice che «quindi nulla impedisce che sia piú generoso chi dà di meno, se lo fa avendo un patrimonio piú piccolo» 23. Il principio della possibile virtuosità del piacere assume una forma particolarmente interessante nel caso della generosità. La persona generosa che agisce generosamente, ovvero con le persone giuste e al momento giusto,

lo fa «con piacere, o almeno senza dolore» 24. Ovviamente, se una persona dona per altri motivi (vengono in mente contesti di costrizione affettiva o di acquisizione del controllo su un altro individuo), non è in nessun modo generosa. Cosí come non lo è chi prova dispiacere nel dare via del denaro. Questa persona non lo farebbe se pensasse che la sua grettezza potesse passare inosservata. Aristotele comunque sottolinea che la persona veramente generosa è sempre esposta al «vizio» di elargire il denaro irresponsabilmente, fino a poter restare con meno denaro di coloro che beneficiano della sua generosità, «dato che è proprio del generoso non guardare a se stesso» 25. Aristotele ha riflettuto molto sulla taccagneria e sulle sue cause. «Si ritiene che siano piú generosi coloro che non hanno acquistato la loro ricchezza, ma l’hanno ereditata, infatti non hanno esperienza del bisogno» 26. Su questo punto non penso di essere d’accordo. Ho conosciuto uomini d’affari che si sono fatti da sé e che devolvono in cause meritorie quasi tutto il superfluo, e sono certa di aver conosciuto piú di un individuo patologicamente spilorcio nato con rendite personali considerevoli. Ciò non toglie che il suo ragionamento sia interessante. Aristotele ritiene che avere esperienza della povertà renda una persona piú tirchia (a differenza di altri filosofi dell’antichità, che pensavano che la deprivazione fisica potesse migliorare la vita spirituale, Aristotele non trova niente di positivo nella povertà). Probabilmente sta pensando alle opinioni di alcune di queste sette ascetiche quando osserva che un uomo generoso difficilmente resta ricco, dal momento che non è bravo né a far soldi né a tenerseli, ma tende a spendere e non stima le ricchezze per se stesse, ma perché le può donare. Per questo si biasima la sorte: perché quelli che ne sono piú degni hanno meno ricchezze. Ma ciò non accade senza ragione, infatti non è possibile avere ricchezze senza darsi da fare per averle, come per tutte le altre cose 27.

Secondo Aristotele, inoltre, chi si è fatto da sé è incline alla spilorceria anche perché «tutti amano ciò che è opera loro, come fanno i genitori e i poeti» 28. Aristotele ritiene che sia meglio sbagliare nel senso dell’eccessiva generosità, dato che si tratta di un difetto che «l’età e la povertà» 29 guariscono facilmente. Dal momento che la persona che spende troppo per gli altri è generosa, è possibile abituarla a donare il proprio denaro solo nelle

circostanze appropriate. L’eccesso di generosità «non è da cattivi o da persone ignobili, è da sciocchi» 30. L’avaro, invece, non è di beneficio per nessuno, neppure per se stesso, essendo impossibile rieducarlo alla pratica della generosità. Non vivrà mai bene, né mai raggiungerà la felicità. Aristotele si rammarica del fatto che per natura gli avari sono piú numerosi dei generosi, e molte sono le forme in cui l’avarizia può presentarsi. Alcune persone sono avare perché sono vecchie o soffrono di altre gravi debilitazioni, e sono perciò perdonabili. Altri individui sacrificano ogni scrupolo morale per prendere «tutto da ogni parte, come coloro che fanno mestieri ignobili, ad esempio i ruffiani e simili o gli usurai che dànno piccole cifre a grande interesse» 31. Aristotele sarebbe stato il primo a stigmatizzare usurai e aziende di carte di credito che incoraggiano le persone a spendere piú di quanto guadagnano e ad accumulare debiti, che devono poi essere ripagati a tassi d’interesse esorbitanti. Un terzo gruppo di avari è quello composto da chi accumula ricchezze enormi – Aristotele parla di «tiranni che saccheggiano le città e depredano i templi» 32. Filippo II, evidentemente, all’epoca in cui Aristotele si recò in Macedonia per fare da precettore ad Alessandro, aveva già compiuto la sua buona dose di saccheggi di città e accumuli di capitale, ma il re macedone fu in genere attento a conformarsi, quantomeno esteriormente, ai normali principî di pietà e a evitare sacrilegi. Ciò nonostante, sarebbe stato istruttivo trovarsi sulla passeggiata intorno al collegio reale di Mieza mentre Aristotele diceva ad Alessandro che i sovrani che si comportavano cosí avevano una colpa ben piú grave dell’avarizia: erano assolutamente malvagi. Lo Stagirita li colloca in una categoria quasi a sé stante rispetto a quella dei piccoli criminali come «il giocatore, il brigante e il ladruncolo», tutti certamente avari, che «amano il guadagno turpe» 33 e che pur di ottenere un profitto diventano insensibili alla riprovazione. Secondo Aristotele il giocatore è ancor piú biasimevole del brigante, che almeno deruba persone con cui non ha relazioni, mentre il giocatore «sfrutta gli amici, che sono invece persone alle quali si deve donare» 34. Gli amici non sono fatti per essere sfruttati. Se prendete denaro da loro, sia pure mentre giocate con loro, non resteranno amici a lungo. Aristotele ritiene che la qualità universalmente piú difficile da dosare nelle giuste proporzioni sia l’ambizione. In effetti, qualsiasi cosa facciate in termini di ambizione, sarete criticati: l’ambizione sembra essere un elemento

caratteriale particolarmente ambiguo. Possiamo essere lodati tanto per averla quanto per non averla: a volte «noi lodiamo l’ambizioso come se fosse virile e amante del bello, oppure lodiamo chi è troppo modesto come se fosse moderato e temperante» 35. Ma in altre circostanze le persone sono criticate per essere troppo ambiziose o per non esserlo a sufficienza. «Noi biasimiamo sia l’ambizioso, perché desidera onore piú di quanto non deve e da chi non deve, sia chi è troppo modesto, perché non si propone di essere stimato nemmeno per le belle azioni che ha compiuto» 36. Per «ambizione» Aristotele intende un desiderio di onore e di pubblico riconoscimento, e non il piú generale e lodevole desiderio di realizzare il proprio potenziale in quanto tale. Il desiderio di realizzare il proprio potenziale, di sviluppare al massimo il talento innato per diventare il miglior violinista, calciatore, genitore, giardiniere o scienziato possibile, deve essere invece caldamente incoraggiato e approvato in chiunque. Soltanto un critico accecato dall’invidia irrazionale può disapprovare un’altra persona per il fatto di eccellere in quello che fa. Quel che è difficile è monitorare i propri desideri di riconoscimento e gratificazione. Collettivamente, come società, ci piace accordare fama, premi ed emblemi di eccellenza alle persone di successo. Pensiamo ai premi letterari, agli Oscar, alle gare sportive, ai premi Nobel, alle onorificenze, alle copertine di «Time». Se riceviamo un riconoscimento del genere, non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nel goderne. Il problema sorge quando la sete di gloria subentra al desiderio di eccellere in quello che facciamo solo in quanto tale. Può succedere facilmente. La fama può stordire e dare assuefazione, soprattutto nell’arena politica, dove si allea con il potere reale. Gli antichi Greci lo sapevano bene: la tragedia preferita da Aristotele, l’Edipo re di Sofocle, ritrae un capo che un tempo aveva operato per il bene del popolo, ma che ha poi lasciato che il gusto del potere e il desiderio di essere considerato il capo piú intelligente e capace del mondo gli dessero alla testa. Nella cultura moderna, un esempio notevole ci viene offerto da Willie Stark, l’antieroe del romanzo del premio Pulitzer Robert Penn Warren Tutti gli uomini del re (1946), portato sul grande schermo nel 1949 e nel 2006. Stark diventa il narcisistico e corrotto governatore di uno Stato del Sud degli Stati Uniti, un uomo che si crogiola nella gloria acquisita come paladino dell’uomo qualunque e nell’ovazione scatenata dalla sua retorica incendiaria. Ma il romanzo di Warren sottolinea che Willie aveva iniziato la sua ascesa come sobrio e onesto avvocato di una provincia agricola. Fu solo quando fu

catapultato sul grande palcoscenico che la sua umiltà fu spodestata dall’ambizione di vedere il proprio nome cam-peggiare sulle prime pagine dei giornali. L’ambizione negativa – il desiderio di gloria – aveva preso il sopravvento sull’ambizione positiva, su quella cioè di guidare e rappresentare con onestà i propri concittadini. Oggi come oggi il desiderio di quella che chiamiamo «celebrità» è un tema ancor piú scottante di quanto già non fosse nell’antica Grecia. Ci sono infatti molte persone assolutamente prive di talento che bramano ardentemente la celebrità e la ottengono, almeno per un po’, per mezzo di reality televisivi, social network e riviste di gossip. Aristotele probabilmente direbbe che questi drogati di notorietà cercano «onore piú di quanto non devono e da chi non devono». È importante ricordare che la «modestia» può essere usata anche come pretesto per fustigare gli intenti altrui, in particolar modo quelli delle donne, che storicamente per la loro ambizione sono state criticate molto piú aspramente degli uomini, come è successo a Hillary Clinton in occasione delle elezioni presidenziali del 2016. Il punto dirimente in ogni caso è se la persona ambiziosa abbia perso o meno di vista la meta originaria sostituendola con il desiderio della massima visibilità. Gli standard comportamentali di Aristotele sono certamente esigenti, ma lo Stagirita capisce bene quanto sia faticoso identificare il «giusto mezzo» e restarvi fedele. Nella sua discussione delle virtú e dei vizi corrispondenti inserisce diverse osservazioni stimolanti relative a situazioni particolarmente delicate. Capisce ad esempio in modo straordinariamente chiaro come le esperienze di maltrattamenti nell’infanzia possano rendere difficile comportarsi nel modo opportuno. Fa l’esempio di un uomo trascinato in tribunale con l’accusa di aver picchiato il padre. Nell’arringa di difesa, l’imputato dice che anche suo padre «“ha picchiato il suo, e quello a sua volta ha picchiato l’avo” e poi, mostrando il figlio, “E questo picchierà me quando sarà uomo: per noi è un vizio di famiglia”» 37. Per un bambino cresciuto in una cultura familiare di violenza (per quanto il lettore odierno si stupisca che l’esempio di Aristotele riguardi un figlio che picchia i genitori e non un genitore che picchia il figlioletto), può essere impossibile controllarsi quando la stessa situazione si ripete attraverso le generazioni. Gli psichiatri sanno bene che il suicidio si ripresenta nelle famiglie anche perché il precedente fa sembrare quella scelta una reazione relativamente «normale» a stati anche temporanei di infelicità.

Non è mai troppo tardi per cambiare idea, secondo Aristotele. Se venite a conoscenza di nuove informazioni, o se la vostra risposta emotiva vi suggerisce di aver mal valutato la situazione, allora dovete cambiare atteggiamento o mutare il corso dell’azione intrapresa, per quanto in ritardo possiate essere. A tutti è successo di trovarsi in frangenti in cui una nuova informazione o una reazione emotiva hanno indotto a cambiare idea. Un mio amico che lavora in un’azienda aveva un tempo una protetta per cui stravedeva. Piú volte gli giunse notizia che la sua pupilla tiranneggiava un assistente. Dato che il mio amico non aveva mai avuto modo di notare questo aspetto della personalità della giovane, e poiché aveva investito tempo ed energie nella relazione, rifiutò per diversi mesi di prendere sul serio le accuse. Fu solo quando gli furono inoltrate le relative e-mail che gli si aprirono gli occhi. A tempo debito, l’ex protetta perse il lavoro. Aristotele sa bene quanto sia difficile restare sul sentiero della virtú di fronte alla forza dell’affetto o del desiderio. È un realista emotivo. Critica aspramente l’idea socratica secondo cui basta disporre di tutte le informazioni necessarie per non sbagliare mai, per non uscire mai dai binari. Sono tante le ragioni, sottolinea, che possono indurre a un passo falso anche gli individui piú dediti all’etica della virtú: per questo dovremmo essere piú comprensivi nei confronti di tutti. La passione, il desiderio, la rabbia e altre minacce alla perfetta padronanza di sé possono affliggere chiunque e compromettere la comprensione intellettuale delle situazioni. Da buon figlio di medico, Aristotele dice che «gli impeti, i desideri sessuali e alcune cose simili modificano, in modo evidente, la stessa condizione corporea, e in alcuni individui producono anche casi di follia». È chiaro quindi che si deve dire che chi non si domina «possiede la scienza» solo nello stesso senso con cui lo diciamo «di chi dorme, è folle o è ubriaco». C’è una grande distanza tra ciò che dicono, ciò che pensano e ciò che fanno, «come gli attori sulla scena» 38. L’estrema pressione psicologica esercitata dal dolore, dal trasporto passionale o dalla comicità di una situazione giustifica, secondo Aristotele, l’occasionale e temporanea perdita di controllo. Nel dramma di Teodette dedicato a Filottete, il protagonista veniva menomato dal morso di un serpente e urlava per l’atroce sofferenza: urlare in un simile frangente, dice Aristotele, è naturalmente comprensibile. Se venite a sapere, come successe a re Cercione, che vostro padre è andato a letto con vostra figlia (vale a dire con sua nipote), dalla quale ha avuto anche un bambino, ci sarebbe da stupirsi

se non deste in escandescenze. Nell’ultimo esempio di comprensibile perdita del dominio di sé, Aristotele parla di coloro che cercano strenuamente di trattenere il riso finché «all’improvviso scoppiano in una risata, vedi il caso di Senofanto» 39. Non conosciamo purtroppo la ragione dell’ilarità di Senofanto, ma è capitato a tutti noi di essere sopraffatti dal riso nella meno indicata delle occasioni. Al funerale di un parente di mio marito, la banalità e la pomposità del discorso pronunciato nel tempio crematorio dal prete che celebrava il rito mi resero impossibile mantenere un’espressione seria. Anche i migliori commettono sbagli e passi falsi. Scuse e autorecriminazioni non servono. Quel che conta è continuare a provare. L’esempio portato in proposito da Aristotele è particolarmente interessante, se si tiene conto della condanna senza appello da lui espressa in altre sedi nei confronti dell’adulterio, e mi ha indotta a chiedermi se egli abbia mai desiderato la moglie di un altro. Il desiderio estremo, dice il nostro filosofo, può spingere un uomo a commettere adulterio, ma un isolato sbaglio impulsivo non pianificato non trasforma un uomo che è sempre stato assolutamente fedele in quello che a ragione possiamo definire un adultero. Per quanto mi riguarda, ho elaborato la regola personale di concedere a tutti, in questi casi di errori impulsivi, una seconda chance, ma non una terza. È possibile portare avanti una relazione con chi commette un errore, sempre che poi ascolti il dolore che ha provocato e prenda la decisione di non farlo piú: le persone che vi feriscono due volte allo stesso modo, però, sono lupi che non perdono il vizio. L’etica della virtú è cosí ricca e sofisticata da poter impegnare davvero per tutta la vita chi la fa propria. Aristotele ammette che trovare il meson delle nostre azioni è difficile. Le reazioni estreme sono molto piú facili di quelle accuratamente modulate. Nel secondo libro dell’Etica nicomachea si serve a questo proposito di un paragone con la geometria. È «difficile essere un uomo eccellente, infatti è difficile cogliere il punto centrale in ogni singolo caso, per esempio trovare il centro di un cerchio non è da tutti, ma è proprio dell’esperto in geometria» 40. Può darsi che abbiate bisogno di riflettere per trovare l’adeguata risposta mediana in ogni situazione, e che sarà necessario esercitarvi a metterla in pratica, come un bambino impara a trovare il centro di un cerchio o la lunghezza dell’ipotenusa. E Aristotele a questo punto prosegue con altre immagini:

E cosí è alla portata di tutti, ed è anche facile, arrabbiarsi, donare ricchezze o spendere, ma farlo con chi è giusto, nella misura giusta, quando è giusto, per lo scopo giusto, e come si deve, questo non è piú né alla portata di tutti né facile 41.

Aristotele offre ancora qualche consiglio supplementare su come riconoscere in ogni circostanza il virtuoso punto mediano e – quel che piú conta – su come aderirvi con coerenza. Il primo è l’importanza di ricordare che anche un atteggiamento generalmente considerato una virtú può trasformarsi in un problema, se portato all’estremo. Se riceviamo grandi complimenti per una comune virtú, ricordiamoci l’ingiunzione di Delfi, «nulla di troppo». Aristotele cita in proposito il mito di Niobe, che perse tutti e quattordici gli amati figli per essersene vantata appena un po’ troppo. È possibile amare troppo anche i propri genitori: l’esempio in questo caso è quello di un uomo di nome Satiro, che rimase talmente sconvolto dalla morte del padre da commettere suicidio. Il secondo consiglio è tenere presente che tra i due vizi relativi a una data virtú ce n’è sempre uno peggiore dell’altro. Per esempio, Aristotele ritiene che sia meglio avere le mani eccessivamente bucate che essere spilorci, per quanto l’optimum sia una consona generosità. È meglio sminuirsi che essere presuntuosi, per quanto la cosa migliore sia una valutazione accurata dei propri risultati e un loro onesto ma non ostentato riconoscimento. Per aiutare il lettore a ricordarsi di questo principio, Aristotele offre un bell’esempio tratto dall’Odissea, che i suoi allievi conoscevano bene: «Colui che tende al giusto mezzo deve per prima cosa tenersi lontano da ciò che è piú contrario, proprio come consiglia Calipso: “Fuori da questo fumo e fuori dal vortice tieni la nave”» 42. Aristotele non ricorda perfettamente il passo dell’Odissea (XII, 219), che in realtà viene pronunciato da Ulisse, quando riferisce al suo pilota il consiglio datogli dall’altra ninfa con cui ha avuto una relazione, ovvero Circe. Era stata lei ad avvertirlo del fatto che il gorgo Cariddi era piú pericoloso del mostro che stava nei pressi, il serpentino Scilla. Cariddi avrebbe sommerso la nave, facendo perire l’intero equipaggio. Scilla avrebbe ghermito qualche uomo (nella circostanza ne divorerà sei), ma altri sarebbero sopravvissuti. Scilla, come l’eccessiva generosità o la falsa modestia, è il minore dei due mali. Il terzo consiglio è comprendere gli errori mettendoli in rapporto con le virtú e con i vizi per cui avete maggior propensione. Sotto questo aspetto

ognuno è fatto a suo modo: un mio distinto collega non maltratta nessuno meno potente di lui, ma è notoriamente e ingiustificatamente aggressivo «ai piani alti», nei confronti di chi ha piú potere di lui. In questo caso il piacere e il dolore che avvertiamo possono esserci di aiuto: se sappiamo che stiamo sbagliando e che non troviamo la via «di mezzo», la direzione verso cui sbandiamo è in genere quella che ci dà il piacere piú intenso. I rapporti sessuali adulterini, per esempio, sono probabilmente ben piú piacevoli della totale rinuncia al sesso, situata all’estremo opposto. Il meson è scegliere il sesso monogamico, che può dare meno piacere del sesso adulterino ma sulla lunga distanza rende piú felici. Rispetto alle esperienze universali di questo genere, Aristotele si rivela quanto mai lucido e sincero. Una volta riconosciuta la direzione che prende la nostra deviazione dal meson, identificata anche in base al piacere che proviamo, «dobbiamo spingerci nella direzione opposta, poiché allontanandoci molto dall’errore perverremo al giusto mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti» 43. I timonieri che non sono sicuri di saper tenere la rotta mediana muovono la barra volutamente verso il pericolo minore; i carpentieri osservano con attenzione la direzione verso cui il legno si curva per sua natura, in modo da correggere il problema. Il quarto suggerimento cerca di aiutarci nel difficile compito di «spingerci nella direzione opposta». È l’espediente che ho chiamato «mettere Elena al bando». In un suggestivo passo dell’Iliade, gli anziani di Troia gettano lo sguardo sulla bella Elena a passeggio lungo le mura, riconoscendone la straordinaria avvenenza (III, 156-60): «Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti, | per una donna simile soffrano a lungo dolori: | terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali». Come molti moderni psicoterapeuti, Aristotele ci incoraggia a guardare in faccia i nostri oggetti del desiderio. Negare l’intensità del vostro desiderio di quella relazione extraconiugale o di quel quinto bicchiere di vino non vi aiuterà a rifiutare né l’una né l’altro. Gli anziani, tuttavia, proseguono dicendo: «Ma pur cosí, pur essendo sí bella, vada via sulle navi, | non ce la lascino qui, danno per noi e per i figli anche dopo!» 44 Gli anziani sapevano che la presenza di Elena a Troia, pur con tutto il piacere che aveva arrecato ai Troiani, era la causa della guerra e minacciava il loro benessere a lungo termine. La decisione giusta, che avrebbe contribuito molto di piú alla loro felicità permanente, era restituirla ai Greci e porre fine alla guerra.

Riconoscere che cosa vi dà il maggior piacere, e quindi chiedervi in che modo questo comportamento vi impedirebbe di perseguire razionalmente la felicità, può aiutarvi a trovare il sentiero di moderatezza che porta una persona a essere virtuosa e di conseguenza felice. Aristotele invita in effetti a ripetere a se stessi questi versi omerici ogni volta che sentiamo il bisogno di appagare una voglia che non ci porterà niente di buono. Scoprire qual è l’Elena di Troia della vostra vita può risultare di massimo giovamento: se riuscite a mettere Elena al bando, la vostra personale città di Troia potrà prosperare, invece di finire distrutta dalle fiamme. 1. Aristotele, Politica cit., 1252a, pp. 289-90. 2. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1103b, II, 1, p. 49. 3. Ibid., 1125a, IV, 8, p. 149. 4. Ibid., 1124b, IV, 8, p. 149. 5. Frammento di Aristotele citato in Eusebio di Cesarea, Preparazione del Vangelo, 15, 2, 11. 6. Aleksandr Puškin, Mozart e Salieri, in Mozart e Salieri e Il convitato di pietra, a cura di Roberto De Simone, Einaudi, Torino 2006, pp. 1-15 (p. 6). 7. Ibid., p. 7. 8. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1126a, p. 155. 9. Ibid. 10. Ibid. 11. Ibid., 1126a, IV, 11, pp. 155-57. 12. Ibid., 1125a, IV, 8, p. 149 [trad. modificata]. 13. Aristotele, Retorica cit., 1378a, II, 2, p. 155. 14. Ibid., 1379b, II, 2, p. 165. 15. Ibid. 16. Ibid., 1378b, II, 2, p. 157. 17. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1128a, IV, 14, pp. 163-65. 18. Charles Kingsley, I bambini acquatici [1863], trad. it. di Rosa Fumagalli, Giunti Marzocco, Firenze 1987 3, p. 66. 19. Per la tabella, cfr. Aristotele, Etica eudemea cit., 1220b-1221a, II, 3, p. 89. 20. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1121b, IV, 3, pp. 132-33. 21. Ibid., 1120a, IV, 1, p. 127. 22. Ibid., 1120a, IV, 2, p. 127. 23. Ibid., 1120b, IV, 2, p. 129. 24. Ibid., 1120a, IV, 2, p. 127. 25. Ibid., 1120b, IV, 2, p. 129.

26. Ibid. 27. Ibid. 28. Ibid. [trad. modificata]. 29. Ibid., 1121a, IV, 3, p. 131. 30. Ibid. 31. Ibid., 1121b, IV, 3, p. 135. 32. Ibid., 1122a, IV, 3, p. 135. 33. Ibid. [trad. modificata]. 34. Ibid. 35. Ibid., 1225b, IV, 10, pp. 151-53. 36. Ibid., p. 151. 37. Ibid., 1249b, VI, 7, pp. 279-81. 38. Ibid., 1147a, VII, 5, pp. 267-69. 39. Ibid., 1150b, VII, 8, p. 285. 40. Ibid., 1109a, II, 9, p. 73 [trad. modificata]. 41. Ibid., pp. 73-75. 42. Ibid., p. 75. 43. Ibid., 1109b, II, 9, p. 75. 44. Omero, Iliade, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963, libro III, vv. 156-60, p. 97.

Capitolo sesto Intenzioni

«Lodiamo e biasimiamo tutti gli uomini guardando alla scelta piú che alle opere», scrive Aristotele 1. A volte deve essere considerata soprattutto l’intenzione soggiacente piú che il fatto effettivamente avvenuto. In situazioni moralmente complesse, se le vostre intenzioni sono buone, è occasionalmente legittimo usare mezzi discutibili per raggiungere il vostro fine virtuoso. La necessità di fare una brutta cosa per uno scopo lodevole dipende dalla situazione di costrizione in cui vi trovate. Sotto coercizione, la maggior parte dei genitori mentirebbe, ruberebbe o userebbe violenza se la loro intenzione fosse di salvare i figli da un danno o da una sofferenza. Aristotele mostra un’assoluta comprensione, «poiché gli uomini talvolta compiono azioni cattive essendovi costretti» 2. La costrizione può assumere forme diverse, la piú estrema delle quali è costituita da qualcuno che minaccia di morte o di persecuzione un vostro caro. Aristotele si serve qui di due esempi semplici. Primo: dare un pugno è un’offesa se l’intenzione era oltraggiare l’uomo colpito o dare piacere a chi ha sferrato il colpo. Ma un pugno non ha niente di colpevole se l’intenzione è l’autodifesa. Secondo: prendere qualcosa all’insaputa del proprietario può essere un furto, se l’intenzione è tenersela e cosí facendo danneggiare il legittimo possessore. Ma se prendete l’auto di un altro per trasportare la vittima di un attacco cardiaco all’ospedale e dopo riportate la vettura, è ovvio che non si tratta di furto. Siete stati costretti, in base al principio che salvare una vita è una cosa buona. Le lezioni di «etica avanzata» di Aristotele presentano tre dilemmi morali nei quali l’intenzione può essere spesso l’unica vera guida per l’azione. Primo: è possibile sbagliare per omissione. Secondo: dire la verità è, di prassi e in linea di principio, la scelta migliore. Terzo: i principî generali di comportamento e la giustizia, o la parità, devono essere temperati da un’equità piú flessibile e adeguata al singolo caso. Aristotele pone l’accento su individualità e autonomia del soggetto, sulla sua libertà di scegliere di agire virtuosamente anche quando tutti gli altri si comportano male. È probabile che si sia formato queste idee anche in risposta alle incessanti lotte

intestine di cui fu testimone alla ricca corte macedone di Pella sia durante l’infanzia sia tra il 343 e il 336 a.C., mentre era precettore di Alessandro. Scontri di potere, omicidi, estorsioni, costrizioni, inganni, sotterfugi e paranoie connotavano tutte le relazioni di corte. Ma in qualche modo Aristotele riuscí a conservare la sua integrità. Probabilmente la scelta morale piú difficile è quella tra l’agire e il non agire. Avete paura che il bambino della porta accanto sia picchiato dai genitori: contattate i servizi locali per l’assistenza all’infanzia o tacete, nel timore di esservi sbagliati? Un collega sta sottraendo i fondi dell’azienda: lo comunicate ai vostri superiori o vi tenete alla larga dalla faccenda, per timore di passare per spia? Il dilemma ha conosciuto una memorabile illustrazione nel film di Jonathan Kaplan Sotto accusa (1988), prima pellicola a esplorare l’ingiusto trattamento a volte riservato alle donne vittime di violenza che cercano di ottenere un risarcimento per via legale. Quattro studenti universitari violentano una cameriera in un bar. Uno dei quattro ha un amico, che è presente e non fa nulla per impedire lo stupro, sebbene resti sgomento di fronte a ciò a cui assiste. Il ragazzo si riscatta telefonando alla polizia e denunciando l’accaduto. La sua testimonianza avrà un ruolo importante nel procedimento giudiziario. Aristotele è il primo filosofo morale ad aver compreso che l’uomo può commettere un torto anche per omissione, oltre che per commissione. La formulazione piú sintetica di questa idea è riportata nel terzo libro dell’Etica nicomachea: In ciò in cui dipende da noi l’agire, dipende da noi anche il non agire, e in ciò in cui dipende da noi il no, dipende da noi anche il sí. Di modo che se l’agire, quando è bello, dipende da noi, dipenderà da noi anche il non agire, quando il non agire è turpe 3.

Al giorno d’oggi i rischi sono maggiori che non ai tempi di Aristotele. Anche l’antica Grecia conosceva il concetto e la figura dell’intrigante impiccione, che ficca indebitamente il naso nelle faccende private altrui, ma le persone riservate che se ne stavano per conto loro venivano in effetti guardate con sospetto. Mentre noi potremmo lodare i cittadini tranquilli che non si espongono mai, gli antichi Greci consideravano l’esistenza appartata come un comportamento egoista e immaturo oltre che un ripudio della responsabilità sociale verso il resto della comunità. Ma anche i termini di cui

disponiamo per indicare l’avvio di un’azione morale, o l’intervento per opporsi a un’ingiustizia, hanno spesso connotazioni negative. La leadership è spesso dipinta come esibizionismo o arrivismo. In inglese non esistono parole che significhino «interferire» in senso positivo, con l’unica eccezione del relativamente neutro «intervenire»; mentre esiste un’ampia varietà di verbi che dànno all’intervento una connotazione di colpa (immischiarsi, intromettersi, impicciarsi). La questione si fa ancor piú delicata per le donne, per le quali tenere un basso profilo in pubblico, e preferibilmente anche dietro le mura domestiche, è stato ritenuto storicamente ben piú lodevole dell’impegno in materie comunitarie o di pubblico interesse. Da bambini, tutti noi abbiamo dovuto fare delle scelte tra intervenire e in pratica colludere restando zitti, quando vedevamo bambini «impopolari» maltrattati da bulli nel cortile della scuola. Nel nostro quotidiano di persone adulte, ci troviamo tutti di fronte a situazioni analoghe. Vi fate sentire quando vedete un genitore picchiare il figlio o urlargli contro? Lasciate correre quando gente in perfetta forma salta cinicamente la fila passando davanti a un fragile pensionato? O quando un aitante giovanotto non cede il posto sulla metro a una signora incinta di otto mesi? Può essere difficile intervenire, perché la tipica reazione difensiva di fronte al vostro intervento è darvi dell’impiccione sputasentenze o dirvi che siete un puritano che gioca a fare il censore dei costumi. Il punto è se vi preoccupate di piú di ciò che gli autori di questi quotidiani oltraggi alla correttezza e al vivere civile pensano di voi o delle vittime di queste persone. Aristotele aveva ragione a trattare l’omissione morale alla stessa stregua della commissione, e a pensare che sul letto di morte non saranno le cose fatte a indurci il rammarico. A farci rammaricare saranno le cose che non abbiamo fatto. Ai nostri giorni questo fondamentale principio etico viene invocato di rado, tranne che nell’etica medica a proposito dell’opportunità morale di interrompere le cure mediche e «lasciare» morire un paziente. In questo caso l’omissione può essere lodevole, se aiuta un paziente con una malattia terminale a morire con minori sofferenze. Ma una parte fin troppo grande del nostro odierno codice morale, soprattutto rispetto alle figure pubbliche, è interessata principalmente a chiedersi se le persone hanno mai fatto un passo falso o un errore. I politici sono esaminati attentamente per ciò che riguarda gli errori commessi, ma raramente per ciò che non hanno fatto per migliorare

le condizioni del popolo che si propongono di governare. Non facciamo abbastanza domande su quello che politici, capitani d’industria e rettori universitari hanno mancato di fare, sulle iniziative che non hanno preso, sui modi in cui sono cosí venuti meno alle responsabilità del loro ruolo di guida. Secondo la tradizione antica, Alessandro Magno, ogni giorno in cui sentiva di non aver realizzato attivamente qualcosa di costruttivo nella sua funzione di sovrano, si lamentava avvilito: «Oggi non ho regnato». Chissà, doveva aver appreso dell’omissione morale dal suo precettore Aristotele. A partire da Aristotele, i filosofi hanno imperniato l’analisi dell’omissione su alcuni noti casi ipotetici. Ad esempio, chi pur sapendo nuotare non interviene in soccorso di una persona che sta annegando; o il ricco che non autorizzerebbe mai la repressione violenta dei poveri in rivolta, ma che li lascia morire di fame; o ancora il genitore che non denuncia alle autorità l’altro genitore che abusa del figlio. Commettere il male per omissione, per un aristotelico, comprende anche la mancata assunzione della propria piena responsabilità. Per meglio comprendere «la fattiva e colpevole omissione di assunzione di responsabilità» è forse utile considerare il modo in cui la legge inquadra i reati di omissione, sui quali le legislazioni dei diversi Paesi assumono varie posizioni. Per quanto l’omissione volontaria di denuncia dei redditi imponibili e dei patrimoni possa costituire reato, cosí come la mancata comunicazione intenzionale di informazioni relative ad attività terroristiche, la legge britannica è stata storicamente molto restia a riconoscere la denunciabilità per un’azione non compiuta. La situazione giuridica riflette la predominante tendenza britannica a celebrare la vita privata e il quietismo civile. L’ideale del detto «La casa di un inglese è il suo castello» continua a ostacolare i tentativi di riformare la legge e le pratiche di polizia in casi di stupro all’interno del matrimonio, di punizioni impartite ai figli e di «violenza domestica» (espressione orribile, che lascia intendere che la violenza in questione sia di natura qualitativamente differente dalla violenza che un cittadino può infliggere a un altro per la strada o in un bar). Anche nel Regno Unito, comunque, esistono alcune situazioni in cui l’omissione è stata iscritta a reato. La parentela stretta comporta una serie di obblighi riconosciuti ad agire per il bene del congiunto. In quanto genitori, potete essere processati per non aver nutrito o per avere in altro modo trascurato il vostro bambino, in caso di

danno o di morte di quest’ultimo; familiari conviventi di persone infortunate, rimaste prive delle cure mediche necessarie, sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio colposo per negligenza grave. La stipula di un contratto fra due persone può comportare una responsabilità penale in caso di mancato rispetto degli obblighi contrattuali: ad esempio, se siete stato assunto specificatamente come bagnino in una piscina e non avete cercato di salvare un bagnante che stava affogando perché durante il turno eravate fuori a fumare una sigaretta. Anche creare una situazione di pericolo ed esporre a rischi altre persone può essere causa di provvedimenti giudiziari: appiccare, sia pure accidentalmente, un incendio in una casa e andarsene senza avvisare i pompieri, pur sapendo che altri inquilini vivono nell’abitazione, rientrerebbe chiaramente in questo caso. Ma anche in queste situazioni estreme e apparentemente chiare la distinzione tra negligenza casuale (per quanto grave) e intenzionale può essere dubbia, come Aristotele ben sapeva. Se un impiegato di banca o un padrone di casa non informano la polizia circa i movimenti finanziari o l’occupazione di un alloggio di un terrorista loro cliente, come valutare se stanno volutamente nascondendo delle prove o hanno semplicemente troppe cose a cui pensare per occuparsene? Quando una madre non dà da mangiare al suo bambino fino a farlo morire di fame, come possiamo decidere se intendeva ucciderlo o se è «soltanto» responsabile di negligenza grave, in particolare qualora la competenza genitoriale fosse compromessa da una tossicodipendenza, un deficit intellettivo o un disturbo psichico? Aristotele avrebbe sicuramente sottolineato che stabilire il grado di dolo è fondamentale. Credo però che avrebbe anche rilevato le gravi lacune del diritto britannico riguardo alle condotte omissive. Ad esempio resta a tutt’oggi assolutamente poco chiaro se un adulto che sappia (o sospetti) che un bambino sia vittima di abuso, e che non sia un genitore del bambino, possa essere denunciato per non aver segnalato la situazione alle autorità. Fortunatamente la maggior parte di noi non dovrà mai trovarsi in situazioni cosí estreme, ma ci sono decine di lavoratori dipendenti che hanno perso il posto, o comunque opportunità di carriera, per aver deciso di rendere pubbliche, nel pubblico interesse, informazioni che screditavano persone o comportamenti dell’azienda per cui lavoravano. Nel 2014 il cardiologo Raj Mattu vinse finalmente la sua battaglia legale contro il proprio licenziamento senza giusta causa. Era stato sospeso dal suo incarico per otto anni, e nel

2010 definitivamente licenziato, per aver reso pubbliche le prove del fatto che i tagli finanziari imposti da un ospedale di Coventry mettevano i pazienti in pericolo di vita per sovraffollamento. Per farlo tacere il Servizio sanitario nazionale si era dato straordinariamente da fare: investigatori privati assoldati per scovare ogni informazione che potesse screditarlo, milioni di sterline spesi per azioni legali contro di lui. Ne soffrirono la sua carriera, le sue entrate, la sua reputazione e di conseguenza la sua salute e la sua vita privata. Raj Mattu si prese la responsabilità di agire, per dirla con Aristotele, «quando il non agire è turpe». Fu coraggioso e ammirevole. Non tutti ne abbiamo la stoffa; inoltre potrebbero esserci persone che dipendono economicamente da noi, e renderebbero improponibile rischiare il posto in nome dei nostri principî. In casi simili siamo costretti a decidere quale dovere «prevale» di fatto sull’altro. Ma nel caso di chi invece avesse meno da perdere? Aristotele sostiene con convinzione che alcuni tipi di azione virtuosa richiedano conoscenze, sicurezza finanziaria o potere politico. Di conseguenza, se avete la fortuna di disporre di questi ausili alla vostra sicurezza e tranquillità, non intervenire per una giusta causa è molto piú esecrabile. Quando valutate i super-ricchi, le celebrità mediatiche, i politici, gli aristocratici o semplicemente i colleghi di lavoro piú anziani, non chiedete soltanto se siano riusciti a tenersi fuori dai guai. Chiedete quali enti di beneficenza abbiano sovvenzionato, quali posizioni abbiano assunto per quali cause – come abbiano sfruttato i loro enormi vantaggi sociali. Ci sono stuoli di personaggi famosi e senza molto da perdere che non hanno mai levato la voce in difesa dei poveri, degli oppressi o dell’ambiente. Pensare in modo critico alle omissioni, oltre che alle cose fatte, può rendere piú completa la valutazione delle persone che ci domandano ammirazione e approvazione. L’accento messo da Aristotele sulle intenzioni soggiacenti alle azioni si estende anche alla sua posizione sul problema del rapporto tra mezzi e fini. La tesi secondo la quale esisterebbero situazioni in cui un risultato desiderabile può essere assicurato soltanto da atti riprovevoli ci porta in una delle zone d’ombra piú grigie della filosofia. Si tratta infatti dell’argomento usato per giustificare molte azioni militari, ad esempio il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki: le decine di migliaia di morti provocate da quelle bombe avrebbero evitato un numero assai maggiore di vittime, qualora fosse stato necessario intraprendere un’invasione terrestre su vasta scala del

territorio giapponese. Il problema è che nessuno può sapere che cosa sarebbe successo se non fosse stato fatto ricorso alle bombe atomiche. Il capo dello staff del presidente Truman, ammiraglio di flotta William Daniel Leahy, giunse alla conclusione che l’utilizzo di quest’arma barbara a Hiroshima e a Nagasaki non si rivelò del minimo aiuto nella nostra guerra contro il Giappone. I giapponesi erano già sconfitti e pronti alla resa in ragione dell’efficacia del blocco navale e del successo dei bombardamenti con armi convenzionali 4.

E ci fu anche un’altra sventurata conseguenza: il ricorso alle armi nucleari mise di fatto in moto la corsa agli armamenti della Guerra fredda. Aristotele, però, avrebbe valutato la decisione di sganciare le bombe atomiche concentrandosi non sull’esito possibile, ma sull’intenzione che ne era alla base. Fu una decisione militare o una decisione politica? Molti critici dei bombardamenti effettuati su città giapponesi prive di valore bellico e piene di civili hanno sostenuto che anche se Truman può essere stato indotto a credere di agire allo scopo di diminuire le morti e le sofferenze complessive, l’intento primario dei suoi consiglieri di Washington era testare la nuova tecnologia (anche loro rimasero colpiti dall’inatteso numero di morti per radiazioni) e mandare un avvertimento a Iosif Stalin e all’Unione Sovietica. Truman, probabilmente, avrebbe dovuto diffidare maggiormente delle reali intenzioni dei suoi consiglieri. Un altro caso estremo di ricorso all’intenzione come criterio di valutazione della legittimità di metodi discutibili è stato messo in scena da Philippe Claudel nel 2008, nel suo commovente Ti amerò sempre. Juliette (Kristin Scott Thomas) sconta quindici anni di carcere per l’omicidio del figlioletto di sei anni. Poco a poco, lo spettatore scopre che si è trattato di un’eutanasia: Juliette era un medico, e aveva somministrato un’iniezione letale al figlio, quando il piccolo giaceva ormai immobilizzato da una malattia mortale che gli avrebbe procurato sofferenze atroci in caso di morte naturale. In tribunale, però, Juliette aveva preferito non fare parola e non servirsi di questa circostanza, pensando evidentemente di «meritare» una lunga detenzione, a prescindere dal suo intento altruistico. La scoperta di questa intenzione avviene tuttavia in tempo per aiutarla in ciò che adesso le preme: il cognato, che era stato il piú restio a permetterle di vedere le proprie

figlie, alla fine accetta di buon grado la sua presenza come loro zia. Per quanto riguarda il dire o meno la verità, ognuno di noi affronta il dilemma mezzi / fini quasi tutti i giorni. Mentire è stressante, a tal punto da provocare alterazioni fisiologiche, che sono quelle, fra l’altro, che rendono possibile il funzionamento della macchina della verità. È qui che si radica la diffusa sensazione intuitiva, comune a ogni cultura, che, pur essendoci rare occasioni in cui la menzogna è giustificabile, mentire va contro i propri interessi. Dire il falso raramente conduce alla felicità sia coloro che lo fanno sia chi interagisce con loro. Questa intuizione trova sostegno teorico nell’etica aristotelica. Le discussioni di Aristotele su bugia e verità sono molto raffinate. Lo Stagirita, a differenza di Platone, non crede che esista una verità trascendente, né che la verità detenga uno status metafisico o sia intrinsecamente un bene. Credeva però eccome che per Vivere Bene fosse necessario elaborare e applicare una strategia coerente su sincerità e slealtà. Aristotele aveva un’idea particolare delle persone che sono «fedeli a se stesse», authekastos, letteralmente «ognuno se stesso». Gli individui che sono fedeli a se stessi hanno caratteri coerenti, sono sicuri di sé, si comportano con tutti allo stesso modo e non si preoccupano piú di tanto dell’opinione che gli altri hanno di loro. Sotto questo aspetto assomigliano al «magnanimo» ideale, che si contraddistingue per «mostrare apertamente i suoi odi e le sue amicizie» e per «preoccuparsi piú della verità che della buona fama» 5. È piú facile dormire la notte sapendo di non avere scritto mail, tweet o post di Facebook di cui doverci vergognare davanti a qualcuno. Offrire la stessa – vera – versione degli eventi a tutti sottopone la memoria a una tensione molto minore che non tentare di ricordare a chi è stata detta quale bugia. È semplicemente sensato decidere di non dire né scrivere mai nulla che non sareste pronti, se necessario, a rendere pubblico. Una mia collega espresse alcune critiche relative al suo direttore mentre chiacchierava al pub con un altro collega. Quest’ultimo l’ascoltò e poi la minacciò di andare dal direttore a riferire ogni cosa. Al che lei poté rispondergli di fare pure, dal momento che al direttore gliel’aveva già detto in faccia, e con parole ben piú forti. Una persona che cerca di Vivere Bene, secondo Aristotele, dirà la verità quando è in ballo qualcosa d’importante, come ad esempio in un processo, rispetto a situazioni piú informali con amici e familiari. Se mentite in queste circostanze importanti, probabilmente state usando la menzogna per commettere un’oggettiva ingiustizia. L’ingiustizia per Aristotele è

indissociabile dalla slealtà. Pensiamo ad esempio a un costruttore che menta per raggirare la persona che lo assume insistendo per essere pagato per il tempo che ci mette a fare il lavoro anziché a forfait, e precisando poi che il lavoro sarà di quattro settimane pur sapendo che ce ne vorranno otto. Per altro verso, la persona che lo assume può comunicare il falso all’autorità tributaria per evitare di pagare tasse sulla cifra versata al costruttore. In entrambi i casi le bugie sono illeciti piú gravi di semplici menzogne: sono infatti strumenti fondamentali per commettere gravi ingiustizie. Queste menzogne sono parte integrante di azioni che recano effettivo danno non solo ad altri individui, ma all’insieme della comunità. Anche la sincerità come modo di vita, e nelle situazioni prive di particolare importanza, è oggetto per Aristotele di uguale interesse. Aristotele ha analizzato in discreto dettaglio le persone che ricorrono alla menzogna per vanagloria (nell’antica Grecia l’autopromozione era una componente importante della mascolinità, e nell’Iliade si discute molto sulla misura entro cui è opportuno vantare, o esagerare, i propri successi). La vanteria, anche quando è una menzogna, può non recare gran danno se resta una spacconata raccontata in un pub davanti a una pinta di birra, a beneficio dei presenti e di semplici conoscenti. Può anche avere però serie ripercussioni: nessuno si farebbe operare da una persona che abbia dichiarato falsamente di essere un chirurgo qualificato. Aristotele tuttavia è affascinato dalle banali frottole raccontate da chi si mette in mostra per vizio radicato: «Chi fa mostra di avere piú qualità di quante ne possieda, senza alcun secondo fine, è ritenuto una persona dappoco, altrimenti non avrebbe piacere di dire il falso, ma sembra un tipo vano, piuttosto che cattivo» 6. Dire di avere un handicap piú basso a golf, o di essere molto piú in alto nella gerarchia dell’azienda in cui si lavora, è una bugia riprovevole, dice Aristotele, non un reato grave. Un terzo gruppo di millantatori, invece, è assolutamente da condannare. Sono le persone che lo fanno per denaro, o per ciò che attiene al denaro. Qui non si tratta di essere una persona abitualmente immodesta incline a una certa esagerazione. Qui si tratta di una scelta deliberata. A volte un individuo si comporta cosí, sa bene Aristotele, semplicemente per il divertimento che gli dà la sua capacità di manipolare gli altri in grossi affari di soldi («gode del mentire in sé» 7) – oggi lo chiameremmo bugiardo «patologico». Per altri l’unico movente è l’avidità o la brama del guadagno. Costoro mentono quando dicono alla vecchietta che

stanno truffando di essere venuti a controllare il contatore della luce, e poi commettono reato quando se la svignano con i suoi candelieri d’argento. Ma Aristotele crede che la verità sia di per sé intrinsecamente buona? Lo Stagirita non afferma che non ci sia mai una situazione in cui chi è impegnato a Vivere Bene non sia costretto a ricorrere alla falsità. Ha una visione molto piú pratica: dire la verità va incontro al proprio illuminato interesse. Aristotele si sofferma, ad esempio, sull’idea che una persona normalmente sincera, essendo tale per carattere, sarà piú probabilmente degna di fiducia nelle situazioni che contano. «Chi è amante della verità, se dice la verità nei casi in cui il farlo non porti grandi conseguenze, la dirà, anche di piú, nei casi in cui ciò è rilevante, ed eviterà la menzogna, stimandola turpe, dato che la evita anche quando non ha conseguenze dannose» 8. Se vi siete abituati a dire la verità, è piú probabile che la diciate quando la posta in palio, per voi stessi o per altri, è elevata. Se avete la reputazione di dire la verità, ve ne torneranno in seguito dei vantaggi. Quando conterà, gli altri si fideranno della vostra parola. Tuttavia, poiché nel valutare un’azione deve sempre essere considerata l’intenzione, ci sono molti tipi di situazione in cui mentire deliberatamente può essere non solo giustificabile, ma necessario. Il film italiano La vita è bella (diretto e interpretato da Roberto Benigni), del 1997, descrive le continue bugie che un padre ebreo, Guido, racconta al figlioletto, Giosuè, in un campo di concentramento, allo scopo di aumentare al massimo le probabilità di sopravvivenza del ragazzo. Guido spiega a Giosuè che stanno facendo un gioco a premi in cui il bambino deve superare delle prove per guadagnare dei punti. Le prove sono, ad esempio, non chiedere cibo, non piangere, non dire di volere la mamma. Non attirare l’attenzione delle guardie assicura punti extra. La finzione protegge il ragazzino da tanta sofferenza e al momento debito gli salva la vita. I bambini imparano a mentire per quello che ritengono essere il proprio vantaggio fra i tre e i quattro anni: il trucco qui sta nell’insegnare loro che il contesto è fondamentale. Mentire a chi ha a cuore il loro interesse non sarà di nessun giovamento. Ma mentire a chi intende danneggiarli, controllarli o deprivarli potrà esserlo eccome. La piú grossa bugia che ho detto, che Aristotele avrebbe ritenuto assolutamente scusabile, fu per difendere i miei figli dal Programma di vaccinazione del ministero per l’Istruzione dell’Illinois. Avevo studiato accuratamente le prescrizioni ufficiali, e prima di

entrare negli Stati Uniti per un soggiorno di sei mesi avevo fatto fare ai miei figli tutte le vaccinazioni richieste. E avevo con me tutti i certificati necessari. Ma il giorno in cui ci presentammo all’ufficio iscrizioni della scuola, l’infermiera di turno ci disse che le vaccinazioni britanniche non erano valide, in quanto l’Illinois aveva decretato dei tempi di richiamo leggermente diversi da quelli prescritti in Inghilterra. Ci fu detto che i bambini dovevano rifare tutte le vaccinazioni (ripetizione sicuramente azzardata da un punto di vista medico) oppure sarebbero stati esclusi dalla scuola per tutti i tre mesi che dovevamo trascorrere nell’Illinois. Appurato che nessuna obiezione razionale riusciva a persuaderla, finsi un’improvvisa conversione religiosa a una setta che riteneva illegale l’intervento medico. Non sapevo abbastanza dei Testimoni di Geova per risultare convincente, ma mi passò per la testa per chissà quale motivo il nome di Ulrich Zwingli (non credo che il protestantesimo radicale svizzero di tipo zwingliano avesse in realtà una qualche idea sulla vaccinazione, ma all’epoca nessuno parve preoccuparsi di questo dettaglio). Mio marito capí che cosa stavo facendo e dichiarò che anche lui era di colpo diventato un convinto zwinglita e come tale aborriva ogni intervento umano nell’attuazione della volontà di Dio nei nostri organismi fisici. Da qualche parte nell’Illinois c’è un documento firmato da tutti e due che asserisce questi scrupoli religiosi assolutamente inventati. L’infermiera era seccata, ma non aveva scelta, e ammise i bambini a scuola seduta stante. Il punto qui è una questione di mezzi e di fini. Naturalmente il suddetto ufficiale sanitario non intendeva sottoporre i miei figli a un’inutile doppia dose di iniezioni immunitarie, e neppure privarli per tre mesi dell’istruzione. Ma non fece uso della sua discrezionalità e lasciò che l’ottusità burocratica la trattenesse dall’esaminare i certificati medici che mi ero portata dalla Gran Bretagna. Rifiutò anche di considerare applicazioni piú flessibili di una regola che era stata stabilita senza pensare ai bambini che fossero venuti a studiare nell’Illinois dal resto del mondo. L’inflessibilità dell’infermiera rispetto a una norma applicata con assoluta uniformità dal sistema della pubblica istruzione dell’Illinois mostrava come essa aderisse a un principio di eguaglianza, ma non di equità. Al di fuori delle cerchie specialistiche dei filosofi del diritto, il tema dell’equità è poco compreso e discusso oggigiorno, pur essendo fondamentale per la giustizia. La fondamentale analisi aristotelica dell’equità è inserita nel suo discorso

sulla giustizia, all’interno dell’Etica nicomachea. Aristotele afferma che «l’equo è giusto, ma non lo è secondo la legge, al contrario è una correzione del giusto legale» 9. L’equità, cioè, non sostituisce la giustizia secondo il diritto, ma la migliora e la completa. Aristotele sostiene che le leggi devono presentare asserzioni universali, ma «su certi argomenti non è possibile pronunciarsi correttamente in forma universale» 10. La caotica realtà delle scelte etiche umane non può essere affrontata in modo adeguato da attacchi preventivi di ordine giuridico. Le leggi sono fatte pensando a ciò che è appropriato alla maggioranza dei casi, una caratteristica che inevitabilmente genera possibilità di iniquità in una minoranza di situazioni. L’equità è necessaria perché la vita è complicata, e le reazioni alle persone che si comportano male devono essere modulate a seconda delle particolarità della situazione. La gente si comporta male per motivi di ogni genere, ammette Aristotele. A volte il torto è deliberato e del tutto condannabile, ma a volte ci sono importanti fattori che devono essere tenuti in considerazione. Ad esempio, l’intenzione soggiacente. La Juliette di Ti amerò sempre, di cui abbiamo parlato in precedenza, negò al giudice e alla giuria il diritto di appellarsi all’equità nell’emissione della sua condanna, non dicendo loro la vera ragione per cui aveva ucciso il figlio. Psicologicamente, si comportò cosí perché era «troppo dura con se stessa», e di fatto negò a se stessa il diritto a un giudizio equo, ritenendo che la pena prevista per l’omicidio di un figlio fosse in qualche modo adeguata al suo caso eccezionale. Altre giustificazioni per una sentenza clemente potrebbero essere la povertà del trasgressore, l’età avanzata, un deficit intellettivo, un’istruzione inadeguata, la vulnerabilità a impulsi passionali ed emozioni, lo stato di salute, il grado di pentimento e le probabilità di recidiva. Per spiegare che cosa intenda per equità, Aristotele introduce una delle sue analogie piú brillanti. Applicare regole prestabilite secondo un criterio temperato dall’equità è come misurare una pietra con un regolo non rigido, ma fatto di un materiale che può essere curvato. I muratori di Lesbo, ci dice, misurano le pietre curve con regoli flessibili di piombo. Usano le unità di misura prestabilite, ma ottengono una lettura molto piú accurata perché possono seguire la curva della pietra – «si adattano» alle sue curve, come un buon giudice adatterà le leggi basate su principî universali ai particolari di una situazione morale specifica. Il metro di piombo flessibile di Aristotele è di enorme importanza al

giorno d’oggi, in cui troppo spesso prevale l’idea che regole, leggi, politiche e anche tradizioni familiari debbano essere sostenute con incrollabile uniformità. Il risultato inevitabile è che l’equità autentica viene sostituita da un appello insistito all’adozione di una «taglia unica», senza curarsi dell’iniquità e di altre conseguenze negative che essa comporta. Al tempo di Aristotele, la religione tradizionale sosteneva l’inflessibilità delle sanzioni. La parola primordiale per giustizia era dike, che indicava la legge cosí come era amministrata dal sommo Zeus: nella tragedia è dike a prescrivere che Oreste deve uccidere sua madre in quanto assassina di suo padre, senza curarsi della complessità delle circostanze. Un personaggio di una tragedia di Sofocle afferma che la divinità «non conosce né grazia né opportunità, [ma] cura soltanto e semplicemente la giustizia [diken]» 11. Nella nostra società moderna l’esempio piú chiaro di regole problematiche quanto inflessibili è dato dalle automatiche o obbligate pene detentive, che non lasciano ai giudici nessuno spazio per considerare le circostanze attenuanti e adattare la sanzione ai principî di equità. Questo a sua volta conduce occasionalmente alla ribellione di giurie che si rifiutano di dichiarare colpevole l’accusato, pur sapendo che ha commesso il reato. Qualche anno fa in Inghilterra una giuria dichiarò innocente un imputato di omicidio, nonostante questi avesse ammesso di aver ucciso l’uomo che aveva assassinato sua figlia e che viveva in una strada vicina. Il punto era che a causa di una serie di errori nelle indagini e dello smarrimento delle prove materiali sarebbe stato impossibile dichiarare colpevole l’assassino della bambina e condannarlo all’ergastolo, ragion per cui il padre della piccola vittima si era sentito costretto a «farsi giustizia da sé». I giurati esercitarono una loro ragionevolezza collettiva, essendo consapevoli degli spazi che possono venire a crearsi per l’iniquità nel momento in cui norme universali sono applicate a singoli casi specifici. Essi quindi agirono equamente, facendo ricorso alla loro discrezionalità e decidendo in modo tale da impedire un’ingiustizia non prevista e non voluta dagli autori della legge sull’omicidio: la detenzione di un padre a cui è stata uccisa una figlia e che si è visto tradito dalle inadeguatezze dell’attività di polizia. L’equità è una componente indispensabile di una piena giustizia. Il concetto semantico alla radice del termine usato da Aristotele per indicare l’«equità», epieikeia, è eikos, che indica ciò che è plausibile o appropriato. È la pena che dovrebbe essere adeguata al reato, e non il reato a

doversi conformare alla pena, come avveniva alle vittime del leggendario Procuste, che allungava o amputava gli arti dei malcapitati viandanti per uniformare i loro corpi alla «taglia unica» del suo letto. Ma all’epoca di Aristotele i Greci associavano spesso il termine epieikeia a un’altra parola, ovvero al verbo che significa «cedere» o «adattarsi», a qualcosa o a qualcuno. L’equità cioè veniva generalmente associata a un approccio di indulgenza, a un «curvarsi» pietoso verso il reo, motivato dalla presenza di circostanze attenuanti. Nella storia dell’equità giuridica, tuttavia, un importante caso giudiziario in cui si fece appello alle idee di Aristotele riguardò il problema provocato dal fatto che la legge cosí com’era non rendeva la vita abbastanza difficile al criminale in oggetto. Nel 1880 Francis B. Palmer redasse un testamento con il quale lasciava la maggior parte del suo patrimonio al nipote Elmer. La figlia di Francis doveva badare al capitale fino a quando suo figlio Elmer non avesse raggiunto la maggiore età. A sedici anni Elmer, nel timore che il nonno potesse cambiare le sue volontà, lo avvelenò. Anche se Elmer poteva essere processato per omicidio, nello Stato di competenza (quello di New York) non esistevano leggi che gli impedissero di ricevere il lascito a tempo debito. Nel 1889 la madre impugnò il testamento in una causa civile, e con un verdetto di maggioranza, sostenuto da un richiamo ai principî di equità di Aristotele, vinse la causa. Naturalmente l’argomento piú importante contro l’equità è che non possiamo essere costretti a dipendere dall’integrità e dalla discrezionalità di chi deve applicarla. Se le leggi sono state fatte con l’intento di promuovere l’uguaglianza, dobbiamo stare davvero molto attenti a permettere che vengano applicate con flessibilità. Non c’è espressione migliore per questo monito di quella pronunciata dallo storico e parlamentare inglese del Seicento John Selden, che disse che «l’equità è una furfanteria» che «dipende dalla coscienza di chi è il cancelliere» 12. Selden faceva notare che non usiamo le dimensioni del piede del cancelliere in carica come misura di lunghezza, dal momento che i piedi dei cancellieri hanno misure variabili: «Un cancelliere ha il piede lungo, un altro il piede corto, un altro ancora ha un piede normale; lo stesso vale per la coscienza del cancelliere». Ma Aristotele avrebbe ribattuto che non possiamo lasciarci sfuggire tutti i vantaggi di una giustizia autentica soltanto perché alcuni individui non sono all’altezza delle sfide morali poste dall’equità. Aristotele chiude la sua analisi sottolineando come

l’equità, al pari della capacità di deliberare, sia una qualità eminentemente umana. Una qualità che gli dèi arbitrari della mitologia classica non potevano né capire né apprezzare, trovandola anzi ridicola. Oggi il potente strumento dell’equità può sicuramente esserci di aiuto, se ci troviamo a prestare servizio da giurati, o a operare come magistrati, insegnanti, esaminatori, o in qualsiasi ruolo adibito a prendere decisioni per premiare il merito, punire i colpevoli o valutare le competenze. Per i genitori, in particolare per quelli che sono alle prese con le richieste e i bisogni conflittuali di piú di un figlio, l’equità trova un’importante applicazione domestica. Possiamo immaginare che se avessimo due figli dovremmo lasciare a ciascuno l’esatta metà del nostro patrimonio, ma se uno è gravemente disabile e avrà bisogno vita natural durante di cure particolari, e se la nostra intenzione è di curarci di entrambi in modo adeguato, penseremo probabilmente che un accordo veramente equo dovrà tenere conto delle condizioni diverse dei nostri due figli. Le filosofe femministe hanno recentemente sviluppato questa idea, derivata dall’equità aristotelica, proponendo la nozione di un «pensiero materno» operante sia a livello sociopolitico sia a livello domestico. A cittadini diversi spettano forme di cura e di assistenza diverse, e non può esserci autentica equità in una società che assegni a tutti i cittadini identiche risorse: a ciascuno secondo i suoi bisogni. Nella vita sono poche le scelte facili, ma aggiungere l’equità alle nostre intenzioni quando in gioco ci sono la giustizia e l’uguaglianza può aiutarci incommensurabilmente a fare del nostro meglio ogni volta che cerchiamo con fatica una via percorribile nella giungla etica dell’esistenza quotidiana. 1. Aristotele, Etica eudemea cit., 1228a, II, 11, p. 112. 2. Ibid. 3. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1113b, III, 7, p. 95. 4. William D. Leahy, I Was There, Whittlesey House, New York 1950, p. 441. [N.d.A.]. 5. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1124b, IV, 8, p. 149. 6. Ibid., 1127b, IV, 13, p. 161. 7. Ibid. 8. Ibid. 9. Ibid., 1137b, V, 14, p. 215. 10. Ibid. 11. Sofocle, Frammenti, in Id., Tragedie e frammenti, a cura di Guido Paduano, Utet, Torino

1982, vol. II, pp. 833-1059 (fr. 770, p. 1013). 12. Table Talk of John Selden, a cura di Frederick Pollock, Quaritch, London 1927, p. 43.

Capitolo settimo Amore

La felicità è sempre stata dipendente dalle relazioni personali. Può darsi che l’amore non sia l’unica cosa che «fa girare il mondo», ma certamente è una delle piú importanti. Tutti noi ci siamo confrontati in qualche momento della nostra vita con la necessità di scegliere quali persone amare e il modo in cui amarle. Sebbene abbiamo poche possibilità di scelta fino all’età adulta per quanto riguarda i familiari stretti, fin dalla scuola primaria scegliamo di quali compagni di classe o dei giardini diventare amici. Gli amici stretti assumono un’enorme importanza tra i dieci e i tredici anni, ovvero nel periodo in cui impariamo a instaurare legami profondi fuori di casa. Giunge poi l’entusiasmo per la scoperta della sessualità, del romanticismo, della prima relazione «amorosa», segnata cioè da quello che chiamiamo «innamoramento». Ma la costruzione delle relazioni d’amore è solo una parte della storia; sapere quando porre fine a una grande amicizia, o quantomeno quando declassarla da intima a semplicemente cordiale, è un problema che prima o poi tocca tutti. Pochi di noi raggiungono la mezza età senza litigare con qualcuno che amiamo, genitori, figli o fratelli compresi. Un amico da una vita può d’un tratto rivelarsi una persona sleale o interessata. Una grande percentuale di matrimoni e convivenze si conclude in divorzi o in loro equivalenti. Come fare quindi per rendere massime le nostre possibilità di trovare la felicità nelle relazioni intime con gli altri? Certo, Aristotele riconosce il potere del sesso, ma se la sua lunga e dettagliata discussione sull’amore (philia) e sulle relazioni personali appare cosí sorprendentemente moderna è perché non tratta i rapporti sessuali come intrinsecamente eccezionali o qualitativamente distinti rispetto ad altri legami amorosi. Le relazioni che comprendono il sesso sono solo una sottospecie della categoria di philoi, un termine per il quale la traduzione «amici» risulta spesso troppo debole. Gli stessi principî di base si applicano sia alle amicizie sessuali (come ad esempio il matrimonio o altri accordi analoghi) sia a quelle non sessuali. Tutte le relazioni con le persone che amiamo esigono impegno e fatica, ma il premio di questa fatica è inestimabile.

Per Aristotele l’amore è un elemento essenziale della vita umana. Molti di noi vagheggiano amori di ogni genere che sorgono spontaneamente e quasi per magia, ma Aristotele sapeva che è una questione di grande lavoro. Lo Stagirita inizia la sua descrizione della società umana partendo da quella che ritiene «l’unione piú naturale» 1 e primaria, ovvero l’unione coniugale. L’unione coniugale è una forma di amicizia estremamente intensa tra voi e la persona che sposate, o con cui scegliete di vivere stabilmente. Aristotele ha in mente un marito e una moglie eterosessuali, uniti per mutuo sostegno, con sfere complementari di competenza. Uomo e donna hanno bisogno l’uno dell’altra per riprodurre la razza umana e «non è possibile che la femmina senza il maschio o il maschio senza la femmina raggiungano questo scopo; perciò la loro unione ha luogo per necessità» 2. Aristotele non tratta mai delle unioni omosessuali, per quanto certamente neppure mai le condanni. Approva il discorso pronunciato da Aristofane nel Simposio di Platone, nel quale gli esseri umani sono divisi secondo tre tipi di unioni erotiche: donna / uomo, donna /donna e uomo / uomo. Il punto, per Aristotele, non è che una di queste sia intrinsecamente sbagliata, ma che qualsiasi tipo di sentimento amoroso coltivato eccessivamente al di fuori della famiglia può risultare socialmente destabilizzante. Inoltre Aristotele riferisce, in tono di approvazione, la storia d’amore omosessuale tra Filolao (uomo di Stato) e Diocle (campione olimpico di corsa veloce). Dopo molte tribolazioni, i due amanti riposano serenamente in due tombe una accanto all’altra, vicino a Tebe. Se teniamo conto di queste due occorrenze, è molto probabile che oggi Aristotele sarebbe stato aperto al dibattito sulle convivenze omosessuali. La sua convinzione è che la convivenza abbia a che fare con ben di piú che il sesso e la procreazione. Aristotele dice che tra gli animali inferiori questi tipi di attaccamento primario esistono «solamente al fine della procreazione» e durano solo per il tempo necessario a questo scopo. Negli animali piú evoluti e piú simili all’uomo, «la loro unione si articola meglio (mostrano infatti maggiore propensione all’aiuto reciproco, all’affetto e alla cooperazione)» 3. Ma questa complessità è accentuata soprattutto negli esseri umani, tra i quali la cooperazione della coppia va molto al di là del rapporto fisico, per quanto incantevole tale rapporto possa essere, poiché in questo caso «la femmina e il maschio si aiutano a vicenda non solo per vivere, ma per vivere bene» 4. Nell’etica di Aristotele sono poche le regole categoriche, ma l’adulterio è considerato assolutamente inaccettabile. Il motivo è che il tradimento del

coniuge o del partner mina alle fondamenta la fiducia, a sua volta alla base di ogni amicizia riuscita. Al pari del furto e dell’omicidio, insiste Aristotele, l’adulterio è universalmente aborrito: «In casi di questo genere il bene e il suo opposto non consistono, ad esempio, nel commettere adulterio con la persona appropriata, nel momento e nel modo appropriati, ma in assoluto il compiere una qualsiasi di quelle cose è sbagliare» 5. Nell’opera di Aristotele possiamo trovare una grande mole di consigli indiretti relativi al matrimonio / convivenza, dal momento che tutte le sue osservazioni sull’amicizia profonda possono essere applicate anche al matrimonio. Il matrimonio, per lui, si distingue dall’amicizia intima soltanto (per quanto fondamentalmente) per l’intensità del coinvolgimento e per l’investimento condiviso nell’allevamento della prole. La stessa osservazione vale anche per gli stretti legami tra genitori, figli e fratelli: la differenza tra queste relazioni e l’amicizia extrafamiliare è solo una differenza quantitativa, di grado e d’intensità. A questo proposito, la storia di vita di Aristotele è rivelatrice. Aristotele perse i genitori nella prima adolescenza. Visse molti anni da non sposato, sia prima sia dopo la morte della prima moglie Pizia, dalla quale ebbe una figlia, di nome Pizia come la madre. Successivamente, dopo diversi anni di vedovanza, ritrovò la felicità con una donna di nome Erpillide, anch’essa stagirita. Non la sposò, e questo lascia pensare che la donna fosse una schiava o comunque una persona di rango inferiore, non una cittadina a pieno titolo. Ma riconobbe la paternità del figlio avuto da lei, Nicomaco, a cui rivolse o dedicò la sua Etica nicomachea. Aristotele adottò anche un nipote, Nicanore, figlio di sua sorella. Le sue ultime volontà mostrano quanta cura dedicò alla protezione degli interessi di Erpillide e dei tre figli. Ma coltivò con energico impegno anche una cerchia di amici fedeli, tra cui soprattutto Ermia, governatore del regno di Asso, nella Turchia nordoccidentale, con cui trascorse due anni dopo aver lasciato l’Accademia, e il collega Teofrasto, che lo aiutò a fondare il Liceo. Quando scrive sulle relazioni familiari e sull’amicizia intima, la perspicacia delle sue osservazioni suggerisce che Aristotele stia scrivendo per esperienza personale, per quanto riguarda sia i legami riusciti sia le delusioni profonde. Nell’attuale era di Facebook, spendiamo la parola «amico» con una disinvoltura che ne svilisce il concetto. Gli individui ambiziosi accettano come «amici» sui social media persone che non intendono assolutamente

conoscere, ma che vogliono avere come «fan». Diventa allora illuminante rileggere l’elogio della vera e profonda amicizia con cui Aristotele apre l’ottavo libro dell’Etica nicomachea: [L’amicizia] è un aspetto estremamente necessario della nostra vita, dato che nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni […] L’amicizia è d’aiuto ai giovani per evitare gli errori, ai vecchi per avere chi si prenda cura di loro e come rimedio all’incapacità di agire dovuta alla debolezza, a chi è nel fiore degli anni per [aiutarlo nel]le belle azioni 6.

L’intera nostra esistenza trae giovamento dalle persone che ci vogliono bene, che per Aristotele sono coloro che hanno a cuore i nostri principali interessi, e non i loro. Questo amore generoso è radicato nella natura: «Si ritiene che per natura vi sia affetto nel genitore per la sua progenie e nella progenie verso chi li ha generati, e ciò non solo tra gli uomini, ma anche tra gli uccelli e nella maggior parte degli animali; [e] che vi sia anche affetto reciproco tra gli animali della stessa specie» 7. È un punto importante, perché il filosofo cinico Diogene, contemporaneo di Aristotele con cui spesso Aristotele concorda, insisteva sul fatto che i vincoli tra esseri umani fossero deviazioni dalla natura, di cui non c’era traccia nel mondo animale. Ma Aristotele, che aveva studiato assiduamente gli animali fino a diventare il riconosciuto padre fondatore della zoologia, ribatteva che i legami amorosi erano naturali. L’unica differenza è che l’affetto intra-specie, osservabile per esempio nelle relazioni tra i cani o in quelle tra gli uccelli, si presenta con particolare forza «soprattutto tra gli uomini, e da ciò derivano le lodi per i filantropi. Anche nelle spedizioni si può vedere come ciascun essere umano senta vicino a sé, e quindi amico, ogni essere umano» 8. Tutti noi abbiamo vissuto il piacere di momenti di identificazione carichi di emozione intensa. Io, ad esempio, ne ricordo uno con una donna somala, che ad Atene, nonostante parlassimo lingue diverse, mi aiutò con il mio passeggino su un autobus affollato, e rise di gioia per i moti di simpatia che il mio piccolo le rivolse. Lo studio dedicato da Aristotele all’amicizia non ha precedenti nella cultura greca. Ed è di gran lunga piú raffinato di quasi ogni altra teoria dell’amicizia prodotta in seguito. Aristotele infatti pensa che fondamentalmente esistano tre categorie di amicizia. È utile provare a

immaginare dove ogni amico troverebbe la sua collocazione in questa griglia. È un esercizio che può aiutare a liberarvi dagli amici interessati, ad accettare la fine di amicizie ormai infrante, a scegliere meglio gli amici e a impegnarvi ulteriormente per tenervi stretti quelli piú promettenti. E vi farà rimpiangere ancor di piú la morte prematura degli amici veri, dopo tutto l’impegno profuso nella relazione. Come spiega Derek Walcott nella sua eloquente Canne marine: Metà dei miei amici sono morti. Di nuovi te ne do, disse la terra. No, ridammeli invece come erano, con i difetti e tutto, io gridai 9.

Aristotele la pensava allo stesso modo. Lo Stagirita infatti afferma che la morte di un grande amico di lunga data sia uno degli eventi piú difficili che l’uomo è chiamato ad affrontare. Ma riconoscere la grandezza di ciò che avete perso può farvi apprezzare di piú quello che avete e aiutarvi in futuro a investire con saggezza in nuove serie amicizie. Alcune amicizie – la maggior parte, probabilmente – ci sono semplicemente utili. Anche gli animali stringono amicizie per interesse, come lo sono quelle tra uomini e animali domestici. Tra due animali l’amicizia è possibile, anche quando appartengono a specie differenti. Aristotele ricorda che gli uccelli caradriformi aiutano i coccodrilli a pulirsi i denti, mentre i denti del coccodrillo, in questa contingenza, offrono ai caradriformi una fonte di cibo. Non c’è niente di sbagliato in un’amicizia per utilità. Tu gratti la schiena a me e io gratto la tua, o accompagno i tuoi bambini a scuola quando sei malata. Sia voi sia la vostra amica ricavate qualcosa di buono dalla relazione. L’amicizia è una forma di scambio sociale. Allo stesso modo, i buoni rapporti con il vicino possono essere utili per entrambe le parti. Ognuno dà un’occhiata alla casa dell’altro quando l’altro parte. Potete dare la pappa al gatto o al cane dell’altro. Ritirate voi la posta del vicino assente, e il vicino ricambierà. Potete condividere notizie o informazioni locali importanti, che possono essere d’interesse per entrambi. La fiducia è fondamentale, e quando vi accorgete che il vostro «amico in vista dell’utile» è inaffidabile, siete autorizzati a smettere di dispensare le cortesie a cui lo avevate abituato. Se la vicina vi fa morire di fame il criceto,

non vi vendicherete di certo sui suoi gattini, ma non le offrirete piú di prendervene cura. Molte amicizie in vista dell’utile si basano sulla somiglianza. È utile coltivare relazioni amichevoli con i pari (compagni di classe e di scuola, colleghi di lavoro, altri neogenitori), con coloro cioè che hanno esigenze, risorse e posizioni simili alle nostre. Data la parità di condizione, la relazione è in genere basata anche sull’uguaglianza: nessuna parte ha molto piú potere dell’altra. E quello che sperate di ottenere dalla relazione è pressappoco di eguale valore. Aristotele inserisce in questa categoria di amicizia i nostri contatti all’estero, che possono esserci di aiuto quando andiamo a visitare i loro Paesi o in qualche modo ci abbiamo a che fare, e a cui noi prestiamo aiuto quando vengono nel nostro. L’amicizia di utilità è fondamentalmente un accordo pragmatico, che non richiede neppure di passare fisicamente molto tempo con l’amico. Aristotele osserva che questo tipo di amicizie è ricorrente fra gli anziani, che negli aspetti pratici della vita hanno maggior bisogno di aiuto dei giovani o di chi è nel fiore degli anni, ma che spesso non trovano neanche piacevole la compagnia dei loro amici di questo genere, «e quindi non sentono il bisogno di frequentarsi, quando non risultino utili» 10. Possono anche esserci però amicizie di utilità fra persone dissimili, e qui Aristotele si concentra sulle pressioni che questo genere di asimmetria esercita sull’amicizia. Potete instaurare un’amicizia di «utilità» con la persona che avete assunto per aiutarvi a guardare i figli, e da quest’amicizia può nascere un affetto reciproco. Ma quello che offrite alla babysitter (in genere denaro) è diverso da quello che la babysitter offre a voi (la cura dei bambini). Nella mia veste di docente universitaria, stringo amicizie «in vista dell’utile» con i miei studenti mentre seguono i miei corsi. Queste amicizie spesso riproducono la relazione genitore-figlio, dato che io sono piú grande e li aiuto nel loro percorso di maturazione. Ma c’è anche un aspetto finanziario di cui tenere conto, dal momento che il desiderio degli studenti di frequentare i miei corsi contribuisce in ultima analisi a pagare il mio salario. Per quanto l’amicizia di utilità sia sostenuta da una transazione, è tuttavia possibile che in molti casi si sviluppi un affetto reciproco fondato su questa fiducia. Ma non possiamo aspettarci un sostegno che vada al di là della transazione reciprocamente concordata. Molte amicizie di utilità si rovinano quando una parte decide unilateralmente di passare a un altro livello, e resta quindi delusa quando l’amico di utilità non passa le notti insieme, non presta denaro o non

accompagna l’interessato a un centro di disintossicazione. Aristotele ha ragione quando afferma che gli amici di utilità possono non arrivare a conoscersi bene; l’amicizia spesso finisce, senza rammarichi, quando termina la somiglianza fra le vostre vite: quando ad esempio lasciate la scuola, l’università, il posto di lavoro, o il gruppo di mamme e bebè. Aristotele fa l’esempio dei compagni di viaggio, che si associano per un tratto del percorso «in vista di qualche bene e per procurarsi qualcuna delle cose utili alla nostra vita» 11, ma che poi si separano senza traumi. La maggior parte della nostra vita come esseri sociali è occupata da amicizie di utilità. Queste amicizie comportano però anche regole di base, prima fra tutte quella di evitare pettegolezzi negativi o maldicenze relative ad altri membri del gruppo dei pari. Per rispettarla basta cambiare argomento quando vengono fatte osservazioni negative. Ci sono molti modi per rovinare un’amicizia di utilità: aspettarsi troppo dall’altro, invaderne l’intimità senza essere stati invitati a farlo, ma anche «condividere troppo», confidando in modo inopportuno particolari della propria vita privata. La seconda categoria considerata da Aristotele è quella delle amicizie basate sul piacere. Sono amicizie che resistono piú a lungo quando i due amici ricavano dalla relazione sensazioni analoghe. Aristotele porta l’esempio di due persone spiritose che si ritrovano volentieri perché ognuno sa far ridere l’altro. Potete avere diversi amici con cui vi dedicate alla vostra passione per il teatro, per i musical, o per le corse dei cavalli, e altri con cui vi godete un bicchiere di vino: ciò non significa che potete chiedere loro di darvi una mano in altre dimensioni della vita, né che voi avete ulteriori obblighi nei loro confronti. I giovani scambiano spesso il profondo piacere sperimentato con un amico per un segno che l’altro è una persona di equivalente forza e lealtà morale. Ma molte persone affascinanti che possono migliorare veramente la vostra vita come amici di piacere non potranno mai essere piú di questo. Aristotele vede certamente giusto quando fa notare che la fascia di età piú incline all’amicizia di piacere è quella dei giovani: L’amicizia tra i giovani, a quanto pare, tende al piacere, dato che i giovani vivono seguendo le loro passioni e, in primis, perseguono non solo il loro proprio piacere, ma il loro piacere immediato. Quando l’età cambia anche le cose piacevoli diventano altre, e per questo i giovani diventano amici in poco tempo e in poco tempo rompono l’amicizia, perché l’amicizia muta contemporaneamente al mutare di ciò che loro piace 12.

Anche le storie d’amore passeggere, che Aristotele considera semplicemente un sottotipo di amicizia per il piacere, sono diffuse soprattutto fra i giovani. I giovani sono predisposti a instaurare amicizie basate sul piacere perché sono socievoli e facili prede di impulsi emotivi. Spesso si può osservare una certa asimmetria nel piacere provato dalle due parti in causa: «Amante e amato […] non godono delle stesse cose, ma l’uno gode nel vedere l’altro, e il secondo gode nell’essere corteggiato» 13. Qui il problema consiste nel fatto che se l’amicizia è fondata sull’apprezzamento della bellezza fisica, questa amicizia è destinata a spegnersi con lo sfiorire della bellezza (conosciamo tutti alcune mogli, e anche alcuni mariti, lasciati dal partner quando hanno perso la loro bellezza). C’è comunque una speranza per questo tipo di relazione, a patto che riesca a svilupparsi in un rapporto piú simmetrico, basato sul reciproco apprezzamento del carattere dell’altro. È un’evoluzione realmente possibile, riconosce Aristotele, ma solo quando le due parti in causa siano persone dello stesso valore morale. Trovate un partner da sposare a cui piacete per le vostre qualità permanenti, e che vi piaccia per lo stesso motivo. È sorprendente quanto poche siano le coppie che prima di avviare una relazione seria abbiano parlato almeno una volta con franchezza di come si immaginano il loro futuro insieme. Se uno dei vostri fini è crescere dei bambini, non ha molto senso scegliere per la vita un partner che non ha questo obiettivo. Se siete estremamente concentrati sulla carriera, difficilmente le cose potranno funzionare con un partner che non può accettare la quantità di tempo e di energie che dedicate al lavoro. È questo il motivo per cui i matrimoni combinati spesso funzionano, dal momento che impegni e progetti comuni costituiscono parte integrante dell’accordo formale stipulato. Nadiya Hussain, vincitrice nel 2015 del popolare talent show televisivo per pasticceri dilettanti The Great British Bake Off, ha raccontato di come s’innamorò gradualmente di suo marito, sposato quando aveva solo diciannove anni con un matrimonio combinato dai loro genitori. Nadiya si rese conto di esserne «innamorata» solo dopo che ebbero messo al mondo due figli e lei capí quanto andasse d’accordo con il carattere del compagno. Ebbe modo di osservarne da vicino il comportamento e di apprezzare le solide virtú morali di cui diede prova dopo essere diventato padre. Le stesse considerazioni possono valere per il

profondo amore che unisce lo scrittore C. S. Lewis e Joy Davidman nel film biografico di Richard Attenborough Viaggio in Inghilterra (1993). Inizialmente i due si sposarono per convenienza, per permettere a Joy, statunitense, di prendere la residenza in Gran Bretagna, ma conoscendosi capirono quanti valori e interessi condividessero e come la loro unione arricchisse la vita di entrambi. Sia le amicizie in vista dell’utile sia quelle per il piacere sono positive e migliorano l’esistenza. Per Aristotele le amicizie di questo tipo possono nascere anche tra persone cattive (i criminali infatti possono mentire in tribunale per proteggersi reciprocamente e possono condividere tra loro piaceri immorali), ma in ogni caso queste amicizie secondarie devono essere coltivate entro i loro limiti. Ad esempio, perché l’amicizia basata sull’utilità prosperi, occorre che otteniate la vostra parte dell’accordo pattuito, qualunque esso sia stato. Lo stesso principio vale per le relazioni basate sul piacere: se un’amica ha passato volentieri del tempo con voi perché condividevate la passione per la commedia nera, allora piangere per ogni cosa sulla sua spalla e aspettarsi un aiuto da lei durante un periodo di depressione non la incoraggeranno a restare vostra amica (Aristotele, in effetti, ricorda che chi si mostra al mondo cupo e scontroso difficilmente attira amici di qualsiasi tipo: buonumore e socievolezza sono «i sentimenti tipici dell’amicizia e le fonti di essa» 14). Concludendo il discorso sulle amicizie basate sull’utilità e sul piacere, Aristotele ricorda quanto tendano entrambe a finire presto: Simili amicizie si dissolvono facilmente, quando gli amici non rimangono identici a sé; infatti cessano di amare gli amici quando non risultano piú piacevoli o utili, e l’utile non rimane sempre identico a se stesso, ma di volta in volta diventa diverso, dunque se si dissolve la causa per la quale erano amici, si scioglie anche l’amicizia, dato che l’amicizia esisteva in vista di quei fini 15.

Non è assolutamente detto, però, che questo scioglimento debba essere doloroso per una delle parti in causa, purché nessuno abbia illuso se stesso circa la profondità dell’amicizia. Nelle amicizie la maggior parte dei problemi nasce dalla confusione dell’amicizia secondaria con l’amicizia permanente, primaria, frutto di una scelta impegnata. Aristotele lo dice molto sinteticamente: «Tra gli amici

nascono molte divergenze quando credono di essere amici in un modo e lo sono in un altro» 16. Il terzo tipo di amicizia, e quello di gran lunga di miglior qualità, è infatti l’amore reciproco che si instaura tra i membri delle famiglie felici, e tra amici intimi non uniti da parentela, che vi dedicano grande impegno. Nelle parole di Aristotele: «Riteniamo che l’amico sia uno dei beni piú grandi e l’inimicizia e la solitudine la cosa piú terribile, poiché tutta la vita e ogni intimità volontaria si hanno con gli amici» 17. Un’amicizia primaria tra persone entrambe impegnate a Vivere Bene rappresenta una salvaguardia dalle malignità. Come spiega Aristotele, solo l’amicizia dei buoni è inattaccabile dalla calunnia: non è facile, infatti, che si dia retta a qualcuno che calunnia l’amico che noi stessi abbiamo messo alla prova per lungo tempo. Anche l’avere fiducia, il non commettere mai ingiustizia e tutte le altre caratteristiche che si hanno nella vera amicizia si trovano tra i buoni.

Sono sicura che Aristotele avesse vissuto l’esperienza di essere difeso da buoni amici contro chi invidiava la sua brillantezza o contro chi insinuava che, dopo aver fondato nel 336 a.C. il Liceo ateniese, egli non fosse fedele nei confronti di Atene e collaborasse con la Macedonia. A differenza di quelle delle altre due categorie, le amicizie primarie richiedono tempo. La lunghezza dell’amicizia è garanzia della sua stabilità. Aristotele mette a confronto la scelta di un amico con la scelta di un vestito. Quando un vestito diventa vecchio, è meglio metterne uno nuovo. Per gli amici non è cosí. Piú è il tempo passato con un amico, piú sarete sicuri che sia una persona buona. Ragion per cui, anche se pensate che il vostro nuovo amico sia buono, è piú saggio preferire quello vecchio, poiché il coinvolgimento dell’amico piú recente non è stato messo alla prova. La resistenza della fiducia alle possibilità di rottura causate dal comportamento di una delle due parti può essere accertata soltanto con il tempo. Aristotele, in tono sornione, cita il poeta tradizionale Teognide: «Non potresti conoscere la mente di un uomo né di una donna, prima di averne fatto prova, come se si trattasse di un animale sotto il giogo» 18. In un altro testo, ricorda il tradizionale proverbio greco sull’amicizia: per chiamare amico un uomo, occorre che abbia consumato in vostra compagnia una buona dose di sale, essendo il sale un condimento indispensabile quando si mangia tra amici. La fiducia non si costruisce in un giorno, per quanto possa poi bastare un

giorno per distruggerla. Gli amici che si comportano slealmente, che vi abbandonano quando piú avete bisogno o che vi fanno torto, non meritano di restare amici veri. Ho imparato a dare agli amici intimi una seconda possibilità, ma non di piú. Può darsi che le cose siano andate male per un mancato chiarimento. Ma se dopo aver discusso in lungo e in largo, ricadono nuovamente nello stesso sbaglio, significa che l’errore dipende da un aspetto permanente del loro carattere e non da un malinteso. Il che non significa ovviamente doverli tagliare completamente fuori dalla vostra vita. Continuo ad avere due amiche di cui non posso fidarmi pienamente perché in due occasioni non si schierarono dalla mia parte quando ne avevo la necessità, come invece io avevo spesso fatto per loro. Sono rimaste amiche, ma relegate nelle categorie degli amici per utilità o per piacere. Anche Aristotele aveva questi amici «retrocessi», dal momento che dice che doveva essere riservato loro un trattamento particolare: Ma allora si deve trattare l’altro con freddezza maggiore che se non fosse stato mai nostro amico? Forse ci si deve ricordare della lunga consuetudine e, cosí come pensiamo che si debba essere piú gentili con gli amici che con gli estranei, si dovrà concedere qualcosa di piú a chi ci è stato amico, in memoria dell’affetto trascorso, quando però non sia stato un eccesso di malvagità a provocare lo scioglimento dell’amicizia 19.

La nostalgia per il profondo affetto di un tempo può rendere le cose diverse, anche quando l’affetto non c’è piú. Nessuno è in grado di gestire un gran numero di amicizie primarie, sottolinea Aristotele. «Per questo bisogna fare esperienza e giungere a una lunga consuetudine, il che è particolarmente difficile» 20. Se avete un numero eccessivo di amici intimi, sorgeranno effettivi conflitti di lealtà: «Risulta difficile anche rallegrarsi e rattristarsi correttamente insieme a molti: può verosimilmente darsi il caso che ci si debba rattristare insieme a uno e rallegrare insieme a un altro» 21. Siate saggi e sceglietevi un numero ristretto di amici fidati – forse minore delle dita di una mano – da coltivare con cura. In questa scelta è compresa quella del coniuge e, purtroppo, la decisione di chi tra i vostri consanguinei merita i vostri sforzi. Coltivare con cura significa condividere non solo i successi ma anche i dolori, e avviare cicli di buone azioni reciproche. E significa anche, consiglia Aristotele, contatti regolari e prolungate conversazioni.

Evidentemente, in quest’epoca di Skype e posta elettronica è molto piú facile che ai tempi di Aristotele rimanere stabilmente in contatto con chi amiamo nei casi in cui non siamo fisicamente vicini. Queste inestimabili relazioni di intima amicizia hanno bisogno di contatti frequenti. Ero abituata a non telefonare molto a mio marito e ai miei figli, quando andavo all’estero. E i risultati non erano un granché. Oggi cerco di parlare con ognuno di loro tutti i giorni. Potete capire che una persona è cattiva, dice Aristotele, quando regolarmente preferisce il guadagno materiale al benessere dell’amico. Un proverbio dell’antica Grecia recitava: «Comuni sono le cose degli amici». Ma gli individui immorali sfruttano la vostra amicizia per ricavarne un guadagno materiale, anziché gioire dell’amicizia di per sé. Diventate cosí, scrive Aristotele, un’«aggiunta» ai vantaggi materiali che potete fornire 22. Amici del genere, non c’è bisogno di dirlo, sono amici soltanto «nella buona sorte» e vi scaricheranno nell’esatto istante in cui entrerete in difficoltà e non sarete in grado di pagare regolarmente da bere. In un acuto passaggio, Aristotele anticipa in modo affascinante il moderno concetto psicologico di proiezione. Le persone immorali sono in grado di costruire amicizie superficiali e passeggere basate sul piacere (due uomini cattivi possono divertirsi a giocare a poker insieme). Ma sono incapaci di qualsiasi tipo di amicizia perfetta, in quanto non si fidano di nessuno. Il punto per noi importante è il motivo della loro incapacità di fidarsi: essi misurano gli altri con il proprio metro. Poiché sono motivati dall’egoismo, dall’invidia o dal desiderio di vincere per il gusto di vincere, non possono neanche immaginare che cosa si provi a coltivare un’altra coscienza morale, mossa da un desiderio di felicità universale. Le persone che davvero vi amano da amici primari tollereranno senza problemi anche il fatto che non sappiate neppure che hanno compiuto per voi una buona azione. Perché il loro fine non è dimostrarvi qualcosa, né ottenere qualcosa in cambio, ma semplicemente la vostra massima felicità. I buoni genitori provano questo amore altruistico per i figli. In effetti ad Aristotele sembra appropriato che «i padri (e le madri piú dei padri) amino i loro figli in misura maggiore di quanto siano amati. E quelli, a loro volta, i loro propri figli piú dei loro genitori» 23. Per Aristotele l’intensità dell’amore materno è ancora piú forte di quella dei padri per i loro figli: «Infatti si definisce l’opera in base alla difficoltà e appunto la madre nel partorire prova maggiore

dolore» 24. Come esempio estremo di amore disinteressato, Aristotele cita quello delle madri che acconsentono all’adozione del proprio figlio, ritenendo di fare in tal modo il migliore interesse del bambino. E ricorda una tragedia in cui Andromaca, per salvare la vita al figlio Astianatte, che i Greci avevano minacciato di gettare dalle mura di Troia, cercò di farlo uscire di nascosto dalla città nella speranza che fosse adottato da altre donne. Questo gesto voleva dire rinunciare a lui. Senza contare che Astianatte, data la tenerissima età, non avrebbe mai saputo del sacrificio compiuto dalla madre solo per lui: avrebbe anche potuto incolparla come madre ignota che, per quanto ne sapeva, l’aveva abbandonato. Gli amici primari sono come buone madri anche in un altro senso: provano davvero dolore quando voi soffrite, e vorrebbero prendere su di sé quel dolore per darvi sollievo. E qui lo zoologo Aristotele aggiunge: e questi amici sono anche come «gli uccelli che provano dolore insieme» 25. Piú del 90 per cento degli uccelli è monogamo, contro il misero 3 per cento dei mammiferi, come anche Aristotele poteva forse sapere, avendo osservato tra i volatili unioni individuali di lunga durata. Alcuni lettori saranno forse infastiditi dal fatto che Aristotele non veda particolari differenze qualitative tra l’amicizia primaria con i propri familiari e l’amicizia primaria con chi non fa parte della famiglia. In effetti la maggior parte di noi, in gran parte dei casi, distingue le relazioni con i familiari da quelle con gli amici. È duro, ma fondamentale, riconoscere che non necessariamente le persone ci offrono il giusto tipo di impegno, di lealtà e di desiderio del nostro bene soltanto per il fatto di essere parenti. Per quanto rischioso possa essere, vale davvero la pena prendere razionalmente in considerazione ogni relazione familiare (al di fuori di quella con i figli, verso i quali abbiamo un particolare dovere di amore incondizionato, avendo scelto noi di metterli al mondo) e valutarla secondo i criteri aristotelici. Possono sicuramente esserci membri di un nucleo familiare, magari anche ristretto, abituati ad anteporre il loro vantaggio materiale al vostro benessere, a farvi del male o a tradirvi, o a non aiutarvi quando ne avete bisogno. Non sempre è vero che il sangue non è acqua: amici acquisiti possono volere molto piú bene del gruppo a cui si è legati per Dna o – per chi è stato in affido o è stato adottato – a cui si è legati dalle esperienze di socializzazione o allevamento. Qui il concetto di amicizia basata sull’utilità può venirci in aiuto. Aristotele avrebbe retrocesso allo status di amico secondario il cugino o il fratello che

non abbiano mai dato mostra di ricambiare le vostre buone azioni. Potete scambiarvi gli auguri di buone feste e le partecipazioni di nozze, ovviamente, ma non molto di piú, senza che dobbiate farvene una colpa. Le riflessioni dedicate da Aristotele alla conservazione delle amicizie primarie sono ricche di dettagli e sfumature. Lo Stagirita dà l’idea di parlare per esperienza vissuta, quando afferma che spesso gli amici d’infanzia non «crescono» alla stessa velocità. La differenza tra i percorsi di sviluppo può rendere a un certo punto impossibile all’amico di un tempo ricavare qualcosa dalla relazione. Ma se un nostro amico sembra vivere un mutamento di carattere, e sviluppare una vena immorale, dobbiamo forse troncare l’amicizia? Le amicizie «che fanno acqua» sono generalmente incurabili e non possono essere altro che un peso. Ma data la mia regola personale delle seconde (ma non terze) possibilità, mi rallegra scoprire che anche Aristotele concedeva ad alcuni amici primari, quando il difetto era curabile, un’opportunità supplementare di amicizia, in quanto «nei casi che ammettono una correzione si dovrà aiutare l’amico a migliorare il carattere, anche piú di quanto lo si aiuterebbe ad arricchire, tanto piú quanto migliore e piú appropriato a un rapporto d’amicizia è tale aiuto» 26. 1. «l’unione piú naturale»: Aristotele, Economici, a cura di Marcello Valente, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2011, p. 145 (1343b, I, 3). 2. Ibid. 3. Ibid. 4. Ibid. 5. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1107a, II, 6, p. 65. 6. Ibid., 1155a, VIII, 1, p. 311. 7. Ibid. 8. Ibid. 9. Derek Walcott, Canne marine, in Id., Mappa del nuovo mondo, trad. it. di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, p. 103. 10. «e quindi non sentono … non risultino utili»: Aristotele, Etica nicomachea cit., 1156a, VIII, 3, p. 317. 11. Ibid., 1160a, VIII, 8, 11, p. 337. 12. Ibid., 1156a, VIII, 3, p. 317. 13. Ibid., 1157a, VIII, 5, p. 321. 14. Ibid., 1158a, VIII, 7, pp. 325-27. 15. Ibid., 1156a, VIII, 3, p. 317.

16. Ibid., 1165b, IX, 3, p. 367. 17. Aristotele, Etica eudemea cit., 1234b, VII, 1, p. 136. 18. Ibid., 1237b, VII, 2, p. 146. 19. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1165b, IX, 3, p. 369 [trad. modificata]. 20. Ibid., 1158a, VIII, 7, p. 327. 21. Ibid., 1171a, IX, 10, p. 395. 22. Aristotele, Etica eudemea cit., 1237b, VI, 2, p. 147. 23. Ibid., 1241b, VII, 8, p. 159 [trad. modificata]. 24. Ibid. 25. Ibid., 1240a, VII, 6, p. 155. 26. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1165b, IX, 3, p. 369 [trad. modificata].

Capitolo ottavo Comunità

Siamo tutti membri di comunità che si estendono al di là delle nostre famiglie e dei nostri amici intimi. La nostra felicità dipende anche da quanto ci troviamo a nostro agio con i nostri connazionali nel nostro Paese e con i cittadini delle altre nazioni del pianeta. Può risultare difficile capire quali debbano essere le nostre responsabilità nei confronti dei gruppi a cui apparteniamo, soprattutto nei periodi di turbolenza politica o quando siamo in disaccordo con le politiche del governo. Un’altra questione è costituita dal sentimento di impotenza rispetto a problemi internazionali su ampia scala, come ad esempio la crisi ambientale, un sentimento che spesso porta comprensibilmente al desiderio di ritirarsi nel privato e di abbandonarsi a svaghi evasivi. Aristotele lo capiva benissimo. Anche lui era vissuto in epoche e in luoghi in cui era effettivamente rischioso opporsi ai poteri dominanti. In Macedonia, Filippo II amministrava il regno da spietato despota; ad Atene, nonostante vigesse la democrazia, Aristotele fu sempre un intruso, uno straniero residente, privo dei diritti di cui disponevano i cittadini ateniesi a pieno titolo. È probabile che abbia avuto la tentazione di voltare la schiena alle questioni politiche e di ritirarsi a vita nella sua grande biblioteca privata. Ma non lo fece. Continuò a insegnare ai suoi studenti (parecchi dei quali destinati a diventare dei leader) e a tenere lezioni, nel Liceo, per la gente comune di Atene che veniva ad ascoltarlo. Ma soprattutto continuò a scrivere con straordinaria acutezza, in tema di politica e di rapporti dei cittadini non solo con le piú vaste comunità umane, ma anche con il mondo della natura e degli animali. La costruzione effettiva della felicità, secondo Aristotele, non può essere compiuta da soli. Gli uomini sono in grado di godersi brevi periodi di solitudine, ma per costituzione biologica sono animali sociali. Pervengono a un livello ottimale di prosperità quando vivono in società con altri esseri umani e animali e si impegnano in buone azioni reciproche. Nell’antica Grecia le divinità che simboleggiavano la reciprocità erano le tre Grazie, tre sorelle chiamate Bellezza, Gioia e Prosperità. Spesso nell’arte venivano

rappresentate in cerchio mentre si tengono per mano, in quanto il tre segna il momento in cui una semplice relazione a due dà vita a una serie complessa di transazioni che formano il nucleo di una società. Questo «circolo virtuoso» rispecchia il flusso di mutua assistenza che circonda le comunità umane. Aristotele approva l’usanza di collocare un tempio dedicato alle Grazie ben in vista in un luogo pubblico, «perché vi sia lo scambio reciproco, dato che questo è lo specifico della gratitudine: bisogna che uno contraccambi i servizi di chi ci ha usato cortesie, e che lui stesso prenda l’iniziativa di essere cortese» 1. Nella prospettiva dell’etica della virtú non basta semplicemente rispondere alle aperture amichevoli: occorre prendere l’iniziativa, cominciare noi stessi a promuovere attivamente la cooperazione. I testi in cui Aristotele discute i modi migliori per vivere insieme sono l’Etica nicomachea e la Politica. Per dare un’idea di quanto sia forte l’affetto che proviamo per i vari membri della nostra famiglia, per gli amici e per i concittadini, Aristotele fa un’analogia con le diverse concentrazioni con cui possiamo diluire dello zucchero nell’acqua. «Anche le forme di giustizia presentano differenze: non è la stessa quella dei genitori verso i figli e dei fratelli tra loro, né lo sono quella che vi è tra i membri di una compagnia e quella che si dà tra i concittadini, e lo stesso vale per i vari tipi di amicizie» 2. La gravità del danno arrecato a un’altra persona è direttamente proporzionale all’intimità della relazione: è piú riprovevole rubare denaro a un amico che a un semplice concittadino; o negare aiuto a un fratello piuttosto che a un estraneo. Nella teoria politica di Aristotele le relazioni con i concittadini compongono una sottocategoria dell’amicizia in vista dell’utilità, dal momento che tali relazioni esistono per reciproco beneficio e s’interrompono al cessare del reciproco tornaconto personale. Le città-Stato, quindi, funzionano male quando non ci sono associazioni attive di tipo amicale che aggreghino gli individui che compongono lo Stato. Un’acuta descrizione del potenziale degrado a cui sono soggette tutte le relazioni all’interno di uno Stato malfunzionante è contenuta nel romanzo di Ismail Kadaré La figlia di Agamennone (2003). Nel romanzo, il sacrificio della protagonista della tragedia di Euripide Ifigenia in Aulide (che affascinò, guarda caso, anche Aristotele) è eletto a paradigma delle conseguenze provocate nei primi anni Ottanta dal regime disumanizzante dell’Albania e, piú in generale, a paradigma della degenerazione morale che affligge tutte le popolazioni rette

da un governo che non deve rendere conto delle proprie azioni. Kadaré mostra come tutti rischino di smarrire la bussola morale quando il registro psicologico dominante è quello del terrore: Giorno dopo giorno, ci sentivamo sempre un po’ piú prigionieri dell’ingranaggio della colpa collettiva. Dovevamo intervenire, accusare, coprire di fango, prima noi stessi, per passare poi a tutti gli altri. Meccanismo quanto mai diabolico: dopo esserci insozzati da soli, diventa facile insozzare tutt’attorno. Ogni giorno, ogni ora che passavano erano accompagnati da un decadimento di tutti i valori morali 3.

Lo Stato ideale di Aristotele è esattamente l’opposto: è un’esaltazione delle relazioni primarie. Il buon governo di una città-Stato, finalizzato alla felicità dei cittadini, richiede e promuove la costituzione di rapporti di amicizia tra i cittadini stessi. Tale instaurazione di legami di amicizia tra cittadini è chiamata da Aristotele «concordia», termine che indica un atteggiamento costante nei confronti degli altri individui che insieme a voi costituiscono lo Stato. È un atteggiamento fatto di benevolenza e di impegno alla reciproca responsabilità. Il suo fine è assicurare l’utile per tutti in modo moralmente scrupoloso. Ci saranno sempre, purtroppo, cittadini incapaci di aderire al progetto della concordia civica cosí come di costruire serie amicizie nella vita, «dato che cercano di prevaricare per procurarsi il proprio utile, e mancano di compiere il proprio dovere quando c’è da far fatica o da assumersi le spese di una prestazione benevola» 4. Aristotele afferma chiaramente che i cittadini che amano solo se stessi, e che si appropriano di una quota di beni comunitari piú alta del dovuto, sono giustamente criticati. Parimenti, «non è possibile trarre un guadagno dalle attività pubbliche e al tempo stesso essere onorati»: non si cerca infatti di ricavare un guadagno dai propri amici. Quando invece i cittadini si trattano per la maggior parte l’un l’altro da amici, è tutto l’insieme dello Stato a perseguire la felicità. L’associazione per utilità fra cittadini si caratterizza per un ordine di scala piú ampio rispetto a quello delle amicizie di utilità che nascono sul luogo di lavoro o a scuola. Tuttavia, presentando la cittadinanza come una forma di amicizia, Aristotele sottintende anche che ci siano delle dimensioni oltre le quali una città-Stato felice non può svilupparsi. Aristotele parla con sgomenta disapprovazione di Babilonia, cosí smisurata «che si dice che quando […] fu

conquistata, nel terzo giorno una parte di essa non se ne era ancora accorta» 5. La sovrappopolazione inoltre conduce alla povertà: un legislatore di Corinto, ricorda Aristotele, sosteneva che la migliore politica fosse quella di mantenere nel tempo la stessa consistenza numerica. Secondo lo Stagirita, la grandezza di una comunità civile che funzioni bene ha un limite naturale, proprio come avviene per una nave. Una nave non deve essere né troppo piccola (larga una spanna) né troppo lunga (quattrocento metri), perché in entrambi i casi non potrà tenere il mare. Pur vivendo nel IV secolo a.C., Aristotele sembra preoccuparsi piú della sovrappopolazione che del suo opposto. E alla metafora della «nave dello Stato» fa ricorso anche per spiegare la concordia civica. I concittadini sono membri di una comunità, cosí come lo sono i marinai. E sebbene i marinai differiscano uno dall’altro per le capacità che sono peculiari a ciascuno di essi (e infatti uno è rematore, un altro timoniere, un altro ancora vedetta e gli altri hanno altri nomi distribuiti alla stessa maniera dei precedenti) […] la sicurezza della navigazione è l’opera di tutti quanti e ciò cui ciascuno tende 6.

Analogamente, in uno Stato felice i cittadini, pur avendo ruoli diversi, condividono la meta comune del benessere della loro comunità. Aristotele riflette sulle forme di governo a partire dallo stato di salute delle relazioni individuali che sono alla base della comunità politica. E ci propone una comparazione equilibrata delle quattro forme di governo presenti nell’antica Grecia: democrazia, tirannide, aristocrazia e monarchia (alle quali occasionalmente ne aggiunge una quinta, una super-monarchia che comprende popoli diversi, governati dal «signore di tutto», il pambasileus, inventato forse per descrivere il progetto imperiale macedone). Questa analisi comparativa ha avuto un’enorme influenza sia sul pensiero sia sulla pratica della politica: il vero e proprio lessico della teoria politica europea nacque all’epoca in cui la Politica di Aristotele fu tradotta per la prima volta nelle lingue moderne, e fu adottato dai sostenitori di tutti questi modelli costituzionali. Un mese dopo l’esecuzione di Carlo I d’Inghilterra, avvenuta nel gennaio del 1649, il saggio di John Milton The Tenure of Kings and Magistrates («I giusti poteri di re e magistrati»), che giustifica il regicidio laddove il re si sia reso responsabile soltanto davanti a Dio, si serve della

definizione aristotelica di «monarca» proposta nella Politica. Aristotele riserva le critiche piú aspre alle tirannie, che secondo lui scoraggiano i cittadini da tutte quelle attività che promuovono la fierezza e la sicurezza di sé. Significativamente, fra queste attività è compresa anche quella di filosofi come Platone e Aristotele, ovvero la formazione di «associazioni di studio e altri raduni che possano prenderne il carattere» 7. La maggior parte di noi, oggigiorno, non tollererebbe di buon grado di vivere sotto un regime di governo che reprimesse l’autoformazione o il dibattito, anzi non tollererebbe qualsiasi forma di governo diversa dalla democrazia. Attualmente oltre la metà degli abitanti del mondo vive in democrazie elettorali. Tuttavia molte di queste democrazie elettorali accettano quelle che, secondo i criteri etici di Aristotele, sono condotte generali assolutamente riprovevoli: secondo la maggior parte delle stime, la percentuale di esseri umani che attualmente vive in Paesi che rispettano i diritti umani fondamentali e il principio di legalità è inferiore al 40 per cento. La risposta di Aristotele ai regimi che usano la tortura allo scopo di ottenere informazioni è la seguente: smettete di usarla, perché non funziona. Come spiega freddamente nella Retorica: «Quando si è costretti, dicono menzogne non meno che verità sia chi si ostina a rifiutarsi nel dirle sia chi mente facilmente per far cessare piú in fretta la tortura» 8. Aristotele è consapevole dei tanti problemi legati alla democrazia. In un passo la cui attualità attraversa i secoli indenne, egli riconosce che i regimi di possesso dei beni sono causa di scontento: «Se si verifica uno squilibrio tra godimento e lavoro, sorgono necessariamente recriminazioni verso coloro che godono di piú e faticano di meno da parte di quelli che godono di meno e lavorano di piú». Con equilibrio, Aristotele conclude ammettendo che si tratta di problemi di difficile soluzione: «In generale è difficile mantenere la concordia e stabilire rapporti di comunanza in tutte le faccende umane, ma in queste piú che nelle altre». Tuttavia, se Aristotele scelse di vivere ad Atene per piú di trent’anni della sua vita adulta, e per di piú come straniero residente privo di diritti di cittadinanza, significa che non trovò ostile il sistema democratico. Della democrazia parla con minor disapprovazione rispetto agli altri sistemi. Nella Retorica definisce gli obiettivi delle varie costituzioni in un modo che rende la democrazia preferibile: il fine della democrazia è la libertà, da contrapporre alla ricchezza (fine dell’oligarchia), all’educazione e

all’obbedienza (fine dell’aristocrazia) e alla tutela personale (fine della tirannia). Aristotele fa notare che la costituzione che lascia «maggiore spazio» per amicizia e giustizia tra governanti e governati è la democrazia, «dato che tra persone uguali molto vi è di comune» 9. E com’era da attendersi, la costituzione piú ostile all’amicizia e alla giustizia tra cittadini è quella tirannica. Secondo Aristotele, inoltre, per quanto le democrazie possano degenerare, l’elettorato di massa sancito dalla democrazia perviene potenzialmente a decisioni molto migliori rispetto a quelle del ristretto numero di governanti previsto da altri tipi di costituzione. Aristotele paragona la decisione presa dalle masse a un pubblico banchetto a cui contribuisce con svariate pietanze una grande varietà di cittadini. Il risultato sarà inevitabilmente migliore di un pasto offerto da un unico anfitrione: quando i cittadini si riuniscono per giudicare una causa legale o per deliberare, dalla loro unione si ottiene una specie di uomo solo dotato di molti piedi, di molte mani e capace di ricevere molte sensazioni [e] che da ciò avrebbe innegabili vantaggi anche nel comportamento e nell’intelligenza. Perciò anche sulle opere di musica e di poesia è migliore il giudizio dei piú, perché ognuno separatamente preso ha la sua particolare competenza, mentre tutti insieme sono in grado di giudicare della totalità dell’opera 10.

Oggi potremmo imparare molto dall’osservazione di Aristotele secondo cui nella democrazia ideale tutti i cittadini dovrebbero essere abilitati e incoraggiati a partecipare al governo, attraverso la riduzione della durata delle cariche pubbliche e l’istituzione di un indennizzo finanziario per ricoprire ruoli come ad esempio quello di pubblico giurato. Aristotele fa anche notare che è piú difficile corrompere un numero ampio di cittadini che un unico individuo, cosí come «l’acqua in gran copia» 11 è meno inquinata di un piccolo rivolo. Il giudizio del singolo può essere alterato dalla rabbia o da altre forti emozioni, mentre è improbabile che tutti i cittadini di una democrazia siano simultaneamente preda della collera. Almeno la metà della popolazione del pianeta non può dare per scontata una relativa stabilità politica. Aristotele è un utopista nella misura in cui immagina che chiunque sia al mondo possa realizzare il proprio potenziale e fare pieno uso delle sue facoltà (il «principio aristotelico» per antonomasia,

secondo il filosofo statunitense della politica John Rawls). Aristotele immagina persino un mondo futuristico in cui il progresso tecnologico avrebbe reso superfluo il lavoro umano (e quindi, in ragione del contesto storico in cui scriveva, la schiavitú). Cita in proposito i mitici artigiani Dedalo ed Efesto, che costruirono automi capaci di muoversi e lavorare a comando, ovviando al bisogno di servitori umani: Se infatti ogni strumento, per un qualche comando o per una capacità di presentire, potesse compiere la sua propria opera, come dicono che facessero le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto, dei quali il poeta dice che da soli entrano nel divino consesso, se a questo modo le spole da sole tessessero e i plettri suonassero da sé, allora né gli architetti avrebbero bisogno di operai né i padroni di schiavi 12.

È quasi come se avesse anticipato i moderni sviluppi dell’intelligenza artificiale. L’utopistica teoria politica di Aristotele è una teoria flessibile. Potete essere capitalisti o socialisti, donne d’affari o volontarie di enti di beneficenza, votare per (quasi) qualsiasi partito politico, ed essere comunque un aristotelico coerente. Avendo posto l’accento sul fatto che le strutture sociali sono stabili soltanto se si conformano alla natura umana, Aristotele è stato a volte l’idolo dei conservatori: Benjamin Wiker, nel suo Ten Books Every Conservative Must Read («Dieci libri che ogni conservatore deve leggere», 2010) ne tesse l’elogio. I capitalisti aristotelici, tuttavia, devono rientrare in quel genere di capitalisti che non tollerano la povertà fra i propri concittadini. Aristotele sapeva che gli uomini entrano in conflitto quando le materie prime scarseggiano. Ma mostra apprezzamento per le norme di fondo che ancora sono alla base del capitalismo moderno. È ad esempio il primo autore dell’antica Grecia a spiegare il significato di «monopolio», a usare questo termine e a illustrarne le applicazioni. Lo fa quando, per confutare chi sostiene che la filosofia è inutile, dimostra che i filosofi sono capaci di diventare imprenditori di successo – ma che semplicemente preferiscono concentrarsi su cose piú elevate. Talete, fondatore nel VI secolo a.C. delle scienze naturali, veniva criticato dal popolo, che diceva che la filosofia e la ricerca intellettuale erano inutili. Durante un inverno, però, egli si serví delle sue conoscenze scientifiche per predire che il raccolto di olive dell’estate

ventura sarebbe stato abbondante. Con lungimiranza, noleggiò tutti i frantoi di olive della zona, creando cosí un vero e proprio monopolio, che gli permise successivamente di subaffittarli ai prezzi elevati da lui stabiliti. Diventò molto ricco, conclude Aristotele, mostrando cosí «come ai filosofi sia facile arricchire solo che lo vogliano» 13. Con la sua insistenza sulla necessità di fondare la teoria politica sui bisogni basilari dell’umanità, Aristotele elaborò le idee economiche di gran lunga piú avanzate mai concepite fino ad allora: fu questa la principale ragione per cui Marx nutrí per lui una profonda ammirazione e per cui Aristotele ha avuto un seguito notevole tanto nella sinistra politica quanto tra i conservatori. I socialisti aristotelici tuttavia devono riconoscere che estendere la proprietà pubblica obbligatoria alle residenze domestiche non funziona. Dove non è indicato chiaramente chi sia il responsabile di un bene pubblico, dice Aristotele, nessuno se ne assume la piena responsabilità. Lo Stagirita ha anche osservato che maggiore è il numero di persone coinvolte nel possesso di un bene, minore è l’attenzione che questo riceverà da ognuna di loro. Le persone si prendono cura delle cose per il piacere che ricavano dal senso di possesso e per il valore che le cose rivestono per loro: sia il piacere sia il valore diminuiscono quando sono condivisi con altri. Secondo Aristotele, «tutti hanno piú care le cose che raggiungono con fatica: per esempio coloro che si sono guadagnati delle ricchezze le amano piú di quelli che le hanno ereditate» 14. Acquisire un bene di qualsiasi genere con il duro lavoro genera un attaccamento piú forte che riceverlo senza sforzo. Ai socialisti aristotelici farà piacere leggere le pagine in cui il filosofo condanna l’estrema povertà come causa di conflitto e di criminalità, e prende sul serio l’estremismo di un egualitarista dell’epoca di nome Falea di Calcedonia, che individuava nella sperequazione dei beni posseduti la matrice universale della discordia civile. Falea proponeva che tutti i cittadini possedessero la stessa quantità di beni. Pur non approvando una parificazione tanto estrema, Aristotele cita con evidente apprezzamento la raccomandazione delle Leggi di Platone circa il fatto che nessun cittadino dovesse possedere un patrimonio piú di cinque volte superiore a quello minimo esistente (questo, evidentemente, è un livello di diseguaglianza estremamente piú basso di quello tollerato dal moderno capitalismo occidentale. Il 7 giugno 2016 Martin Sorrell, amministratore delegato del gruppo pubblicitario Wpp, difese pubblicamente il salario annuo di 70,4

milioni di sterline che gli era stato offerto. Una cifra che equivale non a cinque, ma a cinquemila volte lo stipendio di un magazziniere). Aristotele riconosce che la disparità di ricchezza è legata a diversi problemi, tra cui la conflittualità lacerante e il rivoltante servilismo nei confronti dei super-ricchi. Lo Stagirita, tuttavia, credeva anche che l’uniformità economica potesse mettere a repentaglio sia la diversità dei gruppi familiari, che è fonte di arricchimento per la cultura dello Stato, sia la fondamentale distinzione tra l’appartenenza alla famiglia e l’appartenenza allo Stato: uno Stato formato da componenti tutte uguali, come «una sinfonia ridotta all’omofonia o un ritmo ridotto a una sola misura» 15 sarà meno felice di uno Stato che tollera un certo livello di diseguaglianza. Il socialista aristotelico deve accettare che esista una differenza tra una cattiva condotta e una cattiva forma di governo. Sebbene la filosofia morale di Aristotele possa essere praticata (entro certi limiti) tanto da persone con opinioni politiche di destra quanto da persone con opinioni di sinistra, chi nega l’esistenza del cambiamento climatico difficilmente può trovare particolare conforto in Aristotele. Nella sua veste di scienziato della natura che credeva nella meticolosa ricerca fondata su ripetute osservazioni empiriche di ciò che il mondo gli presenta (ovvero ta phainomena) e sul rigoroso esame delle ipotesi, Aristotele, se visitasse il mondo di oggi, sarebbe preoccupato dalla mole di prove che documentano i danni ambientali provocati dall’uomo. Gli studi dettagliati raccolti nelle sue opere scientifiche dedicate al mondo naturale, e al posto che vi occupiamo come creature umane incarnate che vivono e respirano, costituiscono anche la premessa e il presupposto della sua filosofia morale. Vedendo infatti gli uomini come animali, sia pure evoluti, Aristotele operò una trasformazione del rapporto etico esistente fra noi e il nostro ambiente materiale, una trasformazione che continua ad avere un significato enorme per il mondo contemporaneo. Oggi, mentre stiamo prendendo consapevolezza dell’entità dei danni che la nostra specie ha inflitto al pianeta che condivide con molti altri esseri viventi, ci accorgiamo che le idee scientifiche di Aristotele sono in effetti fondamentali per il nostro progetto di realizzazione umana. Aristotele sarebbe inorridito di fronte allo scempio che abbiamo causato al mondo per non esserci fatti carico delle nostre responsabilità nei confronti del pianeta e nei confronti dei suoi abitanti non umani. Inoltre il suo impegno a improntare l’umana esistenza a un progetto deliberato, e ad assumersi a lungo termine la piena responsabilità sia della

nostra sopravvivenza fisica sia della felicità mentale, lo renderebbe oggi, a detta concorde di scienziati e classicisti, un attivista ambientale. L’ecologia ricorre regolarmente alle teorie di Aristotele, sia perché insistono sulla causalità che governa il mondo fisico, sia perché l’importanza da esse assegnata alla totalità e all’interazione di tutti gli elementi presenti nel mondo è compatibile con la teoria dei sistemi complessi 16. Gli ecologisti fanno riferimento alla splendida descrizione dell’unicità e dell’interconnessione della natura presente nella Metafisica: Tutte le cose [dell’universo] sono in certo modo ordinate insieme, ma non tutte nello stesso modo; pesci, volatili e piante; e l’ordinamento non ha luogo in modo che una cosa non abbia alcun rapporto con l’altra, ma in modo che ci sia alcunché di comune. Tutte le cose infatti sono coordinate a un fine unico […] tutte tendono all’intero 17.

Piante, animali ed esseri umani esistono, nella visione di Aristotele, in cerchi concentrici di interdipendenza. «La natura passa per gradi cosí impercettibili dagli esseri inanimati agli animali che tale continuità rende impossibile scorgere il confine tra i due campi» 18. Aristotele aveva capito che il clima può cambiare nel tempo e che i mutamenti ambientali possono minacciare la razza umana: nella Meteorologia parla dell’invecchiamento della terra e dei cambiamenti della terra e del mare nei loro rapporti reciproci. Interi popoli (ethnoi) sono stati distrutti prima di diventare capaci di registrare che cosa stesse loro accadendo. Nel corso del tempo, osserva, la terra che circonda Micene è diventata arida e spoglia. Altrettanto significativa per l’ambientalismo è la concezione morale che Aristotele ha dell’economia. Lo Stagirita afferma che l’attività economica può essere divisa in due categorie. La prima è naturale, e fa parte integrante del Vivere Bene, dal momento che le persone, per vivere confortevolmente nelle loro famiglie, hanno bisogno di una serie di cose. Ma questo tipo di attività economica presenta limiti intrinsechi, poiché si arriva a un punto in cui gli esseri umani hanno quanto basta per vivere. Invece l’altro tipo di attività economica, da lui ritenuto fondamentalmente innaturale, non è soggetto ad alcun limite: potrebbe stare descrivendo il capitalismo industriale selvaggio 19. Solo gli esseri umani hanno una capacità di agency morale, e solo agli esseri umani, quindi, in quanto coinquilini del mondo naturale insieme a un numero stupefacente di piante e animali, spetta la responsabilità

di prendersi cura del pianeta. Ma date le loro peculiari doti mentali, gli uomini hanno anche la capacità di arrecare danni terribili: come disse Aristotele con un raffronto tremendo, un uomo cattivo può fare diecimila volte piú male di un animale. Avendo inventato le armi, e potendo usarle a fini malvagi, l’uomo immorale diventa «il piú empio e il piú feroce degli animali» 20. Nelle opere sul mondo animale Aristotele mostra di riporre fiducia nel giudizio e nelle osservazioni delle genti incolte, una fiducia basata sulla convinzione che lo «smart mob» costituito dalla democrazia prenda le migliori decisioni collettive possibili. Aristotele racconta che cosa ha imparato riguardo alle donne dell’isola di Cos, che producono la seta con la pavonia maggiore, o saturnia del pero, e con la sua evoluzione in bruco e in bozzolo: sono queste donne che «svolgono i bozzoli prodotti da questo animale, dipanandoli, per poi tesserne i fili (si dice che la prima a tesserli sia stata Pamfile di Cos, figlia di Plates)» 21. Parla con i cacciatori, che gli descrivono come incantano i cervi con la musica e gli raccontano che per indicare le piccole corna appena spuntate dei giovani cervi c’è un termine colloquiale che le paragona alle mollette per il bucato. Le discussioni particolareggiate sull’udito e sul senso del gusto nei pesci sono il frutto di lunghe conversazioni con i pescatori sul modo in cui usano i rumori, il silenzio e il sapore delle esche per aumentare al massimo la quantità delle catture. Nei due porti ateniesi del Falero e del Pireo il nostro filosofo parla delle differenze tra le specie di acciughe. Impara i nomignoli popolari che i pescatori dànno ai molluschi in ragione dell’aspetto fisico o di altri attributi, come «cipolla» o «puzzone». Platone sarebbe inorridito. Il direttore dell’Accademia, con la sua augusta teoria delle «forme», si sarebbe fatto beffe dell’eloquente insistenza con cui il suo studente raccomandava agli scienziati di ascoltare la gente «comune» che tutti i giorni aveva a che fare per lavoro con piante e animali, che fossero cacciatori, agricoltori o pescatori: «Quanti hanno una maggiore dimestichezza con i fatti fisici sono piú capaci di porre quei principî che permettono di spiegare un maggior numero di fenomeni» 22. La lezione piú importante che possiamo trarre dalla scienza di Aristotele riguarda la relazione della razza umana con il resto della natura. Aristotele comincia la sua analisi dei cambiamenti di colore di livrea e piumaggio negli esseri viventi partendo dalle fasi di incanutimento dell’animale uomo.

«Nell’uomo s’incanutiscono per prime le tempie, e i capelli della fronte prima di quelli della nuca; per ultimi i peli del pube» 23. Da questa constatazione passa a parlare degli animali, la maggior parte dei quali, come gli uomini, «cambia colore con l’avanzare degli anni» 24. Unica eccezione è la gru. Dieta, muta stagionale o fattori ambientali – come l’acqua del fiume in cui le pecore vanno a bagnarsi – possono provocare cambiamenti di colore nelle altre specie. Gli uomini, spiega Aristotele, condividono il loro istinto gregario con altre specie, ad esempio api, vespe, formiche e gru. Essendo però un animale complesso, l’uomo ama anche la solitudine, perlomeno in modica quantità. Al pari degli uomini, anche alcuni animali vivono assoggettati a forme riconoscibili di governo: le api, ad esempio, hanno dei sovrani. Se alcuni animali sono nomadi, altri sono sedentari e addirittura costruiscono le proprie dimore e insegnano ai loro piccoli come farne uso adeguato, esattamente come gli uomini. È la rondine in questo caso a lasciarlo affascinato: la rondine segue lo stesso ordine [che seguono gli uomini] nel mescolare la paglia con il fango, che intreccia assieme alle pagliuzze. Se poi le manca il fango, allora, dopo essersi bagnata, rotola le ali nella polvere. E inoltre, questo uccello si fa un letto di paglia analogamente a come fanno gli uomini, preparando cioè, come prima cosa, la base rigida che adatta alle sue misure. Riguardo al nutrimento dei figli, poi, sia il padre che la madre si dànno pena. Offrono il cibo a ognuno, sapendo discernere, sulla base di una certa abitudine, quello che ha già avuto la sua parte, perché non la prenda due volte. Quanto agli escrementi, all’inizio sono la madre e il padre a gettarli giú dal nido. Quando però i figli sono cresciuti, insegnano loro a voltarsi e a espellerli all’esterno 25.

Amante degli animali, Aristotele si delizia delle osservazioni che riporta nelle sue opere zoologiche. Molte frasi lasciano immaginare che se vivesse oggi girerebbe come David Attenborough splendidi documentari televisivi sulla natura. È difficile non voler bene a un uomo che, a proposito di una determinata specie di scricciolo, scrive che «è poco piú grande di una locusta, ha una cresta di un rosso dorato, e da ogni punto di vista è un uccellino grazioso e armonioso» 26. Sulle migrazioni degli uccelli attraverso il Mar Nero e il Mediterraneo, Aristotele propone teorie raffinate, certamente basate su osservazioni

meticolose. Egli ritiene inoltre che per diversi aspetti gli uccelli siano particolarmente vicini all’Homo sapiens: con gli uccelli condividiamo non solo la postura eretta su due gambe, ma anche «la facoltà di emettere suoni articolati» 27. E riflettendo sulla distribuzione delle doti vocali nel regno animale, arriva alle seguenti conclusioni: alcuni animali emettono suoni, altri sono afoni, altri ancora hanno una voce; fra questi alcuni possiedono un linguaggio, altri invece non lo articolano; alcuni sono loquaci, altri silenziosi, alcuni sono melodiosi, altri no; comune a tutti, comunque, è la caratteristica di cantare e vociferare soprattutto nel periodo dell’accoppiamento 28.

Aristotele dà l’impressione di avere scambiato pareri con cacciatori di uccelli che avevano consuetudine con diverse manifestazioni di intelligenza degli uccelli e le descrivevano con modi di dire espressivi: del gufo scrive che è «un burlone e [un] imitatore», e che «può essere preso alle spalle da uno dei cacciatori mentre l’uccello imita la danza dell’altro» 29. Aveva anche partecipato a una bevuta, a fini scientifici, con un loquace pappagallo indiano, cosí da poter affermare che «diventa anche piú insolente quando ha bevuto vino» 30. Ai tempi di Aristotele la popolazione umana era scarsa, anche in rapporto al mondo conosciuto, e i suoi contemporanei avevano idee incerte sui territori che si stendevano al di là delle regioni già esplorate e con cui avevano contatti regolari. Per quanto a volte il cibo scarseggiasse, non c’era la consapevolezza che un bene fornito dalla natura – legna, risorse ittiche, uccelli canori, leoni di montagna, nuove coste da colonizzare – potesse esaurirsi del tutto. Aristotele apre uno squarcio profetico quando descrive i molluschi e scopre che nella laguna di Lesbo una particolare specie di pettine di mare – il pettine rosso – era di fatto scomparsa. Questi molluschi si erano completamente estinti non solo per la siccità, ma anche «per lo strumento con il quale i pescatori li rastrellavano» 31. Gli esseri umani hanno contribuito allo sterminio di un’intera comunità di esseri in precedenza viventi. Si tratta probabilmente del piú antico riferimento nella letteratura mondiale alla pesca incontrollata, emergenza ambientale oggi internazionalmente riconosciuta. Aristotele cita anche le distruzioni che gli uomini possono provocare interferendo per avidità di guadagni con le popolazioni animali già presenti in natura, e ci rimanda in questo caso all’«uomo di Carpato» 32. Il proverbiale

abitante dell’isola di Carpato tentò di fare fortuna con l’allevamento delle lepri, e introdusse sull’isola la prima coppia di questi animali. Ben presto Carpato fu invasa dalle lepri, che devastarono i raccolti, gli orti e l’ecologia della flora. Aristotele è consapevole della capacità dell’agricoltura di interferire distruttivamente con la natura. Pensa anche che gli ortaggi crescano meglio se lasciati alle condizioni naturali piuttosto che irrigati artificialmente. Sicuramente condanna alcune pratiche di allevamento in quanto nocive e contro natura. Alcuni allevatori erano soliti fare accoppiare i giovani maschi di alcune specie con le rispettive madri. Ricorrevano all’inincrocio o perché non potevano permettersi di affittare uno stallone, oppure perché gli animali che possedevano erano considerati esemplari particolarmente belli, con determinate caratteristiche che volevano perpetuare. Questa pratica non è nuova agli odierni allevatori di cani di razza, nonostante sia giustamente considerata scorretta e geneticamente rischiosa: il line-breeding, o incrocio in consanguineità larga, in cui cioè gli animali si accoppiano con lontani cugini, è di gran lunga preferibile. Aristotele è certo che per natura gli animali non vogliano unirsi alle proprie madri, e ha raccolto esempi di resistenza animale a questo forzato «edipismo»: I cammelli non montano le loro madri, e anche se qualcuno tenta di convincerli con la forza, si rifiutano. Qualche tempo fa, poiché non aveva un cammello da monta, un allevatore, dopo avere avvolto una madre dentro un telo, fece portare accanto a lei suo figlio. Mentre i due si accoppiavano, però, il velo che copriva la madre cadde a terra; il cammello allora portò a termine l’unione, ma poco dopo uccise l’allevatore mordendolo 33.

Aristotele studiò l’allevamento dei cavalli molto da vicino. In un altro esempio, racconta che un giovane stallone costretto a mettere incinta la madre rivolse contro se stesso la propria reazione violenta, come un eroe tragico: Si dice anche che il re degli Sciti avesse una cavalla purosangue, che dava alla luce cavalli che erano tutti di buona qualità. Dal momento che voleva che si generasse un incrocio fra il migliore di questi e la madre, se lo fece portare perché la montasse. Il cavallo però non voleva farlo e si dice che alla fine acconsentí solo dopo che la madre era stata sottratta alla vista per mezzo di un telo con cui era stata coperta. Mentre la montava,

però, il viso della cavalla venne scoperto, e allora il cavallo, vedendola, fuggí e si gettò in un burrone 34.

E i diversi metodi di allevamento e alimentazione dei cavalli sembrano preoccupare Aristotele. I cavalli dovrebbero essere lasciati pascolare liberi, perché in questo modo non contraggono malattie, a parte una patologia che colpisce lo zoccolo, che comunque si risana da sé. Le stalle invece sono brodi di coltura della malnutrizione e di ogni forma d’infezione: «I cavalli da allevamento […] soffrono di parecchie malattie. Sono affetti anche da ostruzione intestinale. Un segno della malattia è il fatto che trascinano le zampe posteriori dietro a quelle anteriori e le portano sotto il corpo tanto da farle collidere le une con le altre» 35 (invece sono forse sintomi di mieloencefalopatia degenerativa equina, di anemia infettiva equina o herpesvirus equino 1). E pur non sapendo nulla di geni egoisti o di selezione naturale, Aristotele aveva sicuramente colto l’esistenza di una relazione tra clima locale, paesaggio e tipologia della fauna. Nelle regioni della Grecia settentrionale o ancora piú a nord, come «in Illiria, in Tracia e in Epiro, gli asini sono piccoli, mentre nei Paesi degli Sciti e dei Celti non esistono affatto, perché sopportano male il freddo. In Arabia le lucertole raggiungono la lunghezza di piú di un gomito; i topi poi sono molto piú grandi di quelli di campagna» 36. Allo stesso modo, non poteva sapere niente della risonanza di specie. Tuttavia ci racconta che una volta, nel 395 a.C., tutti i corvi scomparvero dalla Grecia meridionale in concomitanza con una battaglia avvenuta molto piú a nord, che aveva provocato un numero di vittime particolarmente alto. I corvi sono una specie opportunistica, che si ciba di carogne. Aristotele ne deduce tranquillamente che questi uccelli si comportarono «come se avessero avuto una qualche percezione dei segni che si mandavano fra loro da una parte all’altra» 37. Nelle Ricerche sugli animali Aristotele presenta la sua notevole classificazione di tutti gli animali esistenti sulla faccia della terra, una classificazione che rappresenta al contempo un’esposizione di che cosa significhi essere un uomo, dal momento che gli uomini non sono che animali con alcune caratteristiche peculiari. In alcune aree, tuttavia, gli animali appaiono decisamente superiori. Ci sono cose che gli animali sanno fare e gli uomini no: quando descrive gli animali con orecchie esterne visibili,

Aristotele afferma che l’uomo è l’unico che «non può muovere l’orecchio» 38. In realtà alcune persone – una piccola minoranza, certamente – sanno muovere eccome le orecchie, ma a quanto pare Aristotele non era tra queste. Aristotele sa anche che in alcuni animali i sensi sono molto piú sviluppati che nell’uomo: «Il senso piú acuto che l’uomo possiede è il tatto, e per secondo viene il gusto; per gli altri sensi esso è superato da molti animali» 39. Aristotele raccomanda di essere gentili con gli animali, come fa anche Senofonte di Atene, allievo di Socrate e autore di due opere dedicate a cavalli e cani: l’Ipparchico, manuale del comandante di cavalleria, e il Cinegetico, trattato sulla caccia con i cani. Cosí come pensava che tra gli uomini il conflitto sociale fosse diretta conseguenza della povertà, anche negli animali, secondo Aristotele, l’aggressività è legata alla scarsità di risorse, e in particolare alla scarsità di cibo. Nel dispensare consigli sul modo di trattare gli elefanti maschi durante la stagione degli amori, Aristotele ricorda che «l’abbondanza di cibo li rende piú mansueti» 40. In effetti egli ritiene che sia proprio la fame a creare tensioni tra gli uomini e gli animali selvatici: è probabile che se ci fosse abbondanza di cibo, gli animali che ora temiamo e che sono feroci, diventerebbero docili o, nello stesso modo, si abituerebbero a vivere in pace tra di loro. Lo prova la cura degli animali che si ha in Egitto. Dal momento che c’è cibo a sufficienza, e che non ci sono problemi, gli animali – anche i piú feroci – vivono gli uni con gli altri […]Per esempio il genere dei coccodrilli si abitua a convivere pacificamente, in alcune regioni, con i sacerdoti a seguito delle cure che questi ultimi riservano loro nutrendoli 41.

È comunque consapevole che la conoscenza della zoologia permette di sfruttare gli animali piú facilmente. Aristotele analizza ad esempio il modo in cui i Traci mettono i maiali all’ingrasso. Racconta che le corna del bestiame giovane sono cosí tenere che possono essere fatte crescere in qualsiasi forma ricoprendole di cera e modellandole artisticamente. E conosce un metodo sorprendente per eliminare i serpenti pericolosi. Questi animali «sono irresistibilmente attratti dal vino: v’è quindi chi dà la caccia alle stesse vipere ponendo delle tazze piene di vino negli interstizi dei muri: si lasciano prendere ubriache» 42. Ma soprattutto lo Stagirita ama soffermarsi sulle interazioni e sulla cooperazione tra uomini e animali. Riporta ad esempio la storia del mulo piú

celebre di Atene, vissuto a quanto si dice fino a ottant’anni, all’epoca dell’edificazione del Partenone (ovvero negli anni tra il 430 e il 420 a.C.). Data la veneranda età, ottenne il “pensionamento” e non venne piú chiamato al lavoro. Ma tutti i giorni si faceva vivo per aiutare gli altri muli, spalla a spalla con loro, a trainare le cose e a incoraggiarli. «Sicché si proibí per decreto ai mercanti di grano di allontanarlo dai loro setacci» 43. Aristotele ha anche forti sospetti sulla superiore intelligenza dei delfini, che molti scienziati odierni ritengono equiparabile per capacità intellettuale unicamente a quella dell’Homo sapiens: racconta di un branco di delfini che entrarono nel porto di Caria (Turchia sudoccidentale) e rimasero lí fino a quando un pescatore non liberò dalla rete il delfino della loro comunità che aveva catturato. Oltre ai delfini, la specie a cui Aristotele dedica la sua piú amorevole attenzione descrittiva è un altro animale particolarmente socievole e intelligente: l’elefante. La proboscide lo lascia impressionato: ha un naso di tal foggia e dimensioni da potersene servire in luogo delle mani: infatti mangia e beve portando con esso il cibo alla bocca, e porge gli oggetti su al guidatore. Col naso, inoltre, sradica gli alberi, e quando attraversa corsi d’acqua, lo solleva sopra la superficie per respirare. Il naso dell’elefante si curva all’estremità, ma non può flettersi perché è cartilaginoso 44.

Ma sono la forza mentale e il temperamento del pachiderma a conquistare l’ammirazione di Aristotele: Il piú mansueto e il piú docile fra gli animali selvatici è l’elefante. Questo animale, infatti, impara e capisce molte cose e viene persino addestrato a fare l’inchino al cospetto del re. È dotato di buona sensibilità e si distingue, per il resto, per la sua capacità di comprensione 45.

Sono tanti i racconti raccolti da Aristotele che descrivono l’interazione costruttiva che può instaurarsi tra uomini e animali. Ad esempio, le femmine del cervo rosso, ci dice, sono molto intelligenti, perché ha notato che portano i loro piccoli nei pressi delle pubbliche strade: i predatori dei giovani cerbiatti esitano ad attaccarli in quei paraggi per la paura che hanno degli uomini di passaggio. Racconta poi della cooperazione tra lupi e pescatori nella regione

del Mar Nero nordorientale, di fianco al Mare di Azov: a patto che i pescatori dividano il loro bottino con i lupi, tutto va bene. Se però non passano loro il pesce, i lupi «fanno a pezzi le reti lasciate ad asciugare per terra» 46. La presenza di un particolare tipo di pesce che Aristotele chiama anthias è segno che in acqua «non ci sono pesci feroci [e] di questo segnale si avvalgono i pescatori di spugne per capire se possono tuffarsi in acqua» 47. E tale è la loro gratitudine nei confronti dell’anthias che lo chiamano pesce «sacro». Aristotele riconosceva che gli uomini, in quanto animali, devono dare la precedenza alla lotta per la sopravvivenza fisica – ovvero per procurarsi il cibo, l’acqua e il riparo necessari a non morire nel giro di una settimana – prima di potersi dedicare a una vita consapevole, finalizzata alla felicità individuale e collettiva. È colpito dalla resilienza di cui gli uomini dànno prova nell’incessante lotta per il sostentamento. E immagina che per lui sarebbe quasi insopportabile non avere tempo da dedicare all’universo della mente. Sarebbe stato il primo a sottolineare che chiunque legga questo libro è già un privilegiato per disporre di quel minimo di tempo da riservare, dopo aver acquistato e preparato il cibo per la famiglia, a esigenze meno basilari. Questa distinzione tra sopravvivenza biologica e vita consapevole finalizzata alla felicità può pertanto aiutarci a solidarizzare con chi è senza tetto e senza cibo, con i rifugiati e gli esiliati, con i disabili e i malati terminali, e anche con gli animali maltrattati. Non ha senso quindi sentirsi in colpa per avere il tempo sufficiente per riflettere su come diventare la migliore versione possibile di noi stessi. La persona piú eticamente evoluta è quella che piú probabilmente vuole aiutare i propri simili svantaggiati e danneggiati. Siate riconoscenti per la fortuna della situazione in cui vi trovate e continuate a portare avanti il «progetto felicità». 1. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1133a, V, 8, p. 191. 2. Ibid., 1160a, VIII, 11, p. 337. 3. Ismail Kadaré, La figlia di Agamennone, trad. it. di Francesco Bruno, Longanesi, Milano 2007, pp. 84-85 [ed. or. La fille d’Agamemnon, Fayard, Paris 2003]. 4. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1167b, IX, 6, p. 337. 5. Aristotele, Politica cit., 1276a, III, 3, p. 146. 6. Ibid., 1276b, III, 4, p. 148. 7. Ibid., 1313b, V, 11, p. 260. 8. Aristotele, Retorica cit., 1377a, I, 15, p. 145. 9. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1161b, VIII, 13, p. 345.

10. Aristotele, Politica cit., 1281b, III, 11, p. 163. 11. Ibid., 1286a, III, 15, p. 176. 12. Ibid., 1253b, I, 3, p. 69. 13. Ibid., 1259a, I, 11, p. 87. 14. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1168a, IX, 7, p. 381. 15. Aristotele, Politica cit., 1163b, II, 5, p. 104. 16. Robert E. Ulanowicz, Aristotelian causalities in ecosystem development, in «Oikos», 1990, n. 57, pp. 42-48; Laura Westra, Aristotelian Roots of Ecology. Causality, Complex Systems Theory, and Integrity, in Id. e Thomas M. Robinson (a cura di), The Greeks and the Environment, Rowman & Littlefield, Lanham 1997, pp. 83-98; e C. Wesley DeMarco, The Greening of Aristotle, ibid., pp. 99-119. [N.d.A.]. 17. Aristotele, Metafisica cit., 1275a, XII, 10, p. 579 [trad. modificata]. Cfr. Richard Shearman, Self-Love and the Virtue of Species Preservation in Aristotle, in Westra e Robinson (a cura di), The Greeks and the Environment cit., pp. 121-32. E soprattutto Mohan Matthen, The Organic Unity of Aristotle’s World, ibid., pp. 133-48. [N.d.A.]. 18. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 588b, VIII, 1, p. 422. 19. Cfr. Özgüç Orhan, Aristotle. Phusys, Praxis, and the Good, in Peter F. Cannavò e Joseph H. Lane jr (a cura di), Engaging Nature and the Political Theory Canon, Mit Press, Cambridge (Mass.) - London 2014, pp. 45-63. [N.d.A.]. 20. Aristotele, Politica cit., 1253a, I, 2, p. 67. 21. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 551b, V, 19, p. 321. 22. Aristotele, La generazione e la corruzione, a cura di Maurizio Migliori e Lucia Palpacelli, Bompiani, Milano 2013, 316a, I, 2, p. 17. 23. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 518a, III, 11, p. 226. 24. Ibid. 25. Aristotele, Historia animalium [libri VIII e IX], 612b, IX, 8, in Id., L’anima degli animali, a cura di Pietro Li Causi e Roberto Pomelli, Einaudi, Torino 2015, pp. 3-100 (p. 60). 26. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 592b, VIII, 3, p. 435. 27. Ibid., 504b, II, 12, p. 186. 28. Ibid., 488ab, I, 1, p. 136. 29. Ibid., 597b, VIII, 12, p. 447. 30. Ibid. 31. Ibid., 603a, VIII, 20, p. 461. 32. Cfr. Aristotele, Retorica cit., 1413a, III, 11, p. 369. 33. Aristotele, Historia animalium cit., 630b-631a, IX, 47, p. 95. 34. Ibid., 631a, IX, 47, pp. 95-96.

35. Ibid., 604ab, VIII, 24, pp. 43-44. 36. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 606b, VIII, 28, p. 469. 37. Aristotele, Historia animalium cit., 618b, IX, 31, p. 71. 38. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 492a, I, 11, p. 150. 39. Ibid., 494b, I, 16, p. 157. 40. Ibid., 572a, VI, 18, p. 375. 41. Aristotele, Historia animalium cit., 608b, IX, 1, p. 52. 42. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 594a, VIII, 4, p. 438. 43. Ibid., 577b-578a, VI, 24, pp. 389-90. 44. Ibid., 497b, II, 1, pp. 166-67. 45. Ibid., 630b, IX, 46, p. 95. 46. Ibid., 620b, IX, 36, p. 75 [trad. modificata]. 47. Ibid., 620b, IX, 37, p. 75.

Capitolo nono Tempo libero

Aristotele ha dedicato diverse pagine sia dell’Etica sia della Politica all’argomento del tempo libero. E infatti troviamo citato il suo nome in tutti gli studi rigorosi di sociologia, filosofia e psicologia del tempo libero, da quelli duecenteschi di Tommaso d’Aquino all’autorevole Otium e culto di Josef Pieper (1948). Le sue idee radicali sul tempo libero sono cariche di implicazioni per la nostra epoca, e in particolare la sua convinzione che il tempo libero sia piú importante del lavoro e che la gente che non è stata educata a passatempi costruttivi finisca per dilapidarlo. Se Sparta non prospera mai in tempo di pace, è perché – dice Aristotele – la sua costituzione si prende sí cura di formare gli Spartani all’uso delle armi, ma «non li ha educati alla vita libera dalle occupazioni» 1. La noia è il nemico non solo della pace, ma anche della felicità. Le opinioni di Aristotele sulla finalità del tempo libero prendono nettamente le distanze da quelle di tutti i suoi predecessori e contemporanei. Nell’antica Grecia, dove la maggior parte della gente, libera o schiava che fosse, lavorava tantissimo, l’idea prevalente era che il tempo libero dovesse essere consacrato al piacere fisico e a divertimenti effimeri. Esattamente come avveniva nel XIX secolo, quando l’economista norvegese-statunitense Thorstein Veblen inventò i concetti di «classe agiata» e «consumo ostentativo», l’antica popolazione lavoratrice invidiava i ricchi per la maggior quantità di tempo libero che avevano a disposizione e per i divertimenti con cui lo riempivano. Aristotele afferma che la maggior parte della gente «ritiene che cose del genere [= questi divertimenti] siano fonte di felicità perché coloro che stanno al potere dedicano a esse il loro tempo» 2 libero. Ma è un’idea fuorviante, sostiene Aristotele, dato che il piú delle volte la gente, per colpa di questi svaghi, «subisce danni […] piuttosto che averne vantaggio, e rinuncia a prendersi cura del proprio corpo e delle proprie ricchezze» 3. Questi passatempi hanno assolutamente poco a che fare con la vera felicità. La parola inglese per «tempo libero» è leisure, che deriva in effetti dal verbo latino licere (essere lecito): leisure indica il tempo libero dagli obblighi

di lavoro, il tempo che ci è «lecito» scegliere in che modo passare. La parola greca usata da Aristotele, scholé, originariamente significava «tempo» per cosí dire «proprio», o in cui si può fare quel che si vuole. Progressivamente una delle accezioni di scholè acquisí una connotazione accademica, dando origine alla nostra parola «scuola», in quanto i filosofi pensavano che il tempo libero fosse (tra le altre cose) una precondizione dell’attività intellettuale fine a se stessa. Ma il vasto concetto aristotelico di scholè va ben oltre il significato di tempo a disposizione per studiare e discutere. Da una parte include il necessario relax al termine del lavoro, il recupero e il riposo fisico, la soddisfazione dei naturali appetiti corporei di cibo e sesso, e il divertimento o passatempo piacevole per ovviare alla noia. Dall’altra, però, comprende anche ogni altra forma di attività in cui gli uomini possono impegnarsi dopo aver adempiuto ai faticosi compiti necessari per procurarsi i mezzi di sopravvivenza (riparo, nutrimento, autodifesa). Il tempo libero, ribadisce Aristotele, se usato correttamente, è lo stato umano ideale. Poche persone hanno la fortuna di fare ciò che amano fare di piú – realizzare il proprio unico potenziale – ed essere pagati per farlo. Si guadagnano da vivere facendo ciò che sceglierebbero comunque di fare se disponessero di una rendita personale e di tutto il tempo che vogliono. Ma le esigenze economiche fanno sí che la maggioranza della gente passi buona parte della propria vita lavorativa desiderando di non essere al lavoro. Per Aristotele lavoro e riposo non sono fini in se stessi: sono semplicemente i mezzi per un’ulteriore attività di svago in cui poter realizzare pienamente la felicità di cui siamo capaci. La nostra civiltà è ossessionata dal lavoro. La preferenza accordata da Aristotele al tempo libero pianificato e costruttivo rispetto al lavoro o al semplice relax contrasta con la nostra idea che quanto ci definisce è il lavoro o la professione. Quando chiediamo a qualcuno che cosa «fa», intendiamo per guadagnarsi da vivere, e non se usa il tempo libero per cantare in un coro o visitare castelli medievali. L’idea stessa di disporre di tempo libero sufficiente per preoccuparsi di come usarlo ispirerebbe risate sarcastiche a molti lavoratori, convinti che sia il tipo di problema su cui sprecano il tempo futili intellettuali fuori dal mondo, lontani dalla pragmatica realtà della vita quotidiana. Tuttavia è unicamente nelle nostre ore di tempo libero che, secondo Aristotele, possiamo realizzare pienamente il nostro potenziale umano. Scopo del lavoro, in genere, è il sostentamento biologico delle nostre

esistenze, obiettivo che condividiamo con gli altri animali. Ma lo scopo del tempo libero potrebbe e dovrebbe essere il sostentamento di altri aspetti della nostra vita, ovvero quelli che ci rendono specificatamente umani: l’anima, la mente, i rapporti personali e sociali. Se non lo usiamo con uno scopo, quindi, il tempo libero è tempo buttato. Aristotele avrebbe trovato orribile il moderno concetto di «etica del lavoro», che come mostrò Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), si formò originariamente in conseguenza della Riforma e della Rivoluzione industriale. Le persone cominciarono a credere che i problemi della povertà e della raccolta dei mezzi necessari al sostentamento fossero risolvibili, ma soltanto consacrandosi completamente al lavoro. Forse un giorno la fatica potrà essere resa superflua dalle macchine, ma soltanto dopo secoli e secoli di intensa fatica. In questo modo il lavoro, almeno quello orientato a massimizzare la produzione di beni materiali, acquisiva uno status molto piú elevato. Con tutta una serie di conseguenze. Intanto il lavoro smise di essere un mezzo in vista di un fine – sostenere la vita – per diventare un fine in sé. L’idea di lavoro «non produttivo», per indicare quello svolto in ambiti non strettamente necessari alla nostra sopravvivenza biologica, descriveva un’attività che veniva cosí percepita come intrinsecamente meno preziosa del lavoro industriale. Come spiegò l’economista Adam Smith in La ricchezza delle nazioni (1776), i «lavori improduttivi» comprendono non solo quello del monarca, ma anche «gli ecclesiastici, gli avvocati, i medici, gli uomini di lettere di ogni genere; gli attori, i comici, i musicisti, i cantanti lirici, i ballerini ecc.» 4. La necessità di massimizzare la produzione comportò che le ore di lavoro smettessero di dipendere dalle stagioni e cominciassero a essere dettate dal rilevamento meccanico dei tempi. Inoltre aumentarono enormemente, fino a sfociare, all’apice della Rivoluzione industriale, nelle fatiche spossanti e interminabili dei residenti di Coketown, descritte da Charles Dickens in Tempi duri (1854), e negli orrori delle giornate lavorative di dodici ore e del lavoro minorile. Sempre nel 1854 Henry Thoreau pubblicò Walden, in cui descriveva la sua esperienza di vita in una povera capanna di tronchi nelle campagne del Massachusetts, con dovizia di tempo per leggere e riflettere. Il libro analizza la deprivazione psicologica operata dalla società capitalistica. Nella sua corsa impazzita alla sovrabbondanza materiale, l’umanità ha dimenticato completamente la ragione e lo scopo della vita e ha addirittura cominciato a

inventarsi nuovi bisogni per giustificare la sproporzionata quantità di tempo dedicata a fabbricare prodotti non necessari. Thoreau si perde in una fantasia profondamente aristotelica: un giorno ogni villaggio del New England sovvenzionerà un proprio Liceo, pieno di libri, giornali, riviste specialistiche e opere d’arte, e inviterà gli uomini piú saggi del mondo a visitare e a istruire le popolazioni locali nelle loro lunghe ore di tempo libero. Aristotele avrebbe approvato l’enfasi di Thoreau sull’istruzione quale soluzione al «problema» dell’impiego costruttivo del tempo libero. Lo Stagirita era amaramente consapevole del fatto che in genere la gente non è socialmente preparata a scegliere bene in che modo usare il proprio tempo libero, malgrado proprio questo tempo, secondo lui, fosse la parte piú importante della nostra vita. Arrivò anzi a sostenere che in una società ideale il buon uso del tempo libero sarebbe la meta e l’obiettivo principale dell’educazione. Una visione che non potrebbe essere piú moderna. Una reazione alla mancanza di preparazione all’uso del tempo libero è la dipendenza dal lavoro, una sindrome identificata all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando molte persone trovarono difficile riprendere la vita «normale» dopo la situazione di grave pericolo precedentemente vissuta. Lavorare compulsivamente tutto il giorno è dannoso per la salute fisica e mentale. Alcuni Paesi e organizzazioni stanno prendendo seri provvedimenti per scoraggiare questo comportamento: in Francia i lavoratori hanno ottenuto il diritto a non controllare il proprio account di posta elettronica al di fuori dell’orario di lavoro. Allo stesso tempo però i giovani vengono indotti a sviluppare atteggiamenti ossessivi nei confronti del lavoro da pressioni accademiche sempre crescenti e dalla concomitante diminuzione dell’attenzione di molte scuole per le attività che potrebbero contribuire successivamente a una «vita oziosa»: imparare a suonare uno strumento, a lavorare con le mani, a coltivare un hobby, a fare esercizi fisici. Data la velocità del cambiamento tecnologico, c’è un bisogno urgente di studiare il tempo libero e le attività ricreative. L’allungamento della vita aumenta notevolmente il numero di anni in cui non siamo tenuti a lavorare per il nostro sostentamento. I progressi sempre piú rapidi nel campo dell’intelligenza artificiale permetteranno di assegnare a robot, computer e macchine molti compiti gravosi da cui dipende la società umana. A sua volta, probabilmente, tutto questo porterà a una percentuale molto piú grande di popolazione che dedicherà al lavoro un numero di ore cosí ridotto come la

razza umana non ha mai conosciuto. E le rivoluzionarie idee di Aristotele sul tempo libero appariranno sempre piú importanti via via che diminuirà il tempo effettivo che passiamo al lavoro. Una maggior quantità di tempo libero faciliterà i processi di autoformazione. L’aumentata disponibilità di tempo libero, unita alle risorse gratuite offerte da Internet, renderà accessibile un’istruzione di livello mondiale a chiunque possieda una connessione. L’accesso alla conoscenza dipendeva tradizionalmente dall’accesso a una biblioteca, in una situazione che permetteva ad esempio al lavoratore interpretato da Matt Damon in Will Hunting. Genio ribelle (1997) di dire a un arrogante studente di Harvard: «Hai sborsato 150 000 dollari per un’istruzione che potevi avere per un dollaro e mezzo in sovrattasse alla biblioteca pubblica». Ma anche le biblioteche sono state superate. Alcune università, Mit compreso, offrono corsi ad accesso libero completamente gratuiti. Altre, come la Harvard Business School, pubblicano blog di altissimo livello curati da brillanti accademici. Ted, YouTube e iTunes offrono lezioni registrate e podcast su qualsiasi argomento immaginabile. Ma per le nostre ore di relax, l’ultima cosa che molti di noi desiderano, dopo le pesanti incombenze dei giorni lavorativi, è un’attività di apprendimento diretto. La risposta è una combinazione di piacere e sviluppo personale da ottenere per mezzo di un’attenta scelta degli svaghi ricreativi. Harry Allen Overstreet, direttore e ispiratore del dipartimento di Filosofia della City University of New York dal 1911 al 1936, e autore di numerosi bestseller di autoaiuto e psicologia sociale, aveva capito che la ricreazione era un argomento molto serio: «La ricreazione non è un problema secondario in una democrazia. È un problema primario, perché il tipo di svago che una persona sceglie determina il tipo di persona che diventerà e il tipo di società che costruirà». Overstreet aveva studiato filosofia classica e questa celebre citazione riassume il pensiero di Aristotele sulla potenzialità del tempo libero di favorire la felicità umana o il suo contrario. Ciò che scegliete di leggere, guardare o ascoltare nel tempo libero ha un effetto diretto sul vostro sviluppo come esseri morali – è il modo in cui continuamente create voi stessi, come suggerisce l’etimologia del termine «ricreare». Questo significa, secondo Aristotele, che la scelta dell’attività ricreativa ha effetti diretti sulla vostra felicità. Sappiamo che Aristotele era un appassionato camminatore, che teneva in

gran conto la salute del corpo e il piacere fisico. Sicuramente, quindi, tra i passatempi da incoraggiare avrebbe annoverato l’attività fisica, gli svaghi creativi, la musica e i piaceri della tavola. Ma l’unica attività di svago a cui dedicò una seria riflessione filosofica fu la letteratura, e in particolare la letteratura drammatica, che costituisce l’argomento centrale della Poetica. In effetti questa sua scelta è interessante, dal momento che il suo maestro aveva a tal punto disapprovato le arti da bandirle dalla città-Stato ideale da lui presentata nella Repubblica. Perché mai Aristotele, pensatore serio, che mirava a una comprensione del mondo che creasse la migliore comunità umana possibile, dedicò cosí tanto tempo a riflettere sulle storie di fantasia messe in scena dal teatro popolare? L’unica spiegazione è che fosse personalmente convinto che questo intrattenimento avesse enormi potenzialità per il miglioramento della vita affettiva e morale sia del singolo spettatore sia dell’insieme della comunità. Aristotele chiaramente amava il teatro, la musica e le arti visive. Tutte le sue opere sono ricche di riferimenti a cantanti, cori, arpisti, danzatori, poesie e poeti, statue e opere di artigianato. Ma aveva avuto un’esperienza diretta anche di quelli che erano i benefici sociali dell’arte. Quando a quarantotto anni si trasferí ad Atene per fondare il Liceo, lo costruí molto piú vicino al teatro di Dioniso, sul versante sud dell’Acropoli, di quanto lo fosse l’Accademia di Platone. Atene era ancora il centro riconosciuto dello spettacolo e dell’attività teatrale. Chiunque nel mondo greco volesse lasciare il segno nella storia del teatro si recava ad Atene, come oggi si trasferisce a Hollywood qualsiasi aspirante produttore cinematografico. Possiamo immaginarci Aristotele che all’alba si mette in cammino, in compagnia di Teofrasto e degli studenti, e di molti altri cittadini e residenti di Atene, per assistere alle tragedie e alle commedie nei santuari e nei teatri di Dioniso nel centro della città, e che all’imbrunire ne discute emozionato mentre rincasa all’Accademia. La drammaturgia ateniese mirava non solo ad affascinare gli spettatori, ma anche a formare in loro le capacità cognitive, morali e politiche necessarie alla sana amministrazione di una città. Di quando in quando scoppia una polemica sui limiti di ciò che è appropriato e decoroso far vedere o ascoltare alla gente nei programmi televisivi, al cinema o in teatro. Violenza, turpiloquio, contenuti sessuali espliciti e nudità sono stati (e in molte giurisdizioni di tutto il mondo continuano a essere) oggetto di censura diretta o indiretta. Brian di Nazareth,

dei Monty Python (1979), fece scandalo e fu tacciato di blasfemia da alcuni cristiani; nel 1987, in Gran Bretagna, la messa in onda da parte di Channel 4 di un film in cui Tony Harrison recitava la sua poesia V, piena di imprecazioni, fu deplorata dal quotidiano conservatore «Daily Mail» e da altri sedicenti paladini della morale pubblica; la lunga e atroce scena dello stupro nel film di Jonathan Kaplan Sotto accusa (1988) fu criticata da alcune femministe come artificio che assecondava le fantasie sadiche dei maschi. Piú recentemente i genitori sono stati messi in guardia circa la desensibilizzazione psicologica dei loro figli rispetto alla violenza operata dai videogiochi, in particolare da quelli in cui i giocatori assumono il ruolo di «sparatutto in prima persona». Resta per lo piú sconosciuto che questo dibattito risalga all’antichità, essendo stato affrontato filosoficamente per la prima volta in modo dettagliato nell’Accademia di Platone, in un confronto tra Platone e il suo allievo piú brillante Aristotele. Quest’ultimo sosteneva che noi non imitiamo irriflessivamente ciò che vediamo nelle opere d’arte: se queste sono costruite in modo responsabile, noi pensiamo a quello che stiamo guardando e decidiamo, fra le altre cose, se sia desiderabile o meno imitarlo. Aristotele è stato il primo filosofo ad affermare che l’arte poteva essere uno straordinario strumento pedagogico. Con passione sostenne che in una democrazia gli autori teatrali e musicali ricoprivano un ruolo di tale responsabilità che avrebbero dovuto essere nominati pubblici ufficiali, e che la loro importanza era seconda solo a quella dei sacerdoti. Avrebbero dovuto avere la precedenza anche su ambasciatori e araldi di nomina pubblica. Aristotele fa frequente ricorso a esempi tratti da miti, da celebri drammi teatrali e da poemi epici, non solo nelle sue opere di etica ma anche nei testi dedicati ad altri temi. La sua analisi degli eccessi e dei difetti dei caratteri umani deve molto agli stereotipi da lui osservati nella commedia dell’epoca. Possiamo essere certi che se fosse vivo oggi sarebbe stato un avido consumatore di programmi televisivi, romanzi e film, di cui si sarebbe servito per illustrare alcune questioni morali. Fu il primo pensatore a elaborare argomenti che mostrassero il potenziale edificante dei racconti e degli spettacoli recitati, e molti filosofi recenti e contemporanei hanno semplicemente rielaborato le sue idee per applicarle al cinema. Walter Benjamin, per esempio, osservò che le arti, e il cinema in particolare, possono migliorare la nostra esistenza morale, sociale e politica. Iris Murdoch, Martha Nussbaum e Paul W. Kahn hanno affermato che le idee

filosofiche, e soprattutto quelle di ordine etico, trovano la loro migliore e piú chiara e articolata esposizione non nei saggi accademici ma nelle situazioni particolari ritratte nelle opere d’arte, essendo esempi pratici e in quanto tali affettivamente convincenti 5. È molto piú facile fruire di buona arte oggi che non ai tempi di Aristotele, quando le opere teatrali erano rappresentate soltanto in certe festività e a distanza di mesi. Internet ha reso facile come non mai trovare e scegliere film, drammi, libri e programmi televisivi, per noi stessi e per i nostri figli. Un intrattenimento di alta qualità, con un minimo di pianificazione, può contribuire alla nostra felicità e alla crescita, giorno dopo giorno, della nostra saggezza di vita. I film, per il fatto di poterli guardare gratuitamente a casa come anche in un letto d’ospedale, sono una forma d’arte veramente democratica. Un mio amico, ormai in fin di vita a causa di una sclerosi multipla, trasse grande conforto e gratificazione dalla sua enorme collezione di dvd, anche quando non poteva quasi piú muovere nessuna parte del corpo. Nel secondo capitolo della Poetica Aristotele formula la domanda fondamentale: perché gli uomini, a differenza degli altri animali, hanno le arti? In primo luogo, siamo nati con un istinto imitativo piú forte di quello presente negli altri animali. I bambini apprendono i loro primissimi modi di fare imitando gli altri esseri umani. In secondo luogo, agli uomini di ogni età e occupazione le arti imitative piacciono. Ci dà piacere guardare un quadro o uno spettacolo realistico. In linea di massima la natura usa il piacere per guidare tutti gli animali verso ciò che è bene per loro: alimentarsi e riprodurre la specie. E nell’uomo, evoluto animale sociale, il piacere di guardare un quadro o assistere a un dramma può aiutarlo a conoscere il mondo. Le arti possono fungere da grande enciclopedia dell’esperienza umana, permettendoci di imparare cose, a prescindere dalla difficoltà della materia, che non potremmo mai sperimentare direttamente nella realtà. Aristotele notò anche che la visione di ritratti artistici conformi al vero di cose che, se guardate dal vivo, ispirerebbero disagio anziché piacere, può essere non solo tollerabile ma effettivamente piacevole. E fa l’esempio di creature repellenti o di cadaveri umani. Possiamo reagire male alla vista di un ragno o di una medusa reali, ma Aristotele sapeva bene, avendoli dissezionati e meticolosamente ritratti, che l’immagine, facciamo il caso, di una seppia può permettere a uno studente di zoologia di imparare molte cose di quella specie pur non avendo mai visto questo tipo di invertebrato marino.

Il secondo esempio, quello dei cadaveri, è affascinante. È improbabile che Aristotele avesse mai assistito alla dissezione di un cadavere umano. Ma sappiamo che l’arte e la letteratura antiche abbondano di corpi morti. Gran parte dell’Iliade omerica ruota intorno a salme di splendidi guerrieri trucidati sul campo di battaglia, come Patroclo o Ettore. La tragedia greca chiede al pubblico di guardare per lunghi periodi i corpi di individui uccisi da stretti familiari – i figli di Giasone e Medea, appesi al carro della madre alla fine della Medea di Euripide, o il corpo sanguinante del figlio suicida Emone, che Creonte, fra le lacrime, porta in braccio sulla scena al termine dell’Antigone di Sofocle. Aristotele sostiene che l’arte ci permette di pensare ai corpi morti, anche a quelli uccisi in circostanze terribili, e di conoscere in modo arricchente anche realtà spaventose come la morte. Questa intuizione rivoluzionaria aiuta a spiegare il motivo per cui leggiamo romanzi, o frequentiamo gallerie d’arte, cinema o teatri, immergendoci in mondi caratterizzati da violenze e sofferenze di intensità e dimensioni che troveremmo assolutamente insopportabili nella realtà. Guernica (1937), di Picasso, ci permette di imparare qualcosa sulla sofferenza provocata dai bombardamenti fascisti delle città spagnole. Leggendo il romanzo di Ralph Waldo Ellison Uomo invisibile (1952), possiamo identificarci con la condizione degli afroamericani che vivevano nella New York degli anni Trenta. E possiamo conoscere l’esperienza delle donne incarcerate nelle prigioni federali grazie alla serie televisiva di successo Orange is the New Black (2013) di Jenji Kohan. Inoltre, sottolinea Aristotele, questo modo di imparare «è piacevolissimo non solo per i filosofi, ma anche ugualmente per gli altri» 6, sia pure in grado minore. Quando si tratta di arte e di acquisizione della conoscenza, Aristotele è un ineccepibile democratico. Di conseguenza, la prescrizione di Aristotele per tutte le arti è semplice: qualsiasi dramma, poesia, dipinto o scultura di sicuro successo deve offrire allo spettatore / lettore / ascoltatore o qualcosa di piacevole o qualcosa di utile. Nessuno andrà a vedere un film che non sia né piacevole da guardare né minimamente istruttivo. Una buona opera d’arte, però, sottolinea, deve essere tutte e due le cose. Questa preziosa analisi fornisce al critico di qualsiasi oggetto artistico una regola aurea per valutarne la qualità. La domanda: «Mi è piaciuto?» è importante. Ma se la risposta all’altra domanda, «Ho imparato qualcosa da quest’opera?», è negativa, è opportuno avanzare qualche dubbio

sulla pretesa di eccellenza dell’oggetto in questione. Produttori responsabili e finanziatori teatrali e cinematografici dovrebbero accordare maggiore importanza alla dimensione educativa, oltre che a quella d’intrattenimento. I teatri di Londra, attualmente, sono pieni di commedie frivole a lieto fine, cosí come i cinema abbondano di continui remake, trame riciclate, prequel, sequel e spin-off con protagonisti supereroi da fumetto o agenti segreti armati che sventano presunti disegni terroristici. Scene d’azione rumorosissime e raffinate sequenze visive digitali spesso occupano una porzione della pellicola molto piú ampia di quella composta dai dialoghi di qualsiasi tipo. Nel 2014 Bradley Cooper ha ottenuto una nomination all’Oscar come migliore attore per la sua partecipazione ad American Sniper, mentre David Oyelowo non ha ricevuto nomination per la sua straordinaria interpretazione di Martin Luther King nel film Selma. Non che American Sniper sia un film noioso. Begli attori, recitazione adeguata e anche qualche accenno ai problemi emotivi affrontati dai soldati. Ma mentre guardando Selma, oltre a godervi un bellissimo film, potete imparare un mucchio di cose sul movimento per i diritti civili, da American Sniper non ricaverete nulla, se non un’infarinatura su come si maneggia un fucile McMillan Tac-338. Imparare la storia attraverso un’opera artistica può migliorare tanto la vita. Se il romanzo, il dramma o il film sono ben congegnati, imparerete senza il minimo sforzo, immersi in un mare di piacere. Una trama fantasiosa, unita a un autore, a un regista o a uno sceneggiatore noti per l’attenzione che riservano alla documentazione storica, può risultare altrettanto illuminante di un manuale di storia. Da adolescente, le splendide evocazioni della storia dell’antica Grecia proposte da Mary Renault, in particolare nel romanzo La maschera di Apollo (1966), ambientato proprio nel IV secolo a.C. di Aristotele, alimentarono la mia passione per gli studi classici. Poiché la storia è per gran parte composta da una serie di atrocità perpetrate da qualche gruppo umano ai danni di qualche altro, impararla per mezzo di media artistici, che oltre all’orrore procurano piacere, è ovviamente una cosa sensata. Ognuno stenderà il suo elenco: i titoli in testa al mio sono Uomini nudi (1955), di William Golding, che racconta gli incontri fra uomo di Neanderthal e Homo sapiens; l’epica australiana di Velluto nero (Capricornia), di Xavier Herbert (1938); La vergogna, di Salman Rushdie,

che mi rese finalmente comprensibile la politica pachistana; e Jubilee, di Margaret Walker (1966), uno dei migliori romanzi sulla Guerra di secessione americana e la successiva era della ricostruzione, peraltro nell’ottica delle classi subalterne. E uno dei lati positivi della visione etica del mondo elaborata da Aristotele è che rende anche molto piú interessante l’analisi – non giudicante – della vita delle altre persone. Riflettere su quali doti caratteriali e comportamentali conducano gli altri alla felicità o alla sofferenza, e su come gli altri prendano le decisioni difficili o affrontino le sventure imprevedibili, può essere piacevole e istruttivo e può fornire modelli da imitare o da evitare. La vita reale offre una continua varietà di casi etici adatti all’osservazione e all’analisi. La storia reale inoltre diventa particolarmente emozionante quando è osservata da un punto di vista etico. Ad esempio, perché Leonida condusse quattrocento Spartani a una morte quasi certa alle Termopili, quando i Persiani invasero la Grecia? La scelta fu un efficace atto di propaganda per sollevare il morale di tutti i Greci e incoraggiare la resistenza contro l’imperialismo persiano. Ma le doti caratteriali, il processo decisionale, gli interessi che cercava di proteggere (dopotutto portò con sé soltanto i guerrieri piú vecchi, che avevano già avuto figli) e i motivi ultimi, sono tutti aspetti che si prestano a infinite analisi. La storia ci offre una palestra per sviluppare i nostri «muscoli etici». Proprio come la fiction. Aristotele apprezzava la libertà delle storie di fantasia, che traducevano in realtà importanti situazioni etiche. Gli scrittori che operano nel regno del «che cosa succederebbe» o (nel caso di opere ambientate in un passato storico) del «che cosa sarebbe successo» devono riflettere a fondo sull’etica e sul plausibile svolgersi degli eventi, come scrive Aristotele, «secondo la verisimiglianza e la necessità» 7. Di qui Aristotele, nel nono capitolo della Poetica, giunge all’inevitabile ma rivoluzionaria conclusione che la «poesia» (sta parlando piú in particolare della tragedia) «è cosa piú filosofica e piú seriamente impegnativa della storia: la poesia dice infatti piuttosto le cose universali, la storia quelle particolari» 8. Aristotele è affascinato dall’idea che un genere «poetico», quale è la tragedia ambientata in un passato mitologico, abbia una portata maggiore di un genere basato sulla realtà, per esplorare i modi in cui a una persona «di una certa qualità convenga di dire o di fare cose di una certa qualità secondo verisimiglianza o necessità» 9. Al tempo di Aristotele dovevano essere state scritte piú di duemila

tragedie, e l’ampio ventaglio di citazioni presente nella Poetica mostra che il nostro filosofo doveva averne viste o lette personalmente un buon numero. Aristotele le classificò e forní molti esempi su come valutare le storie di fantasia da un punto di vista morale identico a quello elaborato nei suoi trattati di etica, radicalmente fondato quindi sull’umana esperienza. Per questo la sua analisi è sempre attuale. Aristotele si chiede per quali ragioni agli uomini accadano le disgrazie (trascurando in effetti tutti i motivi religiosi proposti dai testi delle tragedie), e riduce in pratica queste cause a due soltanto: l’errore umano e l’incidente casuale. L’essere umano, in quanto agente morale intelligente in un mondo in cui alcuni fattori non possono essere compresi dall’intelligenza né controllati dall’azione morale, si trova al centro indiscusso della teoria dell’arte di Aristotele, che è affascinato dall’assoluta assenza, nel mondo, di giustizia provvidenziale. È per questo che l’opera teatrale che predilige per esporre la sua teoria dell’arte è l’Edipo re di Sofocle, in cui viene sottolineata con impareggiabile efficacia l’assoluta ingiustizia del fato, della sorte o del caso nella vita degli uomini. Edipo finisce per scoprire con orrore di aver sposato la propria madre Giocasta, da cui ha avuto quattro figli, dopo aver ucciso il proprio padre Laio (senza sapere chi fosse), in quello che di fatto era stato un alterco stradale degenerato in tragedia. La storia è un esempio perfetto di sofferenza ingiusta, dal momento che questo atroce destino avrebbe atteso qualsiasi figlio di Laio e Giocasta che fosse sopravvissuto all’infanzia. Edipo fu destinato a un futuro terribile prima ancora di essere stato concepito. Sofocle non attribuisce a Edipo alcuna responsabilità per il parricidio e l’incesto di cui si è macchiato: nonostante la sua brillante intelligenza, infatti, non li ha compiuti consapevolmente. Edipo ha conquistato il trono di Tebe e la sua bella regina salvando i cittadini dalla distruzione che anni prima incombeva su di loro a causa dell’odiosa sfinge. Ma è lui stesso, come ben sappiamo, la ragione della loro sventura. I suoi misfatti hanno contaminato la città. Il paradosso suggerito dalla tragedia di Sofocle è che un uomo di minor intelligenza e intraprendenza non avrebbe mai scoperto la propria vera identità: senza la fulgida intelligenza di Edipo, lui e Giocasta avrebbero vissuto beatamente fino alla vecchiaia, senza conoscere la vera relazione che li univa. Scoprono invece questa verità ragionando per inferenze, e Giocasta ci arriva pochi minuti prima del marito. In questo dramma il «riconoscimento» – del fatto che Edipo è il bambino che per ordine di

Giocasta doveva essere lasciato a morire sul monte – avviene da parte di entrambi i coniugi, che atrocemente ricompongono a poco a poco la verità. Giocasta si reca nella camera coniugale e si impicca. Edipo la segue, sfila i fermagli dal corpo della regina che pende privo di vita e con quelli si cava gli occhi. Il cognato Creonte lo avvicenda al trono della città e lo separa forzatamente dalle figlie / sorelle Antigone e Ismene. Nel giro di una rivoluzione del sole, il potente e adorato tiranno di Tebe si è rivelato il vero monarca ereditario e ha perso il suo status, la famiglia e il dono della vista. Sofocle ci offre il ritratto realistico di un uomo che sta per smarrire il controllo di sé mentre cerca disperatamente una soluzione per un problema insolubile. Lo spettatore deve in continuazione distinguere le caratteristiche della personalità di Edipo, che hanno contribuito alle sue esperienze e alla sua carriera, dalla sua sventura, contro la quale non ha mai potuto nulla. Non c’è da stupirsi che Aristotele lo considerasse un caso esemplare per l’analisi etica. La relazione fra la trama, i personaggi, i processi di pensiero e i discorsi che li comunicano è studiata e resa nei minimi dettagli. E questi quattro elementi della tragedia – trama (mythos), personaggio (ethos), attività mentale (dianoia) e linguaggio (lexis) – sono infatti, in questo stesso ordine, i quattro elementi individuati da Aristotele come tipici di questo genere di produzione artistica. Il principio è ancora valido, assolutamente, per ogni genere di fiction di qualità. Per Aristotele, Edipo è un eroe tragico esemplare in ragione della sua capacità di ispirarci compassione e timore, che sempre secondo Aristotele sono le risposte emotive appropriate alla tragedia. Mentre il deposto re di Tebe barcolla sul palco, con il sangue che cola dalle orbite, non possiamo non condividerne il tormento. E dal momento che non c’era niente che avrebbe potuto fare, temiamo che una sorte cosí terribile possa attendere anche noi. Nello splendido capitolo tredicesimo della Poetica Aristotele spiega che per suscitare in modo conveniente queste emozioni l’eroe deve possedere il giusto carattere morale. Dobbiamo vedere un uomo che osserva cambiare la sua vita drasticamente, e il cambiamento piú tragico è quello che a causa di qualche errore (hamartia) lo fa piombare da una condizione di felicità e successo in una condizione di sofferenza e fallimento. Aristotele tiene a precisare che l’unico modo per valutare il carattere è osservare quello che effettivamente fanno e dicono le persone. La hamartia dell’eroe non è una pecca o una propensione psicologica permanente. È

qualcosa che facciamo o diciamo, o che non facciamo o diciamo quando dovremmo. È, come ogni altra componente della tragedia ben fatta, etica umana in azione. È in questo nucleo etico e psicologico centrato sull’uomo che risiede il valore della fiction di qualità, che si parli di teatro, di cinema o di romanzi: è questo nucleo che ha la capacità di aiutarci a conoscere noi stessi, gli argomenti oscuri e il mondo anche mentre ci svaghiamo piacevolmente. Una delle parole piú indissolubilmente associate ad Aristotele nell’immaginazione popolare è catarsi, concetto centrale nella sua teoria della tragedia. Guardare una tragedia attiva immancabilmente compassione e paura, ed è quest’attivazione a permettere «la purificazione di siffatte passioni» 10. Aristotele, figlio di eminente medico, deve aver assistito e forse partecipato a procedure mediche; e avendo viaggiato o vissuto in diverse parti della Grecia, ebbe probabilmente la possibilità di confrontare diversi approcci locali alla salute e alla terapia. Nella Politica Aristotele parla del ruolo della musica, cosí come utilizzata in alcuni riti religiosi, nella cura di individui sensibili, sui quali operava «una purificazione e un piacevole alleggerimento» 11. Quest’analisi costituisce una prova fondamentale del potere che gli antichi Greci riconoscevano ad alcune particolari melodie sacre di aiutare a gestire le forti emozioni. Se Aristotele, quando parla nella Poetica della catarsi tragica, aveva in mente un parallelo con i «canti sacri», la tragedia deve essere allora pensata come un dispositivo che, operando in modo omeopatico, suscitava negli spettatori forti emozioni in loro preesistenti, e che oltre quindi ad allietare gli astanti, migliorava la loro capacità di affrontare tali emozioni una volta terminata l’esperienza teatrale. Sono molti i collegamenti fra teatro e medicina di cui troviamo indizi nel mondo antico. Nella poesia della tragedia greca sono numerose le metafore mediche. Si dice che Sofocle avesse introdotto nella sua stessa famiglia il culto dell’eroe guaritore Asclepio. Spesso i santuari di Asclepio erano costruiti accanto ai teatri, come ad esempio si può vedere a Epidauro, a Corinto e a Butrinto (nell’attuale Albania). A rischio di tracciare analogie anacronistiche, potremmo dire che Aristotele descriveva un’esperienza paragonabile a quella – a noi familiare – di andare a vedere un film «strappalacrime», con scene molto commoventi accompagnate da una possente colonna sonora, per concederci il «gusto» di un bel pianto di fronte

alle sofferenze dei personaggi sullo schermo. Almeno in Gran Bretagna, ci sono gruppi di amici, in genere donne, che organizzano addirittura serate con abbondanti scorte di fazzoletti di carta per guardarsi assieme un bel drammone strappalacrime, e posso personalmente attestare che l’esperienza può produrre davvero un piacevole senso di purificazione e di alleggerimento della sofferenza psichica. La Poetica ci insegna come leggere la letteratura, guardare un dramma e pensare all’arte eticamente, in un modo che, se abbiamo deciso di intraprendere la strada aristotelica per la felicità, arricchisce le nostre esistenze quotidiane. Agli aspiranti scrittori il trattato di Aristotele offre ancora consigli preziosi, soprattutto per quanto riguarda la quadripartita formula di trama, personaggi, processi mentali e linguaggio. I segreti piú importanti sono racchiusi negli incomparabili capitoli sesto, nono e tredicesimo, ma l’artista creativo troverà molti stimoli anche nelle altre pagine. L’idea di Aristotele di un’unica azione unitaria alla base di qualsiasi trama ben fatta può aiutare a evitare intrecci tortuosi che distraggono l’attenzione del pubblico. Ai suoi tempi, evidentemente, alcuni drammaturghi credevano che per rendere unitaria un’opera teatrale bastasse trattare della vita e delle esperienze di un singolo protagonista, come ad esempio Teseo o Eracle. Aristotele sa che questo espediente può facilmente dare luogo a una narrazione slegata, episodica, senza capo né coda, e noi sappiamo che dice il giusto: basti pensare a quanti film biografici non riescano, malgrado gli sforzi, a dare un vero senso di continuità all’unica vita raccontata, per non parlare del collegamento fra le diverse scene presentate in sequenza cronologica. Il teatro non è l’unica attività da tempo libero discussa da Aristotele, pur essendo quella a cui è dedicata l’analisi piú approfondita, perlomeno nelle opere giunte sino a noi. Lo Stagirita tuttavia non dà precise istruzioni su come sfruttare il tempo libero nell’ottica di una costruttiva autorealizzazione. Non può esserci una regola. Ognuno di noi è diverso e deve fare la propria valutazione sull’uso mirato del proprio tempo libero. Sono certa però che Aristotele avrebbe incluso tutti gli aspetti dell’autoformazione, e da uno scrittore chiamato Eraclide di Creta sappiamo che ad Atene le conferenze dei filosofi come Aristotele erano molto seguite dal grande pubblico in cerca di svago nel tempo libero. Ma la fondamentale rilevanza che Aristotele assegna, per la ricerca della felicità, alla coltivazione delle amicizie fa pensare che le

persone con cui trascorrete il tempo libero siano tanto importanti quanto il modo in cui lo trascorrete. Il suo illuminante modello di comunità fondato sulle buone azioni reciproche e sulla concordia civile implica che attività extralavorative come il volontariato, l’attivismo politico o la socializzazione su base locale siano intrinsecamente costruttive. Il punto fondamentale da tenere a mente è che il tempo libero non è una faccenda d’importanza secondaria. Per sfruttarlo appieno occorre dedicargli piú riflessione ed energia che non alla vita lavorativa. Perché è nel tempo libero che troveremo il nostro vero sé e la nostra piú grande felicità. 1. Aristotele, Politica cit., 1334a, VII, 14, p. 319 [trad. modificata]. 2. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1176b, X, 6, p. 427. 3. Ibid. 4. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni [1776], trad. it. di Anna e Tullio Bagiotti, Utet, Torino 1987, p. 452. 5. Iris Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge & Kegan Paul, London 1970 [trad. it. La sovranità del bene, a cura di Giuliana Di Biase, Carabba, Lanciano 2005]. [N.d.A.]. 6. Aristotele, Poetica cit., 1448b, IV, p. 21. 7. Ibid., 1451b, IX, p. 61. 8. Ibid., 1451b, IX, p. 63. 9. Ibid. 10. Ibid., 1449b, VI, p. 39. 11. Aristotele, Politica cit., 1342a, VIII, 7, p. 341.

Capitolo decimo Caducità

Inevitabilmente, riflettere sulla felicità significa anche riflettere sulla morte. A prescindere dalle nostre opinioni in materia di religione, di divinità e di vita nell’aldilà, viviamo tutti nella sicura consapevolezza che moriremo, e come noi anche coloro che amiamo. La nostra esistenza corporea, cosí come la sperimentiamo attualmente, cesserà. Pur rimarcando che pensare alla propria morte è una componente necessaria del vivere bene e dell’essere felici, Aristotele guardava la morte per quello che era: «La cosa piú temibile è la morte: infatti è un punto estremo». Come possiamo fare, seguendo il suo esempio, ad affrontare questa dolorosa consapevolezza e al tempo stesso sfruttarla per favorire le nostre possibilità di raggiungere la felicità mentre siamo in vita? Gli ominidi sono sempre stati terrorizzati dalla morte. Cinquantamila anni or sono gli uomini di Neanderthal eseguivano complessi rituali per i defunti, decorandone i corpi con fiori e ocra rossa prima di seppellirli in fosse poco profonde. La prima storia umana narrata nell’Epopea di Gilgamesh è la ricerca del segreto dell’immortalità condotta dal protagonista. La contemplazione della morte suscita automaticamente le grandi domande senza risposta relative ai misteri dell’esistenza e alle forze invisibili che muovono il mondo percepibile dai sensi, che non sono altro che le stesse domande che formuliamo per la prima volta da bambini. Perché sono qui? Da dove sono venuto? Chi è il responsabile dell’universo? Esistono gli dèi? Si occupano di me e di come mi comporto? Dovrei adorarli? Cosa mi succederà dopo che sarò morto? È permesso suicidarsi? Posso ancora comunicare con le persone che amo, dopo la loro morte? L’importanza di queste domande nei nostri pensieri aumenta o diminuisce a seconda di quanto siamo assorbiti dalle urgenze quotidiane. Nel pieno dell’esistenza, quando scopriamo e realizziamo le nostre potenzialità, quando ci diamo dentro, quando allacciamo amicizie e relazioni sentimentali, quando abbiamo dei figli, quando prendiamo decisioni e ci godiamo il tempo libero, sembrano domande lontane e procrastinabili quasi all’infinito. Ma in altri momenti della vita, che spesso cominciano senza preavviso, diventano invece

temi scottanti: ad esempio, quando noi o i nostri cari ci ammaliamo o ci feriamo gravemente, quando viene diagnosticato un male pericoloso o terminale, nei casi di morte imminente, di suicidio, di lutto. Diventano pressanti anche quando i nostri bambini o coloro che dipendono da noi vogliono risposte o hanno bisogno di conforto per una perdita o una sofferenza profonda. Anche traumi estremi in incidenti o in situazioni quasi mortali possono generare l’esigenza di capire meglio il nostro rapporto con la mortalità e con le credenze religiose, come avviene al personaggio interpretato da Jeff Bridges nel film di Peter Weir Fearless. Senza paura (1993), il quale dopo essere sopravvissuto a un incidente aereo giunge a mettere in discussione tutte le opinioni sulla vita e sulla morte che fino ad allora aveva dato per scontate. Anche se per motivi religiosi o spirituali credete nella possibilità di una qualche forma di vita dopo la morte, gran parte di quanto Aristotele ha da dire sulla morte e sul morire può essere di beneficio a voi e ai vostri cari nel corso della vita. Anche il suo maestro Platone ebbe molto da dire sul ruolo della morte nella vita umana, per quanto egli considerasse la morte soltanto un’alterazione superficiale del mondo fisico delle apparenze. Per Platone le anime umane sono immortali e si reincarnano ripetutamente nel mondo fisico. Il suo immutabile e perfetto universo trascendente, a cui le anime umane fanno ripetutamente ritorno, fu assimilato dai primi cristiani al loro Dio creatore. Aristotele sapeva che molti suoi lettori credevano in una vita ultraterrena. Alcuni indizi a sostegno del fatto che la sua etica potesse adattarsi alla fede dei suoi ascoltatori nell’immortalità dell’anima sono rintracciabili nei frammenti di un discorso che Aristotele scrisse per portare conforto ai familiari di un defunto – un cipriota di nome Eudemo caduto in guerra –, nessuno dei quali aveva un’istruzione filosofica. È comunque fuori di dubbio che lui considerasse la morte una conclusione, come molti atei e agnostici dei giorni nostri. Potete volere l’immortalità, ribadisce nell’Etica nicomachea, ma non potete sceglierla, dal momento che è una cosa impossibile. Qualsiasi altra opinione sarebbe stata incompatibile con la sua visione scientifica del mondo, cosí come la troviamo delineata in un testo dal titolo evocativo: La generazione e la corruzione. Le realtà del nostro mondo fisico, animali compresi, sono in un continuo processo di generazione, crescita, alterazione, decadimento e cessazione. La morte sopraggiunge perché il

calore – innato in ogni organismo vivente – viene distrutto. Negli animali la vita dura fino a quando dura il calore innato. È questo calore, spiega Aristotele, che «per cosí dire “accende” la coscienza». Quando con la morte il calore si estingue, l’organismo composito, costituito dal corpo caldo e dalla coscienza o «anima», comincia a disgregarsi. Come scrive nel trattato intitolato Dell’anima, l’organismo è ormai incapace di sensazioni o di attività intellettuali appartenenti alla «persona» individuale. Successivamente molti filosofi hanno condiviso l’idea di Aristotele che la coscienza individuale dell’uomo cessi di operare al momento della morte, come una lampadina svitata o una spina elettrica staccata dalla presa. Questa triste prospettiva è stata quindi una grande preoccupazione filosofica nel corso del tempo. Counselor e psicoterapeuti che operano a sostegno di chi sta per morire o sta affrontando un lutto tendono a porre come scopo ultimo l’accettazione della morte – «andarsene senza fare rumore». Ma in realtà non ci sono prescrizioni del genere in Aristotele, che considera la morte il peggiore dei mali che l’umanità deve affrontare. Per quanto riguarda la filosofia di Aristotele, l’unica verità è questa: quanto piú vi siete attenuti alla sua etica, e quanto piú felici siete quindi diventati, tanto piú sembra, almeno a prima vista, che abbiate da perdere al momento della morte. Se siete riusciti a costruire relazioni umane di grande valore, il pensiero della fine del contatto interpersonale con i vostri cari può gettare una luce tanto vivida quanto intollerabile sulla gioia che vi dà il vostro amore per loro, una chiarezza che può far sembrare inutile qualsiasi tentativo di conforto filosofico o teologico che ci venga offerto riguardo alla morte. È quanto osserva Robert Graves negli strazianti versi di Pure Death, «Pura morte»: Noi guardavamo, amavamo, e in un rapido istante la morte si rese terribile per te e per me. Per amore sottraemmo il nostro naturale sgomento all’influenza consolatoria di qualsiasi filosofo, di qualsiasi alto e grigio dottore in teologia: la morte occupò infine il rango e il posto che le competevano 1.

Aristotele, che voleva profondamente bene alla famiglia e agli amici, pensò molto alla morte. Se avesse conosciuto i consigli dati due secoli prima dal filosofo cinese Confucio circa l’atteggiamento da tenere nei confronti

della morte, la sua reazione sarebbe stata composita. Avrebbe approvato che Confucio invitasse a condurre una vita moralmente virtuosa nel presente, e a non speculare sui fantasmi della vita ultraterrena. Ma lo avrebbe criticato per aver dissuaso da ogni riflessione sulla morte. Perché è vero che ci sono alcuni modi in cui l’etica aristotelica può attenuare la distruttività della morte, e dispensare cosí qualche consolazione. Ma per un uomo dell’onestà e curiosità intellettuale di Aristotele, negare la morte, o chiudere gli occhi dinanzi a essa, era improponibile. Né troviamo nella sua filosofia un solo indizio del fatto che intendesse la tacita accettazione o l’acquiescenza nei confronti della morte come una scelta obbligata. Vi troviamo invece una diffusa consapevolezza che il riconoscimento della nostra mortalità e la discussione di ogni sua implicazione può esserci di particolare aiuto per vivere e morire bene. Il che non significa tuttavia che non ci sia concesso «infuriarci», come scriveva Dylan Thomas spronando il padre in fin di vita, «contro il morire della luce» 2. Troviamo una bella analisi di questa furia nel film Lezioni d’amore di Isabel Coixet, del 2008, tratto dal romanzo di Philip Roth L’animale morente, storia di un famoso intellettuale che non riesce a scendere a patti con la propria vecchiaia e con l’imminenza della morte. Le idee filosofiche sulla morte successive ad Aristotele sono state estremamente varie, ma dal momento che fu lui il primo pensatore ad avere affrontato sino in fondo e senza remore le implicazioni della fine della coscienza, la maggior parte di queste idee trova un precedente nell’opera dello Stagirita. A un estremo troviamo i filosofi che ritengono che l’unica reazione appropriata alla mortalità sia la rabbia e assumono quindi una posizione simile all’ingiunzione di Dylan Thomas al padre: «Non andartene docile in quella buona notte» 3. Il filosofo jugoslavo-statunitense Thomas Nagel, per esempio, ha sostenuto che la vita ci fa abituare alle cose belle che ci offre, e che quindi perderle con la morte, a qualsiasi età, è una privazione, a prescindere che la perdita sia costituita dall’identità, dalle sensazioni o dalle esperienze 4. Elias Canetti, scrittore bulgaro-tedesco di origine ebraica che visse gran parte della sua esistenza in Gran Bretagna e vinse il Nobel per la letteratura nel 1981, era convinto che dovremmo puntare non all’accettazione della morte, ma a vederla come inutile e malvagia, a considerarla «il male primordiale di tutto ciò che esiste, l’irrisolto e l’incomprensibile» 5. Canetti disprezzava ogni tentativo religioso di dare un senso alla morte, e sosteneva che accettare la morte con serenità equivalesse addirittura ad accettare

l’omicidio 6. Per il filosofo e classicista spagnolo Miguel de Unamuno l’uomo vive imprigionato in un immutabile, insolubile e tragico conflitto tra il suo sé emotivo e senziente, che aspira a un’esistenza eterna, e il suo sé razionale, che sa che la vita organica ha una fine. Ma a differenza di Nagel e Canetti, Unamuno trae dal riconoscimento che la morte è una privazione tragica, analoga all’omicidio, una conclusione aristotelica, e cioè che è importante provare a vivere secondo virtú: «L’uomo è mortale, può darsi. E se invece è il nulla a esserci riservato, non dobbiamo fare in modo che questo sia giusto» 7. Proprio il fatto che la morte sia ingiusta è una ragione per provare a condurre una vita virtuosa, in modo che la morte, al suo arrivo, sembri ancor piú immeritata. Il senso dell’ingiustizia della morte ha trovato la sua espressione piú efficace nei Pensieri di Blaise Pascal (1670): Ci si figuri un gran numero di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali siano sgozzati ogni giorno sotto gli occhi degli altri, dimodoché i superstiti vedano la loro sorte in quella dei loro simili e aspettino il loro turno, guardandosi l’un l’altro con dolore e senza speranza. Tale l’immagine della condizione degli uomini 8.

La squadra di forzati in catene di Pascal, come la cella del carcere spagnolo condivisa con altri condannati nel racconto di Sartre Il muro, o come la sala d’attesa del dentista nella poesia di Elizabeth Bishop, o la valle dell’ombra della morte del Salmo 23 o ancora l’albero caduto in Aspettando Godot di Samuel Beckett, è una metafora delle vite mortali. Ma Aristotele avrebbe confutato Pascal con decisione: noi non siamo in catene e non siamo costretti a passare tutto il tempo a guardare i nostri compagni morire. Abbiamo il libero arbitrio, l’agency e la potenzialità di raggiungere una grande felicità vivendo nel giusto modo e in relazioni piene d’amore. Possiamo sperare di vivere in case accoglienti, di lavorare per un obiettivo, di vivere esperienze professionali e ricreative costruttive, di provare sensazioni piacevoli, di stupirci per la varietà e la bellezza della natura, e di pensare per la maggior parte della nostra vita da svegli a cose diverse dalla morte. Ci sono filosofi la cui ossessione per la morte rasenta il feticismo e sarebbe sembrata eccessiva ad Aristotele: ad esempio Heidegger, Camus, Sartre e Foucault. Come per tutto ciò che attiene all’universo morale, una via di mezzo tra carenza ed eccesso è l’ideale anche per misurarci con la prospettiva

della morte. «Guardare alla fine» per la giusta quantità di tempo può aiutarci a fare ciò che Aristotele vuole sopra ogni altra cosa, e cioè vivere nel modo migliore e piú piacevole. Montaigne, legato ad Aristotele da una sorta di relazione di amore / odio, probabilmente esagerava a pensare alla propria morte quasi in ogni momento: «Mi vado staccando da tutto: ho preso congedo per metà da ognuno, eccetto che da me stesso. Mai uomo si preparò a lasciare il mondo piú nettamente e completamente, e se ne distaccò piú universalmente di quel che io mi accingo a fare». Ma pensando alla propria morte, Montaigne fa una scoperta; il pensiero gli restituisce tutta la sua vitalità, lo fa sentire molto piú vivo: «Quando ballo, ballo; quando dormo, dormo» 9. Allo stesso modo, Nietzsche osservò che guardare in faccia la propria mortalità e rifiutare le speranze nell’aldilà ci obbliga ad assumerci la piena e matura responsabilità della nostra reale situazione, responsabilità che a sua volta ci impegna a una vita migliore e piú vigorosa. L’autosufficienza o autonomia (autarkeia) morale comporta l’indipendenza dell’individuo e richiede a questo individuo di essere «fedele a se stesso». Riconoscere che soltanto voi potete affrontare la prospettiva della vostra morte – non potete trovare un sostituto che ci passi al posto vostro – è un aspetto della fedeltà a se stessi. Heidegger, un filosofo spesso oscuro e opaco i cui pensieri sull’essenza dell’esistenza non sono in genere accostati a quelli di Aristotele, assegnò alla morte un posto centrale nella sua concezione curiosamente analoga del soggetto autentico – l’«Io» che indica un soggetto unico – esposta in Essere e tempo. Per Heidegger ogni essere umano è lacerato fra la spinta a conformarsi alle regole e ai valori normativi della società e la viva percezione di essere un soggetto individuale e solitario, un «io» separato e autentico. Fare quello che la società si aspetta anestetizza il nostro senso di essere soggetti unici e singolari, la cui singolarità consiste esattamente nell’inevitabile solitudine al momento della morte. Di conseguenza, per essere autentici e fedeli al nostro sé individuale mentre siamo in vita dobbiamo «guardare alla fine» e contemplare la nostra morte. Heidegger dice che «ogni con-essere con gli altri fallisce» 10 quando il «problema» è la morte, e il nostro senso di essere un’entità unica cesserà insieme alla nostra coscienza. Tuttavia, paradossalmente, questa conoscenza può restituirci ai nostri mondi di lavoro e di relazioni come soggetti morali molto piú energici e impegnati 11. La percezione di ciò che la morte distrugge

può renderci anche molto piú creativi: come scrisse Michelangelo: «Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro sculpita la morte» 12. La discussione aristotelica sulla liceità di definire felice una persona morta dà modo di scoprire un attributo stranamente confortante della morte: quando si muore, alcune cose cambiano, ma (alquanto sorprendentemente) l’unica cosa che non cambia affatto è la «persona» che muore. La sua unica personalità diventa piú chiara, piú definita, proprio perché nella morte la personalità perde la capacità di modificarsi. Nel passato umano e nei ricordi delle altre persone, è al momento della morte che il «sé» come persona unica si completa, cessando di essere suscettibile di cambiamento 13. Quando avviene una morte in famiglia, l’individuo unico che è spirato continua a far sentire una presenza, spesso piú potente di quando era in vita, perché nella morte l’estensione e la qualità del suo contributo possono apparire piú evidenti. Chi ha tre fratelli, di cui uno viene a mancare, si sentirà sempre uno di quattro fratelli. Wordsworth dà espressione profonda a questa realtà nella poesia «Siamo sette» (We are seven), in cui la bambina ripete convinta «Sette siam noi!» anche se dei sei fratelli «due sono nel camposanto» 14. La morte dei bambini appare sempre la piú ingiusta, per il senso d’incompiutezza che lascia. Due splendidi film che esplorano la profondità del dolore, ma anche la varietà delle possibili risposte, sono Il dolce domani, di Atom Egoyan (1997), che indaga l’impulso incoercibile a trovare un colpevole, e Manchester by the Sea, di Kenneth Lonergan (2016), straziante e meravigliosamente interpretato. Per Aristotele tutti gli organismi viventi devono prima pervenire alla coscienza, poi crescere nelle giuste condizioni fino a realizzare pienamente il proprio potenziale, e infine gradualmente declinare e perire. Questo significa che ogni vita, come il protagonista di un romanzo ben scritto, ha una propria traiettoria storica, una propria «parabola». E mantiene quindi nel tempo la propria unità narrativa, come Aristotele, nella Poetica, diceva che devono fare i drammi e i poemi epici di qualità. Aristotele ricorreva all’analogia con l’intreccio teatrale anche per far notare che nella valutazione della felicità di un personaggio le sue sofferenze iniziali possono avere piú o meno importanza rispetto a ciò che avviene dopo la sua morte. Chi ha abbracciato l’etica aristotelica avrà capito sul piano intellettuale che possiede una vita sua, un periodo unitario di tempo in cui esiste nel mondo come singola entità, un’esistenza che può plasmare secondo le sue direttive a patto che ne assuma

la responsabilità e agisca da soggetto autosufficiente. Può essere l’autore della propria storia e promuoverne l’unità, la coerenza e la completezza. Gli uomini pensano davvero in termini di trama narrativa, e «guardare alla fine» può aiutarci a preparare un capitolo finale meno insoddisfacente. Questo modo di considerare la vita può essere di enorme conforto. E Aristotele sapeva quanto ci sia emotivamente gradita una chiusura ben organizzata. Gli psicologi oggi ritengono che il desiderio di conclusione sia innato nel cervello umano, e che possa avere una base biologica, che ci aiuta ad affrontare, via via che invecchiamo, il declino degli anni e la prospettiva della fine 15. L’etica aristotelica ci incoraggia a pianificare la nostra vita per ciò che riguarda i comportamenti che intendiamo tenere per realizzare il nostro potenziale umano. Negli ultimi tempi fra le persone che stanno per morire ha preso piede la moda di stendere un elenco di tutte le cose che vogliono fare per la prima volta. Il film del 2007 Non è mai troppo tardi, di Rob Reiner, racconta di due uomini in fin di vita che fanno un elenco dei propri desideri irrealizzati e cercano di esaudirli. I sogni comprendono un lancio con il paracadute acrobatico, un volo sopra il Polo nord e una gita sull’Everest. È un film che dà la carica e che ha aiutato molte persone con diagnosi di malattie terminali. Altrettanto utile è stato Vivere, di Akira Kurosawa, del 1952, in parte ispirato a Morte di Ivan Ilič di Tolstoj, in cui un burocrate di Tokyo che percepisce di non essere riuscito a realizzare niente che dia senso alla vita riceve una diagnosi di tumore terminale. La sua reazione è impiegare le ultime settimane che gli restano a esercitare con successo pressioni di ogni genere per far aprire un nuovo parco giochi per i bambini della sua città. Ma le ambizioni di tipo aristotelico riguardano progetti molto piú elevati e interconnessi, e la maggior parte di noi ne ha tutta una serie. Un progetto può essere un bambino da crescere, un’amicizia da coltivare, un’impresa da avviare, una casa o un giardino da abbellire, un ente benefico da appoggiare, una scuola da amministrare, una razza di cani da allevare, un hobby, montagne da scalare, una causa politica, un libro da scrivere, una collezione di antichità. È la nostra personalità a unificare questi progetti. L’individuo aristotelico coltiva i suoi progetti in modo continuativo, stabilendo un costante collegamento tra passato, presente e futuro. Pensare alla morte può aumentare le possibilità di riuscita di questi progetti. Ognuno di essi subirà effetti diversi in seguito alla morte di chi li ha avviati. Alcuni cesseranno con

la sua morte, altri no. Ed è qui che una seria riflessione, e se necessario un’azione, diventa fondamentale. Discutete della vostra morte con familiari stretti e amici intimi. Questi progetti – intendo le relazioni affettive – non cessano quando moriamo. Fortunatamente, a quasi nessuno toccherà affrontare la vanificazione di tutti i suoi progetti di vita, che anche per Aristotele sarebbe un peso quasi impossibile da sopportare. Come esempio di persona che vide interamente distrutta la sua possibile felicità, Aristotele porta la storia di Priamo, che vide morire tutti i suoi figli e radere al suolo la città su cui tanto a lungo e tanto bene aveva regnato. Ma la maggior parte di noi non affronta le sventure di Priamo. Alcuni dei vostri cari vi sopravvivranno e resteranno i vostri cari a prescindere dal fatto che la vostra coscienza non sia piú in essere. Preoccuparvi dei loro interessi significa non solo considerare le conseguenze emotive, ma anche rendere noti i vostri desideri per quanto riguarda le cure di fine vita, i lasciti minori non inclusi nel testamento, la cerimonia funebre e la sistemazione delle vostre spoglie. Una mia collega rimasta vedova vive un’ulteriore ed evitabile sofferenza per non aver mai chiesto al marito dove voleva che fossero sparse le sue ceneri. Non sapendo dove portarle, continua a non sentirsi psicologicamente pronta per ritirarle dal crematorio. Pensare alla morte può anche aiutarvi a trovare l’energia e la disciplina per portare a termine i progetti, ad esempio sbrigare la burocrazia per istituire un ente benefico, scrivere un romanzo, o scalare il Kilimangiaro. Le deleghe possono aiutare a far proseguire un progetto: se ci siamo impegnati anima e corpo per costruire una bella casa, un’azienda di successo o una collezione di antichità, è importante dire chiaramente se vogliamo che sia conservata dopo la nostra dipartita e chi dovrebbe ereditarla. Quanto ad Aristotele, prese il Morire Bene con la stessa grande serietà del Vivere Bene. Nelle sue opere filosofiche non analizzò in dettaglio il modo in cui affrontare la morte, ma i racconti della sua morte e il suo testamento, che ci è rimasto, possono fungere da esempio illuminante per tutti noi. Aristotele morí nel 322 a.C., in esilio da Atene. La sua incredulità circa l’interesse degli dèi per le vicende umane, e il suo approccio scientifico al mondo lo esposero a una denuncia su basi religiose. Alla morte di Alessandro, i nemici ateniesi di Aristotele colsero l’opportunità e accusarono il filosofo di empietà, come già era successo otto decenni prima a Socrate. Diversamente da questi, però, Aristotele non andò incontro alla morte.

Socrate ebbe la possibilità di fuggire da Atene e salvare la vita, ma preferí restare e votarsi al martirio. Aristotele, invece, pur soffrendo all’epoca di una grave malattia intestinale, probabilmente un cancro, non era il tipo d’uomo che rinuncia alla vita. Si rifugiò a Calcide, sull’isola Eubea, nella tenuta della famiglia materna, dotata di giardino e di casa per gli ospiti. Lo accompagnò Erpillide, madre di Nicomaco. Fu lí che nel 322 a.C. morí. Doveva essere preoccupato, come dovevano mancargli tremendamente la vita del Liceo e l’amicizia di Teofrasto, a cui aveva lasciato il suo posto. Il trasferimento a Calcide, tuttavia, offrí ad Aristotele un luogo ideale per prepararsi alla morte, che le sue conoscenze mediche, probabilmente, gli indicavano vicina. Trovò conforto affettivo nella letteratura classica: in un commovente frammento, scritto ormai verso la fine della sua vita, osserva che piú invecchia e si ritira dal mondo, piú gli piacciono gli antichi miti. Calcide era, e oggi è ancora, una salubre e ventosa cittadina costiera. È confortante pensarlo nei giorni della sua malattia finale mentre compie le sue ultime passeggiate sull’assolato lungomare, magari accompagnato da Erpillide e da suo figlio, con cui parla del modo migliore per affrontare la prospettiva della sua morte e la loro vita futura senza di lui. Il lutto per la perdita di una persona amata è la peggiore sofferenza psichica che può abbattersi sulla maggior parte degli uomini, e vale la pena prepararsi. Aristotele trovò conforto nella lettura degli antichi classici greci, nei passi dedicati alle morti degli eroi. Noi abbiamo a disposizione film intelligenti sul morire. The Fountain. L’albero della vita (2006), di Darren Aronofsky, mostra una donna in fin di vita che vuole che il marito passi con lei tutto il tempo che le rimane per godere della compagnia reciproca, mentre lui non riesce ad affrontare la perdita imminente, ossessivamente distratto dalla ricerca di una possibile cura per lei. Sul periodo immediatamente successivo al lutto, troviamo una riflessione straordinariamente sensibile nello splendido Monsieur Lazhar (2011), del quebecchese Philippe Falardeau, che racconta da una parte il lutto di una classe di bambini per la morte della maestra, dall’altra il lutto dell’insegnante che viene a sostituirla, un rifugiato politico al quale in patria sono stati uccisi i figli e la moglie. Nel testamento di Aristotele, l’attenta riflessione da lui dedicata ai possibili sviluppi futuri, dipendenti da chi tra i suoi cari o tra coloro verso cui si sentiva responsabile sarebbe morto per primo, è veramente degna del piú competente dei deliberatori. Aristotele aveva due figli biologici, Nicomaco e

Pizia, e un figlio adottivo, suo nipote Nicanore. Sapendo che stava per morire in un periodo di instabilità politica, e che anche lui personalmente doveva fare i conti con l’ostilità di alcuni Ateniesi, nominò come primo esecutore testamentario l’uomo piú potente dell’epoca, Antipatro, da lunga data suo sostenitore macedone e in quegli anni governatore della Grecia. Aristotele era assolutamente serio. Con questa scelta nessuno avrebbe violato le clausole del testamento, se non a suo rischio e pericolo. Un dettaglio all’inizio del testamento rivela che Aristotele scrisse o revisionò il testo poco prima di morire, lasciando quindi pensare che egli sapesse della gravità delle sue condizioni. Il nipote e figlio adottivo Nicanore, figlio di Arimneste, sorella di Aristotele, e del marito di lei Prosseno, era nominato secondo esecutore, sebbene a quanto sembra fosse in quel periodo lontano da casa. Finché Nicanore non fosse tornato, Aristotele chiedeva a un gruppo di quattro amici e, «se voglia e le circostanze glielo consentano», a Teofrasto, il nuovo direttore del Liceo (probabilmente molto impegnato), di farsi carico della tutela «dei figli, di Erpillide, e di tutta l’eredità» 16. Aristotele stimava sicuramente il figlio adottivo Nicanore. Lo nominò infatti tutore dei suoi figli biologici. Ma essendo suo nipote, e molto piú giovane di lui, Aristotele riconosceva che il rapporto di Nicanore con i propri figli biologici sarebbe stato «come padre e fratello» 17. Nicanore doveva prendersi particolare cura di Pizia, e «per quanto riguarda […] tutto il resto […] amministrare in modo degno di lui e di noi» 18. Le donne senza padre, per evitare lo sfruttamento a cui si trovavano esposte, avevano bisogno di un protettore benevolo che ne facesse le veci in ambito giuridico e finanziario. Per questo motivo Aristotele voleva che Nicanore sposasse Pizia e vegliasse su di lei e sulla loro prole. Tale era la preoccupazione di Aristotele per Pizia che fece anche il nome di un secondo possibile marito, se Nicanore fosse deceduto: Teofrasto. Probabilmente la figura piú misteriosa della vita personale di Aristotele fu Erpillide, per lungo tempo sua amante e originaria della sua stessa città natale, Stagira. Il motivo per cui non la sposò risiede presumibilmente nel basso status sociale della donna, forse una schiava o una liberta. Personalmente, suppongo che Aristotele avesse anche a cuore la tranquillità psicologica della propria figlia Pizia: i conflitti tra figliastri e matrigne, o patrigni, erano molto temuti nel mondo antico. L’unica promessa che l’eroina morente dell’Alcesti di Euripide strappa a suo marito è che non si risposerà

mai, evitando cosí di imporre ai figli una matrigna eventualmente ostile. Un altro motivo di conforto per Pizia può essere stata la raccomandazione testamentaria di Aristotele di riesumare i resti della madre omonima per sotterrarli accanto a quelli di suo padre. Tuttavia, sia pure in veste di concubina, Erpillide diede ad Aristotele suo figlio Nicomaco, per il quale egli lasciò tali sollecite disposizioni. Aristotele inoltre non trascura di inserire un commovente accenno al «premuroso affetto che Erpillide» 19 gli aveva dimostrato. In questo modo indica agli esecutori testamentari che devono provvedere diligentemente alle dettagliate e amorevoli disposizioni che ha lasciato riguardo a lei: Qualora voglia ancora una volta sposarsi, si adoperino perché non sia data a un uomo indegno di noi. Le siano dati, oltre a ciò che ha prima ricevuto, anche un talento d’argento attinto all’eredità e tre serve, se vuole, e l’ancella che ha e lo schiavo Pirreo; e se vuole abitare in Calcide, l’alloggio destinato agli ospiti vicino al giardino; se vuole abitare a Stagira, la casa paterna. Quale delle due dimore ella voglia, i tutori la forniscano della suppellettile che a loro sembri adatta e a Erpillide sufficiente 20.

Chissà se era stata la madre di suo figlio a pregare Aristotele di non lasciare la scelta dell’arredamento alla discrezione di generali o filosofi? Le disposizioni lasciate da Aristotele per gli schiavi, per quanto non inaudite per un uomo facoltoso del IV secolo a.C., suggeriscono che avesse sviluppato un legame di affetto nei loro confronti. Alla sua morte, o a una data da specificarsi in seguito (come poteva essere il matrimonio della figlia), doveva essere concessa a tutti la libertà. Alcuni avrebbero anche beneficiato di generosi lasciti. Aristotele garantí che nessuno degli schiavi al suo servizio sarebbe stato venduto (rischiando in questo modo di finire con un padrone meno gentile): «Nessuno degli schiavi, che servirono presso di me, sia venduto, ma continuino ad essere mantenuti in servizio e quando abbiano raggiunto l’età adulta, siano lasciati liberi secondo il loro merito» 21. Come tutti gli antichi Greci, anche Aristotele era interessato ai mezzi con cui un uomo poteva assicurarsi una sorta d’immortalità, prolungando l’influenza delle sue azioni al di là della propria dipartita. Il modo piú ovvio era avere figli e nipoti, per trasmettere il proprio codice genetico e il proprio lignaggio. Fin da Omero gli autori avevano anche parlato con orgoglio

dell’immortalità ottenuta per mezzo del ricordo delle proprie gesta o anche delle proprie sventure depositato in un canto celebre, grazie al quale il nome e le imprese avrebbero continuato a essere tramandati per molte generazioni. Statue, ritratti, iscrizioni funebri, tombe e mausolei venivano commissionati da coloro che potevano permettersi di tenere viva la pubblica memoria di loro stessi e dei loro familiari. Alcuni filosofi, tra cui in particolare Platone, avevano proposto che elaborare nuove idee fosse qualcosa di simile a partorire, dal momento che i concetti importanti sono in grado di cambiare le menti e le esistenze anche molto tempo dopo la scomparsa di coloro che li formularono. Aristotele era affascinato da tutti questi strumenti inventati dagli uomini per eludere la morte biologica. Per quanto personalmente non credesse in una vita senziente dopo la morte, fu sempre attento a non offendere l’istintivo bisogno degli uomini di rituali, ritenuti capaci di mettere in contatto i vivi con gli amati defunti. Era convinto che insistere sul fatto che i legami di amicizia che tenevano assieme la società greca si dissolvessero completamente con la morte sarebbe stato, per usare le sue parole, aphilon, «insensibile» 22, alla lettera «non amichevole». Scrisse un poema in ricordo del compianto amico Ermia, signore di Asso, dove aveva vissuto fra i trentasette e i quarant’anni. Nominò il suo amico e discepolo piú fidato, Teofrasto, a succedergli alla guida del Liceo e prese commiato da questo mondo sapendo che decine di filosofi piú giovani avrebbero perpetuato e sviluppato le sue scoperte intellettuali. Ma all’insieme degli strumenti che servono per affrontare la morte e il lutto ne aggiunse uno di straordinaria utilità: lo sviluppo sistematico delle capacità di richiamare i ricordi alla memoria. Le persone che non ci sono piú vivono davvero nella memoria di chi li ha amati e di chi amavano. Un aristotelico userà i propri ricordi in modo disciplinato e metodico per affrontare meglio la propria vecchiaia e la perdita dei propri cari. Aristotele fu il primo pensatore a noi noto a distinguere tra memoria e deliberata rimemorazione, e a comprendere tutta l’importanza della seconda: l’essere umano, unico fra tutti gli animali, sa richiamare i ricordi alla mente in modo voluto. Socrate, che divulgò una teoria della reincarnazione, aveva maturato l’idea che imparare equivalesse in realtà a un modo di ricordare, un ricordare cose già apprese in una vita precedente. Ad Aristotele però l’idea che le nostre menti fossero nate in altri corpi in epoche passate non interessava: gli interessava invece il modo in cui la nostra mente

attuale era programmata dalla natura per seguire un determinato sviluppo, e il modo in cui, perciò, ogni esperienza individuale, unita all’esercizio dell’immaginazione e della memoria, contribuisce alla maturazione mentale. Aristotele scrisse un intero trattato, La memoria e il richiamo alla memoria, dedicato all’analisi di questa straordinaria facoltà umana. È una lettura affascinante, per il collegamento intimo che sa creare tra il lettore e le sensazioni mentali di Aristotele. Aristotele descrive l’irritazione causata dalle melodie e dai proverbi orecchiabili – i «tormentoni» – che non si riesce a «togliersi dalla testa»: «A chi pur s’è interrotto e non vuole piú proseguire, capita ugualmente di cantare o di parlare ancora» 23. Conosce benissimo la capacità della mente di bloccare o reprimere il ricordo e quella che oggi viene chiamata «sindrome della memoria recuperata»: «È chiaro che è possibile ricordare anche senza avere ora richiamato alla memoria, ma per avere dal principio provato o percepito qualche cosa» 24. Forse lo stesso Aristotele aveva a volte recuperato ricordi di traumi infantili dimenticati per lunghi anni. Lo Stagirita cercò di sperimentare e descrivere nel minimo dettaglio che cosa succedeva quando contemplava le immagini mentali generate dalla sua coscienza. Immagini mentali significa che il soggetto è impegnato o a immaginare qualcosa di ipotetico, o ad anticipare qualcosa che si verificherà nel futuro, o a ricordare a caso esperienze passate o a richiamarle deliberatamente alla memoria: «Non è possibile pensare senza immagini mentali» 25. La piú estesa analisi aristotelica dell’immaginazione si trova in un altro trattato, intitolato Dell’anima. Ma in La memoria e il richiamo alla memoria ad Aristotele preme soprattutto mostrare che c’è una grande differenza tra ricordare qualcosa casualmente – per quanto utile possa comunque essere questo ricordo casuale – e richiamare un ricordo alla mente in modo voluto. Di memoria sono evidentemente dotati anche altri animali. Aristotele ha visto animali che «apprendono» dall’esperienza: il cane conosce il percorso della passeggiatina quotidiana perché l’ha già fatta in precedenza. Ma un cane non sa starsene tranquillo a pensare intenzionalmente a come stava quando era un cucciolo, o a dove ha accompagnato in viaggio il suo padrone l’estate scorsa, o a com’era fatta sua mamma. Tuttavia, malgrado il tono assolutamente austero della sua analisi del ricordo, Aristotele mi strappa un sorriso quando distingue tra richiamo alla memoria e ricordo casuale: «Non sono le stesse persone quelle che ricordano

meglio e quelle che sono piú pronte a richiamare qualcosa alla memoria, ma, mentre per lo piú ad avere miglior memoria sono i tardi, i piú capaci di richiamare alla memoria sono i rapidi e i pronti ad apprendere» 26. A richiamare alla memoria si può imparare. Ma l’osservazione di Aristotele secondo cui i «tardi», i duri di comprendonio, hanno una memoria migliore mi fa pensare che, come molti professori di oggi abituati a impiegare il cervello in faccende intellettuali di qualche tipo, alcuni «professori distratti» di greco antico davano mostra di una pessima memoria quando si trattava di ricordare una lista della spesa o altri aspetti della vita quotidiana. La memoria e il richiamo alla memoria hanno relazioni diverse con i sensi. La memoria, dice Aristotele, è connessa con le facoltà sensoriali. Marcel Proust inventò l’espressione «memoria involontaria», mémoire involontaire, in Alla ricerca del tempo perduto (1913-22), quando le madeleines bagnate nel tè gli «rinfrescarono» la memoria e fecero riaffiorare in lui il ricordo dei giorni in cui da bambino mangiava quel tipo di biscotto insieme alla zia. Ma due millenni prima di Proust, Aristotele aveva puntigliosamente distinto il ricordo involontario, la «rinfrescata» della memoria, sollecitata dai nostri sensi (mneme), dalle informazioni sul nostro passato che possiamo recuperare deliberatamente con atti volontari di rimemorazione (anamnesis). Quest’ultima capacità è un talento esclusivamente umano. È una capacità conscia del nostro intelletto e non una facoltà inconscia dei nostri sensi. Con una bella immagine Aristotele descrive come si crea il ricordo «proustiano»: la nostra mente, in virtú delle percezioni sensoriali, è come ceralacca che riceve l’impronta di uno stimolo esterno, di un anello con sigillo. Lo Stagirita aveva riflettuto molto sugli individui con disfunzioni della memoria – le persone molto vecchie, i bambini molto piccoli, le persone con deficit intellettivi. E spiega queste disfunzioni immaginando che la parte della mente preposta alle percezioni sensoriali non sia sensibile all’«anello con sigillo»: non sia cioè come ceralacca vischiosa che si asciuga all’istante e conserva l’impronta dell’anello, ma assomigli piuttosto ad acqua corrente, nel caso dei bambini piccoli, o ad antichi muri induriti, nel caso dei vecchi o delle persone con ritardo mentale. Ma, a differenza dei ricordi attivati da stimoli sensoriali, il richiamo deliberato alla memoria è una capacità unicamente e peculiarmente umana: «Si tratta cioè di un tipo di ricerca» 27. È una capacità che, se sviluppata ed esercitata, può rivelarsi benefica per la

nostra ricerca della felicità. È legata all’altra facoltà specificatamente umana, la facoltà di scelta rispetto a un’azione, che è parte integrante del Fare la cosa giusta e della realizzazione del nostro potenziale. Su un piano umano piú universale, lo stesso studio della storia e delle idee di personaggi come Aristotele è una sorta di disciplinata rimemorazione collettiva, indispensabile alla nostra comprensione del progetto umano e utile guida per il nostro futuro. Sono propensa a credere che il padre di Aristotele, Nicomaco di Stagira, medico, nutrisse un interesse particolare per i disturbi mentali. Aristotele mostra spesso la sua conoscenza delle differenti tipologie di anomalie della coscienza, che oggi chiameremmo varietà dei disturbi psichiatrici. Con notevole perspicacia il nostro filosofo scrive di come chi soffre di allucinazioni confonda tipi diversi di immagine mentale, ovvero i ricordi reali del passato con scene inventate dalla sua immaginazione. Racconta il caso di un certo Antiferonte di Oreo, che come altri «soggetti ad estasi», parlava «degli oggetti della sua immaginazione come di fatti accaduti, sostenendo di serbarne ricordo» 28. Aristotele parla anche del disagio provocato dai ricordi difettosi in coloro che tendono alla depressione o alla malinconia. La sua convinzione che la memoria, tramite i sensi, sia in stretto rapporto con il corpo, e che in un certo senso la nostra esperienza di qualunque immagine mentale sia un’attività fisica, può suonare notevolmente vicina alle scoperte delle moderne neuroscienze. In particolare Aristotele descrive come i depressi provino un peculiare stato di confusione, «dopo che non hanno saputo richiamare alla mente qualcosa, pur concentrandovi la riflessione» 29. Non potrebbe darsi che il padre di Aristotele praticasse una forma di psicoterapia in cui chiedeva ai pazienti di ricordare traumi passati e che avesse osservato il senso di frustrazione delle persone che avevano completamente «bloccato» i ricordi degli eventi in questione? Aristotele era anche affascinato dal potere delle immagini esterne di indurre e stimolare il ricordo. Nel Liceo usava come ausilio didattico un busto di Socrate. I suoi biografi dicevano che dopo la morte di Pizia e dell’amico Ermia avesse commissionato le loro statue e scritto dei poemi in loro ricordo. E che avesse anche un dipinto con il ritratto della madre. Nella Poetica Aristotele descrive il piacere che si prova quando «riconosciamo» qualcuno in un dipinto e sappiamo dire chi sia, e come questa esperienza, oltre che piacevole, sia istruttiva. In La memoria e il richiamo alla memoria

analizza invece le immagini «interne» delle persone che conosciamo. Pensa che ognuna di esse funzioni sia come oggetto da considerare in sé e per sé, dotato cioè di una propria reale esistenza, sia «come una figura e un oggetto di ricordo» 30. E fa l’esempio di un suo giovane allievo dai capelli scuri di nome Corisco. L’immagine mentale che ha di Corisco può funzionare esattamente come un ritratto, permettendogli cioè di contemplare l’immagine di Corisco e di pensare a lui pur non vedendolo da tempo. La capacità di godere della presenza interna di Corisco nella propria mente, e addirittura di contemplarlo ogni volta che si vuole, dipende da una facoltà unicamente umana. Se Corisco si presenta agli occhi della nostra mente, può essere un evento involontario – non abbiamo evocato deliberatamente quella particolare immagine – e può anzi trattarsi non tanto di un ricordo, quanto di un’immagine indotta da un’altra sensazione o da un altro ricordo. In ogni caso, sia il ritratto reale di Corisco sia la sua immagine mentale a cui Aristotele aveva volontario o involontario accesso permettevano ad Aristotele di pensare al suo allievo anche in sua assenza. La psicologia aristotelica, insieme alla tradizione biografica relativa alle attenzioni da lui riservate alla commemorazione delle persone amate, ci suggerisce un’utile strategia quando ci troviamo ad affrontare la morte e la perdita. Ho scritto gran parte di questo capitolo nei giorni in cui mia madre, all’età di novant’anni, e al termine di una vita lunga e ricca di soddisfazioni, stava morendo. Mi è stato di grande conforto pensare a ciò che Aristotele, sulla base di quanto mi suggerivano i suoi scritti, avrebbe potuto consigliarmi. Nonostante la gravità della mia perdita, il ricorso consapevole al suo sistema etico mi ha fatto vivere con molta maggior tranquillità l’insieme della penosa vicenda, facendomi cosí apparire calma e serena in un momento in cui gli altri avevano bisogno che io lo fossi. Ha anche richiamato la mia attenzione su quanto importante sia vivere la vita nel miglior modo possibile, perché la vita è un bene veramente inestimabile. In particolare, ho scoperto che usare la capacità di richiamare alla memoria mi ha aiutato ad affrontare quel periodo particolarmente doloroso al capezzale di mia madre. La tenerezza delle sue risposte – una debole carezza, uno sporadico sorriso fra tutti quei tubi – mi induce a pensare che abbia aiutato anche lei. Mi misi a ricordare volutamente, e nel maggior dettaglio possibile, i momenti di felicità che da bambina avevo vissuto con lei. Le vecchie fotografie e i racconti degli altri familiari possono essere di considerevole

aiuto, ma i ricordi veramente preziosi sono quelli attivati dal «deliberato richiamo alla memoria» di Aristotele. Percorrendo mentalmente in modo sistematico i miei primi anni di vita, e la casa in cui vivevamo, le vacanze al mare nello Yorkshire e in Scozia, le tre scuole elementari che avevo frequentato, fui sommersa da ricordi straordinariamente vividi di mia mamma nel fiore degli anni. Un giorno, quando avevo tre anni, e ballavamo intorno a un giradischi nella sua camera da letto dopo che lei aveva comprato il 45 giri dei Beatles She Loves You. La gioia assoluta che avevo provato una mattina d’estate, quando tenendomi stretta si era lanciata sullo scivolo di una piscina all’aperto (attraverso la maschera a ossigeno riuscí ad articolare che dovevamo trovarci a Dunbar). Le saponette Pears che comprava apposta per me, perché mi piaceva guardare le cose attraverso la loro trasparenza ambrata. Le ore e ore passate a giocare a gettare bastoncini di legno da un ponte su un torrente delle Yorkshire Dales, con lei che mi mostrava come fare andare piú veloci i miei legnetti tirandoli nei punti dove c’era piú corrente. Noi due sedute davanti al televisore a urlare di gioia perché c’era il programma per bambini Watch with Mother. Il piú bel giorno in cucina della mia vita, con lei, dei cestini di biscotto, e una serie nuova di zecca di stampini per pasticcini che mi aveva comprato, a forma di pulcini, angeli e coniglietti pasquali. E quando intorno agli otto anni non avevo detto a nessuno che ero felicissima, nonostante il dolore, di essere finita in ospedale per un’appendicectomia d’urgenza: perché lei veniva a trovarmi tutti i giorni, sempre da sola, mentre i miei fratelli erano a scuola, e una volta tanto non dovevo competere con loro per avere tutta per me la sua attenzione. Mentre stava morendo, mi mettevo deliberatamente in cerca di questi e altri ricordi nei meandri della mia memoria e poco dopo, appena rintracciati, li trascrivevo. Mi saranno sicuramente di conforto lungo la strada senza di lei che adesso mi aspetta. Il lutto è diverso per le persone che non dispongono della promessa di una vita ultraterrena offerta dalla religione. Aristotele non credeva in una vita dopo la morte. Ma anche se fu denunciato per empietà, non era affatto ateo. E neppure agnostico, nel senso che diamo oggi al termine. Semplicemente, non credeva che entità divine distanti avessero interesse per le faccende umane. Rifiutando il platonismo e ponendo a saldo fondamento dell’etica la natura, diventava per lui superflua una visione religiosa del comportamento umano. Gli aristotelici non basano l’interesse per la comprensione della natura e

l’obiettivo del Vivere Bene su una visione religiosa o metafisica. Alla base di questi interessi e obiettivi c’è infatti una visione naturalistica. Il che tuttavia non esclude affatto la possibilità dell’esistenza di esseri divini né che alcuni aspetti della religione, o quantomeno della sua pratica, possano essere di beneficio all’umanità. Aristotele aveva osservato che se nei vari gruppi etnici del mondo «si dice che gli dèi hanno un re», è «perché gli uomini, gli uni ancora oggi, gli altri in antico, avevano un re e perché gli uomini foggiano non solo le sembianze degli dèi, ma anche il loro modo di vita prendendo a modello se stessi» 31. È solo a causa dei limiti dell’immaginazione umana, ritiene, che gli dèi sono pensati in modo antropomorfico. Aristotele sa anche che i tiranni possono usare la religione per accrescere il loro potere sui sudditi: gli dèi del mito sono stati inventati «per infondere persuasione nel popolo e per far osservare le leggi e il bene comune» 32. Il dio o gli dèi di Aristotele, per altro verso, sono assolutamente lontani da noi: la distanza è talmente enorme che non possiamo contare su una relazione con loro, né come amici né come signori assoluti. Nei trattati sulla fisica e sulla metafisica, come anche occasionalmente nell’Etica nicomachea, Aristotele fa capire di ritenere che la contemplazione dell’universo fisico ci può avvicinare a «Dio». O almeno, che abbiamo piú probabilità di avvicinarci a Dio con la contemplazione che non limitandoci a immaginare le entità celesti a) come simili all’uomo; ma b) in realtà costituite da sovrani sovrumani che interagiscono con i loro «sudditi» umani, che è poi il modo d’intendere la divinità della maggior parte degli uomini al mondo. Aristotele sembra aver creduto che i corpi celesti fossero «piú divini» degli esseri umani. A volte chiama il sole, le stelle e i pianeti i «corpi divini che si muovono nel cielo» 33; «esseri divini […] a noi […] manifesti» 34, o «il cielo e le piú divine tra le cose visibili» 35. Poiché l’insieme del suo sistema filosofico riconosceva la centralità del movimento e del cambiamento, egli pensava inoltre che Dio, per quanto remoto, dovesse essere uno dei «principî primi», una fonte originaria del movimento che mise in moto il resto dell’universo. Dio, di conseguenza, è un «motore», ma un motore «immobile» e immodificabile dagli uomini, anzi, da qualsiasi altro stimolo, forza o entità. Per indagare in che cosa consista Dio o che cosa faccia, Aristotele applica il suo abituale processo di eliminazione, e in un passo ironico si chiede che cosa Dio non faccia. A differenza degli uomini, che al massimo possono

vivere secondo virtú, Dio è assolutamente al di là di qualsiasi genere di etica. Dio non passa il tempo in transazioni d’affari, mostrandosi virtuoso nella stipula dei contratti o nella restituzione dei depositi. Dio non deve dimostrare coraggio di fronte al pericolo fisico. Se dovessimo lodare Dio per come tiene a freno i desideri malvagi, in realtà lo insulteremmo, sottintendendo che abbia desideri tali da dover essere tenuti a freno. Né Dio ha qualcuno sul piano celeste a cui dare del denaro, cosí da poter far mostra di generosità. Aristotele rivela l’assurdità di immaginare gli dèi in forma umana evocando – soltanto per mostrarne l’insostenibilità – l’idea di una moneta e di una valuta divine. E sarebbe una scappatoia, scherza, cavarsela dicendo che sono eterni ma sempre addormentati «come Endimione» 36. Tutto questo conduce Aristotele alla conclusione che Dio debba essere associato a una forma di attività che sia conforme all’attività della piú alta delle virtú, e in quanto esseri umani noi siamo al nostro meglio, essendo oltremodo «virtuosi» e quindi oltremodo felici, quando esercitiamo attivamente il nostro intelletto. È durante il tempo che passiamo a riflettere sul mondo e a teorizzare su di esso – è cioè nella vita teoretica o riflessiva – che come esseri umani piú ci avviciniamo a Dio. Evidentemente Aristotele si sentí dire spesso che è pericoloso equiparare l’attività intellettuale umana a Dio, dal momento che si prende il disturbo di avvertire il lettore che «non si deve, essendo uomini, limitarsi a pensare cose umane né essendo mortali pensare solo a cose mortali, come dicono i consigli tradizionali» 37. Gli uomini, almeno nei brevi periodi in cui sono impegnati nella contemplazione intellettuale di qualcosa di loro interesse, e in cui quindi sono perfettamente felici, colgono l’opportunità temporanea di fare quello che il Dio di Aristotele fa perennemente. Il passo piú celebre su «Dio» di tutta l’opera di Aristotele è contenuto nel dodicesimo libro della Metafisica, chiamato convenzionalmente dai filosofi Metafisica Lambda. È un testo estremamente denso e difficile, ma il nocciolo è chiaro. «Dio» è pensiero attualizzato, o pensiero in atto, di cui gli uomini possono temporaneamente godere. È pura felicità e puro piacere. Pensare sul piano piú alto, con le nostre migliori facoltà, ci muta temporaneamente in «Dio» o quantomeno ci permette di partecipare del divino. Il pensiero attualizzato è ciò che ci rende vivi e questo è lo stesso per «Dio». Ma mentre noi siamo esseri temporanei con un arco di vita dettato dalla biologia, «Dio» è la piú buona ed eterna delle vite. «Diciamo, infatti, che Dio è vivente,

eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo, dunque, è Dio» 38. È un’argomentazione che può suonare piú mistica della maggior parte dell’aristotelico realismo di buon senso e dell’aristotelica saggezza pratica che questo libro ha esplorato. E tuttavia, a un livello profondo, l’argomento che «Dio» sia pensiero o intelletto eterno adombra in modo inquietante i suggerimenti di alcune delle menti piú brillanti dei nostri giorni. In particolare, nel bestseller Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (1988), Stephen Hawking suonava curiosamente aristotelico quando concludeva che se perverremo a scoprire una teoria completa, dovrebbe essere con il tempo comprensibile a tutti nei suoi principî generali, e non solo a pochi scienziati. Noi tutti – filosofi, scienziati e gente comune – dovremmo allora essere in grado di partecipare alla discussione del problema del perché noi e l’universo esistiamo. Se riusciremo a trovare la risposta a questa domanda, decreteremo il trionfo definitivo della ragione umana: giacché allora conosceremmo la mente di Dio 39.

Ma che cosa farà l’aristotelico, che pensa che gli uomini partecipano del divino in quanto possono esercitare la ragione e usare la mente per capire l’universo, quando si tratta di religione istituzionale? A differenza di Platone, Aristotele non parla quasi mai di devozione, almeno nei trattati di etica. E dato che fonda l’etica sulla natura anziché sulla teologia, non sorprende affatto. Solo occasionalmente, però, nelle altre opere, accenna alla propria approvazione nei confronti di alcuni modi convenzionali di onorare gli dèi, riferendosi ai benefici sociali e di altro tipo che questo genere di riti può arrecare, tra cui anche lo svago di gruppo. È un modo utile di vedere le cose: se anche non «credete in» Dio in senso convenzionale, può essere di tanto in tanto costruttivo recarsi in chiesa, alla moschea, nella sinagoga o nel tempio quando voi o la vostra comunità sentite il bisogno di un consolidamento o di un conforto rituale. Nella Politica Aristotele ritiene importante che la città-Stato, che è il contesto piú favorevole al prosperare dell’uomo, si prenda cura dei culti degli dèi. Loda ad esempio alcune associazioni che «nascono in vista del piacere, quelle dei tiasoti e degli eranisti [ad esempio, che] hanno per fine il culto e lo stare insieme» 40. Pensa che in una città-Stato ben amministrata gli abitanti

debbano essere invitati a riunirsi facendo sacrifici e organizzando riunioni a ciò dedicate, tributando onori agli dèi e procurando a se stessi momenti di rilassamento uniti a piacere. È chiaro infatti che nei tempi antichi i sacrifici e le riunioni si tenevano dopo la raccolta dei frutti, cioè al tempo delle primizie, dato che soprattutto in quelle occasioni erano liberi dalle necessità della vita 41.

In un consiglio alle donne tipicamente aristotelico, che unisce la sua predilezione per le passeggiate, l’ancestrale sguardo clinico e l’evidente approvazione per almeno un minimo di rispetto per i riti tradizionali, egli raccomanda esplicitamente che i legislatori delle città ben amministrate prescrivano alle donne incinte di «preoccuparsi del corpo evitando di stare in ozio o di nutrirsi con cibi leggeri»; come esercizio fisico suggerisce «una uscita giornaliera per rendere onore alle dee che presiedono le nascite» 42. Altra faccenda è la superstizione sfrenata. Aristotele con ogni probabilità era d’accordo con l’amico e collega peripatetico Teofrasto, che descrisse i timori dell’uomo ridicolmente superstizioso in un libro di bozzetti morali intitolato Caratteri. Il superstizioso-tipo di Teofrasto ha il terrore del contatto con le donne che hanno avuto un bambino, con i matti e con gli epilettici. Ai razionali filosofi del Liceo i tabú primordiali che associavano queste persone a una reale contaminazione – o miasma – sembravano ridicoli e assurdi. Nelle sue opere Aristotele fa spesso riferimento alle spiegazioni superstiziose e non scientifiche che la gente incolta dava di fenomeni che potevano essere compresi dal punto di vista naturale per mezzo di osservazioni empiriche. Ma i legami sociali delle associazioni che organizzavano banchetti sotto l’egida di determinati dèi ed eroi, o la passeggiata igienica della donna incinta per portare un’offerta a un tempio di Artemide (la dea che sovrintende agli aspetti biologici della vita delle donne) sono un’altra cosa. Aristotele non sembra in alcun modo considerare nocive queste consuetudini costruttive fondate sulla tradizione religiosa. Questo però non è ancora abbastanza per me. Nella mia veste di aristotelica, se personalmente non tendo a praticare preghiere o rituali, e non credo nella loro efficacia, cosa devo pensare dei tanti praticanti al mondo che ci credono? È un problema che mi ha preoccupata, anche perché la maggior parte della mia famiglia d’origine credeva in Dio e praticava una forma o

l’altra di cristianesimo protestante. Molti dei miei amici piú cari sono cattolici o praticanti devoti di varie religioni, tra cui ebraismo, islamismo, sikhismo e induismo. Molti di loro conducono vite virtuose seguendo morali simili alla mia, e per farlo trovano un aiuto nelle loro fedi. Nel mondo in cui vivo sono di piú le persone che credono di quelle che non credono, e molte fra queste credono in un coinvolgimento diretto del proprio dio o dei propri dèi nelle vicende umane. A patto che non costringano nessuno ad accettare le loro visioni, o che non provino teocraticamente a fondare su di esse, anziché sulla ricerca secolare della felicità universale, la legislazione e le relazioni civiche, o che non mettano in dubbio il mio diritto a cercare la felicità senza nessun dio e a essere in disaccordo con loro, sono tenuta ad accettare senza riserve le fedi religiose altrui e a interagire rispettosamente con i credenti in quanto concittadini. Non abbiamo assolutamente la minima prova che Aristotele si sia mai comportato altrimenti. Nei momenti difficili, vivere senza credere in una o piú divinità che intervengono nelle faccende umane, o addirittura senza sperare in una vita ultraterrena, è particolarmente impegnativo. Molti contemporanei di Aristotele, compresi i membri della famiglia reale macedone, si sottoponevano a segretissimi rituali misterici d’iniziazione nella speranza di assicurarsi l’immortalità. Per alcuni di noi la necessità di pregare per un sostegno soprannaturale diventa prioritaria quando ci troviamo in gravi difficoltà di qualsiasi genere. Ma è quando ci troviamo in punto di morte o di fronte alla morte di un nostro caro che questa esigenza si fa piú forte che mai. Il bisogno irrefrenabile di credere in cure miracolose, o in un beato aldilà, può travolgere anche il piú razionale degli agnostici. E non c’è nulla di male. Quando si soffre, nessun mezzo di conforto dovrebbe essere liquidato alla leggera. Tuttavia, guardare in faccia la realtà della mortalità umana può rendere la vita stessa, finché dura, infinitamente piú ricca e piú intensa. Ci sono anche dei vantaggi ad affrontare la probabilità che la nostra coscienza, quando il nostro corpo smette di funzionare, semplicemente finisca, come la corrente elettrica che smette di circolare quando togliamo la spina dalla presa. Essere morti significa anche fine del dolore e della sofferenza, oltre che fine del piacere. Il nocciolo, per Aristotele, è la vita. Lo Stagirita dedicò la sua a riflettere su che cosa significasse essere vivo – non solo per l’essere umano, ma anche per le piante e gli animali, per i pesci e gli uccelli. Nel suo celebre

esperimento «del pulcino», osservò, pieno di meraviglia, il percorso di sviluppo dei pulcini dal momento in cui le uova erano deposte fino a qualche giorno dopo la schiusa. Riferí i risultati delle sue osservazioni quotidiane in una prosa precisa, razionale, scientifica, che a tratti diventa quasi poesia: Verso il ventesimo giorno, il pulcino ormai pigola muovendosi all’interno, se lo si tocca dopo aver spezzato il guscio, ed è già coperto di peluria, quando, dopo i venti giorni, ha luogo lo schiudimento dell’uovo. La testa è ripiegata sopra la gamba destra all’altezza del fianco, e l’ala è posta sopra la testa. In questa fase è ben visibile la membrana simile al corion, cioè quella che vien dopo la membrana piú esterna del guscio 43.

E sono questa meraviglia e questo rispetto per la vita, uniti alla convinzione che con pazienza e impegno morale possa essere superata anche la sofferenza emotiva piú terribile, che rendono Aristotele contrario al suicidio. I primi cristiani, nel tentativo di addomesticare Aristotele e ridurre la portata esplicativa della sua visione del mondo centrata sull’uomo, misero in giro una storia inventata. Dissero che Aristotele si era suicidato dopo aver ammesso il ruolo di Dio nella formazione del mondo: che aveva rinnegato, insomma, sia la sua etica centrata sull’uomo sia la sua scienza. Si era gettato, dicevano, nell’Euripo, il braccio di mare che separa Calcide dalla terraferma greca. Era esasperato dalla sua incapacità di spiegare scientificamente il vorticoso flusso dell’alta marea in quello stretto canale e quindi, nei suoi ultimi istanti di vita, riconobbe che nel mondo era all’opera una misteriosa forza divina indecifrabile al suo intelletto. Questa storia però era un’assurdità propagandistica. Il problema del suicidio, per Aristotele, era l’intenzione che ne stava all’origine, di carattere negativo: «sfuggire povertà, amore o altre fonti di dolore» 44. Aveva notato che una categoria di suicidi era quella costituita dai criminali incalliti, che si uccidevano per sfuggire al loro passato e all’ignominia sociale che ne era derivata: questi individui, «che hanno compiuto molte azioni terribili, sono odiati per la loro malvagità, fuggono la vita e si uccidono» 45. La persona che si uccide non lo fa perché il suicidio in quella circostanza è la scelta piú ponderata che un deliberatore competente possa effettuare, ma per debolezza di fronte alle difficoltà. Aristotele sembra approvare l’inquadramento giuridico ateniese, per il quale il suicidio non era perseguibile come reato, ma non era neppure autorizzato.

Il suicidio è stato oggetto di analisi filosofica nell’intero corso della storia. Tutti i filosofi che condividono la condanna aristotelica del suicidio, come ad esempio Platone e Kant, affrontano il problema considerando il soggetto nel contesto di tre relazioni: quella con se stesso, quella con la società e quella con Dio. In un altro passaggio, però, Aristotele sembra interessato unicamente alla relazione dell’individuo con la comunità di appartenenza. Per Aristotele, l’uomo «che per ira si taglia la gola» commette volontariamente un crimine, e a subire il danno è la comunità. La comunità perde un membro, e dal momento che tutti abbiamo delle responsabilità nei confronti delle comunità di appartenenza, uccidendoci infliggiamo una perdita 46. Il suicidio è una sorta di omicidio se ci sono persone che ci amano o che in qualche modo dipendono da noi, compresi quindi gli altri cittadini. È interessante notare che Aristotele restringe questa affermazione specificando che il reo suicida commette il reato in un impeto d’ira. Non è affatto chiaro se avrebbe incluso nella sua condanna un suicidio deliberato e premeditato, compiuto da chi ritenesse di costituire un peso per la società o fosse già in punto di morte. Aristotele non dice mai se avrebbe approvato il suicidio o la morte assistita nel caso di malati terminali; se si fosse opposto, alcuni di noi oggi difenderebbero davanti a lui il diritto di chi è malato terminale e in pieno possesso delle sue facoltà mentali di morire senza dolore e con dignità. Ma in altri casi, i professionisti che hanno esperienza delle dinamiche suicidarie sottolineano che l’impulso è in molti casi transitorio e di conseguenza non deliberato. Questa caratteristica rende il suicidio del tutto incompatibile con la convinta strategia aristotelica di fare la cosa giusta per Vivere Bene. Molte persone valutano l’idea del suicidio nei momenti di profonda infelicità, soprattutto all’indomani di un lutto o della fine di una relazione. Ma gli aristotelici considereranno che tutto cambia, e che il futuro mantiene il suo potenziale di felicità, nettamente superiore rispetto alla disperazione del momento attuale. Abraham Lincoln, che lottò con la depressione per tutta la vita, rimase vivo e realizzò il proprio potenziale nonostante diversi tentativi suicidari, concentrando la propria attenzione su questa certezza del cambiamento. Nel 1862 scrisse queste righe profondamente aristoteliche a una giovane amica che aveva perso il padre: È con profondo dolore che ho saputo della morte del suo caro e coraggioso papà; e

soprattutto, di come questa scomparsa stia affliggendo il suo giovane cuore molto piú di quanto sia d’uopo in questi casi. In questo triste mondo, le pene non risparmiano nessuno; e giungono ai giovani con sommo dolore, perché li colgono alla sprovvista. I piú anziani hanno imparato ad aspettarsele. Non desidero altro che darle un po’ di sollievo dall’attuale sofferenza. La consolazione perfetta non è possibile, se non con il tempo. Immagino che in questo momento non possa capire che un giorno si sentirà meglio. Eppure si sbaglia. Tornerà sicuramente ad essere felice. Sapere questa cosa, che è certamente vera, la renderà adesso un po’ meno disperata. So per esperienza che cosa dico; e basterà che ci creda per sentirsi subito meglio. Il ricordo del suo amato padre, invece di un tormento, rimarrà nel suo cuore un sentimento di dolce tristezza, cosí puro e santo come mai ne avrà conosciuti prima 47.

Nella certezza che lo stato emotivo in cui si trova cambierà, l’aristotelico che pensa al suicidio riuscirà invece a decidere di adottare comportamenti che nel breve periodo gli possono sembrare piú ardui. Il cambiamento è un processo costante. In tutta la sua opera Aristotele si serve di immagini per illustrare l’idea che una parte di un oggetto, o anche la sua forma complessiva, può cambiare e scomparire, mentre altre parti possono sopravvivere. Anche le lettere dell’alfabeto, dice per esempio Aristotele, se ricombinate in modi diversi, possono comporre una tragedia o una commedia. In natura tutto incessantemente e immancabilmente perviene all’esistenza e scompare, mentre la materia costitutiva contribuisce alla generazione di un’altra entità. Aristotele però – ed è fondamentale – riconosce la differenza che esiste fra la riproduzione organica e la ricreazione ciclica ed elementare dell’acqua, che muta la nube del cielo in pioggia e a tempo debito la pioggia di nuovo in nube. A differenza della pioggia e delle nuvole, «gli uomini e gli animali non tornano su se stessi in modo da essere generati identici» 48. Quando si è morti si è morti. Ma anche qui c’è una consolazione. Non era inevitabile nascere solo per il fatto che era nato il proprio padre. Avreste potuto non essere mai concepiti. Ma se esistete, c’è una bella certezza: vostro padre deve essere stato «generato» prima di voi. Vostro padre (come vostra madre) era qui, come parte della continua riproduzione generazionale della specie umana. Era qui. Era vivo. Ha fatto la sua parte. Quella vita è stata vissuta. Niente e nessuno può portarcela via. Infine, possiamo tutti trarre conforto da una delle piú belle frasi di Aristotele. Egli ipotizza addirittura che il continuo processo generativo che

osserviamo nel mondo naturale – nel caso degli uomini, l’incessante riproduzione lungo la linea delle generazioni – sia «la soluzione di Dio al problema di creare una sostanza eterna». Dio avrebbe voluto che l’universo fosse eterno, e si avvicinò il piú possibile a creare un mondo eterno «rendendo ininterrotta la generazione» 49. Cosí facendo conferí all’intera storia del cosmo, che comprende quella della specie umana e di ognuno di noi come singolo individuo, una unità e una coerenza estreme: «Il ripetere sempre la generazione è ciò che rende eterna la sostanza» 50. 1. Robert Graves, Collected Poems 1959, Cassell, London 1959, p. 71 («We looked, we loved, and therewith instantly | Death became terrible to you and me. | By love we disenthralled our natural terror | From every comfortable philosopher | Or tall, grey doctor of divinity: | Death stood at last in his true rank and order»). 2. Dylan Thomas, Non andartene docile in quella buona notte [1951], in Id., Poesie e racconti, a cura di Ariodante Marianni, Einaudi, Torino 1996, p. 141. 3. Ibid. 4. Thomas Nagel, Questioni mortali. Le risposte della filosofia ai problemi della vita [1979], a cura di Salvatore Veca, il Saggiatore, Milano 1986, pp. 9-17. [N.d.A.]. 5. Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972 [1972], trad. it. di Furio Jesi, Adelphi, Milano 1978, p. 175. 6. Ibid., pp. 175-76. [N.d.A.]. 7. Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli [1913], trad. it. di Maurizio Donati, SE, Milano 1989, pp. 47 e 228 [trad. modificata]. [N.d.A.]. 8. Blaise Pascal, Pensieri, a cura di Paolo Serini, Einaudi, Torino 1966, p. 199. [N.d.A.]. 9. Michel de Montaigne, Saggi (1580-1588), a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 2005, 2 voll. (vol. I, p. 113 e vol. II, p. 1485). [N.d.A.]. 10. Martin Heidegger, Essere e tempo [1927], trad. it. di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 320. 11. Jeff Malpas, Death and the Unity of a Life, in Id. e Robert C. Solomon (a cura di), Death and Philosophy, Routledge, London - New York 1998, pp. 120-34. [N.d.A.]. 12. Michelangelo Buonarroti, lettera a Giorgio Vasari del 22 giugno 1555, in Filippo Tuena, La passion dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo. Lettere scelte 1532-1564, Fazi, Roma 2002, p. 81. 13. Nel passato umano … suscettibile di cambiamento: Ivan Soll, On the Purported Insignificance of Death, in Malpas e Solomon (a cura di), Death and Philosophy cit., pp. 22-38 (p. 37). [N.d.A.]. 14. William Wordsworth, Siamo sette [1798], trad. it. di Giovanni Pascoli, in Id., Traduzioni e

riduzioni, a cura di Maria Pascoli, Zanichelli, Bologna 1923 3, pp. 177-179 (p. 177). 15. Kathleen Higgins, Death and the Skeleton, in Malpas e Solomon (a cura di), Death and Philosophy cit., p. 43. [N.d.A.]. 16. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, Laterza, Bari 1976, vol. I, p. 166 (V, 1). 17. Ibid., p. 167. 18. Ibid., p. 166. 19. Ibid., p. 167. 20. Ibid. 21. Ibid. 22. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1101a, I, 11, pp. 36-37. 23. Aristotele, La memoria e il richiamo alla memoria. De memoria et reminiscentia, a cura di Diego Lanza, in Id., Opere biologiche cit., pp. 1119-39 (453a, p. 1139). 24. Ibid., 451a-b, p. 1130. 25. Ibid., 449b, p. 1123. 26. Ibid., 449b, p. 1121. 27. Ibid., 453a, p. 1137. 28. Ibid., 451a, p. 1128. 29. Ibid., 453a, p. 1138. 30. Ibid., 450b, p. 1127. 31. Aristotele, Politica cit., 1252b, I, 2, p. 66. 32. Aristotele, Metafisica cit., 1074b, XII, 8, p. 575. 33. Ibid., 1074a, XII, 8, p. 573. 34. Ibid., 1026a, VI, 2, p. 273. 35. Aristotele, Fisica, a cura di Marcello Zanatta, Utet, Torino 1999, 196a, II, 4, p. 170. 36. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1178b, X, 8, p. 437. 37. Ibid., 1177b, X, 7, p. 433. 38. Aristotele, Metafisica cit., 1072b, XII, 7, p. 565. 39. Stephen Hawking, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo [1988], trad. it. di Libero Sosio, Bur, Milano 2004 4, p. 197. 40. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1160a, VIII, 11, p. 337 [trad. modificata]. 41. Ibid. 42. Aristotele, Politica cit., 1335b, VII, 16, p. 322. 43. Aristotele, Ricerche sugli animali cit., 561b, VI, 3, p. 349. 44. Aristotele, Etica nicomachea cit., 1116a, III, 11, p. 107. 45. Ibid., 1166b, IX, 4, p. 373.

46. Cfr. David Novak, Suicide and Morality, Scholars Studies Press, New York 1975, pp. 59-60. [N.d.A.]. 47. Abraham Lincoln, Lettera a Fanny McCullough (23 dicembre 1862), in Id., Addresses and Letters, a cura di Charles W. Moores, American Book Company, New York 1914, p. 183. 48. Aristotele, La generazione cit., 338b, II, 11, p. 167. 49. Ibid., 336b, II, 10, p. 159. 50. Ibid.

Ringraziamenti

Questo libro deve moltissimo alla pazienza e al sostegno comprensivo dei miei agenti Peter Straus e Melanie Jackson, dei miei esperti editori e editor Ann Godoff, Stuart Williams e Jörg Hengsen e del mio copy-editor David Milner. Nel corso degli anni ho imparato molto dalle conversazioni con numerosi ottimi aristotelici, classicisti e filosofi, tra cui Tom Stinton, Gregory Sifakis, Sara Monoson, Christopher Rowe, Malcolm Schofield, Heinz-Günther Nesselrath, Jill Frank, David Blank, Phillip Horky, Richard Kraut, Sol Tor, Carol Atack, Francis O’Rourke, Paul Cartledge e John Tasioulas. Ma il libro non avrebbe mai potuto essere concluso senza la comprensione e il costante sostegno della mia famiglia: mio marito Richard e le mie figlie Georgia e Sarah Poynder. Sarah è stata la mia intrepida compagna di viaggio, quando insieme a Leonidas Papadopoulos ho fatto visita a tutti i luoghi in cui visse Aristotele; un viaggio che si è anche giovato della premurosa collaborazione di Christina Papageorgiou, Symeon Konstantinidis e John Kittmer.

Glossario

anamnesis capacità di ricordare aretè (plurale aretai) eccellenza, virtú autarkeia autosufficienza authekastos essere fedele a se stessi dianoia attività intellettuale dynamis potenzialità endoxa credenze comuni, ipotesi generalmente condivise energeia attualizzazione enthymeme prova attraverso il ragionamento epieikeia equità ethos carattere euboulia buona deliberazione eudaimonia felicità, stato mentale che si ottiene praticando l’etica della virtú hamartia sbaglio, errore hedonè piacere hexis proprietà, qualità hypokrisis esibizione, prova retorica kakia (plurale kakiai) difetti, vizi, cattive qualità megalopsychos che ha un’anima grande, magnanimo meson il punto di mezzo tra due estremi phainomena osservazioni empiriche phronesis saggezza pratica physis natura polis città-Stato praxis azione, attività prohairesis preferenza, scelta skopos meta sophos persona saggia, specialista, esperto symboulia dare e ricevere consiglio telos obiettivo, proposito, scopo, conclusione, morte theorìa teoria, trovare una spiegazione

zoòn politikòn animale che vive in una comunità civile; essere umano

Testi di approfondimento

Si tratta delle letture consigliate, in aggiunta a quelle citate nelle note.

Introduzione. Ackrill, John Lloyd, Aristotle the Philosopher, Oxford University Press, Oxford 1981 [trad. it. Aristotele, il Mulino, Bologna 1999]. Adler, Mortimer I., Aristotle for Everyone, Macmillan, New York 1978 [trad. it. Aristotele per tutti, Armando Editore, Roma 1988]. Barnes, Jonathan, Coffee with Aristotle, Duncan Baird, London 2008. Blakesley, Joseph Williams, A Life of Aristotle, John W. Parker, London 1839. Broadie, Sarah, Ethics with Aristotle, Oxford University Press, New York 1993. Haidt, Jonathan, The Happiness Hypothesis. Putting Ancient Wisdom to the Test of Modern Science, Arrow, London 2006 [trad. it. Felicità: un’ipotesi. Verità moderne e saggezza antica, Codice, Torino 2008]. Irwin, Terence, Aristotle’s First Principles, Clarendon Press, Oxford 1993 [trad. it. I principî primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996]. Laughlin, Burgess, The Aristotle Adventure. A Guide to the Greek, Latin and Arabic Scholars who Transmitted Aristotle’s Logic to the Renaissance, Albert Hale, Flagstaff 1995. Natali, Carlo, Aristotle. His Life and School, Princeton University Press, Princeton 2013. Woodfin, Rupert e Groves, Judy, Introducing Aristotle. A Graphic Guide, Icon Books, Cambridge 2001.

Capitolo primo, Felicità. Ackrill, John Lloyd, Aristotle on Eudaimonia, in «Proceedings of the

British Academy», n. 60, 1974, pp. 339-59. Annas, Julia, The Morality of Happiness, Oxford University Press, Oxford 1993 [trad. it. La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1997]. Bok, Sissela, Exploring Happiness. From Aristotle to Brain Science, Yale University Press, New Haven 2010. Kenny, Anthony, Aristotle on the Perfect Life, Clarendon Press, Oxford 1995. Kraut, Richard, Two conceptions of happiness, in «Philosophical Review», LXXXVIII (1979), n. 2, pp. 167-97. Lear, G. Richardson, Happy Lives and the Highest Good. An Essay on Aristotle’s Nicomachean Ethics, Princeton University Press, Princeton 2004. Sullivan, Roger, Morality and the Good Life, Memphis State University Press, Memphis 1977. White, Nicholas, A Brief History of Happiness, Blackwell Publishing, Oxford 2006 [trad. it. Breve storia della felicità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008].

Capitolo secondo, Potenziale. De Groot, Jean, Dunamis and the science of mathematics. Aristotle on animal motion, in «Journal of the History of Philosophy», XLVI (2008), n. 1, pp. 43-67. Frank, Jill, Citizens, slaves, and foreigners. Aristotle on human nature, in «American Political Science Review», XCVIII (2004), n. 1, pp. 91-103. Garrison, Jim, Rorty, Metaphysics, and the Education of Human Potential, in Michael A. Peters e Paulo Ghiraldelli jr (a cura di), Richard Rorty. Education, Philosophy, and Politics, Rowman & Littlefield, Lanham 2001, pp. 46-66. Hall, Edith, «Master of those who know». Aristotle as role model for the twenty-first century academician, in «European Review», XXV (2017), n. 1, pp. 3-19. Harman, Elizabeth, The potentiality problem, in «Philosophical Studies», CXIV (2003), nn. 1-2, pp. 173-98.

Jackson, Michael, Designed by theorists. Aristotle on utopia, in «Utopian Studies», XII (2001), n. 2, pp. 1-12. Morgan, Lynn M., The potentiality principle from Aristotle to abortion, in «Current Anthropology», LIV (2013), n. 7, pp. 15-25. Seligman, Martin E. P., The Optimistic Child, Houghton Mifflin, Boston - New York 2007 2 [trad. it. Come crescere un bambino ottimista, Sperling & Kupfer, Milano 2006]. Witt, Charlotte, Hylomorphism in Aristotle, in «The Journal of Philosophy», LXXXIV (1987), n. 11, pp. 673-79.

Capitolo terzo, Decisioni. Audi, Robert, Practical Reasoning and Ethical Decision, Routledge, London 2006. Callard, Agnes, Aristotle on Deliberation, in Ruth Chang e Kurt Sylvan (a cura di), The Routledge Handbook of Practical Reason, Routledge, London 2017. Chamberlain, Charles, The meaning of Prohairesis in Aristotle’s ethics, in «Transactions & Proceedings of the American Philological Association», n. 114, 1984, pp. 147-57. Dahl, Norman O., Practical Reason, Aristotle, and Weakness of the Will, University of Minnesota Press, Minneapolis 1984. Martinson, David L., Ethical decision-making in public relations. What would Aristotle say?, in «Public Relations Quarterly», XLV (2000), n. 3, pp. 18-21. McDowell, John, Deliberation and Moral Development in Aristotle’s Ethics, in Stephen P. Engstrom e Jennifer Whiting (a cura di), Aristotle, Kant, and the Stoics. Rethinking Happiness and Duty, Cambridge University Press, Pittsburgh-Cambridge 1996, pp. 19-35. Mueller, Monica, Contrary to Thoughtlessness. Rethinking Practical Wisdom, Lexington Books, Lanham 2013. Provis, Chris, Virtuous decision-making for business ethics, in «Journal of Business Ethics», n. 91, 2010, pp. 3-16. Segvic, Heda, Deliberation and Choice in Aristotle, in Myles Burnyeat (a cura di), From Protagoras to Aristotle. Essays in Ancient Moral

Philosophy, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2009.

Capitolo quarto, Comunicare. Atwill, Janet M., Rhetoric Reclaimed. Aristotle and the Liberal Arts Tradition, Cornell University Press, Ithaca-London 1998. Brandes, Paul Dickerson, A History of Aristotle’s Rhetoric, Scarecrow, London 1989. Dow, Jamie, Passions and Persuasion in Aristotle’s Rhetoric, Oxford University Press, Oxford 2015. Enos, Richard Leo e Agnew, Lois Peters (a cura di), Landmark Essays on Aristotelian Rhetoric, Lawrence Erlbaum Associates, London 1998. Garver, Eugene, Aristotle’s Rhetoric. An Art of Character, University of Chicago Press, Chicago-London 1994. Haskins, Ekaterina, On the term «Dunamis» in Aristotle’s definition of rhetoric, in «Philosophy and Rhetoric», XLVI (2013), n. 2, pp. 234-40. Rorty Oksenberg, Amélie (a cura di), Essays on Aristotle’s Rhetoric, University of California Press, Berkeley-London 1996. Rubinelli, Sara, Ars Topica. The Classical Technique of Constructing Arguments from Aristotle to Cicero, Springer, Dordrecht 2009.

Capitolo quinto, Conoscenza di sé. Allard-Nelson, Susan K., An Aristotelian Approach to Ethical Theory, Edwin Mellen Press, Lewiston-Lampeter 2004. Chappell, Timothy (a cura di), Values and Virtues. Aristotelianism in Contemporary Ethics, Clarendon Press, Oxford 2006. Curzer, Howard J., Aristotle and the Virtues, Oxford University Press, Oxford 2012. Deslauriers, Marguerite, How to distinguish Aristotle’s virtues, in «Phronesis», XLVII (2002), n. 2, pp. 101-26. Hartman, Edwin M., Virtue in Business. Conversations with Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge 2013. Hutchinson, D. S., The Virtues of Aristotle, Routledge, London 2016.

Kraut, Richard, Aristotle on the Human Good, Princeton University Press, Princeton 1989. Nussbaum, Martha C., The Fragility of Goodness, Cambridge University Press, Cambridge 1986. Pettigrove, Glen, Ambitions, in «Ethical Theory and Moral Practice», X (2007), n. 1, pp. 53-68. Urmson, J. O., Aristotle’s doctrine of the mean, in «American Philosophical Quarterly», X (1973), n. 3, pp. 223-30.

Capitolo sesto, Intenzioni. Bratman, Michael, Intentions, Plans, and Practical Reason, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1987. Crivelli, Paolo, Aristotle on Truth, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Echeñique, Javier, Aristotle’s Ethics and Moral Responsibility, Cambridge University Press, Cambridge 2012. Ford, S. Dennis, Sins of Omission. A Primer on Moral Indifference, Fortress Press, Minneapolis 1990. Marcos, Alfredo, Postmodern Aristotle, Cambridge Scholars, Newcastle upon Tyne 2012. Nussbaum, Martha C., Equity and Mercy, in «Philosophy and Public Affairs», XXII (1993), n. 2, pp. 83-125. Shiner, Roger A., Aristotle’s Theory of Equity, in Spiro Panagiotou (a cura di), Justice, Law and Method in Plato and Aristotle, Academic Printing and Publishing, Edmonton 1987. Tasioulas, John, The paradox of equity, in «Cambridge Law Journal», LV (1996), n. 3, pp. 456-69.

Capitolo settimo, Amore. Belfiore, Elizabeth, Family friendship in Aristotle’s Ethics, in «Ancient Philosophy», XXI (2001), n. 1, pp. 113-32. Fitterer, Robert J., Love and Objectivity in Virtue Ethics, University of

Toronto Press, Toronto-London 2008. Fröding, Barbro e Peterson, Martin, Why virtual friendship is no genuine friendship, in «Ethics and Information Technology», XIV (2012), n. 3, pp. 201-7. Goodsell, Todd L. e Whiting, Jason B., An Aristotelian theory of family, in «Journal of Family Theory & Review», n. 8, 2016, pp. 484-502. Hursthouse, Rosalind, Aristotle for women who love too much, in «Ethics. An International Journal of Social, Political, and Legal Philosophy», CXVII (2007), n. 2, pp. 327-34. Sihvola, Juha, Aristotle on Sex and Love, in Martha C. Nussbaum e Id. (a cura di), Sleep of Reason. Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome, University of Chicago Press, Chicago-London 2002. Smith Pangle, Lorraine, Aristotle and the Philosophy of Friendship, Cambridge University Press, Cambridge 2003. Vallor, Shannon, Flourishing on Facebook. Virtue friendship and new social media, in «Ethics and Information Technology», XIV (2012), n. 3, pp. 185-99.

Capitolo ottavo, Comunità. Collins, Susan D., Aristotle and the Rediscovery of Citizenship, Cambridge University Press, Cambridge 2006. Frank, Jill, A Democracy of Distinction. Aristotle and the Work of Politics, Chicago University Press, Chicago 2005. Kraut, Richard, Aristotle. Political Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2002. Leroi, Armand Marie, The Lagoon. How Aristotle Invented Science, Bloomsbury, London - New York 2014. Roochnik, David, Retrieving Aristotle in an Age of Crisis, Suny Press, Albany 2013. Worden, Skip, Aristotle’s natural wealth. The role of limitation in thwarting misordered concupiscence, in «Journal of Business Ethics», LXXXIV (2009), n. 2, pp. 209-19.

Capitolo nono, Tempo libero. Castellani, Victor, Drama and Aristotle, in James Redmond (a cura di), Drama and Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 21-36. Cox, Damian e Levine, Michael P., Thinking through Film. Doing Philosophy, Watching Movies, Wiley-Blackwell, Chichester 2012. Hall, Edith, Aristotle’s theory of katharsis in its historical and social contexts, in Erika Fischer-Lichte e Benjamin Wihstutz (a cura di), Transformative Aesthetics, Routledge, London 2017. Kahn, Paul W., Finding Ourselves at the Movies, Columbia University Press, New York 2013. Kalimtzis, Kostas, An Inquiry into the Philosophical Concept of Schole. Leisure as a Political End, Bloomsbury Academic, London - New York 2017. Owens, Joseph, Aristotle on Leisure, in «Canadian Journal of Philosophy», XI (1981), n. 4, pp. 713-23. Pieper, Josef, Leisure, the Basis of Culture, Random House, New York 1963. Solmsen, Friedrich E., Leisure and play in Aristotle’s ideal State, in «Rheinisches Museum für Philologie», n. 107, 1964, pp. 193-220. Teays, Wanda, Seeing the Light. Exploring Ethics through Movies, Wiley-Blackwell, Malden (Mass.) 2012.

Capitolo decimo, Caducità. Chroust, Anton-Hermann, Eudemus or On the Soul. A lost dialogue of Aristotle on the immortality of the soul, in «Mnemosyne», XIX (1966), n. 1, pp. 17-30. Deacy, Christopher, Screening the Afterlife. Theology, Eschatology, and Film, Routledge, New York 2012. Donohue, Brian, God and Aristotelian Ethics, in «Quaestiones Disputatae», V (2014), n. 1, pp. 65-77. Hare, John E., God and Morality. A Philosophical History, Blackwell, Oxford 2007.

Matthews, Gareth B., Aristotle on Life, in Richard Feldman, Kris McDaniel, Jason Reibley e Michael Zimmerman (a cura di), The Good, the Right, Life and Death. Essays in Honor of Fred Feldman, Ashgate, Aldershot 2006. Nussbaum, Martha C., Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, in James Edward John Altham e Ross Harrison (a cura di), World, Mind, and Ethics. Essays on the Ethical Philosophy of Bernard Williams, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 86131. Pritzl, Kurt, Aristotle and happiness after death. Nicomachean Ethics 1. 10-11, in «Classical Philology», LXXVIII (1983), n. 2, pp. 101-11. Rorty, Amélie Oksenberg, Fearing Death, in «Philosophy», LVIII (1983), n. 224, pp. 175-88. Sorabji, Richard, Aristotle on Memory, Duckworth, London 2004 2.

Indice analitico

aborto. Achille. adulterio. Agamennone. Agatone. agnostici. Aiace Telamonio. Albania. Alessandro III, detto «Magno», re di Macedonia (336-323 a. C.). Allen, Woody (pseudonimo di Allan Stuart Königsberg), Il dormiglione (film). ambientali, problemi. ambizione/i: – da evitare secondo epicurei e cinici. – e felicità. – nelle donne. amicizia: – civica. – «di piacere». – e individui immorali. – e morte. – e slealtà. – familiare. – «in vista dell’utile». – omosessuale. – primaria/mutua. – tra criminali. Aminta III, re di Macedonia (392-370 a. C.). amore: – e morte. – e suicidio. – filiale. – genitoriale. – omosessuale. – passeggero. – per i beni materiali. – per i familiari. – per se stessi. – vedi anche amicizia; matrimonio; sesso. Amos, profeta. analogie:

– uso di A. delle. Anderson, Robert J. Andromaca. animali: – allevamento degli. – associazioni/relazioni tra. – e dynamis. – e piacere. – interazioni con gli uomini. – opere di Aristotele sugli. Antiferonte di Oreo. Antigone. Antipatro. aporia. Arendt, Hannah. aretai («virtú»). Arimneste (sorella di Aristotele). Aristippo di Cirene: – Sulla lussuria degli antichi. aristocrazia/aristocrazie. Aristofane. Aristotele, dettagli biografici: – accusa di empietà. – adozione. – all’Accademia di Platone. – alla corte macedone. – al Liceo. – antenati. – camminare, passione per il. – carattere. – cronologia, IV . – discorsi pubblici. – figli, vedi Nicanore; Nicomaco; Pizia. – genitori, vedi Nicomaco; Festide. – infanzia. – istruzione. – luoghi in cui è vissuto, V (cartina). – matrimonio. – morte. – nascita. – precettore di Alessandro Magno. – pregiudizi. – testamento. Aristotele, opere: – Dell’anima. – Etica eudemia. – Etica nicomachea.

– Fisica. – Generazione e la corruzione, La. – Magna moralia. – Memoria e il richiamo alla memoria, La. – Metafisica. – Metafisica Lambda. – Meteorologia. – Organon («Strumento»). – Perì symboulias («Sulla deliberazione o sul dare e ricevere consigli»). – Poetica. – Politica. – Protrettico (Esortazione alla filosofia). – Retorica. – Ricerche sugli animali. – Riproduzione degli animali, La. Aronofsky, Darren, The Fountain. L’albero della vita. Artabano. arti: – ed etica. – e istruzione. – e religione. Asclepio. Asso. Astianatte. Atarneo. ateismo/atei. Atene: – Consiglio di. – Partenone. – porti. – teatro di Dioniso. – vedi anche Liceo; Accademia di Platone. Ateniesi. Attenborough, David. Attenborough, Richard, Viaggio in Inghilterra. autarkeia, vedi autosufficienza. authekastos («fedele a se stesso»). autocontrollo: – perdita dell’. autodisciplina, virtú di, vedi virtú. autoformazione. autosufficienza/autonomia (autarkeia): – e morte. avarizia; vedi anche avidità. avidità; vedi anche avarizia. Babilonia. Bacone, Francesco:

– Of Counsel. bambini/figli: – abusati. – adulti che non hanno. – amicizie. – amore dei genitori per i, vedi amore. – e bullismo. – e deliberazione. – ed equità. – e diritti. – e felicità. – e lavoro dei genitori. – e menzogne. – e videogiochi. – istruzione. – morte di. – potenziale dei. – trascurati. battute, vedi umorismo. Beatles, The, She Loves You. Beckett, Samuel, Aspettando Godot. Benigni, Roberto, La vita è bella. Benjamin, Walter Bendix Schöenflies. Bentham, Jeremy: – Introduzione ai principî della morale e della legislazione. Bergman, Ingmar, Il settimo sigillo. Bishop, Elizabeth, In the waiting room. Blair, Tony (Anthony Charles Lynton Blair, detto): – governo. «blind peer review». Bridges, Jeff (Jeffrey Leon, detto). Briseide. Broadie, Sarah. bullismo. Burton, Richard (pseudonimo di Richard Walter Jenkins). Bush, George Walker. Butrinto, teatro di. Calcide. Calipso. Callistene. cambiamento/i: – climatico. – del carattere. – della condizione umana. – di idea/opinione. – e morte. – vedi anche potenziale.

camminare, importanza del. Camus, Albert. Canetti, Elias: – Provincia umana, La. capitalismo/capitalisti. Capra, Frank Russell (Francesco Rosario Capra), La vita è meravigliosa. Cariddi, vedi Scilla e Cariddi. Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia (1625-49). Carnegie, Dale, Come vincere lo stress e cominciare a vivere. Carpato, isola di. catarsi. cattolici, vedi cristianità/cristiani. cause fondamentali, quattro. cavalli, allevamento dei. «celebrità»/divi. censura. Cercione, re. Charvaka. Chilcot, John, inchiesta di. Chirone. Churchill, Winston Leonard Spencer. Cicerone, Marco Tullio. Ciclopi. cinici. Circe. città-Stato. City University of New York. Claudel, Philippe, Ti amerò sempre. climatico, cambiamento, vedi cambiamento. Clinton, Hillary Diane Rodham. Clitennestra, regina di Argo. Coixet, Isabel, Lezioni d’amore. compassione. comunicazione; vedi anche retorica; orazioni. comunità, vita di: – e intelligenza collettiva. – e scelte collettive. «concordia» civica. conferenze, vedi discorsi. confuciani. Confucio. Connery, Thomas Sean. conoscenza di sé. contemplazione filosofica. Cooper, Bradley Charles. coraggio. Corinto. Corisco.

Cos. costrizione. Cratete. Creonte, re di Corinto. Creso, re di Lidia (561/560-547 a. C.). criminali: – e amicizia, vedi amicizia. – e suicidio. crimini: – e legge. cristianità/cristiani. critica. «Daily Mail». Damon, Matt (Matthew Paige, detto). Dardenne, Jean-Pierre e Luc, La promesse. Darwin, Charles Robert. Davidman, Joy. decisionale, processo: – collettivo. – consigli sul. – e deliberazione. – genitoriale. – professionale. – valutazione dei precedenti nel. Dedalo. deliberazione: – e cause ed effetti. – e felicità. – fallimenti della. – preparazione per la. – regole aristoteliche per la. – superflua. Delo, isola di. democrazia/democrazie. Democrito. Deraniyagala, Sonali: – Onda. Dewey, John. dianoia («attività mentale»). Dichiarazione di indipendenza (Stati Uniti). Dickens, Charles John Huffam, Tempi duri. dike («giustizia»). Dio / gli dèi: – come pensiero in atto. – e la felicità. – e la giustizia. – le tre Grazie.

– vedi anche religione/religioni. Diocle. Diogene. diritto britannnico, e omissioni. discorsi: – e uso di analogie e metafore. discriminazione. dispetto, vedi sopruso. disprezzo. disturbo mentale. divorzio. donne: – e produzione della seta. – spartane. DuVernay, Ava Marie, Selma. La strada per la libertà (film). dynamis («potenzialità»). Eastwood, Clint (Clinton jr, detto), American Sniper (film). Eco, Umberto, Il nome della rosa. ecologia; vedi anche ambientali, problemi. economia. economica, attività. Edipo. edonismo. egoismo/egoisti: – edonistico. Egoyan, Atom, Il dolce domani. eguaglianza. eikos («plausibile», «appropriato»). elefanti. Elena di Troia. Ellison, Ralph Waldo, Uomo invisibile. Emone. emozioni: – e catarsi. – ed etica della virtú. – e ragione. – vedi anche emozioni specifiche. Empedocle. endoxa («credenze comuni»). energeia («messa in atto», «realizzazione»). entimema. epicureismo/epicurei. Epidauro, teatro di. epieikeia («equità»). Epitteto. Epopea di Gilgamesh, L’. equità.

Eracle. Eraclide di Creta. Eraclito. Erasmo da Rotterdam (Geert Geertsz), Adagia. Ermia, re di Asso. Erodoto, Storie. Erpillide. Eschilo, Agamennone. Esiodo: – Teogonia. esperti. ethos («carattere»). etica; vedi anche etica della virtú; Etica eudemia; Etica nicomachea. etica della virtú. Etra. Ettore. Eubea, isola. euboulia («processo di scelta competente»). eudaimonia («felicità»). Eudemo. Eurimedone. Euripide: – Alcesti. – Ifigenia in Aulide. – Medea. – Supplici, Le. Falardeau, Philippe, Monsieur Lazhar. Falea di Calcedonia. Falero, porto del. fama. fantasia, opere di: – e apprendimento della storia. fedeltà a se stessi. felicità: – approcci filosofici contemporanei alla. – approccio di Aristotele alla. – dei bambini, vedi bambini/figli. – e appartenenza a una comunità. – e deliberazione, vedi deliberazione. – e fortuna. – e magnanimità. – e realizzazione del proprio potenziale. – e relazioni. – e virtú. – e vizi. – Giornata mondiale della. – ostacoli al suo raggiungimento.

– visione cinica della. – visione egoistica della. – visione utilitaristica della. femminismo/femministe. Festide (madre di Aristotele). Fidia. Filippo II, re di Macedonia (360-336 a. C.). film. Filolao. filosofi/filosofia: – ed etica della virtú. – e felicità. – e medicina. – e senso degli affari. – femministe. – peripatetici. – sulla scelta. – sul tempo libero. – su morte e suicidio. – vedi anche singoli filosofi. Filottete. Flynn, Erroll Leslie. fobie. Foot, Philippa. Forman, Miloš, Amadeus. Foucault, Michel. Francesco (Jorge Mario Bergoglio), papa (2013-). Francesco di Assisi (Giovanni di Pietro di Bernardone), santo. generosità. Gesú di Nazareth. Giasone. Giocasta. giuria. giustizia: – ed equità. – vedi anche ingiustizia. «giusto mezzo». glischros («appiccicoso»). Golding, William, Uomini nudi. Graves, Robert, Pure Death («Pura morte»). Green, Thomas Hill. gruppi sociali, vedi comunità, vita di. hamartia («sbaglio», «errore»). Harrison, Tony, V. Harvard Business School. Hawking, Stephen, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo.

Heidegger, Martin: – Essere e tempo. Heinemann, Margot. Herbert, Xavier, Velluto nero (Capricornia). Hiroshima e Nagasaki, bombardamento di. Hitler, Adolf. Hume, David. Hussain, Nadiya. hypokrisis («esecuzione retorica»). Ifigenia. immorali, individui: – e amicizia, vedi amicizia. – vedi anche criminali. immortalità. ingiustizia. iniquità. intelligenza: – artificiale. – collettiva. intento/intenzioni. interferenze, vedi interventi. Internet. interventi e interferenze. invidia. Ippocrate. ira/rabbia: – e morte. Iraq, invasione dell’. ironia. Ismene. Isocrate. istruzione: – autoformazione. – e arti, vedi arti. – e realizzazione delle potenzialità. – e tempo libero. – importanza dell’. – infantile, vedi bambini/figli. Jefferson, Thomas. Joyce, James. Kadaré, Ismail, La figlia di Agamennone. Kahn, Paul, W. Kahneman, Daniel, Pensieri lenti e veloci. kakiai («qualità negative»). Kant, Immanuel.

kantismo. Kaplan, Jonathan, Sotto accusa. Keller, Helen. Kennedy, John Fitzgerald. kimbix («spilorcio»). King, Martin Luther: – discorso «Ho un sogno». – sermone «Quali sono i nostri buoni propositi per il nuovo anno?». Kingsley, Charles, I bambini acquatici. Klein, Melanie. Kohan, Jenji, Orange is the New Black. Kurosawa, Akira, Vivere. kyminopristes («dimezzatore di cumini»). Laio. lavoro: – e piacere. lavoro, domande di / colloqui di. Leahy, William D. (ammiraglio di flotta). Leconte, Patrice, Ridicule. leggi, costruzione delle. Leonida. Lesbo. letteratura: – drammatica. – sapienziale. Lewis, Clive Staples. lexis («linguaggio»). Liceo di Atene. Lincoln, Abraham. logica. Lonergan, Kenneth, Manchester by the Sea. Luca, vangelo di. lutto. Lyubomirsky, Sonja, The How of Happiness. A Practical Guide to Getting the Life You Want. Macaone. Macedonia: – corte. MacNeice, Louis, Autumn Journal. magnanimità. Mandeville, Bernard de. Marco, vangelo di. Marco Aurelio Antonino Augusto, imperatore romano (161-80). Margite (poema eroicomico). Maria Antonietta, regina consorte di Francia e di Navarra, poi regina consorte dei Francesi. Marx, Karl. Massachusetts:

– Costituzione del. – Institute of Technology (Mit). matrimonio: – combinato. Matteo, vangelo di. Mattu, Raj. Medea. medicina / professione medica / medici: – e teatro. meditazione trascendentale. megalopsychos («con un’anima grande»). memoria: – blocco, repressione della. – e disturbo mentale. – e rimemorazione deliberata. mentire. meson («il mezzo»). metafore; vedi anche analogie. mezzi/fini, dilemma. mezzo / a mezza strada. Michelangelo Buonarroti. Mieza. Mill, John Stuart. millanteria. Milone di Crotone. Milton, John, The Tenure of Kings and Magistrates. Missildine, Hugh, Il bambino che sei stato. miti. monarchia: – super-monarchia. monopolio. Montaigne, Michel Eyquem de. Monty Python, Brian di Nazareth. Moro, Tommaso: – Utopia. morte: – accettazione. – come conclusione. – di bambini, vedi bambini/figli. – di amici, vedi amicizia. – e creatività. – ed etica. – e rabbia, vedi ira/rabbia. – e rimpianti. – e realizzazione del potenziale. – e rimemorazione consapevole. – e vita nell’aldilà. – nella letteratura.

– ultime volontà, discussione delle. – visioni filosofiche della. – vedi anche suicidio. Mozart, Wolfgang Amadeus. Murdoch, Iris. musica/musicisti. Mussolini, Benito. mythos («trama»). Nagasaki, vedi Hiroshima. Nagel, Thomas, Questioni mortali. neanderthaliani, riti di sepoltura. negligenza grave. Neottolemo. Nicanore. Nicomaco (figlio di Aristotele). Nicomaco (padre di Aristotele). Nietzsche, Friedrich Wilhelm. Niobe. Nobel, Alfred Bernhard, dinamite. Nordovest, Ordinanza del (1787). Nozick, Robert, Anarchia, stato e utopia. Nussbaum, Martha. Obama, Barack Hussein II. Omero: – Iliade. – Odissea. omissione: – atti di. – reati di. omosessualità. Orazio Flacco, Quinto, Odi. Oreste. Overstreet, Harry Allen. Oyelowo, David. Palmer, Elmer E. Palmer, Francis B. pambasileus («super-monarca»). Pamfile di Cos. parità. Parker, Dorothy. parsimonia, vedi avarizia. «particolaristi morali». Parton, Dolly, «Jolene». Pascal, Blaise, Pensieri. passioni.

Patroclo. Pelia. Peliadi. Pericle. «peripatetica», filosofia, vedi filosofia. persecuzione. Persiani. pesci. pettegolezzi. pheidolòs («sparagnino»). philia, vedi amore. philoi («amici»). phronesis («sapienza pratica»). piacere: – «amicizia di», vedi amicizia. – catartico. – di mentire. – e arti. – e conoscenza di sé. – edonistico. – e lavoro, vedi lavoro. – fisico. – negli animali, vedi animali. Picasso, Pablo Ruiz y, Guernica. Pieper, Josef, Otium e culto. Pireo, porto del. Pirreo. Pizia (moglie di Aristotele). Pizia (figlia di Aristotele). Plates. Platone: – Accademia. – confronti con Aristotele. – dialoghi. – Leggi. – Repubblica, La. – Simposio. – sulla morte. – sul suicidio. Policleto. Polifemo. politica/politici: – e arti. – e comportamenti omissivi. – e fama. – e invidia. – e processo di deliberazione. – e retorica e logica.

– e ricchezza. – vedi anche città-Stato; «concordia civica»; Politica. possesso dei beni, regimi di. potenziale/potenzialità: – come problema politico. – dei bambini, vedi bambini/figli. – delle arti e del teatro. – e aborto. – e causa finale fondamentale. – e dynamis. – e felicità. – e tempo libero. – intellettuale. – «razionale». – realizzazione del. – riconoscimento del. povertà. precedenti. «premesse». Priamo, re di Troia. Procuste. Prodico. prohairesis («preferenza»). Prosseno di Atarneo. Proust, Marcel, Alla ricerca del tempo perduto. psicoanalisi freudiana. Puškin, Aleksandr Sergeevič. Quintiliano, Marco Fabio. Rawls, John Bordley. Reiner, Rob, Non è mai troppo tardi. relativisti culturali. relazioni, vedi amicizia, matrimonio. religione/religioni: – e città-Stato. – e morte. – vedi anche cristianesimo, Dio/dèi. Renault, Mary: – Maschera di Apollo, La. retorica: – regole di Aristotele per la. Rheingold, Howard, Smart mobs. Tecnologie senza fili, la rivoluzione sociale prossima ventura. ricchezza: – diseguaglianze di. – e generosità. ricordi, vedi memoria. ricreazione, attività di.

rimemorazione deliberata. rispetto, mancanza di. Rivoluzione industriale. Roe vs Wade (1973), sentenza. Rossen, Robert, Alessandro il Grande. Roth, Philip, L’animale morente. Rousseau, Jean-Jacques, Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Rushdie, Salman, La vergogna. Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn ‘Abd al-Majīd al-Tikrītī). Salieri, Antonio. sarcasmo. Sardanapalo, re di Assiria (668-629 a. C.). Sartre, Jean-Paul: – Muro, Il. Satiro. scelte collettive. scettici. schiavi/schiavitú: – modo di Aristotele di trattare gli. scholè («tempo libero»). scienze naturali; vedi anche zoologia. Scilla e Cariddi. Scott Thomas, Kristin. Selden, John. Seneca, Lucio Anneo. Senofanto. Senofonte di Atene: – Cinegetico. – Ipparchico. serotonina. serpenti, metodo per eliminare i. sesso; vedi anche adulterio. seta, produzione della. Shaffer, Peter Levin, Amadeus. Shakespeare, William: – Otello. – Timone di Atene. sillogismi. Simone il Calzolaio: – Sulla deliberazione. Simonide di Ceo. Siracusa. «smart mob». Smith, Adam, La ricchezza delle nazioni. socialisti. Socrate: – busto di.

Sofocle: – Antigone. – Edipo re. – Filottete. Solone. soprusi. Sorrell, Martin. sorte: – buona. – cattiva. – casualità della. sovrappopolazione. Sparta. Spartani: – donne, vedi donne. – istruzione. Speusippo. Stagira. Stalin, Iosif (pseudonimo di Iosif Vissarionovič Džugašvili). Stewart, James Maitland. stoicismo/stoici. suicidio. Sullivan, Anne. superstizione. Talete. teatro: – e censura. – e istruzione. tecnologia, progressi della. Tello. Temistio. tempo libero: – definizione. – e istruzione, vedi istruzione. – e realizzazione del potenziale. – finalità del. – importanza del. Teodette, Filottete. Teodoro di Atene. Teofrasto: – Caratteri. – Sulla declamazione. Teognide. Termopili, battaglia delle. Teseo, re di Atene. theorìa («teoria»). Thomas, Dylan Marlais, «Non andartene docile in quella buona notte».

Thoreau, Henry, Walden. Timone di Atene. tirannide/tiranni. Tolstoj, Lev Nikolaevič: – Anna Karenina. – Morte di Ivan Il´ič, La. Tommaso d’Aquino, santo. tortura, uso della. tracotanza. tre Grazie, le. Truman, Harry S. Trump, Donald John. uccelli. Ulisse. umorismo. Unamuno y Jugo, Miguel de, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli. «unità» narrativa. uomini / esseri umani: – aspetto esteriore. – caratteri distintivi. – immorali; vedi anche criminali. – interazioni con gli animali, vedi animali. – scopi. – simpatici. – tratti caratteriali. – vedi anche emozioni. utilitaristi/utilitarismo. utopismo. Van Sant, Gus Green jr, Will Hunting. Genio ribelle. Veblen, Thorstein. vendetta. verità, dire la. vino, bere il. violenza domestica. virtú: – coltivare le. – di autodisciplina. – di benevolenza. – di coscienziosità. – e felicità, vedi felicità. – e vizi. – vedi anche etica della virtú. Vittoria di Hannover, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (1837-1901) e imperatrice d’India (1876-1901). Vivere Bene. vizi.

Wagner, Wilhelm Richard. Walcott, Derek, Canne marine. Walker, Margaret, Jubilee. Wallace, James, Virtues and Vices. Ware, Bronnie, Vorrei averlo fatto. I cinque rimpianti piú grandi di chi è alla fine della vita. Warren, Robert Penn, Tutti gli uomini del re. Washington, George. Weber, Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Weir, Peter, Fearless. Senza paura. «whistle-blowers». Wiker, Benjamin, Ten Books Every Conservative Must Read. Williams, Bernard, La sorte morale. Williams, Pharrell Lanscilo, Happy. Witt, Charlotte. Wordsworth, William, We are seven. zoologia; vedi anche scienze naturali. Zwingli, Ulrich.

Il libro

T

UTTI VOGLIAMO ESSERE FELICI.

MA

APPENA CI FERMIAMO A RIFLETTERE

iniziano i guai: cos’è davvero la felicità? Cosa vuol dire essere felici? La felicità è uno «stato» o un «processo», è oggettiva o soggettiva? In questi

casi conviene rivolgersi a chi per primo e meglio di tutti ha messo la felicità al centro delle proprie riflessioni: Aristotele. È quello che fa Edith Hall, una delle classiciste piú importanti al mondo, che nelle dieci sapienti lezioni di questo libro ci mostra come il grande filosofo sia ancora la guida migliore per orientarsi nel caos della vita di ogni giorno. «Edith Hall esce dalla torre d’avorio degli specialisti e, tra Mary Beard e Mary Poppins, infonde nuova vita alle dottrine di Aristotele per i lettori del ventunesimo secolo». «The Observer» «Hall ha riscritto Aristotele con il linguaggio di oggi, applicando le sue lezioni alla quotidianità: dalla felicità al resistere alle tentazioni, dal compilare il curriculum all’autoanalisi». «The Daily Telegraph» Le parole «felice» e «felicità» – happy e happiness – vanno alla grande. Potete comprare un Happy meal, o bere un cocktail a un happy hour. O magari prendere una «pillola della felicità» per tirarvi su, o postare una faccina felice sui social. Sulla felicità, tuttavia, abbiamo le idee confuse. D’accordo, tutti pensano di volere essere felici, ma cos’è, davvero, la felicità? È uno stato psicologico duraturo nel tempo o un attimo cosí effimero che, appena ci rendiamo conto di viverlo, è già passato? È qualcosa di oggettivo, riconducibile a determinati parametri (ad esempio godere di buona salute, essere liberi da preoccupazioni finanziarie o dall’angoscia esistenziale) o è qualcosa di soggettivo, che non può essere misurato né osservato, qualcosa che non va accostato al «benessere» ma alla «soddisfazione» o alla «letizia»? Aristotele fu il primo filosofo a chiedersi davvero cos’è la felicità e cosa possiamo fare per diventare persone felici: un programma che mantiene ancora intatta la sua validità. Edith Hall, una delle classiciste piú importanti al mondo, presenta l’antica e veneranda etica aristotelica in un linguaggio contemporaneo. Applica cioè gli

insegnamenti di Aristotele a svariate sfide pratiche della vita reale: prendere una decisione, scrivere una domanda di lavoro, parlare in un colloquio, usare la tabella dei Vizi e delle Virtú per un’analisi del proprio carattere, resistere alle tentazioni, scegliere gli amici e i partner. Sono pochi i filosofi, i mistici, gli psicologi e i sociologi che hanno fatto molto di piú che riformulare le fondamentali intuizioni di Aristotele. Ma lui le ha dette per primo, meglio, piú chiaramente e in modo piú olistico di chiunque le abbia successivamente riprese. Ogni parte delle sue prescrizioni per essere felici si riferisce a una diversa fase della vita umana, ma al tempo stesso le interseca tutte. In qualsiasi periodo della vita vi troviate, le idee di Aristotele possono rendervi piú felici.

L’autrice EDITH HALL

insegna Lettere classiche al King’s College di Londra ed è una delle

piú importanti classiciste al mondo. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Adventures with Iphigenia in Tauris: A Cultural History of Euripides’ Black Sea Tragedy (Charles J. Goodwin Award of Merit 2014), The Return of Ulysses: A Cultural History of Homer’s Odyssey e Greek Tragedy: Suffering under the Sun. Scrive regolarmente sul «Times Literary Supplement». È stata la prima donna a essere insignita dell’Erasmus Medal della Academia Europaea. Per Einaudi ha pubblicato Gli antichi Greci.

Della stessa autrice Gli antichi Greci

Titolo originale Aristotle’s Way. How Ancient Wisdom Can Change Your Life © 2018 Edith Hall, in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988. Permission to quote from Sea Canes from Selected Poems by Derek Walcott granted by Faber and Faber Ltd. © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Per la cartina riprodotta © 2019 Emmy Lopes In copertina: illustrazione di Andrea drBestia Cavallini. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it www.biancamano2.it Il blog della Narrativa Straniera e delle Frontiere Ebook ISBN 9788858430675

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Frontespizio Il libro L’autrice Cronologia I luoghi di Aristotele Il metodo Aristotele Introduzione I. Felicità II. Potenziale III. Decisioni IV. Comunicare V. Conoscenza di sé VI. Intenzioni VII. Amore VIII. Comunità IX. Tempo libero X. Caducità Ringraziamenti Glossario Testi di approfondimento Indice analitico

3 247 249 4 5 6 7 27 42 60 76 96 121 137 152 172 188 217 218 220 228