Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici
 9788898694549

Table of contents :
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Antologia di testi critici
Saggio introduttivo
Il giovane Croce di fronte a Marx
Saggi critici
L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto
La critica revisionistica della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto
Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”
L’interpretazione crociana di Marx tra il «canone» e il «paragone ellittico»
Benedetto Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’‘utile’
Benedetto Croce. Dalla revisione del marxismo al rilancio dell’idealismo
Croce e il marxismo
Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce
Marxismo e storia tra Labriola e Croce1
Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato
L’eredità non raccolta Croce lettore di Marx e Labriola
Nota ai testi
Indice

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Luca Basile (A cura di)

Croce e la revisione del marxismo Antologia di testi critici

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 4 – Classici

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Croce e la revisione del marxismo Antologia di testi critici a cura di Luca Basile

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile mettersi in contatto

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 4 – ottobre 2018 ISBN: 9788898694549 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Ritratto di Benedetto Croce, Arturo Rietti.

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Saggio introduttivo di Luca Basile Il giovane Croce di fronte a Marx

1. Svolgimento e periodizzazione degli studi crociani sulla revisione del marxismo. Nel Contributo alla critica di me stesso, Croce, rammentando gli anni giovanili, riferirà del suo conflittuale rapporto iniziale con il liberalismo e con le posizioni dello zio Bertrando Spaventa, richiamando, poi, la germinale attrattiva esercitata su di lui dal movimento socialista1. Di qui, egli soggiungerà di 1. Scrive Croce in un passo assai bello: «avevo appena ripigliato il filo del mio lavoro, quando il Labriola mi inviò da Roma, nell’aprile del ’95, perché lo leggessi e cercassi di farglielo stampare, il primo dei suoi saggi sulla concezione materialistica della storia, quello sul Manifesto dei comunisti: che io lessi e rilessi, e mi sentii di nuovo tutto accendere la mente, e non potei più distogliermi da quei pensieri e problemi, che si radicavano e allargavano nello spirito […] e mi detti per più mesi con ardore indicibile agli studi, fin ad allora a me ignoti, della Economia. Senza troppo impacciarmi di manuali e libri di divulgazione, studiai i principali classici di quella scienza e lessi tutto ciò che vi era di non volgare nella letteratura socialistica; e, sempre volto ad impadronirmi dei punti essenziali e schiarirmi le questioni più difficili, mi trovai in breve tempo affatto orientato, con meraviglia del Labriola, che mi fece ben presto confidente dei suoi dubbi e dei suoi tentativi di più esatto teorizzamento delle concezioni marxistiche. […] quella pratica con la letteratura marxistica, e il seguirne che feci per qualche tempo, con teso

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presso che questa originaria fascinazione conoscerà il suo contrappasso nell’effettivo studio dei testi della “critica dell’economia politica” e, parimenti, delle tesi della “economia pura”. Tale approfondimento scaturirà, infatti, il distacco dal marxismo teorico-politico. Scrive, Croce: «quell’appassionamento e quella fede non durarono: corrosa la fede dalla critica che venni facendo dei concetti del marxismo, critica tanto più grave in quanto voleva essere una difesa e una rettificazione, e che si manifestò in una serie di saggi composti da il 1895 e il 1900, raccolti […] nel volume Materialismo storico e economia marxistica; scemato l’appassionamento, perché natura tamen usque currit, e la mia vera natura era quella dell’uomo di studio e di pensiero»2. Come si ricava dalle parole appena ascoltate, il giovane Croce ebbe il suo ben circoscritto periodo di tendenziale adesione squisitamente politica al marxismo, donde cominciò a formarsi un giudizio ricco ed articolato sulla lezione di Marx e l’eredità che ne è seguita3. D’altra parte, resta fermo il fatto che lo studio del contributo del filosofo di Treviri lo indusse animo, le riviste e i giornali socialisti tedeschi e italiani, mi scossero tutto e suscitarono in me per la prima volta un sembiante di appassionamento politico […]. A quel fuoco bruciai altresì il mio astratto moralismo, e appresi che il corso della storia ha diritto di trascinare e schiacciare gl’individui. Non preparato nell’ambiente familiare a favoritismo, e nemmeno a simpatie, pel liberalismo corrente e convezionale della politica italiana; non edificato sul conto di esso per quel che ne avevo sentito giudicare e satireggiare e vituperare in casa dello Spaventa; mi parve di respirare fede e speranza nella visione della poligenesi del genere umano; redento dal lavoro e nel lavoro» (Contributo alla critica di me stesso (1915), Laterza, Bari, 1945, pp. 25-26, corsivo nostro). 2. Ivi, p. 26. 3. Cfr. sul tema l’importante monografia di C. Tuozzolo, “Marx possibile” – B. Croce teorico marxista 1896-1897, F. Angeli, Milano, 2008, ma anche, dello stesso autore, Scienze storico-sociali e riferimento ai valori: Croce, il “paragone ellittico” e il futuro del sogno socialista, in Logica, ontologia e

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al distacco, proprio nel momento in cui si trovava – per rifarci ad una affermazione divenuta celebre – ad esser sul punto di “prendere i voti”. Ad un simile tragitto di ricerca ed ai suoi rivolgimenti ha presieduto, da un lato, il forte legame con Antonio Labriola4, da un altro, la manifesta influenza tanto del neokantismo (specie quello della Scuola di Baden5), quanto dell’herbartismo e dei suoi sviluppi6. Influenza mediata dallo stesso colloquio con Labriola, a cominciare dalla fase premarxista del Cassinate. I precipitati che ne sprigioneranno si inseriranno a pieno titolo nell’orizzonte di quella “crisi della coscienza europea”7 che staglierà il suo riflesso sulla “biografia” dei gruppi intellettuali fra Ottocento e Novecento. Tutta la medesima vicenda del dibattito italiano intorno alla “crisi del marxismo” vi parteciperà. Ciò ne giustificherà la rilevanza

etica – Studi in onore di R. Ciafardone, a cura di D. Bosco, R. Saraventa, L. Gentile, F. Angeli, Milano, 2011, pp. 580-592. 4. Cfr. sul tema, fra gli altri, M. Agrimi, Con Labriola e con Croce, in A. Labriola – Celebrazioni del centenario dalla morte, a cura di L. Punzo, Università degli Studi di Cassino, Cassino, 2006, pp. 623-642; Id., Croce: il magistero di Labriola e la sua lunga durata, in A. Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di A. Burgio, Quodlibet, Macerata, 2005, pp. 283-196; e M. Visentin, Il rapporto Labriola-Croce e la genesi del marxismo italiano, in Ivi, pp. 153-171. 5. Cfr. in merito, fra gli altri, G. Fehr, Il primo saggio crociano sul materialismo storico e il revisionismo neokantiano in Italia, in “Prassi e teoria”, n. 2, 1979, pp. 125-160. 6. Cfr. in merito, fra gli altri, D. Bondì, Il giovane Croce e Labriola – Ricezione e circolazione della “Volkerpsychologie” in Italia alle soglie del Novecento, in “Rivista di storia della filosofia”, 2004, pp. 895-1290. 7. Cfr., fra gli altri, N. Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, in B. Croce, a cura di A. Bruno, Giannotta, Catania, 1974, p. 10; e R. Racinaro, La crisi del marxismo nella revisione di fine secolo, De Donato, Bari, 1978.

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strategica8. I presupposti ed i risultati della ricerca crociana su Marx andranno collocati, quindi, entro una costellazione ideologico-concettuale determinata che riscontrerà molteplici aspetti di convergenza in alcune delle forme dell’historismus contemporaneo9; segnando un preciso passaggio rispetto alla sistemazione della “filosofia dello spirito”10, passibile di molteplici, successive rimodulazioni. Deve essere preliminarmente messa in chiaro la matrice generalmente non-hegeliana/antihegeliana dei moventi e dell’esplicazione del “revisionismo” crociano. Il suo sviluppo – che troverà nelle nozioni di “canone storiografico” e di “paragone ellittico” i due dispositivi fondamentali – può venire agilmente periodizzato secondo il succedersi dei testi decisivi che configureranno il corpus di Materialismo storico ed economia marxistica. La loro successione si snoderà nel giro di tre anni: dal 1896 al 1899 (la raccolta uscirà nel 1900, e se ne avranno alcune successive edizioni, ognuna con una significativa prefazione: la prima risalente allo stesso ’99, e, dopo, quella del 1906, e, ancora, quella – particolarmente importante – del 1917 e quella del febbraio del ’27).

8. Sul tema cfr., le decisive osservazioni di E. Garin in Agonia e morte dell’idealismo, in Id., A. Bausola, G. Bedeschi, M. Dal Pra, M. Pera, V. Verra, La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Laterza, Bari, 1975, p. 10. 9. Sul tema osservazioni decisive sono presenti nel fondamentale saggio di Id., Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano, in Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 8; e G. Cacciatore, “Scienza dello Spirito” e conoscenza storica – Croce, Dielthey, Ricket, in Id., Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di B. Croce, Rubettino, Soveria Manelli, 2005, pp. 37-59. 10. Il tema è affrontato, fra gli altri, da M. Visentin, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’“utile”, in Croce e il marxismo un secolo dopo – Atti del Convegno di studi Napoli 18-19 ottobre 2001, a cura di M. Griffo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2004, pp. 11-123.

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Nel giugno del 1896 – coevemente all’uscita della “Delucidazione preliminare” di Labriola Del materialismo storico – Croce avanza la memoria Sulla concezione materialistica della storia, pubblicata nel maggio entro gli Atti della “Accademia Pontaniana” di Napoli. Ad essa succederà lo scritto su Le teorie storiche del prof. Loria, ove sarà preso di mira il volgare determinismo dell’economista piemontese e si comincerà a configurare l’idea del “paragone ellittico”. Il testo uscirà, anzitutto, nel novembre su “Devenir Social”11. Un mese prima della pubblicazione del Discorrendo labrioliano, comparirà, nel novembre del 1897, sempre entro gli “Atti della Accademia Pontaniana” (e, poi, nei fascicoli del febbraio e marzo 1898 di “Devenir Social”), Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo. Del testo del Discorrendo, però, Croce poté tenere conto leggendone il manoscritto. Nel Postscriptum all’edizione francese di tale saggio si avrà la replica di Labriola alle tesi del filosofo di Pescasseroli. In posizione di sostanziale conclusione della ricerca di Croce sui contenuti della “critica dell’economia politica” marxiana si colloca il saggio, pubblicato su “La riforma sociale” nel maggio del ’99, Recenti interpretazioni della teoria marxista del valore e polemiche intorno ad esse. Questi i principali luoghi del revisionismo crociano. Non va tralasciata, tuttavia, la menzione di altri tre significativi contributi. Deve esser richiamato, infatti, l’articolo, uscito su “Devenir Social” del novembre 1898, dedicato al libro di Stammler Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffassung; quello, di rilievo pari alle memorie precedentemente segnalate, e su cui molto ci soffermeremo, dedicato alla critica della “legge marxista della caduta del saggio di profitto”, comparso negli Atti della Pon-

11. Lo scritto comparirà, poi, in Italia per Giannini, nel 1897.

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taniana nel maggio del 1899; e, in ultimo, quello su Marxismo ed economia pura, dell’ottobre12.

2. Tra “canone storiografico” e “paragone ellittico” – Le linee fondamentali della “revisione” di Croce. I rapporti di frequentazione fra Croce e Labriola si intensificheranno proprio nel periodo di stesura da parte del Cassinate del secondo saggio sulla concezione materialistica della storia. Essi si erano avviati alcuni anni prima, quando Benedetto aveva frequentato le lezioni del Cassinate presso l’Università di Roma. Proprio sull’immagine di Marx restituita da Labriola, e, in particolare, sulla stessa categoria di “materialismo storico”, si attesterà il primo contributo crociano, del giugno 1896. Riflettendo in merito al suo statuto Croce afferma, innanzitutto, che questa deve essere recepita evitando di riferirla ad un opzione di filosofia della storia. Tale opinione si colloca in tendenziale contrasto vuoi con la tesi, avanzata da Labriola, appunto, per cui la concezione materialistica della storia configura, sì, una sorta di “filosofia della storia”, ma di tipo del tutto nuovo a paragone dell’insieme delle precedenti varianti, accomunate costitutivamente dal finalismo; vuoi, in termini prospettici, con la lettura iperfilosofica che della prospettiva marxiana verrà successivamente proposta da Gentile. Sul tema avremo modo di tornare anche oltre. Certo, Croce riconosce che «il materialismo storico, nella forma in cui lo presenta il 12. Il saggio fu scritto come risposta alla recensione di V. Racca ai saggi crociani Recenti interpretazioni del marxismo, in “Rivista italiana di sociologia”, IV, 1899. Bisogna ricordare, poi, anche le due lettere a V. Pareto del 15 maggio e del 20 ottobre 1900 Sul principio economico, su cui verremo oltre (cfr. in proposito, fra gli altri, M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, F. Angeli, Milano, 1987, pp. 36-45).

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Labriola, ha abbandonato di fatto ogni pretesa di stabilire la legge della storia, di ritrovare il concetto nel quale si riducano i complessi fatti storici»13. Tuttavia, proprio il tentativo di rimuovere dal contributo del materialismo storico il gravame dovuto all’ipoteca di un principio univoco, o all’ipostasi di una legalità cui ricondurre l’intiera complessità del procedere storico, conosce un immediato contrappasso. Benché su basi collegabili alle soluzioni teoriche di matrice formalistico-neokantiana affermatesi fra Ottocento e Novecento, il modo in cui Croce cerca di filtrare e salvaguardare l’impiego dell’apparato categoriale materialistico-storico lascia emergere i primi segni di un chiaro condizionamento di carattere naturalistico. Condizionamento destinato ad approfondirsi ulteriormente con il medesimo confronto circa i contenuti della Kritik marxiana, e, vieppiù, con la assunzione – certo originale – di alcune delle motivazioni portanti dell’“edonismo economico”. Croce sostiene apertamente l’argomento della esclusiva fungibilità del materialismo storico in quanto canone empirico-storiografico post factum (la tesi riprende una delle accezioni assegnategli dallo stesso Labriola nel Secondo Saggio14, all’insegna di una veste, in vero, notevolmente impoverita nelle connotazioni concettuali). Sta qui, a suo avviso, l’alternativa strategica alla considerazione del materialismo storico in qualità di «nuova filosofia della storia». Egli asserisce, infatti, con peculiare coincisione: Il materialismo storico non è, e non può essere una nuova filosofia della storia, né un nuovo metodo, ma è, e deve essere

13. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista (1900), Bibliopolis, Napoli, 2001, p. 20 (d’ora in avanti MSEM). 14. Cfr. il III paragrafo di Del materialismo storico (A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, a cura di L. Basile e L. Steardo, Bompiani, Milano, 2014, pp. 1279-1283).

16 proprio questo: una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico15.

Insomma: se, da un lato, per ragioni che diverranno presto evidenti, il giovane Croce sembra rifiutarsi di affidare al materialismo storico anche solo un qualche portato metodologico generale, da un altro, connessamente, il contrasto – in sé giustificato dalla lucida ripulsa verso l’ingenuo finalismo da cui risultano contrassegnati vuoi l’ideologia evoluzionistico-positivistica a lui contemporanea, vuoi l’hegelismo “ortodosso”16 – della considerazione del materialismo storico in quanto «nuova filosofia della storia» trova in Labriola il peculiare referente polemico. Ciò comporta alcune precise forzature. Giacché l’indicazione labrioliana apre ad un genere di percezione della prospettiva marxiana assolutamente discontinua rispetto ad ogni affresco di “storia a disegno”, scevra da qualsivoglia prefigurazione deterministica, e, d’altro canto, capace di esprimere un punto di vista unitario e dinamico insieme di teoria della storia (il cambio di lemma – da “filosofia” a “teoria”, appunto – potrebbe ed avrebbe potuto servire, forse, ad evitare molte, eventuali confusioni nei riguardi di tutta una tradizione di pensiero). Il fatto è che la scelta, operata da Croce, di circoscrivere i limiti e le condizioni dell’apporto conoscitivo del materialismo storico alla configurazione di «una somma di nuovi dati» sortisce quale cruciale esito quello di inertizzarne il contributo sul terreno dell’interpretazione unitaria del processo storico. Tale opzione reca alcune dirette conseguenze

15. MSEM, p. 25. 16. Una folgorante testimonianza dell’avversione crociana verso ogni variante del “progressismo” derivante dall’arco che corre dall’ideologia illuministica al positivismo è costituta dalla celebre intervista su “La Voce” del febbraio 1911, La morte del socialismo (raccolta in Cultura e vita morale, Laterza, Bari, 1955, pp. 155-158).

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per quanto attiene al ruolo squisitamente politico attribuito al materialismo storico. Vediamo meglio. «Quale relazione intercede» – si domanda Croce nella sua argomentazione – «tra materialismo storico e socialismo?»; e così risponde: «Il Labriola […] è incline a connettere strettamente, e quasi a identificare, le due cose: tutto il socialismo è, a suo parere, nell’interpretazione materialistica della storia, ch’è la verità stessa del socialismo; e chi accetta l’una e rifiuta l’altro, non ha inteso né l’una né l’altro. Io credo queste affermazioni alquanto esagerate […] Spogliato il materialismo storico di ogni finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita»17. Croce concede l’eventualità si possa individuare, grazie alle «osservazioni che», «per mezzo» del materialismo storico, «sarà possibile fare», un certo legame tra quest’ultimo ed il socialismo. Si tratta, tuttavia, di una mera eventualità. La ricollocazione del materialismo storico all’insegna della divaricazione fra teoria e movimento, fra strumentazione analitica ed iniziativa politica si porrà a premessa di uno degli obiettivi sottesi alla strategia del revisionismo crociano, ovvero snervare il portato di reattività storico-politica dell’elaborazione marxiana e del suo contenuto critico. Parliamo, a ben guardare, di una posizione riscontrabile, spesso in forma rovesciata, nelle idee di uno dei grandi interlocutori di Labriola e Croce entro l’alveo del dibattito sulla “crisi del marxismo”, cioè G. Sorel18. Su basi molto diverse dai due autori italiani, egli finirà per acquisire, infatti, tale divaricazione – in chiave opposta ed assolutamente speculare – proprio

17. MSEM, p. 31. 18. Cfr. in merito, fra gli altri, N. Badaloni, Riflessioni di Sorel sulla scienza, in “Dimensioni”, n. 1, 1978, pp. 22-31; e S. Onufrio, Sorel e il marxismo, Argalia, Urbino, 1977.

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allo scopo di conferire efficacia ed autosufficienza ad una certa soggettività mobilitante ed ai suoi riferimenti vocati ad orientare la trasformazione (il “mito’). Ma c’è di più. La proposta della riduzione del materialismo storico a canone storiografico-empirico deve essere da subito inquadrata geneticamente quale sedimento relativo alla gestazione dell’impianto della “filosofia dello spirito” (in problematico raccordo all’ulteriore investimento etico-politico della storia), nonché, parimenti, all’effettivo transito dal campo della coscienza della storicità a quello, esclusivo, della storiografia. Transito congruente, in definitiva, alla risoluzione dell’avvicendarsi storico nell’idea di storia degli intellettuali19. La composizione di alcuni nuovi dati finalizzata ad una indagine storiografica in grado di tener conto della rilevanza di certi aspetti materiali determinati non corrisponde, dunque, ad una dimensione teorica unitaria, e ciò si motiva a fronte della commisurazione dei referti empirici della stessa ricognizione materialistico-storica ad una ben chiara funzione “ausiliaria”, ordinata all’operari cognitivo dell’intellettuale20. A distanza di più di quaranta anni, nel 1937, con lo scritto Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, il giudizio si ribalterà, concludendo giusto alla considerazione della concezione sprigionata da Marx in quanto filosofia della storia a statuto, naturaliter, apertamente finalistico. Tra il settembre del 1896 ed il Novembre del 1897 Croce non si arresterà ai confini della terapia “riduzionistica” rivolta alle indicazioni ed alle acquisizioni pertinenti il materialismo storico, ma – confermando, in definitiva, l’atteggiamento 19. È questo il centro dell’analisi condotta da B. De Giovanni in Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo di Stato, in “Lavoro critico”, n. 1, 1975, pp. 131-166. 20. Cfr., fra gli altri, M. Reale, L’interpretazione crociana di Marx tra il “canone” e il “paragone ellittico, in “La Cultura”, n. 2, 1999, p. 223.

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manifestato nella prima memoria – discuterà, con innegabile acume, già dalla seconda, richiamata memoria del novembre dell’anno successivo, le tesi desumibili dalla Kritik marxiana. Gli argomenti principali che guideranno la compiuta formulazione della sua proposta di revisione appaiono rintracciabili sin dall’articolo, del settembre del 1896, mirato alla polemica verso la semplificazione concettuale e le movenze deterministiche adottate da Loria circa, appunto, i grandi nodi lumeggiati da Marx. Essi verranno considerati facendo perno sulla questione cruciale dell’intendimento della teoria del valore. A tal proposito in Le teorie storiche del prof. Loria si evidenzia una importante nota che delinea in nuce l’intero argomento del “paragone ellittico”, anche se in una versione destinata a mutare (relatamente sia alla ricezione delle tesi dell’“edonismo economico”, sia alla individuazione delle discriminanti sul piano della lettura considerata corretta delle principali componenti categoriali della Kritik, a partire dalla nozione di “plusvalore’). Loria aveva cercato di indicare la ragione della presunta fallacia della formulazione da parte di Marx della teoria del valore-lavoro sostenendo che lo stesso valore delle merci non potesse davvero divenire oggetto dello studio degli economisti e che, altresì, il pensatore tedesco, corrispondendovi la quantità di tempo incorporata nelle merci medesime, cioè riprendendo Ricardo, e di qui, asserendo «che le merci non si vendono mai al loro valore»21, finiva per derivarne l’immagine – considerata conoscitivamente improduttiva – di una sorta di “valore-noumeno”. Ne scaturiva la configurazione di un semplice riferimento concettuale22. Discutendo e disarticolando il plesso delle equivocazioni loria-

21. A. Loria, L’opera postuma di Carlo Marx, in “Nuova Antologia”, n. 1, 1895, pp. 477-478. 22. Cfr. in merito, M. Reale, L’interpretazione crociana di Marx tra il “canone” e il “paragone ellittico”, cit., p. 236.

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ne, sorrette dall’ipostasi positivistica dell’idea di “evoluzione”, nonché dalla superficiale elusione o rimozione di ogni risvolto dell’armatura logico-storica della prospettiva marxiana, Croce (che in parte incorrerà, egli stesso, in questo errore, sia pure al di fuori di qualsivoglia inclinazione alla sbrigativa liquidazione concettuale) arriva ad osservare: A parlar correttamente la teoria proposta da Ricardo e perfezionata da Marx non è una teoria generale del valore. Questa teoria generale è invece l’assunto della scuola edonistica o austriaca. Che cosa è, dunque, la concezione del valore nel Capitale del Marx? È la determinazione di quella particolare forma di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica. È, insomma, il paragone tra due valori particolari. Questo paragone ellittico forma una delle principali difficoltà per la comprensione dell’opera del Marx […] È impossibile giungere mai, per deduzione puramente economica, a restringere il valore delle merci solo al lavoro, e ad escludere da esso la parte del capitale, e quindi a considerare il profitto come nascente dal sopralavoro non pagato, e i prezzi come deviazione dai valori reali per effetto della concorrenza fra capitalisti; se non si tenga a riscontro, come tipo, un altro valore particolare, quello cioè che avrebbero i beni aumentabili col lavoro in una società in cui non esistessero gli impedimenti della società capitalistica e la forzalavoro non fosse una merce.

D’altra parte, il filosofo di Pescasseroli sente l’esigenza di concludere subito che è vano ogni tentativo di confutazione delle teorie del Marx in nome delle teorie edonistiche, come del pari è assurda la confutazione di queste in nome di quella; e che l’apparente antinomia delle due diverse teorie del valore si risolve col riconoscere che la teoria della scuola edonistica è, senz’altro, la teoria del valore, e la teoria di Marx è un’altra cosa. Che quest’altra cosa non sia poi una vanità o una fantasticheria,

21 basterebbe a provarlo il fatto che il concetto marxistico di Mehrwert è rimasto confitto come dardo acuminato nel fianco della società borghese, e nessuno ancora è riuscito a strapparvelo. Ci vuole bel altra radice medica che non i ragionamenti del Böhm-Bawerk e simili critici, per sanare la piaga 23.

La prima implicazione delle affermazioni appena rammentate consisteva nell’obbligo di circoscrivere la funzione del valorelavoro, escludendone il carattere squisitamente “generale” (e, quindi, a rigore, destituendone proprio lo statuto teorico), cioè il medesimo portato di giustificazione del valore “in sé e per sé”, esplicabile in una gamma tendenzialmente infinita di manifestazioni. Ne veniva che la considerazione esclusiva del valore in quanto prodotto del lavoro umano si rendeva riferibile solamente ai risultati del processo produttivo, ovvero ai prodotti. Ciò, secondo Croce, comportava, appunto, che questo carattere parziale del principio del valore-lavoro ne inficiasse la effettiva applicabilità all’insieme differenziato dei beni, – praticabile, evidentemente, solo in virtù della acquisizione della sua portata generale. Spingendosi a guardare più da vicino l’ipotesi di Marx, Croce annotava che il valore-lavoro richiedeva di essere complessivamente correlato e posto in tensione rispetto ad «una data società (capitalistica)» distinta e divergente dal modello di società tipica24. Nel saggio successivo il significato della presente nozione verrà ad essere precisato e riqualificato. Basti dire, per ora, che il problema di fondo – innervante, nella corrente fase, l’analisi di Croce – si rivelava essere quello del rapporto concetto – realtà, della capacità dei concetti – che hanno statuto generale-ideale – di restituire e designare l’individualità storico-concreta. A movente di un simile rovello si collocava il discrimine – di matrice squisita23. MSEM, pp. 45-46 (corsivo nostro). 24. Cfr. fra gli altri, M. Reale, B. Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’utile, cit., pp. 32-33.

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mente neokantiana – tra l’ideale colto dalle scienze “pure”, che hanno natura atemporale, e l’emersione concreta del reale, restituibile, approssimativamente, per mezzo di concetti “impropri”, cioè privi di facoltà di rigorosa “copertura” a livello astratto-assoluto25. L’acquisizione di tale discrimine aveva guidato Croce anzitutto nella polemica diretta verso Loria26, e, poi, nel fermare – come vedremo meglio oltre – il diverso grado di “generalizzazione” della nozione marxiana e di quella marginalistica di valore, attese nel loro possibile, diverso vincolo teorico con l’oggetto. In Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo a cifra della «società ipotetica e tipica» verrà posta, in continuità con la nota in questione, l’eguaglianza tra valore e tempo di lavoro quale criterio di regolazione riguardante ogni scambio. Il vigere di tale criterio si troverà combinato, entro siffatto modello, colla esclusione della forza-lavoro dalla sfera della costituzione in forma-merce, e, ancora, con la complessiva rimozione degli impedimenti peculiari della società capitalistica. Già una simile definizione prima facie del “paragone ellittico” sembra consentire la ricostruzione della realtà della società capitalistica in quanto costitutivamente connotata dalla equivalenza del profitto con una certa quota di lavoro non retribuito e, di conseguenza, dalla oscillazione dei prezzi rispetto ai valori in quanto esito della concorrenza fra i singoli capitalisti. Ne deriva una approssimazione del procedimento astrattivo marxiano sin da ora abbastanza chiaramente stringibile nei suo contorni. Stando al modello comparativo crociano, Marx, da un lato, astrae ed isola determinati aspetti, 25. Cfr. C. Tozzolo, “Marx possibile”, cit., pp. 92-93. 26. Osserva, fra l’altro, Croce: «L’umile logica insegna che le cose mutano sì, ma i loro concetti possono essere fissati, tanto che ci appaiono extratemporarii. Ma il Loria intende l’evoluzione proprio in questo bel modo: ch’essa renda impensabile il pensamento logico del concetto» (MSEM, p. 48).

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ricavandone il principio del valore-lavoro; da un altro, proietta sul risultato “astratto” i molteplici fattori effettualmente connotanti la società capitalistica. Una misura di comparazione del genere appare indicata da Croce, almeno inizialmente, in qualità di dispositivo teorico “messo a punto” allo scopo di cogliere le contraddizioni implicite del sistema capitalistico che, altrimenti, in sua assenza, resterebbero celate27. Una volta focalizzati i termini in cui, nella nota interna allo scritto su Loria, Croce abbozza il fondamentale congegno euristico marxiano – il quale, al contempo, delimita l’ottica della “critica dell’economia politica” e ne configura l’attribuito modus operandi – si possono fissare a ragione le due coordinate generali che presiedono alla sinossi del ragionamento, giustificando le successive argomentazioni, e mettendo in evidenza anche un aspetto ulteriore a quelli appena considerati. L’una coordinata attiene all’adesione alle tesi della Scuola Austriaca, dell’“economia pura” marginalistica. L’altra, che può essere intesa – almeno sino ad un certo segno – come il rovescio analitico-concettuale della precedente, attiene, invece, alla illegittimità della pretesa di confutare la posizione espressa dalla Kritik dal punto di vista meramente logico. In merito risulta tracciata, dunque, una significativa differenza di giudizio proprio nei confronti delle opposizioni marginalistiche a Marx, a cominciare dall’argomentazione di Böhm-Bawerk, che pure non sarebbe corretto schiacciare su questo punto di vista. Ben si ricava dalle parole di Croce che la prospettiva della Kritik marxiana non designa lo scenario di una teoria economica “in sé e per sé”, bensì quello coglibile attraverso la veduta permessa dal medesimo potenziale critico del lavoro in quanto forza politica per entro la società capitalistica. Ciò nonostante,

27. Cfr. M. Visentin, B. Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’utile, cit., p. 33.

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come presto vedremo, egli non sembrerà appropriarsi adeguatamente dei suoi contenuti. La cosa dipenderà da precise motivazioni idelogico-egemoniche. Assistiamo, così, ad un possente ribaltamento interno all’argomentazione di Croce. Gli è che se egli, con la riduzione del materialismo storico a canone storiografico, approda a divaricare, in Marx, il fronte teorico-categoriale da quello dell’incidenza politica, una simile operazione subisce, di presso, un evidente (anche se solo transitorio, nel caso) contrappasso. Affermare che «il concetto […] del Mehrwert è rimasto confitto come dardo acuminato nel fianco della società borghese, e nessuno è riuscito a strapparvelo» val dire, infatti, che la centralità assunta dal lavoro rispetto alla giustificazione dell’intiero scenario della produzione e della riproduzione capitalistica non corrisponde ad una mera astrazione logica – di cui si può discutere la correttezza e la comprensività – ma al “riempimento” squisitamente politico del suo riferimento28. La Kritik qualifica, primariamente, un quadro storicamente determinato di rapporti di forza ove si inscrive la funzione insostituibile ed il potenziale del lavoro. Così, il tentativo di divaricare teoria e politica si rivela inevitabilmente riassorbito – anche se solo in misura parziale, come imposto dall’approccio complessivo adottato da Croce – nell’esame in re del criticismo marxiano. In tal senso, ci è dato persino spingerci ad evidenziare una sorta di paradosso: la unilaterale destituzione dello statuto tout court “teorico” del valore-lavoro induce – sia pur debolmente – a riannodare i due piani. Tuttavia, come vedremo, proprio ciò concluderà a far riemergere e replicare la divaricazione. Per avanzare nella nostra disamina ci sarà utile, forse, riassumere per grandi linee l’argomentazione con cui il marginalismo böhm-bawerkiano

28. Cfr. in merito le importanti osservazioni di M. Montanari nel suo ampio saggio Gramsci e la revisione del marxismo, raccolto in Id., Politica e storia – Saggi su Vico, Croce e Gramsci, Publierre, Bari, 2007, pp. 167-168.

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muove – specie nello Zum Abschluss – la principale critica a Marx, restituendone il carattere d’insieme. Lasciando da parte, al momento, gli aspetti riguardanti tanto la questione della trasformazione dei valori in prezzi – considerata alla luce della composizione plurifattoriale dei costi complessivi di produzione –, quanto quella della caduta del saggio medio di profitto, concentriamoci sul primario attacco al valore-lavoro, motivato dalla osservazione della sua incompatibilità rispetto all’ammissione della effettiva incidenza del valore d’uso. Secondo Böhm, com’è noto, la continuità tra il procedimento dell’economia “classica” e quello di Marx consiste nell’estinguere la reciproca differenziazione dei lavori in favore della determinazione di quantità misurabili, sì da collocare il fattore unificante delle merci nella energia produttiva in esse incorporata. De facto, presiede ad un simile ragionamento la configurazione del divario tra la stessa acquisizione conoscitiva per differentiam – in cui consta uno degli obiettivi portanti della Kritik – ed il ricorso al procedimento astrattivo. Böhm, interpretando Marx, fornisce una versione semplificata e forviante della sua posizione, attribuendovi l’esito di occultare lo specifico produttivo-riproduttivo delle spinte individuali; ovvero l’esito della rimozione della realtà concreta dello scambio di merci, volta alla soddisfazione di bisogni ed “utilità” particolari. Stando alla ricostruzione di Böhm, se ci si dovesse affidare al criticismo marxiano «non comprenderemmo mai il motivo per cui prodotti di differenti generi di lavori vengono scambiati tra loro in questa o quella proporzione»29. Il “taglio” della sua disamina è di sapore metodologistico: egli si preoc-

29. E. Böhm-Bawerk, Le conclusioni del sistema marxiano, in Id., Hilferding, Bortkiewicz, Economia borghese e economia marxista, La Nuova Italia, Firenze, 1971, p. 76. Si rammenti in proposito la celebre accusa formulata verso l’impostazione marxiana di non distinguere, per esempio, il prodotto del tagliatore di pietre da quello dello scultore.

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cupa soltanto di isolare, raccogliere e giustapporre certi dati empirici, senza ricondurli al complessivo reticolo di nessi di mediazione che costruiscono l’impalcatura logico-storica interna dell’oggetto. Dal sostanziale appiattimento della teoria sul terreno dell’empiria che l’economista austriaco consuma sortisce, quasi paradossalmente, l’imputazione a Marx dell’errore dovuto alla “presupposizione” – deduzione di un unico elemento eguale fra le merci equiparate, ossia alla loro definizione in ragione di una quantità di tempo determinata. Imputazione destinata a rivelarsi, invece, ritorcibile proprio verso il punto di vista che l’ha formulata. Come osserva acutamente Aurelio Macchioro, «Zum Abschluss muove dalla riduzione a naturalità delle categorie storico-critiche del marxismo; naturalità assunta come parametro dato […] Böhm-Bawerk, cioè non muove da una dissoluzione critica delle categorie marxiane ma da un’interpretazione di esse in termini di “natura”; e quindi da un equivoco. Equivoco grazie a cui le categorie marxiane […] vengono incolpate di contraddizione per non aver riconosciuto per “naturali” le categorie di “natura” böhmbawerkiane»30. Alla base del giudizio di Böhm vi è la classificazione in quanto beni – “doni di natura” della pluralità dei fattori concorrenti alla emersione dei valori d’uso e del relativo scambio. Trattiamo di una certa classificazione del processo che sorregge il procedimento di costituzione di tali categorie – e, di conseguenza, l’immagine del campo mercantile – ottenuta in virtù della giustapposizione seriale dei vari fattori empirici. Ne scaturisce una operazione di scomposizione dell’oggetto collocabile all’insegna di uno schietto empirismo e di una sorta di storicismo “debole” ed ingenuo, incapace di stringere i nessi di mediazione logico-storica (cioè non riconducibili al ricavo inerte dell’insieme dei collegamenti logici 30. A. Macchioro, Studi di storia del pensiero economico, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 405-406.

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deducibili dall’isolamento e dalla composizione semplice dei fattori empirici) dell’oggetto, ovvero il movimento del capitale come totalità31. In definitiva, l’economista austriaco si arresta ad adottare un debole procedimento di astrazione attagliato esclusivamente ad un tipo di indagine empirio-psicologica degli orientamenti di mercato e dei comportamenti di consumo. Egli si attesta sulla diagnostica dello scambio di beni in maniera tale che lo stesso problema del rapporto fra valori e prezzi venga ad essere ridotto a quello della corrispondenza fra teoria e realtà, cioè della immediata sussunzione della realtà al di sotto di categorie considerate direttamente corrisposte ai suoi referti. I termini medi che intessono l’oggetto-processo reale vengono sostanzialmente esclusi dalla veduta böhm-bawerkiana in favore della loro compressione sul versante psicologistico e soggettivistico (Böhm parla giusto di «anelli intermedi soggettivi»). I dispositivi grazie ai quali i fattori empirici che compongono il prodotto sono restituiti si rivelano quelli della causalità, della sussunzione e – come già ricordato – della giustapposizione. Ne scaturisce la deprivazione dell’oggetto della sua costituzione dialettica interna e, quindi, la limitazione alla datità empirica delle sue componenti. Ciò si esplica, inevitabilmente, nella sola descrizione dei fattori cui pertiene l’“utilità marginale”. Descrizione che ripugna al guadagno di un determinato elemento “tipico”, vincolato ad un certo assetto di forze. Di quest’ultimo, infatti, nel caso, si potrà solo segnalare la presenza ma non padroneggiare la totalità (benché sia lecito, secondo Böhm, ammettere l’applicazione di un procedimento di astrazione, senza, d’altra parte, assumere le implicazioni analitiche marxiane, considerate quali inficiate proprio dalla caratterizzazione politica della connessione dei

31. Cfr. in merito R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 114-115; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Saggio introduttivo a A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., pp. 242-251.

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fattori). La medesima penetrazione dialettico-logico-storica dell’oggetto viene acquisita, insomma, in qualità di forzatura nei riguardi del ruolo meramente riflessivo affidato alla teoria, cioè di riproduzione-replica dell’empiria32. Così, resta elusa la coimplicanza dialettica fra valore d’uso e valore di scambio in ordine alla forma-merce e, di conseguenza, il dinamismo proprio delle forme stagliantisi all’insegna del modo di produzione capitalistico, attraversato dalla densità politica del valore-lavoro. Tuttavia, anche la registrazione empirica adempiuta dal paradigma marginalistico conclude, con evidenza, a ricalcare un determinato assetto di rapporti di forza. Notare bene: a rigore, l’atteggiamento dell’economista austriaco sembra davvero del tutto analogo a quello che pervade l’impresa crociana di riduzione del materialismo storico a canone empirio-storiografico. Sul lato della considerazione del valore-lavoro in quanto fulcro della Kritik l’approccio di Croce conosce, invece, almeno in qualche misura, un mutamento di sfumatura, di cui constateremo, via via, le connotazioni. Una volta assunta la correttezza formale delle teorie marginaliste, la giustificazione della loro esplicazione dinamica esige, in una definitiva ed effettiva chiave storico-politica, di esser commisurata al “posto che” sortito dalla disgregazione della soggettività politica delle classi subalterne, cui si lega l’organizzazione dei consumi e l’orientamento degli stili di vita. La Verfassug del lavoro in soggettività politica collettiva – che Gramsci restituirà nei termini della ricomposizione del lavoro “come insieme” – influisce strategicamente, con il suo possibile volgere verso la passività o la conquista di maggiore efficacia ed incidenza, sulla interdipendenza stabilentesi fra valori delle merci ed organizzazione degli stili di vita. La eventualità della inci-

32. Per le osservazioni formulate siamo ancora debitori nei riguardi dell’analisi svolta da R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 112-128.

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denza politica del lavoro non appare, quindi, in questo contesto, destituibile in virtù di una sola astrazione logica, bensì in ragione di una determinata condizione storico-politica effettiva. Ciò si accorda, del resto, al confermato riconoscimento del valore-lavoro non già in quanto mero esito di un meccanismo di astrazione logica, bensì di qualità di irriducibile “fatto” – certo «tra altri fatti», come ascolteremo presto – storicamente determinato33, – il che motiva l’impossibilità, appunto, di aggredire l’efficacia di tale dispositivo sulla base del richiamo ai postulati della teoria marginalistica. Il ragionamento a ciò pertinente conosce un’articolazione piuttosto complessa, che solo apparentemente sembra segnare un primo scarto rispetto alle indicazioni appena evidenziate. Vediamo meglio. Nella memoria Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, Croce considera, prima facie, l’operazione critica marxiana in quanto attuantesi ad un livello di astrazione san phrase, il quale riconduce la società capitalistica ad una “forma” «ideale e schematica». L’adozione di un procedimento di squisita astrazione non indebolisce la determinazione storica dei referenti effettivi dell’analisi, ma ne rende, anzi, possibile un tentativo di appropriazione. Giacché, a questa altezza, la ricognizione non dovrà abbracciare «tutto il territorio dei fatti economici, e neanche quella sola regione ultima e dominante in cui tutti i fatti economici hanno la sorgente, quasi fiumi discendenti di una montagna»34, bensì l’esclusivo ambito della formazione sociale capitalistica. Alla radice della particolare disamina si colloca proprio il dispositivo di equiparazione – filtrato da Ricardo e riqualificato politicamente – tra il valore di un bene ed il lavoro socialmente necessario per produrlo,

33. Su questi temi cfr., fra gli altri, M. Montanari, Gramsci e la revisione del marxismo, cit., p. 168. 34. MSEM, p. 56.

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trovante un preciso corrispettivo in termini di tempo impiegato. Croce, del resto, riassumendo due delle principali interpretazioni del valore-lavoro – quella di Labriola e quella di genere storiografico avanzata da Sombart35 –, e interloquendovi, segnala apertis verbis che la costruzione ne è stata ottenuta «fuori dal campo della pura teoria economica»36. Proprio discutendo la lettura sombartiana della teoria del valore, egli precisa il significato e la portata della collocazione del valore-lavoro al di fuori del mero ambito della generalizzazioneconcettualizzazione degli isolati meccanismi economici. Lo fa anche accennando ad un’altra posizione evidenziatasi entro il dibattito della Seconda Internazionale, quella finzionale di C. Schmidt37. «Il Sombart […]» – scrive Croce – «rompendo apertamente con la interpretazione della legge del valore di Marx come legge […], e dando espressione più compiuta e più coraggiosa degli accenni timidi già fatti da talun altro (C. Schmidt), disse: che la legge del valore del Marx non è un fatto empirico, ma un fatto del pensiero […], che il valore del Marx è un fatto logico […], il quale serve ad aiuto al nostro pensiero per intendere le cose della vita economica»38. Anche in discussione polemica con lo stesso Sombart e con il cortocircuito interno alla sua posizione, l’autore di Pescasseroli aggiungerà più oltre:

35. Il riferimento va ai contenuti del saggio di Sombart – con cui Böhm polemizza ampiamente in Zum Ambschluss – Zur Kritik des aekonomischen System von Karl Marx, in “Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik”, VII, 1894, pp. 555-593. Cfr. in merito, fra gli altri, R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 98-112. 36. MSEM, p. 56 (corsivo nostro). 37. Il principale testo di Schmidt in merito è Die Durchschnittsprofitrate auf Grundlage des Marx’schen Wertgesetzes, Diez, Struttgart, 1889. Cfr. in merito, fra gli altri, R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 88-98. 38. MSEM, p. 56.

31 la storia ci mostra fin ad ora solamente società che, accanto al godimento di beni aumentabili per lavoro, hanno provveduto a soddisfare i loro bisogni col lavoro. Cosicché questa euguaglianza del valore col lavoro ha avuto finora, ed avrà ancora per un tempo indefinito, rispondenza nei fatti. Ora, di quale natura è questa rispondenza? Avendo noi escluso: 1) che si tratta di ideale morale; 2) che si tratta di legge scientifica; e avendo tuttavia concluso che quella euguaglianza è un fatto (del quale il Marx si vale poi come tipo), dobbiamo dire, come sola via d’uscita: che è un fatto ma un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti; quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante diversa da quelle che darebbe se altre forze cessassero di operare. Non è un fatto dominante assoluto, ma non è nemmeno un fatto esistente e semplicemente immaginario39.

Di qui è bene concentrarsi sulla caratterizzazione fornita da Croce del paradigma analitico-astrattivo marxiano: prendiamo a considerare, in una società, solo ciò ch’è propriamente vita economica; ossia nella società complessiva, solamente la società economica. Togliamo da quest’ultima, per astrazione, tutti i beni che non sono aumentabili con il lavoro. Togliamo, per un’altra astrazione, tutte le differenze di classe le quali possano riguardarsi come accidenti rispetto al concetto generale di società economica. Prescindiamo da ogni modo di distribuzione della ricchezza prodotta, che […] può essere determinato solo per ragione di convenienza o anche di giustizia, e sempre dalla considerazione di tutto il complesso sociale e non già dalla considerazione esclusiva della società economica. Che cosa resta, dopo aver fatto queste successive astrazioni? Niente altro che: la società economica in quanto società lavoratrice40.

39. Ivi, p. 63 (corsivo nostro). 40. Ivi, p. 76.

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L’impostazione crociana dell’argomento consente di sollecitare l’ulteriore approfondimento delle connotazioni del procedimento astrattivo in discussione, specie per quanto attiene l’impalcatura logico-categoriale de Il Capitale. A cominciare dal dispositivo del valore-lavoro, ogni fattore categoriale del criticismo marxiano si rivela mosso dall’originale intento di formulare una nuova accezione dell’astrazione propria del procedimento scientifico. Tuttavia, in realtà, i confini della efficacia e della legittimità del valore-lavoro appaiono dettati, a parere di Croce, solo dalla sua circoscritta funzione, escludendone sia la considerazione come «fatto dominante assoluto» sia come «fatto inesistente». L’operazione marxiana di definizione del valore-lavoro in ordine alla formazione sociale capitalistica non può essere staccata, in certo senso, a parere di Croce, dal procedimento del “paragone ellittico”. Il «necessario procedimento intellettuale» che esso configura impiega un determinato «valore tipico» –cioè il medesimo valore-lavoro – e lo assume in quanto misura. Questa rappresentazione concettuale induce Croce, comunque, ad imputare a Marx un certo limite nella comprensione e, di conseguenza, nella costruzione e nell’impiego di “corretti” criteri logici preposti alla completa attuazione di procedimenti scientifici tipico-ideali. In tal maniera, egli pone il proprio discrimine da Marx e, parimenti, delimita il campo di impegno legittimo del valore-lavoro, cioè quello dovuto alla sua limitata applicazione euristica, non elevabile alla descrizione di una legalità generale. Se di un contenuto di legalità si può parlare per il principio del valore-lavoro, egli sostiene, attiene esclusivamente al modello idealtipico a Marx attribuibile, cioè alla società «ipotetica e tipica», posta in escursione dalla «realtà», la cui fisiologia la Kritik vorrebbe, però, restitu-

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ire41. «Il valore-lavoro del Marx» – egli osserva – «non è solo una logica generalità, ma è un concetto pensato ed assunto come tipo, ossia come qualcosa di più o di diverso dal mero concetto logico. Esso non ha già l’inerzia dell’astrazione, ma la forza di qualcosa di determinato e particolare, che compie rispetto alla società capitalistica, nell’indagine del Marx, l’ufficio di termine di comparazione, di misura, di tipo». All’insegna di siffatte coordinate, Croce puntualizza quelli che gli appaiono come i principali passaggi del «procedimento intellettuale» marxiano, spingendosi già ad accennare al problema della trasformazione valori-prezzi in termini sintetizzabili nell’obiettivo seguente: «Posto che il valore è eguale al lavoro socialmente necessario, mostrare con quali divergenze da tale misura si formino i prezzi delle merci nella società capitalistica e come la stessa forza-lavoro acquisti un prezzo o diventi una merce». Di qui scaturisce un’ulteriore conferma del giudizio sull’impalcatura epistemologica del procedimento in esame. «Il Marx» – dice ancora – «formulò tale problema con modi, a dir vero, impropri: giacché il valore del tipico, assunto da lui come misura, egli lo presentò come legge dei fatti economici della società capitalistica. Ed è, se si vuole, la legge, nella sua concezione, non già nella realtà economica. È ben chiaro che si possano concepire le divergenze rispetto a una misura come le ribellioni della realtà di fronte a quella misura, che ha ricevuto da noi dignità di legge»42. Vi è da dire che l’accezione crociana del concetto di tipo esige di essere attagliata alla natura strettamente “ideale” dell’esperimento designato quale “paragone ellittico”. Questo ritaglia «una parte della società capitalistica dal suo tutto» (Badaloni43), dando luogo alla ele41. Cfr. in merito C. Tuozzolo, “Marx possibile”, cit., p. 156. 42. MSEM, p. 73. 43. N. Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, cit., pp. 21-22.

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vazione della parte trascelta a modulo capace di investimento analitico-concettuale rispetto all’insieme sociale. Ora, nel quadro crociano tra la sfera di incidenza effettiva del capitale e l’ambito di autoregolazione dello sviluppo delle forze produttive (la “società di puri lavoratori” che, tuttavia, de facto, cifra, in virtù della differenza, il corrispettivo rappresentato dal capitale nella società in essere) viene tracciato un incolmabile divario sul piano della ricostruzione teorica. Non v’è convertibilità tra concetti storico-specifici e generici (il riferimento va alla problematizzazione delle stesse nozioni di “forze produttive” e “capitale”44). Inoltre, Croce asserisce, proprio in virtù della loro connotazione storico-politica, l’impossibilità di trattare determinati dispositivi categoriali – a muovere dal valore-lavoro – come contrassegnati da una portata di “copertura” coincidibile con una sorta di legalità chiamata a vigere in ogni contesto di organizzazione economica. D’altra parte: egli non elude l’incidenza del valore-lavoro e di alcuni suoi precipitati, ma ne circoscrive l’ambito di influenza, anche “emendando” – come, a suo avviso, necessario –, almeno in certa misura, l’impostazione della Kritik. Ad una simile lettura si potrebbe opinare che in Marx il momento della costruzione logico-storica per via astrattiva della batteria categoriale e quello della ricognizione integralmente politica dei rapporti di forza si compenetrano costantemente. Sul punto verremo più oltre, interrogandoci da vicino in merito alle caratteristiche del criterio di astrazione “generale” in ragione di cui risulta definita la strategia di revisione crociana. Per adesso, basti osservare che, nell’ottica di Marx, non si dà, in effetti, divario e comparazione fra realtà e modello. Egli non punta al confronto fra un’ideale “società economica”, ove valore e lavoro coinciderebbero, e la cogenza della formazione capitalistica,

44. Cfr. Ivi, pp. 21-22.

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ove, invece, tale coincidenza si vedrebbe destituita45. Del resto, l’individuazione di un simile meccanismo contrasta con l’ammissione dell’influenza comportata dal valore-lavoro medesimo. Certo: nella veduta crociana la suddivisione del lavoro è colta quale aggiunta ex novo fra capitale e salario (d’altro canto, la “società di puri lavoratori” è realiter, una società di esclusivi salariati). Ne deriva la cristallizzazione del rapporto diretto capitale-profitto e la stabilizzazione dell’assetto corrente delle forze produttive come unica forma naturale-storica46. In definitiva, il dispositivo del “paragone ellittico” conduce a cogliere nell’insieme delle categorie della Kritik – valorelavoro, anzitutto, e, di conseguenza, forza-lavoro, caduta tendenziale del saggio di profitto, etc. – un armamentario concettuale rivolto a contrarre in senso dualistico il sistema sociale. La portata di esemplificazione del “modello” e del “confronto” che esso implica motiva la compressione della società capitalistica alle coordinate dei rapporti produttivi fondamentali. Ne sortisce un pronunciato indebolimento delle trame di mediazioni che prevedono l’impianto antagonistico del sistema capitalistico. Vi è un passaggio di Per la interpretazione e la critica che si connette “a filo diritto” ai contenuti dei brani già riportati, da cui si può ricavare agilmente questo aspetto: Il Marx – nota Croce – nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore col lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica, istituiva paragone della società capitalistica con una parte di sé stessa, astratta ed innalzata ad esistenza indipendente: ossia,

45. Osservazioni importanti sul tema sono state formulate da B. De Giovanni nel decisivo saggio Il criticismo di Marx, raccolto in Filosofia e politica – Scritti dedicati a C. Luporini, La Nuova Italia, Firenze, 1981, p. 191. 46. Cfr. le osservazioni – che pure non possiamo condividere in diversi aspetti – di N. Badaloni in Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, cit., pp. 21-22.

36 paragone tra la società capitalistica e la società economica in sé stessa (ma solo in quanto società lavoratrice)47.

A fronte del giuoco di separazioni, dovuto al “paragone ellittico”, fra il “ritaglio” di una data relazione ed il complesso della realtà capitalistica, Croce ravvisa nella Kritik marxiana, certo solo approssimativamente, una sorta di reagente analitico per mezzo del quale isolare i livelli compresi nella società capitalistica. Il rischio implicito ad una operazione del genere è quello di ricondurre, in certo modo, le categorie marxiane proprio ad un ambito per alcuni aspetti restituibile in chiave naturalistica e passibile di esser delimitato da un certo schema deterministico-causale. Si consuma, così, l’estremo paradosso della implicita formulazione del plesso del criticismo marxiano in termini assimilabili, sul piano della corrisposta verifica, alla descrizione di una peculiare prospettiva di legalità generale. Ossia: nei termini di una ricostruzione che esigerebbe di essere predicata come in possesso quell’ampio grado di “generalità” che, a rigore, Croce disconosce alla Kritik, sia pure – ecco un ulteriore assimetria nell’argomentazione – assegnandovi un genere del tutto diverso da quello indicato in congruenza ad una precisa ed originale ricezione del paradigma dell’“economia pura”. Tuttavia: proprio l’assimilazione concettuale operata de facto e appena segnalata ci mostra il riverberarsi dell’inespulso ingrediente naturalistico, inevitabilmente compreso nell’orientamento di adesione a tale paradigma. Lo si è constatato, del resto, considerando gli argomenti di Böhm. Prima di affrontare questo decisivo argomento vi è da sottolineare ulteriormente, però, come l’ottica della “revisione” crociana non appaia riducibile alla configurazione dell’analisi marxiana secondo un mero schema causale. Giacché, siffatta, circoscritta riclassificazione del valore-lavoro spinge nella direzione dell’impiego

47. MSEM, p. 65.

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di una precisa misura ermeneutico-funzionale. Si avverte qui, cioè, una manifesta ambiguità del discorso ed una faglia al suo interno, che ne esibisce il “dimidiato” investimento politico48. Occorre cominciare a soffermarsi adeguatamente sul punto. Si è già richiamata la considerazione per la quale, diversamente da quanto voluto da un Böhm o da un Sombart, occorre inquadrare il valore-lavoro al di fuori dell’aggancio ad un puro concetto logico, della verifica in base ad esso o del suo congegno in quanto tale. Al lettore non sarà sfuggito come Croce, da un lato, assuma la pregnante accezione proposta da Labriola del valore-lavoro, da un altro, ne pieghi il significato alla comparazione modellistica istituita dal “paragone ellittico”. Giova rammentare la formulazione labrioliana del valore-lavoro come “tipo”, esposta nella seconda lettera del Discorrendo, a muovere dal tema della genesi “sopravalore”. Il Cassinate asserisce che «il soggetto principalissimo» de Il Capitale «è la origine ed il processo del sopravvalore (nell’orbita, s’intende, della produzione capitalistica) e poi, dopo combinata la produzione con la circolazione del capitale, la spartizione del sopravalore. Sta come presupposto del tutto la teoria del valore […]: teoria che non rappresenta mai un factum empirico tratto dalla volgare induzione, né esprime una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato, ma è la premessa tipica, senza la quale tutto il resto non è pensabile»49. Come ognuno sa, il ruolo del valore-lavoro ha rappresentato uno dei nuclei tematici di maggiore interlocuzione da parte di Labriola con il giovane Croce, con la sua inequivoca, anche se originale, ade-

48. Sul tema ci permettiamo di rinviare all’argomentazione già formulata nel nostro Il mercato, la riproduzione sociale e l’ermeneutica politica “dimidiata”. Su Croce e il marxismo, in Per una teoria del mercato – Labriola, Gramsci, Croce, PensaMultimedia, Bari, 2009, pp. 33-89. 49. A. Labriola, Tutte le opere filosofiche e di teoria dell’educazione, cit., p. 1406.

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sione alle idee dell’edonismo economico. In una celebre missiva del 1898 Labriola annota polemicamente: «Tu parli sempre di una teoria del valore secondo Marx. Io so solo che c’è una maniera con la quale Marx svolge e usa la teoria del valore che era ovvia. Il posto che assegna a quella teoria è diverso […] E per trattare di questo bisogna entrare in tutta la critica storica». E più oltre, con sapida ironia ed acume: «Ma vuoi persuaderti che quella teoria del valore-lavoro ha una portata più larga di ciò che importi alla corrente economica, come spiegazione terra terra dei fattarelli di tutti i giorni?»50. L’indicazione si trova argomentata, vieppiù, ricusandone proprio ogni eventuale accezione semplice, “quantificante”, ecceterativa (cioè schiacciata, in sostanza, sul paradigma ricardiano): «Tu pigli il lavoro» – dice ancora a Croce Labriola – «come una cosa esterna rispetto al tuo pacifico ozio da epicureo contemplante e quindi non puoi intendere perché la teoria del valorelavoro abbia rivoluzionato tutta la concezione della vita e della storia»51. L’aspetto della periodizzazione si rivela importante in merito alle sollecitazioni che attraversano la missiva, giacché questa risale all’anno successivo alla pubblicazione della seconda memoria crociana, la quale, come detto, è stata stesa tenendo presente il testo del Discorrendo. Se ne può ricavare che a Labriola preme contestare il segno della delimitazione crociana del valore-lavoro. Vero è che il giovane pensatore di Pescasseroli scaturisce la propria “linea di condotta” da una ricezione generalistica della formulazione del valore-lavoro quale tipo. In virtù di una simile accezione Labriola cerca, altresì, di rispondere allo stesso problema di Sombart, cioè a quello della riconciliazione fra teoria ed empiria, ma riconosce nel dispositivo in discussione non già un mero fatto logi50. Ivi, p. 1406. 51. Id., Lettera a B. Croce del 28 febbraio 1898, in Epistolario 1896-1904, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 851.

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co – principio regolativo della realtà, bensì l’espressione della predominanza storico-reale di una determinata categoria sulle altre. Di conseguenza, Labriola lega con chiarezza una siffatta accezione al problema della Darstellung dello sviluppo e della formazione capitalistica: «Il modo di rappresentazione dei fatti e dei processi» – argomenta – «è generalmente tipico, perché si suppongon […] come già tutte esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica: ond’è, che le altre forme di produzione vengono illustrate o solo in quanto furono superate di già, e per modo come furono superate, o di quanto, come residuo, tornan di limite e d’impedimento alla forma capitalistica»52. A questa altezza, assistiamo all’insorgere dell’esigenza di riqualificare la «esplicazione genetica del modo come quelle premesse debbono funzionare tipicamente, formando esse la struttura della società capitalistica»53. Secondo l’angolatura visuale labrioliana il dispositivo teorico del valore-lavoro domanda di essere sottratto tanto alla riduzione al mero versante logico che a quello strettamente empirico. La sua funzione consiste nell’esibire un campo formale capace di contenere il molteplice dei casi particolari corrisposti54 e di tradurre dinamicamente, e costitutivamente, lo stesso filtro della mediazione formale in costruzioni strutturali determinate. Il valore-lavoro esibisce l’impianto mobile della società capitalistica. Il connotato di “prevalenza” categoriale si esprime, dunque, nel definire politicamente, cioè secondo l’impostazione di una precisa trama di rapporti di forza, una sfera

52. Id., Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., p. 1408. 53. Ivi, p. 1409. 54. Insiste su questo elemento concettuale, secondo una ipotesi di lettura di carattere neo-aristotelico cui noi non possiamo aderire, C. Vigna in Le origini del marxismo teorico in Italia – Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia, Città Nuova, Roma, 1977, pp. 99-100.

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formale (quella della contrazione della fluida erogazione del lavoro a misura economica) cui ridurre, tendenzialmente, l’intero mondo storico. In altre parole, il valore-lavoro raccoglie in sé un meccanismo politico, di dominio volto a comprimere alla stessa dimensione economica l’insieme extraeconomico della vita. Così, la molteplice morfologia delle regioni epistemiche riflette i precipitati di tale dispositivo di mediazione-riduzione55, concernente, anzitutto, l’istituzione di uno scambio ineguale. Certo: non sarebbe corretto affermare placidamente che Croce, assumendo lo statuto “tipico” del valore-lavoro, si appropri anche dell’intiero insieme delle conseguenze che vi afferiscono; le quali – come Labriola ha avuto occasione di indicargli con impressionante vigore – fanno tutte nodo attorno ad una sorta di mutamento assiale proprio nella «concezione della vita e della storia» rispetto alle ipostasi naturalistiche dovute all’ideologia connessa all’organizzazione sociale capitalistica. Ciò non di meno, il modo in cui il “paragone ellittico” giunge ad individuare una posizione diversa vuoi dalla critica di Böhm-Bawerk a Marx, vuoi dalla particolare risoluzione sombartiana del valore-lavoro in “fatto logico” (ad ogni maniera rispondente alla realtà), opera la configurazione – per usare il lessico classico del marxismo – di una pretta “astrazione determinata”. Tuttavia, come cercheremo di spiegare, la strategia di revisione crociana non può essere ricondotta pienamente ad un siffatto approccio, anzi lascia emergere altre componenti del discorso che – malgrado la loro apparente convergenza – si pongono in aspra tensione e contrasto con quest’ultimo. 55. Ci pare che – come segnalato dall’autore, almeno in certa misura, nel saggio medesimo – uno degli svolgimenti più interessanti delle intuizioni labrioliane sul valore-lavoro appena richiamate sia costituito da B. De Giovanni, Il criticismo di Marx, cit., pp. 190-191; ma ci permettiamo di rinviare in merito anche alle osservazioni presenti nel nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 251-292.

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Gli è che, stando alla modellistica del “paragone ellittico”, il valore-lavoro resta un riferimento categoriale chiamato a designare un certo “termine di comparazione” scaturente una dinamica concettuale piuttosto complessa. Esso registra ed evidenzia, per differentiam, la subordinazione del lavoro al capitale. Per un verso, codesto esito si manifesta in qualità di riflesso dell’impoverente commisurazione dell’armamentario della Kritik alla descrizione di una legalità interna ad un assetto sociale di impianto rigidamente dualistico e, perciò, restituibile in chiave deterministico-causale, tendenzialmente esposta all’ipoteca naturalistica. Per un altro, l’ammissione del valore-lavoro in quanto “fatto” cogente, che possiede «la forza di qualcosa di determinato e particolare, che compie rispetto alla società capitalistica […] l’ufficio di […] tipo», apre – malgrado i segnalati limiti, dovuti alla acquisizione del ruolo dell’astratto – ad una analisi su base non-naturalistica di un certo sistema economico “storicamente determinato”56. Vero è che l’«ufficio di tipo» assolto dal valore-lavoro viene ad essere delineato da Croce come «termine di comparazione» e di «misura». Ciò lascia emergere due ulteriori aspetti. Un primo aspetto relativo al guadagno di un preciso risultato recepibile a livello ermeneutico-funzionale ma ricavato per mezzo di un dispositivo epistemico-categoriale di “comparazione” e, dunque, comunque incongruente rispetto al paradigma della “critica dell’economia politica”. Risultato così intendibile perché pertinente all’esibizione di un fattore – potremmo dire, approssimando il lessico labrioliano – squisitamente genetico, anche se senza assumere il ruolo di matrice, circa l’instaurarsi di un determinato assetto di rapporti di forza. Un secondo aspetto relativo ad una sorta di sottesa oscillazione fra l’idea del riferimento da parte del valore-lavoro alla “mi56. Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 41-43.

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sura” (di tempo conglutinato nella forma-merce), in quanto dispositivo che concentra in sé un meccanismo di riduzioneformalizzazione del mondo, e la sua forviante, eppur commessa, risoluzione nell’ordinario modello ricardiano. Osserviamo e ribadiamo: l’approssimazione appena richiamata consta di carattere del tutto germinale. L’avvertimento della costitutiva inscrizione del valore-lavoro in un reticolo di rapporti di forza da esso stesso composto e, per così dire, “sovradeterminato”, si rivela sollecitato, infatti, dalla parziale reattività politica di cui è investito il criterio di concettualizzazione sul quale riposa il “paragone ellittico”. Sarà bene soffermarsi sul tema. Al cuore della riflessione in merito al valore-lavoro sta il problema della portata della sua incidenza sulla organizzazione sociale. Da ciò dipende la connotazione dell’architettura logico-storica che sorregge il capitalismo moderno. Attribuendovi lo statuto categoriale di “tipo”, Croce conviene con Labriola in merito alla effettività del suo contenuto conoscitivo. Il referente di tale contenuto non si trova fissato nella generalità di una pura astrazione logica, bensì nel ricavo e nel riconoscimento concettuale di una precisa realtà, ovvero – come si è detto – in una conseguita “astrazione reale-determinata”. Resta fuor di dubbio, di conseguenza, per Croce, la designazione di un concetto storico determinato da parte del valore-lavoro. La stessa logica del confronto fra modello e realtà, che presiede all’attribuzione a Marx del “paragone ellittico”, quando si slarga verso quello fra “economia pura” ed “economia marxista” comporta il concorso di un criterio di codificazione storica delle categorie marxiane. Tale ulteriore raffronto si traduce, infatti, nella loro comparazione non già rispetto all’ipostasi di una vuota universalità (l’ipoteca della cui immagine, in collegamento al paradigma marginalista, riemerge, comunque, come vedremo ampiamente, nell’idea di generale procedimento astrattivo cui Croce si richiama), bensì nei riguardi di una certa, principiante dimensione sociale. Assodato il presente elemento,

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occorre cercare di comprendere, d’altro canto, in quale senso Croce declini l’acquisizione del valore-lavoro come «fatto che vive fra altri fatti», come «forza tra le forze». Il giovane autore di Pescasseroli pensa che solo in una astratta società economica – la “società lavoratrice” – il valore-lavoro possa vigere quale “misura” dell’intiero arco della sua struttura, mentre nella concretezza contingente operi in compresenza ad altri “fatti”, dando luogo a tangibili contrasti. L’accezione rigida di un simile argomento (il quale sembra filtrare uno degli effettivi contributi conoscitivi del marginalismo), incentrato sulla constatazione della pluralità dei fattori sociali che condizionano l’economia, si riverbera nella considerazione critica della elaborazione marxiana della nozione di “plusvalore” – di cui pure, come si ricorderà, viene ad essere parzialmente riscontrata l’efficacia. La maniera nella quale Marx “deduce” dal riferimento generale al valore-lavoro, in ordine allo spettro d’insieme della “società economica”, l’esistenza del plusvalore è approssimata da Croce in senso propriamente “extraeconomico”, ponendo una relazione tra grandezze reciprocamente non commensurabili. Marcello Montanari ha giustamente osservato come, entro l’ottica crociana, sia sulla scorta di tale relazione che Marx punta a fornire una «definizione complessiva dei rapporti sociali»57. Bisogna sottolineare chiaramente, però, che siffatto risultato viene derivato pure dalla indebita – anche se parziale – attribuzione alla Kritik dell’ambizione di una diagnosi scientifica meramente “ritagliata” su un isolato campo di selezione e generalizzazione, pertinente a ben precise categorie economiche. Da una simile attribuzione sortisce l’indebolimento, sino alla più cruda asimmetria, dell’avvertito compito ermeneutico-funzionale da Marx assegnato al

57. Id., La rifondazione della “ragione storica” in B. Croce, in Crisi della ragione liberale – Studi di teoria politica, Lacaita, Manduria, 1983, p. 23.

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valore-lavoro medesimo58. Indebolimento incline a favorire, rischiosamente, un’idea dell’impresa del criticismo marxiano fortemente venata di economicismo. Proprio uno studioso di grande acume come il Montanari, in un testo di cui qui ripubblichiamo la parte interessata, ha sostenuto che i limiti della ricezione crociana del valore-lavoro sono derivati dalla nozione fornitane da Labriola nel Discorrendo, e confermata nelle pagine interlocutorie del Postscriptum all’edizione francese59. Non possiamo qui profonderci nell’argomentare le ragioni per cui l’ammissione del valore in quanto misura appare muoversi, nell’ottica di Labriola, in una direzione del tutto opposta alla passiva assunzione del suo ruolo di “indice” quantitativo, ed attenga, altresì, alla costruzione di un campo formale ove la “riduzione quantitativa” si rivela investita di peculiare incidenza politica. Questa tematizzazione rinvia al nodo dell’implicita rilevanza “qualitativa” del processo di valorizzazione60. Basti notare che il filosofo di Cassino, senza eludere la composizione plurifattoriale della costituzione storico-effettiva del mercato, ed anzi riconoscendo il contributo parziale del marginalismo circa il ruolo delle “utilità particolari”61 e degli “impedimenti” stagliantisi entro l’orizzonte capitalistico62, coglie nel valore-lavoro un meccanismo strategico di riduzione che, in compresenza dialettica

58. Per le nostre osservazioni – pur, come subito espliciteremo, dovendo segnalare alcuni chiari elementi di discrimine interpretativo – abbiamo tratto valevoli spunti da Ivi, pp. 21-23. 59. Ivi, pp. 24-25. 60. Cfr. R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 43-49; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 251-261. 61. La più acuta prosecuzione del discorso in merito è da riconoscersi, a nostro parere, nella nota gramsciana al § 23 del Q. 10. 62. Esemplificativa appare in proposito la lettera di Labriola a Croce del 28 febbraio 1898, già richiamata.

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con altri dispositivi formali, si proietta sull’organizzazione complessiva dei compiti cognitivi, della razionalità scientifica e della sua compenetrazione alla riproduzione sociale. Croce, diversamente, riconosce la densità politica del “fatto’-valore ma non sembra in grado di stringerne il riflesso entro il mobile scenario sociale se non isolando determinati elementi della sua struttura, parametrati alla comparazione modellistica prevista dal “paragone ellittico”. È lo stesso Cassinate a mettere in chiaro un simile aspetto, sia pure dando luogo ad una estremizzazione assai squilibrata rispetto ad una adeguata ricostruzione concettuale, quando afferma, nella missiva del 28 febbraio 1898: «Il marxismo tenta di spiegare la società capitalistica – cioè usa di concetti leggi etc. per ispiegare un fatto – e naturalmente lo spiega nei suoi caratteri generali: dunque, dici tu, spiega un mondo ipotetico. E qui si vede che avevi in capo il mondo ipotetico della economia pura […] Ciò poi ti porta a confondere il tipico con l’ipotetico». Labriola si mostra, insomma, del tutto consapevole, com’è chiaro, della incompatibilità con l’ottica marxiana di un procedimento incardinato sulla “invenzione” «di un modo ipotetico», in forza del quale, poi, «considerare il mondo reale come un caso particolare»63. Perciò si può a ragione parlare della “dimidiata” presenza nella prospettiva revisionistica crociana di un certo paradigma ermeneutico-politico rivolto al sistema sociale capitalistico. Non venendo pienamente colta la trama dei riflessi formali cui il valore-lavoro presiede, la percezione dello statuto storicamente determinato del capitalismo e della sua realtà conflittuale non giunge ad essere spinta sino al completo riconoscimento nel lavoro, nella possibile collocazione del suo Standpunkt, di un fattore non solo costitutivo dell’assetto co-

63. A. Labriola, Lettera a B. Croce del 28 febbraio 1898, cit., p. 851.

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gente dei rapporti di forza, ma sempre potenzialmente propulsivo della loro trasformazione complessiva. D’altra parte, siffatto modo di vedere le cose si rivelerà coerente con la successiva lettura d’insieme dello sviluppo sociale da parte dello storicismo conservatore crociano, incline ad ammettere l’insostituibile pluralità dei soggetti sociali, il loro apporto, ma anche ad attestarne la fissità. Lettura sostanzialmente vincolata alla immutabilità della tipologia dei distinti e dei modi della loro mediazione, contraddistintiva della “filosofia dello spirito”64. Non dobbiamo, adesso, avanzare troppo oltre nelle nostre osservazioni, anticipando eccessivamente i contenuti dell’argomentazione complessiva. Altresì, va insistito come uno dei versanti maggiormente significativi della interpretazione proposta da Croce del valore-lavoro attenga alla vexata quaestio del rapporto valori-prezzi entro l’analisi de Il Capitale. Un passaggio rilevante in merito è riscontrabile in Per la interpretazione. In «forza della […] premessa» configurata dal valorelavoro come “tipo”, ragiona Croce, divenne «possibile» a Marx «giungere alla proposizione: che i prodotti del lavoro nella società capitalistica non si vendono se non eccezionalmente al loro valore, ma di solito per più o per meno, e talora con deviazioni grandissime dal loro valore; il che, espresso in breve, si direbbe: il valore non coincide col prezzo. Se, per ipotesi, cangiasse d’un tratto l’ordinamento della produzione da capitalistico a comunistico, si assisterebbe, di colpo, non solo a quel mutamento delle fortune degli individui che colpisce le fantasie della gente, ma anche a un più mirabile mutamento: a quello della fortuna delle cose. Si formerebbe allora una scala di prezzi in gran parte diversissima da quella che ora vige»65.

64. Osservazioni importanti in merito sono presenti in M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 165-166. 65. MSEM, p. 79.

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Diversamente da Labriola, che vede nella divaricazione fra il valore-lavoro e la formazione dei prezzi l’indicazione di una contraddizione reale della società capitalistica attestante, vieppiù, la facoltà di giustificazione dello schema formulato dallo stesso dispositivo del valore-lavoro in quanto esprimente uno sforzo di integrale riduzione-formalizzazione della realtà, Croce ravvisa in ciò la ragione della impossibilità di affidarvi una compiuta funzione di predominanza categoriale sul terreno dell’eurisi funzionale della dimensione politica della società capitalistica. Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un giudizio che, in certa misura, capovolge l’orientamento labrioliano. Giacché, se nel Labriola del Discorrendo, poniamo, la generale indeducibilità diretta della teoria dei prezzi dall’ambito del valore esibisce gli arresti e le asimmetrie che la dominante tendenza verso la riduzione all’Economico incontra operando effettivamente66, nella prospettiva di Croce questa indeducibilità – riconducibile al nodo della attribuita discontinuità tra il I ed il III libro de Il Capitale ed alle relative motivazioni – conferma la necessità di circoscrivere il “fatto” del valore sino a fissarne recisamente la “parzialità”. Si tratta, cioè, di un elemento in grado di esercitare un concorso attivo cui è possibile riferirsi solo allo scopo di ricostruire una certa dinamica di formazione dell’assetto di potere della società capitalistica e non già, di qui, per connetterne la trama e la effettiva disposizione regionale (il valore si costituisce quale campo speciale) alle condizioni della ulteriore trasformazione obiettiva, al loro carattere di contradditorietà. In merito l’atteggiamento crociano risulta ben visibile e si spinge ad impoverire il meccanismo di valorizzazione, sovrapponendo al suo dispositivo di “riduzione” un modulo di diretta “semplificazione” della

66. Il riferimento va alla II lettera del Discorrendo. Cfr. in proposito, fra gli altri, R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 138-141; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 237-323.

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struttura sociale impiegabile, realiter, esclusivamente al fine di isolare determinati aspetti fenomenici67. Le difficoltà che Croce avverte in merito al “problema della trasformazione” restano focalizzate, ad ogni maniera, all’insegna della generale considerazione della riconosciuta pregnanza storico-politica dell’apparato categoriale de Il Capitale («se il Capitale fosse dovuto essere una monografia puramente economica, si potrebbe metter pegno che non sarebbe nato»68) e, connessamente, del discrimine fra quest’ultimo ed il criterio di indagine e di generalizzazione adottato dalla medesima “economia pura”. Sulle diverse misure epistemologiche di astrazione e di deduzione che il giovane intellettuale meridionale assegna a queste due ottiche ci siamo già intrattenuti e dovremo tornare. Per ora, è sufficiente richiamare un esplicativo passaggio del Per la interpretazione e la critica, da riferirsi, anzitutto, alla accezione esaminata del ruolo di giustificazione categoriale assolto dal valore-lavoro. In esso Croce osserva che «se la legge del valore […] assunta» da Marx «è la legge particolare dell’astratta società lavoratrice, che solo frammentariamente si attua nelle società economiche storicamente date e in altre società economiche ipotetiche o possibili, sembrano chiare e facili conseguenze»: 1) che l’economia marxista non è la scienza economica generale; 2) che il valore-lavoro non è il concetto generale di valore. Accanto, dunque, alla ricerca marxistica può, anzi deve vivere una scienza economica generale, che stabilisca un concetto di valore, deducendolo da principi affatto diversi e più comprensivi di quelli particolari del Marx. E se gli economisti puri, chiusi nella loro specialità, hanno mostrato una sorta di repulsione intellettuale verso le ricerche del Marx, i

67. Su questo tema alcune osservazioni interessanti sono presenti in M. Montanari, La rifondazione della “ragione storica” in B. Croce, cit., p. 23. 68. MSEM, p. 69.

49 marxisti, a loro volta, hanno a torto riconosciuto un ordine di ricerche a essi estranee, dichiarandole ora oziose ora addirittura assurde69.

Il brano riepiloga elementi già evidenziati, battendo sia sulla presenza di una indicazione effettivamente riscontrabile nella Kritik, sia sulla necessità dell’adesione all’impianto di «scienza economica generale» proprio dell’edonismo, a fronte del suo maggiore grado di “comprensività”. Croce rifugge, comunque, le versioni unilaterali dell’una e dell’altro. Versioni che rendono impraticabile il riconoscimento del rispettivo contributo dei due orientamenti. Tuttavia, è del tutto chiara la propensione “di cornice” del pensatore di Pescasseroli, il quale asserisce: «Per conto mio mi tengo fermo alla costruzione economica della scuola edonistica, all’utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e finanche alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri»70. Propensione che si conferma congiunta, nel caso, ad una chiara istanza di integrazione rispetto alle acquisizioni storico-‘sociologiche” – per stare alla espressione (in vero inesatta, e, probabilmente, di ascendenza labrioliana) dell’autore in esame – attribuibili a Marx: «Ma ciò» – prosegue, infatti – «non appaga il desiderio di un chiarimento, per così dire, sociologico del profitto del capitale; e questo chiarimento, come altri della medesima natura, non si può averlo se non dalle considerazioni comparative, che ci mette innanzi il Marx»71. Come si vede, Croce, anche rinviando in nota alla approssimazione del problema da parte di economisti come Pantaleoni72, e, soprattutto, ripropo69. Ivi, pp. 81-82 (corsivo nostro). 70. Ivi, pp. 87-88 (corsivo nostro). 71. Idem. 72. Al contrario del Böhm, Pantaleoni aveva sostenuto la convergenza tra economia pura ed economia classica, sulla scorta della identità “valore” =

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nendo lo schema della comparazione modellistica in vista della ricostruzione del paradigma marxiano, conferma anche la distinzione tra il piano della generalizzazione delle dinamiche economiche e quello della penetrazione del contenuto politico delle loro forme storicamente determinate e riferibili ad una effettiva situazione sociale. Stante tale discrimine, del resto, la generale elaborazione di una teoria dei prezzi gli appare rigidamente incompatibile col meccanismo, esplicativo ma fenomenologicamente “ristretto”, designato dal valore-lavoro. Nell’insieme, siamo di fronte ad un esito tendenzialmente paradossale che si rivelerà pesare, a nostro pare, su tutto il successivo sviluppo crociano dello storicismo e della concezione “metapolitica” del liberalismo73. Osserviamo: l’emergere

“costo” = “pena” = “sforzo” (il tema è affrontato da C. Tuozzolo in “Marx possibile”, cit., pp. 135-139). Riferendosi ai Principî dei economia pura, del 1889, Croce annota: «È curioso come negli studiosi di economia pura si faccia sentire questo bisogno di una diversa considerazione; il che li induce poi ad affermazioni contraddittorie o ad imbarazzi insuperabili. Il Pantaleoni […] combatte il Böhm-Bawerk, domandando donde il mutuatario del capitale riesce a prendere di che pagare l’interesse» (MSEM, p. 88). 73. Sul Croce “politico” cfr., fra gli altri, S. Onufrio, La politica nel pensiero di B. Croce, La Nuova Accademia, Roma, 1962; G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di B. Croce, Morano, Napoli, 1966; G. Sasso, La “Storia d’Italia” di B. Croce – Cinquant’anni dopo, Bibliopolis, Napoli, 1979; Id., Ripensando la “Storia d’Italia”, in Croce e Gentile – La Cultura italiana e l’Europa, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2016, pp. 475-289; e Ripensando la “Storia d’Europa”, in ivi, pp. 506-518; M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit.; C. Carini, B. Croce e il partito politico, Olschki, Firenze, 1985; l’antologia di testi a cura di A. Bisignani, B. Croce – Il Partito politico, Palomar, Bari, 2000; M. Maggi, L’Italia che non muore – La politica di Croce nella crisi nazionale, Bibliopolis, Napoli, 2001; S. Cingari, Il giovane Croce – Una biografia etico-politica, Rubettino, 2000; Id., Alle origini del pensiero civile di B. Croce – Modernismo e conservazione nei primi vent’anni dell’opera (1882-1902), Editoriale Scientifica, Napoli, 2002; M. Prospero, Il partito come giudizio e come pregiudizio, in Croce e Gentile, cit., pp. 270-273; C. Galli, Elementi di politica, in Ivi, pp. 372-380.

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– comunque analiticamente riconosciuto – di un campo reale di rapporti di forza, intrinsecamente investito in senso storicopolitico, e le sue conseguenze, si profilano quali corrisposte al delimitato ambito “fattuale”, riconducibile alla mera empiria. Parliamo del riferimento ad un ambito empirico che, in certo modo, slitta verso il capovolgimento (solo apparentemente paradossale), dovuto ad una sorta di riarticolazione-rifrazione della prima impostazione herbartiano-kantiana del nostro autore sul versante del conseguimento di un certo «ideale morale», “scientificamente” inverificabile, se ci si tiene al quadro epistemologico che stiamo approssimando, via via, e che ricapitoleremo oltre, approfondendolo ulteriormente. Come si legge nella prima memoria: «È evidente che l’idealità o l’assolutezza morale, nel senso filosofico di tali parole, sono presupposto necessario del socialismo. L’interesse, che ci muove a costruire un concetto del sopravalore, non è forse un interesse morale, o sociale che si voglia dire? in pura economia, si può parlare di sopravalore? non vede il proletariato la sua forza di lavoro» – si domanda ancora Croce ai fini dell’argomentazione – «proprio per quel che vale, data la sua situazione nella presente società?»74. Da siffatte considerazioni è possibile derivare la natura degli ineludibili, forvianti condizionamenti gravanti sulla percezione crociana della composizione del sistema capitalistico, delle relazioni di cui si rivela intessuto. A ben guardare, la tematica potrebbe essere approfondita in ordine alla complessità del percorso crociano. Dalla originaria assunzione, compiuta nella memoria pronunciata all’Accademia Pontaniana nel 1893, della storia nella sfera dell’“arte”, distinta da quella della “scienza”, alla connessione – compiuta nella Filosofia della pratica – del rapporto etica-politica nei riguardi dello schema del “doppio grado” per cui l’economicopolitico si distingue dall’etica in ordine alla semisfera definita 74. MSEM, p. 33.

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dalla sua stessa forma all’interno della sfera pratica, ma può rabbassarsi a contenuto, consentendone la forma medesima75. Dalla elaborazione della nozione di “etico-politico” alle cruciali modificazioni della categoria dell’“utile”; dalla assunzione delle forme dello spirito quali predicati del giudizio alla loro accezione in quanto “potenze del fare”, etc.. Giunti a questo punto, allo scopo di comprendere ancor meglio la funzione attribuita al valore-lavoro dalla “revisione” crociana è opportuno prestare attenzione, forse, alle risposte che, proprio nel Postscriptum al Discorrendo, Labriola, nel 1898, fornisce in ordine ai contenuti del Per la interpretazione. Considera il Cassinate circa la questione del valore-lavoro: «In verità il tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non nella misura di un processo; ed è nell’economia la misura del processo della produzione e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell’economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell’interesse»76. Nel quadro capitalistico, dunque, secondo Labriola, il valore-lavoro designa un dispositivo di riduzione ad una unica misura. La sua adozione coinvolge l’arco composto da due fenomeni connessi in senso squisitamente processule (produzione e circolazione), facendo vigere come parametro l’applicazione di una astrazione logica (che, così, non si limita ad essere esclusivamente tale). Dietro alla compressione dell’energia erogata in tempo alla dimensione della sua misura vi è il meccanismo di dominio che si esercita istituendo una determinata regione formale.

75. Sul tema cfr., fra gli altri, G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di B. Croce, cit.; e l’assai importante libro di A. Chielli, La volizione dell’ideale – “Legge” e “Stato” nella filosofia politica di B. Croce dalla “Filosofia della politica” agli “Elementi di politica”, PensaMultimedia, Lecce, 2008. 76. A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., pp. 1515-1516.

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Stando in siffatta maniera le cose, non dovrebbe sorprendere, perciò, il tentativo labrioliano di destituire – attraverso vaste argomentazioni che attengono all’insieme delle pagine del Postscriptum e che si rivelano dense di molteplici implicazioni – la legittimità degli interrogativi di un Croce o di un Böhm circa la capacità di giustificazione del valore-lavoro ed il carattere del nesso fra produzione e circolazione. Totto riconduce al problema della presenza di contraddizioni reali tra valori e prezzi, e, in senso generale, tra l’impalcatura categoriale del I libro de Il Capitale e la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto esposta nel III. Se, infatti, il “posto” del valorelavoro assolve alla propria preminente funzione, anzitutto sul piano categoriale, raccogliendo in sé il sinolo indissolubile tra contenuto di dominio e costruzione formale, allora tutto si gioca in merito alla possibilità di riconoscerne il riflesso, l’incidenza, in quanto matrice, sull’intiero segmentato asse della riproduzione sociale e della intermittenza fra regolazione di mercato ed accumulazione cognitiva. Ciò, tuttavia, non deve indurre ad assecondare nessuna ipotesi di mera riconduzione lineare al valore-lavoro di qualsivoglia peculiare connotazione delle «condizione antitetiche […] del sistema capitalistico»77, assumendolo quale mero ed esclusivo principio di legalità economica e non – come è, invece, opportuno – in qualità di schema di formalizzazione vincolato alla realtà di quello scambio diseguale definente, giustappunto, la matrice della reductio ad unum del lavoro ad un campo formale determinato. I limiti e l’aspetto produttivo della posizione crociana sul valore-lavoro divengono stringibili, ora, con maggior efficacia. Croce vede la pregnanza politica del valore-lavoro ma non si spinge ad evidenziare la portata irradiante del comando del valore sul lavoro nella configurazione processuale del sistema

77. Ivi, p. 1408.

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capitalistico. Egli ne replica, cioè, il movimento di riduzione isolando, per mezzo della comparazione modellistica, il medesimo dualismo capitale-lavoro. Del resto, una siffatta, implicita operazione, riconverte, in definitiva, lo sfibramento attuato dal “canone” nei riguardi del materialismo storico – per cui esso diviene riducibile ad un certo insieme di regole zeetetiche78 – nell’indebolimento dello stesso nocciolo euristico ravvisabile entro il procedimento analitico adottato dalla Kritik; dissociando, fino ad un certo segno, lo specimen del sistema di rapporti di forza esemplato nel valore-lavoro dalla sfera economica, qualificata secondo un criterio di generalizzazione che rinvia, inevitabilmente, alla postulazione delle «leggi» cui si richiama sia l’elaborazione più avanzata del marginalismo che l’«economia volgare»79. Croce, cioè, non sfugge, suo malgrado, all’ipoteca della interpretazione in chiave naturalistica del concetto di “legge”. L’argomento – come vedremo – mostra risvolti differenti e contrastanti fra loro, approssimabili solo attraverso molteplici passaggi. Basti dire, per ora, che la critica attuata si ritorce sulla posizione di adesione al marginalismo, realizzando una sorta di retroazione concettuale, con un conseguente effetto di ulteriore compromissione, almeno parziale, del potenziale euristico comunque assegnato al dispositivo del valore-lavoro. Ciò in ragione dell’ipoteca economicistica. A quest’ultimo effetto si combina – coerentemente alla diret-

78. Si tratta, per certi versi, di un esito comune ad alcuni risvolti profondamente deformanti dell’impostazione della Seconda Internazionale, e convertibile nella fissazione di tesi per la elementare ricostruzione funzionale, concettualmente deprivata di determinazioni, dei modi dello sviluppo capitalistico e dei conflitti di classe. Cfr. in merito gli accenni presenti in F. Fistetti, Althusser e la critica dell’economia politica – Saggio introduttivo a R. Establet, P. Macherey, La scienza del capitale – Leggere Marx, Bertani, Milano, 1973, p. 103. 79. A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., p. 1513.

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trice neokantiana che attraversa i principali punti di vista del “revisionismo”: dallo stesso Croce a Bernstein – la reintroduzione di fatto di un atteggiamento eticistico – dal cui impianto Benedetto intende, però, tenersi lontano sul piano programmatico (cosa che verrà riconfermata in seguito, con momenti di indubbia efficacia) – volto a tradurre in senso normativo gli obiettivi di trasformazione, conseguibili rispetto al maturarsi di contraddizioni storico-reali, esposti dalla prospettiva marxiana80. Particolarmente eloquenti appaiono in merito le parole, più sopra ricordate, circa la collocazione nell’«interesse morale, o sociale» della premessa persino alla formulazione della nozione di “sopravalore”. Va rimarcato che vi è certamente un aspetto paradossale nel discorso crociano sulla Kritik. Giacché l’ammissione dello statuto di realtà della circoscritta referenza politica del valore-lavoro si trova divaricata dalle dinamiche generali dell’economia, quasi che si possa davvero ammettere la facoltà di giustificazione di determinate generalizzazioni senza precisarne l’aderenza alla costituzione delle mediazioni reali che configurano la formazione capitalistica. Di un simile rischio Croce è, ad ogni maniera, ben consapevole. Egli cerca di farvi fronte rivendicando la maggiore portata di “copertura” dell’economia edonistico-“pura” nei riguardi della organizzazione plurale degli orientamenti di consumo, delle propensioni dei soggetti-consumatori, degli stili di vita. Tuttavia, il suo procedimento teorico appare arrestarsi, in definitiva, nella presente fase, all’emergere della scissione. La sua analisi “manca” l’esigenza di riconoscere nel valore-lavoro la dimensione di ma-

80. Osservazioni importanti in merito sono state formulate da R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., p. 139. Esse approfondiscono, fra l’altro, il significato della stigmatizzazione labrioliana, compiuta nella II lettera del Discorrendo, dei due poli dell’economicismo plasmato sul modello protoricardiano e dello stesso eticismo.

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trice conseguibile dalla critica in virtù della quale penetrare i nessi dialettici fra gli altri “fatti” – se così si può davvero dire –, che pure attengono ad una molteplicità di regioni formali mai linearmente assimilabile ad un univoco paradigma81. Il più cospicuo limite della lettura crociana della Kritik deve essere ravvisato, insomma, a nostro parere, sul terreno della ricomposizione teorica del processo storico-reale82. Già assistiamo, dunque, proprio a fronte della impossibilità del suo isolamento, al rovesciamento della circoscritta attribuzione di efficacia al valore-lavoro nella tendenziale dispersione della dinamica da questo concentrata. Ne abbiamo riprova, del resto, se consideriamo quanto Croce dice riportando e commentando le argomentazioni di Labriola nella VI lettera del Discorrendo. «Anche il prof. Labriola» – annota – «mostra un certo malumore, che a me sembra non del tutto giustificato, contro gli economisti puri, “i quali (dic’egli) traducono in concettualismo psicologico la ragione del risico ed altre analoghe considerazioni dell’ovvia pratica commerciale”. E fanno bene (io risponderei), perché anche delle ragioni del risico e della pratica commerciale la mente vuol rendersi conto, e spiegarsene la natura e l’ufficio. E poi, concettualismo psicologico: o non è questa una transazione poco felice tra ciò che la vostra mente vi mostra ch’è davvero l’economia pura (scienza che mette capo a un concetto suo proprio), e l’indebita inclusione […] di essa nella psicologia? Sostantivo e oggettivo non contrastano tra loro? E il Labrio-

81. In merito a questo insieme di problemi l’elaborazione di Labriola rappresenta davvero, a nostro parere, un punto di vista avanzato entro tutto il quadro della riflessione europea su Marx prima di Gramsci. Cfr. in merito, fra gli altri, B. De Giovanni, Labriola e il metodo “critico”, in “Critica marxista”, n. 11, 1979, pp. 89-109. 82. Su questo nodo sollecitazioni decisive ci sono venute da R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 129-143.

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la parla ancora sdegnosamente dell’“astratta atomistica” degli edonisti, nella quale “non si sa più che cosa sia la storia […]” E qui nemmeno mi pare che il disdegno sia giustificato, perché il Labriola sa benissimo che in tutte le scienze astratte spariscono le cose concrete e individuali, e restano solo oggetto di considerazione i loro elementi; onde non si può di ciò muovere particolare rimprovero alla scienza economica»83. Croce avverte – analogamente allo stesso Labriola quando ragiona sugli “impedimenti” e sull’incidenza dell’“irrazionale” nello sviluppo materiale del processo storico-reale – che il calcolo del quantum delle utilità, delle loro connessioni, della modificazione di un bene mercantile rispetto ad altri – su cui si concentrano i modelli neoclassici, a cominciare da quello di Gossen84 – riguarda la manifestazione di comportamenti individuanti il tratto preminente della civiltà contemporanea, delle modificazioni del moderno. È appena il caso di richiamare come questa lucida consapevolezza risulti accompagnata dall’inespulso aggancio ad un procedimento di generalizzazione-astrazione descrivente, realiter, moduli di svolgimento delle dinamiche economiche la cui regolarità assume portata tendenzialmente trans-storica. In breve, potremmo dire che sembra tratteggiarsi in nuce l’elemento cruciale di incomprimibile crisi interna della “filosofia dello spirito”, ovvero la già richiamata asimmetria tra la risoluzione senza residui della realtà nella storia, incarnata nella permanente mediazione fra

83. MSEM, p. 86. Croce citata dal Discorrendo, ora in A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., pp. 1448-1449. 84. Sul significato generale della posizione di Gossen considerazioni ancora affascinanti – anche se bisognose di essere integralmente discusse – sono presenti in M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia, 1977, pp. 21-29. Si vedano, poi, fra gli altri, i materiali raccolti in Marginalisti matematici, a cura di T. Biagiotti, UTET, Torino, 1972, ed., inoltre, le indicazioni presenti in W.M. Johnston, The Austrian Mind, Univ. of California, 1974; nonchè in F. Behrens, H. H. Gossen, Leipzig, 1949.

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i distinti, e lo statuto extratemporale delle forme che ad essi aderiscono e che con essi coincidono. Ma c’è di più, ed è necessario chiarirlo. Ammettendo la consistenza del riferimento del valore-lavoro in «un fatto» che «vive tra altri fatti», Croce ne arresta l’acquisizione del contenuto politico al significato attribuibile alla individuazione di un campo di grandezze determinato senza, tuttavia, guadagnarne l’insieme dei precipitati. Il dispositivo categoriale del comando del valore sul lavoro resta pur sempre volto, infatti, a definire il passaggio diretto dalla logica delle grandezze designata dal lavoro come misura all’analisi sociale riguardante una molteplicità di fattori, da quelli psicologici a quelli culturali, ecc. Di conseguenza, bisogna evitare di comprimere la “scienza economica” a “scienza delle grandezze”. Giacché il mero “calcolo” non appare in grado di spiegare la complessità dell’“agire economico”. Anche al di là dei confini dell’ottica del valore-lavoro, le coordinate del revisionismo crociano tendono, in verità, a distaccare l’effettiva gamma dei bisogni, degli interessi, dei conflitti dai teoremi della scienza economica, i quali possono dimostrare una loro efficacia esplicativa solo in base alla portata delle loro generalizzazioni. Sul tema torneremo ulteriormente circa il confronto con il problema della non isolabilità dell’Economico. A corollario di una siffatta impostazione, in ordine allo specifico dell’apparato categoriale del criticismo marxiano, si evidenzia tanto l’impossibilità di dedurre direttamente ed esclusivamente dal verificarsi della caduta dei profitti l’inevitabile trasformazione dei rapporti sociali, tanto la difficoltà nel definire il ruolo della forza-lavoro in ragione di un esclusivo rapporto di grandezze. Se non che, nell’ottica marxiana la misura del tempo di lavoro cui corrisponde il valore definisce un campo di grandezze istituito in quanto spazio formale, teoricamente disposto e qualificato, che in sé racchiude una precisa dinamica politica vocata ad innervare il plesso delle articolazioni della società capitalistica, compre-

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se quelle tendenzialmente contrastanti, sul piano economico, con lo specifico del valore-lavoro stesso. È, cioè, proprio il suo riferimento “quantitativo” ad esibire la pregnanza politica delle forme capitalistiche (cosa che ne rende definitivamente indebita la risoluzione entro i confini del mero paradigma ricardiano). A ben guardare, dunque, proprio l’affido all’“economia pura” non consente l’acquisizione delle mediazioni interne correlate alle tensioni che scandiscono i rapporti di mercato, l’“agire economico”, l’orientamento dei consumi, i contenuti della riproduzione sociale etc.85. In altre parole, la veduta sulla Kritik marxiana adottata da Croce esige, almeno in certo senso, di essere, a sua volta, rovesciata. La costruzione interna del valore-lavoro deve, cioè, venir intesa non già come «fatto» reale configurabile concettualmente riconducendone l’indicazione entro il livello “quantitativo” ad una parziale ricognizione del sistema sociale circoscrivibile in tale direzione, bensì quale matrice paradigmatica della dimensione politica propria del complicato e differenziato movimento di costituzione formale connesso al “dominio” peculiare dell’orizzonte, designabile solo prima facie come tale, dell’Economico. Eludere le implicazioni del campo formale descritto dal valore significa, del resto, esporsi ad una evidente incoerenza concettuale nei riguardi persino della ammissione – certo delimitata – del suo portato conoscitivo orientato verso una data realtà, comunque connotabile in chiave storico-politica. Le ulteriori caratteristiche di un simile impianto critico-analitico risultano coglibili considerando la replica di Croce, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, all’argomentazione labrioliana che, nella seconda e terza lettera del Discorrendo, si era profusa 85. Le osservazioni svolte vanno intese come interlocutorie nei riguardi di quelle formulate da M. Montanari in La rifondazione della “ragione storica” in B. Croce, cit., pp. 21-28.

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nel contestare il discorso marginalista su Marx e la critica dell’economia politica. Qui Croce rivendica il “paragone ellittico” in quanto esclusiva chiave al fine di designare la ulteriore nozione di “plusvalore”. Tale nozione si trova ricavata, egli ragiona, solo per differentiam, ma Labriola ravvisa in ciò lo sporgere di un procedimento concettuale opaco ed, in sostanza, indeterminato. Ecco la risposta dell’autore di Pescasseroli: Prendiamo due tipi di società: il tipo A, composto di 100 individui, che con capitale comune e con eguale lavoro producono beni in proporzioni eguali; il tipo B. composto di 100 individui, di cui 50 in possesso del ruolo e dei mezzi di produzione, ossia capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia proletari e lavoratori; i primi dei quali nella ripartizione abbiano, in misura dei capitali che ciascun impiega, una parte dei prodotti del lavoro dei secondi 50 Che nel tipo A non abbia luogo sopravalore è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete diritto di chiamare sopravalore quella parte di prodotto che è riscossa dai capitalisti, se non quando paragonate il tipo B col tipo A e trattate il primo a contrasto col secondo. Considerando il tipo B in sé stesso (come appunto fanno, e debbono fare, gli economisti puri) il prodotto che si appropriano i 50 capitalisti, ossia il profitto di questi, è un effetto di reciproca convenienza, e in pura economia non troverete altro. La natura usurpatrice del profitto si può affermare solo quando si applichi, quasi reagente chimico, alla seconda società la misura, ch’è invece propria di un tipo di società fondata sulla umana euguaglianza […] “È sopralavoro non pagato” dice il Marx, e sia pure; ma non pagato rispetto a che? Nella società presente è ben pagato, pel prezzo che realmente ha. Si tratta, dunque, di stabilire in quale società avrebbe quel prezzo, che nella società presente gli è negato. E dunque, benedetto Dio!, si tratta di un paragone86.

86. MSEM, pp. 138-139.

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Croce conferma, ad ogni maniera, la corrispondenza della nozione di Mehrwert al campo della Kritik e la sua assoluta destituzione di senso nell’ambito dell’“economia pura”. Partendo da tale puntualizzazione, malgrado il riconoscimento della rilevanza categoriale del valore-lavoro che si è richiamata, egli giunge, però, ad operare una sorta di equivocazione a fundamentis del plusvalore e della sua genesi. Giacché sembra farne combaciare la nozione con quella del profitto appropriato usurpativamente dal capitalista, mentre secondo Marx il profitto rappresenta solo una componente del plusvalore, il quale riguarda anche l’interesse del capitale e la rendita fondiaria. Nell’ottica marxiana il plusvalore appare risultato dal differenziale fra il costo di produzione – relativo all’assommarsi di capitale costante e variabile – ed il prezzo di vendita. Gli è che anche in un contesto di comunanza di produzione e di beni si avrebbe a che fare con l’ingenerarsi del plusvalore, ma non con la sua permanente conversione in profitto. Si aprirebbero, così, inediti spazi per la regolazione sociale della sua estrazione. Viceversa, nella vigente società capitalistica il plusvalore si trova costituito dall’impiego del lavoro, – donde la questione della composizione del pluslavoro –. Al di fuori del richiamo ad una qualche comparazione di sorta, nella vigente situazione capitalistica il profitto, se inteso nel suo vincolo al lavoro impiegato, non può esser considerato quale pagato al prezzo reale se non recidendo il riferimento effettivo a quella particolare legalità di uno scambio diseguale che la teoria del valore-lavoro esempla e racchiude87. Il ragionamento in esame conferma l’oscillazione di fondo che abbiamo cercato di porre in luce soffermandoci sul problema decisivo della teoria del valore. Seppure entro le coordinate

87. Cfr. in merito E. Agazzi, B. Croce e il marxismo, Einaudi, Torino, 1962, pp. 361-363.

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di un modello ristretto, Croce accorda un qualche grado di capacità “reagente” alle categorie della Kritik, ne ammette la incidenza politico-sociale, ma ne contrae, parimenti, la portata alla antinomia – potremmo dire, in questo contesto di discorso – “basica” dei rapporti produttivi della società capitalistica. Antinomia ricavata, però, “applicando” il riferimento alla “società dei puri lavoratori”. Tale riferimento viene fatto agire, cioè, tramite la comparazione orientabile nei confronti della stessa società capitalistica. Ad essa si dovrà apporre un ulteriore filtro fissato quale in grado di garantire la maggiore “copertura” circa le variabili economico-mercantili, ossia governato dal principio di utilità comparata. Dunque, Croce ripropone la chiave epistemica (ulteriormente motivabile e giustificabile) avanzata sin dall’articolo su Loria, e vi fa leva per esibire l’estraneità della nozione di “plusvalore” all’armamentario concettuale dell’“economia pura”, pronunciandosi, in forza di siffatto orientamento, riguardo alla ammissibilità del ricorso a tale nozione. Essa si trova esclusa dall’impianto epistemico per mezzo del quale vengono direttamente generalizzati e classificati i comportamenti economico-mercantili in ordine alla estesa gamma sociale delle loro motivazioni. Inoltre, mentre il principio del valore-lavoro sembra esercitare una certa, parziale efficacia euristica rispetto al tipo di società (B), ma si rivela assumere una precisa funzione di regolazione circa il tipo di società (A), la categoria del “plusvalore” non riscontra, agli occhi di Croce, un diverso grado e una diversa condizione di “applicabilità”. Si tratta, piuttosto, per lui, di una categoria caratterizzata in senso esclusivamente “comparativo”, senza ulteriori conseguenze. La sua funzione gli appare ricavata, cioè, comparando (A) e (B), la società in cui si troverebbe a vigere la diretta equivalenza fra il valore

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delle merci ed il tempo necessario a produrle e quella attuale in cui si realizza la compravendita privata di forza-lavoro88. Osserviamo: possiamo constatare confermate le principali movenze della strategia avanzata in Per la interpretazione. Proprio grazie al ricorso ad un peculiare schema comparativo, Croce slitta dal riconoscimento, compiuto certo tra artificiose delimitazioni ed ambiguità, della facoltà euristica del valore-lavoro riguardo alla cogenza della società capitalistica al riassorbimento del contributo analitico dovuto alla nozione di Mehwerth entro il perimetro di un paragone volto a registrare la presenza di uno scambio ineguale, senza, tuttavia, coglierne adeguatamente il complesso dei precipitati. In altre parole, è sulla scorta dell’esito “estrinseco” dell’applicazione di un certo procedimento teorico che può essere definita la referenza di tale nozione. A differenza del valore-lavoro, che si trova comunque inteso in quanto aderente ad un “fatto reale” ed in virtù di ciò viene ad esser qualificato nella sua portata di efficacia politica – la quale resta, comunque, contratta, non pienamente considerata in relazione ad una angolatura visuale in grado di contribuire a render conto della complessità degli ambiti e delle linee di movimento entro la formazione sociale capitalistica –, il “plusvalore” si trova specificato a partire dall’applicazione di un criterio modellistico di proporzionalità. Nonostante una simile estremizzazione dell’impianto del “paragone ellittico”, resta mantenuto, anche se in forma rovesciata, e, quindi, con accezione ulteriormente indebolita, il ricorso alla facoltà “reagente” di un dato riferimento concettuale – quale che sia il suo grado di pertinenza ad un certo campo di generalizzazione teorica o all’effettività storico-reale. Appare, cioè, confermata l’attribuzione – sicuramente parziale – di un

88. Cfr. in merito B. Visentin, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’“utile”, cit., pp. 37-39.

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determinato contenuto ermeneutico-politico alla strumentazione della Kritik. Tuttavia, occorre anche segnalare come rispetto a Per la interpretazione il tema del Mehwerth risulti trattato passando per un filtro che radicalizza il fattore regolativo-ideale alla luce del quale esso era stato implicitamente affrontato. Ne sortisce un effetto, ideologicamente denso, di evidente sfibramento di uno dei cardini di tale strumentazione. Infatti, se, in precedenza, la giustificazione in senso “regolativo” dell’esistenza del plusvalore era stata ascritta ad una perspicua motivazione etico-politica accordata alla prospettiva marxiana, ora, in virtù dell’approfondimento di alcune già emerse coordinate analitiche, non si ha più a che fare, direttamente, con un “esito” concreto. Altresì, la “posta in giuoco” si colloca in-mediatamente sul fronte della costruzione euristica di genere comparativo, concernente, da un lato, l’ideale convergenza fra valore e lavoro, assunta, appunto, a principio regolativo generale (cioè dando per acquisita la generalizzazione – considerabile indebita in virtù dell’ottica dell’“economia pura” – di un referto attagliabile ad un “fatto” rilevante ma circoscritto), e, da un altro, la loro dissociazione attuata riguardo alle condizioni giustificate e possibili (ovvero – potremmo dire – “trascendentalmente” postulate) in ragione delle quali classificare proprio le dinamiche d’insieme della società capitalistica. Notare bene: malgrado la segnalata continuità, emerge qui il profilo di una precisa rielaborazione operata entro la strategia di revisione in esame. La comparazione tra realtà e modello non appare più restituita, in prevalenza, quale incardinata sul riconoscimento di una funzione effettiva (designata dal valore-lavoro). Vero è che – come si è considerato – una siffatta definizione del “paragone ellittico” sembra risolversi, comunque, eo ipso, nella riduzione in senso dualistico della complessità della struttura sociale cogente, donde l’implicito contrappasso circa l’apporto ermeneutico-funzionale corrisposto all’ammissione del valore-lavoro in quanto «fatto tra

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altri fatti». Tuttavia, ora Croce ravvisa nella enucleazione della categoria di “plusvalore” un passaggio concettuale disponentesi al di là dello spazio di ricongiungibilità fra “valore” e “fatto”, pensato come “insufficiente” riguardo alla giustificazione delle potenzialità proprie dell’insieme di tutte le dinamiche economiche. L’efficacia politica della nozione di “plusvalore” si esercita, dunque, secondo l’Irpinate, non dall’interno di una ricognizione effettiva – eventualmente, parametrata, poi, circa il suo grado di “comprensività”, ai ricavi dovuti allo stesso “paragone ellittico” – ma in virtù di una precisa costruzione epistemica, conseguita, vieppiù, a muovere del prius definito dalla realizzazione, priva dell’ulteriore impiego di criteri di verifica, di un certo procedimento comparativo, alla cui scaturigine vi è, ad ogni maniera, una manifesta istanza di normazione sociale. Ciò configura una evidente asimmetria concettuale. Tale efficacia appare nuovamente indebolita, in definitiva, proprio rispetto al plesso categoriale della Kritik. A movente di tale esito si deve riconoscere la identificazione della generalità delle forze produttive con un univoca forma storica, la quale risulta implicitamente “naturalizzata”89 (in proposito si dovrebbe dedicare un’apposita ricerca al ruolo assunto da un sotterraneo – ma persistente, sino alle ultime propaggini della sua riflessione filosofica – elemento “naturalistico”, certo da porsi in tensione con molti altri di diverso segno, nella prospettiva storicistica del pensatore di Pescasseroli). Si può ora meglio capire perché plusvalore e profitto si trovino a coincidere direttamente. Mentre in Marx il rapporto tra legalità di uno scambio ineguale e costituzione-valorizzazione del capitale esibisce la inscindibilità di valore-lavoro, determinazione del pluslavoro e genesi del plusvalore, rinviando, però, alla possibilità di un diverso impiego di quest’ultimo; Croce ne 89. Cfr. N. Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, cit., p. 22.

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designa la funzione in chiave di giustificazione modellistica. Così, la diretta conversione del plusvalore in profitto che egli stabilisce tramite la comparazione fra i due modelli di società attiene alla esclusione nella realtà di una diversa regolazione dell’accumulo del plusvalore stesso. Come accennato in precedenza, già in Per la interpretazione e la critica troviamo avanzata una simile impostazione del problema, secondo un assai forte, e, parimenti, ben isolato collegamento fra la tesi del valore-lavoro ed il “sopravalore”, di cui dovremo subito provarci a render conto. Vi leggiamo, infatti: «Il Marx […] nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore col lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica, istituiva a paragone della società capitalistica con una parte di sé stessa, astratta ed innalzata ad esistenza indipendente: ossia, paragone tra la società capitalistica e la società economica in sé (ma solo in quanto società lavoratrice). In altri termini, egli studia il problema sociale del lavoro, e mostrava, col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene risolto nella società capitalistica. Qui è la giustificazione, non più formale ma reale, del suo procedimento. Solo in forza di questo procedimento, e alla luce proiettata del suo assunto, il Marx potè giungere a porre e definire l’origine sociale del profitto, ossia del sopravalore. “Sopravalore”, in pura economia, è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore è un extra-valore, ed esce fuori dal campo della pura economia. Ma ha ben un senso, e non è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragonare che si fa una società economica con un’altra, un caso con un altro, o due ipotesi tra loro»90. Nel brano spiccano un elemento di convergenza ed uno di divergenza riguardo alla successiva formulazione. La convergenza è data dalla acquisizione

90. MSEM, p. 89 (corsivo nostro).

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della nozione di “sopravalore” attraverso la comparazione. Questo fondamentale aspetto, incardinato sulla scelta di far agire un «concetto di differenza», rinvia, però, direttamente alla “risoluzione” del “problema” «nella società capitalistica». Altresì, nel contesto del saggio Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore tutto si chiude in un raffronto che lascia emergere proprio lo statuto comparativo della categoria di “plusvalore” in implicito, tendenziale contrasto con quella di “valore-lavoro”, intesa in quanto inclusa nel “paragone” in questione, ma anche constatabile quale indipendentemente vigente nella tipologia sociale A, per stare al quadro esemplificativo strettamente crociano. D’altra parte, nel passaggio in esame viene ad essere marcato il vincolo stretto fra le due nozioni. Tale intreccio si collega, del resto, al contenuto più forte, forse, ricavabile da una siffatta argomentazione. Il raffronto si trova anche proiettato direttamente sulla cogenza della società capitalistica, da cui risulta dissociata – proprio al fine di “costituirla” in termine del paragone – una parte, la quale acquista, di conseguenza, il carattere di «società economica in sé» in quanto società lavoratrice. In un siffatto contesto Croce si mette in condizioni di sottolineare il carattere «non più formale, ma reale del procedimento» che collega l’enucleazione del “paragone ellittico” all’inquadramento della genesi del plusvalore. Ne sortisce l’esito di una tonificazione del contenuto ermeneutico-politico più avvicinabile, dalla presente angolatura visuale, alla considerazione dell’effettiva incidenza del valore-lavoro; pur in un quadro in cui la criticità giunge ad essere collocata all’esterno delle forme, coerentemente al riferimento alla razionalità modellistica (ed alla generale accentuazione del “valore” che ne deriva). Tale cornice di discorso si rafforza nei contorni tramite la già evocata opposizione che il giovane autore di Pescasseroli rivolge verso la tesi della caduta del saggio medio di profitto. L’indagine ci permetterà di ac-

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quisire, fra l’altro, ulteriori tematiche su cui ragionare. Tocca, adesso, esaminarne le connotazioni preminenti.

3. La critica alla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto. All’argomento è dedicato un apposito studio, risalente al maggio del ’99. Una volta snodato il ragionamento inteso a contestare, con argomenti che – almeno in parte – presenteremo fra un momento, l’impalcatura complessiva delle tesi della caduta del saggio di profitto, Croce riassume le ragioni della sua attribuita fallacia tornando ad impiegare lo schema della riduzione modellistica. Vengono in giuoco i presupposti del noto algoritmo marxiano (pv/c+v), per cui all’accrescersi del capitale costante corrisponde un valore inferiore della frazione. Croce continua ad assegnare direttamente a Marx l’adozione di un simile modulo concettuale (stilizzato, nel caso, quale configurante, appunto, una «rigida ipotesi») basato sul postulare la rigida struttura dualistica della società capitalistica, donde la assoluta suddivisione fra la classe dei proprietari e quella proletaria. In un simile quadro la funzione del «progresso tecnico» è vista consistere nella moltiplicazione della «ricchezza nelle mani della classe capitalistica». Il giovane studioso si impegna nel sottolineare come tale progresso, venendo congiunto all’«anticipo di beni che valgono sempre meno», consenta l’alterazione in crescita del saggio di profitto: «Con l’anticipo di beni (capitale) che prima si riproducevano con 5 ore di lavoro ed ora si riproducono con 4, l’operaio lavora sempre 10 ore. Prima con 5 si aveva 10; ora con 4 si ha egualmente 10». Detto questo, egli s’interroga:

69 Come il Marx ha potuto immaginare che col progresso tecnico cresca sempre la spesa dei capitalisti, in modo che, proporzionalmente, il profitto resti in perpetua minoranza e finisca col fare, di fronte alla spesa complessiva, una meschinissima figura?91

Ed ecco come risponde al quesito: L’errore del Marx è stato di aver attribuito innavedutamente un valore maggiore al capitale costante che, dopo il progresso tecnico, vien messo in movimento dagli stessi […] lavoratori. Certo, chi guardi una società in due stadî successivi di sviluppo tecnico, potrà trovare, nel secondo stadio, maggior numero di macchine e d’istrumenti d’ogni genere. Ciò riguarda la statistica e non l’economia. Il capitale (e ciò il Marx sembra avere per un momento dimenticato) non si misura dalla sua fisica estensione, ma nel suo valore economico. Ed economicamente quel capitale (supposte costanti tutte le altre condizioni) deve valer meno; altrimenti, il progresso tecnico non avrebbe avuto luogo92.

Dunque, l’alterazione del rapporto fra valore dei servizi e valore del capitale a favore del primo comporta non già la diminuzione del saggio di profitto, bensì la sua crescita, ed in ciò Croce colloca il principio rispetto a cui diviene possibile esibire l’attribuita fallacia della tesi marxiana in questione93. Come abbiamo riscontrato, Croce considera i principali precipitati concettuali di tale tesi continuando a far leva sull’idea della riconducibilità dell’apparato categoriale marxiano ad un procedimento generale di comparazione «tra varie forme possibili di società economiche»94. Per entrare in medias res circa

91. Ivi, p. 159. 92. Ivi, pp. 159-160. 93. Cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., p. 401. 94. MSEM, p. 152.

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la disamina del criterio della caduta tendenziale del saggio di profitto e dei suoi esiti non possiamo prescindere da un’altra, assai vasta citazione, di cui chiediamo licenza al lettore: La legge è stata ricavata dal Marx dalla considerazione degli effetti economici dei progressi tecnici. Il Marx afferma che il progresso tecnico accresce la grandezza e muta la composizione del capitale complessivo, facendo crescere la proporzione del capitale costante rispetto al variabile, cosicché per tale modo viene a diminuire il saggio del profitto; il quale risulta, com’è noto, dal solo sopravalore del capitale variabile diviso per capitale complessivo. Egli si configura così il fenomeno. Accade un progresso tecnico; si foggiano nuove macchine che prima non esistevano. Il capitale, impiegato nella produzione, è stato finora, supponiamo, complessivamente di 1000, ripartito in 500e e 500v.; ed impieganti 100 lavoratori: il sopravalore di 500, ossia il saggio di esso al 100%; e quindi il saggio del profitto del 500/1000 = 50%. Per effetto del progresso tecnico e della creazione delle nuove macchine, i 100 lavoratori, che son mantenuti dal capitale variabile di 500, restano sempre impiegati nella produzione; ma, perché ciò sia possibile, dovranno mettere in movimento un capitale costante più grande, che supporremo di 200 maggiore dell’antico. Onde si avrà ora, per effetto del progresso tecnico, un capitale complessivo di 1200 = 700 c. + 500 v.; e, restando immutato il saggio del sopravalore del 100%, il saggio del profitto sarà di 500/1200 = circa il 41%, ossia sarà disceso dal 50% al 41%. Dunque, decadenza necessaria del saggio di profitto sotto l’ipotesi del progresso tecnico. Ma questa ipotesi è il fatto reale, di tutti i giorni, della società capitalistica moderna. Dunque, decadenza effettiva del saggio medio di profitto nella società capitalistica moderna. Ma questa legge è più o meno avversata da altri fatti, più o meno transitoriamente controperanti. Dunque, caduta tendenziale95.

95. MSEM, pp. 152-153.

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Entro la ricostruzione crociana dell’analisi di Marx costanza ed aumento del saggio di profitto vengono indicati come entgegenwirkende Kräfte rispetto al verificarsi della caduta. Se, tuttavia, tali fattori appaiono contemplati da Marx – in relazione ad aspetti quali l’aumento dello sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del valore, la contrazione del prezzo delle componenti del capitale costante, l’aumento del capitale azionario, etc. – in quanto concorrenti alla complessa dinamica in cui s’inscrive la tendenza alla caduta del saggio di profitto96, Croce ne fissa l’incidenza in corrispondenza alla attinente formulazione di congetture teoriche di mero contrasto. In definitiva, sono le premesse di tale ricostruzione ad apparire forvianti a confronto della reale impostazione marxiana, nonché a risultar restituite secondo una determinata ricezione di alcune “componenti” dell’impalcatura categoriale dell’“economia pura” e delle sue conseguenze. Secondo Croce si debbono tener distinti due aspetti che Marx, altresì, tenderebbe ad unificare direttamente, cioè il progresso tecnico “in sé” e l’aumento di produzione che ne deriva. Se ci si limita a considerare il primo aspetto, questo non dovrebbe scaturire né la costanza né l’aumento della grandezza del capitale complessivo impiegato, bensì la sua restrizione in virtù del conseguimento dello stesso volume di produzione ad una minore spesa. Progresso tecnico e risparmio della spesa sociale vengono, così, a coincidere. Il ruolo ed il contributo del progresso tecnico si trovano inquadrati in relazione al conseguente nesso fra contrazione del capitale impiegato e mantenimento di una solita quantità di beni. Ecco come Croce esemplifica la situazione: Per restare nell’esempio adotto di sopra, ponendo che l’avvenuto progresso tecnico abbia fatto diminuire 1/10 del com96. Il tema è trattato da Marx, in particolare, al capitolo XIV della III sezione del III volume de Il Capitale.

72 plessivo lavoro sociale richiesto, avremo, in luogo dell’anticipo di capitale di 1000, un capitale di 900, composto non più di 500 c. + 500 v., ma di 450 c. + 450 v.. La diminuzione deve effettuare ugualmente tutte le parti del capitale, giacché tutto è, in ultima analisi, prodotto di lavoro. Dei 100 antichi lavoratori, 1/10, ossia 10 di essi, resteranno disoccupati: una frazione dell’antico capitale resterà disoccupata: la quantità (od utilità) dei beni che si produrranno resterà la medesima.

La dinamica concettuale presiedente ad un simile passaggio appare evincibile dalle considerazioni che Croce vi collega in nota: «Supponiamo qui già percorsa» – egli osserva ancora – «una serie di periodi produttivi che basti a rimuovere l’intiero capitale complessivo coi nuovi procedimenti tecnici. È chiaro, per altro, che, rinnovandosi il capitale in porzioni successive, in un primo stadio fungono come capitale beni il cui costo di produzione non risponde più al primitivo costo di produzione, ossia il cui valore sociale attuale non risponde più all’antico. Ma considerare i singoli stadi sarebbe qui inutile complicazione»97. Si tratta di un passo rivelante. Infatti – come è stato giustamente osservato da un interprete dall’impostazione certo ben distante da quella che sorregge la lettura che qui ci permettiamo di proporre98 – è proprio la scelta di “saltare” l’articolazione dei «singoli stadi» ad ingenerare l’equivocazione dell’impianto della posizione di Marx. Nel quadro configurato dal pensatore di Pescasseroli occorre isolare, cioè, il progresso tecnico. Così, prescindendo da ogni altro aspetto condizionante, i suoi effetti dovrebbero comportare che capitale costante e capitale variabile necessitino inscindibilmente, e nella medesima proposizione, alla produzione di una quantità di beni determinata, lasciando inalterato il saggio di profitto. Un siffatto conseguimento, posto in alternativa alla tesi della 97. MSEM, p. 153 98. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., p. 398.

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caduta tendenziale del saggio di profitto, attribuisce, dunque, al progresso tecnico il mantenimento dell’originario livello di produzione sociale, combinato con la espulsione di una quota di forza-lavoro (stando all’esempio adottato da Croce, il 10%, ovvero 10 lavoratori). Il principale precipitato della assunzione di un simile stato di cose appare, a rigore, la estinzione del riferimento giustificante alla esistenza economica del capitale e della relativa utilità. Com’è chiaro, si tratta di una conclusione molto diversa da quella alla quale perviene il filosofo di Treviri. Egli persegue la qualificazione organica del saggio di profitto, commisurandola non già ad una mera situazione, postulata ex hypothesis, ove il fattore del progresso tecnologico si trovi isolato rispetto ai diversi «stadi» che l’hanno ingenerato, scandendone il processo di rinnovamento del capitale complessivo, bensì rispetto ai termini della transizione dalla espulsione della forza-lavoro alla nuova occupazione dei lavoratori rimasti disoccupati in base all’accrescimento del capitale costante “primitivo”99. Continuiamo a seguire il discorso di Croce: «Il nerbo della dimostrazione del Marx è nella proposizione: che i lavoratori, che dovrebbero restare disoccupati, trovino invece impiego, ma con un capitale cresciuto di un tanto […] sul primitivo. È esatta questa proposizione? In qual modo il Marx la giustifica? A questa proposizione fondamentale si riferisce la mia obiezione, altrettanto fondamentale; la quale, se ammessa, viene a negare nel modo più radicale la verità della legge marxista»100. E poi: «Il progresso tecnico non ha fatto diminuire l’utilità naturale della produzione (anzi, nella nostra ipotesi, non l’ha neanche fatta crescere, e l’ha lasciata immutata); ma ne ha diminuito solo il valore». La «naturale utilità» di strumenti e 99. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di Ivi, pp. 396-399. 100. MSEM, p. 156.

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materie destinate ad alimentare e reintegrare la produzione resterà invariata. Se il «valore economico di tutti questi prodotti è diminuito, perché in essi […] è conglutinata una minore quantità di lavoro», il grado di potenzialità relativa alla soddisfazione dei bisogni rimarrà invariato grazie al progresso tecnico. In un quadro di permanente condizione materiale degli operai e dei capitalisti «la produzione offrirà, come prima, mezzi d’impiego e di sussistenza» per la quota di lavoratori che è stata espulsa dall’occupazione, con l’esito di un accrescimento della produzione e della sua qualità. Tuttavia, in una simile situazione, verificandosi il fatto che «economicamente il valore di quel capitale è diminuito», ne consegue che «un capitale economicamente minore» si troverà ad assorbire «le stesse forze di lavoro di prima», coincidenti con una eguale, corrisposta massa di profitto. S’ingenerano proprio di qui le ragioni particolari della convinta avversione da parte di Croce verso la tesi marxiana della caduta del saggio di profitto. La compresenza di un eguale massa di profitto con un minore capitale complessivo scaturisce – egli dice – un accrescimento del saggio di profitto stesso. Il ragionamento viene da lui riassunto riprendendo l’esempio che già abbiamo considerato: Tornando al semplicissimo esempio nostro, i 10 lavoratori troveranno impiego con un capitale, che, come utilità, è restato lo stesso, ma economicamente è disceso a 900. Il che significa, che il saggio di profitto è cresciuto da 500/1000 a 500/900 ossia dal 50% a circa il 55%. Quanto al saggio del sopravalore, esso, essendosi ridotto l’intiero valore del capitale complessivo, dovrà calcolarsi non più, come prima del progresso tecnico, in 500/500, né come primo stadio da noi considerato (in cui il progresso tecnico abbia resa assolutamente superflua

75 una parte del lavoro) in 450/450, ma in 500/450, ossia non sarà più il 100% ma sarà salito al 111% circa101.

Croce configura il presente argomento quale sostanzialmente eluso dalla elaborazione de Il Capitale, se non in riferimento al controoperare del fattore della sovrappopolazione, tale per cui certe «forze di lavoro» vengono ad essere reimpiegate «con capitale costante minimo»102. Non è chi non veda come l’argomento in esame mostri ingenti limiti ed asimmetrie. Per riassumere: la permanente disoccupazione di una determinata quota di lavoratori e l’esito corrisposto riguardo ad un segmento dell’originario capitale complessivo – definito dai mezzi di sussistenza e di produzione –, quando si verifichi la rioccupazione di tale quota, in una condizione di mancata sovraggiunta di ulteriori frazioni di capitale disoccupato entro il nuovo ciclo produttivo, consente l’aumento della quantità di produzione. Ne scaturirà l’aggiunta di una maggiore porzione del capitale disoccupato entro il secondo ciclo produttivo. Il fatto che non possa darsi, in un simile quadro, piena saturazione dell’insieme ottenuto dei mezzi di produzione e di sussistenza da parte della classe capitalistica implica il verificarsi di un risparmio almeno parziale, dando luogo all’accumulazione crescente. La somma di beni risparmiata verrà immessa, dunque, nel circuito mercantile, al lume dell’esigenza di darvi impiego in quanto capitali. Ne segue un proporzionale aumento del saggio del salario ed una diminuzione del saggio di profitto. Si ha, con ciò, un ampliamento dei margini per il risparmio. Ma un siffatto fenomeno, che attiene alle dinamiche riconducibili alla legalità della domanda e dell’offerta, non trova posto – sostiene Croce – nell’ottica mar-

101. Il riferimento va al IV paragrafo del capitolo XIV della III sezione del III volume de Il Capitale. 102. Ivi, p. 158.

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xiana. Il progresso tecnico, secondo la costruzione crociana, moltiplica la ricchezza capitalistica, garantendo all’insieme dei capitalisti il mantenimento del precedente livello di servizi, a fronte dell’anticipo di beni «che valgono sempre meno». Ne dovrebbe seguire che l’alterazione del rapporto fra valore del capitale e valore dei servizi in favore di quest’ultimo comporti un accrescimento e non una caduta del saggio di profitto103. Siamo, così, pervenuti a mostrare l’approdo del discorso crociano, dalla cui sostanza abbiamo mosso proprio per ricostruirne l’intiera articolazione genetico-categoriale. Esso si svolge, in definitiva, assumendo la proporzionalità della modificazione di capitale costante e variabile rispetto al capitale complessivo, del resto già evidenziata da Marx – con tutto quello che ciò comporta rispetto alla questione della composizione organica del capitale («il saggio del profitto», scrive Marx, «rimane immutato solo se e = E, cioè se la funzione V/C conserva, pure in caso di apparente variazione, lo stesso valore, ovverosia se numeratore e denominatore vengono moltiplicati o divisi per lo stesso»104). Tuttavia, il discorso conclude ad avanzare un’ipotesi complessiva a capitale decrescente105. Dunque, in senso generale, secondo Croce il progresso tecnico innesca non l’aumento dell’impiego di capitale ma la sua riduzione. Ne derivano due principali conseguenze, cioè la crescita di produttività del lavoro, scaturente la diminuzione media di costi e prezzi di produzione – beni strumentali e beni salario –, e la diminuzione della forza-lavoro impegnata. Riconducendo l’in-

103. Cfr. A. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., pp. 399-401. 104. K. Marx, Il Capitale – Critica dell’economia politica, III, Roma, 1977, p. 90. 105. Cfr. in merito, fra gli altri, L. Taranto, La critica di Croce alla legge marxiana sulla caduta del saggio di profitto, in Il marxismo e la cultura meridionale, a cura di P. Di Giovanni, Palumbo, Palermo, 1984, pp. 257-258.

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sieme dei fattori alla dimensione del «prodotto del lavoro»106, i due aspetti risultano intimamente vincolati. Croce procede designando un modello ove la quota di risparmio di capitale corrisposta ai beni strumentali e quella corrisposta all’acquisto di forza-lavoro risulti proporzionale, ed ove, quindi, la composizione organica resti invariata rispetto alla crescita dello stock di innovazione tecnica. Egli riconduce direttamente a Marx la premessa consistente nella inalterazione del saggio di plusvalore, e, di qui, all’interno di una simile cornice, indica l’esito della diminuzione della massa – non già del saggio – del plusvalore e, parimenti, dei profitti. L’ipotesi condurrebbe, a rigore, all’estinzione di ogni capitale e della utilità del lavoro. Croce osserva, infatti, come il criterio della diminuzione della massa «dei sopravalori e dei profitti» abbia, appunto, «per ipotesi che quel 1/10 di lavoratori, rimasto disoccupato, sia diventato assolutamente superfluo: quei 10 lavoratori saranno ormai pezzenti oziosi mantenuti dalla carità altrui, o periranno di stenti, o emigreranno in un nuovo mondo. Di essi, sarà quel che sarà. La produzione sociale resterà al livello di prima, in grazia del progresso tecnico, pur facendo a meno del loro concorso. Questa l’ipotesi. Ma, data questa ipotesi, qual è l’importanza della legge? Per vederci chiaro» – egli prosegue – «basterà spingere ancora, com’è nostro diritto, l’ipotesi, e supporre che,continuando il progresso tecnico, diventi via via superfluo l’impiego non solo di 1/10 ma di 1/4, di 1/3, di 1/2, di lavoratori, ossia che l’impiego di lavoratori tenda a diventare = 0. In questo caso,» – conclude – «la società capitalistica sarebbe, come tale, bella e finita, perché sarebbe finita l’utilità del lavoro, sopra la quale essa si fonda. Dove non c’è nulla, il re perde i suoi diritti; e dove il lavoro non ha utilità, il capitale perde i suoi […] In altri termini, la legge qui si risolve in una vuota generalità». D’altra parte, il giovane studioso soggiun106. MSEM, p. 153.

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ge subito l’annotazione per cui «il Marx non si trastullava in codeste generalità vuote […], e voleva proprio determinare la legge organica delle variazioni del saggio di profitto»107. In virtù di questo insieme di esiti analitici viene tenuta ferma l’esigenza della reintroduzione della forza-lavoro espulsa dal processo produttivo. Affermato un simile aspetto, Croce si confronta con la considerazione per cui la indicata corrispondenza fra il reimpiego della medesima forza-lavoro espulsa e l’aggiunta di investimento circa i mezzi di produzione non può che comportare l’abbinamento della stessa, primaria quantità di forza-lavoro ad un maggiore capitale costante, scaturendo l’aumento della composizione organica. La critica crociana in proposito fa nodo attorno alla attribuita elusione del rapporto fra la diminuzione del valore delle merci in cui si converte il capitale e l’intreccio di crescita della produttività e compressione dei prezzi, senza, d’altra parte, assumere la diminuzione della utilità naturale del capitale. Egli designa, così, un quadro ove con un più ristretto valore del medesimo capitale l’impiego dei precedenti lavoratori trovi nuovo riscontro in virtù di una aggiunta di mezzi e materie. Come è stato opportunamente dimostrato, Croce costruisce l’intiero ragionamento su una deliberata equivocazione della posizione di Marx108. Alla radice di essa vi è il problema, già affrontato nel I volume de Il Capitale, del reimpiego della forza lavoro espulsa in virtù dell’innovazione tecnica. Secondo alcuni punti di vista – da Senior a J. S. Mill – questo può trovare piena risoluzione in ragione della nuova occupazione dell’insieme dei lavoratori espulsi grazie al ricorso al capitale offerto dalla loro estromissione dal processo produttivo. Di fronte

107. Ivi, p. 155. 108. M. Visentin, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’“utile”, cit., pp. 60-61.

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ad un simile argomento Marx fa notare che l’assorbimento da parte dell’innovazione tecnica – commisurata al capitale fisso – di un settore di lavoro vivo concorrente al processo produttivo comporta la modificazione della composizione organica per unità di prodotto. Ne deriva che, entro l’inedita cornice di modernizzazione tecnologica, il reimpiego della forza-lavoro espulsa deve implicare un investimento incrementale, di maggior portata, in capitale fisso, lasciando aver luogo il medesimo incremento – anche sul piano del valore – della produzione meccanico-tecnologica rispetto al lavoro vivo. Se nell’ottica di Marx l’innovazione di capitale dovrebbe comportarne un maggior impiego netto, in quella di Croce essa, venendo posta in diretto rapporto alla produttività del lavoro, dovrebbe ingenerare un abbassamento generalizzato dei costi e, di conseguenza, dei prezzi. È stato, inoltre, opportunamente notato109 che, in una cornice comprensiva tanto del capitale investito in beni strumentali quanto in forza-lavoro, l’incremento generalizzato di produttività, comprimendo proprio la domanda di forzalavoro ed innescandone, prima facie, l’espulsione rispetto allo stock precedente, ossia comprimendo un determinato settore merceologico, dovrebbe determinare una duplice diminuzione dei salari. Sia per quanto riguarda i prezzi dei medesimi beni-salario, sia per quanto riguarda la domanda di quella specifica merce rappresentata dalla forza-lavoro. Ne deriverebbe, ad ogni maniera, una modificazione della composizione organica tale da flettere la relazione fra capitale costante e capitale variabile in favore del primo. Stando all’ipotesi avanzata da Croce, il contesto di diretta diminuzione dei prezzi ingenerato dall’innovazione tecnica dovrebbe consentire, comunque, il reimpiego della forza-lavoro immediatamente espulsa in virtù della avvenuta modernizza-

109. Ivi, p. 63.

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zione. Contesto restituito in ordine al complesso della produzione e, dunque, allo stesso incremento della produzione sociale. Ora, se ciò avverrà passando inevitabilmente per l’aumento del capitale costante, si avrà una nuova situazione in cui al recupero della domanda di forza-lavoro corrisponderà anche un recupero sul versante del prezzo, in compresenza alla crescita proporzionale del valore del capitale costante. Ne deriverà, dunque, a rigore, l’esito del persistente incremento della nuova composizione organica del capitale rispetto alla precedente110. Tutto ciò è reso possibile dalla presupposta idealizzazione del mercato in quanto “concetto puro”, astorico, nonchè dalla esclusione della veduta prospettica dell’accrescimento, correlato all’aumento della produzione commisurata all’intensificazione ed al raffinamento tecnico del capitale fisso, del consumo produttivo, traducibile in uno scambio tra produttori di beni di produzione che non comporta realizzo di plusvalore. Tale criterio anticipa l’immissione del ruolo del mercato estero nell’analisi, senza farlo precedere da una debita, necessaria ricognizione morfologica111. Dobbiamo aggiungere, inoltre, che, nel complesso, la ricostruzione operata da Croce sembra ignorare o travisare la considerazione, all’interno dell’impianto de Il Capitale, del plusvalore relativo e del saggio di profitto in quanto attinenti alla produzione ed alla circolazione quali momenti distinti della accumulazione capitalistica. Giacché, se non viene comperata, la merce-lavoro risulta incapace di produrre valore, protaendolo, e i due momenti esigono di esser corrisposti a due aspetti interni al conflitto ed alla dialettica capitalistica, cioè l’estrazione del plusvalore e la sua realizzazione. La visualizzazione 110. Per le osservazioni volte siamo ancora debitori nei riguardi di Ivi, pp. 62-63. 111. Cfr. N. Badaloni, Croce: genesi e sviluppo della “filosofia dello spirito”, in Id., C. Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Laterza, Bari, 1977, pp. 62-63.

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dei loro rapporti contraddittori dipende dalla continua rimodulazione dinamica della società divisa in classi, ovvero dalla coincidenza con i rapporti di forza che si instaurano. Come ben assodabile guardando al complesso della interlocuzione critica stabilitasi con Labriola a proposito del valore-lavoro, l’elusione e/o il travisamento che Croce compie delle categorie di “lavoro astratto” e “plusvalore relativo” dipendono dai limiti dell’ambiguo dispositivo ermeneutico adottato nella sua opera di revisione del marxismo. La misura di ammissione e, al contempo, di occultamento del ruolo del valore-lavoro – a muovere dalla sua considerazione in qualità di «fatto tra altri fatti» –, da cui dipende la forviante riconversione concettuale del suo carattere “tipico”, spiega tale condizionalità analiticoconcettuale. Gli è, infatti, che l’attuata operazione di circoscrivimento della funzione di “posto che” del valore-lavoro, pur concedendo la presenza incidente del suo contenuto storicopolitico, non consente, tuttavia (e com’è chiaro), di evidenziare la trama delle determinazioni formali che si raccolgono, a livello conoscitivo, nella ulteriore teoria del plusvalore, concorrente in modo insostituibile alla giustificazione della genesi del modo di produzione capitalistico, nonché le mediazioni che intrecciano, secondo un precipuo movimento di “congiunzione disgiuntiva”, produzione e circolazione, definendone la forma di riproduzione. D’altra parte, abbiamo già evidenziato proprio la diversità del trattamento circa la primaria caratterizzazione del valore-lavoro e la formazione del plusvalore. Nel complesso, finisce per essere massimamente indebolito, rispetto a Marx, lo specifico ambito dell’episteme in cui il valore-lavoro esige, in certo modo, di essere inscritto, sì da qualificare, passandovi attraverso, l’ossatura logico-storica della società capitalistica. L’assenza di una idonea configurazione della dimensione epistemica vincolata al “logico-storico” vanifica ogni possibilità circa la piena comprensione dello sviluppo storico stesso, della formazione capitalistica intesa come “tota-

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lità”. Del resto, proprio la rinunzia de facto alla comprensione di essa, e l’estrema compressione ad una dimensione di mera parzialità dell’armamentario marxiano, in ragione della tendenziale dissociazione fra aspetto politico e critico-cognitivo, definisce uno dei caratteri fondamentali del revisionismo crociano. A cominciare dalla riduzione del materialismo storico a canone empirio-storiografico112. L’esito che ne deriva risulta quasi paradossale, poiché registra, a certe condizioni, alcune implicazioni epistemiche di un dato impianto categoriale (si pensi alla medesima nozione di plusvalore), deprivandole, tuttavia, dalla loro compiuta portata di incidenza. Con giusta ragione Mauro Visentin113 ha osservato che resta valido il sostanziale discrimine stabilito, al principio del dopoguerra, da Giulio Pietranera, fra l’impostazione di Marx e quella del revisionismo crociano a proposito della questione del saggio di profitto, per come si trova affrontata soprattutto nel III volume de Il Capitale. Egli, infatti, aveva insistito sul carattere dinamico della prima, di contro al carattere statico

112. Per le osservazioni svolte siamo ancora debitori nei riguardi di G. Vacca, Il Marx di Croce e quello di Gentile (1895-1900), in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2016, p. 63. 113. Ivi, p. 65. Il riferimento va alle tesi espresse dall’economista marxista G. Pietranera (di formazione crociana ma poi orientatosi verso il dellavolpismo; annoverabile fra gli autori “di primo piano” della importante rivista “Società”) in La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la critica revisionista, in Capitalismo e economia, Torino, 1972, pp. 160-176. Sulla posizione di Pietranera cfr., fra gli altri, G. Di Domenico, Saggio su “Società”, Liguori, Napoli, 1979, pp. 144-146; M. Ciliberto, Filosofia e storiografia nella genesi di “Società”, in Id., Filosofia e politica nel Novecento italiano – Da Labriola a “Società”, De Donato, Bari, 1982, pp. 335-336; M. Alcaro, Il marxismo e la scuola di Messina, in Il marxismo e la cultura meridionale, cit., pp. 50-51, e ancora, il volume, di cui non condividamo le tesi, di N. Bellanca, Economia politica e marxismo in Italia – Problemi teorici e modi storiografici 1880-1960, Unicopli, Milano, 1997, pp. 157-193.

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della seconda. L’una esige l’estendersi graduale dell’innovazione tecnica ai diversi settori della produzione sociale, mentre l’altra appare comprensiva, entro il proprio raggio di applicabilità, dello stadio conclusivo nell’incremento tecnico di essa. Ciò, però, in virtù di un raccorciato procedimento concettuale, poiché elusivo delle modificazioni ottenibili nell’alveo di uno svolgimento processuale temporalmente determinato. Si ripropone, dunque, l’ombra di un certo atteggiamento postulativo-regolativo presente nel giovane Croce, speculare all’isolamento dei fattori empirici interessati. Il pensatore di Pescasseroli configura, cioè, in qualità di premessa quel che non può che darsi ed essere verificato in quanto risultato, ovvero la simultanea penetrazione della modernizzazione tecnica vuoi entro il segmento dei beni strumentali, vuoi entro il segmento dei beni-salario. Di qui è possibile stringere l’ancor più profondo crinale divisorio tra i due punti di vista. Giacché, mentre Marx considera, sì, la totalità della formazione capitalistica, ma lo fa indagandone le peculiari, articolate ricadute sui singoli segmenti merceologico-imprenditoriali, Croce muove a priori dall’inerte riferimento all’insieme indifferenziato della imprese114. Inoltre, e in particolare, Marx, anche attravervo alcuni passaggi algebrici, focalizza la possibilità di diminuzione del saggio di profitto in un quadro di aumento della composizione organica del capitale e di costanza del saggio di plusvalore con il capitale variabile e con i suoi movimenti. Dunque, la composizione organica tende a diminuire a fronte dell’aumento del capitale variabile rispetto a quello costante. Naturalmente, le conseguenze di questa tendenza (coincidenza dell’aumento della composizione organica con la spesa per il capitale fisso medesimo) vengono contrastate dalle facoltà dell’innovazione in capitale fisso di accrescere il 114. Cfr. M. Visentin, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’“utile”, cit., pp. 64-65.

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plusvalore anche in un scenario a capitale variabile costante o decrescente115. Questa diversità di atteggiamento motiva nel modo più eloquente la distanza di Croce da Marx ed il cospicuo elemento di fraintendimento di alcuni importanti risvolti della Kritik. Il giovane studioso dichiara da subito, in apertura dello scritto, che la tesi della caduta del saggio di profitto esige di essere trattata in quanto correlabile ai «risultati di considerazioni comparative tra varie forme possibili di società economiche». Seguendo tale linea di ragionamento, egli ritiene di mettersi al riparo dal più marchiano degli errori dei «volgari marxisti», i quali traducono direttamente i dispositivi della Kritik «in leggi realmente operanti nel mondo economico». Da un lato – dice – confidano nella loro efficacia assumendo la sostanziale coincidenza fra il grado di generalità di tale strumentazione – attesa quale capace davvero di “spiegare” l’insieme dei fenomeni economico-sociali – e la sua efficacia analitico-reale. Da un altro, connessamente, eludono la necessità di chiarire un insieme di fattori genetici congruenti al requisito di comprensività richiesto nell’indagine dei fenomeni di genere economico. Dunque, Croce conferma implicitamente l’adesione all’“economia pura” e, apertis verbis, alla opportunità di leggere in chiave modellistico-comparativa un ulteriore, rilevante tema della argomentazione de Il Capitale come quello in questione (cosa, del resto, assolutamente coerente rispetto all’insieme del ragionamento esaminato). Ciò si rivela agilmente ricavabile dalle considerazioni condotte qui su. Tuttavia, siffatta, attribuita continuità sul piano del criterio epistemologico impiegato – la quale appare plasmata essa stessa in riferimento agli assi della Kritik, a muovere dal valore-lavoro –, viene affermata da Croce, nel caso, precisando

115. Cfr. ivi, pp. 57-58.

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che, allorquando si accettasse di adottare, appunto, l’accezione dei marxisti “volgari”, si giungerebbe «presso a poco» alle «stesse»116 conclusioni. Chiudendo la propria disamina egli si interroga sulle ragioni germinali della loro fallacia, che considera dimostrata. Innanzitutto, richiama l’ipotesi per cui «il terzo libro del Capitale è un’opera postuma di cui alcune parti sono appena abbozzate». L’«errore» appare, però, prevalentemente attribuito al segno assunto dall’impianto comparativo, considerato, entro il versante del discorso in esame, quale presente in tutta la struttura sistematica dell’opera. Il carattere della sua permanenza è visto, infatti, in quanto in grado di comportare una sorta di fatale incongruenza cognitiva. Dice Croce: forse dello strano errore si potrebbe trovare […] qualche ragione interna, nell’avere il Marx sempre abusato del metodo comparativo, al quale ricorreva senza rendersi pienamente conto del proprio procedere. E si potrebbe dire che, come già nelle sue precedenti indagini aveva perpetuamente trasportato il valore-lavoro di una ipotetica società alla società reale capitalistica, così nella nuova questione è stato tratto a valutare il capitale tecnico di una società più progredita alla stregua del valore di quello di una società meno progredita. Qui, nell’assurdo tentativo, il metodo gli si è spezzato tra le mani117.

Osserviamo: la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto giunge ad essere accomunata, stando al meccanismo concettuale che la motiva, al generale impiego del valore-lavoro nel “paragone ellittico”, – impiego reso “ulteriore” alla sua “legittimazione” in quanto «fatto che vive tra altri fatti», ed attuato, vieppiù, sotto alcuni aspetti, quasi “per parti invertite”. Il

116. MSEM, p. 152. 117. Ivi, p. 160.

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ricorso al criterio comparativo risulta, però, focalizzato, adesso, quale manifestamente esposto all’accusa di commistione tra «deduzione teorica e descrizione storica, di nessi logici e di nessi di fatto» che abbiamo richiamato al principio del nostro dire. Croce non sembra cogliere come quella che a lui appare l’espressione di una indebita combinazione di aspetti reciprocamente ripugnanti – cui è attribuito l’esito di inficiare il contenuto analitico effettivo, adottabile tout court nei riguardi delll’insieme merceologico-imprenditoriale – configuri, invece, la cifra portante ed unitaria della costruzione de Il Capitale, cioè l’incontro indissolubile tra indagine teorica-storica complessiva e critica dell’economia politica. Ne è di riprova giusto lo specimen del modo in cui Croce conduce l’attacco alla tesi della caduta del saggio di profitto, dato che il suo svolgimento presuppone in senso univoco un eguale grado di immissione dell’innovazione tecnica sia nel campo dei beni strumentali che in quello dei beni salario. L’argomento crociano, in altre parole, muove da una premessa a priori elidentesi con la possibilità di impostare un efficace dispositivo critico-predittivo circa la tendenziale morfologia dello sviluppo capitalistico. Non si tratta, cioè, nel caso, di ricavare alcuni conseguimenti a partire da un “posto che” fissato esclusivamente allo scopo di indicare le modalità operative dello sviluppo economico in un ambito che è solo “relativamente” invariato, poiché storicamente determinato (così com’è, realiter, nella cornice degli strumenti categoriali marxiani, a cominciare dallo stesso valore-lavoro118). Piuttosto, si realizza qui un tipo di generalizzazione – per cui, in virtù della modernizzazione tecnica, un minor capitale non può che assorbire la precedente quota di forza-lavoro, scaturendo la stessa massa di profitto (con la

118. Su questo tema restano assai importanti le osservazioni di Gramsci al § 216 del Q. 8 e al § 52 del Q. 11. Cfr. G. Vacca, Quello che resta di Marx. Rileggendo il “Manifesto dei comunisti”, Salerno Editori, Roma, 2016, p. 56.

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conseguenza, dunque, di una prevista crescita del saggio di profitto) – “ad alto grado di comprensività”, potremmo dire, ossia tale da implicare la presupposizione e la prefigurazione di un certo stadio finale della produzione sociale. Ne sortisce un netto, asimmetrico impoverimento del carattere squisitamente storico dell’indagine. Carattere in effetti raccordabile a quell’aspetto di previsione esclusivamente tendenziale che Croce sembra riconoscere a Marx quando restituisce la tesi in questione quale bisognosa di essere rapportata ad «altri fatti» («più o meno tendenzialmente controperanti», appunto), strappandola, in parte, alla definizione di un genere di legalità analoga a quella deterministico-naturale, nonché alle condizioni concettuali della medesima, originaria individuazione del valore-lavoro. Solo l’esame della differenziata introduzione di nuovi metodi produttivi in distinti ambiti ed in riferimento ai singoli segmenti imprenditoriali e/o merceologici può consentire, del resto, di correlare la tesi della caduta del saggio di profitto alle misure reali di costituzione del mercato. Siamo di fronte ad un particolare paradosso coglibile in guisa di filo rosso percorrente tutta la revisione da parte del giovane Croce del criticismo marxiano. Gli è, infatti, che un autore che spicca nel contesto italiano ed europeo – pure a fronte della sua davvero originale vicinanza alle tesi marginaliste – per aver avvertito la densità e l’incidenza della crescita della domanda di beni di consumo quale il pensatore di Pescasseroli “manca”, però, il compito consistente nel collegarla adeguatamente non solo al nodo dell’aumento dei profitti, ma anche alla conquista di una veduta puntuale circa la riorganizzazione dei sistemi produttivi-riproduttivi119. Battere efficacemente questa strada 119. Restano valide in proposito le argomentazioni di Gramsci al § 36, II, Q. 10. Cfr. in merito, fra gli altri, le osservazioni di M. Montanari nell’Introduzione all’antologia dei Quaderni da lui curata Pensare la democrazia, Einaudi, Torino, 1997, pp. XVIII-XIX. Va sottolineata, proprio riguardo alla

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avrebbe consentito un esame più pregnante della formazione di apparati rivolti alla regolazione della circolazione delle merci, dell’ampliamento e dello strutturarsi del mercato, nonché, nel complesso, giusto alla dilatazione del circuito della riproduzione sociale. L’escursione tra i due punti di vista appena messi in luce ci obbliga ad indagare meglio le diverse impalcature epistemologiche che li supportano. Considerare i termini della opposizione crociana alla costruzione della Kritik ci permetterà di segnare alcune discriminanti strategiche in merito, partendo, ancora una volta, dai precipitati dello schema di confronto realtà-modello.

4. Ermeneutica politica e critica a Marx – Le basamenta epistemologiche del revisionismo crociano. Abbiamo potuto constatare come la logica della comparazione modellistica presieda non soltanto alla ricostruzione che Croce avanza dell’incidenza “di largo raggio” del valore-lavoro (la quale, realiter, non si arresta ai riconosciuti confini di «un fatto che vive fra altri fatti») e della formazione del plusvalore, ma anche, connessamente, alla tesi della caduta del saggio di profitto. Occorre andare ai fondamenti del ragionamento, di cui abbiamo potuto constatare la flessibile declinabilità ed adattabilità (sino alla metamorfosi nel confronto san phrase tra due lettura che Gramsci fornisce della tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto in ordine al “sistema-Ford”, la permanente connessione che egli istituisce tra critica del revisionismo crociano ed indagine dell’americanismo, tra i temi e le considerazioni del Q. 10 e del Q. 22, ivi compresa la questione della traducibilità fra teoria dei costi comparati e teoria marxista. Cfr. R. Gualtieri, Le relazioni internazionali, Marx e la “filosofia della prassi” in Gramsci, “Studi storici”, n. 4, 2007, pp. 1038-1039.

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modelli). Fondamenti che, d’altra parte, già abbiamo approssimato. L’attenzione deve essere nuovamente portata sulla percezione crociana del procedimento di astrazione adottato da Marx. In Per la interpretazione ecco come Croce restituisce il carattere della ricerca e dell’oggetto de Il Capitale: Come forma – egli scrive – non c’è dubbio che il Capitale è una ricerca astratta: la società capitalistica, che il Marx studia, non è la tale o tale altra società, storicamente esistente, della Francia o della Inghilterra, e neanche la società moderna delle nazioni più civili, dell’Europa occidentale e dell’America. È una società ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi presentate nel corso della storia. È vero che queste ipotesi rispondono in buona parte alle condizioni storiche del mondo civile moderno; ma ciò, se costituisce l’importanza e l’interesse della ricerca del Marx, perché ci aiuta a comprendere, nel loro funzionamento, i fatti che ci toccano da vicino, non ne muta l’indole. In nessuna parte del mondo s’incontreranno le categorie del Marx come personaggi vivi e corpulenti; appunto perché sono categorie astratte che, per vivere, hanno bisogno di perdere molti elementi e di acquistarne molti altri.120

Se ne deriva chiaramente – in piena congruenza con le coordinate epistemologiche che abbiamo designato precedentemente – che all’oggetto in questione viene ad essere attribuito uno statuto anfibio, poiché ottenuto, sì, per via di astrazione, ma senza renderlo riconducibile all’astrazione “pura” della scienza economica, né, d’altra parte, all’indagine “storica” delle individualità concrete. Altresì, esso, in quanto corrisposto alla “tipica” società capitalistica, sulla base, però, di riferimenti ricavati ellitticamente, appare intendibile anche quale parzial-

120. MSEM, p. 68.

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mente convergente rispetto, poniamo, alla nozione weberiana di “idealtipo”121. L’idealtipo, secondo Weber, definisce – come scriverà, nel 1904, entro il celebre “manifesto” dell’Archiv, Die “Objektivität” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntinis – «un quadro concettuale, il quale non è la realtà storica, e neppure la realtà “autentica”, e tanto meno può servire come uno schema al quale la realtà debba essere subordinata come esemplare; piuttosto esso ha il significato di un concettolimite puramente ideale, a cui la realtà deve essere commisurata e comparata, al fine di illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico»122. A quella che sarà l’accezione weberiana dell’Idealtypus è implicita una critica notevolmente sofisticata di ogni ipoteca naturalistica in merito alla formazione dei concetti. Il carattere non già riflessivo ma costruttivo-artificiale delle categorie segna un punto irrinunziabile della Wissenshaftslhere weberiana. Il concetto tipico-ideale non si volge alla riproduzione-riflessione, bensì all’orientamento dovuto alla nozione di Zurechnung e di “giu121. Sul modello epistemologico-cognitivo weberiano, cfr. fra gli altri, R. Racinaro, Trasformazioni della razionalità e trasformazioni della forma – Stato negli anni ’20, in Id., P. Rossi, R. Bodei, P. Schiera, G. Duso, Weber – Razionalità e politica, Arsenale, Venezia, pp. 59-76; B. Giacobini, Razionalizzazione e credenza nel pensiero di Weber, Pegaso, 1985; F. Papa, Razionalità distruttrice – Saggi sul pensiero politico del Novecento, Guida, Napoli, 1990, pp. 67-69; G. Zarone, Filosofia e dominio tecnico – Ricerche sul tempo e la crisi in Kant, Marx e Weber, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1983, pp. 138-152; N. Auciello, La ragione politica – Saggio sull’intelletto europeo, De Donato, Bari, 1981, pp. 62-91; F. Tessitore, Weber e lo “Historismus”, in Id., Trittico anti-hegeliano. Da Dilthey a Weber. Contributo alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2016, pp. 83-138. 122. M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958, p. 63.

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dizio di imputazione”. Ritorna nella impostazione weberiana uno dei rovelli del dibattito interno al neokantismo, cioè quello riguardante la saldatura fra generalità ed astrattezza del concetto e riproduzione dell’individuale123. Secondo Weber «scopo della elaborazione dei concetti tipico-ideali è sempre quello di rendere esplicito con precisione non già ciò che è conforme al genere, bensì al contrario, il carattere specifico di certi fenomeni»124. Le coordinate attraverso le quali viene designata la nozione di Idealtypus si discostano – è bene puntualizzarlo – dai motivi neokantiani proprio avanzando una prospettiva costruttivista incentrata sul medesimo concetto di Zurechnung. Prospettiva costitutivamente sottratta all’alterativa causalità-teleologia (basti pensare all’uso che della prima nozione risulta fatto dall’economicismo e dal sociologismo, in qualche maniera “positivizzante”, caratteristico del modello proto-storiografico di Sombart, oppure al ricorso alla seconda compiuto da Stammler in Wirtschaft und Recht125). Si apre qui un aspetto particolarmente problematico. Come si è appena osservato, Croce, applicando in una certa chiave regolativa la comparazione realtà-modello, sembra filtrare all’interno dell’impostazione della Kritik il ricorso ad un dispositivo assimilabile all’Idealtypus, inteso in tutta la sua distanza dall’“empirische Tipus” e da qualsivoglia riferimento ad una legalità cui semplicemente subordinare l’individualità

123. Cfr. in proposito le importanti osservazioni di R. Racinaro in Trasformazioni della razionalità e trasformazioni della forma – Stato negli anni ’20, cit., pp. 61-62. 124. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., p. 122. 125. Cfr. in proposito le importanti osservazioni di R. Racinaro in Trasformazioni della razionalità e trasformazioni della forma-Stato negli anni ’20, cit., p. 62.

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in quanto medesimo “esemplare” del “genere-legge”126. Se si guarda all’ottica complessiva del giovane Croce “revisionista”, posta sicuramente in forte dialogo con il neokantismo (cosa che motiva, almeno in certa maniera, la parallela attenzione per il marginalismo) e con le diramazioni dell’historismus, si potrebbe considerare lo stesso criterio latu sensu “idealtipico” all’insegna del quale viene identificato il “paragone ellittico” che Marx adopererebbe ne Il Capitale quale epistemologicamente “legittimo” ed acquisibile. Tuttavia, il modo in cui Marx opera il paragone altera, nell’ottica crociana, la correttezza e la “praticabilità” di un simile meccanismo concettuale. Infatti, secondo la ricostruzione in questione, egli non procederebbe solo comparando la realtà effettiva al modello-limite – come, d’altra parte, lo stesso Croce ritiene ammissibile fare, a determinate condizioni ed in chiave opposta, nel caso della questione delle conseguenze dell’innovazione tecnologica rispetto al saggio di profitto, postulando a priori la “situazione-limite” della eguale e simultanea immissione di essa nel campo dei beni-salario ed in quello dei beni strumentali, e ricavandone alcune acquisizioni analitiche –, ma si spingerebbe a proiettare, senza soluzioni di continuità, linearmente, elementi che appartengono al secondo sulla prima (si pensi, in merito, anzitutto ai contorni della stessa critica rivolta dal filosofo meridionale alla tesi della formazione del Mehrwerth). Stando in tal maniera le cose, Marx è visto ricorrere ad una certa costruzione idealtipica, densa di plurime implicazioni. Il suo impegno non sembra essere semplicemente-effettualmente quello di limitarsi ad evidenziare, grazie al principio di comparazione regolativa che può orientare, nell’accezione crociana, il generale raffronto modellistico o lo specifico pa-

126. In merito ai problemi appena trattati cfr. C. Tuozzolo, “Marx possibile”, cit., pp. 151-152.

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ragone con il “modello-limite”, gli accadimenti empirici che cadono al di sotto della permanente condizione definita da una determinata «legge scientifica» che li preceda. Piuttosto, il procedimento analitico marxiano appare a Croce innervato da «uno schema del pensiero», da un «modo di pensare […] abbreviato»127. Esso è visto precipitare in uno dei “luoghi comuni” della formulazione di “schemi” scientifici, cioè nell’adozione in re di qualcosa di molto vicino a quella “stenografia dei concetti” (da porsi in tensione con il punto di vista machiano, sorretto dal progetto di «formare un tutto unico» composto da «tutte le scienze»128) su cui Weber, con differente accento, si intratterrà, chiarendo funzioni e sottesi dell’Idealtypus. Anzi, proseguendo una sorta di “esperiemento ideale”, si potrebbe dire che, nel caso di Marx, Croce ravvisa, a rigore, addirittura una sorta di indebolimento di spessore epistemologico rispetto a ciò che la formula designa. Nel procedimento marxiano è avvertita la presenza di un ingrediente empiristico-riflessivo, naturalistico. A ben guardare, la forte inclinazione alla “abbreviazione nel pensiero” giunge a consumare, entro il paradigma del criticismo marxiano designato da Croce, il trapasso e la conversione dal lato della stessa costruzione concettuale identificabile come “idealtipica” a quello della formazione di una mera ipotesi, intesa come comparata alla realtà e, insieme, confusa “con” e giustapposta “a” questa129. 127. MSEM, p. 106. 128. E. Mach, L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, Feltrinelli-Bocca, Milano, 1975, p. 58. 129. Non è inutile ricordare, forse, che nel decisivo ambito di Roscher und Knies und die logische Probleme der historischen Nationälokonomie, e, in particolare, in Knies e il problema dell’irrazionalità, Weber focalizza il vizio naturalistico dell’Estetica crociana consistente nel qualificare le cose come intuizioni, e i concetti come relazioni fra cose, in congruenza al principio della storia come arte – primieramente avanzato nella celebre Memoria del 1898 –, giustificato dalla commisurazione all’individualità (in, M. Weber,

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Subitamente, però, il concetto di astrazione – che, a parere di Croce, motiva la “confusione” nella quale Marx incorrerebbe –, conosce un capovolgimento. Torniamo, così, alla principale contestazione che il filosofo meridionale rivolge al criticismo marxiano. L’astrazione cui esso ricorre, per un verso, appare eccedere, mancando la restituzione della effettiva rugosità del reale (basti pensare alla questione, attesa nei termini restituiti, della aumentabilità dei beni attraverso il lavoro o altrimenti), per un altro, come sottolineato, risulta dotata di insufficiente capacità di generalizzazione rispetto a quella dell’“economia pura”. Di qui dobbiamo nuovamente considerare il riferimento alla costruzione di una «scienza economica generale» intesa a “stabilire” un proprio «concetto del valore deducendolo» da «principi […] più comprensivi di quelli particolari del Marx». La forma de Il Capitale si volge, quindi, verso l’obiettivo di assumere il carattere di astrazione del procedimento scientifico in generale, ma non riesce a garantire il requisito di “onnicomprensività” grazie al quale soddisfare il raggiungimento di un livello sufficientemente alto di astrazione, tale da legittimare lo statuto perspicuamente scientifico di una determinata teoria. Del resto, la costruzione e la disposizione del valore-lavoro, pur aderendo all’emergere di «un fatto che vive fra altri fatti», si trova qui guadagnata categorialmente per eliminazione, cioè facendo astrazione da quei beni il cui valore è aumentato grazie al lavoro. Basandosi, attraverso distinte modulazioni, sul “paragone ellittico”, la Kritik procede, stando all’interpretazione di Croce, puntando sul concetto di differenza stabilito a fronte della escursione intercorrente tra la istituzione di un Saggi sulla dottrina della scienza, a cura di A. Roversi, De Donato, Bari, 1980, pp. 103-106). Sullo specifico del nesso critico Croce-Weber cfr. F. Tessitore, La lettura di Weber, in La ricerca dello storicismo – Studi su B. Croce, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 475-493; e A. Chielli, La vita e il vivere – B. Croce e la crisi della cultura europea, PensaMultimedia, Lecce, 2004, pp. 182-193.

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modello corrisposto ad una isolata parte della società (la società economica-lavoratrice) e la sua interezza. In primo luogo, cioè, questo procedimento si traduce nella “messa a punto” del valore-lavoro grazie all’isolamento della “società economica” in quanto “società lavoratrice”. Siamo nelle condizioni, ora, di stringere il duplice risvolto scorgibile in nuce nella lettura del criticismo marxiano offerta dal filosofo di Pescasseroli. Gli è che nella elaborazione del dispositivo del valore-lavoro e nell’approfondimento in ordine alla giustificazione del formarsi del Mehrwert, Croce, dichiarandone l’estraneità al campo dell’“economia pura”, ne approssima in germe – volens nolens – il particolare contenuto ermeneutico-politico. Tale affermazione lascia intravedere, infatti, proprio lo sporgere di una certa dimensione prettamente critica di fronte al campo ed all’oggetto dell’economia politica. Tuttavia, questa embrionale indicazione risulta del tutto riassorbita dall’effettivo svolgimento del “paragone ellittico”. Il ricorso a tale meccanismo concettuale non può che implicare un ingrediente di riduzione economicistica del marxismo. Comprimerne i confini di competenza al campo della illustrazione – per via comparativa – della società economica in quanto società lavoratrice trova come diretto precipitato la qualificazione in senso esclusivamente economico-corporativo del ruolo della classe operaia. Osserviamo: pur con i debiti distinguo, così come la interpretazione del materialismo storico in quanto canone storiografico finisce per sfibrarne la facoltà di attrito teorico-politico, consumando la scissione fra storia in movimento ed intelligenza del processo, e, dunque, operando la medesima sostituzione della storicità reale con la storiografia in quanto storia della coscienza – storia degli intellettuali-‘mosche cocchiere”, anche il “paragone ellittico” introduce una misura di estremo indebolimento del contenuto politico del criticismo marxiano, della sua efficacia. Coll’attuazione del “paragone ellittico” la “società di puri lavoratori”

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si converte, realiter, in società di salariati. La via della “messa in discussione” della suddivisione rigida tra capitale e lavoro in quanto lavoro aggiunto è preclusa a Croce perché – come abbiamo accennato in precedenza – ai “puri lavoratori” non risulta attribuita la funzione di conservare, accrescere e regolare le forze produttive, a cominciare da quelle che nella formazione capitalistica si trovano raccolte entro il capitale stesso. Tale limite corrisponde, del resto, all’intenzione di chiudere il movimento operaio in una funzione subalterna ed appiattita sull’Economico. D’altra parte, l’attribuzione alla Kritik di un grado insufficiente di astrazione nel procedimento analitico di generalizzazione incoraggia, inevitabilmente, lo slittamento dal campo squisitamente scientifico – cui appartengono conseguimenti da predicare necessariamente, nella presente ottica, come aventi statuto, potremmo dire, wertfrei – a quello, appunto, delle “valutazioni”. Il concetto di “astratto” a cui Croce ricorre, in maniera filtrata, nella fase in questione della sua riflessione, per contestare l’epistemologia marxiana induce, dunque, la radicale Entzweiung fra scienza e politica, fra teoria e movimento. I profondi limiti dell’approccio epistemologico crociano erano stati ben avvertiti da Labriola nella richiamata missiva del 28 febbraio 1898, quando rimproverava al giovane amico la «confusione maledetta tra i concetti che vengono escogitati per ispiegare una realtà data» e «la creazione di un mondo ipotetico». Confusione che trova come esito (inconsaputo e non voluto) quello di riversare sul procedimento della Kritik, malgrado venga assunto in chiave indiretta, «il mondo ipotetico dell’economia pura»130. Croce, insomma, finisce per proiettare sulla costruzione del metodo marxiano la frattura tra teoria ed empiria, facendo leva sulla impossibilità di stabilire un diretto

130. A. Labriola, Lettera a B. Croce del 28 febbraio 1898, p. 851.

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«ponte di passaggio» fra astratto e concreto. Il loro scollamento non è riferito alla struttura della scienza in sé, bensì risulta indotto dalla dissociazione di teoria e movimento reale. Notare bene: ciò, del resto, si desume agilmente dalla esplicita affermazione per cui una delle motivazioni strategiche della critica da rivolgere al metodo marxiano deve consistere non già nella generica «disputa» circa l’«utilità della scienza», bensì nel tentativo di avversare la «possibilità di dedurre […] alcuni programmi pratici da proposizioni scientifiche». Entro la cornice concettuale ove Croce determina la divaricazione teoria/ movimento emerge sia una prima accezione praticistica della scienza (la sua «utilità») – certo presa a riferimento solo parziale per distaccarsi dalle sue eventuali, ulteriori attribuzioni di incidenza, ed asimmetrica, nel caso, rispetto agli esigiti requisiti epistemici –, sia – quasi paradossalmente, giusto in ragione della restituzione dell’«astratto» in quanto «nostro modo di pensare» – la declinazione tendenzialmente soggettivistica degli schemi attraverso i quali opera131. Un siffatto atteggiamento si rivela elusivo della esigenza di padroneggiare in senso critico-categoriale la Verfassung della totalità storico-reale, appiattendosi, altresì, – come il caso del riferimento all’“economia pura” dimostra – sulla assunzione ad oggetto di sistemi teorici determinati – i quali si precisano, coerentemente, in quanto oggetti ideali – assegnabili alla razionalità delle singole cerchie sociali e cognitive. In tale approccio assistiamo alla riunificazione di storicismo ingenuo-volgare (i cui limiti la “filosofia dello spirito” crociana supererà, solo in parte, successivamente) ed appello alla rigorizzazione del procedimento scientifico. Le due direttrici dello storicismo volgare e del progetto di una autosufficiente (e strumentale)

131. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 151-153.

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rigorizzazione epistemica convergono nell’intento di risolvere la legalità del variare entro schemi di classificazione empiricoindividuali che eludono l’impegno consistente nel penetrare la morfologia del processo, né vi sarebbero, del resto, davvero compatibili. Risiede in ciò, d’altronde, anche il principale esito e la principale debolezza della posizione di Böhm-Bawerk, che già abbiamo richiamata. Questa trova la cifra preminente nella scomposizione inerte dell’oggetto, isolandone la costruzione empirica senza riqualificarne la trama delle mediazioni interne. Il presupposto decisivo di una simile operazione, che si raccoglie nella critica marginalista a Marx, è la considerazione di un dato fattore – e, in particolare, del valore –, formato quale concetto astratto, nell’alveo propriamente empiristico del conseguimento di una unità puramente superficiale, poiché ricavata dalla astrazione degli elementi di diversità che rimangono, nella loro frammentarietà, res sic stantibus, gli esclusivi referenti possibili dell’indagine. Analogamente a Croce (e si tratta – facciamo attenzione – di una analogia davvero forte, al di là della maggiore vicinanza a Pantaloni rispetto a Böhm in merito all’accezione dell’identità, proposta dall’edonismo, valore = costo = utilità marginale, ed all’originale dissenso verso la critica condotta nel Zum Abschluss132 alla nozione di Mehrwert), Böhm considera che né Marx né nessun altro che intenda dare fondamento epistemico-epistemologico alla propria disamina analitica possa evitare di passare dalla costruzione di concetti astratti eliminando le diversità. I problemi cominciano quando ci si ponga l’obiettivo di verificarne la compresenza alle indicazioni, dovute ad un certo schema di legalità riguardante un ambito fenomenico-plurifattoriale, di altre considerate “deviare” dall’astrazione su cui si è plasma-

132. Cfr. in proposito C. Tuozzolo, “Marx possibile”, cit., pp. 135-139.

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ta una determinata prospettiva analitica. Stando all’effettività dell’orizzonte marxiano, le presunte “deviazioni” rispetto all’architrave categoriale definito in ordine alla realtà del sistema capitalistico (l’argomento è esemplato, ovviamente, a tal proposito, dal problema della escursione dei prezzi dai valori) si spiegano all’insegna della dialettica interna alla dimensione obiettiva. Ovverosia: si spiegano indagando la realtà della contraddizione e, in rapporto a quest’ultima, la diffusione del contenuto di dominio che, in particolare, la preminente categoria giustificante del “valore”, da commisurare alla forma-merce in quanto Kerngestalt, in sé raccoglie. Un simile risultato implica, però, l’adozione di una angolatura visuale incentrata sulla genesi non empirica delle categorie di cui si intende fare uso133. Böhm, altresì, volendosi tener attraccato all’esclusivo terreno della «sana empiria»134, conclude ad una posizione di espressa continuità con la tradizione – snodantesi da Aristotele in poi – della concezione corrispondentistica in merito alla formazione dei concetti astratti. Parliamo di quella concezione che assegna ai concetti astratti il compito di riprodurre-duplicare la realtà empirica. Di tale cognizione non riuscirà a liberarsi del tutto, a ben vedere, neppure l’impostazione neokantiana, con il suo intenso approfondirsi (si pensi al successivo “testochiave” cassireriano Substanzbegriff und Funktionsbegriff del 1910). Malgrado l’intendimento, da parte dell’orientamento neokantiano, di rinunziare – come Cassirer affermerà – «a dare una sensibile riproduzione diretta della realtà» viene ammessa 133. Questo aspetto sta al centro, invece, della lettura formulata da Labriola dell’apparato categoriale della Kritik marxiana, a cominciare dalla considerazione del dispositivo teorico del valore-lavoro. Sul tema ci permettiamo di rinviare al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 255-260. 134. E. Böhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen Systems, in Festgabe für K. Knies, Berlino, 1896, tr. it. nell’antologia di Id., Hilferding, Bortkiewicz, Economia borghese ed economia marxista, La Nuova Italia, Firenze, 1971, p. 92.

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la prevalente eventualità che «la scienza» possa «presentare questa stessa realtà come connessione necessaria di premesse e di conseguenze». Il neokantismo, in fin dei conti, si arresterà alla ricostruzione delle condizioni della legalità in base a cui giustificare il “dato”, esponendosi al rischio di ripiegare, volens nolens, sulla sua emersione. La rinunzia, formulata in chiave formalistico-trascendentale, a conseguire, grazie al concetto astratto, «una copia il più possibile perfetta alla realtà esteriore» viene ad essere unilateralmente finalizzata, cioè, ad approntare gli stessi «mezzi concettuali per esprimere le leggi del dato»135. L’impianto epistemologico che presiede alla critica marginalistica propugnata da Böhm prevede l’adozione di un procedimento che – al contrario di quello attribuito a Marx (e a Rodbertus) – dovrebbe considerare «tutto ciò che di fatto è rilevante nel caso concreto»136. Ora, questa operazione implica, realiter, la conservazione di una residua concezione riflessiva della teoria, tale per cui l’astrazione non sembra assumere il compito di inscrivere, giustificandole ed esibendone la formazione logico-storica interna, le diverse determinazioni in una totalità – certo senza disperderle o comprimerne la specifica incidenza –, bensì di reduplicarle entro il formato concettuale. Da Aristotele in poi, l’approccio di tipo generalmente naturalistico-corrispondentista tende a saldare l’attribuito statuto riflessivo della teoria al «primato logico del concetto di sostanza». La sua adozione scaturisce la destituzione di ogni richiamo al ruolo cognitivo-reale della relazione, sideralmente distinta, nella sua forma di giudizio, dall’«esistenza reale»137. L’enfasi sulla “sostanza”, in implicito contrasto con la sottolineatura del compito strutturante della “relazione”, riproduce la dissociazione di teoria e storia, sconnette il movimento dalle 135. E. Cassirer, Sostanza e funzione, La Nuova Italia, Milano, 1995, p. 222. 136. E. Böhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen Systems, cit., p. 101. 137. E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit., p. 16.

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sue ragioni, spezza l’intreccio fra logica e storia. Proprio quella che il lessico della tradizione filosofica occidentale ha indicato come “sostanza” (e il cui impianto concettuale, ad ogni modo, una posizione come quella di Cassirer cerca di contrastare al massimo, svelandone il meccanismo) viene configurata, all’insegna di tale approccio, deprivando le determinazioni del movimento del loro contenuto di storicità, cioè accordandovi, in conclusione, una accezione squisitamente naturalistica. In un simile quadro, la teoria resta relegata alla finalità del “rispecchiamento”. Il perdurare del suo influsso, a fronte della convergenza con una certa variante dello storicismo volgare, sembra adempierne, volens nolens, tramite il tentativo di una diretta espressione del «caso concreto». Un siffatto tentativo è da considerarsi esplicitato, inoltre, riguardo alla collocazione esterna del procedimento di concettualizzazione, nella ricomprensione del dato empirico, ex post, entro schematizzazioni generalizzate dell’empiria stessa, considerate adatte ad aderire alle singole «deviazioni»138. Così, ai dispositivi categoriali dell’edonismo economico appare affidato il compito di descrivere a priori gli ambiti condizionali di emersione della datità empirica. Dunque, l’empiria giunge ad essere pianamente ricondotta a regolarità. È proprio a questa altezza che si rivela dispersa la complessità interna della costituzione logicostorica dell’oggetto. L’esiziale abbassamento della storicità al modulo storiografico, operato dallo storicismo empiristico, ed il paradigma marginalistico convergono nel sancire la dissociazione di logica e storia, la frammentazione inerte e passiva dell’“oggetto-storia”. La penetrazione critica della morfologia del processo storico-reale che intrama la dimensione economica della produzione-riproduzione capitalistica, esibendone la mobile impalcatura interna, avvinta alle forme di investimento-costituzione politica, resta preclusa al marginalismo. Giac138. E. Böhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen Systems, cit., p. 180.

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ché la sua disamina procede attraverso i due momenti dell’isolamento empirico e della generalizzazione, circoscrivendo l’influenza delle diverse componenti economico-mercantili, delle differenziate dinamiche storico-sociali alla misura della loro classificazione generale, su cui si rivela ritagliato il modello di concettualizzazione astratta. È, infatti, in questo senso che si spiega, in profondità, l’analogia logica forte fra, per un verso, la continuità “economia volgare’-marginalismo (benché a quest’ultimo – come spiegheremo meglio – siano da riconoscere precise intuizioni, da Croce recepite con acume) e, per un altro, lo storicismo empiristico-ingenuo139. Osserviamo: l’atteggiamento neocriticistico di un Cassirer sporge certamente oltre rispetto allo specifico di questi due paradigmi. Dippiù: stiamo parlando di un genere di orientamento che può fornire un strumentazione analitica per molti rispetti efficace in vista dell’obiettivo di mostrare la consistenza della fallace ipoteca naturalistico-riflessiva. Tuttavia, l’abbandono del modulo logico-ontologico sostanzialistico della “copia” non si traduce – né può farlo, per come viene ad essere compiuto – nel superamento dell’immediatezza del “dato” in favore della conquista della costruzione processuale, attraverso la mediazione reale, delle dinamiche obiettive raccolte nell’oggetto. Il Funktionsbegriff risulta costruito comunque al fine di designare la riscontrata «connessione necessaria di premesse e di conseguenze» che dovrebbe contraddistinguere la legalità del dato. È questo, ad ogni maniera, il diretto precipitato del concetto di astrazione adottato dal procedimento di Böhm-Bawerk, ponibile in problematico parallelo con l’opzione epistemologica crociana (la quale conoscerà certo, oltre, un momento di parziale riformulazione inteso a superare

139. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 123-125.

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la fallacia degli aspetti appena evocati – come l’enucleazione della nozione di “pseudoconcetto” e la critica del concetto empirico condotta nella Logica dimostrano140). Böhm cerca di far valere un concetto astratto costruito attraverso la separazione e l’isolamento di note comuni – disponibili al di sotto di una certa generalizzazione – appartenenti al campo dell’empiria, che resta scisso e frammentato. Lungo la presente direttrice operativa, l’in-mediatezza non viene ad essere superata e le determinazioni che l’empiria stessa lascia emergere prima facie si vedono estremamente impoverite nel loro portato. Alla tesi dell’utilità marginale, alla forma di scientificità che vi presiede, da cui deriva la critica a Marx da parte dell’economista austriaco, è preclusa la strada dello scorrimento dalla dimensione categoriale più astratta e semplice al concreto, – come, del resto, persino rivendicato da Croce, il quale destituisce la possibilità di istituire un qualsivoglia “ponte di passaggio” fra l’uno e l’altro –. Il richiamo marginalistico all’aspetto squisitamente psicologico dell’orientamento dei soggetti consumatori, della propensione al consumo rispetto al mercato, all’incidenza del valore d’uso – che, pure, come meglio rimarcheremo oltre, registra alcuni elementi di realtà – si rivela gravato proprio da quel limite di autoreferenziale (e non debitamente mediata) astrattezza (riverberantesi nella riproposizione dell’ipostasi) attribuito, quasi per via di implicita e inconsaputa ritorsione, ad un’immagine equivoca e forzosa del paradigma della Kritik marxiana e dello stesso ruolo che l’astratto giuoca, appunto, al suo interno. Stando al corrente quadro di ragionamento, l’impostazione marginalistica si 140. Cfr. sul tema G. Sasso, B. Croce – La ricerca della dialettica, Morano, Napoli, 1975, pp. 57-139; e M. Maggi, La logica di Croce, Bibliopolis, Napoli, 1994, pp. 13-43; Id., Logica come scienza del concetto puro, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, cit., pp. 109-118; G. Gembillo, Logica in Dizionario crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro, a cura di R. Peluso, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2016, pp. 457-466.

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risolve, insomma, nella formalizzazione chiusa delle cerchie cui si riferisce, sancendone al massimo grado la scissione dal concreto-continuo (ma infinitamente predicabile) reale. Ciò conduce, tra l’altro, a isolare e, insieme, proiettare il ruolo e la disposizione della “sostanza”. A fronte delle considerazioni appena formulate, diviene ancor meglio comprensibile il senso della curiosa convergenza fra l’ottica empiristica del marginalismo di Böhm-Bawerk e quella neokantiana. La considerazione arrestata alla consapevolezza degli agenti in-mediati della produzione non consente, infatti, di tematizzare debitamente il presente storico, giacché esclude il riferimento alla totalità, la possibilità del suo padroneggiamento critico. L’isolamento delle qualità empiriche entro un chiuso sistema formale, la costruzione di una generalizzazione “adeguata” al loro emergere, alla loro datità, finisce per ipostatizzarle in un tipo di legalità cui appare irriducibile, in vero, il processo reale141. Tale convergenza risulta pensabile come in parte riassunta nell’impianto logico-epistemologico del revisionismo crociano. Al suo interno agisce il ricorso ad una categoria di astrazione sorretta dall’intrinseca estremizzazione dello statuto wertfrei dei conseguimenti scientifici, e, soprattutto, intesa a superare il presunto, duplice limite, consistente nella “eccessiva” inclinazione a ricondurre il referto empirico al livello astratto, ed, insieme, nell’insufficiente “copertura” di quest’ultimo. Limite riconosciuto nella Kritik in virtù dell’adozione di un preciso paradigma di isolamento-generalizzazione all’insegna del quale raccogliere i singoli “fatti”. Limite segnalato, cioè, tramite il paradigma in base a cui viene ad essere fissata una certa legalità scientifico-generale scaturita non già dal complicato passaggio mediatore dall’astratto al concreto, bensì dal ricavo di uno schema in grado di investire qualsivoglia dinamica fattuale (il che induce, realiter, il ripresentarsi dell’empiria qua 141. Cfr. Ivi, p. 126.

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talis). In definitiva, l’adesione di Croce all’“economia pura” e la sua disamina della Kritik condensano l’atteggiamento di in-mediata scomposizione dell’oggetto (da ricondursi, in vero, al movimento del capitale in quanto totalità), incapace di qualificarne l’impalcatura logico-storica interna. Gli elementi di approccio comune riscontrabili in Croce e in Böhm-Bawerk si rivelano incorrere, in definitiva, nella già evidenziata divaricazione fra scienza e movimento, nonché tra “conoscenza dei mezzi” e “conoscenza dei fini”. Ne sortisce un operazione congruente ad una completa e radicale rivoluzione passiva nel campo della teoria. Il criterio epistemologico di carattere modellistico proprio del progetto crociano di revisione risulta irreversibilmente propenso ad appiattirsi su una lettura della rottura del sistema “classico” (ovvero del sistema di stabilizzazione liberale ordinario, incardinato sulla autosufficienza del mercato “automatico” e sulla sua eventuale combinazione con le modalità prima facie di giuridizzazione integrale) che, pur cogliendone lucidamente il profilarsi, finisce per metabolizzare all’estremo, senza concettualizzarla in senso storico, quella situazione di apertura a tutte le possibilità che, entro lo svolgimento della analitica weberiana, possiamo trovare indicata tramite la evocativa espressione “politeismo dei valori”, congiunta alla dimensione del “disincantamento del mondo”. Croce coglie efficacemente come l’epicentro di una crisi simile riguardi la variante dell’atteggiamento metafisico rappresentata dalla fiducia deterministico-evoluzionistica nella opportunità di ricondurre senza residui le articolazioni dello sviluppo storico-sociale ad una legalità naturale determinata142. Il giovane filosofo ravvisa in molte delle espressioni del liberismo medesimo il peso della fallacia metafisico-naturalistica. Egli scrive, infatti: «il liberismo […] si presenta in una

142. Cfr. Ivi, p. 160.

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duplice forma intellettuale […]. Nella forma più vecchia, non si può negare che abbia un fondamento metafisico, ch’è» nella «persuasione della bontà delle leggi naturali […] “Leggi naturali” equivale, in quel caso, a “leggi razionali”, e la razionalità e l’eccellenza di esse leggi occorre negare. Ora […] per essere di origine metafisica, quel concetto […] tramonta con la metafisica di cui faceva parte; e pare ormai che sia tramontata davvero. Sia pace alla “gran bontà” delle leggi naturali»143. Lo scenario della crisi coinvolge, evidentemente, allo stesso modo, anche le incrostazioni di origine positivistica prevalenti nella gran parte del marxismo della Seconda Internazionale. Ad esso, ed all’afferente merito dell’analisi sociale, il revisionismo crociano guarda, però, attingendo all’armamentario dell’economia marginalistico-pura, e dando luogo ad un rilevante paradosso concettuale. Si produce, infatti, l’evidente cortocircuito dovuto all’attuazione di una peculiare ricognizione dei sistemi teorici-“oggetti sociali” volta a consentire di visualizzare il pluralizzarsi della razionalità scientifica e delle competenze epistemico-cognitive, e, insieme, a comprimerne il molteplice alla sfera della classificazione empirico-individuale. Sull’argomento è necessario sostare ulteriormente. A fronte delle considerazioni appena ascoltate, Croce argomenta e ribadisce proprio l’intendimento di “tenersi fermo” all’ottica edonistica «dell’utilità-ofelimità», al principio dell’utilità marginale; segnalandone il coinvolgimento entro il perimetro della concezione liberista e, al contempo, la discontinuità rispetto alle connotazioni direttamente precedenti di quest’ultima144. Egli scrive: 143. MSEM, pp. 100-101. 144. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., p. 160. In merito agli sviluppi della posizione di Croce circa il “liberismo” (e la sua distinzione dal “liberalismo”), concentrata nella celebre discussione con Einaudi, cfr. le rilevanti osservazioni di M.

107 ben diversa è la forma, che il liberismo prende nei suoi seguaci più recenti, i quali, abbandonati i presupposti metafisici, stabiliscono due tesi, […] importanti: a) quella di un massimo edonistico economico, che essi assumono come il massimo desiderabile sociale; e b) l’altra, che questo massimo edonistico non si possa affermare pienamente se non per la via della più completa libertà economica145.

Queste affermazioni – rese congruenti, nel complesso, all’ammissione del valore in quanto «fatto fra altri fatti» e, più particolarmente, alla coincidenza fra l’equivalenza valore = costo = utilità marginale, da un lato, e valore=lavoro, da un altro; in ciò assecondando più l’impostazione parzialmente neoricardiana del Pantaleoni dei Principi di economia pura146 che quella del Böhm-Bawerk – approdano a saldare, in riferimento al collasso del paradigma ideologico positivistico, il lato della crisi della metafisica – a cominciare dalla variante naturalistica, come messo in chiaro dall’incrinarsi della stabilizzazione liberale – e quello della crisi della scienza – donde scaturisce la compromettente contrazione della sua funzione al piano strettamente tecnico. Da un simile stato di cose non vengono, però, tratte le necessarie conseguenze. Tutt’altro. La strumentazione tecnica risulta commisurata, cioè, in tal maniera, alla classificazione puramente empirica (dunque passiva ed, insieme, inadeguata) della trama di rapporti di forza

Montanari in Croce e Einaudi: un contronto su liberalismo e liberismo, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, cit., pp. 704-713. 145. MSEM, p. 101. 146. Sulla convergenza Croce-Pantaleoni cfr. le già richiamate importanti osservazioni di C. Tuozzolo in “Marx possibile”, cit., pp. 135-139; le quali, tuttavia, a nostro parere, eccedono, malgrado il loro impressionante acume analitico, nell’insistere la presenza di una forte divaricazione complessiva in merito fra Croce e Böhm, in favore della posizione di Pantaleoni; rischiando di smarrire, così, i termini della convergenza epistemologico-cognitiva fra il filosofo italiano e l’economista austriaco.

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che sorregge lo scenario della regolazione ecomomico-sociale. Vero è che l’imputazione principale da Croce rivolta alla Kritik – avanzata proiettando l’adozione di un procedimento di astrazione basato su una misura di generalizzazione modellistica ottenuta in virtù della sottrazione di alcuni elementi in vista di una certa comparazione – consiste nel ravvisarvi un grado insufficiente di “comprensività” e, dunque, di astrazione. Tuttavia, l’alternativa individuata programmaticamente nella “economia pura” risulta essere quella della costruzione di un modello astratto che, a rigore, rinunzia a restituire la dimensione storico-sociale di una totalità in cui si articolino i comportamenti economici e cerca, piuttosto, di stabilire, alla fin fine, quella che Labriola, nel Discorrendo, indica come una sorta di «algebra universalissima»147 – incardinata sull’analisi dei costi comparati e sulla riduzione della complessività delle dinamiche di mercato al «massimo edonistico» ed al computo delle propensioni al consumo, considerate in senso anzitutto psicologico –, concludendo ad affidarvisi. Avremo modo di rimarcarlo fra poco: l’adozione di un’ottica simile contrasta con il riconoscimento in profondità delle ricche relazioni obiettive determinanti politicamente il mercato, malgrado ne isoli e ne generalizzi l’espressione empirica. Adesso, tuttavia, dobbiamo mettere in luce, soprattutto, l’aspetto per cui anche nel caso dell’adesione al set categoriale del marginalismo Croce rileva l’impossibilità di ricondurlo tout court al «terreno scientifico»148. Ciò nonostante, è da tener presente che nello svolgere la sua critica egli manifesta la cognizione per cui la «scienza, in quanto è coscienza delle leggi dei fatti, può essere valido istrumento a semplificare

147. A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, cit., p. 1449. 148. MSEM, p. 101.

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le questioni, rendendo agevole distinguere in esse quel che è scientificamente accettabile da quel che si può conoscere solo incompiutamente»149. Alla luce di un siffatto criterio epistemologico, se non tutti i precipitati dell’economia pura possono essere qualificati secondo la mera descrizione di «leggi dei fatti» (a cominciare dalla medesima questione delle dinamiche “psicologiche” scaturenti la propensione al consumo), Croce ritiene opportuno ravvisarvi l’agire di quel principio di individuazione della medesima legalità cui ricondurre la dimensione fattuale, donde derivano, sulla scorta di certi schemi operativi e di generalizzazione, l’isolamento e la classificazione dei meri dati empirici. Appare assai eloquente in proposito il ricorrente richiamo all’emersione ed alla giustificazione della fattualità. Il movimento epistemico-epistemologico che Croce sembra delineare come corretto non si snoda secondo una qualche soluzione di mediazione, di passaggio dall’astratto al concreto (o viceversa), bensì attraverso un genere di schematizzazione astratta al di sotto della quale deve cadere l’insieme delle possibilità empirico-fattuali. Il giovane Croce attribuisce, dunque, alle generalizzazioni dell’economia pura una funzione, tutto sommato, squisitamente trascendentale. A rigore, si spiega così l’affermazione della compatibilità con le dinamiche esibite dall’economia pura tanto delle forme di regolazione liberale che socialistica della società, e delle rispettive fenomenologie che ne possono scaturire (com’è chiaro, tale situazione di “comprensività” ha da comportare, proprio nel caso del socialismo, una sorta di inevitabile riduzione e dissociazione politica della teoria150). Un determinato punto

149. Ivi, p. 106. 150. L’impostazione crociana sembra convergere in proposito con l’opinione di Pareto, il quale afferma che se il «socialismo, volendo regolare ogni fenomeno economico, urta contro difficoltà pratiche immense», è, ciò non di meno, «un sistema che, teoricamente, non è in contrapposizione con la

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di vista si rivela adeguato sul terreno della teoria economica se riesce a “contenere” ogni eventualità fenomenica. Alla teoria economica, in definitiva, viene assegnato il compito di registrare la ricorsività dell’insieme delle disposizioni dei rapporti di forza economico-sociali; indebolendone, tuttavia, la rilevanza e dimensionandoli alla sfera della loro in-mediata emersione empirica. Così, la teoria economica appare estraniata da qualsivoglia, eventuale nesso con una autonoma prospettiva di teoria della storia151. È su questo fronte che si ripropone l’ipoteca naturalistica all’interno della terapia crociana di revisione della Kritik. Giacché, se la sua costruzione sembra assumere e prefigurare l’istanza – che percorrerà i testi weberiani appartenenti alla Wissenschaftslehre, stesi fra il 1904 ed il 1917 – della configurazione artificiale delle funzioni concettuali, la proiezione surrettizia di un criterio di costruzione modellistica per eliminazione, pur divenendo la leva in virtù della quale stigmatizzare la presunta saldatura degli esiti della Kritik stessa alla confusione tra ipotesi e realtà, sancisce, al contrario, l’introiettamento di tale sovrapposizione. Il deficit di astrazione e, parimenti, la ravvisata insufficienza per quanto concerne la facoltà di aderenza al referente obiettivo che Croce attribuisce a Marx debbono essere superati, stando alle presenti coordinate del discorso, in virtù di un procedimento astrattivo che, a guardar bene, riproduce il vizio naturalistico di cui proprio un dispositivo come quello weberiano dell’Idealtypus (approssimato anticipatamente entro l’approccio in esame, ma solo per ciò che attiene alcuni aspetti, e secondo il giuoco di specchi delineato dal suo stesso contenuto di revisione) intenlogica» (V. Pareto, Corso di economia politica, a cura di G. Palomba, UTET, Torino, 1971, p. 513). Cfr. in merito R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., p. 161. 151. Cfr. in merito Ivi, p. 161.

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de liberarsi. Analogamente all’impostazione di Böhm, infatti, il procedimento di costruzione concettuale proposto, ed inteso quale supporto dell’“economia pura”, pur non volendo replicare, nel caso, il modulo riflessivo, e, soprattutto, finendo per respingere l’opzione di qualsivoglia approvvigionamento categoriale rivolto alla ricomposizione ed al padroneggiamento critico-cognitivo della totalità, ripiega sul fronte della mera disposizione dei fattori empirici, senza restituirne la autentica, vicendevole relazione. Il procedimento astrattivo, e le stesse acquisizioni epistemiche pertinenti ad una legalità determinata che ne derivano, registrano passivamente l’emergere di un certo assetto di rapporti di forza, arrestandosi alla descrizione parziale della loro composizione, senza stringerne debitamente la caratterizzazione storico-reale. Giacché questa diviene davvero appropriabile soltanto attraverso la penetrazione effettiva del nesso inscioglibile oggetto-processo, della sua costituzione logico-storica. L’atteggiamento del revisionismo si accorda “a filo diritto” a quel vertice nella assimilazione di molte suggestioni di ascendenza kantiana – sollecitato, certo, dal colloquio con alcuni riflessi della “cultura della crisi” europea che perdureranno nel tempo (basti pensare ad un’opera come la Filosofia della pratica), ma anche coll’historismus, oltre che, ovviamente, col neokantismo – e nella massima “presa di distanza” da Hegel che Croce raggiungerà, qualche anno dopo la stesura dei principali testi dedicati al marxismo, con il saggio del 1906 su Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel. Al di là di alcuni luoghi comuni storiografici, la sostanziale distanza da Hegel persisterà addirittura in scritti ulteriori, sia pure svolgendo la linea di uno storicismo che, via via, accantonerà sempre maggiormente l’attenzione verso l’elemento puramente regolativo152, sino a librarsi verso 152. Cfr. in merito, fra gli altri, M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 45-48.

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il maturo, estremo (e, però, sempre parziale) colloquio con l’eredità del grande pensatore di Stoccarda rappresentato dalle Indagini su Hegel (sulla linea della precedente ridefinizione delle categorie anche come “potenze del fare”, operata in La storia come pensiero e come azione). Stiamo attenti: entro la sua originale impostazione “edonistica”, giuocata in contrasto a Marx, Croce non sceglie la mossa di eludere tout court lo spazio delle caratterizzazioni rapportuali che intessono le dinamiche economico-sociali, bensì cerca di dislocarne la presenza in ordine alla definizione di uno “spazio di contenimento” in grado di presiedere alle differenti modulazioni fenomenologiche dell’empiria. Tale impostazione si rivela del tutto congruente ad un certo passaggio genetico della fisionomia della “filosofia dello spirito”. Stiamo parlando, in particolare, della teoria dei gradi, la quale precede l’assetto maturo della dottrina dei distinti153. Il tema si rivela estremamente spinoso poiché tra le principali premesse epistemologiche di tale opzione, esplicitate apertamente da Croce, deve essere annoverato proprio il rifiuto di ricorrere allo schematismo della “classificazione”, ossia al criterio operativo della distinzione in virtù della “esternità” del concetto. Qui, alla “classificazione” Croce propone, infatti, di sostituire il ruolo della “implicazione”. Attraverso lo schema dei gradi il pensatore di Pescasseroli cercherà di reintegrare l’esigenza di un padroneggiamento delle connessioni, facendo leva sul medesimo dispositivo dell’“implicazione”. Siffatta espressione dell’esigenza in questione appare, però, del tutto incapace di

153. Sullo svolgimento interno del pensiero crociano è d’obbligo il rinvio a G. Sasso, B. Croce – La ricerca della dialettica, cit.; ma anche ai contributi di M. Maggi, La filosofia di B. Croce, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, e La logica di Croce, cit.; al breve ma efficace “medaglione” di V. Stella, B. Croce, L’Arcipelago, Genova, 1994; nonché a F. Focher, Profilo dell’opera di B. Croce, Mangiarotti, Cremona, 1963.

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permettere l’adeguata comprensione attiva della costituzione strutturata e complessa dell’oggetto reale, finendo per rovesciarsi. Quest’ultima istanza può esser soddisfatta solamente adottando una veduta dialettica incardinata sul padroneggiamento della categoria logico-storica dell’automovimento. Il dispositivo dell’“implicazione” circoscrive la dimensione relazionale ai collegamenti interni al circuito di una singola cerchia o ai gradi che dispongono le due semisfere – teoretica e pratica – della vita dello spirito; con l’esito – come presto meglio mostreremo – di provocare e rendere permanente il divorzio tra forme e concetti. Certo: è doveroso puntualizzare che negli sviluppi della ricerca crociana attuati intorno al 1906 vi è l’idea che l’unità si configuri quale vettore entro un campo di forze determinato, cioè cercando di salvaguardare la verace mediazione fra i termini distinti. In merito basti il richiamo alle considerazioni che Croce dedica in Ciò che è vivo e ciò che è morto al principio di identità154. D’altra parte, i connotati dell’attacco che

154. Scrive Croce: «Se si bada solo alle parole di Hegel si potrà dire che egli neghi fede al principio d’identità; ma se si guarda addentro, si scorge che Hegel nega fede soltanto al fallace uso del principio d’identità: all’uso che se ne fa dagli astrattisti, col ritenere l’unità cancellando l’opposizione o col ritenere l’opposizione cancellando l’unità […] Come tutte le affermazioni di verità, la dialettica di Hegel non viene a cacciare di seggio le precedenti verità, ma a confermarle e arricchirle. L’universale concreto, unità nella distinzione e nella opposizione, è il vero e compiuto principio d’identità che non lascia sussistere separatamente, né come suo compagno, né come suo rivale, quello delle vecchie dottrine, perché l’ha risoluto in sé, trasformandolo in proprio succo e sangue» (Saggi sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Laterza, Bari, 1967, pp. 22-23). Cfr. in merito M. Montanari, La rifondazione della “ragione storica” in B. Croce, cit., p. 68. Sul tema ci siamo soffermati anche nel nostro Dalla “Erinnerung” all’universale concreto – Note su “primato della mediazione” e movimento del finito in Hegel, in “Filosofia oggi” (seguito), n. 129, 2010, pp. 118-119 (ma ora saremmo propensi a rivedere ampiamente i termini di tale argomentazione).

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egli porta ad alcuni risvolti della posizione hegeliana fanno riemergere quel vizioso intreccio di formalismo ed empirismo che ha gravato sulla revisione di Marx. In definitiva, il modulo dei “gradi” conclude a sancire la sconnessione fra dialettica ed automovimento155. Com’è noto, Croce discrimina la logica dei gradi da quella degli “opposti”, assegnando all’una l’instaurarsi di un rapporto vicendevole che presenta statuto «reale e concreto»156 (secondo, poniamo, i concetti a e b, reciprocamente collegati ma intesi come irriducibili), all’altra un genere di rapporto ove i termini opposti sussistono solo in virtù del tertium configurato da una certa accezione del “divenire” (ovvero in virtù del solo concetto concreto, γ, dove si realizza la sintesi degli opposti α e β). Si potrebbe osservare che, prima facie, la sostituzione della “astrattezza” dei distinti-opposti α e β con la concretezza dei gradi a e b sembrerebbe comportare la scelta di accantonare un certo impianto diacronico in favore di uno sincronico. Tuttavia, tale carattere di sincronia risulta asseribile soltanto in virtù della elisione delle determinazioni della costituzione storico-genetica dei termini distinti157 (malgrado l’ammissione della presenza degli opposti e la conseguente compenetrazione ad essi, motivata dal loro movimento di affermazione). Così stando le cose, diviene chiaramente comprensibile la ragione per cui un siffatto assetto sincronico si rivela inevitabilmente destinato a rovesciarsi in diacronia estremamente debole. Appare vanificata, cioè, la struttura logico-storica ricca e complessa dell’oggetto, coincidente con la morfologia del processo, 155. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 162-165. 156. B. Croce, Saggio sullo Hegel, cit., p. 63. 157. Cfr. in merito N. Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, cit., p. 39; e R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 165-166.

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della sua costituzione attraverso la realtà della contraddizione. L’isolamento del grado – che Croce indica quale condizione per conseguire lo statuto di reale individualità di un certo termine – comporta, in prima istanza, l’adozione dello schema diacronico. Ciò, in fin dei conti, non può che portar con sé l’elusione e l’occultamento della storicità nella sua complessa strutturazione. Storicità effettivamente conseguibile in forza di una compiuta ricomposizione delle categorie, piuttosto che della loro mera disposizione in successione cronologica. In tal senso, l’apparente impalcatura sincronica della concezione dei gradi si capovolge nell’ipostasi della datità esistente, corrisposta alla mera accezione cronologico-empirica della diacronia. La distanza dall’ottica dischiusa dalla lezione di Hegel non potrebbe essere, nel caso (che si rivelerebbe erroneo dilatare a tutto il complesso del pensiero crociano), più grande. La celeberrima affermazione nella Vorrede alla Fenomenologia secondo la quale «il vero è l’intero» rinvia all’idea del sapere come processo, ed al rapporto Grud-Erscheinung. I due aspetti, vicendevolmente connessi, convergono nella Selbestbewegung. La concezione dei gradi, il suo impianto logico-‘puro”, si contrappone alla davvero compiuta acquisizione dell’incidenza del divenire (il carattere di realtà di γ), cui risulta intrinseca la costruzione dialettica del processo. In posizione alternativa si colloca il sapere “del” e “come” processo in quanto sapere delle determinazioni formali di questo, inteso nella sua densità storica158. Si ricordi che per Hegel l’essenza non può che giungere a darsi nell’apparire (erscheinen) e nel suo toglimento, svolgendone la Bestimmung e lo sviluppo. Si profila, così, lo sporgere dal lato del movimento logico della dottrina dell’essere – consistente nel passaggio definito

158. Per le osservazioni svolte siamo ancora assai debitori nei riguardi di Ivi, pp. 165-166.

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proprio dalle prime categorie della Grande Logica, “essere”, e “non-essere”, rinvianti, poi, al “divenire” – verso quello dello scorrimento dall’essenza al fondamento159. A questa altezza, si compie il passaggio dall’“essenza” in quanto mediazione in generale alla «mediazione dell’essenza con sé» grazie a cui Grud e «mediazione reale» si immedesimano, giacché il “fondamento” «contiene la riflessione come riflessione tolta», secondo il procedimento per cui il “non essere” dell’essenza ne consente il “tornare in sé” e, dunque, lo stesso ponimento160. Osserviamo: al contrario quanto voluto dalla unilateralità della logica della mera “implicazione”, a fronte di tale movimento, tra Wesen ed Erscheinung-Form s’istaura un primo rapporto di tipo riflessivo-circolare161, cosicché vengono “sbarrate le porte” alla eventualità della scissione fra il fondamento – inteso esso stesso, primariamente, come determinazione costitutiva dell’essenza – e la forma. Il complesso della prospettiva hegeliana definisce, dunque, la logica dell’automovimento e della contraddizione in quanto logica delle forme. Al suo opposto, il dispositivo dell’isolamento dei gradi conclude a sconnettere forme e Selbestbewegung162. La prospettiva della sostituzione 159. Scrive Hegel: «L’essenza determina sé stessa come fondamento. Come il nulla è dapprima in semplice immediata unità coll’essere, così anche qui, sulle prime, la semplice identità dell’essenza è in immediata unità colla sua assoluta negatività» (Scienza della logica, Laterza, Bari, II, 1925, p. 75). Su queste tematiche cfr., entro una sterminata letteratura scientifica, N. Badaloni, Teologia ed idea del conoscere nella logica di Hegel, in Per il comunismo, Einaudi, Torino, 1973, pp. 11-55; B. De Giovanni, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, in “Il Centauro”, n. 8, 1983, pp. 145-162; M. Cacciari, Tradizione e rivelazione, in “Il Centauro”, n. 130, 1985, pp. 15-86. 160. Occorre far riferimento in merito soprattutto al passaggio di Hegel in Ivi, p. 76. 161. Hegel parla proprio del «porre che rimbalza sul ponente» (Ivi, p. 80, corsivo nostro). 162. Siamo ancora debitori in proposito alle osservazioni svolte da R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 167-168.

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della logica dei gradi a quella hegeliana viene giustificata, del resto, dalla accezione di quest’ultima in quanto univoca logica del fondamento, divaricata dalla ricognizione delle forme. Accezione che, entro il presente orizzonte di ragionamento, trova certo un alto grado di legittimazione a fronte della crisi epistemologica verificatasi fra un secolo e l’altro, coinvolgente i due poli dell’“automatismo” della società liberale – di cui Croce intende, ad ogni modo, preservare-rimodulare la motivazione egemonica – e del fondazionalismo (in merito il riferimento al ruolo diagnostico assolto da Sorel ed alle esiziali difficoltà del paradigma ricardiano appare particolarmente esplicativo163). È, insomma, la “tenuta” complessiva del ragionamento a far problema e, insieme, a spiegare le movenze della strategia teorica crociana che stiamo vagliando. Giacché, quando si consideri in senso esclusivamente, anche se “lateralmente”, fondazionalistico la logica degli opposti e della contraddizione, giunge ad essere sciolta, per converso, l’unità dialettica di forme e concetti. La contraddizione, cioè, si vede fatta slittare al di fuori del dinamismo delle forme, dei loro rapporti, riducendo il passaggio da un grado-‘distinto” ad un altro al formalismo vuoto della dimensione extratemporaria164. La contraddizione e l’antitesi, venendo espulse al di fuori del movimento dei gradi – tramite il mero asservimento all’affermazione delle distinte sfere formali –, lasciano il campo ad una concezione costruita sugli estremi speculari, intimamente intrecciati, da un lato, della risoluzione de facto dell’“oggetto163. Di Sorel appaiono particolarmente esplicativi testi come L’ancienne et la nouvelle méthaphysique, “Ere nouvelle”, II, 1984; Sur la théorie marxiste de le valeur, “Journal des Economistes”, maggio 1887, pp. 222-223; Nuovi contributi alla teoria marxista del valore, “Giornale degli economisti”, luglio 1898, pp. 15-30. Cfr. in merito R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 172-212; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 182-186. 164. Cfr. R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 170-171.

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storia” entro le coordinate “semplici” della postulazione di una legalità generale e della classificazione empirica, la quale, appunto, divarica forme e concetti in maniera irrecuperabile, e, da un altro, dell’approdo alla stabilita permanenza di un orizzonte di «storia ideale eterna, extratemporaria»165. Non paia impressionistico o eccessivamente dilatato questo nostro richiamo al contrasto tra la prima modulazione della “filosofia dello spirito” e la prospettiva hegeliana. Tale confronto, infatti, ci consente di guadagnare ulteriorimente – come già dimostrato ampiamente da Roberto Racinaro, al cui importantissimo studio ci rifacciamo166 – le connotazioni categoriali più profonde ed il ruolo genetico dei giovanili studi incentrati sulla revisione della Kritik. Gli è che quella che si produce è proprio la sconnessione tra forme e concetti; nonché l’esclusione della possibilità di penetrare l’automovimento reale e, dunque, la perdita di un sapere del processo in grado di conseguire le stesse determinazioni formali insieme caratterizzanti e risultate dalla mediazione storica, corrisposta alla costituzione dialettica dell’oggetto, della sua struttura logicostorica, appunto. È solo in forza di tale sapere, del resto, che Marx perviene a qualificare le forme storiche del ricambio organico con la natura e ne precisa le direttrici di mediazione, commisurandole all’incidenza scaturente della contraddizione. A questo conseguimento egli giunge, in sostanza, evitando di trattare il valore come un dispositivo che eserciti la sua funzione su piani separati: quello storicamente determinato, correlato alla formazione sociale capitalistica, e quello “generale” concernente la configurazione di ogni possibile sistema sociale, donde dovrebbe derivare e, parimenti, all’interno del quale dovrebbe cadere, d’altra parte, lo stesso moltepli-

165. B. Croce, Saggio sullo Hegel, cit., p. 83. 166. R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., pp. 162-172.

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ce delle corrisposte declinazioni effettive167. Piuttosto, Marx ne fa affiorare lo statuto che, debitamente, Labriola designerà quale “tipico” (propugnando un’accezione realiter alternativa alle ambiguità rinvenibili anche in quella adottata dallo stesso Croce), mostrandone la prevalenza reale, il ruolo di filtro formale del dominio all’interno dell’orizzonte capitalistico. Abbozzando il rimprovero a Marx di ricorrere ad una strumentazione epistemologica oscillante tra l’eccesso ed il deficit di generalità-astrazione, Croce richiama all’esigenza di definire una dimensione, sorretta da una autonoma e comprensiva legalità in cui inscrivere e giustificare ogni manifestazione empirica, cognitivamente isolabile allo scopo sia di registrare una data dinamica di rapporti di forza, rendendone inerte la referenza, sia di focalizzarne la medesima base empirica – intesa come richiedente di esser sottoposta a classificazione – perché si possa operarne la generalizzazione. Le conseguenze comportate dall’adozione della logica modellistico-comparativa del “paragone ellittico” – attuata anzitutto al fine di esibire il metodo attribuito a Marx, ritorcendovi, però, i riflessi dell’ottica in discussione – convogliano in una sorta di riproposizione del vizio naturalistico. Fissare la legalità generale delle dinamiche di mercato – propensioni al consumo, aspettative di mercato, costi comparati, orientamento del valore d’uso, etc. – significa, volens nolens, presupporre la continuità del fattore naturale e limitarsi all’assunzione della in-mediatezza fenomenica di tali dinamiche, eludendo la complessa configurazione dialetticostorica dei rapporti, che restano solo passivamente registrati.

167. L’errore consistente nel contemplare, entro la prospettiva marxiana, il valore “anche” in quanto a priori definente la continuità di una certa dimensione squisitamente naturale inficia, a nostro parere, l’analisi condotta da N. Badaloni in Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, cit., pp. 13-39 (tale limite è stato efficacemente messo in luce da R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., p. 168).

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È una siffatta impostazione a tradursi e convertirsi nello slittamento della interpretazione – connotata da molteplici, differenti risvolti – della tesi del valore in chiave, come si è detto latu sensu, “idealtipica” e funzionale – poiché poggiante sull’isolamento di certi connotati e sulla loro successiva dilatazione – alla istituzione di una mera, attribuita ipostasi, considerata in quanto sovrapposta alla sfera obiettiva. Una volta acquisita la rottura di qualsivoglia, possibile asse di scorrimento tra astratto e concreto, Croce stabilisce dall’esterno il riferimento ad una legalità – postulata in quanto coerente ad un sovraordinato principio gnoseologico (l’homo œconomicus168), di cui si dichiara, comunque, come presto vedremo, l’inesaustività – in base alla quale operare attraverso il criterio della classificazione empirica. Del resto, è in questa chiave che egli intende e rivendica la tesi della circoscritta e parziale validità dell’utilità marginale e l’impianto epistemologico che la sorregge: I puristi – considera – muovono dal postulato edonistico, ossia dalla natura economica dell’uomo; e deducono da questa i concetti di utilità (utilità economica, che opportunamente Pareto ha proposto di designare con un nome speciale “ofelimità” […]), di valore, e man mano tutte le altre particolari leggi secondo le quali si governa l’uomo in quanto astratto homo œconomicus169 .

Osserviamo: la coerenza nei riguardi del principio gnoseologico dell’homo œconomicus si trova testata collocandovi il referente riassuntivo della postulata legalità generale congegna-

168. Per la critica, sulla scorta della lezione di Marx, della nozione di homo œconomicus restano importanti, a nostro avviso, fra le altre, le osservazioni presenti in L. Althusser, E. Balibar, Leggere il “Capitale”, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 165-172. 169. MSEM, p. 86.

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ta in quanto in grado di “contenere” il molteplice empirico. Ovvero accettando di assumerne passivamente, quasi apertis verbis, – all’opposto del progetto fondante della Kritik, il quale intende mostrarne la cogenza e l’incidenza reale in quanto struttura ideologica (così rendendo chiara la caratterizzazione de facto massimamente estranea alla “laicità” del liberalismo e dell’economia classica) – la cifra di ipostasi. Emerge, dunque, il movimento interno alla adozione crociana di alcuni aspetti dell’impostazione marginalistica: l’isolamento della parzialità del riferimento empirico si raccorda alla postulazione di una legalità “di contenimento”. In un quadro simile il nesso fra categorie e storia rischia di venire vanificato. Non vi è dubbio che un simile stato di cose scaturisca dal premere della crisi effettiva degli strumenti dell’hegelismo e della relativa ortodossia, a cominciare dall’impiego prevalente della nozione di “spirito oggettivo”. La mossa che Croce attuerà – definendo un primo, compiuto assetto della “filosofia dello spirito”, ovvero inserendo lo schema della logica dei gradi entro quella degli opposti, per poi dichiarare l’alternatività dell’una all’altra (intesa nella accezione integrale), e insieme, debolmente, provarne la compenetrazione – appare motivata dall’esigenza di “salvare” la “separazione” senza porsi in modo maturo il problema di traguardare una ricomposizione dei termini distinti che non ne annulli le determinazioni specifiche, ed anzi le esalti, all’interno, però, dell’orizzonte di costituzione della totalità. Questo atteggiamento adialettico, che rinuncia alla ricomposizione del movimento logico-storico del reale, affidandosi alla disposizione dei distinti ed al mero stabilirsi dell’“implicazione” – la quale non riesce in alcun modo ad evitare l’ipoteca, di matrice naturalistica, della classificazione semplice –, appare analogo all’impianto epistemologico di revisione della Kritik. Giacché esso alligna sulla stessa rinunzia alla ricomposizione in favore dell’isolamento dei fattori empirici e della loro immissione entro il campo di “copertura” de-

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scritto dall’ipostasi di una data legalità generale. Tale legalità “contiene” l’emergere fenomenico, il suo referto immediato, ma non concerne alcun sapere del processo, poiché registra gli elementi che definiscono un certo quadro di rapporti senza padroneggiarne mai davvero le mediazioni che lo innervano (del resto, quello dell’effettivo guadagno della mediazione è, forse, il problema più spinoso dell’intiero arco della elaborazione crociana). D’altra parte, non tutti gli aspetti della elaborazione di Croce sembrano spingere in questa direzione, anche se, ad ogni maniera, ed in definitiva, vi ripiegano. In un testo su cui non ci siamo concentrati nello svolgere il nostro discorso, ma che meriterebbe un commento a parte, cioè l’articolo dedicato alla discussione delle tesi dello Stammler170, Croce attacca nei termini che seguono la riduzione della nozione di “economia” – cui viene correlata, ora, in certa misura, l’ottica della Kritik – ad una sorta di determinismo tecnologico: Se […] “economico” si prende in senso rigoroso, per esempio nel senso in cui è usato nella pura economia, ossia se per esso s’intende il principio conforme al quale si ricerca la massima soddisfazione col minore sforzo possibile, è evidente che col dire che questo fattore ha parte (fondamentale, preponderante o eguale a quella di altri) nella vita sociale, non si direbbe nulla di preciso e di pensabile. L’economicità è un principio generalissimo di pratica; e non è concepibile che si operi poco o molto, in un modo o in un altro, senza seguire, bene o male, il principio stesso di qualsiasi azione, che è il principio

170. Sul ruolo di Stammler, della sua opera Wirtschaft und Recht, e, più generalmente, della nozione di “teleologia” nel dibattito sulla crisi del marxismo cfr. il saggio di R. Racinaro, Marx Adler e il revisionismo – Il problema della ricomposizione fra teoria e politica, che introduce M. Adler, Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza, De Donato, Bari, 1976, pp. XXVIXL; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 226-235.

123 economico […] Per ritrovare, dunque, nella parola “economico” […] un particolare significato, bisogna uscire dall’astratto […] concepire azioni umane con certi fini determinati, aver presente l’uomo storico, e anzi l’uomo medio della storia, o di un’epoca storica più o meno lunga; pensare, per esempio, ai bisogni del pane, delle vesti, delle relazioni sessuali, delle cosiddette soddisfazioni morali; di stima, di vanità, di dominio, e via. L’enunciazione del fattore economico accenna allora a gruppi di fatti particolari, che si sono costituiti nel linguaggio corrente e che sono più particolarmente determinati nella storiografia e nei programmi pratici di Marx e del marxismo171.

Tali affermazioni – che dimostrano tutto il travaglio e l’ampio grado di pendolarismo interno percorrente il contributo del “revisionismo” crociano – si pongono alla base del peculiare compito che la “filosofia dello spirito” affiderà alla categoria dell’“utile”172. Tanto nella polemica con le tesi del Racca, attuata nell’articolo del 1899 su Marxismo ed economia, tanto in quella ulteriormente successiva con il Manuale di economia politica di Pareto Croce sembra portato a confermare la propria recisa avversione verso ogni tentativo di ridurre il funzionamento dell’economia a leggi deterministico-meccaniche, riconducibili, nella varietà dei casi, alla struttura umana, alla psicologia, etc.. Sorregge un simile atteggiamento la persuasione circa la impossibilità di isolare la sfera dell’Economico dalla più vasta struttura sociale e/o – notare bene – di proiettare segmenti della seconda sulla prima. L’agire economico,

171. MSEM, p. 121. 172. Sulla categoria crociana dell’“utile” e sulle sue connessioni rispetto alla tematica in esame cfr., fra gli altri, G. Sasso, B. Croce, cit., pp. 425-655; e M. Visentin, B. Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’“utile”, cit.

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pur venendo nettamente distinto dalla sfera morale173, non si trova risolto nella presupposta “neutralità” dei bisogni e nella mera logica calcolistica dello scambio di merci174. Per questa via il giovane filosofo di Pescasseroli conferma la propria opinione in merito al contributo conoscitivo e di giustificazione apportato dall’apparato analitico inaugurato da Marx. Stante l’asserzione dell’“economicità” in quanto «principio generalissimo di pratica», la posizione di Croce sembra collocarsi nella permanente tensione tra l’impossibilità di isolare autoreferenzialmente la cerchia dell’Economico e la costruzione di una legalità in cui “contenerne” le manifestazioni, anche, e soprattutto, allo scopo di rigorizzarne la ricognizione circa il carattere plurifattoriale dei moventi. L’ammissione della impossibilità di isolare l’Economico dovrebbe condurre, in linea generale, ad elaborarne un’idea, per così dire, “impura”175, ed in ciò consiste l’aspetto più produttivo del principio ermeneutico-politico delle sue dinamiche che è lecito intravedere nel contributo del revisionismo crociano. Tuttavia, la consapevolezza di tale impossibilità si traduce eo ipso nella riconduzione ad una dimensione che, pur non venendo investita di assoluta esaustività epistemica, risulta quasi trascendentalmente postulata e coincide, realiter, con una cerchia isolata ove si vedono passivamente proiettate varie manifestazioni fenomeniche: dallo specimen dell’incidenza del valore d’uso all’orientamento della propensione al consumo. Ne è di riscontro la ripresa di alcuni aspetti del convenzionalismo epistemologico, sia pure mai spinta – come, invece, Pareto proponeva, e come è

173. Sulle origini di questa distinzione cfr. A. Chielli, La vita e il vivere – B. Croce nella crisi della cultura europea, cit. 174. Cfr. in merito M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 37-38. 175. Si insiste, univocamente, su questo aspetto, sulla scorta del riferimento a Gramsci, in Ivi, p. 36.

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evidente – fino a presupporre a basamenta di ogni costruzione concettuale un orientamento radicalmente nominalistico176. D’altra parte, è proprio a questo livello che riemerge – per certi versi surrettiziamente – il ricorso de facto allo schema classificatorio. Si tratta, del resto, di un atteggiamento che giunge a riverberarsi direttamente sul fronte della debole, estremamente impoverita diagnosi della riproduzione sociale desumibile dalle argomentazioni di Croce, anzitutto in ordine alla conseguita immagine della prospettiva marxiana di analisi della realtà capitalistica, cui risulta attribuito un assetto in-mediatamente duale. Resta escluso, infatti, dalla veduta di Croce, et pour cause, il conseguimento in profondità della dialettica e della mediazione valore di scambio-valore d’uso in Marx. La sua penetrazione conduce a considerare a pieno la genesi e la costituzione della forza-merce, ed a metterne a fuoco la intrinseca investibilità storico-politica. Giacché, realiter, nel paradigma teorico di Marx la merce è colta in quanto veicolo mediatore, nucleo genetico del “sistema comunicativo” fra i diversi lavori, tramite cui può divenire possibile convertire il lavoro astratto in quello che Gramsci chiamerà “lavoro come insieme”. Sta tutto qui il significato profondo della critica al feticismo della merce. Esso conduce a comprendere come il rapporto tra le diverse merci non debba esser rinchiuso entro la sua natura cosale, ma attenga alla realtà relazionale, al contenuto di comunicazione sociale che la medesima formamerce racchiude in sé. Tutto dipende – anzitutto riguardo alla configurazione di una efficace soggettività politica – dal carattere della mediazione, dalle condizioni del sistema di comuni176. Cfr. in proposito le importanti osservazioni di A. Macchioro in Lineamenti per una storia epistemologica dell’economia politica italiana – 19001950, in “Annali Feltrinelli” Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale 1870-1925, a cura di M. E. L. Guidi e L. Michelini, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 524-525.

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cazione che s’instaura regolando e governando la circolazione delle merci, eventualmente cambiandola di segno. D’altra parte, proprio perdere di vista la complessità interna e la diversa declinabilità della forma-merce significa sacrificare le risorse presenti nel paradigma in questione rispetto allo scopo di una adeguata analisi delle crisi cicliche del sistema capitalistico. Analisi che dovrebbe dimostrarsi in grado, innanzitutto, di far emergere le effettive asimmetrie presenti nella regolazione e nel governo del rapporto produzione-distribuzione-consumo. Asimmetrie primariamente motivabili in virtù dell’unilaterale, estremizzata incidenza del valore di scambio177. Come presto costateremo, a Croce non sfugge il carattere di complessità interna della forma-merce e delle logiche che intessono lo spazio mercantile. Tutt’altro. Gli è, però, che il giovane pensatore, dissociandone la ricognizione dal paradigma della Kritik in ragione di precisi condizionamenti teorici (idest: formalismo trascendentale che lascia sporgere, quasi per via di speculare capovolgimento, il vizio naturalistico-empiristico) ed ideologico-politici (idest: impianto conservatore congruente alla stessa scissione fra teoria e movimento), vanifica molte potenzialità collegate ad una siffatta consapevolezza. Il riferimento più importante va, in proposito, alla mancata indagine delle peculiari articolazioni della riproduzione sociale, la quale isola vicendevolmente i suoi momenti di mediazione interna, e replica l’occultamento di uno scambio ineguale secondo la massima espansione del ruolo formale del valore e del processo di valo-

177. Utili, assai esplicative ed arricchenti osservazioni su questi aspetti del paradigma marxiano sono presenti, fra l’altro, in Id., Gramsci e la revisione del marxismo, cit.; in alcuni passaggi del dialogo contenuto in Id., B. De Giovanni, Sentieri interrotti – Lettere sul Novecento, Napoli, Dante&Descartes, 2011, pp. 104-106; e nel recente, assai rilevante saggio – che, purtroppo, non abbiamo potuto rendere oggetto di interlocuzione nella presente sede – Marx, Gramsci e il pianista, in Gramsci revisionista, Biblion, Milano, 2016, pp. 115-149.

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rizzazione, comprensibile solo indagando la costruzione logico-storica del tempo complesso del capitale178. Espressione di questa difficoltà e di un siffatto, cospicuo limite strategico appare anche la considerazione del tema della caduta tendenziale del saggio di profitto, la quale avrebbe esigito – in parte sulla base di indicazioni che è il medesimo Benedetto a fornire – una più lucida percezione dell’organismo d’insieme Il Capitale e, dunque, dell’intreccio fra le acquisizioni del II e quelle del III volume. Come si è visto, egli modula il ragionamento riferito alla generalizzazione dell’incremento di produttività, collegata all’avanzamento del capitale fisso, ed ai relativi effetti – a cominciare dalla diminuzione generalizzata dei prezzi delle merci –, presupponendo una situazione di immediata e simultanea estensione di tale incremento entro i diversi comparti produttivi. Egli pone in atto un sostanziale indebolimento della conflittualità dei rapporti di forza entro la formazione sociale capitalistica, formulandone una rappresentazione ove i risultati contabili dei cicli di riproduzione vengono ad essere considerati in quanto riassumenti la loro configurazione simultaneamente determinata, e da parametrarsi, quindi, alla postulata fungibilità immediata dei prodotti sul mercato (così come correttamente sottolienato dal MorpurgoTagliabue in un celebre saggio del ’47179). Nell’autentica visione di Marx, invece, non è lecito predefinire il quadro d’insieme 178. Su questo tema, malgrado i segni del condizionamento storico (basti pensare a come viene coniugato in senso antagonistico-rivoluzionario l’impianto della struttura sociale capitalistica), resta particolarmente valido il volume di B. De Giovanni, La teoria politica delle classi nel “Capitale”, De Donato, Bari, 1976. 179. G. Morpurgo-Tagliabue, L’obiezione di B. Croce alla legge marxista della caduta tendenziale del saggio di profitto, in “Giornale degli economisti e Annali dell’economia”, marzo-aprile 1947, pp. 187-190. Cfr., inoltre, L. Taranto, La critica di Croce alla legge marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, cit., pp. 258-259.

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delle imprese e dei settori merceologici in ordine all’incidenza dell’aumento di produttività ed all’incremento del saggio di profitto. Marx, cioè, si attiene all’adozione, nell’analisi, di un approccio dinamico in grado di non presupporre linearmente lo stadio finale del processo di incremento della produttività sociale attraverso l’innovazione tecnica del capitale. Ma è solo un approccio del genere a poter garantire l’effettivo guadagno della realtà storica, corrisposta alla totalità esistente della formazione sociale capitalistica. Ci si potrebbe spingere a riconoscere nella tesi crociana – in coerenza con il malcelato riemergere di un certo atteggiamento empirio-classificatorio – l’antesignano analogico-strutturale del modello di “sincronia debole” espresso dai gradi (pur avendo certamente superato il residuo di un atteggiamento meramente “postulatorio”), destinato, inevitabilmente, a tradursi e capovolgersi nella mera diacronia lineare. Giacché, dando per assunto l’uniforme raggiungimento della modernizzazione tecnica nell’insieme della produzione sociale, Croce presume esigenzialmente questa situazione in congruenza al requisito di “copertura” onnicomprensiva che motiva, sul piano epistemologico, l’adesione ai principi dell’“economia pura”. Un simile procedimento sembra comportare la qualificabilità a priori dell’insieme dei settori merceologico-imprenditoriali e delle soluzioni di intensificazione o di restringimento della composizione organica del capitale. I fattori di innovazione della produzione e del capitale fisso, le condizioni del settore dei beni strumentali e dei beni-salario si offrono ad essere classificate in questo quadro, al di fuori della considerazione dinamica delle loro modalità storiche di mediazione e di crescita interna. Così, tali fattori appaiono prima facie disposti sincronicamente, ma, in vero, essi si trovano ipostatizzati in virtù di una misura concettuale che finisce per considerarli quali già compiutamente sviluppati. Le componenti empiriche risultano, cioè, isolate e, poi, livellate nel loro sviluppo, facendo venir meno la determina-

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zione storica dei termini a cui applicare lo stesso principio della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. L’adozione di una simile angolatura visuale esclude, chiaramente, l’esame dell’articolazione interna dei movimenti della riproduzione sociale, di cui pure possono essere registrati taluni referti circa l’effettiva organizzazione del consumo. I momenti di valorizzazione, riproduzione e consumo si rivelano, secondo Marx, intimamente compenetrati e, insieme, vicendevolmente distinti, nonché transitoriamente isolabili attraverso la funzione mediatrice assegnata a ciascuno, entro il ritmo di apparente successione che ne attesta, altresì, la sincronia180. È solo a muovere di qui, del resto, che diviene possibile la piena comprensione del problema del saggio di profitto. Problema che esige di essere commisurato all’impianto complessivo de Il Capitale. Nel II libro l’accumulazione del capitale si trova esibita in quanto composta da tre movimenti: quello del denaro finalizzato alla valorizzazione del capitale, quello del processo lavorativo, volto a riprodurre il rapporto di produzione, e, infine, quello della merce, vocato al consumo – produttivo e improduttivo. Le misure di loro separazione e parziale convergenza (la connessione di denaro e consumo produttivo nella produzione) celano la realtà del fine della riproduzione, lasciando affiorare l’apparente primato della produzione. Altresì, la ricomposizione complessiva dei movimenti, separati in superficie, rende evidente la saldatura tra logica del ciclo e valorizzazione. Se, per un verso, ciò esprime l’indispensabilità dei produttori all’accumulazione del capitale, per un altro, l’interdipendenza di merce e lavoro nel ciclo della acculumazione svela l’incidenza della classe capitalistica 180. A questo tema, seppure in modo eccessivamente contratto, abbiamo cercato di accennare nel nostro precedente Il mercato, la riproduzione sociale e l’ermeneutica politica “dimidiata” – Su Croce e il marxismo, cit., pp. 72-78.

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nella chiave del saggio medio di profitto181. L’acquisizione della morfologia politica di questa ricomposizione resta preclusa a Croce poiché egli non si immerge nella complessità interna dell’apparato della Kritik, il quale evidenzia i movimenti di isolamento-riconnessione appena segnalati in ordine alla riproduzione sociale. Il carattere della adesione crociana all’“economia pura” e le conseguenze che ne derivano sul terreno della revisione di Marx “critico dell’economia politica” si rivelano strutturalmente omologhe alla concezione dei gradi poiché, pur volendo stringere il nesso di unità-distinzione fra i termini, finiscono per limitarsi ad isolarne e presupporne la successione, giacché solo il loro inquadramento dialettico (e, quindi, il guadagno della contraddizione) può consentirne il padroneggiamento della totalità. È al suo interno che si rende chiara la costituzione dinamica dei rapporti di forza e la loro pervasiva pregnanza, squisitamente politica. L’implicito arresto all’emersione dei singoli fattori (disposti all’insegna di una comprensiva dimensione di svolgimento e giustificazione formale) finisce per rarefare e disperdere, inevitabilmente, la possibilità del padroneggiamento dei loro nessi, il cui orizzonte dialettico costituisce, appunto, la totalità. Solo l’efficace considerazione di questa ne permette l’effettivo conseguimento conoscitivo dell’automovimento reale. In assenza di ciò, sul piano dell’inquadramento dello scenario storico-sociale, e malgrado i molti elementi di avvertimento problematico, sfugge all’analisi la complessità e la ricchezza dei momenti e delle determinazioni formali della riproduzione sociale – ovvero dell’ambito complesso, sincronicamente strutturato, ove si articolano i precipitati della produzione della forma-merce, cui presiede uno scambio ineguale – e, dunque, a fundamentis, del carattere della valorizzazione. Tali precipitati si sviluppano 181. Cfr. su questi temi B. De Giovanni, La teoria politica delle classi nel “Capitale”, cit.

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in vista della preservazione di tale assetto, ed in ordine all’accumulo ed all’organizzazione del sapere, alla regolazione dei consumi e, in definitiva, alla costituzione del mercato. La tonalità dell’accento sulla medesima ammissione dell’incidenza del valore-lavoro, – bilanciata dal suo circoscrivimento a «fatto fra altri fatti» –, si pone alla genesi della presente difficoltà. Venendo indebolito il “prevalere” del dispositivo formale istituito dal valore-lavoro – di cui pure è percepito il riflesso politico –, ne sortisce la dispersione della costruzione morfologica della riproduzione sociale, della diffusione dei suoi contenuti politici. Possiamo ribadire, adesso, con ulteriori ragioni, l’affermazione del tratto di ambiguità della posizione crociana. Ambiguità dovuta, per un lato, alla sconnessione di forme e automovimento, di logica e storia, concentrabile nel meccanismo del “paragone ellittico”, per un altro lato, al riconoscimento – più o meno implicito – della impiegabilità di talune categorie della Kritik in qualità, per dirla in assonanza con Marx, di “astrazioni storicamente determinate”. Croce si mostra sicuramente consapevole – di contro alle semplificazioni deterministiche e riduzionistiche prevalenti in molte analisi della Seconda Internazionale – dell’aspetto per cui la configurazione del “lavoro produttivo” riposa necessariamente sulla complessa dislocazione di lavori e funzioni “improduttive” correlate al plusvalore estratto ed accumulato. Risulta palese, dunque, l’asimmetria interna al programma revisionistico in esame. Anzitutto per come appare restituito l’approccio plurifattoriale, posto tra le motivazioni principali della adesione alle tesi dell’“economia pura” e chiamato ad esibire la rilevanza del valore d’uso ed il ruolo degli apparati della riproduzione – analogamente a BöhmBawerk –, in chiave, almeno in certa misura, allotria rispetto alla complessità dialettica interna della forma-merce e di tutto l’arco della produzione-riproduzione capitalistica tematizzata da Marx. L’assenza di un adeguato impianto storico-dialettico

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conduce, inevitabilmente, ad isolare Politico ed Economico, a divaricare forme ed “automovimento”. Le scissioni della società presente vengono ad essere registrate empiricamente, le loro referenze contenute in uno schema trascendentale, ma non si transita dalla classificazione de facto a pensare la dialettica delle forme, la connessione delle “cerchie particolari”, guadagnandone la verace mediazione, la reale unitàdistinzione (cioè, appunto, il medesimo tipo di rapporto che Croce costantemente cercherà, via via, di definire in qualità di dispositivo centrale della “filosofia dello spirito”, mirando ad attivare debitamente la mediazione, senza mai, però, stringerla compiutamente). Ciò si coglie assai bene, crediamo, nella disamina del tema della caduta del saggio di profitto. Certamente vien stretto con lucidità come il permanente reinvestimento del capitale accumulato nella implementazione tecnologica del capitale fisso non acceleri nessuna “crisi finale”, nessun “crollo” del capitalismo, ma anzi, entro taluni limiti tendenziali, «contribuisca a rendere il lavoro sempre più produttivo e di risorse e di valori»182. Tuttavia, l’ipoteca dovuta all’intersezione di formalismo (declinabile, anzitutto, in chiave di “apriorismo”, rinviante alla statuizione trascendentale) ed occulta – ma inepulsa – fallacia empirio-naturalistica – traducentesi, anzitutto, in un certo, celato esito classificatorio – presuppone, nell’ipotesi del caso, quali sincronicamente già raggiunte tutte le condizioni ed i fattori della innovazione tecnica. Ciò ripugna alla costituzione logico-storica dei reali movimenti sincronici della riproduzione, e, dunque, indebolisce ed oscura il processo effettivo del saggio di profitto – da connettersi alla fisiologicità della crisi nel quadro capitalistico –, atteso, appunto, nella sua incidenza propriamente tendenziale (che Croce, in

182. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 42-43.

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senso generale, asserisce con nettezza e, almeno in certa misura, avverte nella sua profonda rilevanza concettuale). Del resto, giusto la considerazione della questione della caduta tendenziale del saggio di profitto esibisce il profilo ancipite del programma revisionistico crociano, il quale sembra “dimidiare” le risorse ermeneutico-politiche, da impiegare nei riguardi della realtà storico-sociale, offerte dalla Kritik, anzitutto in virtù della adesione all’“economia pura”. Adesione dettata da un orientamento concettuale inevitabilmente vocato all’ipostasi, e perciò congruente ad una concezione fissa dei ruoli egemonici (malgrado la considerazione, che diverrà sempre più chiara, della crucialità non solo del contributo dei gruppi dominanti ma pure di quelli subalterni183), alla preservazione del comando politico della classe dirigente in essere, e, di conseguenza, alla divaricazione di teoria e movimento di fronte alla medesima costituzione in soggettività politica del movimento operaio. Tale “linea di condotta” appare organica, del resto, ad un implicito disegno di “rivoluzione passiva”184 combinantesi, rispetto alla revisione dell’armamentario della Kritik, con la riduzione del materialismo storico a semplice canone empirio-storiografico185. 183. Cfr. in merito le considerazioni presenti in Id., Il primato del “fare” e la “religione della libertà”, raccolto in Politica e storia, cit., pp. 75-101. 184. Sul profilo di Croce quale “punta avanzata” della rivoluzione passiva secondo la lettura del dirigente comunista cfr., fra gli altri, la Introduzione di Montanari alla antologia di Gramsci da lui curata La questione meridionale, Palomar, Bari, 2007, pp. 41-43. 185. Il complesso di queste ultime considerazioni è da leggersi in contrappunto alla posizione espressa da M. Montanari nel suo Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., p. 42 (che riprende le tesi del precedente La rifondazione della “ragione storica” di B. Croce, cit., pp. 21-39), in polemica con le argomentazioni di R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 149-172. Il lettore non avrà difficoltà ad accorgersi del fatto che la presente prospettiva analitica cerca di collocarsi in una posizione in un certo senso mediana e dialettica rispetto a questi due importanti poli interpretativi.

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Se ne ricava che Croce percepisce con autentico acume le linee costitutive e le alternative interne alla modernità, ma il suo orientamento analitico – condizionato strutturalmente dall’omologia tra impianto epistemologico-catergoriale e conservatorismo ideologico-politico – scorge, sì, le potenzialità diffuse nel “mondo delle merci”, senza, però, ammettere la possibilità di una inedita ridefinizione del lavoro nella chiave della realizzazione storica della libera attività creatrice. In essa, d’altra parte, si risolve il “sogno di una cosa” di cui Marx parla in una celeberrima lettera a Rouge186. Vale la pena, tuttavia, fermare ulteriormente l’attenzione sui caratteri di tale cognizione della contemporaneità ricavabili dalla strategia di revisione in esame. Come accennato, a suo centro si pone, pur non venendo adeguatamente esplorato, il nodo della costituzione politica del mercato. Alla luce dei limiti e delle ambiguità tratteggiate, siamo adesso in condizione di cogliere fin dove si arresti la trattazione in merito, segnalandone gli aspetti di acutezza, i condizionamenti ed i motivi di fallacia.

5. La costituzione politica del mercato Il nodo dal quale partire è ancora quello delle oscillazioni circa l’idea “pura” di economia. Un luogo importante in proposito è rappresentato dalla discussione delle tesi di Pareto svoltasi nel 1900 e poi prolungatasi nell’anno successivo (e nel

186. Il riferimento va alla celebre Lettera a A. Rouge del settembre 1845, in K. Marx, F. Engels, Opere, III, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 156. Sul suo significato cfr., fra gli altri, M. Montanari, La libertà e il tempo – Osservazioni sulla democrazia tra Marx e Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 41-65.

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1906187). Il referente della interlocuzione è dato dalla memoria, presentata da Pareto nel dicembre 1898 alla Società “Stella”, Comment se pose le probléme de l’économie pure, e da un articolo apparso sul “Giornale degli economisti” nel marzo del 1900, che anticipava le argomentazioni del Manuale di economia politica, dato alle stampe nel 1906. Alle lettere di Croce Pareto replicherà con una prima missiva, Sul fenomeno economico, comparsa sul “Giornale degli economisti” dell’agosto del 1900, e con una seconda pubblicata sul numero del febbraio 1901188. Nella prima lettera Croce restringe con nettezza gli elementi di sua condivisione dell’ottica edonistica e, soprattutto, respinge l’accezione meccanicistica dell’Economia. «Il fenomeno economico» – egli dice – «è l’attività pratica dell’uomo in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni cognizione morale e immorale»189. L’opzione di isolare tout court l’Economico appare qui bandita, stante l’affermazione della sua coincidenza con la dimensione pratica (in seguito significativamente riformulata), anche se, come subito vedremo, le cose non stanno in maniera davvero così semplice, giacché il discorso torna a toccare le coordinate fondamentali che abbiamo approssimato. Prima di arrivare a spiegare le ragioni di ciò, dobbiamo porre mente all’argomentazione da Croce avanzata nella seconda lettera, proseguendo quella esposta nella missiva precedente: «Voi parlate» – scrive – «di ritagliare da un fenomeno concreto una fetta, e studiare que187. B. Croce, Economia filosofica ed economia naturalistica, in “La Critica”, n. 1, 1906, poi raccolto nella seconda edizione di MSEM, pp. 203-262. 188. Per la ricostruzione della discussione Croce-Pareto cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., pp. 409-428 (tale ricostruzione viene condotta, però, – lo ribadiamo – su basi analitico-teoriche generali assai discutibili dal nostro punto di vista). Va ricordato che Croce recensirà aspramente anche il Trattato di sociologia generale coll’articolo raccolto in Conversazioni critiche, IV, Laterza, Bari, 1951, pp. 167-169. 189. MSEM, p. 230.

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sta soltanto: ed io vi domando: come farete a ritagliare quella fetta? Giacché si tratta in questo caso non di un pezzo di pane e di cacio in cui possiamo introdurre materialmente il coltello, ma di una serie di rappresentazioni, che abbiamo nella nostra coscienza, nelle quali non possiamo far penetrare se non la luce del nostro intelletto analizzatore. Voi dovete, dunque, per tagliar la fetta, compiere un’analisi logica; ossia far prima ciò che vi proponete far dopo. Il vostro “tagliar la fetta” è già un risolvere la questione del quid., nel quale consiste il fatto economico. Voi presupponete un criterio per distinguere ciò che oscurate come oggetto della vostra esposizione e ciò che lasciate in disparte. Ma il criterio, o il concetto direttivo, non può esservi dato se non dalla natura stessa della cosa, e dovrà a questa conformarsi»190. Nella sua memoria e nei brani anticipanti il Manuale Pareto aveva esposto il proprio programma scientifico di introflesso isolamento dell’economia pura, della sua struttura191. Il sociologo intendeva autonomizzare i comportamenti economici dall’insieme dell’azione sociale, designandone la legalità interna secondo un paradigma analogo a quello della meccanica razionale: «Come la meccanica razionale» – egli dice – «considera punti materiali, così l’economia pura considera l’homo œconomicus. È un individuo astratto, senza passioni né sentimenti, che in ogni cosa ricerca il massimo del gradimento, senza occuparsi d’altro che di trasformare i beni economici gli uni negli altri»192. Tanto nella precedente discussione critica circa le argomentazioni del Racca, risalente all’anno prima, compiute nell’articolo Recenti interpretazioni

190. Ivi, pp. 232-233. 191. Sul pensiero di Pareto cfr., fra gli altri, G. Sola, La teoria delle élites, Il Mulino, Bologna, 2000. 192. V. Pareto, Comment se pose le problème de l’économie pure, in Marxisme et économie pure, Librairie Droz, Genève, 1966, p. 106.

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del marxismo193, quanto nell’articolo nel 1906 di esplicita polemica con il Manuale di Pareto, Croce ribadirà apertamente l’impossibilità di adottare un principio univoco di riduzione dell’economia ad una certa legalità ad impianto meccanicistico. Così facendo il filosofo di Pescasseroli sembrerà avvertire (come accennato, del resto, in altri luoghi evocati e malgrado l’impostazione antihegeliana in cui questa argomentazione era immersa) l’esigenza di non giustificare le dinamiche economiche sulla base del mero intervento del Verstand, il quale vede coincidere operare separante ed atteggiamento formalistico-astraente, per stare alla ben nota focalizzazione critica di Hegel194. Si tratta di una consapevolezza analoga a quella espressa nella recensione a Stammler. Persino la stessa nozione di “homo œconomicus” che – come sappiamo – gli appare latu sensu “accettabile” quale “parziale” principio gnoseologico in grado di orientare una legalità generale-‘coprente” di riferimento, trascendentalmente postulata, si rivela, secondo Croce, tendenzialmente forviante se elevata a dimensione integralmente esaustiva, poiché dissocia alcune ristrette dinamiche di maturazione e soddisfazione dei bisogni, giustapponendovi la generalizzazione della dimensione fisica dell’individuo. Ne viene che pure la costruzione di una dimensione di legalità dove “giustificare” le insorgenze empiriche assume valenza “regionale” (a dispetto, quasi paradossalmente, della critica metodologistica rivolta nei riguardi di Marx) in forza del suo statuto, per così dire, “postulatorio”. Ciò spiega, d’altra parte, perché Croce sembri comunque accogliere come principio economico orientante l’“atto di scelta”, seppure respigendo il

193. Ci riferiamo al testo Marxismo ed economia pura, apparso in “Rivista italiana di sociologia”, III, 1889, poi raccolto in MSEM, pp. 163-175. 194. Su questo aspetto in Hegel cfr., fra gli altri, B. De Giovanni, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, in Id., Il tramonto del “Principe”, prefazione di M. Ciliberto, Guida, Napoli, 2012, pp. 120-122.

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quadro di una motivazione epistemologica generale195. Ad ogni modo, a tale nozione risulta correttamente preferita, entro il presente versante, quella di “uomo storico”, poiché maggiormente in grado di porre in luce l’intreccio di nessi materiali e concreti raccolti nella realtà sociale. Nessi riverberantisi, primariamente, proprio sulla propensione al consumo e sugli indirizzi di mercato. Parliamo, in definitiva, di quei «gruppi di fatti particolari», che già abbiamo incontrato, pertinenti l’intiera gamma della organizzazione e della riproduzione della vita196. Sarà proprio concentrandosi su questo insieme di riferimenti che diverrà possibile – crediamo – cogliere i limiti e le asimmetrie presenti entro siffatta, ulteriore propaggine della ricerca crociana intorno a Marx ed all’economia politica nel suo insieme. In prima istanza, non v’è dubbio che Croce, contestando il carattere della strategia paretiana di autonomizzazione dell’economia politica, risulti approssimare alcuni elementi di critica verso la medesima logica del presupposto e l’inclinazione all’ipostasi che percorre ed innerva l’edonismo economico. Dippiù: richiamando all’esigenza di “conformare” il “concetto direttivo” dell’analisi «alla natura stessa della cosa», Croce, sia pure sulla scorta di un differente lessico, sembrerebbe declinare il tema della “non isolabilità” dell’Economico proprio aprendo alla prospettiva della ricomposizione dialettica della genesi e della costruzione logico-storica dell’oggetto cui corrisponde. Gli è, tuttavia, che il modo in cui viene assunto il requisito analitico consistente nel ricusare preliminarmente la propensione ad autonomizzare tout court il campo economico si rivela dissolvere le implicazioni che gli sono prima facie

195. A. Macchioro, Lineamenti per una storia dell’economia politica 19001950, cit., p. 523. 196. Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., p. 38.

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attribuibili se solo se ne considerano i modi di soddisfazione. Rigettare il mero isolamento unilaterale dell’economia significa, innanzitutto, per Croce, contemplarne la formazione plurifattoriale. Sotto un certo aspetto, egli, così facendo, sembrerà recepire, ad ogni maniera, quello che appare il conseguimento maggiormente produttivo del marginalismo della Scuola di Vienna (intravisto, sia pure in termini ribaltati, da Labriola197 ed approfondito, successivamente, da Gramsci198), ovverosia il principio per cui, nella società di massa, la propensione al consumo, i comportamenti e le misure di regolazione a quest’ultimo correlate, non sono da annettere – per ricorrere al linguaggio del marxismo tradizionale-ortodosso (davvero bisognoso di “revisione”!) – al mero momento sovrastrutturale, ma risultano ineludibili in vista della qualificazione degli effettivi soggetti sociali. D’altra parte, come si è visto, il canone con il quale il pensatore di Pescasseroli ritiene di stringere la pluralità dei fattori non si rivela altro che quello della loro composizione per una via sostanzialmente ripiegante, “inconfessatamente”, sul lato della classificazione funzionale, la quale ne esclude l’autentico guadagno della vicendevole mediazione e del reciprocarsi. Ne viene che il loro ambito di connessione si mostra istituito dalla individuazione di un vettore esterno alle cerchie – a cominciare dall’economia – ed alle dinamiche che le contrassegnano, in grado di classificarne la disposizione, registrandone sul piano meramente empirico il sistema di collegamenti interni e le incidenze “ulteriori” (appartenenti ad altre cerchie, ed isolate ai fini della ricognizione analitica) su di loro riflettentisi, allo scopo di “giustificarle” en-

197. Sul tema ci permettiamo di rinviare al nostro Saggio introduttivo, cit., pp. 275-292. 198. Cfr. in merito M. Montanari, Costituzione dei soggetti e tempo storico nell’età dell’americanismo, raccolto in Id., Studi su Gramsci, PensaMultimedia, Lecce, 2002, p. 113.

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tro una legalità sovraordinata. Così, le opportunità sollecitate dalla assoluta possibilità di «conformare» l’impianto analitico alla «natura stessa della cosa» trovano subito un contrappasso rispetto alla loro potenzialità “dialettica”. La strada che Croce continua a considerare unicamente percorribile è quella della organizzazione empirica di «gruppi di fatti particolari» e del loro padroneggiamento “esterno”, dunque incapace di restituirne l’insieme delle vicendevoli mediazioni storico-sociali. Se il germe ermeneutico-politico presente nel suo equipaggiamento categoriale e la sua indubbia maturità dottrinale lo terranno lontano dalle varie forme di ingenuità e di riduzionismo di maniera, consentendogli di cogliere la non isolabilità, a rigore, dell’Economico, tuttavia tale istanza finirà per tradursi e capovolgersi nel ricorso allo schema della composizione empirica della pluralità dei fattori. Egli rifiuterà – all’opposto di Pareto – di presupporre l’autoreferenza dell’Economico, cristallizzandone i confini e l’attribuito meccanicismo nell’autosufficiente organizzazione interna, ma concluderà, ad ogni maniera, ad affidare alla teoria una sorta di univoco ruolo di “sismografo” delle dinamiche dell’Economico, intese come massimamente differenziate e, d’altra parte, in quanto passibili di esser “contenute” in una postulata legalità generale fungente da loro cornice trascendentale, ed attesa, vieppiù, quale in grado di garantirne l’impiego dei referti in una chiave considerata epistemologicamente “legittima”. L’in-mediato sporgere dei fattori si trova, dunque, inevitabilmente ipostatizzato poiché, comunque, ricondotto ad un determinato procedimento di elevazione del dato empirico qua talis – corrisposto al molteplice delle manifestazioni fenomeniche – alla dimensione di una legalità generale ove la relazione tra i fattori vige soltanto nella unilateralità dell’“implicazione”. Donde l’omologia strutturale forte colla enucleazione dell’impianto della teoria dei gradi, la quale, in effetti, dando luogo a molteplici riflessi concettuali, pone la verace “distinzione” dei grandi-

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‘distinti” (e, dunque, il momento – necessario ma considerato avere una disposizione meramente funzionale-subalterna – della “opposizione”, e solo in certa accezione, della “contraddizione’) al di fuori di essi e della loro costituzione formale (appare significativo, ci pare, in termini di periodizzazione del pensiero crociano, il fatto che l’articolo in cui il filosofo ribadisce, sostanzialmente, gli argomenti delle due missive a Pareto, dedicato ai contenuti del Manuale di economia politica, uscito il medesimo anno, Economia filosofica ed economia naturalistica, risalga alla stessa data, il 1906, dello studio Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, in cui – come desumibile dalle nostre precedenti osservazioni – emergono analoghi problemi ed asimmetrici esiti). L’omologia in questione trova tra le principali motivazioni la reazione alla già richiamata crisi convergente del ricardismo e delle formulazioni ortodosse della nozione hegeliana di “spirito oggettivo”. Questa scaturirà l’esigenza – certo, di per sé, anche aperta a produttive opportunità – del ripensamento dell’idea di unità. Ripensamento che si vedrà tradotto, però, nella chiave del suo stesso (fittizio) conseguimento per mezzo della concentrazione della teoria nell’esercizio di una funzione estrinseca di raccordo199. Parliamo di una concentrazione separata che troverà come diretto corrispettivo la concezione della storia come storia degli intellettuali200 (scandita dall’intervento delle “mosche cocchiere”, secondo la fortunata suggestione gramsciana201). Alla presente altezza, il tentativo di non isolare dall’articolazione complessiva del processo reale la cerchia speciale definita dall’Economico si capovolge e si declina nella mera registrazione delle tensioni interne a tale cerchia, senza render conto delle linee 199. Cfr. R. Racinaro, La crisi del marxismo, cit., p. 163. 200. Cfr. in merito, fra gli altri, B. De Giovanni, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo di Stato, cit. 201. Il riferimento gramsciano va, naturalmente al § 1 del Q. 10.

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di mediazione rinvianti ad un più ricco campo formale ed alla dialettica del mutamento politico-egemonico. Il che collima con quanto ci si era proposto di dimostrare. I precipitati ulteriori di questo spurio e, in certo senso, ancipite approccio debbono essere, però, ulteriormente chiariti. Lo faremo considerando la critica che Croce rivolge alla categoria paretiana di “ofelimità”. Essa si trova svolta, in particolare, nella prima lettera a Pareto, ove leggiamo: «Il vero è, che ogni atto di scelta economica è, insieme, un fatto di sentimento: di sentimento piacevole, se la scelta è economicamente ben condotta; di sentimento spiacevole, se è mal condotta. L’attività dell’uomo si volge non sotto la campana pneumatica, ma nella psiche umana: e un’attività, che se si volge bene, reca come riflesso un sentimento di piacere, e quella che si volge male, un dispiacere. L’utile economico è, insieme, piacevole. Sennonché, questo giudizio non è convertibile. Il piacevole non è l’utile economico […]. Il piacevole può apparire scompagnato dall’attività propriamente umana, o accompagnarsi a una forma umana che non sia l’economica». Come si vede, Croce, coll’approfondirsi della riflessione, precisa quale elemento di debolezza interno all’edonismo economico la diretta conversione nel giudizio di “piacevole” ed “utile economico”. Se l’utile economico esige di portar con sé il contenuto di piacevolezza non è, tuttavia, legittimo – egli ragiona – restringere il campo del secondo allo specifico del primo. Piuttosto, l’ambito dell’Economico, non risolvendosi nell’ofelimo, che pure ne definisce una componente di sicura importanza, corrisponde, entro la presente ottica, alla manifestazione della prassi umana guidata dalla volontà («Qui è la distinzione profonda» – dice Croce – «tra piacere e scelta. La scelta è, in concreto, inseparabile dal sentimento di piacere e di dispiacere, ma questo sentimento è separabile della

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scelta, e si incontra, infatti, indipendentemente da essa»202). Sporge, così, uno degli aspetti dell’impegno del filosofo sugli argomenti dell’economia politica già spiccatamente riconducibile ad una prospettiva di “storicismo assoluto”. Gli è che la volontà tratteggia l’agire economico non solo nella chiave della mera iterazione naturale uomo-ambiente (consistente nella soddisfazione degli appetiti basici), bensì, soprattutto, in quella della trasformazione soggettivo-intenzionale del sistema obiettivo-ambientale. In merito, l’implicito sedimento di un ingrediente concettuale che raggiungerà, comunque, un tratto compiuto con la elaborazione matura della “filosofia dello spirito”, mostra qui un particolare grado di forza. Nella prima lettera a Pareto, infatti, sulla base delle presenti coordinate, egli invigorisce argomenti avanzati sin dalla polemica con Loria nel 1896, e destinati ad essere successivamente ribaditi nella discussione critica circa i contenuti del Manuale di economia politica, svolta nel febbraio del 1906. Croce pone a bersaglio la variante dell’economicismo consistente nella naturalizzazione dell’Economico operata dal determinismo tecnologico. Ecco come ragiona: Nella conoscenza […] trova, se non giustificazione, spiegazione il vostro distinguere “azioni logiche e illogiche”. Le azioni economiche sono sempre (diciamo pure così) azioni “logiche”, cioè precedute da atti logici;ma bisogna tener distinti i due momenti, il fatto dal suo presupposto. Giacché dalla mancata distinzione dei due momenti è nata l’erronea concezione del principio economico come fatto tecnologico […]. A chi voglia scorgere a colpo d’occhio la differenza tra il tecnico e l’economico, suggerirei di considerare bene in che consista un errore tecnico, ed in che un errore economico. È errore tecnico l’ignoranza delle leggi della materia sulle quali vogliamo operare: per esempio, ritenere che si possano porre

202. MSEM, p. 226.

144 travi di ferro molto pesanti sopra mura molto sottili senza che queste rovinino. È errore economico non mirar dritto al proprio fine: voler questo e insieme quello, ossia non voler veramente né questo né quello. L’errore tecnico è errore di conoscenza; l’errore economico è errore di volontà. Chi sbaglia tecnicamente sarà chiamato (se lo sbaglio è grossolano) ignorante; chi sbaglia economicamente, è uomo che non si sa condurre nella vita 203.

La logica ed il ritmo dell’Economico non debbono venir isolati secondo il modello e la legalità di un mero circuito naturale, scandito causalmente-deterministicamente, sul quale ritagliare il contenuto epistemico (dissociando l’elemento conoscitivo dalla volontà). L’una e l’altro attengono, piuttosto, alle medesime volontà e scelte operate dalle soggettività effettive. Analogamente alla mera contrapposizione rigida fra natura e storia (che ne elude i termini del ricambio organico – mostrato da Marx – e della surdeterminazione mediatrice della prima da parte della seconda), tecniche produttive e bisogni vengono ad essere contrapposti ai criteri di scelta, alle forme di regolazione, ai programmi espressi da precisi soggetti sociali204. È di qui che scatta la problematizzazione critica di Croce. Ne derivano due principali conseguenze, raccolte attorno al tentativo – sicuramente precario – del superamento della scissione fra agire economico ed agire politico. Tentativo che condizionerà il successivo sviluppo e la articolazione della “filosofia dello spirito” nei suoi aspetti maggiormente riconducibili ad una impostazione propriamente storicistico-assoluta205. Un siffatto

203. Ivi, pp. 228-229. 204. Per le osservazioni svolte siamo debitori nei riguardi di M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 38-39. 205. Una mirabile sintesi circa la nozione di “storicismo assoluto” è quella compiuta in Id., Difesa dello storicismo, in Percorsi del moderno – Studi di storia della filosofia politica, PensaMultimedia, Lecce, 2003, p. 83-108.

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riassorbimento definisce la cornice teoretico-strategica ove si realizza la rottura con ogni soluzione di isolamento naturalistico dell’Economico, di sua sottrazione all’influenza di soggetti organizzati ed istituzionali206. Quanto appena osservato conferma l’ambiguità dell’atteggiamento crociano, invigorendone, indubbiamente, entro il presente versante, il potenziale di produttività. Non è chi non veda, infatti, come entro la presente propaggine Croce sembri davvero recepire quello che è forse il cuore del paradigma della Kritik: l’esibizione della impalcatura dinamica dello spazio economico-sociale nel suo denso carattere politico di confliggenza e di mediazione storica. Lo spunto di circoscritta critica dell’ofelimo ne implica, almeno in parte, il conseguimento conoscitivo, esplicantesi nell’affermazione della impossibilità di ridurre l’Economico alla designazione di una univoca legalità formale correlata solamente alla fissazione di comportamenti individuali, considerati in quanto privi di legami con la dimensione storica, atomizzati, presupposti come svincolati da qualsivoglia condizione di reciprocità ed interdipendenza. Tuttavia, il discorso trova, sempre di nuovo, un complessivo contrappasso, collegabile proprio all’assunzione del criterio di riconduzione ad una legalità “contenente”, postulata in senso trascendentale. Lo sforzo consistente nell’affermare la necessità di adottare dispositivi analitico-ermeneutici della società in grado di lumeggiare la nerbatura politica dei rapporti economici si scontra, infatti, con un genere di approccio che, se rifiuta di immetterli sic et simpliciter in uno schema di matrice naturalistica di giustificazione dei fattori empirici, li classifica ammettendone gli elementi di relazione senza, tuttavia, far emergere la totalità dialettica, e sostituendovi, altresì, la disposizione di una legalità formale-trascendentale coincidente con le basamenta della strumentazione adottata dall’“economica pura”. Torneremo 206. Cfr. Id., Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., p. 39.

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sullo specimen di questa fra un attimo. L’avvertita esigenze di penetrare la costruzione politica dello spazio di mercato non trova riscontro, dunque, nella elaborazione di un impianto epistemologico adeguato a tale scopo. Quello adottato, infatti, si rivela organico, de facto, alla divaricazione tra logica delle forme ed automovimento, congruente, a sua volta, alla medesima scissione di teoria e movimento. Parliamo – va ribadito – di una sorta di Entzweiung egemonicamente segnata poiché commisura all’opera di sfibramento categoriale – concentrata per intero nell’introduzione del dispositivo del “paragone ellittico” –, a sua volta intesa a mantenere in una condizione di netta subalternità la soggettività del movimento operaio. Orbene, diviene doveroso riprendere il nostro sondaggio entro la più estrema propaggine della meditazione crociana circa i problemi dell’economia politica, vagliando gli ulteriori precipitati della contestazione, tanto chiara quanto circoscritta, del principio di autonomia dell’Economico; evidenziandone più strettamente il nesso con la valutazione delle tesi marxiane. È da osservare che il precetto acquisito da Croce della non dissociabilità dell’Economico dalla complessità del sistema storico-sociale – condensato e spinto all’estremo della compenetrazione con l’«attività pratica dell’uomo […], indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale» –, trova palmare sedimento sin da un testo di diretto confronto con Marx quale è, ad esempio, il Per la interpretazione. In esso è dato imbattersi in una sagace polemica diretta verso il vuoto di realismo storico-politico delle posizioni orientate al liberismo economico. Vuoto traducentesi, sul piano gnoseologico, nella impossibilità di elaborare un autonoma teoria dei soggetti storici. Guardando alle «tendenze obiettive della società moderna», Croce afferma di non sapere «davvero con qual animo molti liberisti gratifichino il socialismo della taccia di utopia», ed argomenta, inoltre:

147 Con ben altra ragione i socialisti potrebbero ricambiare con la stessa taccia il liberismo, se lo studiassero quale è presentemente e non già qual era cinquanta anni fa, quando il Marx pensava la sua critica. Il liberismo si rivolge con le sue esortazioni a un ente che, ora almeno, non esiste, […], perché la società presente è divisa in gruppi antagonistici e conosce l’interesse di ciascuno di questi gruppi, ma non già, o solo assai debolmente, un interesse generale. Sopra chi contano i liberisti? sui proprietari di terre o sugl’industriali, sugli operai o sui detentori di titoli pubblici? Il socialismo invece, dal Marx in poi, ha fatto ben piccolo assegnamento sulle buone intenzioni e il buon senso degli uomini, ed ha affermato che la rivoluzione sociale deve compiersi principalmente per la forza di una classe direttamente interessata, che è il proletariato207.

Il principio della non isolabilità dell’Economico si salda, dunque, alla consapevolezza per cui il marxismo non può essere criticato in qualità di pura “mitologia”, destituendolo di ogni attrito cognitivo (senza perciò accoglierne, evidentemente, l’attribuita struttura epistemologica) e di efficacia storico-reale. È in tale direzione che l’autore di Pescasseroli contrasta sia l’operazione di Pareto ed altri, i quali pretendono di associare al liberismo uno statuto di integrale scientificità, sia la via soreliana di riduzione iperattivistica del marxismo. D’altra parte, proprio quest’ultima conferma, secondo la diagnosi crociana, la capacità del marxismo di convertire la propria opzione di “critica della società civile” nella costituzione di attori sociali dotati di soggettività, almeno in certa misura, autonoma, e capaci di incidenza. Persino la concezione soreliana del socialismo come “mito” dimostra, cioè, malgrado il suo parziale carattere magistico ed il suo soggettivismo, la facoltà di mobilitazione ed unificazione della volontà collettiva che le indicazioni di matrice marxiana riguardo alla determinazione 207. MSEM, p. 13

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ed all’orientamento del mutamento sociale possono essere in grado di esercitare208. In merito al riconoscimento del potenziale di attivazione storica presente nella prospettiva dischiusa da Marx ci sovviene un passo dell’articolo dedicato alla discussione con Stammler: Il socialismo non può appoggiarsi sopra un’astratta teoria sociologica, perché la base sarebbe insufficiente appunto perché astratta; […] Esso invece è un fatto complesso e risulta da elementi svariati; e, per quel che concerne la storia, il presupposto del socialismo non è una filosofia della storia, ma una concezione storica determinata dalle condizioni presenti della società e dal modo in cui questa vi è pervenuta 209.

Entro il versante in esame possiamo ravvisare uno dei passaggi ove risulta operata una sorta di tesaurizzazione implicita della lezione di Labriola, – anche se sotto le spoglie del ribadito contrasto della predicazione, attuata dal Cassinate, della prospettiva marxiana in quanto ultimativa “filosofia della storia”, attuato tralasciandone forzosamente il requisito consistente nel segnarne, con la sua epocalità, una variante strategia del

208. Il giudizio crociano su Sorel è reso chiaro in Cristianesimo, socialismo e metodo storico, testo che recensisce Le système historique de Renan, apparso in “La Critica”, 1907, e poi raccolto in Conversazioni critiche, Laterza, Bari, 1924, pp. 306-322; ma occorre ricordare anche i contenuti della celebre, già richiamata intervista su La morte del socialismo (1911). Sul rapporto di Sorel con Croce cfr. S. Onufrio, Introduzione a G. Sorel Lettere a B. Croce, De Donato, Bari, 1980; e Id., G. Sorel e il marxismo, cit.; Considerazioni su Croce e Sorel, in G. Sorel – Studi e ricerche, a cura di V.I. Comparato, Olschki; 1974, pp. 141-153. Sullo specifico della posizione di Sorel cfr. inoltre, M. Maggi, La formazione dell’egemonia in Francia – L’ideologia sociale nella Terza Repubblica tra Sorel e Durkheim, De Donato, Bari, 1972; N. Badaloni, Le riflessioni di Sorel sulla scienza, cit., pp. 22-31; G. Righi, Considerazioni su Sorel, “Rivista Rosminiana”, LXV, 1971, pp. 270-281; M. Gervasoni, G. Sorel – Una biografia intellettuale, Unicopli, Milano, 1997. 209. MSEM, p. 122.

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tutto diversa dalle precedenti210 (tant’è che lo stesso Croce parla giustamente dell’esigenza, nel caso, di «non appoggiarsi sopra» un «sistema o piano prestabilito»). Tale ripresa tematica si accompagna alla riproposizione del già esaminato movente della riduzione del marxismo a canone empirio-storiografico, motivante anche il tentativo di sua destituzione proprio in qualità di “filosofia della storia” (benché, appunto, in accezione “ultima” e del tutto innovativa). Assistiamo, certamente, dunque, al ripresentarsi di uno sforzo di indebolimento del profilo “reagente” dell’appartato categoriale derivato da Marx, dato che la negazione della sua capacità di esprimere un’autonoma “filosofia della storia” vale, entro questo versante, in quanto misura mirata a delegittimarne la possibile facoltà di ricomposizione. Misura concettuale poggiata su un sostanziale oscuramento del nodo della totalità. Tuttavia, non è chi non veda come a siffatto elemento si combini un riconoscimento molto forte verso Marx e lo svolgimento della sua eredità. Riconoscimento che conferma a pieno l’ambiguità del discorso crociano. Il nostro autore sembra tener ferma, infatti, la considerazione del marxismo teorico, e della sua influenza politica, in quanto scaturente da una «concezione storicamente determinata» del presente e della sua genesi, capace di tradursi nella costruzione di soggettività immesse nella obiettività del processo reale e chiamate ad articolarlo, scandendone la complessa costituzione temporale. Considerazione in sé ricollegabile, appunto, alla stessa elaborazione labrioliana, ma anche collocabile a monte della ben nota definizione di Marx quale “Machiavelli del proletariato”. Definizione incline, comunque, con plurime

210. Così come Labriola osserva in un celebre passo dell’In memoria. Cfr. sul tema, fra gli altri, i saggi di G. Cacciatore, Labriola nello storicismo e Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in Labriola da un secolo all’altro – Saggi, Rubettino, Soveria Manelli, 2005, p. 3-234 e 55-81.

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valenze, a comprimerne in chiave “esclusiva” il ruolo entro la tradizione del realismo politico211. Su un punto sentiamo, soprattutto, il dovere di battere: quando Croce pone a frutto la presente percezione del contributo di matrice marxiana svolge, a rigore, conducendola alle estreme conseguenze, la critica del determinismo economicisticotecnologico. Vi è, quindi, un intimo collegamento tra l’ammissione della facoltà del marxismo di scaturire la formazione di soggetti politici che in effetti strutturano ed organizzano il mercato e l’orizzonte sociale, da un lato, e la qualificazione dell’Economico come esito di azioni volontarie, da un altro. La stessa presenza del valore non può essere colta isolandola attraverso l’esclusivo calcolo matematico. Questa diviene davvero giustificabile solo all’interno della cornice complessiva dell’agire sociale, e, di conseguenza, all’insegna della relazione qualitativa che l’“uomo storico” stabilisce con la sfera d’insieme dei nessi obiettivi. Dice Croce in Marxismo ed economia pura:

211. Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., p. 41. La fortunata definizione di Marx quale “Machiavelli del proletariato” si trova avanzata, com’è noto, alla conclusione del saggio Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, ove si legge, appunto: «Il Marx, come sociologo non ci ha dato, di certo, definizioni sottilmente elaborate della “socialità”, come se ne possono trovare nei libri di qualche sociologo contemporaneo, dei tedeschi Simmel e Stammler o del francese Durkheim; ma egli insegna […] a penetrare in ciò che è la società nella sua realtà effettuale. Anzi, per questo rispetto, mi meraviglio come nessuno finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo di onore, il “Machiavelli del proletariato”». (MSEM, p. 118, corsivo nostro). Sulle ragioni di questa immagine cfr., fra gli altri, le acute osservazioni di F. Izzo in Croce: Macchiavelli e la storia della filosofia della politica, in Croce e Gentile. La cultura Italiana e l’Europa, cit., p. 381, e di M. Montanari in Croce e Gentile interpreti di Macchiavelli. Due concezioni della politica a confronto, in Politica e storia, cit., pp. 125-126.

151 Il linguaggio matematico avrà, in certi casi, taluni vantaggi; ma il pericolo che porta seco è nel lasciar credere che il concetto economico, il quale è essenzialmente concetto di valore, di preferibile, di desiderabile, ossia di alcunché qualitativamente distinto, sia, invece, concetto quantitativo.

Il filosofo di Pescasseroli osserva, inoltre, che il «rapporto del valore» non consiste in «un rapporto aritmetico, o in alcun modo matematico, ma» in «un rapporto, in generis, qualitativo; e che le qualità diverse non si sommano, come non si sommano tre bovi con quattro cavalli»212. Troviamo qui concentrati tanto un motivo di sintonia quanto uno di discrimine nei riguardi delle principali tesi del marginalismo e dell’edonismo economico. Se, infatti, l’agire economico può essere adeguatamente “messo a fuoco” solo tenendo conto dell’estrema rilevanza del valore d’uso delle merci (che sia Croce che Böhm ritengono elusa dalla diagnosi della società capitalistica compiuta nel quadro della Kritik, senza stringerne, altresì, la sottolineatura della peculiare condizione subordinata, dalla peculiare portata), occorre rifiutare la pretesa di convertire il disegno di rigorizzazione dell’esame dei comportamenti economici nella versione della loro integrale matematizzazione, a ciò riconducendo l’intiero spettro dei bisogni materiali. È necessario riconoscere la diversa funzione produttiva dei bovi o dei cavalli – per stare all’esempio adottato – e considerarne a pieno l’incidenza. Altrimenti, si smarrirebbe la portata strategica dell’influenza esercitata dalla regolazione politica rispetto all’agire economico ed alla sua vocazione alla soddisfazione dei bisogni individuali. Del resto, l’idea della inseparabilità delle scelte economiche dalla volontà e dagli orientamenti ideali dell’uomo storico verrà ad essere ulteriormente approfondita, nel 1908, entro il capitolo della Filosofia della pratica dedicato, appunto, a La filosofia dell’economia e la così detta 212. Ivi, p. 173.

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scienza economica213. Pur non avendo adeguatamente guadagno il contenuto di dominio, politico-‘qualitativo” – se in tal maniera possiamo esprimerci – del meccanismo formale di riduzione quantitativa messo in atto dal valore-lavoro, Croce, ad ogni modo, approssima l’idea per cui l’adozione di una misura di equiparazione, per stare al nostro caso, fra buoi e cavalli risulta praticabile non già ascrivendola alla dimensione di una mera legalità naturale, bensì considerandola in qualità di strumento squisitamente tecnico. A questa è deputato, cioè, il compito di registrare l’incidenza egemonica di determinate volontà rispetto allo svolgimento dello sviluppo economico sul piano del calcolo delle risorse. Com’è evidente, si tratta di un approssimazione che, per un verso, si ricollega, in maniera circoscritta, all’intrinseco principio di classificazione già richiamato (coniugabile, se si vuole, pure in accezione convenzionalistica), per un altro, si lega apertamente alla lezione di Marx. Infatti, nell’istituita equivalenza fra le merci è dato cogliere, in senso analitico, un dispositivo in grado di fornire l’indice dei rapporti di forza tra le diverse volontà e soggettività sociali organizzate. Notare bene: non v’è dubbio che siamo di fronte ad una prospettiva nella quale si lascia intravedere una egemonia etico-politica determinata ove il dominio dell’astratto si rivela configurato dal medesimo carattere di realtà della equivalenza in discussione. Ciò si lega alla cognizione del valore-lavoro non in quanto puro concetto logico, bensì in quanto «fatto» da collocarsi «tra altri fatti», ma di cui, parimenti, deve essere riconosciuto l’attrito storico-reale214. Tuttavia, in congruenza alla elusione della portata strategica di organizzazione e con-

213. Cfr. in proposito, fra gli altri, M. Mustè, Filosofia della pratica, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, cit., pp. 131-133. 214. Per le osservazioni svolte, sia pure con accentuazioni diverse, siamo assai debitori nei riguardi di M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 39-41.

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dizionamento delle mediazioni interne alla realtà capitalistica contrassegnante la funzione di filtro formale esercitata dal valore-lavoro, dalla densità politica del contenuto di riduzione, egemonicamente caratterizzato, in questo raccolto, Croce si arresta, come già abbiamo sottolineato, alla mera registrazione del sistema di rapporti di forza che intramano la cogenza del “mondo delle merci”. Perciò egli non esce dal campo del riferimento – certo originalmente delimitato e postillato attraverso una adesione solo parziale – all’“economia pura”. La ricognizione degli attori, delle potenze capaci di innescare precise dinamiche di mediazione storica volte a realizzare la Verfassung politica del mercato, sembra avvertita da Croce, comunque, quale indispensabilmente bisognosa di esser articolata attraverso un impegno di formalizzazione limitato allo svolgimento di quella sorta di ruolo di “sismografo” rispetto a tali dinamiche che si è detto. Dinamiche concepite come tendenzialmente trasponibili nello spazio univoco, stando ancora alle affermazioni di Per la interpretazione e la critica, governato dal «massimo edonistico economico», identico al «massimo desiderabile sociale», e pensato in quanto pienamente «affermabile» sul terreno «della più completa libertà economica». Tenendosi stretto, come già accennato, alla tesi dell’“utilitàofelimità”, sebbene a determinate condizioni, e «finanche alla spiegazione (economica) del profitto del capitale dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri», Croce traccia il campo epistemico dove proiettare e giustificare in prospettiva generale le mobili traiettorie di organizzazione dei comportamenti di mercato. Tale veduta si trova ad essere integrata, poi, con le determinazioni storico-politiche afferenti alla funzione euristica assolta da fattori come quello del valore-lavoro, e forzosamente restituite, sul lato della analitica

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marxiana, in termini di «considerazioni comparative»215, cioè nella chiave dell’operare del “paragone ellittico”. Osserviamo: una simile esigenza di integrazione, che appare scaturita non solo dalla illustrazione dell’insufficienza ravvisata nell’impianto epistemologico della Kritik, ma dall’ampio, scansionabile in più momenti, sedimento del criterio di non isolabilità dell’Economico, conosce, sempre di nuovo, un immancabile ribaltamento. Gli è che ciò che potrebbe apparire come un tentativo di raccordo unitario sancisce e rende cogente, invece, la scissione tra il versante della generale “disposizione” dell’Economico medesimo – in cui può essere coinvolto, a rigore, anche lo stesso “valore” quale strumento tecnico di calcolo ridotto, secondo il più scarno schema ricardiano, a misura meramente ecceterativa216 – e quello del “riempimento” dovuto alla conflittualità ed alla mediazione storico-politica. L’ammissione della complessità della genesi e della costituzione dinamica del molteplice riconducibile all’Economico si profila in quanto riconoscimento del ricco insieme delle forze pratiche che incidono sulla dimensione mercantile, dello svolgimento differenziato della funzione unificante e mediatrice esercitata dalla forma-merce. Tuttavia, il richiamo alla eventuale applicazione di una legalità generale all’insegna della quale “collocare” i comportamenti economici e gli orientamenti merceologici e di consumo, a fronte della assunta illegittimità epistemica dell’opzione relativa alla costruzione del “ponte” fra “astratto” e “concreto”, lascia emergere – quasi attraverso un giuoco di proiezioni passive della condizione reale – i confini tecnico-

215. MSEM, p. 88. 216. Sul tema restano ancora assai valide le ottime pagine di F. Fistetti in Critica dell’economia e critica della politica. Marx, Hegel e l’economia politica classica, De Donato, Bari, 1946, pp. 17-42; e le indicazioni presenti nel notevolissimo saggio Althusser e la critica dell’economia politica, cit., pp. 88-91.

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cognitivi di una sfera speciale determinata. Insieme alla traduzione del principio di non isolabilità dell’Economico nel rifiuto di comprimerne la rigorizzazione della fenomenologia allo specifico matematico di quella “algebra universalissima” di cui parla Labriola (e con cui solo in certa misura Benedetto converge), i caratteri del collegamento del revisionismo crociano all’“economia pura” esibiscono, ad ogni maniera, l’istituzione del campo epistemico separato dove, in virtù della presente cornice strategica, l’economia si costituisce e, di fatto, si isola. Resta confermata, quindi, a fronte delle nostre considerazioni analitiche aggiuntive, la desumibilità dall’armamentario revisionistico della corrispondenza tra paradigma marginalistico-edonistico e definizione dell’Economico in quanto cerchia parziale-speciale. Entro il presente contesto, insomma, l’esigenza di non isolare l’Economico collassa al momento dell’effettiva emersione di una cerchia determinata nella sua effettiva parzialità. Parzialità che lascia slittare al suo esterno l’opportunità di stringere il quadro obiettivo dei rapporti in cui si rivela compresa la stessa trama logico-storica dei suoi nessi interni. Resta confermata, dunque, la esclusione della possibilità del padroneggiamento dialettico delle mediazioni che articolano l’intreccio di forme e processo. In fine dei conti, siamo di fronte a quella passiva replica della scomposizione teoria/movimento che riveste una influenza cruciale rispetto alla configurazione delle soggettività, alle condizioni della loro incidenza e/o della loro subalternità. Le caratterizzazioni in questione vengono ad essere segnalate in ordine alla costituzione del mercato, eludendo, però, la prospettiva di una ricomposizione in grado di riconquistare la totalità storica attraversata dalla produttività del mutamento217.

217. È questo l’aspetto che è merito di R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 149-152, aver messo in luce con particolare efficacia.

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Si manifestano, così, i prodromi della configurazione di un tipo di storicismo conservatore che non sembra poter ammettere il cambiamento di tipologia delle “cerchie”, dei “distinti” e della qualità dei loro vincoli. Proseguendo l’esame del carattere ambiguo della revisione crociana della Kritik dobbiamo ancora fermarci sul nodo relativo alla armatura politica dinamica che sorregge proprio l’organizzazione e diffusione della forma-merce; lumeggiando, vieppiù, le proficue sollecitazioni motivanti tanto l’aggancio al marginalismo quanto l’interlocuzione con Marx. Come già adombrato, nel disegno di Croce si avverte sia il riconoscimento del consumo e della sua continua espansione quale culmine della civiltà europea-occidentale, sia, connessamente, l’esigenza di esibire il ruolo dei lavori concreti produttori di valore. Tale esigenza richiama al problema, di vastissima portata, della dissociazione – ove si racchiude tutta la drammaticità della crisi europea – fra produttività e soddisfazione individuale, tra crescita della ricchezza ed investitura sociale. Donde l’eclissarsi della possibilità di concentrare nel lavoro il principio vocato a sistematizzare e ben ordinare la società in riferimento al nesso tra lavoro medesimo e Beruf, per dirla nuovamente con Weber; nonché la sostituzione delle istanze produttive tout court con la unilaterale soddisfazione dell’utilità e dei piaceri all’interno della scansione della gerarchia sociale218. In un quadro siffatto, è, appunto, l’“utilità margi218. Tale aspetto è stato ampiamente sottolineato dai contributi di M. Montanari. Di qui l’esigenza, a nostro parere, di annodare alcuni elementi messi in luce da tale studioso con quelli esibiti dal Racinaro. In merito all’argomento val la pena rammentare un felice passaggio dello stesso Montanari, che così recita: «A guardar bene è di questa ideologia che sono intrise molte pagine dei romanzi di Mann, da Tonio Kröger a Hans Castorp a Adrian Leverkühn: il lavoro non ha un valore sé […] Non è, perciò, nel lavoro che è rintracciabile il principio etico in grado di […] sistematizzare l’ordine sociale […] Si direbbe che in quelle pagine letterarie, quasi a commento delle

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nale”, l’esigenza della soddisfazione dell’“utile-piacevole” dei consumatori a divenire misura dei comportamenti sociali, coagulandoli. Ciò conferma, però, un aspetto da noi ampiamente insistito, ovvero che la coincidenza di “economia pura” e sfera separata dell’Economico riflette una condizione reale di frammentazione delle forze che innervano il mercato219. Come osserva, in maniera particolarmente lucida, Marcello Montanari, richiamandosi suggestivamente all’opera di Mann220, entro tale orizzonte ad «una teoria economica dell’utile-piacevole non può che corrispondere un’etica edonistica». A fronte di ciò «si può», cioè, «ben immaginare che il mondo dell’etica del lavoro (il mondo, per intenderci, di Thomas Buddenbrook) si sia “rovesciato” e l’unico principio etico cui far riferimento non potrà che essere» giusto «di carattere edonistico»221. In proposito risulta, forse, esplicativo rammentare quanto Böhm-Bawerk asserisce, nella sua opera principale, esponendo la propria teoria positiva del valore e riassumendo il criterio dell’“utilità marginale”: «Bisogna guardare da una duplice prospettiva la situazione economica del soggetto che deve procedere alla valutazione in base al suo punto di vista: dobbiamo immaginare anzitutto di aggiungere il bene da valutare alla provvista dei beni del soggetto, per vedere ora fino

teorie economiche marginalistiche, si disegni già l’idea che non vi sia alcuna relazione diretta tra lavoro e “valorizzazione” del mondo» (Gramsci e la revisione del marxismo, cit., p. 163). 219. È in questo versante che, a nostro avviso, le due linee interpretative promosse dal Racinaro e dal Montanari possono trovare una possibile convergenza. 220. Sul rapporto Croce-Mann cfr. il davvero straordinario saggio di Id., B. Croce e T. Mann, raccolto in Ivi, pp. 101-123. È doveroso, naturalmente, il rinvio al carteggio B. Croce – T. Mann, Lettere 1930-1936, F. Pagano Editore, Napoli, 1991. 221. M. Montanari, Gramsci e la revisione del marxismo, cit., p. 163.

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a quale punto della scala decrescente dei bisogni concreti può esserci soddisfazione; poi dobbiamo immaginare di sottrarre quel bene alla provvista del soggetto, e calcolare nuovamente fino a quale punto della scala suddetta può ancora giungere la soddisfazione. Qui risulterà naturalmente che una certa fascia di bisogni, e precisamente la più bassa, non è più coperta: e allora questa fascia più bassa indicherà l’utilità marginale che determina la valutazione»222. Utile-piacevole, soddisfazione materiale e propensione al consumo si intrecciano nella spiegazione marginalistica delle dinamiche di mercato. Essa finisce per manifestare il collasso del lavoro in quanto principio regolatore assoluto della mediazione mercantile, e del suo vincolo rispetto alla variegata fenomenologia dei comportamenti sociali. Analogamente a Weber, Croce avverte l’affermarsi dell’inedito scenario della società dei consumi di massa, rendendosi conto di come tale cambiamento si dispieghi nella cesura irricomponibile fra professione e Beruf223. D’altra par222. E. Böhm-Bawerk, Teoria positiva del capitale e Excursus, UTET, Torino, 1957, p. 186; ma sulla stessa tematica cfr. anche Capitale, valore, interesse, Archivio Guido Rizzi, Roma, 1998, pp. 155-156. Sull’impianto teorico böhm-bawerkiano d’insieme cfr. M. Marcuzzo, Capitale e distribuzione. Saggio su Böhm-Bawerk, “Aut-Aut”, n. 139, 1974, pp. 45-63. 223. Sulla nozione weberiana di Beruf cfr., fra gli altri, l’Introduzione di D. Cantimori all’edizione einaudiana del 1948 de Il lavoro intellettuale come professione; ed il saggio introduttivo di M. Cacciari a M. Weber, La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, pp. V-LX; F. Papa, Razionalizzazione distruttiva – Saggi sul pensiero politico del Novecento, Guida, Napoli, 1990, pp. 51-86; Id., Weber politico. Tra spirito tedesco e civiltà europea, Carocci, Roma, 2001; G Zarone, Filosofia e dominio tecnico – Ricerche sul tempo e la crisi in Kant, Marx e Weber, Edizioni scientifiche italiane, 1989, pp. 109-113; N. Auciello, La ragione politica – Saggio sull’intelletto europeo, De Donato, Bari, 1981, pp. 62-91; R. Bodei, F. Cassano, Hegel e Weber: egemonia e legittimazione, De Donato, Bari, 1977; A. Chielli, Figure della modernità, PensaMultimedia, Lecce, 2004, pp. 91-119; F. Recchia Luciani, La razionalità come vocazione. Saggi su “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Capone, Cavallino di

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te, dando luogo a molteplici, evidenti asimmetrie concettuali, egli continuerà a pensare – proprio in forza della scissione tra teoria e movimento – che non vi potrà essere nessuna altra forza in grado di sostituirsi alla borghesia – cui risulta affidato un ruolo squisitamente “metapolitico”224 – nell’assolvere ad una compiuta funzione dirigente. Lo scenario dell’incontro fra ” crisi europea” e costruzione della temporalità capitalistica dove si afferma il primato mediatore (e, dunque, permanentemente rimodulabile) della circolazione e del consumo sulla produzione è considerato da Croce in quella prospettiva visuale secondo cui solo grazie al mantenimento della dialessi sociale incardinata sulla classe borghese è possibile attingere le risorse affinché divenga praticabile contenere le spinte disgregatrici della modernità, maturatesi ed approfonditesi all’estremo. Se utile ed etica si debbono necessitatamente collocare in due sfere inequivocabilmente distinte, ciò si motiva, in ultima istanza, proprio in ragione dei tratti sconvolgenti della crisi della civiltà europea. Il discrimine tra Bene universale ed Utile particolare si collega al mantenuto tentativo crociano di coniugare mercato ed etica del lavoro attraverso una potenza estrinseca. Tale potenza coincide con la borghesia in quanto soggettività “esterna” chiamata a condizionare, tramite l’impulso etico-politico che può innervare anche l’esercizio della forza, lo sprigionarsi “in sé e per sé” dell’utile e del pia-

Lecce, 1988; R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 69-73; A. Bisignani, Democrazia e Sovranità, Palomar, Bari, 1996, pp. 19-60. 224. Cfr. in merito, fra gli altri, il noto scritto crociano Di un equivoco concetto storico: la “borghesia”, in “La Critica”, n. 26, 1928, raccolto poi in Etica e politica, Adelphi, Milano, 1993, pp. 373-393; cfr. anche G. Cacciatore, L’“utopia” liberale di B. Croce: un contributo alla discussione su etica e politica nella crisi del mondo contemporaneo, in Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di B. Croce, Rubettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 159-183.

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cevole medesimi225. Il filosofo di Pescasseroli rifuggirà, con lo sviluppo del suo pensiero, molte delle ipoteche proprie del formalismo etico226, ma sembrerà richiamare comunque, nel complesso, l’intervento della forma etica nella sua presenza estrinseca al circuito produzione-consumo. Prima la tematizzazione dello scenario dischiuso dall’“economia pura” – che registra i modi dell’istaurarsi di rapporti di forza determinati, non isolabili dai contenuti storico-politici, e, al contempo, ne segue passivamente l’organizzazione in cerchie separate –, poi la costruzione della “filosofia dello spirito” attraverso i “gradi’distinti esprimono in maniera subalterna la situazione di complessa connessione e, parimenti, di vicendevole isolamento delle articolazioni formali della società capitalistica, raccolte nello scenario mercantile. Certo: in effettiva convergenza con l’immagine weberiana del “politeismo dei valori”, la teoria dei “gradi” dello spirito esprime la «frantumazione della realtà»227 (F. Fistetti) e coglie come l’unità non debba venire pensata destituendo le differenze, sino a constatare come il singolo “grado”-“distinto” non possa contenere in sè, nella propria incidenza, alcuna facoltà sintetica rispetto all’insieme del dinamismo e della tensione delle forze. Dippiù: tale ottica apre, tutto sommato, ad un ambizioso progetto di riformalizzazione dei saperi e di loro inquadramento epistemico ad un’altezza concettuale congruente rispetto all’obbiettivo – carico di potenzialità – di una sorta di vera e propria rifondazione della “ragione storiaca”. Tuttavia, tale apertura si risolve nell’affidare ad un vertice mobile “esterno” – successivamente identificato, per certi versi, con l’autonomia del momento etico-poli-

225. Per le osservazione svolte siamo debitori nei riguardi di M. Montanari, Gramsci e la revisione del marxismo, cit., pp. 163-166. 226. Cfr. in proposito Id., Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit. 227. F. Fistetti, Marx ti sei confuso: parola di Croce, in Istantanee. Filosofia e politica prima e dopo l’Ottantanove, Morlacchi, Perugia, 2006, p. 39.

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tico – il compito di governare il pluralismo, tendenzialmente confliggente, delle competenze e dei saperi stesi; con ciò finendo per cristallizzare la funzione egemonica degli intellettuali quali “mosche cocchiere”, organica alla classe borghese, deputate a regolare separatamente ed estrinsecamente il rapporto governanti-governati. Ovvero sancendo, da una precisa angolatura, la destutuzione di qualsivoglia prospettiva dialettica riguardante la totalità del processo 228. Il deficit di comprensione e di padroneggiamento dialettico si combina “a filo diritto”, del resto, con la riduzione della analitica marxiana al modulo rigidamente dualistico di schematizzazione dello sviluppo capitalistico sotteso al “paragone ellittico”, il quale, d’altra parte, si rivela compresente alla inerte registrazione della costruzione segmentale dell’orizzonte di tale sviluppo, egemonicamente determinato. La cosa comporta, inevitabilmente, l’elusione delle mediazioni interne al campo della riproduzione, di cui pure vengono lucidamente messi in evidenza molti fattori costitutivi (incidenza del valore d’uso, orientamenti al consumo, elementi tecnici del supporto e del mutamento tipologico della forma-merce, riorganizzazione della distribuzione e della comunicazione sociale entro la sfera mercantile etc.). Tali mediazioni vengono richiamate, insomma, ma non penetrate nella loro costituzione morfologica, a fronte dell’implicito, costante, esclusivo affidamento alle classi dirigenti borghesi del compito di ordinarle e renderle produttive. Ne resta confermata, così, la funzione di egemonia politica. Questa, pur essendo ammessa l’influenza esercitata dalla soggettività definita dal movimento operaio, risulta pensata quale destinata a contrarre e riequilibrare le tensioni, preservando in chiave unilaterale proprio l’impianto

228. Cfr. in merito, sia pure con accentuazioni ben diverse dalle nostre, ivi, pp. 38-39.

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della regolazione mercantile. Non è chi non veda come Croce riconosca nella esistenza dello stesso movimento operaio, in quanto soggetto politico organizzato, uno dei fattori attestanti con maggiore chiarezza l’ineludibile scorrettezza, sul piano conoscitivo e concettuale, dell’isolamento dell’Economico. Tale aspetto cifra la separatezza di una determinata cerchia specifica, consentendo, appunto, la visualizzazione della istituzione specialistica dell’Economico e segnalando, vieppiù, i contorni del quadro di rapporti di forza cui rinvia, senza, però, penetrarne in profondità la portata politica, com’è evincibile dal trattamento del valore-lavoro. Di qui, si può ben comprendere il carattere di conservazione degli equilibri egemonici e di “rivoluzione passiva” peculiare del revisionismo di Croce. Soffermiamoci ulteriormente sull’argomento. L’autore di Pescasseroli dimostra di saper bene che l’esistenza del movimento operaio organizzato smentisce l’ipotesi dell’Economico quale distaccabile dall’insieme dei rapporti sociali e storico-politici. A rigore, nel quadro contingente, perché la teoria marginalistica del valore – che pure cerca di classificare l’ampia gamma delle componenti di governo dei comportamenti mercantili – venga davvero investita di un attributo universale di vigenza, occorrerebbe privare la soggettività del movimento operaio della facoltà di concorrere alla costruzione dell’ordine etico-politico, influendo sul circolo produzione-consumi. Occorrerebbe, cioè, retroagire con una più forte controspinta sul terreno della modernizzazione, contrastandone l’azione riguardo alla ermersione di nuovi rapporti di forza. Intendiamoci: non vi è dubbio che la strumentazione concettuale marginalistica possa anch’essa assolvere ad una funzione di indice reale, ma si rivela corrispondere (analogamente all’economia classica nel quadro marxiano, del resto, benchè con più contratta portata) ad una ben precisa opzione di assetto egemonico. Al suo interno è lecito persino contemplare alcuni elementi che dimostrano l’influenza esercitata dalla stessa

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soggettività politica del movimento dei lavoratori rispetto alla costruzione interna della dimensione mercantile. D’altra parte, il requisito di generale vigenza del paradigma marginalistico trova quale punto di arresto, in ordine alla sua opera di ricognizione plurifattoriale, il conseguimento analitico di un mutamento delle forme e della mediazione storica tale da ridisegnare a fundamentis il ruolo della regolazione sociale nei confronti delle istanze ed “utilità particolari”, scaturite a partire dall’integrale espansione della forma-merce e proiettate verso la ricomposizione del genere umano. Giacché il marginalismo punta, in certa maniera, ad assolvere ad una sorta di spostamento del focus analitico dai valori di scambio ai valori d’uso, ricongiungibile all’affermazione ed al mantenimento di un egemonia politico-culturale tale da rendere irrecuperabile la scissura fra lavoro, sua elevazione a principio etico-politico, e circolazione delle merci, cui si riferiscono orientamenti al consumo e stili di vita. Irrigidire tale condizione di Entzweiung significa impedire l’investitura del lavoro in quanto figura dirigente dello sviluppo, inserendolo per intero, invece, nella mera, unilaterale dimensione sorretta dall’utile-“piacevole”. Vero è che l’esame del valore-lavoro mette in evidenza, pur nella sua parzialità, una precisa situazione di potere che, a sua volta, rinvia, comunque, all’esercizio entro il presente di una certa forza reale (da Croce, appunto, implicitamente circoscritta, considerando necessario “contenerne” la spinta) capace, almeno in qualche misura, di concorrere a determinareorganizzare il mercato. L’indagine delle implicazioni scorgibili nel riferimento critico – effettuato attraverso un preciso procedimento di comparazione modellistica, a Marx attribuito – alla “società di puri lavoratori” sembra in grado di guadagnare anche la rilevanza di un simile elemento. Tramite l’adesione, certo assai “condizionata”, all’“economia pura”, Croce appare manifestare l’esigenza di preservare gli equilibri che presiedono all’isolamento della cerchia dell’Economico (la quale, in

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effetti, secondo Marx, trova riscontro proprio nel contenuto politico del valore-lavoro, che in sé concentra l’ordine dinamico di uno scambio ineguale, esprimendo uno schema di formalizzazione generale). Tutto ciò, pur riconoscendo tanto gli slittamenti verificatisi nella configurazione dei rapporti forza di cui lo stesso paradigma marginalistico contribuisce a far emergere la disposizione, tanto il denso quadro di mediazioni politiche impedenti l’assoluta, reale dissociazione dell’Economico dall’insieme di nessi e vincoli che intessono il mondo storico. E qui insorge un’ulteriore duplicità, che, a ben vedere, tende a sfociare nell’aporia. Gli è che Croce sente l’esigenza di “trattenere” l’incidenza della soggettività organizzata che il movimento operaio rappresenta nei confronti del mercato, e, parimenti, coglie nella sua presenza, soprattutto implicitamente, la dimostrazione, primariamente in senso prospettico, della percorribilità della via di una sorta di “tenuta a freno” dell’“utile-piacevole” medesimo. Tuttavia, si tratta di un compito affidato esclusivamente alla funzione etico-politica universale assolta dalla borghesia. Compito, realiter, ponibile in chiara, anche se paradossale, simmetria rispetto all’isolamento della cerchia dell’Economico che, tuttavia, Croce intende rigettare. Il quadro dei nessi preposti a governarla, e che il paradigma dell’“economia pura” registra, è pensato, in fin dei conti, come condizionabile e “sovradeterminabile”, riguardo alle tante spinte mobili e frammentarie, in virtù della facoltà di “arginamento” esercitata dalla borghesia medesima. A questa, infatti, risulta accordato il compito di coniugare il mero meccanismo mercantile di soddisfazione dell’utile-‘piacevole” con l’etica della professione, con un principio etico-educativo di regolazione del giuoco delle passioni, degli interessi, dei piaceri, delle utilità individuali; complicando dall’interno l’insieme delle logiche di mercato. Alla attribuita ed esigita presenza etico-politica – metapolitica della borghesia viene ad essere

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affidato, cioè, il ruolo del “posto che” (da intendersi – com’è chiaro e parimenti, decisivo – in accezione contrapposta ad ogni deliberata, e, talvolta, come sappiamo, prescelta, misura “postulativa’) rispetto all’orientamento dei comportamenti sociali e mercantili, tramite la assunta corrispondenza di questa alla formazione del circuito dell’opinione pubblica. Facendo coincidere “sistema dell’eticità”, Bildung e “missione” della borghesia, ed, inoltre, esibendo la non isolabilità dell’Economico ed il concorso incidente di soggettività storico-politiche determinate, Croce mostra e, parimenti “occulta”, quello che è forse il nucleo strategico portante del paradigma marxiano: l’intrinseca influenza dell’egemonia politica sulla espansione unificante della forma-merce e sulla riproduzione sociale complessiva229. Se, come ha acutamente osservato Marcello Montanari, «il vero contenuto di ogni teoria economica è quel “posto che”, la cui esistenza lo stesso Croce svela, per subito dopo celarla»230, non sembra difficile comprendere – crediamo – come egli, oltre ad ammettere le spinte innescate dal riconoscimento del contenuto politico del valore-lavoro, punti ad una riorganizzazione delle mediazioni sociali intesa, comunque, a preservare gli equilibri dovuti alla cristallizzazione della forma presente della divisione governanti-governati. Equilibri concepiti quali gli unici davvero in grado di “contenere” l’utile-‘piacevole” senza estinguerlo e/o precipitare nella dispersione di ogni principio etico-politico231. Con la valenza, anche alternativa, del proprio “posto che”, il dispositivo del valore-lavoro rinvia criticamente, in vero, alla conquista di centralità da parte del lavoro stesso, chiamato a costituirsi in

229. Per le osservazioni svolte siamo debitori, certo con differenti accentuazioni, nei riguardi di M. Montanari, Gramsci e la revisione del marxismo, cit., pp. 168-169. 230. Ivi, p. 169. 231. Cfr. Ibidem.

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soggetto volto ad influire sui criteri di governo dei meccanismi di mercato. In tale direzione, del resto, deve essere letta la linea che da Marx trapassa in Gramsci e nei caratteri del suo confronto con il medesimo Croce. Bisogna osservare, in ultimo, che la conclusiva collocazione nella funzione “metapolitica” della borghesia del ruolo di soggettività storica – “posto che” in grado di modulare l’architrave della dimensione mercantile s’incardina, ad ogni maniera, e ad una differente temperatura politico-culturale, non già sulla definizione di un saldo e profondo intreccio fra mutamento della morfologia interna alla riproduzione sociale e trasformazione etico-politica, «riforma intellettuale e morale», per dirla con Gramsci, bensì sulla disposizione esterna di una soggettività chiamata a stabilizzare e reiterare i contorni e la composizione della mediazione storica. Così, la misura di dissociazione tra teoria e movimento, adottata in termini di “rivoluzione passiva” nei riguardi della soggettività politica dei lavoratori, svela il suo “rovescio” ed il suo principale supporto. Si tratta dell’automizzazione dell’etico-politico in quanto cardine del revisionismo232 (basti pensare a molti risvolti della BernsteinDebatte233). Esso si rivela destinato, in tal maniera, a convertirsi nella rigidità dell’“economico-corporativo”. A questo punto il discorso domanderebbe un significativo ampliamento. Non ci è possibile profonderci adesso in merito, mentre appare opportuno formulare qualche brevissima considerazione conclusiva, di corredo ai testi critici scelti e presentati.

232. Cfr. in merito, fra gli altri, le osservazioni di R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 222-238. 233. Cfr. in merito, fra gli altri, l’ottimo contributo di F. Papa, L’altra Germania. Saggio sulla Bernstein-Debatte, cit.

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6. Conclusioni. Riteniamo che riproporre oggi al lettore alcuni dei principali studi entro corpus della letteratura scientifica dedicata al revisionismo crociano, alle critiche che Croce svolge nei riguardi di Marx – da Morpurgo-Tagliabue, Pietranera e Agazzi a Badaloni, a De Giovanni, a Montanari, a Cacciatore, etc. – possa concorrere proprio alla ripresa, con rinnovata lena, della ricerca intorno al patrimonio categoriale della Kritik. Gli aspetti del revisionismo crociano appena evidenziati sono da collocare alla genesi della concezione dei distinti concernente la “filosofia dello spirito”. Questa si esplicherà in un disegno di fondazione trascendentale delle categorie congruente all’assetto di una “storia ideale eterna”. Tale disegno riposa su una terapia tendenzialmente kantiana di revisione dell’hegelismo (al cui opposto speculare vi è quella del Gentile della Riforma). Terapia motivata dall’esigenza di ripristinare un discrimine rigido tra soggetto e oggetto nel loro raffrontarsi. Parliamo di un’esigenza dettata dall’istanza politico-ideologica “neogiolittiana” di riconoscere l’inedita incidenza soggettiva del movimento operaio e, al contempo, di escluderne l’ammissione alla sfida per l’egemonia. Si giustifica a partire di qui la cristallizzata immutabilità del circolo dei distinti, della loro tipologia234 in cui coagula una vera e propria ‘filosofia del contenimento’. La distinzione tra etica ed economia, tra bene universale ed utile particolare acquista, dunque, peculiare rilevanza. Nell’alveo della prima riflessione di Croce su Marx si comincia ad evidenziare, infatti, l’utile in quanto «momento autonomo della vita dello spirito». Di qui, una volta riconosciuta l’inciden234. Sul tema restano ancora utili, a nostro avviso, le indicazioni di M. Abate in La filosofia di B. Croce e la crisi della società italiana, Einaudi, Torino, 1966.

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za del momento economico correlato alla volontà, il filosofo procederà a precisare, rielaborandoli, i caratteri del suo inserimento nell’alveo delle categorie dell’utile235. Ne scaturirà, poi, il discernimento dell’aspetto etico della volontà dall’utile in quanto dimensione che esige di esserne discriminata, e, d’altra parte, ne costituisce la materia236. Dimensione in cui verrà collocata la «forza vitale», la qual dovrà e potrà vigere, però, essa stessa, anche in quanto campo «originario di dispiegamento» (R. Esposito)237. Ad ogni modo, il sunto dei moventi genetici di tale approdo in ordine a Marx si offre ad essere disposto in parallelo ed in tensione rispetto all’altro grande epicentro entro il dibattito nostrano sulla “crisi del marxismo”, cioè quello costituito da La filosofia Marx di Gentile. Testo che, all’opposto della strada battuta da Croce (ma non senza elementi di convergenza indiretta: basti pensare alla considerazione della storia in quanto storia degli intellettuali, la quale, con altre accentuazioni, presiede all’accezione della concezione materialistica della storia come “operazione” della mente di Carlo Marx238), tenta una lettura in chiave “iperfilosofica” e prassistica del contributo “epocale” del pensatore di Treviri239. Si tratta di due indirizzi 235. Sul tema cfr., soprattutto, G. Sasso, B. Croce – La ricerca della dialettica, cit.; F. Focher, Profilo dell’opera di B. Croce, cit., pp. 165-169; ma anche A. Bruno, La formulazione crociana dei distinti, in B. Croce, a cura di F. Flora, Milano, 1953, pp. 112-113. 236. Cfr., fra gli alti, G. Sasso, B. Croce – La ricerca della dialettica, cit., pp. 425-609; e le sintetiche ma efficaci osservazioni di V. Stella in B. Croce, cit., pp. 61-62. 237. R. Esposito, Il pensiero vivente, Einaudi, Torino, 2010, pp. 157-158. 238. Cfr. in R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., pp. 63-71; ma ci permettiamo di rinviare anche al nostro La mediazione mancata. Saggio su G. Gentile, Marsilio, Venezia, 2008, pp. 59-99. 239. Le due principali linee di lettura del confronto di Gentile con Marx sono da ravvisarsi in quella avanzata da A. Del Noce – sostenitrice della

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che esprimono due ben diverse risposte alla crisi del moderno. Come ha acutamente osservato Eugenio Garin, il “passaggio d’epoca” da un secolo all’altro non chiuderà in alcun modo, per i due pensatori, i conti con Marx240. In particolare, Croce, nel transito dalla revisione del marxismo alla maturazione della concezione dei gradi e, poi, dei compiuti “distinti”, pur tentando di “recuperare”, in qualche misura, il ruolo della mediazione, approfondirà, parimenti, in maniera effettivamente implicita, il modello teorico rappresentato dal marginalismo e, al contempo, tenderà a stringere il ventaglio di possibilità che esso esprime, riflettendo l’integrale frammentazione scaturita dalla crisi della stabilizzazione liberale241, – manifestantesi proprio in una ristretta concettualizzazione del “cervello sociale”, ritagliata passivamente sulla razionalità regolatrice delle cerchie specialistiche. Avendo abbandonata la primigenia accezione della storia in quanto “riducibile” al di sotto essenzialità del contributo de La filosofia di Marx per lo sviluppo della concezione attualistica – in G. Gentile – Per una interpretazione filosofica della storia del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1990 (ma si tratta di un approfondimento di alcune delle tesi espresse in Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978), e da G. Sasso – sostenitrice, invece, di una interpretazione, in certa misura, “discontinuista” – in Le due Italie di G. Gentile, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 317-388. Sulla riflessione gentiliana intorno a Marx cfr. poi, fra gli altri, B. De Giovanni, Sulle vie di Marx filosofo in Italia – Spunti provvisori, in “Il Centauro”, n. 9, 1983, pp. 3-25; P. Serra, Una critica al materialismo storico – Gentile su Marx, “Il Cannocchiale”, n. 2, 1993, pp. 69-81; G. Vacca, Il Marx di Croce e quello di Gentile, cit., pp. 64-66; E. Garin, Croce e Gentile interpreti di Marx, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Editori Riuniti, Roma, 1993; e le osservazioni presenti in Id., Introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, Garzanti, Milano, 1991; ma ci permettiamo di tornare a rinviare anche al nostro La mediazione mancata, cit., pp. 93-98. 240. E. Garin, Introduzione, cit., p. 31. Sullo sviluppo, successivo alla fase giovanile, del rapporto di Croce con Marx cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di B. Croce, cit., pp. 117-145. 241. Cfr. R. Racinaro in La crisi del marxismo, cit., p. 13.

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della categoria generale dell’arte, formulata nella nota memoria del 1893, Croce si muoverà sempre più, comunque, nella direzione del rifiuto dell’idea di storia quale scienza tout court (certamente sollecitata da una proficua istanza). Ciò, a ben guardare, si accorderà, in una circoscritta, certo non ultimativa fase, con una tale radicalizzazione del trascendentalismo da far corrispondere allo statuto extratemporale delle categorie la medesima divaricazione fra programma politico e teoria, tra teoria e movimento, nonostante l’ammissione della incidenza della dimensione soggettiva storico-reale (ammissione che, a rigore, avrebbe dovuto far scaturire non solo la cognizione della non isolabilità dell’Economico, ma tutti i suoi davvero impressionanti corollari concettuali). In tal senso, la visione liberal-conservatrice di Croce si avvierà, comunque, dalla terapia revisionistica in poi – e con mutamenti effettivi, dalla cognizione delle categorie come predicati del giudizio a, prevalentemente, potenze del fare, sino all’insistenza sul “vitale” –, verso la configurazione del paradigma di una sorta di riformismo ristretto. In esso giungerà essere inscritta la stessa, funzionale riclassificazione di Marx quale “Machiavelli del proletariato”242. A fronte di un simile insieme di aspetti problematici ci è parso utile proporre un’antologia di significativi saggi critici in merito, nel tentativo di contribuire a sollecitare la riapertura di una apposita riflessione sulle vaste conseguenze ed i molteplici nessi concernenti il presente argomento.

242. Per le osservazioni appena formulate siamo debitori nei riguardi dell’importante analisi condotta da G. Vacca in Il Marx di Croce e quello di Gentile (1895-1900), cit., pp. 64-65.

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Saggi critici

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L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto Guido Morpurgo-Tagliabue

1. Un esame della tesi di Benedetto Croce intorno alla caduta del saggio di profitto solleva innanzi tutto la domanda se l’argomento conservi ancora oggi un interesse per gli studi di economia. Probabilmente no. Ma ne conserva uno logico e storico: e non è poi detto che fosse molto diverso l’interesse di B. Croce nel 1899, e quello di taluni critici più recenti. Un interesse logico e storico, a sua volta, significa un interesse psicologico. Non si vede quale altro costrutto ci sarebbe a riprendere in esame una tesi celebre per controllarne la correttezza dottrinaria e scoprirvi une erreure grossière1, come giudicava l’Andler, quando le tesi economiche, non diversamente da tutte le tesi scientifiche, si reggono e cadono per la loro coerenza con un intiero sistema di leggi e di fatti e non per una loro stretta logica interna. Nessuna argomentazione le rovescia, per bene aggiustata che sia, ma solo una complessa esperienza. Se mai, le tesi cadono proprio quando non vengono più confutate. Errori famosi non furono mai smentiti, furono trascurati. Così accadde al Descartes per la sua dottrina della circolazione del sangue, al Galilei per la sua ipotesi delle maree, e in tanti altri 1. B. Croce, Il Marxismo teorico in Italia, in «Materialismo storico ed economia marxistica», 7a ediz., 1944, p. 307.

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casi. Si può dire la stessa cosa della legge di Carlo Marx sulla caduta del saggio di profitto. Delle diverse confutazioni tentate, due sole ne conosco condotte con criterio logico o dialettico, ossia accettandone i principi generali e portandone agli estremi le deduzioni, oppure rovesciandone paradossalmente le premesse e dimostrando che anche così non mutano i risultati. In quest’ultimo modo da un economista di gusto eretico, il Pareto, e nel primo da un filosofo, Benedetto Croce. Né l’uno né l’altro però in modo da salvarsi dall’accusa mossa a entrambi, di sofisma. Quanto all’argomento del Pareto2, era una specie di boutade alla Bernard Shaw, brillantemente svolta, e non ce ne occuperemo qui. È stato considerato per lo più come l’obbiezione tipica di una mentalità conservatrice: scientificamente era una delle tante confutazioni che la scuola edonistica muoveva alla dottrina classica del valore (alla quale anche la teoria di Marx appartiene), dimostrandola ancora intinta di certo pregiudizio di cause occulte. Più interessante è il saggio di Benedetto Croce3, anche perché ha alle spalle un intero complesso di studi marxistici, oggi per lo più trascurati, e perché dal 1899 ad oggi si può dire che ha costituito un punto di riferimento negli studi sulla questione. Merita perciò uno studio accurato. Il saggio di Benedetto Croce è di pochi anni posteriore alla pubblicazione del terzo libro del Capitale, avvenuta nel 1894, che fu avvenimento di straordinario interesse nel mondo degli economisti anche per la curiosità suscitatavi intorno dallo Engels. Un decennio prima (1885), infatti, nella prefazione al

2. W. Pareto, Introduzione al Capitale, estratti di Paul Laforgne, Paris 1898; ripubblicati in «Nuova Collana degli Economisti», 1934, vol. XII. 3. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, «Atti dell’Accademia Pontaniana», vol. XXIX, 199-7, maggio, ristampata in «Materialismo storico etc.», saggio VI.

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secondo libro del Capitale, questi aveva sfidato gli studiosi a una specie di torneo erudito su questo problema: come ricavare dalla legge del valore il saggio medio di profitto. Il progresso industriale importa, insieme con l’accrescimento del capitale tecnico, aumento del profitto, ma diminuzione del saggio di profitto; e ciononostante noi constatiamo la generale perequazione del saggio di profitto in industrie a capitale costante disegnale. Di quegli anni, tra il 1894 e il 1899, era anche il movimento riformistico suscitato da George Sorel sulla rivista Dévenir social di A. Bonnet, al quale il Croce dichiarava di aderire4; sono gli anni del revisionismo di E. Bemstein; si parlò allora di una crisi del marxismo teorico, e certo anche il Croce contribuì a provocarla5. In Napoli l’interesse per le questioni marxistiche è documentato dall’istituzione del premio Testore per una memoria sulla dottrina del terzo volume del Capitale. Il concorso fu aperto nel 1897, e i lavori presentati nel marzo dell’anno dopo furono due, uno di Vincenzo Giuffrida e uno di Arturo Labriola. Relatore, Benedetto Croce. Come accade non di rado, la commissione diede la preferenza al saggio più modesto ma più corretto, quello del Giuffrida. Nella sua relazione B. Croce si mostrò particolarmente severo verso il Labriola, rimproverandogli difetti di metodo e di cautela6. Giudizio forse non immotivato, il quale tuttavia non esclude che, degli scritti usciti, in quegli anni sull’argomento, il saggio del Labriola fosse il più pregevole, e addirittura anticipasse in qualche modo l’impostazione del problema data poco dopo dal Croce. È vero che le tesi del Labriola paiono

4. B. Croce, op. cit., p. 62, 87, 140 e passim. 5. B. Croce, op. cit., Appendice, p. 267 e seg. 6. B. Croce, Relazione sulle memorie inviate pel premio Testore etc., in «Atti dell’Acc. Pontaniana», vol. XXIX, 1899, letta il 5 febbr. 1899.

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approssimazioni più che anticipazioni, e la sua mentalità più ricca di estro che di vigore; spesso egli imposta un problema in maniera originale e poi subito lo devia e lo confonde; tuttavia non si può escludere che quell’originalità fornisse più di un’utile traccia al Croce, il quale sembra entrare nell’argomento sulle peste di quel saggio. La obbiezione del Croce, a sua volta, è stata in genere poco gustata dagli economisti marxisti e non marxisti, e ciò soprattutto per una incapacità loro di tener ferme le questioni logiche, impazienti di correre subito alle questioni di fatto. In genere vi hanno cercato, invano, un errore di deduzione, un paralogismo, trascurando di discutere l’impostazione. Vero è che gli economisti marxisti, per paradosso, gustano poco il Croce perché gustano poco Marx, posto che le mentalità dell’uno e dell’altro non sono affatto diverse, (vedremo in che misura), entrambe dialettiche e come tali lontane proprio da una mentalità prevalentemente empirica, quale non di rado è la loro; gli economisti puri a loro volta perché esclusivamente astratti, matematici, estranei all’interesse proprio del Croce come del Marx, soprattutto storico e sociologico. Uno dei più aperti e sensibili della prima categoria, ci sembra fosse in quegli anni il Labriola, anche se questa dote lo portava a mescolare ragioni empiriche e ragioni dialettiche, con risultati spesso confusi. Così egli ritenne il Capitale una specie di Critica della Ragione Economica, ma gli sfuggì la fondamentale questione crociana: se le categorie dedotte dal Marx fossero oggettive o semplicemente prammatiche e comparative, come il Croce pensava. 2. È noto in che modo il Marx prospetta la questione nel 3° libro del Capitale. Col progresso tecnico inerente allo sviluppo dell’industria, cresce il prodotto in funzione del maggior capitale impiegato, ma varia anche il rapporto tra i fattori di questo: aumenta l’impiego del capitale costante in confronto

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del capitale variabile. Riducendosi il lavoro, si riduce il profitto, poiché questo non è che sopralavoro. Non che il progresso industriale diminuisca di fatto la massa del lavoro, anzi l’aumenta, ma la restringe in confronto al crescere iperbolico degli impianti. Perciò i profitti crescono, ma cala il saggio di profitto. Questa caduta è frenata da fattori antagonistici, che il Marx esamina ad una ad uno (e che i critici hanno per lo più trascurato); perciò si deve parlare di una semplice legge tendenziale. Un altro aspetto della questione che i critici del Marx in genere hanno trascurato, è che la legge di caduta del saggio di profitto non è che un caso dei rapporti tra il profitto e il plusvalore, dei quali il Marx al principio del terzo libro aveva sviluppato matematicamente tutte le combinazioni. La legge rientra nella formula più complessa (a pl’ costante, v, c e C variabili)7 che il Marx adotta per avvicinarsi il più possibile alla realtà storica. Lo stesso Marx riconosce che la formula complessa può ridursi a una semplice, a una sola variabile8: nel nostro caso la legge di caduta del saggio di profitto si può rappresentare a C (capitale complessivo) costante, e c e v inversamente proporzionali. Questa legge è della massima importanza, per il Marx, perché esprime la direzione dell’intiero processo capitalistico9. È noto che il Marx ricevette dalla scuola hegeliana la doppia impronta della sua intelligenza, insieme storica e razionalistica: perciò deduceva non di rado le sue conclusioni da postulati contingenti, e presentava definizioni empiriche come deduzioni dialettiche. Dipende da questa attitudine se tutta l’esposizione del Capitale tende a cogliere i fenomeni economici in 7. C. Marx, Das Kapital, L. III, c. III, p. 35. Citiamo il I libro nella traduzione italiana; ed. Utet, Torino 1924; il II e il III nell’ed. H. Meissners, Hamburg 1904. 8. Op. cit., L. III, c. III, p. 36. 9. C. Marx, Das Kapital, L. III, c. XIII, p. 193.

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una rappresentazione di insieme, generale e concreta (il suo Gesammtprozess der Production), che di fatto risulta per certe esigenze troppo generica e per altre troppo episodica. Ma appunto per questo i tentativi dei critici di correggere il Capitale in un senso o nell’altro, non hanno portato finora che a nuovi garbugli. In Italia la prima correzione sostanziale alla formula del Marx la propose il Labriola nella sua memoria del 189810: sostenendo come più corretto e più opportuno mantenere inalterati il capitale complessivo e il prodotto, e variare semplicemente la composizione organica del capitale (ossia adottare la formula più semplice data dal Marx)11. Così facendo, separava processo tecnico e accumulazione capitalistica, e considerava isolatamente il primo. Ma questo era un fare un passo indietro del Marx, pressa a poco alla posizione di J. Barton. Il progresso tecnico, cioè, non viene necessariamente provocato da una cresciuta domanda e perciò non comporta una maggiore produzione né un aumento di capitale. La caduta del saggio di profitto dipende dal cresciuto saggio di salario e non dal progresso tecnico. Anzi, l’adozione di procedimenti di lavorazione perfezionati e costosi in luogo di mano d’opera è un espediente dei capitalisti per limitare quel fenomeno. Lo frena, non lo annulla. Donde il carattere tendenziale della legge12. La correzione del Labriola modificava notevolmente, senza accorgersene, la definizione marxista del progresso tecnico, e anticipava in qualche modo una più radicale correzione del Croce. Di qui l’autore passava in seguito a una considerazione insieme acuta e ingenua, che precedeva anch’essa un argomen-

10. Arturo Labriola, La teoria del valore di C. Marx, studio sul terzo libro del «Capitale», ed. Sandron, 1899. 11. C. Marx, op. cit., L. III, c. III, § 1, p. 30. 12. Arturo Labriola, op. cit., p. 245.

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to crociano; in un posteriore scritto, infatti, egli, non mancò di rivendicarne la paternità13. Questa coincidenza cesserà di stupirci quando vedremo che l’argomento si presentò tanto al Labriola che al Croce perché era già stato esposto e discusso in primo luogo dallo stesso Marx. Formulato dal Labriola, è questo. Inalterati restando il capitale complessivo e la produzione, l’aumento del capitale costante e la riduzione del capitale variabile significano risparmio di una parte delle sussistenze necessarie agli operai: rimane perciò un margine di prodotto (posto per astrazione di comodo che gli operai consumino il proprio prodotto), equivalente a una forza di lavoro impiegabile in altri rami della produzione. «Infatti se i lavoratori di quella determinata cosa ne fossero anche consumatori, noi avremmo, nel secondo momento, un consumo limitato a. 40 giornate di lavoro in luogo di 50, poiché ora 40 operai bastano per fare il lavoro che prima richiedeva 50 lavoratori. I 10 lavoratori superflui potrebbero essere più utilmente impiegati in un altro ramo della produzione… Il costo di cessione di quella cosa rimarrebbe l’istesso prima e dopo…»14. Anche questa volta il Labriola ritornava indietro, pressa a poco alla vecchia tesi di quella che il Marx chiamava l’economia volgare15 di James Mill, Mach Culloch, Senior, Jon Stuart Mill, ecc., della macchina che, rimuovendo gli operai, libera un certo capitale che li rioccuperà. Ciò non esclude il merito del Labriola. Gli anticipatori sono per lo più degli epigoni e spesso dei travisatori felici. Colgono, dell’ieri, certi motivi che saranno fertili dopodomani. Nella sua critica al Marx il Labriola si ispirava all’economia classica e ne individuava due motivi giusti; ma li adoperava male.

13. Arturo Labriola, Studio su Marx, ed. Morano, Napoli 1908, p. 147. 14. Arturo Labriola, La teoria del valore etc., p. 320. 15. C. Marx, Il Capitale, L. I, p. 403.

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Il primo argomento infatti, la formulazione del progresso tecnico indipendente dall’accumulazione capitalistica, egli lo proponeva in modo confuso, combinando di continuo l’ipotesi marxista con ipotesi proprie, e mescolando preoccupazioni logiche e storiche. Anche qui, turbato da una giusta intuizione: che il torto del Marx fosse di trascurare (meglio, sottovalutare) il fenomeno della concorrenza. L’anno dopo il Croce affermava che «la vera ragione economica della caduta del s. d. pr.» non poteva essere che una sola, «la legge della domanda e dell’offerta». Quanto al secondo argomento, lo adoperava in modo troppo semplicistico e ingenuo. Quella che nel Croce sarà un’obbiezione da lasciare perplesso ogni commentatore, nello scritto giovanile del Labriola si confuta da sé. O meglio, si fa confutare dal suo presupposto, l’equazione sopra formulata del progresso tecnico. A capitale e a prodotto costanti, una riduzione di v e un aumento di c non risparmia nulla. Le sussistenze risparmiate sui lavoratori andranno a compensare l’aumento del capitale tecnico, ossia a sfamare gli operai che l’hanno costruito. Nell’esposizione del Croce, dell’anno dopo, le cose cambiano aspetto, perché egli è partito da una formula del progresso tecnico che corregge l’equazione del Marx in maniera radicale. Non aumento del capitale complessivo e del prodotto, come per il Marx, né stabilità del capitale e del prodotto, come modificava il Labriola, ma stabilità del prodotto e diminuzione complessiva del capitale. «Il progresso tecnico tra i suoi effetti logici o, che è lo stesso, necessari, non ha punto quello di un aumento del capitale complessivo impiegato, e neanche l’altro di lasciare immutato la grandezza del capitale complessivo. Ha anzi per effetto necessario e immediato proprio l’opposto: cioè quello di restringere il capitale impiegato»16. 16. B. Croce, Memoria citata, in «Materialismo storico etc.», p. 151, ed. Laterza, 1944.

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Stiamo bene attenti. Il Croce non nega l’accumulazione capitalistica, ma ne prescinde. Egli reputa che il fenomeno della caduta del saggio di profitto si studi meglio esponendolo in modo semplificato, col servirsi di un’ipotesi da laboratorio. Perciò esamina quali sarebbero i risultati ipotetici del progresso tecnico, esclusione fatta dalla accumulazione capitalistica. Che l’accumulazione capitalistica rientri nel fenomeno storico del progresso produttivo, è cosa ovvia. Esso la presuppone, ma non necessariamente, obbietta il Croce; perciò in sede di ipotesi scientifica si può eliminare. Lo stesso Marx, nel libro II del Capitale, prende in considerazione per un centinaio di pagine la riproduzione semplice, separata dalla riproduzione progressiva, pur dichiarando che si tratta di un’astrazione17. Diciamo ciò per eliminare subito la pregiudiziale più frequente dei critici del Croce, e la meno fondata. La formulazione del Croce è tanto poco arbitraria che si trova già nella casistica del Marx: è un caso della quarta formula del III capitolo18. Quella che il Croce esclude non è l’accumulazione capitalistica in concreto, ma la sua pertinenza in astratto al concetto di progresso tecnico. Eliminandola, l’ha sostituita col fenomeno inverso, l’economizzazione del capitale. È una rappresentazione rovesciata, perfettamente lecita, della quale egli si aspetta i vantaggi di una maggiore chiarezza. 3. Riconosciamo intanto che da questo punto di vista il ragionamento del Croce non è stato ancora scalfito. E non poteva esserlo da riserve come quelle sollevate finora dai suoi critici. Progresso tecnico significa minor spesa sociale – per ogni unità prodotta. Stupisce perciò che di recente un esperto in sta-

17. C. Marx, Das Kapital, L. II, c. XX, p. 369. 18. C. Marx, op. cit., L. III, p. 35. Data la formula p’1=m’ x ev/EC, dove E= C1/C, e=v1/v; è posta l’ipotesi e=E.

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tistica come P. Battara19, dopo aver fatto appello all’economia classica e all’esperienza storica (che qui sono fuori questione), si richiami infine alla prassi empirica, la quale poi non è che l’opinione corrente. «L’affermazione del Croce porrebbe essere vera soltanto se il progresso tecnico portasse alla semplificazione dei mezzi produttivi», il che non accade, d’accordo: «ogni maggiore complessità dei processi produttivi porta a un aumento dei capitali tecnici, cioè, in altre parole, degli investimenti industriali»20. Viceversa sappiamo che l’impiego unitario del capitale tecnico, nella produzione moderna, è spesso molto inferiore a quello della antica produzione artigiana o manifatturiera; lo stesso Marx aveva messo in guardia dall’equivocare tra l’impressionante massa dei mezzi tecnici propri della industria capitalistica, e il loro valore o costo21. Ridotto alla sua formulazione più semplice, prescindendo da ogni variazione e ripercussione del mercato, progresso tecnico equivale a minor spesa unitaria: eguale prodotto con minor capitale impiegato. Ma il capovolgimento della tesi del Marx operato dal Croce non consiste in questo. Consiste nell’aver introdotto un postulato che il Marx coi simboli, indicava come e = E: ossia v1 /v = C1/C = variazione di capitale variabile e di capitale tecnico proporzionale alla variazione del capitale complessivo. Con ciò la composizione organica del capitale (il rapporto di c e di v), che era l’argomento protagonista del teorema, semplicemente scompare. Chi voglia, potrà trovare l’ipotesi svolta dal Croce, nella casistica del Marx, sotto la formula 4, caso B, nel terzo capitolo del III libro del Capitale. «Il tasso di profitto non resta costante che allorquando e=E, perché la frazione v/c ri19. Cfr. Socialismo, Anno II, N. 3, marzo 1946. 20. Op. cit., p. 62. 21. C. Marx, op. cit., L. I, p. 531; cfr. L. III, c. XIII, p. 216.

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mane invariabile se si moltiplica [o si divide, aggiungeremo] il numeratore e il denominatore per lo stesso numero». Quello che valeva per il Marx a capitale crescente, vale per il Croce a capitale decrescente. Ma il caso del saggio di profitto costante era per il Marx un’eccezione. L’importante perciò è soltanto questo: sapere che cosa ha indotto il Croce a farne una regola, e a considerare il postulato e=E come un corollario. Dipende dall’aver sostituito la accumulazione, capitalistica con l’economizzazione del capitale? o da quale altro motivo? Il nostro interesse non può essere che questo: conoscere come si è operata quella estensione; in base a qual principio; e se è o no legittima; inoltre se reca veramente una smentita alla tesi del Marx. Diciamo intanto, per inciso, che solo con una formulazione di questo genere l’argomento del Labriola avrebbe potuto avere un significato (come non mancò di averlo per il Croce). Soltanto a impiego di capitale decrescente rimane libero sul serio un margine di sussistenze che non si travasano da v in c, ma rimangono disponibili per nuovi impieghi. Sussistenze esuberanti significano nuovo capitale, e nuovo capitale vuol dire reimpiego di lavoro. È ancora da vedere se questo significa aumento di valore. Ritornando alla tesi del Croce, la prima parte del suo argomento (ed è soltanto questa che abbiamo veduto sinora) pare semplice e evidente. Ma il pericolo del Croce è proprio di essere troppo cartesiano. Ogni discorso eccessivamente semplificatore, al modo di certe dimostrazioni matematiche, suscita il sospetto di contenere un artifizio. L’idea semplice del Croce, la sua notio communis, è la definizione di progresso tecnico: la quale resiste a tutte le critiche che finora le sono state mosse, ma si presta a un’altra obbiezione. E questa nasce dal modo come egli, quella definizione, la formula: proprio come i razionalisti formulavano le «nozioni semplici». Ossia egli adotta una definizione assoluta per un fenomeno contingente.

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«Il progresso tecnico consiste puramente e semplicemente in un risparmio di spesa sociale»22. «Ha per effetto necessario e immediato… quello di restringere il capitale impiegato». Ma questa non è più la definizione del progresso tecnico, è la definizione del progresso economico: anzi è il concetto stesso di economia. Non più una nozione empirica (come anche per il Croce avrebbe dovuto essere), ma un concetto filosofico. Progresso tecnico per il Marx significava semplicemente una determinata composizione organica del capitale, a prevalenza del capitale costante23; per il Croce coincide con la stessa categoria economica, significa utilità. È la legge del minimo mezzo. Il modo di volizione del particolare. Molto della sua posteriore filosofia della pratica deriverà dagli studi suoi di economia politica di quegli anni. Senonché progresso tecnico in economia, non significa senz’altro progresso economico, e non ha necessariamente per risultato una maggiore produttività né un minor costo24, anche se ricade, come ogni fenomeno economico, sotto la legge del minimo mezzo. Il Croce ha semplicemente sostituito una definizione a un’altra; è ovvio dopo di ciò, che la sua dimostrazione potrà essere altrettanto persuasiva quanto quella del Marx. Ma il fatto è che nell’esposizione del progresso tecnico condotta in questo modo scompaiono entrambi gli argomenti della tesi del Marx: non soltanto l’accumulazione capitalistica, (sul che non vi è niente da obbiettare) ma anche la composizione organica del capitale (che non è connessa all’accumulazione, obbligato22. B. Croce, op. cit., p. 152. 23. C. Marx, Il Capitale, L. III, c. VIII, p. 124. 24. Già il Galiani ne dava una definizione empirica abbastanza aderente: «il perfezionamento dell’industria altro non è che la scoperta di nuovi mezzi con l’aiuto dei quali si possa compiere un lavoro con minor numero di persone o con minor tempo di prima». (La Moneta, p. 156). Non si parla di minor costo.

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riamente, ma solo nell’esposizione storica di Carlo Marx); ed è questa che andava considerata. L’una disciolta per ipotesi, l’altra (vedremo) per deduzione. Ma già fin d’ora vien fatto di domandarsi, se, in questo modo, intere parti, numerosi capitoli del secondo e del terzo libro del Capitale non vengano semplicemente soffiati via. E le equazioni di cui erano pieni quei capitoli non erano compiaciuti virtuosismi, ma esprimevano il modo del Marx di impostare tutto il problema del profitto, come rapporto di capitale costante e variabile. Viceversa, nella trattazione del Croce, tutto si riduce al m.c.d. del lavoro. Quel rapporto ora si elimina, «la diminuzione deve affettare proporzionalmente tutte le parti del capitale, giacché tutto è in ultima analisi, prodotto del lavoro». Il problema delle proporzioni di c e di v, che occupa mezzo Capitale, scompare. Come è avvenuto questo tour de passe passe? A loico, loico e mezzo. Al Marx, che si dilettava di citazioni hegeliane e di esposizioni dialettiche della fenomenologia del plusvalore25 il Croce oppone la semplice logica dei generi e delle specie: questo e non altro ci sembra il motivo che lo induce a portare fino in fondo l’impegno del Marx, di trattare del profitto nell’ambito del processo complessivo della produzione. In questo senso complessivo significa il contrario di complesso, significa esteso e semplificato. Tutte le forme di capitale si riducono a lavoro: i capitali fissi e circolanti e costanti e variabili, tutti capitale sociale, cioè spesa sociale. Ecco dunque in che consiste il procedimento usato dal Croce: nell’aver sostituito il concetto di progresso tecnico col concetto di progresso economico, sviluppando questo concetto sul piano dell’economia complessiva (per totalità di imprese) con un rigore sconosciuto al Marx. Presto vedremo meglio come ciò avvenga. Ma nell’accingersi a discutere il quesito del saggio di 25. P. es., op. cit., L. III, Sez. I, c. III; cfr. la Prefazione al Capitale del 1873.

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profitto, non aveva dichiarato il Croce, preliminarmente, di «ammettere i fondamenti di quelle dottrine»? Bisogna chiederci se, con lo svolgerle rigorosamente in una concezione per totalità di imprese, egli si è attenuto a quell’impegno. Benché modesto, tutto il segreto della questione ci sembra che stia qui. Ed è meno semplice che non sembri. Infatti abbiamo già veduto che il sostituire un concetto di progresso economico al progresso tecnico, non è per se stesso in contraddizione con la tesi del Marx. Il Marx tiene conto della accumulazione capitalistica e dell’espansione del mercato, il Croce per comodità di rappresentazione ne prescinde. Tuttavia lo stesso Marx non avrebbe avuto niente in contrario a rappresentare il progresso tecnico (o almeno, un caso di progresso tecnico) come una produzione a costi unitari decrescenti. La sua casistica astratta delle leggi del profitto gli permetteva di considerare questa fattispecie. Quello che non avrebbe consentito, era di adottar proprio quell’ipotesi (e=E) che diminuisce egualmente capitale costante e capitale variabile e capitale complessivo, e che è il logico portato di una visione per totalità di imprese. Quella formula rappresentava per lui la descrizione di un caso secondario, come vedremo, non il comportamento tipico del capitale. Questo ci sembra il punto della questione; e se è così, non stupisce che tutte le altre critiche mosse sinora alla tesi del Croce, tanto le vecchie riassunte con molto vigore dal Battara, quanto le nuove da lui proposte, non colpiscano nel segno. Questo valga per l’accumulazione capitalistica. «Affermando che il progresso tecnico ha come effetto di restringere il capitale impiegato, egli non si mette contro il Marx, ma contro tutta l’economia classica». Il Croce potrebbe rispondere che egli, in quel tempo, non aderiva alla economia classica, bensì alla scuola edonistica. Ma soltanto il fatto di mettersi contro il Cardinal Federico e contro Perpetua, lui Croce, nipote del

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liberale Spaventa e scolaro del marxista Antonio Labriola, doveva far riflettere che il suo non era un andare né contro l’uno né contro l’altro. Quel «restringere il capitale» infatti ha un significato ben diverso, che ormai sappiamo. Che poi il Croce diminuisca il capitale complessivo (ciò che potrebbe risultare anche dalla semplice riduzione del capitale variabile), e con questo anche il capitale costante, ossia quei mezzi tecnici «la cui massa (secondo il Marx) aumenta sempre più in rapporto alla somma di forza operaia necessaria per impiegarli»26, anche ciò non deve scandalizzare. Quella svalutazione era ammessa già dal Marx: il progresso tecnico «fa diminuire il valore della maggior parte dei prodotti che funzionano come mezzi di produzione. Il loro valore non si eleva nella stessa proporzione della loro massa»27. Altra cosa è la statistica, diceva il Croce, altra l’economia. Per ipotesi, il Croce ha rappresentato il progresso tecnico come una produzione inalterata a costi decrescenti: poteva rappresentarlo come una produzione crescente a spesa inalterata o addirittura diminuita. È quello che farà nella seconda parte del suo ragionamento. Anche questa rappresentazione non contraddice, per se stessa, alla tesi del Marx. Ancora meno efficaci ci sembrano altri argomenti. Quello che il progresso tecnico non si verifichi praticamente venendo a mancare il suo presupposto economico, e cioè una maggior domanda di prodotti. Sappiamo invece che il concetto tecnico del Croce coincide anche troppo col concetto economico; infatti la cresciuta domanda non costituisce l’unico presupposto economico. Infine l’obbiezione che la veduta del Croce è statica, e quella del Marx dinamica. Abbiamo veduto che l’una può tradursi nell’altra. In conclusione nessuna di queste critiche 26. C. Marx, op. cit., L. I, p. 531. 27. C. Marx, ibid., L. III, c. XIV, c. XV.

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afferra la differenza effettiva tra il progresso tecnico del Marx e il progresso economico del Croce: e quel che è peggio, cercando lì la ragione delle conclusioni contrarie del Croce e del Marx, si affaticano invano a opporre i due concetti, senza vedere che essi si distinguono ma non si escludono, e che perciò il motivo del contrasto non va cercato in quella formulazione, ma nel modo di usarla, ossia nel postulato che in seguito il Croce introduce. 4. A questo abbiamo accennato col dire che il Croce trascina il Marx completamente sul terreno della produzione sociale (nel modo in cui la intende), mentre il Marx rimaneva fedele a concetti, come capitale costante e variabile, mezzi di produzione e articoli di consumo, forza di lavoro, tempo medio, ecc, che derivano dalla analisi dell’economia per imprese singole svolte nel primo libro del Capitale. L’assunto dichiarato dal Croce, in quel suo saggio del 1899, era di controllare la deduzione del Marx, facendosi, al caso, più marxista del Marx. In effetto significò per lui subordinare tutti gli sviluppi della dottrina del profitto al principio del complesso di produzione per totalità di imprese28. Ma questo modo di essere più marxista del Marx significava ritornare in qualche modo all’economia classica dello Smith e del Ricardo. Perché la separazione del Marx da questi era avvenuta non per un progresso di sintesi, di unificazione di elementi, di maggiore coerenza e semplificazione, ma di distinzioni empiriche, di individuazioni pratiche a fondo sociologico29. I fattori della produzione per il Marx non tendono affatto a risolversi l’uno nell’altro, ma a distinguersi, anzi addirittura a opporsi o a asso-

28. Cfr. anche in Materialismo storico etc., il saggio VII, p. 170. 29. Cfr. la 3 sezione del II libro dal Capitale, spec. c. XIX, XX.

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ciarsi; sono l’operaio, l’imprenditore, il capitalista, il redditiero, che si agitano vivaci come in una cronaca. Spingere alle ultime conseguenze quei concetti significa non portarli a perfezione, ma riportarli a quell’economia generale da cui sono usciti. Il conflitto tra l’interpretazione del Croce e la tesi del Marx (e siamo convinti che sia nata proprio così, come una interpretazione in una mente diversa) non consiste nel partire da una differente definizione del progresso tecnico, ma nell’applicarla (ciò che non era necessario) in modo da sciogliere e eliminare certi concetti che il Marx riteneva indispensabili al suo sistema: quelle distinzioni, di lavoro «conglutinato» e di lavoro «vivo», di capitale costante e di capitale variabile, che egli aveva ricavato dal Ramsay e dall’Hodgskin, e che gli premevano enormemente. Esse nascevano da un’analisi della produzione per capitali singoli, ma non scomparivano in una visione per totalità di imprese. Il capitale singolo, per il Marx, è «una frazione indipendente e autonoma del capitale sociale»30, e per l’imprenditore costituisce una quantità fungibile che ha le proprietà commutative. Ma per la società, il capitale complessivo non costituisce un totale di quantità contabili: l’equivalenza dei valori non è un’equivalenza di prodotti: lo scambio non annulla le differenze materiali della produzione: perciò il capitale sociale non è meno ma più differenziato dei capitali individuali. Processo di insieme per totalità di imprese significa niente altro che processo per settori di produzione. L’espediente col quale queste distinzioni sono eliminate dal Croce è lo stesso che A. Smith usava per ridurre il capitale in profitto e il profitto in salario: un processo di esaustione, per il quale il capitale costante si riassorbe virtualmente nei salari e nei capitali che sono serviti a produrlo, e questi capitali a loro volta in altri

30. C. Marx, op. cit., L. II, c. XX, p. 407; «Selbständig fungirenden, mit eigem Leben begalten Bruchstücks des gesellschaftlichen Kapitals».

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salari, e così via31. Quel così via che suscitava il sarcasmo del Marx. Con lo stesso procedimento sommario, nell’esposizione del Croce, il capitale percorre un’intiera serie di periodi riproduttivi, e attraverso questi si svaluta in entrambe le sue parti. «Ma considerare i singoli stadi, annota il Croce, sarebbe un’inutile complicazione»32. Per il Marx viceversa è futile ogni spiegazione cosiddetta «scientifica», che trascuri il processo di riproduzione sociale nella sua forma complessa e concreta33. Questo è il nocciolo della questione: non il prescindere dall’accumulazione capitalistica (ciò che comporta una semplice rappresentazione di comodo), e neppure il ridurre in qualche misura il capitale costante (ipotesi ammessa, in via sussidiaria anche dal Marx); ma il ridurre indifferentemente capitale variabile e costante. In parole povere la legge di caduta del saggio di profitto, provocata dall’aumento relativo dei mezzi di produzione, viene smentita soltanto se la diminuzione del capitale variabile si ripercuote, sotto forma di svalutazione, anche sul capitale tecnico. È ciò che postula il Croce. Naturalmente anche per lui questo non si verifica entro un ciclo produttivo e per un capitale isolato, ma per una serie di periodi e in un sistema economico completo: ma l’estendere quella svalutazione e farne una conclusione efficace dipende appunto dal prendere in esame il capitale sociale come una quantità contabile al pari dei capitali individuali che lo compongono. Perciò si può dire che il nodo della questione consiste in quel criterio dell’economia sociale che il Croce ha tenuto presente in modo diverso (e astrattamente più rigoroso) del Marx, e che i critici del Croce, dal Racca nel 1899 al Battara nel 1946 hanno trascurato di esaminare. L’inefficacia delle loro obbiezioni deriva

31. C. Marx, op. cit., L. I, c. XXIV, p. 498; L. II, c. XIX, p. 348 e seg. 32. B. Croce, op. cit., p. 152, nota. 33. C. Marx, op. cit., L. II, c. XX, p. 433.

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esclusivamente dall’aver tralasciato di chiedersi su quale principio il Croce fondasse il suo ragionamento. Un esempio che lo dà ancora l’ultimo critico che ha preso in esame il problema. Il Croce dichiara che il progresso tecnico comporta diminuzione del capitale costante, rebus sic stantibus, cioè a produzione inalterata; il critico conclude che allora in un’economia dinamica, rebus sic non stantibus, avverrà il contrario, ossia il capitale costante crescerà. Ma da ipotesi differenti non discendono conseguenze opposte. Che cosa avverrà in una riproduzione progressiva, dipenderà dal calcolo dei suoi fattori. Il Marx, che ne ha tentato la casistica (nel XIV capitolo del terzo libro del Capitale) ha trovato che più d’uno portava alle stesse conseguenze del Croce, alla diminuzione del capitale costante34. A voler dare una formulazione precisa a quell’accusa sommaria di paralogismo, si potrebbe esporla in questo modo: un reimpiego di operai con capitale svalutato è una contraddizione in termini: il reimpiego degli operai impedisce la svalutazione del capitale; perciò in una economia dinamica (a riproduzione progressiva) non si dà svalutazione del capitale costante. Qui si dimentica semplicemente che il reimpiego degli operai comporta aumento del prodotto. Generalità per generalità, ci sembra più efficace esprimere quella stessa obbiezione in modo inverso. Finché non c’è reimpiego di operai, vale a dire aumento di prodotto, come potrà esserci svalutazione del capitale? Crescerà il volume dei profitti, non diminuiranno i prezzi. In questo caso una risposta c’è. Il nuovo capitale, in una veduta per imprese singole potrà impiegarsi su un altro mercato o in qualsivoglia altra maniera che non ne ribassi il valore e non svaluti gli impianti. Viceversa in una concezione per totalità di imprese (come il Croce l’intende) l’aumento di profitto significherà senz’altro svalutazione del capitale. Come si vede, si ritorna sempre a quella distinzione. 34. C. Marx, op. cit., Lib. I, p. 259, 438.

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La sua utilità è confermata dagli inconvenienti a cui il trascurarla conduce. Infatti, dopo aver polemizzato in favore dell’accumulazione capitalistica, anche il critico citato adotta, come più limpida, una formulazione statica che ne prescinde (a capitale complessivo e a prodotto inalterati)35. Ma con ciò ritorna alla posizione del Labriola 1898, con gli stessi inconvenienti. A parità di spesa sociale, il lavoro vivo risparmiato nella nuova composizione organica viene assorbito dal maggior lavoro incorporato nei mezzi di produzione. Nessun vantaggio, almeno economico. Il progresso della tecnica non coincide col progresso dell’economia. Che questa sia una delle contraddizioni inerenti al sistema capitalistico, è stato proprio Carlo Marx il primo a sostenerlo; ma così esposta contraddice allo spirito del capitalismo, e capovolge Marx. A precisare la posizione del Croce, chiediamoci piuttosto se non gli sarebbe stato possibile accordare la sua formula con quella del Marx: conservare il principio del minor costo unitario e insieme quello della più alta composizione del capitale: ossia far coincidere il progresso economico col progresso tecnico. Diminuzione di spesa sociale (progresso economico); ma diminuzione non proporzionale del capitale costante e variabile (progresso tecnico). In questo caso non compare quel postulato e = E, già formulato dal Marx, e perciò cala il saggio di profitto. La riproduzione progressiva a costi diminuiti, che è l’argomento svolto in seguito dal Croce, risulterà semplicemente una forza antagonistica alla legge, come per il Marx. Non è esatto dunque quello che il Croce dichiara: «l’errore del Marx è stato di aver attribuito inavvedutamente un valore maggiore al capitale costante che dopo il progresso tecnico viene messo

35. Cfr. Socialismo, cit., p. 63.

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in movimento dagli stessi antichi lavoratori»36. Tutto il nerbo dell’argomento crociano infatti non è consistito nel negare il cresciuto valore del capitale nel processo riproduttivo, ma nel negare la sperequazione tra capitale costante e capitale variabile. Il che equivale a dire: la composizione organica del capitale non ha significato in un’economia per totalità di imprese. Tirando le somme, non è il Marx che sostiene un concetto del progresso tecnico incompatibile con quello di progresso economico, ma il Croce che prospetta il progresso economico come incompatibile con il progresso tecnico (composizione organica). Si tratta di un postulato che egli insinua quasi inavvertitamente (con una parentesi e con una nota) nel corso dalla dimostrazione. Ammesso ciò, la sua dimostrazione non è scalfibile. Attribuito al progresso tecnico un significato di progresso economico, essa consiste nel trarne le estreme conseguenze sul piano di una produzione per totalità di imprese. In questa sede si elide la differenza tra capitale costante e capitale variabile, e la diminuzione dell’uno affetta anche l’altro. È la attitudine della economia generale a ridurre i diversi fattori a un unico minimo denominatore comune: lavoro o reddito o valore marginale o prodotto o anticipazione ecc. Il postulato che il Croce adopera nel corso della sua dimostrazione possiamo perciò formularlo così: le descrizioni del fenomeno economico per singole imprese perdono il loro significato in un sistema per totalità di imprese. Ma va da sé che un postulato indimostrato è un difetto logico. E la sua dimostrazione dovrebbe provare: 1) che una corretta concezione per totalità di imprese non ammette certe distinzioni valide per imprese singole; 2) che il Marx intendeva nel II e nel III libro del Capitale, darci una rappresentazione, rigorosa come quella dell’economia pura, del complesso di imprese. 36. B. Croce, op. cit., p. 158.

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5. A questo punto nasce spontaneo un dubbio: che tutto l’equivoco risalga al Marx, e consista nell’aver adoperato, nel III libro del Capitale (Gesammtprozess der Kapitalistischen Produktion) concetti definiti e validi nel primo (Produktionsprozess). Ma perché il Croce, al quale andiamo debitori di tante chiarificazioni, non ha denunciato nel suo saggio, né dopo di allora, l’incompatibilità tra quelle premesse e quegli sviluppi? La cosa è tanto più notevole in quanto l’argomentazione del Croce assume un’importanza decisiva soltanto in grazia di quel principio. Lo prova il fatto che essa non è nuova, ma esisteva allo stato inoffensivo nello stesso Capitale di Carlo Marx. Il Croce stesso vi ha accennato di sfuggita. La cosa merita qualche attenzione. A primo avviso tanto l’esposizione di Carlo Marx quanto la rettifica di B. Croce suggeriscono questo appunto: che parlando l’uno e l’altro di aumento della produttività, mantengono costante il saggio del plusvalore. Tasso di plusvalore è equivalente di produttività. Come si può parlare di una cresciuta produttività, sinonimo di progresso tecnico, senza diminuire il «tempo necessario» e perciò senza variare pl/v? Di fatto il Marx parla spesso di produttività «costante o anche crescente»37, e si prospetta persino il caso in cui l’aumento del saggio di plusvalore compensi o sopravanzi gli effetti del diminuito impiego di capitale variabile38. Ma questa compensazione, si affretta a avvertire, ha limiti insuperabili. Principale il limite fisiologico della giornata di lavoro, per cresciuti che ne siano il prolungamento e l’intensificazione. Il plusvalore è una 37. C. Marx, op. cit., L. III, c. XIII, p. 193, 207; cfr. Teorie sul plusvalore, vol. II, p. 179. 38. C. Marx, Il Capitale, L. I, p. 246, 247; L. III, c. XIII, p. 207. La casistica di tutte le ipotesi tipiche a plusvalore variabile, nel L. III, c. III, § 2, p. 35.

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parte del lavoro, è la più bella donna non può dare che quello che ha. L’altro limite è costituito dal rapporto inverso, messo in luce dal Ricardo, tra produttività e valore: diminuendo l’impiego di lavoro, si abbassa anche il valore del prodotto. I due effetti si elidono e perciò, di massima, il Marx li trascura39. Lo stesso si può dire del Croce. In una esposizione per totalità di impresa quel fenomeno non ha nemmeno bisogno di dimostrazione. Tuttavia il Marx presenta un caso nel quale la cresciuta produttività è capace di modificare di fatto il plusvalore. È allor quando il perfezionamento industriale «fa ribassare il prezzo delle merci comprese nei mezzi di sussistenza dei lavoratori»40, e perciò i salari. Ma in una economia sociale qualsiasi ribasso influisce sui salari, anche quello delle orchidee; tutta la produzione sociale si può considerare, in ultima analisi, un sistema di sussistente operaie. Ma dobbiamo adoperare appunto un termine parodiato dal Marx, «in ultima analisi», ultimately41. Ecco spiegato perché il Croce trasformi in regola ciò che per il Marx era una eccezione. In un sistema per totalità di imprese (e parliamo di un sistema indifferenziato e intercomunicante come vasi d’acqua, secondo la veduta del Croce) non esiste più differenza tra capitale costante e capitale variabile. Il ribasso delle merci è ribasso dei salari, e viceversa. Ecco quindi che esso «affetterà proporzionalmente tutte le parti del capitale». In questo caso non si verificherà più la caduta del saggio di profitto. L’aumento del tasso di plusvalore impedirà il verificarsi di quella legge. È quanto aveva già ammesso per primo il Marx, ma sempre in via subordinata. «A parte qualche eccezione, per es. allorché la produttività del lavoro svaluta in misura eguale

39. C. Marx, op. cit., L. I, c. XV, p. 337; c. XVII, p. 435-440, etc. 40. C. Marx, op. cit., L. I, c. XII, p. 255-258; L. III, c. XIII, p. 209. 41. C. Marx, L. II, c. XIX, p. 348.

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tutti gli elementi del capitale costante e del capitale variabile, il tasso del profitto cala malgrado il crescere del tasso del plusvalore»42. «La massa di profitto pertinente ad ogni singola merce diminuisce considerevolmente sotto l’azione dello sviluppo della produttività del lavoro, malgrado l’aumento del saggio di plusvalore; e questa diminuzione, al pari della caduta del tasso di profitto, è rallentata solo dal deprezzamento degli elementi del capitale costante e dall’azione di altri fattori di cui ci siamo occupati nella prima sezione di questo volume, che spingono all’aumento del tasso di profitto persino quando il saggio di plusvalore rimane costante o addirittura diminuisce». Da ciò risulta che il principio secondo il quale può essere considerata vera o falsa la caduta del saggio di profitto è uno solo: la considerazione del capitale sociale. Vera se entra in una visione analitica e prevalentemente sociologica che non perde di vista, anche nel processo di insieme, i fattori e i cicli della produzione per imprese o per settori di produzione43 (e questo ci sembra, in genere, il caso del Marx); falsa in una visione sintetica e prevalentemente economica, che coglie le interdipendenze dei fenomeni nelle loro conclusioni contabili, (come è la visione di B. Croce). Anche il Croce accetta, in via ipotetica, il principio del valore-lavoro: ma per l’uno è lavoro vivo, «forza di lavoro», per l’altro è «lavoro sociale». Deriva quello da una prevalente esperienza sociologica, questo da una prevalente astrazione economica. Il Marx parla più facilmente di «lavoro medio necessario», il Croce di «spesa sociale». Proprio quel metodo comparativo che il Croce ci ha insegnato a vedere nel Marx è quello che ci spiega la simpatia del Marx per le distinzioni empiriche, per la realtà «concreta e complicata», 42. C. Marx, op. cit., L. III, c. XIII, p. 207; cfr. p. 209. 43. Cfr. op. cit., L. II, c. XVIII, p. 327; c. XX, p. 366.

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e la sua antipatia per le «verità in ultima istanza», per i concetti generalissimi, da lui considerati assiomi tautologici. Per questo tutta la terza sezione del II libro del Capitale che considerava «la riproduzione e la circolazione del capitale della società», si fonda, in polemica con lo Smith, sulla divisione del prodotto in mezzi di produzione e articoli di consumo; e il III libro che tratta del processo di insieme della produzione capitalistica, è per intiero un calcolo dei rapporti tra capitale costante e capitale variabile. Tanto poco queste distinzioni sono liquidate da una concezione per totalità di imprese. Nella mente del Marx la specie prevale sempre sul genere e gli è irriducibile, e tutta la sua dialettica, consiste nel trovare e combinare questi fattori semplici che conservano sempre i caratteri della descrizione empirica da cui derivano e che appartengono alla economia politica come a una scienza storica. La più efficace caratterizzazione della mente del Marx ce l’ha data proprio il Croce: «assetato della conoscenza delle cose (delle cose concrete e individuali) dava poco peso alle disquisizioni sui concetti e sulle forme dei concetti: il che talvolta riusciva a indeterminatezza dei concetti stessi»44. E nessuna osservazione è più aderente di quella del Dùhring (riportata dal Croce) su certe espressioni del Marx, che allgemein aussehen ohne es zu sein. L’effetto di una simile mentalità è quello che finora siamo venuti constatando: una riluttanza a portare all’estremo e all’astratto le sue definizioni e a risolverle in concetti generali. Rimane da chiedersi se un’ulteriore generalizzazione sarebbe stata compatibile con quella funzione comparativa che avevano le formule del Capitale, e se a estendere ulteriormente quei termini si rimane ancora in una economia generale. Quella che il Marx definisce complesso di insieme o produzione sociale è sempre per lui una economia determinata per settori: ciò appa-

44. B. Croce, op. cit., p. 82.

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re dalle continue distinzioni, vere e proprie paratie stagne, che egli mantiene tra momenti e forme diverse della produzione, che egli considera indispensabili per la concezione sociale più ancora che per quella individuale. Infatti, se lo scambio opera il miracolo di annullare le differenze tra i diversi prodotti, e ridurli a capitale, cioè a valore, non è così invece del prodotto totale della società. Questo «deve contenere tutti gli elementi materiali della riproduzione»45. A fare un passo oltre, a eliminare quelle differenze e a unificare quei fattori, si ottengono forse dei risultati di una logica più coerente, ma si esce dai problemi propostisi da Carlo Marx. È di ciò che non abbiamo trovato la consapevolezza, almeno palese, nel saggio del Croce. Arrivati alla fine di quello scritto ci si domanda: posto che la differenza delle conclusioni dipende, senza dubbio, da una diversità di metodo, il vero problema da affrontare non comincia proprio dove lo scritto termina: ossia nello spiegare con le caratteristiche (o se si vuole, con le imprecisioni) del metodo usato dal Marx, i risultati ai quali egli perviene, e che si possono anche ritenere erronei? Parafrasando una espressione del Croce si può dire che egli «ha sfiorato il problema senza urtarvi», là dove attribuisce quello «strano errore» a un abuso del metodo comparativo… «al quale il Marx ricorreva senza rendersi pieno conto del proprio procedere». L’errore consisterebbe «nel valutare il capitale tecnico di una società più progredita alla stregua di quello di una società meno progredita»46. Se ciò significa che il Marx non ha tenuto conto della svalutazione del capitale tecnico prima e dopo il progresso produttivo, ciò è esatto, ma è appunto quello che va spiegato. È proprio certo che il Marx lo fece «inavvertitamente»? Sappiamo al contrario che egli non trascurò, con minuziosa sottigliezza, nessuno

45. C. Marx, op. cit., L. II, c. XX, p. 408. 46. B. Croce, op. cit., p. 159.

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degli aspetti del problema, nessuna delle ripercussioni a cui porta il variare di questo o di quel fattore: al punto che tutto quello che il Croce ha potuto escogitare contro la sua tesi, è già contenuto nel Capitale: differente è soltanto l’estensione data a quelle conclusioni. Ci sembra invece che il suo abuso di metodo (se così vogliamo continuare a chiamarlo) consista nell’applicare non i risultati di una società meno progredita a una più progredita, ma i principi di una concezione nata dall’esame del processo per capitali singoli a un sistema per totalità di imprese; cosa ben diversa. In che senso quindi ci si trovi di fronte a un abuso del metodo marxistico è un quesito lasciato aperto dal saggio del Croce, e da ciò derivano le incertezze e gli equivoci suscitati in tanti lettori. Risolverlo comporta rispondere ad un problema più ampio: in che cosa consista di fatto il metodo di C. Marx. Che non è il metodo dell’economia pura, ma nemmeno è del tutto, lo riconosceva il Croce, quel metodo comparativo da lui individuato nel Capitale. È un «terzo uomo». Se il risultato al quale il Croce mirava era di dimostrare che, sviluppata come una legge di economia pura, la legge della caduta del saggio di profitto prova proprio l’opposto, neanche quel risultato, lo vedremo tra poco, ci sembra che egli lo abbia raggiunto: ma è senz’altro da escludere che egli volesse quel risultato. Né il Croce, è noto, riteneva che i concetti del Marx fossero concetti di economia pura, né lo intendeva il Marx, in continua polemica con gli economisti classici suoi predecessori. Concetti concreti, o storici, o tipici, o sociologici che fossero i suoi, in nessun modo si prestavano a essere ridotti a quella rigorosa generalità che è richiesta da una visione astratta, valida per il complesso della produzione. In questo senso si può dire che il Croce trasformava le conclusioni del Marx perché ne mutava le premesse. Lo abbiamo veduto là dove egli traduceva in un concetto di pura economia (massima soddisfazione con minima spesa) quel concetto di una certa combinazione dei capitali; o

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dove assimilava i concetti empiricamente irriducibili di tipi di capitali eterogeni al concetto, non meno astrattamente economico, di spesa sociale. Il problema è questo: fino a che punto quei concetti si potevano scambiare e fondere, ossia in quale misura si prestavano ad essere generalizzati? Ha avuto torto il Marx a non farlo, o il farlo urtava contro l’uso per il quale gli servivano? Quale è il limite oltre il quale, di massima, non si possono generalizzare concetti comparativi, e in particolare fino a che punto la sua formula del valore-lavoro conserva il suo significato in una economia per produzione totale? Eliminare la differenza tra capitale constante e capitale variabile, come fa il Croce, può sembrare una logica conseguenza di una veduta per totalità di imprese, ma non è più la veduta del Marx, accettata in partenza; ossia significa abbandonare proprio il modello sociologico di un’economia divisa per classi, dove il capitale è capitale e il lavoro lavoro, ecc., e dove i cicli di riproduzione non si riassumono con simultaneità nei loro risultati contabili, né i prodotti sul mercato sono illimitatamente fungibili e risoluti in una entità unica (il valore-lavoro), ma sono merci tante quante, non più e non diverse, e così via. Altrimenti il problema scivola a conclusioni che il Marx rifiutava e il Croce soltanto in via ipoteca può sostenere. 6. Quello finora svolto è stato un esame dei modi e criteri usati dal Croce nel modificare la dimostrazione del Marx. E abbiamo veduto che i modi consistevano nel sostituire al concetto di progresso tecnico il progresso economico, e alla composizione organica del capitale una svalutazione proporzionale di tutte le sue parti; quanto al criterio, l’abbiamo trovato in una più generale e rigorosa concezione dell’economia complessiva. Rimane ancora da esaminare il ragionamento conclusivo del Croce, col quale una veduta marginale del Marx veniva elevata a norma. Resta cioè da chiederci se, adottando quella definizione, in-

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troducendo quel postulato e conformandosi a quel criterio, B. Croce dimostra veramente che il saggio di profitto non diminuisce ma aumenta. Fin qui siamo andati spediti: le nostre osservazioni, suggerite dal confronto tra l’esposizione del Marx e quella dei suoi critici, e principalmente del Croce, si limitavano a un’analisi comparativa. Ci hanno portato a concludere che nel caso del Marx e del Croce i risultati diversi dipendono da due considerazioni diverse, le quali usano differentemente il concetto di valorelavoro. Nel rispondere a quest’altro quesito, invece, proviamo quel sentimento di esitazione che il Croce provava davanti a C. Marx. Anche nel caso di B. Croce vale l’osservazione che «parecchie volte errori a lui addebitati si sono chiariti equivoci degli avversari». La dimostrazione del Croce si risolve nel dir questo. Il progresso tecnico diminuisce il capitale impiegato, e perciò contrae il valore, non il volume della produzione. Ma un volume di prodotti eguale con valore minore, costituisce un nuovo capitale di riproduzione capace di assorbire le stesse forze di lavoro di prima, cioè riassumere i lavoratori licenziati: «la stessa massa di profitto con capitale complessivo minore significa saggio di profitto cresciuto. Proprio l’opposto di ciò che il Marx aveva creduti di poter dimostrare»47. Senonchè una formulazione che abolisce la composizione organica del capitale non consente più di parlare di plusvalore, ma semplicemente di profitto, come reddito del capitale. La forza di lavoro messa in moto dal capitale non ha più rilevanza. Parlare di plusvalore (che nasce dal lavoro vivo) significa distinguere tra capitale costante e variabile, e quindi ammettere un diminuito impiego di forza di lavoro, dipendente dalla

47. B. Croce, op. cit., p. 155.

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contrazione non del capitale complessivo, ma del capitale variabile; con ciò la caduta del saggio di profitto. Altrimenti vorrebbe dire ammettere il plusvalore delle macchine. Fuori di qui, siamo fuori del sistema valore-lavoro: siamo in un sistema di prodotto e di scambio. Ma in nessun caso la rappresentazione del prodotto deve distrarci da quello che unicamente conta (per il capitalista), il valore. E si intende che adesso il valore non dipenderà più dalla forza di lavoro, ma dalla spesa sociale (tutta forza di lavoro, ma ultimately). Nel ciclo di produzione a composizione tecnicamente progredita, diminuendo il capitale, il prodotto rimane inalterato in estensione, ma diminuisce in valore: nel ciclo successivo (di riproduzione) il capitale impiegato, come somma di beni ritorna al livello anteriore al progresso tecnico (e rimpiega altrettanti lavoratori quanto prima), ma con un valore diminuito: anche il nuovo prodotto che ne risultava perciò sarà cresciuto in volume ma non in valore. Il progresso tecnico ha diminuito il costo e quindi il valore del prodotto, aumentandone la massa: lascia inalterato il profitto e il saggio di profitto. Questa conclusione risulta da un sistema di ipotesi che non sono quelle del Capitale; perciò, quale che sia il risultato esatto (quello del Croce o quello qui proposto), più importanti della conclusione ci sembrano i criteri che l’hanno provocata, ossia i principî che hanno guidato la confutazione di B. Croce; e che abbiamo cercato di mettere in luce. Che poi molte difficoltà del Capitale dipendano da un disaccordo tra i criteri validi per le singole imprese e la loro applicazione alla produzione sociale, questa è stata già una tesi del Graziadei48; tanto più stupisce quindi che le sue critiche 48. A. Graziadei, Le capital et la valeur, Parigi e Losanna 1937. Parte I, c. III; parte II, c. IV, etc.

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al Croce risultino, in complesso, imprecise e inefficaci49. La chiave che poteva servirgli per veder chiaro in quel saggio, l’ha adoperata invece per aprirsi una porta da cui cacciar fuori tutta la concezione marxista del valore-lavoro e fare entrare la sua concezione del lavoro-prodotto (che è lontana dalla veduta del Croce meno di quanto sembra). Perciò la sua critica esce dall’ambito del nostro esame. Sta di fatto che il Marx, anche quando trattò, del processo complessivo della produzione capitalistica, non volle abbandonare quei concetti che aveva foggiato nell’esame della produzione per singole imprese: perché il complesso economico sociale era per lui la combinazione, non la risoluzione dei processi individuali. Inoltre, se è vero che non c’è economia senza valore (ossia apprezzamento utilitario), è anche vero che una specificazione sociologica del valore come lavoro non ha senso se non in quanto distingue i diversi modi empirici del lavoro produttivo, i quali a loro volta costituiscono tanti diversi valori di scambio. Questo non accade dove l’intera concezione dello scambio è superata, perché tutto si riassume semplicemente in lavoro, ossia in una concezione astratta e rigorosa della economia per totalità di imprese. Il concetto di valore lavorativo è una specificazione del valore adoperata dal Marx per dimostrare che i risultati economici del capitalismo sono in conflitto con gli interessi sociali50: usato come una categoria generale, opera a rovescio, è Saturno che ingoia i figlioli, quelle distinzioni e valutazioni che aveva procreato. Difatti il Marx non lo usa mai intenzionalmente in questo senso. Se si vuole, si può dire che un’effettiva concezione per capitale sociale o totalità di imprese in Carlo Marx non si trova: ce l’ha introdotta, merito e arbitro suo, Benedetto Croce.

49. A. Graziadei, La crisi del capitalismo e le variazioni del profitto, Milano 1940, p. 72 e sgg. 50. C. Marx, op. cit., L. III, c. XV, p. 231.

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Abbiamo detto anche che la svalutazione del capitale costante era stata tenuta presente già dal Marx (e in modo meno fuggevole di quel che il Croce accenna)51, come un fattore antagonistico della caduta del saggio di profitto. Lo stesso si dica del cresciuto volume del prodotto a parità di valore, fenomeno che favorisce indirettamente gli imprenditori52. L’uno e l’altro combattono la legge, ma non la sopprimono. Lo impedisce proprio il concetto di plusvalore. La macchina moltiplica l’efficienza della mano d’opera, il plusvalore diventa un multiplo del tempo medio necessario, e il tempo necessario può ridursi a una frazione minima del tempo medio; ma il plusvalore ha sempre un limite, poiché il valore è sempre inversamente proporzionale al prodotto53. Aumenta il prodotto, non il valore, che è quel che conta per il produttore capitalista. Solo considerando il sopravalore in termini di sopraprodotto, lo si può moltiplicare senza misura. Il che dimostra che non era del tutto meritata la critica del Croce al Graziadei. Ma una veduta del complesso produttivo che prescinda dal valore di scambio non è più un’economia capitalistica. Sarà un’altra economia particolare, o un’economia generale: in ogni caso fuor dall’assunto di Carlo Marx. In conclusione, delle due proposte capaci di modificare i risultati del teorema: diminuire il capitale costante (col Croce) o aumentare il saggio del plusvalore (in termine di prodotto); l’una conduce a risolvere tutto il processo economico in astratto lavoro, fatto uguale a lavoro, l’altra a abbandonare il concetto di valore per quello di prodotto. Entrambe portano fuori del sistema del Marx.

51. B. Croce, op. cit., p. 156. Secondo il C., in un unico punto, dove egli parla della sovrappopolazione, nel s. IV del c. XIV. Ma il Marx ne tratta soprattutto nei s. 1 e 3 del c. XIV, e nel II e nel XIII del III libro; inoltre ne aveva già trattato nel I libro, c. XII, pp. 255, 258 ect. 52. C. Marx, op. cit., L. III, c. XV, p. 230; c. XIII, p. 199. 53. C. Marx, op. cit., L. I, c. XV, pp. 335, 337; c. XVII, p. 437.

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Nel suo saggio del 1899, Benedetto Croce avanzava la propria obbiezione con rispettosa cautela. Più che una confutazione, a noi quella oggi sembra la proposta di rettificare l’intiera prospettiva del problema, conservandone i dati, per modificarne le ipotesi, e con queste le conclusioni: ciò che gli antichi chiamavano «salvare le apparenze». Di questa mutata prospettiva, abbiamo cercato di mettere in luce i principî, sollevando qualche dubbio sulle conclusioni. Risultati che a taluno sembreranno poveri, a taluno eccessivi. Speriamo di aver concluso in modo da deludere gli spiriti polemici. È ben raro che nella storia delle idee si trovino errori di deduzione che spetti ai posteri di correggere trionfalmente. Si trova invece spesso, anche da parte dei massimi pensatori, poca chiarezza nell’esporre i propri presupposti, la quale diventa tendenza a modificarli, nelle discussioni che seguono. Per questo risolvere una questione, in sede storica, non significa che chiarire i termini di quella questione. Milano, 1946.

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La critica revisionistica della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto Giulio Pietranera

1. L’importanza della legge marxiana della caduta tendenziale del saggio dei profitti deriva dal fatto che essa si identifica con la teoria del valore-lavoro e sostanzia il sistema economico del Capitale. Marx non l’ha compiutamente svolta nemmeno nel libro III e non l’ha direttamente connessa con la teoria del valore-lavoro, del saggio medio del profitto e dei prezzi di produzione, eppure è intuibile che da questa connessione avrebbe potuto scaturire la soluzione delle difficoltà che il libro I segnalava e che il III si proponeva di superare. Il Croce ha messo in giusto rilievo la parte capitale che la legge dei profitti gioca nell’economia marxiana: Era qui per lui «il mistero intorno al quale si era travagliata tutta l’economia politica da Adamo Smith in poi»; e nei vari tentativi di soluzione del problema vedeva la ragione delle divergenze delle varie scuole economiche. Lo smarrimento del Ricardo innanzi al fenomeno del progressivo decrescere del saggio del profitto gli sembrava nuovo documento della serietà di quell’intelletto, che scorgeva l’importanza vitale del fatto per la società capitalistica1.

1. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, in Materialismo storico, cit., pp. 146 e sgg.

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Il Graziadei ha aggiunto: Anzitutto nessun economista ha mai dato alla pretesa legge della discesa tendenziale del saggio del profitto uno sviluppo così largo come le ha impresso il Marx, né le ha mai assegnata una funzione così importante rispetto alla vita stessa dell’economia capitalistica 2.

2. Riferiamo la legge dei profitti nelle stesse parole con le quali la riassume il Croce: La legge è stata dal Marx ricavata dalla considerazione degli effetti economici dei progressi tecnici. Il Marx afferma che il progresso tecnico accresce la grandezza e cangia la composizione del capitale complessivo, facendo crescere la proporzione del capitale costante rispetto al variabile, cosicché per tal modo venga a diminuire il saggio di profitto, il quale si genera, com’è noto, dal sopravalore, prodotto dal capitale variabile, diviso pel capitale complessivo. Egli si figura così il fatto. Accade un progresso tecnico; si foggiano nuove macchine, che prima non esistevano. Il capitale, impiegato nella produzione, è stato finora, supponiamo, complessivamente di 1000, ripartito in 500 c e 500 v, ed impiegante 100 lavoratori; il sopravalore = 500, ossia il saggio di esso al 100 per cento; e quindi il saggio di profitto del 500/1000 = 50 per cento. Per effetto del progresso tecnico e della costruzione di nuove macchine, i 100 lavoratori, che sono mantenuti dal capitale variabile di 500, restano sempre impiegati nella produzione; ma affinché ciò sia possibile, dovranno mettere in movimento un capitale costante piu grande, che supporremo di 200 maggiore dell’antico. Onde si avrà, per effetto del progresso tecnico, un capitale complessivo di 1200 = 700 c + 500 v, e restando immutato il saggio del sopravalore nel 100 per cento, il saggio di profitto sarà di 500/1200 = circa il 41 per cento, ossia sarà disceso dal 50 per cento al 41 per cento. Dunque, 2. A. Graziadei, La crisi del capitalismo, cit., p. 27.

209 decadenza necessaria del saggio di profitto sotto l’ipotesi del progresso tecnico. Ma questa ipotesi è il fatto reale, di tutti i giorni, della società capitalistica moderna. Dunque decadenza effettiva del saggio medio di profitto nella società capitalistica moderna. Ma questa legge è più o meno attraversata da altri fatti, più o meno transitoriamente controperanti. Dunque, caduta soltanto tendenziale3.

3. Tale la presentazione crociana della legge dei profitti; se consideriamo tuttavia l’analisi che il Marx ha dedicato, nel libro III del Capitale, ai rapporti fra il capitale complessivo e la sua composizione organica; al saggio del plusvalore e del profitto e ai loro rispettivi movimenti tendenziali, è agevole rilevare che la tendenza alla caduta del saggio del profitto viene da lui ammessa soltanto accanto alla possibilità della sua costanza e della sua stessa ascesa4. Il caso della costanza e quello della ascesa del saggio del profitto appaiono però eccezionali e quindi controperanti rispetto al caso «concreto» della caduta. La caduta tendenziale del saggio del profitto è, come è noto, contrastata da parecchie condizioni possibili che complicano il quadro ipotetico inizialmente prestabilito. Queste condizioni sono state considerate da Marx: intensificazione dello sfruttamento del lavoro; riduzione del salario del lavoro al di sotto del suo valore; deprezzamento degli elementi del capitale costante; soprapopolazione relativa; commercio internazionale e accrescimento del capitale sociale sotto forma di azioni.

3. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica ecc., cit., pp. 148-49. 4. Per una chiara analisi di quanto precede, cfr. l’articolo di G. MorpurgoTagliabue, L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, in «Giornale degli Economisti», marzo-aprile 1947, nn. 3-4.

210

I possibili casi che vengono opposti al Marx, e cioè, quello della costanza del saggio del profitto, o della sua stessa ascesa, possono pertanto essere considerati aspetti speciali della sua teoria – da lui compiutamente e lungamente analizzati con minuta casistica e messi a confronto con le obiezioni a lui rivolte – sempre che Marx e i suoi critici partano da presupposti generali identici. Se non vi è questa concordanza, occorre esaminare le ragioni della dichiarata discordanza; oppure, nel caso di concordanza, ricercare gli errori logici intercorsi nel ragionamento. Cercheremo di esaminare brevemente la famosa obiezione del Croce anche attraverso recenti contributi critici. 4. Il Croce ha, come è noto, recisamente confutato la legge della caduta del saggio di profitto e la sua confutazione è stata accolta dall’Adler che ha giudicato l’errore logico di Marx «une erreur grossière»5. La confutazione del Croce è di gran peso e conviene soffermarsi a lungo sui suoi argomenti, tanto piu che essa, pur non raggiungendo, a nostro parere, il suo obiettivo, si risolve, per un altro verso, in una interpretazione di notevole valore attuale. Il progresso tecnico ha per Croce un effetto necessario ed opposto a quello voluto da Marx: Ora il progresso tecnico, tra i suoi effetti logici, o, che è lo stesso, necessari, non ha punto quello di un aumento nella grandezza del capitale complessivo impiegato, e neanche l’altro di lasciare immutata la grandezza del capitale complessivo. Ha anzi, per effetto necessario e immediato, proprio l’opposto; cioè quello di restringere il capitale impiegato6. 5. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica ecc., cit., pp. 148-49. 6. Ibid., p. 149.

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La conseguenza è implicita nella premessa: e, per restare nell’esempio addotto di sopra: ponendo che l’avvenuto progresso tecnico abbia fatto diminuire 1/10 del complessivo lavoro sociale richiesto, avremo, in luogo dell’antico capitale di 1000, un capitale di 900, composto non piu di 500 c; 500 v, ma di 450 c; 450 v (la diminuzione deve effettuarsi proporzionalmente per tutta la parte del capitale, giacché tutto è, in ultima analisi, prodotto del lavoro). Dei 100 antichi lavoratori, 1/10, ossia 10 di essi, resteranno disoccupati; una frazione dell’antico capitale resterà disoccupata: la quantità (o utilità) dei beni che si produrranno resterà la medesima7.

Nell’ipotesi del Croce, il saggio del profitto resterebbe quindi immutato. Non vi è d’altronde, sempre per il Croce, nessuna ragione che giustifichi l’aumento relativo del capitale costante: Il progresso tecnico non ha fatto diminuire l’utilità naturale della produzione (anzi nella nostra ipotesi, non l’ha fatta neanche crescere, e l’ha lasciata immutata); ma ne ha diminuito solo il valore. Si avranno, dunque, col progredito ordinamento tecnico, materie grezze, strumenti, oggetti di vestiario, mezzi di alimentazione ecc., della stessa complessiva naturale utilità di prima… Se, dunque, capitalisti, ed operai saranno restati sobri quanto prima, e il loro livello di vita non si sarà elevato (e cioè nell’ipotesi), la produzione offrirà, come prima, mezzi di impiego e mezzi di sussistenza per i 10 lavoratori restati disoccupati. Ma, poiché noi sappiamo che economicamente il valore di quel capitale è diminuito si avrà che un capitale economicamente minore assorbirà le stesse forze di lavoro di prima, ossia la stessa massa di profitto e massa di profitto eguale con capitale complessivo minore significa saggio di profitto accre-

7. Ibid., p. 150.

212 sciuto. Proprio l’opposto di ciò che il Marx aveva creduto di poter dimostrare8.

Qual è stato per Croce l’errore del Marx? L’errore del Marx è stato di aver attribuito inavvedutamente un valore maggiore al capitale costante che, dopo il progresso tecnico, vien messo in movimento dagli stessi antichi lavoratori. Certo, chi guardi una società in due stadi successivi di sviluppo tecnico, potrà trovare, nel secondo stadio, maggior numero di macchine e d’istrumenti d’ogni genere. Ciò riguarda la statistica e non l’economia. Il capitale (e ciò il Marx sembra avere per un momento dimenticato) non si misura dalla sua fisica estensione, ma dal suo valore economico. Ed economicamente quel capitale (supposte costanti tutte le altre condizioni) deve valer meno; altrimenti il progresso tecnico non avrebbe avuto luogo9.

5. È agevole oggi, dopo che si è maggiormente diffusa la conoscenza del libro III del Capitale, limitare l’obiezione del Croce. Ricordammo, in precedenza, come Marx stesso rilevasse il possibile deprezzamento del capitale costante come causa di costanza o di ascesa del saggio di profitto. Saremmo quindi, accettando la stessa ipotesi del Croce, ancora in un caso speciale della teoria marxiana – di cui si dovrebbe valutare il peso come forza controperante alla tendenza verso la caduta – sempre che i presupposti del Marx e del Croce fossero identici. Sottolineiamo intanto, prima di proseguire nell’indagine, che qui non viene messa in causa la validità della legge tendenziale di caduta del saggio del profitto, che già risulta dalla legge

8. Ibid., p. 153. 9. Ibid., p. 156.

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tendenziale di caduta del saggio di interesse-profitto, da noi precedentemente ammessa; qui consideriamo la obiezione del Croce per saggiarne la logica interna, ed anche per valutarla nel quadro del revisionismo marxistico. Naturalmente, essa ci interessa per il nome del suo autore e per la sua risonanza. Potremmo però considerare la presa di posizione del Bernstein o quella del Graziadei, sostanzialmente analoghe. La dimostrazione della necessità e della coerenza che hanno caratterizzato l’attribuzione di un valore maggiore al capitale costante, da parte del Marx, servirà comunque a dimostrare l’errore del Croce. 6. Perché il capitale costante diminuisse in valore dopo avvenuto il progresso tecnico, bisognerebbe che il progresso tecnico stesso portasse ad un aumento di produttività, e quindi a una diminuzione del valore unitario, che si ripercuotesse istantaneamente sulla massa del capitale investito nella nuova attrezzatura tecnica. Tale possibilità istantanea di ripercussione presuppone però l’ipotesi di un’economia che passi, sempre nell’istante, dall’uno all’altro equilibrio (che vari cioè istantaneamente per equilibri successivi); mentre questa teoria marxiana è «dinamica» e la caduta tendenziale del saggio del profitto va seguita attraverso i diversi stadi dello sviluppo dinamico (per equilibri successivi, ma divisi dal tempo). Infatti, formalmente, un equilibrio vale un altro equilibrio quando si passa dall’uno all’altro istantaneamente; mentre il progresso tecnico è, per definizione, movimento e va studiato come legge del movimento. Ma vediamo in dettaglio l’interpretazione crociana.

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7. Croce si mette subito nell’ambito della società economica, o nella cosiddetta visione per totalità di imprese10 e suppone che il progresso tecnico sia già avvenuto. Si giunge cosi alla composizione ultima del capitale complessivo (450 c + 450 v); la diminuzione deve infatti, per il Croce, estendersi proporzionalmente a tutte le parti del capitale, giacché tutto è, in ultima analisi, prodotto del lavoro11. Ora, ciò potrebbe anche avvenire in un ipotetico equilibrio finale. Ma, nell’ipotesi considerata, non si può dare il progresso tecnico come già avvenuto; bisogna anzi spiegare il suo stesso divenire; occorre chiarire la legge del movimento che avrà inizio in una o piu unità economiche o imprese, che lavorano in un primo tempo con i vecchi metodi di produzione; movimento che proseguirà oltre. Il progresso tecnico va inteso concretamente nell’unico modo possibile, e cioè come sostituzione di macchine ad operai, di capitale costante a capitale variabile in un dato settore economico, o in una data impresa, che iniziano il moto e si assicurano un extraprofitto temporaneo che non deriva dal plusvalore, ma dal moto concorrenziale stesso e dalla persistenza dei valori sociali su un precedente livello. Riferiamo l’esempio crociano ad un settore economico o ad un’impresa (in concreto parleremo di un’impresa). La proporzione fra capitale costante e capitale variabile che, prima delle innovazioni tecniche, era di 1 a 1 (in cifre assolute 500 c + 500 v) diverrà (per esempio) di 1,4 a 1 (e si avrà quindi non più 450 c + 450 v ma 700 c + 500 v) o si avranno altre proporzioni del genere, mentre l’impresa iniziatrice continuerà a vendere al valore vigente in precedenza. La grandezza iniziale in valore

10. È l’ipotesi Bernstein-Graziadei sulla quale ritorneremo. 11. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica ecc., cit., p. 156.

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del capitale complessivo della impresa – e di quello costante in ispecie – non sarà diminuita (anzi sarà aumentata) ed è proprio per questa ragione che l’impresa dà avvio al progresso. Diminuirà soltanto in seguito, ma il progresso tecnico in continuo sviluppo farà sì che la grandezza in valore del capitale (antecedente all’innovazione) sia sempre maggiore di quella che all’innovazione stessa sussegue. Il progresso tecnico è concorrenziale. Supponiamo uno stato di equilibrio iniziale in cui le merci si scambino a norma del valore-lavoro. Un’impresa, sfruttate le possibilità normali di assorbimento di plusvalore, potrà aumentare il proprio reddito, iniziando lo sviluppo e aumentando il capitale costante relativamente a quello variabile; aumenterà cosi la produttività fisica, restando immutata la produttività in valore sicché l’impresa, che ha iniziato lo sviluppo tecnicamente progressivo, realizzerà temporaneamente un extraprofitto. La concorrenza estenderà naturalmente il progresso tecnico e tale extra-profitto sarà assorbito e gradualmente esteso a tutto il mercato. Cadrà così il saggio particolare del profitto della impresa innovatrice e in seguito quello delle altre imprese concorrenti. Il plusvalore deriva – è vero – dal sopralavoro e, quindi, dal capitale variabile, ma ciò avviene in condizioni di ipotetico o ideale equilibrio. Equilibrio che è sempre rotto dal progresso tecnico (aumento relativo del capitale costante per la singola impresa) e allora al plusvalore si aggiunge un extraprofitto temporaneo che verrà assorbito via via dalla concorrenza. Ciò spinge il singolo capitalista-imprenditore ad aumentare il capitale costante, malgrado che il solo capitale variabile sia produttivo di plusvalore. Una vecchia considerazione ci aiuta a spiegare il fatto: nelle faccende economiche e sociali, il danno collettivo (la caduta del saggio sociale del profitto) – anche previsto da ogni singolo – non è evitato quando il singolo stesso può trarre dalla sua particolare azione un immediato vantaggio.

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Ciò avviene precisamente per lo sviluppo tecnico che precipita il saggio dei profitti, tanto più che la legge del valore e della produttività del capitale variabile (sola sorgente di plusvalore) non è affatto un principio noto e ammesso dai singoli capitalisti ed è anzi controverso, velato o rigettato dall’ipocrisia sociale. Si dirà che, in tal modo, cade il saggio di profitto della singola impresa e non già il saggio sociale di profitto. Ma si può rispondere che la caduta è tendenziale per definizione e ciò significa che non vi è un dato livello sociale del saggio di profitto, ma la tendenza a un livello e quindi un livello stesso tendenziale (in diminuzione). In realtà, si presenta il saggio di profitto della singola impresa, che tende a generalizzarsi (e generalizzandosi si modifica) e si estende a gruppi via via più cospicui di imprese. Il saggio del profitto è in continuo divenire e lo si può afferrare (quando si segue la sua dinamica) in imprese concrete e non mai (se non per astrazione) ad un livello sociale (non va naturalmente confuso il saggio sociale del profitto con quello di extraprofitto). Riprendiamo ancora in cifre l’esempio crociano. Un’impresa ha il capitale complessivo organicamente cosi costituito: 500 c + 500 v. Esaurite le possibilità di assorbimento di plusvalore assoluto e relativo, non rimane all’impresa che aumentare il capitale costante, tentando una nuova combinazione tecnica tra lavoro morto e lavoro vivo. Passa cosi, ad esempio, alla combinazione 700 c + 500 v. Il saggio di plusvalore dell’impresa era, nell’ipotesi, prima dell’innovazione tecnica, 500/500 =100 per cento; il saggio del profitto (sociale e dell’impresa) 500/500+500 = 50 per cento. Dopo l’introduzione dei nuovi strumenti tecnici, il nuovo saggio di profitto dell’impresa sarà aumentato in seguito alla maggiore produttività fisica. Supponiamo che l’impresa, che produceva 500 unità fisiche aventi un valore di 500, produca ora 700 unità; essa venderà, finché le sarà possibile, tali 700 unità

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al vecchio valore (sociale) di 700 (mentre il loro reale valore, sociale, è soltanto di 50012). Il saggio di profitto (o meglio il saggio di profitto e dello extraprofitto) dell’impresa sarà pertanto di 700/1200 = 58,33 per cento. Il «suo» saggio di profitto (sociale) sarebbe 500/1200 = 41 per cento. Tale saggio «sociale» (41 per cento) sarà comunque un livello tendenziale perché: a) il valore del capitale costante, che alimenta l’innovazione tecnica, rimarrà inizialmente al livello di 700 ed il livello stesso del valore del capitale complessivo a 1200. Supporre che il valore del capitale complessivo scenda istantaneamente a 900 (450 v + 450 c), come nell’esempio del Croce, vorrebbe dire supporre che l’innovazione interessi immediatamente la produzione di detto capitale. Ma, allora, tale capitale, il cui valore sarebbe diminuito, apparirebbe come il prodotto ottenuto con la tecnica piu perfezionata; e si dovrebbe riferire l’innovazione tecnica all’attrezzatura capitalistica che ha consentito la produzione del capitale; e cosi via. Mentre la diminuzione del valore (sociale) riguarderà dapprima un prodotto e poi, via via, eventualmente i beni strumentali e il capitale variabile necessari alla produzione di tale prodotto. Supporre, pertanto, un’istantanea diminuzione di valore di tutto ciò che è prodotto significa avvolgersi in un circolo vizioso; b) il nuovo livello del saggio sociale del profitto dell’impresa innovatrice (41 per cento) è soltanto un saggio potenziale. Il movimento concorrenziale del mercato farebbe toccare a tutte 12. Diciamo 500 per amore di semplicità. In realtà dovrebbe essere qualche cosa di meno. Infatti, il valore di scambio di ogni unità di prodotto diminuisce; ma se contemporaneamente – come è presupposto nella ipotesi fatta – il tempo di lavoro oggettivato in una determinata merce delle altre imprese (non innovatrici o non ancora innovatrici) non diminuisce, la media socialmente necessaria decrescerà meno di quanto sia diminuito il lavoro oggettivato nel prodotto dell’impresa dalla quale è partito il movimento.

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le imprese tale saggio soltanto se si arrestasse ogni progresso tecnico e su tutto il mercato si estendesse la prima innovazione e la sua relativa produttività; mentre, in realtà, il progresso tecnico continua, in vario modo, e si profileranno, via via, nuovi saggi tendenziali del profitto sociale; comunque in graduale diminuzione. Il saggio sociale originario di profitto (50 per cento) sarà pertanto in diminuzione in seguito alla diminuzione del saggio di quella particolare impresa. Ma la concorrenza non si muoverà soltanto nel senso di adeguare il vecchio valore al nuovo livello, ma anche, e soprattutto, in quello di spingere altre imprese verso l’innovazione tecnica. Può anche avvenire che il capitale costante diminuisca in valore e allora il saggio di rendimento totale delle diverse imprese cadrà per le due ragioni. Il saggio di profitto (in diminuzione) della prima impresa si generalizza comunque ed è questo saggio generalizzato, nel suo divenire, che costituisce la prima determinante del saggio di profitto di cui si discute la tendenziale caduta. La legge del Marx è appunto una legge della caduta del saggio di profitto e non una legge che ci dica dove il saggio cadrà e come sarà configurata la società economica dopo la caduta; e come sarà attrezzata tecnicamente, ed economicamente disposta, in un ipotetico stato stazionario in cui quel moto progressivo si arresti. 8. Come è stato spesso rilevato, il Croce cerca di eliminare tutto ciò che nella dimostrazione del Marx è inessenziale; e di ridurla a un nucleo centrale logico e significativo che, per il Croce, coincide con la definizione economica di progresso tecnico e con il conseguente rilievo di una confusione marxiana fra economia e statistica. Ci resta ora da ricercare se quanto Croce elimina non sia invece essenziale per l’interpretazione e se quanto accetta non avrebbe dovuto condurlo a conclusioni diverse. Si vuole in sostanza rilevare l’arbitrio commesso rompendo un tessuto di legami logici, anziché cercare di scioglierli, o confutarli, nel loro complesso:

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a) per esempio, Croce accetta, o meglio non discute, per quanto riguarda la legge dei profitti, la legge del valore-lavoro e confuta tuttavia Marx, introducendo un’ipotesi che corrisponde a quella per «totalità di imprese», secondo la concezione Bernstein-Graziadei. In realtà egli viene cosi ad accettare la possibilità prospettata da Bernstein-Graziadei dell’indifferenza della legge del valore nei confronti dei problemi fondamentali della società capitalistica13. Ora, legge del valore-lavoro e ipotesi per «totalità di imprese» si escludono a vicenda. La legge del valore-lavoro, che si estrinseca nei prezzi di produzione, si attua tendenzialmente. Il moto è possibile perché non tutto si muove, ma si muovono – in modo diverso – le singole unità capitalistiche. Non vi è economia senza una funzionalità di settori e in genere di singole unità. La stessa economia collettivistica si muove in tal modo e il suo caso può essere soltanto formalmente identificato con l’economia individuale, in cui l’individuo coinciderebbe con la comunità. Ma l’economia capitalistica non può essere in alcun modo comparata all’economia individuale; essa vive, per definizione, nel frazionamento delle unità economiche e non esiste al di fuori di questo frazionamento. Essa è acefala; non 13. Come è noto, il Bernstein non rinunciò alla teoria del valore, ma la considerò una ipotesi puramente astratta («una pura costruzione dello spirito»; «una chiave, una immagine allo stesso modo dell’atomo») indifferente per la soluzione dei grandi problemi del Socialismo. Il Bernstein tentava cosi di dimostrare l’esistenza del sopralavoro considerando la ripartizione del lavoro totale nella produzione totale sociale e mettendo in evidenza, anche dal lato statistico, il fatto che «il lavoro totale della produzione fa notoriamente vivere più uomini che non ne occupi la stessa produzione». Tale ripiego del Bernstein riappare nelle opere del Graziadei come visione per «totalità delle imprese» ed è curioso che il Croce, che così vigorosamente combatté le idee del Graziadei, introduca implicitamente tale «visione». Contro la tendenza interpretativa Bernstein (e per questo aspetto, implicitamente, Graziadei) si vedano, per non citare altri autori, le poche, ma esaurienti, considerazioni del Marshall, Princìpi, Utet, p. 577.

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è qualcosa di più degli individui che la compongono e la teoria edonistica del «no bridge» rispecchia perfettamente questo suo carattere. Per affermazione stessa del Marx, motore dell’economia capitalistica è il «capitale singolo», che è «una frazione autonoma e indipendente del capitale sociale». L’economia capitalistica è pertanto, per definizione, economia individualistica, in cui l’«individuo» deve intendersi soltanto in senso economico e cioè come unità indipendente e autonoma. Naturalmente, gli «individui» possono essere piu o meno, tecnicamente e giuridicamente, concentrati (e anzi il processo di sviluppo concreto dell’economia capitalistica tende in questa direzione), ma la concentrazione non può giungere sino alla unificazione in un solo complesso, senza che questo – dal punto di vista capitalistico – non abbia più alcun significato. Ammessa quindi la legge marxiana del valore-lavoro, si viene ad escludere l’ipotesi per «totalità di imprese», e allora il progresso tecnico si manifesta come progresso economico nel senso di aumento del capitale costante del singolo «individuo economico» che dà inizio al moto; b) un punto che sembrerebbe andare a favore della obiezione del Croce è il seguente: progresso tecnico, per una società, significa progresso economico soltanto in quanto e per quanto aumenta il suo saggio (sociale) di profitto. Questo è infatti un modo logico e possibile per misurare il progresso economico, mentre il Marx ammette il progresso e fa nel contempo cadere il saggio di profitto. Ma in questo modo di misurazione vi è un equivoco che conviene dissipare. Se si considera il movimento reale della produzione della società capitalistica, il Produktionprozess di Marx, logico e descrittivo ad un tempo (visto, per cosi dire, dal di dentro), allora il progresso economico, nel suo farsi iniziale, coincide con un rialzo del saggio dei «profitti». Coincide in

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quanto, attore del «progresso» è via via l’impresa innovatrice, o il settore economico innovatore, il cui saggio particolare di profitto (o di rendimento) effettivamente si innalza. Che il saggio sociale del profitto cada in realtà, in seguito, è un fatto che può anche non venir previsto dalla impresa-guida e che essa non può, comunque, calcolare. Per contro, che il saggio sociale del profitto cada subito (a cagione della potenziale caduta che avviene nella impresa innovatrice e che influenza la media dei saggi vigenti sul mercato) è risultato cui giunge soltanto l’economista che consideri, dall’esterno, il Gesamtprozess della società capitalistica, processo critico e sintetico, somma ideale di «aggregati», categoria «contabile». In tale caso, il progresso tecnico non diviene progresso economico (dal punto di vista dei capitalisti) proprio perché il saggio sociale del profitto cade; ed il saggio sociale del profitto è il solo indice che misura il progresso economico per la società capitalistica considerata come «un tutto» (quel «tutto» che non esiste come Produktionprozess, articolazione in atto di processi produttivi di molteplici unità economiche concorrenziali). Ora, la prospettiva del Croce è bensì «una visione sintetica e prevalentemente economica, che coglie le interdipendenze dei fenomeni nelle loro conclusioni contabili»14; ma, si direbbe, proprio per questo Croce scambia il Gesamtprozess per il Produktionprozess, la visione sintetica, «contabile», il calcolo economico dell’economista ex post (nel nostro caso, di Marx) per il processo reale, logico e descrittivo, che è analisi ex ante di una molteplicità di movimenti parziali. Infatti Croce sembra porre il problema in termini di Produktionprozess ma, in realtà, trapassa subito al Gesamtprozess e si trova di fronte ad una fittizia unica impresa (tutta la società capitalistica) e allora deve concludere per il rialzo del saggio dei profitti (infatti, nel

14. G. Morpurgo-Tagliabue, art. cit., p. 188.

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suo argomentare, individuo e società sì identificano). Egli sovrappone quindi al Produktionprozess il Gesamtprozess nella sua fase iniziale; e cioè un’astrazione al movimento reale; c) Marx non prescinde dal processo concreto di accumulazione, né può farlo, nemmeno per ipotesi di comodo, perché ciò equivarrebbe a spezzare l’organismo dello sviluppo capitalistico. Il Croce ne prescinde e infirma in tal modo le sue stesse conclusioni. Mentre si attua il progresso tecnico, l’accumulazione aumenta e tale aumento rappresenta una condizione necessaria del progresso tecnico. Senza previa e concomitante accumulazione non si può aumentare il capitale costante. Il capitale costante aggiuntivo deve essere previamente prodotto (con i vecchi metodi tecnici di produzione; e ciò per non cadere in una petizione di principio) o meglio, giacché i processi economici si sviluppano parallelamente, la sua produzione deve accompagnare e sussidiare il mutamento della composizione organica del capitale complessivo nella impresa che inizia il moto e nelle altre che, concorrenzialmente, la seguono. L’accumulazione del capitale non si diffonde tuttavia in tutta l’attrezzatura tecnica complessiva della società nell’istante (come presuppone il Croce). Essa fa cumulo su una data impresa, o settore economico, che dà l’avvio al mutamento. Ma perché l’accumulazione di capitale fa pressione su un dato settore, o una data impresa, anziché estendersi uniformemente a tutto il complesso? È questo un punto della teoria del Marx che esamineremo nel paragrafo 12; d) i legami logici elusi dal Croce si riducono infine ad uno e cioè alla definizione stessa di economia o sviluppo capitalistici: senza visione per singole unità concorrenziali non vi è sviluppo, né questo può esistere senza un certo contrasto concorrenziale.

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9. Rimane da considerare, nel suo complesso, il significato dell’interpretazione revisionistica. Essa è contraddittoria in un modo del tutto particolare. Presuppone l’abolizione della società capitalistica – che scambia per una società complessiva inarticolata in cui non si possono porre problemi economici – e conclude con il mettere in rilievo una delle forze controperanti, il rialzo del saggio del profitto (già minutamente analizzato da Marx) dandogli un rilievo che è tuttavia molto attuale. Consideriamo quest’ultimo punto e rileviamo un’osservazione del Croce. Indubbiamente, i capitalisti, come classe, avrebbero interesse all’aumento del capitale variabile o a un aumento fisico del complessivo capitale sociale che si traducesse in una diminuzione della grandezza di valore. È quello che osserva e obietta il Croce: Ecco qui (per seguire la rigida ipotesi schematica del Marx) da una parte una classe capitalistica, e dall’altra una classe di proletari. Che cosa fa il progresso tecnico? Moltiplica la ricchezza nelle mani della classe capitalistica. Non è intuitivamente chiaro che, per effetto del progresso tecnico, i capitalisti potranno, con l’anticipo di beni che valgono sempre meno, ottenere gli stessi servigi, che ottenevano prima dai proletari? E che quindi il rapporto fra valore di servizi e valore di capitale si altererà con prevalenza del primo valore, ossia che il saggio di profitto crescerà? Con l’anticipo di beni (capitale), che prima si riproducevano con 5 ore di lavoro ed ora si riproducono con 4, l’operaio lavora sempre io ore. Prima, con 5 si aveva io; ora con 4 si ha egualmente io. La spugna costa meno; ma la qualità d’acqua di cui s’imbeve è la stessa15.

15. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica ecc., cit., p. 156.

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Rileviamo ancora una volta come, in queste osservazioni, il soggetto dell’economia capitalistica sia, per il Croce, la classe capitalistica come un tutto (e non i singoli capitalisti in rapporto concorrenziale). Ciò non toglie che l’osservazione del Croce, convenientemente sviluppata, contenga indirettamente un’importante verità. La classe capitalistica, come un tutto, avrebbe interesse a procedere unita e a impedire quelle azioni e innovazioni dei singoli che si risolvono, alla lunga, in un danno collettivo. Ed in realtà la classe capitalistica opera in questo modo con il collegarsi in gruppi, con il sindacarsi in associazioni che hanno per effetto di rialzare il saggio del profitto o di impedirne la ulteriore caduta; questo è anzi uno degli ostacoli alla caduta del profitto, il monopolismo, non considerato direttamente dal Marx, in ragione anche dei tempi in cui scrisse, accanto alle altre cause principali controperanti. La più stridente contraddizione della critica revisionistica sta quindi nella divergenza fra i suoi intenti e i suoi risultati; partita dal presupposto di una liquidazione di Marx e di uno scioglimento del Socialismo nello sviluppo borghese, finisce col porre indirettamente ed involontariamente in rilievo unicamente le condizioni dell’imperialismo economico. È appena da rilevare, infatti, che nella dialettica della caduta dei profitti e delle cause controperanti, sta in nuce uno degli aspetti più rilevanti della teoria dell’imperialismo. Ci rimane da accennare al quesito posto a fine del paragrafo io e riguardante la rottura dell’uniformità espansiva dell’accumulazione e il suo convergere su un singolo settore capitalistico. 10. La legge marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto trae ulteriore convalida da quella di Adamo Smith di cui rappresenta una necessaria correzione: d’altra parte, l’influenza di Smith su Marx è maggiore di quanto non si creda (si veda al proposito il libro IV del Capitale).

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Per lo Smith, è la concorrenza fra i capitali sovrabbondanti che porta alla caduta del saggio del profitto; la concorrenza dei capitali fa aumentare i salari e fa ribassare i prezzi di vendita delle merci smerciate dai capitalisti: Come i capitali aumentano in un paese, cosi i profitti che possono essere realizzati coll’impiegarli necessariamente diminuiscono. Diventa allora sempre più difficile il trovare nel paese un modo profittevole di impiegare un nuovo capitale. Vi sorge conseguentemente una concorrenza fra i differenti capitali, il possessore di un dato capitale sforzandosi di impadronirsi di quell’impiego che è occupato da un altro. Ma nei più dei casi egli non può sperare di metter fuori d’impiego l’altro capitale, se non offrendo condizioni più vantaggiose. Egli non solo deve vendere un po’ più a buon mercato ciò che smercia, ma deve alle volte comprarlo più caro per avere l’opportunità di vendere. La domanda per il lavoro produttivo, coll’aumento dei capitali che sono destinati a mantenerlo, diventa ogni giorno sempre più grande. I lavoratori facilmente trovano impiego, ma i possessori dei capitali trovano più difficilmente lavoratori da impiegare. La concorrenza dei capitali innalza i salari del lavoro ed abbassa i profitti del capitale16.

È noto come Ricardo abbia criticato a fondo la teoria della caduta del saggio dei profitti secondo Smith. Ricardo osserva come una sovrabbondanza generale dei capitali debba portare a una sovra-produzione generale di merci e come quest’ultima sia impossibile. I compensi decrescenti della terra spiegano per Ricardo la caduta del saggio di profitto, in quanto l’aumento (marginale) del lavoro richiesto dall’agricoltura (al margine della coltivazione) rialza costantemente i salari e i prezzi delle materie prime facendo aumentare la rendita e deprimendo i

16. A. Smith, Ricchezza delle Nazioni, in «Biblioteca dell’Economista», 1, II, cap. IV.

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profitti17. Criticato ed escluso da Marx il meccanismo teorico del Ricardo (stabilità dei salari reali – aumento della rendita – diminuzione dei profitti), la legge del Marx ci sembra nascere dall’approfondimento di quella smithiana: se il capitale si accresce incessantemente, si diffonde in tutto il mercato e influenza ovunque il rendimento degli investimenti; perché si addivenga a una diminuzione del profitto, bisogna tuttavia che non vi sia uniforme produzione generale di merci e di servizi. Ma un altro ostacolo è posto all’uniforme distribuzione del capitale in tutti i rami di impiego: le occasioni di impiego sono discontinue e l’espansione capitalistica procede a scatti. Per questo il capitale, che non si investe in nuova forma d’impiego, fa pressione sui salari e li fa aumentare; per sfuggire a questo aumento si macchinizza la produzione e il capitale costante si espande relativamente a quello variabile. Tale iniziale comportamento del singolo imprenditore, e di poi della concorrenza, fa precipitare il saggio particolare del profitto; e quindi quello generale.

17. D. Ricardo, op. cit., capp. V, VI-XXI.

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Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico” Nicola Badaloni

1. A riconsiderare oggi i temi marxisti prospettati dal Croce nel suo Materialismo storico ed economia marxistica1, il lettore resta preda di due opposte impressioni. Da un lato egli vi vede l’inizio di un processo che porterà Croce assai lontano da quelle premesse, in forza di un distacco e di una progrediente sufficienza che mano a mano divengono sempre più evidenti. È quel processo per cui la filosofia della storia di Marx giungerà ad essere vista come «una storia di galeotti che una mano di aguzzini tiene per lunga serie di secoli nella schiavitù, per un’altra serie nel servaggio e per i secoli moderni nel salariato…», una concezione paradossale «che corona la visione storica di Marx, distrae gli uomini dalla consapevolezza di una verità essenziale alla vita e fondamento della diade di virtù indispensabili alla vita: la rassegnazione ed il coraggio»2. Non credo a mia volta di peccare di sufficienza affermando che un simile approdo non interessa più. Le cose sono così profondamente cambiate, le esigenze di «liberare» l’ambiente storico e naturale così urgenti che il rifugio nella buona coscienza in1. Citerò dalla VI edizione, Bari 1941. 2. B. Croce, Filosofa e storiografia. Saggi, Bari 1949, pp. 263-64.

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dividuale, sostenuto dalla rassegnazione, diviene esso stesso minacciosamente colpevole. Diverso è il caso se consideriamo l’altro lato e cioè quel contesto di discussioni, di polemiche in cui il Croce si trova ad intervenire negli anni di fine secolo ed ancora nel primo quindicennio del ’900. In questo quadro il Croce non appare nella sua veste casalinga di intellettuale umanista e sermoneggiante, ma invece come testimone ed attore di una crisi della coscienza europea che è sempre al centro dei nostri interessi. È questo secondo Croce, teorico del revisionismo e più oltre in posizione di aspra polemica col marxismo, che qui ci interessa. Ad esso dedicheremo queste pagine, ricercando il nocciolo della interpretazione crociana di Marx e rivedendo il significato delle sue critiche sia a Marx, sia a Labriola sia a Sorel. 2. L’interpretazione crociana di Marx è, fin dall’inizio, fortemente condizionata dalla problematica del “valore” nonché dalla questione delle pretese contraddizioni tra il primo e il terzo libro de Il Capitale. Gli antecedenti di questa discussione (come Croce stesso ricorda) sono Engels e Sombart, mentre essa è sviluppata dal Croce in parallelo col Sorel. Con molta acutezza per altro Croce vede nei testi di Engels il primo accenno di una revisione di Marx sull’argomento. Si tratta di quel gruppo di pagine, uscite sulla Neue Zeit, in cui Engels aveva discusso con Sombart3 ed aveva stroncato Loria. A Sombart appunto, che aveva sostenuto che la legge del valore è una astrazione meramente logica, il cui referente oggettivo è solo la forza produttiva del lavoro, Engels aveva risposto rilevando la genericità della formulazione, ma anche riconoscendo di non poter dire che la sua concezione «della importanza 3. Cioè W. Sombart, Zur Kritik der oekonomischen Systems von Karl Marx, Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistiks, vol. VII, 1894, pp. 555-94.

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della legge del valore nella forma capitalistica di produzione fosse inesatta»4. La ragione di questa indulgenza dello Engels derivava dal fatto che egli aveva fatto, pur senza volerlo, una concessione assai notevole ai critici di Marx, quando aveva affermato che la legge del valore «ha validità generale (nella misura in cui possono averla le leggi economiche) per tutto il periodo della produzione delle merci, quindi fino al momento in cui questa subisce una trasformazione con l’apparizione delle forme capitalistiche di produzione»5. Da ciò derivava implicitamente che anche per Engels la piena validità della legge del valore veniva messa in forse, quando il profitto si trasformava in profitto medio. È vero che nelle pagine seguenti, Engels mostrava come il complesso sistema dei prezzi di produzione non escludesse la validità del valore6; è un fatto però che Engels, dandone una interpretazione restrittiva, lasciava aperto il varco a tutti coloro che vedevano nel sistema dei prezzi di produzione una condizione radicalmente nuova rispetto alla legge del valore. 3. Notevolmente diverso (anche rispetto ad Engels) era il modo come Marx era giunto alla conclusione della validità della legge del valore anche in regime di prezzi di produzione. Secondo Marx infatti in tutte le forme sociali è sempre avvenuto che il nuovo lavoro fosse aggiunto ex novo ai mezzi di

4. F. Engels, Considerazioni supplementari, in K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, tr. it., Roma 1954, vol. III, 1, p. 36. 5. Ivi, p. 41. 6. Engels mostra il livellamento dei diversi saggi di profitto ad un saggio di profitto generale, quando si sopprimono «le difficoltà che ostacolano fino allora il trasferimento del capitale da un ramo all’altro»; e conclude: «in tal modo si compie per tutto lo scambio in generale la trasformazione dei valori in prezzi di produzione» (ivi, p. 49).

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produzione già esistenti. Nella società capitalistica tale lavoro aggiunto prende la forma della somma del capitale variabile e del plusvalore (profitto cui si aggiungono le forme autonomizzate della rendita e dell’interesse), ma il concetto di lavoro aggiunto è più generale e preesiste loro. I concetti storici di salario, profitto e rendita sono specificazioni del concetto più generale di valore complessivo aggiunto, che, a sua volta, rinvia al concetto generale di lavoro complessivo aggiunto. Il processo di produzione capitalistico è in questo quadro una specificazione storicamente determinata del processo di produzione materiale in generale. Esso è la combinazione del processo della riproduzione delle condizioni materiali della vita in generale e di un processo storico che riproduce determinati rapporti di produzione. Lo stesso concetto di valore complessivo aggiunto deve essere considerato in modo duplice; quando lo si considera entro la forma storica specifica data dalla società capitalistica, esso, come concetto generale, appare come un a priori, che, combinandosi con quella stessa forma storica, si scinde in due parti costitutive, di una delle quali si impadroniscono coloro dai quali dipende il processo di riproduzione sociale, mentre dell’altra (definita lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro) si appropriano i lavoratori, che appaiono perciò come salariati; quando invece il concetto viene considerato nella sua generalità, allora si prescinde da tale divisione ed il posto dei concetti storici e specifici di salario e di profitto è preso dai concetti generici di pluslavoro e di plusprodotto. Per, l’aspetto per cui la società capitalistica, oltre ai suoi aspetti specifici, realizza anche in generale il processo di appropriazione della natura, essa rivela la sostanza del processo produttivo in generale (che è appunto il lavoro sociale oggettivato) ed inoltre essa realizza pluslavoro e plusprodotto, come in ogni altra forma sociale; per gli aspetti per cui la società capitalistica sottopone il processo generale di appropriazione allo sprone specifico della sua forma sociale

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e quindi impone a quella sostanza generale (lavoro che è valore d’uso o forza-lavoro) una tensione particolare, fortemente costrittiva e particolarmente adatta ad accellerare il processo di accumulazione, essa realizza il processo generale nelle sue proprie peculiari forme. In questo quadro il valore, almeno come misura generale riferita ai prodotti del lavoro, ben lungi dal valere, come sosteneva anche lo Engels, solo a determinati livelli dello sviluppo sociale, è per Marx un a priori che condiziona tutte le forme di società. Il problema che resta aperto non è quello di decidere sulla sua validità, o meno, ma quello di cogliere le forme specifiche in cui essa si realizza quando lo scambio diviene dominante ed il capitale ha dato luogo ad un enorme incremento dello sviluppo produttivo. A quest’ultimo problema, Marx giunge comunque sulla base di una certezza, che ha carattere logico. La legge del valore, come espressione di una necessita logica, rinvia al concetto hegeliano di fondamento intorno al quale, appunto, si raccolgono le apparenze che la manifestano nelle diverse forme di società. È ovvio che non è possibile solo affidarsi alla logica del fondamento. Essa, considerata in se stessa, ci può dare solo la condizione di possibilità delle apparenze, ma non può sostituire la ricerca sui loro caratteri specifici. Proprio per questo Il Capitale è una analisi della società capitalistica, tale che essa ne «rappresenta» la «forma storica» a partire dal fondamento. Il fatto che il metodo storico sia invertito in uno logico significa appunto che i concetti storici di salario, di profitto, di rendita sono considerati in rapporto al loro fondamento e quindi visti per la funzione che essi esercitano nel determinare, entro la forma storica, il processo di appropriazione in generale. La loro storicità, che rientra nella sfera fenomenica bloccata ideologicamente, si libera al momento in cui la forma storica è vista nella sua funzione di accelerazione o di barriera rispetto alle esigenze del processo produttivo in generale. Ed è noto che Marx costruisce appunto su questo terreno i suoi

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strumenti di valutazione per giudicare se una certa forma di società sia o no in contraddizione colle forze produttive materiali. Si tratta di una operazione toto coelo diversa da quella che tende a trasporre le forme storiche in strutture naturali eterne della produzione. Essa è infatti, all’opposto di questa, la ricognizione dei modi in cui il ricambio organico colla natura si combina con forme storiche determinate ed ancora dei modi in cui, in base alle stesse forze interne che tale combinazione viene liberando, può volta a volta spogliarsene come di una vecchia pelle. Per raggiungere un tale livello di analisi, tutti i concetti storici e specifici devono essere riconosciuti come modi di funzionamento e di sollecitazione, nell’ambito di una forma sociale determinata, dell’eterno processo di ricambio organico della vita umana colla natura. Se uno di essi, per esempio quello di salario, non viene riconosciuto nella sua specificità storica, ma invece identificato con quello di lavoro in generale, allora la falsa coincidenza dei due concetti non può non comportare con sé immediatamente anche la riduzione dei concetti di capitale e di rendita a forme eterne di appropriazione del lavoro e della terra. Analogamente per il concetto di plusvalore. Questo concetto ha una validità storica entro la società capitalistica. Ma tale specificità si riconosce misurandone la funzionalità in rapporto al più generale processo organico di ricambio colla natura. Se una determinata quota di pluslavoro è in generale necessaria in ogni forma di società «per l’assicurazione contro le disgrazie, per il necessario e progressivo ampliamento del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni ed all’incremento della popolazione che dal punto di vista capitalistico si chiama accumulazione»7, il plusvalore è il modo storico, specifico di realizzare questa determinata funzione imposta in generale dal ricambio organico colla natura. Anche ai primordi della 7. K. Marx, op. cit., vol. III, 3, p. 231.

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società, la necessità del pluslavoro era sentita dal selvaggio, il quale, pur fidando nei mezzi di sussistenza che la natura poneva a sua disposizione, doveva dedicare parte del suo tempo «a trasformare, in aggiunta al lavoro richiesto per l’appropriazione dei mezzi di sussistenza che esistono in natura, altri prodotti naturali in mezzi di produzione, archi, coltelli di pietra, canoe ecc.»8. Nella moderna società borghese quel processo corrisponde «alla ritrasformazione del pluslavoro in nuovo capitale»9. Considerata da questo angolo visuale la logica di Marx è una logica strutturale. Diversamente da ciò che accade ai suoi interpreti di oggi, Marx non vedeva però nessuna drammatica contraddizione tra il suo metodo e la storia. È infatti proprio sulla base della logica del fondamento che, secondo Marx, si può intendere che il concetto di salario, riportato alla sua base generale e liberato dai suoi limiti capitalistici, può essere esteso «al volume del consumo consentito, da un lato, dalla forza produttiva esistente della società…, dall’altro, dal pieno sviluppo della personalità»10; ed è inoltre perché il concetto di profitto è riportato alla sua base e liberato dai suoi limiti capitalistici, che esso si rivela come quel pluslavoro e quel plusprodotto che è richiesto da un lato «per la costituzione di un fondo di assicurazione e di riserva, dall’altro per l’allargamento continuo della riproduzione nella misura determinata dai bisogni sociali», fatta salva quella parte che è necessaria per coloro che non possono ancora o non possono più lavorare. Marx conclude questo passo sottolineando che se l’analisi conduce a spogliare il salario ed il plusvalore dal loro specifico «carattere capitalistico», allora non «abbiamo più queste for-

8. Ivi, p. 262. 9. Ibidem. 10. Ivi, p. 293.

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me, ma semplicemente i loro fondamenti che sono comuni a tutti i modi di produzione sociali»11. Tuttavia non pare dubbio, da questo come da altri passi, che egli attribuisce a questa operazione di rivelazione del fondamento e quindi di semplificazione strutturale del modo di funzionamento della realtà sociale anche il significato di una previsione circa nuovi modi sociali di attuare il ricambio organico colla natura. La società socialista è per Marx appunto quella forma di società che si autogoverna sulla base del proprio riconosciuto fondamento sociale. La società capitalistica è venuta compiendo la sua missione storica, che l’ha condotta ad un enorme sviluppo delle forze produttive; essa ha potuto però realizzare tale missione solo a patto di nascondere il fondamento e di precludere agli individui sociali il controllo diretto su di esso. Rendere socialmente disponibile la struttura del fondamento (in presenza dello sviluppo produttivo che la sua combinazione colle forme borghesi di società ha determinato) significa abbandonare il quadro della società borghese. Per continuare ad esistere, essa deve infatti nascondere nella forma della proprietà privata tutta quella parte del lavoro aggiunto ex novo che serve ad allargare la produzione. Che l’accumulazione del capitale debba passare attraverso il momento del profitto (cioè che essa debba preliminarmente assumere la forma di un reddito spettante al capitalista) questo significa semplicemente «che non è l’operaio ma il capitalista a disporre di questo lavoro eccedente»12. Riportare alla luce il fondamento significa invece scoprire gli esistenti rapporti di dominio e farne la critica. E non si tratta di una critica meramente intellettuale, perché lo stesso sviluppo capitalistico tende a conferire, non solo nel pensiero ma anche nella realtà, alla sostanza del processo sociale (il lavoro) un carattere di generalità che, pur in questo 11. Ibidem. 12. Ivi, p. 265.

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modo reificato e spogliato della coscienza sociale, rispecchia il fondamento13. 4. Se è esatta l’analisi di cui sopra, si può allora dire che il pluslavoro è un concetto di differenza, ma non tale che esso si costituisce nel raffronto di una certa forma di società con altre, ma invece nel senso che esso assume in ogni forma di società apparenze diverse rispetto al suo fondamento. Esso non è un concetto morale, per il semplice fatto che è riconosciuto da Marx necessario in ogni forma di società. Anche il concetto di lavoro può dirsi, in questo ambito, un concetto di differenza, e pure per esso vale l’avvertenza che la possibilità di avvertire tali differenze risiede nel loro stesso fondamento. Le idee centrali della discussione crociana di Marx si riallacciano alle due suddette questioni. Il concetto di valore in Marx è per Croce «la determinazione di quella particolare formazione di valore che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica»14. Ciò implica che da un lato manchi in Marx una teoria generale del valore, dall’altro che il paragone colla sopraricordata società ipotetica o tipica conduca «a restringere il valore delle merci solo al lavoro e ad escludere da esso la parte del capitale e quindi a considerare il profitto come nascente da sopralavoro non pagato e i prezzi come deviazione

13. Nella società moderna «l’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro… lavoro qui è divenuto non solo nella categoria ma anche nella realtà, il mezzo per creare in generale la ricchezza ed esso ha cessato di concrescere con l’individuo come sua destinazione particolare» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Introduzione, Roma 1969, p. 193). 14. B. Croce, op. cit., p. 32.

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dei valori reali per effetto della concorrenza»15. È impossibile, conclude Croce, giungere al concetto di sopralavoro non pagato, «se non si tenga a riscontro, come tipo, un altro valore particolare, quello cioè che avrebbero i beni aumentabili col lavoro in una società in cui non esistessero gli impedimenti della società capitalistica e la forza-lavoro non fosse una merce… È infatti evidente che, se la forza-lavoro fosse considerata come forza puramente naturale, come la fecondità della terra o del lavoro dell’animale, non ci sarebbe modo di stabilire un sopravalore»16. Perciò, conclude Croce, è solo la idea della eguaglianza umana, entrata nelle menti colla saldezza delle convinzioni popolari, che «mette in grado di qualificare sopralavoro e sopravalore, la derivazione del profitto»17. Quella di Marx non è allora una teoria del valore in generale, ma un’altra cosa, il cui significato sta nell’aver agito praticamente come dardo acuminato nel fianco della società borghese. In questi passi è racchiuso il punto basilare della interpretazione e della critica crociane a Marx. Negli altri saggi Croce verrà ripetendo che la eguaglianza valore-lavoro, applicata alla società capitalistica, istituiva un paragone tra questa ed una sua parte, «astratta ed innalzata ad esistenza indipendente, ossia con la società economica in se stessa (ma solo in quanto società lavoratrice). In altri termini, egli [Marx] studiava il problema sociale del lavoro e mostrava col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema veniva risoluto nella società capitalistica»18. E da questo rilievo (che coinvolgeva non solo Marx ma tutta l’economia classica) Croce ritornava al punto che veramente l’interessava e cioè al

15. Ibidem. 16. Ibidem. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. 68.

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problema di dare al valore un fondamento valutativo nuovo e più ampio e corrispondentemente, negando all’enunciato di Marx un significato scientifico, di attribuire anche ad esso un significato valutativo come risposta appassionata, seppure critica, a talune specifiche e determinate condizioni di costrizione sociale. Tutto il ragionamento di Croce poggia per altro sul presupposto che il paragone ellittico coinvolga un modello ipotetico e tipico che avrebbe le caratteristiche di essere una parte del tutto, fondandosi solo sul lavoro. Tale esperimento ideale rivelerebbe infatti le componenti valutative del discorso di Marx in nesso alla genesi del concetto di sopravalore ed inoltre metterebbe a nudo il termine di paragone in grado di sostenere l’esperimento ideale stesso. Ritorneremo sul primo punto. Circa il secondo ricorderemo che, secondo Marx, l’esistenza di un pluslavoro destinato alla accumulazione veniva ritrovato già ai primordi dell’umanità. Inoltre esso non sarebbe scomparso nemmeno in una futura società comunistica. Il carattere specifico della società capitalistica non è infatti per Marx la mera esistenza di un plusvalore, ma il fatto che esso sia estorto in determinate condizioni e cioè in modo che il profitto sia «attratto» dai capitalisti, apparendo come loro proprietà privata. In realtà i capitalisti stessi sono costretti a reinvestire una parte di questo reddito se non vogliono rinunciare alla loro funzione, ma intanto il processo sociale di produzione e di riproduzione passa attraverso le loro mani. Essi fungono da proprietari del processo sociale, È questo dominio che è implicito nella forma di società creata dalla borghesia, che è il carattere specifico di tale società. Non solo il concetto di sopravalore non è un concetto etico, ma esso descrive, in rapporto al fondamento, una condizione storica, cioè il modo in cui viene di fatto diviso in una certa società storica il lavoro aggiunto ex novo, ed inoltre riconosce, in modo scien-

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tificamente corretto, che la forma di dominio che deriva da quel certo modo di suddivisione non è l’unica possibile e non si identifica affatto colle funzioni naturali eterne del ricambio organico colla natura. Venendo ora alla questione del paragone ellittico, esso si basa sulla sostituzione del concetto di fondamento con quello di tipo. In quest’ultimo concetto è implicito il carattere ideale dell’esperimento. Si tratta cioè di un termine immaginario, derivante dal ritaglio di una parte della società capitalistica dal suo tutto e conseguentemente dalla elevazione di tale parte a modello totale. Quando Croce infatti accenna alla società di puri lavoratori, egli non attribuisce a questi ultimi la funzione di perpetuare, di accrescere e comunque di regolare le forze produttive sociali (cioè quello che, in regime capitalistico, appare come capitale), ma invece lascia il capitale come un «altro» rispetto al mondo del lavoro. In altre parole egli interpreta la suddivisione del lavoro aggiunto ex novo tra capitale e salario come una necessità e non traduce affatto i suddetti concetti specifici e storici in quelli generici di forze produttive e di lavoro. La società di cui egli parla nel paragone ellittico non è perciò neppure il tipo di una società di puri lavoratori, ma semmai il tipo di una società di puri salariati. Ed infatti, attraverso la critica del concetto di valore, Croce vuole arrivare a ristabilire «ciò che si presenta come naturale effetto economico di capitali, che debbono avere, per la loro natura stessa di capitali, un profitto»19. La identificazione delle forze produttive in genere con ciò che da Croce è ritenuta l’unica sua forma storica possibile e naturale, non potrebbe essere più chiaro.

19. Ivi, p. 140.

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5. Ma ritorniamo ora al concetto di esperimento ideale (che ha una storia nella epistemologia moderna dal Galileo in poi). Esso è anche al centro della riflessione teorica di Giorgio Sorel. Appunto attuando una sorta di esperimento ideale, Sorel era venuto criticando Marx, proponendo di suddividere la sua analisi dei fenomeni economici in tre sfere, distinte in ragione della loro progrediente complessità. Nella prima veniva incluso, seguendo Engels, il capitale omogeneo, che non smentisce ancora la validità della legge del valore; nella seconda, che viene denominata del capitalismo eterogeneo, venivano inclusi i capitali che operano in regime di prezzi di produzione; nella terza o del capitalismo irregolare, veniva inclusa la rendita fondiaria. Il metodo di Marx era spiegato dal Sorel nel senso di una progrediente complessità del modello ed il suo limite veniva individuato nella insufficiente disarticolazione dei tre modelli. Se Marx avesse rinunciato alle sue pretese scientifiche, egli avrebbe riconosciuto che le tre sfere disarticolate potevano dare solo dei chiarimenti sui fenomeni senza poter pretendere di dare di essi una precisa interpretazione scientifica. Inoltre la terza sfera immette nel modello la rendita fondiaria e, alterando con ciò ogni possibilità di ridurre il sistema ad un modello semplice, impedisce il calcolo del valore. Il capitalismo reale (quello del III volume de Il Capitate) dà luogo a delle stratificazioni sociali ben più differenziate di quanto non siano le due classi fondamentali e rende perciò inoperante la legge del valore20.

20. È questo il nocciolo delle idee espresse da Sorel in Sur la théorie marxiste de la valeur, Journal des économistes, 1897, pp. 222 e sgg. Ma si veda anche Lettere di Georges Sorel a B. Croce, La Critica, a. XXV, 1927, f. II, pp. 101 e sgg.

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La crisi del marxismo riflette dunque per Sorel un allentamento degli strumenti costrittivi del modello ricardiano. La società non gli appare più fondamentalmente impegnata nel compito storico della accumulazione. La classe che ha il potere tende ad allargarne le maglie per includervi anche quegli intellettuali che sono o pretendono di essere i rappresentanti del proletariato. Ciò sembra a Sorel rendere impossibile la verifica, nella pratica sociale, di un modello scientifico simile a quelli che si utilizzano per il mondo fisico. Circa questi ultimi, l’idea di Sorel è che essi, col loro rigore, non abbiano niente a che fare col mondo, della natura, ma riflettano invece, quest’ultima solo in quando manipolata dalla tecnica. Le leggi così dette fisiche non sono leggi naturali, ma invece leggi di funzionamento degli apparecchi tecnici costruiti dall’uomo. La fisica, vichianamente, implica il facere umano. Le sue ipotesi non sono altro, come dicevamo, che l’espressione mentale della capacità di costruire esperienze rigorose. Ciò che permetteva di assimilare questi modelli fisici a quelli rivolti alla interpretazione del mondo sociale era il fatto che, entro quest’ultimo, operava, come strumento semplificante e costrittivo, la problematica della accumulazione come era vista da Ricardo. È infatti in una economia di concorrenza che «il caso produce gli effetti più somiglianti a quelli cui esso dà luogo nelle scienze fisiche. È là che si trova ai più alto grado l’indeterminatezza dei fatti, unita alla determinazione reciproca delle tendenze (o risultati medi regolarizzatori)… Essa è quindi la sola che sia suscettibile di essere trattata matematicamente»21. Ma ciò che è accaduto, e che sembra in questo momento a Sorel di preponderante importanza, è che la libera concorrenza ha allargato le sue maglie e di «nuovo mano

21. G. Sorel, La necessità e il fatalismo nel marxismo, in Saggi di critica del marxismo, Palermo 1903, p. 78.

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a mano che noi ci allontaniamo da questo regno dove il caso fa nascere una specie di necessità, lo spirito recupera le sue libertà e ritorna capace in una misura più o meno grande di realizzare i suoi fini»22. In un altro articolo intitolato Nuovi contributi alla teoria marxista del valore23, Sorel sottolinea la importanza del fatto che tutta la costruzione di Marx è condizionata dai fatti storici e da quelli dipende. Se Ricardo e Marx hanno dato la rappresentazione di una società in cui utilità, bisogni, uso dei prodotti sono conseguenza della diversità delle classi (escludendo solo il valore da essere una funzione dipendente di essa), se Marx ha saputo esprimere, sia pure in modo approssimativo, quella realtà sociale per cui lo standard of life della classe operaia è pressoché fisso, mentre la massa dei profitti e dei guadagni dei capitalisti è in continuo accrescimento, se in modo analogo va anche interpretata la questione del saggio medio di profitto, volto non alla, costruzione di un modello scientifico, ma invece «a farci comprendere per mezzo di calcoli semplici o simbolici che le merci sono soprattutto dei prodotti di capitale, i quali cercano di ottenere tutte, lo stesso saggio di profitto»24, nella realtà nuova di oggi non funzionano più quelle leggi necessarie, ma invece si verificano fatti, aperti all’intervento cosciente ed alle scelte degli uomini. Marx descrive insomma una certa realtà di fatto, che, oggi come oggi, conclude Sorel, è profondamente cambiata. Sembra esattamente la stessa conclusione del Croce. Eppure vi è un tratto di diversità, perché per Sorel, a differenza del Croce, la divisione e la lotta delle classi restano fatti, mentre per

22. Ivi, p. 83. 23. In Giornale degli economisti, luglio 1898, pp. 15-30. 24. Ivi, p. 27.

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Croce esse cadono insieme e per opera della critica alla legge del valore. 6. I rapporti tra Croce e Sorel sono abbastanza complessi25. A prescindere dallo loro amicizia personale (testimoniata dal vasto epistolario), Croce seguì con attenzione le tappe dello sviluppo del pensiero del Sorel. Nella sua recensione ai Saggi di critica del marxismo, il Croce sottolineava un parallelismo tra i risultavi suoi e quelli di Sorel26. Più tardi recensendo Le illusioni del progresso, nella edizione francese del 1908, Croce sintetizzava il suo accordo col Sorel nel senso di un comune lavoro di critica dei concetti dei valori borghesi non per ridurli a interessi economici, ma per ridurre interessi con maschera di concetti a interessi senza maschere27. Si tratta di una formulazione assai pregnante (per la cui completezza sarebbe necessario riferisci anche a Pareto), complessivamente assai vicina a quella premessa del 1917 al Materialismo storico e dominante dalla critica alle decrepite grazie «della Dea Giustizia e della Dea Umanità». A dare tale curvatura al discorso su Marx, il Sorel aveva avuto una funzione di primo piano, e tuttavia credo che si avrebbe torto a non sottolineare, accanto alla evidente influenza, anche la sottesa tensione polemica di questi rapporti. Essa aveva avuto inizio proprio in quel saggio intitolato Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, in cui Croce respingeva la interpretazione soreliana delle tre sfere, perché essa «non spiegava… quello che io chiamai pa-

25. Buone osservazioni nel recente studio di M. Bazoli, Fonti del pensiero politico di Benedetto Croce, Milano, 1971, pp. 75-95. 26. Si può leggere in Conversazioni Critiche, Serie prima, 4ª ed., Bari, 1950, p. 283. 27. Ivi, p. 285.

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ragone ellittico e che è la difficoltà dell’opera di Marx»28, ed aggiungeva, riprendendo ancora il tema sollevato da Engels, che «se la corrispondenza del valore al lavoro si attua solo nella semplificata società economica della prima spera, perché insistere nel tradurre in termini della prima i fenomeni della seconda?»29. Croce sottolineava invece con compiacimento il secondo saggio del Sorel (quello pubblicato sul Giornale degli economisti), ma, anche a proposito di questo era costretto per altro a rimarcare le divergenze: «io avevo scritto che il concetto del valore-lavoro è vero per una società ideale, i cui i soli beni consistano in prodotti del lavoro e in cui non siano differenze di classi. Al Sorel non sembra necessario eliminare, come ho fatto io, la divisione delle classi. Ma, poiché egli… non fa nella sua ipotesi dipendere il valore-lavoro dalla divisione delle classi, mi pare che ciò sia in sostanza un prescinderne effettivo. Ed è forse più chiaro prescinderne espressamente»30. I termini della discussione sono dunque questi: sia Croce che Sorel credono che il modello ricardiano della compressione della energia in vista della accumulazione abbia fatto il suo tempo, lasciando spazio ad una teoria economica pura (cioè alla liberazione di un seguito di scelte, di preferenze, di bisogni che non sono più direttamente determinati dalla struttura sociale); su tale base Croce trova il margine sufficiente per sostenere la fondazione (indipendentemente ed al di fuori della struttura sociale) di criteri di valutazione31; Sorel, cogliendo 28. B. Croce, Materialismo storico, cit., p. 140. 29. Ibidem. 30. Ivi, p. 141. 31. Naturalmente Croce non può liberare del tutto la sfera dei valori puri dalla condizionatezza economica, nello stesso modo che egli non può liberare interamente il pensiero dalla struttura linguistica che lo condiziona nella sua finitezza. Di qui il particolare carattere che le forme universali assumono in relazione alle particolari ed individuali. Sia rispetto alla linguistica,

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assai di più la scaturigine sociale della liberazione stessa come conseguenza di un allargamento delle maglie della libera concorrenza in senso ricardiano e corrispondentemente di un allargamento del ruolo della soprastruttura, giunge a risultati analoghi. Entrambi poi interpretano la crisi del valore, come crisi della sua sottomissione allo schema costrittivo ricardiano. A questo punto per altro le loro strade divergono perché Croce, liquidato col suo esperimento ideale quello che a lui appariva come il pensiero di Marx, passa ad integrare valori e fatti nella sua filosofia dello spirito Sorel invece resta fermo al paragone ellittico, ma viene attribuendogli, tutt’altro significato facendone il sostegno ideale di quella «parte» che, appunto in quello, fungeva, come società di puri lavoratori da termine, già preliminarmente insufficiente, di paragone. in tal modo, da un lato Sorel accettava la condizione del paragone ellittico (la parzialità), dall’altro faceva, in connessione colla teoria della lotta di classe, di tale parzialità il sostegno dell’azione operaia in un quadro generale che tendeva a produrre il paradossale effetto di ripristinare, con strumenti volontari ed attraverso la lotta di classe, l’austera morale della produttività ricardiana. Quella libertà di scelta, rispetto allo schema ricardiano, che veniva da Croce utilizzata per costruire la filosofia dello spirito, veniva invece dal Sorel utilizzata per imporre alla conoscenza ed alla pratica una necessaria direption, cioè una separazione, che in sede di «attività teoretica» spingesse ad «esaminare certe parti senza tenere conto di tutti i legami che le connettono all’insieme», ed in sede «pratica» determinasse «in qualche modo il genere delle… attività spingendole verso l’indipendenza»32. sia alla economia le forme universali liberate sono poi costrette a ritradursi entro la struttura, per altro elevata a forma spirituale. Si veda la lettera n. 85 tra quelle scritte da Croce a Gentile e pubblicata in «Giorn. crit. della fil. it.», 1969, f. I, pp. 97-100. 32. Si veda Unità e molteplicità, Appendice a Riflessioni sulla violenza, in G. Sorel, Scritti politici, Torino 1963, p. 378.

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Un esempio tipico di questa dirottino è ancora l’economia classica, che non è totalità della vita umana, ma una sua parte, che ha reso possibile la costruzione del mondo ideale dell’homo oeconomicus. Il paragono ellittico serve così a ripristinare il valore scientifico di quei modelli, che, come abbiamo visto, costituiscono tanta parte dei suoi interessi. Essi però non pretendono ora più di contenere la totalità del reale, ma solo di contenerne una parte; la crisi epistemologica di Sorel si risolve non rinunciando alla costruzione dei modelli scientifici, ma rinunciando alla possibilità di contenere per intero in essi la rugosa realtà. Una esigenza di interezza (ma a livello etico e non epistemologico) può essere fatta valere solo evitando la confusione (perseguita dagli intellettuali) dei due modelli ed invece sollecitandone lo scontro. In questo senso è ovvio che si vada preparando la tematica del sindacalismo rivoluzionario. Esso presuppone come situazione la lotta di classe. In questa però una «parte» (quella recitata dalla classe operaia), viene isolata dal tutto esistente che, come tale, è già penetrato dalle vecchie e decrepite ideologie. La ricostruzione di un nuovo tutto è affidata solò alla preparazione del futuro sulla base della parzialità del presente. Il concetto dell’idea-forza, del mito si fa strada entro il contesto della lotta di classe e della direption33.

33. «Le syndacalisme révolutionnaire réalise à l’heure actuelle ce qu’il y a de vraiment vrai dans le marxisme… à savoir que la lutte de classe est l’alpha et l’omèga de socialisme…» (G. Sorel, Matériaux d’une théorie du proletariat, Paris 1929, p. 37). «La première règle de sa conduite doit être: rester esclusivement ouvrier» (ivi, p. 132). Il mito di Sorel vuole essere per la sostituzione del modello cartesiano delle idee chiare e distinte, insufficiente alla pratica, con questi modelli autonomi, ma illuminanti pur nella loro parzialità e rivolti verso l’avvenire (si veda G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, con una introduzione di B. Croce, Bari 1909, p. 168).

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7. L’idea del paragone ellittico ha dunque avuto due svolgimenti. Dato il presupposto comune determinato dall’incrinarsi dello schema compressivo ricardiano (la cui crisi viene rilevata sia da Croce che da Sorel nella forma di una progressiva alterazione della moralità sociale e di una corrispondente estensione della corruzione politica), il primo svolgimento, quello di Croce, si è rivolto contro il Marx e si è, entro il paragone, schierato col «tutto» esistente contro la «parte». In tal modo vengono ristabiliti campi di scelta che vengono generalizzati e sublimati a libertà universali. Il secondo svolgimento, quello del Sorel, sceglie entro il paragone la «parte» e non il «tutto». Ecco perché Sorel vede la salvezza per il movimento operaio nel ribadire la sua separazione nella forma di un sindacato organizzato come tale e senza direzione o presupposti politici. Il processo di maturazione della nuova totalità è affidata (almeno in questa fase del pensiero del Sorel prima della costruzione dell’idea del mito) alla coscienza di un nuovo insieme di diritti da rivendicare e conseguentemente di una nuova sensibilità giuridica, dipendente da queste stesse rivendicazioni, da maturare. È caratteristico il fatto che dall’uno e dall’altro svolgimento derivi una forma di storicismo. Lo storicismo è dunque, nella situazione del primo ’900 la filiazione diretta della crisi dello schema ricardiano di compressione della realtà sociale. La relativa libertà che ne deriva viene in Croce sublimata in una filosofia della libertà in generale; viene in Sorel sviluppata in una filosofia della libertà finita che si rivolge su se stessa nel tentativo di allargare il suo proprio ambito e che, premendo sulla permanente costrizione data dalla divisione delle classi, tende ad impedire che la lotta sociale si risolva in un seguito di transazioni tra le classi, ed il quadro complessivo della società in un indecifrabile «miscuglio». A partire da queste condizioni, Gramsci lavorerà a dare alla direption di Sorel il carattere di una nuova totalità (che egli designerà col termine di blocco storico) costruita contrappo-

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nendo violentemente Sorel a Croce, ma nel contempo dotando la «parte» di quelle possibilità etico-politiche che Croce le aveva sottratto e che Sorel aveva rivendicato solo attraverso il filtro della direption. A prescindere dal Gramsci (che realizza su tale base la sua sintesi tra il marxismo occidentale ed il leninismo e che anche perciò resta fuori del nostro angolo visuale e della nostra periodizzazione) il marxismo è presente in questo dibattito per opera di Antonio Labriola. Il testo decisivo del suo intervento è il Postscriptum all’edizione francese del Discorrendo di socialismo e di filosofia34, quasi interamente occupato dalla polemica col Croce. Una prima domanda da porre riguarda la motivazione di questa preferenza polemica e la risposta è assai ovvia, anche se spesso non rilevata. Si tratta del fatto che Labriola aveva già dedicato l’intero Discorrendo di socialismo e di filosofia alla polemica contro il Sorel e precisamente contro quella Prefazione agli Essais sur la concèption matérialiste de l’histoire35 cui Sorel aveva lavorato con grande impegno e che è una summa del suo pensiero alla data del 1897. Dopo aver fissato in tre punti il problema del divenire moderno (coscienza di classe, lotta di classe, capacità di rovesciare insieme l’organizzazione capitalistica ed il sistema dell’ideologia tradizionale) Sorel vi aveva ribadito la sua polemica contro quegli intellettuali che pretendevano di guidare il movimento anziché esserne i cooperatori; era passato quindi a discutere la dottrina di Marx, che non è affatto deterministica, ma è invece carente circa quelle basi «metafisiche», la cui assenza ha lasciato libero il campo ad una forma

34. Cito da Saggi sul materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Roma 1964. 35. Pubblicato a Parigi nel 1897. Cito da A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, a cura di B. Croce, Bari 1939, pp. 179 e sgg.

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di agnosticismo36; aveva polemizzato infine contro la teoria «idealistica» ed evoluzionistica della successione delle forme di produzione (che dimentica la precedenza fattuale rispetto ad ogni generalizzazione formale), presentando, tra l’altro, una assai curiosa interpretazione del tema marxiano del feticismo (visto, già preannunciando la tematica del mito, come quel seguito di illusioni pressanti e numerose senza le quali non si fa rivoluzione) ed un accenno di discussione circa la storia del cristianesimo. Una lettura, anche rapida, del Discorrendo mostra che Labriola riprende e ribatte tutte le soluzioni offerte dal Sorel. Egli è contro la richiesta della restaurazione metafisica, ripresentando il tema engelsiano del superamento del divario tra scienza e filosofia; fa una difesa di quel tipo di agnosticismo che era attaccato dal Sorel e che giunge al risultato «che non si può pensare se non su quello che noi possiamo sperimentare»37; corregge tutta la concezione soreliana del feticcio riattribuendogli il suo significato autentico38; persino sul cristianesimo tende ad attenuare la drammatica aporia sollevata dal Sorel riportandolo ad una ideologia che, come le altre, nasce sul terreno materiale della vita, e non per una sorta di creazione dal niente39. Il punto fondamentale è per altro che il lavoro viene visto (conforme ai suggerimenti dello Engels migliore) come un esperimento in collaborazione colla natura che fa sì che le cose cessino di 36. «De ce que toutes les manifestations sociologiques ont besoin, pour leur éclaircissement, d’être placées sur leurs supports économiques, il n’en résulte pas que la connaisance de support remplace la connaissance de la chose supporté. Les médiations qui existent entre l’infrastructure economique et les produits superieurs sont trés variables et ne peuvent se traduire par aucune formule générale. On ne saurait donc parler de déterminisme, puisqu’il n’y a rien de determinable» (ivi, p. 183). 37. A. Labriola, Discorrendo, ecc., cit., p. 212. 38. Ivi, p. 215. 39. Ivi, p. 254.

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essere dei dati ed il pensiero, che concresce colla nostra esperienza, una presupposta intelligenza di esse. È una reinterpretazione critica dei temi engelsiani in alternativa alla troppa accentuata separazione che i modelli del Sorel stabilivano tra la continuità storica (a livello strutturale) e le ipotesi scientifiche. Ed a questa osservazione si riallaccia poi la previsione del futuro che può farsi solo se non si dimentica che «cotesto futuro devono pur produrlo gli uomini stessi e per la sollecitazione dello stato in cui sono e per lo sviluppo delle attitudini loro»40. Quest’ultima osservazione è particolarmente importante perché per essa Labriola non resta prigioniero di problemi posti dalla crisi del ricardismo e va più lontano; basandosi su quella più generale tematica del rapporto lavoro-valore che esige, sottolinea Labriola, il concrescere del pensare umano collo sperimentare e quindi colla tecnica e coll’industria. Mentre la così detta crisi del marxismo (come riflesso della crisi del modello ricardiano) riguardava i modi di transizione al socialismo, la filosofia della prassi del Labriola (cioè l’ipotesi di questo concrescere dell’appropriazione umana della natura collo sviluppo del pensiero) è appunto la risposta (pur parziale quanto si voglia) a tale crisi, in quanto, seguendo Engels, affrontava il problema teorico generale del cambiamento delle forme di società e non solo quello della transizione dal capitalismo al socialismo. All’ipotesi dell’allargarsi del campo delle libertà e delle scelte, Labriola rispondeva proponendo, come suo contenuto, la formazione di una umanità il cui pensiero fosse conforme alla riappropriazione dell’esperienza totale dello sviluppo storico, per la quale cioè le esigenze di libertà non si misurassero dalle limitate aperture del sistema sociale, ma invece dallo sviluppo delle forze produttive e perciò da un paragone non più ellittico.

40. Ivi, p. 271.

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8. La questione del paragone ellittico viene poi sollevata dal Labriola nella polemica col Croce. Le critiche che Labriola rivolge a quest’ultimo concernono il rischio di restare prigioniero di una cognizione empirica e immediata, i cui diversi aspetti e connotati si riuniscono poi per dare luogo ad un complesso conoscitivo unitario. Il senso di questa critica è che, mentre per il marxismo le forme economiche succedentisi nella storia sono specificazioni del lavoro umano necessario sia alla riproduzione della forza-lavoro che dei mezzi di produzione, invece per Croce la universalità si costruisce a partire dall’immediata empirica e facendo dell’individuo spirituale un ente già in grado di determinare se stesso ed i bisogni sociali. Labriola mette poi criticamente in rapporto questa universalità con paragone ellittico fondato, come sappiamo, sul concetto di una società lavoratrice come forma a sé. A questo livello, il problema logico divine quello del confronto tra quella universalità costruita empiricamente e la sua parte. La critica di Labriola è condotta dall’angolo visuale che abbiamo sopra considerato e cioè prende le mosse dalla interpretazione del marxismo di Engels come filosofia della prassi e del pensiero come parallelo concrescere della capacità umana di conoscere rispetto alla sua capacità di sperimentare-lavorare. A Croce Labriola obietta che la riduzione della società lavoratrice a mera parte di un generale concetto di utilità (tale da comprendere non solo il lavoro, ma anche il capitale) significa dimenticare i reali processi di passaggio da una ad altra forma e ridurre tutto il faticoso e doloroso passaggio ad un rapporto tra i particolari e l’universale41. Il post scriptum è del ’98, ma l’obbiezione fondamentale era già formulata nel maggio del ’96, quando Labriola scriveva a Croce che nel fondo del suo pensiero rimaneva «un presupposto formale, ossia un pregiu-

41. Ivi, p. 289.

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dizio che si possa sapere più di quanto effettivamente si sa»42. Nel dibattito è Labriola che fa la parte di colui che accentua la centralità della storia ribadendo che «l’economia non è che una scienza storica»43, e Croce fa la parte di colui che difende il pensiero logico44. Ma in realtà non di questo si tratta, ma della natura e costituzione di quella storicità e di quella capacità logica; la storicità del Labriola affonda le sue radici nella successione delle forme sociali (e più oltre ancora nella storia della specie) a partire dalla condizione materiale dello sperimentare-lavorare; invece la logica crociana si costituisce esclusivamente entro una forma storica determinata, ed a partire da un suo interno allentamento. Là dove Croce parlava di universalità e di libertà, egli non faceva che generalizzare e sublimare il limitato ventaglio di possibilità operative che sembrava essersi aperto colla crisi dello schema ricardiano. Ma appunto questa generalizzazione e sublimazione rischiavano di far riconvergere l’analisi verso l’apologetica dell’edonismo e del marginalismo. Di contro Labriola, pur insistendo sulla specificità storica della scienza economica, perseguiva poi il disegno di dare a quella storicità un contenuto che rendesse possibile alla parte (il lavoratore) di dominare il processo storico e di prevedere il mutamento della sua forma. Tuttavia il dibattito, pur così precisato, manteneva degli elementi di equivoco, facendo intravedere che la tesi marxistica consistesse nella accentuazione del lato della specificità storica e quella crociana all’opposto nel proposito di ritmare il processo storico con delle strutture logiche distinte. Di fatto Croce sembrava procedere per questa strada, quando veniva

42. B. Croce, Materialismo storico ecc., cit., p. 288. 43. Ivi, p. 291. 44. Labriola, scrive Croce, «non voleva ammettere una teoria del giudizio economico in universale, ossia una economia pura» (ivi, p. 291).

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elevando il paragone ellittico a struttura portante della filosofia dello spirito. Alla obbiezione di Labriola sulla genesi empirica della unità e sul carattere classificatorio della distinzione, Croce crederà di aver risposto, quando avrà fissato le forme di tali classificazioni ed i suoi gradi45. Nel dialogo critico colla logica di Hegel, Croce verrà infatti ribadendo che pensare significa stabilire il rapporto del tutto colla sua parte e grado. I paragoni ellittici divengono cosi l’unico modello logico, che ritma quel divenire di cui Croce verrà più tardi scoprendo la genesi non nella logica, ma nella vita46. Come nel paragone ellittico la parte (la società di puri lavoratori) serve in realtà a costruire l’idea della completezza dell’intero (il lavoro integrato dal capitale) che la contiene e l’invera, così ora i concetti puri hanno bisogno degli pseudoconcetti per celebrare la loro interezza e completezza. Più specificamente quei due elementi che sono la poeticità (come genesi delle lingue) e la utilità (come genesi degli pseudoconcetti) corrispondono alla scissione di due componenti che in Sorel tendevano ad unificarsi. Sorel, come sappiamo, sosteneva vichianamente che lo scopo della scienza sperimentale è quello di costruire una natura artificiale in luogo della natura naturale, imitando le combinazioni che entrano nei meccanismi sperimentali47; il mito è quello stesso modello trasferito da un campo ove la costruzione della natura artificiale è possibile, ad un altro in cui la costruzione artificiale (cioè la previsione e regolazione dei fatti sociali) non può raggiungere un tale rigore e dove

45. «La classificazione della realtà deve essere sostituita dalla concezione dei gradi dello spirito e in genere della realtà; lo schema classificatorio dallo schema dei gradi» (B. Croce, Saggio sullo Hegel, 3ª ed., Bari 1927, p. 58). 46. Si veda B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1952, pp. 28-45, ove la genesi della dialettica viene riportata alla sfera del vitale. 47. Si veda G. Sorel, Les préoccupations métaphysique des physiciens modernes, “Revue de Metaphysique et de morale”, 1905, p. 880.

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quindi la coerenza interna può essere solo immaginata e divenire un simbolo ispiratore di azione. Come dicevamo, queste due fonti tendono in Sorel ad unirsi, conferendo al mito un carattere ipotetico, connesso agli obiettivi pratici che esso trasferisce entro una tensione di classe. Nello stesso contesto del pensiero del Sorel i valori universali ricevuti dalla tradizione risultavano corrotti e la loro rigenerazione affidata oltre che ad un graduale imporsi dei nuovi valori parziali, anche ad una specie di ritmo di ricorsi storici. Al momento in cui Croce viene respingendo la tematica vichiana dei ricorsi (anche in esplicita polemica col Sorel)48, egli realizza la doppia operazione di separare tra loro le due componenti del mito (la poeticità e la praticità-utilità) e di liberare di nuovo i valori universali (quelli esistenti e non, quelli da riformulare), presupponendo che il loro rapporto colle immediate tensioni imposte dagli interessi particolari serva a vivificarli e non possa mai corromperli del tutto49. Tale operazione ha un preciso e delimitato significato storico nei suoi fini e nelle sue motivazioni, ma difficilmente può sostenersi che lo spaccato delle distinzioni formate a quel livello possa riguardare anche la struttura delle attività umane in generale. La sostituzione della logica hegeliana degli opposti con questa logica dei distinti e dei gradi avviene infatti ad un livello in cui i concetti sono carichi di significati storici, tanto da coinvolgere la stessa qualità dei gradi. È chiaro (solo per dare un esempio) che l’attribuire alla poeticità il carattere di grado iniziale è pienamente comprensibile solo nell’ambito di una discussione che abbia concluso colla negazione di leggi storiche e colla loro trasformazione in motivi di sollecitazione pratica (dando così spazio alla poeticità come loro purificazio-

48. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1962, p. 258. 49. Tale iniezione di vitalità implica per Croce un ritorno ad una concezione aristocratica del mondo. Si veda per questo B. Croce, Cultura e vita morale, Bari 1955, pp. 171 e sgg.

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ne), ma che questo stesso presunto carattere iniziale non può reggere al momento in cui si abbia presente la genesi reale del processo umano di appropriazione della natura. A questo livello la «purificazione» dai bisogni pratici è la loro soddisfazione materiale ed inoltre è il processo di perfezionamento dei mezzi e degli strumenti per realizzarla, cioè un processo di appropriazione reale e non poetica del mondo. Da un punto di vista strutturale appare allora con chiarezza che la intersezione di questa logica dei distinti entro quella hegeliana degli opposti significa rinuncia ad ogni riflessione sul fondamento (come struttura semplice del ricambio organico della natura) oltre che ad ogni riflessione sulle forme (come modi in cui storicamente si è combinata tale struttura colle forme sociali di appropriazione). Lo schema dei distinti non si riallaccia in Croce alla struttura del processo di appropriazione, ma è esso stesso una interferenza storica. Avendo intravisto nella crisi dello schema ricardiano un possibile punto di appoggio per una filosofia basata appunto su quel preteso spiraglio di libertà interno alla forma sociale dominante, Croce ne ha dato la teoria, prendendo a modello logico quel paragone ellittico che gli era servito alla confutazione di un marxismo anch’esso ridotto a misura di quella contingenza storica. La filosofia dello spirito si rivelava così come un sistema di valori e di concetti che dava la teoria di quella crisi, ma la critica alla hegeliana logica degli opposti era già stata fatta quando Marx ed Engels avevano fatto del divenire storico l’apparire, in forme distinte ed attraverso un complesso processo di articolazione, del fondamento della appropriazione materiale della natura.

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L’interpretazione crociana di Marx tra il «canone» e il «paragone ellittico» Mario Reale

Se provassimo a chiederci quale sia la nota fondamentale o il punto più alto e comprensivo, e perciò anche il maggior acquisto, della lettura critica che Benedetto Croce, poco più che trentenne, diede di Marx e del marxismo circa un secolo fa (da niente giustificati, nemmeno da quel modesto surrogato della memoria storica che sono le ricorrenze centenarie), saremmo tutti tentati di volgerci quasi istintivamente alla risoluta riconduzione crociana del materialismo storico a empirico «canone» di interpretazione della storia, «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico»1. 1. Materialismo storico ed economia marxistica (1900), Bari 196110, p. 10 (d’ora in avanti indicato con MSEM, seguito dal numero della pagina). Si fa inoltre uso, nel testo e nelle note, delle seguenti abbreviazioni per i saggi raccolti in MSEM che ci capiterà di citare più di frequente: Materialismo storico = Sulla forma scientifica del materialismo storico; Loria = Le teorie storiche del prof. Loria; Per la interpretazione = Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo; Come nacque = Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali. Si tenga presente, per la comprensione di alcune allusioni del testo, che MSEM (ci riferiamo alla prima edizione, salvo che per il Come nacque, incluso come appendice dalla sesta edizione del 1941) consta di tre memorie teoriche sul marxismo, lette tutte all’Accademia Pontaniana di Napoli e lì

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E vi sarebbero senza dubbio non poche buone ragioni per orientarsi in questa direzione. Nel «canone» incontriamo il primo e mai dismesso criterio interpretativo crociano; e attraverso di esso, in forza della sua stessa costituzione, viene subito recata a tema, e nella maniera più decisa, la spinosa questione se il materialismo storico sia o no una «filosofia della storia». Senza contare che, come mostra tra l’altro proprio il caso della negazione del carattere filosofico della ricerca marxiana, il «canone» si propone come una lettura globale di Marx e del materialismo storico: capace cioè di tenere insieme – con il riferimento all’economia, che certo resta il nerbo della nuova concezione – una serie larga di questioni di natura storica e storiografica, eccedente l’ambito dell’economia in senso stretto o tecnico, e che Croce riassume nella formula di «concezione

comparse originariamente negli «Atti»: Materialismo storico (1896); Per la interpretazione (1897); Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto (1899). A queste memorie, che costituiscono l’essenziale dell’interpretazione crociana di Marx, si aggiungono due «recensioni»: il Loria (1896) e quella a Stammler, Wirtschafl und Recht (1898). Seguono infine una discussione: Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, e polemiche intorno ad esse (1899, nella prima parte la risposta alle critiche di Labriola); e il saggio storico sul Comunismo di Tommaso Campanella, primo in ordine di tempo (1895), ma presente nel volume come una sorta di appendice. Per gli scritti di Labriola ci serviremo delle seguenti abbreviazioni: CMS = La concezione materialistica della storia, a cura e con un’introd. di E. Garin, Bari 1965; In memoria = In memoria del Manifesto dei comunisti (1895); Dilucidazione = Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (1896); Discorrendo = Discorrendo di filosofia e socialismo (1897); Postscriptum = Postscriptum all’edizione francese di Discorrendo (1899); Ep = Epistolario III, 1896-1904, a cura di V. Gerratana e A. Santucci, introd. di E. Garin, Roma 1983, seguito dal numero della lettera e della pagina (si indicano solo i destinatari diversi da Croce. Ep dà per ogni lettera a Croce le pagine corrispondenti di A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, a cura di Lidia Croce, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1975, che com’è ovvio riprende integralmente).

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realistica della storia»2. Per questa e altre ragioni, a cominciare dalla stessa efficacia della formula, non c’è dubbio dunque che un’attenzione prioritaria al marxismo-«canone», come nucleo essenziale dell’interpretazione crociana, sembra ben giustificata. Ma le buone ragioni si dicono tali, in un contesto storiografico d’indagine, non certo perché si impongano assolute e solitarie. La questione da cui abbiamo preso le mosse resta persino mal formulata se non ci chiediamo di che cosa il «canone» sia punto più alto e comprensivo, ossia, banalmente, quali siano i temi principali dell’interpretazione crociana di Marx. E la risposta, neanche ora, pare dubbia. Accanto al «canone», l’altro grande campo di intervento crociano è costituito dall’indagine sul Capitale, sulla teoria del valore e sull’economia di Marx, profondamente intrecciata a sua volta alla riflessione sull’economia pura o marginalista, che da un certo momento in poi acquisterà autonomo e critico rilievo3. Non c’è prova migliore di ciò, né più semplice, del titolo che Croce volle dare al libro dove raccolse, nel 1900, i saggi che su Marx e il marxismo era venuto scrivendo negli ultimi anni del secolo. Materialismo storico ed economia marxistica è appunto un titolo a due teste, quasi due

2. MSEM, 20. 3. Dalla risposta a Racca (sezione quinta), Marxismo ed Economia pura (1899), MSEM, 175-79, e soprattutto dalle due importanti lettere a Pareto, Sul principio economico (1900), MSEM, 229-51; insieme alla risposta a Ulisse Gobbi, Il giudizio economico e il giudizio tecnico (1901), e alla più tarda recensione al Manuale di Pareto, Economia filosofica ed Economia naturalistica (1906), MSEM, 265-75, sono questi gli scritti che compongono la seconda edizione (1907, ancora presso Sandron di Palermo) di MSEM, che resterà immutata, salvo l’appendice del Come nacque, di cui se detto, e, naturalmente, le Prefazioni: importante e notissima quella del 1917 alla terza edizione (1918), con le «alcinesche seduzioni» della «Dea Giustizia e della Dea Umanità», cui si riattacca direttamente, in tempi molto mutati, di «servitù», la precisazione recata in quella per la quinta edizione (1927).

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capitoli diversi, sebbene relativi alla stessa materia. Gentile poteva ben dare titolo unitario ai suoi due «studi critici» su La filosofia di Marx, perché in effetti, pur distanziati nel tempo, il loro contenuto costituiva, tematicamente, un corpo di pensieri fin troppo coeso e lineare4. Ma, a meno che non fosse ricorso a un titolo più generico, come saggi o scritti su Marx, a Croce era in effetti più difficile, volendo dar conto dei suoi principali argomenti, evitare la congiunzione, nemmeno troppo elegante, tra i due termini del discorso. Le ragioni di questa esigenza si colgono perfettamente se, anche solo dall’estrinseco, si guardi alla natura o al contenuto dei saggi crociani. I nuclei tematici di Materialismo storico ed economia marxistica, con le precisazioni di cui appresso diremo, sono abbastanza ben distribuiti per saggi e secondo l’ordine del tempo: il materialismo storico e il «canone»; l’economia di Marx, stretta nella «formula», parallela a quella del «canone», del «paragone ellittico» tra due tipi di società; e infine, come sviluppo largo ma anche autonomo di questo secondo tema, la polemica con l’economia pura, consegnata agli importanti saggi inclusi nella seconda edizione del libro, che lasceremo ora da parte in quanto non concerne direttamente l’interpretazione di Marx.

4. Tra i due studi di Gentile intercorrono circa due anni. Cfr. G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, pp. 58-68; B. Croce, Lettere a G. Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, introd. di G. Sasso, Milano 1981, p. 11 (lett. n. 16 del 26 ott. 1897) e pp. 55-57 (lett. nn. 72-75, tra lug. e ago. 1899). Leggo la Filosofia di Marx. Studi critici (Spoerri, Pisa 1899) nella seconda ed., o meglio ristampa, Firenze 1937, dove compare «aggiunta» alla terza ed., riveduta e accresciuta, de I fondamenti della filosofia del diritto (1916). Su questa non felice unione e sull’unità invece dei due studi marxiani di Gentile, cfr. ora G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998, pp. 317 ss. Proprio perché interessante, abbiamo cercato in questo scritto, onde evitare esplosioni, di non toccare, se non occasionalmente, il tema della diversa lettura di Marx di Croce e Gentile, che merita di essere studiato a parte.

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Il problema che stiamo perseguendo può essere ora formulato meglio. Il «canone», cui è stato ricondotto il materialismo storico, si affermerà come l’orizzonte inclusivo dell’interpretazione crociana di Marx se riuscirà a tenere in sé, concettualmente, gli studi economici e l’economia marxistica. S’incontra qui una difficoltà cui abbiamo accennato e che subito metteremo a tema: i due «capitoli» della lettura crociana – il «canone» e il «paragone ellittico» – sono successivi nel tempo, non simultanei. A rigore, tuttavia, il problema non si può drammatizzare su questa sola base: posteriori nel tempo, e frutto di un ampliamento della ricerca, gli studi sull’economia di Marx potrebbero essere perfettamente compatibili, secondo un coerente sviluppo logico, con quelli sul «materialismo storico» e sul «canone», continuando anzi a trovare in questi ultimi la loro larga e significativa genesi concettuale (di nuovo, il paragone con gli «studi» di Gentile è illuminante). In questo caso, è ovvio, la primitiva impressione del «canone» come orizzonte più significativo e comprensivo della lettura crociana di Marx verrebbe confermata. Ma il tempo, diceva Machiavelli, «può condurre seco bene come male, e male come bene». Se l’ipotesi di una pacifica congruenza tra i due temi svolti da Croce non può essere esclusa solo a causa del tempo, nemmeno d’altra parte il tempo potrebbe darci ciò che neanche la simultaneità garantisce, ossia l’assicurazione che tra il «canone» e il «paragone ellittico» non si apra una tensione, che il secondo non si mostri riluttante a lasciarsi risolvere nel primo, così come questo non appaia inadeguato a farsi criterio interpretativo dominante. In tal caso, è parimenti evidente, l’impressione della decisività del «canone» dovrebbe essere rivista, e – senza certo porre in campo il risibile problema di una lotta per l’egemonia tra i due principali temi dell’analisi crociana – l’intera questione dovrebbe essere riesaminata sui testi. Il «prima» e il «poi», di cui il tempo sembra consistere, assumono, già nell’esperienza ordinaria, coloriture diverse. C’è

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una successione imposta solo dalla necessità del tempo, per la quale, ad esempio, farò o scriverò domani ciò che potrei fare o scrivere anche oggi, se ne avessi, appunto, tempo; e c’è un «dopo» che non è in alcun modo contenuto e leggibile nel «prima», perché sulla via del suo conseguimento si pongono domande, ricerche, dubbi. L’intervallo di tempo che in Croce separa il «canone» dal «paragone ellittico» appartiene alla problematicità del non sapere ancora e del voler sapere, della domanda che, non avendo ancora risposta, si indirizza intanto verso soluzioni oblique e provvisorie. Nell’elaborazione del materialismo storico come «canone», la questione dell’analisi economica del Capitale, della peculiare natura della ricerca di Marx, è tanto presente, matura e persino urgente, quanto ancora avvolta nel buio, che induce a passi falsi. Chi voglia esaminare la tesi crociana del «canone», deve essenzialmente rivolgersi a Materialismo storico, la memoria che Croce lesse all’Accademia Pontaniana di Napoli il 3 maggio 1896. Se si eccettua il saggio su Campanella, questa memoria è (in assoluto dal lato teorico) il primo scritto crociano d’argomento marxista, e per questo apre MSEM, dove i saggi sono disposti in ordine cronologico. Sul materialismo storico come «canone» Croce tornerà, lo vedremo, in particolare nella sezione terza della seconda memoria teorica pontaniana, Per la interpretazione, anche dopo, quindi, che il «paragone ellittico» sarà stato per intero illustrato; ma possiamo già anticipare che questa ripresa non molto aggiungerà di nuovo alla tesi del «canone», che deve pertanto essere esaminata e discussa nel testo del 1896. Decisiva così ai fini del materialismo storico-«canone», la memoria del 1896 si tiene d’altra parte in generale lontana dai temi dell’«economia marxistica». C’è, di questo, una ragione evidente e piana. Il primo effetto della «rivelazione» che, nel maggio 1895, Croce ricevette dalla lettura del saggio labrio-

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lano In memoria – ed è un punto davvero notevole, da non dimenticare mai – fu quello di «cacciarsi» nello studio degli economisti classici e, soprattutto, contemporanei5. Anche nell’«appassionamento», con la mente accesa dalla nuova scoper5. Contributo alla critica di me stesso (1915), in Etica e politica, Bari 1967, p. 329 (cfr. pp. 328-30): «e mi detti per più mesi con ardore indicibile agli studî, fin allora a me ignoti, della Economia. Senza troppo impacciarmi di manuali e libri di divulgazione, studiai i principali classici di quella scienza […]; e, sempre volto a impadronirmi dei punti essenziali e a schiarirmi le questioni più difficili, mi trovai in breve tempo affatto orientato, con maraviglia del Labriola…». Poco appresso: «e gli studî di economia, che nel marxismo facevano tutt’uno con la concezione generale della realtà ossia con la filosofia…». In Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso, Napoli 1966, pp. 20-22 (Curriculum vitæ:, datato 10 apr. 1902), alla «rivelazione» dell’In memoria labriolano si anticipa un desiderio di conoscenza, mediato certo esso stesso da Labriola: «da parecchio tempo cercavo di accostarmi a quell’ordine d’idee [il marxismo], ma a Napoli me ne mancava il modo». Riguardo all’enfoncement – «dalla primavera del 1895 a quella del 1896» – in quegli studi, si dice: «passando poi dalla teoria del Marx a studiare le varie forme della scienza economica […] e leggendo in primo luogo i classici dell’economia, riuscii ad impadronirmi della letteratura sull’argomento e ad orientarmi nei suoi problemi». È ovvio, sebbene nel testo accentuiamo l’importanza degli studi di economia, che questo lavoro è andato di pari passo con la conoscenza di Marx e del marxismo («lessi tutto ciò che vi ha di non volgare nella letteratura socialistica», in Contributo, cit., p. 329). Lo studio parallelo dei due argomenti, volendo essere pignoli, deve aver avuto questo andamento: dapprima Marx, Engels e la letteratura socialistica, insieme, e poi in seguito, gli economisti, infine ritorno intensivo all’economia di Marx, a partire dalla «nota» al Loria italiano (la polemica con Loria è espressamente ricordata nel Curriculum). Le notizie più diffuse in merito allo studio degli economisti nel Come nacque, MSEM, 282, 304. Significativo qui, tra l’altro, il riferimento a Marshall, «degno continuatore contemporaneo» degli economisti classici, di Smith e di Ricardo; che rivela – ma sulla questione si dovrà tornare – un’adesione crociana alla lettura «neoclassica» del marginalismo o della «scuola austriaca»: una «continuità» sulla quale, e per comprensibili motivi, Labriola avrà l’occhio più lungo: «chiamarla [la scuola austriaca] una continuazione della scuola classica è un assurdo», Ep. 936, 761. Ma sul Come nacque si dirà in seguito.

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ta, Croce mantiene quel tono di pacata sobrietà che gli è caratteristico. E alla sagace intuizione, cui il saggio di Labriola per la verità non invogliava, che i pensieri e i problemi di Marx, «i punti essenziali e […] le questioni più difficili», quale che fosse la loro natura, si decidessero alla fine sul terreno del Capitale e dell’economia, fa riscontro il proposito di immergersi nello studio degli economisti, principalmente dei recenti autori della cosiddetta «rivoluzione marginalista». La «rivelazione» conduce al tempo stesso a Marx e a quegli economisti che gli erano avversi e che parlavano un’altra lingua. Il tratto più originario, caratteristico, e insieme originale, dell’avvicinamento crociano a Marx sta qui: capire la scienza economica contemporanea, oltre ai padri fondatori, prima di cimentarsi dall’interno con il Capitale, per darne lettura critica più larga e consapevole, senza lasciarsi impaniare dal partito preso, fosse quello dei marxisti o quello dei nuovi economisti. Solo che, abbandonando altre ricerche, Croce si volgeva a studi per lui fino ad allora «ignoti»; le letture da fare erano molte, a volte difficili, spesso ingrate. La decisione di studiare l’economia richiedeva insomma tempo; e se all’epoca della memoria del 1896 gli studi di economia erano ancora in fase di svolgimento, già sei o sette mesi più tardi, quando Croce scrisse la nota che anticipava la riduzione del valore di Marx a «paragone ellittico» (e a fortiori in Per la interpretazione) il tempo era maturo perché, dopo il materialismo storico, anche l’economia marxistica fosse messa a tema e giudicata. In Come nacque, il saggio dove Croce ripercorre la vicenda biografica e intellettuale che quarantanni prima lo aveva impegnato negli studi su Marx, è fissato il ricordo del posteriore intervento sull’economia di Marx, quando lo studio degli economisti fu più avanzato, rispetto a Materialismo storico e al «canone». Com’è noto, il valore documentario di questo testo pone alcuni problemi, poiché, alla precisione della ricostruzione storica, sostenuta dalla rilettura e dalla scelta delle lette-

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re di Labriola, che in questo testo vengono per la prima volta pubblicate, si sovrappone talvolta la trama di pensieri e convinzioni che, estranei al tempo del racconto, sono maturati negli anni successivi. Il caso più imbarazzante a questo proposito si trova là dove, nella stessa pagina e sempre a proposito della memoria pontaniana del 1896, una volta Croce dice, in sede introduttiva, che il materialismo storico gli si rivelò «fallace» in quanto «concezione del corso storico secondo un disegno predeterminato, variante della hegeliana filosofia della storia», mentre subito dopo ricorda che la sua convinzione era allora che il materialismo storico fosse beneficamente da intendere (contro la storiografia degli eruditi e dei filologi) «non già come una filosofia della storia o una filosofia senz’altro, ma come un empirico canone d’interpretazione, una raccomandazione agli storici di dare l’attenzione, che sino allora non si soleva dare, all’attività economica»6. L’anticipazione di pensieri è certo stridente, dato che il «canone» si costituisce interamente sulla negazione del materialismo storico come filosofia della storia, né è possibile a rigore (circa lo svolgimento effettivo della cosa diremo appresso) affermare insieme la necessità della filosofia della storia e l’empirica contingenza del «canone». Ma questa difficoltà – che a sua volta richiede uno studio specifico sui 6. MSEM, 302-03. Il testo parla di una doppia fallacia: «il materialismo storico mi si dimostrò doppiamente fallace e come materialistico e come concezione…». Anche sulla prima fallacia (alla seconda si accenna nel testo) c’è da ridire. In Materialismo storico infatti la difficoltà è solo terminologica: la denominazione «materialismo», data alla «dottrina», è certo fuorviarne («fa ripensare subito all’interesse ben inteso e al calcolo dei piaceri») e andrebbe mutata (Croce propone: «concezione realistica della storia»), ma ciò per la buona ragione che «materialismo», e meno che mai «materialismo metafisico», non c’è («non ha ragion d’essere nel caso presente»); MSEM, 20-21, 6-7. Per i «benefici» arrecati dal materialismo storico, nel segno di una valutazione «retrospettiva» che è assente nel 1896, si v. almeno Storia della storiografia in Italia nel secolo decimonono (1921), Bari 19644, II, pp. 123 ss. e Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1973, pp. 139-55 e passim.

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modi e i tempi attraverso cui Croce venne operando qualcosa come un rovesciamento della propria convinzione iniziale in merito all’estraneità di Marx a ogni filosofia della storia – non toglie, una volta che sia stata rilevata, l’alto valore documentario e autobiografico di Come nacque. Per intanto io, ascoltando e meditando, ero pervenuto dopo quasi un anno a una mia conclusione intorno al materialismo storico; cioè avevo dato risposta alla domanda su che cosa se ne potesse trarre per la filosofia e per la storia.

C’è qui la puntuale determinazione di ciò che il «capitolo» materialismo storico contiene, con la «risposta» che nulla se ne può «trarre» per la filosofia, mentre lo storico può e deve trarne il «canone». Segue ora nel testo la questione della «fallace» filosofia della storia di Marx, sopra accennata, e, subito di seguito, entro un richiamo al lato serio, drammatico del materialismo storico, la tesi dell’«empirico canone d’interpretazione». La quale è interamente riportata a Materialismo storico («tutto ciò dissi in una memoria accademica…»). Ed eccoci – sul giudizio che Labriola dette della memoria crociana diremo appresso – alla questione del tempo e degli studi di economia. Ma io continuavo altresì le indagini intorno alle dottrine economiche del Marx e alla sua teoria del valore e del sopravalore; e a tal fine non solo avevo studiato gli economisti classici dallo Smith e dal Ricardo fino al loro degno continuatore contemporaneo, il Marshall, e i nostri italiani, il Pantaleoni e il Pareto, ma rivolto una speciale attenzione alla cosiddetta scuola austriaca e agli indirizzi affini a questa…

Al termine di questa «indagine spregiudicata e scrupolosa», Croce «giunse» alla conclusione che la teoria economica di Marx fosse da intendere come «paragone ellittico»; una «soluzione» e una «formula» enunciate la prima volta «in una nota

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all’edizione italiana del mio saggio sul Loria», cioè sei o sette mesi dopo Materialismo storico7. Dire ora che Croce confermi, al di là di punti specifici, l’impostazione generale che abbiamo conferito al problema di cui ci stiamo occupando, sarebbe tuttavia fuorviarne. Nella pagina del Come nacque, Croce fornisce in realtà un’interpretazione sdrammatizzante del problema, risolto, come sarà poi suo costume, piuttosto lungo la linea della continuità, che conosce sì nuove esperienze e proseguimento di studi, ma non l’asprezza della frattura e del ripensamento. Si osserva infatti che l’indagine sull’economia di Marx giunse «a una conclusione analoga a quella a cui ero pervenuto intorno al materialismo storico». L’analogia sembra consistere nella sottrazione all’opera di Marx di un campo maggiore – la filosofia della storia nel primo caso, la scienza economica nel secondo – e nella parallela attribuzione ad essa di un ufficio minore e «circoscritto»; il «canone» nel caso del materialismo storico, l’«illuminazione» della «coscienza sociale» circa «il rapporto dei lavoratori coi capitalisti» riguardo alla scienza economica. E lasciamo pure da parte, ora, i punti dove l’analogia non stringe troppo – la filosofia della storia non ha in sé valore per Croce, mentre la scienza economica è cosa importante (semmai l’analogon dell’economia dovrebbe essere la «filosofia senz’altro»); e, all’altro capo, il «canone» si offre direttamente allo storico, mentre la «coscienza sociale» sul rapporto di lavoro e capitale, sembra rinviare all’economia solo per vie mediate. In generale, a prescindere da ciò, il discorso di Croce è chiaro, nel segno dell’Entwicklung. Nel maggio 1896, era giunto, con il «canone», a una conclusione sul materialismo storico. Certo, si trattava pur sempre di un canone economico d’interpretazione, ma l’economia era ancora assunta qui in una dimensione generale, come un’attività

7. Come nacque, MSEM, 302, 304.

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cioè che, indipendentemente dalle sue forme specifiche, esercita un peso rilevante sulle vicende umane8, tanto che gli storici non potrebbero comunque disinteressarsene. In seguito, quando gli studi sull’economia, che all’epoca di Materialismo storico erano ancora at work, furono perfezionati, Croce potè compiere un importante passo avanti, coerente («analogo») con quello compiuto riguardo al materialismo storico, affrontando direttamente, con «indagine spregiudicata e scrupolosa», il tema dell’economia in Marx. Per un verso, a questa ricostruzione di Croce non c’è nulla da obiettare. Il problema da cui siamo partiti – l’orizzonte più alto e significativo dell’interpretazione crociana di Marx –, purtroppo per noi, non solo si sdrammatizza ma si dissolve, lasciando il posto a una lettura ancipite, che dapprima si rivolge al materialismo storico e quindi, con un’operazione equivalente, simmetrica e successiva, affronta il più difficile nodo dell’economia in Marx. Materialismo storico (appunto) ed economia marxistica. Chi potrebbe negare, dopotutto, che se c’è una trattazione diretta e tecnica dell’economia, affidata al Capitale e agli scritti che variamente lo preparano e l’accompagnano, in Marx si trovano altresì problemi storici e storiografici – dalla natura complessa della storia, alla relazione che lega tra loro le attività umane o al rapporto di sostrato economico e «sovrastruttura», all’analisi dello Stato, della politica, delle ideologie, e così via9. Questi temi, pur facendo di nuovo e fatalmente centro sull’economia, si collocano al di qua o al di là dei risultati economico-analitici di Marx, né sono ad esso

8. Si ricordi, sempre dallo stesso contesto: «Ma, d’altra parte, lo vedevo [il materialismo storico] nascere da una così cocente esperienza storica, da una visione così penetrante della gran parte che l’economia ha nelle umane vicende…». 9. Per questi aspetti, cfr. la sezione seconda di Materialismo storico, MSEM, 10-16.

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per intero riconducibili e riducibili. In fondo, il giovane Gentile poteva, negli stessi anni, scrivere i suoi densi saggi su La filosofia di Marx prescindendo del tutto dal Capitale e dagli aspetti specifici dell’analisi economica marxiana10. Né si vorrà certo, con malagrazia, montare un caso, volgendo contro Croce le maggiori frecce che egli ha al suo arco, o disquisendo sul tempo che esse impiegano per raggiungere il loro obbiettivo. Con tutto ciò, ci pare che al fondo della ricostruzione di Croce – così sensata, trasparente e persuasiva – resti qualcosa di non risolto. Il tempo s’incarica, aristotelicamente, con troppo agevole disponibilità, di pacificare i problemi, senza che in esso affiori l’ansia della domanda, il dubbio e l’oscurità che cerca luce. L’analogon economico è conclusione che si salda quasi naturalmente, con l’approfondimento della ricerca, ai risultati raggiunti sul materialismo storico. Per altro verso, si potrebbe dire con una battuta, tutto tornerebbe se Croce non fosse Croce – ossia se egli, come si è detto, non fosse stato, con sicuro e fermo intuito, convinto fin dall’inizio del suo «innamoramento» che la chiave o il segreto del marxismo, con i molti e complessi piani che lo compongono, stesse da ultimo nell’economia, e se in questa nuova direzione di studi non avesse indirizzato per lungo tempo e con ogni decisione le sue energie. Per questo, nelle pagine che seguono, cercheremo anzitutto di conferire maggiore dinamicità, e problematicità, alla ricostruzione, pur nella sostanza precisa e attendibile, del Come nacque. Ciò faremo esaminando dapprima la chiusa di Materialismo storico, e quindi il giudizio di Labriola (e il modo in cui Croce lo riporta nei suoi ricordi) su questa stessa memoria.

10. Giustamente, la breve discussione che Croce farà in Per la interpretazione dei saggi di Gentile è posta nella sezione terza, relativa al «canone»; MSEM, 83, 85.

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Il tema economico in senso puntuale e specifico (la teoria di Marx in rapporto al purismo economico), che è estraneo al corpo di Materialismo storico, irrompe tuttavia, in forma obliqua, sebbene pungente, nel finale della memoria. Nella terza sezione, viene a tema la questione di quel «legame» tra materialismo storico e socialismo, che Labriola vede stretto fino all’identità dei termini, mentre Croce legge nel segno della distinzione tra pensiero e prassi, tra la «fredda e impotente» teoria, che può solo operare una ricognizione della situazione data, e quei «complementi» pratici – di mobilitazione degli «interessi» e degli «entusiasmi di fede», di accensione della scintilla della «persuasione morale» e della «forza del sentimento» – che sono necessari perché l’osservazione diventi «azione e fatto»11. L’evocazione dell’elemento etico spinge ora Croce a interrogarsi su quel che si potrebbe dire il rapporto tra strutture (idealità o assolutezza dei principi, il «sostanziale») e storia, tra i perenni «valori ideali dell’uomo» – «verità scientifiche e soprattutto morali – e la loro «genesi storica», nonché le mutevoli forme del loro darsi e «svilupparsi». E, nonostante una certa insoddisfazione per il modo in cui Labriola ha trattato la questione, riportata del resto alla «necessità» che, per molte ragioni, spinse Marx ed Engels a sottovalutare la morale, o a occuparsene in modi occasionali e sarcastici, la convinzione ultima di Croce è nettissima e iperdeterminata: «è evidente che l’idealità o l’assolutezza della morale, nel senso filosofico di tali parole, sono presupposto necessario del socialismo». Al lettore non sfuggirà che, al di là del suo tema esplicito, Croce sta qui insieme pensando alla relazione generale o «sistematica» tra l’economico e la morale. Un tema tanto capitale per la «filosofia dello spirito» quanto aspro, e difatti ora risolto (ma la cosa deve essere con più cura esaminata in altra sede) nel segno di un completo sbilanciamento delle «forme speciali» 11. Materialismo storico, MSEM, 17-18.

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della pratica in direzione dell’etico. Marx si sarà pure occupato poco e male della morale, ma tutto il suo programma scientifico, compresa la teoria del valore, è saldamente tenuto da un «presupposto morale». Difatti: «in pura economia, si può parlare di sopravalore? Non vende il proletario la sua forza di lavoro proprio per quel che vale, data la sua situazione nella presente società?». Il concetto di sopravalore nasce in realtà da «un interesse morale, o sociale», quello stesso «presupposto» – sono cose ovvie, si aggiunge, «assai elementari» – che spiega, con l’azione politica di Marx, «il tono di violenta indignazione e di satira amara» percepibile «in ogni pagina del Capitale»12 . Non è di alcun interesse enfatizzare ancora una volta il passo falso su cui Croce si è incamminato, cosa del resto che gli sarà presto chiarissima: implicitamente già nella nota al Loria italiano, e, a tutte lettere, in una nota di rettifica apposta a Per la interpretazione. Importante è invece capire perché si determini l’«errore» del sopravalore «morale». A una di queste ragioni abbiamo accennato, senza poterla ora svolgere: l’asprezza dei pensieri circa la relazione dell’utile e della morale. L’altra ragione, invece, ci riporta in medias res, e concerne la specifica natura del problema che occupa la mente di Croce, nelle sue zone illuminate o già acquisite, e in quelle ancora impenetrabilmente oscure. Fin dall’inizio – lo si è detto – Croce mostra di seguire l’indirizzo metodologico di cui parlerà nelle pagine autobiografiche: non l’economia di Marx qual era in varie forme dibattuta nel marxismo, o meglio non solo questa, ma Marx letto alla luce della «scienza economica», quella dei classici e soprattutto quella recentissima dei marginalisti13. 12. Materialismo storico, MSEM, 20; cfr. per quel che prima si è detto, pp. 18-19. 13. Si tende talvolta a dimenticare che Croce lavora su un indirizzo di ricerca economica molto vicino nel tempo e anzi ancora in progress. È vero che i testi dei padri fondatori della cosiddetta «rivoluzione marginalista» sono

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Questo lavoro ha dato già i suoi frutti, e Croce è giunto alla convinzione che le questioni economiche – compresa la teoria del valore e il sopravalore di Marx – si decidono al metro dei contenuti e delle categorie analitiche dell’economia pura, mentre tutto ciò che non trova collocazione in questo ambito è fuori altresì dalla scienza economica. Per questo aspetto dunque – e senza negare l’ovvio di un approfondimento, nei mesi seguenti, anche degli «austriaci» – si può dire che in Materialismo storico Croce ha già maturato quella sicura adesione all’economia pura, che terrà sempre ferma negli anni seguenti, persino quando, sul piano filosofico, scenderà in polemica con i puristi14. Il problema ancora aperto, oscillante e oscuro, riguarda allora Marx, il Capitale (che pure è in qualche modo presupposto in Materialismo storico) e l’«economia marxistica». Come si dice esattamente nella nota a Per la interpretazione, dove Croce fa «ammenda» dell’«errore» della precedente memoria, si era trattato di un fraintendimento parziale: bene si era detto che il sopravalore «non è un concetto puramente economico», ma «inesattamente» lo si era definito «concetto morale», mentre la morale né qui né altrove «ha parte» nell’indagine di Marx15. Questo è il punto essenziale dell’oscurità di Croce. Le ricerche economiche di Marx sono divergenti dall’economia pura, degli anni 70: del 1871 sono i Grundsätze di Menger e la Theory di Jevons, nel 1874 e nel 1877 escono i due tomi degli Eléments walrasiani. Ma, come sanno bene gli storici del pensiero economico, per dieci o quindici anni si trattò di una «rivoluzione» silenziosa e ignorata, tranne forse che per gli attacchi a Jevons. È tra la metà degli anni ’80 e la fine secolo all’incirca, con nuovi economisti, che il movimento «neoclassico» si afferma, e in maniera piuttosto duratura. 14. Cfr. la risposta a Racca, MSEM, 175; e la prima lettera a Pareto, MSEM, 229-30. 15. In «Atti» dell’Accademia Pontaniana, vol. XXVII (1897), p. 12, n. 1 dell’estratto. La nota fu soppressa in MSEM (dove sarebbe caduta a p. 70).

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e perciò giudicate estranee alla «scienza»; ma che conto fare delle analisi economiche, e in primo luogo della teoria del valore, che con evidenza sorreggono la trama del Capitale? La tentazione di scavalcare interamente il problema, confinando la stessa economia di Marx all’ombra delle esigenze «morali», è stata di un momento: troppo palesi le incongruenze (Marx sarebbe tornato a confondere – sebbene non più attraverso «predicozzi» – «questione sociale» e «questione morale», dopo aver strapazzato la morale pur di assicurarsi questa distinzione16), troppo resistenti i testi, e, soprattutto, troppo deludente la soluzione data a un programma di ricerca aperto, un anno prima, dalla consapevolezza della centralità del rapporto di Marx con l’economia. Sarebbe certo del tutto fuorviarne considerare Materialismo storico una sorta di approssimazione al marxismo, come era stato il saggio su Campanella, e come sarà, di lì a qualche mese, lo scritto su Vincenzio Russo17. Pure, c’è nella vicenda che stiamo esaminando qualcosa dell’anticipazione cursoria o della dilazione. Pronto, dopo un anno di studio, a intervenire sul materialismo storico, Croce avrà certo saputo che questa prima uscita in proprio, sul terreno che più gli era familiare della storia, comportava altresì il rinvio di quel problema dell’economia di Marx, che, con ogni probabilità, operava nella sua mente fin dalla «rivelazione» del maggio 1895. Un problema assillante e oscuro che, momentaneamente rimosso, ricompariva, 16. Materialismo storico, MSEM, 19-20. 17. Come nacque trascrive per errore all’11 novembre la lettera di Labriola dell’11 settembre in cui si parla del saggio di Croce su Russo (MSEM, 299-300; Ep. 884, 720 e 881, 716). Il quale saggio, pubblicato in «Riforma sociale», VI (1896), e quindi incluso ne La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1912 (e già in una precedente ed., con titolo diverso, presso Loescher, Roma 1897) deve essere uscito alla fine del settembre 1896 (Sorel scrive di averlo ricevuto il 9 ottobre, Lettere a Benedetto Croce, introd. e cura di S. Onofrio, Bari 1980, p. 38).

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come in un fatale lapsus, nella coda di Materialismo storico, in un contesto che a rigore nemmeno lo richiedeva (la discussione sulla morale in Marx ed Engels avrebbe potuto chiudersi senza l’irruzione del tema del sopravalore e dell’economia pura), operando la sua vendetta e inducendo all’«errore». Neanche nei mesi seguenti la lettura della memoria, come ora diremo, Croce verrà in chiaro con se stesso sulla questione della «scienza» di Marx, della relazione tra il Capitale e l’economia contemporanea. E, come si è pure accennato, se Marx era certamente la punta acuta del problema, lo stesso giudizio sull’economia pura – per la relazione originariamente stabilita tra queste esperienze – restava parzialmente sospeso. Il purismo rappresentava, nella già matura consapevolezza di Croce, la «scienza economica», e Marx era «un’altra cosa»18. Ma se si fosse trattato di un’alterità radicale, se l’opera scientifica di Marx fosse stata risolta nella tensione morale, come in Materialismo storico, l’economia pura avrebbe riaffermato per intero, intensive ed extensive, i suoi diritti. Se invece – secondo il verso più pungente della domanda – si fosse giunti alla conclusione che Marx, estraneo alle forme dell’economia pura, aveva tuttavia qualcosa a che fare con la scienza economica, aveva posto domande e rischiarato oscurità, fossero pure decentrate rispetto al piano su cui la scienza operava – allora è chiaro che, in qualche punto almeno, si doveva rivedere lo stesso giudizio sull’economia pura che, non più solo giudice sovrastante Marx alla sbarra, avrebbe dovuto affrontare le questioni poste dall’avversario. Quando, a partire dalla fine del febbraio 1896, Labriola comincia a esercitare insistenti pressioni sul giovane amico perché scriva per il «Devenir social» un articolo «su gli spropositi dell’Illustre Loria», ripetendo in grande (in patria e per un

18. Loria, MSEM, 34.

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autore celebrato) l’«operazione» che così brillantemente aveva condotto contro il modesto Lafargue con il saggio su Campanella, Croce si mostra più che riluttante19. L’opinione di Labriola era che la cosa sarebbe stata «utile obiettivamente […] ed anche a te»20; ma su quest’ultimo punto, in particolare, Croce avrà avuto seri dubbi. In Come nacque, a proposito della collaborazione al «Devenir social» e dello stesso saggio su Loria, si dice: «Ma io indugiavo perché sentivo di non avere ancora qualcosa di mio da dire e m’importava di continuare gli studi e le meditazioni intraprese sul marxismo»21. Nei mesi di marzo e aprile 1896, comunque, preso dal suo Materialismo storico, Croce sembra fare orecchie da mercante. Con la memoria, in effetti, l’indugio era stato rotto e, pur sotto il tenue velo di una libera recensione alla Delucidazione di Labriola,

19. Ep. 757, 640 (28 feb.); cfr. 758, 641; 759, 642 (a Kautsky: «mi sono da ultimo persuaso che il Loria non è nemmeno un cattivo plagiario, ma semplicemente un cretino»); 764, 645 (ancora a Kautsky, sulla diffusione in Italia di Loria e sul «povero “Devenir”»); 774, 650; 781, 653 (23 apr., Sorel «prega e straprega» per avere un articolo di Croce sul «Devenir» – non potrebbe consistere in «una serie di note» contro Loria?). L’essenziale della questione in Come nacque (MSEM, 297-98) – l’«ossessione» che Loria era diventato per Labriola («e ora istigava me a processarlo e giustiziarlo con tutte le forme e le cerimonie relative») e il desiderio vivissimo di Sorel di assicurarsi per il «Devenir» «buoni articoli», come quelli di Croce («il Suo posto è grande»), salvo l’imbarazzo per la recente stroncatura di Lafargue, che era uno dei fondatori del «Devenir» e secondo quella malalingua di Labriola, il quale riferisce una «confessione» (estorta?) di Sorel, aveva la «vanità di una femmina» (Ep. 801, 667; la stroncatura di Croce aveva comunque confermato Sorel nel suo «sospetto» che Lafargue fosse «uomo incompetente»; cfr., per questo e per l’«imbarazzo» che Croce e Lafargue fossero collaboratori della stessa rivista, le due prime lettere di Sorel a Croce, Lettere a Croce, cit., pp. 33-34. 20. Ep. 760, 642. 21. MSEM, 298.

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che stava per uscire22, Croce aveva espresso qualcosa di suo in merito al marxismo. Ma dopo la lettura della memoria, c’è una sorta di ripetizione dell’identico; e un ripensamento di Sorel, forse per i motivi che sappiamo, circa l’accettazione del Loria – di cui Labriola riferisce proprio il 3 maggio23 – deve aver costituito per Croce un sollievo di breve momento. Anche ora, infatti, c’erano buone ragioni, e il comprensibile desiderio, di «indugiare», continuando «gli studi e le meditazioni» su Marx, per dire qualcosa di proprio su un punto che si era rivelato spinoso e decisivo. Ma Labriola moltiplicava, più spesso a nome di Sorel, «premure e insistenze» sull’amico, perché si decidesse a scrivere l’AntiLoria24. Croce, da parte sua, sembra opporre una sorta di resistenza passiva: non risponde all’invito formale del «Devenir»25, né comunica la sua decisione a Labriola, il quale, ancora il 24 giugno, gli chiede perplesso se scriverà l’articolo26. Intanto, è giunto il tempo delle vacanze e Croce va a Torre del Greco, con l’intenzione di trascorrere il resto dell’estate a Perugia, dove Labriola è di casa perché vi si reca da qualche anno come commissario d’esame e, in questa veste, sarà lì dal primo al 15 luglio. Ma i tempi, con rammarico di Labriola, non coincidono, e Croce giungerà a Perugia solo i

22. Ep. 792, 661. «Tu mi mortifichi anche con la recensione anticipata del mio opuscolo» (5 mag.). La Dilucidazione uscirà circa un mese dopo la «lettura crociana», cfr. Ep. 818, 674-75. 23. Ep. 790, 660. «Ho scritto a Sorel, spiegando e precisando, in guisa di fargli intendere che è un dovere per lui di accettare l’articolo… tanto più che è contro Loria!». Poco oltre: «Aspetto con grande interesse la lettura che farai oggi all’Accademia Pontaniana». 24. MSEM, 298; Ep. 826, 682 (Sorel, che attende l’articolo, è «incantato» da ciò che ha letto di Croce). Purtroppo, nelle lettere di Sorel a Croce, c’è un vuoto che va dal gennaio all’ottobre del 1896. 25. Ep. 818, 675. 26. Ep. 834, 688: «Scriverai poi sul Loria?».

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primi di agosto, per trattenervisi fino all’inizio di ottobre27. La lettera di Labriola del 3 luglio mostra però che, nel frattempo, sono giunte buone notizie da Croce circa l’articolo atteso. Com’è suo costume, Labriola entusiasta rilancia, proponendo già un «rifacimento» in italiano del saggio per il «Devenir»28; il tormentone mostra di volersi gonfiare per via, prima ancora che abbia preso forma. Nell’estate del 1896 comunque – certamente a Perugia – Croce porta con sé i libri di Loria per rileggerli con cura e preparare l’articolo29. Ma la fatica, seppure al fresco della collina perugina, deve essere stata ingrata: le pagine tante30, la prosa tale da far sobbalzare il povero Croce a ogni periodo31, e soprattutto la penosa impressione che da Loria poco vi fosse da spremere per le sue riflessioni sul marxismo. In Come nacque, Croce dà conto di questa insoddisfazione e si domanda perché proprio a lui fosse capitata questa noiosa tegola32. Labriola, da parte sua, non è tranquillo, e se il 27. Ep. 836, 699; 844, 695 (suggerimenti sulla sistemazione di Croce a Perugia); 855, 700; 856, 701 (9 ago.): è lieto che Croce si trovi bene a Perugia. 28. Ep. 840, 691-93. «Ora poi che noi tutti abbiamo cucinato Loria…». Tutta la lettera è presa dal caso Puviani-Loria; il dossier contro quel Loria, che è «un birbante, un intrigante, un imbroglione, un plagiario», deve crescere fino ad essere completo. «Fa tesoro di tutto ciò, non tanto per l’articolo francese, quanto per il rifacimento che ne pubblicherai in italiano»; e cfr. la sobria nota di Croce sul caso Puviani-Loria in Loria, MSEM, 27-28. 29. MSEM, 298, «recandomi in villeggiatura, portai con me tutti i volumi del Loria…». 30. Solo la Teoria economica della costituzione politica (poi divenuto Le basi economiche della costituzione sociale) di Loria è un libro di seicento pagine. I testi di Loria cui Croce fa riferimento sono indicati all’inizio del saggio, sia nell’edizione francese che italiana. 31. Croce non si trattiene dall’inserire nelle citazioni dirette di Loria innumerevoli segni di interpunzione, punti interrogativi ed esclamativi. 32. MSEM, 298-99. Al fondo dell’opera di Loria aveva ritrovato «un sincretismo incoerente, un ragionamcntino sgangherato […], non originali conoscenze economiche». Il «compito» era toccato a lui, e non a Labriola stesso,

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23 luglio aveva chiesto notizie del Loria, a fine agosto (e ancora il 2 settembre) si lamenta del preoccupante silenzio di Croce33, e i primi di settembre scrive che Sorel attende il titolo dell’articolo34. Subito dopo, Croce deve avergli scritto di star lavorando all’articolo; nella lettera di Labriola dell’11 settembre si legge: «darò per certo al Sorel l’articolo tuo sul Loria»35. Ma i timori non sono interamente fugati se la lettera del 22 settembre, riportando un sollecito di Sorel, manifesta aperto scetticismo36; e solo il 26 seguente Labriola dice di aver ricevuto la cartolina, dove Croce avrà detto di aver terminato o di star terminando l’articolo, e di averne già informato Sorel e Bonnet37. Solo ora la cosa è veramente sicura. E intanto, da più giorni, erano cominciati gli accordi per incontrarsi a Perugia, dove Labriola si sarebbe recato per gli esami di riparazione, «lietissimo di vedere il tuo scritto prima che tu lo mandi a Parigi»38. Il 30 settembre Labriola è a Perugia e legge l’articolo; il giudizio è veramente «ruminativo» e, secondo il divertente racconto di Co-

per la scarsa pazienza e capacità di questi al giudizio analitico, di contro al suo «sicuro intuito». 33. Ep. 855, 700: «E di Loria che fai? lo stai cucinando?»; Ep. 871-73, 71011; 879, 715: «Non vuoi proprio uscire dal tuo silenzio?»; ma il 28 ago. (875, 712), Labriola aveva avuto uno scritto «brevissimo» di Croce e prende la cosa come un buon segno: «ciò dimostra che sei assorbito dal tuo lavoro (o compito come tu dici)». Significativo il termine impiegato da Croce. 34. Ep. 880-81, 716 (3 e 6 set.). 35. Ep. 884, 720. 36. Ep. 891, 723: «Sorel mi scrive […] ‘vogliate ricordare al sig.r Croce che noi abbiamo bisogno del suo articolo’. Faccio la girata. E tu almeno per mio discarico, scrivi al Sorel quello che ti piacerà». 37. Ep. 893, 724. 38. Ep. 884, 720; 889, 722; e cfr. 893, 724; 895, 724-25 («Desidero leggere per intero il tuo articolo su Loria»).

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me nacque, impiega più giorni per manifestarsi39. Finalmente, i primi giorni di ottobre, l’articolo, con piena soddisfazione di Labriola, è spedito in Francia. Sorel, il 9 ottobre, comunica a Croce di averlo ricevuto e passato a Bonnet per la traduzione, che l’autore rivedrà prima della stampa40. Il fascicolo giallino del «Devenir social» del novembre 1896 è aperto dall’articolo di Croce su Les théories historiques de M. Loria41. La traduzione francese di Bonnet è veramente modesta, in sé e rispetto alla prosa di Croce. Ma, per quel che ora importa, è fedele, tradimenti da fedeltà compresi. Né faremo al lettore il torto di infliggergli le poche e minute varianti che, stile a parte, intercorrono tra il testo francese del Loria e quello italiano42.

39. MSEM, 298-99. Labriola definisce – felicemente – il suo «metodo» di giudizio «ruminativo» nella lettera a Croce del 24 dic. 1897, Ep. 1038, 837. 40. G. Sorel, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 37. L’8 nov. (Ep. 899, 726), Labriola chiede a Croce se «ha rimandato l’articolo al Devenir». 41. Il fascicolo ha due soli articoli: dopo quello di Croce, pp. 881-905, c’è l’Étude sur Vico di Sorel (è la fase intermedia di un saggio in tre puntate, uscito tra ottobre e dicembre). Seguono le consuete rubriche di recensioni e schede. Sorel, tramite Labriola, chiederà a Croce un giudizio sul suo Vico (Ep. 943, 765). Croce non deve aver risposto, ma anni dopo chiederà a Sorel estratti del suo articolo su Vico (G. Sorel, Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 96-97). 42. Di queste varianti, nemmeno sapremmo dire, in molti casi, se si tratta di successivi ritocchi di Croce o di semplificazioni che il traduttore, distratto o in difficoltà, aveva già per suo conto apportato al testo (su Bonnet che, come si lamenta Labriola, trova «intraducibile» il suo Discorrendo, Ep. 1051, 848). Ecco qualche esempio. «E dire che il Kant – dice Croce, MSEM, 33 n. – […] scrisse in modo da poter passare per un collaboratore della costituzione del ’93, tanto che Enrico Heine soleva metterlo a una riga col Robespierre». Bonnet (Les théories, cit., p. 889), che già ha dissolto il «poter passare» con «ses oeuvres [di Kant] ont permis de voir en lui un inspirateur de la constitution de 1793», conclude con questa modesta oratoria: «Et toi, pauvre Heine, qui l’a placé [Kant] à cóté de Robespierre, refois le démenti de notre Loria». «Ecco un Marx retore e secentista» (MSEM, 53) diventa «voilà ce que ce rhéteur [Loria] a fait de Marx» (p. 903). Questi sono, con evidenza, esempi

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Quando così, nella breve avvertenza mandata innanzi all’edizione italiana del Loria, Croce scriverà di non aver apportato al testo, rispetto all’edizione francese, «alcuna mutazione, salvo l’aggiunta di qualche nota»43 dirà benissimo; e avrebbe anche potuto dire, andando all’essenziale, «salvo una nota»44, ma importante, nuova e decisiva per la «seconda fase» degli studi crociani su Marx. Dopo circa nove mesi, dunque, la vicenda o il «parto» del Loria per il «Devenir social» ha termine. Croce però deve esserne rimasto insoddisfatto: non certo per il giudizio critico in cui era riuscito a stringere, e a contenere, la sterminata, farraginosa, celebrata e discussa opera di Loria. Di questo si mostra sicuro e orgoglioso ancora quarantanni dopo45. Il «compito» era stato anche questa volta ben eseguito. L’insoddisfazione sarà stata invece relativa alla fatica spesa e al poco costrutto che ne aveva ricavato per i suoi studi diretti su Marx. Una prima volta, Croce aveva resistito alle «pressioni» e si era concentrato sulla memoria del 1896; una seconda volta, e subito dopo, aveva, sebbene con riluttanza, ceduto alle «insistenze»

di arrampicamento sugli specchi. Ma quando in Croce si legge questo breve periodo: «Pestilenze e carestie aiuteranno» (MSEM, 47), omesso nel testo francese, può trattarsi sia di una non rilevante semplificazione di Bonnet che di un ritocco di Croce. 43. B. Croce, Le teorie storiche del prof. Loria, Napoli 1897 (R. Tipografia Francesco Giannini & figli, Via Cisterna dell’Olio, casa propria). Sulla data effettiva di questo piccolo opuscolo (37 pp.), stampato evidentemente da Croce per suo conto e a sue spese, si dirà appresso. 44. Per le note si deve dire, all’incirca, quel che si è detto per il testo. Qualche «mutazione» (aggiunta o soppressione) c’è, ma di così scarso rilievo che non è il caso di segnalarla. L’unica nota che davvero merita grande attenzione, come si dice nel testo, è quella sulla teoria del valore in Marx e nella scuola austriaca, della quale ci occuperemo e che sta alle pp. 15-16 dell’opuscolo (= MSEM, 34). 45. Come nacque, MSEM, 298-99.

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e si era immerso negli scritti di Loria, forse – chissà? – anche contando, o sperando, che qualche profitto per le sue «indagini intorno alle dottrine economiche del Marx» sarebbe potuto derivargli dal restare sul terreno dell’economia marxistica e delle interpretazioni che, bene o male, se ne venivano fornendo. Ma questa idea, se c’era stata, deve essersi presto dissipata. Gli studi storici su Campanella e Russo, avevano pure potuto interrompere, e specialmente il secondo, che è coevo al saggio su Loria, le sue ricerche su Marx; senonché con essi Croce era tornato ai suoi prediletti interessi, al genere di lavori dove era già maestro, e con cui poteva dare un utile contributo, seppure in forme mediate, al tema che lo aveva «infiammato». Con Loria il caso è diverso, e, a parte il «compito» assolto, un’impressione penosa deve averlo accompagnato al termine del lavoro, che non aveva dato luogo né a uno studio storico di quelli che piacevano a Croce, né aveva segnato un avanzamento delle sue indagini sull’economia di Marx. Alla fine, svolta brillantemente la critica di Loria, era stato come tornare al punto di partenza riguardo alla propria interpretazione di Marx; con in più un senso di disagio, come se la miseria che Croce aveva costatato nella materia criticata avesse contagiato il suo stesso lavoro. «L’articolo tuo nel Devenir social – che tu temevi fosse cosa meschina – mi ha fatto l’impressione di un piccolo capo-d’opera» gli scriverà Labriola ancora il 5 dicembre46. E in Come nacque si dice «[…] gli detti a leggere [a Labriola] il mio manoscritto [su Loria], del quale ero poco soddisfatto per la pochezza stessa dell’autore criticato»47. Prima di vedere come questa insoddisfazione di Croce si traduca rapidamente in concentrata volontà di venire a capo del

46. Ep. 911, 739. 47. MSEM, 298-99; Labriola gli chiede meravigliato, dopo la «ruminazione»: ma «nel Loria non c’è poi altro che quella miseria che tu hai detto?».

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suo problema, soffermiamoci ancora sul Loria così come si presenta, in francese e in italiano, fuori della nota sul «paragone ellittico». Non già per esaminarlo da parte a parte, ché ciò, comportando anche un non facile giudizio su Loria, richiederebbe un esame lungo e specifico48; ma solo per aver chiaro il 48. Un’analisi intrinseca dell’opera di Loria, e della critica che Croce ne dà, costituirebbe un capitolo, peraltro interessante, di storia del pensiero economico, oltre che del marxismo e, in generale, della cultura di fine secolo. Qui ci limitiamo a ricordare che, nell’alterna fortuna di Achille Loria – straripante in Italia e all’estero negli ultimi quindici o venti anni del secolo XIX, calante fino all’oblio nella prima metà del nostro secolo (Loria morì nel 1943) – si assiste, nell’ultimo ventennio, a una cauta rivalutazione critica della sua opera, che tiene anche conto, naturalmente, delle ostentate bizzarrie dell’autore. E poiché, all’inizio di questo ripensamento (circa il vasto e nell’insieme coerente «sistema» di Loria e lo stesso rapporto con Marx, contro la violenta e «non del tutto fondata» reazione di Engels) vi sono gli scritti di uno studioso equilibrato e intelligente come Riccardo Faucci, converrà esaminare la cosa in una sede opportuna. Si v. R. Faucci: Revisione del marxismo e teoria economica della proprietà in Italia (18801900). Achille Loria e gli altri, «Quad. fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», IV (1978), 5-6, pp. 587-680; La scienza economica in Italia (1850-1943), Napoli 1981, pp. 54 ss., con cenni alla critica di Croce; Mezzo secolo di discussioni economiche nel carteggio fra Augusto Graziani e Achille Loria, «Quad. di storia dell’econ. pol.», IX (1991), 1, pp. 181-93. Un po’ sulla stessa linea sono da vedere: M. Gallegati, Formazione e distribuzione del sovrappiù nell’economia senza valore di Antonio Graziadei, in Gli italiani e Bentham, a cura di R. Faucci, Milano 1982, 2 voll.; S. Ferri, Economia politica o economia pura? Arturo Labriola e la revisione del marxismo, in Gli italiani e Bentham, cit.; Id., Il contributo di Emilio Nazzani e Achille Loria alla teoria classica del valore, «Quad. di storia dell’econ. pol.», VII (1989), 2-3, pp. 135-65. Per anni più lontani, si aggiunga ancora (ma la letteratura potrebbe esplodere), P. Jannaccone, La figura e l’opera di Achille Loria, «Giornale degli economisti», set.-ott. 1955. Un caso a parte è costituito da N. Bellanca, Economia politica e marxismo in Italia. Problemi teorici e nodi storiografici. 1880-1960, Milano 1997, con buona bibliografia; su Loria, pp. 27-64 e passim. Si tratta di un lavoro intrigante, intelligente e discutibile. Basti qui solo dire che, ricercando i problemi originali e gli autori del marxismo teorico italiano, il giovane studioso, a costo di far sobbalzare Croce nella tomba, riesce a mettere insieme, per il periodo che qui

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contesto dove Croce inserisce la sua nota, e, perciò, il problema che chiede risposta. All’inizio del Loria, Croce dapprima conferma e insieme mette da parte, con scarsa soddisfazione di Labriola, la questione di Loria «plagiario» dissimulato di Marx: la «flagellazione» di Engels, quasi un lascito testamentario, e la «compassionevole» difesa di Loria hanno chiuso il «processo», che non si intende in alcun modo riaprire49. Circa la concezione materialistica, in tema di «precursori» e «molteplici precedenti» di Marx ed Engels (un tema già al centro – negativamente – degli scritti su Campanella e Russo), Croce espone l’arruffata matassa di Loria giungendo alla duplice e opposta conclusione per la quale, da un lato, «tutte le idee sono esistite sempre», mentre, dall’altro, come si dirà appresso, Loria scopritore «modestamente si costituisce da sé in epoca storica»50. La concezione storica di Marx, che ne «vivifica tutta l’opera», non ha precursori e, quanto al modo di intendere il materialismo storico, Croce richiama la propria interpretazione del «canone», che peraltro non è espressamente nominato51. L’analisi del rigido economicismo di Loria, che confina le altre attività umane tra i fantasiosi e in realtà strumentali «miraggi», conduce alla discussione sulla morale e alla differenza tra morale ed etica teorica, intesa come ricerca sulla «qualità dell’ideale morale», la sua fondazione o giustificazione, distinta dai interessa, Loria e il giovane Croce (in una posizione «marxista» di assoluto rilievo), Arturo Labriola (qui è soprattutto Antonio Labriola a sobbalzare) e Antonio Graziadei. Ma il libro, come si è detto, è intelligente, e si apprezza per la sua originalità, dopo tante genealogie «storicistiche»; uno studio sul «paragone ellittico» di Croce non può prescinderne. 49. Loria, MSEM, 23-26. 50. Loria, MSEM, 26-28, 41. Avendo agio, si potrebbe mostrare come il Loria sia strutturato all’incirca secondo lo schema interpretativo che Croce ha saldamente in mente: materialismo storico (concezione della storia, le classi e i «lavoratori produttivi», la morale, ecc.) ed economia. 51. Loria, MSEM, 28-29.

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«fatti»52. Loria confonde tra «il fatto e l’idea», tra «il fatto particolare e il concetto del fatto»; e questo, osserva Croce, mostra la «forma antifilosofica della sua testa», l’estraneità all’«arte di operare con i concetti» che, come anche Engels aveva detto, è un «lavoro tecnico» di lunga storia e faticoso apprendimento53. Cade qui, a esemplificazione di questo punto, il passo che ci interessa, e che, non rigorosamente richiesto dal contesto (l’«antifilosoficità» della testa di Loria poteva essere colta in mille altri modi) e tuttavia generatore di pensieri, converrà ora trascrivere. Si guardi, infatti, la posizione ch’egli [Loria] assume verso i due tentativi di concezione del valore, condotti sotto aspetti diversi ma con pari intenti di rigore logico: la concezione, diciamo così, classica e obbiettiva della scuola ricardiano-marxista, che riduce il valore al lavoro, e la concezione utilitaria, propugnata dalla scuola che si suol chiamare austriaca54.

Dopo di ciò Croce ha buon gioco nel mostrare come Loria non avesse capito né l’una né l’altra concezione del valore: la prima vista come inafferrabile e indicibile (o, che è lo stesso, dicibile in infiniti modi) «valore-noumeno»; la seconda ridotta a mera «unificazione verbale». Ma insoddisfacente era innanzitutto il problema, così come era stato formulato, e al quale Loria veniva commisurato. Come uno storico neutrale dell’economia, Croce mette sullo stesso piano le due concezioni del valore disponibili: diverse ma parimenti rigorose. Ed è fin troppo evidente che nulla si sarebbe potuto dire rispetto all’economia

52. Loria, MSEM, 29-32. 53. Loria, MSEM, 31-33. 54. Loria, MSEM, 33-34. Identica la piatta traduzione francese, Les théories ecc., cit., p. 889. Segue a questo punto la nota di cui seguiamo la genesi. Anche in questo caso, il tema dell’economia nell’opera di Marx irrompe, prima del tempo, nel contesto del «materialismo storico».

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in Marx, nella sua relazione con il purismo, se le cose fossero rimaste a questo punto. Ma, d’altra parte, come Labriola aveva scritto, «le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze»55, né è meno vero – Croce lo ha in un certo senso insegnato per una vita – che anche dai minori e perfino dai «mediocri», dagli autori afflitti da «pochezza», non vi sia qualcosa da ricavare. Si veda infatti in che modo Croce ragiona l’incomprensione di Loria della teoria del valore marxiana. Del valore a cui le merci non si vendono, né possono vendersi – aveva scritto Loria – l’economista non si occupa; ma Marx, «sostenendo che il valore delle merci è determinato dal lavoro», e che «le merci non si vendono mai al loro valore», giunge all’assurdo di un «valore-noumeno», del quale tutto può dirsi poiché non si manifesta nelle cose ed è perciò «avulso» dalle leggi della realtà e da quelle dello stesso pensiero56. C’è qui, remotissimo, il germe di una suggestione, su cui, dopo averla corretta, Croce in qualche modo lavorerà. Il lato positivo, per così dire, sta nel fatto che il valore-lavoro di Marx non si lascia scorgere negli scambi, nella «realtà» delle cose. Questo però non significa, obietta Croce, che il valorelavoro non trovi posto, come inutile «noumeno», tra le leggi del pensiero. Egli [Loria] non sospetta che di codesti «noumeni», come li chiama (ossia, in prosa, concetti generali, concetti tipici, o concetti-limite, secondo i casi), e che gli paiono tanto mostruosi, sono piene tutte le scienze; e non le sole scienze, perché si tratta di un ordinario ed ovvio procedimento intellettuale57. 55. Dilucidazione, CMS, 98. 56. Loria, MSEM, 35; A. Loria, L’opera postuma di Carlo Marx, «Nuova Antologia», 1 feb. 1895, pp. 477-78. 57. Loria, MSEM, 35.

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Se il valore-lavoro non sta iscritto nella visibile e tangibile realtà, ciò non vuol dire che sia al tempo stesso estraneo alle «leggi» del pensiero e ai «concetti». Il punto ora, criticato e abbandonato Loria, è quello di capire a quali «concetti» (del resto abituali nelle scienze e persino nel ragionamento ordinario) si riporti la teoria del valore di Marx; e la questione è complicata sia dalla specificità del valore-lavoro, sia dal modo ancor provvisorio in cui Croce si muove su questo terreno. Lasciamo pure da parte la tautologia di «concetto generale», che parrebbe solo conferire forza estensiva e gerarchicamente sovraordinata al valore-lavoro; con il «concetto-limite» e, soprattutto, con il «concetto tipico» già ci avviciniamo alla soluzione che Croce darà al problema. Per la quale soluzione, è utile guardare anche al lato della confutazione di Loria a proposito della «scuola austriaca». Il punto più importante è dato qui dall’osservazione crociana che conferma e precisa la chiusa di Materialismo storico: la concezione austriaca o «edonistica» costituisce «un ritrovamento della vera qualità dei fatti economici»58. Possiamo tentare allora di ricostruire così le tappe di questa vicenda. La prima ha, per così dire, due momenti, ché dapprima (nel testo che Labriola ha letto a Perugia i primi di ottobre del 1896 e che Sorel ha pubblicato il mese seguente nel «Devenir social») Croce pareggia, nel segno del pari «rigore», la concezione del valore «ricardiano-marxista» e quella «utilitaria» o «austriaca»; ma già come si è visto nella polemica con Loria, per il fraintendimento di entrambe queste concezioni, c’è qualcosa di più: la riconduzione della teoria del valore a un «concetto tipico»59, e la conferma del purismo come vera scienza dell’economia,

58. Loria, MSEM, 35. Che il valore della scuola «austriaca» comprenda anche i prodotti ottenuti in condizione di monopolio è questione che qui non possiamo trattare. Anche la citazione di Loria a fine pagina forse merita, per la successiva polemica di Croce con il purismo, un commento. 59. Cfr. Per la interpretazione. MSEM, 63.

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persino capace di individuare la «vera qualità dei fatti economici». I primi elementi del problema sono dinamicamente in moto, ma occorre ancora qualcosa come uno scatto o una scintilla per giungere all’abbozzo di soluzione che Croce fornirà (i primi di dicembre) nella nota aggiunta all’edizione italiana del Loria. A costo di tediare il lettore, ripetiamo che il problema operante nella mente di Croce – dopo che aveva fatto inopinata irruzione nella chiusa di Materialismo storico, e si era mantenuto sullo sfondo della fatica estiva intorno all’opera di Loria – era costituito dallo sforzo di comprendere quale fosse l’esatta natura dell’economia in Marx, e in particolare della teoria del valore. L’assegnazione dello stesso sopravalore all’orizzonte morale; il pareggiamento della concezione del valore, «classica e obiettiva», di Marx con quello della «scuola austriaca»; l’intuizione infine secondo la quale il valore-lavoro di Marx potesse essere «concetto-tipico» – sono altrettanti passi (sebbene gli ultimi due siano contemporanei) sulla via, ancora lunga in realtà, della risoluzione del problema. Se Marx non era quasi del tutto estraneo all’economia, come dapprima si era pensato, qual era esattamente la forma scientifica del Capitale, di che cosa il valore-lavoro era «concetto tipico»? E la questione, come pure si è accennato, aveva due capi, uno maggiore e uno minore. Poiché infatti non era la stessa cosa la valutazione dell’economia pura, a seconda che Marx si fosse mosso o no sul terreno dell’economia. Il positivo giudizio sull’economia pura sarebbe stato per intero e saldamente confermato, con Marx estraneo all’economia. Ma nell’altro caso – e quale che fosse stato il punto preciso in cui Marx aveva attraversato o incrociato l’economia – lo stesso giudizio sull’economia pura, che da parte sua mostrava verso il marxismo solo ignoranza o aperta e totale ostilità «scientifica», avrebbe dovuto essere complicato e, almeno in parte, rivisto.

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La «nota», come possiamo ora semplicemente chiamarla, prendeva anzitutto posizione netta sulle due concezioni del valore. La «teoria generale del valore» si trova nella «scuola edonistica e austriaca», non in sede «ricardiano-marxista». In pura economia, il valore di un bene è uguale alla somma degli sforzi (pene, sacrifici, astensioni, ecc.), che sono necessari per la sua riproduzione; e salari e profitti del capitale sono entrambi economicamente necessari, posta la società capitalistica. È impossibile giungere mai, per deduzione puramente economica, a restringere il valore delle merci solo al lavoro e ad escludere da esso la parte del capitale, e quindi a considerare il profitto come nascente dal sopralavoro non pagato, e i prezzi come deviazione dai valori reali per effetto della concorrenza tra capitalisti.

Ma precisato chiaramente questo punto, secondo la teoria dei fattori contributivi e quella del valore come somma di sforzi (comprese le astensioni) – più impellente diviene la domanda su Marx: «che cosa è, dunque, la concezione del valore nel Capitale del Marx?». Ed ecco il «paragone ellittico», la nota interpretazione che Croce dà di una delle «principali difficoltà» per la comprensione di Marx. Il valore-lavoro nel Capitale è la «determinazione di quella particolare formazione di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica». Si tratta insomma del paragone tra due «valori particolari»: quello che opera nelle società a capitale privato e quello, assunto come «tipo», che «avrebbero i beni aumentabili col lavoro in una società in cui non esistessero gli impedimenti della società capitalistica e la forza-lavoro non fosse una merce». Chiarito così l’asimmetrico rapporto tra le due «concezioni del valore», che già erano state equiparate, lo svolgimento del discorso mette con coerenza a tema la relazione che intercorre ora tra queste due concezioni, dove – come si è osservato – il punto delicato è costituito dal feedback di Marx sulla stessa economia pura. Così, suona la conclusione, «è vano ogni tentativo di

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confutazione delle teorie del Marx in nome delle teorie edonistiche, come del pari è assurda la confutazione di queste in nome di quelle». Ancora, è chiaro, il nodo non si stringe, perché tra le due concezioni, reciprocamente inconfutabili, potrebbe esserci estraneità, non confrontabilità o, più verosimilmente, «apparente antinomia». Se la «teoria della scuola edonistica è, senz’altro, la teoria del valore», cosa sarà, rispetto ad essa, la teoria del valore di Marx? «Un’altra cosa», dice Croce, e la genericità dell’espressione rinvia a una difficoltà che sarà in parte chiarita, non però mai del tutto risolta. Ma che quest’altra cosa non sia poi una vanità o una fantasticheria, basterebbe a provarlo il fatto che il concetto marxistico del Mehrwerth è restato confitto come dardo acuminato nel fianco della società borghese, e nessuno ancora è riuscito e strappamelo. Ci vuol ben altra radice medica che non i ragionamenti del Böhm-Bawerk e simili critici, per sanare la piaga60.

La nota, che abbiamo richiamato negli argomenti principali, meriterebbe ora un lungo commento: dapprima per vedere come Croce sviluppi i temi di questo concentrato e preciso promemoria nelle sezioni prima e seconda di Per la interpretazione, la memoria teorica che, un anno dopo, lesse alla Pontaniana, e in altri luoghi di MSEM61; e di qui, per mettere a tema l’intero giudizio crociano sulle relazioni di economia pura e marxismo. Ma entrambi questi obiettivi, e il secondo in particolare, esulano dagli scopi del presente scritto, che è piuttosto dedicato all’analisi del passaggio dal «canone» (su cui dovremo tra poco tornare, guardando perciò indietro) al «paragone ellittico», e quindi alla genesi e alla impostazione

60. Loria, MSEM, 34. 61. Notevole per brevità e precisione è la ripresa dei temi della «nota» nella risposta a Labriola in Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, MSEM, 138-39.

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preliminare e «differenziale» di quest’ultimo. Così, ci limitiamo a ricordare che la nota fissa in una maniera rapida sì, ma essenziale e precisa la linea crociana di interpretazione della teoria del valore di Marx, in relazione all’economia pura. Ampliamenti e precisazioni saranno certo arrecati62, ma non tali da causare sconvolgimenti né modifiche radicali al discorso; lo stesso sprezzante giudizio su Böhm-Bawerk, con l’affermazione del sopravalore confitto «come dardo acuminato nel fianco della società borghese» subirà qualche attenuazione nella forma, non nella sostanza. Anzi, se potessimo ora mettere a tema la «nota» e i suoi svolgimenti larghi, dovremmo anche far cenno di ciò che, presente nella prima, non passa nei secondi, o vi resta in forma talvolta implicita, altre volte molto rapida63. Il più importante tra questi temi è costituito dai passi, da noi sopra omessi, che nella nota fanno riferimento a un luogo dell’inizio del primo libro del Capitale, ad Aristotele, e al rapporto tra eguaglianza e capitalismo (sopralavoro e sopravalore compresi). Ma anche questo è tema così intrigante e delicato, da meritare una trattazione apposita e adeguata. Ci siamo così appena affacciati sull’orizzonte del «paragone ellittico», della interpretazione crociana della teoria del valore di Marx, e subito dobbiamo purtroppo ritrarcene, tornando indietro. Ciò faremo, come si è anticipato, commentando il giudizio di Labriola su Materialismo storico e, quindi, sulla «nota» all’edizione italiana del Loria, con l’occasione seguendo anche le battute finali dell’intera vicenda. I due giudizi successivi che Labriola esprime su Materialismo storico sono, in complesso, niente affatto negativi. Perplessi sì, veloci e un po’ estrinseci, in un punto criptici, ma non ostili. Se

62. Cfr. Come nacque, MSEM, 309. 63. Cfr. Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, MSEM, 139.

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il 3 maggio, il giorno della «lettura» di Materialismo storico, Labriola attende con «grande interesse» la memoria di Croce, la sera di due giorni dopo deve aver ricevuto almeno notizie indirette, se scrive all’amico: «tu mi mortifichi anche con la recensione anticipata del mio opuscolo»64. Nei giorni seguenti, Labriola è tutto preso, non senza qualche tratto egocentrico, dai problemi, anche minimi, della pubblicazione della sua Dilucidazione. Di questo essenzialmente scrive a Croce: «titolo e avvertenza», le bozze, l’«annuncio», la copertina e il prezzo del volumetto65. Solo il 19, e poi il 23 maggio, si chiedono notizie di «quelle tali bozze della tua lettura»66. La quale si è evidentemente incrociata con la seconda lettera di Labriola, che, il 24 maggio, ne esprime giudizio. «Tutte le osservazioni e riserve che tu fai sono fondate – cioè hanno fondamento nella cosa stessa – ossia non sono cervellotiche o puramente subiettive». Per chi conosca un po’ Labriola, si tratta in realtà di un complimento notevole; situato tuttavia entro un orizzonte di incertezza e anche di disagio. «Però nel fondo del tuo pensiero – prosegue la lettera – c’è un presupposto formale, ossia un pregiudizio, che si possa sapere più di quanto effettivamente si sa. Ripensa, ti prego, a questa formula improvvisata»67. Che cosa ciò significhi è difficile dire; e facciamo grazia al lettore dei

64. Ep. 790-91, 660-61. Le altre «mortificazioni» sono un generoso prestito di mille lire, in aggiunta a un precedente prestito (cfr. Ep. 785-86, 655-58), nonché il dono che Croce gli ha fatto del suo tempo (stimato più dei denari), da quando si era fatto editore, consulente editoriale e tipografico, distributore, «correttore di bozze e divulgatore» dei suoi scritti (Come nacque, MSEM, 297). Per questo faticoso lavoro crociano, senza risalire indietro fino all’In memoria, e solo relativamente ai mesi di marzo e aprile 1896, cfr. Ep. 760-61, 642-45; 763, 644; 765-67, 646-47; 770-75, 648-50; 777-81, 651-53. 65. Ep. 794-99, 663-66. 66. Ep. 801, 667; 904, 668. 67. Ep. 805, 668.

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tentativi che abbiamo fatto per conferire senso a un giudizio, più che «improvvisato», in «pappafico», come in una celebre lettera scrisse Machiavelli. Il giorno dopo, comunque, Labriola torna sull’argomento. Dapprima l’apprezzamento è rinforzato: «ho riletto oggi la tua lettura, e mi pare che le tue osservazioni siano di maggior peso di quanto non mi paresse ieri». Il dubbio tuttavia persiste nello sfondo, anche se non trova la via giusta di espressione. «Sono [le tue osservazioni] in vero buttate alla rinfusa» – un commento che, venendo dal pulpito labriolano, un po’ induce al sorriso. E quindi: «per ciò fa di pensarci nuovamente, più a lungo, e ripetutamente, per trarne un qualche partito»68. In breve, si può dire che Labriola rimase sorpreso e anche un po’ sconcertato dalla memoria crociana, così lontana certo dal suo pathos rivelativo, a grandi affreschi storici, e piena invece di determinazione critica e anche di «riserve» («accolse quelle mie osservazioni – commenterà Croce – come chi non vi si ritrovasse alla prima»69; e se mai si era «illuso» (la questione tuttavia sarebbe da esaminare) di aver trovato nel giovane amico «il suo collega e successore nella custodia e nella difesa della genuina tradizione marxistica»70, ebbe a subire qualcosa come una prima, seppur parziale, delusione. Ma, d’altra parte – ed è un punto per noi importante – Labriola non trova criticamente nulla da obiettare alla memoria crociana, salvo il disagio, di faticosa determinazione, di cui s’è detto; il testo sarà stato diverso da quel che Labriola si aspettava (che cosa poi volesse e potesse aspettarsi è a sua volta un problema), ma le osservazioni lì svolte avevano «fondamento nella cosa stes68. Ep. 806, 669. Entrambe le lettere, nella loro parte essenziale, furono la prima volta pubblicate da Croce in Come nacque, MSEM, 303; nella seconda, per un errore di trascrizione, «lettura» è diventata «lettera». 69. Come nacque, MSEM, 303. 70. Come nacque, MSEM, 302.

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sa» e, a una rilettura, si mostravano più consistenti di quanto prima sembrasse. Forse solo la chiusa della seconda lettera, a voler stimolare appena un po’ il testo, manifesta, con una reale preoccupazione, intuito critico: la posizione espressa da Croce nella memoria, non soddisfacente ma nemmeno censurabile, dovrà fatalmente evolversi, né Labriola sa in quale direzione. Il «trarne un qualche partito» non si riferisce certo allo stile né all’ordine della composizione, ma a quei pensieri che, auspicati o no, certo a Croce sarebbero venuti in mente «nuovamente, più a lungo, e ripetutamente», e che dovevano in qualche modo essere sciolti. Per ora, intanto, il punto d’apprezzamento che Labriola fa della memoria crociana71 ci pare più significativo delle riserve, le quali o prendono vie oscure e oblique, o appartengono a un’insoddisfazione che di solito accompagna Labriola per gli scritti altrui, non meno che per i propri. Si prenda il saggio di Croce su Loria (senza la nota), che Labriola apprezza «a caldo» (si fa per dire) a Perugia, e che, rileggendolo nel «Devenir social», trova «un piccolo capo-d’opera»72. La situazione è molto diversa rispetto a Materialismo storico. Pure, anche in questo caso, riguardo a un saggio da lui quasi «commissionato», e di cui si fa convinto e ammirato diffusore, la nota dell’insoddisfazione è evidente, a guardare le lettere in cui espone minuziosamente a Croce tutto ciò che la «rielaborazione» italiana del saggio, o un’appendice ad esso, dovrà contenere73. L’impressione è che Labriola vorrebbe che Croce scrivesse il saggio esattamente come lo avrebbe scritto lui (che non l’ha fatto), usando proprio gli stessi argomenti, la stessa caparbietà e la stessa virulenza. E che a nulla sarebbe valso fargli

71. Cfr. ad es. Ep. 811-12, 671; 818, 675 («La tua lettura ha fatto in molti una ottima impressione»); 823, 680; 825, 682. 72. Ep. 911, 739. 73. Ep. 840, 691-93, cfr. 844, 694-95; 962, 750-53, cfr. 931, 755. Su queste lettere torneremo appresso.

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osservare che gli argomenti da lui puntigliosamente elencati per la guerra contro Loria o sono già contenuti nello scritto di Croce o non potevano uscire dalla sua penna74. Ma che la tonalità fondamentale del giudizio di Labriola sulla memoria crociana, sia, nonostante tutto, il consenso, si capisce dall’incipit della lettera del 15 giugno 1896, dove si dice che Sorel vorrebbe tradurre in un solo volume la sua Dilucidazione e Materialismo storico. Accettazione e perplessità sembrano fondersi nel lapidario commento di Labriola: «E così sia»75. Se tuttavia insistiamo, nel giudizio di Labriola, sulla tonalità dell’accordo, sia pur circondato da un alone di riserve, ci poniamo contro la ricostruzione crociana di Come nacque. Qui, dopo aver ricordato il «canone» di Materialismo storico, Croce aggiunge: Lo dissi con molte cautele e come se non si trattasse di un pensiero mio, ma di qualcosa che già era nel Labriola e nello stesso Marx: nel che certamente avevo torto, ma vi era indotto non tanto da tattica di disputante che procura di conciliarsi e di tirare a sé l’avversario, quanto da una certa candidezza di fiducia che il Marx e il Labriola non potessero non aver pensato, in fondo, quello stesso che a me pareva vero76.

Prendere posizione su questo «ricordo» non è affatto agevole. Per un verso, Croce ricorda male, e sembra anticipare alla memoria del ’96 le battute iniziali dell’aspra polemica che Labriola gli mosse, più di due anni dopo, a proposito di Per la interpretazione. Qui sì, nel Postscriptum, datato 10 settembre 1898, e nelle coeve lettere private, Labriola poneva un’esplicita questione di «mio» e di «tuo», volendo dissipare quella che

74. Croce si lamenterà anche di questo, protestando con Labriola di non voler diventare l’«Anti-Loria», Ep. 931, 755. Su questa lettera v. appresso. 75. Ep. 826, 682. 76. MSEM, 303.

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gli sembrava una zona grigia tra le sue «opinioni» e quelle di Croce77. Ma riguardo a Materialismo storico non c’è alcuna

77. «Sebbene quello scritto [Per la interpretazione] paia concepito (e così appunto dice l’autore stesso a p. 3) qual libera recensione del mio Discorrendo; il fatto è che esso, oltre a parecchie utili osservazioni di metodologia storica, e ad alcune sagaci note di tattica politica, contiene enunciati teoretici, che nulla han da vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie, anzi a queste son diametralmente opposte. […] Lascio volentieri al libero recensente la libertà delle opinioni sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori per un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato» (Postscriptum, CMS, 292). Croce, com’è noto, risponderà subito in modo fermo e ironico («… plaudo al suo [di Labriola] proposito di mettere in più viva luce che io non sono lui, e che, s’egli pensa con la sua testa, io penso con la mia»), Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, MSEM, 133-34. Il saggio crociano, datato aprile, compare nel fasc., di maggio 1899 (a. VI) della «Riforma sociale» di Torino; Socialisme et philosophie di Labriola era uscito alla fine di febbraio o ai primi di marzo dello stesso anno, cfr. Ep. 1109, 908 (a W. Ellenbogen). Il giudizio «ruminativo» di Labriola su Per la interpretazione di Croce, annunciato la prima volta il 24 dic. 1897 (Ep. 1038, 837; il rinvio dei curatori, p. 838 n. 1, va corretto con lett. n. 1033, dove va soppresso il rinvio alla lett. n. 1019), e quindi molte altre volte tra la fine di dicembre e febbraio, «esplode», è il caso di dirlo, nelle due lunghe lettere del 28 feb. (si tratta di una «cattiva impressione per la immaturità nel maneggio del pensiero») e del 3 mar. (Ep. 1054-55, 849-55). Poiché siamo in un tempo di non poco posteriore a quello che ora ci occupa, conviene rimandare il commento di queste lettere ad altra sede. Si ricorda solo che nelle due lettere torna implicitamente il punto della distinzione tra i pensieri di Labriola e quelli di Croce, che né «continua» né «combatte», e nemmeno «recensisce» (cosa vera) il Discorrendo (cfr. pp. 850, 854). E la questione del «mio» e del «tuo» ridiventa centrale quando, molti mesi dopo, Labriola si decide a rendere pubblica la polemica con Croce che dapprima voleva mantenere privata («… non ho il dovere di risponderti pubblicamente» (p. 850). Così, nella lettera del 7 ott. in cui si annuncia a Croce che il «post scriptum riguarda proprio te, e […] forse non ti farà piacere», si capisce che il motivo principale di questa chiarificazione pubblica, che Labriola giudica necessaria («non so che farci se andrai in collera»), è dovuta al timore, tanto più ora che Per la interpretazione è uscito in francese («Le devenir social», a. III, fascicoli di feb. e mar. 1898), di una confusione presso il pubblico (non certo dei «lettori intelligenti»,

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traccia documentaria del fraintendimento che Croce avrebbe operato per giovanile «candidezza di fiducia»78. E tuttavia, per un altro verso, è possibile che, come accade nei ricordi, anche di eventi recenti, Croce confonda l’occasione e le date della polemica, ma non il nucleo o la sostanza del fatto, che permane in un’impressione di disagio, di un errore («nel che certamente avevo torto») in cui era incorso in Materialismo storico. Ci muoviamo certo qui sul piano della congettura, con tutti i rischi del caso. Si osservi comunque che quando Croce torna, in Come nacque, sulla nota al Loria italiano, e quindi su Per la interpretazione, non mostra alcuna incertezza circa la propria

obietterà Croce in Recenti interpretazioni della teoria marxista del valore, MSEM, 133) dei suoi pensieri con quelli del suo amico-editore. Le ragioni che Labriola allega sono infatti che la memoria «ha l’aria di essere, mentre non è, un commento al mio saggio», tanto che Sorel gli aveva proposto di mandare innanzi Per la interpretazione al Discorrendo (altro, si ricorderà, era stato l’atteggiamento di Labriola il 15 giu. 1896, dinanzi alla proposta di Sorel di tradurre in francese, unitamente alla Dilucidazione, Materialismo storico), mentre Bernstein, che non leggeva l’italiano ma il francese sì, gli aveva chiesto se condivideva, «nei concetti fondamentali», la memoria crociana (Ep. 1086, 881; e cfr. la lettera di due giorni dopo, 1089, 883-85). La cosa è naturalmente complicata dalla questione della cosiddetta «crisi del marxismo», ma in ogni caso Labriola ha dovuto difendersi «dall’equivoco»; sul punto che ci interessa, cfr. inoltre Ep. 1095, 895, lett. a Gentile del 17 nov.; 1096, 896, dello stesso giorno, a Croce («Un tal Barbagallo […] combatte in alcuni punti te e me facendo di noi due una sola persona»); e ancora il 29 gen. 1899: ha dovuto scrivere il post scriptum perché si capisse «che io non sono il mio amico Croce», Ep. 1108, 908. 78. L’ultimo documento del giudizio complessivamente positivo di Labriola su Materialismo storico si trova in una lettera del 25 nov. 1897 (Ep. 1020, 826). Il 21 dello stesso mese Croce ha letto Per la interpretazione, e Labriola, che non l’ha ancora vista, così ne scrive: «Quanto alla tua nuova nota pontaniana vorrei pregarti di aspettare che ti passino sott’occhio le bozze impaginate del mio nuovo scritto [Discorrendo], perché i tuoi riferimenti e le eventuali citazioni possano essere precisi. Perché l’altra volta [in Materialismo storico] ti riferisti al mio scritto [Dilucidazione] genericamente, e questo è il solo difetto di quella tua memoria» (cors. n.).

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autonomia critica: sono pensieri interamente suoi, non posti come se fossero stati ritrovati in Marx, e nemmeno in Labriola, dei cui aspri rilievi critici si dà anzi conto79. Semplificando, si può dire che, giunto all’«economia marxistica» e al «paragone ellittico», Croce ha sicuro ricordo della sua piena indipendenza di giudizio; mentre per quanto riguarda Materialismo storico resta depositata nella sua memoria la traccia di un errore, di un’incertezza circa ciò che, tratto dal proprio fondo, viene al tempo stesso attribuito a Labriola e a Marx. I modi e le forme cui questo disagio è riferito rinviano, come si è detto, a eventi successivi; ma è possibile che, reale il ricordo di una difficoltà circa il «mio» e il «tuo», sia stato solo ricondotto a una causa fallace, dislocato nel tempo, collocato in una cornice impropria. Di che natura sia questa difficoltà si può tentare di stabilirlo solo attraverso un’analisi interna di Materialismo storico. In ogni caso – per ultimare il commento al ricordo crociano sul giudizio di Labriola – non pare facilmente condivisibile la conclusione di Come nacque all’intera vicenda. Mi sta in mente che egli [Labriola] non si fosse accorto di quel che Dante chiamava «il velen dell’argomento». Ma, a ogni modo, per allora la mia opposizione passò liscia e a lui non parve opposizione80.

Ora basta conoscere un po’ Labriola per sapere che, nelle cose che lo interessavano, aveva una speciale perizia intuitiva, e certamente si mostrava disposto più a peccare per eccesso, scorgendo «veleni» anche dove non ce n’erano, che non a passar oltre senza aguzzare il suo sensibilissimo fiuto. Altrove in Come nacque, Croce stesso parla del suo «fiuto acutissimo da cane da caccia»81. Che insomma, «per allora», Labriola «non si 79. MSEM, 304, 309 ss. 80. MSEM, 304. 81. MSEM, 293; ma cfr. 292-94.

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fosse accorto» dell’«opposizione» crociana, pare francamente incredibile. Si ricordi che la memoria era il primo vero scritto di Croce sul marxismo, nella «forma» in cui era stato «dilucidato» da Labriola stesso in un saggio non ancora uscito e che assorbiva ossessivamente le sue cure. Se stesso e i suoi scritti, il materialismo storico e Benedetto Croce – erano per Labriola altrettante ragioni per tendere al massimo la sua attenzione, per «agitar [si] e inferocir [si]» se un certo «odore, da vicino o da lontano» gli avesse ferito «le narici»82. Del resto, la controprova evidente di ciò sta nel fatto che quando Labriola sentirà odore d’«opposizione» reagirà con ogni asprezza: è questo il caso, di cui ci occuperemo subito, della nota crociana all’edizione italiana del Loria. Ma se Labriola, pur con un sottofondo di incertezza e di diffidenza, non vede l’«opposizione» di Croce, forse una buona ragione sta nel fatto che essa non c’è, o è affidata a forme latenti (e sopportabili); e in tal caso si dovrà esaminare quali sono le conseguenze di ciò – sarà questo il nostro ultimo compito – in merito a una valutazione critica di Materialismo storico e del «canone». Abbiamo abbandonato il Loria di Croce alle dense pagine del «Devenir social» e alla mediocre traduzione di Alfred Bonnet; conviene ora riprenderlo per completare la nostra storia con l’edizione italiana del saggio e l’ormai famosa «nota». Forse già nell’ottobre del 1896, certamente nel mese successivo, dopo 82. Come nacque, MSEM, 293. A illustrare il concentrato esplosivo di interessi di cui si dice nel testo, occorrerebbe un saggio, tanto copiosa è la documentazione al riguardo. Per quel che concerne l’intenso affetto che Labriola provava per Croce (con tutte le tensioni, di varia e complessa natura, che al trasporto affettivo si legano), si ricordi almeno la vera e propria «dichiarazione d’amore» contenuta nella lettera dell’8 mag. 1898 (Ep. 1068, 863), in un periodo di ormai aperto e aspro contrasto: «Come però io ho la mania di volerti bene (e soffro della malattia di tutti gl’innamorati, d’indispettirsi con l’oggetto amato) e checché tu faccia non posso a meno d’interessarmi di te…».

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aver licenziato il Loria francese, Croce è al lavoro per venire a capo del suo problema – rimasto aperto, nei modi che si sono visti – sull’economia di Marx e sulla teoria del valore. Ne fa fede la richiesta a Labriola (forse insieme ad altri testi intorno all’economia di Marx, e in particolare al terzo libro del Capitale, uscito appena due anni prima) di un saggio di Werner Sombart, celebre per essere stato discusso in una pagina del Nachtrag di Engels al terzo libro del Capitale, scritto nel 1895, l’anno stesso della sua morte83. Nel frattempo, era esploso il 83. Alla richiesta di Croce, Labriola risponde il 26 nov.: «Ti mando la recensione di Sombart. Penserò poi al resto che mi chiedi» (Ep. 903, 729; Labriola aveva ricevuto direttamente da Sombart l’estratto del saggio, Ep. 845, 696). Qualche mese dopo, Labriola richiederà a Croce «quell’opuscoletto di Sombart sul III vol. del Capitale» (Ep. 953, 771). Labriola aveva conosciuto Sombart, che gli era stato presentato da August Bebel, a Roma nell’aprile del 1894 (A. Labriola, Epistolario, II, 1890-1895, cit., lett. n. 545, a Engels, pp. 475-76, con interessanti giudizi su Sombart e sulla politica verso intellettuali come Sombart, vicini al socialismo ma non iscritti al partito; e cfr. lett. n. 547, p. 478, a R. Fischer e, per un giudizio ormai disincantato su Sombart, Ep. 1006, 812, a Bernstein). Lo scritto di Sombart è: Zur Kritik des ökonomischen Systems von Karl Marx, «Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik», VII (1894), 4, pp. 555-94. Engels, nelle Considerazioni supplementari al terzo libro del Capitale (Ergänzug und Nachtrag zum III Band des “Kapital”), accetta, come dirà Croce, «nella sua linea generale» l’interpretazione di Sombart (Per la interpretazione, MSEM, 62). E con orgoglio anzitutto, poiché – scrive Engels – questa è la prima volta che «un professore tedesco d’università» riesce a vedere nell’opera di Marx «più o meno» quel che vi è «effettivamente» detto: il System da sviluppare, non da abbandonare alla confutazione politica. Dopo aver richiamato la tesi più caratteristica di Sombart – il valore di Marx non come fatto empirico ma fatto logico, di pensiero – Engels la giudica non «inesatta», sebbene troppo generica, e tale da sottovalutare l’importanza della legge del valore per altre fasi della storia, là dove essa domina incontrastata. Considerazioni supplementari, in Il Capitale, III, tr. it. di M.L. Boggeri, Roma 1968, pp. 33-34. Sarebbe ora impossibile mettere a tema in particolare quest’ultimo punto, che come tutti sanno è delicato e carico di fraintendimenti (vi incapperà anche Croce, Per la interpretazione, MSEM, 68-70), ma anche in generale l’atteggiamento dell’ultimo Engels riguardo a interpretazioni come quella

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tumultuario affaire dell’orazione inaugurale per l’anno accademico ’96-97, letta da Labriola (che ne era stato incaricato molto tempo prima) alla «Sapienza» il 14 novembre, alla presenza del ministro dell’istruzione Emanuele Gianturco, che si risentì, credendo rivolti contro di lui alcuni passaggi del discorso – «come se lui fosse lo Stato ed io la scienza», scriverà spiritosamente Labriola a Croce84. Ne nacque un «putiferio», amplificato dalla stampa e complicato dal fatto che il discorso (il documento dopotutto certo di ciò che era stato letto) doveva essere pubblicato sull’Annuario dell’Università, per il quale le coraggiose autorità accademiche chiedevano che Labriola apportasse delle modifiche. Croce si farà per l’occasione consigliere politico e, come al solito, generoso e pronto editore dell’opuscolo di Labriola. Le molte lettere di Labriola a Croce tra metà novembre e la prima decade di dicembre circa sono quasi per intero dominate dal caso del discorso inaugurale e della sua pubblicazione. Questo è anche il tempo in cui Croce scrive la nota al Loria italiano e pubblica l’opuscolo per suo conto, presso lo stampatore Giannini di Napoli, con la data «fresca» del 1897 (ma è pronto non oltre la prima settimana di

di Sombart o Conrad Schmidt. Per i nostri scopi è sufficiente ricordare che Croce, seguendo del resto la linea espositiva di Engels, discuterà il saggio di Sombart un anno dopo, in Per la interpretazione (MSEM, 61-63 e passim), ma la conoscenza di questo saggio da parte di Croce è indispensabile per la comprensione della nota al Loria italiano, sebbene non venga qui citato. L’unico autore ricordato nella «nota» è Böhm-Bawerk, e il riferimento è quasi sicuramente al celebre Zum Abschluss des Marxschen Systems, uscito a Berlino nello stesso 1896, nella Festgabe in onore di Karl Knies dapprima, e quindi isolatamente. Ma questo saggio è così importante per la posizione di Croce nella polemica dell’economia pura con il marxismo che deve essere esaminato in altra sede. Si v. comunque per la conoscenza che Croce potè averne, tramite Labriola, Ep. 896, 725; quando scrive Per la interpretazione non lo ha sotto mano, MSEM, 62, n. 1. 84. Ep. 900, 727; notizie sull’incarico a Labriola di tenere l’orazione inaugurale in Ep. 781, 653 (del 21 apr.).

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dicembre 1896, forse già il 4 o il 5). Ed è una sorta di fatalità che quando Croce pubblica i suoi primi studi sul marxismo, sempre maiora premunt: a maggio si trattava delle ultime cure per la stampa della Dilucidazione, ora è la volta dell’orazione inaugurale e del suscettibile ministro85. Del resto, anche quando le acque cominciarono a calmarsi (con la decisione, consigliata da Croce, di pubblicare il discorso così com’era, senza prefazione, spiegazioni, polemiche) e Labriola, a partire dal 7 dicembre, e poi nei giorni seguenti, chiede copie del Loria (che sa evidentemente pubblicato o in via d’uscita), la questione della nota resta latitante. Anzi, la situazione che si determina a questo proposito ha del paradossale. Il 15 dicembre, Labriola, che due giorni prima aveva ricevuto 40 copie del Loria italiano e, «senza fretta», pensava a come distribuirle, scrive di avere, addirittura, «studiato il tuo opuscolo». Ma della nota, l’unica cosa che c’era da «studiare» in un testo che Labriola conosceva benissimo, non c’è parola. Il problema invece sembra essere completamente travalicato a favore della vecchia idea di una «seconda edizione» del Loria (come se Croce non l’avesse appena fatta), dove dovevano essere puntigliosamente elencate una serie di questioni86. Le cose non vengono mai come si immaginano o si desiderano; ma in questo caso non si può escludere che, nella guerra a Loria, si 85. Come nacque, MSEM, 305. «L’opuscolo con la nota giunse al Labriola in un tempo in cui egli era avviluppato in gravi fastidî…». 86. Ep. 908, 736 (del primo dic.; e cfr. le lettere della seconda metà di nov.); 914-15, 742 (del 7 dic.); 918-19, 745-46; 921, 747; 922, 748 (del 15 dic.; da citare nella «seconda edizione», passi della polemica di Engels contro Loria, i socialisti italiani e gli «illustri scienziati» che avevano preso Loria per «scopritore del materialismo» o «autorità definitiva»). Questa volta è Labriola che, incaricato da Croce, si occupa di trattare con i Loescher (con i quali Croce ha un contenzioso aperto) la distribuzione del Loria. Gli editori-librai sono dapprima contenti della cosa, molto meno quando vedono che l’opuscolo ha già il marchio Giannini e «non c’è la loro ditta».

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celasse in Labriola anche l’intenzione, più o meno consapevole, di mettere da canto la «fastidiosa questione» posta dalla nota crociana87. Nella lunga lettera del 20 dicembre, c’è una sorta di manifesto degli argomenti da usare contro Loria, in nove punti, l’ultimo dei quali articolato in quattro capi; sono le «indicazioni principali» e gli «estremi» per «aggiungere un’appendice al tuo articolo» o – addirittura – «porgere al Devenir i materiali [cioè quelli stessi forniti da Labriola], perché la facciano loro»88. A giro di posta Croce – forse anche seccato che il suo sforzo economico-teorico rimanesse senza riscontro – deve aver fortemente protestato di non avere nessuna intenzione di costituirsi ad Anti-Loria, né di volersi impelagare in polemiche interminabili. La risposta di Labriola, del 24 dicembre, mentre nega («io non mi son sognato che tu debba atteggiarti ad Anti-Loria»), conferma in realtà supposizioni e timori di Croce89. La «nota» viene fuori nella lettera scritta il giorno di Natale. La sera prima Labriola aveva discusso a lungo con Maffeo Pantaleoni a proposito del Loria, e, si capisce, circa «quella tua nota su la teoria del valore (che veramente guasta un poco l’effetto), la quale è senza dubbio soggettivamente prematu-

87. In Discorrendo, CMS, 192, le supposte «contraddizioni» tra il primo e il terzo libro del Capitale sono dette «fastidiosa questione». 88. Ep. 926, 750-53. 89. Ep. 931, 755; subito dopo le parole riportate nel testo, «ma suppongo di queste due cose una come probabile, o che tu faccia una seconda edizione dell’opuscolo italiano (che avrebbe bisogno appunto di illustrazioni maggiori e di motivazioni più esplicite) o che tu, richiesto, aggiunga delle note a ciò che il Devenir social prepara come riferimento al III volume del Capitale [si tratta della traduzione delle Considerazioni supplementari di Engels]. Dunque, non devi prendere la cosa da letterato, o da polemista – ma come di chi abbia un’opera buona da compiere. Che te ne importa se Loria ti risponde o non ti risponde, o se ti fa o no rispondere?». Cfr. Come nacque, MSEM, 298-99, 301.

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ra e oggettivamente poco comprensibile». Dopo una sfuriata contro Pantaleoni che, seppur ambiguamente, aveva difeso Loria, attaccando Marx e sostenendo l’astoricità della scienza economica, la lettera torna sulla nota crociana: «ti sei avventurato troppo ad affermare l’esistenza (sia pure ipotetica) dell’economia pura»90. Qualche giorno dopo, il 3 gennaio 1897, dietro richiesta di Croce91, Labriola riprendeva il discorso sul-

90. Ep. 932, 756-58; qui l’accusa a Croce di platonismo e la celebre battuta delle idee platoniche come «tante cacecavall’appise». Circa la complessa, e niente affatto lineare, posizione di Pantaleoni riguardo a Loria, Marx e Croce, molte notizie ora in L. Michelini, Marginalismo e socialismo: Maffeo Pantaleoni (1882-1904), Milano 1998. Pantaleoni è critico del Loria, che ha ricevuto tra i primi, su segnalazione di Labriola (ringrazia Croce dell’opuscolo già il 13 dic.). Ne scrive nella recensione al Cours di Pareto, «Rivista popolare» del 15 apr. 1897 (cfr. Ep. 965, 780). Quella tra Croce e Loria è una «grottesca tenzone», a proposito di una «castroneria» (la priorità nell’individuazione della «preminenza del fenomeno economico»); ma, in modi ambigui, Pantaleoni è per Loria e contro Croce, ritenuto marxista. Di diverso avviso si dirà Pareto, in una lettera a Pantaleoni, sul marxismo di Croce, aggiungendo che Croce, insieme a Labriola, è stato troppo «maltrattato» da Pantaleoni (Lettere a Maffeo Pantaleoni, Roma 1960, II, 31-32). Croce risponde a Pantaleoni sulla stessa «Rivista popolare» di Colajanni il 30 apr. 1897 (= Pagine sparse, serie I, Napoli 1919, pp. 273-74), confermando le sue tesi e accennando a un interessante parallelo tra Marx e i «teoremi» di Pareto e di Pantaleoni. Due anni dopo, il 30 mag. 1899, Pantaleoni dichiarerà il suo perfetto accordo (perfino «contro me stesso») con il saggio crociano sulla marxiana «caduta del saggio di profitto» e con le ragioni di Croce nella polemica con Labriola in Recenti interpretazioni (e siccome a malalingua Pantaleoni batte persino Labriola, la lettera si chiude con la cattiveria che l’«acrimonia» del professore in tema d’economia durerà finché il figlio Franz «non avrà una cattedra»). La lettera è pubblicata ora per la prima volta in L. Michelini, op. cit., pp. 141-42, 172; ma cfr., per le questioni trattate in questa nota, 128-29, 166. Di grande interesse per la ricostruzione dell’esatta posizione crociana tra economia pura (in questo caso italiana) e marxismo sono le lettere di Pantaleoni a Croce, delle quali Michelini dà alcuni exempla, conservate inedite nella Fondazione Biblioteca Benedetto Croce di Napoli. 91. Come nacque, MSEM, 306: «e poiché io mi meravigliai di questo giudizio, egli […] me lo venne spiegando».

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la «inopportunità della tua nota» che aveva «compromesso il valore obbiettivo del tuo opuscolo innanzi ai presuntuoselli dell’economia». L’economia è una scienza storica («astrazione» della storia) e l’economia classica è la «teoria della produzione borghese»; mentre la «scuola austriaca è una semplice strambaleria» che non ha più nulla a che fare con la scuola classica: «suppone i beni (venuti di dove?) e li confronta […] con degli enti astratti che chiama valutazioni edonistiche». L’ultima parte della lettera concerne specificamente Croce, ed è complicata da una distinzione – Dio sa quanto delicata per il destinatario – tra estetica ed economica, che è sì descrittiva o teorica, ma non contempla, a differenza dell’estetica, un puro giudizio economico, del quale si possa fare la teoria92. Per tornare – conclusivamente – al filo essenziale del nostro discorso, abbiamo finora visto come il giudizio di Labriola su Materialismo storico e sul «canone», non sia stato, nella sostanza, negativo; e come il tardivo commento crociano – che, «per allora», Labriola non si fosse accorto della sua «opposizione» – non sia condivisibile. Si è però anche accennato alla congettura secondo la quale non tutto nel ricordo crociano potrebbe essere «erroneo», cioè anacronistico, che nel perdurante disagio circa una qualche sovrapposizione tra il «pensiero mio» e quello di Labriola (e di Marx), depositato nella memoria come un «torto», quali ne fossero le ragioni, potrebbe celarsi la traccia di una reale difficoltà, che è da esaminare nel testo di Materialismo storico. Di contro, ripercorrendo la lunga vicenda del 92. Ep. 936, 761-62 (la lettera è datata per errore da Labriola un mese prima, il 3 dic. 1896); cfr. 937, 763. Non è possibile commentare queste importanti lettere, che si pongono al cuore del «problema del Marx e l’Economia pura», e del diverso, anzi opposto, giudizio che di esso danno Labriola e Croce. Lo stesso discorso si deve fare per la delicata questione del rapporto di economica ed estetica, su cui si v. intanto Come nacque, MSEM, 306-07, dove Croce segue Labriola nell’errore di anticipare la lettera del 3 gen. 1897 al mese prima.

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Loria93 , abbiamo anche potuto costatare che quando Labriola sente aria di «veleni» e di «opposizione» reagisce in modi fin troppo fermi; che il suo «fiuto», se si tratta di cose che lo interessano, è «acutissimo». E vero che anche nel caso della «nota», la sua reazione non è prontissima; ma dopotutto, Pantaleoni aiutando, la «ruminazione» dura solo dieci giorni, mentre la faccenda dà luogo al primo serio dissapore con Croce94, prima di Per la interpretazione e del Postscriptum. Questi problemi – si è detto – si iscrivono a loro volta in una questione più generale, concernente il Grundgedanke dell’interpretazione crociana di Marx; e poiché non sappiamo veramente bene che valore abbia una simile domanda, diciamo meglio che il problema si aggira intorno al rapporto tra il «canone» di Materialismo storico e l’interpretazione dell’«economia marxistica» e della teoria del valore quale viene, in maniera sintetica ma puntuale e definitiva, inaugurata dalla nota al Loria italiano. In ogni caso, dunque, dobbiamo tornare indietro, a Materialismo storico e al «canone». Come si è visto, la memoria crociana del 1896 intende rispondere alla domanda su che cosa si può trarre dal materialismo storico «per la filosofia e per la storia». La congiunzione espri-

93. Il caso Loria in realtà sembra non aver mai fine. Ancora il 1° giu. 1897 Labriola scrive a Croce che Bonnet (quando si dice informazione e tempismo!) vuol sapere «se il tuo scritto italiano corrisponde al testo francese», Ep. 874, 789; cfr. Ep. 1000, 808 (Sorel ha scritto a Labriola che Lafargue e Deville sostengono «che tu e io (siamo a coppia?) abbiamo torto, e che Loria è nel vero» (30 set.); la stessa notizia, qualche giorno dopo, a Bernstein (1001, 809); v. ancora Ep. 1029, 833; 1108, 907. 94. Si ricordi comunque – ed è un tratto dell’uomo, che sa unire alla fermezza delle proprie convinzioni una pietas affettuosa, nelle cose e nel ricordo, verso i suoi «maestri» – come anche in questo caso Croce tenda a minimizzare lo screzio: «ma anche questo dissidio non ebbe, per allora, conseguenze», Come nacque, MSEM, 308; lo stesso tono, o quasi, persino a proposito di Per la interpretazione e del Postscriptum, MSEM, 312.

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me ancora, per il giovane Croce, un’avversativa: se la «lezione» sarà feconda sul piano della filosofia non potrà esserlo su quello della storia, e viceversa; mentre il luogo più prossimo e ambiguo di contaminazione tra i due campi, quella «filosofia della storia» su cui la discussione si incentrerà, è da escludere in senso assoluto e, in quanto ritrae sostanzialmente in sé anche il problema della «filosofia» di Marx, lascerà libero e incontrastato il campo alla storia. Nel 1896, ma già del resto l’anno prima, quando rimase folgorato e «infiammato» dalla lettura del labriolano In memoria. Croce aveva già maturato la netta convinzione della confusionaria e pericolosa infecondità di ogni forma di «filosofia della storia» – un’avversione cui del resto resterà, in vari modi, sempre fedele. Le pagine dedicate a questo tema nella memoria del ’93, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, ne danno certa testimonianza95. Come si è accennato a proposito di Marx e degli economisti (classici e, soprattutto, «neoclassici»), anche in questo caso si può supporre che l’appassionamento crociano verso il marxismo non sia indenne da riserve di ponderata sobrietà; con la diversità, ora, che gli amori nuovi non scacciano i vecchi odi. Se il marxismo gli accese la mente, al punto da non potersi più distogliere da quei pensieri, subito radicati e ramificati nel suo animo96, era mai possibile, al tempo stesso, che la trama profonda o il ritmo di quei pensieri fosse costituito da qualcosa come una «filosofia della storia»? Deve aver operato qui, insieme a un’irrevocabile scelta critica, una decisione preliminare a ogni serio interessa95. Poi in Primi saggi (1918), Bari 19512, pp. 3-41: 21-22; e si v. sempre qui, pp. 67-72, Intorno alla filosofia della storia (1895). Sapendo di essere noiosi per i troppi rinvii annunciati, o minacciati, dobbiamo tuttavia ancora avvertire che, in uno scritto avviatosi ormai a essere troppo lungo, cercheremo di concentrarci su ciò che ai nostri fini è essenziale, tralasciando questioni – la filosofia e la storia, indagini più specifiche sulla «filosofia della storia», Labriola e Gentile – che pure meritano un approfondimento. 96. Contributo, cit., p. 329.

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mento. E poiché Labriola era stato il tramite – il «galeotto» e il (felice) perturbatore –, poiché il materialismo storico viene discusso, oltre che sull’In memoria, «nella forma in cui si presenta in un libro recentissimo del prof. Antonio Labriola», la Dilucidazione, in realtà non ancora uscita97 – il problema della «filosofia della storia» in Marx diventa subito il giudizio sul modo in cui la questione è svolta negli scritti labriolani. E notissima la sentenza che apre la memoria crociana: «Il cosiddetto materialismo storico non è una filosofia della storia». Ciò dovrebbe ricavarsi, criticamente e nell’oggettività della cosa, dal libro di Labriola, e in particolare dai «limiti» che lì vengono posti alla «dottrina», sebbene, «a parole», Labriola tratti a volte esplicitamente il materialismo storico come una filosofia della storia98. L’ovvio problema che qui si pone è se Croce, soddisfacendo una sua intima esigenza, quasi il vincolo per ogni ulteriore interesse e appassionamento, colga altresì il punto essenziale della posizione di Labriola circa la filosofia della storia. Questione difficile, come si sa, molto dibattuta, e a parer nostro insolubile. Se fosse possibile, così come sarebbe opportuno, mettere a tema l’argomento non si farebbe fatica a mostrare che nei saggi labriolani si trova tanto una «filosofia della storia», certo diversa dalle vecchie filosofie storiche «a disegno», sia la sua negazione; che, per dirlo in una battuta, c’è in essi posto tanto per la lettura di Croce, tanto per quella, di segno opposto, che di lì a poco ne darà Gentile. Questa complicazione, che da ultimo è da riportare agli scritti di Marx e di Engels, non costituisce solo una difficoltà, e un’ambiguità, com’è ovvio, dei saggi labriolani, ma ne rappresenta al tempo stesso la forza e il fascino, in una riflessione storica a grande affresco – che ha per modello letterario prossimo il Manife-

97. Materialismo storico, MSEM, 1. 98. MSEM, 2.

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sto del partito comunista, oltre che gli scritti storici di Marx, e, per aspetti diversi, l’amatissimo Antiduhring e altre cose di Engels, dall’Origine della famiglia al Feuerbach99 – aliena perciò dall’analisi «circostanziale», sia filosofica che economica. Quando Croce legge ad esempio, in una pagina di Dilucidazione, della preoccupazione labriolana che anche il materialismo storico possa dar luogo a una «nuova ideologia», a «una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica,

99. Sul pregio in cui Labriola tiene l’Antidühring «il più compiuto libro di socialismo critico», Discorrendo, CMS, 191) c’è una documentazione straripante. È il primo libro che consiglia a Croce (appena questi ha letto l’In Memoria, proponendo a Labriola di farsene editore), come «il più grande libro di scienza generale che sia uscito da penna socialista – e inoltre il libro obbiettivamente di maggior valore che ci sia ora nella concezione generale della filosofia» (A. Labriola, Epistolario, II, 1890-1895, cit., lett. 671, p. 585, del 16 mag. 1895). Dilucidazione si chiude con una lunga citazione dell’Antidühring, CMS, 150-51 (nella tr. it. dell’opera a cura di V. Gerratana, del quale è da vedere la Nota introduttiva, pp. VII-XXXVIII, Roma 19712, alle pp. 301-02, 304; ma i riferimenti sono molti in tutto il libro, così come in Discorrendo, dove, tra l’altro, l’Appendice IV (non riprodotta in CMS) contiene la traduzione di una parte del famoso cap. XII, parte prima, dell’opera, intorno alla «negazione della negazione». Sull’apprezzamento degli scritti storici di Marx, soprattutto del Diciotto Brumaio, cfr. In Memoria (CMS, 31); Dilucidazione (CMS, 137); Discorrendo (CMS, 211; qui anche un noto passo celebrativo dell’Antidühring), ecc. Quanto a gusto, la stima degli opuscoli storici di Marx (Manifesto a parte) è il solo punto dove Labriola s’incontri con Croce, il quale nel Loria li aveva definiti – e giustamente, a nostro parere – «singolarmente importanti», MSEM, 28. Ma già nell’Appendice che accompagnava la prima edizione di Materialismo storico negli «Atti» della Pontaniana (vol. XXVI, pp. 19-23 dell’estratto), poi soppressa in MSEM, gli scritti storici di Marx sono citati con ogni onore, dopo lo «stupendo» Manifesto del ’48. È un peccato che Croce non abbia più ristampato l’Appendice: vi si vede sinotticamente ciò che di Marx e del marxismo si conosceva nel 1896. Non è tutto naturalmente, ma non è nemmeno poco (eccessivo ci pare, riguardo alla povertà delle conoscenze disponibili, L. Colletti, Enciclopedia del Novecento, Roma 1979, v. «Marxismo», vol. IV, pp. 6-7). Ma certo, tutto dipende, nella sostanza, dal peso che si assegna soprattutto al Marx filosofo degli anni giovanili.

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ossia a tendenza e a disegno», con l’invito a tenersi alla «ricerca schiettamente critica», contro i pregiudizi, sia pur rinverditi, di «una storia dimostrata, dimostrativa e dedotta»100 – ha certamente le sue buone ragioni per negare in modi così drastici che il materialismo storico sia in Labriola una filosofia della storia. Ma altrove le cose non stanno così. E basta leggere, per capirlo, la chiusa di Dilucidazione, là dove si afferma che «il comunismo critico» «dice, ossia, predice» l’avvenire, non certo al modo di un «romanzo o utopia», con la determinazione cioè fantasiosa ed esaustiva dei tempi e dei modi degli interi accadimenti futuri, ma solo per quel che concerne la «morfologia» dell’avvento di una società senza antitesi di classe. E tuttavia, in questi limiti, quel che «dice e predice» non è un’«astratta possibilità», uno stato di cose soggettivamente sperato: «ma dice e predice come chi enuncia ciò che è inevitabile accada, per la immanente necessità della storia, vista e studiata oramai nel fondo della sua sostruzione economica»101 . Dire che nei saggi labriolani sul materialismo storico la «filosofia della storia» non c’è, ma poi anche c’è, è asserzione tanto vera quanto paradossale. Se così, o solo così, fosse, in maniera radicale, è chiaro che gli scritti di Labriola perderebbero ogni nerbo di struttura costitutiva, disperdendosi tra due inconciliabili alternative. Poiché le cose non stanno in questo modo, e i saggi labriolani esprimono vigore e intelligenza, occupando un ruolo di grande rilievo nel dibattito marxista di fine secolo, è necessario pensare che tra i due estremi incomponibili della

100. CMS, 80. 101. CMS, 149-51. Rinunciamo a indicare, circa le due tesi a contrasto, altri luoghi; si v. comunque gli argomenti di Croce in Materialismo storico, e le opposte conclusioni di G. Gentile, La filosofia di Marx, cit., dove, nel cap. IV del primo saggio, pp. 170-90, si trovano numerose citazioni di Labriola, a conferma del fatto che il materialismo storico è per lui una «filosofia della storia».

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presenza e dell’assenza della «filosofia della storia» vi sia qualcosa come una mediazione o una conciliazione, la quale, mentre non tocca il punto filosoficamente più aspro e delicato del problema, consente tuttavia una tenuta dell’argomentazione. Ora questa Vermittlung, come Labriola avrebbe detto ai suoi interlocutori tedeschi, c’è, ed è costituita, in breve, da quella che si potrebbe dire una cauta, circospetta, «circostanziale» e, se si vuole, «critica» filosofia della storia, secondo l’impostazione, all’incirca, dell’ultimo Engels. E poiché la «mediazione» stringe due momenti ma, come sempre, senza che riesca veramente a toglierli, risolvendoli in un terzo – questo complica, certo, dal lato filosofico la cosa, ma rendendola persino meglio gestibile sul piano pratico e più estrinseco. Se «materialismo storico» ed «economia marxistica» sono i due principali argomenti affrontati da Croce in merito al marxismo, quelli di Labriola potrebbero essere riassunti nei titoli di «concezione materialistica della storia», di nuovo, e quindi di «proletariato e avvento del comunismo». In questo secondo «titolo», la trama di filosofia della storia è certamente più evidente, nella forma di un «comunismo della produzione», generato dalle «leggi immanenti del divenire storico»102; ma con le cautele che si son dette circa i tempi e i modi, per tutto ciò che non sia «morfologico», e tenuto conto di quei dislivelli della storia, nella stessa Europa occidentale, che i «sistemi di filosofia storica» dissolvono nell’uniformità103. Per quanto riguarda la concezione materialistica della storia, il discorso è in parte simile, in parte diverso. Anche qui c’è un filo leggibile di filosofia della storia, ma più sottile, giocato da un lato sulla relativa indipendenza

102. Dilucidazione, CMS, 96, 149. 103. Dilucidazione, CMS, 82 ss.

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ed efficacia delle «sovrastrutture», dall’altro sulla sostanziale appartenenza di Labriola agli storici «filologi»104. Il problema forse maggiore di Materialismo storico e del «canone» di Croce è costituito dall’interpretazione e dallo svolgimento del nodo delle questioni labriolane che abbiamo sommariamente richiamato. Le tre sezioni in cui la breve memoria s’articola concernono in sostanza, nell’assenza ancora dell’«economia marxistica», i «capitoli» di Labriola: la concezione materialistica della storia, la quale non è, con Labriola, una filosofia della storia, né una filosofia tout court, ed è

104. Per il diverso peso, si direbbe, che Labriola assegna ai suoi due temi quanto a complessità, v. Discorrendo, CMS, 96: «noi possiamo […] prevedere, come di fatti prevediamo, l’avvento di una società, che […] metta capo in una associazione senza antitesi di classe […]. Ma ciò è l’avvenire, e non è, né il presente, né il passato. Se noi invece ci proponiamo di penetrare nelle vicende storiche svoltesi fino ad ora, assumendo, come assumiamo, a filo conduttore il variare delle forme della sottostante struttura economica […], noi dobbiamo aver piena coscienza della difficoltà del problema che ci proponiamo; perché qui non si tratta già di aprir gli occhi e di vedere, ma di uno sforzo massimo del pensiero […]. E per ciò, dicevo, che nella ricerca particolare tocca anche a noi di pigliar le mosse […] dallo studio empirico». Cfr. ancora, contro le «vedute ideologiche» considerate come «mera parvenza», pp. 68 ss., con un passo che sarà molto piaciuto a Croce, sulla «specificata circostanzialità» del fatto accaduto, che nessuna presunzione di analisi [compreso il «momento economico (spesso non accertato ancora, e spesso non accertabile affatto)] può fare non fosse quale fu» (p. 69). Il filo che si è detto debole della filosofia della storia emerge dall’asserto che «non si tratta già di ritradurre in categorie economiche tutte le complicate manifestazioni della storia, ma si tratta solo di spiegare in ultima istanza (Engels) ogni fatto storico per via della sottostante struttura economica (Marx): la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e composizione» (p. 70). E appresso, le «forme della coscienza […] sono anch’esse la storia. Questa non è la sola anatomia economica, ma tutto quello insiememente, che cotesta anatomia riveste e ricovre, fino ai riflessi multicolori della fantasia» (p. 72). Cose non molto diverse aveva scritto Engels, per es., nella celebre lettera a Mehring del 14 lug. 1893, che leggo in K. Marx e Fr. Engels, Sul materialismo storico, Roma 1949, pp. 86 ss.

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invece, oltre Labriola, un «canone»; e il tema, più defilato, di proletariato e avvento del socialismo. Il punto cruciale è se il «canone» – l’apporto originale dell’interpretazione crociana – riesca a superare (stabilendo un’«opposizione») le ambiguità e il compromesso di Labriola circa la filosofia della storia. Certo, lo si è già accennato fugacemente, il «canone», empirico e contingente, può costituirsi a rigore solo sulla negazione della necessità della filosofia della storia. Per questo aspetto, l’intenzione di Croce è stata radicale, poiché si proponeva di togliere ogni residuo di ambiguità ancora presente nei saggi labriolani, negando non solo che il materialismo storico fosse una filosofia della storia, ma persino un «nuovo metodo» o una «nuova teoria» (che, in sede storica, di nuovo ricondurrebbe per Croce a qualche forma di filosofia della storia). E da una parte allora stavano la filosofia della storia, con tutti gli eventuali prolungamenti, generatori di ambiguità (il nuovo «metodo»), dall’altra, in posizione inequivocabilmente opposta, l’empirico «canone» d’interpretazione, l’«ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso [il materialismo storico] come nuovo sussidio a intendere la storia». Tra la «riduzione concettuale del corso della storia» e l’opera consueta quanto inevitabile degli storici «filologi», ora armati di nuovi e importanti «aiuti» conoscitivi, non c’era comunicazione possibile105. Ma, sempre nella ricerca, e in filosofia in modo particolare, lo svolgimento conta, com’è noto, più delle intenzioni. Se ora 105. Materialismo storico, MSEM, 3, 9-10, 15. Continuiamo a parlare – per comodità e seguendo la suggestione del Come nacque – di «canone» a proposito di Materialismo storico, anche se, essendoci qui la cosa nel suo pieno e definitivo svolgimento, il termine non compare mai, così come non si trova ancora nelle pagine del Loria che si riferiscono alla memoria del ’96 (MSEM, 28-29). Solo in Per la interpretazione si parla di «canone» (MSEM, 81); e, curiosamente, con perfetta inversione, il termine c’è quando ormai i concetti che esso designa tendono, come diremo, a dileguare, o comunque si trovano in una collocazione molto più problematica.

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proviamo a vedere com’è fatto il «canone» nell’elaborazione crociana di Materialismo storico ci imbattiamo in due tonalità dissonanti. La prima, certo, è perfettamente conforme al carattere «minimale» del «canone». Si tratta di «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico»; di osservazioni empiriche e «approssimative» su quel che «di solito accade» e si «chiama l’esperienza della vita»; e, se pur sempre sottintendono «un “press’a poco” e un “all’incirca”», se nulla hanno a che fare con i «concetti rigorosi e filosofici», non per questo riescono meno importanti per il «progresso intellettuale», in quanto producono «feconde scoperte, per intendere la vita e la storia». Lo storico, nel suo arduo lavoro, paragonato all’opera pratica dell’«uomo di Stato», trova nel materialismo storico «grandi» sussidi e «aiuti per una comprensione più intima e profonda» della storia106. C’è forse appena bisogno di notare che, nel quadro categoriale di Croce, il «press’a poco» e l’«all’incirca» non sono affatto limiti ma verità e pregi del materialismo storico, e che perciò non si pongono in contrasto con il grande elogio che simultaneamente si fa del suo contributo. Riportato il materialismo storico all’ambito della storia, con esclusione della marginale filosofia, il suo valore non poteva che consistere nell’«arricchimento» del «metodo» proprio agli studiosi di quest’«arte» tradizionale, certa nelle sue forme di ricerca e tuttavia difficilissima107. Ora

106. MSEM, to, 13, 15-16. 107. Per la difficoltà di fare storia si v., oltre a ciò che si dice in Materialismo storico, l’ultima sezione di La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Primi saggi, cit., pp. 36-41. Basti ricordare che tra i «lavori preparatorî», che non sono ancora «storia», rientrano «la ricerca, la critica, l’interpretazione, la comprensione storica». Diceva Michelet che lo storico dovrebbe esibire solo le portate, non la «cucina» del suo lavoro; nel caso di Croce, i commensali attenderebbero invano il cibo. E difatti, vi sono «molte pagine di storia perfetta; ma poche, e forse nessuna opera ampia, di perfetta storia».

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lo storico, abbandonata «l’ingenua credenza» nella «obbiettività», quasi passiva registrazione di ciò che le «cose» raccontano, si nutre di molte fonti documentarie e di molti «presupposti» («idee» e «notizie» circa le «cose della natura, dell’uomo, della società»), ricavando tuttavia solo da ciò che «deve ritrovare in sé stesso» una sintesi che ricomponga i «frammenti» che ha dinanzi. Il materialismo storico arricchisce le «idee» e le «esperienze» dello storico, e in questo è causa di «progresso per la storiografia»; ma, per un verso, tali idee e notizie ed esperienze sono appunto attinte anche tramite l’«all’incirca», da ciò che si «può esprimere in formule generali ma non assolute», mentre, per altro verso, i nuovi «contenuti», dati ed esperienze, della «scuola materialistica» si iscrivono perfettamente negli «stessi strumenti intellettuali» e nelle «stesse vie» che gli storici «filologi» adoperano e seguono108. Così il «canone» mantiene le sue promesse e le sue premesse: il materialismo storico è una vitale novità che arricchisce e svecchia, ma ponendosi a «contenuto» dell’unica «forma metodica» che la storiografia conosca. Se proprio si vuol parlare di «revisionismo» crociano (una formula a parer nostro discutibile), è proprio in quest’accezione del «canone» che bisogna ritrovarlo: novità o revisione di contenuti della «vecchia scuola» storica, entro una sicura e sempre «viva» forma. L’altra tonalità di cui si è detto è discordante al punto da spezzare quella simmetria che è caratteristica della struttura musicale del «canone». E, per introdurla, basterà riflettere sulla estrema genericità delle espressioni che Croce adopera a designare il contributo storiografico del materialismo storico: dati ed esperienze, osservazioni e aiuti. Il lettore è in diritto di chiedersi quali siano i contenuti del «contenuto» della «scuola materialistica» o che cosa lo storico è veramente «ammoni-

108. MSEM, 9-10, 13.

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to» a trarre dal «canone». E la risposta può essere duplice. La prima, quasi nascosta in Materialismo storico, esplicita solo a proposito del rapporto del «fattore economico» con le altre attività umane, si può dire, con il Come nacque, così: l’economia e «la gran parte che l’economia ha nelle umane vicende»109. Ma la risposta rischia di essere deludente e generica non meno del problema che l’ha suscitata. E, a suo modo, persino aporetica. Si prenda in effetti la pagina dove, rifacendosi a Labriola (ma avrebbe potuto altresì ricordare il suo saggio su Campanella), Croce nega che vi siano stati «precursori ed inventori remoti del materialismo storico». Certo, già in Tommaso Moro si legge che lo Stato è una «conspiratio divitum», che le sue leggi sono «machinamenta» già i versi di Manzoni dicono della «feroce Forza» che fa «nomarsi Dritto»; e sempre è stato a tutti noto che «l’interesse è fortissimo movente delle azioni degli uomini». Ma il materialismo storico, quale l’hanno elaborato i due «duci intellettuali, il Marx e l’Engels», è «un’altra cosa», come dirà di lì a poco Croce110. Ora è evidente che se la «gran parte», l’incidenza e la decisività, che l’economia ha nelle vicende umane rimane indeterminata (e a rigore neppure espressa) sarà davvero difficile cogliere la differenza tra i «pretesi precursori», la saggezza antichissima o «proverbiale», e la specificità del materialismo storico. Croce non deve esser stato per nulla soddisfatto da un esito così generico e poco caratterizzante, che di fatto nemmeno esplora, volgendosi subito in un’altra direzione. Eppure, l’unica soluzione coerente con il «canone» sarebbe stata quella che avesse battuto la via di una relativa determinazione dell’economico nel marxismo e, al tempo stesso, di una sua fluida configurazione nell’ambito dell’empirico e della contingenza.

109. MSEM, 302. 110. Materialismo storico, MSEM, 14-15, 34.

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La risposta invece, dissonante, che Croce persegue è di altra natura. A dirla nella forma più sintetica, essa è svolta lungo la linea di una dissociazione dei modi della domanda che lo storico pone al «canone» dal contenuto del «canone» stesso: empirici e contingenti i primi, segnato da una debole necessità, se così potesse dirsi, il secondo. Ma vediamo, in maniera più ordinata e chiara, la questione nel testo. Lo storico – a parte subiecti – pone domande sui nuovi territori che gli «occhiali» forniti dal materialismo storico consentono ormai di vedere, e la sua ricerca, come si dirà in Per la interpretazione, «non importa nessuna anticipazione di risultati»111, nessuna previa garanzia di filosofia storica. Anzi, lo si è visto, dovremmo essere nell’ambito delle «osservazioni approssimative», del «press’a poco» e dell’«all’incirca». Se però ci trasferiamo nell’ambito del «contenuto» del «canone», cercando perciò di dare senso definito a espressioni come «dati» «esperienze» «osservazioni», la sorpresa è di non lieve momento, poiché Croce mette a tema della ricerca dello storico, a materia o contenuto di quel «canone» che è circondato da ogni cautela del domandare, niente meno che l’intero corpus e i punti più delicati e impegnativi del materialismo storico: dalla relazione tra i «fattori storici», «di tutte le parti della vita tra loro» e la «genesi di esse dal sottosuolo economico», allo Stato come espressione della «classe dominante», alle ideologie in quanto prodotte dagli «interessi di classe», e così via. La dissociazione tuttavia tra forme del domandare e «contenuto» (come di chi chiedesse con ogni cautela e senza nessuna garanzia, ma intorno al problema dell’essere) non può rimanere aperta in modi così stridenti. E Croce, difatti, cerca di chiuderla, operando, la sua Vermittlung. Certo, la coordinazione e subordinazione dei fattori, che il materialismo storico afferma in genere, per la più parte dei casi e in modo approssimativo, deve essere dallo storico resa 111. MSEM, 81; cfr. p. 15.

315 chiara e determinata per ogni singolo caso; e qui è il compito suo, qui le difficoltà, che possono essere insormontabili in taluni casi. Ma ormai la via è indicata a cercare la soluzione di alcuni dei maggiori problemi della storia, almeno quale si è svolta sinora112 .

La domanda è ora se possiamo accontentarci di questa Vermittlung o Versònnung crociana. E la risposta pare negativa. Per non farla troppo lunga, si supponga che in un caso, in un caso solo, lo storico riesca (questa eventualità si deve ammettere, se l’asserto non ha natura retorica) a rendere «chiara e determinata» quella «coordinazione e subordinazione dei fattori» storici che il materialismo storico afferma sempre e in «modo approssimativo». Qual è la situazione concettuale che viene, per questa via, a costituirsi? In breve, e in forma solo apparentemente provocatoria, abbiamo ritrovato il nucleo di una filosofia storica, e, per una volta, «il vero dio della storia»113. La circostanza per cui si tratta di un «singolo caso», e non dell’intero «corso storico»114, non sembra mutare la qualità o la natura strutturale del problema. Ma potrebbe mai il sobrio storico «filologo» misurarsi con una simile questione? Nella memoria sulla storia del ’93, si insiste sul fatto che «la storiografia non elabora concetti», nemmeno quello di svolgimento, che appartiene «ai principi dell’essere o della realtà» (si sente il Croce

112. Materialismo storico, MSEM, 14, 16. Labriola aveva detto cose non molto diverse, come quando per es. aveva osservato (v. sopra, n. 104) che «solo l’amore del paradosso, inseparabile sempre dallo zelo degli appassionati divulgatori di una dottrina nuova, può aver indotto alcuni nella credenza, che tanto a scriver la storia bastasse di mettere in evidenza il solo momento economico (spesso non accertato ancora, e spesso non accertabile affatto), per poi buttar giù tutto il resto come inutile fardello…», CMS, 6970. 113. MSEM, 11; cfr. p. 12, la «concessione» di Labriola che «la pretesa riduzione della storia al fattore economico sia un’idea balzana…». 114. MSEM, 16, 3.

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che, ancora un decennio dopo all’incirca, si propone di scrivere una Filosofia generale115), o altrimenti si risolve, dal lato storico, in una «filosofia della storia»116; e in Materialismo storico si dice che se «è possibile ridurre concettualmente i vari elementi della realtà che appaiono nella storia […], non è possibile elaborare concettualmente il complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico»117. Nel nostro caso, lo storico si troverebbe sia ad elaborare concetti, senza prenderli là dove li trova, nella scienza e nell’esperienza, sia a pensare concettualmente il «fatto concreto», seppur non nella forma – del resto di principio attingibile, a partire dal «caso singolo» – dell’intero corso storico. E in effetti egli dovrebbe, con un’operazione più impegnativa della semplice elaborazione di concetti, stabilire la coordinazione di «tutte le parti della vita» e la loro comune dipendenza dal sostrato economico; mentre dovrebbe giungere al «complesso individuato» degli elementi della realtà, alla determinazione del «fatto concreto». Se siamo giunti alla paradossale conclusione secondo la quale non solo in Labriola, ma nella stessa memoria crociana del ’96 c’è la presenza di una «filosofia della storia», è da vedere in breve come essa si configuri. E il riferimento va subito a Labriola, nei modi che si son detti circa la Vermittlung, e all’ultimo Engels, che in Materialismo storico è citato sempre con adesione118. In Croce si trova un filo di filosofia della storia 115. Memorie della mia vita, cit., p. 26. 116. Primi saggi, cit., pp. 24, 17, ma cfr. pp. 15-21. 117. MSEM, 3. 118. MSEM, 11-12, 14, 21 (una distanza solo dall’affermazione di Engels, e di Labriola, secondo cui la concezione materialistica della storia sarebbe un «nuovo metodo», p. 9); ma cfr. ancora Loria, MSEM, 24-25, 33, 52-53; è solo in Per la interpretazione che, accanto a valutazioni positive in merito alle Considerazioni supplementari al terzo libro del Capitale (MSEM, 62,

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certamente debole, che estenua ancora – attraverso il «canone» – quello già non vigoroso di Labriola, con alle spalle, a sua volta, quello perplesso dell’ultimo Engels. L’intenzione del «canone», come si è detto, consiste dopotutto nella liquidazione della filosofia della storia e della stessa ambiguità che si cela nel materialismo storico come «nuovo metodo». Debole appare la traccia di filosofia della storia ancora presente in Materialismo storico sia rispetto alle conoscenze o alle domande dello storico, che non sono garantite da ciò che Labriola chiamava «presunzione di analisi», e devono essere ogni volta determinate e chiarite nella ricerca, sia rispetto, ed è ovvio, alla reciproca influenza e alla duttile relazione tra i «fattori storici» che di norma agiscono, senza alcuna meccanica necessità, nella storia, o ai tanti contemperamenti e alle tante «complicatezze», presenti già in Labriola, che rendono insostenibile la «pretesa riduzione della storia al fattore economico»119. Si può anche parlare, se si vuole, di una traccia residuale. La quale tuttavia c’è, e trova posto, paradossalmente, proprio nel fatto che il materialismo storico non costituisce «una teoria da prendere in senso rigoroso»120. Ciò comporta infatti sia la negazione della sistematica o «scientifica» riduzione economicistica, sia la possibilità – e in un certo senso la necessità ormai – che lo stesso storico «filologo» metta a tema di ricerca i punti più stringenti del materialismo storico, a cominciare dalla domanda sull’economia come sostrato e genesi delle altre forme di attività umana. Anche ora, è da ripetere, del resto, che nel quadro concettuale di Croce, l’assenza di una teoria rigorosa non è

69-70), compaiono le prime, e a volte molto sostenute, riserve: circa la critica a Dühring e il «concetto generale del valore» (pp. 74-75), la dialettica (pp. 85-86), l’origine della famiglia (pp. 90-91); per altri motivi minori di polemica, v. pp. 72, 86-87, 93, 101. 119. MSEM, 12-13 120. MSEM, 13.

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un limite (o al più è una felix culpa) dei fondatori della «dottrina», formatisi alla grande scuola della Rivoluzione francese, dato che nessuna storiografia, se tale vuole rimanere, conosce teorie rigorose. È insomma nel quadro della negazione della filosofia della storia e dei suoi presupposti, nella riconduzione del materialismo storico a nuovi contenuti offerti alla storico «filologo» (il quale rinnova dati ed esperienze ma nelle forme «della buona storiografia di tutti i tempi», immutabile «perché non può cangiare»121) che si nasconde, con qualche paradossalità, il germe della filosofia della storia. E l’assestamento conciliativo, pur nella relativa novità del quadro, è ancora quello di Labriola e dell’ultimo Engels. Del quale Croce fa proprio, in una pagina cruciale che abbiamo più volte ricordato, il celebre asserto per cui le condizioni economiche, pur risentendo l’influsso delle altre condizioni, politiche e ideologiche, «in ultima analisi sono le decisive, e formano il filo rosso, che attraversa tutta la storia e ne guida l’intendimento»122. Il «filo rosso», per la verità, va oltre lo stesso quadro in cui abbiamo circoscritto il residuo crociano di filosofia della storia; ma esprime al tempo stesso la convinzione che ormai la via è spianata per «la soluzione di alcuni dei maggiori problemi della storia», la fiducia che, con tutte le «cautele» del caso, lo storico possa – né in un solo caso – verificare l’unità della storia («di storia ce n’è una sola») a partire dalla struttura economica, dallo Stato come istituto di classe e dallo smascheramento delle ideologie123. 121. La storia ridotta, in Primi saggi, cit., p. 19. 122. Materialismo storico, MSEM, 14. 123. MSEM, 16, 14. È un peccato che non possiamo ora affrontare anche il secondo «titolo» crociano: «proletariato e avvento del comunismo». Il discorso è qui solo in parte diverso: sia per il maggior disincanto (si v. l’intero periodo di p. 9 che, dopo aver ricordato le previsioni morfologiche di Labriola, continua così: «e, invero, né il Marx né l’Engels avrebbero mai astrattamente affermato che il comunismo debba accadere per una necessità ineluttabile…»); sia, e soprattutto, per la distinzione di teoria e prassi

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Se ci chiediamo ora quale sia stato il grado di consapevolezza che Croce ebbe del problema che ci è parso di trovare in Materialismo storico, s’incontra una domanda, come sempre, piuttosto difficile, che sembra richiedere una risposta compromissoria, nel segno di una semiconsapevolezza. Questo vuol dire che, da un lato, Croce non ha certamente visto (o lo ha visto in forme oblique) l’insidia che si celava nel «canone»: ne abbiamo una prova certa nella ripresa di questo criterio in Per la interpretazione; ma dall’altro lato, c’è nella memoria una «consapevolezza» marxista piuttosto sostenuta, nonostante il «canone» o, per alto verso, proprio grazie a esso. Chi voglia documenti del Croce «marxista», li deve cercare non in chissà quali segrete carte e pensieri privati (dove peraltro tutto è ormai sufficientemente chiaro) ma nella pubblicità dell’edito, in Materialismo storico e (oltre che nei saggi su Campanella e Russo) nel Loria, prima della «nota», che ha carattere periodizzante rispetto alla seconda fase degli studi crociani su Marx – la quale a nostro giudizio, sia detto ora incidentalmente, è più interessante, perfino rispetto alla partecipazione alla vicenda del marxismo, della prima. E qui si può cercare di conferire un senso, certo congetturale, a quel «ricordo», di

che si oppone al nesso labriolano di materialismo storico e socialismo (pp. 17-18). Anche in quest’ultimo caso tuttavia si osservi che se, per una volta, l’osservazione teorica dirà che il socialismo è «la più adatta soluzione» a una determinata società, e il necessario «complemento» pratico, etico e sentimentale, si accenderà, avremo qualcosa come una ricostituzione, in forme mediate (attraverso cioè la distinzione di pensiero e azione, che sempre è richiesta), di quella filosofia della storia che Labriola poneva in modi assoluti e diretti. Il punto è qui che Croce non discute il problema del socialismo futuro, ma lo riprende nella forma assegnatagli dal materialismo storico, compresi i «proletari, che desiderano […] la fine della loro classe». Sicché ha ragione quando osserva che anche circa una tale questione «la divergenza tra me e il Labriola non sembra possa essere di sostanza» (ma il periodo potrebbe riferirsi – meno verosimilmente – anche al punto seguente nel testo, circa i «valori ideali dell’uomo»).

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cui abbiamo sopra discorso, circa Materialismo storico e la «candida» attribuzione di pensieri propri a Labriola (e a Marx) che lì Croce avrebbe, a «torto», operato. Al di là del probabile scambio temporale di Materialismo storico con la successiva polemica labriolana del Postscriptum, Croce continua, dopo tanti anni, ad avvertire l’impressione di una reale difficoltà e di un effettivo disagio circa la memoria del ’96. Ma le cause di questa relativa indistinzione o confusione di appartenenze sembrano da rovesciare: ossia non è Croce che attribuisce a Labriola, a Engels e a Marx pensieri suoi, ma sono al contrario i pensieri di questi ultimi – del marxismo engelsiano di fine secolo – che ancora parlano nello scritto di Croce, il quale non si è con evidenza sufficientemente distanziato da essi, rendendosi del tutto autonomo. Come si è già accennato, il reagente di questa situazione è costituito dalla sicurezza critica che Croce consegue a partire dalla «nota» al Loria: di qui in poi, con l’indagine sulla teoria economica di Marx, accade che alla certa consapevolezza della propria indipendenza di giudizio si accompagni tuttavia – complice anche il mantenimento, in modi non del tutto coerenti, del «canone» – una sorta di autocritica incompiuta (e anzi, come si è visto, occultata nella continuità) circa la precedente stagione di studi marxistici124. Cercare di capire i motivi che hanno condotto Croce alla situazione e ai problemi che sono stati fin qui indagati, comporterebbe un discorso ancora lungo. Qui schematicamente e (il lettore abbia fiducia) in forma conclusiva ci richiameremo solo, per l’ultima volta, ai due principali argomenti dell’interpretazione crociana di Marx: il «materialismo storico» e «l’econo-

124. L’impressione di questo disagio rimosso – senza attendere il tardo Come nacque – deve essere stata precoce. Lo stesso imbarazzo di Croce nel rispondere, in una nota di Per la interpretazione (MSEM, 81), alle critiche che Gentile gli aveva mosso, potrebbe essere interpretato – a poterlo discutere – in questa chiave.

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mia marxistica». Le difficoltà che concernono il primo punto sono in gran parte da riportare alla questione della «filosofia della storia». Si tratta di un tema complicato e interessante, che è merito in ogni caso del dibattito italiano di fine secolo sul marxismo aver sollevato e discusso (non mi risulta che in Germania, nell’ambito della socialdemocrazia tedesca e della sua Umwelt vi sia qualcosa di analogo, men che mai di paragonabile). Ma, complicato interessante e originale, il tema è altresì sfuggente. Di recente, in pagine dense e, come sempre, molto acute, Gennaro Sasso ha mostrato questo risvolto filosoficamente dileguante della «filosofia della storia» – in particolare rispetto alla specifica configurazione che essa assume in Hegel e quindi in Marx – nel dibattito italiano di fine secolo, in Labriola, in Croce e, quel che certamente è più singolare, in Gentile, il quale su tale terreno ha lavorato più in profondità, programmaticamente, degli altri125. In Croce, tanto forte e costante è l’avversione alla «filosofia della storia», tanto il tema resta consegnato a una configurazione lata, onnicomprensiva, generica; e un po’ deludenti restano in proposito persino le pagine espressamente dedicate alla «filosofia della storia» di Hegel126. In Materialismo storico, questa generale difficoltà, la carenza di una radicale tematizzazione della «filosofia della storia», dà luogo a una curiosa situazione. La negazione della «filosofia della storia» come carattere del materialismo storico, effettuata in modi drastici sì ma preventivi (per i motivi che sopra si son detti) e, filosoficamente, non del tutto adeguati, conduce al paradossale esito per cui nel non che nega, tutti i contenuti della teoria marxiana, quale che sia la loro natura, restano immutati. L’esclusione, in questa forma, della «filosofia della storia» riesce, non meno dell’inclusione, un passo gravido 125. Le due Italie di Giovanni Gentile, cit., pp. 317-387. 126. Saggio sullo Hegel (già Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, 1906), Bari 19675, pp. 89-98.

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di conseguenze. La genesi, o vichiano «nascimento», contiene la natura della cosa; e nulla si perde, in realtà, circa la costituzione e il campo di possibilità del medesimo soggetto, una volta che sia stata semplicemente negata la sua appartenenza all’ambito della «filosofia della storia»: né l’unità della storia e l’engelsiano «filo rosso» che ne spiega, in ultima analisi, il segreto, né la gerarchia delle «parti della vita», né il carattere dello Stato, delle ideologie e del socialismo. Riguardo all’economia, che come si è visto è completamente assente in Materialismo storico e nel «canone» (nonostante l’inopinata irruzione dell’economia pura), i problemi sono non meno gravi. E ciò è subito comprensibile se si riflette al fatto che, costituendo dopotutto l’economia il cuore vitale della «dottrina» di Marx e di Engels (come Croce sa benissimo), nulla di veramente determinato si può dire circa il rapporto delle condizioni economiche con la storia e con le forme «sovrastrutturali» se la domanda sull’economia, in sé e nell’analisi marxiana, non viene prioritariamente messa a tema. Certo, e lo si è detto sopra, le questioni incluse nel capitolo «materialismo storico» eccedono la teoria economica marxistica in senso specifico. Pure, come negare che in generale economia e «teoria della storia» costituiscono in Marx due volti della stessa cosa? La soluzione, come si è accennato, avrebbe potuto essere quella di ribadire anche per questa via l’empiricità del «canone», assegnandogli a materia, con tutti i problemi del caso, un concetto generale, se non generico, di economia. Ma questa è una soluzione che Croce non vuole, né persegue, anche se è necessario supporre, nella domanda dello storico che si serve del «canone», la consapevolezza dell’incidenza e del peso dell’attività economica, quali che siano le sue forme, nella storia. Però, per questa via, il problema dell’assenza dell’economia veniva a essere ancor più imbarazzante. E il caso, per strade diverse, diventava, su questo terreno, analogo a quello di Gentile, il quale aveva fin dall’inizio traslato e simboleggiato il

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tema economico nel quadro della teoresi, dove (malamente) si affrontano l’apriori e l’aposteriori, l’assoluto e il contingente. In Croce, il tema forte era certo la teoria della storia e della storiografia, ma la trasvalutazione dell’economia in altro da sé era non meno accentuata in Materialismo storico; e tanto più grave dal momento che, a differenza di Gentile, Croce si era subito affidato all’ispirazione interpretativa della centralità dell’economia per la comprensione dell’intero organismo di pensieri marxiano. Profondamente diverso così dalle approssimazioni al marxismo dei saggi storici su Campanella e Russo, Materialismo storico, con il «canone» che ne costituisce il centro, resta tuttavia un passo provvisorio sulla via dell’indagine crociana di Marx. La provvisorietà si può dire in molti modi: dai problemi e dai fraintendimenti che lo segnano (e che, come si è visto, perdureranno a lungo nel tempo), all’assenza dell’economia, che pur sarebbe necessariamente richiesta. C’è tuttavia un modo più radicale per esprimerla, ed è l’incompatibilità del «paragone ellittico» con il «canone». È vero che Per la interpretazione, il testo più rilevante della lettura crociana di Marx, mantiene, dopo aver indagato nelle prime due sezioni la forma scientifica del Capitale in rapporto all’economia pura, il concetto di «canone», nominandolo anzi per la prima volta così. Ma a leggere con attenzione la terza sezione di Per la interpretazione, salvo un commento più adeguato, si capisce che si tratta di una semplice ripresa, e anche un po’ stanca, dei temi svolti, con il senso della novità, in Materialismo storico. Il discorso sul «canone», anzi, sembra prendere subito una piega diversa, e un po’ si perde, sebbene rilevanti, certo, e appartenenti di diritto al capitolo «materialismo storico», sono le questioni che Croce, certamente stimolato dal primo degli «studi» di Gentile, più che svolgere, accenna come temi di ricerca: dal preciso rapporto di Marx con la filosofia della storia di Hegel, al significato della «neodialettica» marxiana, al senso dell’enunciato

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«la storia è una lotta di classe»127. Ma l’asse della riflessione si è ormai interamente spostato. E la prima differenza concerne la dislocazione dall’ambito storico del «canone» a quello teoricoscientifico del «paragone ellittico», che rende irrecuperabili e indecidibili le domande poste dallo storico del «canone»; la seconda riguarda gli effetti politici delle due interpretazioni: evanescenti nel primo caso, abbastanza determinate e sicuramente interessanti nel secondo. Forse nemmeno c’è bisogno ora di comunicare al lettore che, riguardo alla primissima domanda posta da questo scritto, la nostra scelta, dopo averci riflettuto, va al «paragone ellittico», non al «canone».

127. MSEM, 80 ss.

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Benedetto Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’‘utile’ Mauro Visentin

1. Premessa Quando, nell’aprile 1896 (e precisamente giovedì 23), Antonio Labriola, nell’indirizzare una lettera abbastanza lunga a Benedetto Croce, inseriva, giunto, grosso modo, a metà dello scritto e delle cose che aveva da dirgli, quasi incidentalmente – e non senza un accenno di narcisistica, studiata sufficienza – la notizia che Sorel lo “tempestava di lettere” per ottenere da lui (Labriola) un articolo per la rivista Le Divenir Social1, aggiungendo: “Avrai visto che nell’ultimo fascicolo mi han levato al settimo cielo”, non poteva certo supporre che il suo giovane interlocutore epistolare sarebbe, in breve tempo, giunto a dividere con lui il titolo di principale esponente del marxismo italiano, e meno che mail che la sua (di Croce) fama si sarebbe diffusa anche all’estero (soprattutto in Francia), insieme a quella del loro sodalizio2, a tal punto da far apparire tutto ciò 1. Rivista che Sorel aveva fondato appena l’anno prima, nel 1895, a Parigi. 2. Come è noto, Croce si fece editore dei tre saggi – poi riuniti nel volume La concezione materialistica della storia – che contribuirono in modo decisivo a promuovere e diffondere la fama, in Italia e oltre confine, di Labriola come teorico marxista. Diede, inoltre, un ulteriore apporto a tale diffusione

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che Croce avrebbe scritto in tema di materialismo storico e di economia come attribuibile anche a lui (Labriola) e da lui senz’altro condiviso. Ma se anche avesse potuto supporlo, certo non sarebbe mai stato in grado di prevedere quello che ne sarebbe seguito. E cioè che, svolgendo Croce il suo pensiero intorno ai fondamenti del pensiero di Marx in modo tale da dare adito alla sensazione che nei suoi (di Croce) rilievi prendesse corpo ed espressione determinata un diffuso sentimento di disagio che si era andato propagando fra i marxisti in Europa a partire dalla pubblicazione del III volume del Capitale (edito da Engels nel 1894, sulla base dei canovacci lasciati da Marx), il suo nome sarebbe stato associato a quelli di Croce e di Sorel dall’operazione con cui alcuni commentatori dell’epoca avrebbero tentato di dare un volto collettivo alla “crisi del marxismo”, finendo con l’individuare proprio in loro tre (insieme a Bernstein) il gruppo dei suoi principali promotori. Se egli avesse avuto una qualche premonizione di tutto ciò magari non avrebbe aggiunto, qualche riga dopo, che Sorel lo “pregava e strapregava” di intercedere presso Croce perché questi gli facesse avere un articolo per il Devenir. Quantomeno, possiamo supporre che non avrebbe troppo insistito nell’indirizzare l’interesse del suo giovane corrispondente verso questioni di economia teorica, proponendogli di prendere occasione dalla richiesta di Sorel per fare ciò che lui (Labriola) gli aveva già suggerito di fare in una lettera di qualche tempo prima3, ossia scrivere un saggio critico sugli “spropositi” di Achille Loria. In effetti, di scrivere questo saggio Croce non doveva avere

e promozione, facendo, del secondo di questi saggi, l’oggetto di una propria conferenza presso l’Accademia Pontaniana di Napoli (conferenza il cui testo confluì – dopo una prima pubblicazione negli Atti accademici del 1896 – nel volume dedicato al Materialismo storico, del quale costituisce il testo d’apertura). 3. Del 28 febbraio.

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un grandissimo desiderio, come egli stesso lascia francamente intendere ricordando questo episodio nel quadro della ricostruzione che molti anni dopo ebbe occasione di fare dello sviluppo, dell’evoluzione e della decadenza del “marxismo teorico in Italia”4. L’interesse era, piuttosto, di Labriola, il quale aveva concepito per Loria una netta avversione sul piano dottrinale e un profondo disprezzo, senza, però aver avuto la pazienza di leggere compiutamente i suoi contributi. La sua (di Labriola) grande capacità intuitiva gli permetteva di farsi un’idea talvolta abbastanza esatta della qualità di uno scrittore o di un’opera, se non proprio dall’esame sommario di qualche pagina, quantomeno già solo attraverso una lettura veloce, per così dire “a volo radente”, che tuttavia non gli consentiva di cogliere i particolari, rendendolo incline ad addossare ad altri, ove ciò fosse possibile, l’onere di una critica pubblica5. Egli era stato, verosimilmente (questa, almeno, era l’opinione di Croce6) l’ispiratore della violenza con la quale Engels, nella prefazione al terzo volume del Capitale e nelle Considerazioni supplementari, scritte ad integrazione e complemento di questa, e pubblicate postume nei nn. 1 e 2 (1895/96) della Neue Zeit, si era scagliato contro Loria. Nonostante l’ossessione da cui Labriola sembrava essere pervaso a proposito dell’economista di Mantova7 – ossessione che affondava le sue radici nel credito che il socialismo italiano aveva accordato a Loria come teorico dell’economia sociale e come interprete di Marx – il saggio che Croce alla fine scrisse contro l’autore delle Basi economiche della costituzione sociale e che pubblicò in francese nel “Devenir Social”, lo deluse un poco. Non perché Croce non 4. Cfr. Croce, Come nacque e morì il marxismo teorico in Italia, in Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1968, pp. 271-72. 5. Ibid. 6. Ibid. 7. Ibid.

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fosse stato sufficientemente caustico e corrosivo nei confronti del suo oggetto, ma perché il disegno che egli doveva aver concepito di comprendere meglio, attraverso lo scritto di Croce – della cui esattezza e precisione si fidava assai più che della propria –, le ragioni della fortuna di Loria si era rivelato vano. Tanto che, dopo aver letto il saggio, Labriola non aveva potuto esimersi dall’esprimere tutta la sua meraviglia per il fatto che poi, in definitiva, nell’opera di Loria non vi fosse nient’altro che “la miseria” messa in luce dall’esame che Croce ne aveva fatto8. Oltre a questo, nello scritto di Croce c’era però un’altra cosa che dovette deludere Labriola e che avrebbe dovuto in effetti allarmarlo se egli avesse avuto una maggior capacità di antivedere gli sviluppi che essa preannunciava: una lunga nota sulla teoria del valore di Marx. Questa nota, insieme al saggio che Croce compose un anno dopo sull’Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (che nel volume sul Materialismo storico, in cui entrambi sono compresi, segue immediatamente il contributo su Loria) e alla risposta9 data al Postscriptum con il quale Labriola, nell’edizione francese del suo Discorrendo di socialismo e di filosofia, prendeva le distanze da lui e da Sorel a proposito dell’interpretazione della teoria del valore, insieme alla critica della legge riguardante la caduta tendenziale del saggio di profitto10 e alle due lettere Sul principio economico indirizzate a Pareto11, rappresenta la parte più significativa del volume dedicato a Marx, nel quale

8. Ibid. 9. Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad essa, uscito sulla “Riforma sociale” nel 1899, poi in Materialismo storico…, cit., pp. 121-137. 10. Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, pubblicato in “Atti dell’Accademia Pontaniana” nel 1899, poi in Materialismo storico…, pp. 139-150. 11. Ivi, pp. 209-229.

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Croce raccolse, nel 1900, tutti i saggi da lui composti su questo argomento e su argomenti affini negli ultimi quattro anni. Nella convinzione che questi testi rappresentino effettivamente il “nucleo” concettuale e teorico della “lettura” di Marx sviluppata da Croce, sarà proprio su di essi che concentreremo il nostro esame, il cui obiettivo consiste (converrà non dimenticarsene strada facendo) nel dare adeguato svolgimento alla questione cui accenna il titolo del nostro contributo. Il fatto di aver definito i saggi appena elencati come quelli in cui si condensa il senso più riposto e profondo del lavoro critico-interpretativo prodotto da Croce su Marx e sulla sua opera richiede, probabilmente, qualche cenno di chiarimento. Non c’è dubbio, infatti, che il volume di argomento marxista, pubblicato da Croce a Palermo, presso l’editore Sandron, nel 1900, comprende altri testi, ricchi di temi e spunti diversi, che non possono mancare di attrarre l’attenzione dello storico e del sociologo in misura forse anche maggiore di quelli citati. L’importanza attribuita a questi ultimi, pertanto, potrebbe apparire come una preferenza soggettiva e, in ultima analisi, arbitraria. Questa importanza è, però, inscritta, in parte, nell’evoluzione stessa del pensiero di Croce e in parte nel fatto che in questi saggi Croce affronta temi che in seguito, per molto tempo, nel dibattito marxista destinato a svilupparsi in Italia, verranno trascurati o trattati in modo sommario, senza alcuna specifica competenza12, pur rappresentando l’architrave dell’opera economica di Marx. Temi come la questione della coerenza teorica dell’analisi sviluppata nel Capitale (con spe12. Sull’estraneità del Capitale e dei suoi temi a buona parte del marxismo teorico italiano del ’900 – fatta eccezione per alcuni casi sporadici – sarebbe necessario intervenire con un discorso a sé (che da più parti è stato abbozzato, senza essere mai condotto a compimento). Ma per chiarire il significato e la rilevanza della questione basta citare, come esempi di questa estraneità, due figure del peso di Rodolfo Mondolfo e di Antonio Gramsci.

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cifico riguardo al problema del rapporto fra il primo e il terzo volume) e in particolare della teoria del valore; come quelli del concetto di plusvalore e del fenomeno per cui l’incremento del peso delle macchine nel processo lavorativo determinerebbe, a parità di altre condizioni, una progressiva diminuzione del saggio di profitto. Temi “tecnici” dell’economia politica, di quella classica in generale e in particolare di quella legata al nome di Marx, a proposito dei quali Croce interviene con una sicurezza ed un’autorità che gli verranno riconosciute anche da studiosi specialisti di questa disciplina, di estrazione marxista e, soprattutto, non italiani13. Temi ai quali, tuttavia, è stato riservato, in Italia, lo stesso, curioso destino – e forse non senza che tra le due cose si possa ipotizzare un certo legame – riservato alla loro trattazione da parte di Croce: quello di essere rapidamente accantonati dopo una breve stagione di intensa fioritura. In un primo momento questa sorte potrebbe essere dipesa dalla diffusa convinzione – da lui stesso accreditata – che Croce avesse detto una parola definitiva intorno alle questioni collegate a tali argomenti. Successivamente, essa sembra essere scaturita, in modo abbastanza naturale, dalla prevalente estrazione storico-filosofica del nostro marxismo (estrazione che aveva un preciso rapporto con il ruolo assunto, nel suo ambito, dalla cultura crociana)14. Così, quando finalmente, in anni recenti, la discussione su di essi si è riaperta, 13. Cfr. R. Meek, Studi sulla teoria del valore-lavoro (tr. it. di M. Pacor, P.L. Porta e E. Facchini, Milano 1973, pp. 201 e sgg.), il quale dà un ampio resoconto delle critiche formulate da Croce intorno alla teoria del valore, trattandole con attenzione e rispetto, anche se, con vezzo tutto anglosassone, fa precedere il loro esame da quello dedicato alle analoghe critiche di A.D. Lindsay, che sono cronologicamente successive a quelle di Croce e ne dipendono, essendo ad esse ispirate, visto che Lindsay è, tra l’altro, il traduttore in lingua inglese del volume crociano su Marx (cosa che Meek, del resto, non manca di sottolineare). 14. Cfr., in proposito, le osservazioni di L. Colletti, nella sua celebre Intervista politico-filosofica, Roma-Bari 1974, pp. 12-13.

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ciò è avvenuto nella cerchia più ristretta degli studiosi di teoria economica e sulla scorta della grande impressione suscitata in tutto l’ambiente dell’economia politica (soprattutto in Inghilterra e in Italia) dalla pubblicazione, all’inizio degli anni ’60, dell’opera di Piero Sraffa (che peraltro era stato anche, come si sa, amico di Gramsci e aveva seguito da vicino la vicenda dei Quaderni, sia per la parte relativa alla loro stesura sia per quella concernente la loro messa in salvo e la loro spedizione a Mosca), ma all’interno di una prospettiva che si sarebbe potuta definire marxista solo attribuendo al termine un senso ben diverso da quello che esso aveva avuto negli anni della militanza e dell’ortodossia: un senso per certi versi più vicino a quello che esso rivestiva ai tempi del primo dibattito sul significato e sull’interpretazione della teoria del valore, cui avevano preso parte, da noi, oltre a Loria e Croce, autori come Arturo Labriola e Antonio Graziadei. Quanto all’interpretazione e alla critica di Croce, essa non è stata veramente discussa nella cultura italiana oltre che per ragioni analoghe a quelle già indicate con riferimento alla sorte delle questioni tecniche dell’economia marxista, anche per quelle che variamente si connettono alla vicenda del crocianesimo come tale. Per tutta la prima metà del ’900, in altri termini, se della teoria del “paragone ellittico” si è parlato in sostanza abbastanza poco, ciò deve essere imputato almeno in parte alla soggezione che l’autorità del “maestro” ispirava e alla tendenza, propria di tanti seguaci, a ripetere le sue formule senza non solo discuterle ma spesso neppure esaminarle. In un secondo momento, viceversa, è verosimilmente subentrato il disinteresse che ha investito, a partire dal dopoguerra, quasi tutta l’opera di Croce15. Solo di recente si è ripreso a consi-

15. Un esempio di questo disinteresse può essere considerato l’ampio saggio (uno dei pochi prodotto su questi temi nell’Italia di quegli anni da uno studioso che di professione faceva il filosofo e non l’economista) Sul plu-

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derare questo capitolo del suo svolgimento spirituale. Ancora una volta, però, senza entrare nel merito delle tesi espresse, e con l’occhio rivolto piuttosto ad altri aspetti del rapporto con Marx e con il marxismo, come, ad esempio, quello della sua periodizzazione16. Il primo compito che un rinnovato esame

svalore che costituisce la seconda parte del volume Cultura e rivoluzione (Roma 1974) di M. Rossi. In esso non si fa alcun cenno del nome di Croce (come non si fa cenno, oltre che di Croce, neppure di Labriola – e questo sorprende, se possibile, anche di più – nel saggio sul materialismo storico che costituisce il 7° cap. della terza parte dello stesso volume, ma qui la questione investe, piuttosto il contrasto che dalla fine degli anni ’50 aveva opposto all’interno della cultura marxista una corrente “dellavolpiana” alla “vulgata” che rappresentava la posizione ufficiale del PCI e che coniugava, abbastanza liberamente, tradizione italiana e marxismo sotto l’egida di un generico orientamento “storicistico”). 16. Cfr. G. Bedeschi, Croce e il marxismo, contributo apparso nel fascicolo monografico dedicato a Croce dalla rivista “La Cultura” nel 1993 (pp. 295-315) e, sempre di Bedeschi, la conversazione, con lo stesso titolo, curata da P. Bonetti come le altre pubblicate insieme ad essa nel volume Per conoscere Croce, Napoli 1998 (cfr. pp. 21-33). Di Bedeschi si veda anche La rielaborazione italiana del marxismo, in L’Italia e la formazione della civiltà europea, vol. I, La cultura civile, a. c. di N. Matteucci, Torino 1992, pp. 267-282 (edizione fuori commercio, pubblicata dalla casa ed. UTET per conto della Banca Nazionale dell’Agricoltura). Fa eccezione, rispetto a quanto abbiamo ora affermato con riferimento alla scarsa “fortuna” dell’interpretazione crociana della teoria del valore, il recentissimo volume di N. Bellanca, Economia politica e marxismo in Italia. Problemi teorici e nodi storiografici 1880-1960, Milano 1997, che concede a Croce uno spazio assai ragguardevole nella ricostruzione storica e teorica della vicenda del marxismo italiano. Il saggio, opera di un giovane studioso di storia delle dottrine economiche, si segnala per l’intento di fornire, attraverso questa ricostruzione, una chiave di lettura inedita della teoria del valore-lavoro, che la libererebbe dall’obbligo di confrontarsi con il problema della “trasformazione” (in proposito si veda, più avanti, la n. 64). Per conseguire questo obiettivo ambizioso, Bellanca incrocia, al di là dei contrasti personali che li videro polemizzare da posizioni apparentemente opposte, i destini teorici di Loria e Croce, di Croce e Arturo Labriola, di entrambi questi ultimi e Graziadei. L’operazione – suggestiva anche per la rivalutazione che comporta di figure

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di questo rapporto deve proporsi perciò non può che essere quello di giungere ad un confronto effettivo e diretto con il contenuto concettuale e speculativo dell’interpretazione che Croce prospetta delle categorie marxiane. Il secondo, quello di valutare il ruolo che questa interpretazione può aver avuto nel promuovere e nel caratterizzare lo svolgimento del pensiero di Croce.

2. La teoria del valore-lavoro e le sue contraddizioni. Le reazioni del mondo scientifico alla pubblicazione del III volume del Capitale Abbiamo incidentalmente fatto riferimento, qualche decina di righe più su, al “diffuso sentimento di disagio che si era andato propagando fra i marxisti in Europa a partire dalla pubblicazione del III volume del Capitale”. Di che cosa si trattava, e quale ne era la causa? Il terzo volume del Capitale venne pubblicato da Engels alla fine del 1894, dopo diversi anni spesi nello sforzo di ricostruire, sulla base di quanto Marx aveva lasciato, un testo coerente e, per quanto era possibile – ricorrendo in alcuni (pochi) casi estremi anche a qualche integrazione di proprio pugno – completo e corrispondente alle intenzioni e

(come Loria e Arturo Labriola) sulle quali l’avversione variamente manifestata da Antonio Labriola e dallo stesso Croce aveva finito per far cadere l’ombra di un discredito probabilmente ingiusto e senza riscatto – incorre, tuttavia, in alcuni equivoci, soprattutto per ciò che riguarda Croce, cosa che ne fa vacillare l’intero edificio, visto il ruolo di assoluta preminenza che essa assegna alla teoria del paragone ellittico nel quadro della sua ricostruzione interpretativa delle posizioni degli autori ricordati e delle ragioni teoriche che permetterebbero, secondo Bellanca, di riconoscere la necessità della riduzione del valore al lavoro (per quanto riguarda tali equivoci si vedano, più avanti, le nn. 64 e 123).

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al disegno originale dell’autore17. Il tempo richiesto da questo complicato lavoro fu, anche per via delle precarie condizioni di Engels la cui vista si era andata via via indebolendo, come abbiamo appena ricordato, di diversi anni. Per la precisione di nove. E naturale che negli ambienti marxisti e in generale nel mondo scientifico, l’attesa fosse grande, anche perché, proprio alla fine della sua prefazione al secondo volume (uscito nel 1885), dedicata in buona parte a rintuzzare l’affermazione di Rodbertus – che era stata raccolta da diversi “socialisti della cattedra e di Stato” in Germania – di aver subito un plagio ad opera di Marx per quanto riguardava la teoria dell’origine del plusvalore18, Engels aveva proposto “agli economisti che [volevano] scoprire in Rodbertus la fonte segreta ed un più grande predecessore di Marx” la seguente sfida: dimostrare “che non soltanto senza pregiudizio della legge del valore, ma piuttosto sul fondamento di essa, può e deve formarsi un uguale saggio medio di profitto”19. La sfida affondava le sue radici nel fatto che, come Engels aveva appena finito di rammentare “in base alla legge ricardiana del valore, due capitali che siano uguali per quantità ed impieghino lavoro vivente ugualmente pagato, essendo uguali tutte le altre circostanze, producono, in uguali periodi prodotti di uguale valore, e parimenti plusvalore o profitto di uguale grandezza. Se invece impiegano disuguali quantità di lavoro vivente, non possono produrre plusvalore, o, come dicono i ricardiani, profitto di uguale grandezza. In realtà avviene il contrario. Di fatto, capitali uguali, indipendentemente dalla quantità più o meno grande di lavoro vivente

17. Si veda, per la storia di questa vicenda e per l’esposizione dei criteri editoriali, la prefazione dello stesso Engels. 18. Cfr. F. Engels, Prefazione a K. Marx, Das Kapital, zweiter Band, Berlin 1980, pp. 13 e sgg. (= Il Capitale, vol. II, Roma 1989, tr. it. di R. Panzieri, pp. 13 e sgg.). 19. Ivi, tr. it., cit., p. 26.

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che impiegano, in tempi uguali producono in media profitti uguali. Qui c’è dunque una contraddizione con la legge del valore, contraddizione già trovata da Ricardo e che la sua scuola fu parimenti incapace di risolvere”20. Secondo Engels, anche Rodbertus aveva saputo vedere la contraddizione ma non era stato in grado di risolverla, mentre Marx ne aveva fornito la soluzione proprio nel III volume della sua opera. Di qui la sfida: prima che questo volume fosse pubblicato (cosa che per Engels avrebbe richiesto, così pensava allora, soltanto “dei mesi”) gli economisti che ritenevano Rodbertus il vero padre della teoria marxiana del plusvalore potevano provare, se credevano, a dedurre dalle sue (di Rodbertus) premesse questa stessa soluzione: se ci fossero riusciti questa sarebbe stata la prova migliore della priorità di Rodbertus, altrimenti nessuno avrebbe più potuto e dovuto contestare l’originalità di Marx. A raccogliere la sfida furono in molti, non tutti seguaci di Rodbertus, e nella sua prefazione al III volume dell’opera di Marx, Engels enumera e recensisce, per lo più sfavorevolmente, quando addirittura la sua prosa non assuma in modo esplicito un tono sprezzante e sarcastico, diversi contributi sul tema. Egli ha parole di relativa considerazione solo per due dei partecipanti al dibattito: Conrad Schmidt, che aveva pubblicato Die Durchschnittsprofitrate auf Grundlage des Marxschen Wertgesetzes, uscito nel 1889, e Peter Frieman, autore di una Kritik der Marx’schen Werttheorie, apparsa nel 1893. Di questi due interventi è il primo quello sul quale conviene fermare la nostra attenzione, perché le osservazioni critiche che Engels gli rivolge gettano indirettamente molta luce sul problema e conducono, in qualche modo, la questione al punto nel quale si può dire che la incontri Croce.

20. Ivi, p. 25.

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La soluzione di Schmidt si fondava sulla distinzione netta, all’interno della produzione di un’impresa o di un intero ramo industriale, di due quantità di merci, una costituita dal prodotto puro e semplice – quella destinata ad essere riassorbita in parte dal valore della forza lavoro necessaria alla prosecuzione del processo produttivo, ossia corrispondente al valore dei beni di consumo necessari al reintegro della forza lavoro spesa nel corso di questo processo, e in parte dal valore corrispondente all’usura delle macchine e ai mezzi di produzione impiegati in esso – l’altra costituita dal cosiddetto plusprodotto – cioè da tutta la parte restante del prodotto, dedotte queste prime due. Per Schmidt, in base alla legge del valore enunciata da Marx, secondo la quale il valore di ogni merce corrisponde alla quantità di lavoro, espressa in termini di tempo, richiesta dalla sua produzione, il valore del prodotto deve corrispondere alla quantità di lavoro in esso “conglutinato”. Di conseguenza, per quanto attiene alla prima di queste due parti, deve esserci piena corrispondenza fra il tempo di lavoro speso nella produzione (sia come lavoro vivo, umano, sia come lavoro morto: quello contenuto nel valore dei mezzi di produzione impiegati, e trasmesso da questi al prodotto), da un lato, e, dall’altro, il valore delle merci ricavate da questa stessa produzione. Ma per la parte restante, cioè per il plusprodotto, come opera la legge del valore? Secondo Marx, allo stesso modo, ovvero anche per questa parte i prodotti del lavoro (le merci) acquistano un valore di scambio solo in ragione del tempo di lavoro richiesto dalla loro produzione. Ma mentre la produzione del prodotto ha, per il capitalista, un costo che è, esso stesso, in ultima analisi, calcolabile in termini di tempo di lavoro (quello, come abbiamo visto, necessario alla produzione o riproduzione degli strumenti di lavoro, delle materie prime e dei mezzi di sostentamento degli operai), la produzione del plusprodotto non ha alcun costo. È per questo che il plusprodotto è un “plusprodotto”, ossia un prodotto netto. Pertanto, dietro l’apparente ana-

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logia, fra le due quantità di cui si compone la produzione complessiva c’è – osserva Schmidt – una differenza radicale. Ora, se il valore delle due quantità si calcola allo stesso modo (senza, cioè, tener conto della differenza appena emersa) il problema della contraddizione sottolineata da Engels non può essere evitato e risulta insolubile. Ma se i valori delle due quantità di prodotto (il prodotto e il plusprodotto) vengono calcolati in modo diverso, questo problema sparisce e i valori possono corrispondere ai prezzi di produzione, ossia a quei prezzi cui deve essere venduta la produzione di un certo ramo o settore industriale perché in esso si realizzi il saggio medio di profitto, vale a dire quello stesso saggio di profitto che – in regime, di mercato libero e di libera concorrenza – si deve realizzare in tutti i settori, perché possa esserci equilibrio tra di essi. Tuttavia, se il sistema di calcolo dei valori delle due parti in cui si divide, come abbiamo visto, il prodotto complessivo di un’industria, non è, appunto, lo stesso per ciascuna di esse, come può essere mantenuta la teoria del valore-lavoro? Tale teoria, in altre parole sembrerebbe, in questo caso, utilizzabile per calcolare i valori e i prezzi solo della prima delle due parti, mentre il calcolo di quelli della seconda dovrebbe basarsi, per poter essere coerente con le premesse, su un principio diverso. La soluzione offerta da Schmidt al problema così impostato è indubbiamente ingegnosa, e merita di essere presa in esame. Dal momento che il lavoro complessivamente necessario per dare corso alla produzione si può considerare come il suo costo, noi possiamo impostare la questione così: esiste un costo che il capitalista sostiene per produrre il plusprodotto, ossia per ricavare, dal processo produttivo, un prodotto netto? Se questo costo esiste e può essere determinato, esso corrisponderà, in termini di valore, al lavoro necessario alla produzione del plusprodotto, e questo non solo in perfetta coerenza con quanto sostiene la teoria del valore-lavoro, ma, in qualche modo, come sua conseguenza necessaria. Ora, secondo Schmidt questo costo esi-

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ste e può essere identificato con il capitale complessivamente anticipato all’inizio di un certo periodo di tempo e in seguito impiegato di nuovo per tutti i cicli produttivi che si svolgono nell’arco di quel periodo. La quantità di lavoro corrispondente al valore di questo capitale, moltiplicato per il tempo della sua durata in funzione è allora, in base a questo modo, senza dubbio originale e ingegnoso, di interpretare la teoria del valore-lavoro, il vero tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione del plusprodotto complessivo, ottenuto nel periodo indicato. Questo tempo di lavoro è ovviamente diverso da quello richiesto materialmente per la produzione del suddetto plusprodotto e proprio questa diversità consente, a giudizio di Schmidt, di calcolare il prezzo di ciascuna merce, tenendo conto delle due componenti distinte (prodotto e plusprodotto) comprese in essa, in modo coerente con il principio stabilito dalla legge del valore-lavoro e nello stesso tempo garantendo l’uniformità dei saggi di profitto nei diversi settori produttivi21. Questa coerenza fra teoria del valore e saggio medio di profitto sarebbe garantita, a parere di Schmidt, dall’uguaglianza della somma totale dei valori, calcolati in questo modo, con la somma totale dei prezzi, per quanto, rispetto alla singola merce, o meglio alle merci dei singoli settori produttivi, il prezzo e il valore si discostino di fatto l’uno dall’altro in misura variabile, a seconda dell’appartenenza della merce stessa alla parte della produzione globale costituente il plusprodotto o alla parte della stessa produzione nella quale si esprime quel determinato quantum di merce che ha le caratteristiche di prodotto. In altre parole, essendo la merce che appartiene ad una parte (per es. al plusprodotto) uguale, in ogni singola manifattura o ramo produttivo, a quella che appartiene all’altra (il prodotto), esse dovranno avere lo stesso prezzo pur essendo di valore diver21. Cfr. C. Schmidt, Il saggio medio del profitto e la legge marxiana del valore, tr. it. di M. Deichmann, Roma 1975, cap. II, pp. 75 e sgg.

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so. Ugualmente, se si considera la produzione sociale nel suo insieme, lo scambio fra settori merceologici diversi, mutuato dalla realizzazione, attraverso la vendita, del valore prodotto in ciascuno di essi, comporterà, in certi casi la cessione, a parità di prezzo, di più valore contro meno valore, in altri di meno valore contro più valore22. Abbiamo indugiato così a lungo nell’esposizione della soluzione data da Schmidt al problema proposto da Engels, perché, a nostro avviso, essa riveste una particolare importanza. Indubbiamente Engels ne dovette restare impressionato: nel suo lavoro Schmidt anticipava la soluzione che Marx aveva esposto nel III volume del Capitale e che consisteva nel dimostrare coincidenti le somme complessive dei prezzi e dei valori23. Inoltre, era giunto a scoprire – come rilevava lo stesso Engels nella sua già citata prefazione al tanto atteso III volume: “per proprio conto”24 – “l’esatta spiegazione data da Marx nella terza sezione di questo Libro in merito alla finora inesplicabile tendenza alla diminuzione del saggio di profitto”25. Ciò nonostante, l’ipotesi su cui Schmidt si era basato veniva respinta da Engels in modo molto deciso. Infatti, tale soluzione conduceva inevitabilmente al rovesciamento del presupposto che, nell’analisi di Marx, era alla base della teoria del valore: quello per il quale solo il lavoro umano sarebbe dotato della capacità di valorizzare i propri prodotti, ossia di creare, col valore d’uso, anche un valore di scambio e di aggiungere a questo un nuovo valore. Evidentemente, collegare il plusprodotto (e quindi il plusvalore) all’entità del capitale anticipato e al tempo del suo 22. Cfr. ivi, pp. 119-126. 23. Cfr. Il Capitale, vol. III, cit., cap. X, pp. 215 e sgg. 24. Ivi, p. 20. 25. Ibid. La scoperta “per proprio conto” della legge tendenziale di caduta del saggio di profitto ad opera di Schmidt occupa il cap. III del suo saggio, cit., pp. 127 e sgg.

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funzionamento, significava attribuire anche alle macchine e agli strumenti della produzione la capacità di essere produttivi ovvero, la capacità di produrre valore, non limitandosi quindi a riconoscere loro solo quella di trasferire al prodotto il valore corrispondente alla quantità di lavoro umano in essi “immagazzinata”. Ne è una prova evidente il fatto che, nell’ipotesi di Schmidt, capitali di uguale entità (e quindi, contenenti la stessa quantità di lavoro morto o di valore trasferibile) potevano produrre plusprodotti diversi in base alla diversità della loro efficienza e durata. Schmidt non era consapevole di quest’esito, almeno a giudicare da un’osservazione che egli lascia incidentalmente cadere nel corso della sua trattazione: “… Una cooperativa di lavoratori indipendenti […] non potrà mai dare ad una parte della produzione il carattere di plusprodotto, in quanto tutte le merci che una tale società offre sul mercato hanno richiesto dispendio di lavoro, e di un’uguale quantità di lavoro; non esiste in questo caso una parte del prodotto non gravata da costi, e solo come tale sarebbe plusprodotto”26. Schmidt, in altre parole, riteneva il rapporto fra plusprodotto e capitale anticipato, un semplice rapporto contabile. Tuttavia, diversamente da Marx, che vedeva in questo nesso contabile il frutto apparente di una deformazione ideologica del modo di pensare del capitalista27, per Schmidt questa rappresentazione della coscienza del capitalista aveva una funzione reale nella determinazione quantitativa del plusprodotto e del suo valore. Di qui la conseguenza che Engels traeva con estrema chiarezza: “La legge del valore è a priori in opposizione con la tesi, derivata dalla concezione capitalistica, secondo cui il lavoro passato, accumulato, in cui consiste il capitale, non sarebbe semplicemente una determinata quantità di valore finito ma, in quanto fattore della produzione e del processo produttivo 26.C. Schmidt, op. cit., p. 87. 27. Cfr. Il Capitale, vol. III, pp. 68-69.

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del profitto, anche generatore di valore, cioè fonte di ulteriore valore oltre quello che esso stesso rappresenta; la legge del valore afferma che tale proprietà spetta solo al lavoro vivente”. E concludeva in modo perentorio: “O il lavoro accumulato è creatore di valore al pari del lavoro vivente. E allora la legge del valore cade. Oppure tale proprietà gli manca. E in tale ipotesi la dimostrazione di Schmidt è incompatibile con la legge del valore”28. Il fatto è che, non appena apparso, il III volume del Capitale sollevò serie perplessità in alcuni e severe critiche da parte di altri e in primo luogo di Eugen von Böhm-Bawerk, rappresentante della scuola marginalistica austriaca29. Divenne ben presto dominante la convinzione che la “soluzione di Marx” fosse fittizia, che fra la teoria del valore-lavoro esposta nel primo volume della sua opera e quella dei prezzi di produzione proposta nel terzo non ci fosse alcuna compatibilità, e che questo rendesse l’intero sistema marxiano incoerente ed autocontradditorio. Riassunta nei suoi termini essenziali la questione si presentava così: posto che settori produttivi diversi, contraddistinti da una diversa composizione organica (ossia da un diverso modo di combinare mezzi di produzione e lavoro umano) dei capitali in essi impiegati, devono dare luogo a saggi di profitto diversi, e posto che, per le leggi della concorrenza, la trasmigrazione dei capitali dai settori meno redditizi a quelli più redditizi deve produrre un saggio di profitto medio, uniforme, comune a tutti i rami della produzione sociale, si deve avere come conseguenza che in numerosi settori le merci prodotte devono essere vendute ad un prezzo quantitativamente diverso (superiore in alcuni, inferiore in altri) rispetto al loro valore espresso in termini di tempo di lavoro necessario, per ottenere, in tutti, lo stesso saggio di profitto, cioè la 28. Il Capitale, vol. III, cit., p. 19. 29. Cfr. E. von Böhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen System, in Festgabe für Karl Knies, Berlin 1896.

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stessa redditività. La soluzione di Marx l’abbiamo in parte già anticipata: essa consiste nel rilevare che il saggio di profitto medio corrisponde, almeno idealmente, ad un settore industriale in cui i capitali investiti avrebbero una composizione media. In questo ipotetico settore i prezzi di produzione coinciderebbero con i valori, negli altri se ne discosterebbero per eccesso o per difetto, giungendo, di fatto, ad una compensazione reciproca che avrebbe, come conseguenza ultima, l’uguaglianza quantitativa della somma complessiva dei prezzi e di quella dei valori rispetto all’intera produzione sociale30. Marx prendeva in esame il caso di tre settori industriali: uno a composizione media, uno a composizione superiore alla media ed uno a composizione inferiore alla media. Egli non si poneva, però, il problema di definire una situazione di equilibrio, neppure in riferimento anche soltanto ad uno schema di riproduzione semplice (quello in cui la produzione serva solo a ripristinare le condizioni di una sua ripetizione a quantità immutate, ossia a reintegrare tutto ciò che viene consumato nel corso del suo processo, senza alcuna accumulazione o alcun incremento del capitale anticipato), e qualche interprete giunse ben presto a rilevare tale mancanza. Allestendo, pertanto, uno schema di questo tipo, e supponendo, di conseguenza e per semplicità, che i tre settori industriali dell’esempio assunto da Marx producano, uno mezzi e strumenti di produzione, uno merci-salario, cioè merci destinate al consumo operaio, ed uno beni di lusso, destinati al consumo di capitalisti e rentiers, una situazione di equilibrio si ha quando la somma dei prezzi dei prodotti del primo settore corrisponde alla somma dei prezzi di tutti i mezzi e gli strumenti di produzione impiegati nei tre settori, la somma dei prezzi delle merci prodotte dal secondo settore corrisponde alla somma dei salari versati ai lavoratori di tutti e tre i settori e la somma dei prezzi dei beni di lusso 30. Cfr. Il Capitale, vol. III, cit., cap. IX, in part. pp. 204 sgg.

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prodotti nel terzo settore corrisponde alla somma dei profitti complessivamente realizzati dalla classe capitalistica nell’insieme dei tre settori produttivi. È facile mostrare che se il calcolo si fa, come fa Marx, assegnando alle componenti dei capitali anticipati in ciascun settore un valore corrispondente alla quantità di tempo di lavoro impiegato nella loro produzione e ai prodotti di ciascun settore un prezzo complessivo calcolato sulla base del saggio medio di profitto, una situazione di equilibrio riproduttivo come quella dello schema descritto non si ottiene. Per ottenerla – e Marx ne era perfettamente consapevole, ma aveva trascurato di approfondire il problema – occorrerebbe assegnare anche alle componenti del capitale sociale complessivamente anticipato dei valori di scambio espressi in termini di prezzi. Se si fa questo, però, la somma totale dei valori e quella dei prezzi, di norma, non coincidono più31. È 31. La rapidità dell’esposizione cui siamo costretti ci impone il richiamo, a questo proposito, di due testi canonici: P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, tr. it. di L. Cerini e C. Napoleoni, Torino Einaudi 1951, cap. VII, v. in part. pp. 156 sgg.; e R. L. Meek, Studi sulla teoria del valore-lavoro, cit., pp. 174 e sgg., v. in part. pp. 178 sgg. Entrambi questi testi riassumono lo stato della questione fino all’intervento di L. von Bortkiewicz (sebbene Meek, nella Introduzione alla seconda edizione del suo libro si spinga a riconsiderare l’intero problema alla luce delle più recenti acquisizioni consentite dalla comparsa dell’opera di Sraffa, cfr. pp. XIV sgg.), intervento considerato da essi (e in particolare da Sweezy) conclusivo. Tale intervento è affidato a due celebri saggi: Calcolo del valore e calcolo del prezzo nel sistema marxiano e Per una rettifica dei fondamenti della costruzione teorica di Marx nel terzo volume del Capitale, l’uno e l’altro compresi nella silloge: L. von Bortkiewicz, La teoria economica di Marx, ed. it. a cura di L. Meldolesi, tr. di G. Panzieri Saija, Torino 1971, pp. rispett. 5-104 e 105-125. Nel dibattito suscitato dal tema sono tuttavia da ricordare almeno altri due interventi, che si può dire facciano, in un certo senso, da raccordo fra Bortkiewicz e Sraffa: quelli di J. Winternitz, Values and Prices: a Solution of the So-called Transformation Problem, “Economic Journal” 1948, e quello di F. Seaton, The Tranformation Problem, “Review of Economic Studies” 1957. La traduzione di entrambi è compresa nell’appendice alla seconda ed. it. del già citato volume di Sweezy, edizione che sostituisce con tale appendice la I

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evidente il problema che si apre a questo punto: per avere una situazione di equilibrio si deve definire il valore di scambio di ogni componente del capitale e del prodotto sociale complessivi o in termini di valore-lavoro (in questo caso, però, i saggi del profitto non saranno gli stessi in tutti i settori) o in termini di prezzo, ma non in modo misto. Questo vuol dire che il problema della trasformazione dei valori in prezzi cade e che è impossibile dimostrare la dipendenza dei secondi dai primi, cioè che è impossibile assumere la legge del valore di Marx come la regolatrice effettiva, in ultima istanza, degli equilibri economici di mercato: valori e prezzi definiscono due sistemi produttivi determinati e distinti, il secondo dei quali soltanto corrisponde a quello in vigore nelle società cosiddette “capitalistiche”. Ma se la teoria del valore-lavoro non è più il cuore segreto o la sostanza del sistema di produzione capitalistico, il I libro del Capitale ci parla, in realtà di un sistema diverso, il concetto di “plusvalore” e quello connesso di “sfruttamento”, perdono ogni applicabilità al caso della produzione capitalistica e l’intero impianto dell’analisi di Marx cade a pezzi32. Indubbiamente, non

parte dell’opera, proponendo, al suo posto, una raccolta di interventi critici sui problemi della teoria economica di Marx e in particolare sulle questioni sollevate dalla comparsa del III vol. del Capitale (cfr. La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino Boringhieri 1972, pp. 438-444 e 477-496). 32. Dopo la pubblicazione dell’opera di Sraffa, da alcuni considerata risolutiva dell’annosa questione, non sono mancati i rilievi di coloro che hanno sottolineato come dal sistema di equazioni proposto in Produzione di merci a mezzo di merci emerga un modello algebrico di soluzione, che, se soddisfa i requisiti di una risposta matematica al problema, rende del tutto indifferente e quindi arbitraria la scelta della “merce tipo” da assumere come misura dei valori, ponendo il suo prezzo uguale a 1 e ottenendo così un sistema ad n equazioni ed n incognite (ossia, un sistema nel quale, in linea di principio, i valori numerici delle incognite sono deducibili). In altri termini, questa “soluzione” salta a piè pari il problema dell’origine del plusvalore. Tra i contributi che hanno sottolineato questo aspetto, spicca quello di M. Rossi su Valori e prezzi (in Cultura e rivoluzione, cit., pp. 275-325:

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tutti i recensori e gli interpreti che intervennero dopo l’uscita del III volume del Capitale, giunsero a conclusioni così drastiche, e neppure fu immediatamente chiara la natura della difficoltà che minava l’affermazione di Marx relativa alla uguaglianza delle somme totali dei valori e dei prezzi, respinta da Böhm-Bawerk (l’unico a trarre subito la radicale conclusione che la teoria del valore di Marx fosse insostenibile e inapplicabile all’analisi della produzione economica reale) piuttosto per la sua genericità e tautologicità, ossia per la sua assenza di valore esplicativo, che per la sua inesattezza33. Fu però subito

p. 320). Non è forse un caso che dopo Sraffa si sia delineata una tendenza interpretativa che respinge in toto il problema della trasformazione e le sue pretese soluzioni algoritmiche. Oltre al già ricordato contributo di M. Rossi, si possono citare come esempi di una simile tendenza il saggio di R. Banfi, Uno pseudo-problema: la teoria del valore-lavoro come base dei prezzi di equilibrio, “Critica marxista” maggio-giugno 1965 (pp. 135-158) e il volume di N. Bellanca, al quale abbiamo già fatto riferimento, Economia politica e marxismo in Italia. A proposito di questa linea che rifiuta di ammettere l’esistenza stessa del problema in quanto tale, sebbene il rilievo da cui essa esplicitamente o implicitamente prende le mosse sia condivisibile (rilievo che potrebbe riassumersi in un’affermazione di Lucio Colletti, secondo la quale Sraffa avrebbe fatto, con il suo “revisionismo economico”, “un falò dell’analisi di Marx”: cfr. Il marxismo e Hegel, Bari 1971, p. 431), meno condivisibili sono le conseguenze che essa ne trae. In particolare Rossi non sembra rendersi conto del fatto che se la somma totale dei valori e quella dei prezzi non coincidono, il sistema verificherà, sul piano dei prezzi, l’esistenza di un valore eccedente, la cui origine non potrà essere ricondotta alla produzione ma solo alla circolazione e al mercato. In tal caso, non si vede come, alla fine, una simile conseguenza potrebbe evitare di risolversi in una vittoria dell’impostazione marginalistica. 33. Cfr. E. von Böhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen System, cit. (ne esiste una tr. it. a cura di G. Panzieri Saija nel volume collettaneo Economia borghese ed economia marxista, Firenze 1971); e la parte dedicata a Marx del I vol. dell’opera Kapital un Kapilalzins, uscita fra il 1884 e il 1889, dunque prima della pubblicazione del III vol. del Capitale, ma le cui edizioni successive erano state integrate con considerazioni relative alla soluzione marxiana del problema della trasformazione (esiste una tr. it. della parte

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chiaro a tutti che il terzo volume non si limitava ad integrare il primo ma modificava totalmente la sua impostazione e il suo apparato categoriale. A tal punto che Engels, il quale, come abbiamo visto, si era impegnato, nella prefazione, quasi esclusivamente a recensire con severità i vari tentativi fatti di raccogliere la sfida da lui lanciata nove anni prima, dopo le reazioni iniziali all’uscita del volume – soprattutto quelle di Werner Sombart e Conrad Schmidt – fu indotto a riprendere la penna e a pubblicare nella Neue Zeit delle considerazioni aggiuntive. Sombart, in un’ampia e favorevole recensione, nella quale definiva il III volume dell’opera di Marx un “classico” (“ein Standardwerk”), e lo dichiarava incomparabilmente superiore ai due precedenti34, era giunto alla conclusione che la teoria del valore fosse un “fatto del pensiero” privo di riscontro empirico (“sein Wert ist keine empirische, sondern eine gedankliche Thatsache”), uno strumento logico di cui ci serviamo per comprendere i fenomeni della vita economica35. Schmidt, da parte sua, avvedutosi del fatto che Marx, per giungere al risultato cui egli stesso era giunto nel 1889 dell’eguaglianza delle somme complessive di valori e prezzi per l’intero sistema economico, non aveva diviso il prodotto in due quantità i cui valori dovessero calcolarsi in modo diverso gli uni dagli altri, pur ribadendo la convinzione che la teoria del valore continuasse ad avere un significato euristico, perché consentiva di comprendere come mai il saggio medio del profitto si attestasse ad un certo valore percentuale piuttosto che ad un altro, definiva questa concernente Marx, desunta dalla terza ed. – del 1914 –; tale traduzione è stata pubblicata dalla “Rivista trimestrale” nel 1963 e poi riprodotta in appendice, alla citata ed. Boringhieri del volume di Sweezy, cfr. pp. 295-335, v. in part. pp. 333-34). 34. Cfr. W. Sombart, Zur Kritik der ökonomischen System von Karl Marx, in “Archiv für Soziale Gesetzgebung und Statistik”, VII (1894), pp. 555-594: p. 558. 35. Ivi, p. 574.

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teoria un’ipotesi scientifica semplificata rispetto alla realtà effettuale36, e in una lettera ad Engels che il destinatario diceva di essere stato autorizzato a citare, ribadiva tale convincimento, giungendo ad affermare che la teoria del valore era, in Marx, una finzione resa necessaria da ragioni teoriche37. Evidentemente, una volta abbandonata l’ipotesi che il valore di una parte del prodotto potesse calcolarsi, coerentemente con la teoria del valore, sulla base del capitale anticipato, ipotesi respinta da Engels e che non corrispondeva certo al metodo di trasformazione dei valori in prezzi adottato da Marx, non restava, agli occhi di Schmidt, altra possibilità che quella di considerare valori e prezzi rispondenti a due leggi e logiche diverse (quella dell’uguaglianza fra valore e tempo di lavoro umano, i primi, e quella dell’equilibrio concorrenziale di domanda e offerta i secondi) che potevano incontrarsi e confrontarsi solo sul piano dell’astrazione teorica e dell’esperimento mentale. Engels, elogiando gli sforzi di comprensione sia di Sombart sia di Schmidt, e trattando entrambi con considerazione e rispetto (le insolenze venivano, al solito, riservate anche in questo caso a Loria, e qui, per la verità, soltanto a lui), dichiarava, da un lato, “non inesatta” ma “troppo generica” la formula di Sombart sulla teoria del valore come “fatto mentale”, e, dall’altro (non senza contraddire in qualche modo questa affermazione, visto che i due concordavano, come si è già detto, nel sostenere il carattere astrattamente logico della teoria del valore), “niente affatto esatta” quella di Schmidt38. Per Engels, infatti, era vero che la teoria del valore si applicava correttamente solo ad un sistema economico sociale fondato sulla cosiddetta “produzione mercantile semplice”, non quindi al sistema capitalistico 36. In una recensione del terzo volume pubblicata nel febbraio 1895 dal “Sozialpolitisches Zentralblatt” (citata da Engels: cfr. Il Capitale III, p. 34). 37. Cfr. Il Capitale III, p. 34. 38. Ibid.

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come tale39, ma questo sistema mercantile semplice rappresentava il precedente storico del capitalismo e il passaggio che portava da una forma all’altra non era soltanto un processo logico-scientifico, ma altresì un processo reale, dispiegatosi nel tempo40. La legge del valore, per Engels come per Marx, continuava dunque ad operare, sia pure in modo invisibile, cioè come sostanza nascosta, entro la forma di produzione capitalistica, esattamente come il sistema mercantile semplice (del quale il modo di produzione fondato sull’accumulazione privata e sull’anticipazione di capitale da parte dei detentori della ricchezza rappresentava non un genere diverso, ma solo una forma più evoluta e complessa). Questo, nelle sue linee essenziali, lo stato della questione nel momento in cui, tra il 1896 e il 1897, Croce si imbatte in essa.

3. Croce e l’interpretazione della teoria del valore-lavoro. La prima domanda che dobbiamo porci, nell’affrontare l’esame dell’interpretazione proposta da Croce della teoria del valore di Marx, è quella di quanto e di che cosa, del dibattito svoltosi in Europa prima e dopo l’uscita del III volume del Capitale, gli fosse noto, e di quale fosse, nell’insieme, l’ampiezza della sua informazione nel campo della scienza economica. Le uniche fonti di cui disponiamo per rispondere a questa domanda sono le citazioni che troviamo nelle note e nei testi raccolti nel volume sul marxismo, le notizie autobiografiche ricavate dal Contributo alla critica di me stesso e dall’insieme di “appunti” che fece da base all’autoricostruzione biografica svolta nel Contributo, cioè le Memorie della mia vita, l’elenco delle

39. Cfr. ivi, pp. 38-39. 40. Cfr. ivi, pp. 34 sgg.

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opere presenti nella sua biblioteca, e le lettere inviategli da Labriola (quelle di Croce a Labriola, sono, come è noto, salvo un numero piuttosto esiguo, andate perse). Per questa fase dell’attività di Croce, come si sa, non è possibile utilizzare quel prezioso strumento di ricostruzione storica che è rappresentato dai Taccuini di lavoro, nei quali Croce verrà annotando, ma solo in seguito – a partire dal 1906 – tutti i progressi del suo pensiero e delle sue letture. Possiamo quindi incominciare a dare una risposta alla domanda formulata all’inizio di questo paragrafo ricordando la testimonianza autobiografica affidata alle Memorie della mia vita. Qui si dice che gli studi economici, sollecitati dall’interesse per il marxismo, stimolato, a sua volta, dalla lettura dei saggi di Labriola, ebbero inizio nel 1895 e durarono circa un anno (dalla primavera del 1895 a quella del 1896). Nel corso di questo anno Croce avrebbe affrontato principalmente i classici dell’economia, passando poi a Marx e da questo agli indirizzi più moderni della scienza economica. L’indicazione di un arco di tempo abbastanza esiguo come quello rappresentato da un anno che compare in questa ricostruzione non va evidentemente presa alla lettera: sebbene egli stesso dichiari che “essendo già pratico negli studii” gli riuscì, in quella circostanza, di “impadronirsi della letteratura sull’argomento e di orientarsi nei suoi problemi” molto rapidamente41, è ovvio che il periodo indicato si riferisce solo

41. Cfr. B. Croce, Memorie della mia vita, Napoli 1992, p. 20. Nel Contributo, la versione fornita è assai simile: vi si parla di “più mesi” nel corso dei quali egli si sarebbe dato “con ardore indicibile” allo studio, fino ad allora per lui del tutto ignoto, dell’economia politica e della meraviglia di Labriola di fronte alla sicurezza con la quale lui (Croce) in così breve tempo, senza l’ausilio di manuali e di opere divulgative, ma rivolgendosi, piuttosto, direttamente ai “principali classici di quella scienza” e leggendo “tutto ciò che di non volgare” era reperibile “nella letteratura socialistica”, si venne a trovare “affatto orientato” (cfr. Contributo alla critica di me stesso, in Etica e politica, Bari 1967, p. 329).

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alla fase “preparatoria”, nella quale Croce svolse un lavoro di documentazione e informazione, prima di mettersi a scrivere, ma non, come è chiaro, alla durata complessiva del tempo da lui dedicato all’approfondimento di questo genere di questioni. Per quanto concerne poi le opere che egli ebbe effettivamente modo di leggere e approfondire in questa fase, possiamo dire quanto segue. A proposito della scuola marginalistica, che pure lo influenzerà in modo notevole, non è chiaro se e in che misura la sua informazione fosse di “prima mano”: gli unici autori citati nel volume sul materialismo storico sono Böhm-Bawerk, Jevons e Gossen, ma gli ultimi due una sola volta e in modo generico, il primo tre volte e in nessuna di esse facendo esplicitamente riferimento a qualche sua opera, salvo in un caso: quello in cui compare un riferimento esplicito al saggio Zum Abschluss des Marxschen System. In questa circostanza, però, la citazione serve a Croce solo per ammettere onestamente una lacuna del proprio aggiornamento scientifico, dovuta al fatto che non gli era stato possibile prendere visione di questo contributo, allora appena pubblicato, di un autore che si era già fatto conoscere come il più agguerrito fra i critici di Marx42.

42. Cfr. Materialismo storico…, p. 57, n. 1. Di questi tre autori, l’unico di cui sono presenti alcune opere nella biblioteca di Croce è Jevons, del quale Croce possiede The Principles of Science, London 1879; The Theory of Political Economy, London 1879; e Economia politica, Milano 1893 (la breve ricerca che mi ha permesso di acquisire queste informazioni è stata condotta, per mio conto e in via amichevole, dal dott. Maurizio Tarantino, bibliotecario dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, che qui colgo l’occasione di ringraziare cordialmente per questa come per altre notizie che devo alla sua sollecitudine e alla sua cortesia). È bene ricordare, al riguardo, che, nonostante la vastità e la ricchezza della propria biblioteca personale, Croce fu sempre un frequentatore assiduo delle biblioteche pubbliche, in particolare della Nazionale di Napoli e, dal momento in cui divenne senatore del Regno (26 gennaio 1910), di quella del Senato. Pertanto – come del resto è ovvio non solo nel suo caso, ma in quello di qualsiasi studioso – il fatto che non

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È abbastanza verosimile, dato anche il modo in cui la cita – ricorrendo uniformemente alla definizione di “scuola edonistica” –, che le posizioni della scuola austriaca e, in generale, dei marginalisti, gli fossero note essenzialmente attraverso la mediazione di Pantaleoni e Pareto, che Croce teneva in una considerazione ben diversa da quella in cui li teneva Labriola43. Veniamo al dibattilo specifico sul III volume del Capitale: Croce conosce il saggio di Sombart; la prefazione di Engels e lo scritto Ergänzung und Nachtrag zum III. Buche des “Kapital” pubblicato da quest’ultimo nella Neue Zeit; due saggi di Sorel: Sur la théorie marxiste de la valeur, uscito nel Journal

possedesse le opere di un autore non può comunque garantire che non ne avesse una conoscenza diretta. 43. L’atteggiamento di Labriola, documentabile attraverso le lettere a Croce, nei confronti di Pantaleoni in particolare, assume un tono per lo più infastidito e sprezzante (che del resto contraddistingue molti dei suoi giudizi su contemporanei) solo a partire dagli anni ’97-’98. Prima esso appare, generalmente, abbastanza amichevole, anche perché Pantaleoni era stato, con Colajanni, l’autore della denuncia fatta ai giornali dell’esistenza di una relazione segreta in possesso del governo sugli illeciti della Banca Romana, denuncia dalla quale era scaturito il famoso scandalo. A proposito di questa vicenda è interessante confrontare due lettere di Labriola a Croce, quella del 20 dicembre 1894 e quella del 14 gennaio 1896, nella prima delle quali Labriola chiede a Croce notizie di un articolo apparso sul Mattino di Napoli, in cui, secondo un’informazione avuta, sarebbe stato fatto il suo (di Labriola) nome, indicandolo come “il primo provocatore o suggeritore del Colajanni nel promuovere tutto questo ben di Dio”. Nella lettera Labriola dà l’impressione di stupirsi della notizia, facendo intendere che era fantasiosa: “Vedo di rado il Mattino. Tempo fa vi lessi un articolo contro il Colajanni, nel quale si parlava di persone in genere che avrebbero istigato due anni fa il Colajanni, per poi nascondere la mano. Può darsi che tutto si riduca a ciò, e che il mio informatore con fantasia napoletana abbia aggiunto il nome dove non c’era” (cfr. A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce. 1885-1904, Napoli 1975, p. 61). Nella seconda, invece, Labriola conferma il ruolo avuto nella vicenda: “Come saprai quel Pantaleoni fu il primo che per mezzo mio e poi del Colajanni iniziasse le rivelazioni su gli scandali bancarii” (Ivi, p. 93).

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des économistes nel 1897 e Nuovi contributi alla teoria marxistica del valore, pubblicato in italiano sul Giornale degli economisti del 189844; il saggio di Vilfredo Pareto Il Capitale (citato da Croce come Introd. critica agli Estratti del Capitale del Marx45) che costituisce la traduzione italiana della prefazione di Pareto ad un volume di estratti dal primo libro del Capitale pubblicata in Francia a cura di P. Lafargue nel 189346 e poi in Italia nel 1894. Non conosce direttamente né il saggio di Böhm-Bawerk Sulla conclusione del sistema di Marx (come abbiamo già visto, per sua esplicita ammissione) né i lavori di Conrad Schmidt (che infatti non cita mai, riferendosi una volta sola e in modo del tutto generico al loro autore, del quale doveva avere una conoscenza mutuata quasi esclusivamente dalle affermazioni di Engels e da quelle di Sombart, contenute nei testi che abbiamo ricordato poche righe più su47). Quanto al Capitale, Croce fa riferimento, ripetutamente, al primo volume, mai – se non andiamo errati – al secondo e una sola volta al terzo nell’edizione originale tedesca, mentre cita diverse volte un opuscolo nel quale Pasquale Martignetti aveva tradotto e 44. Quindi, posteriore alla pubblicazione del saggio più importante di Croce sull’argomento, del quale, d’altra parte, Sorel, in questo contributo, si avvale con larghezza. 45. Cfr. Materialismo storico…, p. 74 n. 1. 46. Cfr. Pareto, Introduction à Karl Marx, Le capital. Extraits fait par Paul Lafargue, Paris 1893. 47. In proposito, è interessante il fatto, e va sottolineato – ci torneremo in seguito –, che le critiche rivolte da Engels soprattutto al volume di Schmidt sul Saggio medio di profitto e la legge marxiana del valore non abbiano in nessun modo attirato l’interesse di Croce su questo studioso e sulla sua opera, tanto è vero che dopo averle lette non solo egli non si procurò il libro – come del resto nessun altro scritto di Schmidt, che è infatti un autore completamente assente dalla sua biblioteca – ma neppure si riferì mai a qualche suo contributo specifico, limitandosi a ricordare Schmidt come un più timido predecessore di Sombart nell’affermazione del carattere puramente logico della legge del valore-lavoro (cfr. Materialismo storico…, p. 57).

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raccolto, con i due testi di Engels (la prefazione e le aggiunte) riguardanti questo volume, alcuni brani da esso estratti48. Era necessario fare il punto sullo stato dell’approfondimento, da parte di croce, delle questioni trattate soprattutto nella nota del saggio dedicato a Loria riguardante la teoria del valore e nel saggio sull’Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, poiché nell’interpretazione che egli delinea in questi due testi della legge marxiana del valore-lavoro sono

48. Dal terzo volume del Capitale di Carlo Marx, prefazione e commenti di Federico Engels, tr. di P. Martignetti. Pasquale Martignetti era un modesto impiegato della camera notarile, di cui Labriola, evidentemente per ragioni di affinità politica – Martignetti era socialista –, si era preso a cuore la sorte, raccomandandolo a Croce, che era intervenuto con un aiuto economico (cfr. Antonio Labriola, Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 39-40). In seguito, Martignetti, entrò, grazie a Turati, in rapporti con Francesco Saverio Nitti, rapporti che, tuttavia, divennero ben presto critici a causa di una traduzione commissionata a Martignetti dalla casa editrice Treves per l’interessamento di Nitti, che venne però rifiutata all’atto della consegna. Per tutta questa complicata vicenda, che coinvolse anche Labriola (come protettore di Martignetti) e Croce (che era amico di Nitti), cfr. le lettere del primo al secondo (cit., pp. 44-47, vi è traccia della faccenda anche nel carteggio fra Martignetti ed Engels, compreso in Marx e Engels, Corrispondenza con italiani, Milano 1964). Martignetti è chiamato in causa nel carteggio Labriola-Croce diverse altre volte, e sempre con spirito protettivo (salvo forse nel caso in cui si fa riferimento all’impegno che egli si era assunto di tradurre il libro di Paul Lafargue – altro personaggio inviso a Labriola –, su Campanella, cfr. lettere 125 e 138). In particolare, in una lettera del 20 dic. 1896, Labriola sottolinea il fatto che: “Sul III° vol. del Capitale, e su le traduzioni di Martignetti fu organizzata la lega del silenzio” (op. cit., p. 181). Può darsi che Croce sia stato indotto ad usare prevalentemente il riferimento alla traduzione di Martignetti (ove possibile) nelle sue note da questa osservazione di Labriola, anche se non si può del tutto escludere che, nonostante la conoscenza che egli aveva della lingua tedesca, data la rapidità con la quale si era dovuto impadronire della materia, almeno per il terzo volume dell’opera di Marx, egli avesse fatto una lettura “selettiva” (più attenta, cioè, a certe parti che ad altre), aiutandosi, in quest’opera di selezione, con l’opuscolo curato da Martignetti.

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presenti in eguale misura suggestioni ed equivoci, che contribuiranno a definire il profilo dell’evoluzione del suo pensiero, con riguardo, in primo luogo, ma non solo, ai temi della filosofia pratica, e che, dunque, devono essere esaminati con particolare attenzione. La prima definizione del significato che secondo Croce deve essere attribuito alla teoria del valore formulata da Marx si incontra, come abbiamo appena ricordato, in una lunga nota inserita nel saggio dedicato a Loria49. In questa nota Croce esordisce dicendo che A parlare propriamente, la teoria proposta da Ricardo e perfezionata dal Marx non è una teoria generale del valore, ossia non è propriamente una teoria del valore. Questa teoria generale è invece l’assunto della scuola edonistica o austriaca. Che cos’è, dunque, la concezione del valore nel Capitale del Marx? È la determinazione di quella particolare formazione di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica. È, insomma, il paragone fra due valori particolari. Questo paragone ellittico forma una delle principali difficoltà per la comprensione dell’opera di Marx. In pura economia, il valore di un bene è uguale alla somma degli sforzi (pene, sacrifici, astensioni, ecc.) che sono necessari per la sua riproduzione […] È impossibile giungere mai, per deduzione puramente economica, a restringere il valore delle merci solo al lavoro e ad escludere da esso la parte del capitale, e quindi a considerare il profitto come nascente dal sopralavoro non pagato, e i prezzi come derivazione dai valori reali per effetto della concorrenza tra i capitalisti; se non si tenga a riscontro, come tipo, un altro valore particolare, quello cioè che avrebbero i beni aumentabili col lavoro in una società in

49. Cfr. Materialismo storico…, pp. 31-32.

355 cui non esistessero gli impedimenti della società capitalistica e la forza lavoro non fosse una merce.50

Il primo punto che richiede un chiarimento per poter accedere alla comprensione del significato di questo lungo brano, significato tutt’altro che immediatamente desumibile da una prima lettura, consiste nella negazione con la quale esso ha inizio: la teoria del valore-lavoro non è una teoria generale del valore, dunque non è, propriamente, una teoria del valore. L’implicito di questa affermazione è rappresentato dal convincimento che una teoria del valore, per essere veramente e propriamente tale, deve essere una teoria generale del valore. Vale a dire una teoria in grado di abbracciare il valore (economico) in tutte le sue espressioni e manifestazioni, in grado, cioè, di abbracciare il fenomeno “valore” come tale. Ma perché la teoria del valore-lavoro non sarebbe una teoria di questo genere, perché non avrebbe queste caratteristiche? Perché essa, considerando il valore solo come prodotto del lavoro umano, potrebbe rendere conto tutt’al più del valore di quei beni che sono il risultato di un processo produttivo, che sono cioè dei “prodotti”. La terra, la fertilità del suolo, ciò che si trova in natura può essere posseduto e dunque anche scambiato. Ha pertanto un valore. Ma non può essere prodotto né riprodotto per mezzo del lavoro51. Ci sono beni che in condizioni normali

50. Ibid. 51. Che il senso da attribuire alla formula crociana, secondo la quale la teoria del valore di Marx non sarebbe una teoria generale del valore, sia questo risulta con assoluta chiarezza da quanto Croce afferma, per es., a p. 125 del volume sul Materialismo storico, nel contesto del saggio Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, dove si dichiara espressamente quanto segue: “l’opposizione è da me additata tra un’ipotetica società lavoratrice, ossia tale che tutti i suoi beni siano prodotti di lavoro, e una società economica bensì, ma non esclusivamente lavoratrice, perché godente di beni dati naturalmente accanto a quelli prodotti dal lavoro”. Questa critica alla teoria del valore di Marx, fondata sulla

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sono disponibili illimitatamente, e dunque sono privi di valore, ma in determinate condizioni possono diventare scarsi o rari e acquistare un valore in modo del tutto indipendente dall’intervento di qualsiasi attività umana volta a procacciarli. Per beni di questo tipo la teoria del valore non serve, non ha carattere esplicativo, perché non consente di rendere conto del fatto, peraltro incontestabile, che essi hanno un valore economico, che un valore economico, cioè di scambio, viene ad essi attribuito e riconosciuto. Occorre, però, fare attenzione: Croce non intende dire che la teoria del valore si applica validamente solo ai beni procurabili per mezzo del lavoro, ma piuttosto che proprio il suo non potersi applicare, comunque e per definizione, che a questa sola categoria di beni basta ad escludere la possibilità che essa sia una teoria generale del valore, e quindi un’autentica teoria del valore, il che vuol dire: basta ad escludere la possibilità che essa si applichi, realmente, ad un bene qualsiasi, tanto nel caso che la sua esistenza dipenda quanto in quello che non dipenda dall’impiego o dispendio di lavoro umano. Che significato attribuire, allora, all’affermazione che “la concezione del valore di Marx è la determinazione di quella particolare formazione di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica”? Una risposta plausibile a questa domanda richiede, come prima condizione, che si possa identificare la società “ipotetica e tipica” cui Croce fa riferimento in questo passo. Essa, a giudicare da quello che Croce dice, per sua applicabilità solo alle “merci” e non anche ai “beni” economici, risale a Böhm-Bawerk e alla sua analisi della Teoria dell’interesse in Marx, condotta nella prima parte (Geschichte und Kritik der Kapitalzins-Theorien) del suo Kapital und Kapitalzins (cfr. la tr. it. delle pagine dedicate a Marx e riprodotta nella già richiamata appendice a Sweezy, op. cit., ed. 1972, pp. 312-13).

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descriverla, qui – nel corpo della nota appartenente al saggio su Loria, le cui righe più significative sono state appena citate per esteso – e nel saggio successivo, sarebbe una società nella quale l’uguaglianza del valore con il tempo di lavoro verrebbe applicata come regola generale degli scambi. Ciò vuol dire, alla luce di quanto abbiamo detto prima, una società in cui avrebbero valore (e sarebbero, quindi, scambiabili) solo i beni producibili e riproducibili ad opera del lavoro umano. Ma, come Croce chiarisce nella parte conclusiva del brano citato, la società “ipotetica e tipica” alla quale egli pensa è definita anche da altre due condizioni: l’assenza degli impedimenti caratteristici di una società capitalistica e il fatto che in essa la forza-lavoro non dovrebbe assumere la forma di una merce. Queste tre condizioni insieme delineano un’ipotesi di società abbastanza determinata: si tratta di una società nella quale i beni (come la terra e le risorse naturali), la cui esistenza non è il risultato di uno sforzo produttivo (e dunque del lavoro), sono proprietà collettiva; nella quale il lavoratore non vende se stesso, cioè la sua forza-lavoro; e nella quale, non esistendo gli impedimenti tipici del sistema capitalistico (ossia la proprietà dei mezzi di produzione concentrata nelle mani dei possessori di capitale), i lavoratori sarebbero gli unici proprietari dell’intero frutto del loro lavoro e gli unici titolari del diritto di scambiarlo con il frutto del lavoro altrui. Assumendo come criterio di valutazione o modello una società di questo genere, la società capitalistica deve allora apparire come una forma di società nella quale il profitto equivale ad una certa quantità di lavoro non retribuito, e i prezzi si discostano dai valori per effetto della concorrenza fra capitalisti. In altre parole, Marx opererebbe, con la teoria del valore, una doppia astrazione. Prima, astraendo dalla concreta società capitalistica alcuni tratti, isolandoli, e definendo, sulla loro base, una legge per la quale il valore economico dei beni corrisponde alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. Poi, reintroducendo (in quel

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contesto astratto, che così da contenuto diventa contenente) i caratteri propri del sistema economico fondato sulla proprietà privata del capitale. Il risultato euristico di questo confronto implicito (o ellittico) sarebbe quello di fare emergere, dall’analisi dell’economia capitalistica, quelle contraddizioni che altrimenti resterebbero nascoste52. Se questo è il significato dell’interpretazione data da Croce alla teoria del valore di Marx, bisogna, allora, svolgere, in proposito, qualche considerazione. La prima è che la ‘‘società lavoratrice” di cui parla Croce non è una società storica come quella “mercantile semplice” alla quale Engels, nelle proprie Considerazioni supplementari postume destinate ad integrare la sua prefazione al III volume del Capitale, riduce la validità effettiva della teoria del valorelavoro, anche se ha significativi punti di contatto con questo tipo di società. Lo schema che ha in mente Croce sembra, piuttosto, affine ad un altro modello, ugualmente ipotetico ed astratto: nel X cap. del III volume della sua opera fondamentale – il capitolo che, proseguendo l’analisi iniziata nel IX, af-

52. In realtà. Croce non parla di “contraddizioni”, ma in un passo del saggio del ’97 (Per la interpretazione e la critica ecc., cit.) dice che “i contrasti degli altri fatti con questa legge (ossia dei fatti reali con l’ipotesi astratta) sono stati minori in numero ed intensità nel comunismo primitivo e nell’economia medioevale e domestica, laddove hanno raggiunto il massimo nella società fondata sul capitale privato e sulla più o meno libera concorrenza mondiale” (ivi, p. 64). Dunque, il senso e lo scopo del paragone ellittico consiste nel fare emergere questi contrasti, e, visto che nel passo immediatamente successivo a quello appena citato (ivi, p. 65) Croce dice che, “nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore col lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica” Marx “istituiva paragone della società capitalistica con una parte di se stessa, astratta e innalzata ad esistenza indipendente”, il contrasto messo in luce dal paragone ellittico è, per Croce, un contrasto interno al sistema economico capitalistico, un contrasto di tale sistema con se stesso, ossia, in altre parole, una contraddizione.

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fronta il problema del rapporto fra valori e prezzi alla luce del processo per il quale, in una società capitalistica, le leggi della concorrenza tendono a produrre un livellamento dei diversi saggi di profitto riscontrabili nelle diverse sfere della produzione di merci ad un saggio medio generale di profitto – Marx parte da un’ipotesi semplificatrice53, quella “che gli operai siano essi stessi proprietari dei loro rispettivi mezzi di produzione e scambino reciprocamente i loro prodotti”. In questo caso, osserva Marx, se il tempo di lavoro da essi impegnato nelle relative produzioni fosse lo stesso, essi dovrebbero ricavare, dalla propria giornata lavorativa, lo stesso reddito. Il fatto che il tipo di produzione dell’uno, differenziandosi, per questo aspetto, dal tipo di produzione dell’altro, richieda, supponiamo, mezzi di lavoro più sofisticati e costosi, non avrà alcuna incidenza sull’uguaglianza dei ricavi netti, perché vorrà solo dire che la diversa massa di valore corrispondente alla produzione di A rispetto a quella di B conterrà una diversa quota destinata a reintegrare il capitale anticipato da ciascuno sotto forma di strumenti di lavoro e materie prime, ma lascerà immutata la quota di valore aggiunto o di nuovo valore prodotto, che sarà la stessa per entrambi. Nella situazione descritta, conclude Marx, ciò che conta è il saggio di plusvalore, che deve essere il medesimo per i due tipi di prodotti e di produzioni, non il saggio di profitto, che è, ovviamente diverso, ma nella sua diversità, ininfluente. Tutt’altra cosa accade, ovviamente, nel caso in cui ad anticipare all’operaio i mezzi di lavoro (strumenti e materie prime) sia il capitalista. In questa eventualità (che è poi quella che corrisponde alla situazione reale di un sistema economico di tipo capitalistico) il saggio del profitto acquista tutta la sua importanza e diventa decisivo, mentre regredisce sullo sfondo il peso del saggio del plusvalore. Per il capitalista, infatti, ciò

53. Cfr. Il Capitale, vol. III, cit., pp. 218-19.

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che conta è il rapporto fra il suo ricavo netto e il capitale complessivamente anticipato, cioè, appunto, il saggio di profitto. A questo passo del capitolo X del terzo volume del Capitale fa riferimento anche Sombart54. Ora, è chiaro che l’ipotesi semplificatrice introdotta in questo caso da Marx per chiarire con un esempio il senso del suo discorso ha dei punti di contatto con quella forma di produzione che si suole definire “mercantile semplice”, ma anche rispetto a questa risulta estremamente semplificata. Non è quindi affatto improprio attribuire a Marx, in proposito, l’intento di operare, attraverso una pura ipotesi astratta, un confronto (neppure tanto implicito, per la verità) fra la situazione teorica derivante da questa astrazione ipotetica e la situazione reale di un sistema economico di tipo capitalistico55. Ma il fatto è che un simile confronto non costituisce in nessun modo per Marx, come invece suppone Croce, la base o il fondamento dell’applicabilità della teoria del valore ad un sistema sociale (quello capitalistico) al quale, se esso venisse considerato per se stesso, tale concezione risulterebbe non solo estranea (come di fatto, sotto il profilo ideologico, già è) ma assolutamente inapplicabile, perché incongruente con la natura stessa del sistema. Il valore, dal punto di vista che guida e sostiene la concezione di Marx, agisce come l’essenza nascosta della produzione capitalistica. Quell’essenza che la dinamica concorrenziale dei prezzi e il modo in cui essi vengo54. Cfr. Zur Kritik des ökonomischen Systems von Karl Marx, cit., p. 563. 55. Perciò un marxista come R. Meek poteva, ancora nel 1956, esaminando le critiche più rilevanti rivolte alla teoria del valore-lavoro dal momento del suo apparire, dichiarare, parlando dell’interpretazione di Croce, “vero in un certo senso – seppure assai tenue –” il fatto che dopo aver preso in considerazione, inizialmente, “la società basata sulla produzione mercantile in quanto tale, astraendo da ‘tutte le distinzioni di classe’”, Marx avesse elaborato un’analisi che poteva essere considerata come “uno studio ‘comparato’ tra questa società astratta e quella capitalistica pienamente sviluppata”, cfr. Studi sulla teoria del valore-lavoro, cit., p. 209.

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no calcolati sulla base del saggio medio di profitto possono solo nascondere o dissimulare, ma che non possono né snaturare né neutralizzare (come dimostrava, ai suoi occhi, il fatto che, in definitiva, le somme complessive dei valori e dei prezzi, dei plusvalori e dei profitti, risultassero, nel suo sistema di calcolo, coincidenti). Perciò, se di confronto o paragone si vuole ancora parlare a proposito del concetto di valore-lavoro, occorre chiarire che tale confronto non è, per Marx – come, invece, e per Croce – un confronto fra realtà diverse (una effettiva e l’altra ipotetica), ma un confronto fra l’apparenza e l’essenza della stessa realtà56. Da questo punto di vista, l’interpretazione che Croce fornisce della legge del valore rappresenta un completo fraintendimento delle intenzioni e del pensiero di Marx, come pure del senso e dello scopo che egli attribuiva alla sua analisi

56. Il fatto che Croce non si renda conto di questa differenza fra l’impostazione di Marx e la propria spiega perché, pur essendo la sua interpretazione influenzata dai dibattito prodottosi in seguito alla pubblicazione del terzo volume del Capitale e dal problema del rapporto fra valori e prezzi, egli non accenni qui neppure indirettamente alla questione della “trasformazione” (dei primi nei secondi) e alle sue difficoltà, e perché in un altro contesto affermi espressamente che la soluzione data da Marx al problema sarebbe del tutto soddisfacente e persuasiva, addirittura in qualche modo obbligata, se si assumessero per buone le premesse a partire dalle quali egli (Marx) svolgeva il suo ragionamento (e cioè, essenzialmente, la teoria del valore-lavoro intesa come teoria generale del valore). Il contesto diverso – nel quale Croce afferma in sostanza che non si tratta di desumere dal fallimento della soluzione tentata da Marx l’insostenibilità della sua teoria del valore, ma, al contrario, di dedurre, dall’improponibilità di questa (della teoria marxiana del valore-lavoro) come teoria generale del valore il non-senso di qualsiasi tentativo di ricavare i prezzi dai valori – e rappresentato dalla relazione, relativa alle memorie concorrenti all’assegnazione del “Premio Tenore” bandito dall’Accademia Pontaniana (a proposito del quale e della vicenda ad esso relativa si veda l’Appendice), che Croce lesse ai membri dell’Accademia nella tornata del 5 febbraio 1899, e che si trova pubblicata nel volume XXIX degli “Atti” accademici (cfr. p. 14).

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della società capitalistica57. La cosa appare del tutto evidente 57. A proposito del fatto che per Marx la legge del valore-lavoro rappresenta il criterio regolatore degli scambi anche nella società capitalistica, fa fede quanto egli afferma a proposito di Adam Smith nel I vol. delle Theorien über den Mehrwert (riguardo alle quali, v. la n. successiva). La tesi di Marx è che Smith avrebbe per primo individuato l’origine del plusvalore della differenza fra la quantità di lavoro vivo che viene “comandata” dal lavoro morto e viceversa la quantità di lavoro morto (o oggettivato) che viene “comandata” dal lavoro vivo. In generale, diversamente da ciò che accade nelle società mercantili precapitalistiche, dove due quantità di lavoro si scambiano sempre su un piano di parità, indipendentemente dal loro essere quantità di lavoro vivo o di lavoro oggettivato, nel sistema di produzione capitalistico – nel quale il lavoro è separato dalle sue condizioni e la proprietà di queste dalla proprietà della forza lavorativa – una certa quantità di lavoro oggettivato “comanda”, come dice Smith, sempre (ossia si scambia con) una quantità maggiore di lavoro vivo. Ma se Smith ha interpretato questa differenza fra le due forme sociali, desumendone la tesi che con l’avvento del sistema di produzione fondato sulla detenzione della proprietà privata del capitale da parte della classe dei non-lavoratori le merci non si sarebbero più scambiate in base al tempo di lavoro necessario a produrle, per Marx, come per Ricardo, ciò che cambia, in questo caso, è solo l’equivalenza fra “quantità di lavoro” e “valore del lavoro”, perché con la separazione del lavoro dalle sue condizioni anche il lavoro diviene una merce. Questo, però, non significa che la legge del valore cessi di esercitare la sua funzione. Al contrario, significa che il lavoro vivo deve essere acquistato anch’esso in base al tempo di lavoro che richiede la sua produzione, come qualsiasi altra merce. Insomma, per Marx, con l’avvento della società capitalistica, la legge del valore, lungi dal perdere significato, si generalizza al punto di estendersi, senza eccezioni, a tutta la sfera degli scambi (cfr. Teorie sul plusvalore, tr. it. di G. Giorgetti, Roma 1971, vol. I, pp. 163-66). È, quindi, completamente estranea all’orizzonte di pensiero di Marx anche l’interpretazione “difensiva” che della teoria del valore propone Engels nelle già ricordate Considerazioni supplementari. A giustificazione di Engels e dell’equivoco nel quale sembra, in proposito, essere incorso, si possono però addurre due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il fatto che egli non doveva avere una cognizione precisa del contenuto delle Teorie sul plusvalore, visto che non era arrivato, nella sua opera di editore del Capitale, oltre il terzo volume, e che, quindi, doveva aver condotto una lettura attenta dello smisurato canovaccio lasciato dall’amico scomparso solo fino a questo punto. In secondo luogo, la difettosità del sistema di calcolo dei prezzi a partire dai valori proposto nel III volume

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se si prende in esame il significato che, come conseguenza di questa interpretazione del concetto di “valore”. Croce attribuisce alla categoria marxiana del plusvalore, la cui origine è, indiscutibilmente, l’oggetto che Il Capitale si prefigge di spiegare e intorno al quale ruota tutta l’analisi del primo libro e l’intero impianto dell’opera58. Alla luce dell’interpretazione della teoria del valore come “paragone ellittico”, Croce, nel saggio dedicato alla Interpretazione e critica di alcuni concetti del marxismo, afferma che “solo in forza di questo procedimento […] il Marx poté giungere a porre e definire l’origine sociale del profitto, ossia del sopravalore” e continua notando che «sopravalore», in pura economia, è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore è un extravalore, ed esce fuori potrebbe averlo spinto a ridimensionare intenzionalmente (rispetto a quella che sapeva essere la posizione effettiva di Marx) il peso ed il ruolo della teoria del valore. 58. Basti a dimostrarlo, ricordare che secondo il piano originario di Marx la sua opera doveva dividersi in quattro volumi, i primi tre di carattere teorico e l’ultimo di carattere storico. In questo “quarto volume” avrebbe, cioè, dovuto essere svolta l’analisi e la critica delle tesi dei predecessori dal punto di vista definito nei tre precedenti. Come è noto, Marx lasciò questo “quarto volume”, esattamente come il secondo e il terzo, allo stato di elaborazione proprio di un opera non ancora predisposta per la stampa. Il suo editore fu, morto Engels, Kautsky, il quale lo fece uscire in tre tomi fra il 1905 ed il 1910, adottando criteri, dal punto di vista filologico, molto insoddisfacenti. Ebbene, questo testo fu, come si sa, intitolato Teorie sul plusvalore, ricavando tale titolo da quello che Marx aveva assegnato alla parte più cospicua del manoscritto sul quale si era basato il lavoro di edizione, perché è appunto nella prospettiva del problema del plusvalore e della sua genesi, ossia della giustificazione della sua possibilità nel quadro di un’economia fondata sullo scambio di valori formalmente uguali, che Marx esamina i sistemi dei suoi predecessori, e questo perché, con ogni evidenza, egli faceva consistere l’originalità della propria opera precisamente nella scoperta della soluzione di questo problema (per la storia del testo e della sua prima edizione si veda l’ampia introduzione di G. Giorgetti alla tr. it., da lui curata, del I vol., cit.).

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dal campo della pura economia”59. Quindi l’economia pura, che si fonda su una teoria autentica perché generale del valore, in altre parole l’analisi economica “edonistica” – come la definisce Croce – non conosce alcun plusvalore. E nemmeno la realtà economica che essa studia: il plusvalore è un concetto che nasce dall’esame comparativo di questa realtà con la realtà ipotetica e astratta incarnata dal modello di una pura “società lavoratrice”. Ma questo vuol forse dire che il plusvalore è, come il valore, un concetto applicabile correttamente solo a questa realtà ipotetica? Le cose non stanno affatto così, come si può ricavare assai meglio da un brano del saggio successivo Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse: Prendiamo due tipi di società: il primo tipo A, composto di 100 individui, che con capitale comune e con eguale lavoro, producono beni che ripartiscono in proporzioni uguali; il tipo B, composto di 100 individui, di cui 50 in possesso del suolo e dei mezzi di produzione, ossia i capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia proletari e lavoratori […]. Che nel tipo A non abbia luogo sopravalore è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete diritto di chiamare sopravalore quella parte di prodotto che è riscossa dai capitalisti, se non quando paragoniate il tipo B col tipo A e trattiate il primo a contrasto col secondo.60

Il passo è molto importante, e la cosa che lo rende tale è proprio quella che qui Croce presenta come ovvia e scontata: il fatto che nel primo tipo di società (A) – cioè, in sostanza, nell’ipotetica e astratta “società lavoratrice” di cui Croce parla in tutti i casi in cui (come fa anche poche righe prima del brano appena citato) vuole riferirsi direttamente al termine teorico di confronto con il quale, secondo lui, Marx paragona la socie59. Materialismo storico…, p. 65. 60. Ivi, pp. 125-26.

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tà capitalistica quando elabora la legge del valore-lavoro – che in questo ipotetico sistema sociale, il plusvalore abbia luogo tanto poco quanto nella produzione capitalistica studiata, per se stessa, dall’“economia pura”. La legge del valore lavoro si applica a questa società, ma il plusvalore è concetto comparativo, che si applica, piuttosto, alla società fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla compravendita della forza-lavoro. Solo, però, in quanto la si consideri, non per se stessa, bensì a confronto dell’altra, ipotetica (quella in cui vige – o meglio in cui avrebbe vigore se una simile società esistesse – la legge dell’eguaglianza fra il valore delle merci e il tempo di lavoro necessario a produrle). Il plusvalore, non ha quindi luogo in nessuna delle due forme di società e di produzione sociale: è, torniamo a ripetere, un puro concetto comparativo. Ciò significa che esso si distingue dal concetto di “valore-lavoro”, perché questo è un concetto applicabile ad una delle due tipologie sociali (il tipo A) anche quando essa venga considerata indipendentemente dall’altra. Dal momento che la stessa cosa non si può dire del plusvalore, la conseguenza di tutto il discorso consiste nel fatto che, stando ad un’impostazione come questa, uguaglianza di valore e lavoro e concetto di plusvalore possono essere tenuti distinti, e la prima può essere presa in considerazione senza fare intervenire, nel suo schema astratto, la funzione euristica che essa deve o dovrebbe assolvere nei confronti del secondo. Dall’ipotesi dell’uguaglianza di valore e lavoro, in altri termini, non si può ricavare, secondo Croce, alcuna conseguenza necessaria riguardo alla teoria dello sfruttamento, almeno finché non intervenga quella valutazione comparativa che ci è ormai ben nota fra due tipi diversi di sistema sociale ed economico.

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Torniamo ora, per un momento, a Marx, e in particolare al passo del capitolo X del III volume che abbiamo riassunto poco fa61 e citiamolo per esteso: … supponiamo che gli operai siano essi stessi proprietari dei rispettivi mezzi di produzione e scambino reciprocamente i loro prodotti. […] Supponiamo inoltre che il tempo di lavoro di questi operai sia in media uguale […]. Due operai avrebbero quindi reintegrato entrambi, nelle merci che rappresentano la loro giornata lavorativa, innanzitutto le loro spese, il prezzo di costo dei mezzi di produzione adoperati: spese che varieranno in relazione alla natura tecnica dei loro rami di produzione. In secondo luogo, entrambi gli operai avrebbero creato uguale ammontare di valore nuovo, che rappresenta la giornata lavorativa che essi hanno aggiunto ai mezzi di produzione, e che comprende il loro salario più il plusvalore, il pluslavoro che eccede i loro bisogni essenziali, il cui risultato però apparterrebbe a loro stessi. Ossia, esprimendoci in termini capitalistici, entrambi gli operai ricevono lo stesso salario più lo stesso profitto.62

Il testo è chiarissimo: per Marx anche in una società ipotetica – immaginata adottando un’astrazione semplificatrice simile a quella di cui parla Croce e per molti aspetti analoga alla società mercantile semplice alla quale Engels riduce la validità effettiva della teoria del valore – anche in una società di questo tipo avrebbe luogo la produzione di plusvalore. Ciò che in una società analoga a quella descritta non avrebbe né potrebbe, in generale, aver luogo sarebbe semplicemente il prelievo del plusvalore o la sua appropriazione ad opera del capitalista. L’appropriazione del plusvalore, infatti, è, per Marx, una cosa ben diversa dalla sua produzione, sebbene sia legata ai rapporti giuridico-sociali che, regolano e definiscono lo schema o il

61. Cfr. il testo cui fa riferimento la n. 53. 62. Il Capitale, vol. III, cit., p. 218 (corsivi nostri).

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quadro entro il quale la produzione attua il suo processo. L’appropriazione, in altre parole, riguarda, a giudizio di Marx, la fase distributiva dell’attività economica di un sistema sociale: non la creazione del valore, ma la sua realizzazione attraverso la vendita delle merci prodotte. È solo per aver collocato la soluzione da dare al problema della possibilità e della genesi del plusvalore nel cuore del processo produttivo che Marx ritiene di essere riuscito ad offrire, una volta per sempre, una spiegazione valida del fenomeno a suo giudizio più misterioso di tutta la realtà economica, ossia dell’incremento di valore che si realizza attraverso il percorso in virtù del quale, partendo dalla materia prima, si giunge alla merce destinata alla vendita e al consumo. Se il plusvalore nascesse solo nella sfera della circolazione, l’appropriazione di esso da parte del venditore corrisponderebbe ad una espropriazione ai danni del compratore. Non ci sarebbe crescita di ricchezza per il sistema sociale nel suo complesso, o perlomeno non ci sarebbe crescita di ricchezza reale, perché ci sarebbe crescita solo dal punto di vista monetario63. La differenza fra teoria marxista e teoria marginalistica sta in primo luogo in questo aspetto, non nel fatto che Marx non prenda in esame i fenomeni connessi alla sfera della circolazione, agli equilibri concorrenziali di domanda e offerta e alle dinamiche di mercato. Anche perché che non lo faccia, semplicemente, non è vero. Come sa chiunque abbia gettato uno sguardo, sia pure solo superficiale, al complesso della sua opera teorica di economista.

63. Crescita reale potrebbe esserci solo in virtù dell’acquisizione e dello sfruttamento di risorse naturali in precedenza inutilizzate, come nel caso della messa a coltura di terre vergini, della scoperta di giacimenti di nuove materie prime o di nuove fonti energetiche. Si tratterebbe comunque, in ciascuno di questi casi e in generale, di una crescita non inesauribile. Sullo sfondo di questi due diversi modi di concepire la ricchezza e lo sviluppo economico si intravvedono, dunque, due concezioni divergenti del progresso umano e della storia.

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Ci rendiamo conto allora del grave fraintendimento presente nell’interpretazione crociana della teoria del valore: facendo del plusvalore un concetto puramente comparativo, Croce ne riporta la genesi entro la sfera della circolazione e distribuzione della ricchezza. Esso non nasce, perciò, nella sua ipotesi interpretativa, dalla produzione, ma dal confronto fra un modo di ripartire socialmente il prodotto secondo rapporti di produzione caratteristici di una ipotetica “società lavoratrice” e un modo di ripartirlo che dipende da rapporti di produzione fondati sulla separazione del capitale dal lavoro e dunque di questo dai suoi strumenti e mezzi64.

64. Questa denuncia dell’incomprensione del senso autentico della teoria del valore-lavoro da parte di Croce contrasta radicalmente con gli apprezzamenti pressoché unanimi che l’interpretazione crociana ha ricevuto dai non moltissimi contributi che se ne sono espressamente occupati. Tra questi spicca (anche per la specifica competenza “tecnica” del suo autore, che è uno studioso dei pensiero economico) il saggio recente di N. Bellanca, già citato nella n. 14. Bellanca ritiene che la teoria del paragone ellittico consenta di giustificare pienamente la riduzione del valore al lavoro operata da Marx, fornendo la base ad una lettura della Legge marxiana che la svincoli dall’ipoteca del problema della trasformazione. Per fare questo sarebbe necessario, secondo Bellanca, integrare Croce con Graziadei, separando così la creazione di valore nella sfera della produzione dalla realizzazione di questo stesso valore in forma di prezzo nella sfera della circolazione e rendendo la prima completamente autonoma dal punto di vista teorico rispetto alla seconda. Per quanto riguarda Graziadei e l’insufficienza dell’interpretazione che ne propone Bellanca si veda, più avanti, la n. 124, mentre per ciò che riguarda Croce farei valere le seguenti considerazioni. Bellanca interpreta il “paragone ellittico” di Croce come un paragone duplice, articolato in due momenti. Attraverso il primo verrebbe definita la società capitalistica, paragonandola con un sistema non-capitalistico. Attraverso il secondo si dimostrerebbe la necessità della riduzione del valore al lavoro, paragonando un capitalismo essenziale con un capitalismo inessenziale – ossia concepito astrattamente, senza tener conto del suo connotato più caratteristico (ricavato dal primo paragone) che è la proprietà privata dei mezzi produttivi e la riduzione del lavoro a forza-lavoro, cioè a merce. Ora, come abbiamo visto, Croce non paragona affatto un capitalismo essenziale con un capitalismo

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Non aveva quindi torto Labriola quando protestava vivacemente (in privato, come risulta dalla corrispondenza con Croce65, e

inessenziale, o, se si preferisce, il capitalismo con la sua essenza: questo è, semmai, ciò che fa Marx. L’equivoco nasce dal credere che Croce voglia, innanzitutto, definire il capitalismo e ciò che vi è in esso di essenziale. Ma Croce non intende affatto procedere in questo modo: a suo parere, Marx, quando assume, per scelta e volontà o interesse politico-sociale, il punto di vista del lavoro, costruisce, procedendo in modo astratto, lo schema di una società lavoratrice pura (cioè esclusivamente lavoratrice, e nella quale tutto ciò che è scambiabile deriva dal lavoro), dopodiché cala su questo schema astratto i rapporti giuridici caratteristici di un’economia fondata sulla proprietà privata del capitale e sulla separazione fra capitale e lavoro, ottenendo così di mettere direttamente a confronto nell’ambito dell’astrazione e per mezzo dell’astrazione, cose che, in realtà, sono incompatibili. In Croce, in altre parole, non abbiamo due paragoni, ma due procedimenti astrattivi, per mezzo dei quali si realizza un solo paragone: quello consistente nel confrontare una società reale con un’ipotesi astratta, costruita in modo arbitrario per ragioni euristiche. Da questo schema interpretativo non si ricava nulla circa l’essenza del capitalismo, ovvero la sua intima verità, né, tanto meno, si ricava la necessità della riduzione del valore al lavoro. Ma se Bellanca – che pure, come ho già detto, ci offre un contributo originale e stimolante – ritiene che l’interpretazione crociana intenda, per prima cosa, cogliere l’essenza del capitalismo attraverso un confronto con ciò che capitalismo innanzitutto non è, questo potrebbe dipendere dal suo essere incorso in un equivoco di fondo sui tempi e sul senso dell’evoluzione filosofica di Croce, il quale ha introdotto l’“opposizione” e la “definizione” come categorie strutturali e costitutive del proprio sistema di pensiero solo in un secondo momento (rispetto a quello che stiamo considerando adesso), e oltretutto in un quadro concettuale di cui Bellanca non sembra sospettare la complessità. 65. Cfr. Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 187-88 (si tratta della lettera n. 250, in cui si accenna alla nota del saggio su Loria), pp. 192-94 e 264-270. L’ultimo gruppo di pagine citato comprende due lettere, la n. 338 e la n. 339, nella prima delle quali Labriola, dopo un lungo indugio – motivato forse dalla poca voglia di dare vita ad una polemica epistolare e documentato dalle numerose promesse di comunicargli il suo giudizio che non ebbero seguito (cfr. lett. n. 323, n. 327, n. 331) – espresse a Croce, con la solita franchezza, ciò che pensava del suo contributo, mentre nella seconda troviamo una risposta alla reazione di Croce. La lettera con la quale quest’ultimo difendeva la propria interpretazione della teoria del valore è andata persa,

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in pubblico, nel Postscriptum all’edizione francese del Discorrendo di socialismo e di filosofia66) contro questa interpretazione. Se non ché le cose sono più complicate di come appare da quanto abbiamo messo in luce fin qui. L’equivoco, infatti, in un certo senso, è già in Marx, e Croce, con la sua interpretazione, lungi dal voler svelare un simile stato di cose, mostra di essere a sua volta vittima di questo stesso equivoco67. Abbiamo visto che il fatto che il plusvalore abbia, per Marx, la sua origine nel processo produttivo e non nella sfera della circolazione sta ad indicare, innanzitutto, che esso non dipende da scambi tra grandezze ineguali né li richiede: la sua appropriazione da parte del produttore-venditore non significa che il compratore venga espropriato di un importo equivalente o che debba subire una perdita. In questo, solo in questo consiste agli occhi di Marx, la “scientificità” della propria spiegazione: essa non fa intervenire fattori extraeconomici nella interpretazione del fenomeno del profitto. Al contrario, dimostra che esso viene realizzato dal capitalista nel completo rispetto delle leggi che regolano formalmente lo scambio in un’economia mercantile. Che significato dare, allora, all’affermazione, continuamente ripetuta da Marx, secondo la quale il plusvalore equivarrebbe

come la quasi totalità di quelle da lui indirizzate a Labriola, ma dalla replica di quest’ultimo si capisce che doveva essere piuttosto risentita. 66. Cfr. La concezione materialistica della storia, cit., pp. 291 sgg. 67. Naturalmente, il fatto che Croce sia a sua volta vittima dell’equivoco in cui cade Marx, se impedisce di considerare la sua ipotesi come una critica volta intenzionalmente a sottolineare l’ambiguità del Capitale su questo punto, non esclude in alcun modo che l’interpretazione su cui essa poggia non abbia anche, al di là delle sue intenzioni, la capacità di svelare l’incertezza di Marx e della sua opera nella definizione dei confini che separano (o dovrebbero separare, almeno per lui) l’analisi della produzione della merce dal giudizio storico e morale circa il modo della ripartizione della ricchezza.

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a “lavoro non pagato”68 e sarebbe, quindi, il frutto di un’espropriazione messa in atto dal capitalista ai danni dell’operaio? In effetti il lavoro (tutto il lavoro e non solo il pluslavoro) in un’economia capitalistica non è pagato, perché, secondo le stesse premesse di Marx, non può e non deve esserlo, non essendo una merce. Il lavoro è solo il valore d’uso di una merce. Ciò che, pertanto, deve essere pagato è la merce della quale esso esprime e rappresenta l’utilità, intesa come attitudine o disposizione a soddisfare un bisogno effettivo69. Una merce o, più esattamente, il suo valore di scambio: questo è ciò che il salario paga, ciò in cui si converte (per il capitalista). E la merce in questione è la forza-lavoro, che, appunto, non è il lavoro vero e proprio, il lavoro concreto è “in atto”, ma la sua virtualità. La disponibilità, in altre parole, a mettere le proprie forze e la propria abilità manuale al servizio di un capitale altrui, dal punto di vista dell’operaio; la possibilità di disporre – per impiegarle nella produzione di qualcosa – delle energie, dell’intelligenza e della forza muscolare di un certo numero di individui che non hanno altro da vendere, dal punto di vista del detentore di questo capitale. Perciò il lavoro è il valore d’uso di questa merce: perché è ciò che viene messo in opera dal suo impiego. Tale merce è pagata, come abbiamo detto, dal salario, ed è pagata in misura corrispondente al suo valore (di scambio). Che cosa significa, dunque, torniamo a chiedere, “lavoro non pagato”? La forza lavoro è pagata e pagata correttamente, il lavoro effettivo o in atto, non richiede di esserlo e non può esserlo, perché 68. Marx fa diffusamente uso, nel Capitale, di questo modo di esprimersi, ma, sia pure solo a titolo esemplificativo, se ne può indicare la presenza ricorrente nella sesta sezione del I vol. del Capitale, dedicata al “salario”. 69. Direttamente, il bisogno di valorizzazione e arricchimento del capitale (cfr. su questo – sia pure in un contesto che appare oggi del tutto desueto per impostazione, impianto e linguaggio – M. Rossi, Cultura e rivoluzione, cit., pp. 262-63). Indirettamente, i bisogni che possono essere ricondotti al consumo o all’uso dei beni che esso produce.

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non ha valore (in senso economico, cioè valore di scambio) e dunque non ha né può avere un prezzo70. Croce si rende perfettamente conto di questa incongruenza: “la natura usurpatrice del profitto si può affermare solamente quando si applichi, quasi reagente chimico, alla seconda società [la società di tipo B, quella, in altre parole, basata su una forma di produzione capitalistica] la misura, ch’è invece propria di un tipo di società fondata sulla umana eguaglianza […]. ‘È sopralavoro non pagato’, dice il Marx, e sia pure, ma non pagato rispetto a che? Nella società presente è ben pagato, pel prezzo che realmente ha”71. Dunque, questa la conclusione implicita, e a suo modo corretta, di Croce, se vogliamo parlare di “lavoro non pagato”, dobbiamo assumere non la società capitalistica in cui il lavoro, o più precisamente la forza-lavoro, è una merce che viene comprata e venduta, come tutte le altre merci, al suo valore, e neppure un’ipotetica società nella quale il lavoratore, disponendo egli stesso degli strumenti necessari al suo lavoro, non sia costretto a vendere la propria forza-lavoro (nella quale, dunque, questa non divenga una merce, non venga venduta e comprata, ma venga impiegata direttamente da chi ne detiene la titolarità). In nessuna di queste due tipologie sociali, considerate indipendentemente l’una dall’altra, può manifestarsi e prendere corpo un fenomeno come quello cui allude il concetto di “plusvalore”, e rispetto a nessuna delle due può avere senso parlare di “pluslavoro”, individuando in questo qualcosa come un “lavoro non pagato”. Perché espressioni del genere possano significare e quindi comunicare alcunché di comprensibile, occorre ricondurle ad una situazione in cui vengano messi a confronto sistemi sociali diversi e alter-

70. Per tutto questo si vedano, in primo luogo, le sezioni seconda e terza del I vol. del Capitale. 71. Materialismo storico…, cit., p. 126.

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nativi. Nella quale, dunque i due modelli descritti non siano considerati ciascuno per sé ma insieme, stabilendo fra di essi un paragone, grazie al quale sia possibile rendere manifesto il fatto che in uno dei due si realizza qualcosa che nell’altro non si realizza72. Ma a che scopo fare tutto questo? Sopra abbiamo detto: per fare emergere le contraddizioni della società capitalistica, il contrasto in cui la società capitalistica si trova con se stessa73. L’assunto crociano dal quale facevamo dipendere questa conclusione era quello secondo cui l’ipotetica “società lavoratrice”, che, stando all’interpretazione di Croce, Marx assume come termine implicito di confronto per esaminare la forma di produzione basata sulla separazione tra capitale e lavoro, questa società ipotetica ed astratta veniva designata come una parte della società capitalistica, separata dal resto e “innalzata ad esistenza indipendente” 74. Ma se torniamo all’esame che avevamo condotto di questa ipotesi per ricavarne i lineamenti essenziali del tipo sociale con cui essa si identificava, ci accorgiamo che le cose stanno in modo leggermente diverso. Questa società ipotetica, stando al nostro esame, si configurava come un sistema economico e produttivo nel quale: a) i beni (come la terra e le risorse naturali) la cui esistenza non è il risultato di uno sforzo produttivo (e dunque del lavoro) sarebbero proprietà collettiva; b) il lavoratore non venderebbe se stesso, cioè la sua forza-lavoro; e dunque c) i lavoratori sarebbero gli unici proprietari dell’intero frutto del loro lavoro e gli unici titolari del

72. Ad una conclusione di fondo non dissimile era giunto, sia pure su basi del tutto diverse, Conrad Schmidt, negando che in una comunità di lavoratori indipendenti avrebbe mai potuto aver luogo la creazione di un plusprodotto (cfr., supra, il testo corrispondente alla n. 26). 73. Cfr., supra, la nota 52 e il testo ad essa corrispondente. 74. Cfr. Materialismo storico…, cit., p. 65.

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diritto di scambiarlo con il frutto del lavoro altrui75. Ebbene, che genere di società è questo? Per un verso, come abbiamo visto, ha diversi aspetti in comune con un sistema sociale di tipo “mercantile semplice”, benché se ne differenzi per il fatto di non avere un carattere storico-reale, ma solo ideale-ipotetico o ipotetico-astratto76. Per un altro, la proprietà collettiva della terra lo avvicina mollo a certe forme di comunismo primitivo, come pure, almeno per questo aspetto, un poco anche al tipo di società delineato nel progetto di riforme economico-sociali che si poteva desumere dalle opere di Loria (a cominciare da quella sulle Basi economiche della costituzione sociale)77. E ad 75. Cfr., più su, p. 358. 76. Varrebbe comunque la pena di osservare che anche la società mercantile semplice – descritta da Engels, nelle pagine delle sue Considerazioni supplementari al III vol. del Capitale, come una società fondata sulla produzione per il consumo, nella quale l’eccedenza veniva scambiata in natura solo fra comunità diverse; una forma sociale che, a suo dire (cfr. op. cit., p. 39) avrebbe regnato dal momento in cui ha inizio un’attività sistematica di scambio fra società primitive, prevalentemente contadine e, successivamente, anche artigiane, “fino al XV secolo della nostra era” – anche una società di questo tipo è, in fondo, un’astrazione, nel senso che, allo stato puro, definito dalle caratteristiche enumerate da Engels, essa non si presenta, nella storia, mai o quasi mai; certamente non “fino al XV secolo”, visto che in quell’epoca era già da tempo entrato in scena il capitale mercantile (come sottolinea, incidentalmente B. Besnier, nella presentazione della tr. it. dell’opera di C. Schmidt sul Saggio medio del profitto e la legge marxiana del valore, cit., cfr. p. 13). 77. Il fatto che Croce sia stato un critico sprezzante di Loria non esclude che egli possa avere ricavato dalle teorie dell’economista di Mantova qualche suggestione. Ipotesi che si potrebbe considerare in un certo senso avvalorata forse anche dalla reticenza e malavoglia con le quali, lo abbiamo già visto, egli dovette disporsi ad assecondare l’insistente desiderio di Labriola di vederlo cimentarsi in quella critica (e proprio alla volontà di non deludere Labriola è possibile che debba addebitarsi, almeno in parte, il tono caustico e spesso addirittura sarcastico delle osservazioni che il saggio del ’96 rivolge contro l’autore della Teoria economica della costituzione politica). Per quanto riguarda la reticenza di Croce cfr., più su, pp. 228-229. Alle considerazio-

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un qualche tipo di comunismo o socialismo si avvicina, come ovvio, il possesso dei mezzi di lavoro da parte dei lavoratori e il loro diritto di ricavare l’intero frutto (in termini di valore) derivante dalla vendita delle merci da loro stessi direttamente prodotte. In altre parole, questa società ideale ed astratta, ipotetica e tipica, più che ad una parte della società capitalistica, isolata e separata dal suo contesto, sembra corrispondere ad una compagine sociale, schematica ma storicamente possibile, in cui non abbia luogo il fenomeno, condannato dal socialismo moderno, dell’ingiusta “usurpazione” rappresentata dal profitto78. Ecco, confrontata con una società di questo genere (ma anche solo nel quadro di un simile confronto), la società capitalistica deve apparire come una formazione sociale in cui i rapporti giuridici sui quali si fonda la forma economica della produzione assicurano ad una parte dei suoi membri la possibilità di sfruttare legalmente l’altra. Di “sfruttarla”, non nel senso, neutro ed oggettivo, in cui il termine sta ad indicare la “messa a frutto” di qualche bene che abbia la caratteristica, appunto, di “fruttificare” (come la terra o il lavoro), ma nel senso morale ed etico per cui questa parola viene di solito impiegata con l’intento di designare una prevaricazione ed un arbitrio, un’estorsione operata con violenza, la sottomissione ottenuta prepotentemente delle ragioni del più debole all’interesse del più forte. L’interpretazione di Croce, mostra, dunque, uno stato di cose effettivo ed innegabile quando afferma che in Marx agisce

ni che si ricavano dalla ricostruzione fatta da Croce della vicenda relativa al suo saggio critico su Loria in Come nacque e morì ecc. si può aggiungere la citazione di una lettera di Labriola, nella quale questi si difende dall’accusa, che evidentemente Croce gli aveva mossa, di voler fare di lui (Croce) un “Anti-Loria”, cfr. Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 185. 78. Si veda l’affermazione di Croce, già citata, sulla “natura usurpatrice del profitto” a p. 126 di Materialismo storico….

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qualcosa come un paragone implicito (o ellittico) fra modelli sociali opposti, uno reale ed uno ideale. Solo che questo paragone non rappresenta, come pensa Croce, lo strumento di cui Marx si servirebbe tacitamente per applicare alla realtà un’ipotesi astratta, e neppure la base dalla quale emergerebbe, per lui, il concetto di “plusvalore”. Esso rappresenta, piuttosto il fondamento dell’interpretazione ideologica, ossia politico-morale, della teoria del valore e del concetto di “profitto”. Interpretazione che in Marx coesiste equivocamente con un’altra, quella puramente scientifica, delle stesse categorie e degli stessi fenomeni, che è invece fondata sul confronto della realtà apparente del capitalismo con la sua essenza nascosta. Ora, proprio il fatto che la tesi crociana del “paragone ellittico” sia, come abbiamo visto, incompatibile con l’interpretazione scientifica di queste categorie, e allo stesso tempo necessariamente richiesta da quella politico-morale (nessuna valutazione morale sarebbe infatti possibile se non si confrontasse il reale con l’ideale, l’essere con il dover essere) dimostra che le due interpretazioni, entrambe presenti in Marx e nel Capitale, sono, per quanto le riguarda, inconciliabili79. Tuttavia, la loro inconciliabilità appartiene a quel lato del progetto teorico marxiano che sottolinea il dualismo di apparenza ed essenza, di ideologia (o apologia) e verità scientifica, di sovrastruttura e struttura. Questo progetto deve, però, fare i conti anche con l’altro suo lato, quello per il quale, fra questi estremi irriducibili deve potersi stabilire un rapporto coerente 79. Il “doppio paragone” che Bellanca attribuisce all’interpretazione crociana della teoria del valore si trova, quindi, piuttosto in Marx che in Croce – come in parte abbiamo già avuto modo di sottolineare –, ed è alimentato dal legame metafisico che nel suo schema collega “dialetticamente” apparenza ed essenza. Riducendo questo “doppio paragone” ad un paragone semplice (quello fra essere e dover essere), Croce assegna, senza realmente avvedersene e quindi praeter intentionem, all’intera analisi svolta nel Capitale, il ruolo di un manifesto politico-programmatico.

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e razionale. Fa parte perciò (e ne fa parte in modo costitutivo) di tale progetto anche il legame che connette i due piani – quello scientifico e quello etico-politico – dalla cui sovrapposizione emerge l’equivoco che alimenta il duplice significato che nel Capitale riveste il concetto di “sfruttamento”. L’equivoco nasce, in altri termini, dalla pretesa che riconducendo l’apparenza alla sua essenza si sveli altresì la falsificazione ideologico-apologetica dell’economia borghese, cosa che confermerebbe, con la verità della visione critico-scientifica, anche quella (ideologica come l’altra ma ad essa opposta) di un programma politico che ne sia la conseguenza. Questi due lati che appartengono all’impianto teorico di Marx caratterizzano nel loro insieme come metafisica l’impostazione della sua indagine. Impostazione metafisica che, d’altra parte, come vedremo, si può apprezzare anche nell’attribuzione “umanistica” della funzione di valorizzazione (ossia della capacità di produrre un nuovo ed ulteriore valore) al solo lavoro umano80.

80. È abbastanza naturale che proprio coloro i quali rifiutano di ammettere che il problema della “trasformazione” giochi un ruolo decisivo nella teoria marxiana del valore (o anche solo che essa rappresenti un problema effettivo) siano nello stesso tempo i sostenitori di norma più radicali di una linea interpretativa che respinge sprezzantemente ogni tentativo di mettere a nudo la natura metafisica dell’analisi di Marx. Il problema della “trasformazione” è, infatti, strettamente legato all’esigenza di connettere in modo lineare e razionale il piano “apparente” dei prezzi e delle dinamiche concorrenziali con quello sottostante e perciò “essenziale” dei valori. Il fatto è, tuttavia, che questi critici non rinunciano in nessun modo a tenere unite, nella loro interpretazione, teoria del valore e teoria dello sfruttamento (come fa anche Croce, il quale, però, lo si è visto, fornisce nel contempo lo spunto per separare il concetto dell’uguaglianza di valore e lavoro da quello di “sfruttamento”). Cioè non rinunciano alla pretesa di conferire alle conseguenze etico-politiche (o, in senso lato, ideologiche) del pensiero di Marx un legame stretto con la verità scientifica e filosofica. Rimane pertanto fortemente radicata, nella loro interpretazione, la “premessa umanistica” della critica marxiana dell’economia, e finché questa premessa viene fatta valere ogni tentativo di dichiarare decaduto il problema della “trasformazione” è

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L’interpretazione di Croce è allora una lettura che infrange – nell’atto stesso in cui, così facendo, lo mette in evidenza – il quadro metafisico di riferimento sullo sfondo del quale si proietta in Marx l’enunciazione della teoria del valore-lavoro. Lo infrange eliminando da questo quadro la componente fondamentale, rappresentata dall’idea del radicamento di un’apparenza ideologica in una verità nascosta o in un’essenza che deve essere svelata. Ma fa tutto ciò senza alcuna consapevolezza e comprensione del problema filosofico (il problema della metafisica) che qui viene allo scoperto. Lo fa, soprattutto, confondendo a sua volta i piani della morale e della scienza. Tuttavia, benché confusi, i due piani, nelle pagine di Croce, non giungono mai a identificarsi (come accade in Marx). Proprio per questo – per il fatto che nella sua interpretazione, questi piani si confondono (scambiandosi, talvolta, i ruoli o sovrapponendo i rispettivi confini) ma non si identificano – il suo esame acquista comunque significato in rapporto al tema della metafisica e del ruolo storico che essa riveste, avviando un processo di maturazione speculativa che verrà messo a frutto negli anni successivi. Per Croce, infatti, (e non solo per il Croce maturo, ma già per quello, di cui stiamo parlando, degli anni fra il 1895 e il 1900) la scienza e l’etica sono cose ben distinte. In particolare, egli

destinato a lasciare il tempo che trova. Emblematiche, da questo punto di vista, oltre alla posizione di Mario Rossi (cfr. Cultura e rivoluzione, cit., pp. 357-63), le pagine di Rodolfo Banfi, il quale, pur svolgendo alcune considerazioni non prive di interesse sul ruolo del capitale costante (cfr. Uno pseudo-problema, cit., pp. 149-51), sembra voler provare che il discorso di Marx non è metafisico, appellandosi al fatto che il suo ricondurre l’apparenza all’essenza sarebbe funzionale all’interesse che egli (Marx) porta alla prima e non alla seconda (cfr. op. cit., p. 141). Come, insomma, se lo scopo della metafisica, non fosse appunto questo: quello di rendere conto, attraverso il ricorso all’essenza, precisamente dell’apparenza e di ciò che essa, in realtà, significa.

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ritiene di trovare proprio in Marx una conferma di questa diversità: secondo lui, una volta stabilito che la teoria del valore consiste in un paragone, resta aperto il problema di ciò che è possibile ricavarne e delle ragioni per le quali Marx avrebbe impostato la questione in questi termini. A tali domande, che si erano già da un pezzo presentate ai critici, molti di questi critici avevano, da tempo, risposto col dire che l’uguaglianza del valore col lavoro è un ideale etico-sociale, un ideale morale. Ma – proseguiva Croce – niente di più erroneo in sé, come niente di più lontano dal pensiero del Marx si potrebbe concepire di codesta interpretazione. Dalla premessa che il valore è uguale al lavoro socialmente necessario, quale illazione morale si può mai cavare? Se ci si riflette alquanto, proprio nessuna. Lo stabilimento di quel fatto non dice nulla sui bisogni della società, che rendono conveniente l’uno o l’altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e del modo della ripartizione. […] Il valore sarà bene eguale al lavoro; ma anche ammesso che nuove condizioni storiche rendano mai possibile la sparizione della società di classi, e l’avvento della società comunista, ed anche ammesso che in questa società la ripartizione possa aver luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita, tale ripartizione non sarebbe già una illazione della stabilita eguaglianza del valore col lavoro, ma una misura adottata per ragioni speciali di convenienza sociale. E non si può dir nemmeno che tale eguaglianza contenga in sé un ideale di giustizia perfetta (se pure non attuabile), perché il criterio del giusto non ha nessun rapporto con le differenze, spesso meramente naturali nella capacità di compiere un maggiore o minor lavoro sociale, di produrre un maggiore o minor valore. Dall’uguaglianza del valore col lavoro non si può trarre, dunque, né una massima di astratta giustizia, né una massima di convenienza ed opportunità sociale…81

81. Materialismo storico…, pp. 60-61.

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Ma se le cose stanno così, perché mai, nel saggio, posteriore di due anni, con il quale deciderà di rispondere al modo scelto da Labriola per prendere pubblicamente le distanze, nel Postscriptum al Discorrendo…, da lui e da Sorel, Croce affermerà, come abbiamo già visto, che dall’applicare alla concreta società capitalistica la misura che è propria dell’ipotetica “società lavoratrice” (ideale ed astratta), e quindi dal “confronto” fra queste due diverse forme di produzione sociale emerge “la natura usurpatrice del profitto”82? Possiamo supporre che venga qui al pettine un nodo, relativo al rapporto, che nella sua testa va poco alla volta stringendosi, fra quelli che saranno i “distinti” della futura “Filosofia dello Spirito”. A questo “nodo”, prima di continuare il nostro esame dell’interpretazione crociana di Marx, passando alle pagine dedicate alla “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, dobbiamo rivolgere ora la

82. Che era tesi perfettamente consonante con quella espressa già nel 1896, alla fine del saggio Sulla forma scientifica del materialismo storico: “L’interesse, che ci muove a costruire un concetto del sopravalore, non è forse un interesse morale, o sociale che si voglia dire?” (Materialismo storico…, cit., p. 18). Del resto, ancora nel 1899, l’anno cui appartiene la stesura del saggio di risposta a Labriola (che è della primavera), e rispetto a questo con una precedenza solo di qualche mese (nel febbraio), Croce aveva ribadito il concetto espresso nel lungo brano citato nel testo e desunto dal saggio concernente l’“interpretazione e la critica” delle categorie di Marx, svolgendo, su incarico dell’Accademia Pontaniana, l’esame delle due memorie concorrenti al “Premio Tenore” (cfr., supra, n. 56 e Appendice). Nella sua relazione, infatti, troviamo scritto, a proposito del tentativo che egli aveva fatto di interpretare la teoria marxiana del valore “come un continuo paragone”, che tale paragone non si stabilisce “fra ciò che è e ciò che eticamente dovrebb’essere”, “ma tra ciò che è nella società capitalistica e ciò che sarebbe nell’astratta società lavoratrice”, e che se lo si era talvolta inteso nel primo senso, ciò era dovuto solo ad un equivoco nel quale erano caduti alcuni interpreti, visto che espresso in questo modo il concetto sarebbe risultato ripugnante al pensiero marxista (cfr. Relazione sulle memorie inviate pel Premio Tenore, cit., p. 8).

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nostra attenzione, per precisare i termini esatti del problema che esso rappresenta.

4. Scienza, etica e storia in Croce, nell’ultimo decennio del XIX secolo: la prima configurazione dell’utile Due anni prima di essere iniziato, dalle suggestioni e dagli stimoli di Labriola e dei suoi saggi sul materialismo storico, allo studio dei classici dell’economia e del marxismo, ossia nel 1893, Croce aveva pubblicato una memoria accademica che rappresenta il suo primo vero contributo in campo filosofico: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In questo scritto egli distingueva con molta nettezza due attività e due atteggiamenti fondamentali dello spirito o della mente dell’uomo: la conoscenza e la raffigurazione. La prima attività veniva descritta da lui come propria della scienza o, se si preferisce, come la scienza stessa (se per scienza si intende il processo del conoscere scientifico), oppure anche (se per scienza si intende l’insieme dei risultati ai quali in ogni epoca storica questa attività mette capo) come ciò di cui la scienza rappresenta lo scopo o l’esito. La seconda attività era costituita dall’arte, cioè dalla rappresentazione delle cose, grazie alla quale noi siamo messi nelle condizioni di percepire gli oggetti, ossia ci disponiamo a vederli83. In questo secondo ambito di attività spirituale Croce inscriveva allora anche la storia, azzardando una tesi certamente piuttosto spregiudicata e controcorrente, almeno in Italia84, per quei tempi di dilagante positivismo, che

83. Cfr. La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Messina 1993, pp. 21-22. 84. Le cose andavano infatti diversamente in Germania, dove non si era ancora spenta l’eco delle dispute sullo storicismo e il metodo storico. Che

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gli avrebbe dato però il conforto di un consenso di massima da parte di Labriola, spesso critico nei confronti della sua attività di “letterato”85. Consenso espresso dapprima privatamente, in un biglietto dell’undici giugno 189386, e in seguito anche pubblicamente, sebbene (ed è difficile ipotizzarne le ragioni) in modo solo implicito, con il sottoscrivere – senza, però ricondurla al nome di Croce – la tesi del carattere “artistico” dell’attività storiografica nel secondo dei suoi saggi sulla Concezione materialistica della storia87. Ciò che è rilevante, di questa distinzione, è che essa individua due dei futuri “distinti” della Filosofia dello Spirito. Ma l’assegnazione della storia al campo dell’attività artistico-rappresentativa denuncia, nello stesso tempo, con chiarezza lo stato di “incubazione” nel quale, in questa fase dell’evoluzione filosofi-

anzi, nella patria di Kant e Goethe, avevano assunto il tono e il carattere di un vero e proprio confronto filosofico, visto che sul tronco di questa polemica e della distinzione fra scienze dello spirito e scienze della natura si era innestata la cosiddetta “filosofia dei valori”. 85. Su questo punto si vedano gli inizi della loro corrispondenza, ai tempi in cui Croce si dedicava essenzialmente a lavori di erudizione, giudicati da Labriola come inutili e oziosi: lavori da “letterato” nel senso deteriore della parola. 86. Cfr. lettera n. 64 del carteggio, cit., p. 47. 87. Cfr. La concezione materialistica della storia, cit., p. 140 (dove Labriola definisce la storia – la storia concreta e non il suo “scheletro” – come “racconto” e non “astrazione”, un racconto nel quale, egli prosegue, “si tratta di esporre e di tratteggiare l’insieme, e non già di risolverlo e di analizzarlo soltanto; si tratta, a dirla in una parola, ora come prima e come sempre, di un’arte”). L’affermazione della natura artistico-narrativa della storiografia, venne ribadita da Labriola in un corso di lezioni sulla filosofia della storia tenuto nell’anno accademico 1902-3, il cui testo fu inserito da Croce – senza fare, signorilmente, alcun riferimento alla adesione implicita, che vi compare, alla propria tesi di dieci anni prima – in una raccolta di scritti di Labriola (gli Scritti vari editi e inediti di filosofia e politica) da lui curata e pubblicata presso la casa editrice Laterza nel 1906.

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ca di Croce, si trovava ancora la teoria delle quattro fondamentali espressioni della vita spirituale, fra le quali la sua filosofia avrebbe, in seguito, ripartito le singole, diverse e specifiche manifestazioni della realtà. In effetti, fino al 1900 – anno di pubblicazione, oltre che del volume sul Materialismo storico (che nella sua prima edizione raccoglieva solo testi cronologicamente precedenti questa data), della memoria sull’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, letta alla Pontaniana in tre tornate (il 18 febbraio, il 18 marzo e il 6 maggio)88 – negli scritti di Croce, non c’è alcuna traccia di un “sistema dei distinti”. Per giungere a delinearlo, era necessario che Croce arrivasse a mettere a fuoco, dopo l’attività rappresentativa, dopo quella conoscitiva e quella etico-pratica (la cui specificità non aveva bisogno di essere tematizzata per essere posta accanto alle altre, visto che rappresentava un lascito della tradizione filosofica nel suo complesso) anche l’attività pratico-utilitaria o pratico-economica, facendone un’espressione autonoma dell’autosvolgimento dello Spirito. Di una simile autonomia del “momento economico” non si hanno indizi se non verso la fine dell’ultimo decennio del secolo XIX, quando questa idea inizia a prendere corpo, favorendo l’attribuzione – questa volta tematica e non solo, come prima, implicita – di un’analoga autonomia all’etica, e la conseguente ipotesi – che in breve tempo divenne una convinzione fermamente posseduta – che anche la sfera pratica dell’agire spirituale si articolasse, come la teoretica in due momenti, caratterizzati da una gerarchia interna analoga a quella che era il segno distintivo del rapporto fra arte e conoscenza89.

88. Cfr. Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, vol. XXX, memoria n. 3, Napoli 1900. 89.Una ricostruzione del problema che per ampiezza, per complessità e compiutezza rappresenta un unicum nella pur vasta letteratura sul tema è

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Negli scritti su Marx, e in particolare in quello sull’Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, l’argomentazione di Croce ruota ancora intorno a tre “distinti”: la scienza, la storia (che, come sappiamo, è un caso particolare dell’arte) e l’etica. Ma i loro rapporti sono incerti. L’analisi di Marx è, secondo Croce, un’analisi scientifica, dalla quale non si possono trarre conseguenze di carattere morale. D’altra parte, non è possibile neppure trarne conseguenze di carattere storicosociale90. Dobbiamo allora domandarci: si tratta, nei due casi, della stessa impossibilità? O, in altri termini, questi due ordini di conseguenze, che non si possono trarre, sono riconducibili ad uno? A giudicare dal passo riportato sopra91, si direbbe di sì: una volta posta l’uguaglianza del valore con il lavoro, asserisce Croce, si sarà stabilito solo un “fatto” che “non dice nulla sui bisogni delle società, che rendano conveniente l’uno o l’altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e del modo della ripartizione”92. L’allusione ad un ordinamento etico-giuridico della società sembra coinvolgere nello stesso concetto, un fatto storico (l’ordinamento giuridico) e un fatto valutativo (cui rinvia il riferimento al carattere “etico” di tale ordinamento). Dalla teoria del valore, legge scientificamente dedotta, per via di astrazione, attraverso un confronto fra due forme distinte

quella prodotta da G. Sasso nella III parte, intitolata Storia dell’utile, della sua gigantesca monografia su Croce (cfr. Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975), della quale tale ricostruzione occupa un numero di pagine così cospicuo, dalla 427 alla 713, da risultare insolito anche per un volume di queste dimensioni. Per ciò che riguarda il periodo che stiamo affrontando, sono ovviamente significative le pagine iniziali (427 e sgg.) del primo dei tre capitoli (Genesi e struttura dell’utile) in cui si articola tale sezione. 90. Cfr. quanto Croce afferma alle pp. 60-61 (già citate in precedenza, si veda, supra, la n. 81) di Materialismo storico…. 91. Quello cui fa riferimento la n. 81. 92. Cfr. Materialismo storico…, p. 60 (corsivi nostri).

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di produzione sociale, non si può ricavare alcuna conseguenza su nessuno di questi due piani che, del resto, nel concetto di “ordinamento etico-giuridico” sembrano collegati. Da un lato, dunque, la scienza, dall’altro, distinte ma variamente intrecciate, l’etica e la storia. Ma in questa stessa pagina, la storia sembra giocare anche un altro ruolo: “il valore – dice Croce – sarà bene uguale al lavoro; e non pertanto condizioni storiche speciali renderanno necessaria la società di caste o di classi […]. Il valore sarà bene uguale al lavoro; ma anche ammesso che nuove condizioni storiche rendano possibile la sparizione della società di classi, e l’avvento della società comunistica, ed anche ammesso che in questa società la ripartizione possa aver luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita, tale ripartizione non sarebbe già una illazione dalla stabilita eguaglianza del valore col lavoro, ma una misura adottata per ragioni speciali di convenienza sociale”93. Qui non si tratta più di conseguenze, ma di condizioni: la storia, in altre parole, non è più vista, ora, come un futuro da realizzare, ma come un passato o un presente che grava, con tutto il peso della sua influenza, sull’ipotetico avvenire che si vorrebbe veder realizzato. Insomma, la premessa dalla quale dedurre conseguenze relative all’assetto di un certo sistema sociale ha cessato di essere rappresentata (sia pure come ipotesi da respingere) dalla scienza, e questo ruolo è stato assunto direttamente (e correttamente) dalla storia. È partendo da una tale premessa, autentica e non fittizia, che ora si afferma l’impossibilità di trarre conseguenze etiche dalla teoria del valore. Nel primo caso (la storia vista come conseguenza), storia ed etica tendono insieme a contrapporsi alla scienza, nel secondo (la storia vista come condizione o premessa), è la storia che si schiera con la scienza (intesa come logica e razionalità), contrapponendosi, insieme ad essa, all’e93. Ivi, pp. 60-1.

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tica. In questo discorso, allora, si direbbe che la storia assuma due ruoli distinti e in qualche modo incompatibili. Due ruoli che tendono a spezzare la continuità del filo narrativo e che così facendo sembrano mettere già in discussione la sua appartenenza all’orizzonte dell’arte. Ma tale appartenenza, per ora e fino, almeno, al 1905 (quando essa viene di nuovo ribadita, sia pure in forme che già preludono ad un suo definitivo superamento, nei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro94) non è oggetto di nessuna retractatio da parte di Croce. Attraverso la storia assunta come condizione (e in parte anche attraverso quella che, intesa come conseguenza, viene abbinata all’etica) incomincia, piuttosto, a farsi strada il concetto dell’utile. E sul profilo di questo concetto o di questa categoria – che, in modo ancora implicito, si può già intravvedere nella pagina crociana – influisce, prima ancora di Marx, la figura e l’opera di Machiavelli, così come essa emerge dall’interpretazione che ne offre De Sanctis nel capitolo della Storia della letteratura italiana dedicato al Segretario Fiorentino e in alcuni dei Saggi critici95. In queste pagine, De Sanctis tratteggia un Machiavelli armato di passione intellettuale e morale (passioni che confluivano in lui in una sola, quella politica, alla quale, fondendovisi, entrambe davano corpo), nemico

94. Cfr. Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, vol. XXXV, 1905, p. 54. 95. Riguardo all’influsso di De Sanctis e della sua interpretazione di Machiavelli sull’elaborazione della categoria crociana dell’“utile” ha prodotto una ricostruzione ampia e stimolante M. Reale, nel saggio Una fonte dell’“utile” crociano: i ‘‘modelli letterari”, apparso sul 3° fascicolo della rivista “La Cultura”, XXXVII (1999), pp. 411-450 (cfr., per il senso generale della tesi che vi si sostiene, in part., le pp. 427-29, delle quali, peraltro, non mi sentirei, come risulta, credo, abbastanza evidentemente da quanto dico nel testo, di condividere fino in fondo la tesi che nel saggio del ’97 la dimensione eticomorale sia del tutto uscita di scena rispetto all’interpretazione di Marx, sebbene questo sia incontestabilmente vero – anche se solo provvisoriamente – dal punto di vista del dettato testuale o della “lettera” del saggio crociano).

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della corruttela italiana e animato da un’idea di riscatto nazionale che sconfinava nell’utopia, ma spietatamente realista e ammiratore della forza, soprattutto della forza di volontà e di carattere, ovvero di quella tenacia con la quale uno scopo, quale che sia, viene perseguito quando nel suo perseguimento si impegnino animo ed energia morale, commisurando i mezzi al fine e sapendo usare, allorché il bisogno lo richieda, sia il coraggio sia l’intelligenza. Da una simile raffigurazione, Croce poteva essere indotto a ricavare l’idea che l’etica, per non essere un vano conato, dovesse essere armata: armata di volontà e di determinazione. Ma anche che queste, la volontà e la determinazione, potessero esserci senza che ci fosse uno scopo morale in vista, e magari, anzi, anche in presenza di uno scopo moralmente esecrabile96. Una simile idea configurava appunto il profilo di un rapporto autonomo fra politica ed etica, cioè di un rapporto basato sulla reciproca autonomia dell’una e dell’altra97.

96. Cfr., per esempio, la pagina della Storia in cui De Sanctis afferma: “Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui [ossia Machiavelli] il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. […] Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è ne’ mezzi. Quanto ai mezzi la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell’ignoranza o nella fiacchezza” (Storia della letteratura italiana, Torino 1975, II vol., p. 585). 97. Il fatto che questo sia il motivo che Croce ricava da Machiavelli attraverso De Sanctis non significa che tale motivo sia effettivamente presente nell’opera e nel pensiero di Machiavelli. In particolare, ha contestato l’attribuzione crociana della scoperta dell’autonomia dell’utile al Segretario Fiorentino uno studioso che abbiamo già avuto occasione di menzionare e che appartiene alla ristretta cerchia dei principali interpreti dell’opera di entrambi gli autori in questione. Per essere più precisi, Gennaro Sasso (è lui lo studioso del quale stiamo parlando) ha sostenuto con vigore la tesi che, dovendo l’autonomia dell’utile corrispondere alla reciproca autonomia della morale, il fatto che di questa seconda autonomia non ci sia traccia in Machiavelli porta ad escludere anche che gli si possa coerentemente attri-

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Questo Machiavelli, il Machiavelli di De Sanctis, Croce lo incontra proprio negli anni in cui ha inizio e si svolge il suo confronto con Marx. Più esattamente, questi sono appunto gli anni in cui tale incontro è documentabile attraverso tracce ed indizi significativi di un’influenza dell’interpretazione desanctisiana su Croce, il quale, nel 1896, cura l’edizione delle Lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX di De Sanctis. E nella sua prefazione al volume troviamo un primo riferimento a Machiavelli nonché all’analisi che lo riguarda, svolta nel capitolo a lui dedicato della Storia della letteratura italiana98. Successivamente, nel 1898, Croce tornerà a curare una raccolta di scritti di De Sanctis, gli Scritti varî inediti o rari, e anche in questo caso, nella sua prefazione, comparirà un riferimento a Machiavelli. Questa volta in modo più determinato, sottolineando il fatto che Machiavelli, come aveva messo in risalto De Sanctis e come invece, criticando quest’ultimo perché nel trattare di Machiavelli aveva tralasciato l’esame della questione etica, non aveva compreso Villari, era politico e storico, e a buon diritto non si era soffermato su problemi di natura morale, che – questo era il sottinteso della polemica rivolta contro Villari – riguardavano un’altra sfera della realtà e della vita pratica99. Questo riferimento è importante. Lo è, soprattutto, agli occhi dello stesso Croce, che in una lettera a Gentile datata 8.10.1898, in risposta ad un’altra di quest’ultimo del 1° ottobre, esordisce proprio compiacendosi per il consenso che l’amico gli aveva espresso “per le sante staffilate aggiustate al critico illustre del Machiavelli’’ (cioè a Villari)100, e dichiara di avere abbreviato nella prefazione agli Scritti di De Sanctis la parte

buire la scoperta della prima. Cfr. G. Sasso,ß Benedetto Croce interprete di Machiavelli, in Benedetto Croce, a c. di F. Flora, Milano 1953, pp. 305-22. 98. Cfr. B. Croce, Una famiglia di patrioti, Bari 1927, pp. 163-71: p. 168. 99. Cfr. ivi, Gli “Scritti vari”, pp. 173-89: p. 180. 100. Cfr. G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, vol. I, Firenze 1972, p. 103.

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relativa a Machiavelli e Villari, ossia a Machiavelli e alla questione etica, “perché forse mi capiterà di toccar di nuovo, a proposito di Marx, ciò che il Villari chiama il problema Machiavelli, e che è un problema solo pei filosofi della sua fatta!”101. Qui l’accostamento fra il “problema Machiavelli”, ossia, per lui, il tema del rapporto di indipendenza della politica e della storia rispetto alla morale, e il nome di Marx ci consente di capire meglio quel riferimento diventato ‘celebre’ a Marx come al “Machiavelli del proletariato” con cui si chiudeva il saggio del ’97102. A tal punto si erano ormai congiunti, nella sua testa, questi temi e questi autori, che nello scritto dei ’99 su Marxismo ed economia pura – scritto che contiene una risposta ad alcuni appunti mossi ai suoi studi riguardanti Marx da Vittorio Racca sulla Rivista italiana di sociologia – Croce dichiarava che l’aspetto di vero [del marxismo] consisteva, a suo parere, “nell’avere il Marx richiamato fortemente alla coscienza la condizionalità sociale del profitto: di che lacrime grondi e di che sangue quel profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di coloro ch’egli chiamava ‘i commessi viaggiatori del liberalismo’ pareva quasi nascere per via miracolosa, insita

101. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, Milano 1981, p. 24. Croce “toccherà di nuovo” questa materia in una lunga nota aggiunta al saggio del ’97 sui “concetti del marxismo”, quando esso verrà riproposto, insieme a tutti gli altri di argomento affine, nel volume sul Materialismo storico, ossia nel 1900. In questa nota Croce stabilisce, infatti, un’analogia, richiamandosi all’interpretazione desanctisiana di Machiavelli, fra la critica superficiale del Villari all’etica machiavelliana e le riserve che da parte di alcuni autori venivano rivolte sullo stesso tema a Marx, tacciandolo di insensibilità per il problema morale (cfr. Materialismo storico…, pp. 98-99). Con l’aggiunta di questa nota, Croce otterrà anche, nella seconda edizione del saggio citato, di rendere più comprensibile e meno estrinseco quell’accostamento finale di Machiavelli a Marx, che egli aveva proposto, quasi a suggello del proprio contributo, già nella prima redazione del ’97 (cfr. ivi, p. 104). 102. Cfr. la conclusione della n. precedente.

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nel capitale”103. E qui, l’intreccio dei motivi, raggiunge, come si vede, il massimo di complicazione grazie all’accostamento a Marx del Machiavelli foscoliano, interpretato in chiave antifrastica, e quindi “moralizzato”, nei celebri versi 154-158 dei Sepolcri. Cerchiamo, allora, di tirare le somme di tutto questo lungo e tormentato discorso. La contaminazione di Marx con Machiavelli si avverte soprattutto nel saggio del ’97 (quello che nella sua prima redazione, pubblicata negli Atti della Pontaniana, introduceva un riferimento a Machiavelli soltanto alla fine, in modo decontestualizzato ed apparentemente estrinseco104). Essa trapela attraverso l’esclusione rigida che Croce vi compie della dimensione etica dall’analisi e dagli intenti scientifici di Marx. Esclusione che contrasta in modo eclatante con quello che appena un anno prima, nella recensione al secondo saggio di Labriola sulla Concezione materialistica della storia (cioè alla Dilucidazione preliminare), egli aveva affermato, ossia che, sebbene Marx ed Engels, dovendosi confrontare con le tendenze utopistiche del socialismo precedente, avessero indotto “nella letteratura socialistica” una “forte corrente di relativismo morale”, era evidente che “l’idealità o l’assolutezza della morale” erano “un presupposto necessario del socialismo”, concludendo le sue considerazioni su questo punto con una domanda retorica: “L’interesse, che ci muove a costruire un concetto di sopravalore, non è forse un interesse morale o sociale che si voglia

103. Materialismo storico…, pp. 152-53. 104. E che è tanto più significativo, in quanto dimostra che la contestualità dell’accostamento era tutta nella testa di Croce e la impegnava a tal punto da non consentirgli neppure di accorgersi che ad un lettore qualsiasi qualche ragione in più dell’abbinamento fra i nomi di Marx e Machiavelli – oltre a quella che Marx, diversamente dai “puristi” dell’economia e della sociologia, avrebbe avuto di mira la “realtà concreta” ed “effettuale” – sarebbe forse stato opportuno proporla (come poi farà nell’edizione successiva del saggio, cfr., più su, la n. 101).

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dire?”105. Ma il saggio del ’97 è, d’altra parte, anche quello in cui, come sappiamo, Croce sviluppa e dà il massimo risalto all’interpretazione della teoria marxiana del valore già accennata nella nota al “Loria” del ’96, quella che fa leva sul concetto di “paragone ellittico”. Ora, un’interpretazione del genere, spostando l’asse del problema del plusvalore dal piano della genesi del suo oggetto nell’ambito del processo produttivo a quello della sua realizzazione ed appropriazione nella sfera della circolazione, era, per propria natura, tale da caricare il tema, volente o nolente l’interprete, di un significato essenzialmente morale e politico, come Croce, sia pure tra mille distinguo e

105. Cfr., supra, la n. 82. Questo contrasto è stato sottolineato – con riferimento ai medesimi passi del volume di Croce che abbiamo richiamato nel testo – anche da Guido Calogero, il quale rileva – sia pure nel quadro di un’interpretazione critica della teoria del valore-lavoro che ci appare, per gli argomenti sui quali si fonda, assai più debole ed equivoca di quella stessa proposta da Croce – che tale contrasto potrebbe essere risolto se solo si intendesse l’esclusione crociana del coinvolgimento dell’etica nella teoria del valore come relativo bensì alla pretesa che da tale teoria si possano dedurre conseguenze etiche ma non alla deducibilità della teoria stessa da un presupposto etico (cfr. G. Calogero, Il metodo dell’economia e il marxismo, Bari 19674, pp. 64 sgg.). Presupposto che per Calogero è non solo evidentemente implicito nella teoria marxiana, ma anche, e non meno evidentemente, nell’interpretazione che Croce ne prospetta. Ad ogni buon conto, a prescindere dal modo in cui Calogero ricostruisce il senso della legge del valore di Marx e ne sottolinea le difficoltà, questo saggio presenta diversi motivi di interesse se lo si considera nella prospettiva di un’analisi del pensiero non di Marx o del marxismo, ma dello stesso Calogero. In esso acquista notevole risalto un tratto della sua filosofia (quello della contrapposizione non risolubile fra esperienza – o storia – e verità – o onnipresenza) che per quanto mi riguarda ho cercato altrove di fare emergere, cfr. il saggio La fine della gnoseologia e la posizione del problema speculativo di Guido Calogero, compreso nella raccolta: Guido Calogero a Pisa fra la Sapienza e la Normale, a c. di C. Cesa e G. Sasso, Bologna 1997, pp. 275-357.

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forzature tornerà a riconoscere nei due contributi del ’99, che appariranno entrambi sulla Riforma sociale106. A conti fatti, dunque, è tra scienza e morale che l’utile deve ricavare il proprio spazio, sfruttando la variabilità dei confini che, in questa fase della riflessione crociana, separano le due sfere. È quello che accade attraverso l’incertezza della dislocazione della storia socio-politica nel saggio del ’97, dove, abbiamo già avuto modo di rilevarlo, questa, vista e interpretata come condizione, si colloca accanto alla scienza, contro la morale, mentre, vista e interpretata come conseguenza, si pone, al contrario, accanto alla morale, contro la scienza. Ciò vuol dire che l’utile potrà acquistare una propria autonomia categoriale solo facendosi largo fra queste due forme di espressione della realtà umana, ossia sottraendo qualcosa all’una e qualcosa all’altra. La sua posizione in quello che sarà il “circolo” della vita dello Spirito è, quindi, già acquisita, prima ancora che esso prenda corpo come una nuova categoria e chiarisca i suoi contorni e il suo orizzonte di influenza. E questo è importante, è addirittura decisivo, per comprendere il volto, complesso e tormentato, con il quale alla fine ci si presenterà la prima e la più elementare delle due forme dell’attività pratica che verranno distinte e coordinate nella “Filosofia dello Spirito”: con dei tratti e delle “competenze” desunti dall’etica (come quelli che, in generale attengono alla sfera della socialità) e con altri (che emergeranno solo più tardi) desunti dalla scienza (quelli cui farà riferimento la teoria degli pseudoconcetti, o che serviranno a definire il ruolo della tecnica nel sistema crociano). Dal loro incontro sul terreno dell’economicità, della volontà particolare e utilitaria, scaturiranno i motivi destinati a fare dell’utile un “distinto” che, nell’evoluzione del pensiero di Croce, avrà

106. I già ricordati: Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse e Marxismo ed economia pura.

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una storia anomala e rivelatrice. Quegli stessi motivi che, in modo specifico, conferiranno a questa categoria e alla sua articolazione in forme ed espressioni diverse (economia, politica, scienza naturale, diritto ecc.) una struttura tale da renderla incapace di contenere tutto ciò in vista di cui essa, progressivamente, mostrerà di essere stata concepita.

5. Le obiezioni di Croce alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto Dopo aver affrontato, nel modo che è stato esposto ed esaminato nelle pagine precedenti, la teoria dell’uguaglianza fra valore e lavoro – ossia il “cuore”, dal punto di vista dell’impianto categoriale, dell’opera maggiore di Marx –, Croce decide di dedicare la sua attenzione al “corollario” più rilevante che il III volume del Capitale proponga di questa uguaglianza e insieme della determinazione di un saggio generale o medio del profitto, che compare proprio in questa parte dell’opera per giustificare la divergenza dei prezzi dai valori senza contravvenire alla legge che fa dipendere i secondi dalla quantità di lavoro in essi “conglutinata”, a dispetto dell’apparente contraddittorietà che sembra rendere tale dipendenza incompatibile con il concreto funzionamento dell’economia capitalistica. L’importanza di questo corollario è data non solo dal rilievo che gli conferisce Marx, assegnandogli un’intera sezione (la terza) del volume nel suo complesso, ma anche – e soprattutto – dal fatto che esso si lega strettamente con la teoria del “crollo” del sistema di produzione capitalistico, sintetizzando in sé l’insieme delle “contraddizioni” che affliggono alla radice l’essenza stessa di questo sistema e lo proiettano verso una condizione di crisi irreversibile. Si tratta della legge che stabilisce una caduta “tendenziale” del saggio di profitto come componente ineludibile del processo di sviluppo tecnico-produttivo del

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capitalismo. Una legge che, sebbene venga definita da Marx, come si è appena detto, in termini di semplice “tendenzialità” (perché vi sono diversi fattori i quali, pur dipendendo dai suoi medesimi presupposti, possono, entrando in gioco, contrastare i suoi effetti), possiede tutta l’efficacia persuasiva di una scoperta che sembra riuscire nella difficile impresa di assegnare al capitalismo una disposizione inevitabile alla crisi, mettendo in rapporto diretto tale disposizione non con la debolezza del suo apparato economico e produttivo, ma piuttosto con la forza che rende inarrestabile la dinamica del suo sviluppo. La legge come tale è il risultato di un presupposto e di una serie di passaggi algebrici. Essa afferma che aumentando la composizione organica del capitale (cioè il rapporto fra il capitale costante e il capitale complessivamente impiegato), qualora il saggio del plusvalore (ossia il rapporto fra plusvalore e capitale variabile o capitale speso in salari, cioè nell’acquisto di forza-lavoro) rimanga costante, il saggio del profitto (vale a dire il rapporto fra plusvalore e capitale totale) deve diminuire. Il presupposto che sta alla base della legge è quello per cui il plusvalore e i suoi movimenti possono essere messi in relazione con il solo capitale variabile e con i movimenti di questo. Cosa che, a sua volta, dipende dall’assunto secondo il quale è il lavoro (inteso come lavoro vivo o lavoro umano) quello che valorizza il capitale, ovvero il fattore produttivo da cui dipende la creazione di nuovo valore. Il senso della legge è perciò che la composizione organica diminuisce quando il capitale variabile aumenta rispetto a quello costante (o perché questo non aumenta per nulla o perché aumenta di meno), infatti, in tal caso il denominatore del rapporto deve crescere più del suo numeratore: mentre aumenta nel caso opposto, per la ragione inversa. Ora, visto che, data la premessa di cui si è detto, il plusvalore si muove in sintonia con il capitale variabile, se il capitale complessivo aumenta perché aumenta il capitale variabile (e dunque diminuisce la composizione organica), aumenterà anche il plusvalore e di

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conseguenza il saggio di profitto, mentre accadrà il contrario se l’aumento del capitale complessivo dipenderà dall’aumento del capitale costante: in tal caso il plusvalore non crescerà (crescerà, invece, la composizione organica) e di conseguenza il saggio del profitto dovrà diminuire. Visto che il capitale costante è rappresentato dall’investimento in macchine o strumenti di lavoro e materie prime, l’aumento della composizione organica coinciderà con l’aumento di questa spesa e dunque, in generale, con il progresso tecnico, che tende a sostituite il lavoro umano con quello meccanico. Tuttavia, a contrastare gli effetti della legge, interviene il fatto che il progresso tecnico, può, in certe circostanze, far crescere il plusvalore anche a capitale variabile costante o decrescente. In tal caso aumenterà il saggio di plusvalore (che Marx chiama anche saggio di sfruttamento del lavoro) e dunque il saggio di profitto potrebbe non diminuire o diminuire meno di quanto la crescita della composizione organica del capitale dovrebbe, per parie sua, indurci a supporre. È questa possibilità che, derivando dalle stesse cause da cui dipende la diminuzione del saggio di profitto, opera in controtendenza rispetto a tale diminuzione e la rende, appunto, solo “tendenziale”. Questa possibilità ammette diverse “variazioni sul tema”, che Marx esamina in un capitolo dedicato alle Entgegenwirkende Ursachen, cioè alle “cause antagonistiche” rispetto all’azione della legge. Cause che, tuttavia, a suo giudizio, possono solo contrastare questa azione, rallentando il decorso dei suoi effetti e allontanando nel tempo l’esito al quale essi conducono, ma che non possono annullare la validità della legge stessa né, quindi, impedire che essa eserciti un’efficacia reale e non solo ipotetica o teorica. La legge non suscitò in un primo momento grandi obiezioni. Come ricorda lo stesso Croce all’inizio del suo contributo. I critici di “rito austriaco”, e tra questi innanzitutto Böhm-Bawerk,

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non le avevano prestato nessuna specifica attenzione107. Sombart, nella sua recensione al III volume, si era limitato a dichiarare la sua dimostrazione “splendidamente” condotta108, Schmidt, come abbiamo visto, l’aveva addirittura anticipata nel suo esame del rapporto fra Il saggio medio di profitto e la legge marxiana del valore109. Inoltre il “fatto” di una diminuzione del saggio di profitto in concomitanza con il processo di accumulazione era attestato da tutti i classici, sebbene né Smith né Ricardo ne avessero data una giustificazione persuasiva110. Le critiche rivolte a confutare espressamente la legge e il fenomeno che essa pretendeva di interpretare furono, dunque, per

107. Cosa che, come rileva anche Croce, poteva essere la semplice conseguenza del legame evidente che nel dispositivo teorico del III volume stringeva insieme la questione del rapporto fra valori e prezzi e quella della caduta del saggio di profitto. Anche la prima questione, infatti, come abbiamo visto, nasceva dalla constatazione che settori produttivi caratterizzati da una diversa composizione organica dei capitali in essi impiegati dovevano avere saggi di profitto diversi: maggiori dove la composizione organica era più bassa, minori nel caso opposto. Un nesso di inversa proporzionalità fra composizione organica e saggio del profitto era quindi già stato stabilito da Marx nell’individuare la causa di quel divario fra valori e prezzi di produzione che risultava mettendo a confronto l’analisi teorica del capitalismo basata sui valori con il concreto funzionamento delle dinamiche concorrenziali e di mercato operanti in un sistema reale. È evidente, pertanto, che la confutazione della teoria del valore ricavata dal confronto fra il I e il III volume del Capitale, vanificando il problema della “trasformazione”, doveva vanificare, agli occhi di Böhm-Bawerk, anche la necessità di criticare una legge che derivava dagli stessi presupposti dai quali dipendeva, appunto, quel problema. 108. Cfr. op. cit. alla n. 34 p. 564. 109. Cfr. supra, la n. 23. 110. Cfr. R. Rosdolsky, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx, tr. it. di B. Maffi, Roma-Bari 1975, vol. II, pp. 434 sgg., il quale, ricorda, fra l’altro, a proposito dell’impostazione insoddisfacente data da Ricardo al tema della caduta del saggio di profitto, che Ricardo non conosceva né la differenza fra capitale costante e capitale variabile né quella fra saggio del profitto e saggio del plusvalore.

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lo più, cronologicamente posteriori, e presero spunto proprio dalla impostazione, assai più articolata e complessa rispetto a quella dei suoi predecessori, data da Marx alla trattazione del problema111. Il saggio di Croce, che rifiuta il fatto come tale o nega quantomeno che esso possa conseguire dalle premesse sulle quali si basa Marx per darne una spiegazione, è, pertanto, forse il primo (risale infatti al 1899) a svolgere la tesi della pura insostenibilità degli argomenti esposti, a questo proposito, nel Capitale112. La critica di Croce si fonda (o presume di fondarsi) sulle stesse categorie marxiane dalle quali viene desunta la legge. Il suo intento, perciò, mira a far emergere una contraddizione interna al ragionamento di Marx. Lo scopo non è, qui, pertanto, quello di interpretare il testo e, come nel caso del saggio del ’97 e del significato che esso attribuiva alla teoria del valore-lavoro, di appianarne le contraddizioni, ma è, al contrario, quello di svolgere una confutazione sia del presunto fenomeno della caduta del saggio di profitto sia della legge chiamata a giustificarlo, mostrando che l’uno e l’altra non seguono dalle premesse di Marx, ossia, in altre parole, che sono mal dedotti. Per Croce, il progresso tecnico ha come obiettivo generale non quello di aumentare l’impiego di capitale, ma quello di ridurlo: “stessa produzione con minor spesa”113. Questa “minor spesa” è dovuta a due fattori strettamente connessi: a) aumento della produttività del lavoro e dunque diminuzione generale dei costi e dei prezzi di produzione (sia dei beni strumentali che

111. Cfr. L. von Bortkiewicz, Calcolo del valore e calcolo del prezzo…, cit., pp. 92 e sgg., e P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, cit. (Einaudi 1951), pp. 138 e sgg., e, in part., 142 e sgg. 112. Per la questione della priorità nella critica della legge marxiana, cfr., poco più avanti, la parte conclusiva della lunga nota 118. 113. Cfr. Materialismo storico…, p. 141.

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dei beni-salario) e b) diminuzione dell’impiego di forza-lavoro. Il primo fattore è strettamente collegato al secondo perché, in ultima analisi, ne dipende, in quanto “tutto è prodotto di lavoro”114. Croce suppone che il risparmio di capitale realizzato nell’acquisto di beni strumentali sia proporzionale a quello realizzato nell’acquisto di forza-lavoro, in modo che la composizione organica resti la stessa prima e dopo l’introduzione dell’innovazione tecnica. In questo caso, rimanendo immutato il saggio del plusvalore (ipotesi che viene implicitamente inserita fra le premesse dell’argomentazione di Marx), la massa del plusvalore (e quindi anche quella dei profitti) deve diminuire. La massa, si badi bene, non il saggio. Ma se ci limitassimo a questa conclusione potremmo, in linea teorica, arrivare a dedurne un progressivo disimpegno della forza-lavoro dal processo produttivo, fino ad ipotizzare la sua totale esclusione da tale processo e la sua sostituzione con “fonti automatiche di ricchezza”. Ciò comporterebbe, ovviamente, la fine del capitalismo, perché non ci sarebbe più la base su cui esso poggia, ossia “l’utilità del lavoro”, e sarebbe finito quindi anche lo sfruttamento, perché “gli ex capitalisti non avrebbero più operai da sfruttare”. Un’ipotesi del genere è, però, secondo Croce, “una vuota generalità”, che, proprio per questo, Marx non avrebbe, giustamente, preso neppure in considerazione115. Dunque, la forza-lavoro espulsa dal processo produttivo doveva, per lui (Marx) esservi reintrodotta. È appunto su questa ipotesi che si fonderebbe, a parere di Croce, la dimostrazione della legge svolta nel 13° capitolo del III volume del Capitale: per reimpiegare la forza-lavoro divenuta superflua, occorrerebbe investire capitale aggiuntivo in strumenti di lavoro e materie prime. In tal modo, la stessa

114. Cfr. ivi, p. 142. 115. Cfr. ivi, p. 143.

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quantità di forza lavoro di prima verrebbe abbinata ad un capitale costante maggiore, e la composizione organica aumenterebbe. La fallacia dell’argomento di Marx risalta, a giudizio di Croce, proprio in questo: che esso non tiene conto del fatto che il valore delle merci nelle quali si converte il capitale – sia costante sia variabile – è diminuito per effetto della generale crescita della produttività e per la conseguente diminuzione dei prezzi. Ma questo non significa che sia diminuita la sua “utilità naturale”. Pertanto, con lo stesso capitale di prima, o meglio, tenendo conto della diminuzione del valore anche dei mezzi di sussistenza, con un capitale più piccolo (in termini di valore) si potranno impiegare gli stessi lavoratori di prima, fornendoli di mezzi e materie prime aggiuntivi. Tirando quindi, in definitiva, le somme, se si assumono le premesse di Marx si dovrebbe raggiungere secondo Croce, come esito finale del ragionamento, la conclusione che, in conseguenza del progresso tecnico, un capitale minore assorbirebbe la stessa quantità di forza-lavoro e produrrebbe, quindi, la stessa massa di profitto. Ma “massa di profitto uguale con capitale complessivo minore significa saggio di profitto cresciuto”, non diminuito. Cioè un risultato diametralmente opposto rispetto a quello cui perviene il Capitale116. Gli errori che Croce commette nell’avanzare questa obiezione sono diversi, e alcuni sono stati già chiaramente indicati da coloro (per la verità, pochi) che hanno dedicato la loro attenzione a questa analisi. Il primo errore, anzi, ha una lunga tradizione, nel senso che si presenta come una variante (che tiene conto dei rilievi di Marx) di quello già a suo tempo denunciato nel I volume del Capitale, ribattendo le tesi dei teorici della “compensazione” che il capitale metterebbe in atto nei confronti degli “operai soppiantati dalle macchine” (James Mill, Mac-

116. Cfr. ivi, pp. 144-45.

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Culloch, Torrens, Senior, J. St. Mill e altri). Costoro sostenevano che, quando il lavoro umano viene sostituito dal lavoro meccanico, gli operai divenuti superflui possono essere sempre reimpiegati ricorrendo al capitale reso disponibile dalla loro estromissione dal processo produttivo. A questa tesi Marx contrappone una constatazione ovvia: il progresso tecnico, cioè l’estromissione di forza-lavoro dal processo produttivo in virtù della sostituzione di parte del lavoro vivo che questo assorbiva con lavoro meccanico, modifica quella che potremmo definire “composizione organica per unità di prodotto”, cioè il rapporto in cui, nella produzione di ogni singola unità di merce, entrano lavoro vivo e lavoro meccanico, nonché i corrispondenti valori. Questo vuol dire che per reimpiegare, alle nuove condizioni tecniche, la forza-lavoro espulsa, occorre un investimento incrementale in capitale costante (per cui, la quota di capitale resa disponibile dall’estromissione di forza-lavoro non potrebbe comunque essere reinvestita tutta nel riassorbimento della forza-lavoro estromessa), con la conseguenza (prescindendo dalla trasferibilità dei lavoratori da un settore produttivo ad un altro, che comunque non potrebbe essere né immediata né perfetta e richiederebbe l’entrata in gioco di molte altre variabili) che il rapporto tra lavoro vivo e lavoro meccanico si dovrebbe trasformare comunque (almeno nel settore in cui è stata introdotta rinnovazione) nel senso di un incremento (anche in termini di valore) del secondo rispetto al primo117. Il ragionamento di Marx parte, in ogni caso, dall’ipotesi che l’innovazione tecnica abbia, almeno nell’immediato, un costo. Ovvero che comporti un incremento netto del capitale impiegato nell’acquisto di strumenti e materie prime. La tesi di Croce è invece che l’innovazione tecnica, aumentando la produttività del lavoro, dovrebbe provocare una diminuzione generalizzata dei costi e dunque dei prezzi. Ora, anche volen117. Cfr. Il Capitale, vol. I, cit., pp. 482 sgg.

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do seguire Croce in questa ipotesi (cosa che, come vedremo, non è, in realtà, possibile) la diminuzione, lo abbiamo visto, riguarderebbe sia il capitale investito in beni strumentali sia quello investito in forza-lavoro. Tuttavia, dato che l’incremento generalizzato della produttività comporta una espulsione di forza-lavoro dall’ambito complessivo della produzione, quindi una diminuzione della domanda di questa particolare merce, i salari dovrebbero diminuire due volte, una per l’effetto della diminuzione dei prezzi dei beni-salario, l’altra; come conseguenza della diminuita richiesta di forza-lavoro. E il risultato sarebbe, comunque, una modificazione della composizione organica a favore del capitale costante rispetto a quello variabile. Resta da considerare, collocandola in un quadro di generale ed immediata diminuzione dei prezzi conseguente all’introduzione di nuove tecniche produttive, l’ulteriore supposizione di Croce: quella di un reimpiego della forza-lavoro espulsa. In questo caso, dato che il suo ragionamento considera il complesso della produzione, occorrerà supporre che la produzione sociale stessa venga incrementata118. Ciò non può avvenire 118. Questo, d’altra parte, era del tutto chiaro anche a Croce, che sottolineava, incidentalmente ma in modo inequivocabile, tale conseguenza, sebbene senza ricavarne quanto vi era di implicito (cfr. Materialismo storico…, p. 145). È strana, pertanto, l’osservazione di Guido Morpurgo Tagliabue, il quale, in uno dei pochi contributi sul tema apparsi nel secondo dopoguerra (cfr. G. Morpurgo Tagliabue, L’obiezione di Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, in “Giornale degli economisti”, 1946, pp. 175-193: p. 185), nel confutare un “critico recente” (P. Battara), che contestando le conclusioni di Croce sosteneva che esse si sarebbero basate sull’ipotesi irrealistica di una produzione immutata, rilevava non che l’accusa era infondata, ma che essa si sarebbe, in definitiva, potuta riassumere nell’ovvietà secondo la quale un reimpiego di forza-lavoro con capitale svalutato sarebbe stata “una contraddizione in termini” e che esso non avrebbe potuto non comportare “un aumento del prodotto” (cfr. p. 185). L’osservazione di Morpurgo, è inserita in un contesto non sempre chiaro, nel quale si riconosce che la divergenza di fondo fra Marx e Croce consiste nel fatto che mentre il primo ragiona in termini di imprese singole o di sin-

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senza aumentare l’impiego di capitale costante (se non altro per l’acquisto di materie prime aggiuntive, ma, verosimilmente, come abbiamo già visto, anche per ulteriori strumenti di lavoro, posto che il rendimento ottimale delle nuove macchine richieda l’impiego di una forza-lavoro proporzionalmente minore della precedente). La nuova domanda di forza-lavoro goli settori produttivi, il secondo ragiona in termini di produzione sociale, ossia “per totalità di imprese”, e questo, a giudizio di Morpurgo, porterebbe Croce a far coincidere il concetto di “progresso tecnico” con quello di “progresso economico”, interpretato come risparmio complessivo di mezzi per il conseguimento di uno stesso scopo, cosa che sottrarrebbe il suo ruolo autonomo alla composizione organica (rendendone, di fatto, inutile il concetto), dal momento che in una considerazione “per totalità di imprese” capitale costante e capitale variabile si muoverebbero, per definizione, nello stesso senso (cfr. p. 186). Pertanto, sulla base dei suoi presupposti, Croce avrebbe ragione, ma la sua critica non colpirebbe la tesi di Marx, che si fonda su presupposti diversi. L’interpretazione di Morpurgo – che nelle conclusioni coincide con la nostra ma che nel suo andamento appare contorta, sviluppata seguendo troppi “fili” e, anche per questo, spesso tutt’altro che limpida – misconosce il fatto che Croce accetta per intero il ruolo della composizione organica nelle variazioni del saggio di profitto, tanto è vero che la sua confutazione della legge si fonda proprio sul tentativo di dimostrare erroneo il principio che l’introduzione di tecniche innovative nel processo della produzione industriale comporterebbe un aumento della composizione organica. Il non aver compreso questo aspetto dell’argomentazione di Croce, spinge Morpurgo ad accreditare, contro ogni evidenza, la rivendicazione di priorità nella critica alla legge avanzata da Arturo Labriola (il quale, effettivamente, svolgeva la sua analisi riconducendo il fenomeno della caduta del saggio di profitto alla logica della concorrenza, ed escludendo dalla sua interpretazione ogni aspetto legato alla produzione, come, appunto, la composizione organica), e quasi ad avallare la sua (di Labriola) velata accusa di plagio rivolta contro Croce. La questione merita di essere ricostruita prestando una certa attenzione ai dettagli. Anche perché, dato il contesto nel quale Croce risulterebbe essere venuto per la prima volta a conoscenza della posizione di Labriola su questo tema, il fatto che egli possa essersi ispirato agli argomenti ai quali tale posizione si affidava getta sul suo modo di procede l’ombra di un sospetto assai grave. Per 1’esame della vicenda connessa a questa disputa e per una valutazione comparativa degli argomenti di Croce e di Labriola si veda l’appendice.

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farà, allora, recuperare in parte la diminuzione del suo prezzo (solo in parte, però, perché resterà comunque la diminuzione legata all’abbassamento dei prezzi dei beni-salario), ma in una situazione in cui dovrà crescere, proporzionalmente (sebbene a prezzi diminuiti rispetto alla situazione precedente l’introduzione delle nuove tecniche) il valore del capitale costante. Anche adottando l’ipotesi di Croce, quindi, ma solo alla condizione che tale ipotesi venga sviluppata (cosa che Croce non fa) fino alle sue ultime conseguenze, la nuova composizione organica del capitale complessivo manterrebbe l’incremento conseguito, con l’introduzione dei processi innovativi, nei confronti di quella precedente tale introduzione. Fin qui abbiamo seguito la logica intrinseca all’ipotesi adottata da Croce. Ora. però, dobbiamo mettere in questione gli stessi presupposti sui quali tale ipotesi si fonda. In primo luogo quello dell’immediato generalizzarsi degli effetti dell’incremento di produttività in un settore all’intero ambito della produzione complessiva. Questo presupposto implicito della posizione di Croce è messo in luce da Giulio Pietranera, singolare figura di economista marxista di formazione crociana, uno dei pochi sostenitori, ancora nel 1947, della validità della legge concernente la caduta tendenziale del saggio di profitto. Pietranera fa osservare che una diminuzione generalizzata dei prezzi di tutte le merci comprese nel complesso della produzione sociale di un determinato paese sarebbe possibile solo se fosse lecito assumere il generalizzarsi dell’incremento di produttività, cioè il suo estendersi all’intero sistema (ossia al complesso dei settori produttivi), come “istantaneo”. In altre parole, mentre Marx fonda la sua legge su un’ipotesi dinamica, che presuppone il graduale estendersi del progresso tecnico ai diversi settori della produzione sociale, l’ipotesi di Croce si fonda su un presupposto statico: essa potrebbe anche applicarsi allo stadio finale del processo di incremento, su base tecnica, della produttività sociale, ma, se questo viene considerato come qualcosa che si

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produce nel tempo (nei termini, cioè, che Marx tiene presenti, e che sono i soli cui la legge possa applicarsi), essa si risolve in una petizione di principio; nel dare, cioè, per già avvenuto, ciò che deve ancora realizzarsi (come l’estensione dei nuovi metodi produttivi all’intero settore che produce beni strumentali e nello stesso tempo al complesso di quello che produce beni-salario). Ciò comporta anche un’altra divergenza fra l’ipotesi da cui parte Marx e quella da cui parte Croce: il secondo considera il processo economico dal punto di vista della produzione sociale nel suo insieme. La sua visione, sostiene Pietranera, è “per totalità di imprese”. Ma la legge scoperta da Marx richiede, per essere valutata correttamente, che si prenda in esame la dinamica dell’innovazione con riferimento (cosa del resto inevitabile, come abbiamo visto, se si vuole che il punto di vista adottato sia realmente dinamico) alla produzione della singola impresa o del singolo settore merceologico. A questo punto, se quanto abbiamo rilevato è vero, risulta evidente, da tutto il contesto, che la pretesa di Croce di formulare un’obiezione che fosse fondata sugli stessi presupposti e le stesse premesse, su cui Marx si basa per enunciare la legge della caduta del saggio di profitto, è insostenibile: la sua (di Croce) critica della legge dipende, in realtà, da premesse completamente diverse e da un’impostazione che, con quella di Marx, non ha nulla a che vedere119. Pertanto essa non è affatto in grado di fare emergere, come Croce pensava, “le contraddizioni” del ragionamento di Marx e tanto meno, dunque di invalidarne le conclusioni. Ma l’obiezione di Croce alla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, sebbene sia, come la sua interpretazione della teoria del valore-lavoro, fondata su una comprensione equivoca del testo di Marx, è di grande interesse, 119. Cfr. G. Pietranera, La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la critica revisionistica, in Capitalismo ed economia, Torino 19722, pp. 147-176, v. in part. le pp. 160 sgg..

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perché rivela una disposizione mentale e culturale riguardo alla tecnica che dovremo, innanzitutto, far venire alla luce, e che, una volta emersa, apparirà determinante per comprendere il problema maggiore da cui il concetto dell’“utile” risulta afflitto nella sua configurazione finale. Nella legge, infatti, e nelle questioni ad essa collegate, la tecnica gioca un ruolo determinante. Un ruolo che, sia pure partendo da presupposti diversi, tanto Marx quanto Croce sembrano volere ridimensionare, l’uno proprio con l’enunciazione della tendenza alla caduta del saggio di profitto, l’altro svolgendone la critica nel modo che si è visto. Se l’aumento – che è un fatto constatabile ed evidente già alla fine del secolo XIX – del peso del capitale costante rispetto al capitale variabile non avesse, come conseguenza almeno tendenziale, la diminuzione del saggio di profitto e quindi la crisi del sistema capitalistico, il cui unico scopo consiste nel produrre plusvalore, ossia nel valorizzare il capitale, l’intero impianto dell’analisi di Marx verrebbe messo a dura prova, visto che esso fa dipendere il processo di valorizzazione del capitale dal solo lavoro umano. Dato questo presupposto, deve evidentemente sussistere ed essere riconoscibile una proporzionalità diretta fra capitale variabile e plusvalore, mentre deve sussisterne una inversa fra questo e il capitale costante. Ma è singolare dover supporre che, in ultima analisi, il capitale tenda al proprio suicidio. Per sforzi che si facciano, non sembra onestamente possibile attribuire al progresso tecnico in ambito produttivo altro movente che l’accrescimento della ricchezza e della redditività del capitale investito. Se un aumento della spesa destinata all’acquisto e alla sostituzione dei mezzi di produzione impiegati fin qui con strumenti nuovi e più efficienti non avesse come effetto questo incremento di redditività, perché tale spesa verrebbe sostenuta? È per questo motivo che la legge, secondo Marx, è solo “tendenziale”, perché se non lo fosse, tutta la razionalità da lui ascritta, come caratteristica determinante, a quella forma di produzione che

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è propria del sistema capitalistico, verrebbe smentita in modo clamoroso. D’altra parte, se l’innovazione tecnica opera nel senso di sostituire lavoro umano con lavoro meccanico, ossia nel senso di promuovere un risparmio di lavoro umano attraverso un incremento della sua forza produttiva, la legge deve pure, alla fine, farsi valere, perché meno lavoro umano, anche se più produttivo, deve in ultima analisi significare, per Marx, una minor quantità di nuovo valore prodotto. Se questa conseguenza non si potesse trarre, si potrebbe arrivare all’ipotesi di una produzione capitalistica interamente automatizzata e fondata solo sul lavoro meccanico, visto che, per quanto futuribile, essa rappresenta l’ipotesi-limite cui un incremento indefinito del progresso tecnico-produttivo deve inevitabilmente tendere. Ma un tale sbocco ipotetico è in contraddizione con l’essenza stessa del capitalismo secondo Marx, per cui o esso si dimostra irraggiungibile anche in linea teorica – attraverso una dimostrazione del fatto che prima di conseguire un esito di questo genere la tendenza implicita nella dinamica della produzione capitalistica dovrebbe, comunque, determinare il crollo del sistema – oppure la teoria del valore-lavoro ne verrebbe smentita. Ricordiamoci dell’enfasi e della severità con le quali Engels aveva respinto l’ipotesi di soluzione del rapporto fra valori e prezzi anticipata da Conrad Schmidt, pur riconoscendo la sua serietà e il suo acume. La stessa enfasi e la stessa severità con le quali, molti marxisti di inizio secolo (dallo stesso Schmidt a Kautsky e Rudolf Hilferding, a Rosa Luxemburg e all’americano Louis B. Boudin) si sono scagliati contro le tesi dell’economista revisionista russo Tugan-Baranowsky120. L’una 120. Tugan è l’autore di due opere che nei primissimi anni del secolo XX (1901-1905) misero in questione la teoria del crollo, contestando l’inevitabilità delle crisi da sottoconsumo: cfr. Shudien zur Theorie and Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, e Theoretische Grundlagen des Marxismus, Leipzig 1905. In questo secondo contributo egli si spinse a teorizzare – come, appunto, ipotesi-limite – l’eliminazione di tutta la forza-

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e l’altra (la soluzione di Schmidt e la teoria di Tugan) mettevano, infatti, in discussione – la prima senza avvedersene, la seconda mirando, in realtà, solo a separare concettualmente la produzione dal consumo – proprio la dipendenza del valore e della ricchezza dal lavoro umano. E lo facevano attribuendo, almeno indirettamente, il potere di creare ricchezza (anche) alla macchina. Ma se questo spiega la ragione per la quale il problema del progresso tecnico e del conseguente estendersi dell’impiego del lavoro meccanico nel ciclo produttivo costituisce per Marx e per il marxismo a cavallo fra i due secoli una questione tanto tormentosa quanto imbarazzante121, non spiega per quale motivo esso rappresenti una analoga ragione di imbarazzo per Croce. Eppure non c’è dubbio che le cose stiano così: non solo nella sua critica della legge riguardante la caduta del saggio di profitto l’incremento di produttività derivante dall’introduzione di procedimenti tecnici innovativi è risolto interamente in una diminuzione di costi e quindi di prezzi, piuttosto che in un incremento di produzione e di ricchezza, cioè in un aumento di plusvalore122; ma quando Croce tocca – dopo averlo, come abbiamo visto, già fatto nel corso

lavoro dal processo produttivo e la sua sostituzione con le macchine (cfr. op. cit., p. 230). Per questa questione e tutte quelle connesse alla polemica siviluppatasi nei primi decenni del ’900 sul “crollo” del capitalismo, v. P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, 1a ed. cit., pp. 207-276 e il volume antologico corredato di un’ampia introduzione, su Il marxismo e il crollo del capitalismo, a c. di L. Colletti, Roma-Bari 1975. 121. È sufficiente, a testimoniarlo, il peso e la frequenza con la quale il tema ricorre in quello straordinario “canovaccio” ed insieme anche laboratorio del suo pensiero economico che sono i Grundrisse. 122. Che è la ragione cui si appella Bortkiewicz per contestare la validità della legge (cfr. La teoria economica di Marx, cit., pp. 92-93) e anche quella cui, in sostanza, pur prendendo in parte le distanze da Bortkiewicz, fa riferimento Sweezy nella sua analisi critica di questo tema (cfr. La teoria dello sviluppo capitalistico, cit., pp. 138 sgg.).

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della sua esposizione-interpretazione critica della legge123 – incidentalmente, l’ipotesi di una totale sostituzione del lavoro umano ad opera del lavoro meccanico – (quasi un’anticipazione della tesi di Tugan – svolta molto sinteticamente da Graziadei in un breve intervento sulle Teorie del valore di Carlo Marx e di Achille Loria, comparso nel 1894 sulla rivista di Turati124, ha toni quasi sprezzanti:

123. Cfr., supra, la n. 115 e il testo al quale essa si riferisce. 124. Cfr. “Critica Sociale”, IV (1984), pp. 347-49. La tesi sviluppata da Graziadei in questo scritto coincide (in alcuni punti alla lettera) con quella più ampiamente argomentata, che egli ebbe a sostenere nella sua tesi di laurea, redatta nello stesso periodo (seconda metà del 1894) e discussa l’anno successivo (1895) presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Il titolo di questo breve lavoro, Il capitale tecnico e la teoria classico-socialista del valore, allude espressamente al problema che, partendo dal dibattito sorto prima della pubblicazione del III volume del Capitale in merito al contrasto fra teoria del valore e saggio medio di profitto, e poi riaperto dalla comparsa dell’ultimo tomo dell’opera principale di Marx, Graziadei affronta e discute nella seconda parte: se il capitale tecnico sia o no produttore di plusprodotto. La risposta di Graziadei è che, contrariamente all’assunto di Marx (e di Loria), anche le macchine danno luogo ad una creazione di eccedenza e conseguentemente di profitto (cfr. A. Graziadei, Il capitale tecnico e la teoria classico-socialista del valore, a c. di M. Gallegati, in “Quaderni di storia dell’economia politica”, 1 (1983), fasc. II, pp. 151-164: pp. 157 e sgg.). In proposito è davvero sorprendente quello che, nella breve introduzione, afferma il curatore. Che la tesi di Graziadei non comporti il “ritorno alle idee borghesi sulla produttività del capitale fisico o ad un’economia ‘volgare’ in cui il capitale è assimilato al lavoro come agente di produzione” è una dichiarazione quantomeno ambigua se si mette a confronto con la posizione chiaramente espressa da Graziadei, secondo la quale “come il lavoratore rappresenta un organismo che, per la sua costituzione, può produrre più di quello che consuma, così la macchina è uno strumento che produce una quantità di merci molto maggiore di quella che è necessaria alla sua creazione e al suo mantenimento” (op. cit., p. 160). Inoltre la tesi che “il fondamento dell’economia è il lavoro”, attribuita a Graziadei e citata a suffragio dell’interpretazione che Gallegati propone di questo scritto giovanile, può voler dire tante cose, ma non certo che quello che Graziadei chiama “il capitale tecnico” non sia per lui produttivo, come lo è il lavoro

409 Permetta il Graziadei ch’io noti che non è la prima volta ch’eumano, di “sopraprodotto”. Non può voler dire questo, perché una interpretazione del genere risulta smentita espressamente da quanto Graziadei afferma non solo nei contributi già ricordati del 1884 ma anche, a molti anni di distanza, per esempio in una nota del saggio Le capital et la valeur, pubblicato in francese (Paris-Lausanne 1937) e poi tradotto in italiano (Il capitale e il valore, Roma 1948): cfr. pp. 33-34 dell’ed. franc. e 32-33 di quella italiana. Quello che è estremamente interessante della posizione di Graziadei relativa al “capitale tecnico”, oltre alla perfetta simmetria che il suo saggio stabilisce tra la prestazione della macchina e quella della forza-lavoro, è il fatto che egli mette direttamente in collegamento l’errore compiuto a suo parere da Marx (e da Loria) nell’assegnare la capacità di creare plusprodotto solo al lavoro umano, con il divario fra valori e prezzi (interpretato come la prova definitiva dell’insostenibilità della teoria del valore) e con la caduta del saggio di profitto (sebbene la legge che la riguarda non sia espressamente attribuita alla responsabilità di Marx, cosa che è singolare e che richiederebbe qualche ipotesi esplicativa), da lui presentata come un paradosso insostenibile perché chiaramente smentito dai fatti. Da qui la distinzione fra produzione e valore (e anche tra plusprodotto e profitto), che rende sufficientemente conto sia della lettera a Loria citata da Gallegati (cfr. op. cit., p. 163, n. 7: i due concetti sono, appunto, distinti, e quello di “capitale” qui evocato include tanto “il capitale tecnico” quanto “il capitale salario”, cfr. p. 159) sia delle affermazioni ricorrenti di Graziadei secondo le quali il capitale tecnico genera profitto (in un sistema capitalistico il plusprodotto è comunque alla base del reddito da capitale, che si realizza, però – e non solo in senso monetario – esclusivamente nella e attraverso la circolazione). La posizione di Gallegati è tanto più sorprendente perché gli sono note la critica di Croce allo scritto di Graziadei apparso nel ’94 su “Critica sociale” e l’interpretazione che Francesco Coletti diede di questo stesso scritto in una lettera indirizzata a Loria nel medesimo anno (cfr. nn. 5 e 8 pp. 163-64), dalle quali risulta inequivocabilmente il senso della tesi di Graziadei. Ultimo motivo di sorpresa è rappresentato da quello che Bellanca dice nel capitolo dedicato a Graziadei del suo libro, nel quale si dimostra interamente tributario dell’interpretazione di Gallegati (cfr. Economia politica e Marxismo in Italia, cit., p. 141, n. 10) radicalizzata fino al punto di sostenere che “per tutta la vita Graziadei avrebbe studiato la tesi” che l’eccedenza è originata dal lavoro umano senza mai discutere l’altra, equivalente e simmetrica, che essa possa essere originata dal capitale: cfr. op. cit., pp. 138-39. Questa incredibile reticenza a prendere atto di quanto viene affermato con assoluta chiarezza in un testo che pure si dovrebbe avere ben presente visto che

410 gli fa scoperte, che sono poi equivoci. Alcuni anni fa, dibattendosi nella rivista Critica Sociale una polemica sulla teoria della formazione del profitto nella dottrina del Marx […] scriveva “Noi possiamo benissimo ideare una società in cui non già col sopralavoro ma col non lavoro esista il profitto. Se infatti tutto il lavoro compiuto ora dall’uomo fosse surrogato dall’opera delle macchine queste, con una quantità di merci relativamente piccola, ne produrrebbero una quantità enormemente maggiore […]”. Ma qui il Graziadei dimentica di spiegare come potrebbero esistere lavoratori e ottenersi profitto dal lavoro, in una società ipotetica fondata sul non lavoro e in cui tutto il lavoro, già compiuto dall’uomo, verrebbe compiuto dalle macchine. Che cosa farebbero ivi i lavoratori? L’opera di Sisifo o delle Danaidi? […] che se poi egli intendeva che le macchine producessero automaticamente beni esuberanti per gli uomini tutti di quella società, in tal caso faceva la semplice ipotesi del paese di cuccagna125.

Il punto è che Croce, pur interpretando la teoria del valore come “paragone ellittico” e cioè pur non ammettendo senz’altro che il valore, inteso in senso economico, coincida con il lavoro, è comunque in grado di escludere, fin d’ora, che esso possa coincidere con la tecnica o derivare da essa. Il “valore”, al quale Croce – lo vedremo meglio affrontando, tra poco, il problema del “principio economico” sollevato e discusso nelle due lettere a Pareto – attribuisce il ruolo di “concetto cardine” intorno al quale ruotano le definizioni della scienza economica, ha già adesso, o sta cominciando ad assumere, un signifise ne parla o addirittura, come nel caso di Gallegati, se ne propone per la prima volta l’edizione a stampa, potrebbe essere interpretata come un’ulteriore prova di quanto abbiamo detto, poche righe più su nel testo, riguardo al rapporto fra marxismo e “macchinismo” (confronta, supra, la n. 120 e le considerazioni alle quali essa si riferisce). 125. Materialismo storico…, p. 136, n. 1 (si tratta della conclusione del saggio, pubblicato sulla “Riforma Sociale” nel 1899, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse).

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cato più ampio, che lo porterà a rivestire il ruolo di “genere” rispetto alle diverse espressioni o “categorie” nelle quali prenderà corpo, in seguito, l’intero circolo delle attività fondamentali dello Spirito. Proprio replicando a Graziadei, sostenitore, come abbiamo visto, della possibilità di “dedurre il profitto indipendentemente dalla teoria del valore”126, nelle stesse pagine dalle quali è tratta la citazione precedente, Croce aveva detto che “Un’Economia, nella quale si prescinda dal valore, è una Logica in cui si prescinda dal concetto, un’Etica in cui si prescinda dall’obbligazione, un’Estetica in cui si prescinda dall’espressione”127. Le iniziali maiuscole che qui vengono assegnale ai nomi delle quattro discipline filosofiche nelle quali, fra non molto, prenderà corpo e si articolerà la Filosofia dello Spirito – Economia, Logica, Etica ed Estetica – ci avvertono che siamo già in clima di “distinti”. In questo clima la tecnica deve essere, se è qualcosa (e qualcosa certamente è), espressione di un valore. Ma non può, essa stessa, esprimere o creare valore128. È questa la strettoia per la quale è necessario passare

126. Ivi, p. 134. Il volume di Graziadei cui Croce fa riferimento in questo luogo è La produzione capitalistica, Torino 1899, nel quale Graziadei sostiene la tesi che il profitto non è determinato dal plusvalore ma dal plusprodotto e che pertanto Marx ha ragione di ricercarne l’origine nella sfera della produzione anziché in quella della circolazione, ma sbaglia ad ancorare tale indagine ad una teoria del valore (cfr. pp. 1-14). Nel saggio Graziadei prende posizione anche nei confronti dello scritto di Croce del ’97, dichiarandolo “notevolissimo”, ma sostenendo nello stesso tempo la sua assoluta incompatibilità con l’analisi di Marx (cfr. p. 230). 127. Op. cit., p. 135. 128. Questa è, verosimilmente, la ragione per la quale Croce, pur così attento ed informato sul dibattilo sviluppatosi intorno al terzo libro del Capitale, non ha nessuna conoscenza diretta dell’opera di Conrad Schmidt, come abbiamo già avuto modo di rilevare (cfr., supra, n. 47). Con ogni probabilità, la natura della critica di Engels a Schmidt contenuta nella prefazione al III volume dell’opera di Marx, doveva aver convinto Croce che non valesse la pena di sottoporsi alla fatica di approfondire una tesi tanto peregrina da so-

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se vogliamo arrivare a comprendere le ragioni del profilo determinato che l’utile assumerà nella configurazione sistematica conferita da Croce, qualche anno dopo, all’assetto definitivo del proprio pensiero, e soprattutto se vogliamo mettere in luce quanto, nelle successive definizioni di questa categoria, continuerà ad annidarsi di non risolto e di inespresso o anche solo di parzialmente espresso: quella “inquietudine” o quel movimento interno, che imprimerà all’utile il suo impulso inappagato – e probabilmente, entro il quadro del pensiero crociano, anche inappagabile – ad evolvere in qualcosa d’altro.

6. Il principio economico e il problema della tecnica nelle lettere a Pareto e nella risposta ad Ulisse Gobbi Sul fatto che le due lettere pubblicamente indirizzate da Croce a Pareto e apparse sul Giornale degli Economisti con le date, rispettivamente, del 15 maggio e del 20 ottobre 1900 rappresentino una tappa importante nell’evoluzione del suo pensiero, non solo con riferimento alla teoria dell’utile ma in generale, non corre alcun dubbio. In esse – lo aveva già a suo tempo sottolineato Aldo Mautino nel noto saggio da lui dedicato alla formazione della filosofia pratica di Croce e in particolare dei concetti di “economicità” e di “politica”129 – per la prima volta il filosofo napoletano affronta tematicamente il problema dell’economia come espressione autonoma della realtà, retta da un principio suo proprio.

stenere – secondo quello che egli poteva ricavare da Engels – che il capitale avesse, di per sé – e non come strumento del lavoro umano o come fattore interno ad una dinamica di mercato – la capacità di produrre valore. 129. Cfr. A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Torino 1941, p. 50.

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Lo spunto a riflettere su questo tema, spingendolo a dare forma ad idee che, evidentemente, si agitavano in lui già da diverso tempo senza trovare il modo di venire con chiarezza allo scoperto, gli fu offerto da due scritti di Pareto, molto simili sebbene non del tutto coincidenti, che gli era capitato di leggere poco prima: uno era il testo di una “memoria” presentata nel dicembre 1898 ai membri della società scientifica “Stella” di Losanna; l’altro un’anticipazione, che apparve sul Giornale degli Economisti in due parti130, tra il marzo e il giugno del 1900, di alcuni frammenti del futuro Manuale di economia politica, scelti a cura della direzione della rivista, e pubblicati con il titolo: Sunto di alcuni capitoli di un nuovo trattato di economia pura del prof. Pareto. In questo secondo testo, Pareto prendeva le distanze non solo dal principio edonistico proprio dell’economia pura o marginalistica, ma anche da quel principio di “ofelimità” con il quale, nel Cours d’économie politique, uscito a Losanna fra il 1896 e il 1897, egli stesso aveva già cercato di eludere i problemi che nascevano dall’impiego del concetto di “piacere” nell’economia marginalistica e dal suo significato equivoco. La natura soggettivamente variabile del piacere, infatti, lo rendeva, a suo parere, poco suscettibile di quantificazione. Questo lo aveva spinto a cercare un principio dell’agire economico, l’ofelimità appunto, che si limitasse a registrare il dato dell’inclinazione soggettiva e che pertanto potesse, in riferimento al singolo individuo, consentire di elaborare una “scala” di preferenze, a ciascuna delle quali fosse possibile associare un valore numerico. Tale concetto, tuttavia, conservava un tratto qualitativo, variabile da soggetto a soggetto, e per questa ragione pur sempre ambiguo, cosa che indusse Pareto a sostituirlo con quello della scelta, interpretata

130. Ma la discussione fra Croce e Pareto tiene presente solo la prima di queste due parti, cfr. “Giornale degli economisti”, serie II, XIX (1900), pp. 216-235.

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come un puro e semplice fatto che si può constatare oggettivamente – perché per farlo non c’è bisogno di tener conto delle sue motivazioni soggettive – e che per questo gli appariva più facilmente suscettibile di elaborazione matematica131. Interpretando in questo modo la scienza economica e i suoi compiti, Pareto finiva, così, per essere indotto dalle sue stesse premesse ad assimilarla, in ultima analisi, alla meccanica132. Croce reagisce, in primo luogo, proprio contro questa analogia: per lui l’economia è una scienza solo se è dotata di un principio autonomo, e tale principio non può che essere qualitativo, dunque non quantitativo e meccanico. Il giudizio economico, quello con cui si giudica il comportamento di un soggetto che agisce in vista del proprio utile personale, e un giudizio di valore, o meglio di valutazione, per mezzo del quale si afferma che tizio ha agito o non ha agito in modo economicamente corretto, che ha agito economicamente o antieconomicamente133. Tra le azioni economiche e quelle antieconomiche non c’è mediazione né passaggio graduale e continuo: esse sono opposte come un valore e un disvalore: per l’uomo che sceglie, tutto ciò che non rientra nella sua scelta ne è escluso. Ciò significa non che ha un valore più piccolo, ma, semplicemente, che è privo di valore134. Questo è il primo punto sul quale verte la sua divergenza da Pareto. Ma ce n’è anche un altro, più complesso e ricco di implicazioni. In entrambi gli scritti che abbiamo citato e che forniscono a Croce lo spunto per la sua prima lettera “sul principio econo-

131. Cfr. ivi, pp. 221-23. 132. Cfr. ivi, p. 224. 133. Cfr. Materialismo storico…, p. 211. 134. Cfr. ivi, p. 212.

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mico’’ (la seconda è una risposta alla replica di Pareto), Pareto fa riferimento ad una distinzione che avrà un ruolo importante anche nella sua sociologia: quella fra azioni logiche e azioni non logiche. L’economia si rivolgerebbe al primo tipo di azioni. Tuttavia, se nel Sunto la distinzione si presenta in questa forma semplificata, nella memoria del ’98 essa ha un carattere assai più articolato, giungendo ad individuare quattro diversi tipi di azioni: quelle sperimentali e logiche, quelle sperimentali e non logiche, quelle non sperimentali e logiche, quelle non sperimentali e non logiche135. Inoltre, ciascuna di queste azioni avrebbe, secondo Pareto, degli antecedenti (che, ovviamente, rappresenterebbero la base per definire i moventi delle azioni), e questi antecedenti sarebbero costituiti o da fatti reali oppure da “entités non réelles, non expérimentales, métaphysiques”136. Anche la distinzione suddetta, però, riguarda esclusivamente gli antecedenti che si riflettono nella coscienza del soggetto (e che proprio per questo possono diventare moventi), che in altre parole sono reali oppure ideali e metafisici per lui. Una simile precisazione permette di comprendere come mai, dopo aver introdotto quella differenza fra antecedenti, Pareto possa aggiungere: “Il ne faut pas oublier qu’il s’agit ici, non des antécédents réels, mais des antécédents qui se reflètent dans la conscience du sujet”137. In questo modo, infatti, le azioni economiche, che rientrano nel primo genere di azioni (sperimentali e logiche) hanno moventi reali che sono, in fondo, solo opinioni soggettive, nel senso che la loro realtà non è niente più di questo. Di conseguenza, antecedenti reali in senso oggettivo

135. Cfr. Comment se pose le problème de l’économie pure, Mémoire présénté, en décembre 1898, à la Société “Stella”, par le prof. Vilfredo Pareto, in Marxisme et Économie pure, vol. IX delle Œuvres Complétes, publiées sous la direction de G. Busino, Genève 1966, pp. 102-109: p. 104. 136. Ibid. 137. Ibid.

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risultano, da questo punto di vista, per la scienza economica, qualcosa – potremmo dire adottando una terminologia kantiana – di noumenico e perciò di inattingibile. Insomma, se ne renda conto o no, Pareto configura qui una situazione per la quale, rispetto ai moventi e agli antecedenti delle azioni, il conscio è soggettivo (e dunque non oggettivamente reale) e l’oggettivamente reale è inconscio (ovviamente non nel senso psicoanalitico del termine – sebbene la distinzione paretiana possa in teoria abbracciare anche moventi di questo tipo – ma in quello molto più generico per il quale “inconscio” o “inconsapevole’’ è tutto quello che non appartiene all’orizzonte cognitivo e che resta al di fuori della portata della coscienza). Vediamo, adesso, come Croce reagisce a questa impostazione. Per prima cosa egli nota che il “fatto economico”, per Pareto, se è ancorato ad una scelta, deve essere un fatto che ha a che fare con la volontà138. Diciamo così: un fatto pratico, non teoretico. Dunque, definire le azioni come “logiche” e “illogiche”, in quanto si tratti di azioni pratiche, non ha senso, perché “logico e illogico rimandano chiaramente all’attività teoretica”139. Occorre fare attenzione: Croce parla di logico e illogico, Pareto parla di logico e non logico. In effetti, nel Sunto, c’è un passo in cui compare l’alternativa logico-illogico al posto di quella logico-non-logico140, ma la cosa non desta alcuno stupore: per Pareto, anche se quasi sempre egli sceglie di usare l’altra forma, la seconda non deve poi essere così diversa dalla prima. Per Croce, invece, le cose stanno altrimenti, e benché la teoria dei quattro gradi distinti dello Spirito, con la differenza che essa introdurrà fra il concetto di “distinzione” e quello di “opposizione”, sia ancora di là da venire, nondimeno il teoretico è

138. Cfr. Materialismo storico…, p. 216. 139. Ibid. 140. Cfr. op. cit., p. 220.

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già pienamente distinto dal pratico. Perciò, se il primo coincide con la logicità (e, di conseguenza, ciò che in esso si presenta come negativo, con l’illogicità), il secondo dovrebbe essere caratterizzato altrimenti e definito, dunque, sotto un tale riguardo, solo in termini privativi, ossia come non-logico, qualcosa di tanto diverso dall’illogico quanto l’agire pratico-utilitario lo è da un errore concettuale. Il fatto è che Croce ha, per qualche ragione, in mente proprio l’errore (l’illogico) – che, non dimentichiamolo, è, per definizione inconscio: non è infatti possibile ingannarsi, cioè, appunto, commettere un errore di carattere teorico o concettuale, consapevolmente – come dimostra il suo modo di argomentare contro la distinzione proposta da Pareto e contro la conseguente inclusione delle azioni economiche nell’ambito delle azioni logiche. In primo luogo Croce osserva che interpretare l’agire economico come agire logico comporta “l’erronea concezione del principio economico come fatto tecnologico”141. La tecnica, infatti, in questa fase di evoluzione del suo pensiero, rientra a pieno titolo nella sfera teoretica. Ma la cosa interessante è quella che Croce dice subito dopo, svolgendo la sua confutazione della tesi di Pareto: “A chi voglia scorgere a colpo d’occhio la differenza tra il tecnico e l’economico, suggerirei di considerare bene in che consista un errore tecnico, ed in che un errore economico”142. È dunque dalla differenza fra questi due tipi di errore che risalta quella fra il teoretico e il pratico. E questa differenza consiste in ciò: che “È errore tecnico l’ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare […] È errore economico non mirar dritto al proprio fine, voler questo e insieme quello, ossia non voler veramente

141. Materialismo storico…, p. 217. 142. Ibid.

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né questo né quello. L’errore tecnico è errore di conoscenza; l’errore economico è errore di volontà”143. Potremmo supporre che il percorso di Croce sia stato, all’incirca, questo: posto che le azioni economiche fossero – come vorrebbe Pareto – “logiche”, e posto che, secondo la stessa formulazione paretiana del rapporto fra le premesse dell’agire e l’agire, le premesse consce (delle quali, cioè, l’agente è consapevole e che dunque gli forniscono dei moventi) fossero sempre soggettive, allora l’azione – nella sua “verità”, ossia dal punto di vista degli antecedenti inconsci o ignoti che oggettivamente la condizionano e che rappresentano la ragione effettiva del suo prodursi – dovrebbe essere sempre inconsapevole. Noi potremmo esprimere questo risultato tanto negando che la realtà dell’agire sia razionale quanto riconoscendo il suo essere inconscia. In entrambi i casi dovremmo dire che essa, è piuttosto “illogica” che “logica”. Cioè dovremmo giungere, dalle premesse di Pareto, ad un rovesciamento del suo assunto. Ma se, sviluppate correttamente, queste premesse conducono ad un esito così paradossale, occorrerà ridiscuterle. E quello che, secondo Croce, deve essere ridiscusso, non è tanto il carattere inconsapevole dell’agire economico (ricordiamoci del futuro voluntas fertur in incognitum), quanto la sua classificazione come attività “logica”. Basta, infatti, confrontare l’errore tecnicoconoscitivo con quello pratico per vedere che l’“incoscienza” è, in un caso, “illogicità” e, nell’altro, “irresolutezza”. Perciò, se una volontà debole non comporta un difetto di logica, una volontà forte o autentica non avrà alcun bisogno della logica per determinarsi. Essa sarà, se si vuole, inconsapevole di ciò che la precede e dei suoi possibili esili, ma non lo sarà mai di sé stessa e quindi neppure delle sue condizioni, perché queste non sono niente di ulteriore e di diverso da lei. Pertanto, l’agire

143. Ibid.

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in quanto tale – e dunque anche l’agire economico – non è né logico né illogico: è qualcosa d’altro rispetto ai termini di questa alternativa, che sarebbe obbligata solo se – come appunto ritiene Pareto – la natura dell’azione potesse essere decisa in base a quella dei moventi, e se, soprattutto, questi fossero nettamente distinti dalla volontà (così come, ugualmente, la volontà lo fosse da ciò che la determina). Non però nel caso che la volontà risultasse priva di moventi, o meglio ancora, che fosse movente a se stessa. A questo punto facciamo un altro passo avanti, sempre seguendo Croce, e cercando di vedere come adesso, dopo aver distinto l’economia dalla logica, egli passi a distinguerla anche dall’etica: è, come si ricorderà, fra queste due forme o attività dello Spirito che l’utile ci è apparso, a suo tempo, impegnato a farsi largo. La distinzione dall’etica viene argomentata attraverso la confutazione di un secondo pregiudizio (il primo era quello per il quale il “principio economico” veniva talvolta confuso con il “fatto tecnologico”): quello secondo cui il fatto economico sarebbe essenzialmente un fatto “egoistico”144. Egoistico, per Croce il fatto economico potrà anche esserlo, ma solo dal punto di vista dell’etica, cioè da un punto di vista morale. L’economico, preso per sé, non è né egoistico né altruistico (così come non è né logico né illogico) è, semplicemente, qualcosa d’altro (non-logico, non-morale)145. Naturalmente, se non lo si prende per sé, cioè se non lo si considera nella sua autonomia e lo si valuta, quindi, con un criterio ed un metro che sono diversi da quelli suoi propri, allora esso potrà apparire immorale, come, del resto, l’etico, da un punto di vista economico, potrà apparire inutile. Sebbene Croce non sia così esplicito, i confini fra i due gradi dell’attività pratica sono ben delineati: ciascun

144. Ibid. 145. Ivi, p. 218.

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grado riconosce solo se stesso e non l’altro, giudicando tutto secondo il suo metro (questo anche se l’etica, per trasformarsi in azione concreta, ha bisogno di operare rispettando anche le leggi dell’utile, ossia quelle che fanno di qualsiasi azione, indipendentemente dal suo scopo, un’azione efficace). Ma rispetto alla logica e alla tecnica, per quanto, come abbiamo visto, apparentemente le cose stiano allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che l’economia non si distingue con altrettanta nettezza. Ritorniamo al passo citato prima: “È errore tecnico – dice Croce in quel passo – l’ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare”. Dunque, nella definizione dell’errore tecnico, cioè di una delle forme sotto le quali si presenta l’errore teoretico, Croce include un riferimento alla pratica: alla volontà e all’operare. Questo vuol dire una sola cosa: la tecnica è teoretica, non pratica, ma è una teoresi legala alla pratica e finalizzata ad essa. Ciò significa, ancora, che mentre economia ed etica in qualche modo si ignorano, come abbiamo visto, a vicenda, logica ed economia, o perlomeno tecnica ed economia, non possono ignorarsi. L’economia non può apparire illogica dal punto di vista della tecnica, né questa può apparire inutile dal punto di vista dell’economia. Si potrebbe rispondere che ciò dipende dal fatto che la logica è logica, ossia attività distintiva, esercizio del pensiero definitorio (come Croce dirà più tardi), e deve, dunque essere in grado, diversamente dalle altre forme, di dominare l’intero orizzonte dell’attività spirituale, sapendo attribuire ad ogni suo aspetto, il carattere che gli è proprio. Ma questa risposta non spiegherebbe che una metà della questione, lasciando inevasa l’altra metà. Infatti non è solo la logica che qui è consapevole e rispettosa dell’autonomia dell’utile, ma è altresì questo, l’utile – cioè l’economia –, che è consapevole e rispettoso dell’autonomia della tecnica (e cioè, in questa fase, della conoscenza). Se non lo fosse, se l’economia tentasse di sostituirsi alla tecnica, di “fare da sola’’, di ignorare i suoi precetti (oppure – cosa

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che non modifica il risultato di questa premessa ipotetica – se ignorasse davvero tali precetti), essa non conseguirebbe il suo scopo: non essendosi armata degli strumenti adatti, la volontà economica mostrerebbe, con ciò, di non essere realmente tale e darebbe luogo non già all’affermazione ma alla negazione di se stessa. Prima di poter tirare le somme di tutta questa complessa ed intricata questione, dobbiamo ancora esaminare, brevemente, il confronto che, suscitato da un intervento di Ulisse Gobbi nella disputa fra lui e Pareto, Croce ebbe con l’economista lombardo a proposito del rapporto fra il “giudizio economico” e il “giudizio tecnico”. Gobbi aveva fondato la sua posizione nel campo della teoria economica sul principio della “convenienza”: per lui, che si muoveva, pur scostandosene per diversi aspetti, nel quadro dell’economia utilitaristica (come Pareto e Pantaleoni), l’agire economico doveva basarsi su un giudizio relativo a ciò che in ogni singola occasione è più o meno conveniente fare. Tale giudizio, a sua volta, doveva essere preceduto da un giudizio tecnico di “possibilità” e subordinato ad un fine. In questo modo, pur distinguendosi fra loro, l’attività teoretica (che si esprimeva nel giudizio tecnico), quella economica (che si esprimeva nel giudizio di convenienza) e quella morale (che definiva ed indicava i fini che si volevano perseguire) risultavano collegate secondo un rigido schema gerarchico146. Le posizioni di Gobbi non potevano, evidentemente, ottenere alcun consenso da parte di Croce, tutto intento a distinguere l’agire pratico da quello teoretico e, nell’ambito del primo, l’economia dalla morale. Innanzitutto, perché Gobbi riduceva queste diverse forme di attività a “giudizi”, ossia, dal punto di

146. Cfr. U. Gobbi, Sul principio della convenienza economica, in “Memorie del R. Ist. Lombardo”, serie III, XII (1900), Cl. sc. stor. e mor., pp. 173-203.

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vista crociano, ad una sola ed identica attività: quella logica. In secondo luogo, perché, per Croce, fra economia e morale non poteva esserci “subordinazione” (come voleva Gobbi), ma solo “implicazione”147. L’aspetto interessante della risposta di Croce sta in ciò che egli dice del giudizio tecnico sullo sfondo del rapporto intercorrente fra l’attività teoretica e la pratica, che ora incomincia a delinearsi meglio ai suoi occhi. Questo rapporto, infatti, non può essere di antecedenza della teoria rispetto alla prassi, ma deve, piuttosto, essere un rapporto di consecuzione della prima nei riguardi della seconda: Qualche filosofo e qualche scuola filosofica hanno pensato che l’azione pratica dell’uomo sia preceduta da giudizi pratici o di valore. Il processo sarebbe: 1) Giudizio teorico “A è”. 2) Giudizio pratico: “A è buono” (o cattivo, utile o dannoso, conveniente o sconveniente, ecc.). 3) Intervento della volontà, per dirigere l’azione secondo il giudizio n. 2. L’immaginario, in questo preteso processo, è il secondo stadio, il n. 2. Il n. 2 è effetto di illusione psicologica […]. L’uomo che vuole, nell’attimo che vuole, non riflette sulla sua volontà. Ma nell’attimo seguente può dare alla sua accaduta volizione l’espressione teorica “Voglio A perché A è buono, o voglio A perché A è cattivo” […]. Ma giudizi pratici non esistono: i giudizi sono sempre teorici, e sono teorici ancorché siano teorici del pratico, ossia abbiano come antecedente e materia le volizioni. Per dire che “la tal cosa è da volere o da non volere”, bisogna, anzitutto, averla voluta o non voluta […] Un’azione non la voglio perché è utile, ma è utile perché la voglio148.

La critica di Croce si concentra su quello che Gobbi chiamava “giudizio di convenienza”: non c’è alcuna possibile convenienza prima che la volontà sia intervenuta a definire, volendolo, ciò che, in una determinata circostanza e per un certo indi-

147. Cfr. Materialismo storico…, pp. 232 e 239. 148. Ivi, pp. 233-34.

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viduo, è utile. È la volontà che crea il suo oggetto (il bene o il conveniente), per Croce come per Cartesio (il quale, tuttavia, conferiva, come si sa, questo potere solo alla volontà divina). In questo modo il giudizio, come atto teorico, finiva con l’occupare una posizione stabile rispetto all’agire pratico: esso interveniva, come la filosofia secondo Hegel, sempre a cose fatte. Tuttavia, se il giudizio, come atto teorico – in quanto, è ovvio, prendesse ad oggetto l’attività pratica – risultava così necessariamente un posterius rispetto alla volontà, che ne era di quella antecedenza del teoretico, inteso come tecnico, nei confronti dell’agire economico, alla quale Croce, lo abbiamo visto, accennava, in qualche modo, nella prima lettera a Pareto? Ricordiamoci di due battute che si incontrano in quella lettera: secondo la prima “volere non è ragionare, ma il volere suppone il pensiero e perciò la logica”149, mentre per la seconda l’errore tecnico consisterebbe nell’“ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare”150. Ebbene, questa antecedenza del tecnico, questa condizionalità della conoscenza (che non determina il volere, ma predispone le condizioni perché esso possa esprimersi: per volere qualcosa bisogna innanzitutto conoscere questo qualcosa; conoscere la sua natura e le possibilità che essa ci offre – che offre alla nostra volontà – di intervenire su di esso), questa condizionalità tecnica del conoscere si presenta ora come “situazione”151 (Croce aveva già introdotto questa definizione della tecnica nelle Tesi fondamentali di un’estetica152, e Gobbi lo ricorda nel suo intervento153). Per Gobbi, il giudizio tecnico faceva seguito a quello scientifico e

149. Ivi, p. 216. 150. Ivi, p. 217. 151. Cfr. ivi, p. 237. 152. Cfr. op. cit., p. 19. 153. Cfr. Sul principio della convenienza economica, cit., p. 175.

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rappresentava, per così dire, una specie di ponte fra questo e il giudizio di convenienza. Ora, secondo Croce, Il fatto tecnico è così poco un giudizio nel senso del Gobbi, una sottospecie dei giudizi scientifici, che, allorquando prende forma teorica, si esprime (a sua stessa confessione) con un discorsetto in cui sono combinati elementi scientifici ed elementi storici. […] Il discorsetto descrittivo di quanto è accaduto nello spirito è ciò che può succedere al fatto tecnico, e non è il fatto tecnico. Questo non è un discorsetto o giudizio; ma (non saprei mutar la parola) una situazione, la quale, esprimendosi teoricamente, non può non esprimersi per proposizioni, per giudizi […]. Il mondo della tecnica è il mondo stesso teorico, della contemplazione, della scienza e della storia […]. Se lo si chiama tecnico non è già perché le sopraindicate conoscenze possono mai cangiar la loro natura, ma semplicemente perché sopravviene un nuovo fatto (l’azione pratica), che prende queste conoscenze come base di operazione […]154.

Dunque il “fatto tecnico” non è un giudizio, esso, appartenendo alla sfera teoretica, si esprime attraverso giudizi, ma il giudizio non è, come è invece per i fatti teorici veri e propri, la sua forma naturale. A tal punto non lo è, che Croce stesso dice che esso si manifesta per mezzo di giudizi – ed anzi, per mezzo di un “discorsetto”, nel quale rientrano giudizi diversi, in parte scientifici, in parte storici – solo “allorquando prende forma teorica”. E quando non prende questa forma? Quando non prende questa forma esso è una semplice “situazione”. Che cosa vuole dire qui Croce e perché ricorre a questo termine? Ricaviamo una risposta a tali domande nel modo più chiaro dalle Tesi fondamentali di un’estetica: La cieca volontà non è attività pratica: la volontà vera è occhiuta. L’attività pratica è preceduta dal fatto tecnico: il quale

154. Materialismo storico…, p. 237 (corsivo nostro).

425 non è altro che la conoscenza stessa in quanto è immediatamente seguita dalla volontà. Erroneamente perciò si suol talvolta concepir la tecnica come un’attività media tra la teoretica e la pratica […]. Il tecnico non è concetto di una nuova attività, ma indica una situazione in cui può trovarsi l’attività teoretica […]155.

In altri termini: siamo sulla via che condurrà gradualmente Croce ad assorbire il tecnico nell’economico. Per quanto, infatti, il tecnico continui qui ad essere ascritto all’ambito teoricoconoscitivo, è chiaro che il suo legame con la volontà individuale, pratico-economica, (o con la volontà senz’altro) è più stretto di quello di qualunque altro fatto teorico. Esso, del resto, non è neppure una conoscenza particolare (come la scienza o la storia) ma un modo d’essere di qualunque conoscenza (una “situazione” in cui qualunque conoscenza può venirsi a trovare), in quanto essa preceda immediatamente l’attività pratica e la orienti, ossia in quanto non stia per se stessa, ma rappresenti un antefatto, una condizione dell’agire pratico (che se deve essere autonomo e non condizionato da altro, dovrà includere le proprie condizioni in se stesso, cioè nel suo ambito156). Come

155. Tesi fondamentali di un’estetica…, cit., p. 19. 156. Che è la stessa cosa, per Croce, del dire che la volontà è attività consapevole e non inconsapevole, libera e non eterodiretta. Ossia un’attività che ha la sua consapevolezza in se stessa (cfr. Materialismo storico…, p. 225). Perciò, replicando a Pareto, Croce afferma che l’individuo, quando sceglie, non formula una scala di preferenze: sceglie A e rifiuta (nell’atto della scelta di A) tutto il resto (cfr. ivi, pp. 212-213). L’inconscio paretiano, come antefatto, viene respinto: l’antefatto non è mai inconscio, perché è intrinseco alla volontà, ossia è la volontà stessa, che è consapevole di sé. Inconscio è solo l’opposto (della volontà e della conoscenza), ma come tale esso non è mai un antefatto (nel senso di qualcosa che possa determinarla), sebbene questo non significhi che i suoi antefatti (nel senso di ciò che viene prima) debbano e possano essere, rispetto alla volontà e al suo determinarsi, perfettamente noti. Abbiamo qui, come si vede, potenzialmente tutte le premesse della futura articolazione distinti-opposti della Filosofia dello Spirito. In questa

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abbiamo detto in precedenza, l’utile si fa strada fra la logica e la morale, prendendo qualcosa un po’ dall’una e un po’ dall’altra. Dall’etica esso ricava la competenza su tutti quegli aspetti della vita pratica che hanno relazione con la sfera sociale. In più, lo abbiamo visto a proposito della discussione condotta da Croce con i sostenitori dell’identità di economia ed egoismo, di questo grado della vita pratica dello Spirito esso assorbe, o meglio recupera (meglio ancora – almeno per quello che si può dire con riferimento alla fase dell’evoluzione del pensiero di Croce di cui ci stiamo occupando – si appresta a recuperare) il negativo. Trasformandolo in positivo: ciò che dal punto di vista morale è egoistico e censurabile, dal punto di vista economico potrebbe essere la corretta applicazione di una massima volta a perseguire, da parte di un individuo qualsiasi, il proprio utile soggettivo. È lo schema concettuale che condurrà Croce a teorizzare l’origine pratica dell’errore e, in generale, la natura pratico-utilitaria di tutto ciò che nelle altre sfere appare negativo. Dalla logica l’economia, lo abbiamo appena detto, tenderà a recuperare la dimensione tecnica, presto allargata a quella tecnico-scientifica. Si tratta, come è noto ad ogni conoscitore del

articolazione, d’altra parte, si insinuerà (e il momento preparatorio di questa “intrusione” può cogliersi fin d’ora) qualcosa (la tecnica e la scienza, nell’interpretazione che Croce ne darà successivamente, a partire dal 1905), che pur non essendo inconscio, e dunque pur senza costituire un errore in senso filosofico, verrà dichiarato da Croce come non esprimibile per mezzo di veri e propri “concetti”, ma piuttosto soltanto attraverso concetti finti o, come egli stesso li definirà, coniando un’espressione divenuta celebre, “pseudoconcetti”. Qualcosa che, quindi, in un certo senso, sarà e non sarà errore, e questo non da punti di vista diversi, ma da uno stesso punto di vista (quello della logica). Qualcosa, pertanto, che tenderà al raddoppiamento (come, del resto, accadrà anche all’“astratto” gentiliano), a collocarsi, cioè, entro la cornice della realtà spirituale, ma poi, nello stesso tempo e indebitamente, a porsi altresì fuori di tale cornice.

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pensiero di Croce, di quell’area tematica nella quale, seguendo anche suggestioni di ispirazione pragmatistica, egli farà ben presto rientrare tutte le indagini fondate sui metodi delle scienze positive: osservazione empirica, analisi e astrazione. In quest’area rientreranno successivamente anche tutti quegli aspetti della vita sociale – come la politica, il diritto, la sfera delle istituzioni pubbliche – che, sottratti, come abbiamo visto, in un primo tempo all’etica, si sveleranno, progressivamente, insuscettibili di trattazione filosofica, sia pure nel senso di una filosofia pratica. A conti fatti, dalle altre sfere l’economia ricava, quindi, fondamentalmente, fine ordini di oggetti: quelli che altrove rappresentano il negativo (l’opposto della forma, l’irreale), e quelli che nelle altre sfere costituiscono l’empirico. Le due cose non coincidono – anche se si può, a tratti, avere l’impressione di sì –, così come non coincidono, nella sfera logica, l’errore e lo pseudoconcetto. Questa diversità discende proprio dal modo in cui, negli scritti su Marx e dintorni, la categoria dell’utile si è venuta dipanando fra logica e morale. Essa sta tutta, in fondo, nella differenza, che la prima lettera a Pareto fa emergere, fra la confutazione che Croce svolge della tesi volta a identificare il fatto economico con il fatto tecnico, e la confutazione, non meno netta, ma diversa, dell’identità di economia ed egoismo. Ora, questa differenza apre, all’interno della prima e più elementare categoria del volere, una frattura e quindi un problema, che potremmo riassumere come segue. Se il negativo delle tre sfere (estetica, logica, etica) che eccedono l’ambito dell’economico e contribuiscono, con questo, a definire l’articolazione completa delle distinzioni dello Spirito, rientra, come positivo, nella sfera dell’utile (se quest’ultima, in altre parole, rappresenta l’orizzonte nel quale ciò che altrove è negativo appare come positivo), allora, ugualmente, si dovrà dire che il negativo dell’economia – il disvalore economico, l’inutile – è positivo in una o nell’altra delle sfere restanti. Ma per l’empirico (l’altro oggetto che l’utile, assumendo progressiva-

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mente la propria identità categoriale, deve recuperare all’ambito della considerazione filosofica), si potrebbe dire altrettanto? e cioè che, essendo, quello che appare come empirico nelle altre sfere, spirituale (ossia un prodotto dell’attività dello Spirito) nella sfera dell’utile, ciò che dovesse apparire come empirico in questa sfera sarebbe spirituale in una delle altre? Avrebbe forse senso dire che una legge pubblica – il cui scopo è la definizione dei confini entro i quali ciascuno può muoversi liberamente alla ricerca del proprio vantaggio personale senza interferire con l’analogo diritto che deve essere riconosciuto ad ogni altro individuo – che una tale legge o norma sia in realtà (al di là della sua apparenza empirica e pseudoconcettuale) il prodotto, per es. di un atto etico (o di un atto logico o di un atto estetico)? Certamente non avrebbe alcun senso, almeno dal punto di vista di Croce. L’universalità di una simile legge sarebbe, infatti, un’universalità astratta, e quindi irriducibile all’individualità concreta, che è il carattere essenziale e costitutivo di ogni alto dello Spirito come tale, indipendentemente dalla sua natura. Un atto di questo genere sarà rappresentato magari dall’adozione della massima per mezzo della quale il singolo individuo assume e fa propria, adattandola alle sue esigenze, una norma come quella che regola la sfera delle azioni socialmente lecite. O meglio sarà l’atto della volontà soggettiva per mezzo del quale l’individuo deciderà di agire secondo questa regola empirica. Ma l’atto non sarà, evidentemente, la regola stessa. Né, soprattutto, questa sarà mai l’atto, il quale la include e, includendola, la trasfigura.

7. Conclusione Il nostro esame di alcuni dei saggi (in sostanza di tutti quelli rivolti specificamente a discutere la teoria del valore e il problema del principio economico) che Croce riunì nel volume

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dedicato a Marx e al marxismo alla fine del XIX secolo, e comprendente, con le aggiunte successive, scritti redatti negli anni che vanno dal 1896 al 1906157, ci ha condotti a qualche conclusione? Perché se questo fosse il caso, sarebbe finalmente venuto il momento di tirare le somme. Ma innanzitutto, e in generale, si può, nell’esame filosofico di un testo realmente filosofico, giungere mai ad una conclusione? E d’altra parte, si tratta poi davvero, in questo caso, di testi “realmente filosofici”? Nonostante essi affrontino temi di carattere più che altro economico (ed anche, per alcuni di essi, di natura abbastanza “tecnica”), riteniamo di poter dire che questi scritti risultano filosofici se vengono letti, come qui si è cercato di fare, avendo lo sguardo rivolto ai loro esiti nell’opera successiva di Croce. Da questo punto di vista, la risposta alla domanda relativa alla possibilità di giungere ad una conclusione in un’indagine che abbia per oggetto un testo filosofico ha – almeno con riferimento ai saggi che sono stati esaminati qui su – in se stessa la sua risposta: una lettura filosofica di questi testi è tale solo se è in grado di fare emergere la loro tensione speculativa, e questo è, a sua volta, possibile a condizione di saperne condurre l’esame verso quell’esito al quale è indirizzata la cosa stessa come alla sua naturale conclusione. In questo caso, com’è ovvio, l’esito non può che essere quello rappresentato dalla ormai più che imminente Filosofia dello Spirito. Un tale orientamento dell’esame a partire dal futuro del proprio oggetto è caratteristico e merita una riflessione. Esso sta, innanzitutto, ad indicare questo: che gli scritti contenuti nel volume crociano sul marxismo risultano molto più interessanti nella prospettiva degli sviluppi

157. A parte l’Appendice che è del 1937, nella seconda edizione, com’è noto, il volume sul Materialismo storico fu integrato da Croce con l’aggiunta di qualche scritto di argomento affine. Poi non subì più incrementi fino all’ultima edizione curata dall’autore (la VI), nella quale fu introdotta, appunto, l’Appendice.

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ai quali, prendendo le mosse dalle considerazioni sul principio filosofico della scienza economica consegnate alle loro pagine (oltre che da quelle concernenti la storia e l’arte, esposte nella memoria del ’93), il pensiero di Croce andrà soggetto nel decennio immediatamente successivo, di quanto non lo siano nell’ottica di una comprensione o di un approfondimento del significato dell’opera di Marx. In secondo luogo, questo orientamento dell’indagine non fa altro che sottolineare un’ovvietà, ossia il fatto che il decennio seguente – quello, per intenderci, che va dal 1900 al 1909 – rappresenta, nell’evoluzione della filosofia crociana, un periodo decisivo, nel quale Croce elabora e porta ad effetto il piano del suo sistema, pubblicando i primi tre dei quattro volumi che costituiranno la Filosofia dello Spirito, ossia l’Estetica, la Logica e la Filosofia della pratica: si tratta di un periodo che non può non illuminare, retrospettivamente, con la propria luce, tutto ciò che lo precede (così come ai suoi risultati deve, per altro verso, essere rapportato tutto quello che lo segue). Gli scritti di Croce su Marx sono molto più interessanti, dicevamo, se vengono letti in questa prospettiva anziché in quella dell’interpretazione che forniscono di alcune categorie del Capitale. Rispetto al compito di interpretare il pensiero marxiano, infatti, occorre dire che le analisi di Croce non riescono ad essere sufficientemente persuasive. In particolare, la teoria della legge del valore-lavoro come “paragone ellittico” coglie solo uno dei due aspetti – quello più rilevante dal punto di vista politico-ideologico, che non è però il più rilevante dal punto di vista teorico – che nell’opera economica di Marx si contaminano e si sovrappongono. Soprattutto, coglie questo aspetto confondendolo con l’altro (come fa lo stesso Marx), a dimostrazione del fatto che fra Marx e Croce sussiste, a proposito della contaminazione involontaria di morale e scienza, un’analogia che non riguarda il contenuto delle tesi, ma piuttosto l’atteggiamento filosofico generale, contraddistinto, per

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entrambi, dall’adesione ad una metafisica di tipo “umanistico”, secondo la quale il solo ed unico valore è rappresentato dall’uomo o dallo Spirito (ma da questo esclusivamente in quanto Spirito umano). Per quello che riguarda poi la critica alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, la posizione di Croce è condivisibile essenzialmente soltanto nel suo essere, appunto, una critica, ovvero nel suo atteggiamento di sostanziale rifiuto della validità della legge, come pure nel rilievo che essa, almeno indirettamente, assegna al tema del rapporto fra innovazione tecnica e incremento della produttività del lavoro. Ma è difficilmente accettabile per ciò che concerne il suo assunto di fondo, ossia la tesi che un peso accresciuto del fattore meccanico nel processo produttivo non condurrebbe ad un’alterazione della composizione organica del capitale a vantaggio del capitale costante rispetto a quello variabile. Anzi, proprio il fatto che la confutazione della legge debba passare, secondo Croce, attraverso il rifiuto di ammettere quello che già allora era del tutto evidente, vale a dire che il progresso tecnico comporta, unilateralmente, l’aumento del peso relativo del lavoro meccanico rispetto a quello umano, proprio questo fatto attesta una volta di più quello che abbiamo appena detto, ossia la forza dei pregiudizi umanistici sulla base dei quali Croce conduce l’analisi di Marx. Lette in una prospettiva futura, tuttavia, l’interpretazione della teoria del valore-lavoro come paragone ellittico e la critica della legge di caduta del saggio del profitto mostrano una certa coerenza anche dal punto di vista del dibattito interno al marxismo della Seconda Internazionale. Una coerenza che allora doveva sfuggire allo stesso Croce e che sicuramente non faceva consapevolmente parte delle sue intenzioni: attraverso una lettura che simultaneamente, da un lato, ridava peso – senza peraltro che, in un primo momento, egli stesso se ne rendesse neppure conto – alla dimensione etica (e quindi politico-ideologica) del pensiero marxiano, e, dall’altro, ne toglieva, svalu-

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tandola radicalmente, alla tesi del crollo necessario e spontaneo del sistema capitalistico, Croce si inseriva, di fatto, in una corrente interpretativa che nel secolo che stava per iniziare si sarebbe affermata innanzitutto in ambito “revisionista”, ma che avrebbe poi anche gettato i suoi semi nel campo opposto, quello del marxismo rivoluzionario, privilegiando, dei due aspetti presenti nel Capitale, il lato della soggettività politica (così incline in certi casi ad accentuare la propria spinta fino a sfociare in una specie di volontarismo etico) piuttosto che quello scientifico-filosofico (destinato ad attestarsi sul terreno della pura teoria e a tradursi, politicamente, in qualcosa di molto simile ad una forma di attendismo storico). Da questo punto di vista, la vicinanza a Labriola, è molto più marcata di quanto le loro occasionali polemiche e i loro dissensi su questo o quel punto, non indurrebbero a credere. Molto di più di quanto, in definitiva, lascerebbe supporre l’accusa di distacco e di indifferenza per il fattore politico-ideologico che nelle sue lettere maggiormente polemiche Labriola rivolge spesso a Croce. Il fatto è che Croce, allora, andava districando con fatica un groviglio di questioni che egli desumeva dal dibattito culturale europeo contemporaneo e nel rispondere alle numerose sollecitazioni che gli venivano da questo dibattito aveva iniziato a declinare, a modo suo, la differenza fra scienza e morale. Che in questa distinzione potesse introdursi, sulle prime, qualche motivo di incertezza e di equivocità, non può e non deve destare sorpresa, tanto più che una sua conseguenza accidentale, ma di primaria importanza per permettere al pensiero di Croce di definire quello che sarà il suo profilo caratteristico, è rappresentata dal graduale emergere, fra l’attività conoscitiva e quella rivolta al perseguimento del bene, di un’attività economico-utilitaria, che avrebbe dovuto, poco per volta, raggiungere uno status categoriale compiutamente autonomo, privo di soggezioni e di complessi nei confronti di quello di cui già godevano le altre espressioni dello Spirito. È

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proprio rispetto a questo processo che il ruolo del confronto con Marx assume tutto il suo consistente rilievo nel quadro della formazione intellettuale e filosofica di Croce: se scienza ed etica non fossero state chiamate a distinguere i rispettivi ruoli sullo sfondo delle suggestioni provenienti dalla riflessione rivolta ai temi dell’economia teorica e della politica, e soprattutto dalla lettura del Capitale, tra di esse si sarebbe mai incominciato a intravedere qualcosa come il volto dell’utile? Probabilmente no, sebbene al suo emergere abbia dato un contributo decisivo, oltre a Marx, anche Machiavelli, filtrato attraverso De Sanctis. In questo modo, d’altra parte, l’utile emergeva con dei tratti che lo candidavano subito a ricoprire un ruolo tanto decisivo quanto complesso e problematico nel quadro del pensiero maturo di Croce. Sono questi tratti che ne fanno una via d’accesso privilegiata alla filosofia crociana per tutti coloro che nel tentativo di comprendere questa filosofia non intendono ripercorrere le strade, già tanto battute, della retorica e del commento edificante, per un verso, della semplice liquidazione, per l’altro158. Su questo nuovo terreno il pensiero di Croce può riservare sorprese davvero paradossali, come quella – alla quale abbiamo implicitamente accennato alla fine del paragrafo precedente – rappresentata dall’emer158. Due vizi dai quali con pochissime, parziali eccezioni, non è andato esente quasi nessuno dei critici e degli interpreti italiani di Croce fino a tutti gli anni ’50. La prima vera rottura rispetto a questa tradizione esegetica fortemente contaminata di ideologia e oratoria si ha nel decennio successivo, con un ampio saggio di G. Sasso intitolato Per un’interpretazione di Croce, apparso sulla rivista “La Cultura” nel ’63-’64 cui farà seguito, nel 1975, la monumentale ricognizione dello stesso autore sull’intero territorio della filosofia e della produzione intellettuale crociana, della quale abbiamo più volte fatto menzione in queste note. L’opera, dedicata alla Ricerca della dialettica da parte di Croce, prende, certamente non per caso, le mosse dall’analisi di alcuni aspetti della sua filosofia pratica e ha, come abbiamo già ricordato, nell’ampia sezione dedicata alla “storia dell’utile” la sua “chiave volta”.

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gere, in esso, di un aspetto inconsapevolmente “parmenideo” o “eleatico”, traducibile nella tesi, presente nella filigrana di questo pensiero, dell’impossibilità di ricomprendere fino in fondo la dimensione empirica entro l’orizzonte della filosofia e dei valori, e dalla conseguente necessità di lasciarla parzialmente sussistere, in forma residuale, come una sorta di “irrelato doxastico”159. In questo aspetto si può allora intravvedere qualcosa come una sotterranea disposizione anti-metafisica della riflessione crociana. Disposizione diversa e più complessa rispetto a quella – rivendicata spesso da Croce, ma estrinseca e superficiale (tale, cioè, da non incidere sulla natura ancora sostanzialmente metafisico-umanistica, come abbiamo visto, del suo orientamento di pensiero e del suo impianto filosofico) – che soprattutto nelle pagine da lui dedicate al ruolo metodologico della filosofia ha più volte trovato espressione attraverso le reiterate denunce del concetto dell’Essere, dell’unico, eterno problema della Verità, della figura, astratta e sequestrata dal mondo e dalla storia, del “Filosofo”. Una disposizione che trapela già dall’interpretazione con la quale, sia pure mancando completamente il bersaglio, nell’affrontare il significato della teoria del valore di Marx, Croce svela o, con più esattezza, fa trasparire, senza volerlo e senza rendersene conto, l’ipoteca metafisico-essenzialistica che grava sull’impianto teorico del Capitale e soprattutto sul concetto di “sfruttamento”. Il pensiero di Croce può riservare sorprese di questo genere, ma esclusivamente a coloro che sappiano riconoscerne il senso meno evidente, e siano perciò disposti a raccogliere e

159. Diversamente da Hegel, infatti, per il quale il “residuo” rappresentato dalla contingenza empirica è ciò che, nel processo di Aufhebung – un “superamento” che è, però, anche una “soppressione” e un “annullamento” – viene “lasciato cadere” e così “va a fondo” (zugrunde), cioè viene negato e parificato, nella sua irrealtà, all’errore e al non-essere; per Croce, come abbiamo visto, empiricità ed errore sono concetti diversi.

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rilanciare, con una spregiudicatezza capace all’occorrenza di mostrarsi anche incauta e di non farsi vincere dalla perplessità, la sfida di un paradosso che non è certo documentato dalla lezione esplicita del testo crociano. Ben oltre, quindi, e al di là non solo della lettera, ma anche delle intenzioni che possono e devono essere plausibilmente attribuite a chi, avendolo innanzitutto concepito, di questo pensiero fu anche il primo testimone ed interprete. Senza dubbio molto più segnato in questo secondo ruolo di quanto non lo fosse nel primo dai limiti della mentalità e della cultura delle quali era, a suo modo – e cioè in modo certo non comune – egli stesso partecipe, come tutti i suoi contemporanei.

Appendice Nel quadro della discussione dedicata più sopra – nella nota 104 – al saggio di Morpurgo-Tagliabue concernente l’obiezione rivolta da Croce alla legge di caduta tendenziale del saggio di profitto, abbiamo fatto riferimento alla rivendicazione di priorità accampata da Arturo Labriola nei confronti di Croce riguardo alla critica di questa legge marxiana e all’argomentazione con la quale Croce la sviluppa. Il fatto che Morpurgo avalli, in sostanza, tale rivendicazione, palesemente infondata (almeno con riferimento al modo in cui le due analisi sono condotte), merita e nello stesso tempo richiede un esame più ravvicinato di tutta la vicenda. E innanzitutto una ricostruzione del contesto nel quale essa si inserisce. Labriola sviluppa la propria critica della legge nel terzo capitolo di una memoria sulla Teoria del valore di Marx che venne da lui redatta per presentarla ad un concorso destinato a premiare un contributo sul III volume del Capitale. Nel 1897, l’Accademia Pontaniana, su suggerimento di Croce, decise di

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assegnare questo come tema per il conferimento dell’annuale Premio Tenore. Croce, che esaminò i due lavori in concorso (oltre a quello di Labriola, era stato presentato un saggio di Vincenzo Giuffrida) ed espresse in una relazione redatta allo scopo le conclusioni della commissione, valutò comparativamente più equilibrata la memoria di Giuffrida, anche se il suo giudizio su quella di Labriola non è poi così severo come sostiene Morpurgo (cfr. L’obiezione di Benedetto Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, cit., p. 176). Anzi, la sua relazione – che comunque era stata redatta “al buio”, visto che gli scritti da valutare erano stati letti e giudicati senza che la commissione conoscesse i nomi degli autori, depositati in busta sigillata ad aprirsi solo a concorso ultimato – si mostra, nei confronti del saggio di Labriola, critica sì (come del resto anche nei confronti di quello di Giuffrida), ma non sprezzante e, per alcuni aspetti addirittura benevola (“La forma di questo secondo lavoro è spesso notevole per vivacità e facilità di esposizione…”, Relazione sulle memorie inviate per Premio Tenore, cit., p.16). La bocciatura di Labriola non nasceva, dunque, da prevenzione e ostilità personale, e sebbene dall’esame espresso nella relazione risulti un certo equilibrio fra le due memorie, ciò che fece alla fine pendere il piatto della bilancia a favore di Giuffrida fu il maggior ordine espositivo e la maggior scrupolosità, anche nell’avanzare critiche, obiezioni e riserve, riscontrabile nel suo studio. Ragioni, quindi, fondamentalmente di carattere metodologico e, in senso lato, “stilistico”. A meno di supporre che Croce fosse venuto in qualche modo a conoscere i nomi dei concorrenti. Ma più di un’ipotesi come questa, che senza prove documentali sarebbe temerario e offensivo avanzare, si potrebbe, se proprio si volesse accreditare la tesi di un giudizio prevenuto da parte di Croce nei confronti della memoria di Labriola, ricordare che in essa – e precisamente nel capitolo conclusivo dedicato alla caduta del saggio di profitto – l’analisi svolta da Croce sui testi

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di Marx viene giudicata, in una nota – della quale la relazione di Croce non fa alcun cenno, e per il cui contenuto si veda ciò che verrà detto più avanti –, con tanta asprezza da rendere plausibile supporre in Labriola qualcosa come un vero e proprio intento provocatorio. Per sostenere, tuttavia, che la lettura di queste righe possa aver maldisposto Croce nel suo giudizio, occorrerebbe escludere la possibilità che la nota in questione sia stata aggiunta successivamente, nella redazione del testo predisposta da Labriola per la stampa. Cioè occorrerebbe confrontare d saggio pubblicato in seguito (cfr. Arturo Labriola, La teoria del valore di C. Marx. Milano-Palermo, 1899) con l’originale effettivamente presentato alla commissione del concorso. Cosa piuttosto difficile. In primo luogo, perché per fare questo sarebbe, come è ovvio, necessario ritrovare possibilmente proprio la copia della memoria letta e magari annotata da Croce. In secondo luogo, perché l’unica sede nella quale avrebbe senso condurre una simile ricerca (a parte la biblioteca di Croce, dove non c’è traccia del documento concorsuale), ossia l’archivo dell’Accademia Pontaniana, per quanto concerne la documentazione precedente la fine della seconda guerra mondiale, è andato distrutto nel 1943. A parte queste considerazioni, una ragione della preferenza accordata al saggio di Giuffrida si può cercare nella posizione relativa alla teoria del valore. Giuffrida, sebbene tale aspetto non venga rilevato espressamente nelle conclusioni della Commissione ma sia desumibile solo dall’insieme della relazione stilata da Croce, era un critico della teoria del valore di Marx, e, diversamente da Labriola, non pensava che essa potesse rivestire il ruolo di teoria generale del valore. Quindi, per questo verso, la sua memoria doveva apparire a Croce indubbiamente più apprezzabile dell’altra. Per quanto poi riguarda, in particolare, la critica della legge di caduta del saggio del profitto svolta da Labriola nella sua monografia, Croce si limita a riesporla senza, praticamente, alcun commento, salvo quello finale che

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concerne gli esempi storici dei quali Labriola si serve per illustrare le sue tesi, esempi che Croce giudica talvolta avventati, ma forse intendendo riferirsi all’intera memoria e non solo a questa parte conclusiva. In ultima analisi, si può quindi affermare che Croce non mostra un più accentuato interesse per questa particolare sezione del lavoro di Labriola, mentre, con riferimento allo stesso tema svolto in modo meno critico da Giuffrida, egli osserva che la legge avrebbe potuto apparire all’estensore della “prima memoria” (cioè, appunto, Giuffrida) “molto più erronea di quanto egli creda” se solo avesse dedicato più specifica attenzione al suo aspetto teorico, tenendolo distinto e separato da quello storico (cfr. op. cit., p. 9). Indubbiamente, l’esame della legge svolto da Labriola è piuttosto contorto e i concetti che vi sono esposti e spiegati risultano connessi in modo spesso troppo schematico. Nonostante questo, la sua critica si basa su un argomento più convincente di quello di Croce, ma soprattutto, decisamente diverso, se non addirittura opposto. Labriola esamina varie possibilità e combinazioni, a seconda che l’innovazione tecnica sia introdotta in un settore o nell’altro della produzione sociale. Da tutte le ipotesi prese in considerazione risulta sempre che la caduta o non si produce o è contrastata (ma necessariamente e non in modo accidentale come pensava Marx) da altri fattori. Solo nello sviluppo del terzo caso (l’ipotesi c), viene suggerita la possibilità che un aumento contemporaneo della forza produttiva del lavoro nei due settori che producono, rispettivamente, beni di consumo per i capitalisti e per gli operai, dovuta ad un aumento del capitale costante, richieda l’impiego di una forza-lavoro aggiuntiva. Ipotesi che sembra avere in comune con quella di Croce l’idea di una composizione organica che, in conseguenza del progresso tecnico, rimane stabile o diminuisce, ma dalla quale Labriola trae tutt’altre conseguenze, visto che per lui l’incremento della spesa in salari si rifletterebbe in una contrazione del consumo dei capitalisti e quindi in una

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sovrapproduzione nel settore dei beni di lusso. Essa avrebbe perciò, come risultato, il trasferimento di capitali da questo settore a quello dei beni-salario con conseguente trasferimento, in questo, della sovrapproduzione generata nel primo settore, una diminuzione dei prezzi delle merci legate al consumo operaio e, infine, per questa via, una diminuzione dei salari, parzialmente – ma solo parzialmente, perché la sovrapproduzione si riflette in modo negativo non solo sui salari ma anche sugli utili delle imprese – compensativa di quella dei profitti. Le varie ipotesi di Labriola (compresa questa) conducono così alla conseguenza generale che la caduta del saggio di profitto, là dove si verifica, dipende da un eccesso produttivo, ossia di offerta, che si determina in uno o più settori come conseguenza del progresso tecnico, quindi, piuttosto dalle leggi della concorrenza e della circolazione che non da quelle della produzione e dal mutamento della composizione organica del capitale. Naturalmente, dipendendo da questi fattori, essa dipende da qualcosa, come uno squilibrio fra domanda e offerta, che, se si inserisce in una tendenza, si inserisce in quella al ristabilimento spontaneo dell’equilibrio alterato e dunque anche del saggio di profitto, piuttosto che nella tendenza ad un decremento progressivo e inarrestabile di questo stesso saggio (pp. 237-47). Come abbiamo detto, Morpurgo Tagliabue accetta per buona la rivendicazione di paternità della critica alla legge, che Labriola avanza nei confronti di Croce in un contributo successivo (cfr. Studio su Marx, Napoli 1908, pp. 147-48, n.) per contestare la priorità assegnata a Croce da Tugan-Baranowsky nelle sue Theoretische Grundlagen des Marxismus, cit. Anche Labriola è, tuttavia, costretto ad ammettere la differenza dell’argomento usato da Croce, dicendo che la sua (di Croce) esposizione sarebbe stata mantenuta da lui “artificialmente un po’ diversa” dalla propria, pur restando, a suo dire, identica nelle conclusioni. La ragione del credilo che Morpurgo con-

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cede alla rivendicazione di Labriola, stando almeno alla citazione di un passo che egli adduce a sostegno di questa, nasce da un equivoco. Il passo si trova alle pp. 230-31 del saggio di Labriola (e non a p. 320, come, per un evidente refuso, si dice nell’articolo di Morpurgo, cfr. op. cit., p. 178, n. 5) e vi si legge che una riduzione del tempo di lavoro necessario alla produzione di una certa merce, liberando forza-lavoro insieme alle risorse necessarie per il suo mantenimento, ne consentirebbe il reimpiego in un altro settore produttivo. Apparentemente, l’argomentazione ricorda molto da vicino quella di Croce, ma il fatto è che essa si riferisce non all’ipotesi di una società capitalistica (che è quella in cui la inserisce Croce, servendosene per dimostrare l’insussistenza del fenomeno della caduta del saggio di profitto) bensì a quella di una società comunista, nella quale non essendoci profitto (cioè appropriazione privata del plusvalore) non può esserci neppure una caduta del suo saggio. Con la conseguenza che, dunque, nell’impostazione di Labriola, essa non serve affatto a dimostrare l’infondatezza della legge. Lo scopo di Labriola, nell’impiegarla, è piuttosto quello, verosimilmente, di stabilire un confronto fra gli effetti che l’evoluzione dei metodi produttivi e della tecnica applicata alla produzione avrebbe in una società comunista e quelle che essa ha di fatto nella presente società capitalistica. Pertanto, una simile supposizione non cade, come cade, invece, quella di Croce, sotto la critica che, come abbiamo visto, già a suo tempo Marx aveva rivolto contro i sostenitori (Mill, MacCulloch, Senior ecc.) dell’argomento del reimpiego della forza-lavoro “risparmiata” grazie all’adozione delle nuove tecniche. L’ipotesi di Labriola, infatti, è che l’innovazione tecnica e il risparmio di forza-lavoro si realizzi in un settore il cui prodotto è consumato dai produttori stessi. Di conseguenza, il medesimo prodotto, realizzato con minor dispendio di lavoro, consentirà, almeno virtualmente, lo stesso consumo di prima, e perciò il sostentamento degli stessi lavoratori, una parte dei

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quali, quella resasi superflua nel settore sottoposto ad innovazione, potrà applicarsi a settori merceologici diversi. Questo argomento non avrebbe alcun senso in un sistema economico di tipo capitalistico, ma ne ha uno assai chiaro se lo si riferisce ad una ipotetica società comunista, nella quale le risorse sono socializzate: il progresso tecnico-produttivo ha in questo caso, come beneficiario diretto ed immediato, l’insieme del corpo sociale. Qui, come si vede, se c’è un’influenza, questa è casomai di Croce su Labriola (che infatti conosceva il saggio crociano del ’97 – giacché lo cita polemicamente, come abbiamo già ricordato, in una nota di questo terzo capitolo del suo contributo – e di conseguenza la teoria del paragone ellittico), piuttosto che il contrario. In realtà, se si esamina ciò che nella memoria del 1898 Labriola afferma conclusivamente a proposito della propria analisi della caduta del saggio di profitto, ci si rende conto del fatto che in comune con la sua la posizione di Croce ha solo questo aspetto: di essere una critica della legge. Labriola, infatti, tirando le somme alle pp. 244-47 del suo scritto sostiene che la caduta del saggio sarebbe, a “popolazione operaia costante”, il semplice effetto dell’accumulazione (per via della crescita dei valori) solo se il rapporto fra capitale costante e capitale variabile restasse inalterato. A questa tendenza i capitalisti reagirebbero aumentando la quota relativa del capitale costante, il cui incremento, dunque, lungi dal determinare la caduta del saggio di profitto, secondo Labriola servirebbe a contrastarla. Aumentando nella stessa proporzione la forza-lavoro, si avrebbe, invece un incremento della domanda di questa merce e un conseguente innalzamento del saggio dei salari, cosa che significa diminuzione del saggio di profitto. Come si vede, l’argomentazione, sebbene miri allo stesso scopo – contestare, ripetiamo, la validità della legge enunciata da Marx – si fonda su un presupposto non semplicemente diverso ma addirittura contrario rispetto a quello di Croce, ed è, bisogna

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riconoscerlo, come si è detto, nel complesso più convincente, in quanto rileva come il risparmio di lavoro vivo e l’aumento di produttività che le innovazioni tecniche comportano si traducano tendenzialmente, in regime capitalistico, non in un semplice aumento della massa di plusvalore (come sosteneva Marx) ma in un aumento del saggio di sfruttamento del lavoro e quindi anche (proporzionalmente) del saggio di profitto. Insomma, l’argomento di Labriola mette in luce, di fatto, che se c’è una tendenza legata al processo di innovazione continua delle tecniche produttive, questa è una tendenza all’aumento e non alla diminuzione del rapporto fra utile netto e capitale complessivamente investito, e che quando questo non accade, ciò è dovuto ad un effetto collaterale dell’incremento della composizione organica, ossia ad un eccesso di produzione. Incidentalmente, si può inoltre osservare che la diminuzione dei prezzi, legata, sia nell’ipotesi di Labriola sia in quella di Croce, all’incremento della produzione (e quindi dell’offerta), dà luogo nell’uno e rispettivamente nell’altro a conseguenze contrarie, perché per Croce essa, agendo sulla composizione organica nel senso di contrastarne la crescita, si oppone alla caduta del saggio di profitto, mentre per Labriola, traducendosi in quote di merce invenduta o venduta sottocosto (per effetto della sovrapproduzione) è la vera causa (anche se solo occasionale e non tendenziale) di questa caduta. Quello che dunque, per concludere, si può dire a proposito dell’influenza esercitata da Labriola su Croce è che essa, per quanto riguarda gli argomenti impiegati dall’uno e dall’altro, non ci fu, che non è in nessun modo documentabile. Mentre è possibile che se uno spunto a riflettere ulteriormente sul tema della caduta del saggio di profitto venne offerto a Croce anche dalla memoria di Labriola, questo potrebbe essere stato occasionato non tanto dalla trattazione che il suo terzo capitolo dedica al tema, quanto eventualmente dalla critica, sprezzante e sarcastica, che Labriola rivolge a Croce, in una

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nota di questo stesso capitolo (la n. 3, posto, naturalmente e come abbiamo già sottolineato all’inizio, che essa non sia stata aggiunta in seguito), a proposito di un accenno alla caduta del saggio di profitto fatto incidentalmente da Croce, in un contesto all’apparenza tutt’altro che critico, nel saggio del ’97. Qui Croce sottolineava il fatto che il progresso tecnico, secondo le indicazioni di Marx, in una società capitalistica si traduceva in un abbassamento del saggio di profitto (cfr. Materialismo storico…, p. 66). In questo stesso passo viene formulato anche il proposito di dedicare uno specifico esame critico al problema, in un’altra circostanza. L’idea di impegnarsi in un’analisi della questione era dunque nata, nella testa di Croce, prima della lettura della memoria di Labriola e indipendentemente da essa, e il suo rifiuto della validità della legge doveva già essere ben consolidato all’epoca della stesura della relazione sui due saggi in concorso per il Premio Tenore (come risulta anche dalle cose che egli dice, commentando l’esame del problema condotto da Giuffrida). Ma non si può escludere che l’accusa di avere, in precedenza, condiviso la tesi di Marx riguardo alla caduta del saggio di profitto senza essersi reso conto del fatto che la propria interpretazione della teoria del valore era in contrasto con questa tesi – accusa contenuta nella nota del testo di Labriola cui abbiamo fatto riferimento sopra – abbia fornito a Croce uno stimolo in più a formulare con chiarezza il proprio punto di vista sul tema. In breve, nella nota suddetta, Labriola osservava che se per Croce la teoria del valore di Marx non poteva essere una teoria generale del valore a causa della presenza, in una economia capitalistica, di beni economici che non sono prodotti per mezzo del lavoro (anzi, che non sono affatto prodotti), allora l’interferenza rappresentata da questo fattore distorsivo doveva far sì che in un’economia di questo tipo la divergenza fra “reddito e pluslavoro” fosse massima, mentre sarebbe stata minima in una società primitiva (tendenzialmente, anche se rozzamente,

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comunistica), nella quale l’uso delle risorse naturali sarebbe stato libero e la loro proprietà collettiva. Perciò, dipendendo, in un sistema capitalistico, l’utile netto dal lavoro umano in misura minore che in qualsiasi altro sistema, anche l’abbassamento del suo saggio avrebbe dovuto essere assai poco influenzato dalla diminuzione dell’impiego di tale fattore. Con la conseguenza che Croce, sulla base di una simile interpretazione della teoria del valore-lavoro, non avrebbe dovuto dare credito al fenomeno della caduta del saggio di profitto e non avrebbe dovuto accogliere, come invece sembrava fare, la validità della legge marxiana che lo giustificava (cfr. La teoria del valore di C. Marx, cit., p. 248, n. 3). La nota, come dicevamo, era sprezzante e sarcastica e si concludeva rilevando come, dall’interpretazione della teoria del valore proposta da Croce, risultasse che lo sfruttamento del lavoro sarebbe stato massimo nelle società comunistiche e minimo in quella capitalistica, e che se di questa interpretazione egli (Labriola) non si era servito nella sua memoria e si era anzi guardato, precedentemente, anche solo dal menzionarla, ciò era dovuto al fatto che essa gli appariva “capricciosa e poco giustificata” (ivi, p. 249). L’addebito rivolto all’interpretazione di Croce, espresso in questa forma, era ingiusto ed immotivato: in una società comunistica non ci sarebbe stato, secondo Croce, come abbiamo avuto precedentemente modo di sottolineare. nessuno sfruttamento del lavoro. Lo sfruttamento del lavoro, infatti, era, a suo giudizio, un concetto applicabile esclusivamente alla società capitalistica, e solo nel caso che essa non venisse considerata di per sé, ma messa a confronto con un’altra, ossia proprio con una ipotetica “società (comunistica) lavoratrice”. Tra Arturo Labriola e Croce non correva, evidentemente, buon sangue, e come accade sempre in questi casi, forse nessuno dei due era davvero disposto a rendere giustizia all’altro. Sullo sfondo di questo difficile rapporto campeggiava poi la figura del Labriola maggiore, che nei confronti del suo più

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giovane omonimo aveva quasi subito (come risulta dalle sue lettere) iniziato a nutrire una profonda avversione e una radicale disistima. L’una e l’altra, verosimilmente, non poterono non esercitare una qualche influenza sull’opinione, comunque meno passionale e più equilibrata, di Croce. Il profilo della vicenda che qui abbiamo sinteticamente ricostruito a grandi linee è questo. Esso serve a testimoniare quanto il leggere attentamente ed il capire – soprattutto i testi degli avversari – siano o possano diventare, pur nella loro semplicità, obiettivi così difficili da raggiungere che il loro conseguimento finisce talvolta per risultare praticamente impossibile, rendendo i contendenti sordi e ciechi a tal punto da indurli tanto a vedere il conflitto dove non c’è o dove c’è l’identità (e questo potrebbe essere il caso della vicenda che, più tardi, opporrà Croce a Gentile), quanto, al contrario, a vedere l’identità (e magari il plagio) dove non c’è e dove c’è, invece, solo la differenza.

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Benedetto Croce. Dalla revisione del marxismo al rilancio dell’idealismo Emilio Agazzi

Ancora una quindicina d’anni fa questo saggio1 avrebbe potuto apparite, fin dal suo stesso titolo, sfacciatamente provocatorio: sembrando infatti sottintendere che vi è un nesso diretto fra la critica crociana del materialismo storico, la fondazione teorica del «revisionismo» marxista e l’opera filosofica, storica e culturale in genere, ispirata a una visione idealistica in senso lato, svolta dal Croce in Italia nel primo cinquantennio del Novecento. Si sarebbe allora potuto obbiettare, fondandosi su talune espressioni dello stesso Croce, che da una parte gli studi da lui svolti sul materialismo storico verso la fine del secolo scorso rappresentano una parentesi, ancorché importante, nello sviluppo del suo pensiero2, chiusa la quale egli ritornò

1. Il presente scritto riprende solo in parte, riassumendoli, i risultati di una mia ricerca sui rapporti fra il primo Croce e il materialismo storico, pubblicata ormai quasi una ventina di anni fa (E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Torino 1962), e cerca di tener conto, nel rivederli e nello svilupparli oltre il periodo allora preso in considerazione (1893-1900), di quanto sull’argomento è stato successivamente scritto. 2. In Come nacque e come come morì il marxismo teorico in Italia – pubblicato in appendice a A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari 1938 e riprodotto in B. Croce, Materialismo storico ed economia mar-

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ai temi a lui più cari e congeniali, cioè all’arte e alla storia, e per approfondite i quali egli venne successivamente sospinto, anche ma non certo soltanto per influsso del Gentile, a elaborare una compiuta «filosofia dello spirito». Questa solo indirettamente e per negazione implicita poteva configurarsi come radicale confutazione del marxismo, ma non esclusivamente né principalmente di esso, bensì anche soprattutto di ogni corrente filosofica e culturale materialista, sensista ed empirista, e al contempo di ogni «filosofia teologizzante» (questi furono infatti sempre i due fronti sui quali il Croce condusse la sua lunga battaglia filosofica e culturale)3. Nessun rapporto diretto, quindi, fra la critica del materialismo storico e la filosofia del Croce, e tanto meno un nesso fra il «revisionismo» marxista e la «filosofia dello spirito» crociana. Oggi la prospettiva appare alquanto mutata. I giudizi al riguardo enunciati per la prima volta da Gramsci, e resi noti

xista, Bari 19416 (dal quale citiamo) – scrive: «E così io chiusi i miei studi sul marxismo, dai quali riportai quasi in ogni sua parte definito il concetto del momento economico, ossia dell’autonomia da riconoscere alla categoria dell’utile, il che mi riuscì di grande uso nella costruzione della mia “Filosofia dello spirito”. Ma dal marxismo probabilmente detto […] teoricamente non ricavai nulla, perché il suo valore era prammatico e non scientifico, e scientificamente offriva soltanto una pseudoeconomia, una pseudofilosofia e una pseudo storia» (pp. 312-313). Ma già nel 1899, a proposito di quest’opera, egli aveva scritto: «Ho raccolto in un volume […] tutti i miei scritti su Marx e ve li ho composti – come in una bara. E credo di aver chiuso la parentesi marxista della mia vita» (Marxismo ed economia pura, in «Rivista Italiana di Sociologia», 1899, f. 6, p. 747). 3. V.: B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, in B. Croce, Etica e politica, Bari 1945, pp. 382-385; Per la rinascita dell’idealismo, in «Cultura» (1908) (riprodotto in B. Croce, Cultura e vita morale, Bari 1955); e Il carattere della filosofia moderna, Bari 19452, p. 195. Al riguardo v. anche le osservazioni di E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Bari 1955, pp. 231-232, 260-263, 282; e P. Rossi, Benedetto Croce e lo storicismo assoluto, in «Il Mulino», 67, 1967, p. 333.

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solamente dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le precisazioni e le smentite dello stesso Croce e di molti suoi seguaci, hanno finito per prender sempre più piede nella cultura italiana. Così non solo da parte marxista, ma anche fra pensatori non propriamente marxisti, o addirittura molto lontani dal marxismo, la convinzione che Croce abbia costruito tutta la sua filosofia come consapevole e programmatica reazione al marxismo stesso è abbastanza diffusa4, ciò non può né vuole peraltro significare un tentativo di ridurre a termini inaccettabilmente circoscritti la sua opera, come intende chiunque abbia compreso che la sfida lanciata dal pensiero marxista alla civiltà borghese-liberale, di cui il Croce fu il più importante teorico italiano, ha un carattere epocale. D’altra parte, è lo stesso Croce che più volte, e lungo tutto l’arco di sviluppo del suo pensiero, ha rivendicato il merito di avere, con la propria critica del materialismo storico e della economia marxista, offerto ai socialisti più avveduti e critica4. Oltre a A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino 1947, pp. 105-106 e Quaderni del carcere, Torino 1975, II, pp. 1213-1214, v.: N. Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, in AA.VV., Benedetto Croce, a cura di A. Bruno, Catania 1974, pp. 30-31 e 37-40; B. De Giovanni, Il revisionismo di Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello stato, in «Lavoro Critico», 1, 1975, pp. 144 ss.; A. Leone De Castris, La filosofia di Benedetto Croce e la società di massa, ivi, 4, 1975, pp. 16 ss.; R. Racinaro, La crisi del marxismo nella revisione di fine secolo, Bari 1978, pp. 151 ss.; G. Semerari, Croce e la filosofia in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 4, 1966, specie alle pp. 472-476; A Del Noce, La non-filosofia di Marx e il comunismo come realtà politica, in Atti del congresso internazionale di filosofia, Roma 15-20 novembre 1946, Milano 1948, I; ristampato in Il problema dell’ateismo, Bologna 1964, pp 3-56. Nell’Introduzione a quest’ultima opera, A. Del Noce indica nel «razionalismo, storicista in apparenza, ma in realtà metafisico-laico di Croce» l’«unica filosofia laica che si sia formata avendo sempre il marxismo come avversario essenziale» (p. CXX). Sulla smentita v.: B. Croce, Lettere di Antonio Gramsci, in «Quaderni della Critica», 8, 1947, p. 87 (riprodotto in B. Croce, Scritti e discorsi politici, Bari 1963, II, pp. 416-417).

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mente consapevoli le armi teoriche per avviare e sviluppare quella «revisione», che poi gli si configurava come un sostanziale abbandono, del marxismo, che ebbe luogo appunto intorno al volgere del secolo. In particolare, come anche Gramsci ricorda5, egli si compiacque dei riconoscimenti che in proposito gli sarebbero stati tributati dallo stesso Eduard Bernstein, primo promotore della «crisi del marxismo» entro la socialdemocrazia tedesca. E soprattutto, non si stancò mai di ribadire, specialmente nei suoi ultimi anni, la funzione fondamentale che nella lotta contro il materialismo storico avrebbe avuto fin dall’inizio del secolo, a livello italiano ed europeo, la propria opera culturale6… Ma non era stato proprio il Croce che alla fine del secolo scorso appassionandosi per il marxismo, ne aveva svolto una difesa contro i suoi detrattori e avversari, non meno che contro i suoi troppo zelanti e semplicistici fautori? Non aveva allora cercato di sfatare la «leggenda dell’intrinseca amoralità del marxismo»7? Non ne aveva fornito un’interpretazione che, per quanto riduttiva, si presentava tuttavia con l’intenzione esplici5. V.: A. Gramsci, Quaderni cit., II, pp. 1213-1214. 6. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1914, Bari 195310, p. 170, scrive che la critica da lui svolta nei riguardi del materialismo storico e dell’economia marxista «fu accettata e convalidata dal Sorel […] e operò nella distesa internazionale di quella scuola, e ne affrettò la cosidetta crisi, che, poco stante, fu accusata e dichiarata in Germania dal Bernstein, il quale ammise di essere stato aiutato dall’uopo dalla critica e autocritica italiana». La valutazione veniva ribadita in una nota polemica su «La Critica», 1928 (riprodotta in B. Croce, Conversazioni critiche, s. IV, Bari 19512, p. 59), dove rammentava «la critica che corrose il marxismo tra il 1896 e il 1900, in cui ebbero particolare efficacia le memorie accademiche che allora io scrissi». In anni più tardi, i riferimenti all’importanza della propria opera nel promuovere la «crisi del marxismo» si fanno più frequenti. 7. Nelle conclusioni dello studio Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (pubblicato in AAPO, 1897, p. 45), Croce, elencando i risultati delle proprie ricerche, indicava la «dissipazione della leggenda

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ta di salvarne gli aspetti giudicati validi e positivi8? Non si era anche, almeno per un breve periodo, appassionato per la causa del socialismo, e non aveva mantenuto, sia pur in forma attenuata, queste simpatie politiche ben oltre il periodo in cui si era occupato del marxismo teorico, e cioè almeno fino al 1909, precisamente nella forma di una partecipazione ideale alle fortune del sindacalismo rivoluzionario di stampo soreliano? Non aveva, ancora durante la prima guerra mondiale, manifestato la speranza nella ripresa di un movimento socialista, sebbene inquadrato nell’ambito delle nazioni e delle patrie9? Tutto ciò è vero e documentabile. Tuttavia non deve servire a nascondere, sotto una superficiale apparenza, quella che fu sempre la sostanza e il significato di fondo dell’atteggiamento politico crociano, quale si andò via via traducendo anche nella elaborazione riflessa delle sue concezioni filosofiche. La tesi che si cercherà di dimostrare è ispirata alla convinzione che, nel caso specifico del Croce, e forse con maggior evidenza che in altri, si esprima il carattere essenzialmente «politico» di tutte le manifestazioni vitali (teoretiche non meno che pratiche) di ogni essere umano; proprio in quanto l’uomo è in senso lato un «animale politico», e appunto nel caso del Croce, che egli, dopo un breve periodo di interessamento per il marxismo e dell’intrinseca amoralità o dell’intrinseca antieticità del marxismo» (corsivo nel testo). 8. Gli scritti raccolti in Materialismo cit., sono anche intesi, specie alle pp. 81-85, come difesa di un’interpretazione criticamente accettabile (e per il Croce di allora anche storicamente valida) del pensiero di Marx e di Engels, non solo contro gli oppositori, ma anche contro i seguaci frettolosi e troppo semplicistici. 9. B. Croce, Contributo, cit., pp. 382-383; La morte del socialismo, in «La Voce», 9 febbraio 1911 (riprodotto in B. Croce, Cultura e vita cit., pp. 156157); e Cultura tedesca e politica italiana, in «Italia Nostra», 27 dicembre 1914 (riprodotto in B. Croce, L’Italia dal 1924 al 1918. Pagine di guerra, Bari 1950, p. 22).

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per il socialismo, che potè anche apparire, a lui stesso non meno che ad altri, un «appassionamento»10, messo di fronte a una scelta decisiva per l’intera sua esistenza, abbia consapevolmente optato per un’opera di restaurazione dei valori «etico-politici» che vedeva messi in pericolo non soltanto dalle correnti di pensiero materialistiche, sensistiche ed empiristiche11, e dalle posizioni politiche democraticistiche che riteneva a esse collegate, ma anche da una certa interpretazione del materialismo storico (e più tardi proprio e soprattutto dal materialismo storico in genere); che lo sforzo di fornire un’adeguata fondazione teorica a tale restaurazione di valori tradizionali si sia tradotto nell’elaborazione di un sistema filosofico alternativo, cioè dello «storicismo assoluto», entro il quale, come sottoprodotto, si può collocare anche l’assunzione di una teoria del «socialismo» e di un movimento socialista (od operaio in genere) «riveduti» in modo tale da farli contribuire all’affermazione dell’idealismo e a consolidare l’ordine sociale, in cambio, com’è ovvio, di qualche indispensabile e inevitabile e forse anche giusta concessione.

II giovane Croce e il problema della storia Il primo accostamento del Croce agli studi marxistici, occasionato dall’invio che Labriola gli aveva fatto, nel 1895, del manoscritto (poi da Croce stesso pubblicato) del saggio In memoria 10. Il «sembiante di appassionamento politico» per il socialismo (v.: B. Croce, Contributo cit., p. 383) durò peraltro pochi mesi. Sul distacco dal socialismo v. anche la lettera di B. Croce a F. Sassano del 28 febbraio 1939, pubblicata in «Avanti!», 5 giugno 1958: «Dopo aver studiato a lungo questa dottrina, e aver pensato di adottarla, la rigettai perché è del tutto impossibile spiegare con essa la storia». 11. V.: B. Croce, Contributo, cit., p. 374.

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del Manifesto dei comunisti, ebbe luogo in un periodo delicato e propizio del suo svolgimento intellettuale. È stato bene messo in luce12, ed era del resto stato attestato dallo stesso Croce, come questo nuovo interesse fosse nato in un momento particolarmente opportuno per fornirgli un orientamento culturale e personale, di cui aveva sentito il pressante e angoscioso bisogno in tutti gli anni precedenti, in conseguenza dello smarrimento che lo aveva colpito, da una parte per la perdita della fede religiosa in cui era stato educato, dall’altra per la tremenda disgrazia che lo aveva privato della famiglia all’età di diciassette anni13. Per un certo periodo dopo questi eventi, il Croce, vivendo dapprima, fino all’emancipazione, in casa dello zio Silvio Spaventa, assistendo distaccato alle dispute culturali e politiche che quotidianamente vi si svolgevano, frequentando svogliatamente la facoltà giuridica dell’università di Roma, aveva aspirato, ma senza riuscirvi per allora, a trovare un senso della vita e una sicura orientazione morale14: a ciò non giovandogli né l’ambiente politicizzato, ma fortemente critico nei riguardi del nuovo corso democraticistico e trasformistico della politica italiana, di casa Spaventa15, né gli studi eruditi cui era ritornato dopo due anni di inerzia e disperazione, e solo aiutato, in questa sua ansiosa ricerca, dal magistero del Labriola, allora «herbartiano», che gli aveva per lo meno fatto intravedere, col suo senso del

12. V.: G. Semerari, op. cit., pp. 470-472. 13. V.: B. Croce, Contributo, cit., pp. 371-375 e 382-383. 14. Ivi, p. 373. 15. Ivi. «Io non ero preparato ad accogliere in me quella nuova forma di vita; né la politica di quegli anni (gli anni del Depretis, il 1884 e l’85), e il sarcasmo onde era perseguitata e vituperata dallo Spaventa e dai suoi amici e frequentatori, potevano rincorarmi di fiducia ed accendermi d’entusiasmo, e levarmi in qualche modo dall’avvilimento nel quale ero caduto».

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dovere morale e il suo rigore intellettuale, un punto fermo di cui sentiva penosamente la mancanza16. All’inizio del 1893, dopo diversi anni nei quali gli interessi eruditi non erano riusciti a procurargli piena soddisfazione, il Croce aveva infine sentito il bisogno di darsi un più preciso orientamento, almeno per quel che riguardava gli studi, e aveva affrontato, sulla scia di un dibattito allora fervente in Germania e avviato anche in Italia dal Villari, il problema circa la natura scientifica o artistica della storia17. Ne era uscita quella famosa «memoria accademica» su Il concetto della storia ridotto sotto il concetto generale dell’arte, che è comunemente considerato il suo primo lavoro filosofico, e che incomincio a farlo conoscere anche al pubblico colto europeo18. Come è noto, la scelta del Croce, comprensibile anche in base al tipo di lavoro storiografico, prevalentemente erudito e culturalistico, da lui fino ad allora praticato, era che la storia dovesse essere classificata, all’interno dello scibile, non nella categoria della conoscenza dell’universale, cioè della «scienza», bensì sotto quella della conoscenza del particolare, cioè dell’«arte», intesa però in senso lato. Quando nel 1915 il Croce ricorderà questo momento, scriverà, a proposito della composizione della «memoria»: «Dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria dal titolo: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte»19. Ma qualche anno prima egli si era espresso più diffusamente a

16. Ivi, pp. 374-377. V. anche: G. Semerari, op. cit., pp. 469-470. 17. B. Croce, Contributo, cit., pp. 376-380. 18. Pubblicata in AAPO, 1893; poi, con modifiche in B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, Roma 1896; poi con ulteriori modifiche in B. Croce, Primi saggi, Bari 1919, pp. 1-41. 19. B. Croce, Contributo, cit., p. 380.

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proposito di queste «lunghe titubanze» e «soluzioni provvisorie», e in termini tali, che meritano un’attenta considerazione: Mi giunse l’eco di una grossa questione, vivacemente dibattuta. Era mossa dal Villari: se la storia fosse arte o scienza. Io allora non potevo credere se non che la storia fosse scienza, e preparai una memoria per dimostrare che la storia è scienza. Lo scritto era già composto per la stampa, e io continuamente ci ripensavo sopra. Di giorno in giorno me ne sentivo meno soddisfatto, finché all’improvviso mi scoppio nella mente la soluzione nuova del problema. Non avevo capito niente! La storia non può essere scienza, ma deve essere arte; perché la scienza è dell’astratto, e la storia è, come l’arte, del concreto: individualista. La storia differisce dall’arte, solo in quanto l’arte rappresenta il possibile, la storia il reale. Corsi in tipografia. Scomponete! – Era tutto il passato che scomponevo. Ma, per edificare, nulla è più necessario che distruggere20.

Non sono, queste, parole da prendere alla leggera. Che nell’improvvisa illuminazione che lo distoglieva dalla tesi della storia come scienza e lo avviava alla concezione della storia come arte il Croce ancora dopo quindici anni scorgesse uno sconvolgimento di tutta la sua precedente vita di studioso («era tutto il passato che scomponevo»), può avere soltanto il significato che in quel preciso momento non solo si destava la sua vocazione filosofica, ma era finalmente trovato quell’orientamento generale di cui era stato in cerca per tutti gli anni precedenti21. Per

20. B. Croce, Discorrendo di me stesso e del mondo letterario, in «Marzocco», 11 ottobre 1908 (corsivo mio). 21. V.: B. Croce, Contributo, cit., pp. 379-381. V. anche: le osservazioni di G. Semerari, op. cit., pp. 467-470 e, specie a p. 470: «È notevole che, pure sotto il profilo strettamente intellettuale, il movimento di croce verso la filosofia fosse suscitato dal bisogno di uscire da una condizione di dubbio, ove la filosofia veniva veduta come la risposta ad una richiesta, insieme esistenziale ed intellettuale, di chiarezza e di sicurezza» (corsivo del testo).

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meglio, intendere questo punto, gioverà ricorrere ancora a una pagina del Contributo alla critica di me stesso: Nel secondo anno della mia dimora a Roma, mi risolsi ad ascoltare le lezioni di filosofia morale di Antonio Labriola, che già mi era familiare come frequentatore assiduo della casa dello Spaventa […] E quelle lezioni vennero inaspettatamente incontro al mio angoscioso bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e sui suoi fini e doveri, avendo perso la guida della dottrina religiosa e sentendomi al contempo insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato. L’etica herbartiana del Labriola valse a restaurare nel mio animo la maestà dell’ideale, del dover essere contrapposto all’essere, e misterioso in quel suo contrapporsi, ma per ciò stesso assoluto e intransigente22.

Anche di queste parole si dovrà tener gran conto, se si vorrà intendere correttamente non soltanto la generale disposizione intellettuale con cui Croce si accosterà allo studio del marxismo, ma anche la qualità specifica del suo orientamento verso la ricerca storica. Comunque, va riconosciuto fin d’ora che con la «scomposizione» di tutto il passato, di cui Croce prende coscienza nel momento preciso nel quale si accinge a rielaborare la stesura della sua «memoria accademica» sulla storia, le lezioni del Labriola avevano prodotto il loro frutto. In apparenza infatti ciò che veniva «scomposto» (e quindi «ricomposto») era soltanto il suo passato di studioso, il suo modo di intendere lo statuto e la funzione scientifica della storia; ma se si bada all’importanza centrale che l’attività culturale in genere, e in essa specificamente l’interesse per la storia, ebbero in tutta la

22. B. Croce, Contributo, cit., pp. 374-375 (corsivi miei).

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vita del Croce23, si comprenderà meglio la portata esistenziale che questa svolta assumeva nella sua biografia, nel suo orientamento non puramente culturale, bensì anche etico-politico. Per meglio intendere il significato di questo episodio, occorrerà soffermarsi sulle vicende in cui il Croce fu coinvolto negli anni successivi; non senza però aver prima precisato alcuni problemi di interpretazione relativi alla stessa «memoria» del 1893. Il centro e la novità di questo scritto, rispetto agli orientamenti precedenti, consistevano certo nella tesi del carattere alogico, non astrattizzante ma individualizzante, e quindi «artistico», del lavoro storiografico. Sulla base di questa soluzione, che certo richiama impostazioni e posizioni analoghe ricorrenti in quel tempo, almeno a partire dalla Einleitung in die Geisteswissenschaften del Dilthey (1883), nella più innovatrice cultura tedesca, e negli svolgimenti che le fecero seguito, si è potuto da un lato sottolineare il collocarsi del giovane Croce nel centro stesso dei «dibattiti della più aggiornata filosofia tedesca», il suo collegarsi consapevole «a tutti i tentativi contemporanei di impostare “il problema della fondazione delle scienze dello spirito”, al centro dei quali si collocava lo sforzo di Dilthey di individuare nell’arte “l’organo dell’intendere (Verstehen)”, lo strumento per la comprensione della vita»24; dall’altro lato, si è visto in questa scelta una delle più importanti premesse che condizionarono successivamente il modo in cui Croce si accosto al marxismo e ne lesse i testi fondamenta-

23. Ivi, p. 368. «In tutta la mia fanciullezza ebbi sempre come un cuore nel cuore: […] la letteratura o piuttosto la storia». 24. V.: E. Garin, Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano, in E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1974, pp. 8-9. Riprendono le indicazioni di E. Garin, R. Racinaro, op. cit., pp. 9 e 155; e G. Fehr, Il primo saggio crociano sul materialismo storico e il revisionismo neokantiano in Italia, in «Prassi e Teoria», ns. 2, 1979, pp. 129-130 e n. 3.

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li25, partendo quindi dalla convinzione del carattere individualizzante della storiografia. Questa tesi, che costituisce appunto il nucleo della «memoria» del 1893, per quanto si fosse presentata come una sorta di folgoramento improvviso, non dovette però essersi completamente impadronita della mente del Croce, che negli anni successivi continuò a riproblematizzare la questione, attraverso oscillazioni che solo molto più tardi (con la Logica del 1909) lo porteranno a restituire alla storia, identificata non più con l’arte (e tanto meno con la scienza), bensì con la filosofia, una nuova logicità (la logicità dell’universale concreto)26. Ora, nel 1893, la soluzione raggiunta presentava per lo meno talune difficoltà: la principale delle quali restava la determinazione di ciò che, all’interno del «concetto generale dell’arte», potesse permettere di distinguere fra storia e arte in senso stretto, cioè la differenziazione fra il «particolare reale» e quello semplicemente «possibile». La questione si collegava con l’altra, che resterà sempre al centro (per quanto, a parere di chi scrive, sempre sostanzialmente irrisolta) della filosofia crociana, sul rapporto fra storiografia e storia reale (fra storia come pensiero e storia come azione), e più in generale fra teoria e prassi. Orbene, proprio a questo proposito il Croce, in un breve scritto del 1895, giunge a porre il problema in termini che possono gettar luce anche sulle modalità e condizioni del suo successivo accostamento al marxismo: Trasportata la considerazione storica dal mondo ideale al mondo reale, era naturale domandarsi: quali sono le cause generali ossia le leggi del movimento storico? Esiste una legge

25. Ivi, pp. 128 ss. 26. V.: B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 19285, pp. 180211.

459 della storia? e questa deve riporsi nella riduzione della storia all’azione di un unico fattore sociale, come lo stato, la scienza, la religione, ecc.? O tutti questi o altri fattori operano e s’incrociano insieme, nella storia? E qual è il modo di questo operare e di questo incrociarsi? Come nascono, si trasformano e muoiono le istituzioni sociali? Con quali elementi, per esempio, si forma lo stato e la morale?27

Si può dire che con queste espressioni, e altre rintracciabili negli scritti crociani di quegli anni, si manifesti un interesse per i problemi della storia reale, al di là di quelli per la storiografia, di natura tale da far intendere come la conoscenza delle dottrine marxistiche, iniziata di lì a pochi mesi, si sia collocata nel momento più opportuno per suscitare nell’ancor giovane studioso quell’entusiasmo di cui egli stesso lascio in seguito esplicite e ripetute testimonianze28. Non ci si può d’altra parte nascondere che nell’elaborare la «memoria» del 1893 e gli scritti che negli anni successivi ne difesero e precisarono le posizioni, come pure l’altra memoria su La critica letteraria29, la preoccupazione di determinare la natura del lavoro storiografico non fosse l’unica, e forse nemmeno la più importante, che sollecitava l’attenzione del Croce; come, del resto, accadeva per l’appunto negli sviluppi del contemporaneo storicismo tedesco, da Dilthey in poi. Un posto di primo piano, e più o meno evidente, vi teneva la problematica dei «valori», che nel Croce assumeva la forma dell’istanza di garantire l’assolutezza dei valori logici, etici ed estetici con-

27. B. Croce, Intorno all’organismo della filosofia della storia, in B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni, cit., p. 137. 28. V.: B. Croce, Contributo, cit., pp. 381-383; e Come nacque e come morì cit., pp. 272-275. 29. Pubblicata a Roma nel 1894 e riprodotta con modificazioni in B. Croce, Primi saggi cit., pp. 73-168.

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tro il pericolo della loro relativizzazione alla situazione storica contingente. Questa preoccupazione, si è visto, aveva caratterizzato la situazione di crisi, psicologica e morale, del Croce negli anni che seguirono alla tragica vicenda familiare della sua prima giovinezza, e aveva trovato un punto d’avvio per una possibile soluzione capace di trarlo da tale crisi nelle lezioni di filosofia morale, ispirata all’etica herbartiana del «dover essere», di Antonio Labriola. E già negli stessi scritti giovanili del periodo 1883-1886 è possibile constatare la presenza costante di una ricerca volta a individuare il dispiegarsi immanente dei valori nella storia30; anche se tale interesse, pur senza svanire, sembra attenuarsi negli scritti, di carattere prevalentemente erudito, degli anni fra il 1887 e il 1892, esso ritorna a mostrarsi, per non più venir meno, appunto a partire dalla «memoria» del 1893. Proprio in questo scritto, infatti, trattando nel primo capitolo Il concetto dell’arte, e specificamente discutendo le definizioni correnti del «bello», osserva quasi incidentalmente: «un istinto invincibile dell’animo nostro spinge a cercare le relazioni che debbono esservi tra le supreme idealità dello spirito umano, il Vero, il Bene e il Bello»31. Che poi Croce fosse convinto dell’assolutezza dei valori teoretici e morali, se non anche di quelli estetici, risulta chiaramente anche dallo scritto dell’anno successivo su La critica letteraria, in cui egli, pur ponendo in forma problematica la questione dell’assolutezza o relatività del giudizio estetico, non dimostra alcuna esitazione nell’affermare quella del giudizio logico e del giudizio etico32. E ciò viene

30. V.: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 53-59. 31. B. Croce, La storia ridotta, cit., in B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni, cit., p. 19. 32. «Il giudizio estetico è assoluto o relativo? Assoluto ossia tale che si debba da tutti riconoscere, come si riconosce la verità di un’affermazione o il pre-

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confermato da precise espressioni contenute nei due scritti del 1895, L’arte, la storia e la classificazione dello scibile e Intorno all’organismo della filosofia della storia33. Il Croce stesso, più tardi, qualificherà questo suo orientamento filosofico come intellettualistico, «herbartiano-scolasticoplatonico»34: una tale impostazione, imperniata sull’ammissione dogmatica di valori assoluti che, pur manifestandosi nella storia, non ne sono generati e condizionati, ma anzi la condizionano, non sembra tanto derivare dalla preoccupazione di intendere il corso della storia nella sua concreta e mutevole vicenda, quanto da quella di sottrarre al divenire storico una tavola stabile di valori, per trovarvi una garanzia di sicurezza, un’assicurazione contro la precarietà e instabilità dell’esistenza, e al contempo un sicuro indirizzo per le proprie scelte di vita, mediante l’entificazione metafisica di determinati valori storici in «supreme idealità dello spirito umano». Senza per ora affrontare la questione (che si potrà delucidare con maggior sostanza di argomenti solo dopo aver esaminato le posizioni assunte negli anni successivi nei riguardi del marxismo e del socialismo) delle ragioni culturali, sociali e personali che sottendono una tale presa di posizione, occorre sottolineare almeno che è con questa complessa prospettiva «filosofica» che il Croce affronterà lo studio del materialismo storico.

gio morale di un’azione?» (B. Croce, La critica letteraria, cit., p. 97). 33. Ambedue pubblicati per la prima volta in B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni cit., e poi, con modificazioni, in B. Croce, Primi saggi cit. 34. B. Croce, Contributo, cit., p. 398.

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Gli studi crociani sul materialismo storico e l’economia marxista Gli studi su Marx e sull’economia, stimolati dalla lettura dei primi scritti marxistici di Labriola, avvicinarono per un certo periodo il Croce non soltanto alla concezione materialistica della storia, bensì anche alle posizioni politiche del socialismo35. Ma nel valutare tali esiti occorrerà procedere con cautela, e non senza stabilire precise ed essenziali distinzioni. In primo luogo, si tratterà di decidere se vi sia stata, da parte del Croce, una sia pur breve e transitoria accettazione del marxismo, e, nel caso positivo, determinarne con la maggior precisione possibile la durata. In secondo luogo, bisognerà valutarne la qualità, i limiti e il significato che assume nell’evoluzione complessiva del pensiero crociano. Infine si dovrà stabilire se e in quale misura, e per quanto tempo, questo accostamento, comunque valutato, al marxismo, abbia effettivamente comportato una presa di posizione politica in favore del socialismo, e, in caso positivo, verso quale forma di socialismo. Le primissime manifestazioni di questo nuovo atteggiamento che presentino un qualche interesse riguardo al primo dei problemi suindicati si possono ritrovare in uno scritto che precedette di poco la stesura della prima «memoria accademica» sul marxismo, intitolato Intorno alla storia della cultura (Kulturgeschichte). Croce prendeva posizione nel dibattito corrente in Germania tra i fautori della Kulturgeschichte e quelli della Staatsgeschischte, sforzandosi di individuare i meriti e i limiti dell’una e dell’altra tesi, e lo faceva in termini che denotano un’almeno incipiente influenza delle idee marxistiche. Pur 35. «Quella pratica con la letteratura marxistica, e il seguire che feci per qualche tempo, con animo teso, le riviste e i giornali socialisti tedeschi ed italiani, mi scossero tutto e […] mi parve di respirare fede e speranza nella visione della palingenesi del genere umano, redento dal lavoro e nel lavoro» (ivi, pp. 382-383).

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contestando la scientificità della «storia della cultura», che a suo parere spezzetta la storia «in due circoli, dei quali l’uno abbia per centro lo Stato, l’altro la cultura, l’uno la vita politica, l’altro la vita sociale e individuale», laddove la storia di un popolo costituisce invece «un corso unico, in cui tutte le più svariate attività sono connesse da legami di interdipendenza o di mutua influenza», riconosceva però la legittimità e l’importanza delle tendenze che in essa si esprimevano: ossia, la tendenza ad ampliare l’interesse storico oltre il semplice racconto dei fatti politici, a rinnovare e moltiplicare i punti di vista dell’esposizione storica, e infine a «riconoscere sempre di più la mutua dipendenza dei fatti sociali, e quindi l’impossibilità di comprendere quelle che sono parse finora le attività più alte dell’uomo, senza tener conto delle altre attività di minor dignità e appariscenza, ma non poco efficaci anch’esse»36. Ora, se qui l’incipiente influenza del marxismo può risultare almeno in modo implicito, del tutto esplicita essa si presenta nelle considerazioni che Croce svolge sulla Staatsgeschichte: Le ricerche della sociologia moderna vengono mutando il posto originale che allo stato si soleva dare in passato, e lo considerano come qualche cosa di secondario e derivato rispetto ad altre formazioni sociali. In che consiste il primo movente delle formazioni sociali, è questione tuttora assai dibattuta; e un tentativo per risolverla è la concezione materialistica della storia, nata dal movimento del socialismo scientifico; ma, forse, c’è da domandarsi preliminarmente se esiste un primo ed unico movente delle formazioni sociali. Quel che è certo […] porre, senz’altro, questo primo movente nello stato è, per lo meno, assai ardito, e da non sbrigarsene con quattro parole37.

36. Pubblicato in AAPO, 1 dicembre 1895 e in estratto; e riprodotto con modifiche in B. Croce, Conversazioni, cit., s. I, Bari 1950 (citazione dall’estratto, p. 9). 37. Ivi, p. 12.

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Se ora avviciniamo questo accenno, non accompagnato da alcuna espressione che possa far pensare a un’accettazione del marxismo, ai due scritti successivi di maggiore importanza dedicati appunto all’interpretazione del marxismo stesso38, esplicitamente concepiti dal Croce come un tentativo di difenderlo tanto contro i suoi facili detrattori quanto contro i suoi troppo ingenui seguaci, si potrà concludere che in questo primissimo momento, e sotto un certo aspetto per qualche anno ancora, il Croce avesse creduto di trovare nella concezione materialistica della storia un ulteriore elemento, fornitogli ancora una volta da colui che considerava suo maestro, Antonio Labriola, per orientarsi sempre più sicuramente non solo negli studi, ma anche nella vita39. Ciò non va certo inteso nel senso che egli avesse in quel periodo individuato nel marxismo e nel socialismo la soluzione a lungo cercata dei suoi problemi di studioso e di uomo pratico. Si vedrà anzi come fin dai primi scritti sul materialismo storico egli ne avesse fornito un’interpretazione che in sostanza ne significava la liquidazione; e come nei riguardi del socialismo, se le sue simpatie non si tradussero mai in aperta adesione, ciò avvenne proprio per via del suo incrollabile attaccamento a valori assoluti, che non poteva veder tradotti in programmi politici, per lui tutti necessariamente «empirici» e perciò relativi. Ma si dovrà anche riconoscere che in quel preciso momento la conoscenza del marxismo giovava non soltanto a ravvivare la

38. B. Croce, Sulla concezione materialistica della storia, in AAPO, 3 maggio 1896, e Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in AAPO, 27 novembre 1897, ambedue riprodotti con modificazioni in B. Croce, Materialismo cit. (da cui d’ora in poi si cita). 39. V.: G. Semerari, op. cit., pp. 470-471.

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sua vocazione filosofica, ma anche a orientarlo più decisamente verso una concezione immanentistica della storia40. Non è certo possibile addentrarsi in questa sede in un’analisi dei primi scritti dedicati da Croce al marxismo41; credo però opportuno, e peraltro sufficiente, indicare alcuni loro aspetti di fondamentale importanza per l’argomento qui trattato. Come è noto, i principali temi affrontati dal Croce nella prima «memoria» sul marxismo sono tre: la determinazione di ciò che sia il materialismo storico; il rapporto fra materialismo storico e socialismo; il rapporto fra concezione materialistica della storia e assolutezza dei valori. Come si vedrà, questi tre temi non soltanto sono strettamente connessi fra loro, ma anche assumono un’importanza determinante nello sviluppo intellettuale del Croce: le soluzioni che qui egli propone sono infatti sufficienti a dimostrate come la sua «adesione» al marxismo fosse nella sostanza ormai una cosa del sia pur recente e breve passato, e d’altra parte costituiscono alcune delle premesse decisive per l’ulteriore svolgimento del suo pensiero. Nella seconda «memoria» poi (che negli ultimi tre capitoli ritorna sugli stessi temi, approfondendoli e generalizzandoli), e in alcuni altri scritti42 il Croce affrontava altresì le dottrine 40. «Gli studi di economia che nel marxismo facevano tutt’uno con la concezione generale della realtà ossia con la filosofia, mi dettero occasione di tornare sui problemi filosofici, e particolarmente su quelli di etica e di logica, ma anche in genere sulla concezione dello spirito e dei vari modi del suo operare» (B. Croce, Contributo, cit., p. 382). 41. Per un esame più approfondito rimando a: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 199-225, 243-260, 336-345 e passim. 42. V. in particolare: B. Croce, Le teorie storiche del prof. Loria, Napoli 1897; Le livre de M. Stammler, in «Le Dévenir Social», novembre 1898, pp. 804-816; Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, in «La Riforma Sociale», 6, 1899, pp. 738-748; e Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, in AAPO, 7 maggio 1899, tutti riprodotti in B. Croce, Materialismo, cit.

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economiche di Marx, e anche sotto questo aspetto si potrà mostrare come egli avesse ormai finito per liquidare il marxismo, pur rifiutando di respingerne talune suggestioni che considerava utili al suo stesso lavoro di storico, come pure alla prassi politica del movimento operaio. Per quel che riguarda la determinazione di ciò che sia il materialismo storico il Croce, dopo aver respinto la possibilità di considerarlo come una «filosofia della storia», come una «teoria» e come un «metodo», approdava alla sua riduzione a «somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano a far parte della coscienza dello storico»43; e, nel secondo saggio, a «canone empirico di ricerca storica»44. Ora, è proprio questa riduzione che gli consentiva poi di negare che esso comporti una relativizzazione dei valori, e che abbia un rapporto intrinseco con il movimento socialista45. Per quel che riguarda invece l’economia marxista, il Croce, nel secondo saggio, enunciava le sue tesi, divenute celebri, secondo cui il concetto del «plusvalore» sarebbe stato inteso da Marx come un «paragone ellittico». Di conseguenza l’economia marxista, che, non essendo «scienza economica generale», non perde per questo un suo proprio valore, andava considerata come «economia sociologica comparativa»46. Infine, in uno scritto dedicato appositamente all’argomento, Croce indagava la correttezza della deduzione marxiana della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, e inclinava, se pur con molte cautele, a considerarla errata47.

43. B. Croce, Materialismo, cit., pp. 2-9, 10, 13. 44. Ivi, p. 81. 45. Ivi, pp. 17-20, 93 ss., 103 ss. 46. Ivi, pp. 70 e 111. 47. Ivi, pp. 149 ss., e 154 ss.

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Ciò non toglie che in tutto questo periodo non solo il Croce non si sia mai espresso polemicamente nei riguardi di Marx, al quale anzi tributava un riguardoso rispetto (e le polemiche se mai si scatenavano nei riguardi di molti «marxisti», che però egli allora considerava cattivi interpreti del loro maestro, intendendo con ciò contribuire alla retta comprensione del suo pensiero). Ma anche là dove egli si azzardava ad avanzare (rispettose) osservazioni critiche dirette al pensiero di Marx, usava farlo con estrema prudenza, premettendo ad esempio formule come «se ben intendo» e simili, ossia con la riserva che si potesse ancora riflettere sulle considerazioni da lui fatte, alle quali non attribuiva allora certo quel valore apodittico e definitivo, che invece riconoscerà loro, ma senza nel frattempo aver di nuovo ristudiato a fondo l’argomento, in anni più tardi48. Nel Contributo il Croce collega inoltre al suo improvviso interessamento per le dottrine marxiste anche un «sembiante di appassionamento politico» per il socialismo. Negli anni che seguirono e, in una certa misura, anche oltre l’abbandono degli studi marxistici e almeno fino al 1910, le espressioni di simpatia per il movimento operaio e per lo stesso socialismo non sono affatto infrequenti nei suoi scritti, al punto che vi è stato di recente chi ha potuto sostenere che per tutto questo periodo la fede politica del Croce fu il socialismo49. Ma ciò, se pur presenta qualche apparenza di verità, è sostanzialmente errato, come credo si possa dimostrare; e per intanto: anche se si dovesse intendere questa «fede socialista» nel senso di un generico orientamento politico di un «uomo di studi e di pensiero»50 interessato principalmente ad altro, resterebbe pur 48. Al riguardo v.: A. Gramsci, Lettere cit., pp. 105-106; Quaderni cit., pp. 1313-1315, 1275, 1254, 1256. 49. V.: S. Zeppi, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalfascismo, Firenze 1973, pp. 19-38. 50. B. Croce, Contributo cit., pp. 382-382.

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sempre difficile spiegare le ragioni del suo repentino abbandono di tale «fede», verificatosi abbastanza clamorosamente nel 1911 con la famosa intervista su La morte del socialismo. Occorre perciò approfondire un poco l’esame della questione, sotto i due suoi aspetti: cioè quello del rapporto iniziale del Croce con il materialismo storico, e quello del suo rapporto con il socialismo pratico. Per quel che riguarda il primo punto, credo si debba riconoscere la validità dell’affermazione secondo cui fin dai primi studi crociani sul materialismo storico vi è già «la radice dell’annuncio di morte del socialismo», trattandosi effettivamente, più che di un’interpretazione destinata a salvarne gli aspetti accettabili, di una sostanziale liquidazione51. Croce legge Marx attraverso Labriola52, ma finisce per ricavarne un’interpretazione opposta a quella offertane dal suo maestro. Questi aveva soprattutto insistito sul carattere scientifico e demistificante della concezione materialistica della storia, quale «nuova e definitiva filosofia della storia»53, e il marxismo gli si configurava tale da avviare la prima concezione rigorosamente scientifica della vicenda umana, ciò che invece Croce contesta è proprio il carattere «scientifico», anzi addirittura «teorico», della per lui nuova dottrina, ridotta a semplice strumento empirico a servizio dell’interpretazione storiografica54. Il nesso, su cui i marxisti in genere e Labriola in particolare 51. V.: S. Ripamonti, Filosofia e politica in Benedetto Croce durante il primo quindicennio del secolo, dissert. dattiloscritta, Milano 1970, pp. 20, 21. V. anche: A. Leone De Castris, op. cit., pp. 17-20. 52. V.: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 203 ss. I saggi di Labriola furono «il punto di riferimento costante del suo lavoro [del Croce]» (v.: M. Corsi, Le origini del pensiero di Benedetto Croce, Firenze 1951, p. 155). 53. A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, in A. Labriola, La concezione materialistica, cit., p. 76. 54. V.: B. Croce, Materialismo cit., pp. 2-3, 58 ss., 80 ss., 111.

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hanno sempre insistito, fra materialismo storico e socialismo, è spezzato già a questo punto, come anche il Gentile, intervenendo nella questione con una presa di posizione a favore della correttezza dell’interpretazione di Labriola, ebbe a riconoscere: a suo parere infatti vi è fra materialismo storico e socialismo quel rapporto organico che Labriola affermava e Croce negava, e ciò che lo differenzia da Labriola (sotto questo aspetto trovandosi ancor più lontano da lui di quanto non fosse lo stesso Croce) è la sua convinzione che la teoria di Marx sia errata e insostenibile, e di conseguenza che il socialismo, il quale ne dipende, sia «impossibile»55. Croce riteneva invece «possibile» (ma non «necessario») il socialismo: la riduzione del materialismo storico a «somma di nuovi dati» o a «canone empirico» lo priva infatti della capacità di individuare nel corso della storia «leggi oggettive» che ne rendano possibile, almeno entro certi limiti, la previsione scientifica. Se in qualche modo di «previsioni» si può parlare, si tratta di previsioni empiriche, prive di qualsiasi carattere di necessità: il socialismo come ordinamento futuro della società rientra quindi per il Croce nel novero delle possibilità, ma non può in nessun caso venir considerato «necessario»56. (Il fatto che in anni più tardi il Croce abbia dichiarato «necessario» il socialismo non smentisce questa affermazione: si vedrà infatti che egli adopererà in altro senso tale aggettivo). Ovviamente, per lui questo non è un difetto peculiare del materialismo storico; a suo parere infatti il carattere individuale dei fenomeni storici non ne consente alcuna previsione scientifica, anzi, come si è visto, non permette di considerare la storia

55. V.: G. Gentile, Una critica del materialismo storico, in «Studi Storici», 3, 1897, pp. 379-423. V. anche: le osservazioni di R. Racinaro, op. cit., pp. 31-33, 37-41, 68-70 e passim. 56. Ivi, pp. 41-43, 45.

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stessa come scienza. Ciò ha indotto diversi recenti interpreti dei saggi di Croce sul marxismo a indicare nella concezione della storia, e quindi in motivi di natura strettamente teorica, le principali ragioni del suo rifiuto sostanziale del materialismo storico come possibile concezione generale della realtà storica e umana57. Ritengo invece che si possa dimostrare come altra fosse la preoccupazione principale in lui suscitata dalla conoscenza delle dottrine marxistiche – e cioè, quella, di salvaguardare l’assolutezza dei valori contro ogni pericolo di riduzione relativistica –, anche se, com’è ovvio, la concezione «artistica», individualizzante, della conoscenza storica poteva servire da strumento conoscitivo per svolgere adeguatamente tale difesa. Se il materialismo storico non si può presentare con lo statuto di una teoria rigorosa, è chiaro allora che lì passaggio dalla semplice possibilità alla realtà del socialismo, non avendo alcun carattere necessario, deve venir mediato da fattori extrateoretici, che per il Croce sono per di più fattori soggettivi: «motivi di interesse, ovvero motivi etici e sentimentali, giudizi morali ed entusiasmi di fede»; «la spinta cieca dell’interesse di classe», o «la convinzione morale e la forza del sentimento»58. Sotto la veste di una «libera interpretazione» degli scritti di Labriola, il Croce in realtà ne ha fin da principio capovolto la prospettiva teorica e politica. Il fatto singolare che nel presentare le proprie considerazioni come un’interpretazione del marxismo di Labriola il Croce, pur ripetendone a volte alla lettera le espressioni, finisca nel complesso, quasi senza volerlo né avvedersene, a un capovolgi-

57. V.: N. Badaloni, op. cit., pp 18 ss.; B. De Giovanni, op. cit., pp. 131-135; e R. Racinaro, op. cit., pp. 32 ss. e 40 ss. In merito e a difesa della tesi della centralità del momento etico nella presa di posizione crociana verso il materialismo storico v.: G. Fehr, op. cit., pp. 125, 150-152. 58. B. Croce, Materialismo cit., p. 17.

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mento del pensiero del maestro, suscita per lo meno il dubbio che operassero in lui sollecitazioni non compiutamente chiarite, preoccupazioni non pienamente evidenziate, e radicate su un terreno diverso da quello sul quale si poneva esplicitamente la discussione. Tale dubbio può venir risolto se si tiene conto di quello che, sebbene trattato per ultimo, costituisce il centro ideale del primo saggio crociano sul materialismo storico: cioè il problema del rapporto fra materialismo storico e assolutezza dei valori. Si è notato poc’anzi come nelle lezioni e negli scritti labriolani del periodo immediatamente antecedente, il Croce avesse trovato la risposta al suo «angoscioso bisogno di rifarsi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri», capace di sostituire la perduta fede religiosa giovanile e di combattere le insidie delle «teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche» in cui egli pur vedeva «la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato». E ciò che in Labriola aveva aiutato Croce in tale bisogna, era stata la concezione rigoristica, di stampo herbartiano, dell’etica. Più che nella lettura dei saggi di Labriola sul materialismo storico, che del resto lo aveva «entusiasmato», il Croce dovette trovare ragioni di preoccupazione proprio per quel che riguardava questa sua ritrovata fede morale in buona parte della letteratura marxista, nella quale rilevava la presenza di «una forte corrente di relativismo morale, non già storico ma sostanziale, di quello che considera la morale come una vana imaginatio». Contro questi e consimili possibili esiti, egli cerca di salvare il marxismo non solo distinguendo fra l’opera originale di Marx ed Engels e le interpretazioni, a suo parere inadeguate o addirittura falsificanti, grezzamente materialistiche e metafisiche, di molti fra coloro che si professano «marxisti», ma anche fra «interpretazione storica» e «interpretazione teorica» dello stesso pensiero di Marx ed Engels, fra i «Marx ed Engels […] per-

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sonaggi reali» e «i Marx e gli Engels ipotetici e possibili». Anche dato che Marx ed Engels abbiano talvolta inclinato verso forme di relativismo morale, per Croce resta fermo che il loro pensiero, se interpretato «teoricamente», ossia quale avrebbe dovuto logicamente svolgersi in base alle proprie premesse, non comportava tale esito: il «relativismo storico» cui la concezione marxista correttamente intesa doveva approdare incideva infatti soltanto sulla genesi storica dei valori, ma non già sulla loro natura e significato essenziale59. Ma è chiaro che a tale distinzione si poteva giungere soltanto in base alla negazione del rigoroso carattere teorico-scientifico della concezione materialistica della storia. Mantenendo il quale (certo non però nella versione «positivistica» per lo più accettata dai marxisti ortodossi della socialdemocrazia tedesca fra Ottocento e Novecento, e più in genere dalla Seconda Internazionale, bensì nella versione autenticamente marxiana, sostanzialmente confermata da Labriola), sarebbe stato inevitabile concludere a una «relativizzazione sostanziale» dei valori al contesto storico-sociale, e in ultima istanza economico, entro i quali essi si presentano, ciò non significa altro, se non che non vi sono «valori eterni», e che i «valori storici» sono relativi alla cultura, e quindi alla società, in cui sorgono e si affermano. Ma per il Croce un relativismo storico così inteso non differiva nella sostanza da quel relativismo individualistico-psicologico in cui egli scorgeva sic et simpliciter la negazione stessa della morale60. In questi scritti il Croce non indicava ancora, se non per via di accenni indiretti, l’orientamento filosofico entro il quale egli intendeva salvare l’assolutezza dei valori logici e morali: ma è

59. Ivi, pp. 19 ss., 82 ss. 60. Per maggiori approfondimenti rimando a: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 111-113, 222-224, 258-260, 566-568, 605-610.

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chiaro fin d’ora che un tale salvataggio non era possibile se non nel quadro di una «metafisica» (sia pure spiritualistica o idealistica) supposta capace di individuare strutture permanenti ed eterne della realtà, sottratte per definizione al mutamento temporale: cioè proprio con un tipo di filosofia, che era stata oggetto dell’implacabile critica di Marx anche in scritti certamente letti dal Croce, come la Sacra famiglia e la Miseria della filosofia61. Il successivo approdo di Croce all’idealismo, e l’elaborazione del sistema della «filosofia dello spirito», vanno intesi appunto, nella prospettiva teoretica, in rapporto all’esigenza, sempre presente e dominante lungo tutto l’arco di sviluppo del pensiero crociano, di «salvare i valori»; nella prospettiva culturale-sociologica, in rapporto alla tradizione di classe cui Croce stesso apparteneva: e queste due prospettive vanno tenute in costante correlazione fra loro. Ma prima di esaminare, sia pure sommariamente, le linee direttive di questa costruzione filosofica, e di metterne in luce i condizionamenti storico-sociali, occorre ancora soffermarsi sul secondo dei problemi sopraindicati, e cioè su quello concernente l’atteggiamento pratico-politico assunto dal Croce nel primo decennio del Novecento, con particolare riguardo alle sue prese di posizione verso il socialismo.

L’atteggiamento del Croce nei riguardi del socialismo e del sindacalismo rivoluzionario Alcuni anni or sono un autore non nuovo agli studi crociani, Stelio Zeppi, ha creduto, in base a un’accurata rassegna di numerose dichiarazioni esplicite del Croce, appartenenti al pe61. Ivi, Appendice: Filosofia, economia e politica negli scritti filosofici giovanili di Marx già noti al Croce alla fine dell’Ottocento, pp. 587-632.

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riodo 1896-1910, come pure di alcune sue successive notazioni autobiografiche, di poter concludere che per tutto questo tempo egli avesse mantenuto un atteggiamento pratico-politico più o meno accentuatamente favorevole al socialismo62. Ritengo però che proprio l’esame di tali dichiarazioni e notazioni, considerate nel contesto globale dello sviluppo del pensiero crociano, debba per lo meno condurre a ritenere che le simpatie crociane per il socialismo siano state anche allora più apparenti che reali; o meglio, che gli orientamenti filosocialisti siano stati prevalentemente strumentali all’affermazione di un programma politico sostanzialmente, e sia pure intelligentemente, conservatore; programma che, come vedremo, sta anche alla base della sua concezione filosofica generale. Secondo lo Zeppi, Croce se nega al materialismo storico «la dignità di filosofia totale», riducendolo a canone empirico di ricerca storiografica, considera invece il socialismo «con un apprezzamento esente da vere e proprie riserve». Si sforza bensì di «amputare il marxismo teorico della sua carica rivoluzionaria», disconoscendone «la portata di filosofia nel senso ampio del termine», e proponendosi di «ricondurlo nel contesto di una cultura non marxiana, dopo, averlo abbassato al livello di uno degli strumenti di cui questa può valersi ai suoi fini»; ma nei riguardi del «pratico movimento socialista» egli si mostrerebbe «ben più aperto e spregiudicato», in quanto ne riconoscerebbe «il pregio di moto autenticamente morale e innovatole». Croce insomma, opera una «netta distinzione fra la parte teorica del marxismo (il materialismo storico) e la parte pratica del marxismo (il socialismo)», abbassando la prima a «empirico e approssimativo suggerimento di metodologia storiografica» e accettandola solo «nella misura in cui può entrare a far parte di una concezione del mondo extramarxiana»,

62. S. Zeppi, op. cit., pp. 19-38 e in particolare pp. 31-32.

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ma condividendo «il principio ispiratore della seconda, senza sottoporlo alle riserve e cautele e limitazioni che adotta nei confronti dell’altra»63. Ora, basterebbe già questa netta separazione fra la «parte teorica» e la «parte pratica» del marxismo per mettere in sospetto circa la natura e la portata delle pur innegabili simpatie socialiste del Croce anche in quel primissimo momento. Non sono, nella concezione marxiana, teoria e prassi, materialismo storico e socialismo, analisi critica dell’economia politica è progetto di azione rivoluzionaria, tanto strettamente connessi, come anche Labriola non si era mai stancato di ribadire, che ogni tentativo di sconnetterli si traduce inevitabilmente in un travisamento dell’una e dell’altra «parte»? Non rappresenta la teoria marxiana la «coscienza teorica» del «socialismo scientifico»64? Certo, il presupposto, preesistente e sempre permanente nel Croce, della rigida distinzione fra teoria e pratica gli consente di operare questa scissione: di ridurre il materialismo storico a semplice canone e di accettare il «socialismo» come orientamento pratico; ma che cosa rimane del socialismo una volta rescisso dalla sua fondazione teorica? E non è proprio questo presupposto della «distinzione» rigida fra teoria e prassi l’impedimento principale a una retta comprensione della concezione materialistica della storia, della sua intrinseca connessione con la prassi socialista, è quindi anche delle stesse prospettive pratiche del socialismo65?

63. Ivi, pp. 19 e 23. 64. V.: M. Tronti, Tra materialismo storico e filosofia della prassi, in AA.VV., La città futura. Studi sulla figura e sull’opera di Antonio Gramsci, Milano 1959, pp. 156-157. 65. V.: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 284 ss., 481 ss., 568 ss. Sulle conseguenze, intenzionali o meno, derivanti dalla «sconnessione» fra teoria e prassi, conoscenza e realtà, «forme» e «movimento» v.: R. Racinaro, op. cit., pp. 34, 65-70, 135-141.

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Questi sospetti vengono confermati, se si esaminano le dichiarazioni rese dal Croce in merito al socialismo anche nel periodo 1896-1900. La più importante è contenuta in un passo della prima «memoria» Crociana sul marxismo (che stranamente lo Zeppi non adduce, mentre potrebbe costituire un punto d’appoggio almeno apparentemente il più solido in favore della sua tesi). In essa il Croce, pur dopo aver negato ogni rapporto diretto fra materialismo storico e socialismo in polemica larvata con Labriola, e dopo aver asserito che, pertanto, «spogliato il materialismo storico da ogni sopravvivenza di finalità e di piani provvidenziali, esso non può dare nessun appoggio né al socialismo, né a nessun altro indirizzo pratico della vita», indicava tuttavia «la vera ed intima connessione» fra socialismo e materialismo storico nella «constatazione che per mezzo di esso è possibile di fare», ossia nella constatazione del fatto che «la società è cosi conformata, che la sola soluzione possibile che contenga in sé, è il socialismo». Aggiungeva subito però che tale constatazione «per se stessa, è fredda e impotente», occorrendo, per «trasformarla in un imperativo ideale» anche per chi «non senta la spinta cieca dell’interesse di classe», «che vi si aggiungano la convinzione morale e la forza del sentimento». Croce dunque nemmeno in questo punto, pur sfiorando un’impostazione corretta della questione, riusciva a intendere che proprio quella sua «constatazione (che è in realtà una conclusione), secondo cui l’attuale conformazione della società contiene in sé problemi che possono trovar soluzione soltanto nel socialismo, era possibile per il marxismo proprio perché esso intendeva il nesso fra teoria e pratica in modo più stretto e preciso di quanto il Croce non abbia mai voluto concedere66.

66. V.: B. Croce, Materialismo, cit., p. 17. Al riguardo v. anche: G. Fanti, Appunti per una critica alla critica crociana del materialismo storico, in «Tempi Nuovi», 5, 1946, p. 33.

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Nella stessa «memoria» sul marxismo, il Croce aveva inoltre dichiarato «vere e fecondissime scoverte», sia pur da prendere con le dovute cautele e limitazioni imposte dallo statuto non rigorosamente teoretico che egli attribuiva al materialismo storico, talune delle principali tesi marx-engelsiane: tra l’altro, «l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico», «il ritrovamento dell’indole reale dello Stato, considerato Istituto di difesa della classe dominante», «la constatata dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe». Ora, nella seconda «memoria», dopo aver discusso i problemi dell’economia marxista e la «circoscrizione della dottrina del materialismo storico», riprendendo e generalizzando la questione del rapporto fra materialismo storico e socialismo a questione del rapporto fra conoscenza scientifica e programmi sociali, ribadiva bensì che il dibattito intorno a programmi del genere non andava posto sul terreno della «pura scienza», ma su quello praticopolitico, «ch’è […] il solo ad essi conveniente». Tuttavia, venendo a discorrere della controversia fra liberismo e socialismo, concludeva con una sia pur cauta manifestazione di preferenza per quest’ultimo. Se si prende in considerazione «ciò che, nella condizione presente, la storia promette, ossia delle tendenze obbiettive della società moderna», diceva il Croce: Non so davvero con qual animo molti liberisti gratifichino il socialismo della taccia di utopia. Con ben altra ragione i socialisti potrebbero ricambiare con la stessa taccia il liberismo, se lo studiassero qual è presentemente e non già qual era cinquantanni fa, quando il Marx pensava la sua critica. Il liberismo si rivolge con le sue esortazioni a un ente che, ora almeno, non esiste, all’interesse nazionale o generale della società; perché la società è divisa in gruppi antagonistici e conosce l’interesse di ciascuno di questi gruppi, ma non già, o solo assai debolmente, un interesse generale.

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E a conclusione di queste considerazioni, dopo aver osservato che, al contrario dei liberisti, «il socialismo […] dal Marx in poi, ha fatto ben piccolo assegnamento sulle buone intenzioni e sul buon senso degli uomini, e ha affermato che la rivoluzione sociale deve compiersi principalmente per forza di una classe direttamente interessata, che è il proletariato», giungeva ad affermare: I progressi del socialismo sono tali, che il pensatore si deve domandare: se l’esperienza che abbiamo del passato giustifichi il supporre, che un movimento sociale, di tanta estensione ed intensità, possa riassorbirsi o disperdersi, senza fare la prova di sé nel campo dei fatti67.

Per di più il Croce, che già nella prima «memoria» si era preoccupato di difendere il socialismo contro l’accusa di immoralità che si soleva allora levare contro di esso da parte borghese, non solo ribadiva tale convinzione anche nella seconda «memoria» ma non esitava a indicare, come dice giustamente lo Zeppi, «l’intrinseca positività morale del socialismo in quanto operante organizzazione politica»68: Il Labriola ha ben ragione di ammirare, nel progresso del socialismo tedesco, «questo caso veramente nuovo ed imponente di pedagogia sociale; e cioè che, in così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale concorrono in egual misura il sentimento diretto della situazione che induce alla lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come meta e punto di approdo». Quali mezzi hanno a disposizione i predicatori di massime morali per ottenere un effetto pari? che cosa sono quegli operai, che si uniscono in associazioni, che leggono i loro giornali, discutono gli atti dei loro delegati, ac-

67. V.: B. Croce, Materialismo cit., pp. 13-14, 18-19, 93, 97, 103-106. 68. S. Zeppi, op. cit., p. 21.

479 cettano le decisioni dei loro congressi, se non uomini che si educano moralmente?69

Con tutto ciò, e pur tenendo conto di alcune altre attestazioni di simpatia per il socialismo da parte del Croce, anche lo Zeppi riconosce che egli non solo rifiutò sempre di impegnarsi praticamente nella politica socialista, ma anche di pronunciarsi pubblicamente con decisione in favore dei programmi politici socialisti, giungendo anzi a motivare tale rifiuto mediante il ricorso alla specificità – soltanto teorica, e non pratico-politica – del suo operato. Cosicché alla fine conclude, anche per quanto riguarda il periodo 1896-1900, che «il filosocialismo del Croce […] rappresenta, formulato in termini estremamente avanzati, l’atteggiamento politico di quelle, ampie zone di borghesia progressista – repubblicani, radicali, democratici – che, di fronte al reazionarismo umbertino, si schierano a fianco dei socialisti, pur senza propriamente fondersi con essi»70. Sulla natura e i limiti di tale atteggiamento, occorre intendersi esattamente: anche un pensatore che in seguito manifesterà tendenze sempre più conservatrici, quale Vilfredo Pareto, aveva in questi anni assunto atteggiamenti non troppo dissimili da quelli del Croce71. Sarà forse più vicino al vero ritenere che negli anni della persecuzione dei socialisti e dei tentativi di colpo di stato reazionari, il Croce, come molti altri intellettuali borghesi dell’epoca, si schierò contro i reazionari e persecutori e in favore dei progressisti e perseguitati, difendendoli anche dalle accuse che, oltre a parergli false e infondate, gli sembravano offrire pretesti a una repressione politica che giudi-

69. B. Croce, Materialismo cit., p. 107. 70. S. Zeppi, op. cit., p. 23. 71. V.: V. Pareto, La liberté économique et les événements d’Italie, Lausanne 1898, specialmente alla prefazione (pp. 1-19) e nelle conclusioni (pp. 110124).

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cava nefasta. Ma ciò non significa ancora che egli si ritenesse allora socialista: la collaborazione all’«Avanti!» (peraltro assai limitata), il considerevolissimo contributo finanziario versato una volta a questo giornale, la protesta contro il mancato inoltro di un suo biglietto di auguri al Turati in carcere, non sono elementi tali da poter suffragare l’ipotesi di una sua ragionata adesione, anche soltanto di cittadino, al programma socialista nella sua interezza72. Piuttosto, considerando l’impronta chiaramente moralistica delle valutazioni espresse dal Croce sul socialismo come movimento politico, si potrà concludere che la (limitata e circoscritta) approvazione di programmi pratici, come pure delle concezioni marxiste circa lo stato, le ideologie ecc., si inquadra perfettamente in una prospettiva «revisionistica» e si profila tutt’al più come un progetto di riforme graduali e parziali, inserite in un quadro che, se da un lato deve garantire a un numero sempre più grande di cittadini, e specialmente di proletari, un decoroso tenore di vita, la difesa dei propri diritti civili e soprattutto le basi materiali della stessa possibilità di una vita morale, dall’altro lato non deve esser tale da minacciare l’assolutezza degli stessi valori morali. Restano le esplicite notazioni autobiografiche del Croce sulla propria «fede socialista» di quegli anni. Ma anch’esse, esaminate spassionatamente e nel contesto della produzione complessiva, non sembrano consentire conclusioni diverse. Nell’intervista su La morte del socialismo, egli ricordava:

72. In una lettera al direttore della «Rivista di Roma», pubblicata l’11 giugno 1899, Croce parlava della sua «viva simpatia per il movimento socialistico, che, specie in Italia e nel periodo corrente, mi sembra un movimento benefico di civiltà e di progresso». Dal 1899 al 1903 collaborava saltuariamente all’«Avanti!», con lettere sulle questioni universitarie, sottoscriveva mille lire per il giornale e nel 1897 scriveva brevemente su «Critica Sociale».

481 Ne fui preso anch’io. Per alcuni mesi, se non proprio per un anno intero, io ho avuto il sentimento di aver messo il piede sopra una via, che era la via regia della umanità; ho avuto la visione della palingenesi che si sarebbe dovuta compiere al principio o nel corso del secolo ventesimo; ho provato la dolcezza di chi viene iniziato ai misteri di una religione. [Ma in seguito] accadde che a poco a poco io ebbi come un senso di muovermi nel vuoto; e giacché non potevo credere che quella classe operaia, giovanile, pura, eroica, portatrice di nuovi valori, non esistesse, mi persuasi che la colpa spettava tutta a me che, borghese di nascita, di convivenza, di abitudini, non riuscivo a entrare in contatto con quel nuovo elemento sociale e a risentirne il calore vivificante. E tornai ai miei studi […] Il credo socialistico forse era vero, era vero senza forse, ma a me, evidentemente, mancava la fede73.

Nel Contributo alla critica di me stesso, la versione che il Croce forniva di queste vicende era alquanto diversa, ma non alterava la sostanza della sua posizione verso il socialismo. Riferendosi agli studi intrapresi in seguito alla «scoperta» del marxismo mediata da Antonio Labriola, egli scriveva: Quella pratica con la letteratura marxistica, e il seguire che feci per qualche tempo, con teso animo, le riviste e i giornali socialistici tedeschi e italiani, mi scossero tutto e suscitarono in me per la prima volta un sembiante di appassionamento politico, dandomi uno strano sapore di nuovo, come a chi per la prima volta, e non più giovane, s’innamori e osservi in sé medesimo il misterioso processo della nuova passione. A quel fuoco bruciai altresì il mio astratto moralismo, e appresi che il corso della storia ha diritto di trascinare e schiacciare gli individui. Non preparato nell’ambiente familiare a fanatismo, e nemmeno a simpatie, pel liberalismo corrente e convenzionale della politica italiana; non edificato, sul conto di essa per quel che ne avevo udito giudicare e satireggiare e vituperare

73. B. Croce, La morte del socialismo cit. (mio il primo corsivo).

482 in casa dello Spaventa; mi parve di respirare fede e speranza nella visione della palingenesi del genere umano, redento dal lavoro e nel lavoro. Ma quell’appassionamento politico e quella fede non durarono; corrosa la fede dalla critica che venni facendo dei concetti del marxismo, critica tanto più grave in quanto voleva essere una difesa e una rettificazione […]; scemato l’appassionamento, perché natura tamen usque recurrit, e la mia vera natura era quella dell’uomo di studio e di pensiero74.

Queste testimonianze relativamente tardive non sembrano concedere che il periodo di vero e proprio «appassionamento politico» del Croce per il socialismo sia durato più di «pochi mesi»; ma ricevono una chiarificante conferma se raffrontate a uno scritto assai più vicino nel tempo al periodo di cui qui si tratta. Nel 1899, quando ormai stava per «chiudere la parentesi marxistica», a un anonimo che lo rimproverava di aver lasciato credere di essere marxista o socialista, cosicché aveva finito per passare fra i promotori della «crisi del marxismo» o almeno di avallarne col suo nome la legittimità agli occhi del pubblico75, il Croce ritenne opportuno precisare: Io non riesco a combinare e conciliare gli studi e la politica, e per non fare male tutte e due le cose, mi sono ristretto a farne una sola. Dunque, di politica non mi sono occupato, non me ne occupo, e (almeno per un prossimo avvenire) non me ne occuperò. Non perché me ne infischi da superuomo […] ma per prosaica mancanza di versatilità e di tempo. Questo, per altro, non impedisce che io senta una viva simpatia per il movimento socialistico, che, specie in Italia e nel periodo corrente, mi sembra un movimento benefico di civiltà e di progresso. So bene che da ciò ad essere un socialista e un marxista ci corre; ma io non ho mai fatto nulla per attirarmi

74. B. Croce, Contributo cit., pp. 382-383. 75. Spectator, Uno scisma socialista?, in «Rivista di Roma», 4 giugno 1899.

483 un onore e un onere che non mi spetta, se non forse l’aver pubblicato alcune memorie sul Marx, d’indole critica76.

Tale testimonianza costituisce la migliore prova circa la natura e i limiti dell’interessamento del Croce per il socialismo anche nel periodo (1896-1900) in cui egli si trovò a esso più vicino; e conferma le valutazioni che qui sopra si è ritenuto di poterne formulare. È vero tuttavia che il «filosocialismo» di Croce conobbe anche un’altra stagione: nel primo decennio del Novecento egli espresse più volte le sue simpatie per la nuova forma sotto la quale il socialismo gli si andava allora presentando, cioè per il sindacalismo rivoluzionario teorizzato da Sorel77; e anche in seguito ricordò più volte questo suo nuovo, anche se più tiepido, «appassionamento politico». Ma ancora una volta l’esame preciso delle espressioni, contestualmente allo sviluppo del suo pensiero e ad altre manifestazioni pubbliche dei suoi orientamenti politici, costringe a ridimensionare notevolmente la portata di queste «simpatie», forse ancor più che quelle espresse nel periodo precedente. Occorre tener anzitutto presente che il passaggio dall’attenzione per il socialismo marxista a quella per il sindacalismo rivoluzionario non avvenne senza soluzioni di continuità. Fra il 1902 e il 1904, il Croce accentuò il suo atteggiamento di distacco da ogni programma politico pratico, in termini che sembravano coinvolgere anche lo stesso socialismo; ma il fatto 76. V.: la lettera al direttore della «Rivista di Roma», cit. alla n. 72. 77. V.: S. Zeppi, op. cit., p. 31. «Vi sono dunque, nel filosocialismo crociano due stagioni: la prima, che occupa l’ultimo quadriennio dell’800, è tout court marxista, la seconda, che si estende lungo il primo decennio del ’900, è soreliana» (ivi). Tuttavia, già in precedenza Croce aveva espresso simpatie per le posizioni del Sorel nel contesto della «crisi del marxismo». V., per esempio: B. Croce, Materialismo cit., p. 113, dove il pensatore francese è annoverato fra i più avveduti marxisti, insieme a Kautsky e Bernstein.

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di maggior rilievo è costituito dalla sostituzione del giornale al quale si rivolgeva, occasionalmente, per esprimere suoi giudizi su eventi di natura in senso lato politica: dall’«Avanti!» all’ultraconservatore e salandriano «Giornale d’Italia»78. Le ragioni di questo mutamento risiedono principalmente nella contaminazione democratica cui, a suo parere, il socialismo «ufficiale» andava avviandosi in quegli anni; ma non bisogna ignorare le risonanze che anche nelle sue vedute, come negli orientamenti di gran parte della borghesia possidente, e perfino di molti «filosocialisti» degli anni precedenti, avevano avuto le vicende politiche del tempo, soprattutto lo sciopero generale del 1904. L’avvicinamento al sindacalismo soreliano, se pare implicare che da tali negative risonanze il Croce fosse rimasto esente, non solo non basta a smentire altre e più esplicite dichiarazioni, ma anche si inquadra nel riflusso antidemocratico delle prospettive politiche crociane (destinato a durate assai a lungo): ciò che soprattutto lo attirava nel sorelismo era appunto la sua decisa polemica antidemocratica e antimoralistica79. Il che si rendeva evidente in alcuni scritti crociani di quegli anni. Già nel 1903 il Croce aveva recensito del Sorel i Saggi di critica del marxismo, approvandone l’orientamento generale, che riteneva affine al proprio, ma sfiorando soltanto la questione del sindacalismo. Nel 1907 pubblicava poi il saggio Cristianesimo, socialismo e metodo storico, dedicato all’esame di diversi scritti soreliani – premesso due anni dopo alla 78. Sul significato di questa scelta giornalistica v.: G. Salvemini, La politica di Benedetto Croce, in «Il Ponte», 11, 1954. 79. Sul riflusso antidemocratico delle prospettive politiche crociane v.: R. Colaprietra, Benedetto Croce e la politica italiana, I, Bari 1969, p. 111 ss., e 119-121; e E. Agazzi, Benedetto Croce e l’avvento del fascismo, in «Rivista Storica del Socialismo», n. 27, gennaio-aprile 1966, in particolare alle pp. 79-92. Sulla valutazione crociana dello sciopero generale del 1904 v.: B. Croce, Storia d’Italia, cit., pp. 231-232.

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traduzione italiana della Réflexion sur la violence –, nel quale invece la problematica del sindacalismo rivoluzionario viene esaminata alquanto più a fondo, ma, come si vedrà, in termini discutibilmente unilaterali80. Già nell’esposizione delle idee di Sorel, Croce lasciava bensì trasparire tutto il suo sostanziale accordo con lui, soprattutto per la sua «fortissima coscienza […] dei problemi morali», che si affermerebbe pur nel suo rifuggire dalle «ostentazioni di moralità» e nella «antitesi verso i moralisti di ogni sorta e qualità», quali sono per esempio «i politicanti che hanno sempre in bocca le grandi e nobili parole e la sublime indignazione», «i giacobini e altri siffatti rigidi propugnatori di provvedimenti radicali, diretti a estirpare il male dal mondo», «gli intellettuali, che si deliziano nel vagheggiare tipi della più squisita virtù». Sotto queste negazioni, si celava però, a suo giudizio, «l’affermazione di una moralità austera, seria e senza frasi, di una moralità di combattimento, per cui virtù si serbino vive le forze che muovono la storia e le impediscono di stagnare e impaludare». Ciò che Croce apprezzava in Sorel, era la sua avversione «all’abbracciamento universale, agli accomodamenti e transazioni che, soddisfacendo interessi materiali e transitori, compromettono quelli profondi e duraturi». In questa prospettiva, riesce facile intendere il reale significato delle simpatie per lo stesso sindacalismo rivoluzionario soreliano, che «mette le radici» proprio in questo austero senso morale. Affrontando su tali basi il «problema, non studiato da Marx, concernente l’“organizzazione” del proletariato», il Sorel mostrava come «negli ultimi tempi, si è compiuto un vero tradimento allo spirito del marxismo», sostituendone i principi «con un miscuglio 80. V.: B. Croce, Recensione di G. Sorel, Saggi di critica del marxismo, in «La Critica», 1903; e Cristianesimo, socialismo e metodo storico, ivi, 5, 1907 (ambedue riprodotti, il secondo con molte modificazioni, in B. Croce, Conversazioni, cit., s. I).

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di idee del Lassalle e di appetiti democratici»: il «fantasma moralistico del “dovere sociale” è diventato il maggior ostacolo alla vita genuina del socialismo»; la borghesia, invece di attendere alla «sua unica e grande missione storica», cioè «l’accrescimento della ricchezza», «si è messa […] a esercitare la filantropia e a proteggere coloro che, un tempo, le incutevano timore»; i lavoratori a loro volta, appellandosi ai buoni sentimenti dei padroni, chiedevano salari migliori e accettavano di farsi rappresentare, come minorenni bisognosi di tutela, dai loro capi. Quanto alle condizioni che Sorel indicava per l’organizzazione del proletariato (creazione di istituzioni proprie, con esclusione dei non proletari; assunzione consapevole di responsabilità morali personali; orientamento di tutta la propria attività verso la lotta di classe), il Croce giudicava che erano «condizioni non facili a ottenere […] ma […] necessarie»; donde anche la sua approvazione ai consigli pratici che Sorel rivolgeva agli operai (non partecipare alla democrazia rappresentativa, non indebolire l’attività industriale capitalistica, rifiutare di entrare nelle istituzioni tendenti a ridurre la lotta di classe a rivalità di interessi materiali, non inviare propri delegati alle istituzioni dello stato borghese, raccogliere nelle camere del lavoro tutta la vita operaia). Se ciò potrebbe farci apparire un Croce convinto fautore di quelle forme radicali di lotta proletaria che il sindacalismo rivoluzionario andava assumendo in quegli anni, occorre però dare il giusto rilievo alle considerazioni personali apposte da lui a conclusione di questa esposizione del pensiero di Sorel, per intendere meglio quali fossero le sue reali convinzioni politiche in quel momento: Qui […] non posso entrare in dibattiti di politica contemporanea, né intendo giudicare i vari indirizzi del riformismo, del sindacalismo e dell’integralismo. Ma ciò che posso dire, considerando dal solo punto di vista scientifico, è che il Sorel coglie l’essenza del problema. Se il movimento proletario interessa così fortemente ogni spirito non superficiale, gli è per-

487 ché in esso si scorge il disegnarsi di un momento progressivo delle società umane: un’infusione di nuova energia spirituale, per opera di una classe sociale che s’inoltra nel campo della storia. Ridotto a questione di agevolazioni materiali, di vita più comoda, di cure e previdenze, esso non oltrepasserebbe l’interesse dei problemi di cui si è occupata la beneficienza di tutti i tempi […] Il socialismo, affinché riesca moralmente benefico al proletariato e all’intera società umana, dev’essere conquista e non concessione.

È in questo contesto che va riferita e intesa una delle proposizioni più di frequente citate a comprova della natura e saldezza delle simpatie crociane per il socialismo in quel periodo: I teorici del socialismo hanno sempre sostenuto che i proletari non vogliono se non imitare la borghesia; e che, se questa liquidò il regime feudale, giovando alla causa dell’intera società, il proletariato, alla sua volta e allo stesso fine, mira a liquidare la borghesia. E sta bene. Ma la borghesia ha una storia eroica; ha saputo organizzarsi, lottare e aspettare; ha saputo sacrificare intere generazioni per assicurare la vittoria dei figli e dei nipoti; ha mostrato di saper essere, nel miglior senso, idealista […] Il proletariato, che vuole imitare la borghesia nella distruzione di una vecchia società deve, dunque, avere la forza e la capacità d’imitarla anche nei metodi severi della distruzione e della riedificazione. – Tali condizioni pone la Storia; e, con l’osservanza di esse, il socialismo è tanto poco pauroso all’occhio del pensatore, quanto poco è pauroso ciò che è necessario. Ma diventa pauroso […] quando sia socialismo di lega impura, di sorpresa, di maschera o di transazione; pauroso, come tutto ciò che è superficiale, incoerente e arbitrario81.

Da tutto ciò, e da altre prese di posizione, non infrequenti in quegli anni, nei riguardi del socialismo e del sindacalismo so81. Cristianesimo… cit., pp. 38-42 (molto modificato nella ristampa in Conversazioni, cit., pp. 308-313).

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reliano, sembra lecito evincere che, da una parte, questo rinnovato, è sia pure più tiepido, «appassionamento politico» è conseguenza della delusione provata nei riguardi del socialismo ufficiale, che giudicava imborghesito e democratizzato; dall’altra, che il motivo ispiratore più profondo non era affatto politico, bensì eminentemente morale, se non proprio moralistico. In realtà, al Croce, accomunato al Sorel soprattutto dal moralismo e dall’antidemocrazia, non importavano tanto, del sindacalismo rivoluzionario, elementi fondamentali quali l’esaltazione della violenza (che anzi disapprovava), la concezione del «mito», lo sciopero generale; bensì lo «spirito etico e religioso». Anzi egli sembrava attento soltanto all’aspetto etico dello stesso sorelismo, poco curandosi invece delle analisi e indicazioni economiche e sociali82. È davvero singolare che, pur insistendo sulla necessità che il socialismo sia «una conquista e non una concessione», il Croce non accennasse neppure ai programmi pratico-organizzativi del sindacalismo, come del resto non si preoccupasse mai di discutere le prospettive indicate da altri teorici dello stesso movimento, al di fuori di Sorel. Il socialismo che gli appariva «tanto poco pauroso, quanto poco è pauroso ciò che è necessario», non era soltanto il socialismo non di lega impura, non di transazione, non superficiale (che sono tutte connotazioni genericamente negative per rifiutare senza precise analisi il socialismo «ufficiale» a suo parere

82. «Il sindacalismo fu la nuova forma del gran sogno di Marx, e fu risognato da un osservatore acuto quanto lui dei fatti sociali, e forse più di lui animato da spirito etico e religioso: da Giorgio Sorel; il quale assimilò il movimento operaio a quello cristiano, volle disciplinarlo su quel modello, gli concedette, con l’idea dello sciopero generale, il conforto del mito e lo armò del sentimento di scissione. Questa volta io fui più prudente: ammirai il Sorel; riconobbi che il socialismo, se doveva essere, doveva essere a quel modo e non altrimenti; ma mi tenni in guardia a non credere facilmente all’esistenza della nuova ecclesia dei sindacati, e agli operai, apostoli e martiri della nuova fede» (B. Croce, La morte del socialismo, cit.).

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sciaguratamente corrottosi e democratizzatosi dopo la svolta del secolo, e, in sostanza, proprio quel «socialismo revisionista» cui egli già allora riteneva, e sempre in seguito si vanterà, di aver contribuito decisamente con i suoi saggi su Marx); era invece, e soprattutto, il socialismo che sapesse imitare, «anche nei metodi severi della distruzione e della ricostruzione», l’opera storica della borghesia, e il cui fine sembrava per lui consistere principalmente nel potenziamento della tensione morale del proletariato, o meglio dei singoli proletari, sia pure uniti nelle loro esclusive organizzazioni. Ancora una volta, ciò che emerge è l’ispirazione astrattamente moralistica e pedagogica delle valutazioni; presente certo anche in Sorel, ma in Croce divenuta dominante ed esclusiva. Occorre inoltre mettere nel massimo rilievo il fatto che la posizione del Croce e le sue stesse simpatie politiche in questo periodo non possono venir giudicate unicamente in base alle sue dichiarazioni concernenti il socialismo e il sindacalismo rivoluzionario. È merito soprattutto di Raffaele Colapietra l’avere, tra l’altro, indagato minuziosamente l’intreccio complesso tra vicende storico-politiche, dibattiti e polemiche politiche e culturali, elaborazioni o tentativi di elaborazione teorica, che si andò svolgendo serratamente durante quel primo decennio del secolo in Italia, mostrandoci un Croce attentissimo non soltanto alle questioni politiche dell’epoca, ma anche alle implicazioni «politiche» delle discussioni culturali83. In tale contesto emerge però nettamente una direttiva, che andrà prendendo sempre più consistenza e importanza nel decennio seguente: la riscoperta, per così dire, del patriottismo, attraverso una riassunzione di taluni aspetti dell’eredità risorgimentale. E si deve anche dire che tra gli aspetti privilegiati dal Croce non si trovano certamente quelli che ne rappresentavano il momento

83. V.: R. Colapietra, Benedetto Croce, cit., I, pp. 120-121, 143-146 e passim.

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democratico e popolare. Ciò che anche nonostante e attraverso le sue simpatie per il sindacalismo soreliano si andava sempre più decisamente affermando nell’atteggiamento da lui assunto nelle questioni della politica pratica, era l’esigenza, in sostanza conservatrice, del progresso ordinato e guidato da salde istituzioni politico-sociali e da illuminate dirigenze politiche; entro tale quadro anche il movimento socialista poteva portare il suo indispensabile contributo. Particolare importanza assume in questo contesto il ravvivarsi, nel Croce di quegli anni, dell’ispirazione «risorgimentale», e in essa, emblematicamente, l’esaltazione dell’opera non solo poetica, ma anche civile e patriottica, di Giosuè Carducci, «vate del Risorgimento»84. Il passaggio, che altrimenti potrebbe apparire repentino e imprevedibile, dalle «simpatie» per il socialismo alla sua dichiarazione di morte, incomincia ora a risultare meno brusco di quanto si potrebbe ritenere fermandosi solo su talune espressioni più clamorose. Ma per meglio intenderlo, e per scorgerne la continuità con le precedenti posizioni, occorre volgersi ora brevemente a esaminare taluni sviluppi del pensiero crociano nel primo decennio del Novecento; non sembra del resto possibile giudicare gli orientamenti pratico-politici di un pensatore della sua levatura, senza connetterli alla forma filosofica generale entro cui egli andava pensando in quegli anni la propria concezione del mondo e la propria funzione culturale e civile. Senza potere in questa sede analizzare neppure per sommi capi i complessi svolgimenti teoretici della filosofia del Croce, sarà tuttavia sufficiente illustrare il significato della svolta verso l’idealismo e, in essa, il significato che si deve attribuire

84. V.: B. Croce, Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo decimonono, I, Giosuè Carducci, in «La Critica», 1, 1903; Studi sul Carducci, ivi, 1, 1910 ecc. Per contro, è illuminante anche la scarsa estimazione del Croce per la figura e il pensiero del «democratico» Mazzini.

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all’assunzione del momento dell’utile o economico come una delle quattro categorie fondamentali dello spirito umano.

L’orientamento idealistico e la sistemazione dell’«economico» Nel momento in cui chiudeva la «parentesi marxistica» della sua vita, il Croce non era ancora approdato a una prospettiva filosofica rigorosamente «idealistica», benché molte delle sue dottrine già lo predisponessero in questo senso: le stesse Tesi di estetica, una prima sistematizzazione della sua concezione della realtà, coeve alla raccolta in volume dei suoi saggi sul marxismo85, risultano espressione piuttosto di «una specie di spiritualismo realistico (e dualistico) di ispirazione herbartiana»86. La «svolta» verso l’idealismo si verificava negli anni successivi, certo anche per influsso diretto di Giovanni Gentile, ma sostanzialmente in base a orientamenti culturali e filosofici e a condizionamenti già presenti nel Croce. Si trattava del resto di un orientamento che proprio in quegli anni si andava diffondendo largamente, sotto varie forme, in tutta la cultura borghese europea, per ragioni assai complesse e disparate, e certo non esclusivamente «culturali»87. 85. V.: B. Croce, Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in AAPO, 1900. La data della Prefazione alla prima edizione di Materialismo cit. era luglio 1899. 86. V.: M. Pirrone, Immanenza e trascendenza nella filosofia di B. Croce, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 2, 1956, p. 228. 87. V.: G. Semerari, op. cit., pp. 472-474; e H. S. Hughues, Consciousness and Society. The reorientation of European Thought 1890-1930, New York 1958. Molti interpreti del pensiero crociano insistono sull’importanza decisiva dell’influenza gentiliana sullo sviluppo in senso idealistico. V. per tutti: E. Garin, Cronache cit., pp. 230-231, 235-236, 259 e passim.

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Nel Croce questa opzione idealistica si precisava già nel 1902, nel momento cioè in cui, dopo aver pubblicato la prima edizione dell’Estetica, stendeva il programma della rivista che stava per lanciare, col preciso intento di contribuire non solo al rinnovamento della cultura, ma anche del costume e della vita civile italiana: «La Critica». «Nell’imprendere questa pubblicazione,» scriveva, «ci proponiamo di propugnare un determinato ordine di idee», e nel precisarlo, dopo aver indicato nel disciplinamento del «metodo della ricerca e della documentazione», attraverso l’opera delle università e delle altre istituzioni educative, «uno dei maggiori progressi compiuti in Italia negli ultimi decenni», e dopo essersi dichiarato «un leale fautore di quello che si chiama metodo storico o metodo filologico», dichiarava però che «tale metodo non basta a tutte le esigenze: del pensiero» e che pertanto occorreva «promuovere un generale risveglio dello spirito filosofico». E concludeva Sotto questo rispetto, la critica, la storiografia, e la stessa filosofia potranno trarre profitto da un ponderato ritorno a tradizioni di pensiero che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento della rivoluzione italiana, e nelle quali rifulgeva l’idea della sintesi spirituale, l’idea della humanitas. E, poiché filosofia non può essere se non idealismo, egli [sc. Croce] è seguace dell’idealismo: dispostissimo a riconoscere che l’idealismo nuovo, in quanto procede più cauto di una volta e vuol dare conto d’ogni passo che muove, può ben designarsi come idealismo critico, o come realismo idealistico, e perfino (ove per metafisica s’intendano le forme arbitrarie del pensiero), come idealismo antimetafisico88.

Qualche mese dopo Antonio Labriola che, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a studiare, seguiva tuttavia per quel che accora poteva gli sviluppi più recenti della cultura italiana

88. B. Croce, Il programma della «Critica», riprodotto in B. Croce, Conversazioni, cit., s. II; citazioni a pp. 354-355 (corsivi nel testo).

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ed europea, e leggeva i fascicoli della «Critica», che il Croce regolarmente gli faceva pervenire, gli scriveva: Quanto all’idealismo, e la sua cosiddetta rinascita etc. […], non mi riscaldo, né pro, né contra (dovrei veramente contra). Vedo pero, che in tutta Europa corre una reazione contro lo storicismo, il positivismo, il darwinismo, l’evoluzionismo etc. etc., e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo rinato, e una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto idealismo (la qual parola in genere è applicabile a ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un arresto dello spirito scientifico, è un regresso89.

Ma le valutazioni di Labriola dovevano certo essere state anche più precise, e orientate secondo la sua prospettiva marxista, se qualche anno dopo, in un articolo che rappresentava un primo bilancio, culturale dei successi ottenuti dall’operazione culturale promossa dalla «Critica», è un esame prospettico delle linee di politica culturale da proseguire, il Croce attestava che Antonio Labriola […] non celava negli ultimi anni di sua vita, la persuasione che il risorgere in ogni parte del mondo civile dell’idealismo filosofico fosse strettamente congiunto con la riscossa delle classi borghesi contro l’avanzarsi minaccioso del proletariato.

Nel replicare, il Croce esponeva le linee fondamentali della, sua concezione generale del mondo, in termini di assoluta pregnanza e significatività: La rinascita dell’idealismo ha carattere teoretico, e come tale dev’essere considerata e giudicata. Non si nega che abbia importanza pratica, ma appunto l’importanza pratica spettante alla verità o all‘errore. E assai meglio s’intenderebbe le ragioni che muovono, se fosse lecito, in Italia, pronunciare

89. A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, Napoli 1975, lettera del 7 settembre 1903, pp. 366-367 (corsivi nel testo).

494 la parola “religione” senz’essere sospettati “clericali” […] La religione nasce dal bisogno di orientamento circa la realtà e la vita, dal bisogno di un concetto della vita e della realtà. Senza religione, ossia senza questo orientamento, non si vive, o si vive con animo diviso e perplesso, infelicemente. Certo, meglio quella religione che coincide con la verità filosofica, che una religione mitologica; ma meglio una qualsiasi religione mitologica che nessuna religione. E poiché infelicemente nessuno vuol vivere, ciascuno a suo modo procura di foggiarsi, consapevolmente o inconsapevolmente, una religione.

Parole nelle quali si ritrovano accenti simili a quelli che verranno poi adoperati nel Contributo per descrivere la situazione di «infelicità» e disorientamento da lui vissuta nei primi anni ottanta, e l’esigenza di uscirne mediante l’acquisizione di un saldo orientamento etico-filosofico; e anche qui l’insidia da esorcizzare e il nemico da battere erano gli stessi: Il positivismo fece appunto il singolare tentativo di lasciare insoddisfatto il bisogno religioso dell’uomo […] Dopo il dominio durato alcuni decenni, e non senza grossi contrasti, del positivismo, il bisogno religioso si è risvegliato, tanto più pungente quanto più a lungo insoddisfatto. Tutto il mondo contemporaneo è di nuovo in ricerca di una religione.

Ma delle due vie che secondo Croce si aprivano a questa ricerca, una, quella che «riconduce alla vecchia fede, alla chiesa o alla sinagoga», equivaleva a un «suicidio mentale»; restava aperta soltanto l’altra, «quella che promette all’uomo la verità, la piena verità, da conquistare con la forza del pensiero, con la volontà del vero, col metodo speculativo proprio della filosofia»: era la via battuta dal Croce e in genere dall’idealismo, la cui «rinascita» veniva pertanto definita come «la negazione del positivismo, e insieme la negazione di ogni forma di trascendenza e di credenza»90. 90. B. Croce, Per la rinascita dell’idealismo, in «Cultura» (1908), riprodotto in B. Croce, Cultura e vita, cit. (citazioni a pp. 33-37, corsivi nel testo).

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Non si trattava di una posizione di equidistanza. Il miglior commento, e insieme il più autorevole perché è del Croce stesso, alle parole dianzi citate, si trova in un suo scritto di molti anni dopo, che trascegliamo proprio per la chiarezza e perentorietà con cui vi si fa il punto sulla questione: Lo storicismo assoluto non nega il divino perché non nega il pensiero filosofico, ma nega unicamente la trascendenza del divino e la metafisica che le corrisponde: diversamente dal positivismo, empirismo e prammatismo, che, per liberarsi della trascendenza e della metafisica, sopprime il filosofare stesso […] Se mai, lo storicismo si sente più affine alle religioni, e alla vecchia e da esso combattuta e sorpassata metafisica, la quale, a suo modo, accoglieva e pensava il divino, che non all’arido positivismo, empirismo e prammatismo91.

Né si trattava propriamente di una sintesi fra pensiero religioso e istanze concretamente empirico-storiche, perché nella costruzione filosofica crociana queste ultime erano sussunte entro uno schema universalistico a priori, che ne incanalava la forza dirompente e innovatrice lungo vie solo apparentemente imprevedibili, ma in realtà sapientemente e occultamente prestabilite. Il programma della «Critica» enunciato da Croce nel 1902, e da lui sempre nella sostanza fedelmente seguito per tutto il corso della sua restante attività culturale, era in realtà, come è stato giustamente sostenuto, «il chiaro disegno dell’operazione di ritorno, che Croce intendeva effettuare col suo svolgimento filosofico»92. E in tale operazione, se il nemico da battere esplicitamente indicato, attaccato e sconfitto, era il positivismo, veniva coinvolto non solo ogni tentativo di affrontare in

91. B. Croce, Conoscenza storica e conoscenza tecnica. Ancora pensiero storico e azione, in «La Critica», 1940 (riprodotto in B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari 19452. Citazione a pp. 195-196). 92. G. Semerari, op. cit., p. 475.

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termini scientifici i problemi della convivenza umana, ma anche e soprattutto ogni versione del marxismo che, rifiutando le riduzioni crociane e revisionistiche, si prospettasse appunto come teoria scientifica della società e della cultura, e come progettazione di un’azione pratica capace di trasformarla. Che il marxismo sia rimasto per tutto l’arco evolutivo del pensiero del Croce, e anche nel periodo fin verso il termine della prima guerra mondiale, il vero e principale avversario contro il quale egli pensò e costruì il suo «storicismo assoluto», risulta non soltanto dall’insistenza e ossessività crescenti con cui la polemica antimarxista andò in lui riemergendo in seguito, ma proprio dalla particolare funzione e configurazione che nel «sistema» della filosofia dello spirito andò assumendo la categoria dell’«economico». Come è noto, il Croce amò sempre vantarsi, e sotto un certo aspetto a ragione, di avere rivendicato la relativa autonomia del momento economico dell’attività umana, anzi di averlo «riscattato» dalla plurisecolare condanna teologica che lo aveva relegato nella sfera del negativo. Ma un più esatto apprezzamento di questa operazione si potrà ottenere riflettendo su talune espressioni, in cui il rapporto fra questa «riscoperta dell’utile» e la lotta teorica contro il materialismo storico veniva messo in chiara luce: Al materialismo storico, e a ogni altra concezione che gli sia affine, è stata tolta la condizione o piuttosto l’immaginazione sulla quale poggiava, e che era l’idea dell’utile economico, che stia come forza materiale contro o sopra lo spirito umano e possa perfino signoreggiarlo. Redento l’utile dall’inferiorità nella quale la diffidenza dei vecchi filosofi di solito lo teneva, rialzato e pareggiato come forma dello spirito alle altre forme, della conoscenza, dell’arte e della moralità, e posto in relazione di ricambio con le altre tutte, non ha più luogo verso di esso né il dualismo più o meno manicheo né il primato conferitogli dal materialismo storico; e non solo la filosofia

497 s’integra d’una parte di se stessa che era stata trascurata, bistrattata o malamente adoperata, ma quel ch’è più, si ristabilisce l’accordo tra la sistemazione dottrinale e il buon senso93.

L’analisi dello sviluppo del pensiero del Croce negli anni in cui il suo interesse si incentrava sul marxismo consente di provare che, se la distinzione fra attività teoretica e attività pratica e, all’interno della prima, fra conoscenza del particolare e conoscenza dell’universale (arte-storia e filosofia), era presente prima del suo incontro col materialismo storico, la distinzione, entro l’attività pratica, fra economia ed etica si andava costituendo e precisando proprio nel corso di questi studi e in dipendenza da essi, ciò che fin dalla prima «memoria» sul marxismo il Croce andava sottolineando, sebbene ne proponesse la riduzione a «somma di nuovi dati, di nuove esperienze che entrano nella coscienza dello storico», era comunque il rilievo dato ai fenomeni economici, o meglio all’attività economica svolta dagli uomini associati. L’accoglimento del materialismo storico nella forma in cui lo avevano elaborato Marx ed Engels, o anche in quella in cui lo aveva reinterpretato Labriola, avrebbe però sconvolto tutti gli schemi entro cui egli aveva fino ad allora cercato di soddisfare la sua fondamentale preoccupazione, quella cioè di garantire l’autonomia e l’assolutezza dei valori estetici, logici ed etici. Il marxismo infatti minacciava di relativizzare tali valori al farsi storico della «vita umana, individuale e sociale» e, in ultima istanza, alla produzione materiale, economica, dei mezzi stessi di questa vita. L’unico modo per accogliere le istanze fatte valere dal marxismo, senza rinunciate al principio dell’incondizionatezza e assolutezza dei valori «spirituali», consisteva nel fare anche della economia un valore, un’attività spirituale accanto alle altre, come le altre assolu93. B. Croce, Osservazioni sulla scienza economica in relazione alla filosofia e alla storia, in «Quaderni della Critica», 1946, (riprodotto in B. Croce, Filosofia e storiografia, Bari 1949, citazione a p. 225).

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ta (in quanto anch’essa aspetto fondamentale dell’esplicarsi di una permanente «natura umana», pur attraverso il vario agire concreto degli uomini nella storia). Ma se la rivendicazione dell’autonomia di un «momento economico» nel complesso delle attività spirituali dell’uomo può venire considerata come il principale debito contratto dal Croce nei riguardi del materialismo storico – e, nel contempo, come il modulo teoretico del suo assorbimento in una concezione idealistico-spiritualistica del reale e come lo strumento ideologico per la sua subordinazione politica a tendenze di tutt’altra natura e direzione – occorre peraltro riconoscere che la determinazione della precisa natura dell’attività economica da lui elaborata in quegli anni era ispirata sostanzialmente alle concezioni edonistiche o puristiche, pure in quegli anni studiate e accolte, e contrapposte come «scienza economica» all’economia marxista intesa quale «economia sociologica comparata»94. Per meglio intendere il significato di questi orientamenti del pensiero crociano, occorre soffermarsi brevemente sulle ragioni per le quali la scienza economica si è andata affermando come disciplina autonoma e distinta, rispetto alle altre più tradizionali, soltanto con i fisiocratici, che «per primi fornirono una rappresentazione sufficientemente compiuta del processo capitalistico». A tale scopo e necessario ricordare anzitutto «quella particolare differenza tra l’economia capitalistica e l’insieme delle economie precapitalistiche», che può appunto giovare a intendere le ragioni per cui «l’economia capitalistica solleciti la formazione di una scienza avente come oggetto il processo economico, mentre altrettanto non accade da parte delle economie precapitalistiche», allorché ci si limitava in sostanza a un insieme più o meno sistematizzato di riflessioni economiche «inserite in discorsi che economici non erano, come il discorso filosofico, il discorso giuridico, il discorso politico, il discorso 94. V.: E. Agazzi, Il giovane Croce, cit., pp. 71-78, 476 ss., 508 ss., 563 ss.

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morale ecc.». Nelle società a economia precapitalistica, infatti, «la destinazione prevalente del sovrappiù» (cioè di «quella parte del prodotto sociale che eccede la ricostituzione dei mezzi di produzione» inclusi i mezzi di sussistenza necessari a coloro che, con il loro lavoro, hanno portato all’esistenza il prodotto sociale stesso») «era il consumo delle classi proprietarie», per le quali «il consumo si poneva come semplice condizione materiale per l’esplicazione di attività (la “cultura”, la guerra ecc.) che, da un lato, erano ritenute le uniche veramente rispondenti alla “dignità” dell’uomo, e, dall’altro, si presentavano come completamente estranee, e successive, rispetto al processo economico». In una configurazione sociale cosiffatta, quest’ultimo era «ordinato ad altro, a qualche cosa di completamente extraeconomico»; e il surplus, proprio in quanto era un surplus (consumato, si poneva quindi «come il termine del processo economico, il quale si esauriva perciò in esso e non traeva da esso elementi per il proprio ricominciamento su scala maggiore». Il capitalismo si presenta invece come «una configurazione della società essenzialmente caratterizzata dal reimpiego del sovrappiù per l’allargamento del processo produttivo»: il surplus quindi «non è solo il termine del processo produttivo, ma è anche il suo continuo reinizio»; di modo che nell’ambito di questa struttura l’economia non ha più un fine esterno a se stessa, ma è invece fine a se medesima. […] Ora è appunto quando l’economia cessa d’essere subordinata a qualcos’altro, che essa comincia a costituire l’oggetto d’un discorso specifico e non più semplicemente l’occasione per considerazioni sistematiche incluse dentro diversi discorsi. In altri termini, il conseguimento dell’autonomia da parte del discorso economico, e quindi la sua costituzione in discorso scientifico determinato, è il riflesso della raggiunta autonomia della dimensione economica nel processo storico95. 95. V.: C. Napoleoni, Smith, Ricardo, Marx. Considerazioni sulla storia del pensiero economico, Torino 1970, pp. 9 ss. Sono debitore alle suggestioni

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Se nell’autocomprensione delle società precapitalistiche, esprimentesi soprattutto nelle loro «filosofie», i valori economici, cioè i valori propri di un processo ordinato a qualche cosa di extraeconomico, erano quindi subordinati a quegli altri valori (etico-culturali) che si realizzavano invece attraverso le attività di quella sfera «superiore», cui la sfera economica era finalizzata e subordinata, sembra però chiaro che questa gerarchia di valori poggiava sostanzialmente sulla stratificazione sociale. A un ristretto gruppo di uomini, che soli si consideravano veramente e pienamente tali, spettava l’esercizio delle attività «superiori» – proprio in quanto essi erano liberati dalla necessità di svolgere attività manuali o comunque immediatamente produttive – mentre a una gran massa di altri uomini (schiavi, servi ecc.), che solo limitatamente erano riconosciuti quali esseri umani, toccava il compito (nel quale trovavano pure la giustificazione assoluta della loro stessa esistenza) di produrre, mediante il proprio lavoro, oltre che i mezzi della loro semplice sussistenza, anche e soprattutto quel surplus che era essenzialmente destinato, in quanto forzatamente appropriato dalle classi dirigenti, a consentire a queste ultime di svolgere liberamente le attività «superiori», politiche e culturali96. In tali strutture sociali, l’economico è effettivamente subordinato, strumentale, rispetto all’attuazione di quei valori che erano considerati superiori, e che, staccati in tal modo dalla loro reale base materiale, che pure ne condizionava l’attuazione, potevano apparire – ma solo dal punto di vista della stessa classe dirigente è dei suoi «intellettuali organici» – come fini assoluti, e quindi connessi con un ordine metafisico trascendente e immutabile.

fornitemi dal suddetto libro per le considerazioni svolte nel presente paragrafo. 96. V.: V. Tranquilli, Il concetto di lavoro in Aristotele, in «Rivista Trimestrale», 1, 1962.

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Se ora poniamo di nuovo mente al fatto che fra tutti i filosofi della prima metà del Novecento fu proprio il Croce a erigere l’attività economica a momento distinto e autonomo, sia pure connesso con gli altri nel «circolo» dell’attività spirituale, sembrerebbe ovvio poter concludere non solo alla «modernità» del suo pensiero, bensì anche a riconoscere in lui uno dei più acuti interpreti delle istanze della società capitalistica, quando non anche del capitalismo giunto alla sua fase imperialistica97. In realtà, dalle considerazioni svolte, è bensì possibile trarre tutta una serie di conclusioni circa la funzione da lui svolta come ideologo della borghesia capitalistica in Italia e, per via della dipendenza di una certa parte del «marxismo» italiano dalle sue teorie, come mediatore di un consenso del movimento proletario alla direzione borghese della società. Ma occorre andare più a fondo, se si vuole cogliere lo specifico delle valenze ideologiche e politiche del pensiero crociano. Nella cultura italiana e in buona parte di quella europea dell’Ottocento e del Novecento vi è stata, e vi è tuttora, una non trascurabile presenza di pensatori propensi a deprecare, in forme più o meno larvate, il prevalere della considerazione dell’«utile» nella prospettiva valoristica del pensiero moderno, e a ripensare con nostalgia alle epoche nelle quali erano rispettati e venerati soltanto i tradizionali valori del vero, del bene e del bello. In genere però, essi, che sono disposti a vedere in Croce una sorta di Marx italiano98, trascurano che è la stessa società moderna, di cui le filosofie sono espressione riflessa, a essersi orientata verso la supremazia dell’utilità, dell’economia; oppure, sé giungono a rendersene conto, tendono a mettere sotto accusa l’intero indirizzo «utilitario» e, non sapendo scorgere le ragioni strutturali, materiali e reali del progressivo

97. Riguardo a tale tesi v.: B. De Giovanni, op. cit. 98. Fra i molti che hanno formulato tale tesi v.: S. L. de’ Paoli [ma M. F. Sciacca], Croce come Marx, in «Humanitas», 1954.

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orientamento della società europea occidentale verso la supervalorizzazione dell’economia, ne addebitano la «colpa» all’influenza di determinati pensatori o correnti ideologiche. Inconsapevoli critici «romantici» del capitalismo, non vedono che è, per l’appunto, la stessa struttura economica capitalistica che ha sollecitato non solo la formazione di una scienza economica autonoma, ma, di più, la trattazione di tutti i problemi umani in termini di «economia». Questi impenitenti encomiatori dei valori «tradizionali» (vero-bene-bello), fra i quali si potrebbe annoverare anche il giovane Croce anteriormente all’incontro con il marxismo, in genere, non riescono a cogliere il nesso sussistente fra tali pretesi valori «eterni» e una società a struttura signorile, considerandoli invece «eterni» in sé, a prescindere da qualsiasi struttura sociale, quindi anche da quella che sola consentiva di prospettarli in tal guisa. Nel mondo antico e medievale, infatti, i valori tradizionali del vero-bene-bello, per quanto in realtà destinati a giustificare ideologicamente la supremazia delle classi dirigenti, avevano una loro concretezza storica, come proiezione metafisica di attività svolte da quelle classi, con una certa indipendenza dalla sfera della produzione materiale. Ne conseguiva la visione dell’universo come cosmo ordinato e conchiuso, nel quale non era possibile introdurre innovazioni sostanziali, proprio perché immodificabile appariva, e in un certo senso ed entro certi limiti effettivamente era, la società che in esso si specchiava. Ma il mondo moderno rompe definitivamente con questo schema, travolge ogni ordinamento statico (il che si riflette anche nella concezione dell’universo infinito), e con esso ogni concezione statica, eternalistica e metafisica dei valori: non già perché lo «spirito» o la «coscienza» si desti da un lungo sonno dogmatico, bensì perché la struttura economica della società capitalisticoborghese in fase ascendente realizza di fatto un nuovo rapporto fra la produzione materiale e la «cultura».

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A differenza di tutte le precedenti forme di organizzazione economico-sociale, infatti, il capitalismo è caratterizzato, come si è visto, dal reimpiego del surplus allo scopo di allargare continuamente il processo produttivo: il surplus dunque non è più soltanto il termine di tale processo, ma anche e nel contempo il suo continuo reinizió. Pertanto l’economia non ha più un fine esterno a sé: è invece fine a se medesima, divenendo così un possibile oggetto di discorso specifico e autonomo, e cessando di essere soltanto l’occasione per considerazioni asistematiche incluse entro discorsi differenti. In apparenza, ciò comporterebbe soltanto l’autonomizzazione del discorso economico, la sua costituzione in discorso scientifico determinato, come riflesso teoretico della raggiunta autonomia della dimensione economica del processo storico; accanto al quale potrebbero continuare a sussistere (sia pure senza più potersi annettere la sfera dell’economia) altri discorsi (etico, politico, religioso, estetico, filosofico ecc.), altrettanto autonomi. È questa appunto la prospettiva alla quale sembra approdare il Croce con il suo sistema dei «distinti», includendo, accanto al discorso estetico, logico ed etico, anche quello economico: e sotto tale aspetto egli potrebbe apparire (come a molti è apparso) uno dei più grandi filosofi dell’età contemporanea, per la precisione e il rigore di questa «distinzione»99. In realtà però il capitalismo non si limita a realizzare l’autonomia della dimensione economica da ogni altra sfera della realtà storica, accanto alla quale potrebbero sussistere tali altre sfere in una loro propria autonomia. Finisce invece per rovesciare completamente il rapporto tipico delle società «signorili», asservendo ogni altro valore e ogni altra attività umana a quelli economici. Tutto in esso viene subordinato al criterio econo-

99. V.: per esempio: C. Antoni, Commento a Croce, Venezia 1955, in particolare al cap. I.

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mico, tutto viene mercificato, comprato e venduto; la logica del profitto domina l’intero sistema dei rapporti umani, e quindi ogni attività. La stessa «persona umana» perde «dignità» e acquista «prezzo», diviene «merce»; e non soltanto la persona dei proletari, mantenuti in esistenza come animali da lavoro, ma alienati, negati in tutto ciò che sarebbe specificamente «umano»; bensì anche quella dei politici, letterati, sacerdoti, filosofi, scienziati ecc., tutti asserviti più o meno direttamente alla logica dei profitto; e persino quella degli stessi «capitalisti», sempre più ridotti a «funzionari del capitale», a strumenti di una potenza economica impersonale. Ogni altra attività umana viene dunque più o meno direttamente strumentalizzata dall’attività economica; ed è pertanto ovvio che la coscienza ideologica di questo stato di cose tenda a esprimersi in un latente o esplicito paneconomicismo; che non è certo il peccato originale delle teorie di Marx – come anche il Croce incominciava a sostenere100 – bensì della moderna società capitalistica, da Marx scoperto e denunciato fin dagli scritti giovanili e studiato scientificamente in quelli della maturità. Ciò tuttavia tende a realizzarsi solo nel momento del massimo sviluppo del sistema capitalistico, quando esso sia effettivamente pervenuto a integrare in sé ogni «attività umana individuale e sociale». Le cose non si presentano invece nel modo suddetto, nemmeno a livello ideologico, nel periodo del suo primo affermarsi e là dove il suo sviluppo è stentato o ostacolato da condizioni di arretratezza economico-sociale (come era appunto il caso dell’Italia fra Ottocento e Novecento); là dove la classe dei capitalisti è lontana dal costituire l’unica classe dominante, e accanto a essa e in contrasto almeno parziale con essa sussistono altre classi di «signori» indipendenti, per i quali

100. V.: B. Croce, Marxismo e filosofia, in «Cultura», 1, 1910; e per gli anni più tardi, Il marxismo odierno, in «Il Mondo», 2 settembre 1950.

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l’economicizzazione di tutte le attività umane non corrisponde a completa verità; là dove gli stessi capitalisti, quando pure obbediscano essenzialmente, e tuttavia non esclusivamente, alla logica del profitto, non si riducono ancora totalmente a «funzionari del capitale», ma conservano una parte del proprio avere come base materiale (non reinserita nel processo produttivo) che consenta loro di condurre una vita di tipo «signorile». Che cosa rappresenta allora l’ideologia crociana, con la sua assunzione dell’utile come momento relativamente autonomo nel sistema delle «distinte» attività spirituali? In apparenza, appunto, l’acquisizione tutta moderna dell’autonomia dell’economico nell’ambito delle attività storiche dell’uomo. In realtà sembra si possa riconoscere che la teoria del Croce ripropone in forma sofisticata e ammodernata un’etica signorile compatibile con una forma ancora relativamente arretrata di società agrario-industriale. La specificazione delle attività umane che ne sta alla base può infatti apparire come il riflesso ideologico della divisione del lavoro; e, in particolare, la distinzione fra l’economico e le altre attività spirituali sembra riflettere quella fondamentale fra lavoro manuale o comunque strumentale, produttivo o servile, e lavoro intellettuale, fine a se stesso, opera per eccellenza signorile, che è la caratteristica propria delle società almeno in parte ancora precapitalistiche. È vero che nel sistema crociano dei «distinti» l’economico assume ufficialmente (ossia, nelle dichiarazioni esplicite sempre rinnovate dal Croce) una collocazione al medesimo livello di importanza e dignità che gli altri «distinti» tradizionali; tuttavia si potrebbe abbastanza agevolmente documentare e comprovare come egli, pur elevando l’economico al rango di attività autonoma, accanto alle altre, dello spirito umano, ne abbia per certi aspetti mantenuta sempre una considerazione riduttiva; se non altro, nell’assegnargli anche la funzione di «materia», sulla quale le altre attività fondamentali dello «spirito» (logica,

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etica, estetica) imprimono la loro «forma», plasmandola e utilizzandola in vista dei loro fini superiori101. La filosofia del Croce si inalvea in un movimento di rinascita idealistica, di cui egli fu certo uno dei massimi promotori, ma che si può concretamente spiegare – per chi non voglia restar prigioniero della mitologia dello «spirito» come creatore di realtà e unico protagonista della storia – cercandone le radici nelle motivazioni socioeconomiche dei gruppi sociali di cui esso fu espressione culturale e più in generale nella situazione sociopolitica del periodo in cui andò affermandosi e trionfando. Ora l’unico elemento che potrebbe opporsi al considerare Croce come il più grande ideologo della borghesia meridionale italiana, e la sua filosofia, appunto, come l’«ideologia italiana» della prima metà del XX secolo, è rappresentato precisamente, e nei limiti del periodo qui preso in esame, dalle sue «simpatie» per il movimento socialista e per il marxismo, di cui peraltro si sono qui visti i limiti. Occorre ora aggiungere qualche ulteriore, precisazione. Più volte, si è visto, il Croce ebbe a testimoniare che nel marxismo lo aveva attirato soprattutto la sua lezione di realismo politico; che per lui si traduceva, come per molti altri, in una dura critica della democrazia politica: al punto che le stesse simpatie per il socialismo entrarono in crisi, e più volte, quando lo vide «degenerare» verso orientamenti e modalità democratici. È indubbio che il marxismo ha sempre svolto la polemica contro le forme della democrazia borghese, denunciandone la funzione strumentale oltre la facciata di garanzia formale dei diritti di tutti i «cittadini», di mezzo cioè per conservare nella sua sostanza, e sia pure al prezzo di determinate concessioni, il dominio delle classi dirigenti, perpetuandone lo sfruttamento

101. Al riguardo v. le acute osservazioni di D. Faucci, Storicismo e metafisica nel pensiero crociano, Firenze 1950, cap. I.

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delle classi lavoratrici. Ma ciò non significa certo, come sembrava ritenere allora Croce, rifiuto della democrazia tout court e tanto meno dello stesso principio democratico: ché anzi il problema di una «democrazia sostanziale» o «reale», non meramente «politica» ma anche «sociale», è sempre stato alla base delle prospettive del socialismo marxista. Certo il problema del rapporto fra socialismo e democrazia non è né semplice né risolto, e le discussioni al riguardo, che costellano tutta la storia del socialismo nel nostro secolo, ne costituiscono un’ulteriore riprova. Né lo si può affrontare in questa sede neppure in termini sommari; basti per ora sottolineare come non sia possibile sbrigarsene troppo semplicisticamente, come talvolta sembra aver fatto Croce. Invero, l’antidemocraticismo del Croce aveva radici profonde, e nella cerchia familiare in cui compì la prima educazione, e negli orientamenti politici e culturali dei ceti cui apparteneva; e si rifletteva non solo nel modo di affrontare i problemi politico-sociali, bensì anche e specialmente, se pure attraverso articolate mediazioni, nella sua intera filosofia; conclusione cui del resto non si può sfuggire se la si esamina nei suoi complessi sviluppi, e, soprattutto se si accetta l’ovvia considerazione (del resto dello stesso Croce), che una filosofia è l’espressione teorica, a livello di massima generalizzazione, delle esperienze concrete e della concreta personalità del suo autore. È stato osservato che «l’antipositivismo di Croce non fu tanto l’effetto quanto la causa della sua scelta per l’idealismo, e l’antipositivismo, a sua volta, dipendeva dal fatto che la borghesia agraria del Sud, cresciuta fuori e ai margini della civiltà scientifica, tecnologica e industriale moderna, non si riconosceva nella cultura di cui il positivismo, ad onta delle sue limitatezze e ingenuità, era l’espressione, e, in certo modo, la sintesi storica». La cultura tradizionale di quei ceti agrari meridionali era per contro l’«umanesimo erudito, storico-letterario», alla cui controffensiva non seppe resistere, agli inizi del nuovo secolo,

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la fragile borghesia industriale del Nord, che pure aveva trovato la sua più congenere espressione nei modelli di pensiero illuministici, positivistici e democratici102. Le decise prese di posizione antilluministiche, antipositivistiche e antidemocratiche che caratterizzano il pensiero del Croce in quegli anni (e che in certa misura rimarranno orientamento costante di tutto il suo lungo sviluppo) non possono lasciar dubbi quanto al significato «politico» generale della sua scelta filosofica e culturale.

Continuità fra il Croce filosocialista e il Croce antisocialista Tutto ciò doveva venir messo in luce, onde meglio comprendere la natura non soltanto del suo «filosocialismo» e del suo «appassionamento» per il marxismo e il sorelismo fra il 1895 e

102. V.: G. Semerari, op. cit., p. 472. L’autore rileva che «Croce apparteneva alla grossa borghesia latifondistica del Sud, che era stata fedele ai Borboni sino al compimento dell’unità nazionale e successivamente era passata alle forme di un liberalismo moderato e antidemocratico. Il giovane croce restò diffidente verso il liberalismo democratico, subentrato alla caduta della Destra storica, e su di lui facevano presa i discorsi politici ascoltati in casa di Silvio Spaventa». Inoltre osserva che Croce, nel formulare il problema della «Critica» identificava il «risveglio della filosofia italiana con la restaurazione di posizioni il cui interrompimento a opera del positivismo veniva stimato una vera e propria disgrazia. Con ciò non si riconosceva al positivismo nessuna benemeranza, bensì, lo si voleva semplicemente cancellare, considerarlo come non mai stato nella cultura italiana, mentre il ritorno alla tradizione prendeva la coloritura dell’idealismo nel quale dogmaticamente era esaurita l’essenza stessa della filosofia. Ciò voleva dire che la nuova filosofia avrebbe dovuto assumere un atteggiamento di reazione contro il tentativo più sistematico, anche se discutibile in taluni presupposti, di legare il lavoro della filosofia alle scienze positive e di impiegare la filosofia scientifica ai fini di una riorganizzazione razionale della scienza umana» (pp. 475-476).

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il 1910, ma anche dell’apparentemente improvviso e sconvolgente capovolgersi verso orientamenti di sapore conservatore e paranazionalistico, che senza dubbio meglio si armonizzavano con il carattere «aristocratico» ed elitario del suo «idealismo» o «storicismo umanistico-letterario». Quello che, al di là di questo mutamento (che si rivela pertanto più di superficie che di sostanza), rimane costante, è, politicamente, l’orientamento antidemocratico, e, filosoficamente, il tentativo di inserire le istanze teorico-pratiche dei movimenti democratici e socialisti entro un sistema speculativo capace di soddisfare in parte le esigenze reali che essi esprimevano, togliendo però loro, in questa sussunzione, ogni carica eversiva, ogni potenzialità radicalmente trasformatrice. Che, al di là dell’«appassionamento» per il socialismo, già dal primo scritto sulla concezione materialistica della storia egli avesse posto le basi per la liquidazione del marxismo in quanto teoria fondante la prassi del movimento socialista, è già stato mostrato, ed è del resto implicito nel rifiuto medesimo di considerarlo in genere come «teoria». Le conseguenze – ossia la riduzione del materialismo storico a «canone empirico di interpretazione storiografica» e dell’economia marxista a «economia sociologica comparata», che, del resto, vanno di pari passo –, da un lato, si traducono immediatamente nella negazione della possibilità di comprendere il processo storico nelle sue linee direttive, riducendolo a un insieme di dati particolari ricomponibili soltanto, a livello storiografico, nella «coscienza dello storico»; dall’altro, proprio in quanto rompono il nesso fra teoria politica e prassi politica, sfociano nella riconferma di una sostanziale subalternità del movimento operaio rispetto all’ordine empiricamente esistente103.

103. V.: R. Racinaro, op. cit., pp. 44 ss., 50-51, 152-153; e B. De Giovanni, op. cit., pp. 140-141.

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Che altro significa infatti, al di là dell’esaltazione retorica e dell’ammirazione per l’«eroico movimento operaio», per i lavoratori che si educano nelle loro organizzazioni sindacali e politiche, nella cui realtà del resto il Croce ben presto cesserà di credere104, la stessa dichiarazione che, a certe ben precise condizioni, «il socialismo è tanto poco pauroso quanto poco pauroso è ciò che è necessario»? Questa «necessità», si è visto, non è intesa da Croce come necessità storica dell’avvento di un ordinamento socialista per risolvere le contraddizioni dell’economia e della società capitalistica; e le condizioni indicate affinché il socialismo non risulti «pauroso» sono quelle che possono caratterizzarlo come organizzazione di un movimento destinato a rimanere, pur se più saldo e compatto, sostanzialmente subalterno a una direzione globale della società che non sarebbe certo affidata alle sue capacità e responsabilità dirette. È infatti per lo meno singolare che proprio nella recensione a Sorel, nel momento stesso in cui illustrava la concezione del sindacalismo rivoluzionario, Croce non ponesse in sufficiente evidenza il fatto che per Sorel lo «spirito di scissione» che deve animare il proletariato nel suo schierarsi frontalmente contro la borghesia come classe antagonista e separata, era la precondizione necessaria per prepararsi a sostituirla nel ruolo dirigente, e accentuasse invece piuttosto la funzione, per Sorel secondaria e provvisoria, che in tal modo il proletariato avrebbe assunto come momento di una dinamica politica e storica linearmente progressiva105. Ciò che Croce non ha mai, nonché ammesso, neppure preso in seria considerazione, è la possibilità che il proletariato, pur organizzandosi separatamente e così «educandosi» e potenziando la propria forza combattiva

104. V.: B. Croce, La morte del socialismo, cit., pp. 155, 156. 105. V.: B. Croce, Il pensiero di Giorgio Sorel, prefazione a G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Bari 1909, pp. XI-XIII.

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nel contesto sociale, divenga con ciò un giorno anche la classe dirigente106. Croce in quegli anni rivendica la funzione dirigente agli «intellettuali», e per essi ai ceti sociali da cui quasi esclusivamente provengono: questo è il significato implicito della riproposizione della tematica estetica e più in generale di posizioni «neoromantiche»107 e idealistiche nel momento stesso in cui riteneva di aver concluso la «parentesi marxistica»; ed è anche la precisa consapevolezza programmatica del grande intellettuale che, nel prendere le distanze da ogni impegno pratico-politico diretto, presenta la propria opera culturale come opera civile e anche politica di più ampio respiro e di portata nazionale. Le già citate dichiarazioni in proposito contenute nel Contributo vanno lette alla luce di quanto in precedenza aveva scritto, in brevi annotazioni autobiografiche, pubblicate solo assai dopo la sua molte, circa l’intenzione con cui dava inizio alla sua rivista: «Vorrei, con essa e coi volumi filosofici che scriverò, concorrere a risvegliare la coscienza filosofica, illanguidita in Italia (e non solo in Italia), nell’ultimo mezzo secolo». E chiarendo la sua decisione di «concentrarsi quasi esclusivamente nella vita

106. «Dal punto di vista della teoria economica, la riduzione del marxismo a teoria della società economica in quanto pura società lavoratrice, è tutta volta a escludere a priori la possibilità di una sporgenza della classe operaia al di là del livello meramente economico e corporativo» (R. Racinaro, op. cit., pp. 152-153, corsivo nel testo). «Si può giungere a vedere nel carattere specifico della critica [crociana] alla teoria di Marx […] il segno profondo, che Croce mira a mettere al centro, del carattere storicamente subalterno del movimento operaio e della sua azione, della sua necessaria limitazione entro l’ottica che può fornire l’ipotetica “società economica in quanto società lavoratrice”» (B. De Giovanni, op. cit., p. 141, corsivo nel testo). 107. V.: A. Leone De Castris, op. cit., pp. 24-43; e E. Garin, Cronache, cit., p. 248. «Il passaggio delle indagini marxiste all’estetica […] ha tutto il sapore di una rivolta di tono neoromantico».

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degli studi, rinunziando ad altre forme di attività civile», aggiungeva: Ciò farò con coscienza tranquilla, perché credo di poter riuscire socialmente meno inutile, lavorando al compito cui mi sono preparato di lunga mano, anziché addossarmene un altro, pel quale dovrei fare una nuova preparazione. Del resto, la mia qualsiasi produzione letteraria non sarà mossa dalla vanità, ma dalla buona intenzione di contribuire all’elevamento delle coscienze.

Completando nel 1912, dieci anni dopo, queste note, dichiarava fra l’altro che i suoi «studi storici promossi nel campo della filosofia […] hanno per intento di proseguire l’opera dello Spaventa è formare una coscienza filosofica italiana, che sia europea e nazionale insieme», e che si proponeva di «continuare nel lavoro per la formazione di una coscienza italiana moderna non socialistica e non imperialistica o decadentistica, che riproduca in forma nuova quella del risorgimento italiano»108. Le varie movenze del pensiero crociano durante il quindicennio esaminato si saldano dunque in un progetto sostanzialmente unitario: le successive posizioni in apparenza divergenti o almeno diverse si compongono in un disegno etico-politico coerente. Non vi è sostanziale contraddizione fra la «difesa» del marxismo e l’«appassionamento» per il socialismo all’inizio e la dichiarazione di morte del socialismo con successivo passaggio a posizioni conservatrici alla fine. Il problema del socialismo – indubbiamente al centro delle preoccupazioni dei politici e degli intellettuali borghesi italiani nei due decenni a cavallo del secolo – costituisce anche la chiave di lettura delle origini e dei primi svolgimenti del 108. B. Croce, Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoperati e sostituiti dal «Contributo alla critica di me stesso», a cura dell’Istituto Italiano per gli studi storici, Napoli 1966, pp. 27, 30-31, 38 e 39.

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pensiero di Croce. Ciò non va inteso certo nel senso che fin dal principio egli si fosse esplicitamente e consapevolmente proposto di elaborare una filosofia capace di contribuire sul piano teorico alla sconfitta del movimento operaio. Vuol dire invece che, presa subito coscienza attraverso Labriola del significato e dell’importanza che il movimento operaio e i suoi obiettivi socialisti andavano assumendo nella realtà dell’Italia di fine secolo, e preoccupato delle conseguenze pratiche che potevano derivare da un’interpretazione semplicisticamente materialistica e deterministica delle dottrine marxiane che il proletariato dimostrava di far proprie, il Croce – anche nell’intento di contribuire a indirizzarlo lungo percorsi che a suo parere si sarebbero rivelati non solo giovevoli alla società nel suo complesso, ma anche proprio allo stesso movimento operaio – cerca di fornire di quelle dottrine un’interpretazione «criticamente accettabile», cioè, nelle sue prospettive, tale da non mettere in pericolo l’assolutezza dei valori. È vero che il suo interesse specifico e primario nell’affrontare gli studi marxistici era collegato alla possibilità di trarne insegnamenti utili per il lavoro che riconosceva proprio, ossia quello dello storico109. Si dovrà però riconoscere che non solo attraverso questo lavoro egli riteneva che si potesse contribuire, e sia pure indirettamente, a modificare e migliorare anche gli orientamenti-pratici bensì ancora che accanto a tale interesse primario di studioso fosse già presente in lui quello del cittadino per i problemi della vita associata, costante in tutto il suo successivo sviluppo, che in quel momento trovava uno dei punti forti proprio nella questione del socialismo e della funzione storica del movimento operaio. 109. «La teoria marxistica del “sopravalore” e il “materialismo storico” […] a me importavano soprattutto ai fini di quel che se ne potesse o no trarre per concepire in modo più vivo e più preciso la filosofia e intendere meglio la storia» (B. Croce, Come nacque e come morì, cit., p. 294).

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La continuità sostanziale che viene quindi a manifestarsi fra il «revisionismo» degli anni qui presi in considerazione, e l’antimarxismo cui approdava in modo apparentemente improvviso al loro termine, può risaltare più chiara rivolgendo l’attenzione agli atteggiamenti di Croce nei riguardi del movimento operaio. Che fosse presente in lui in quegli anni un interesse attivo e positivo verso la realtà storica e sociale del proletariato moderno, è cosa troppo documentata per metterla in dubbio. Tuttavia va tenuto presente, e sottolineato con vigore, che fin da principio, fin dalla sua prima «memoria» sul marxismo, una delle sue preoccupazioni fondamentali fu quella di contribuire a evitare che il proletariato e i suoi rappresentanti politici dirigessero la loro azione in base a concezioni teoricamente erronee e praticamente deleterie: qualora invece il movimento operaio avesse seguito una prassi «corretta», tale cioè da non mettere in pericolo il rispetto dei valori assoluti etici, logici ed estetici, allora secondo il Croce, sarebbe stato, appunto, «tanto poco pauroso quanto poco pauroso è ciò che è necessario». Se negli scritti sul materialismo storico e l’economia marxista Croce aveva posto le premesse per un’operazione volta a incanalare questo movimento «necessario» entro un’orbita che gli impedisse di divenire «pauroso» e pericoloso per la convivenza umana, favorendone invece l’apporto positivo al rinvigorimento e al migliore funzionamento della società nel suo complesso, negli anni che immediatamente seguirono egli andò svolgendo questa operazione, mediante la laboriosa costruzione di un «sistema» filosofico110 capace di assorbire e trasformare, dando loro una determinata soluzione, le istanze teoriche e praticheemergenti dal marxismo e dalla sua diffusione di massa. Tale 110. Si usa il termine «sistema» (che il Croce rifiutava per designare la propria costruzione teorica, preferendo quello più «aperto» di «sistemazione») in un senso meno forte di quello usuale e più vicino, appunto, al concetto crociano di «sistemazione».

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operazione risulta quindi «perfettamente scandita in due tempi»: In un primo tempo di conoscenza delle leggi economiche (alimentata dalle letture marxiane) e contemporanea riduzione del materialismo storico a canone empirico, e in un secondo tempo di costruzione di una filosofia direttamente e molecolarmente contrapposta al marxismo, al primato dell’economia, e a tutto ciò che essi storicamente significavano111.

Ma non è questo il modulo che ha, allora e poi, sempre caratterizzato ogni programma di «revisionismo» marxista? Da Bernstein in poi, ogni «revisionismo» si è sempre formulato a livello teoretico come «integrazione» delle istanze ritenute valide del marxismo entro una concezione filosofica generale di differente origine e natura112. Anzi nel Croce quel modulo ricevette una formulazione particolarmente efficace, proprio nella misura in cui l’inserimento delle istanze marxistiche entro una filosofia «speculativa» riuscì in modo più completo e con maggiore profondità di vedute filosofiche. Risulta quindi pienamente confermata la tesi di Gramsci, secondo cui egli non solo si ritenne, ma effettivamente fu, e ben oltre i limiti temporali delle sue «simpatie» per il socialismo, il «leader intellettuale dei revisionisti»113. L’operazione politico-culturale di cui Croce si faceva promotore, oltre che essere «scandita in due tempi», si colloca anche su due piani distinti, che a essi solo in parte corrispondono. Sul primo piano, corrispondente al «primo tempo», si trattava 111. A. Leone de Castris, op. cit., p. 18. 112. V.: M. Motta, Croce e Marx, in «Cultura e Realtà», 3-4, 1950; A. Del Noce, La non-filosofia di Marx, cit., pp. 367-372. V. anche il mio vecchio saggio Marxismo, revisionismo, ortodossia, in «Opinione», Bologna, 2, 1956 (riprodotto nell’antologia Il revisionismo socialista, a cura di G.P. Mughini, Roma 1975). 113. V.: A. Gramsci, Quaderni cit., pp. 1213-1215.

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di fornire al «revisionismo» marxista, già in corso di sviluppo, gli strumenti teorici per rendere coerente il suo programma di «revisione» e contribuire così ad avviare il movimento operaio (di cui bene si comprendeva la carica potenzialmente eversiva, ma che si riteneva impossibile e anche indesiderabile reprimere con la violenza) verso obiettivi politici non contrastanti con quelli giudicati come i valori permanenti di una civile convivenza umana. Occorreva dunque elaborare una «filosofia», una «concezione della realtà con una morale conforme», capace di contenere il movimento storico entro i quadri, precostituiti di una determinata forma di consociazione umana, presentata, attraverso l’assolutizzazione delle sue fondamentali categorie e dei suoi valori, come immutabile e anzi eterna (corrispondente, almeno in tensione, alle strutture eterne dello «spirito»): il che conferma anche l’altra tesi gramsciana, secondo la quale lo «storicismo assoluto» del Croce è anch’esso una forma, più raffinata, di «filosofia della storia», di «storia a disegno»114. Ma se con questa costruzione si è passati dal primo al secondo «tempo» del progetto crociano, non si può dire che ci si sia ancora spostati sul secondo «piano» della sua funzionalità storica (come accadrà invece nel 1911, con la dichiarazione di morte presunta del socialismo). Nel decennio iniziale del 1900, oltrepassato il primo «tempo», consistente nella riduzione del materialismo storico a canone empirico di interpretazione storiografica e dell’economia marxista a economia sociologica comparata. Croce si avvia a costruire la sua filosofia «antimarxista», pertanto senza giungere a trarne tutte le conseguenze antisocialiste che pur vi sono implicite. Tale fase della riflessione filosofica crociana resta ancora attestata su un progetto revisionistico, certo inteso in senso allargato per comprendervi anche il più ambizioso disegno di stabilire il sistema dei valori entro il quale avrebbe dovuto svolgersi ordinatamente lo 114. Ivi, pp. 1217 e 1327.

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sviluppo di qualsiasi movimento storico (economico-politico o «culturale») non solo di élite, ma anche di massa115. Fino a questo punto però potevano riconoscersi in tale disegno i promotori e fautori del «revisionismo» socialista, Bernstein in testa, i quali – rifiutando per principio la prospettiva «rivoluzionaria» del marxismo classico, e rendendosi più o meno chiaramente conto dell’intima connessione fra essa e la concezione «criticopratica» della storia che le stava alla base – cercavano di giustificare la prassi riformistica mediante una correzione o integrazione del marxismo stesso svolta tutta all’interno di un’altra e diversa, e per certi aspetti opposta, «filosofia» o «concezione del mondo». E sotto tale rispetto, le richieste rivolte da Hermann Cohen nel 1895 alla socialdemocrazia tedesca assumono il valore di un’enunciazione programmatica, in seguito ripresa e realizzata dai «socialisti neokantiani» dell’epoca116. Da questo punto di vista la proposta filosofica del Croce poteva avere

115. Riguardo a tale problematica v.: A. Leone De Castris, op. cit. 116. H. Cohen, Biographisches Vorwort und Einleitung mit kritischen Nachtrag, premessa a A. Lange, Geschichte des Materialismus, Leipzig 18965, II vol. (tradotto quasi per intero in italiano in Marxismo ed etica, Testi sul dibattito intorno al «socialismo neokantiano», a cura di E. Agazzi, Milano 1975, da cui sono tratte le citazioni) sosteneva che Kant era «il vero ed effettivo fondatore del socialiamo» (p. 62), in quanto la massima dell’imperativo categorico per cui si deve trattare la persona umana «sempre e al contempo come fine, e mai puramente come mezzo», esplicava la condanna del sistema economico-sociale capitalistico, in cui i lavoratori sono considerati «merci», ossia «puri mezzi» per la realizzazione del profitto (p. 63). Pertanto, poneva al «socialismo di partito» alcune richieste moralmente imprescindibili: oltre al ripudio del «materialismo» e l’adozione dell’«idealismo» e all’accettazione dell’«idea di Dio», non come realtà ontologica trascendente, bensì come idea regolativa e «fede nella potenza del bene» (pp. 58-60), anche e soprattutto la subordinazione della concezione realistica della società, propria del marxismo, all’idea del diritto e dello stato, onde evitare il rischio di «scivolare sulla china della rivoluzione» e per «prevenire la rivoluzione come crisi violenta e arrestare il processo storico di sviluppo della rivoluzione permanente» (p. 66).

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proprio per la sua complessità, una portata maggiore di quella neokantiana, anche se con questa presenta non poche affinità, per quel che riguarda la «tecnica» filosofica in senso stretto117; e si dovrà anche riconoscere che nel suo insieme essa ebbe (e ha tuttora) una considerevole influenza sull’intera prassi revisionistica, almeno in Italia. Il secondo livello del progetto politico-cultuale crociano sembra distaccarsi nettamente dal primo nel momento in cui si manifesta, in modo apparentemente subitaneo, l’avversione per quel socialismo verso il quale fino ad allora sembrava che fossero andate non poche sue simpatie. In realtà, si è cercato di dimostrarlo, non vi è un’antitesi netta, bensì uno spostamento d’accento entro una relativa continuità. Infatti se il programma «revisionistico» era incentrato teoreticamente sulla «riduzione» del materialismo storico a canone empirico di interpretazione storica e dell’economia marxista a economia sociologica comparata, e praticamente sul contenimento di un sia pure saldo e organizzato movimento operaio nell’orbita subalterna ai valori tradizionali di una classe dirigente non ancora del tutto uscita dalla fase preindustriale, l’antisocialismo del Croce maturo si prospettava nella pratica come accentuazione di quel contenimento, fino al limite, toccato nel periodo 19111924, della reazione politica nazionalconservatrice, e nella teoria come costruzione di un «sistema filosofico» che a quei valori potesse fornire una fondazione assoluta, ritenuta capace di resistere alla carica demistificante di un pensiero «scientifico» pratico-critico, e quindi capace di «superare» le istanze critiche e rivoluzionarie del marxismo quale coscienza teorica del movimento operaio.

117. V.: R. Racinaro, op. cit., pp. 33-34, 43, 63-66; e G. Fehr, op. cit., pp. 149-153.

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Ma forse le cose sono ancora più complesse di quanto non appaia dall’analisi condotta, e tali da lasciar scorgere l’importanza decisiva che l’opera di Benedetto Croce ha avuto, e in parte continua ad avere, non soltanto nella cultura, bensì anche nella vita politica italiana del Novecento. Svolgere adeguatamente questo tema richiederebbe un’analisi degli sviluppi del pensiero crociano nel periodo successivo a quello preso in esame che giocoforza occorre rinviare ad altra sede. Non possiamo tuttavia fare a meno di accennare in conclusione a un ultimo punto decisivo: cioè al fatto che anche nella nuova prospettiva antisocialista iniziata con l’intervista su La morte del socialismo, anche nei momenti più marcatamente conservatori del successivo sviluppo e, soprattutto a partire dal momento in cui, dopo un iniziale periodo di simpatie per il fascismo, con il passaggio all’opposizione antifascista118 il Croce andrà svolgendo la fondazione teorica di un rinnovato liberalismo, il suo «storicismo assoluto» conserverà pur sempre una duplice funzione: da una parte, manterrà costantemente la connotazione di filosofia programmaticamente antimarxista e antisocialista; dall’altra, entro e subordinatamente a questo primario quadro teorico, continuerà a offrire spazio a quelle tendenze che si riconosceranno teoreticamente in una o nell’altra forma del «revisionismo» (che, come egli stesso ebbe a dichiarare, non è più «socialismo», bensì «liberalismo»)119. L’aspetto «conservatore» e quello «revisionistico» del pensiero crociano si dimostrano così due lati permanenti di un programma politico-culturale inteso a salvare contro l’attacco

118. Come è noto, la svolta avverrà in Croce solo dopo la trasformazione del governo fascista in regime. 119. B. Croce, La mentalità massonica, in «La Voce», 24 novembre 1910 (riprodotto in B. Croce, Cultura e vita cit., p. 144). Sul «riformismo» come «trasformazione liberale del socialismo», v.: B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, pp. 143-144, 303-304.

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storico del movimento operaio rivoluzionario le stesse basi ideologiche del dominio storico della borghesia.

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Croce e il marxismo Marcello Montanari

La critica crociana della teoria marxista del valore-lavoro e la sua riduzione ad un «paragone ellittico» vanno analizzate e comprese sotto un duplice profilo. In primo luogo, conducono nel cuore del rapporto tra Movimento operaio e marxismo; in secondo luogo, consentono una identificazione dell’agire politico con l’agire economico, ovvero una riduzione della politica ad azione per il conseguimento dell’«utile». A guardare da vicino, infatti, le tesi crociane non contestano la funzione scientifica della teoria del valore, ma la sua possibilità di essere assunta come chiave interpretativa dell’intero organismo sociale. La teoria del valore, scrive Croce, «è un fatto, ma un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante diversa da quella che darebbe se le altre forze cessassero di operare. Non è un fatto dominante assoluto, ma non è nemmeno un fatto inesistente e semplicemente immaginario»1.

1. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (1897) in Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari 1973, p. 63.

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Il punto in discussione è, dunque, il carattere dominante della teoria del valore nella interpretazione della società. Si tratta di definirne il posto nella rappresentazione logica e nella descrizione storica del moderno capitalismo. In questo senso, Croce non contesta che quella teoria produca l’effetto conoscitivo di un «fatto». Essa non è pura astrazione logica, ma astrazione reale, riconoscimento concettuale di una realtà determinata e particolare. Qualche pagina prima, dopo aver ricordato l’affermazione di Labriola, secondo la quale «la teoria del valore non rappresenta un factum empirico, né esprime una semplice posizione logica… ma è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile», Croce aggiunge: «Fatto del pensiero, fatto logico, è dir poco, perché si sa bene che tutte le scienze sono tessuti di fatti logici, ossia di concetti. Il valore-lavoro del Marx non è solo una logica generalità, ma anche è un concetto pensato ed assunto come tipo, ossia qualcosa di più o di diverso da un mero concetto logico. Esso non ha già l’inerzia dell’astrazione, ma la forza di qualcosa di determinato e di particolare, che compie rispetto alla società capitalistica,

Sulla formazione del pensiero politico del giovane Croce ancora fondamentale il contributo di A. Mautino, La formazione della filosofia politica di B. Croce, a cura di G. Solari e N. Bobbio, Laterza, Bari 1953. Della vasta bibliografia su Croce mi limito qui a ricordare gli studi verso i quali ho contratto i debiti maggiori, anche se ho teso a differenziarmene: N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo in Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955; G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Morano, Napoli 1966; E. Garin, Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano, in Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974; B. de Giovanni, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato, in «Lavoro critico», n. 1, gennaio-marzo 1975, pp. 131-66; R. Racinaro, La crisi del marxismo, De Donato, Bari 1978; D. Corradini, Croce e la ragion giuridica borghese, De Donato, Bari 1974.

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nell’indagine del Marx, l’ufficio di termine di comparazione, di misura, di tipo»2. Non mi pare che su questo punto Croce fraintenda Labriola, come questi spesso sosterrà. Che il valore-lavoro sia un concetto determinato e storicamente determinato non è contestato in alcun luogo da Croce. Anzi, anche quando Croce mostra di contrapporre una ipotetica «economia pura» alla «economia marxista» opera nella direzione di circoscrivere e determinare storicamente le categorie marxiane, per confrontarle non con una universalità «astratta», ma con una dimensione «originaria» della socialità. Il punto di fraintendimento e di rottura con Labriola è sulla posizione e la funzione, che questo «concetto storico» assume nella società presente. Per Labriola, esso non cessa mai di avere una posizione dominante: la società si costruisce a partire dal valore-lavoro. Il lavoro è la misura delle ricchezze prodotte e dell’intero sistema sociale. Al contrario, per Croce, ciò che «occorre giustificare è la misura stessa»3. Il valore, cioè, potrà ben essere misurabile in lavoro, e in tempo di lavoro. Ma cosa giustifica e motiva la estensione di questa misura all’intera società? Solo in un’astratta società economica, in quanto società lavoratrice, quella misura può essere assunta per l’intera struttura sociale, mentre nella presente società essa è isolata e contraddetta da una molteplicità di altri fatti. Inoltre, aggiunge Croce, la stessa teoria del plusvalore, che è da quella dedotta, costituisce soltanto un concetto di «differenza sociologica» e, quindi, esce dal terreno economico per porre una relazione

2. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., pp. 58-9. 3. Ivi, p. 60.

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tra grandezze non commensurabili e per tentare una definizione complessiva dei rapporti sociali. Essa, però, pretende di esibire la propria scientificità attraverso un impianto teorico esclusivamente ritagliato sul terreno della «economia politica» e, quindi, risulta completamente inadeguata al fine che si propone. Fuori dall’economia agisce, cioè, un sistema di relazioni, che annulla la possibilità di generalizzare le categorie economiche e di assumerle come dominanti. La verifica di questa non-dominanza della teoria del valore, Croce ritiene di poterla ritrovare nella impossibilità di dedurre la teoria dei prezzi dal valore e nella debolezza analitica della caduta tendenziale del saggio di profitto. Sia nell’uno che nell’altro di questi casi, le osservazioni critiche di Croce insistono sulla difficoltà di ridurre fenomeni complessi alla «semplicità» della teoria del valore. E se, per quanto riguarda la teoria dei prezzi, rinvia «alla costruzione economica della scuola edonistica, all’utilità-ofelimità»4; per quanto concerne la caduta tendenziale del saggio di profitto non manca di osservare che «l’errore del Marx è stato di aver attribuito inavvedutamente un valore maggiore al capitale costante che, dopo il progresso tecnico, vien messo in movimento dagli stessi antichi lavoratori… il capitale (e ciò Marx sembra avere per un momento dimenticato) non si misura dalla sua fisica estensione, ma dal suo valore economico»5. La difficoltà di dedurre prezzi e saggio di profitto dalla teoria del valore sta, dunque, secondo Croce, nel voler passare da una logica delle grandezze (il lavoro come misura) ad un’analisi sociale, che invece deve tener conto di altri fattori (psicologici, culturali, ecc.). Il progresso tecnico, l’investimento in

4. Ivi, p. 72. 5. B. Croce, Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio profitto (1899), in Materialismo storico ecc., cit., p. 147.

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capitale costante non sarebbero possibili, infatti, se l’interesse (psicologico, politico, economico) del singolo capitalista non risultasse, in ultima istanza, garantito. E se anche dovesse verificarsi una caduta dei profitti, cosa consente di dedurre da questo la inevitabile trasformazione dei rapporti sociali? Cosa autorizza a credere che un mutamento del rapporto di grandezze tra profitto e salari possa produrre la demercificazione della forza lavoro? Ridotta la teoria del valore ad un rapporto di grandezze e il lavoro a misura del valore, non solo Marx è ricondotto a Ricardo, ma Croce può facilmente osservare che la riduzione della scienza economica a scienza delle «grandezze» è insufficiente a spiegare l’agire economico, perché questo si motiva non sulla base del puro «calcolo economico», ma sulla base di bisogni, interessi, conflitti, le cui ragioni non sono interpretabili secondo i teoremi della scienza economica. «La Scienza economica – scriverà Croce nella Filosofia della pratica – è nient’altro che una matematica applicata al concetto di volizione e azione; epperò non indaga la natura della volizione o azione, ma, poste certe determinazioni di azioni umane, le sottomette al calcolo per riconoscerne prontamente le necessarie configurazioni e conseguenze»6. Non v’è dubbio che Labriola intenda perfettamente che l’operazione crociana comporti un ritorno dalla critica dell’economia politica alla economia classica, ma non si può neppure sostenere che la sua risposta fissi in maniera adeguata un nuovo «campo teorico» del marxismo. In realtà, il difetto e il limite di Croce mettono in luce il difetto e il limite della interpretazione di Marx data da Labriola.

6. B. Croce, Filosofia della pratica (1908), Laterza, Bari 1973, pp. 253-4.

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Nel Postscriptum all’edizione francese di Discorrendo di socialismo e filosofia7 cercando di respingere la lettura della teoria del valore fornita da Croce (e insieme a questi da BöhmBawerk) scrive: «In verità il tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non la misura di un processo; ed è nell’economia la misura del processo della produzione e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell’economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell’interesse. Un tempo che in quanto operi come causa reale è un mitologhema»8. Dunque, il tempo non è causa reale, ma è misura ed è misura tanto della produzione quanto della circolazione ovvero: per due fenomeni (di cui ancora non si è mostrata la correlazione o la eventuale identità), si adopera una unica misura. Ne deriva che non solo il tempo è ridotto ad un’astrazione (questa sì puramente logica), che consente di quantificare e confrontare grandezze diverse, ma la circolazione viene fatta coincidere con la produzione attraverso questo escamotage, che pone il tempo come se fosse una misura esterna ai loro autonomi meccanismi. In breve, il tempo della circolazione e il tempo della produzione vengono fatti coincidere in una entificazione del tempo come misura. Impostato in questi termini il problema del rapporto tra circolazione, produzione (e lavoro) e tempo, la teoria dei prezzi viene con l’essere saldamente legata alla teoria del valore. La

7. In La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari 1965. Su Labriola, oltre al saggio introduttivo di E. Garin a questo volume, si veda anche B. de Giovanni, Labriola e il metodo «critico», in «Critica marxista», n. 4, 1979, pp. 89-107. 8. A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p. 299.

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messa in discussione dell’una porta immediatamente a mettere in discussione l’altra e, quindi, la stessa centralità del lavoro. A chi osava dubitare della deducibilità dei prezzi dal valore, Labriola non può che rispondere che non trattavasi di una questione gnoseologica, ma di contraddizioni reali del sistema capitalistico. Vale a dire che quella presupposta unità e organicità tra produzione e circolazione, tra valori e prezzi viene ad essere, successivamente negata, senza che ancora sia stata spiegata la relazione reale tra loro esistente. Laddove gli interrogativi di Croce e di Böhm-Bawerk erano attinenti alla determinazione particolare di questa relazione, e non certo ad una generica teoria della conoscenza, Labriola si limita ad indicare l’esistenza concreta della contraddizione. «Le contraddizioni che essi notano – scrive Labriola – non sono le contraddizioni del libro con il libro stesso, non sono le infedeltà alle sue premesse e promesse: ma sono le stesse condizioni antitetiche della produzione capitalistica, che, enunciate in formule, si presentano allo spirito pensante come contraddizioni… queste ed altre smentite alla così detta legge del valore (– gli è proprio quel termine di legge che imbroglia i cervelli di molti! –) son le antitesi stesse del sistema capitalistico»9. In questo modo Labriola finisce con il cogliere solo un aspetto del problema, perché rinviando di fatto la soluzione dell’«antitesi» al superamento di una contraddizione fondamentale tra sfere della produzione e sfera della circolazione, tra forze produttive e rapporti di produzione, si inibisce la possibilità di analizzare e comprendere il sistema di relazioni e le sfasature reali esistenti tra quelle due distinte sfere. Anzi, finisce con il ricostruire l’intera società secondo il calco che gli viene fornito dalla produzione.

9. Ivi, pp. 192-3.

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La ragione di questo slittamento da un momento all’altro dei rapporti capitalistici è da ricercare, come abbiamo già accennato, nella riduzione del concetto di tempo ad un concetto di misura. In realtà, solo concependo il tempo come astrazione logica e termine di confronto, Labriola può pensare il tempo di lavoro come forma unificante ed egemone nella presente società e ritenere che non solo il valore, ma tutte le forme (i saperi, le istituzioni ecc.) siano da pensare come concrezione di una prassi, di un agire sociale che non riconosce differenze al suo interno. Schiacciata la società su questa dominanza della sfera produttiva, lo stesso concetto marxiano di «lavoro astratto» e il suo presentarsi come astrazione reale diventano i veicoli per rappresentare un continuum storico e per far coincidere la struttura logica del capitale con il suo divenire cronologico. In breve: ridotta la storia del capitale alla storia del lavoro e il «lavoro astratto» ad una sua particolare e specifica figura sociologica, le Forme (valore, Stato, ideologia, ecc.) non possono che apparire come concrezioni, cristalli, certo reali e non puri fantasmi, prodotti da quest’unica soggettività storica. Da qui l’interpretazione del marxismo come «filosofia della prassi», ovvero come teoria e storia di un determinato soggetto sociale aprioristicamente identificato come soggetto storico generale; la storia come divenire e farsi di questo soggetto. Una storia dell’uomo in continuo progresso e un continuo generarsi delle formazioni sociali l’una dall’altra. Il metodo genetico è questo riuscire a vedere nascere il presente dal passato. La previsione morfologica è avere la certezza di un futuro ineluttabile già scritto nei presente, perché unico e sempre identico a sé è il soggetto di questo divenire: il lavoro umano. La necessità del socialismo è posta da questa centralità e universalità del lavoro, da questa concezione della storia come

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successione di formazioni storiche. «Qui si tratta invece – scrive Labriola – di riconoscere, o di non riconoscere nel corso presente delle cose umane una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo sentimento. Trovasi o no la società d’essere ora così fatta, nei paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo per le leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da se stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi? Ecco il soggetto della disputa, dopo che tale dottrina è apparsa. Ed ecco insieme la regola di condotta, che s’impone all’azione dei partiti socialisti; e che siano essi di soli proletarii, o che accolgano nelle loro file uomini usciti da altre classi, i quali facciano la parte di volontarii nell’esercito del proletariato»10. Il concetto di tempo come misura e la teoria dei valore come «tipo» o «astrazione reale» consentono di pensare il «lavoro astratto» nei termini puramente sociologici della centralità del proletariato e la teoria marxista della storia come storia del lavoro e teoria della transizione. Consentono di pensare la «neo-formazione» come risultato dell’attività lineare di questo soggetto «universale». Lavoro, sviluppo e prospettiva del socialismo vengono, così, a saldarsi organicamente in maniera inscindibile e non ci si accorge che la loro unità altro non è che la loro compresenza dentro la forma capitalistica di socializzazione del lavoro. Labriola, cioè, estrapola il carattere sociale del lavoro, già presente all’interno delle forme capitalistiche, per esaltarlo come portatore in quanto tale del socialismo e dello sviluppo sans phrase.

10. A. Labriola, In memoria del Manifesto dei Comunisti, in La concezione materialistica della storia, cit., p. 10.

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Nella prospettiva del Labriola manca la consapevolezza che le Forme non possono ridursi a momenti, cristalli di questa prassi umana. In sé compatta e priva di determinazioni funzionali, ma che si costituiscono, invece, come luoghi di intersecazione di relazioni molteplici e, quindi, sistemi complessi, che assumono temporalità autonome e concentrano forze antagonistiche. La riduzione del marxismo a «filosofia della prassi» finisce con il far coincidere il tempo delle Forme e della Vita con il tempo di lavoro e con il leggere le Forme solo come tempo di lavoro accumulato o più esattamente come tempo liberato dal lavoro ed a questo contrapposto. Diviene, allora, comprensibile il giudizio di Gramsci, che pure in altri luoghi aveva sottolineato la necessità di rimettere in circolazione le idee del Labriola, il giudizio secondo il quale «lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut non è un knut quando è un knut “storico”»11. È un giudizio questo, che Gramsci esprime dopo aver commentato la posizione di Labriola sul modo di educare un «papuano» e sulla questione libica. Ed è un modo di mettere in rilievo l’assenza del concetto di imperialismo in Labriola non come un qualcosa che manca alla sua concezione della storia, ma che vi può essere tranquillamente aggiunto, ma come un’assenza strutturale. La teoria di Labriola della società capitalistica e della storia non è in grado di spiegare l’imperialismo, perché sono assenti dal suo campo concettuale e dal suo stesso repertorio linguistico le potenzialità per indicare uno sviluppo diseguale dell’accumulazione capitalistica e l’esistenza di temporalità diverse e contrapposte al suo interno. Lo sviluppo del mercato capitalistico è, infatti, inteso come un processo lineare che si realizza

11. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol II, pp. 1367-8.

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su di uno spazio economico piano, privo di qualsiasi profondità interna e di qualsiasi reale disarticolazione temporale. Certamente la posizione di Labriola assume, nel contesto del dibattito teorico della Seconda Internazionale, un enorme valore politico, perché consente di stringere saldamente il marxismo con il Movimento operaio e con la prospettiva del socialismo. Ma, innanzitutto, la criticità e il limite delle Forme capitalistiche sono posti esclusivamente in una soggettività ad esse esterna e che, peraltro, accetta le ideologie e le tecniche già date dello sviluppo: l’ipostasi della forma presente di produttività è assunta come chiave risolutiva delle contraddizioni sociali. È quanto dire: realizzare il socialismo attraverso la generalizzazione del presente carattere di merce della forza lavoro. In secondo luogo, la filosofia marxista è univocamente ancorata alla funzione di strumento teorico e giustificazione acritica di una determinata pratica politica. Croce ha, perciò, facile giuoco nel seguire Labriola su questo stesso terreno, per riconoscere al marxismo una funzione pratico-cognitiva nel determinare e proporre un programma politico, ma anche per contestarne il valore scientifico come teoria della storia e della transizione al socialismo. «Vorrei – scrive Croce – similmente richiamare l’attenzione dei Labriola sopra un’altra confusione, frequentissima nella letteratura marxistica, ch’è quella tra le forme economiche e le epoche economiche. Sotto, l’efficacia del positivismo evoluzionistico, le partizioni che il Marx enunciò all’ingrosso di economia asiatica, antica, feudale e borghese, sono diventate quattro epoche storiche: comunismo, economia di schiavitù, economia di servitù, economia di salariato. Ma la storiografia moderna… sa bene che quelle son quattro forme di ordinamento economico, le quali si seguono e s’incrociano nella storia reale, formando spesso le miscele e le successioni più bizzarre (…) il passaggio dall’una forma all’altra economica o, in genere,

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sociale, non è effetto di causa unica, e neanche di un gruppo di cause che siano sempre le medesime; ma accade per cause e modi che bisogna esaminare caso per caso, perché sogliono variare da caso a caso. La morte è ila morte, ma si muore di tante malattie, e ogni malattia è individuale»12. La transizione al socialismo non è un fatto necessario, né le forme del suo eventuale verificarsi sono prevedibili e/o generalizzabili. Esso è il risultato di un’azione politica, di un atto di volontà, che impiega le energie e le organizzazioni di un determinato soggetto politico. Il marxismo è certo «critica della società civile»13, ma la sua criticità non nasce dal fatto che il «proletariato» è destinato a costruire il socialismo, perché già nel presente è soggetto universale. Il socialismo nasce da una volontà e da un interesse organizzato per costituire una società di soli lavoratori. È questa prospettiva utopica («un’utopia più fondata delle precedenti»), è questo mito a costituire il proletariato come soggetto politico. Ed è in questo senso che Croce parla di Marx come del «Machiavelli del proletariato». L’azione politica, infatti, è espressione di una «volontà», è un atto di forza. Risponde ad una «passione», ad un «interesse particolare». Vi è in essa un ineliminabile momento di giacobinismo. Questo non significa mettere in discussione né la possibilità e legittimità storica del socialismo, né il suo carattere progressivo. «Quando scrivevo – affermerà Croce – che solo per mezzo del mater. storico era possibile la previsione del socialismo, 12. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxism, cit., pp. 84 e 85. In questo senso vanno anche le osservazioni di E. Durkheim nella sua recensione ai saggi di Labriola: La concezione materialistica della storia (1897) ora in La scienza sociale e l’azione, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 261-71. 13. Cfr. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, Mondadori, Milano 1981, p. 57. La Lettera è del 21 agosto 1899.

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intendevo che “per l’applicazione fatta della veduta metodologica inculcata col materialismo storico, l’indagine si era rivolta alla critica economica delle condizioni sociali, ecc.”, ch’è l’arma più possente del socialismo. Egualmente, parlando della sola soluzione possibile intendevo: la sola possibile nell’ipotesi del progresso…»14. La critica crociana del socialismo, in realtà, si attesta su altri due punti: 1. la società, egli afferma, è più complessa di quella ricostruita analiticamente dal materialismo storico, che invece fornisce una veduta parziale della storia e del presente; 2. la eventuale realizzazione del socialismo comporterebbe una riduzione arbitraria di tale complessità con l’affermazione dei «valori» e della «cultura» di quel particolare soggetto, che è costituito dal Movimento operaio. Per questa via, Croce spostava il terreno di confronto da quello strettamente economico-politico a quello etico-politico, al confronto tra «culture» e «modelli di civiltà». In breve: sul terreno della costruzione di una «egemonia». E al proletariato Croce domandava una capacità di compiere «sacrifici», di lungimiranza e di farsi classe «universale», non inferiore a quella storicamente dimostrata dalla borghesia. «I teorici del socialismo – scriverà nella prefazione alle Considerazioni sulla violenza di Sorel – sogliono affermare che il proletariato vuole imitare la borghesia, risolvendo in sé e superando, come questa il feudalesimo, esso la società borghese, a vantaggio dell’intera società umana e dell’avanzamento della società. Ma la borghesia ha una storia eroica ed è stata, nel miglior senso della parola, idealistica, perché ha saputo fermarsi, lottare, aspettare, sacrificare intere generazioni per assicurare la vittoria ai figli e ai nipoti… Il proletariato, se vuole imitare davvero la borghesia nell’abbattere una vecchia società, deve avere la forza e la capacità d’imitarla altresì nei metodi severi 14. Ivi, p. 11.

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dell’abbattimento e della riedificazione. Tali condizioni pone la storia, e con l’osservanza di esse il socialismo è tanto poco pauroso quanto è poco pauroso ciò che è necessario»15. Il tentativo di Labriola, che in questo cercava di seguire il programma scientifico di Engels, di definire la filosofia marxista della storia, nonché i caratteri della contraddizione che produce inevitabilmente il socialismo, non poteva che apparire a Croce impregnato di determinismo e di teologismo. Labriola, certo, tentava di respingere il «revisionismo», e in particolare quello crociano, da una visuale non ortodossa e lo stesso Croce non mancherà di sottolineare gli aspetti a-sistematici e critico-pratici della sua riflessione16. Tuttavia, restava dentro una concezione «monistica» della realtà, che se consentiva di superare tanto ila concezione meccanicistica quanto quella idealistico-metafisica delle «sovrastrutture ideologiche», tuttavia non giungeva a cogliere le ragioni delle sconnessioni reali tra teoria e politica, tra logica e storia. Anzi, tutto racchiudeva in una visione lineare della storia, del suo ricomporre le scissioni e del suo farsi «sistema» e «concetto» e non individuava 15. B. Croce, Introduzione a G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Laterza, Bari 1970, pp. 41-2. Il testo crociano è del 1907 ed è riprodotto anche in Conversazioni critiche, serie prima, Laterza, Bari 1950, pp. 306-32. Ma per la posizione di Croce verso il marxismo si legga anche quanto scrive recensendo il volume di E. Hammacher, Das philosophisch-ökonomische System des Marxismus, riportata in Conversazioni critiche, serie prima, cit., pp. 296-306. Di Sorel si vedano anche gli Scritti politici e filosofici, a cura di G. Cavallari, Einaudi, Torino 1975. 16. Nella lettera del 9 febbraio 1897 a Gentile, Croce scrive «Io sono un cattivo interprete dei libri del Labriola, perché, oltre i libro, ho letto anche… l’autore; e quindi nel libro veggo sempre più e meno di quel che dicono le parole. Il Labriola è alquanto impressionabile e si lascia trasportare oltre il segno. Non è didattico, non ordinato, non ha la tattica della discussione minuta ed analitica. Intende egli veramente il materialismo storico come una filosofia della storia? Quante espressioni ondeggianti nei suoi due libri, accanto a quelle recise da Lei rilevate!» (Lettere a Gentile, ed. cit., p. 5).

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in questa processualità il coagire di forze diversificate e di un «politeismo di valori». Movimento storico e sua prospettiva, causalità lineare e scopo finale finivano con il coincidere in maniera a-problematica nella pratica politica del Movimento operaio17. Rispetto ad una simile, impostazione ben più ricca e corrispondente al modo di sentire e di agire della classe operaia doveva apparire a Croce l’operazione soreliana di fare del marxismo una teoria dell’azione sociale. La teoria soreliana del mito sottolineava, ai suoi occhi, gli elementi drammatici e non lineari del divenire storico, anche se non mancava di aggiungere che il «mito», una volta spiegato razionalmente, perdeva ogni efficacia nell’unificare e nel guidare le masse18.

17. La posizione di Labriola non è, comunque, una posizione isolata all’interno del Movimento operaio, ma rappresenta una parte consistente della cultura della II Internazionale. In particolare, sono riscontrabili affinità consistenti tra la riflessione di Labriola e quella di Max Adler. Si veda a proposito la introduzione di R. Racinaro al volume di Adler, Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza, tr. it. De Donato, Bari 1976, soprattutto le pp. XXXIX e XCIV. In questa introduzione Racinaro ricostruisce con molta precisione e finezza analitica, il neokantismo di Adler come «forma della ricomposizione» e, quindi, come risposta teorica e al neokantismo revisionista di Bernstein e allo «storicismo debole» di Sombart. Ho l’impressione, però, che limitarsi alla critica della scissione tra logica e storia, tra storia degli intellettuali e storia reale, conduca Adler (e si potrebbe aggiungere anche Labriola) a non vedere che non di «storia delle mosche cocchiere» si tratta ma di forze intellettuali organicamente legate a un nuovo modo di essere e di governare delle classi dominanti. In questo senso, forse, andrebbe rivista la funzione ermeneutica della categoria della «separatezza degli intellettuali», che Racinaro usa in quella sua introduzione e che è stata ampiamente utilizzata dal marxismo italiano negli anni ’70. 18. Nella intervista su La morte del socialismo (gennaio 1911), Croce affermerà: «quelle falangi di eroici operai, che io non riuscivo a discernere dal troppo lontano mio punto di osservazione, parve che si assottigliassero anche agli occhi, o dietro le spalle, del Sorel, il quale tra sfiducia e disgusto, abbandonò il movimento pratico del sindacalismo. Il riformismo, il demo-

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Il Marx «critico della società civile», l’analisi del sentimento di classe e del mito, che spinge i singoli uomini all’azione, in breve: il socialismo come movimento, non come teoria scientifica, interessava Croce e in questo egli ritrovava anche elementi per una teoria della storia, ma in direzione opposta a quella di Labriola. Non nella direzione di un nuovo finalismo storico, ma in quella della critica e del rifiuto di qualsiasi ipotesi di coincidenza e di ricomposizione indolore tra storia del concreto e storia dell’astratto. Qui, dunque, la ragione del suo incontro e del suo scegliere come proprio interlocutore, alla fine degli anni ’90, Sorel e non più Labriola. Qui, il suo porsi, secondo la stessa testimonianza di Sorel19, come punto di riferimento fondamentale per il revisionismo marxista europeo. Qui, infine, il motivo, per cui Labriola gli rivolge insistentemente l’accusa di essere un «wolfiano» e un «letterato»20.

cratismo, il demagogismo si erano infiltrati anche in esso; e il «sentimento di scissione» non l’aveva garantito abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il «mito» lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale». (Cultura e vita morale, Laterza, Bari 1955, p. 158). 19. Cfr. G. Sorel, Lettere a Benedetto Croce, tr. it. De Donato, Bari 1980, p. 86. La lettera è del 9 settembre ’99. 20. Si vedano le lettere di Labriola a Croce del 28 febbraio e del 3 marzo 1898 nel volume A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, a cura dell’Istituto Italiano per gli Studi storici, Napoli 1975, alle pp. 264 e 267. Ed ancora nella sua penultima lettera a Croce, Labriola ripete le sue accuse: «Ti sei mai reso conto della portata e delle conseguenze di questo modo di ragionare? La conseguenza più semplice è questa: non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’e solo scienza dei cosiddetti concetti puri e questi sono enunciabili tutti in giudizi analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxistica) – altro che giudizi sintetici a priori – altro che Spencer e Wundt e altre evoluzioni –: questa è filosofia wolfiana bella e buona. Ma al tempo di Wolfio si credeva alla naturalezza dei concetti… e non si sapeva ancora che questi sono, non fatti, ma tendenze, ma postulati, ma ipotesi, ma tentativi… etc.

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In realtà, Labriola, in questo suo accusare Croce di formulare solo dei «giudizi analitici» e in quel suo ironizzare su «quello Spirito che non ha niente a che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue manifestazioni» come un «bel Mamozio» da ricevere come «dono della Befana», non si accorgeva (né la sua logica à la Wundt glielo consentiva)21, che non il nesso tra materia e concetti, tra prassi e Forme, era in discussione, ma la qualità stessa di quel nesso, il rapporto tra Forme e Forme e, in definitiva la definizione di un nuovo «oggetto teorico». La forza teorica di Croce e del revisionismo era in questa produzione di un nuovo «oggetto», nel fare riferimento ai mutamenti di quella realtà concreta, che Labriola continuava a postulare e a chiedere che fosse compresa ed analizzata. E questa realtà era la realtà della società industriale e di massa, che veniva richiedendo, da un lato, la piena integrazione del proletariato nelle forme di governo e di distribuzione delle risorse e, dall’altro, una riorganizzazione dei rapporti di forza all’interno e tra le singole Forme. Accantonare il problema dello «scopo finale» per privilegiare il «movimento» in Croce (come in Bernstein) ha indubbiamente la funzione di decapitare quello stesso «movimento», ma significa anche comprendere che il luogo dello scontro politico ha ormai il suo centro in questa riorganizzazione delle Forme, che la partita va giuocata sul terreno del «governo» e della formazione di una nuova etica, di una nuova egemonia, di un nuovo «centro politico». L’atteggiamento «wolfiano» di Croce, il suo separare il «pensare» dal «fare» appare, allora, come organico ad un progetto

etc. e che quindi risultano sempre da una sintesi di dati (empirici, o esteriori, o interiori…) etc. etc.» (Lettera del 2 gennaio 1904, ed. cit., pp. 375-6). 21. Per le citazioni cfr. A. Labriola, Lettera a Croce del 5 gennaio 1904, ed. cit., p. 377.

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di riformalizzazione dei saperi; ad una loro ridefinizione epistemica e ad un loro differenziarsi dalle altre pratiche sociali. Il Labriola teorico della «sprucida materia», il Labriola, che aveva dimenticato nelle certezze storiche della filosofia marxista i dubbi e i problemi della Prelezione dell’8722, non poteva intendere le ragioni strutturali che producevano tanto il revisionismo quanto il ritorno dell’idealismo. Tutto gli appare privo di valore teorico, nient’altro che pedanterie e assurdità logiche23. Ci sarebbe, forse, da aggiungere che l’accusa di Labriola a Croce di essere un wolfiano richiama alla mente quella rivolta da Lenin al machismo di riportare la teoria della conoscenza a Berkeley. Fatte le debite differenze, l’attacco alla «epistemologia revisionista» sembra coincidere su due punti: 1. nell’accusa di voler annullare la «materia»; 2. nel respingere l’ipotesi di un ritorno ad una logica pre-kantiana. E l’attacco sarebbe giusto, se non privilegiasse in maniera ipostatica il «punto di vista» del proletariato. Esso, perciò, finisce con il fondare solo apparentemente l’«autonomia teorica» del proletariato; in realtà, isola il Movimento operaio da quel nuovo formarsi e aggregarsi dei saperi e con questo ne fissa anche i limiti e i vizi originari in un universo culturale dominato dallo «spirito di scissione». La teoria della II Internazionale non riusciva, neppure nei suoi punti più alti, a definire una criticità come limite interno dell’oggetto, come componente organica alla sua stessa costi22. Cfr. A. Labriola, I problemi della filosofia della storia, pre-lezione tenuta nella Regia Università di Roma il 28 febbraio 1887, ora in A. Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1973, vol. 1, pp. 5-32. 23. Indicativo il giudizio che Labriola formula su Gentile nella già ricordata lettera del 2 gennaio 1904: «Il Gentile m’era parso sempre un po’ infatuato di sé, un po’ presuntuoso… Ora poi mi pre sia pazzo» (Lettere a Benedetto Croce, ed. cit., p. 372).

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tuzione, ma la teorizzava solo come «antitesi» o come generico divenire. La risposta marxista a Croce doveva muovere da un diverso impianto epistemico e da una rinnovata capacità analitica. La risposta a Croce poteva venire solo da Gramsci. Si equivoca, però, quando si ritiene che in Croce vi sia un «pencolamento» della politica dall’organizzazione alla volontà e che Gramsci, critichi in Croce «l’isolamento che assume l’etico-politico, che perde perciò ogni capacità di “fissare” le ideologie»24. E, comunque, se pure questo aspetto è presente nella critica gramsciana, non mi sembra che sia questo il punto decisivo. Quasi che si possa contrapporre un Gramsci istituzionalista ad un Croce anti-istituzionalista; la politica come passione alla politica come organizzazione. Il punto decisivo è nell’analisi della società industriale e di massa, che Gramsci non vede soltanto come risultato storico dello sviluppo produttivo, ma come sistema di forme, che nel suo ciclico riprodursi mette in atto, consuma e riproduce saperi, tecniche, «potenze organizzate» e, in questo, allude costantemente ad altro da sé, ad una sua possibile mutazione morfologica, che può essere guidata e diretta in maniera consapevole e organizzata. Non vi è in questo solo una valutazione obiettivamente positiva dei meccanismi produttivi e istituzionali della società industriale e di massa, ma anche il tentativo di fissare la criticità del marxismo sul terreno del «governo» di quei meccanismi così «contraddittori». Il centro della critica gramsciana a Croce è, perciò, da ricercare nella discussione del concetto di «prassi», di «lavoro». «Il

24. La citazione è tratta dal saggio di N. Badaloni, Gramsci: la filosofia della prassi come previsione, in Storia del marxismo. Il marxismo nell’età della Terza Internazionale, t. II, Einaudi, Torino 1981, p. 303.

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Croce – scrive Gramsci – ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero»25. Il punto forte della filosofia crociana è, dunque, proprio in quella «spiritualizzazione del lavoro», su cui Labriola si limitava ad ironizzare, perché attraverso di essa proponeva al marxismo, come terreno di confronto, l’analisi della costituzione e dei rapporti tra le Forme, nonché del rapporto tra i diversi momenti della «prassi». Gramsci, però, non commette l’errore di pensare il «lavoro astratto» come entità sociologica «semplice» o di ridurla alla forza lavoro che si cristallizza nel valore. Egli vede il complessificarsi della società e dei saperi e la loro irriducibilità ad una sola dominante e ad una sola morfologia sociale, e, quindi, distingue ed analizza i vari momenti e le molteplici funzioni, che intercorrono tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra lavoro complessivo e tempo di lavoro necessario, tra tempo della vita e tempo di lavoro. In una pagina del quaderno su «americanismo e fordismo», Gramsci scrive: «Come si cammina senza bisogno di riflettere a tutti i movimenti necessari per muovere sincronicamente tutte le parti del corpo, in quel determinato modo che è necessario per camminare, così è avvenuto e continuerà ad avvenire nell’industria per i gestì fondamentali del mestiere; si cammina automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto ciò che si vuole. Gli industriali americani hanno capito benissimo questa dialettica insita nei nuovi metodi industriali. Essi hanno capito che «gorilla ammaestrato» è una frase, che l’operaio rimane «purtroppo» uomo e persino che egli, durante il lavoro, pensa di più o per lo meno ha molte maggiori possibilità di pensare, almeno quando ha superato la crisi di adattamento 25. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. cit., p. 1271.

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e non è stato eliminato: e non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate dal lavoro e che comprende che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco conformisti»26. Da questa necessità di «controllare» anche il «pensiero» dell’operaio nasce per il fordismo la spinta ad organizzare non solo il lavoro di fabbrica, ma tutte le forme di vita, tutto il tempo di vita del lavoratore (abitudini, costumi, rapporti sessuali, famiglia, ecc.). Ma, quel «controllo» della vita dell’operaio diviene necessario, perché esiste una discrasia tra tempo di lavoro e tempo di vita, che si sviluppa con la stessa società industriale. Questa discrasia tra l’operare e il «pensare» dell’operaio, questa scissione del «tempo» è posta nel momento in cui il lavoro viene concentrato nella fabbrica e a determinare quel lavoro partecipano meccanismi e forme differenziate di «governo» (ideologie, istituzioni, mercato). Sull’organizzazione e sulle caratteristiche del lavoro agiscono forze e sistemi complessi, che, da un lato, lo chiudono nello spazio della fabbrica, ma, da un altro, lo spingono a rapportarsi con ciò che è non-lavoro e che, tuttavia, partecipa al processo complessivo di «valorizzazione». Il lavoro riconosce il non-lavoro, la «vita». Riconosce il «pensiero» e attraverso il «pensiero» riconosce la propria determinatezza e parzialità sociale. L’orizzonte epistemologico e analitico, che viene per tale via disegnato da Gramsci, è, dunque, ben oltre la logica delle “grandezze” e la logica darwiniana e “genetica”. Gramsci, anzi, registra il sorgere di una «logica degli insiemi e delle relazioni» come processo di concentrazione e di formalizzazione delle differenze e delle tendenze opposte. Gramsci comprende che

26. Ivi, p. 2171. Sull’analisi gramsciana del fordismo fondamentale l’introduzione di F. De Felice al volume di A. Gramsci, Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino 1978.

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in quel farsi «wolfiano» e «berkeleiano» dell’episteme contemporanea vi è la trascrizione dei nuovi specialismi e dei nuovi linguaggi e vi è soprattutto il geroglifico di una società, che si fa disorganica, irriducibile alla esperienza di un solo soggetto fondamentale. Una società, che, comunque, pone questo soggetto come «fatto tra gli altri fatti» e che rende impossibile risalire da esso verso l’intero sistema delle forme. Per questo, diviene indispensabile una «logica degli insiemi e delle relazioni», una «logica di governo», che tenga le differenze tra questo soggetto e la «vita», tra questo soggetto e il «pensiero» come unica via possibile per una loro riconciliazione27. La scissione tra il tempo della vita e il tempo di lavoro, posta dal fordismo, non comporta, dunque, la centralità di quest’ultimo come misura del non-lavoro e del «tempo accumulato», ma, al contrario, pone la possibilità di una sua mutazione morfologica, una volta che sia stato riconosciuto nella sua «finitezza». Sotto questo profilo, un’analitica degli specialismi e delle scienze, che stia all’altezza di quella gramsciana mi pare rintracciabile solo in Wittgenstein. È nel Tractatus, infatti, che si instaura una relazione forte tra essere e pensiero. Nel Tractatus il «mondo» viene ad interiorizzarsi nella struttura del logico ed il «mistico», inteso come limite, è tolto, nel momento stesso in cui è posto. Per Wittgenstein, la sintassi logica non parla del «mondo», ma parla di se stessa ed in questo parlare

27. Non v’è dubbio che anche in Gramsci è talvolta presente l’idea di un possibile meta-linguaggio in grado di ricomporre tutti i linguaggi. Tuttavia mi sembra che la parte centrale della sua riflessione sia indirizzata nel senso di sottolineare la complessità e la difficoltà del nesso teoria-prassi e la irriducibilità degli specialismi ad un minimo comun denominatore ovvero alla «Grande politica». La figura dello «specialista + politico», che Gramsci tratteggia non annulla il primo termine nel secondo, ma evidenzia la necessità che il «politico» sia radicato e compresente allo «specialista».

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è il suo stesso discorso, che organizza, discute e critica. La criticità è questo stesso porsi del discorso28. Alle stesse conclusioni si giunge se si tiene conto della discussione sul concetto di «infinito» presente nelle Osservazioni filosofiche29. Qui, il concetto di «infinito» non è analizzato come un «limite» o una entità esterna e non conosciuta della proposizione, ma ne è una parte. L’infinito non è né un numero, né una totalità, da cui poter ritagliare uno spazio conoscitivo, ma è esso stesso parte finita di una proposizione finita. Ma, una volta che questo «infinito» è divenuto termine di una proposizione finita, di una relazione finita, esso inevitabilmente carica (dall’interno) tale relazione di una possibilità altra o, più esattamente, della possibilità di scrivere o disporre diversamente quella relazione. La necessità di trovare la «fondazione» e le leggi del sapere è così tolta e posta nella stessa determinazione interna della relazione. Si comprende, allora, come altre tendenze epistemologiche, da quelle fenomenologiche (Husserl) a quelle funzionalistiche (Cassirer)30, restino spiazzate rispetto all’impianto epistemico wittgensteiniano. L’uno, infatti, rinvia sempre ad 28. Scrive infatti Wittgenstein nel Tractatus logico-philophicus (tr. it. Einaudi, Torino 1964): «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (5.6), «Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo» (5.632). 29. Cfr. L. Wittgenstein, Il concetto di infinità nella matematica (1931) in Osservazioni filosofiche, tr. it. Einaudi, Torino 1981, pp. 267-277. Su Wittgenstein si vedano le pagine che gli dedicano M. Cacciari nel volume Krisis (Feltrinelli, Milano 1976) e F. Fistetti in La volontà di valore (Dedalo, Bari 1981). Si veda, inoltre, il saggio di W. Tommasi, Il problema del soggetto nel secondo Wittgenstein, in «il Centauro», n. 1, 1981, pp. 78-98. 30. Ci riferiamo in particolare per Husserl a La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, (tr. it. Il Saggiatore, Milano 1972) e per Cassirer alla Filosofia delle Forme simboliche (tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1961). Recenti ed utili osservazioni su questi autori si trovano nel già ricor-

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un soggetto costituente e decisionale; l’altro, alla esistenza di un ambiente esterno alle funzioni. Nell’uno e nell’altro caso, l’ottica epistemologica è quella della riduzione dell’«infinito», del non-conosciuto, del «resto» a ciò che è già dato come conosciuto, assimilato, e non v’è mai la possibilità di pensare le «leggi dell’oggetto» come momenti di un discorso la cui validità scientifica è affidata alla sua capacità di produrre conoscenze e di comunicare «esperienze». Si comprende, allora, che quando Gramsci afferma che esiste una «lotta per l’oggettività» e che anche la scienza è «una superstruttura, una ideologia»31 non intende alludere ad una fantomatica contrapposizione tra «scienza proletaria» e «scienza borghese», ma sottolineare il mutamento della nozione di

dato volume di F. Fistetti e in N. Auciello, La ragione politica, De Donato, Bari 1981, di cui si veda il cap. II. 31. Scrive Gramsci: «L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario… C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi delle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano» (Quaderni del carcere, ed. cit., p. 1416). Ed ancora: «ciò che interessa la scienza non è tanto dunque l’oggettività del reale, ma l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l’uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia. Anche nella scienza cercare la realtà fuori degli uomini, inteso ciò nel senso religioso e metafisico, appare nient’altro che un paradosso. Senza l’uomo cosa significherebbe la realtà dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività dell’uomo. Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe l’«oggettività»? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente, se si immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero. Per la filosofia della praxis l’essere non può essere disgiunto dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività dalla materia, il soggetto dall’oggetto; se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione senza senso» (ivi, p. 1457).

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scientificità, nonché dei concetto di «legge» e di «necessità» nelle scienze contemporanee. Vuole sottolineare che la «storia» dell’«oggetto» e le leggi, che regolano tale storia, non sono concepibili dal «punto di vista del cosmo in sè», ma solo dal punto di vista del suo «discorso». Sono «leggi» poste da questo stesso discorso e delimitate dai confini e dalle potenzialità del discorso stesso. L’analisi epistemologica si salda, a quest’altezza, con l’analisi sociale. Le «leggi» dello sviluppo storico e dell’economia sono anch’esse poste non dalla storia dell’oggetto, ma dalla sintassi e dalla morfologia di uno specifico linguaggio: esse non fondano né determinano alcun processo unilineare, ma è il discorso a costituirne l’ambito di funzionalità e a costituire la premessa logico-storica, il «posto che» in grado di renderle efficienti ed effettuali. La «storia», la teoria del valore, il mercato si definiscono solo a partire da questo «posto che»32. Ed è su questo «posto che», sulla possibilità del discorso di retro-agire su di esso che si accende la reale lotta per «l’oggettività» per l’egemonia. Gramsci, dunque, mostra di aver compreso la critica crociana e revisionistica ad ogni teoria deterministica e teleologica della storia; mostra di aver inteso il nuovo orizzonte antiobiettivistico e anti-soggettivistico, aperto dalla epistemologia contemporanea. Ma, soprattutto, mostra di aver accettato il nuovo terreno di confronto disegnato dal crocianesimo (e dalla grande cultura europea), che è il terreno su cui la contraddizione si fa «politica» e si riconosce nel «pensiero»; il terreno su cui la «passione inutile», diviene una Forma dello Spirito.

32. Su tale concetto cfr. Gramsci, op. cit., p. 1477 e sgg.

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Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce Michele Maggi

Una tradizione interpretativa acquisita, riprendendo cenni dello stesso Croce, fa risalire alla stagione della discussione sul marxismo l’impulso decisivo per l’affermazione dell’utile come modalità a pieno titolo dell’attività dello spirito, vale a dire del processo per cui continuamente si crea la realtà. Certo, quell’esperienza costituisce un passaggio decisivo in tal senso: a patto di non perdere di vista che essa non si esaurisce nella teorizzazione di una categoria da aggiungere a completamento della cornice sistematica, ma è elemento costitutivo e inseparabile di un intero percorso concettuale. Proprio negli interventi sul marxismo, infatti, emergono e cominciano a raccordarsi tutta una serie di disposizioni, percezioni, considerazioni che non risultano contenibili nei quadri culturali dati ma premono in direzione del loro ripensamento radicale. Le risposte saranno consegnate, dopo un intenso lavoro di definizione dei concetti, alle grandi opere teoriche del primo decennio del novecento. Ma alcuni punti qualificanti della filosofia della realtà che Croce verrà affermando con tutta la sua opera, si possono intravedere già nella discussione di fine secolo. Anzi si può dire che senza una disposizione filosofica già fortemente orientata quello stesso confronto non sarebbe

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stato attivabile e non si sarebbe attuato nelle forme effettivamente assunte. Nel culmine dello scontro sulla revisione o “crisi del marxismo” Antonio Labriola lo aveva rimproverato: “Tu disputi invece di esporre, e disputi solo con te stesso. Di fatti i non socialisti non ti saranno grati del tuo Marxismo, e i socialisti non ti sapranno grado che tu non sai dove collocare il Marxismo. In altri termini tu disputi con te stesso per sapere che uso devi fare del Marxismo, ma non per sapere che cosa esso sia”1. Labriola, la cui lettura colta lo rendeva inaccomodabile ai termini semplificati del dibattito dottrinario tra gli intellettuali socialisti, ma che nella sua difesa della Weltanschauung appassionatamente abbracciata soffriva tutto il travaglio delle conseguenze pratiche della discussione2, toccava in qualche modo un punto di verità. Ma se avvertiva la singolarità della posizione di Croce, era però lontanissimo dal coglierne il senso e le ragioni quando la attribuiva a un’attitudine da letterato distaccato e da “epicureo contemplante” “che mediti su le forme del pensiero ignaro della vita”3. Attraverso la riflessione sul marxismo Croce veniva piuttosto scoprendo la propria vocazione filosofica integrale.

1. Lettera del 28-2-1898, in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce. 1885-, 1904, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1975, p. 265. 2. “Io […] mi credo in dovere e in diritto di difendere come posso e finché posso il socialismo e la sua Weltanschauung: – e qui sta il busillis che a te non può entrare in capo, perché per la bontà del tuo temperamento, per la vita che meni, per la varietà degli studii che fai, per quel non so di letterario che è nelle tue abitudini mentali non vuoi intendere che uno che sia fatto come me possa essere intellettualmente offenso da certi ragionamenti” (dalla lettera del 9-10-1898, in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 302-303). 3. Così ancora nella lettera del 28-2-1898: Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 266.

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Ciò che si nota innanzitutto negli scritti poi riuniti nel volume del 1900 Materialismo storico ed economia marxistica, è l’atteggiamento di assoluta indipendenza con cui Croce si muove nella discussione sulle dottrine marxiste, tanto rispetto agli aderenti e simpatizzanti che rispetto agli avversari. Attraverso quella discussione era sembrata aprirsi la possibilità di mettere in circolazione le nuove tematiche entro un ambito culturale diffuso, sottraendole alla loro gestione primitiva, tutta chiusa sull’affermazione d’identità di un gruppo sociale separato. Come tale, essa si era sviluppata a metà degli anni novanta recependo e dando amplificazione culturale e risonanza internazionale a una crisi di orientamento della maggiore organizzazione socialista, diretta proiezione politica dell’opera di Marx e di Engels, il partito socialdemocratico tedesco. La contrazione del dibattito nei termini del cosiddetto Revisionismusstreit, conclusosi con il discrimine insuperabile tra una concezione del mondo che si vuole autosufficiente ed esclusiva e il mantenimento di uno spazio intellettuale comune, finirà per interrompere i canali di comunicazione appena tracciati e per respingere ogni possibilità di rapporto che non si sciolga in un’adesione integrale. Alla fine, ne uscirà sancita come alternativa pratica l’incomunicabilità delle due scelte che erano emerse inizialmente quali differenti orientamenti interpretativi: quella del marxismo come dottrina conclusa e totale e quella del marxismo come metodo in funzione di una più generale scienza sociale in fieri. Si mostravano in tal modo operanti come elemento di spartizione ideologica dei corpi intellettuali quelle tensioni che la contemporanea filosofia universitaria cercava di sistemare teoricamente mediante la distinzione tra oggettività scientifica e finalità ideali, tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Gli esiti di tutta la vicenda fanno ancor più risaltare la diversità del piano su cui si colloca Croce. L’atteggiamento indipendente di Croce non è un mero dato psicologico, è tutt’altro

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che il portato di un’indole distaccata e impartecipe, ma rivela già all’opera un principio di autonomia filosofica: senza tener presente questo è difficile comprendere ciò che fa la particolarità, e potremmo dire l’unicità, della posizione da lui tenuta di fronte al problema costituito dal socialismo di ispirazione marxista. Non si può parlare di un effettivo coinvolgimento, sia pur temporaneo: tale non è quel “sembiante di appassionamento politico” di cui parlerà nel Contributo4. Certo dall’attenzione per quelle esperienze e dalle stesse relazioni stabilite con i socialisti, e pubblicamente confermate nella campagna contro la repressione seguita ai moti del ’985, deriva una diversa disposizione, che comporta per Croce una messa a punto delle proprie opinioni politiche e un più generale ampliamento di veduta. Resta ferma però la negazione di ogni rapporto necessitante tra marxismo in quanto teoria e azione pratica dei socialisti. Cade con questo ogni possibilità di accettare quel nesso di dottrina e movimento che è la condizione stessa della nuova fede sociale, e intorno al quale, una volta bloccati i varchi che erano sembrati aprirsi con la discussione degli anni novanta, si stabilirà il mondo separato di un’ideologia totale. Al rapporto tra dottrine e movimento socialista, veramente, Labriola aveva cercato di dare il massimo arco di flessibilità attraverso una storicizzazione dei due termini (sviluppo della teoria e circostanzialità della storia); non era arrivato però a porre in dubbio l’assunto fondamentale. E a quell’assunto, pur nella forma “aperta” saggiata da Labriola, Croce non concede nulla. L’utilità della scienza è altra cosa dalla derivazione dell’agire da leggi scientifiche. La distinzione categoriale

4. Contributo alla critica di me stesso, in B. Croce, Etica e politica, IV ed., Laterza, Bari 1956, p. 395. 5. V. la corrispondenza pubblicata nel volumetto Turati e Croce, Un fascetto di lettere inedite offerto a Mario Agrimi per i suoi settantanni, Bibliopolis, Napoli 1998.

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tra conoscere e agire comincia a dar prova della sua efficacia come strumento di scomposizione del blocco ideologico. Croce è ancora lontano dal disporre dell’armatura concettuale sufficiente, eppure già si intravedono alcune linee di pensiero che premono in direzione di quella che sarà la sistemazione adeguata: “Tutte le leggi scientifiche sono leggi astratte; e fra l’astratto e il concreto non c’è ponte di passaggio, appunto perché l’astratto non è una realtà, ma uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare, direi quasi, abbreviato”6. I problemi che si addensano in questa formulazione apodittica verranno risolti soltanto quando le leggi saranno ascritte alla sfera delle operazioni pratiche e la conoscenza sarà definita come conoscenza concreta dell’unica realtà che è storia. Ma il punto fermo è “l’impossibilità di dedurre il programma sociale marxistico (ma anche ogni altro programma sociale) da proposizioni di pura scienza, dovendosi portare il giudizio dei programmi sociali nel campo dell’osservazione empirica e delle pratiche persuasioni”7. Se questa affermazione inficia la pensabilità stessa di una filosofia socialista, del problema non ci si disbriga però con una confutazione teorica. Anche qui Croce batte una via diversa da quelle dei contraddittori e oppugnatori del marxismo (e distinta altresì da quella sulla quale si muove, nella sua critica del materialismo storico, Giovanni Gentile, con un’impostazione filosofica peculiare, precocemente definita e insieme strutturalmente definitiva). Non che Croce sottovaluti l’importanza di un contrasto condotto sul piano propriamente teorico: il rifiuto di concedere al marxismo lo statuto di teoria della storia e della società, anzi la destituzione di significato della ricer6. Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 107. 7. Ivi, p. 117.

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ca stessa di quella “comune e generale scienza sociale” che Labriola vedeva culminare nella “dottrina materialistica”8, si specifica nell’esame ravvicinato dei pilastri stessi della dottrina di Marx, quali le teorie del plusvalore e della caduta del tasso di profitto. E sono argomenti non privi di risonanza nella discussione internazionale sul marxismo. Ma se la scelta pratica lo tiene esterno alla cerchia degli adepti, la prospettiva teorica di Croce travalica i confini entro cui variamente si muovono i critici del marxismo. La sua è una collocazione indipendente e partecipe insieme, che ha poche corrispondenze nei rispettivi schieramenti, ed è destinata a rivelarsi nel lungo periodo solitaria e incomparabile per intelligenza storica e coerenza concettuale9. Nello scritto che accompagna nel 1938 la ristampa dei saggi di Labriola, Croce riassumerà in questi termini la propria posizione di allora: “Il materialismo storico mi si dimostrò doppiamente fallace e come materialistico e come concezione del corso storico secondo un disegno predeterminato, variante della hegeliana filosofia della storia. Ma, d’altra parte, lo vedevo nascere da una così cocente esperienza storica, da una visione così penetrante della gran parte che l’economia ha nelle umane vicende, che non ero disposto a passarvi accanto con la sufficienza di chi, dimostrato l’errore di una dottrina, reputa di essersi sbrigato di tutto l’altro che la dottrina contiene e dell’esigenza che l’ha fatta sorgere”10. Denegato come filosofia, il

8. Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a c. di E. Garin, Laterza, Bari 1965, p. 93. 9. Non è sostenibile l’affermazione che “in Italia, per esempio, i futuri idealisti Croce e Gentile furono marxisti” (L. Villari, L’insonnia del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 26). 10. Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 286.

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marxismo mantiene tutta la sua importanza in quanto realtà e azione pratica. Non si trattava per Croce solo di un bilancio postumo. Recensendo sul “Giornale d’Italia” del gennaio 1910 il volume di Emil Hammacher sul sistema filosofico-economico del marxismo, aveva confessato di essere stato preso da un “senso di impazienza e di fastidio” malgrado il consentimento con tante delle analisi ivi contenute e la conferma che vi trovava di critiche e dubbi da lui stesso manifestati a suo tempo. Quella sensazione, Croce se la spiegava con “un’altra idea, che anch’essa fece parte, un tempo, della interpretazione da me fornita del marxismo”. “Una critica del Marx, concepita come critica del filosofo Marx, mi sembra, ora come allora, […] unilaterale e ingenua”. Marx certo ebbe formazione culturale filosofica e ambizioni di teorico; “ma fu, sostanzialmente, uomo pratico, rivoluzionario, agitatore, consigliere politico del movimento proletario; e chi consideri il marxismo, cioè il complesso di teorie ch’egli inventò e l’Engels svolse in alcune parti, come un sistema, e si affanni a rinsaldarlo o a disgregarlo teoricamente, corre rischio di lasciarsi sfuggire il carattere originale e fondamentale di quel fatto storico”. Può non essere inutile ribadire l’insostenibilità teorica di quelle dottrine, per quanto si tratti – diceva Croce – di una polemica ormai attardata. “Senonché la filosofia, nel riprendere possesso dei propri beni e nel togliere al marxismo la maschera scientifica, dev’essere consapevole di avere tolto una maschera e non punto confutato il marxismo, inconfutabile perché non maschera ma realtà, non pensiero ma azione, e che come tale ha operato e opera ancora nella vita moderna”11. Croce poteva qui riprendere le asserzioni contenute nella prima relazione alla Pontaniana, del 1896, quando aveva affer11. Recensione a E. Hammacher, Das philosophisch-ökonomische System des Marxismus, in B. Croce, Conversazioni critiche, serie I, IV ed., Laterza, Bari 1950, pp. 296-297, 305.

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mato essere il marxismo non una nuova filosofia della storia e nemmeno, propriamente, un nuovo metodo ma “una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico”: per cui, rispetto alla storiografia, il suo apporto “si risolve […] in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la storia”12. Erano indicazioni che si prestavano ad essere intese in senso riduttivo, e tali dovevano necessariamente suonare per tutti coloro che nel marxismo difendevano o impugnavano una teoria filosofica definita. Pure, in quelle indicazioni c’era qualcosa che andava ben al di là di un allargamento dell’oggetto e del campo degli studi storici, anche se non risultava percepibile agli interlocutori (dagli adepti più rudemente dottrinari, a Labriola, o a Gentile) ed era ancora nebuloso per lo stesso Croce. A noi, che possiamo guardarlo alla luce della successiva sistemazione filosofica, è dato leggere già nei primi scritti sul marxismo l’avvio di un percorso che porterà Croce a un nuovo modo di intendere la funzione intellettuale e a una conseguente ridefinizione dell’intero quadro culturale. Quel che si impone infatti all’attenzione con l’opera teorica e politica di Marx, e attraverso la letteratura e i movimenti collettivi da essa ispirati, non è semplicemente una messe di esperienze storiche e di dati sociali da aggiungere ai materiali su cui si applica il lavoro storiografico. Se il marxismo non è scienza, esso obbliga a riflettere sui concetti della scienza, additando una realtà che deborda dal procedimento devitalizzante e depurante delle astrazioni. Se il marxismo non è filosofia, vale quale fermento per il pensiero filosofico. È qui lo stimolo per una ricerca che non si trova già più allo stadio embrionale di un’insoddisfazione e di un’insofferenza generica,

12. Sulla forma scientifica del materialismo storico, in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 25 e 30.

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ma punta decisamente in avanti senza alcuna soggezione per i parametri culturali accreditati. Non bisogna credere, premette Croce nel primo dei saggi, “che il progresso intellettuale consista solamente nel perfezionamento dei concetti rigorosi e filosofici. Accanto a tali concetti, non hanno forse valore altresì le osservazioni approssimative, la conoscenza di quel che di solito accade, tutto ciò insomma che si chiama l’esperienza della vita, e che si può esprimere in formule generali ma non assolute?”13. E nel più ampio saggio del 1897: “È, senza dubbio, cervellotico l’aborrimento che professano taluni per la scienza pura e per le astrazioni, giacché quei procedimenti intellettuali sono indispensabili alla conoscenza stessa della realtà concreta; ma non è meno cervellotica l’esclusiva stima delle proposizioni astratte, delle definizioni, dei teoremi, dei corollarî: quasi che in ciò consista non si sa quale aristocrazia dello spirito umano. […] E dalle reti a larghe maglie delle astrazioni e delle ipotesi scivola, inafferrabile, la realtà concreta, ossia il mondo stesso in cui noi viviamo e ci moviamo, e che c’importa conoscere”14. Il mondo in cui viviamo e ci moviamo: proprio in questi scritti sul marxismo risuona, forse per la prima volta, l’eco di quella frase del discorso di Paolo all’Areopago così amata da Croce. In ipso vivimus et movemur et sumus: compare così, quasi cifra di un riconoscimento iniziatico, un accenno a quell’unica divinità che è la stessa realtà tutta vivente e creatrice, la consapevole compenetrazione con la quale è presupposto e risultato dell’intero lavoro filosofico di Croce. Il marxismo, allora, non vale soltanto come dato sociale che si offre alla conoscenza, ma come sintomo di uno spazio cultura-

13. Sulla forma scientifica del materialismo storico, ivi, p. 26. 14. Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, ivi, p. 117.

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le che si viene aprendo e in cui convergono spinte ed esigenze alle quali non è più in grado di far fronte la scienza universitaria (non il positivismo, ma nemmeno quel neokantismo che, secondo una definizione di molti anni dopo, non era che ‘‘un positivismo meno inerudito”15). Lo spazio è quello di una filosofia della vita, della realtà, dell’attività. In questo spazio vanno individuati i motivi della fortuna e fascinazione culturale che può provenire dal marxismo, al di là delle stesse formule filosofiche stantie di cui questo si riveste (materialismo e determinismo economico, storia universale a disegno). Ma lì sono anche da ritrovare i motivi di quella sostanziale incomunicabilità (Labriola è un caso a sé) che contraddistingue il rapporto (quando un rapporto si può riscontrare) tra il lascito letterario di Marx e il mondo ufficiale degli “alti” studi: cosa particolarmente evidente proprio in Germania, e proprio nei settori che ci si aspetterebbe più pronti a un confronto teorico effettivo, che si tratti del socialismo delle scuole neokantiane o della sociologia di Max Weber. Ne esce ancor più in evidenza l’eccezionalità, fin dall’inizio, della collocazione di Croce. Un Croce ancora al suo noviziato filosofico, ancora lontano dal possedere l’adeguata strumentazione concettuale, eppure già libero da impacci e soggezioni di scuola, psicologicamente se non teoricamente, nell’animo se non nell’attrezzatura logica; un Croce già ben piazzato per misurarsi su questo spazio nuovo senza farsi incantare e fagocitare dalla “filosofia della prassi” ma anche senza lasciarsene sfuggire il valore sintomatico; un Croce che si prepara a corrispondere a esigenze che si rivelano anche per questa via. In uno scritto del 1941, Panlogismo, misticismo e distinzione, ricordando la fermezza nel non transigere sui punti distintivi

15. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, XIV ed., Laterza, Bari 1966, p. 143.

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della propria concezione, l’attribuiva non a “peccato di orgoglio né a durezza di ostinazione” ma a “un qualcosa di moralmente imperioso” che così si faceva valere; e aggiungeva: “Direi che era un moto istintivo di difesa, se non sapessi che quello che in questi casi si chiama istinto, è un pensiero di verità, apparso dapprima come in barlume e che, mentre si viene lentamente svolgendo nel lavorio scientifico, già sta nel centro dell’anima e dirige quel lavoro stesso”16. Questo pensiero di verità possiamo trovarlo già all’opera negli scritti sul marxismo. Lo si riconosce nell’autonomia con cui Croce si muove rispetto alle diverse diramazioni canoniche della tradizione filosofica. Il programmatico riconnettersi di Croce, per scopi didascalici, a questa tradizione non deve oscurare tale autonomia. Non si tratta di una rottura (Croce tiene fermo, anzi intende rafforzare, il senso della continuità del pensiero filosofico) ma certo di un ripensamento libero da obbligazioni di scuola e da confini professionali, attraverso il quale si viene dando determinazione concettuale e comunicabilità a un’intuizione della realtà diretta e totale: così rispondendo all’interessamento e bisogno originario per una forma culturale “tutta cose, sempre in vivace ricambio con la vita reale”17. Certo, lo storicismo assoluto, come Croce preferirà chiamare la propria concezione della realtà, è di là da venire, o almeno di là da definire. Per ora si può cogliere l’orientamento piuttosto in negativo, per ciò che è assente piuttosto che per ciò che c’è. Significativo in tal senso è che Croce risulti fin dall’inizio non coinvolgibile in alcuno dei piani sui quali possono operare

16. Panlogismo, misticismo e distinzione, in B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 246. 17. Contributo alla critica di me stesso, in B. Croce, Etica e politica, cit., p. 410.

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le suggestioni filosofiche provenienti dalle opere di Marx e sui quali resta bloccata la discussione sul marxismo: non in quello della filosofia della storia né in quello della gnoseologia o scienza della società. Croce rifiuta qualsiasi idea di una legge generale che determini il corso storico indicandole l’orientamento e il senso del compimento futuro. A quella prospettiva, che è il cemento essenziale dell’adesione alla nuova fede, restava pur sempre legato Antonio Labriola, per il quale il “socialismo scientifico” “annuncia l’avvento della produzione comunistica […] come il resultato dell’immanente processo della storia”18. Ma Croce non è nemmeno disposto a dare ascolto alle sirene di un metodo scientifico da estendere alla conoscenza della società. Liquida senza esitare le elucubrazioni metodologiche, tra positivismo e neokantismo, di Rudolf Stammler circa la costituzione della nuova scienza sociale: “il complesso concreto delle convivenze, i fatti sociali, appartengono alla storia, che li descrive”; e la conoscenza storica è comprensione dei fatti nella loro “schietta realtà”, che si serve secondo le sue occorrenze dei concetti delle scienze ma è altro dalle scienze19. Certo siamo ben lontani, in questo testo del 1898 che non ha ancora risolto le approssimazioni e le indeterminazioni concettuali della memoria del ’93 sulla storia, dall’acquisizione della conoscenza come interamente conoscenza storica e della realtà come sempre e tutta storia. Quello che conta, in ogni modo, qui come là, è l’intento direttivo: salvaguardare la storia significa difendere la concretezza della realtà da ogni impoverimento e ogni dequalificazione. Dunque, né la metafisica della storia, né la gnoseologia dell’oggettivazione scientifica; né la sopraffazione della realtà da parte di un principio ad essa

18. Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, cit., p. 117. 19. Il libro del prof. Stammler, in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 128 e 132.

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esterno, né la deprivazione di realtà da parte di una funzione astraente da essa separata. Come interviene in tutto ciò l’esperienza del marxismo? In quanto filosofia della storia, in quanto nuova metafisica a base materialistica, cioè nelle sue pretese di teoria generale della storia e della società, il marxismo rimane tutto da rifiutare. “La teoria materialistica della storia è falsa – ribadisce nella ‘Critica’ del 1903 – in quanto, essendo un complesso di acute osservazioni empiriche, pretende darsi l’aria di teoria assoluta e filosofica della storia”20. Il marxismo può servire però, come richiamo alla concretezza della realtà, contro la scienza positivistica e contro la filosofia disseccata delle scuole. Entrano attraverso di esso in circolo nella vita spirituale i forti succhi della filosofia hegeliana: non lo Hegel della metafisica della storia, lo Hegel teologico e panlogistico, ma lo Hegel della dialettica, cioè della concezione per cui si ristabilisce il legame tra pensiero e mondo, tra filosofia e pienezza della realtà nel suo intimo contrasto vitale. Le conclusioni possiamo leggerle proprio nella recensione a Hammacher prima richiamata: “L’hegelismo fecondò così l’azione come l’osservazione sociale del Marx, e la dialettica vi concorse come uno strumento possente e vigorosamente maneggiato, sebbene ignoto o mal noto nell’intima sua costituzione logica. Pure, nonostante la povertà teorica, anzi a cagione di questa povertà, è accaduto che il marxismo sia stato uno dei mezzi più efficaci pel ravvicinamento degl’intelletti moderni allo Hegel, e per la ripresa dei problemi della filosofia idealistica”21. A questo punto, dopo la Logica e la Filosofia della pratica, e dopo il saggio su Hegel, al marxismo si può chiaramente guardare come a un’esperien-

20. Rec. a A. Loria, Marx e la sua dottrina, in B. Croce, Conversazioni critiche, serie I, cit., p. 292. 21. Rec. a E. Hammacher, ivi, p. 304.

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za conclusa, surrogato e insieme incentivo per una superiore filosofia della realtà. Quando il problema si riproporrà, sarà su un altro piano, in un quadro mutato dalla grande guerra europea, con le sue perdite devastanti, con la fine degli imperi centrali, con le rivoluzioni di Russia, con la decomposizione di ordini statali e classi dirigenti. Tensioni e scompensi ideali preesistenti, e a cui si era alimentata la psicologia di guerra, con la mobilitazione degli intellettuali sugli opposti fronti, confluiranno in quella temperie diffusa che Croce descriverà nella Storia d’Europa, qualificandola e raccogliendola sotto la denominazione generale di “attivismo”. A quella temperie contribuirà fortemente, conservando i suoi caratteri specifici e insieme esercitandovi tutta la sua virulenza, il marxismo che, sotto l’effetto della sua incarnazione in un potere statale incondizionato, potrà pienamente esplicare la sua natura di ideologia totale. A quel punto il marxismo si presenterà non più nel suo carattere di esperienza storica filosoficamente ibrida, eppur portatrice di elementi realistici e di stimoli vitali rispetto alla scienza universitaria, ma con la sua natura di religione di massa che, non più contenuta da aristocrazie civili e intellettuali pari al loro compito, tende a livellare ogni realtà e assorbire in sé ogni determinazione culturale. Anche rispetto ad esso, e a un certo momento soprattutto rispetto ad esso, dovrà farsi valere, a difesa del principio di realtà, la concezione filosofica di Croce22. Il confronto col marxismo, allora, non sarà più con un insieme di fatti storici e di dati sociali, ma si rivelerà uno scontro di religioni, rispetto al quale la filosofia accademica si

22. Per tutta questa fase successiva rimando a M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli 1998, in part. pp. 284-308, e Id., L’Italia che non muore. La politica di Croce nella crisi nazionale, Bibliopolis, Napoli 2001 (soprattutto i capitoli II e III).

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conferma insieme impotente e ignara. In quanto ideologiareligione il marxismo appaga bisogni, anche intellettuali, a cui quella filosofia non può rispondere.

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Marxismo e storia tra Labriola e Croce1 Giuseppe Cacciatore

Labriola, come è stato a più riprese osservato2, divenne punto di riferimento essenziale della vita culturale ed accademica nazionale, e ciò proprio per quella capacità di aver saputo congiungere il “forte hegelismo” del suo maestro Spaventa, la lettura critica di Marx e la non secondaria funzione svolta “nel dibattito di idee e di programmi” che caratterizzò le vicende del movimento socialista in Italia e in Europa. Sarebbe, infatti, difficile prescindere dal decisivo ruolo assunto da Labriola nel processo di fissazione dei peculiari caratteri assunti dal marxismo teorico italiano nella svolta di secolo, come anche da quella funzione propulsiva e propositiva che egli ebbe nell’intenso dibattito, ampliatosi su scala europea, a proposito della

1. Ho parzialmente riutilizzalo per questa relazione i materiali impiegati nel mio saggio Marxismo e storia nel carteggio Labriola-Croce, in G. Giordano (a cura di), Gli epistolari dei filosofi italiani (1850-1950), Soveria Mannelli (CZ), 2000, pp. 89-112. 2. Cfr., tra i più recenti contributi, le brevi ma pregnanti linee generali sulla centralità di Labriola in quella cruciale stagione del processo di formazione della “nuova Italia”, fissate da G. Galasso nella Prefazione a Il carteggio di Antonio Labriola conservato nel fondo Dal Pane, a cura di S. Miccolis, in “Archivio storico per le Province napoletane”, CVIII-CIX, 1990-1991, pp. VI-VII.

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cosiddetta “crisi” del marxismo. D’altronde fu, com’è noto, proprio la lettura dei saggi labrioliani sul materialismo storico l’occasione “esteriore” dell’inserimento a pieno titolo del giovane Croce in questo dibattito, malgrado la sua più volte dichiarata riluttanza ad uscire dal terreno esclusivamente teorico e ad essere coinvolto in una discussione pratico-politica. Se poi, al di là delle pur rilevanti questioni connesse ai percorsi individuali, si riflette al dato più generale – anch’esso ormai generalmente acquisito negli studi e nelle ricerche dedicati a questo cruciale periodo – della significativa connessione tra lo studio e la critica del marxismo e l’avvio di autonome riconsiderazioni e riformulazioni dell’idealismo, in Croce come in Gentile, esce ancor più confermata la grande rilevanza che ha nella storia culturale italiana la riflessione critica di Labriola. Senza questo snodo centrale si capirebbe ben poco della polemica antipositivistica di Croce e del sempre più intenso concentrarsi del suo interesse filosofico verso i problemi di teoria della storia e verso le “distinte” articolazioni, estetiche e pratiche, della realtà dello spirito e, altrettanto poco, si capirebbe della coeva, sia pur divergente, riforma gentiliana della dialettica, non a caso inaugurata dal saggio su Marx e dalla prima definizione della filosofia della praxis. Alla luce di queste premesse si può dunque guardare al rapporto Labriola-Croce sotto il doppio registro, da un lato, del progressivo maturarsi delle riflessioni crociane verso una personalissima rielaborazione dell’hegelismo e della filosofia dello spirito e, dall’altro, del percorso che avrebbe condotto Labriola ad una altrettanto personalissima riformulazione del marxismo critico. Infatti, quale che sia il giudizio sulle valutazioni retrospettive che Croce dava del suo iniziale “entusiasmo” per il marxismo3, resta, anche quando si registra il punto massi-

3. Già nella prefazione alla prima edizione di Materialismo storico ed economia marxistica (datata luglio del 1899), Croce, consapevole del fatto

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mo di distanziamento critico4, la significativa ammissione di un felice paradosso, e cioè che proprio l’incontro con Marx e con i saggi di Labriola avevano determinato il suo definitivo passaggio alla filosofia. Era in Marx, infatti, e non nelle stanche ed ossificate ripetizioni degli ultimi hegeliani meridionali, che si poteva trovare “un hegelismo assai più concreto e vivo”. Era in Marx – e non nelle “insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche” – che si poteva individuare un serio elemento di continuità con le “migliori tradizioni della scienza politica italiana”. Era nella ventata di aria nuova che il marxismo introduceva nella storia culturale italiana tra il 1890 e il 1900 che si poteva cogliere il rinnovamento degli studi storici ed economico-giuridici, oltre che naturalmente filosofici. “Per quella dottrina, penetrata nelle università insieme col giovani-

che i suoi saggi avevano costituito materia di discussione nelle “controversie” sul marxismo, spiega che il finale approdo critico non era da interpretare come un passaggio dall’ortodossia all’eresia, giacché già nei saggi del 1895-1896 egli discuteva, prendendone le distanze, le posizioni di Labriola. Ciò non toglie, però, il riconoscimento dell’entusiasmo provocato dalla “prima lettura dell’opera geniale di uno scrittore come Marx”, subito però accompagnato dal “disgusto per le pedanterie, i sofismi e le vacuità dei suoi prossimi scolari”. Bisogna poi considerare l’intervento del 1911 (La morte del socialismo) – ristampato in Cultura e vita morale, Bari 19553, pp. 143159 – in cui, naturalmente, la sottolineatura del distacco è ancora più netta e, tuttavia, non si manca di richiamare quel “sentimento di aver messo il piede sopra una via, che era la ‘via regia dell’umanità’”, quella “dolcezza di chi viene iniziato ai misteri di una religione, quando Antonio Labriola prestava a me (e solo a me) alcuni allora rarissimi opuscoli del Marx”. 4. Naturalmente la bibliografia su Croce e il marxismo è talmente ampia – a partire dal libro, peraltro carissimo allo stesso Croce, di A. Mautino, La formazione della filosofia politica di B. Croce (Torino 1941) – da non poter qui essere richiamata. Mi limito a ricordare le pacate e argomentate interpretazioni di G. Cotroneo, Una teoria filosofica della libertà, intr. a B. Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Milano 1986 (in part. cfr. il paragrafo Il “distacco” dalla politica, pp. 31 e ss.) e di G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Bari 2002 (cfr. in part. il cap. IV, L’incontro con Marx, pp. 124 e ss.).

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le socialismo, gli studi storici furono, dopo lunga decadenza, ritolti alla incompetenza dei puri filologi e letterati, e dettero buoni frutti di storia economica, giuridica e sociale; e il pensiero filosofico ne venne assai stimolato per la ripresa di operosità alla quale si andava allora preparando”5. Se si tien conto di questi essenziali passaggi, non apparirà certo esagerato affermare che il carteggio Labriola-Croce costituisce un documento fondamentale ed imprenscindibile non solo al fine di approfondire e meglio capire, per cosi dire, la “storia interna” del rapporto tra i due filosofi, ma anche e soprattutto per comprendere una fase cruciale della storia filosofica e politico-culturale italiana tra Ottocento e Novecento. Sui caratteri generali del carteggio Labriola-Croce, sugli aspetti più significativi di un rapporto personale che fu sempre, anche nei momenti di più forte divaricazione intellettuale, di affetto e devozione, sulle fasi salienti del definirsi e del primo evolversi, sul lato crociano, di una autonoma prospettiva di filosofia storicistica delle distinte forme dello spirito e del definitivo maturarsi, su quello labrioliano, di una originale rielaborazione della concezione critico-materialistica della storia (senza escludere, naturalmente, la pregnanza di valutazioni ed atteggiamenti nei confronti di orientamenti filosofici contemporanei come il positivismo e il neo-kantismo) ho già avuto modo di soffermarmi in altra sede6. Qui vorremmo, piuttosto, concentrare l’analisi sui due fili conduttori filosofico-culturali che caratterizzano, per così dire, il nerbo del carteggio nel periodo che va dal 1895 alla morte di Labriola: il tema della storia e la discussione sul socialismo e sul marxismo. Anche se Croce è già intervenuto, con la memoria del 1893, con una

5. Cfr. Materialismo storico ed economia marxistica, prefazione alla terza edizione (1917), Bari 19416, pp. XII-XIII. 6. Cfr. G. Cacciatore, Marxismo e storia nel carteggio Labriola-Croce, in G. Giordano (a cura di), Gli epistolari dei filosofi italiani, cit., pp. 89-112

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sua personale riflessione ed originale posizione nel dibattito italiano ed europeo sul ruolo e sul significato della conoscenza storica, la discussione sembra animarsi soltanto a partire dal 1895, dall’anno, cioè, in cui il giovane studioso si offre di farsi editore del primo dei saggi labrioliani sulla concezione materialistica della storia7. Anche se all’inizio Labriola oppone qualche resistenza alla proposta dell’amico8, alla fine cede, non solo esprimendo gratitudine9, ma anche sottolineando che 7. Quando Croce invia a Labriola La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, questi si limita a uno scarno commento. “L’ho letto e mi pare che avete ragione. Dico mi pare, non per cautela di recensente, ma perché in questo momento durerei gran fatica a rifarmi in quell’ordine di considerazioni, avendo la mente rivolta ad altro” (lettera dell’11 giugno 1893, A. Labriola, Epistolario, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Roma 1983, II, p. 420). Tuttavia, già da alcune lettere del 1894, si capisce che Labriola, pur continuando a partecipare con intensità al dibattito socialista europeo, sta riportando il centro del suo interesse sui problemi teorici della storia e della scienza storica. Ne fa fede la continua, a volte petulante, richiesta di avere in prestito la seconda edizione del Lehrbuch der historischen Methode del Bernheim (cfr. lettere del 1 gennaio, 21 gennaio, 9 marzo, 13 marzo, 7 luglio, 24 luglio e solo da una lettera del 2 ottobre si apprende che il sospirato libro è arrivato). Ancora nel 1895 (lettere del 23 marzo, 16 maggio, 12 giugno, 15 giugno, 25 giugno) Labriola chiede di nuovo in prestito il testo dello studioso tedesco. Ma un annuncio preciso del volgersi di Labriola a un più articolato approfondimento del tema della storia è nella lettera dell’8 dicembre 1894. “Vorrei che fossi quest’anno a Roma per udire le mie lezioni di filosofia della storia, nelle quali raccolgo finalmente sotto il titolo ‘la concezione materialistica della storia’ tutti i miei corsi degli anni precedenti (– e in forma sistematica)”. Labriola ricorda qui, tra gli altri, i corsi del 1887 su Vico, del 1887-88 su Historica e filologia, del 1890-91 su Morgan (cfr. Epistolario, cit., p. 537). 8. Cfr. lettera dell’8 marzo 1895 (ivi, p. 570). 9. “Voi vorreste impegnarmi a metter fuori in una serie di pubblicazioni più o meno estese quello che io ho imparato di filosofia della storia in senso materialistico (– la qual denominazione del resto antipatica si può evitare di metterla in prima linea e nei titoli –), e per questo rispetto la mia gratitudine, come non ha limiti così non trova adeguata espressione” (lettera del 15 maggio 1895, ivi, p. 584).

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è forse venuto il momento di passare dall’appunto didattico e dallo schema scheletrico alla “monografia arrotondata”. Ma la lettera è importante perché è rivelatrice dello stato di profonda insoddisfazione di Labriola per il modo in cui procede il dibattito politico italiano (e, in particolare, per la piega assunta dalle vicende relative al movimento socialista italiano). Qui vi è l’esplicita dichiarazione della rinuncia, almeno nell’immediato, alla pratica politica e della intenzione perciò di intensificare il momento dell’analisi teorica. E l’esigenza di mettere sulla carta i punti essenziali ai quali veniva gradualmente pervenendo la propria rielaborazione critica del marxismo è esplicitamente intenzionata dalla consapevolezza di quanto arretrato fosse il livello di maturazione critica del socialismo ufficiale italiano rispetto ai nuovi contenuti del dibattito europeo sul marxismo. “Sarò curioso di vedere – scrive a Croce il Labriola, sempre in riferimento alla progettata edizione dei suoi saggi – con quanti palmi di naso ci rimarranno i socialisti italiani. Perché qui in Italia siamo ancora al punto che il socialismo scientifico (che non è altro se non la nuova concezione della storia) bisogna ancora rivelarlo!”10. Come si può agevol10. Ivi, p. 589 (lettera del 25 maggio 1895). In una lettera di poco precedente (16 maggio 1895), Labriola – a testimonianza di come in quel periodo fosse attratto dai temi teorici ed anche preoccupato che l’interesse mostrato da Croce per analoghe questioni venisse correttamente, per così dire, orientato – fornisce indicazioni bibliografiche. “Io vi consiglio di leggere il libro di Engels contro Dühring […]. È il più grande libro di scienza generale che sia uscito da penna di socialista – e inoltre il libro obbiettivamente di maggior valore che ci sia ora nella concezione generale filosofica” (ivi, p. 585). Dove, naturalmente, è superfluo notare che l’ammirazione e l’amicizia per il vecchio compagno di Marx inducono ad una evidente sopravvalutazione del libro. Anche nella lettera del 12 giugno Labriola si prodiga in consigli di letture marxiste e annuncia l’invio di rari ed introvabili opuscoli: quelli sul 18 Brumaio e quello sulle lotte di classe in Francia. Quanto all’atteggiamento severamente critico di Labriola nei confronti dei socialisti italiani, si potrebbero richiamare non pochi luoghi sia della sua opera, sia delle lettere. Qui basta, per tutti, il passo che si può trovare nella lettera a Karl Kautsky

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mente vedere, il dato più significativo che qui emerge è la certo non estrinseca scelta di tenere insieme, come se fossero due inseparabili facce dello stesso problema, la ricerca teorica sui problemi della storia e l’approfondimento dei principi del marxismo11. È lo stesso processo – anche se in Croce, com’è noto, ciò condurrà gradualmente al distacco teorico e pratico dal marxismo – che avrebbe indotto il giovane e brillante interlocutore di Labriola a ridurre la portata del materialismo storico alla sua rilevanza per il rinnovamento dei metodi e dei contenuti stessi (l’economico, il dato giuridico-statale, il concetto di forza, etc.) della scienza storica. “Io sto ruminando (dentro di me) – scrive Labriola – il secondo opuscolo: forse con questo titolo La ricerca del terreno storico”12. Proprio nei passaggi di alcune lettere a Croce – oltre che naturalmente nei suoi scritti – emerge con chiarezza un altro es-

del 23 marzo 1896, che, tra l’altro, riprende lo stesso motivo utilizzato nella lettera a Croce sopra citata. “Io per ora sento innanzi tutto il dovere di mettere gli italiani in grado di conoscere in che consiste il socialismo scientifico. A ciò non giovano le semplici polemiche, e non bastano le traduzioni dalle lingue straniere. Ci vuole l’assimilazione secondo l’angolo visuale del cervello nazionale. Qui il socialismo generico fa molto progresso – ossia ha molta diffusione: Loria e la cricca letteraria della Critica sociale hanno fatto un gran male” (Epistolario, cit., vol. III, p. 645). 11. Questa connessione è del tutto evidente se si legge la lettera del 16 novembre 1895, nella quale Labriola elenca all’amico i punti essenziali trattati nelle prime lezioni del corso di filosofia della storia. Infatti, accanto ai problemi della “mutazione delle forme economiche” e della “psicologia sociale”, Labriola ha dato significativo spazio alla esigenza che “la dottrina ritrovata da non storici trovi il suo complemento nell’arte del racconto fatto da storici di professione” (Epistolario, vol. II, p. 621). Insomma si profila già il cruciale argomento, su cui Labriola spese le energie degli ultimi anni, del raccordo tra filosofia e scienza della storia. 12. Lettera del 25 giugno 1895, cfr. ivi, p. 599. Il titolo del secondo opuscolo sarà, com’è noto, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, cfr. la lettera del 4 gennaio 1896 (Epistolario, cit., vol. III, p. 629).

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senziale aspetto di questo individuato rapporto tra elaborazione del marxismo critico e concezione della storia13. Esponendo all’amico il graduale lavoro di elaborazione dei contenuti del secondo saggio, Labriola mette costantemente in proficuo nesso la “delucidazione” dei principi costitutivi – e dunque depurati dalle incrostazioni deterministiche e positivistiche – del materialismo storico e la sua peculiare concezione critica e antidogmatica della storia. Si comprende agevolmente, allora, come alla polemica contro il “verbalismo” e il “concettualismo”, contro la “fraseologia” e contro l’uso di rigide categorie (materia, caso, logica delle cose), si affianchi quella “contro l’astratto tradurre tutta la storia (compresa la psicologia sociale) in categorie economiche – contro il naturalismo immediato (p.e. estendere alla storia il Darwinismo)”14. È anzi il modo stesso in cui Labriola intende il rapporto tra socialismo scientifico e storia (nel senso, cioè, dell’impossibilità di comprensione del primo senza un approfondimento dei metodi e delle teorie della seconda) a indurlo a rimproverare l’amico per il suo attardarsi in ricerche erudito-letterarie. Egli aveva sperato che la temporanea “conversione al socialismo” da parte di Croce – certamente non intesa nel senso di vederlo andare “a spasso per le vie col berretto frigio in capo” – preludesse ad una diversa “orientazione mentale”, ad una “rivoluzione dello spirito”. Labriola rispetta a malincuore le decisioni dell’amico, ma non può fare a meno di rivelarsi deluso per una scelta

13. La bibliografia su questo punto è naturalmente più che cospicua. Mi limito perciò a citare alcuni miei saggi dove il tema è trattato anche con riferimento alla letteratura critica. Cfr. G. Cacciatore, Crisi e attualità del marxismo nel pensiero di Labriola, in “Bollettino della Società filosofica italiana”, 129, 1986, pp. 13-36; Id., Antonio Labriola et le débat sur la crise du marxisme, in G. Labica e J. Texier (a cura di), Labriola d’un siècle à l’autre, Paris 1988, pp. 237-251; Id., Labriola: da un secolo all’altro, in L. Punzo (a cura di), Antonio Labriola filosofo e politico, Milano 1996, pp. 209-228. 14. Epistolario, cit., vol. III, pp. 629-630.

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che non è da scambiare “né col socialismo, né con quello che ora occorrerebbe all’Italia per migliorare la sua cultura”. “Il socialismo – insiste Labriola – non ha niente a che fare con la erudizione – e se io ti ho pregato e strapregato di prepararti a fare il libero docente di storia, era appunto con l’intento di farti cambiare l’indirizzo degli studi”15. In effetti, Labriola non s’avvedeva che il cambio di orientamento mentale era già avvenuto. Solo che esso procedeva in una direzione che non poteva essere quella del materialismo storico e neanche quella dell’impegno politico. L’utilissima e sia pur breve immersione nel fiume del socialismo e del marxismo, l’intensa partecipazione al dibattito internazionale (il rapporto con Sorel, il saggio su Loria, gli interventi del 1896 e 1897 sul “Devenir Social”) divengono il necessario passo propedeutico alla formulazione di un proprio autonomo sistema di pensiero e alla sua articolazione nell’analisi delle forme dello spirito. Delle mosse iniziali della critica crociana, Labriola sembra, all’inizio, non rendersi conto, tant’è che si esprime in modo favorevole sulla recensione dell’amico al secondo dei suoi saggi sul materialismo storico16. Nell’elogiare, dunque, la posizione del più anziano amico, Croce consapevolmente sottolinea come essa si distacchi e non poco da quelle tendenze monistiche e astrattamente materialistiche che ancora contraddistinguono non poche correnti del marxismo. Dunque, la sottolineatura della critica antifinalistica, della rielaborazione labrioliana del concetto di progresso in un senso

15. Ivi, p. 634. 16. Cfr. la lettera del 6 giugno 1896, ivi, p. 675. Ma cfr. anche le lettere del 15 giugno (p. 682) e del 5 dicembre (p. 739), quando Labriola commenta favorevolmente l’apparizione del saggio crociano in francese. Croce aveva discusso il Del materialismo storico nella sede dell’Accademia Pontaniana (poi con il titolo Sulla forma scientifica del materialismo storico in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 1-20).

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empirico e morfologico, se, da un lato, vale a collocare in un giusto contesto l’originalità del marxismo critico di Labriola, costituisce, dall’altro, il preciso prodromo di una polemica di cui già in queste pagine si avverte più di un tratto. È nello stesso Marx, osserva Croce, che stanno i presupposti di alcuni “fraintendimenti teleologici e fatalistici”, è nel suo “civettare con la terminologia hegeliana”, che stanno alcuni pericoli di deviazione in senso astratto e metafisico. Ma l’origine forse più chiara dello slittamento verso un esito teleologico – e si direbbe, con linguaggio novecentesco, ideologico – del marxismo è il prevalere in esso della spinta, per così dire, fideistica. “Un’altra cagione – [dei fraintendimenti], scrive Croce – è in quell’impeto, in quella fede che accompagna, come ogni azione pratica, anche l’azione pratica del socialismo, e genera credenze ed aspettazioni che non sempre vanno d’accordo col cauto pensiero critico e scientifico”17. Insomma, per Croce, il materialismo storico non è una nuova filosofia della storia, non è una verità assoluta politica e filosofica, non è una celebrazione del monismo del fattore economico18, ma si presenta soltanto – a riprova di quella linea interpretativa da noi proposta sulla connessione tra riflessione critica sul marxismo e teoria della storia – come “una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico”19. Non poteva esserci – a ben vedere – svalutazione più radicale del materialismo storico come teoria. “Rispetto alla storiografia, il materialismo storico si risolve, dunque, in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuo17. Ivi, p. 8. 18. Croce, tra l’altro, richiama positivamente lo sforzo labrioliano di distinguere tra “interpretazione economica” e “concezione materialistica della storia” (ivi, p. 12). 19. Ivi, p. 10. Il corsivo sta ad indicare il classico uso crociano del carattere spaziato.

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vo sussidio a intendere la storia”20. Ma c’è un ulteriore punto di esplicita divaricazione tra l’argomentare di Croce e quello di Labriola. Esso riguarda la relazione tra materialismo storico e socialismo che, per Labriola, conduce ad una identificazione (nel senso che la verità del socialismo è già dispiegata nell’interpretazione materialistica della storia), mentre per Croce è assai più problematica se non, almeno filosoficamente, improponibile. “Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue determinazioni storiche particolari, nella osservazione che per mezzo di esso sarà possibile fare, si potrà eventualmente trovare un legame tra materialismo storico e socialismo”21. Già nel 1896, dunque, si scorgono in piena evidenza gli elementi di divergenza che non sono certo soltanto nominalistici, giacché il sommesso invito rivolto a Labriola a rinunciare alla dizione “materialismo” a favore di “concezione realistica della storia” non è dettata solo da convenienze tattiche. In effetti, torna in primo piano il punto che maggiormente rappresenta il nerbo della posizione crociana: il concreto contributo del marxismo alla conoscenza storica e alla demolizione dei residui teologici e metafisici nel campo della storia. Il divario delle posizioni si accresce in concomitanza della elaborazione e pubblicazione del III saggio labrioliano, del quale ancora una volta Croce, con grande amicizia e devozione, si offre come editore22. Già in occasione del saggio crociano su

20. Ivi, p.15. 21. Ivi, p. 17. 22. Attraverso le lettere della seconda metà del 1897 si può seguire la faticosa elaborazione del saggio e il continuo interessamento di Croce per l’allestimento del testo e per la correzione delle bozze.

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Loria23, Labriola aveva manifestato insoddisfazione per la tendenza manifestata dall’amico ad avventurarsi troppo sul terreno dell’economia pura, “E perché non il diritto puro – l’estetica pura – la bugia pura? – e la storia dove se ne va? Per questa via si arriva alle idee di Platone, o alla scolastica”24. Addirittura Labriola – in una lettera successiva – rimprovera a Croce di essere troppo vicino alla “strambaleria” della scuola austriaca, mentre per lui l’economia resta essenzialmente scienza storica, anzi “astrazione della storia”. E ciò vale anche per l’estetica – che, come si deduce dalla lettera, era stata addotta ad esempio da Croce in ordine al rapporto tra astratto e concreto, generale e particolare. “L’estetica è indipendente dall’arte, perché il giudizio estetico è inseparabile dalla coscienza – e l’arte ci può essere e non essere – e non è fatta di sola estetica. In somma ci può essere una teoria del giudizio estetico – una teoria delle arti – ed una storia delle arti: e ciò non è passare dal puro al derivato, dal generale al particolare. Invece esiste una economica – e quindi o una descrizione di essa – o una teoria delle sue forme – ma non esiste un giudizio economico per sé stante, del quale si possa fare la teoria”25. Ma veniamo al III saggio, alla cui base, come testimoniano molte delle lettere a Croce di questo periodo, si pone ancora una volta – malgrado l’interpretazione che ne viene subito data (e che infastidisce non poco lo stesso Labriola) di un intervento sulla crisi del marxismo – il problema del peso che ha avuto il marxismo nel rivoluzionare la concezione della storia26. Non possedendo, se non parzialmente, le lettere di 23. Cfr. Le teorie storiche del prof. Loria, in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 21-53. 24. Lettera del 25 dicembre 1896 (Epistolario, cit., pp. 757-758). 25. Lettera del 3 gennaio 1897, ivi, p. 763. 26. “Quel saggio (III) su la previdibilità della storia deve avere altra motivazione, e per essere plausibile deve intitolarsi: le conclusioni della scienza

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Croce, possiamo ricavare gli elementi della sua valutazione critica27 dal saggio del 1897 pubblicato poi nel libro sul marxismo28, nel quale torna, tra l’altro, la polemica sull’economia pura. Da Labriola Croce accoglie in buona sostanza le analisi relative alla teoria marxiana del valore e, in particolare, l’idea del valore-lavoro come elemento tipologico di misura (e non dunque soltanto come astrazione e concetto logico) rispetto alla realtà determinata della società capitalistica. Se ne distacca, come già s’è detto, quando imputa al marxismo di ritenere non rilevante un raccordo tra l’economia come scienza storica e la scienza economica generale o pura29. Ma quel che qui importa sottolineare – ai fini di una comprensione di tutte le sfumature dell’articolato rapporto tra i due studiosi – è la straordinaria capacità, da parte del più giovane, di assimilare in pochi mesi (grazie anche ai suggerimenti concettuali, agli stimoli intellettuali, alle pignole indicazioni bibliografiche del più anziano sodale) una materia così complessa e non certo facile da dominare, rispetto alla quale non emergono solo i frutti di uno studio intenso della specifica letteratura critica (Croce si muove con disinvoltura tra Loria e Sorel, Pantaleoni e Pareto, Stammler e Sombart, Böhm-Bawerk e Wagner) e dei testi di Marx e Engels, ma anche la capacità di elaborare autonome ipotesi interpretative. Ma il punto centrale di dissenso – al di là dei problemi concernenti la discussione sulle storica” (lettera del 12 aprile 1897, ivi, pp. 785-786). 27. C’è, tuttavia, qualche passaggio che fa intravedere che non tutto fila liscio tra i due amici. “Mi pare – scrive Labriola – che di questo mio libercolo tu (che ne sei l’auctor) non sei entusiasta come le altre volte. Io son disposto alle modificazioni che tu mi suggerirai – 1) se sono caduto in qualche contraddizione formale e materiale 2) se qualche espressione aspra è da togliere” (lettera dell’8 ottobre 1897, ivi, p. 811). 28. Cfr. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in op. cit., pp. 55-111. 29. Ivi, pp. 70 e ss.

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categorie ed i concetti economici – torna ad essere la valutazione generale della dottrina marxista. “Se il materialismo storico deve esprimere alcunché di criticamente accettabile, esso […] non dev’essere né una nuova costruzione a priori di filosofia della storia, né un nuovo metodo del pensiero storico, ma semplicemente un canone d’interpretazione storica. Questo canone consiglia di rivolgere l’attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende”30. Ancora una volta, qui non interessa tanto valutare il significato e la portata delle critiche di Croce – su cui peraltro esiste una vasta e consolidata letteratura – al concetto, ad esempio, di lotta di classe o alla rielaborazione, in particolare di Engels, della dialettica, quanto piuttosto il modo in cui esse incidono nella discussione e interpretazione delle posizioni di Labriola. Croce – anche se non del tutto esplicitamente, almeno nelle pagine del 1897 – sembra aderire alle osservazioni critiche di Gentile e in particolare a quella che riconduce alla sua origine metafisica il materialismo storico labrioliano. Anche per Croce il suo maturo amico sembra, talvolta, adagiarsi in talune di “quelle andature troppo assolute” del marxismo, fino al punto di trascurare “l’elaborazione formale dei concetti”. E, tuttavia – e qui torna in primo piano il privilegiamento di quel comune orizzonte problematico rappresentato dalla storicità – Labriola è in grado di correggersi quando resta ancorato al terreno della realtà. “Il Labriola, per altro, ha un pregio speciale, che lo distingue dai soliti esplicatoti ed applicatoti del materialismo storico. Se le sue formule teoriche scoprono qua e là il fianco alla critica, quando poi egli si accosta alla storia, ossia ai fatti concreti, muta di atteggiamento, quasi getta via il fardello delle teorie, diventa cauto e riguardoso, perché ha in lato

30. Ivi, p. 78.

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grado il rispetto della storia. E non cessa di manifestare il suo aborrimento per gli schematismi d’ogni sorta”31. Proprio per questo, Croce è, sia pur rispettosamente, critico nei confronti di quegli esiti del marxismo che approdano ad una sorta di “sopra-storia” che finisce per entificare in forma assoluta quelli che restano solo fatti storici e che confonde l’articolazione delle forme economiche con la successione delle epoche economiche, fino al punto di cadere nell’antistorica convinzione che si possa individuare il passaggio dall’una all’altra epoca alla luce di una unica causa. L’argomentazione critica crociana si dirige, così, ai nuclei essenziali della proposta teorica labrioliana: la convinzione, da un lato, che nel marxismo possano coesistere il livello storico-metodico (una nuova interpretazione della realtà storico-sociale) e quello della concezione della vita e del mondo, e, dall’altro, che la filosofia immanente nel materialismo storico si configuri come una “tendenza formale al monismo”32. Insomma, per Croce non si possono conciliare cose così diverse e difficilmente collegabili sul piano logico. Siamo, io credo, al punto massimo di rottura. Ma anche, io aggiungo, di palese incomprensione e di sbrigativa sanzione polemica, quando si legge che quella di Labriola non e una “indagine che metta in chiaro la concezione filosofica giacente in fondo al materialismo storico, ma una semplice digressione”33. Forse proprio nella oscillazione tra storicità critica e Weltanschauung, entro cui Labriola consapevolmente colloca il marxismo, sta la chiave per capire lo sforzo di una autonoma riconsiderazione teorica del materialismo storico. La stessa questione del monismo è da Croce valutata soltanto nella sua 31. Ivi, p. 85. 32. Qui Croce, com’è noto, si riferisce al famoso passo della VI lettera di Discorrendo di socialismo e di filosofia, ora in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, intr. di E. Garin, Bari 1969, p. 232. 33. B. Croce, op. cit., p. 89.

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dimensione negativa, se solo si riflette alla scelta non casuale, come lo stesso Labriola avverte, della dizione “tendenza al monismo” e della relativa aggettivazione: “critico-formale”. Non si tratta cioè di restaurare un processo metafisico e trascendente, ma solo di ribadire, vichianamente, che la realtà è pensabile solo come genesi che, proprio in quanto tale, rivela “i caratteri approssimativi della continuità”. La tendenza al monismo – si legga pure la tendenza alla delineazione di una società socialista – non è mai separabile dalla specificità dell’analisi storica determinata, ed è in questo nesso che va collocato lo stesso senso col quale Labriola parla di “comunismo critico”34. “Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, – scrive Labriola – virtuosità a tenersi equilibratamente in un campo di specializzata ricerca, dall’altra parte: ecco il risultato. Per poco che s’esca da questa linea, o si ricade nel semplice empirismo (la nonfilosofia), o si trascende alla iperfilosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l’Universo, come chi ne possedesse la intuizione intellettuale”35. Quando, l’anno successivo, Labriola scrive il post-scriptum all’edizione francese, la replica a Croce è seccamente infastidita. Dopo alcune convenevoli lodi alle “utili osservazioni di metodologia storica”, egli afferma perentoriamente che gli enunciati teorici di Croce sono abissalmente lontani dalle sue opinioni. Nulla di strano, purché, tiene a precisare Labriola, quegli enunciati non siano considerati complemento autorizzato delle sue riflessioni. E, tuttavia, il vecchio professore non resiste alla tentazione di rimproverare sarcasticamente il più giovane interlocutore per il suo eccesso di scolasticismo, spe-

34. Che è concetto abbastanza sottovalutato da Croce, cfr. op. cit., p. 98. 35. A. Labriola, op. cit., p. 233.

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cialmente in ordine al problema dell’economia pura36. Nella lettera del 28 febbraio 1898 – il saggio di Croce era nel frattempo uscito in francese nel “Devenir Social” – Labriola anticipa i contenuti esposti poi nel post-scriptum, aggiungendo – alla polemica sulla teoria del valore e sull’economia pura – critiche non certo tenere (che sono anche il segno di una insofferenza psicologica notevole) alla personalità stessa e alla condotta di vita dell’amico. “Per tutte queste vedute incomplete, immature o erronee tu mi hai l’aria di un epicureo che mediti sulle forme del pensiero, ignaro della vita […]. Tu pigli il lavoro come una cosa esterna rispetto al tuo pacifico ozio di epicureo contemplante – e quindi non puoi intendere perché la teoria del valore-lavoro abbia rivoluzionato tutta la concezione della vita e della storia, in quanto l’economia è la scienza dell’ordinamento della produzione”. E non meno sferzante è la replica sulla questione del marxismo come canone: “Da ultimo, mi fa proprio maraviglia che tu proprio credendo di criticare il mio libro ripeti l’erronea opinione, che il materialismo è soltanto un nuovo canone di ricerca storica. Ma cosa vuol dire canone? – un metodo di frugare nei libri, o un metodo di concezione? E se è questo non è forse una Weltanschauung? Via per aumentare il numero dei fogli di carta stampata che si chiamano storie, non valeva la pena di far tanto rumore”37. La lettera di risposta di Croce dovette essere abbastanza risentita, tanto da indurre il suo amico a precisare, non senza ironia, di non essersi costituito verso di lui “nella condizione di potenza belligerante” e, tanto meno, di aver voluto infliggergli una scomunica in nome del marxismo, sia perché “non sono uno

36. Ivi, pp. 292 e ss. Croce replicherà alle pesanti critiche di Labriola in un saggio apparso nella “Riforma sociale” nel maggio del 1899. Cfr. ora Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, in Materialismo storico, cit., pp. 129-146. 37. Per le due ultime citazioni cfr. A. Labriola, Epistolario, cit., p. 851.

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dei tre generi di Marx”, sia perché “sono uno spirito alieno da ogni religione, ortodossia, fanatismo”. Infine, Labriola conferma il grande sentimento di amicizia che non c’entra nulla con la diversità di opinioni. “Ho letto sempre con interesse e con amore tutte le cose che hai scritto, anche quando fossero di argomenti per me indifferenti […]. Non ho mai letto le cose tue con l’amino col quale si leggono gli arrotondati sistemi, le opere definitive, le confessioni dottrinali, i programmi politici e i progetti di codici, ma con l’interesse col quale si segue lo sviluppo di una persona, in cui s’ammiri l’erudizione, la dottrina, l’ingegno, l’acume, la ricchezza delle cognizioni e delle osservazioni”. Ma, detto questo, Labriola non sposta di una virgola le sue critiche alle singole interpretazioni formulate da Croce38 (ancora sull’economia pura, sul marxismo come Weltanschauung, sulla ripresa crociana dell’etica kantiana, etc.) 38. In una lettera del 7 ottobre 1898, Labriola così scrive: “Ciò che ho scritto in quel post-scriptum forse non ti farà piacere, ma io memore dell’amicus Plato con quel che segue, non so che farci se andrai in collera” (cfr. ivi, p. 881). Labriola, ormai preoccupatissimo della piega che sta assumendo il dibattito internazionale sulla crisi del marxismo, esprime qui come in altri luoghi il costante timore che le analisi del Croce – ritenuto a lui vicino – fossero interpretate come sviluppi e complementi delle sue posizioni. Così, nella lettera del 9 ottobre successivo, si legge: “Non t’immaginare che io abbia scritto delle impertinenze contro di te […] Io avrei voluto soltanto non trovarmi mai nella necessità di criticare in pubblico ciò che scrivi […]. Ma il mio libercolo risulta come pubblicato per tuo consiglio, e consta di lettere dirette al Sorel – ora proprio voi due vi siete messi a scrivere quello che avete scritto – e questa santissima trinità se n’è andata in fumo. Non vuoi tu permettermi di dire che mi lavo le mani di ciò che scrivete?” (ivi, pp. 883-884). In una lettera a Gentile (17 novembre 1898) il concetto è ancora più esplicito. Croce – scrive Labriola – “non s’è data la pena di far capire al pubblico 1) che non essendo lui un ex-marxista, non può passare per un rappresentante della crisi del Marxismo; 2) che lui scrive di ciò privatamente, e non come chi esca dalla esperienza di un partito; 3) che lui non è me” (ivi, p. 893). Queste stesse cose Labriola ribadisce direttamente a Croce (tra l’altro si legge: “la nostra amicizia non ha fatto di noi due una persona sola”) nella lettera del 17 novembre 1898.

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e neanche sulle ambiguità psicologico-esistenziali dell’amico. “Tu disputi solo con te stesso, e solo per sapere in che posto della tua coltura tu debba collocare il Marxismo […]. Tu confondi la tua incertezza (– letteraria –) subiettiva con la malsicurezza del pensiero in genere nella considerazione obbiettiva delle cose”39. Col passar dei mesi, e poi anche degli anni, la polemica venne stemperandosi, e di ciò è testimonianza la rinnovata offerta di Croce a farsi editore di ulteriori scritti del Labriola, il quale – a riprova della centralità che nel suo orizzonte teorico mantiene il problema filosofico della storia – risponde che pubblicherebbe volentieri “un volumetto col titolo: Storia narrata e materialismo storico”40. Labriola risponde ad una lettera di Croce nella quale l’amico esprimeva appunto il parere che egli dovesse impegnarsi in qualche lavoro di carattere storico, “lasciando un po’ da banda le questioni generali e metodiche”. La lettera di Croce, del 16 novembre 1898, fa parte di quel fondo ritrovato nell’archivio Dal Pane, acquisito dalla Società napoletana di Storia Patria e recentemente pubblicate insieme a numerosissime altre di Labriola e di suoi corrispondenti41. Tra l’altro, questa lettera è un notevolissimo documento che mostra in piena evidenza l’ormai avvenuta svolta nel programma degli studi crociani ed è una ulteriore testimonianza della tenace coerenza con cui poi effettivamente tale programma veniva gradualmente attuandosi. Croce informa il vecchio amico che si è dato a studiare filosofia per proprio conto e che viene progressivamente liberandosi da altri impegni occasionali. “Ho stabilito da un pezzo di scrivere tre libri […]. I tre libri sono: un trattato di Estetica concepito come logica del

39. Ivi, p. 854 (lettera del 3 marzo 1898). 40. Lettera del 4 dicembre 1898, ivi, p. 900. 41. Cfr., supra, la nota n. 2.

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sensibile; una teoria della storia; e una storia dell’Italia meridionale. Li scriverò di certo tutti e tre negli anni prossimi; ma non so con quale ordine”42. In queste lettere di Croce, insieme al ribadimento puntiglioso dei motivi ormai chiari di dissenso43, si scorge però la volontà prevalente di mantenere intatti i vincoli di affetto e di profonda devozione. “Dopo avere imparato tanto da voi, e aver ricevuto da voi l’impulso a studiare le opere del Marx, mi sapeva male di situarmi davanti a voi come oppositore od avversario. Ho dunque cercato i punti di consenso, enunciato quei di dissenso, e procurato di appianare il dissenso”44. Croce non rinuncia, sia pur in termini pacati, a difendere le proprie posizioni e nella lettera del 27 marzo 1899, mentre respinge l’accusa di “scolastica metafisica”, riconduce l’essenza della sua lettura del marxismo ad una interpretazione di tipo dottrinale, cercando così di sottrarsi al coinvolgimento diretto nel dibattito politico-ideologico sulla crisi del marxismo. La cosiddetta crisi, per lui, è da ritenere in effetti soltanto come un tentativo di approntare una “interpretazione più corretta e realistica delle proposizioni di Marx”, proprio per difenderlo dalle sem-

42. Cfr. Il Carteggio di A. Labriola conservato nel fondo Dal Pane, cit., p. 739. 43. Tra l’altro si conferma qui ciò che anche in precedenza abbiamo noi stessi sottolineato, rispetto al sorprendente ritardo col quale Labriola sembra prendere consapevolezza della presa di distanza da parte di Croce. “Mi meraviglio solo – scrive Croce – come voi ve ne siate accorto a proposito della mia ultima memoria, quando era già dato negli scritti precedenti sulla concez. mater. e sulle Teorie del Loria. Il vero è che io, pur dissentendo, non ho creduto finora opportuno di accentuare letterariamente questo dissenso” (ivi, p. 741). 44. Ibidem. Tra i punti di consenso vi è la comune sferzante stroncatura del libro, di Graziadei (La produzione capitalistica, Torino 1899). Cfr. la lettera di Labriola del 29 gennaio 1899 (Epistolario, cit., pp. 906 e ss.) e quella di Croce del 31 gennaio (Il carteggio di Labriola, cit., pp. 744-745).

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plificazioni e dagli schematismi grossolani dei suoi seguaci. Non può sfuggire certo il sottile rimprovero che Croce rivolge a Labriola. “Forse voi, che avevate iniziato un ripensamento delle cose scritte dal Marx e dall’Engels, potevate non prendere in questa questione l’atteggiamento di un conservatore, che conserva poi che cosa? Non certo gli spropositi che si sono scritti nella letteratura marxistica”45. Il punto decisivo della discussione – ma anche quello ove si può registrare la sanzione definitiva del distacco – tra i due amici-interlocutori è forse reso massimamente esplicito nella lettera di Labriola dell’8 gennaio del 1900. L’occasione della lettera e fornita dalla pubblicazione del libro crociano sul Materialismo storico. Labriola ritorna sull’oggettivo equivoco nel quale, volente o meno, è stato coinvolto Croce. Egli sa bene che il suo giovane amico non è stato mai marxista (e neanche, a dire il vero, socialista) e, tuttavia, essendo stato annoverato dalla stampa e dal gran pubblico tra i “compagni”, non si meraviglia affatto che venga considerato un “convertito”. Anzi, l’equivoco è, in certo modo, avallato dallo stesso Croce, quando, dichiarandosi d’accordo con Sorel, mostra di confondere il suo dissenso e la sua argomentazione come “interpretazione della cosa stessa”, cioè del marxismo. Ma il livello reale di discussione non si riduce a questo punto, in effetti marginale. Sta, piuttosto, nella netta divaricazione nel modo stesso di concepire la filosofia. Il marxismo non può essere considerato come una cosa morta che si possa guardare dal di fuori, che si possa analizzare nel suo semplice esser pensiero, insomma senza considerarlo innanzitutto come una “attività terminativa”. “Dopo 26 anni che insegno filosofia mi son persuaso che la filosofia non s’insegna a nessuno. Marx ed Engels non ebbero che un solo torto, e fu quello di voler insegnare la filosofia alle

45. Cfr. Il carteggio di Labriola, cit., p. 747.

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moltitudini […]. Tu, Sorel ed altri avete fatto bene a scovrire i volgarismi dei marxisti, ma non per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza”46. Ricompare in maniera evidente la centralità della concezione critica della storia, l’unica via per correggere i dogmatismi della filosofia e i volgarismi della teoria politica. La storia è, per Labriola, etimologicamente “catastrofica”. “La sommazione empirica delle osservazioni parziali non dà mai la nuova Weltanschauung – il criticismo non è tutta la filosofia”47. Perciò, la crisi stessa del marxismo – e qui Labriola ripropone una ben nota ipotesi di lettura di essa – non fa che confermare proprio il materialismo storico, la sua capacità di comprensione del complicarsi e del criticizzarsi del corso delle cose. “Il mondo economico-politico si è complicato. Quel cretino di Bernstein può immaginarsi di aver fatta la parte di Giosuè. Quel buon uomo di Kautsky può illudersi di far la parte di custode dell’arca santa. Quell’intrigante di Merlino può dare a credere di aver servita la causa del socialismo facendo quella della polizia. Quel Sorel può credere d’aver corretto quello che non ha mai imparato […]. Ma ditemi un poco in che consiste la novità reale del mondo che ha reso agli occhi di molti evidenti le imperfezioni del marxismo? Qui sta il busillis. La realtà non si afferra coi ragionamenti – ma con la percezione”48. Insomma la filosofia materialistica di Labriola si fa sempre più critica e storicistica, sempre più consapevole che il dogmatismo dei principi non serve ad analizzare e comprendere le trasformazioni e le complicazioni del mondo reale49. Per questo egli 46. Cfr. Epistolario, cit., p. 947. 47. Ibidem. 48. Ivi, pp. 947-948. 49. Quanto il socialismo di Labriola fosse alieno da astratti massimalismi e preoccupato, invece, di un sano e strutturale riformismo è testimoniato da una lettera – a dire il vero scarsamente citata – a Pasquale Villari del 13 no-

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esprime fastidio e distanza verso gli approdi ormai idealisticotrascendentali del giovane amico. “L’estetica te l’abbandono tutta. Non m’importa di avere nessuna idea mia in proposito. E può darsi che tu abbia da fare in proposito delle scoverte. Uno può avere ragione in un ordine di cognizioni anche quando non trovi la maniera adeguata di esprimersi. Ma quanto a quella maniera, tu mi sembri un Wolfius redivivus. Addio l’evoluzione, la dialettica, la Weltanschauung, il macrocosmo, il microcosmo, i giudizi sintetici a priori, le idee, i tipi, le Beziehungen, il divenire, il trascendentale etc.; è un perpetuo idem per idem di giudizi analitici, per ottenere definizioni senza generazione”50.

vembre 1900. “Non mi sono mai sognato che il socialismo italiano fosse leva per rovesciare il mondo capitalistico […]. Io ho inteso sempre il socialismo italiano come un mezzo: 1) per sviluppare il senso politico nelle moltitudini; 2) per educare quella parte degli operai che è educabile alla organizzazione di classe; 3) per opporre alle varie camorre che si chiamano partiti una forte compagine popolare; 4) per costringere i rappresentanti del governo alle riforme economiche utili per tutti” (ivi, p. 959). 50. Ivi, pp. 949-950. È la lettera del 3 giugno 1900, in risposta all’invio da parte di Croce della memoria pontaniana sulle Tesi di estetica. Croce dovette rispondere in modo abbastanza risentito alla stroncatura dell’amico che, senza nulla cambiare, ritorna sull’argomento il 5 giugno, rincarando la dose, pur riconoscendo l’operosità dello studioso. “Che cosa vuol dire che occorre l’estetica per capire la logica, e l’una e l’altra per arrivare alla psicologia – e che concetti estetici, logici, economici ed etici formano serie? O non so che altra forma di continuità! Io ti confesso che non ci capisco niente, e mi pare di sognare. Si tratta di un nesso reale causale – o di una successione ideologica? Nel primo caso partendo dall’estetica capiremo meglio (realiter) come facciamo a raddrizzare a raddrizzare l’immagine capovolta della retina, o come sia nata la schiavitù nel processo della produzione? E nel secondo caso riusciremo meglio (idealiter) a dimostrare il principio della ragion sufficiente, o le vicende del profitto e del salario? In questo mondo sublunare non troverai due professori di filosofia che siano capaci d’intendere perché l’estetica illustri la logica, e come ci sia continuità tra i valori estetici e i valori etici. In tutti i modi io ti sarò grato che tu mi spieghi tutto ciò in una prosa

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Malgrado l’ormai avvenuto distacco culturale e filosofico tra i due corrispondenti, il sentimento profondo d’amicizia non viene mai meno. Labriola è disposto a sospendere il giudizio sulla svolta idealistica dell’amico prefigurata nella “prima” estetica, in attesa dell’annunciato e definitivo libro51 e, nonostante la permanenza degli ormai ben definiti dissidi teorici, egli mostra costante e amichevole interesse per i lavori di Croce. Anche se l’incombere del male gli impedisce un più meditato approfondimento52, Labriola coglie con prontezza la radicalità della svolta idealistica crociana e, pur nella secchezza perentoria del giudizio, non manca di coglierne l’enorme portata che travalica l’orizzonte stesso della filosofia e coinvolge, su scala europea, nuovi modi di pensiero e nuovi stili culturali e politici. “Quanto all’Idealismo, e sua cosiddetta rinascita etc… io veramente non ho avuto mai molta tenerezza per la lotta delle nomenclature, né in filosofia, né in politica… e nel caso attuale date le mie condizioni presenti […] non mi riscaldo, né pro né contra (dovrei veramente contra). Vedo però che in tutta Europa corre una reazione contro lo storicismo, il positivismo, il Darwinismo, l’evoluzionismo etc. etc. e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo

accessibile alla mia povera intelligenza, giacché sai ciò che i filosofi dovrebbero sapere” (ivi, pp. 950-951). 51. “E l’Estetica?” – scrive Labriola il 25 maggio 1902. “L’aspetto supponendo che debba essere anche bella… perché estetica” (ivi, p. 972). 52. Il che non gli impedisce di mantenersi al corrente delle novità filosofiche del suo tempo, sia pur non sottratte alla sua feroce ironia. Scrive ancora a Croce il 17 settembre 1903: “Tu che sai tutto mi sai dire chi sia il filosofo Husserl? Trovo citate di lui le Logische Untersuchungen e nientedimeno che a pag. 708 di un volume II. Ciò fa supporre un’opera di almeno 1.400 pagine. Se un simile cetacco logico fosse passato per le acque di Löscher [la libreria cara a Labriola] l’avrei certo visto – malgrado la mia presente bibliofobia” (ivi, pp. 990-991). Ma giudizi, a dire il vero sbrigativi e liquidatori, su Husserl e il suo maestro Brentano sono anche nella lettera del 20 settembre.

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rinato, e una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto Idealismo (la qual parola in genere è applicabile ad ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un arresto dello spirito scientifico, è un regresso”53. Al di sotto e al di là della pungente ironia e dell’abitudine mai dismessa alla sulfurea battuta critica, si scorge, piuttosto, la traccia, purtroppo affidata alla provvisoria e veloce frase epistolare e condizionata dalla precarietà delle condizioni di salute, di una intelligente e certo non infondata critica (ovviamente dal punto di vista storico-materialistico) delle premesse di fondo della filosofia idealistica. Non si tratta solo delle critiche contingenti, anch’esse feroci e devastanti, a Gentile il quale, lamentandosi dei giudizi ricevuti in sede di commissione di concorso54, non si meravigliava dell’esito per lui negativo, dal momento che la commissione era composta da persone avverse alla “sana filosofia”55. Il problema era ben più serio e riguardava nella sostanza il nucleo portante del progetto neoidealistico: il suo fondarsi, cioè, sui giudizi analitici, a fronte dei quali stanno come un mondo separato e subordinato le “disgregate e infinite cose della natura e del mondo sociale”. Cosicché – scrive Labriola sempre nella lettera del 2 gennaio 53. Ivi, p. 989 (lettera del 7 settembre 1903). 54. Labriola, insieme a Tocco, Cantoni e Masci, aveva fatto parte della commissione del concorso indetto dall’università di Palermo. Sui lavori di essa cfr. la lettera a Croce del 2 gennaio 1904. 55. Scrive Labriola a Croce: “Lui rappresentante della filosofia sana; anche lui personaggio della commedia umana?! È un po’ troppo. E ciò solo perché lui, su le tracce delle lezioni di quell’idiota del Iaja, tornando a studiare gli scritti di Spaventa, ha immaginato di tornare ad Hegel! Di fatti lasciando da parte i lavori assai pazienti e giudiziosi che il Gentile ha saputo fare in genere di esposizione – la sua personale manifestazione filosofica si riduce in vero a questo: bisogna tornare ad Hegel! Ma torni pure, s’accomodi – ma componga se può, una Filosofia della Natura o della Storia su la quale possa scrivere: lavoro di un hegeliano del 1904!” (lettera del 2 gennaio 1904, ivi, p. 1001).

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1904 – a furia di riportare la realtà alle sue concettualizzazioni logiche, si finisce con l’approdare al risultato che “non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’è solo scienza dei cosiddetti concetti puri e questi sono enunciabili tutti in giudizii analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxistica!) – altro che giudizii sintetici a priori – altro che Spencer e Wundt e altre evoluzioni – questa è filosofia wolfiana bella e buona”56. Ancora nell’ultima lettera – egli sarebbe morto di lì a qualche settimana – in risposta, evidentemente, ai tentativi di Croce di difendere le posizioni sue e di Gentile, Labriola tronca definitivamente la discussione, non senza lasciarci un ultimo eccezionale esempio della sua verve polemica. “Quello Spirito che non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue manifestazioni deve essere… un bel Mamozio. Mandamelo come dono della Befana”57. Insomma, al fondo del dissidio, restavo essenzialmente una diversa concezione della storia nella vita dell’uomo e, con essa, una altrettanto diversa valutazione della filosofia (e della filosofia del materialismo storico, in particolare) nel suo rapporto con la politica. Il solco s’era definitivamente aperto già sul finire degli anni ’90 ed appariva oggettivamente incolmabile. “Quando tu dici che circa la politica del proletariato né convieni né disconvieni, tu dici che, in somma, passi sopra al 95% delle condizioni che occorrono per interessarsi di questa cosiddetta crisi del marxismo. Io in ciò sono ferocemente socialista e ultrapositivo. Se Marx fosse stato soltanto un professore (ciò sarebbe l’altro 5%) io m’interesserei di lui quanto m’interesso della logica di Wundt etc. Ossia per ragioni professionali. E dal momento che tu di questo solo 5% t’interessi […] così devi avere interesse, per proseguire nella tua occupazione pacifica di spregiudicato ricercatore, di non 56. Ivi, p. 1003. 57. Ivi, p. 1004.

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essere confuso con quelli pei quali il marxismo e l’antimarxismo sono simboli e bandiere”58. Su questo dato di fatto, sulla oggettiva divaricazione non soltanto concettuale e ideologica tra idealismo e marxismo, ma anche e soprattutto tra una idea militante della filosofia e una visione sistematica e teoretica di essa, è inutile e superfluo insistere. Quel che qui conta di nuovo sottolineare è la decisiva rilevanza assunta dai Saggi di Labriola nell’intero corso della cultura italiana del Novecento: dalla Filosofia di Marx di Gentile, ai contributi crociani sul materialismo storico, dagli interventi di Mondolfo ai Quaderni gramsciani. Se si è potuto parlare – quale che sia la sua parabola e quale che siano, per parafrasare Croce, le sue effettive date di nascita e di morte – di un originale ed autonomo marxismo teorico in Italia, lo si deve essenzialmente a Labriola, a quel Labriola a cui, ancora nel congresso filosofico di Oxford del 1930, orgogliosamente faceva riferimento il filosofo neoidealista, per rivendicare, a fronte dei volgarismi dogmatici del marxismo sovietico di Lunaciarskij, una lettura seria e critica di Marx iniziata a Napoli ben prima che la intraprendessero i rivoluzionari russi59. Una originalmente rimeditata concezione della storia e un consapevole, altrettanto originale, apporto all’elaborazione di un marxismo “critico”: questi i due assi portanti dell’opera e del pensiero di Labriola che anche il suo fedele e devoto amico, ma anche leale e deciso contraddittore filosofico e intellettuale, aveva finito per riconoscere, al di là della commossa pagina del congedo. “Di questa concezione [il marxismo] fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, non da dilettante o da giornalista, ma da scienziato, 58. Lettera del 31 dicembre 1898. Cfr. ivi, pp. 904-905. 59. L’episodio è raccontato da Croce in Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 276-277.

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con severità d’intenti […]. Ma il Labriola, per ciò stesso che era ingegno assai colto e affinato nella meditazione di parecchi sistemi filosofici […] dié al materialismo storico, diventato quasi domma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Lo difendeva, ma in questa difesa ne scopriva alcuni punti deboli; e si argomentava di rafforzarli, ma nello sforzo ne scopriva altri […]. E non solo la dottrina del materialismo storico, ma tutti, in genere, i lavori che si sono fatti in Italia negli ultimi tempi sulla teoria e metodologia della storia debbono il primo impulso al Labriola”60.

60. Cfr. B. Croce, Antonio Labriola (è il saggio scritto in occasione della morte del suo amico e maestro, apparso nel “Marzocco” del 14 febbraio 1904), in Filosofia Poesia Storia, Milano-Napoli 1952, pp. 1122-1123.

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Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato Biagio de Giovanni

1. La critica al materialismo storico come teoria Allorché Croce, nel 1917, introduceva la riedizione dei suoi scritti sul materialismo storico, le distanze da Marx si andavano definendo secondo un’angolazione apparentemente nuova, segnata dal lavoro che la riforma idealistica di quegli anni aveva intanto compiuto. Il punto su cui batteva Croce era il legame tra riforma della filosofia e sviluppo in direzioni nuove della teoria politica. Ma ora – egli scriveva – dopo più di vent’anni, il Marx ha perduto l’ufficio di maestro, che allora tenne; perché in questo mezzo, la filosofia storica e la dialettica sono risalite alle loro proprie fonti e vi si sono rinfrescate e rinnovate per trarne lena e vigore a più ardito viaggio e, quanto alla teoria politica, il concetto di potenza e di lotta, che il Marx aveva dagli Stati trasportato alle classi sociali, sembra ora tornato dalle classi agli Stati, come mostrano nel modo più chiaro teoria e pratica, idea e fatto, quel che si medita e quel che si vede e tocca1.

1. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 19648, pp. XIII-XIV.

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Non è facile, in un cenno appena al Croce degli anni 20, delineare quali sviluppi mentali vi fossero realmente dietro a questa presa di posizione complessiva rispetto alla crescita stratificata della critica a Marx fra il 1895 e il 1898. Soprattutto, non è facile stringere in un breve tratto i termini precisi in cui l’opera compiuta dal Croce nel primo decennio e mezzo del Novecento – che offre per tanti aspetti la struttura matura e perfino l’espressione definitiva di molti problemi – proiettasse la prospettiva raggiunta sulla rilettura del rapporto originario, e del distacco radicale, dal pensiero di Marx. Ma non è improbabile che l’unificazione, nell’espressione del Croce, del progresso compiuto dalla «teoria politica» nel suo passare «dalle classi agli Stati», pur carica di una consapevolezza nuova – alla quale non potevano essere estranei, oltre che la maturazione delle idee, gli stessi svolgimenti della storia europea di quegli anni, «quel che si vede e si tocca», per dirla ancora con Croce – corrispondesse ad una linea di lettura fondata già nei primi sforzi di «riduzione» del marxismo. Se si guarda alla gestazione di questa critica, non può non colpire che il primo elemento intorno al quale essa si definisce è il rigetto del carattere teorico del materialismo storico. Mediata da un certo rapporto con il pensiero di Antonio Labriola, quell’affermazione è al cuore del primo scritto dedicato da Croce ai problemi della teoria marxiana della storia. «Con tutte queste concessioni (il Labriola) viene a riconoscere, se non m’inganno, che nel materialismo storico non bisogna cercare una teoria da prendere in senso rigoroso; e, anzi che in esso non è punto quel che si dice, propriamente, una teoria» (Ibidem, p. 13). Il Croce torna con ulteriori determinazioni su questo tipo di lettura in un saggio di poco successivo al primo, là dove egli definisce con maggior nettezza i limiti entro i quali può esser presa in positivo la teoria marxiana della storia. Il Marx e l’Engels non hanno mai ridotto quella concezione a teoria rigorosa e saldamente ragionata, né potevano ridurve-

593 la, non essendovi in quel caso gli elementi costitutivi di una teoria… E quella concezione per restare vera e feconda nei rispetti della storiografia, non deve uscire da codesti termini: dalla forma aforistica dell’enunciazione, e dalla forma pratica dell’applicazione… Essa deve servire di avvertenza e stimolo agli interpreti della storia, e deve vivere nelle opere storiche che ha ispirato e verrà ispirando. (Ibidem, p. 27).

Affermazione che precede direttamente la ben nota formulazione conclusiva di quegli anni, che riduce il materialismo storico a canone empirico di interpretazione storiografica. Non è questa, peraltro, la via che intendo percorrere in queste rapide annotazioni. Credo piuttosto opportuno e significativo, rispetto all’avvio del discorso, andare più a fondo sul senso del rifiuto al materialismo storico del carattere di teoria. Si può esser tentati di collegare immediatamente quella pagina che ho ricordato, della Prefazione del 1917, al rigetto del marxismo come teoria rigorosa. Gli anelli che stringono i due processi critici possono essere riuniti insieme nel delinearsi di un orizzonte unico, di cui va verificata la presenza in forme diverse a partire dagli scritti crociani del 1896. L’ipotesi, che qui vorrei solo accennare in via problematica, è appunto questa: la reale comprensione della separazione, operata dal Croce, fra teoria della storia e materialismo storico, si può ottenere legandola fortemente al carattere specifico dell’unica determinazione del materialismo storico in quanto teoria della storia: quella di rappresentare il concetto di un processo dominato dal fattore economico, o ridotto ad esso. È noto come Croce non attribuisca a Marx tale intenzione, accogliendo su questo punto – almeno fino ad un certo momento – l’indicazione essenziale di Labriola2. Ma la dislocazione del materialismo

2. Croce accoglie e insieme rovescia il discorso di Labriola. L’impossibilità di costruire la teoria marxiana della storia come processo dominante dal

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storico in un luogo differente da quello in cui è possibile costruire una teoria – il luogo di un empirico ammonimento «a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la storia» (Ibidem, p. 15) – germina proprio dal fatto che non è possibile costruire una teoria secondo la quale «sostrato della storia sono i rapporti di produzione ossia le condizioni economiche» (Ibidem, p. 11). Non può avere infatti carattere di teoria la scelta dell’economia come fattore dominante del processo storico, e addirittura la riduzione della storia a quel fattore. Formulata in astratto, «la teoria non si può sostenere senza distruggerla, ossia senza tornare alla teoria dei fattori, che è l’ultima parola dell’analisi astratta» (Ibidem). È dunque anzitutto il carattere specifico delle possibilità «teoriche» implicite nel materialismo storico ad escludere da esso la presenza di un criterio costruttivo di una teoria della storia. Anche estendendo al suo limite il campo d’influenza dell’economia, esso non può mai giungere a fondare la logica del processo nel suo insieme. Se si rimane per ora a questo dato preciso, e in sè certamente limitato rispetto alla complessità dei problemi da analizzare, si incomincia a scorgere un orizzonte intorno al quale adunare alcuni dati. La critica al materialismo storico come teoria si lega immediatamente all’impossibilità che la teoria si fondi sul dominio del fattore economico, nel carattere policentrico del processo storico (la teoria dei fattori è «l’ultima parola dell’analisi astratta»). Da qui, uno stimolo a guardare oltre, alla formulazione del 1917. Si può ora studiare se sia fondata una linea di sviluppo stretta all’idea che non è intorno alle classi (economia) ma intorno agli Stati (politica) che si articola il concetto di potenza

fattore economico, non è in Croce la premessa per intendere le ragioni complesse del discorso di Marx; ma per ridurre immediatamente la sua capacità di comprensione scientifica del reale storico.

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e di lotta – quel concetto che ridà lena alla teoria politica, ed è inteso dal Croce negli anni maturi tutt’altro che in modo restrittivo, bensì come segno di una egemonia in movimento3. L’ulteriore sviluppo di questa ipotesi permette di leggere la posizione crociana del 1896 non come soltanto intesa a rivendicare la complessità del processo reale, la sua irriducibilità ad una dimensione unica; ma soprattutto rivolta a combattere il sollevamento dell’economia – o meglio dei rapporti di produzione ridotti alle condizioni economiche – da una collocazione subalterna rispetto all’intelligenza complessiva del processo storico. C’è intanto un primo elemento che spinge a muoversi in questa direzione. Il punto di vista dell’economia, preso in se stesso, spogliato per dirla col Croce di ogni finalità o disegno, conduce a trasferire «la forma scientifica del materialismo storico» dal campo della storicità al campo della storiografia, dalla struttura alla sovrastruttura. Questo sembra un passaggio essenziale per intravedere nei primi scritti del Croce la linea profonda di trasformazione dei problemi. Tutta la riduzione del materialismo storico a canone empirico conduce a questo. È l’intero problema che si sposta sul terreno della storiografia («Rispetto alla storiografia, il materialismo storico si risolve, dunque, in un ammonimento…»). Ma c’è un punto dove la neutralizzazione dell’economia tocca il suo estremo, ed è nella sua completa sconnessione dai contenuti del processo reale. Il materialismo storico «spogliato… di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali,… non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue determinazioni storiche particolari, nella osservazione che per mezzo di essa sarà possibile fare, si po-

3. Esemplare, in questo senso, il saggio su Machiavelli e Vico. La politica e l’etica (in Etica e politica, Bari 1945, pp. 250-256).

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trà eventualmente trovare un legame tra materialismo storico e socialismo»4. Qui l’alternativa appare senza mediazioni. O filosofia della storia, o canone storiografico. È probabile che l’analogia valga in generale, stabilendo, almeno su questo versante, una sostanziale analogia con la posizione maturata in quegli anni dal Gentile, come si ricava da una importante lettera diretta al Croce. Nella storia, nella società, nelle cose, non c’è né significato, né legge; e il significato e la legge è sempre determinazione dello spirito, è sua elaborazione, diciamolo pure, soggettiva; e l’obbiettività si riduce unicamente alla certezza dell’osservazione immediata, elevata a cognizione necessaria e universale… le cose, in mezzo alle quali ci muoviamo e intendiamo di muoverci, non sono che i nostri concetti di esse cose; concetti realistici e materialistici, ma sempre concetti5.

Nessuna teoria della storia è possibile, come teoria interna ai contenuti del processo reale. Come tale, la teoria della storia è necessariamente filosofia della storia. Non v’è da ritrovare nessuna logica interna al processo. La teoria della storia si riporta – nel senso che è tutta interna – a una teoria della storiografia, delle connessioni fra canoni di interpretazione del processo. Viene subito da chiedersi: questa sconnessione fra storiografia e storicità in che modo si lega alla riaffermazione del carattere subalterno-unilaterale dell’economia? In che modo prepara il passaggio – e lo prepara poi veramente – ad una lettura del processo storico in altra chiave? Non v’è piuttosto in essa una 4. B. Croce, Materialismo, cit., p. 17. 5. G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce (a cura di S. Giannantoni), Firenze 1972, p. 21 (la lettera è datata da Pisa 17 gennaio 1897). Il motivo è letteralmente ripreso dal Gentile nel saggio intitolato Una critica del materialismo storico (ora in G. Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, Firenze 1974, in particolare pp. 37-38).

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separazione programmatica fra vita reale (con un mescolamento poco differenziato di razionalità e irrazionalità) e la sua riduzione e ordinamento nella comprensione storiografica? Non v’è, quindi, un preciso livello di storicità da recuperare entro il carattere specifico della comprensione storiografica?

2. L’economismo della teoria del valore-lavoro Per dare un abbozzo di risposta a questo insieme di problemi, è necessario ricostruire in scorcio l’altro aspetto del revisionismo crociano, quello dedicato alla critica della forma scientifica della teoria del valore. Anche qui colpisce il ritorno del criterio generale usato dal Croce. La riduzione della astrazione costitutiva della teoria marxiana del valore-lavoro ad atto mentale che ha dietro di sè un astratto soggetto («niente altro che: la società economica in quanto società lavoratrice»6), è fondata anch’essa su una riduzione economistica del discorso marxiano. Qui, anzi, ancor più che nell’analisi del materialismo storico, è possibile cogliere questa riduzione nella linea di una pura analisi teorica. La ragione è evidente. Il problema ora è direttamente quello della fondazione scientifica del Capitale. La riduzione empirica del materialismo storico a canone d’interpretazione poteva ancora supporre di rappresentare un discorso abbastanza interno alla stessa elaborazione di quel problema in Marx7. Anche il rigetto del carattere 6. B. Croce, Materialismo, cit., p. 67. 7. Un esempio evidente di questo passaggio del ragionamento di Croce: «Parecchi hanno immaginato che il materialismo storico voglia dire: la storia non essere altro che la storia economica, e tutto il resto una semplice maschera, un’apparenza senza sostanza… Federico Engles era assediato da gente che gli si rivolgeva per domandargli come si dovesse intendere l’azione del tale o tal altro fattore storico rispetto al fattore economico. Ed egli…

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teorico del materialismo storico poteva costituire una sorta di salvazione dell’essenziale, evitando unilateralità dogmatiche. Croce poteva, in questa fase iniziale almeno, interpretare il proprio lavoro come inveramento della tesi di Labriola che rifiutava, com’è ben noto, ogni lettura del materialismo storico nella forma di una teoria della storia costruita sul dominio del fattore economico8. Ma ora, spostato il problema sulla fondazione scientifica del Capitale, e in modo particolare del suo I libro, la riduzione tende ad acquistare una differente lena teorica, a misurarsi con un momento del pensiero marxiano al quale non si può rifiutare in generale il carattere di teoria, e nella cui dimensione teorica bisogna penetrare per scoprirne, dall’interno, limiti e contraddizioni. È ben conosciuta la via scelta dal Croce. Che la teoria del valore-lavoro sia un’astrazione è, per lui, insieme la sua verità e il suo limite. Ma, anche nella sua verità, anche cioè in quel momento in cui si comprende che il soggetto che le sta dietro è «la società in quanto società lavoratrice», quell’astrazione mai coglie il movimento di una società reale storicamente, giacchè dall’intreccio della realtà essa è sorta come un atto d’astrazione che ha isolato in se medesima la società economica. Val la pena di riportare per intero il testo di Croce che si riferisce a questo nodo centrale.

lasciava intendere che, quanto insieme col Marx, sotto la lezione dei fatti, concepiva quella nuova interpretazione storica, non aveva inteso formulare una teoria rigorosa» (Ibidem, p. 11). 8. «Gli è, anzi, tanto radicata la credenza, ed è tanto diffusa l’opinione, che la storia non si possa intenderla, se non come incontro ed incidenza di diversi fattori, che molti di quelli i quali parlano di materialismo sociale, sia in favore o sia contro, credono di cavarsi d’impaccio quando affermano, che tutta questa dottrina qui consista poi in ultimo dell’attribuire la prevalenza e l’azione decisiva al fattore economico» A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Bari 1965, p. 88).

599 Prendiamo invece a considerare, in una società, solo ciò che è propriamente vita economica; ossia, nella società complessiva, solamente la società economica. Togliamo poi da quest’ultima, per astrazione, tutti i beni che non sono aumentabili col lavoro. Togliamo, per un’altra astrazione, tutte le differenze di classi, le quali possono riguardarsi come accidenti rispetto al concetto generale di società economica. Prescindiamo da ogni modo di distribuzione della ricchezza prodotta, che… può esser determinato solo da ragioni di convenienza o anche di giustizia, e sempre dalla considerazione di tutto il complesso sociale e non già dalla considerazione esclusiva della società economica. Che cosa resta, dopo aver fatto queste successive astrazioni? Niente altro che: la società economica in quanto società lavoratrice. E per questa società senza differenze di classi, ossia per una società economica in quanto tale,… che cosa può essere il valore? Evidentemente, la somma degli sforzi, ossia la quantità di lavoro, che le costa la produzione delle diverse categorie di beni9.

Si vede bene che la riduzione economistica è ricavata qui direttamente dalla lettura crociana del testo di Marx. Di economismo è intrisa, nel giudizio di Croce, la teoria marxiana del valore-lavoro nel suo insieme. Il suo essere un atto d’astrazione si lega al carattere solo economico di una società ipotetica nella quale, appunto, valore e lavoro coincidono. Non meraviglia che al mero economismo della teoria faccia da supporto, nel giudizio di Croce, un punto di riferimento astrattamente utopico: «l’eguaglianza umana, affermata e presunta nella stessa società capitalistica, è ciò solo che mette in grado di qualificare sopralavoro e sopravalore la derivazione del profitto» (Ibidem, p.33). La verità è che l’addensarsi della teoria intorno a un’ipotesi di società meramente economica impedisce, ancora una volta, secondo Croce, la costruzione di un criterio che offra l’intelligenza di un processo complesso. 9. B. Croce, Materialismo, cit., p.67.

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L’astrattezza del criterio coincide, in questo caso, con la sua lontananza a metà dalla storia. Marx prescinde dall’analisi «di ogni modo di distribuzione della ricchezza prodotta», e «dalla considerazione di tutto il complesso sociale». Egli non ha occhio per la politica. Marx rimane ad un punto di vista subalterno, che al più gli permette di individuare un fatto tra i fatti, «ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante diversa da quella che darebbe se le altre forze cessassero di operare» (Ibidem, p. 68). L’ottica di Marx rimane così circoscritta. Egli vede alcune connessioni, ma molto di più è ciò che rimane fuori del suo orizzonte. Anche qui, nuovamente si delinea l’accusa di empirismo. Qualcosa che poteva ancora colorarsi di positivo finché in discussione era soltanto l’approssimazione ad un canone d’interpretazione storiografica, ma che ora si trasforma in elemento diretto di una critica, giacché una teoria, su cui Marx immagina di costruire una «legge scientifica», decade immediatamente a fatto, che nulla può intendere oltre di sé, che in nessun modo è all’origine di un processo di comprensione reale, che non rende più intelligibile l’unità di uno sviluppo. Nel quadro di questa critica, Croce avvia insieme la fondazione di campi teorici distinti e forniti di relativa autonomia. L’economico ha già qui una valenza specifica, che lo riconduce ad una scienza generale e perfino ad esprimersi in un «concetto generale del valore», totalmente sottratto alla storicità, ma sotteso a tutte le determinazioni economiche della storicità. Solo per cenni val la pena di riferirsi al fatto che il livello di astrazione, capace di manifestare una «scienza», è ritrovato dal Croce nella determinazione della «natura economica dell’uomo» (Ibidem, p. 78), nel principio di utilità-ofelimità10, a partire dal 10. Ibidem, p. 79: «Per mio conto, tengo fermo alla costruzione economica della scuola edonistica, all’utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e fi-

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quale si definiscono i compiti e la natura dell’economia pura. Ed anche un solo accenno va qui dedicato al fatto – in una diversa intenzione di lettura, assai importante – che il Croce non s’accorge, – né poteva, nell’ottica in cui costruisce il suo discorso – che l’isolamento dell’economico intorno alla natura economica dell’uomo «in quanto astratto homo oeconomicus» (Ibidem, p. 78 e anche p. 128), era il frutto teorico più maturo di una scienza il cui oggetto puro emergeva dall’isolamento reale che l’economico subisce entro il complesso intreccio di effetti indotto dall’estensione del modo di produzione capitalistico11. Croce non s’avvedeva, cioè, che l’intera costruzione di una categoria astorica capace di essere il supporto di un’economia isolata al suo stato puro (l’uomo isolato allo stato di desiderio dell’utile, di lotta, di concorrenza per realizzarlo) era tutta relativa ad un modo specifico di essere della storicità, entro il quale maturavano scissioni e separazioni (e gerarchie e dominanze teoriche), proprie all’organizzazione di un dominio reale. Questo accenno d’analisi, rispetto al discorso d’insieme avviato prima, consente peraltro di fermare l’attenzione sul fatto che l’isolamento dell’economico in una struttura generale implica sia la sua irrealizzabilità allo stato puro (elemento che, agli occhi di Croce, dava probabilmente ulteriore forza alla sua critica all’economismo marxiano) sia il suo diventar concreto (storico) in un quadro complesso di dominanze per ora affidato al carattere solo astratto delle leggi generali («Tutte le leggi nanche alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri». 11. Gramsci afferra perfettamente il carattere storicamente determinato di questa astrazione: «Astrazione sarà sempre astrazione di una categoria storica determinata, vista appunto in quanto categoria e non in quanto molteplice individualità. L’Homo oeconomicus è anch’esso storicamente determinato pur essendo insiememente determinato: è un’astrazione determinata» (Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino 1948, p. 269).

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scientifiche sono leggi astratte; e fra l’astratto e il concreto non c’è ponte di passaggio, appunto perché l’astratto non è una realtà, ma uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare, direi quasi, abbreviato»12: dominio della vita sulla logica13), ma progressivamente articolato intorno alla specificazione del luogo dov’è possibile verificare l’unità complessa della storia. La definizione stessa di questo luogo si può immaginare che sia legata al modo determinato in cui Croce deduce risolameli to dell’economico nella struttura generale dell’utilità. Ma intanto occorre sottolineare che tale isolamento dell’economico – il quale implica sicuramente anche la forte rivendicazione della sua originalità e autonomia, su cui, in modo quasi unanime, ha insistito la storiografia – si svolge secondo una linea parallela alla progressiva storicizzazione dell’utile nella volontà meramente individuale, essenziale all’intelligenza del processo storico, ma non comprensivo di esso. Da qui, anzi, proprio cioè dal nodo costituito da questa mera individualità, si sviluppa la separazione fra il conoscere, che s’appoggia all’oggettività dell’etica, e il fare, ripiegato sul carattere individuale della prassi economica. «Conoscere non è volere; e volere secondo regole oggettive, ossia etiche, non è volere secondo ideali meramente soggettivi o individuali (economici)» (Ibidem, p. 128). Da questo potenziale dominio del conoscere, che Croce s’affatica già ora a differenziare (a separare) dal mondo complessivo della prassi (Ibidem, p. 234), si delinea una distinzione fra storicità e storiografia, che s’acuisce a separazione e opposizione nell’atto in cui l’intero processo di unificazione della storicità si sposta a livello della storiografia.

12. B. Croce, cit., p. 101. 13. Ibidem, pp. 101-102: «Per fortuna la logica non è la vita, e l’uomo non è solo intelletto».

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Da questo passaggio, mi pare che tutta la critica alla teoria del valore di Marx venga conclusivamente illuminata. Il punto su cui Croce batte, nell’insieme, è la natura subalterna dell’economismo marxiano. Rispetto alla scienza, esso non possiede una capacità di astrazione sufficiente per sollevarsi a livello di un principio generale (puro, dice Croce), e rimane inchiodato all’astratto isolamento di una possibile connotazione storica. Rispetto alla storia, esso finisce con l’esprimere il carattere dominante del momento economico (nella forma di «società economica») sugli elementi della sua specificazione complessiva. La linea di lettura di Croce si unifica su questi nodi. È il carattere dell’economico che rovescia le proprie determinazioni formali (ora come scienza pura, ora come pura prassi) sul duplice livello di astrazione dalla storia o di subordinazione alla conoscenza «secondo regole oggettive, ossia etiche». Non si può risolvere la critica di Croce nella generale rivendicazione della complessità del processo storico rispetto alla dimensione soltanto unilaterale dell’economia. E qui forse si può andare anche oltre rispetto all’analisi del materialismo storico. Più difficile la sconnessione fra scienza (teoria del valore-lavoro) e analisi di classe – che abbiamo incontrato nella separazione, operata dal Croce, fra materialismo storico e socialismo –, si può giungere a vedere nel carattere specifico della critica alla teoria di Marx – il suo non essere realmente né storia né scienza – nella sua rilevata incapacità ad offrire l’intelligenza complessiva del processo, il segno profondo, che Croce mira a mettere al centro, del carattere storicamente subalterno del movimento operaio e della sua azione, della sua necessaria limitazione entro l’ottica che può fornire l’ipotetica «società economica in quanto società lavoratrice». L’economismo diventa così il riflesso, nella teoria, del fatto che non si può leggere la storia dal punto di vista del movimento operaio, che è il punto di vista riduttivo e astratto di un tempo sociale riempito soltanto dal tempo di lavoro, dalla quantità di

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lavoro che si oggettiva nelle merci. L’operaio e la sua coscienza (la sua teoria) sono l’astratta economia che cerca di diventare soggetto e protagonista del processo generale. Ciò diventerà esplicito molto tempo dopo, quando Croce, nel ricostruire le vicende teoriche di questi anni, registrerà il nesso evidente fra marxismo e socialismo, ritrovandolo nell’aver dato Marx «impeto e consistenza al movimento operaio, armandolo di una dottrina storiografica ed economica, fatta apposta per esso»14. La teoria economica e storiografica del movimento operaio, proprio perché riflesso dell’orizzonte limitato (di classe) che s’apre a partire da esso, rimane inchiodata in questo limite; la complessità del processo fuoriesce da queste determinazioni, segue la via che ha intanto percorso la realizzazione dell’universale concreto.

3. Storiografia e storia degli intellettuali Qualcosa di più, tuttavia, sembra intravedersi in questa fase di sviluppo del pensiero crociano. Ci sono forse già alcuni elementi per dare una risposta agli interrogativi su cui ci siamo fermati qualche pagina addietro. La funzione del pensiero (del conoscere) tende a costituirsi secondo una linea separata. Il rilievo centrale di economismo alla teoria del valore-lavoro di Marx è un esito particolare di una tendenza più generale a sminuire comunque la possibilità che la storia si condensi nelle determinazioni materiali. Non è l’economico a fare la storia di se stesso. La coscienza in grande si è trasferita fuori dall’agire concreto. La forma di realtà che germina da esso e

14. B. Croce, Come nacque e morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), compreso nel volume cit. su Materialismo storico ed economia marxista. Cfr. in particolare p. 302.

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che è, al massimo della sua purezza e verità, la volontà entro il margine di una determinazione meramente individuale, è limitata dal fatto che «conoscere non è volere», e che l’oggetto del pensiero si costituisce secondo una linea differenziata da quella dove prevale «un ideale meramente soggettivo o individuale». La separazione si definisce, se non si raccoglie tanto l’indicazione generalmente speculativa di una subordinazione del mondo pratico al mondo del conoscere, ma se ci si continua a mantener legati ad una lettura fortemente specifica del suo nascere in relazione alla critica determinata del rapporto storia-economia. È il sostanziale dimensionamento di questo rapporto che contribuisce in modo forse decisivo a trasferire, in questa fase, il livello di comprensione della storicità sul piano generale delle connessioni storiografiche. Il fatto che la storia non abbia una logica che non sia la deteriore filosofia della storia, implica che il livello di comprensione della sua unità si trasferisca fuori del suo tempo materiale, nell’unità del conoscere come unità della scienza della storia. Mantenere ora il legame di questa problematica con il carattere specifico del revisionismo crociano, significa che nell’unità della storiografia si devono ritrovare le ragioni corpose della costruzione di una teoria della storia come storiografia; e che la costruzione di questa teoria deve trovare ora un raccordo definito con il rifiuto dell’economismo quale chiave privilegiata della fondazione della storia. Procedere in questa direzione significa anche non accontentarsi della contrapposizione storiastoriografia, ma rilevare il livello determinato di storicità reale che da un lato consente la riduzione della storia a storiografia, dall’altro innesta sul piano di questa riduzione «tecnica» una chiave differente di lettura della storia. Si intravede così l’orizzonte nuovo che segna di sè il passaggio dall’economismo alla riduzione storiografica della storia. Usando questa terminologia con prudenza critica e con i chiarimenti che aggiungerò fra poco, si può dire che quel passaggio implica la trasformazione

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della analisi strutturale in analisi sovrastrutturale, l’attenzione portata non tanto sulla coscienza dello storico come tale, ma sul dominio della coscienza in grande che traduce la propria storicità reale in termini di storiografia. Per questa via si può giungere a ricollegare la critica al carattere subalterno-unilaterale dell’economia alla fondazione in nuce di un punto di vista che, individuando la storicità nel livello della coscienza (storiografia), recupera entro di essa la storia degli intellettuali come protagonisti di questa nuova comprensione cogliendo così il livello di storicità reale proprio al dominio della storiografia. Ecco perché la «coscienza in grande» è termine più adeguato a esprimere la logica propria di questo processo. Nella storiografia si riflette, come in uno specchio, la storia interna della coscienza intellettuale. Il suo carattere di soggetto generale, dato dal suo essere unità e teoria rispetto alla particolarità del processo materiale, si mantiene nel suo manifestarsi in una storia generale, politica, in breve nella via percorsa per la costruzione di una egemonia. Da qui, la possibile verifica di un’unità di sviluppo della critica crociana a Marx nel sollevamento del problema alla politica e allo Stato, fino all’attenzione portata nella Prefazione del 1917 alla maturazione dell’oggetto della teoria politica: «dalle classi agli Stati». La storicità della storiografia non è insomma da rintracciare in un’articolazione differente dei suoi strumenti tecnici, così come la critica all’economismo non è soltanto la celebrazione del carattere polifattoriale della storia. L’una implica una chiave di lettura d’insieme della storia. La via per ritrovarla è nella definizione di un livello determinato d’intelligenza della storia. L’altra ha già l’occhio al carattere generale del processo e del suo soggetto, che conduce nell’isolamento l’economico come aspetto subalterno e particolare. L’occhio è già fermo al protagonismo della politica, e questo è a sua volta inteso come esigenza e organizzazione intensa dell’egemonia.

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4. Teoria della storia e primato della politica L’arco di tempo che si tende fino a comprendere gli anni fra il 1915 e il 1916 è quello che definisce in termini precisi questo processo. La pagina scritta nel 1917, alla quale ho fatto più volte richiamo, ha dietro di se la ridefinizione progressiva del concetto di storia. Di quel giro di anni (dal 1912-1913 al 19151916) sono i saggi raccolti in Teoria e storia della storiografia. La storia vi è colta nel suo carattere di assoluta contemporaneità, in ciò che la rende presente alla coscienza attiva dello storico («Se, invece, ci atteniamo alla storia reale, alla storia che realmente si pensa, nell’atto in cui si pensa, sarà agevole scorgere che essa è perfettamente identica alla più personale e contemporanea delle storie»15. Il tempo della coscienza e il suo tempo interno alla costituzione della storia si stringono in un legame che Croce chiama di unità-distinzione, ma che può esser guardato dal punto di vista dell’unità solo quando si riesca a concentrare nell’orizzonte del pensiero, il termine sicuramente dominante dell’intero rapporto: E la storia è pensiero, e, come tale, pensiero dell’universale, dell’universale nella sua concretezza, e perciò sempre particolarmente determinato… Nella sua forma più semplice, il che vuol dire nella sua forma essenziale, la storia si esprime per giudizi, sintesi inscindibili di individuale e di universale. E l’individuale, per vecchia tradizione terminologica delle scuole che forse converrà serbare, si dice il soggetto del giudizio e l’universale il predicato. Ma per chiunque domini le parole col pensiero, il vero soggetto della storia è per l’appunto il predicato, e predicato vero il soggetto (Ibidem, p. 49)

Il soggetto è il pensiero (predicato del giudizio), il presente storico e «l’eterno presente» del pensiero (Ibidem, p. 50) nel quale i fatti sono ricondotti all’unità della connessione della coscienza. 15. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 19486, p. 5.

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Qui, il centro della riduzione della storia a storiografia. La rapidità di queste annotazioni non mi consente di approfondire i passaggi. Ma essenziale diventa ora stringere la sostanza di quella riduzione al cammino di Croce dalla critica dell’economismo al primato della politica. Le linee dei due discorsi sono in realtà profondamente intrecciate fra loro. La revisione di Marx permette al Croce di avviare lo spostamento del campo di costruzione della storia verso l’orizzonte del pensiero storiografico; e la costruzione della storia in questo orizzonte, si rovescia a sua volta sui termini specifici del revisionismo recuperando, in positivo, l’unità del soggetto che costruisce la storia. La riduzione di Marx all’interno dell’economia in astratto è la chiusura del suo sguardo all’intelligenza reale dei fatti. Ma lo sguardo di Marx non è soltanto lo sguardo di Marx. Con esso cade un punto di prospettiva collettivo per intendere la storia, e non solo per intenderla, ma per la determinazione interna del suo tempo materiale. È il punto di vista delle classi sociali che dimostra la sua parzialità. Ed entro di esso, delle classi sociali ridotte ad astratto lavoro; delle classi sociali astratte nell’orizzonte del lavoro, le classi proletarie cioè. Un orizzonte che segna insieme sia il loro isolamento dalla complessità dello sviluppo sia il loro carattere subalterno rispetto all’intelligenza di questa complessità. Il soggetto che costruisce la storia è ora la mente. «Torniamo, dunque, con maggior fiducia, al punto di partenza, al vero punto di partenza, cioè non a quello dei fatti già disorganizzati e naturalizzati, ma a quello della mente che pensa e costruisce il fatto… E quel vero punto di partenza ci si mostrerà, non semplice punto di partenza, ma di partenza e di arrivo, non il primo passo della costruzione della storia, ma tutta la storia nella sua costruzione, che è poi il suo costruirsi» (Ibidem, p. 63). Non occorre qui insistere su elementi assai noti di questa analisi del Croce. Ora il ricordo della critica alla storia prammatica, come storia che prende a soggetto l’individuo reso

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astratto e «contrapposto, in quanto tale, non solo all’universo, ma anche agli altri uomini, parimente resi astratti» (Ibidem, p.82), è utile a ridefinire il campo di verità della storia idealistica che incontra la mentalità e lo spirito non semplicemente nell’arco di tempo che si concentra nella coscienza dello storico, ma nell’intero processo della costruzione di sè come storia. La mente, lo spirito sono il soggetto, sia del processo sia della sua autointelligenza. Il concetto che ha compiuto la critica della prammatica e la redenzione deirumanismo, è stato variamente, e più o meno bene, nel corso della storia del pensiero, formolato come la Mente o la Ragione che costruisce la storia, e come la provvidenza della Mente o l’astuzia della Ragione. L’alto valore di questo concetto sta nel cangiare l’umanismo da astratto in concreto, da monadistico o atomistico in idealistico, da grettamente umano in cosmico, da umanismo disumano, com’è quello dell’uomo chiuso e contrapposto all’altro uomo, in umanismo veramente umano, che e l’umanità comune agli uomini, anzi all’universo tutto, che tutto, nelle sue più riposte fibre, è umanità, cioè spriritualità (Ibidem, p. 86).

La redenzione dell’umanesimo è ottenuta per una via sintomatica: quella della universalizzazione del soggetto del processo, ricondotto all’unità della mente che corre attraverso ogni determinatezza. Il campo della sua verità non esclude più una teoria del processo, reso ora decifrabile dalla unificazione del suo soggetto e dalla introiezione dei fatti nella dimensione di questo soggetto. Ora come si colloca questo cammino di Croce rispetto all’allontanamento da Marx, e alla rifondazione della politica? È tutta ancora da analizzare, nella letteratura sull’argomento, la dimensione di storicità reale propria alla riduzione storiografica della storia. Non basta descrivere e ricomporre il binomio storia-conoscenza. Ciò che colpisce è la ricomposizione di questo rapporto nell’unità della mente. E la mente non è

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affatto l’astratto idolo della coscienza, ma emerge a sua volta dall’unità di un processo reale che ha isolato il livello di essa dalla costruzione-comprensione delle connessioni materiali della vita sociale. La riduzione alla storiografia non è dunque solo l’approfondimento di una tecnica del conoscere. Questo aspetto potrebbe senza dubbio essere analizzato con profitto, ma l’elemento più rilevante che ora preme sottolineare è che la ricomposizione della storia a livello della storiografia include immediatamente 1) un modo di comprendere il processo reale che è insieme un modo di intenderne la costituzione, 2) un modo di rendere dominante la coscienza intellettuale e la sua storia, 3) un modo di costruire un’egemonia specifica sul terreno della conoscenza, che non è poi solo il terreno della conoscenza, ma un momento di determinazione della storia sociale e politica di una egemonia. Tutto ciò, e quest’ultimo punto in particolare, si rende esplicito nell’idea che il punto di riferimento della mente come «umanità comune agli uomini… cioè spiritualità», come coscienza degli intellettuali, che emerge nella storia del mondo moderno, è il livello al quale si rivela complessivamente l’intelligenza del processo reale. Dietro la fondazione crociana della storiografia c’è dunque la storia di una egemonia. Dietro l’intensa concentrazione di storia che si ritrova nella nuova unità del conoscere storico, si intravedono le linee di una reale riduzione della storia alla coscienza «in grande» che riflette la storia politica degli intellettuali. La lontananza dall’economismo è così segnata dalla conquista di un livello complessivo di intelligenza della storia che ha per soggetto la priorità della coscienza intellettuale. Si incomincia così a chiarire la via seguita dal Croce per individuare poi la distanza da Marx come ciò che divide il protagonismo dello Stato dal protagonismo delle classi. Quel livello di intelligibilità della storia, definito dal Croce in Teoria e storia della storiografia, si muove a ridosso di una possibilità di lettura del processo condizionata dal dominio della sovra-

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struttura. Ancora di più: in quanto vero soggetto della storia è l’unità sintetica dell’individuo e dell’idea («la vera storia è storia dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto individuo». Ibidem, p. 93), il dissolvimento del concetto di classe si estende fino all’identificazione della costituzione del processo con l’autointelligibilità del pensiero: il principio di spiegazione delle cose va cercato e riposto «nel processo stesso, che nasce dal pensiero e al pensiero ritorna, ed è intelligibile dell’autointelligibilità del pensiero, il quale non ha mai uopo di appellarsi a cosa a lui estranea per intendere se medesimo» (Ibidem, p. 87). Qui l’immanenza, il senso di una realtà che non esce da se medesima e così agisce sul mondo, non il vano orpello di un idealismo impotente. L’unità del processo e del pensiero è la teoria della funzione degli intellettuali, come protagonisti del processo di creazione e di comprensione della storia. E questa stessa teoria si definisce intorno a un corpo reale, che ne è sfondo e il risultato complessivo, e che implica il pensare secondo lo Stato «la cui aristocrazia sono appunto gli intellettuali»16. Nei saggi degli anni Venti, raccolti in volume in Etica e politica, motivo si fa esplicito al massimo grado. Non meravigli la ricerca in Croce della centralità dello Stato. Il suo carattere, mai più contraddetto, è definito nel saggio sulla storia eticopolitica. Da questi difetti di teoria e da queste angustie di contingenza la storia morale o etico-politica si deve disciogliere, correggendo se stessa e concependo come suo oggetto non solo lo

16. A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino 1949, pp. 46-47: «Con Hegel si incomincia a non pensare più secondo le caste o gli stati, ma secondo lo Stato, la cui aristocrazia sono appunto gli intellettuali… Senza questa valorizzazione degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali».

612 Stato e il governo dello Stato e l’espansione dello Stato, ma anche ciò che è fuori dello Stato, sia che cooperi con esso, sia che si sforzi di modificarlo, rovesciarlo e sostituirlo: la formazione degli istituti morali nel più largo senso… Che se poi il complesso di questo movimento si vuol considerare come la vita dello Stato nel più alto senso, non ripugneremo alla parola sempre che la cosa s’intenda così, e, anzi, appunto per questo ci sembra adatta la denominazione di etico-politica in cambio di quella di morale, che ritiene alquanto del vaporoso. Creatori di questi istituti sono i geni politici, e le aristocrazie o classi politiche che li esprimono dal loro seno e che esse a loro volta generano e mantengono17.

La storia che ha per oggetto lo Stato così inteso, non grettamente generatore di forza ma di forza insieme e di moralità, implica la definizione di una egemonia. Qui oggetto del discorso non è soltanto la storia della «politica», e non è nel senso di Droysen18 che viene così affermato il primato della politica, come il Croce sente il bisogno di chiarire. L’impressione che si ricava è perfino che il Croce, in questi anni, avverta – senza possedere peraltro gli strumenti per un’analisi reale dei processi – che l’ampliamento delle dimensioni moderne della storia, la presenza di grandi masse umane sul terreno dell’antagonismo e dello scontro mondiale, la volontà di partecipazione di queste masse alla vita dello Stato, pongono il problema di un più alto livello di unificazione della vita etica e della vita politica, tendano a spostare più in alto e a un livello di più ampia generalità il problema della direzione politica. Lo Stato (la «vita stessa dello Stato nel suo senso più alto») e le «aristocrazie» che si muovono a ridosso di esso, e pensano e agiscono secondo la sua universalità, insieme condensano nei suoi caratteri specifici che cosa il Croce intende per primato 17. B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica (in Etica e politica, cit., pp. 273-83, in particolare p. 279). 18. Cfr. le osservazioni del Croce (Ibidem, p. 278).

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della politica. Molte direzioni e linee di lavoro del Croce si stringono ora insieme. Dalla critica all’economismo, guardato soprattutto nella prospettiva di un soggetto generale lì assente o inchiodato alla propria astrattezza; alla fondazione della storiografia, come sofisticato strumento di una egemonia intellettuale; all’interesse costante per l’unità della vita etico-politica dove c’è sia la partecipazione del Croce, intellettuale impegnato nella politica, nel problema della costruzione reale di uno Stato19, sia la sua presenza come teorico di un’egemonia che il suo asse, come scrive Gramsci, nel far accettare quale «principio universale» le condizioni di esistenza di una classe determinata e dei suoi intellettuali organici20. Primato della politica si trasforma così in primato della storia come storia degli intellettuali; in primato dello Stato come luogo di organizzazione generale della vita etico-politica, che rigetta sullo sfondo l’economia e la sua storia come storia speciale, particolare, subalterna21. Intorno a questa intuizione,

19. Osservazione importanti sugli aspetti più propriamente politici della funzione storica del Croce si leggono ora nel volume di L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari 1974. 20. Croce «crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande accuratezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio» (A. Gramsci, Il materialismo storico, cit., pp. 196-197). 21. «Nella cerchia di questa storia morale o etico–politica le altre storie attinenti all’attività pratica, quelle dell’agricoltura, delle invenzioni tecniche, dell’industria, del commercio, della cultura e via discorrendo, perdono la loro autonomia e vengono risolute in quella, perché le opere da loro descritte sono, a volta a volta, presupposti della storia etico-politica e strumenti che essa adopera ai suoi fini, materia che essa forma e riforma» (Croce, Storia economico-politica e etico-politica, cit., pp. 279-280).

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s’addensa la storia di un ceto. E non solo essa, a guardar bene. In quanto legata alla storia dello Stato, della trasformazione della sua relazione utilitaria in «sintesi di forza e consenso, di autorità e libertà»22, la storia degli intellettuali implica, in realtà, l’intera ridefinizione dei rapporti di potere fra le classi; Essa interpreta (e costruisce) la storia della società nazionale e dello Stato; attraverso ad essa passa la determinazione dell’egemonia, «la vita reale dello Stato che trabocca dalla mera politica» (Ibidem, p. 233). Il ceto che pensa «secondo lo Stato» perché si concentra intorno ad esso, riflette anche le linee di organizzazione generale della società, la sua vita interna, i suoi rapporti, la storia della sua tradizione, la continuità del suo passato col suo presente. La parola Stato acquista nuovo significato: non più semplice relazione utilitaria, sintesi di forza e consenso, di autorità e libertà, ma incarnazione dell’ethos umano e perciò Stato etico o Stato di cultura, come anche si chiama. E con la parola Stato, prendono nuovo significato quelle di autorità e di sovranità, che sono ormai la autorità e la sovranità del dovere e dell’ideale morale; e di libertà, che in quanto libertà morale non può non essere tutt’una cosa con quel dovere e con quell’ideale; e di consenso, che è ormai approvazione etica e devozione bensì alla forza ma alla forza che è forza di bene… e perfino prende nuovo significato la parola eguaglianza, che non vuol dire più eguaglianza matematica, ma la cristiana eguaglianza in Dio, di cui tutti, umili e alti, siamo figli, coscienza della comune umanità e dei comuni diritti (Ibidem, p. 230).

Il carattere generale del soggetto che costruisce la storia (soggetto che, si ricordi, è unità di idea e individuo) si rovescia sull’ideologia dell’eguaglianza come «coscienza della comune umanità», da cui sparisce e si occulta il momento del contrasto materiale delle forze e delle classi. 22. B. Croce, Politica in nuce (in Etica e politica, cit., p. 230).

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5. Gramsci e Croce Stretto in questo quadro l’itinerario di Croce teorico dell’egemonia, diventa forse più chiara la genesi della lettura gramsciana. Il punto-chiave è da ricercare dunque qui, in quanto Croce analizza la storia a livello dello Stato e della politica, il disegno concreto dell’egemonia diventa il centro della sua strategia teorica. Ed è appunto nell’orizzonte dello Stato e dell’egemonia – l’orizzonte realmente toccato dal Croce – che Gramsci interpreta l’unità dello svolgimento e dell’operosità teorica del filosofo napoletano. Cadono le ipotesi di un originario crocianesimo di Gramsci23 dinanzi al fatto che Croce non è mai per Gramsci un isolato inventore di idee, ma è l’interprete più definito – e questo, oggi, potrebbe anche esser messo parzialmente in discussione24 – dell’egemonia storica della borghesia nazionale. È anzitutto la riduzione del marxismo ad astratto economismo che permette al Croce di aprire questa dimensione strategica. Da lì, come s’è visto, germina qualcosa di più che un moto di revisione teorica. L’appiattimento del marxismo sull’economia non solo dà un carattere particolare al primato della politica – come Gramsci più di ogni altro ha fatto comprendere – ma permette al Croce di rinchiudere nell’ottica particolare e subordinata dell’economia il rapporto complessivo delle masse con la storia. Non dunque soltanto un moto di revisione teorica, ma, a partire da esso, un rinsaldamento della funzione

23. Per la critica di questa interpretazione si vedano le pagine di E. Garin in Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1974, in particolare p. 341 e 354. 24. Per questa necessaria, nuova delimitazione delle forme storiche dell’egemonia crociana si vedano i primi accenni nel volume già cit. della Mangoni (L’interventismo della cultura, cit.), in particolare a p. 13. Ma tutto il volume della Mangoni mi sembra costruito anche sulla presa di coscienza dei «limiti» dell’egemonia crociana che avvia alla comprensione della «morte teorica» di Croce già nell’immediato secondo dopoguerra.

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mediatrice delle classi dirigenti entro il circolo di un primato della politica come primato della direzione sui bisogni collettivi e i movimenti di espansione della società. La progressiva semplificazione del rapporto con il marxismo che, nel giudizio crociano degli anni 20, si riduceva a considerare «sostanziale la vita economica e apparenza, illusione o soprastruttura… la vita morale»25, s’accompagna, in realtà, alla destorificazione dell’utile, e comunque al suo tendenziale isolamento nelle potenzialità dell’individuo come tale26. Esso si traduce nella svalutazione effettiva dell’economia come momento espressivo di rapporti sociali determinati; ovvero nella divaricazione fra economia e storia, che s’incontrano solo là dove l’utile diventa il principio direttivo dell’azione meramente individuale. L’attesa d’inveramento di questa azione nella dimensione eticopolitica – il vero livello di compimento dell’unità e di incontro fra gli uomini – riconduce la storia nel suo insieme all’interno di questa dimensione, nella quale il riconoscimento della comune umanità si svolge tutto all’esterno del duro antagonismo delle utilità. Gramsci parla del momento etico-politico come «catarsi» della storia, unità del processo colto entro la forte concentrazione della storia nei confini della coscienza intellettuale, della storia degli intellettuali, e della loro reale funzione di egemonia politica come Stato. «Si può osservare che un tale modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la catarsi dal momento economico al momento etico-politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso»27. 25. B. Croce, Etica e politica, cit., p. 273. 26. Si vedano le pagine dedicate all’analisi specifica della «forma» economica nella Filosofia della pratica (Bari 19577), in particolare alle pp. 213-215. 27. A. Gramsci, Il materialismo storico, cit., p. 186.

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Ma il significato pieno della «catarsi» si avverte allorché si ponga mente al fatto che la storia etico-politica è l’ipostasi dell’egemonia: Che la storia etico-politica sia la storia del momento dell’egemonia si può vedere da tutta una serie di scritti teorici del Croce… Si può vedere anche e specialmente da alcuni accenni sparsi sul concetto di Stato (Ibidem, p.188). Si osserva che la storia etico-politica è una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’egemonia, della direzione politica, del consenso, nella vita e nello svolgimento dell’attività dello Stato e della società civile. Questa impostazione che il Croce ha fatto del problema storiografico riproduce la sua impostazione del problema estetico; il momento etico-politico è nella storia ciò che il momento della forma nell’arte: è la liricità della storia, la catarsi della storia (Ibidem, p. 187).

Un’attenzione particolare merita quest’ultima parte del testo di Gramsci. Il momento dell’egemonia (storia etico-politica) è la forma della storia perché è il momento dell’unità. La varietà empirica della storia ritrova unità nella sua determinazione in una forma di conoscenza (storiografia), che si traduce progressivamente «in tutto il conoscere»28. Questa stessa forma di conoscenza, peraltro, implica l’unificazione del soggetto della storia, il suo essere, in senso stretto, l’elemento formale del processo. In Croce c’è, così, una costruzione del concetto di storia (il luogo dell’unità della storia non coincide con il luogo del suo svolgimento empirico). È nella forma che il processo realizza il proprio concetto. La forma conserva l’egemonia sul processo. Gramsci descrive il legame tra la forma così intesa, l’unità e la costruzione dell’egemonia. La serie di argomenti che Croce adduce per rifiutare la filosofia della storia

28. Basti pensare al punto d’arrivo costituito da La storia come pensiero e come azione, (Bari 19434). Si riveda in particolare la sez. intitolata «La conoscenza storica come tutta la conoscenza», alle pp. 19-24.

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(«la ricerca del fine trascendente è la filosofia della storia»; «la filosofia della storia è altrettanto contraddittoria quanto la concezione deterministica da cui sorge e a cui si oppone»29) non coincide affatto con la negazione della forma come luogo di costruzione della storia. Si tratta d’intendersi. La filosofia della storia, nell’accezione di Croce, è un modo particolare di cogliere il rapporto del processo alla forma. Un modo che, comunque inteso, accentua il dominio dei contenuti sull’insieme del processo, guardato come «serie» progressiva di una determinazione specifica (Ibidem, pp. 58-59). Il processo storico, in Croce, è invece dominato in senso stretto dalla forma. Non dalla forma del conoscere in quanto tale, ma da ciò che l’unificazione del processo nella forma del conoscere lascia vedere. La concentrazione della storia in quella forma, e la realeapparente disattenzione ai contenuti, esprimono il principio che il contenuto generale della storia, quello che la solleva a espressione centrale del sapere moderno, è la necessità della mediazione della forma, nella veste dell’unità di etica e politica, dello Stato come organizzazione dell’egemonia, degli intellettuali come veri mediatori-moderatori di tutto lo sviluppo, della storiografia, infine, come luogo di unificazione della presa di coscienza. È nella connessione di questi elementi che avviene realmente la costruzione del concetto di storia in Croce. Non è dunque da prendere alla lettera il rifiuto crociano della storia «a disegno». La forma, storicamente determinata in queste sue connessioni, è il «disegno» di Croce. Ma determinata in queste sue connessioni, la forma è par excellence la mediazione dello Stato liberale rispetto ai movimenti antagonistici e di massa della storia moderna. È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma, abilmente mascherata, di storia a disegno, come 29. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 56-57.

619 tutte le concezioni liberali riformistiche. Se si può affermare genericamente che la sintesi conserva ciò che è vitale ancora della tesi, superata dall’antitesi, non si può affermare, senza arbitrio, ciò che sarà conservato, senza cadere nell’ideologismo, senza cadere nella concezione della storia a disegno. Che cosa il Croce ritiene che della tesi sia da conservare, perché vitale? Non essendo che raramente un politico pratico, il Croce si guarda bene da ogni enumerazione di istituti pratici e di concezioni programmatiche, da affermare intangibili, ma tuttavia essi possono essere dedotti dall’insieme della sua opera. Ma se anche ciò non fosse fattibile, rimarrebbe sempre l’affermazione che è vitale e intangibile la forma liberale dello Stato, la forma cioè che garantisce a ogni forza politica di muoversi e di lottare liberamente. Ma come può confondersi questo fatto empirico col concetto di libertà, cioè di storia? Come domandare che le forze in lotta moderino la lotta entro limiti (i limiti della conservazione dello Stato liberale) senza cadere in arbitrio o nel disegno preconcetto?… Concepire lo svolgimento storico come un gioco sportivo, col suo arbitro e le sue norme prestabilite da rispettare lealmente, è una forma di storia a disegno, in cui l’ideologia non si fonda sul contenuto politico ma sulla forma e sul metodo di lotta30.

L’insistenza di Gramsci sul dominio della forma, racchiude così una critica all’origine storicamente determinata dell’inversione del rapporto forma-contenuto, del sollevamento di un fatto empirico a criterio di unificazione del concetto di storia come movimento e sviluppo31. L’ampiezza di questo rove-

30. A. Gramsci, Il materialismo storico, cit., pp. 221-222. 31. «Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione… Ma questo storicismo da moderati e riformisti non è per nulla una teoria scientifica, il vero storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, di una ideologia nel senso deteriore. Infatti perché proprio la conservazione deve essere proprio quella data conservazio-

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sciamento sta nel fatto che esso esprime per intero la comprensività reale del concetto staccato dalla realtà. Non è un fatto qualunque, quello che manifesta la forma. Tutta la storia dello Stato moderno e dei suoi intellettuali organici si produce e si riproduce attraverso lo sforzo che tecnicamente si esprime in Croce nella separazione del divenire dal concetto del divenire. L’attenzione di Gramsci si appunta su questo passaggio. In Croce si afferma dialettico… ma il punto da chiarire è questo: nel divenire vede egli il divenire stesso o il concetto del divenire?… Se è necessario, nel perenne fluire degli avvenimenti, fissare dei concetti, senza i quali la realtà non potrebbe essere compresa, occorre ed è anzi imprescindibile fissare e ricordare che realtà in movimento e concetto della realtà, se logicamente possono essere distinti, storicamente devono essere concepiti come unità inseparabile. Altrimenti avviene ciò che avviene a Croce, che la storia diventa una storia formale, una storia di concetti, e in ultima analisi una storia degli intellettuali (Ibidem, pp. 216-17).

La scissione fra il divenire e il suo concetto, propria allo «storicismo» del Croce, è ciò che segna specificamente il dominio della forma. Ma in questa scissione si concentra sia l’astrattezza di questo storicismo, sia la capacità sua di costruire – nella concretezza del suo formalismo – lo spessore della storicità corrispondente alla sostanza di una storia reale, che si afferma e si definisce a partire dalla coscienza intellettuale, la quale si fa, come Stato, organizzazione delle connessioni sociali. La separazione del concetto non è che la riproduzione, sul piano schietto della teoria, di un modo di affermare il primato della politica come separazione e dominanza dello Stato e degli intellettuali. Il raccordo fra Stato e intellettuali è il punto de-

ne, quel dato elemento del passato? E perché si deve essere irrazionalisti e antistoricisti se non si conserva proprio quel determinato elemento?…» (Ibidem, pp. 219-220).

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cisivo di tutto il discorso, perché solo nell’affermazione organica di questo nesso l’espansività dello Stato si manifesta come compenetrazione del suo carattere generale con le determinazioni «particolari» della società. L’emergere di questo punto è molto importante per dare una prima valutazione del livello storico della risposta di Croce alla crisi nazionale degli anni Venti. L’impressione è che Gramsci colga nel segno allorché stringe il suo discorso su Croce intorno alla forma dello storicismo, all’unità ideale (politica) del processo entro la quale si definiscono i margini di intangibilità della storia. È tramite la costruzione di questa unità che Croce definisce la propria risposta sul livello raggiunto dalla grande crisi di massa fra il primo e il secondo decennio del secolo. La risposta non è né olimpica, né ingenua, né di intellettuale acchiappa nuvole, anche se andrebbero studiate con attenzione le ragioni della caduta di egemonia del Croce nei confronti degli intellettuali italiani a partire dagli anni della vittoria del fascismo e anche prima32, e i suoi stessi ripensamenti su una serie di temi centrali33. L’urgenza della costruzione dello Stato, nella forma del primato della politica, è assai viva nel Croce

32. «La personalità di Croce, che aveva in modo indiscutibile dominato la cultura italiana dal 1902, l’anno dell’Estetica, sembrava quasi allontanarsi, divenire progressivamente estranea agli intellettuali italiani a partire dalla guerra libica, così come si allontanava e diventava estranea la personalità politica che aveva dominato negli stessi anni, Giolitti» (L Mangoni, cit., p. 13). Spunti importanti anche nel saggio di L. Paggi, Gli intellettuali nella rivoluzione antifascista (in Rinascita, n. 35, settembre 1973): «L’antifascismo in Croce, nonostante il suo grande peso sul piano degli orientamenti culturali, è virtualmente battuto sul piano politico già prima del crollo del fascismo. La sua visione dell’intellettuale si scontra infatti con un dato strutturale della società italiana: il partito di massa». 33. Osservazioni interessanti sulla trasformazione del concetto di Stato in G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di B. Croce, Napoli, 1966, pp. 31-38 e 86-87.

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in quegli anni decisivi. Il fatto che essa sia presente nell’aspetto di una ricostruzione del sapere organico all’egemonia degli intellettuali, di una riabilitazione della storia europea e della tradizione nazionale non semplicemente come storia della libertà, ma come storia della libertà «consapevole di se stessa»34, implica sia la determinazione di questo sforzo nella creazione di «uno strumento pratico di dominio e di egemonia sociale» (Ibidem) sia – e ciò interessa assai più – la presenza, abbastanza evidente, della presa di coscienza del carattere collettivo e sociale della politica (di qui, nel quadro di riferimento crociano, la sua eticità!), del suo avvolgere l’intera storia della società nazionale e del nesso dialettico di separazione e dominio fra intellettuali e masse. Al Croce è probabilmente presente almeno qualche aspetto della dimensione del processo. Il primato della politica e l’inveramento suo nell’eticità lasciano da parte il prammatismo della virtù individuale, per aprire la tematica dello Stato alla dimensione propria di una virtù collettiva, che si esprime nel rapporto politico fra intellettuali e storia nazionale. All’attenzione del Croce è ora concretamente presente la nuova radice e dimensione sociale degli intellettuali come ceto, la nuova espansività del ceto mediatore-dirigente. A questo ceto è legata la vitalità stessa della politica, come Croce scrive in un testo rivelatore di Etica e politica. La politica tramonterebbe, perché le potenze del mondo sono ora gli industriali e gli operai, la plutocrazia e il proletariato, mentre il ceto medio e la borghesia, che era quello che pensava e faceva politica, è via via più schiacciato tra le due enormi forze antagonistiche, e il mondo moderno non si muove più secondo la politica ma secondo l’economia. Ora, come si può pensare che tramonti una categoria spirituale essenziale dell’umanità? Come si giunge a così strano concetto? Intermediaria di questo errore è appunto l’identificazione della

34. A. Gramsci, Il materialismo storico, cit., p. 195.

623 politica con la classe borghese, col ceto medio. Ma si può dire che nelle parole stesse sia indicata la confutazione dell’errore, perché il bürgerlich è anche il civile, e il ceto medio è anche il ceto mediatore, ossia non è un ceto economico, ma è il rappresentante della mediazione nelle lotte utilitarie ed economiche, la quale non si è attuata e non si attua altrimenti che col superare e perciò regolare quella lotta mercè concetti non più economici, e neppure di mera e brutale politica, ma eticopolitici, come soglio denominarli. Cosicché il ceto medio, di cui qui si parla, è una classe non classe, simile a quel ceto generale al quale lo Hegel riconosceva come cerchia dell’attività che gli spettava, come suo proprio affare, gl’interessi generali35.

È probabile, insomma, che al Croce non manchi il senso di una nuova dimensione della storia, incorporata peraltro nell’ampliarsi del rapporto Stato-egemonia-intellettuali, il soggetto presente in grado di recuperare nella storia della propria connessione l’intero rapporto fra passato e presente, fra continuità e novità. Gramsci è riuscito a ricostruire i principii direttivi delle storie di Croce a partire dal concetto della riduzione della storia a storia dell’egemonia. Da un lato, il timor panico dei movimenti giacobini e in genere «di ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico»36: da lì, la sclerosi della teoria del rapporto passato-presente, inchiodata in un nesso precostituito fra tesi, antitesi e sintesi, fra restaurazione e rivoluzione37. Dall’altro, l’impossibilità

35. B. Croce, Etica e politica, cit., pp. 337-338. 36. A Gramsci, cit., p.184. 37. «Nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi, la sintesi sarà un superamento, ma senza che si possa a priori stabilire ciò che della tesi sarà conservato nella “sintesi”, senza che si possa a priori misurare i colpi come in un ring convenzionalmente regolato…; l’errore è di elevare a momento

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di uscire dal quadro di riferimento dell’egemonia, in modo che storia è soltanto il momento dell’espansione culturale o etico-politica, mai quello della «rottura» rivoluzionaria non a caso, nel giudizio di Gramsci, assorbito nell’espansione del momento politico ed egemonico sia nella Storia d’Italia dal 1875 al 1915 sia nella Storia d’Europa nel secolo XIX38. Tutta la storia delle società nazionali, e il loro emergere come Stati, appare così concentrata nella storia della direzione, nel punto d’arrivo della politica, nell’espansione ideale dell’egemonia. Il dominio del concetto sul divenire non è affatto l’emergere di una scolastica astratta, di un platonismo fuori epoca, ma la determinazione formale della storia chiusa non tanto nel cervello dei filosofi quanto nella connessione fra lo Stato e i suoi intellettuali organici. Croce dà così una risposta ai problemi dei suo presente. Rispetto alla crisi, egli non s’atteggia affinando l’evasione dalla storia tramite un sapere d’élite. La storia, il suo movimento si legano per linee interne al primato dell’egemonia. Gli intellettuali esprimono ora una radice sociale collettiva. Non classe, ma cemento e mediazione dell’intera società. È in questo schema, appunto, una risposta possibile alla crisi del tempo. Anche qui sovviene l’acume della ricostruzione gramsciana. La direzione, colta nell’espansione del momento etico-politico, esprime anzitutto la capacità di graduare le novità, di mediare la spinta del nuovo protagonismo di massa, conservando i rapporti fondamentali di potere fra le classi. La teoria del rapporto restaurazione-rivoluzione, per cui «si presuppone meccanicamente che la tesi debba essere conservata dall’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene

metodico ciò che è pura immediatezza, elevando appunto l’ideologia a filosofia» (A. Gramsci, cit., p. 185). 38. A. Gramsci, cit., in particolare pp. 192-193.

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preveduto, come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata» (Ibidem, p. 18-5), è la teoria del mantenimento di un quadro di riferimento proprio alla storia delle classi dirigenti. Di qui, la domanda centrale di Gramsci sul significato «contemporaneo» di Croce. Si pone il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità, non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione-rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì così a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali… Ma, nelle condizioni attuali, il movimento corrispondente a quello del liberalismo moderato e conservatore non sarebbe poi precisamente il movimento fascista? (Ibidem, p. 193).

L’interesse del problema posto così da Gramsci non sta nell’accostamento in genere tra la funzione politica del Croce e gli esiti del movimento fascista, quanto in un rilievo relativo alla determinazione storica della proposta egemonica di Croce e delle sue obiettive convergenze, dinanzi ad una società che accentuava gli elementi di socializzazione delle forze produttive e di partecipazione politica di massa fin dal primo decennio del Novecento, con l’esplosione delle guerre imperialistiche. In questo quadro, il legame tra fascismo e vecchia destra o destra storica si poteva ritrovare – ed era di fatto dallo stesso fascismo «nei primi anni del suo sviluppo» invocato – nello sforzo di mantenere sotto la direzione delle vecchie classi dirigenti il movimento di sviluppo e di accrescimento delle forze produttive. Sono questi i termini precisi del discorso di Gramsci, che vai ben la pena di riportare per intero:

626 Forse non è senza significato che nei primi anni del suo sviluppo il fascismo affermasse di riannodarsi alla tradizione della vecchia destra o destra storica. Potrebbe essere una delle tante manifestazioni paradossali della storia… questa per cui il Croce, mosso da preoccupazioni determinate, giungesse a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondarie… L’ipotesi ideologica potrebbe essere presentata in questi termini: si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento piano di produzione, verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza perciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l’unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell’industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti. (Ibidem).

La convergenza obiettiva della destra storica (Croce) e del fascismo si ritrova così nella volontà comune di evitare un cambiamento di direzione della società nazionale in un momento in cui le inquietudini di massa – nel quadro di una generale socializzazione del lavoro – incontrano direttamente i livelli della politica, lina risposta politica, insomma, alla socializzazione della produzione nell’epoca del monopolio. Una presa di coscienza, in negativo, del protagonismo delle masse, il cui segno indiretto – e non so dire quanto consapevole – potrebbe essere, nel Croce, nella simmetrica estensione della dimensione collettiva dell’intellettuale.

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Anche se, va detto subito e niente affatto in un inciso, per il Croce la permanenza della forma liberale dello Stato, che segna anche il margine di intangibilità della storia, mantiene la sua dialettica in uno schema di separazioni che si dimostrerà progressivamente incapace di seguire il movimento di una realtà la quale tende ad accentuare i propri aspetti «totalitari» e unitari. È probabile che si possa vedere qui un limite storico di Croce anche rispetto all’adeguatezza maggiore di altre risposte – a partire da quella corporativa del fascismo – di fronte alla contraddizione fra socializzazione della produzione e appropriazione ristretta del profitto. Ed è anche probabile che si possa ritrovare in questo limite la ragione principale del rapido declino dell’egemonia crociana, già forse a partire dagli anni in cui non solo le combinazioni casuali della pratica ma qualcosa di più profondo definì l’incontro degli intellettuali italiani con il fascismo39. Ma sicuramente, il progressivo arroccamento di Croce nella difesa della mediazione liberale – alla quale ogni ovvio riconoscimento di benemerenza politica è ora superfluo – finì con lo svuotare sempre di più quella risposta di un positivo riferimento al presente, accentuando gli elementi di conservazione di un mondo che il presente storico per suo conto, e per mille vie anche interne alla storia delle classi dominanti, contribuiva a rendere definitivamente passato. La storia della libertà, e la storia degli intellettuali come manifestazione principale di essa, finiscono con l’accentuare il proprio rapporto di separazione. Esse, che pure portano in sè l’esigenza di trasformare la storia della coscienza in quella della politica e dello Stato, diventano sempre più «religione 39. Si vedano in particolare, per le osservazioni importanti che contengono, i paragrafi «Gli intellettuali fra antifascimo e fascismo» e «Giuseppe Bottai. Verso la politica culturale del fascismo» alle pp. 48-65 e 65-80 del volume cit. della Mangoni.

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per un piccolo numero di intellettuali»40. L’espansività della libertà nella sua forma ideologica di religione della libertà trova un limite rigoroso nella falsa universalità in cui essa si muove (Croce «crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece scrive con grande accuratezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio» (Ibidem, pp. 196-97). La religione degli intellettuali non diventa elemento di espansione di una coscienza di massa: «questa assenza di espansività nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente della filosofia della libertà» (Ibidem, p. 197). Così come lo Stato e la direzione politica dei «moderati» hanno asservito le grandi masse contadine all’ideologia della libertà, senza far penetrare fra esse la libertà come forma espressiva di nuovi rapporti sociali: «il non aver nessun partito centralizzato le aspirazioni delle grandi masse contadine per una riforma agraria non ha appunto impedito a queste masse di diventare fedeli della religione della libertà, ma libertà ha significato per esse solo la libertà e il diritto di conservare le loro superstizioni barbariche, il loro primitivismo, e le ha perciò costituite in esercito di riserva del partito del Sillabo» (Ibidem, p. 196). La separazione fra la vita delle masse e la vita dello Stato segna in modo definitivo il limite storico della religione della libertà. Inchiodato al distacco fra le masse e lo Stato, lo sguardo del Croce si fa ostile a riconoscere la misura storica e sociale dell’economia, il suo emergere come politica nella attività organizzata delle masse.

40. A. Gramsci, cit., p. 196.

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6. L’unità di politica ed economia Qui, il punto d’arrivo del primato della politica in Croce. La critica all’economismo, da cui Croce partì illustrando Labriola e poi rovesciando il suo discorso, ha proceduto secondo la linea di una separazione radicale fra politica ed economia. Tutta l’operazione crociana di revisione del marxismo, alla luce di questi sviluppi, è interna all’ipotesi di una sconfitta generale del movimento operaio, guardata certamente dalla prospettiva della teoria e della storia dell’egemonia. La posizione in cui Croce colloca il marxismo si concentra nell’alternativa fra rifiuto o subordinazione nei quadri di riferimento dell’egemonia dominante. L’inintelligibilità del processo storico dal punto di veduta del marxismo e il carattere parziale subordinato dell’economia si trasformano, nella storia di Croce, nella subordinazione delle masse all’egemonia dello Stato, che corrisponde al carattere separato-dominato dell’economia rispetto alla politica. Liberata dall’economia, cui sono ricondotti meccanicamente i rapporti di produzione, la politica costruisce le proprie mediazioni in apparenza senza costringimenti materiali, nel cielo del concetto separato dal suo divenire, nel cielo dello Stato intorno al quale s’addensa l’articolazione politico-ideale del ceto intellettuale, divenuto ceto mediatore, soggetto della politica, «sciolto definitivamente… in significato spirituale»41. Il primato della politica diventa così un esito specifico dell’egemonia borghese42. È il segno teorico del rap-

41. B. Croce, Etica e politica, cit., p. 338. 42. «la politica che è e non può non essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non v’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sè, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di essere nell’eticità» (Etica e politica, cit., p. 228). Dove la spiritualità in ultima analisi della politica è il pendant teorico dell’egemonia politico-ideale degli intellettuali.

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porto di separazione-dominio fra le masse e lo Stato, di una storia che passa nell’orizzonte delle classi dirigenti, delle loro forme di coscienza, della loro capacità di mediazione. Ed è insieme il segno dell’isolamento dell’economia, del suo ripiegare, crocianamente, sulla mera utilità, funzionale anche questo al dominio della politica come principio separato. È da sottolineare pure qui il vigore dello sforzo crociano di ricondurre la dimensione della storia nazionale in questo tipo di intelligenza del processo. Il livello alto della sua comprensione, qualunque sia stato il suo destino di protagonista e interprete del presente, qualunque sia il limite della permanenza sovrastorica di vecchie mediazioni capaci solo di conservare il passato, è nel fatto che la concentrazione sulla politica, gli intellettuali (l’egemonia nelle sue connessioni) ferma, dal punto di vista delle classi dominanti, un polo decisivo intorno al quale si sviluppa la lotta reale nell’epoca dell’imperialismo e della transizione. L’idealismo di Croce, e non solo quello, va forse riguardato a quest’altezza del processo, lì recuperato nella sua capacità di far uscire la cultura nazionale dalle secche del provincialismo. Nella lotta per l’egemonia, il marxismo – esorcizzato dal Croce, ricondotto nei confini di una metodologia neutrale e infine di una metafisica della materia – ritorna come protagonista dello scontro politico-ideale nella forma adeguata alla contraddizione del rapporto politico fra le masse e lo Stato. Questo è Gramsci, la ragione del suo incontro col Croce come interlocutore privilegiato, ma anche la misura di una distanza segnata dall’egemonia. Questo è Gramsci, questa la dimensione del leninismo che egli porta nell’interpretazione della storia nazionale e della funzione, in essa, del movimento operaio. Il problema più importante da discutere in questo paragrafo è questo: se la filosofia della prassi escluda la storia etico-politica, cioè non riconosca la realtà di un momento dell’egemonia,

631 non dia importanza alla direzione culturale e morale e giudichi realmente come apparenze i fatti della superstruttura. Si può dire che non solo la filosofia della prassi non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella valorizzazione del fatto culturale…43 Da tutto ciò che è detto precedentemente risulta che la concezione storiografica del Croce della storia come storia eticopolitica non deve essere giudicata una futilità da respingere senz’altro… Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto. Che ciò non sia futile è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della prassi, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, ha in opposizione alle diverse tendenze economistiche rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della rivoluzione permanente. (Ibidem, pp. 201-202).

La lotta all’economismo è del marxismo di Lenin, in quanto scontro con le tendenze proprie al determinismo della II Internazionale. Croce usa la riduzione del marxismo ad economismo come chiave storico-teorica per liberare l’egemonia dall’ipoteca del movimento operaio e delle sue forme di coscienza. In Lenin – e nella lettura che Gramsci fa di lui – la critica alla riduzione del marxismo ad economismo coincide con la riscoperta dell’intreccio profondo fra politica ed econo-

43. A. Gramsci, cit., p. 189.

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mia propria alla forma di coscienza scientifica del movimento operaio: la non «futilità» della tesi crociana è recuperata da Gramsci sul terreno del primato della lotta per l’egemonia, che è il terreno storicamente determinato conquistato dalla lotta di classe nell’epoca della socializzazione delle forze produttive e dell’imperialismo, quando essa si definisce come lotta per il potere politico e per lo Stato. Dalla prospettiva di Lenin e di Gramsci, la critica all’economismo è tutt’altra cosa, dunque, dal distacco fra economia e politica, dall’isolamento dei rapporti sociali nei confini meramente economici della produzione materiale della vita. L’analisi di Lenin penetra nella dimensione politica dei rapporti sociali di produzione, correlativa ai rapporti di potere politico fra le classi. È da lì che germina la costruzione dell’egemonia e la lotta per lo Stato. Ed è il leninismo anzitutto ciò che consente a Gramsci di comprendere la funzione reale dell’idealismo, la sua realizzazione nel mondo storico, di parlare di Croce quando parla di Lenin, e insieme di afferrare l’astrazione (quanto reale!) del carattere separato della politica rispetto all’unità moderna fra Stato e mondo della produzione. «La storia eticopolitica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano…, è nient’altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia» (Ibidem, p. 204). Si potrebbe sviluppare ampiamente l’affermazione di Togliatti secondo cui «l’apparizione e lo sviluppo del leninismo (è) stato il fattore decisivo di tutta l’evoluzione di Gramsci come pensatore e come uomo politico d’azione»44. Qui, in un discorso su Croce, Gramsci e l’egemonia si può riscontrare la validità di

44. P. Togliatti, A. Gramsci, Roma, p. 161 (la proposizione è tratta dal saggio Gramsci e il leninismo, ivi, pp. 157-182).

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questa indicazione – del leninismo, cioè, come elemento nuovo e dirompente, che trasforma la qualità stessa del rapporto fra Gramsci e la cultura nazionale – sia nell’analisi della teoria politica del Croce sia nella capacità di polarizzare il marxismo intorno all’unità di economia e politica (struttura e sovrastruttura). L’affermazione del Croce che la filosofia della prassi stacca la struttura dalle superstrutture, rimettendo così in vigore il dualismo teologico e ponendo un dio-ignoto-strutrura non è esatta e non è neanche molto profonda invenzione…45.

Battere sulla connessione, mettendo da parte ogni forma di economismo astratto, nonché sollevare il marxismo a livello dell’intelligenza dell’intero processo, implica l’individuazione di un rapporto nuovo fra le masse e la politica, e cogliere la storia nuova nel fatto che si andavano spezzando vecchie separazioni e il soggetto generale non era più l’idea – la concentrazione in questo termine dell’egemonia degli intellettuali e dello Stato politico – giacché la «precedenza passa alla pratica, alla storia reale dei mutamenti dei rapporti sociali» (Ibidem, p. 233). È nell’epoca contemporanea, nello spostamento di grandi masse umane sulla scena della produzione, nelle difficoltà e nei problemi della transizione, nello sviluppo delle organizzazioni politiche di massa, che la trasformazione della teoria della storia trova il suo luogo di fondazione. Che le masse vogliano diventare lo Stato, coincidere con esso fino ad abolirlo, modifica il loro rapporto con la storia, getta via dal profondo il formalismo costitutivo di una storia raccolta nei parametri dell’organicità fra Stato, intellettuali, egemonia, con l’esclusione delle masse dall’effettiva espansione della libertà. Il primato della politica si rovescia entro la forma di società che l’ha posta al centro della propria ideologia. Esso diventa

45. A. Gramsci, cit., p. 230.

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direzione politica che «non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita… per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali» (Ibidem, p. 11). Primato della politica, in questo senso, come critica dell’ideologia. Se il dominio dello Stato è quello della coscienza separata e delle forme di sapere e di potere che s’addensano intorno ad essa46, il primato della politica reinterpretato attraverso la costruzione di un’egemonia di massa coinvolge nella sua critica reale lo Stato e l’ideologia come forma specifica dell’occultamento dei rapporti sociali.

7. Il marxismo come scienza critica Rispetto alla concezione liberale come concezione metapolitica della vita47, alla dissoluzione del concetto storico di «borghesia»48, universalizzata dal Croce nella sua fisionomia mediatrice di là dai contrasti e antagonismi dell’economia, il marxismo si presenta, con Gramsci, nella sua fisionomia di scienza critica, che trascorre dal formalismo della dialettica

46. Richiamo il mio saggio su Marx e lo Stato (in Democrazia e diritto, 1973, 3, pp. 37-82) per l’analisi della forma originaria in cui si presenta in Marx lo Stato come forma separata della coscienza e del dominio. 47. «Ma la concezione liberale, propriamente detta, è rimasta fuori dal quadro di sopra tracciato. Perché? Perché, in verità, questa concezione è metapolitica, supera la teoria formale della politica e, in certo senso, anche quella formale dell’etica, e coincide con la concezione totale del mondo della realtà…» (B. Croce, La concezione liberale come concezione della vita, in Etica e Politica, cit., pp. 284-293, in particolare pp. 284-285). 48. B. Croce, Di un equivoco concetto storico: la «Borghersia» (In Etica e politica, cit., pp. 321-338).

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– una dialettica dell’astratta libertà – alla comprensione della caducità interna di questa ideologia. Qui, il segno conclusivo della consapevolezza di una scienza nuova. La filosofia della prassi non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne; è l’espressione di queste classi subalterne, che vogliono edificare se stessi all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutte le verità, anche le sgradevoli e ad evitare gli inganni (impossibili) della classe superiore e tanto più di se stesse. La critica delle ideologie, nella filosofia della prassi, investe il complesso delle superstrutture e afferma la loro caducità rapida in quanto tendono a nascondere la realtà, cioè la lotta e la contraddizione, anche quando sono formalmente dialettiche (come il crocismo), cioè spiegano una dialettica speculativa e concettuale e non vedono la dialettica nello stesso divenire storico49.

49. A. Gramsci, Il materialismo storico, cit., p. 237.

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L’eredità non raccolta Croce lettore di Marx e Labriola Marco Vanzulli

tu sei l’antidivenire, l’antistoria, l’antievoluzione, l’antiempirico, l’antigenesi, l’antisecolodecimonono […] per eccellenza (Labriola a Croce, 2 gennaio 1904)1

1. Il «maestro», l’«allievo» e il socialismo Labriola ha già letto i primi saggi crociani sul materialismo storico quando, nel 1898, scrive a Croce: «Tu disputi con te stesso per sapere che uso devi fare del marxismo, ma non per sapere che cosa esso sia»2. Un giudizio che già di per sé sembra indicare come il senso dell’operazione crociana sul marxismo non gli fosse nella sostanza sfuggito. I saggi da Croce raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica (1900) sono dell’ultimo lustro dell’Ottocento (1895-1899); sono cioè 1. A. Labriola, Carteggio V 1899-1904, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2006, p. 341. 2. Lettera di Labriola a Croce del 28 febbraio 1898 in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1975, p. 265. Sul carteggio tra Labriola e Croce, cfr. G. Cacciatore, Marxismo e storia nel carteggio Labriola-Croce, in G. Giordano (a cura di), Gli epistolari dei filosofi italiani (1830-1930), Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. 89-112; dello stesso autore cfr. anche Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in G. Cacciatore, Antonio Labriola in un altro secolo. Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 55-79.

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contemporanei e in parte seguono immediatamente i Saggi sul materialismo storico di Labriola, di cui lo stesso Croce era stato volenteroso editore (un merito che non deve però essere esagerato, perché Labriola riferiva già di questo progetto in una lettera ad Engels del 18923). Escono in varie riviste italiane e tre di essi trovano facilmente ospitalità sul «Devenir Social» per intervento di Sorel. Sono raccolti in volume in una seconda edizione accresciuta di alcuni saggi nel 1906 e dedicati «alla memoria di Antonio Labriola che m’iniziò a questi studi». Croce vorrà continuamente ripubblicarli. Inizialmente, Labriola aveva intravisto in Croce un suo allievo, ne era ben consapevole lo stesso «allievo»: «non mi era, nonché facile, possibile di corrispondere alle maggiori speranze che egli aveva in me riposte. Finì con l’avvedersene egli stesso […]. Egli s’illuse per alcun tempo di avere trovato in me il suo collega e successore nella custodia e nella difesa della genuina tradizione marxistica, che era la forza del socialismo; ma io non mi feci alcuna illusione in proposito»4. Infatti, Croce nega, con ragione, di essere stato mai «marxista ortodosso», e di essersi quindi convertito in critico e oppositore del marxismo. E ciò anche se parlerà poi, a proposito del suo primo incontro

3. Cfr. la lettera a Engels del 2 settembre 1892, in A. Labriola, Carteggio III 1890-1895, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 241-246. 4. B. Croce, Come nacque e come mori il marxismo teorico in Italia (18951900), in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari 1944, pp. 289-291. A proposito di questo scritto del 1937: «L’artificio del Croce era tale che poteva richiamarsi benissimo alla sua precedente critica del marxismo e del socialismo, senza nemmeno prendere in esame il pensiero di Lenin, che non conosceva, e quello di Gramsci, che fortunosamente non gli era giunto agli orecchi, come se continuasse a scrivere in piena età liberale. In effetti è a questo punto evidente la tragedia della civiltà europea e della cultura italiana fra le due guerre, alienata dall’idealismo e cristallizzata nell’idealismo» (E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia. Studi di critica storica, Feltrinelli, Milano 19772 [1964], p. 35).

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con le teorie marxiane, di «pensiero inebriante del Marx»5, e nel 1911, dichiarando il socialismo morto e sepolto, scriverà di esserne stato, «per alcuni mesi, se non proprio per un anno intero», «preso», con «il sentimento di aver messo il piede sopra una via, che era la ‘via regia’ dell’umanità»6. Ma questo «sen-

5. B. Croce, Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, in Id., Discorsi di varia filosofia, Laterza, vol. 1, Bari 1945, p. 277. Cfr. G. Sorel, La crise du socialisme [1898], in Id., La décomposition du marxisme et autres essais, anthologie préparée et présentée par T. Paquot, PUF, Paris 1982, p. 91, che indica Croce come un marxista. Sull’adesione di Croce al marxismo, cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Einaudi, Torino 1962, p. 95 sgg. C. Tuozzolo, «Marx possibile». Benedetto Croce teorico marxista. 1896-1897, Franco Angeli, Milano 2008, p. 14 sgg., insiste sull’adesione, sul «sogno» marxista di Croce, distinguendo una più ardente fase labrioliana (1896-1897), una più prudente fase soreliana fino alla costruzione del sistema della filosofia dello Spirito. Per Tuozzolo la nota sentenza di Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900): «Il marxismo teorico si esaurì, intorno al 1900, in Italia e nel mondo tutto», starebbe a indicare che Croce fu a tutti gli effetti un «teorico marxista» (cfr. ivi, p. 32). Si può però interpretare questa sentenza diversamente, e cioè che, certo assai immodestamente, Croce volesse dare ad intendere di essere stato, con la sua opera, l’affossatore del marxismo. 6. Questo l’intero brano: «(perché dovrei tacerlo?) ne fui preso anche io, per qualche tempo. Per alcuni mesi, se non proprio per un anno intero, io ho avuto il sentimento di aver messo il piede sopra una via, che era la ‘via regia’ della umanità; ho avuto la visione della palingenesi che si sarebbe dovuta compiere al principio o nel corso del secolo ventesimo; ho provato la dolcezza di chi viene iniziato ai misteri di una religione, quando Antonio Labriola prestava a me (e solo a me) alcuni allora rarissimi opuscoli del Marx e il libro della Santa famiglia, o mi comunicava le lettere che gli scriveva l’Engels, fino al telegramma che annunziò laconicamente ‘General is died’ […] o mi metteva in relazione con alcuni di quei tedeschi che, studenti ed operai, nel 1848, avevano assistito al sermone della montagna, alla prima lettura del Manifesto dei comunisti. Ho visitato a Londra la povera Eleonora Marx, e ho accompagnato per le vie e per i monumenti di Napoli il vecchio e terribile Liebknecht, del quale serbo libri e ritratto […] a poco a poco, io ebbe come un senso di muovermi nel vuoto; e poiché non potevo credere che quella classe operaia, giovanile, pura, eroica, apportatrice di nuovi valo-

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timento» non traspare nei saggi anti-marxiani pubblicati nel 19007. Non intendiamo dunque seguire la strada dei giovanili giudizi crociani sulla natura della propria adesione al marxismo e delle successive rettificazioni (e neanche quella delle considerazioni dei contemporanei a riguardo). Questi accenni di iniziale disposizione psicologica verso il marxismo, peraltro nel complesso equivoci, si dissolsero presto come certe leggere ed inconsistenti nebbie che si formano sul far del giorno. Intendiamo invece discutere gli elementi analitici presenti nei testi di Materialismo storico ed economia marxistica. Sarebbe forse ancora da discutere che cosa s’intenda quando si parla dell’influenza di Marx su Croce, quando si scrive, del «riconoscimento di un gran debito nei confronti di Marx», e che «forse non abbastanza si ricorda come quell’incontro col marxismo del Croce trentenne lo segnasse profondamente,

ri, non esistesse, mi persuasi che la colpa spettava tutta a me, che, borghese di nascita, di convivenza, di abitudini, non riuscivo a entrare in contatto con quel nuovo elemento sociale e a risentirne il calore vivificante. E tornai ai miei studi […]. Il credo socialistico forse era vero, era vero senza forse; ma a me, evidentemente, mancava la fede. Perciò non pronunziai mai i voti, cioè non mi ascrissi al partito socialista; il che fa che io ora non sia un prete spretato: condizione rispettabile quanto qualsiasi altra, ma nella quale, tutto sommato, mi fa piacere di non trovarmi» (B. Croce, Due conversazioni II. La morte del socialismo [1911], in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Laterza, Bari 19553 [1913], pp. 155-156). L’impegno di Croce su questioni legate al marxismo è in quegli anni comunque intenso. Basti ricordare il concorso sul III Libro del Capitale, da Croce promosso e bandito dall’Accademia Pontaniana di Napoli nel maggio 1897 (cfr. G. M. Bravo, Marx ed Engels in Italia, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 117). 7. È forse già vero qui in nuce ciò che, nel saggio Verità e umanità nel pensiero contemporaneo, Banfi dice di Croce: «Le critiche al materialismo storico, ai suoi riflessi, al partito comunista, ai movimenti sociali del proletariato, sono tutte animate da un tono di superiorità moralistica, piena di risentimento, di dispetto, di albagia di classe, che tanto ha commosso e commuove i borghesi d’Italia» (A. Banfi, L’uomo copernicano, Il Saggiatore, Milano 1965 [1950], p. 139).

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per sempre»8. Di solito, seguendo lo stesso Croce di Come nacque e come mori il marxismo teorico in Italia, si accenna alla scoperta del distinto dell’utile9. E può anche essere che Croce abbia attinto dal marxismo elementi per la determinazione dell’utile, ma è considerazione che non porta molto lontano se si riflette su che cos’è questa categoria, che, come molti commentatori hanno rilevato, è la forma più congestionata della filosofia dello spirito crociana, perché assume tutta una serie di significati residuali che le vengono addossati per esclusione: tutto ciò che non è passibile di collocazione nel Bello, nel Vero e nel Buono ricade nell’orbita dell’Utile: il male, l’errore, l’irrazionale, le scienze. Altri hanno insistito, sulla scorta delle riflessioni carcerarie di Gramsci, anche su elementi che Croce avrebbe assunto dal marxismo tacitamente, quali la teoria delle ideologie politiche e la teoria dell’errore10. Forse però non ha torto Giuseppe Galasso a ridimensionare l’importanza di questo passaggio attraverso Marx della speculazione crociana, quando formalmente tiene aperta l’alternativa: «o che lo sviluppo del suo pensiero in quegli anni sia stata diretta conseguenza dello studio di Marx, o che [… ] questo sviluppo abbia proceduto in maniera autonoma e in pura simultaneità con quello studio», mostrando di propendere per la seconda possibilità11. 8. E. Garin, Croce e Gentile interpreti di Marx, in M. Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 6 e 5. 9. Cfr. B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), cit., p. 319. 10. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1298-1301, e E. Agazzi, Filosofia della prassi e filosofia dello spinto, in A. Caracciolo e G. Scalia (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Feltrinelli, Milano 1959, p. 204. 11. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Laterza, Bari 20022 [Il Saggiatore, Milano 1990], p. 143. Cfr. anche M. Maggi, Il principio di realtà

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Così come è forse ancora da discutere che cosa s’intenda quando si afferma che «nessun dubbio è possibile sulla sua [di Croce] ammirazione per Marx»12, perché – a parte il motivo dell’influenza del marxismo inteso come attività storiografica, su cui avremo modo di soffermarci più avanti – qualche dubbio invece resta che quest’ammirazione si riferisse ad aspetti autenticamente marxiani, se essa è quella espressa in passi del genere: «Nella mia gioventù sono stato per qualche tempo socialista marxistico: appunto perché il socialismo di Marx era un socialismo combattente, avverso alle sciocchezze umanitarie, alla giustizia astratta ecc., e si configurava come dialettica storica»13; o nella più celebre Introduzione del 1917 a Materialismo storico ed economia marxistica, in cui Croce accenna, certo, all’«ammirazione» e «gratitudine» che serberanno per Marx tutti coloro che da lui furono «ammaestrati». A cosa?: «a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni […] della Dea Giustizia e della Dea Umanità»14. Insomma, quest’ammiraalla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi. Napoli, 18-19 ottobre 2001, Editoriale Scientifica, Napoli 2004, p. 169, che però, respingendo l’accusa di Labriola a Croce di affrontare la questione da letterato distaccato, da «epicureo contemplante», «che mediti sulle forme del pensiero ignaro della vita», sostiene che «attraverso la riflessione sul marxismo Croce veniva piuttosto scoprendo la propria vocazione filosofica integrale» (ivi, p. 170). 12. E. Garin, Croce e Gentile interpreti di Marx, cit., p. 5. 13. Lettera scritta durante la prima guerra mondiale, citata in ibidem, che Garin riporta pari pari quando commenta che da Marx Croce «accoglie – e sarà per la vita – una visione realistica della storia come lotta di forze e potenze, e il peso decisivo in essa dell’economia concepita nella sua concretezza», pur osservando che di Marx Croce «subito […] rifiuta il materialismo storico […] quello che di Marx rimaneva operante in Croce già nel 1895 era poco e moltissimo», cioè, per Garin, poco dal punto di vista teorico e moltissimo da quello storiografico (ivi, pp. 9-10). 14. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. XIIIXIV. Quale uso fece Croce di tale lettura di Marx per giudicare l’incipiente

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zione configura davvero una qualche effettiva ripresa teorica? Oppure questo Marx avverso agli ideali del 1789 è la creazione polemica di un pensatore elitista antidemocratico? La questione si pone anche per la relazione con Labriola. A prescindere dall’affetto sul piano personale, dal punto di vista teorico, come s’intende mostrare attraverso l’analisi dei saggi crociani su Marx, il rapporto Croce-Labriola appare un incontro privo di sostanziali vicinanze ideali, un contrasto i cui termini polemici conobbero qualche punta di acutezza, ma poi furono attutiti, soprattutto da parte di Labriola; in questo rapporto non equilibrato, del resto, le aspettative, molto presto deluse, stanno tutte dal lato del filosofo di Cassino, il cui «soffocante paternalismo» dovette cedere di fronte «alla ostinata e, alla fine, vittoriosa resistenza dello ‘scolaro’»15. Labriola peraltro non considerò mai Croce un marxista o un socialista16;

fascismo lo ha mostrato molto bene D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, Roma 1997, pp. 70-71. 15. L. Cortesi, Antonio Labriola, il «compagno» Croce e la revisione del marxismo, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi. Napoli, 18-19 ottobre 2001, cit., p. 269. Per Cortesi, Labriola tardò ad accorgersi dell’atteggiamento anti-marxista di Croce, presente invece fin da principio, dallo stesso scritto contro Loria (ivi, p. 270). 16. Cfr. la lettera a Croce del 3 marzo 1898: «non ho mai creduto che tu ti fossi buttato al socialismo o avessi abbracciato il Marxismo, e ho riso sempre di cuore di quelli che attribuivano a me questa tua conversione, che io non ho fatto mai nulla per produrla, e anzi ho creduto da tre anni in qua come credo tuttora, che tu abbia cercato in questi nuovi studii soltanto un complemento razionale alla tua cultura storico-critica-letteraria». Cfr. anche la lettera a Croce del 17 novembre dello stesso anno, in cui, riferendosi al fatto che Croce avrebbe scritto sulla «crisi del marxismo», Labriola esorta l’amico a «fare intendere ai tuoi eventuali lettori crisisti, a un di presso quanto segue: 1) che tu non sei un exmarxista convertito a nuove idee, né un socialista di vecchia data che ha cambiato indirizzo di partito o scuola (N.B.: io di fatti, dacché tu t’occupi di tali cose te ne ho visto parlare e scrivere sempre in senso critico, nel più ovvio significato della parola); 2) che tu tratti il Marxismo come ogni fedel cristiano ha il diritto di occuparsi di ogni altro obbietto di

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né Croce si considerò mai un discepolo di Labriola: «l’accordo tra di noi era apparente, e mantenuto dal suo modo confuso e contraddittorio di scrivere»17. Alla disponibilità editoriale e all’esortazione alla pubblicazione di Croce verso Labriola non corrispose mai un’effettiva condivisione di motivi o aspirazioni teoriche o pratico-politiche, e quello che s’instaurò fu un legame pedagogico assai esile ed effimero, rimasto presto senza seguito. È certo che dopo il Postscriptum all’edizione francese dei Saggi curata da Sorel tra la posizione labrioliana e quella crociana non fosse possibile più alcuna conciliazione18. Può forse trarre in inganno la ripubblicazione dei saggi di Labriola nel 1938-1939 da parte di Croce. Il carattere «strategico» di quest’operazione editoriale è stato ben visto da Eugenio Garin: «Croce, nella attesa di grandi eventi, in un momento tormentato e tragico, offriva quei testi esorcizzati, dimenticati, proibiti, ma con l’antidoto loro, perché gl’italiani non fossero indotti mai più in tentazione»19. Non si può negare, pertanto, che da parte di Croce l’opera labrioliana, più che riproposta,

conoscenza, e non per decidere delle sorti dei partiti socialistici; 3) che la nostra amicizia non ha fatto di noi due una persona sola» (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), cit., pp. 267 e 310). 17. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, Mondadori, Milano 1981, pp. 53-54. 18. Cfr. su questo punto G. P. Orsello, Antonio Labriola. Il pensiero del filosofo e l’impegno del politico, LED, Milano 2003, p. 101 sgg. 19. E. Garin, Introduzione ad A. Labriola, La concezione materialistica delta storia, Laterza, Bari 1956, p. LVII. Non a caso Croce scriveva alla figlia di Labriola: «La ragione che mi muove a quest’opera che stimo doverosa è che son sicuro che, una volta o l’altra, questi saggi saranno ristampati dai comunisti e non intesi nel loro valore critico: né si dirà quello che posso dire io del carattere patriottico e italiano del Labriola e del suo anticlericalismo» [citato in M. Agrimi, Labriola tra Croce e Gentile, in L. Punzo (a cura di), Antonio Labriola filosofo e politico, Guerini, Milano 1996, p. 199].

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di fatto sarà occultata20. L’antidoto di cui parlava Garin era appunto la stessa interpretazione crociana, che veniva pubblicata congiuntamente21. Nell’avvertenza del 1939 a Discorrendo di socialismo e di filosofia, Croce ammaestra sul fatto che il materialismo storico, anziché produrre «un grande svolgimento», è oramai un «frutto intristito sull’albero»22. Non si dimentichi poi ciò che Croce scrive nel 1923: che, nel caso di Labriola, la «personalità» «ha maggiore importanza e suscita maggior interessamento che non le particolari dottrine»23. Mario Agrimi ha

20. Come ha scritto giustamente J.-P. Potier, Lectures italiennes de Marx (1883-1983), Presse Universitaire de Lyon, Lyon 1986, p. 154. 21. Si veda la testimonianza di un autore che successivamente criticherà anche aspramente Croce, Norberto Bobbio: «Per coloro che, come me, hanno compiuto il loro corso di studi durante il fascismo (mi sono laureato nel 1931) Marx e il marxismo erano temi proibiti. Non ricordo di averne sentito mai parlare dai miei professori di liceo e di università […]. Di grande aiuto per la mia conoscenza della storia del marxismo fu il saggio di Croce Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1893-1900), apparso da Laterza nel 1938. Su questo saggio e sul libro di Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia, con cui il saggio crociano fu ristampato, svolsi un seminario all’università di Padova nell’anno accademico 1942-1943, quando ormai la caduta del fascismo era prossima» (N. Bobbio, Premessa a Id., Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. IX-X). 22. Cfr. A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1939, p. VII. 23. Pubblicato prima su «La Critica» del 1923, p. 180 e sgg., poi in B. Croce, Conservazioni critiche IV, Laterza, Bari 19512, p. 73. E potremmo ricordare il giudizio su Labriola nella Storia d’Italia del 1926: «Solo marxista rigido e conseguente voleva essere e si persuadeva di essere, e pareva che fosse, Antonio Labriola; ma questi aveva occhio vigile agli interessi e alla fortuna d’Italia, alla sua industria e alla sua espansione coloniale (con quanta ansia seguì, e con quanto dolore, le cose italiane nell’Africa!), e la sua mente critica non gli permetteva l’ortodossia senza congiunte fatiche di ermeneutica e inconsapevoli correzioni o avviamenti alle correzioni». Nella frase successiva Croce parla di se stesso in terza persona come «un suo scolaro», che «accanto al Labriola, avanzando per la strada da lui aperta […] sottomise a re-

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confermato che «Croce continuò certamente a dar voce a Labriola, ma sempre nelle ‘interpretazioni’ e nelle ‘prospettive’ da lui a suo tempo fissate», che ne contenevano e orientavano l’efficacia e le conseguenze, e ha dimostrato come la ristampa dei Saggi di Labriola fosse una risposta alla riedizione di Gentile del suo La filosofia di Marx, a ribadire che ciò che aveva costituito il marxismo italiano, e che in esso aveva contato, era soltanto il rapporto Croce-Labriola24. E qui non era in gioco soltanto, o direttamente il marxismo, quanto l’egemonia culturale in Italia, che ormai da tempo era un gioco tutto interno al rapporto fra le due filosofie neoidealistiche. Non si vuole con ciò sostenere che Croce non abbia appreso nulla dal contatto con Labriola e il suo pensiero, anzi è certo possibile scorgere nella forte visione dell’unità e compattezza della storia – che a Labriola veniva dalla linea della sua formazione intellettuale Spinoza-Hegel-Herbart-Marx, e che nel saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti, gli fa dire «siamo alla prosa», portandolo ad escludere sia ogni prospettiva valutativa di ordine morale, ogni ideale esterno alla storia, sia la semplificazione economicistica25 – un terreno dal quale Croce deve avere attinto quella determinazione critica della filosofia della storia e del progresso come pretesa di un concetto esteriore ordinatore di una serie o della totalità degli

visione tutte le tesi principali del Marx […] e abbassò il materialismo storico a semplice canone empirico di storiografia» (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1913, a cura di G. Talamo, Bibliopolis, Napoli 2004 [1927], p. 148). 24. M. Agrimi, Labriola tra Croce e Gentile, cit., pp. 196 e 192 e 198-202. Per un quadro d’insieme di questo dibattito sul marxismo, cfr. C. Vigna (a cura di), Le origini del marxismo teorico in Italia, Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia, Città Nuova, Roma 1977. 25. Cfr. A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti e del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul materialismo storico, a cura di A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 77 e 101-105.

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eventi26. Si tratta peraltro di un argomento utilizzato da Croce anche nei saggi sul materialismo storico, in cui è espressa l’avversione per ogni monismo storiografico27. Croce dunque ha certo mutuato da Labriola la suggestione della forte unità di idee e realtà, ma la ricomporrà immediatamente all’interno di un quadro filosofico di tipo neokantiano in cui l’ideale e l’empirico resteranno divaricati; quest’unità è dunque ben più compatta in Labriola, del tutto immune al fascino di fine XIX secolo del neokantismo, con la sua separazione di valori e vita, di storia e natura. Se è dunque anche vero che «la critica crociana ad alcune tesi di Marx muoveva molto spesso da riserve avanzate dallo stesso Labriola»28, cionondimeno la formazione neokantiana di Croce lo portava ad impostare in tutt’altra maniera le possibili suggestioni che riceveva da Labriola, soprattutto in tema di filosofia della storia. Infatti, la prima, e decisiva, formazione filosofica di Croce non avviene, come spesso si tende ad affermare in modo generico, alla scuola del marxismo di Labriola, ma a quella neokantiana della filosofia dei valori, com’è testimoniato inequivocabilmente dalle sue prime prove speculative, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, del 1893 e L’arte, la storia e la classificazione dello scibile, del 1895. Per

26. È stata vista anche nel concetto crociano di storia come «storia contemporanea» «lo sviluppo e in qualche modo la dogmatizzazione spiritualistica di spunti presenti in Labriola quale metodologo della storia» (G. P. Orsello, Antonio Labriola. Il pensiero del filosofo e l’impegno del politico, cit., p. 104, che fa riferimento al labrioliano Dell’insegnamento della storia del 1876). 27. Cfr. anche la critica della filosofia della storia (e della sociologia), per molti versi analoga a quella di Croce, in W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito [1883], tr. it. di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 117-150. 28. M. Agrimi, Croce: il magistero di Labriola e la sua lunga durata, in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola della storia e nella cultura della nuova Italia, Quodlibet, Macerata 2005, p. 285.

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questo Emilio Agazzi – che di quelle opere (che costituiscono le premesse filosofiche, la posizione crociana in filosofia quando comincia a scrivere su Marx) ha condotto un analisi attenta – notava come la divergenza tra Croce e Labriola consistesse proprio nel fatto che, diversamente dal suo «maestro», Croce aveva mantenuto una concezione formalistica ed astratta del sapere filosofico-scientifico, inteso sempre, herbartianamente, come «riduzione concettuale», sussunzione dei particolari sotto un concetto universale, conoscenza di «essenze»29. Così anche tutti i saggi crociani su Marx hanno come sfondo la tesi dell’eternità dei valori, idealità categoriali coscienziali che non sorgono dal tessuto storico, ma lo costituiscono. Il giudizio giovanile di Croce sull’utilità da riconoscersi al pensiero di Marx come ausilio alla ricerca storiografica è noto. Così lo riespone nel 1938: «stimavo che il materialismo storico sarebbe stato di gran beneficio quando fosse inteso non già come una filosofia della storia o una filosofia senz’altro, ma come un empirico canone d’interpretazione, una raccomandazione agli storici di dare l’attenzione, che sino allora non si soleva dare, all’attività economica nella vita dei popoli e alle immaginazioni, ingenue o artificiose, che in essa prendono origine»30. Il famoso buon paio di occhiali31. Un giudizio, quello riportato, che sembra contenere anche dei riconoscimenti 29. Cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., pp. 71-76 e 207. Per un’analisi dell’impostazione neokantiana del primo Croce cfr. anche E. Garin, Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano, in Id., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 3-31; G. Fehr, Il primo saggio crociano sul materialismo storico e il revisionismo neokantiano in Italia, «Prassi e Teoria» 2 (1979), pp. 125-160, e C. Tuozzolo, «Marx possibile». Benedetto Croce teorico marxista. 1896-1897, cit. 30. B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (18951900), cit., p. 291. 31. Id., Sulla forma scientifica del materialismo storico, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 15.

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importanti, poiché allude alla questione dell’ideologia. Si tratta però, come vedremo, sostanzialmente di una svalutazione scientifica del materialismo storico, in cui è coinvolto lo stesso Labriola: «fintanto che le teorie marxistiche rimanevano nella propaganda socialistica, esposte e credute da menti insuete alla critica, esse vivevano; ma, quando furono trasportate nella sfera scientifica, e sottoposte all’esame d’intelletti colti e perspicaci, diversi da quelli dinanzi ai quali ponteficava l’Engels e pei quali scriveva Augusto Bebel, dovevano, dopo un breve tempo di ammirazione e d’interessamento, rapidamente scomporsi e dissolversi. In questo senso, il promotore della crisi era stato [… ] lo stesso Antonio Labriola»32. Ciò non rende certo troppo onore alla convinzione di Labriola dell’autonomia epistemologica del materialismo storico, ma ad ogni modo un commento di questo genere – che, come altri passi crociani degli anni ’20 e ’30 tende a fare di Labriola l’inconseguente iniziatore di quella crisi del marxismo che sarebbe stata condotta a coerente compimento solo dallo stesso Croce e da altri – non sembra affatto in distonia con i saggi crociani su Marx, che, in effetti, sono da collocarsi all’interno di quella «crisi del marxismo» di fine ’800 contro la quale Labriola aveva preso posizione33. Della stessa tendenza facevano parte anche Sorel e Bernstein, entrambi duramente criticati da Labriola, che invece, come ha scritto Valentino Gerratana, aveva mantenuto con Croce «un tono più disteso, nella speranza di trovare in lui un interlocutore ancora ‘pedagogizzabile’»34,

32. Id., Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1893-1900), cit., p. 306. 33. Cfr. A. Labriola, A proposito della crisi del marxismo, in Id., Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 331-349. 34. V. Gerratana, Labriola e l’introduzione del marxismo in Italia, in E. Hobsbawm et altri (a cura di), Storia del marxismo, Einaudi, vol. II, «Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale», Torino 1979, pp. 654-656.

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anche se il suo atteggiamento lo preoccupava ed era conscio delle responsabilità del più giovane amico rispetto alla «crisi del marxismo»35. Non a caso Croce pone i propri saggi nel medesimo orientamento – ne riconosce cioè un’analoga funzione – di quelli di Sorel, da cui ritiene però di distinguersi per un maggiore interessamento verso la pura filosofia36: la funzione di questi scritti è cioè quella di «liberare il nocciolo sano e realistico del pensiero di Marx dai ghirigori metafisici e letterari del suo autore, e dalle poco caute esegesi e deduzioni della sua scuola»37. Senza menzionare ora la questione del nesso (peraltro centrale) teoria-prassi, non si può non rilevare l’ambizione dichiarata di quest’opera su Marx del giovane erudito, che intende dire l’ultima parola sullo status filosofico del marxismo, e indicare in quale misura e in quale modo esso sia utilizzabile in altre sfere della conoscenza, segnatamente negli studi storici; porta poi un attacco radicale alla teoria del valore-lavoro e alla teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto, abbozzando con ciò una critica del marxismo in quanto scienza economica, al quale viene opposta la scuola marginalista, per sostituire in ultimo al Capitale la scienza filosofica dell’Economia. Siamo alla vigilia della formulazione del sistema crociano di filosofia dello Spirito, che, com’è noto, si comporrà fondamentalmente tra il 1902 e il 1908. Per la separazione del tema dell’economico, considerato già da Croce in una sua aseità, questi saggi sul materialismo storico costituiscono una 35. «Labriola viveva la “crisi del marxismo” con profonda preoccupazione e tensione polemica, convinto – e non del tutto a torto – che vi portasse qualche responsabilità anche Croce, il quale continuava a tenere di fronte a un così grave disorientamento ideale e politico del movimento socialista (segnato anche da allarmanti episodi) il distacco del letterato […]. Labriola lo incalzava a chiarire pubblicamente la sua posizione, ma Croce resisteva con fermezza» (M. Agrimi, Labriola tra Croce e Gentile, cit., p. 182). 36. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. IX. 37. Ibidem.

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fucina dell’elaborazione del futuro sistema, prima dello studio di Hegel, come ammette lo stesso autore38. Sempre in Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, Croce osserva che «al Labriola la teoria marxistica del ‘sopravalore’ e il ‘materialismo storico’ importavano soprattutto ai fini pratici del socialismo; a me importavano soprattutto al fine di quel che se ne potesse o no trarre per concepire in modo più vivo e pieno la filosofia e intendere meglio la storia»39. Dopo avere contestualizzato il senso della riproposizione da parte di Croce alla fine degli anni ’30 dei Saggi labrioliani, non ci sorprende di trovarci di fronte ad un giudizio ancora altamente polemico e scorretto: che per Croce avesse maggiore importanza la filosofia e per Labriola la prassi (nel senso specifico e per Croce appunto non «filosofico» dei «fini pratici del socialismo») è cosa del tutto contestabile. Benché abbia tentato alcune incursioni nel mondo politico e nel pensiero politico si sia impegnato, a Labriola la scienza e la teoria stavano a cuore più di ogni altra cosa, ma da marxista. È questo il punto. Non si tratta della differenza tra una filosofia teoretica e una filosofia pratica o politica, ma della lotta nel campo filosofico tra correnti diverse. È il Kampfplatz kantiano della storia della filosofia, ricordato da Althusser come lotta tra tendenze idealiste e tendenze materialiste, forme comandate da forme più lontane, quelle della lotta ideologica e, in ultima analisi, della lotta di classe40. E lo stesso Labriola sapeva molto

38. Nella prefazione del 1917, Croce scrive che quello sul marxismo è «un libro nel quale non poco del mio posteriore filosofare è come in germe e in travaglio» (ivi, p. XII). 39. B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (18951900), cit., p. 290. 40. Cfr. L. Althusser, Philosophie et philosophie spontanée des savants [1967], Maspero, Paris 1974, p. 77, tr. it. di M. Turchetto, Unicopli, Milano 2000, p. 71.

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bene che «la lotta fra le nuove e le vecchie condizioni sociali assume la forma di una contesa per le idee», così come sapeva che tutti quelli che erano fuori del socialismo avevano interesse a combattere la dottrina del materialismo storico41. Quando Croce sostiene di voler fare uh analisi filosofica del marxismo, e di rifiutare perciò stesso la pratica, elude la questione del rapporto tra forma della società e forme di pensiero, non tocca il nodo problematico che per Labriola, da buon materialista storico, era imprescindibile – al di là degli schemi meccanicistici dell’economicismo, i Saggi labrioliani cercano di dare una riformulazione che tenga insieme l’ideale e il materiale42. E, soprattutto, Croce non rileva e non accetta il fatto che pensare il materialismo storico significa pensare insieme filosofia politica e filosofia teoretica. Labriola attribuisce invece al marxismo, in quanto coronamento del movimento critico cominciato con la scienza moderna, il merito di avere fatto cadere, per quanto solo de jure o tendenzialmente, la distinzione tra scienza e filosofia, e di avere instaurato la «filosofia scientifica» al posto della filosofia sistematica o in sé43. Certamente la preoccupazione di Labriola a proposito della «crisi del marxismo» era legata alla questione pratica della politica del proletariato. E su una tale questione pratico-politica, rispetto allo studio del marxismo, cercava di smuovere Croce, il quale invece rimaneva irremovibile44. I saggi crociani sul

41. Cfr. A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e filosofa, in Id., Saggi sul materialismo storico, cit., pp. 174 e 203. 42. Cfr. Id., Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., pp. 237-238. 43. Cfr. Id., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, cit., p. 171, Cfr. anche la più complessa analisi della questione in Id., Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., pp. 249-250, 252-253, 256-257 e 263. 44. Cfr. la lettera del 6 maggio 1898: «Caro Croce, quanto sei terribilmente napoletano, ossia animale extra e antipolitico: quanto sei noiosamente lette-

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materialismo storico non sono però un’opera ingenuamente «neutra», una prima esplorazione, ma anzi presentano una compattezza polemica, un intento riduttivo – non certo presentato tra le righe – dell’oggetto esaminato. È per questo che un’analisi critica non può ripetere la distinzione crociana di teoria e prassi, ma deve rilevare come l’esito dell’approccio di Croce al marxismo non sia affatto comprensibile sull’unico piano dell’analisi teorica, ma sia invece da leggersi come un momento importante di un’incipiente posizione etico-politico-culturale, destinata a diventare, insieme a quella gentiliana, egemone nella prima meta del ’90045. Evidentemente un tale progetto egemonico a Croce non era chiaramente presente a fine del ’800 – ogni epoca ha le sue battaglie e le sue illusioni –, e si è ben consapevoli del rischio di fare una storia al «futuro anteriore», ma resta che questa prima produzione crociana è coerente con quella successiva – una coerenza che non si valuta qui sul piano meramente teorico, ma su quello della politica culturale. rato che nella carta stampata non vedi né gli uomini né le cose. Ed anche per questa questione faccio punto una volta per sempre. Sono seccato anch’io di vedere che tu non vuoi capire, che passando per socialista e per marxista, quello che scrivi non vale come semplice carta stampata, secondo il senso dei letterati. E che altro devo dirti per spiegarmi – o non vuoi intendere?». Cfr. anche la lettera a Croce del 31 dicembre 1898, in cui Labriola prende ormai atto della distanza tra lui e il più giovane amico, e ripete a un certo punto quasi i termini della lettera precedente: «Quando tu dici che circa la politica del proletariato né convieni né disconvieni, tu dici che, in somma, passi sopra al 95% delle condizioni che occorrono per interessarsi di questa così detta crisi del marxismo. Io in ciò sono ferocemente socialista e ultra positivo […], così devi avere interesse, per proseguire nella tua occupazione pacifica di spregiudicato ricercatore, di non essere confuso con quelli pei quali il marxismo e l’antimarxismo sono simboli e bandiere. E non so come altro debbo spiegarmi – giacché non riesco a farmi capire» (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), cit., pp. 278 e 323). 45. Cfr. su ciò M. Agrimi, Labriola tra Croce e Gentile, cit., pp. 192 e 184185.

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L’analisi di Gentile del marxismo, quella sì, ha il tono di un impegno teorico46, e infatti il filosofo siciliano scriverà a Croce facendogli notare l’inadeguatezza della sua conclusione sul materialismo storico come semplice canone metodologico, il valore filosofico della filosofia della prassi e la precisa determinazione concettuale datane da Labriola. Tuttavia, quella labrioliana era intesa come una posizione da superare criticamente, per la sua inclinazione metafisica e per la «noncuranza per l’elaborazione formale dei concetti» (attribuita da Gentile alla familiarità contratta col marxismo). Gentile considera inoltre un equivoco proprio il concetto di filosofia della praxis di Labriola47. Nella sua risposta, Croce ribadisce l’imprecisione e la trascuratezza concettuale di Labriola48. Gentile s’incarica di far notare sia a Croce che a Labriola la loro distanza, così come l’eterodossia di Sorel49. Scrive a Croce che con le sue critiche deve considerarsi rispetto a Labriola «un gravissimo

46. Sulla lettura di Marx di Gentile, cfr. A. Tosel, Le Marx actualiste de Gentile et son destin, «Archives de Philosophie» 56 (1993), pp. 561-572. 47. Lettera di Gentile a Croce del 2 febbraio 1898, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Sansoni, Firenze 1972, vol. I, pp. 66-71. Sul ruolo di Gentile nella presa di distanza di Croce da Labriola e nell’aiuto a Croce a vedere chiaro in se stesso, cfr. A. Tosel, Benedetto Croce et la révision du marxisme, in Id., Marx en italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine, Trans-Europ-Repress, Mauzevin 1991, pp. 41-42. 48. Lettera di Croce a Gentile del 4 febbraio 1898: «A Lei non sembra che il Labriola trascuri alquanto l’elaborazione dei concetti? Io non nego che si travagli in questa elaborazione, ma, disprezzando poi come scolasticismo ogni lavoro di elaborazione formale, viene di fatto ad usare concetti imprecisi, che sono piuttosto impressioni d’insieme» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), cit., p. 16). 49. Cfr. la lettera di Gentile a Labriola del 15 novembre 1898 e la risposta di Labriola il 17 novembre, in A. Labriola, Carteggio IV 1896-1898, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 668-673.

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piombo à suoi piedi»50; e concluderà, qualche tempo più tardi, osservando a Croce che «ora, proprio, siete voi il suo più formidabile avversario». Qui già c’è un tono di compiacimento, lo stesso che si trova alla base della domanda retorica di Gentile, a proposito del proprio libro su Marx del 1899, non ancora uscito, in cui il marxismo è superato verso una posizione di idealismo neohegeliano: «ogni giorno che passa non fa assomigliare sempre più l’impresa mia a un seppellire i già morti?»51. E Sorel, proprio nelle stesse pagine in cui loda la «perspicacia» di Croce, consistente in ultima analisi nel negare la scientificità della teoria della storia di Marx, osserva come Labriola non sia stato in grado di mantenere la promessa di realizzare degli

50. Lettera di Gentile a Croce del 30 dicembre 1897, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, cit., vol. I, p. 62. 51. Lettera a Croce del 12 giugno 1899. Ecco l’intero passo: «La risposta laconica del Labriola alle critiche vostre sulle teorie marxistiche m’ha sorpreso, e m’ha fatto ridere. Povero Labriola! Non gli parrà che gli si venga facendo attorno il vuoto? È un fatto che il tuono con cui parlavate una volta degli scritti di lui e delle trovate del Marx non era quello con cui ne parlate ora. Nulla avete ragione di disdire di quanto avevate scritto; ma, o io m’inganno, ogni lettore vostro dev’essersi accorto che la vostra stima pel Marx e pel Labriola s’è andata [sic] a mano a mano scemando, intanto che continuavate a studiarne e meditarne le teorie. Sarà un paio d’anni, credo, che vi scrissi che voi eravate un grave piombo ai piedi del Labriola. Ora, proprio, siete voi il suo più formidabile avversario. Non potete credere quanto mi dispiaccia che il mio volume tardi tanto a venir fuori: ogni giorno che passa non fa assomigliare di più l’mpresa mia a un seppellire i già morti?» (ivi, pp. 182-183). Cfr. anche, ormai nel 1918, l’allusione che Gentile farà all’opera di Croce e Sorel come negatrice di quel marxismo che Labriola intendeva invece riaffermare: «E cosi il risultato di questo periodo ultimo dell’attività letteraria del Labriola fu di affrettare la dissoluzione di quel marxismo, per propugnare il quale egli aveva ripreso in mano la penna!» (G. Gentile, Il marxismo di Benedetto Croce, in Id., Saggi critici, Serie seconda, Vallecchi, Firenze 1927, p. 38).

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studi storici seguendo i criteri marxisti, proprio perché questi in fondo non lo consentono52. Partendo da quest’ultimo giudizio di Sorel, e per quanto emerso fin qui, ci sembra contestabile sostenere che Croce, addirittura nel ’99, si sentisse «ancora parte di quel ‘marxismo critico’ che Labriola difendeva», e che «il tema dello scontro Croce-Labriola» risiedesse nell’idea crociana che il marxismo della «crisi» fosse la necessaria conseguenza del marxismo critico dei Saggi labrioliani (idea – si noti incidentalmente – letteralmente contraria a quella di Sorel appena esposta, ma assai vicina ad essa nel senso e nelle intenzioni), mentre il contrasto con Labriola nascerebbe per la separazione di critica teorica e politica. Fino a giungere al paradosso di sostenere che quando, in Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, Croce rimprovera – ingiustamente – Labriola perché «intende il materialismo storico nel senso genuino ed originario di una metafisica, e della peggior specie, quale può essere una metafisica del contingente», «appare chiaro il tentativo crociano di difendere (con l’aiuto delle argomentazioni del giovane amico Giovanni Gentile) un ‘altro labriolismo’, un marxismo labrioliano effettivamente adeguato all’‘intimo pensiero’ del suo fondatore»53. A parte il fatto, che di tale marxismo crociano, più labrioliano di quello di Labriola, la storia (cioè i testi crociani) non conserva traccia, una tale lettura prende le mistificazioni crociane come oro colato, i suoi effimeri e strumentali riconoscimenti a Labriola nel corso della demolizione del marxismo, marxiano o labrioliano che sia, come lo stesso senso critico che invece è l’interprete a dover dare ai testi in52. Cfr. G. Sorel, Les polémiques pour l’interprétation du marxisme: Bernstein et Kautsky, in Id. La décomposition du marxisme et autres essais, cit., p. 151. 53. Cfr. C. Tuozzolo, «Marx possibile». Benedetto Croce teorico marxista. 1896-1897, cit., pp. 29, 31 e 213.

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dagati. In altri termini, si può sostenere una tesi siffatta solo a condizione di chiarire preliminarmente che l’inclusione di alcuni temi labrioliani è posta da Croce all’interno di esigenze e presupposti teorici del tutto altri da quelli del «maestro», frontalmente opposti ad un aspetto decisivo proprio del carattere critico del marxismo di Labriola, certo un punto saliente del suo marxismo, e cioè il nesso di teoria e prassi. Il contrasto non nascerebbe quindi in un secondo momento per ragioni accidentali, ma è presente fin dall’inizio della lettura crociana di Marx, sulla quale ora ci soffermeremo.

2. La liquidazione del materialismo storico I due maggiori saggi crociani sul marxismo, Sulla forma scientifica del materialismo storico e Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, sono un commento dettagliato delle idee di Labriola54. In particolare, è evidente l’opposizione tra questo secondo saggio, del 1897, e il labrioliano Discorrendo di socialismo e di filosofia, dello stesso anno, come appare, tra l’altro, dalla ribadita difesa da parte di Croce della posizione dell’«economia pura» marginalista, tacciata da Labriola nel Discorrendo (e nelle lettere a Croce) di psicologismo. Nell’edizione del 1906 di Materialismo storico ed economia marxistica Croce rafforzerà la propria posizione a favore del marginalismo, aggiungendo cinque saggi sull’economia. Tanto che, sostiene ironicamente Aurelio Macchioro – che nota che questo argomento «era stato il pomo principale di contrapposizione nei confronti di Labriola» –, «sarebbe

54. Cfr. su questo punto B. A. Haddock, Vico and the crisis of marxism, in G. Tagliacozzo (ed.), Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (N.J.) 1983, p. 355.

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stato corretto ribattezzare il volume Materialismo storico ed economia pura»55. La strategia iniziale crociana sembra essere quella di farsi schermo di Labriola – anche se allo stesso Labriola vengono comunque rivolte delle critiche –, per esporre, quasi a commento delle sue idee, tesi di opposta natura. La conclusione di Croce si dà quasi attraverso Labriola, usato appunto, in questa prima parte del suo libro, in modo un po’ ambiguo: Croce imposta un discorso proprio, avanza dei giudizi sulla portata epistemologica del materialismo storico, si rifà poi alla distanza presa da Labriola rispetto a certi aspetti della vulgata marxista, e ne trae quasi un avallo alle proprie conclusioni – le quali hanno fin da principio come obiettivo lo smantellamento dello statuto epistemologico del marxismo. Nessun autentico tentativo di distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto in Marx. Non di questo si tratta56. Tanto meno si tratta di una chiarificazione concettuale di ciò che del marxismo sarebbe valido o no realizzata sulle orme di Labriola57, perché ciò che 55. A. Macchioro, Croce e Labriola, in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, cit., p. 229; cfr. anche ivi, pp. 238-239. 56. Non possiamo che discordare pertanto da quanti, partendo dal riconoscimento de «l’intelligenza, l’originalità, e, aggiungeremmo, la civile serietà della lettura crociana di Marx», hanno ravvisato in questi saggi l’espressione di «una forma critico-ricostruttiva», «un’interpretazione ‘comprendente’ (verstehende)», in cui «Croce sembra […] interpretare secondo la modalità del ‘partecipante’, investito sì di una precisa funzione critica, ma volto a contribuire alla migliore intelligenza, purificata e resa coerente, dell’autore indagato», secondo una «Stimmung […] di fiduciosa appartenenza collaborativa a una qualificata e importante direzione di ricerca» (M. Reale, Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore di Marx. Questioni di metodo, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi. Napoli, 18-19 ottobre 2001, cit., pp. 135 e 140-141). 57. È quanto invece suggerisce M. Martelli, Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 19, quando dice che Croce

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del marxismo sarebbe ancora vivo, secondo Croce, lo riduce, come vedremo, ad una totale inconsistenza teorica e scientifica. Quale dunque il significato dell’escalation demolitrice degli studi crociani su Marx e la loro relazione con la riflessione marxista di Labriola? Risultato coerente dell’interpretazione crociana è fin da principio la separazione di materialismo storico e socialismo, l’impossibilità di fondare il socialismo sulla concezione materialistica della storia, svincolando il pensiero di Marx da qualsiasi legame con la prassi: «le stesse previsioni del socialismo sono semplicemente d’indole morfologica; e invero né il Marx né l’Engels avrebbero mai astrattamente affermato che il comunismo debba accadere per una necessità ineluttabile nel modo che essi disegnavano. Se la storia è sempre circostanziale, perché, in questa nostra Europa occidentale, non potrebbe, per l’azione di forze ora incalcolabili, sopravvenire una nuova barbarie? Perché l’avvento del comunismo non potrebbe essere o reso superfluo o affrettato da taluna di quelle scoperte tecniche, che hanno finora prodotto, come il Marx stesso ha mostrato, i maggiori rivolgimenti storici?»58. Allo stesso modo, «il materialismo storico, nella forma in cui lo presenta il Labriola, ha abbandonato nel fatto ogni pretesa di stabilire la legge della storia, di ritrovare il concetto al quale si riducano i complessi segue una «proposta metodologica» intesa a «distinguere ciò che il marxismo è da ciò che non è», concludendo che esso non è «materialismo metafisico», «filosofia della storia», «socialismo scientifico», esclusioni «che si trovano seppure in forma più magmatica già negli scritti del Labriola […], ma che Croce in verità precisa e puntualizza più rigorosamente, eliminandone ogni possibile ambiguità». Del resto Martelli più avanti giunge ad altra conclusione, e cioè che «Croce finiva in realtà col proporne [del marxismo] la liquidazione completa e definitiva, una sorta di suicidio teorico» (ivi, p. 30). 58. B. Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., pp. 8-9; cfr. anche Id., Il libro del prof. Stammler, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 118-119.

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fatti storici»59. Si tratta di una forzatura di un’effettiva posizione labrioliana, che sposta la concezione critica del progresso elaborata da Labriola dall’asse teorico che le è proprio per trasformarla in una sorta di confutazione del significato storico del marxismo60. È del resto una forzatura del tutto conforme a quella per cui Marx non intenderebbe spiegare «con leggi analoghe a quelle fisiche», ma soltanto «dare ‘schiarimenti’ parziali e indiretti intorno alla realtà economica»61. Ciò potrebbe anche suonare come un elogio, da parte di Croce, perché il concetto al quale ridurre la complessità dei fatti storici non esiste, a meno che non sia «quello di sviluppo reso vuoto di tutto ciò che è contenuto proprio della storia», o la costruzione di una filosofia della storia teologico-provvidenzialistica o metafisica. Infatti, «se è possibile ridurre concettualmente i vari elementi della realtà che appaiono nella storia, ed è quindi possibile fare una filosofia della morale o del diritto, della scienza o dell’arte, e insieme una filosofia delle loro relazioni, non è possibile elaborare concettualmente il complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico»62. Quindi, la storia è circostanziale, incalcolabile, imprevedibile. Partendo da premesse filosofiche di tipo neokantiano, Croce divide la storiografia in segmenti non più componibili ad unità, ritrovandosi, sia pure solo negli esiti generali, in accordo con la storia bergsoniana, irrazionalistica, 59. Id., Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 4. 60. Ivi, pp. 7-8. «Croce enrôle ainsi Labriola dans une entreprise qui dépasse ses intentions, mais qui découle cependant d’une certaine manière de son travail. Car c’est bien l’acuité théorique de Labriola qui fait de l’auteur des Saggi le ‘promoteur de la crise’» (A. Tosel, Benedetto Croce et la révision du marxiane, cit., p. 44). 61. B. Croce, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, e polemiche intorno ad esse, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 143. 62. B. Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 3.

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non interpretabile secondo leggi, di Sorel63. Labriola avrebbe allora confuso la filosofia speculativa della storia con la riflessione filosofica sulla pratica della storia. Così, come gli altri revisionisti, attraverso la critica della nozione di previsione del corso storico, Croce può raggiungere un risultato più ampio, la separazione di materialismo storico e socialismo, considerando il primo, un ausilio storiografico, e scollegandolo da ogni rapporto con la prassi. «Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita»64. Del resto, commenta, è accaduto che le classi non abbiano avuto interessi antagonistici nella storia, ed è certo che molto spesso non ne hanno chiara coscienza. Dunque, la storia non è storia di lotta di classi65. La frattura fra prassi e teoria è presente anche nell’argomento per cui compito dello storico è esporre e dell’uomo politico modificare66. Non prassi dunque, la concezione materialisti-

63. Sorel si riferisce proprio ai saggi crociani sul marxismo, alla negazione che trova in essi della possibilità di una filosofia della storia, quando scrive, d’accordo con lui che: «L’histoire forme un mélange hétérogène dépendant de circonstances infiniment complexes; ce mélange est donné et il nous est impossible de le penser autrement qu’il n’est donné. Il est impossible de ramener chaque ensemble à un élément simple (qui le caractériserait et permettrait de le reconstruire); il est impossible de réunir tous les ensembles successifs par une connexion scientifique, par une loi qui, après avoir exprimé le passé, serait capable de nous donner l’avenir. Les ensembles successifs n’ont d’autre lien que l’ordre enregistré par la chronologie» (G. Sorel, Pour ou contre le socialisme [1897], in Id., La décomposition du marxisme et autres essais, cit., p. 61). 64. B. Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 15. 65. Id., Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 87. 66. Id., Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 17. A proposito di questo argomento crociano, Franco Sbarberi ha notato che si tratta della ripresa di «un discorso decisamente abbandonato dal marxismo», con

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ca della storia, ma neanche teoria, come si vedrà. Ciò minava alla radice la nozione labrioliana di praxis, nella misura in cui rigettava la confluenza di teoria e prassi che ne era alla base, comportando l’infondatezza dell’aspirazione che la teoria del materialismo storico potesse supportare le aspirazioni politiche del proletariato67. Nei primi saggi l’interpretazione di Croce si muove su un terreno ingannevole, perché non vuole presentarsi come una confutazione, ma come una serena analisi, che, se da una parte non aderisce al proprio oggetto, dall’altra ci si accosta con una bonomia priva di pregiudizi. In realtà, la critica è radicale e demolitrice, e i suoi risultati parziali sono via via alterati nel senso del pieno rifiuto della concezione materialistica della storia. E in effetti il loro autore, già nella prefazione del 1899, riterrà di averne dato una critica tutto sommato completa68. Insomma, Croce esordisce facendosi schermo di Labriola per svolgere delle considerazioni che fin da principio colpiscono punti vitali del marxismo come scienza, sulla base certo di effettivi punti di convergenza con l’amico: la confutazione del positivismo, dell’economicismo, del monismo materialistico e

la conseguenza di «riproporre coscientemente una nuova frattura fra teoria e pratica» (F. Sbarberi, Il marxismo di Antonio Labriola, Introduzione ad A. Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1973, vol. I, p. LXXVIII). 67. Cfr. A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, cit., p. 225; cfr. anche B.A. Haddock, Vico and the crisis of marxism, cit., p. 361. 68. Cfr. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. VII. Opposta alla nostra la tesi di C. Tuozzolo, «Marx possibile». Benedetto Croce teorico marxista. 1896-1897, cit., p. 32, che afferma: «Ciò che pare dubbio è il fatto che Croce abbia sin dall’inizio partecipato a tale teorizzazione con l’intento di proporre l’idea dell’inconsistenza filosofica del materialismo storico», tanto che la stessa prima memoria, quella del ’96, secondo Tuozzolo, «non mette mai in discussione le fondamentali verità scoperte dal materialismo storico» (ivi, p. 61).

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marxista, che restano però dei punti di contatto superficiale, esterno, poiché Croce ne accetta solo la pars destruens e li colloca in un quadro teorico per certi versi opposto. Non a caso si tratta, perlomeno rispetto a una valutazione del materialismo storico, di coincidenze puramente negative, di rifiuto, e non è attraverso di esse che Croce svolge la propria analisi. Nei saggi crociani su Marx, non c’è, fin dall’inizio, il minimo riconoscimento di un carattere filosofico del materialismo storico. Ci si potrebbe aspettare una riduzione del marxismo a materialismo, un suo accostamento all’evoluzionismo e al positivismo. Croce segue invece la strada labrioliana della separazione del marxismo dal naturalismo, accettandone però solo gli elementi negativi. Del resto, la facile identificazione di marxismo e positivismo sarebbe stato un troppo grossolano tentativo di confutazione per chi conosceva direttamente l’esposizione critica labrioliana del pensiero di Marx ed Engels69. Il positivismo è cosi per Croce qualcosa che si è unito dopo, accidentalmente, al marxismo, benché venga comunque rimproverato a Marx che le partizioni della storia economica risentano dell’influenza del positivismo evoluzionistico70. Anziché rilevare dunque i legami tra tradizione materialistica e marxismo, quest’ultimo viene svuotato di qualsiasi contenuto filosofico. È già inaugurata dunque qui la tendenza crociana alla negazione della dignità filosofica dell’avversario. Al materialismo stesso, invece di essere riservata una confutazione, è semplicemente contestata l’appartenenza a qualsiasi dimen-

69. Anche su questo punto il rischio è quello di leggere la valutazione labrioliana del positivismo, con la sua complessità, alla luce dell’interpretazione riduttiva datane da Croce, cfr. S. Barbera, Labriola e il positivismo. Alcune osservazioni, in F. Sbarberi (a cura di), Antonio Labriola nella cultura europea dell’Ottocento, Piero Lacaita editore, Manduria - Bari - Roma 1988, p. 278. 70. Cfr. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., pp. 90-91.

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sione di pensiero. Lo si vedrà chiaramente nella Logica71. Qui l’atteggiamento crociano è del tutto analogo, ma con la differenza appunto che dal marxismo viene allontanato ogni riferimento a una qualsivoglia tradizione filosofica, non viene apparentato al naturalismo, al positivismo, viene sganciato dalla tradizione materialistica, in cambio di una piccola concessione, il riconoscimento della sua utilità per gli studi storici. Si cerca dunque in questo modo di eliminare il carattere filosofico del marxismo, che sarebbe soltanto una sociologia o una metodologia della conoscenza economica. Se dunque la generale tendenza di questi saggi è quella di svuotare il marxismo di qualsiasi contenuto filosofico, non sorprende che al materialismo storico non venga attribuita neanche la dialettica, considerata soltanto un rivestimento esteriore applicato in un secondo momento da Marx alla storia. Ciò nondimeno – com’era accaduto a proposito del legame tra materialismo storico e positivismo evoluzionistico –, la dialettica marx-engelsiana viene stigmatizzata da Croce: essa è o una legge di tendenza o una semplice e circoscritta generalizzazione, e «la raffigurazione di quel ritmo naturale per negazione di nega-

71. Croce nega come inammissibile l’esistenza di due correnti filosofiche, l’una empiristica e naturalistica, l’altra razionalistica e idealistica, che correrebbero parallelamente nel pensiero moderno, «per la ragione assai semplice, che, delle due, filosofia o è l’una o è l’altra, e, se è l’una, non è l’altra. In verità, quando si parla di filosofia, non si può intendere se non quella che appunto per non essere […] scienza naturale, include in sé anche l’intelligenza della scienza naturale» (B. Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Laterza, Bari 19484 [1906], p. 215). Ogni filosofia è, per Croce, idealismo perché deve usare delle idee generali: il determinismo l’idea di causa, il materialismo l’idea di materia, il naturalismo l’idea di natura, Talete l’idea di acqua, i pitagorici l’idea di numero, il teismo l’idea di Dio, cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 19477 [1909], pp. 171-172.

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zione non è per caso una scoria di vecchia metafisica, della quale giovi mondarsi!»72. Il materialismo storico non è dunque una teoria, neanche in senso generico: «Il materialismo storico surse dal bisogno di rendersi conto di una determinata configurazione sociale, non già da un proposito di ricerca dei fattori della vita storica; e si formò nella testa di politici e di rivoluzionari, non già di freddi e compassati scienziati da biblioteca»73. Non bisogna allora mettersi a cercare nel materialismo storico dei concetti rigorosi e filosofici, che esso non ha trovato, ma soltanto e genericamente delle feconde scoperte per intendere la vita e la storia. D’altronde, per Croce, Engels e Labriola, sostenendo che la concezione materialistica della storia è un nuovo metodo, ne negherebbero per ciò stesso il carattere di novità teorica74. Ma per Croce essa non è neanche un nuovo metodo:

72. Id., Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 86. 73. Id., Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 13. Cfr. invece Labriola; «Rivoluzionarii per ogni rispetto compiuti (ma non passionati e passionali), pur nondimeno non suggerirono mai, ne piani combinatori, né artificii politici, mentre del resto spiegavano teoreticamente e aiutavano praticamente la nuova politica» (A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p. 216). Sull’unità in Marx dei «tre ordini di studii» che si trovano nel materialismo storico nel suo insieme, cfr. ivi, pp. 248-249. 74. Conferma Sorel, in un testo del 1900, questa lettura crociana: «ni Marx ni Engels n’ont jamais donné d’exposition claire et détaillée de leurs idées. Un critique plein de perspicacité, M. B. Croce, estìme qu’il ne faut voir dans la conception matérialiste de l’histoire qu’une indication pour la recherche». E ancora: «Marx a fait ses recherches dans l’esprit que M. B. Croce indique; il s’est efforcé de rattacher les explications aux différenciations économiques que révèle l’analyse de la société civile; mais ce n’est pas là une grande innovation […]. Si l’on s’en tient à cette simple indication il ne semble pas qu’it y ait rien de bien original dans la théorìe de Marx […]. Il y a certainement dans Marx une dottrine speciale sur le système de l’histoire; mais elle n’est pas facile à découvrir, et les interprètes n’ont pu, jusqu’ici,

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lo era quello degli idealisti. Quello del materialismo storico è lo stesso metodo degli storici, solo con l’aggiunta di qualche nuovo dato. Il materialismo storico è insomma «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico»75. L’attacco a Labriola sul marxismo esplicita le premesse incompatibili da cui partono i due amici. Della concezione di storia di Labriola Croce può accettare soltanto i motivi negativi, come la critica della filosofia della storia, ma la sua impostazione soggettivistica di stampo neokantiano deve eludere qualsiasi confronto con l’oggettivismo e il realismo storico labrioliano. Il marxismo non è neppure propriamente una teoria economica. Infatti, in primo luogo, a Marx era poco chiaro lo status epistemologico e metodologico della propria opera: «non pare che l’autore stesso avesse sempre piena consapevolezza della peculiarità, ossia della differenza teorica della sua ricerca rispetto alle altre che si possono esercitare sui fatti economici; e, a ogni modo, disprezzò o trascurò tutte quelle spiegazioni preliminari e metodiche, che potevano chiarire il suo assunto»76. Tanto che il Capitale è un libro «veramente asim-

parvenir à en donner une exposition vraiment scientifique» (G. Sorel, Les polémiques pour l’interprétation du marxisme: Bernstein et Kautsky, cit., pp. 150-151)». Analoghi riferimenti elogiativi a Croce nello scritto del 1908 La décomposition du marxisme, ivi, pp. 211-256. 75. B. Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 10. Commenta così Giuseppe Cacciatore questo celebre giudizio crociano: «Non poteva esserci […] svalutazione più radicale del materialismo storico come teoria […]. Già nel 1896, dunque, si scorgono in piena evidenza gli elementi di divergenza [da Labriola]» (G. Cacciatore, Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi. Napoli, 18-19 ottobre 2001, cit., p. 321). 76. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 57. Cfr. invece il commento di Labriola relativo a questo giudizio crociano: «Ma se [Marx] rompe le scatole per la continua riflessione

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metrico, disordinato, sproporzionato, urtante contro tutte le leggi dell’estetica: qualcosa di simile, per taluni rispetti, alla Scienza nuova del Vico»77. Del resto, vi è una difficoltà letterale a stabilire in modo univoco che cosa sia il materialismo storico: «Chi volesse mettere d’accordo tutte le formole che il Marx e l’Engels ne hanno date urterebbe in espressioni contraddittorie, che renderebbero difficile al cauto e metodico interprete stabilire che cosa fosse per essi, così, in generale, il materialismo storico […]. Il Marx provava una sorta di fastidio per le ricerche d’interesse puramente teorico. Assetato della conoscenza delle cose (delle cose concrete e individuali), dava poco peso alle disquisizioni sui concetti e sulle forme dei concetti»78. Dal punto di vista formale, quella de Il Capitale è una ricerca astratta: la società capitalistica, studiata da Marx, non coincide con una determinata società storicamente esistente: «è una società ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che (diciamo così) potrebbero anche non essersi presentate mai come fatti reali nel corso della storia. È vero che queste ipotesi rispondono in buona parte alle condizioni storiche del mondo civile moderno»79. Riprendendo Sorel, Croce

su i limiti e le ragioni della sua attività scientifica!» (Lettera a Croce del 28 febbraio 1898, in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), cit., p. 265). 77. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 58. 78. Ivi, pp. 82-83. Questo giudizio di Croce sul materialismo storico, come anche altri, è citato da Sorel in Le matériàlisme historique [1902], in Id., La décomposition du marxisme et autres essais, cit., p. 184. Ma in tutti i saggi di Sorel sul marxismo, fino al primo decennio del ’900, sono continuamente citati passi dai saggi crociani di Materialismo storico ed economia marxistica. 79. Ivi, p. 58. Cosi Labriola commenta questo passo: «Qui Marx diventa l’illustratore teorico di una quasi-utopia» (A. Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e di filosofia», in Id., Saggi sul materialismo storico, cit., p. 297).

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afferma che Marx si avvarrebbe di uno strumento metafisico: «egli foggia una metafisica dell’economia […] costruisce un esperimento ideale, che gli serve a fare comprendere le sorti del lavoro nella società capitalistica»80. Qui Croce si riferisce soprattutto alla teoria del valore-lavoro e alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, di cui tenterà una confutazione e di cui comprenderà acutamente il fondamentale legame con la prassi81. Il tentativo marxiano di analisi economica si fonderebbe quindi su di un astrazione, contrapporrebbe cioè alla società reale un modello economico, contenente in sé gli elementi storici della società moderna, con l’obiettivo di giudicare la società contemporanea, non tanto con intenti 80. B. Croce, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, e polemiche intorno ad esse, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 143. Ma poi Sorel si riferisce a Croce quando, contestando la teoria del valore-lavoro, scrive: «Il n’y a pas dans Marx de vraie théorie de la valeur, au sens qu’on attaché communément à ce terme, mais une théorie de l’équilibre économique réduit au cas d’une société prodigieusement simplifiée. On suppose que toutes les industries sont équivalentes et que tous les travalleurs sont ramenés à un type uniforme» (G. Sorel, Les polémiques pour l’ìnterprétation du marxisme: Bernstein et Kautsky, cit., p. 146). 81. Ciò non autorizza però a concludere che: «Croce, dunque, alza il tiro nei confronti del movimento socialista, interrogandolo sulla capacità di risolvere in maniera più produttiva il ‘problema sociale del lavoro’ e chiedendogli di confrontarsi con la civiltà capitalistica nella sua complessità» (M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce. La «Filosofia dello Spirito» come costruzione di un’egemonia, Franco Angeli, Milano 1987, p. 42.). Sulla critica crociana della teoria del valore-lavoro cfr. L. Basile, Per una teoria del mercato, Labriola, Croce, Gramsci, PensaMultimedia, Lecce 2009, pp. 33-87. Cfr. soprattutto L. Colletti, Bernstein e il marxismo della Seconda Internazionale, in Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, pp. 61-147, in cui il valore è ciò che spiega il disequilibrio e la contraddittorietà insiti nel sistema economico, e L. Colletti - C. Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza, Bari 1970, p. 106. Cfr. anche N. Bellanca, Economia politica e marxismo in Italia. Problemi teorici e nodi storiografici, Unicopli, Milano 1997, pp. 77-88, che rileva le ambiguità e contraddizioni dell’esposizione marxiana della teoria del valore-lavoro.

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euristici, quanto con la testa calda dell’uomo d’azione, del rivoluzionario. L’analisi di Marx si limiterebbe a una particolare formazione economica, e ciò comporterebbe l’esclusione non solo di tutte le altre, ma anche delle leggi economiche universali e di «quelle generali operazioni economiche, comuni alle varie società e alla economia individuale. Se, insomma, il Capitale come forma non è una descrizione storica, come comprensione non è un trattato di economia, e molto meno un’enciclopedia»82. Più di un commentatore ha notato il «vuoto storico» e la rimozione di ogni contesto storico-economico determinato nell’esame crociano del marxismo e della marxiana critica dell’economia politica in particolare83. Il formalismo scientifico cui si è già accennato rende a Croce al tempo stesso congeniale la posizione edonistica e incomprensibile la natura

82. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 59. Secondo Mauro Visentin, Croce e Labriola avrebbero in certo modo effettuato una «divisione dei compiti» per stroncare in Italia il dibattito sul Capitale sorto con la pubblicazione del III libro nel 1894. Questo sarebbe il senso della critica crociana al Capitale. La parte di Labriola – Visentin (senza rilevare la grande acutezza delle osservazioni di Labriola in materia) insiste sulle insufficienti competenze del cassinate nel campo dell’economia politica – sarebbe consistita nella regia di tutta una serie di operazioni pubblicistiche coronate nel 1895 con la traduzione e diffusione in Italia della Vorrede di Engels al III libro del Capitale, con la forte critica di Loria lì contenuta. Croce e Labriola, con la loro «azione convergente» sarebbero cosi responsabili della scomparsa in Italia della discussione sul Capitale e dell’affermarsi di un marxismo «senza Capitale», cfr. M. Visentin, Il rapporto Labriola-Croce e la genesi del marxismo italiano, in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, cit., pp. 153-171. È evidente come qui venga dato un significato eccessivo all’«incarico» dato da Labriola a Croce di confutare l’opera di Loria. Del resto, a Labriola non piacque per nulla la critica della teoria del valore di Marx contenuta nel crociano Le teorie storiche del prof. Loria (cfr. tra l’altro la lettera di Labriola a Croce del 25 dicembre 1896, in A. Labriola, Carteggio IV 1896-1898, cit., pp. 265-267). 83. Cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit, pp. 365-366.

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storica delle categorie economiche affermata da Marx ed Engels, e ribadita da Labriola. Contrariamente all’insegnamento di Labriola e secondo una posizione tipica del revisionismo di quegli anni, Croce distingue anzi l’ambito di temi del «materialismo storico» e quello dell’«economia marxista», facendo a pezzi la coesione in cui consiste lo specifico dell’opera marxiana. Con il marginalismo, Croce afferma di accettare «la spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri»84. Labriola reagirà duramente e commenterà così: «E che gli mancherebbe dunque per dare dell’imbecille e del perditempo a Marx, che per vie del tutto diverse si è affannato a ricercare l’origine, il processo e la spartizione del sopravvalore; alla qual cosa, alla fin fine, si riduce nell’essenziale l’attività sua specifica di critico e d’innovatore dell’economia? La benedetta formula del D D’, ossia del danaro che si ritrova in danaro con tanto di più, fu come il chiodo fisso nella testa di Marx ricercatore, come il pernio della sua ricerca. Ora il Croce, fatta la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi avendo già bevuto e già mangiato a sazietà, voglia ribere e rimangiare, si volge a Marx, chiedendogli una teoria sociologica, che sia complementare a quella economica, nella quale lui Croce è tanto fermo e deciso; – e che altro può dirgli Marx se non questo: mandate al diavolo quella vostra filastrocca edonistica, se no è inutile che interroghiate me su tali quisquilie, chè io non posso offrirvi che l’assolutamente opposto. Di fatti il Croce è costretto a farsi un Marx diverso – non dirò se molto o poco – dal vero, perché sia quello i cui principii possano

84. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., pp. 79-80.

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apparire conciliabili con gl’indiscutibili dati dell’edonismo»85. Labriola respinge interamente la confutazione crociana dell’economia marxista e attacca la cosiddetta scuola austriaca, questa «scienza messa alla gogna»86, di cui aveva ben compreso il carattere sostanzialmente psicologistico al quale si attaccava poi una formalizzazione matematica posticcia che giungeva a una determinazione di economicità asociale e astorica, la stessa teorizzata da Croce, che trovava infatti consono alle sue concezioni filosofiche e alla sua idea delle relazioni tra categorie e storia il carattere eterno dell’economia e il soggettivismo che comporta il concetto di bene in luogo di quello di merce.87 Tuttavia, ciò che muove Marx è vivo interessamento morale o, come aveva scritto Sorel, uno «spirito di rivendicazione giuridica». Ma, «altro è il movente psicologico, e altro il prodotto 85. A. Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e di filosofia», cit., p. 294. 86. Ivi, p. 325. 87. Fin dal 1897, nel carteggio con Croce, Labriola espone i propri dubbi sulla nozione di economia pura e sulla scuola austriaca (cfr. in particolare le convincenti obiezioni contenute nelle lettere a Croce del 3 gennaio 1897 e del 28 febbraio 1898, in A. Labriola, Carteggio IV 1896-1898, cit., pp. 272-276 e 495-497). Cfr. anche A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., pp. 245 e 253-254, e Id., Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e di filosofia», cit., pp. 321-322. Sulla lettura del marginalismo in Labriola e Croce che passerebbe attraverso il filtro della corrente edonistica (rappresentata da Jevons con la Theory of Political Economy del 1871, tradotta in italiano nel 1875, da Pareto con il Cours d’économie politique del 1896-1897 e da Pantaleoni con i Principii di economia pura del 1889), cfr. J.-P. Potier, Antonio Labriola lettore degli economisti, in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia cit., p. 148). Jacques Bidet ha rilevato, peraltro, l’inadeguatezza della replica di Labriola a Croce sull’economia pura e sul rapporto tra Libro I e Libro III del Capitale, cfr. J. Bidet, Sur l’épistémologie du jeune Croce à propos du débat Labriola-Croce sur la valeur, 1896-1899, in G. Labica - J. Texier (éds.), Labriola d’un siècle à l’autre. Actes du Colloque international C.N.R.S., 28-30 mai 1985, Meridiens Klincksieck, Paris 1988, pp. 185-186.

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intellettuale»88. Inoltre, sempre secondo Sorel, bisogna capire che il concetto del valore-lavoro, oltre a non essere una legge fisica, non è «una legge neanche in senso etico, ossia tale che debba intendersi come regola di ciò che dovrebbe essere»89. Non considerando l’opera teorica di Marx come opera morale, Croce le toglie l’ultima possibilità di considerarla opera di pensiero, le toglie ogni residua possibilità di dignità filosofica. Quindi, l’opera di Marx è soltanto mossa psicologicamente da interessamento morale, da «spirito di rivendicazione giuridica». Qualcosa di meno dell’«ideale etico» che accompagna l’analisi economica, la separazione neokantiana di valori e fatti di Bernstein. Né economia né etica dunque90. Se si prova infine a ritornare al valore storiografico del marxismo, anche su questo fronte ora la strada è sbarrata. Non si può, infatti – sostiene Croce –, partendo da Marx, tentare una teoria generale della storia e della società91. Le ricerche 88. B. Croce, Marxismo ed economia pura (saggio aggiunto alla seconda edizione, nel 1906), in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 169. 89. Id., Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, e polemiche intorno ad esse, cit., p. 144. «Croce accepte la théorie marxienne des idéologies comme un canon d’interprétation très utile, mais il croit pour sa part à l’autonomie du principe éthique. I1 est donc décisif pour lui d’affirmer que Marx ne s’est jamais soucié d’élaborer une phìlosophìe éthìque» (J. Texier, Croce, Gentile et le matérialisme historique, in G. Labica - J. Texier (éds.), Labriola d’un siècle à l’autre. Actes du Cólloque international C.N.R.S., 28-30 mai 1985, cit., p. 171). 90. Proprio in un contesto in cui sta trattando della morale come fonte della lotta di classe, Sorel chiosa: «On parle beaucoup en Allemagne de revenir a Kant; c’est un bon signe» (G. Sorel, L’Éthique du socialisme [1898], in Id., La décomposition du marxisme et autres essais, cit., p. 130). Un aspetto del revisionismo fu proprio quello di spezzare l’unità del materialismo storico ridando autonomia a fattori ideologici, etici, volontaristi ecc. 91. Cfr. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit.,p. 115.

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di Marx non sono storiche, ma ipotetiche ed astratte, ossia «teoriche». Sono ricerche di sociologia economica. L’indagine di Marx ha bisogno di essere affiancata da una scienza economica generale che stabilisca un concetto del valore, deducendolo da principi del tutto diversi e più comprensivi92. Non essendo una scienza economica generale, l’economia marxistica è «una economia sociologica comparativa, che tratta delle condizioni del lavoro nelle società»93, è «storico-comparativa o sociologica»94. Del resto, alla parola «economico» non corrisponderebbe nel materialismo storico un significato rigoroso, ma, come nel linguaggio corrente, essa comprenderebbe «un gruppo di rappresentazioni alquanto disparate», non riducibili a un concetto unico95. Dunque, Marx non fa infine neanche opera di storico. Sembrava l’attribuzione più certa che ancora rimanesse all’autore de Il Capitale, dopo le dichiarazioni precedenti sulla sua utilità storica. Certo, neanche lì si trattava propriamente di opera storiografica, ma soltanto di opera ausiliaria alla storiografia. Comunque, ora la «teoria» marxiana viene ad essere un corollario di una scienza economica generale, ma un corollario sprovvisto in sé di qualsiasi scientificità, che implicherebbe una potenzialità fondativa che Croce non è certo disposto a concedere al materialismo storico. Già qui, come lo sarà in futuro, l’attribuzione da parte di Croce di un carattere «sociologico» alle teorie che sta sottoponendo a critica equivale a un marchio di non filosoficità, di non autentica concettualità. Così come ora «sociologia» vale per scienza impropria, applicativa, e come tale si oppone all’«economia pura», successivamente sarà contrapposta, come pseudo-co92. Ivi, pp. 72-73. 93. Ivi, p. 111. 94. B. Croce, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, e polemiche intorno ad esse, cit, p. 135. 95. Id., Il libro del prof. Stammler, cit., pp. 116-117.

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noscenza, alle categorie, ai distinti, ai concetti «puri» della filosofia dello Spirito96. «Sociologia» è invece termine niente affatto dispregiativo in Labriola, che chiama appunto «sociologo del materialismo economico» il marxista critico, ritenendo che solo un approfondita analisi sociologica possa fare del discorso storico qualcosa di effettivo e reale97. Semmai Labriola distingue tra sociologia e sociologismo, all’interno della sua polemica contro la semplificazione e la generalizzazione positivistica dell’evoluzionismo. Però, Marx non merita, per Croce, neanche veramente la qualifica di sociologo: «Il Marx, come sociologo, non ci ha dato, di certo, definizioni sottilmente elaborate della ‘socialità’, come se ne possono trovare nei libri di qualche sociologo contemporaneo […], ma egli insegna, pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch’è la società nella sua realtà effettuale. Anzi, per questo rispetto, mi meraviglio come nessuno finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo di onore, il ‘Machiavelli del proletariato’»98. Questo elogio del Marx «realista», «amante della forza», riduzione del pensiero marxiano ad una vitalistica esaltazione della lotta per la lotta (non a quella di classe dunque), lo si ritrova con grande enfasi nell’Introduzione del 1917 a questi saggi, 96. Cfr. Id., Etica e politica, Laterza, Bari 19452 [1931], pp. 244-245. Cfr. anche Id., Logica come scienza del concetto puro, cit., pp. 223-224. Contro la sociologia, cfr. anche Id., L’utopia della forma sociale perfetta, «Quaderni della Critica» 16 (1950), pp. 21-23, poi in Id., Storiografia e idealità morale, Laterza, Bari 19672 [1950], pp. 89-91. Per un’applicazione di tale attitudine teorica neoidealistica, cfr. C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Sansoni, Firenze 19732 [1940]. 97. A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, cit., p. 175; Id., Da un secolo all’altro, in Id., Saggi sul materialismo storico, cit., p. 377. 98. Cfr. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 112.

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laddove Croce si domanda perché s’interessò al marxismo: la risposta è che in Marx sentiva il fascino della «grande filosofia storica del periodo romantico», «un hegelismo assai più concreto e vivo», la migliore tradizione della scienza politica italiana, per il principio della forza, della potenza, e l’opposizione al giusnaturalismo, con il suo antistoricismo e la democrazia, e ai «cosiddetti ideali dell’89». Marx amante della guerra, di Bismarck e di Moltke, delle vittorie tedesche sui francesi, «estimatore della sola aristocrazia, alla quale si argomentava di ergere contro, non già i poverelli o il ‘buon popolo’, ma la sua nuova società lavoratrice, concepita anch’essa come una sorta di aristocrazia». Qui si legge davvero Marx come un esaltatore della forza e della lotta in quanto tali, superato comunque – siamo nel 1917, c’è la guerra – perché «il concetto di potenza e di lotta, che il Marx aveva dagli Stati trasportato alle classi sociali, sembra ora tornato dalle classi agli Stati»99. Le cose non cambiano dunque, e questa Introduzione del 1917 è statà giustamente definità «un esercizio di oratoria in cui la lode a 99. Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. XIV-XVI. Sulla forzatura in senso conservatore della critica marxiana ai principi della Rivoluzione francese come principi borghesi, cfr. D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», cit., pp. 70-71. Cfr. anche, L. Michelini, Marx in Italia: Pareto, il «paretaio» Labriola, in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, cit., pp. 250-251. Nelle sue mirabili pagine su Croce contenute all’interno del saggio «Verità e umanità nel pensiero contemporaneo», Antonio Banfi condusse una disamina dell’intero sistema di Croce, verificando la sua reale relazione all’hegelismo e al marxismo, e sostenne tra l’altro che «lo storicismo crociano tende a farsi del marxismo un alleato per demolire la coscienza universal-utopistica della borghesia, per confermare il suo snobismo e il suo dilettantesco machiavellismo – l’elogio della forza, il valore del fatto – a tutto vantaggio di uno scetticismo intellettualistico a sfondo conservatore». In questo sta la differenza dell’uso di Marx da parte di Croce rispetto al revisionismo riformistico, la cui tendenza a diluire il marxismo nel processo evolutivo di un riformismo borghese è invece tutto sommato più progressista del liberalismo crociano, cfr. A. Banfi, L’uomo copernicano, cit., p. 157.

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Marx fa da copertura al suo rifiuto in toto»100, un elogio della forza e della potenza peraltro assai comune negli anni in cui in Italia circola per esempio, appena tradotto da Enrico Ruta, la Politica di Treitschke, testo ben noto a Croce. Ad ogni modo, tornando ai saggi di fine XIX secolo, anche la questione di che tipo di sociologia sia quella di Marx ci riporta al buon paio di occhiali, poiché il materialismo storico «non dev’essere né una nuova costruzione a priori di filosofia della storia, né un nuovo metodo del pensiero storico, ma semplicemente un canone d’interpretazione storica. Questo canone consiglia di rivolgere l’attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende». Un «canone», cioè qualcosa che «non importa nessuna anticipazione di risultati, ma solamente un aiuto a cercarli, e che è di origine affatto empirica». Va perciò tolto al materialismo storico ogni concetto aprioristico101, annullandolo così nell’empiria. Come si vede, il materialismo storico, per Croce, non solo non è una teoria, ma neanche una metodologia102. 100. A. Macchioro, Croce e Labriola, cit., p. 230. Macchioro, peraltro, applica la categoria gramsciana di «lorianismo» o lorianesimo alla lettura di Croce su Marx, come atteggiamento miscelato di condiscendenza e saputaggine, cfr. ivi, p. 227. 101. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., pp. 80-81, 87 e 111. 102. Ciononostante, Jacques Texier ha visto in quest’opera di riduzione del marxismo a canone empirico, che non è una teoria né una filosofia, l’elogio da parte di Croce della sua natura critica. Analizzando i testi, ci risulta difficile scorgere questo lato positivo, e comunque sia, come può esserci critica senza teoria, senza filosofia, senza scienza? Del resto, è lo stesso Texier a notare giustamente il titolo paradossale della prima memoria crociana sul materialismo storico, Sulla forma scientifica del materialismo storico, quando questa «forma scientifica», possedendo solo «statuto empirico», non ha quindi «forma scientifica o teorica», in virtù del fatto che Croce «s’efforce de réduire le matérialisme historique au degré zèro de la théorie», cfr. J. Texier, Croce, Gentile et le matérialisme historique, cit., pp. 166-167 e 170.

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Forse per questo Bobbio notava che con la teoria del «canone» Croce era ormai fuori anche del revisionismo103. Ecco che cosa rimane dunque di questa capillare opera di disfacimento dell’edificio epistemologico-concettuale del materialismo storico: «l’utile canone di interpretazione storiografica». Gentile – impegnato in una polemica con Croce che aveva certo uno dei suoi centri nevralgici nella questione dell’interpretazione del marxismo –, nella recensione alla terza edizione di questi saggi crociani, notava però che, di questo «utile canone di interpretazione storiografica», nelle sue opere storiche Croce non faceva alcun uso104. Croce termina questi studi con la messa in guardia dalla continuazione dell’opera politica di Marx, ritenuta più difficile ancora della continuazione della sua opera scientifica; ed elogia i marxisti più avveduti, Kautsky, Bernstein e Sorel105, che, dirà poi, «si rifacevano alla mia disamina dei concetti storici ed economici del Marx e ne accettavano le conclusioni»106. Senza discutere qui della veridicità di questo primato crociano tra i revisionisti del marxismo107, è certo comunque che, sotto-

103. N. Bobbio, Introduzione a R. Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, Einaudi, Torino 1968, pp. XXXII-XXXIII. 104. Cfr. M. Agrimi, Labriola tra Croce e Gentile, cit., p. 194. 105. B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 113. 106. Id., Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (18951900), cit., pp. 300-301. 107. Ricordiamo l’opinione di Agazzi secondo cui l’influsso di Croce sul revisionismo fu minore di quanto Croce stesso rivendicasse, minore di quello di Sorel e di Merlino, anche perché le sue analisi, confinate a una lettura di Marx in chiave «filosofico-culturale», non potevano suscitare per sé sole alcun impulso critico (in Sorel sarebbe stata più rilevante l’influenza di Merlino), cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., p. 101 e 126-127, Hanno invece sostanzialmente accettato l’auto-interpretazione che della sua opera sul marxismo diede lo stesso Croce coloro che hanno attribuito a Cro-

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lineare i motivi di originalità e i caratteri tipici già in atto del modo crociano di filosofare (dipendenti sostanzialmente dalla personale ricezione di suggestioni neokantiane), non può condurre a concludere per l’«assoluta indipendenza con cui Croce si muove nella discussione sulle dottrine marxiste»108. È certo infatti che Croce fa parte fin da principio di una tendenza revisionistica alla quale si sostiene e che certo contribuisce a consolidare. Questo di Croce, quindi, invece di essere un commentario tra gli altri, si pone come un commentario con altri (Sorel, Bernstein, Pantaleoni, Sombart, Böhm-Bawerk ecc.), contro altri (innanzitutto lo stesso Labriola). Il modello e il bersaglio tendono apparentemente a coincidere. La vera coerenza della lettura crociana di Marx sta peraltro nel negare fin da principio all’opera di Marx rilevanza politica, una rilevanza che essa poteva conservare solo nella misura in cui le venisse lasciato un valore teorico, cioè se la storia potesse continuare ad essere intesa in qualche misura come storia di lotte di classi illuminata dalla concezione materialistica della ce «il rango di capostipite» nel porre il problema della validità della teoria del valore-lavoro, cfr. M. Reale, Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore di Marx. Questioni di metodo, cit., p. 135. 108. M. Maggi, Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce, cit., p. 170, che insiste sull’«autonomia filosofica» su «la particolarità, e potremmo dire l’unicità, della posizione da lui tenuta di fronte al problema costituito dal socialismo di ispirazione marxista»; «la prospettiva teorica di Croce travalica i confini entro cui variamente si muovono i critici del marxismo. La sua è una collocazione indipendente e partecipe insieme, che ha poche corrispondenze nei rispettivi schieramenti, ed è destinata a rivelarsi nel lungo periodo solitaria e incomparabile per intelligenza storica e coerenza concettuale» (ivi, pp. 171 e 173). Cfr. anche K. E. Lönne, La critica di Croce al marxismo e i suoi rapporti con Eduard Bernstein e Georges Sorel, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi. Napoli, 18-19 ottobre 2001, cit., pp. 207-241, che indica elementi dell’influenza della lettura crociana di Marx su Sorel e Bernstein. Cfr. anche A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1214.

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storia. Una coerenza, questa crociana, che gli farà ribadire alcuni anni dopo un persistente motivo di preoccupazione: «la filosofia, nel riprendere possesso dei propri beni e nel togliere al marxismo la maschera scientifica, dev’essere consapevole di avere tolto una maschera e non punto confutato il marxismo, inconfutabile perché non maschera una realtà, non pensiero ma azione, e che come tale ha operato e opera ancora nella vita moderna»109.

3. Conclusione Sebbene da alcuni Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo del 1897 sia stato visto come uno scritto facente ancora parte della «stagione di più fiducioso impegno critico-ricostruttivo»110, tuttavia già da quel saggio Croce svolgeva il proprio pensiero sul marxismo in una direzione tale da risultare del tutto inaccettabile a Labriola, così da dissolvere le ambiguità e la parziale concordia del saggio contro Loria. Il confronto col marxismo non aveva minimamente scalfito le premesse neokantiane di Croce, le aveva anzi rafforzate, così come l’impostazione formalistica da esse procedente, dentro alla quale il pensiero marx-engelsiano veniva triturato. Croce tendeva però comunque a considerare le proprie tesi come appartenenti al «vero labriolismo» – un giudizio equivoco, che manterrà anche in seguito. Anche Gentile nella recensione della riedizione dei saggi crociani di Materialismo storico ed

109. B. Croce, Recensione a E. Hammacher, Das philosophisch-ökonomische System des Marxismus [1909], in Id., Conversazioni critiche, serie I, Laterza, Bari 1950, p. 305. 110. M. Reale, Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore di Marx. Questioni di metodo, cit., p. 143.

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economia marxistica del 14 maggio 1918 sul «Resto del Carlino» prende ancora sarcasticamente di mira Labriola, come il protagonista farsesco di una «singolare avventura»: «E così il risultato letterario di questo periodo ultimo dell’attività letteraria del Labriola fu di affrettare la dissoluzione di quel marxismo, per propugnare il quale egli aveva ripreso in mano la penna». Ora, Labriola aveva compreso l’operazione crociana, quel suo farsi schermo del pensiero di colui che l’aveva introdotto allo studio del materialismo storico, per andare in direzione contraria come se però stesse da una parte continuandolo e dall’altra confutandolo e superandolo. E reagì. A proposito del saggio del 1897 Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, scrisse: «Sebbene quello scritto paia concepito qual libera recensione del mio Discorrendo, il fatto è che esso […] contiene enunciati teoretici, che nulla han da vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie, anzi a queste son diametralmente opposte […]. Lascio volentieri al libero recensente la libertà delle opinioni sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori per un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato»111. Labriola però si limitò a prendere le distanze dallo scritto di Croce e a sviluppare una critica di alcune sue argomentazioni – in particolare, appunto, la tesi dell’economia pura e gli attacchi al Marx economista –, ma non ne diede una valutazione d’insieme, sospendendo il giudizio in attesa che Croce si ravvedesse o ampliasse quelle parti del suo scritto che Labriola considerava valide. «Comprendere è superare», ma «superare è aver compreso»112.

111. A. Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e filosofia», cit., p. 318. 112. Ivi, p. 327. Cfr. anche la lettera a Croce del 9 ottobre 1898: «Io non so se questa crisi del Marxismo c’è, se io stesso ne sia un rappresentante o un autore non so, e non m’importa di saperlo (sebbene alcuni recensenti

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Croce doveva ancora fare i conti con Marx, secondo Labriola. Quando invece il discorso era già chiuso, e per sempre. È stato scritto che in questa controversia Labriola, limitandosi ad una difesa integrale delle posizioni marxiane, rivelerebbe una debolezza nella sua capacità d’intervento, rimasto puramente polemico e inefficace, mentre, d’altra parte, Croce con «ingenerosa lucidità […] giocava una partita egemonica decisiva contro il vecchio maestro», sfruttandone cinicamente le debolezze113. Lasciando qui da parte la questione dell’incapacità della posizione labrioliana di determinare un rilancio del marxismo, certo è che Labriola seppe cogliere, incisivamente, gli specifici errori di valutazione e di analisi della lettura crociana di Marx, mentre forse, continuando a considerare il giovane amico sostanzialmente un erudito, non ne colse appieno il senso politico, proprio il tentativo di determinare quella spaccatura di teoria e prassi che pure lo preoccupava vivamente in tutta l’operazione dei revisionisti della «crisi del marxismo». Da parte di Croce, invece, il significato politico-culturale della propria operazione su Marx – cioè «distruggere il marxismo come possibile ermeneutica civile e storiografica»114 attraverso la «destructio in toto della dottrina del materialismo storico», già realizzata nei saggi di fine anni ’90115 –, pur con delle variazioni di tono, sarà ribadito continuamente, nei giudizi sul socialismo e sul materialismo storico più e più volte espressi nel l’abbiano detto), ma quello che so è questo: che la crisi di una dottrina s’avvera in quei cervelli, che dopo d’aver finito di capire dispongano di esperienza nuova per passare oltre. Né tu né Sorel avete questa pretensione, per ora almeno, e avete discorso intorno alla cosa a modo vostro» (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), cit., p. 302). 113. Cfr. L. Cortesi, Antonio Labriola, il «compagno» Croce e la revisione del marxismo, cit., pp. 278-279. 114. Cfr. A. Macchioro, Croce e Labriola, cit., pp. 244-245. 115. Ivi, p. 240, riferendosi specificamente alla terza parte di Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo.

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tempo, e nelle riedizioni di Materialismo storico ed economia marxistica. Si vedrà così confermarsi nella successiva attività filosofica, culturale e politica di Croce, il senso del suo giovanile confronto col materialismo storico. Ancora nella Storia d’Italia, Croce fa riferimento a Labriola la cui «mente critica non gli permetteva l’ortodossia [marxista] senza congiunte fatiche di ermeneutica e inconsapevoli correzioni o avviamenti alle correzioni», e continua, parlando di se stesso, in terza persona, come «scolaro di Labriola»: «La conseguenza fu che, accanto al Labriola, un suo scolaro avanzando per la strada da lui aperta, e contrastato e disapprovato da lui per questo ardire, sottomise a revisione tutte le tesi principali del Marx, e giudicò antieconomico e antiscientifico il concetto del sopravalore, riconoscendogli il solo ufficio di un paragone istituito per motivi di polemica sociale tra un astratto paradigma e la realtà, e dimostrò fondata sopra una ignoratio elenchi la legge centrale del terzo volume del Capitale sulla caduta tendenziale del saggio di profitto e la fine automatica del capitalismo per effetto del progresso tecnico, e abbassò il materialismo storico a semplice canone empirico di storiografia, che suggeriva di dar maggiore attenzione che non si solesse, nell’indagare la vita delle società umane, alla produzione e distribuzione della ricchezza; e così via per tutte le altre tesi. Questa critica fu accettata e convalidata dal Sorel, che anche lui studiava il marxismo con fede e speranza, ma anche lui con la debita spregiudicatezza; e operò nella distesa internazionale di quella scuola, e ne affrettò la cosiddetta ‘crisi’, che, poco stante, fu accusata e dichiarata in Germania dal Bernstein, il quale ammise di essere stato aiutato all’uopo dalla critica e autocritica italiana. Altri scrittori socialisti lavoravano, come potevano e sapevano, allo stesso fine: più tardi […], nel 1906, si udi nel congresso socialistico di Roma, da parte del Morgari, l’attestazione che i socialisti italiani, accogliendo dal Marx il metodo della lotta di classe, avevano sempre respinto tutto il rimanente della sua

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dottrina, ‘pessimistica, catastrofica, anarchica’, e, non molto tempo dopo, il Giolitti annunziava nella camera italiana che Carlo Marx era stato dai socialisti ‘riposto in soffitta’»116. La fortunata immagine del buon paio d’occhiali dei saggi di fine secolo, l’apparente paciosa condiscendenza verso il marxismo lasciò, negli interventi di Croce, gradualmente il posto all’attacco diretto, sempre più astioso. Ha notato per primo questo fenomeno Gramsci117, e Gerratana ha rilevato questo climax negativo: «Dall’entusiasmo alla neutralità, e dalla neutralità alla più aspra avversione» verso il movimento socialista – un passaggio già in parte realizzato nei saggi di fine ’800, giacché «neutralità» vuol dire «revisionismo», e, continua Gerratana, «spezzare il legame fra materialismo storico e socialismo è la prima preoccupazione del revisionismo crociano; ma quale uso, dopo ciò, si poteva fare del marxismo è un problema che poteva essere risolto coerentemente solo in un modo: seppellire il marxismo»118. Cambia evidentemente la strategia di demolizione del marxismo nelle note, brevi ma ricorrenti contro il marxismo, dopo l’Ottobre e i tentativi comunisti degli

116. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., pp. 148 e 162-163. 117. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1300-1301. In toni gramsciani si esprime anche Badaloni: «il complesso della costruzione crociana è indice di un disegno di notevole chiarezza. La classe dominante riafferma la sua egemonia attraverso la mediazione della cultura e controlla le tensioni pratiche ed i miti sociali. Liberarsi dalla fastidiosa pretesa marxistica di interpretare scientificamente la storia significa appunto riproporre agli intellettuali la loro tradizionale funzione di mediazione umanistica ad esclusivo vantaggio della classe già egemone, ma nell’ambito di un disegno complessivo in cui l’eterna struttura delle forme dello spirito toglie alle classi subalterne sia la possibilità di rovesciare il sistema costituito dei valori, sia la prospettiva di farne filtrare di nuovi attraverso il complesso gioco di forme cui esso dà luogo» (N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi, Torino 1975, p. 63). 118. V. Gerratana, Labriola e Croce, «Il Contemporaneo» 30 (1954), pp. 3-4.

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anni post-bellici. Con le parole di Luigi Dal Pane, fedele studioso di Labriola: «il Croce, dopo aver avuto in mano il buon paio d’occhiali del materialismo storico, fece atto di gettarlo via con violenza, ma nel gesto il vetro gli si spezzò fra le mani e diversi frammenti gli penetrarono nella carne viva»119.

Appendice Ha scritto Emilio Agazzi, un autore che ha considerato con attenzione proprio la fase giovanile del pensiero crociano e il suo confronto col marxismo: «Contrapponendo Croce a Marx, si mettono a raffronto due modi radicalmente diversi e opposti di considerare l’uomo e la sua storia: modi che vanno letti molto aldilà dell’opera determinata dell’uno e dell’altro, e investono una scelta fondamentale per l’esistenza di tutti gli uomini d’oggi»120. E, in effetti, il commento crociano a Marx e a Labriola non rimase circoscritto all’ambito delle dispute specialistiche, ma, volto a sospendere ogni efficacia pratica della teoria marxiana, intese raggiungere un ampio effetto politico-culturale, e seguì un’aspirazione di superamento delle posizioni di Marx e di Labriola in un’interpretazione che le racchiudesse mutile e innocue. Non esiste operazione culturale che possa ambire alla piena egemonia, ma certo più di una generazione trovò in Croce un riferimento imprescindibile per giudicare il marxismo (e non solo, naturalmente), esattamente il contrario di quel che fu la fortuna del suo «maestro» Labriola, che non ebbe seguace alcuno, tanto meno l’erudito e giovane amico. A mo’ di esempio, si può ricordare l’opera

119. L. Dal Pane, Antonio Labriola e il materialismo storico, «Mondo Operaio» 6, 20 marzo 1954, p. 23. 120. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., p. 17.

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di un giovane filosofo torinese, Aldo Mautino, nato nel 1917, laureatosi nel 1939 con una tesi su Croce dal titolo Problemi di economia, diritto e morale nella filosofia dello spirito (pubblicata poi postuma nel 1941 da Einaudi col titolo La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce), e morto improvvisamente l’anno seguente121. Scrive Mautino: «il Labriola, nella sua riesposizione del marxismo, era rimasto impigliato in una posizione di pensiero intrinsecamente ambigua e contraddittoria […]. Appunto perciò nella sua posizione non si era potuto restare: sì che, dopo di lui, si era dovuto o tornare indietro, e riabbracciarsi ai dogmi marxistici e alla loro mitologia, o andare innanzi e ripudiarli. Il Croce aveva scelto di andare innanzi»122. Qui, più che di superamento dialettico del pensiero di Labriola da parte di Croce, si tratta di un avanzamento corrispondente a un ripudio, a una piena confutazione. Una lettura conforme all’idea che lo stesso Croce diede del rapporto tra la propria opera e quella di Labriola. Mautino prosegue osservando che Croce era dunque ritornato alla storia lasciandosi alle spalle «talune tracce di metafisica, anzi della metafisica di peggiore specie, quella del contingente, persistenti nelle proposizioni del Labriola»123. Quanto al marxismo, Mautino ha appreso da Croce che esso era «alcunché di meramente soggettivo»124, appunto il famoso «buon paio d’occhiali», qualcosa che insomma – si può aggiungere – nulla aveva da dire sugli oggettivi nessi storici e sociali. Mautino si sofferma

121. Cfr. G. Solari, Aldo Mautino nella tradizione culturale torinese da Gobetti alla resistenza, in A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, a cura di N. Bobbio, Laterza, Bari 19533 [1941], pp. 1-5 sgg. 122. A. Mautino, La formazione della filosofa politica di Benedetto Croce, cit., pp. 159-160. 123. Ivi, p. 160. 124. Ibidem.

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sull’incapacità di previsione del marxismo, mero «canone d’interpretazione», non all’altezza in sostanza di quella filosofia della storia che era stata la sua forma originaria125; riprende la svalutazione crociana della nozione di lotta di classe: «La lotta di classe, come vita interna, come anima della storia, perdeva ogni valore […]. Persino il concetto di classe in se stesso non pareva intrinsecamente necessario né allo svolgimento della storia, né alla comprensione della medesima. Il che infine significava che esso era riputato valevole non come concetto, sì bene soltanto come formazione e rappresentazione storica e, portato nel campo gnoseologico, come schema classificatorio. Dopo di che, il marxismo poteva ritenersi interamente rinnegato»126. È manifesto qui l’effetto della rilettura dei saggi crociani di fine secolo sul materialismo storico combinato alle livide e sparse prese di posizione successive di Croce sul marxismo. Nell’esposizione del pensiero crociano, riemerge alla fine, dopo la demolizione, il motivo del superamento dialettico, nella filosofia dello Spirito, delle esigenze (mal) poste dal realismo marxista, che faceva leva sull’utile e sul momento della forza. Se infatti l’«esperienza marxistica aveva proposto il problema» della relazione tra forza politica da un lato e ideale etico dall’altro, «problema machiavellico», «sarebbe stato compito della filosofia del Croce di procurare di risolverlo»127. Così, nella prima metà del ’900, una parte consistente della gioventù italiana dedita agli studi, seguendo Croce, recepiva l’opera di Marx e di Labriola.

125. Cfr. ivi, p. 161. 126. Ivi, p. 162. 127. Ivi, p. 179.

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Nota ai testi

Si è ritenuto di riproporre i criteri di annotazione bibliografica adottati nei singoli saggi, in modo da offrire al lettore la loro fedele riproduzione.

Elenco dei riferimenti testuali: G. MORPURGO-TAGLIABUE, L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, in “Giornale degli economisti ed annali di economia”, 1947, pp. 175-193, G. PIETRANERA, La critica revisionistica della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto, in Capitalismo e economia, Einaudi, Torino 1972, pp. 174-176. N. BADALONI, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”, in B. Croce, a cura di A. Bruno, Giannotta, Catania 1974, pp. 7-39. M. REALE, L’interpretazione crociana di Marx tra il «canone» e il «paragone ellittico», in “La Cultura”, XXXVII, n. 2, 1999, pp. 219-263.

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M. VISENTIN, Benedetto Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’‘utile’, in Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del Convegno di Studi, Napoli, 18-19 Ottobre 2001, a cura di M. Griffo, Editoriale Scientifica, Napoli 2004, pp. 11-123. E. AGAZZI, Benedetto Croce. Dalla revisione del marxismo al rilancio dell’idealismo, in La crisi di fine secolo, Teti, Milano 1980, pp. 279-330. M. MONTANARI, Croce e il marxismo – § 1 di La rifondazione della ‘ragione storica’ in B. Croce, in Crisi della ragione liberale – Studi di teoria politica, Lacaita, Manduria 1983, pp. 21-39. M. MAGGI, Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce, in Croce e il marxismo un secolo dopo guerra, cit., pp. 169-183. G. CACCIATORE, Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in ivi, pp. 263-315. B. DE GIOVANNI, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato, in “Lavoro critico”, n. 1, gennaio-marzo 1975, pp. 131-166. M. VANZULLI, L’eredità non raccolta. Croce lettore di Marx e Labriola, in Il marxismo e l’idealismo – Studi su Labriola, Croce, Gentile, Gramsci, Aracne, Roma 2014, pp. 63-106.

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Indice

Luca Basile, Il giovane Croce di fronte a Marx

p. 9

Guido Morpurgo-Tagliabue, L’obiezione di B. Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto

p. 173

Giulio Pietranera, La critica revisionistica della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto

p. 207

Nicola Badaloni, Croce contro Marx e la questione del “paragone ellittico”

p. 227

Mario Reale, L’interpretazione crociana di Marx tra il «canone» e il «paragone ellittico»

p. 255

Mauro Visentin, Benedetto Croce: la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’‘utile’

p. 325

Emilio Agazzi, Benedetto Croce. Dalla revisione del marxismo al rilancio dell’idealismo

p. 447

Marcello Montanari, Croce e il marxismo

p. 521

Michele Maggi, Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce

p. 547

690

Giuseppe Cacciatore, Marxismo e storia tra Labriola e Croce

p. 563

Biagio de Giovanni, Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato

p. 591

Marco Vanzulli, L’eredità non raccolta. Croce lettore di Marx e Labriola

p. 637

Nota ai testi

p. 687

691

692

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 4 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Tornare a studiare il rapporto del giovane Croce “revisionista” con il marxismo significa affrontare un esempio peculiare di quella crisi della coscienza europea che dalla conclusione dell’Ottocento si è slanciata verso il secolo che abbiamo alle spalle. Con Labriola e con Gentile, tale aspetto della riflessione di Croce si pone alla sorgente della ricerca teorica su Marx in Italia. Ricerca che segnerà in profondità la vicenda dei nostri gruppi intellettuali; e che il filosofo di Pescasseroli ha affrontato dialogando con alcune delle direttrici fondamentali della cultura a lui contemporanea: dal neokantismo al marginalismo. La presente antologia raccoglie molti dei più importanti testi critici dedicati al tema all’interno della letteratura scientifica.

Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Luca Basile (La Spezia, 1980) si è laureato presso l’Università di Pisa ed ha conseguito il dottorato in filosofia e teorie sociali contemporanee presso l’Università di Bari, dove è stato contrattista al Dipartimento di Storia del Mediterraneo. È stato assegnista di ricerca presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, dove collabora con la cattedra di Storia della filosofia. Tra le sue pubblicazioni: La mediazione mancata. Saggio su Giovanni Gentile (2008); Per una teoria del mercato. Labriola, Croce, Gramsci (2009); Tempo storico e «Mediazione Sovrana». Tre studi su Hegel (2010); Scienza politica e forme dell’egemonia. Intorno al problema della classe dirigente in Mosca, Michels, Gramsci (2016).

€ 30,00