Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio 8804367350, 9788804367352

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Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio
 8804367350, 9788804367352

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SALVATORE BONO

CORSARI NEL MEDITERRANEO Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio

Arnoldo Mondadod Editore

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ISBN 88-04-36375-0

© 1993 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano / edizione novembre 1993

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INDICE

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Prefazione Parte prima

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CITTÀ CORSARE MUSULMANE

Pirati e corsari nella storia del Mediterraneo I corsari barbareschi nel Mediterraneo del Cinquecento Corsa e corsari fra pascià, dey e bey Gli stati barbareschi e l'Europa La fine dei barbareschi Parte seconda

43

CAVALIERI E ARTIGIANI DELLA CORSA CRISTIANA

45

I cavalieri di Malta e i cavalieri di Santo Stefano nelle guerre mediterranee Corsari privati Guerra corsara fra europei

54 7r

Parte terza

85

87 ro4 114

UOMINI E NAVI PER LA CORSA

Navi e flotte Equipaggi e ciurme Vita infernale di bordo

Parte quarta

12 l

SCONTRI SUL MARE E INCURSIONI A TERRA

r 23 J 41

Incontri e scontri sul mare Minacce e incursioni sulle coste cristiane

154 164

Cavalieri e corsari contro terre d'Islàm Sistemi di difesa Parte quinta

173 175

SPARTIZIONE DELLE PREDE, SCHIAVITI/ E COMMERCIO Spartizione del bottino e profitti della corsa

183 191

Corsa e commercio Guerra corsara e schiavitù

202

Riscatto e altre vie per la libe'rtà

213 237

Bibliografia e fonti Indice dei nomi

l

CORSARI NEL MEDITERRANEO

A Maria Laura

PREFAZIONE

Quando si pensa ai corsari o ai pirati - spesso, a torto, confusi insieme - l'immaginazione corre a tempi e mari lontani, ai cor­ sari dei Caraibi intenti a catturare galeoni con i ricchi carichi delle colonie spagnole d'America o alle gesta avventurose dei pirati della Malesia immortalate dalla fantasia di Salgari; non si pensa quasi mai al Mediterraneo. Eppure, sulle nostre coste non è raro vedere ancor oggi torri litoranee snelle e possenti che un tempo servirono ad avvistare l'approssimarsi minaccio­ so di corsari e a dare l'allarme. Da queste torri, molte ridotte a pittoreschi ruderi o del tutto scomparse, alcune località costiere hanno preso il nome, come Tor Vaianica e Tor San Lorenzo. E fra gli anziani e' è ancora chi ricorda canzoni popolari come quella che esorta «All'armi! All'armi! la campana sona, li tur­ chi sunnu giunti alla marina», o quella napoletana di Miche­ lemmà, che piange la sfortunata sorte d'una giovane catturata dai musulmani. Torri e altre difese costiere, canzoni e leggende, tradizioni popolari e opere teatrali - L'italiana in Algeri, musicata da Gioacchino Rossini, è la più famosa - stanno a ricordarci una realtà storica, la guerra corsara e la conseguente schiavitù, che dagli inizi del Cinquecento al 1830 circa costitul un aspetto do­ minante, già presente peraltro nei secoli precedenti, nei rapporti fra cristiani e musulmani rivieraschi del Mediterraneo. La guer­ ra corsara - assalto di navi e incursioni sulle coste - è stata in3

CORSARI NEL MEDITERRANEO

fatti un'espressione della secolare contrapposizione e al tempo stesso convivenza nel Mediterraneo del mondo europeo-cristia­ no e di quello musulmano. Il primo si affacciava sulla riva set­ tentrionale e occidentale, il secondo sulla riva meridionale e orientale, la costa africana e l'Asia mediterranea, sino alle peni­

sole anatolica e greca e alla costa dalmata. La guerra corsara e la schiavitù hanno dunque toccato più o meno tutte le zone co­ stiere del bacino mediterraneo, coinvolgendo nel corso del tem­ po centinaia di migliaia di persone. Nella comune conoscenza storica, tuttavia, ben poco è noto di quella secolare realtà, in particolare per quanto riguarda l'at­ tività corsara ne1 Mediterraneo contro navi e genti musulmane e la presenza di schiavi musulmani nei paesi cristiani, soprattutto in Italia, in Spagna e a Malta. La scarsa memoria collettiva sopravvissuta e l'insufficiente attenzione degli storici possono forse, almeno in parte, spiegarsi con un processo di rimozione: non abbiamo voluto, noi europei, ricordare e conoscere in modo più approfondito una realtà spia­ cevole che poteva suscitare imbarazzo e vergogna. Se da una pmte infatti quelle vicende storiche attestavano la nostra incapa­ cità di estirpare l'attività corsara dei barbareschi, destinata a esaurirsi completamente soltanto con l'occupazione francese di Algeri (1830), per tre secoli la più potente città corsara, d'altro canto di quella attività l'Europa era stata in qualche misura complice e perfino, in alcuni casi ignorati o presentati sotto altra luce, attiva protagonista nei confronti dei musulmani, costretti a loro volta in schiavitù in terra cristiana. Soltanto nell'ultimo mezzo secolo la guerra corsara e i fe­ nomeni a essa connessi sono stati oggetto di indagini e ricostru­ zioni storiche più approfondite a opera di diversi studiosi. No­ nostante questo impegno e i risultati conseguiti, molto ancora dev'essere documentato e chiarito sull'argomento. In questo volume, dopo uno sguardo alle vicende degli stati barbareschi e dei cavalieri di Malta e di Santo Stefano, attori di primo piano nella guerra corsara, sono esaminati diversi aspetti dell'organizzazione e dello svolgimento della corsa nel Medi4

PREI?AZIONE

terraneo - le navi, le ciurme, le modalità degli scontri, le difese - e delle realtà connesse e derivate: la spartizione del bottino, il commercio delle prede, la schiavitù e il riscatto degli schiavi. Per ogni argomento si è cercato, per quanto possibile in rappor­ to alle informazioni disponibili, di accostare e di confrontare i due versanti del fenomeno, musulmano e cristiano, per rilevare analogie, differenze, connessioni. Per il carattere proprio di questo volume, di esposizione panoramica cioè d'una realtà sto­ rica molto estesa nel tempo e nello spazio, l'autore si è ovvia­ mente giovato degli studi storici disponibili, a cominciare dai suoi stessi precedenti lavori, e di sue nuove ricerche sull'argo­ mento. Sulla bibliografia e sulle fonti si danno soltanto indica­ zioni essenziali e orientative. Resto debitore a molti - responsabili di archivi e di biblio­ teche, colleghi e collaboratori - per aiuti, segnalazioni e sugge­ rimenti, ricevuti nel corso dei miei lunghi studi sulla storia del Mediterraneo nell'età moderna. Qui ora desidero esplicitamente ringraziare Ferdinando Buonocore, dell'università di Napoli, primo lettore e critico prezioso del mio testo che ha contribuito in modo decisivo a migliorare in più punti.

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Parte prima CITIÀ CORSARE MUSULMANE

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PIRATI E CORSARI NELLA STORIA DEL MEDITERRANEO

Esiste una netta distinzione, almeno in teoria, fra pirati e corsa­ ri, anche se in concreto non è sempre facile applicarla. Corsaro è colui che opera con l'autorizzazione o addirittura in nome e per conto di uno stato, svolgendo perciò un'attività del tutto le­ gale, sotto il profilo non solo del diritto interno ma anche di quello internazionale. Pirata invece è colui che esercita la stessa rischiosa attività ùd cur.saru - assaltare navi e catturare uomini e merci, perfino con sbarchl a terra - senza autorizz�zione, sen­ za osservare alcuna norma né rispettare limitazioni, non esitan­ do ad attaccare imbarcazioni e naviganti di stati amici; il pirata è dunque letteralmente un fuorilegge. Il corsaro otteneva la licenza - si diceva la «patente» - di esercitare la corsa dopo che le autorità avevano verificato attra­ verso un esame le sue capacifa e 1'efficienza dell'imbarcazione. ' D'altra parte era tenuto a rispettare navi e terre dei paesi con cui vigevano condizioni di pace o di tregua, ed era inoltre obbligato a corrispondere al governo - come vedremo - una parte presta­ bilita del bottino catturato. Poteva peraltro accadere che un cor­ saro attaccasse navi amiche o che trasgredisse in altro modo leggi e norme che avrebbe dovuto rispettare, diventando allora un pirata. Questo spiega come mai, soprattutto quando ci rife­ riamo a vicende molto lontane nel tempo o mal conosciute, non è sempre facile definire con sicurezza se ci troviamo di fronte a corsari o a pirati. 9

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II

CORSARI NEL MEDITERRANEO

Forme di attività corsara o piratesca si sono invero avute nel Mediterraneo in tempi e circostanze diverse, favorite se non proprio determinate dalle carattedstiche dell'ambiente naturale e dalle conseguenti condizioni di vita delle popolazioni. Le re­ gioni costiere strette fra il mare e le montagne retrostanti erano poco produttive; gli abitanti furono dunque spinti a sottrarre ad altri quei mezzi di sostentamento di cui l'ambiente circostante era avaro. D'altra parte, nonostante il rischio dei corsari, i viag­ gi e i trasporti df merci erano in passato più facili per mare - co­ me per via fluviale - che non per terra, e se ne doveva perciò approfittare quando era possibile. Le frequenti insenature nelle coste e la vicinanza di isole e arcipelaghi offrivano inoltre ai corsari comodi ripari, nascondigli sicuri, e opportunità di rifor­ nirsi d'acqua dolce. È stato cosi che fin dalla più remota antichità, oltre mille an­ ni prima di Cristo, nel Mediterraneo orientale diverse popolazio­ ni si diedero a esercitare la pirateria: i greci contro i fenici, se­ condo Omero i fenici stessi, e poi i cretesi contro gli egizi. Nel Mediterraneo occidentale gli etruschi ebbero fama di corsari ai danni di navi greche e cartaginesi che si spingevano nel Tirreno. Nella storia della guerra corsara dell'antichità spicca sopra tutti il nome di Policrate, divenuto intorno al 540 a.e. sovrano di Samo e padrone di una flotta di oltre cento navi, con le quali poté dominare le acque dell'Egeo e tutta la costa dell'Asia Mi­ nore. Grazie alle ricchezze accumulate nei molti anni di razzie e grazie ai tributi che non poche popolazioni gli corrisposero per essere rispanniate, Policrate attirò a Samo architetti, scultori, artisti d'ogni genere e adornò la sua città di splendidi edifici, monumenti e opere d'arte. Come ad altri corsari prima e dopo di lui, a Policrate toccò una brutta fine: fu fatto prigioniero dai per­ siani e crocifisso (522 a.C.). Anche Roma, quando divenne una potenza dominante nel Mediterraneo, dovette più volte fronteggiare il pericolo di cor­ sari e pirati. Greci e cartaginesi vinti trovarono nella corsa una forma di rivalsa contro la potente città; le insidie dei corsari re­ Sero difficili i rifornimenti di grano e i romani dovettero correre 12

PIRATI E CORSARI NELLA STORIA DEL MEDITERRANEO

ai ripari. Contro i pirati della Cilicia combatté da giovane Giulio Cesare, e più tardi ne fu vittima egli stesso. Fu merito di Pom­ peo aver liberato dai pirati i mari a ovest e a est di Roma, resti­ tuendo sicurezza al commercio. A metà del secolo VII, con il diffondersi dell'lslàm sulle sue sponde meridionali, il Mediterraneo tmnò insicuro. La lotta dei musulmani (gihàd) per il trionfo della fede contro gli «infe­ deli» cristiani si espresse infatti da allora anche nell'attività cor­ sara. Gli scambi ne soffrirono; il Mediterraneo si fece sempre più deserto di navi e di mercanti. I musulmani - da noi detti nel Medioevo saraceni -, non trovando sufficiente bottino sul mare per il ridursi del commercio anche a causa della loro presenza, si approssimarono alle coste e qui fecero sbarchi e prede; in al­ cune località della Provenza, della Liguria, dell'Italia meridio­ nale crearono addirittura delle basi da cui si spinsero verso l'in­ terno fino alle valli alpine. Sul finire del IX secolo i musulmani si insediarono intorno a Saint-Tropez, creando un avamposto noto col nome di Frassi­ neto, da dove poterono spingersi agevolmente per oltre un seco­ lo nell'entroterra e sulla costa della Francia meridionale (ai dan­ ni di Marsiglia, Tolone, Nizza e altre città) fino al 972, quando quel nido di corsari fu estirpato grazie all'impegno congiunto di forze locali e bizantine. In Italia i saraceni, padroni della Sicilia e di alcune zone del sud della penisola, costituirono nel IX seco­ lo un'importante base alle foci del Garigliano presso Minturno. Perfino Genova e la costa ligure subirono nel 934-935 attacchi corsari dall'Africa settentrionale. Dalla costa della Spagna - al­ lora terra musulmana- Mugetto, signore di Denia, con una flot­ t a poderosa attaccò nel ro15 l a Sardegna e l a tenne in suo pote­ re per alcuni mesi. Intorno all'anno Mille iniziò una lenta ma inesorabile ri­ scossa cristiana; il Mediterraneo da mare musulmano divenne mare cristiano e tale restò fin verso la metà del Quattrocento. La svolta fu segnata dall'avvio della guerra corsara e da azioni di vera e propria pirateria, che colpirono specialmente località del Maghreb. 13

CORSARI NEL MEDITERRANEO

Così, per esempio, nell'agosto del 1200 due pirati pisaui as­ salirono e saccheggiarono due navi tunisine nel porto della Go­ letta. I pisani, protetti da un trattato, conducevano all'epoca buoni affari con la città maghrebina, e l'incidente rischiò di guastare i rapporti. Pochi giorni dopo, tuttavia, un esponente tu­ nisino rassicurò con queste parole un mercante pisano che te­ meva rappresaglie: «Spiacque forte al sultano il disturbo segui­ to nel paese, Tuttavia, se ti pare, vieni poiché non troverai altro che bene, e non temere, né tu né chiunque venga teco». Un altro episodio si riferisce al genovese Filippo d'Oria - celebrato da Gabriele D'Annunzio nella «Canzone del Sangue» - che ag­ gredl a tradimento la fiorente Tripoli nel 1355; ne portò via in schiavitù settemila abitauti e s'impossessò di un'ingente quau­ tità d'oro, Per ritorsione, i corsari maghrebini, che avevano la loro base principale a Bugia, sulla costa orientale algerina, in­ tensificarono 1'attività contro navi e coste cristiane. Nel basso Medioevo il triste fenomeno della pirateria, eser­ citata con pari ardimento da musulmani e da cristiani, s,i andò accentuando, nonostante le severe proibizioni e i provvedimenti dei governi. Accanto ai corsari italiani (soprattutto liguri e sici­ liani) divennero sempre più attivi quelli catalani, con basi a Bar­ cellona, a Valencia e nelle Baleari. I corsari operavano con regolari autorizzazioni governative (a «cursum facere» o «piraticam exercere contra sarracenos;;).., verso le coste andaluse, ancora musulmane, e verso 1� Barberia, fino alle Cauarie. Nella campagna del 1377, per esempio, due corsari di Maiorca catturarono tre bastimenti carichi di grano, diretti dal Maghreb al regno di Granada, più una quindicina di schiavi. Dall'inizio del Cinquecento si apre una fase nuova nella storia della guerra corsara nel Mediterraneo, nuovi attori entra­ no in scena, incoraggiati e protetti dall'impero ottomano, e abi­ li capitani dell'Egeo si spingono dalle acque orientali del grau­ de mare verso occidente. Camall, il Moro, Cacciadiavoli, Gaddall, questi i nomi o soprannomi - secondo le fonti italiane '-- dei più famosi capi corsari (rais) attivi nei primi decenni del 14

PIRATI E CORSARI NELLA STORIA DEL MEDITERRANEO

secolo. Alcuni stabilirono, come vedremo, le loro basi sulle co­ ste del Maghreb; più tardi su quelle coste africane nacquero gli stati corsari di Algeri, Tunisi, Tripoli, chiamati dagli europei reggenze o stati barbareschi, protagonisti dell'eccezionale incremento della guerra corsara nel Mediterraneo dell'età moderna. Di recente un acuto studioso di storia marittima mediterra­ nea, il francese Miche! Fontenay, ha proposto una distinzione fra due diversi aspetti dell'attività propriamente corsara, esclu­ dendo cioè la pirateria: da un lato la guerra di corsa che affianca conflitti di ampie dimensioni ma limitati a periodi determinati, sia fra musulmani e cristiani sia fra stati europei; dall'altro lato il corso - termine che deriva dall'espressione italiana dei secoli passati «andar in corso» -, cioè l'attività corsara esercitata nel Mediterraneo fra cristiani e musulmani, con forme, intenti e conseguenze particolari. Tuttavia, pur riconoscendo l'utilità di distinguere nella sostanza le varie forme di attività corsara (e queste dalla pirateria), non ci sembra opportuno arrivare al pun­ to di adottare termini diversi.

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I CORSARI BARBARESCHI NEL MEDITERRANEO DEL CINQUECENTO

Agli inizi del secolo XVI il Maghreb, che in arabo significa oc­ cidente - cioè l'Africa settentrionale dalla Tripolitania al M a ­ rocco -, attraversava una profonda crisi: il territorio era sotto il controllo cli numerosi principi e tribù, e molte città marittime, misconosciuta ogni autorità, si erano rese autonome ed esercita­ vano, come in passato, l'attività corsara. A questa avevano reca­ to nuovo impulso migliaia cli mori, rifugiatisi nel Maghreb dalla Spagna, dopo che si era conclusa la riconquista cristiana della penisola iberica (1492). Nel Mediterraneo orientale, invece, si consolidava sempre più la potenza dei turchi - detti ottomani dal nome di Othman, che ne aveva fondato l'impero -, ormai sul punto di diventare una superpotenza. Da tempo seguaci dell'Islàm, essi avevano assunto l'eredità dell'impero arabo e di quello bizantino; nel 1453 avevano conquistato Costantinopoli, quando già occupa­ vano gran parte della penisola balcanica; il controllo ottomano sul mondo arabo aveva segnato una tappa importante ai tempi del sultano Selim I con l'occupazione dell'Egitto (1517) e la conquista di Rocli, sottratta nel 1522 ai cavalieri di San Giovan­ ni di Gerusalemme. A occidente, la Spagna, dove i sovrani cattolici Ferclinando d'Aragona e Isabella di Castiglia cooperavano per reprimere le incursioni corsare provenienti dal Maghreb e proteggere il terri­ torio nazionale, ritenne opportuno attaccare i musulmani sul lo16

I CORSARI BARBARESCHI NEL MEDITERRANEO

ro stesso suolo. Vennero cosi occupati sulle coste maghrebine, a ovest di Algeri, il porto di Mers el-Kébir (1505) e la vicina Ora­ no (1509) e a est, nel 1510, la ricca Bugia e più oltre Tripoli. La stessa Algeri, come altre località costiere, dovette sottomettersi agli spagnoli, che per controllare la città costruirono una fortez­ za su un isolotto di fronte. Qualche anno più tardi gli algerini, per liberarsi di quella «spina nel cuore», chiamarono in aiuto un potente capo corsaro turco, Aruj, già attivo con successo nel Mediterraneo occidentale. Aruj insieme al fratello Khair ed-Din si impadronì di Algeri, come già aveva fatto con altre località della costa maghrebina, ed estese anche verso l'interno il suo dominio finché nel 1518 trovò la morte in uno scontro con gli spagnoli. Khair ed-Din, detto Barbarossa, assunse il potere nel na­ scente stato algerinò e fu suo merito intuire, con forte senso po­ litico, l'opportunità di non trovarsi solo nel duplice conflitto, contro le forze spagnole e contro le popolazioni del Maghreb; si dichiarò dunque vassallo dell'impero ottomano e ne ricevette protezione e aiuti, mantenendo però un'ampia autonomia. In un decennio di scontri - con gli spagnoli, con le popolazioni locali, con gli eredi delle precedenti dinastie - Barbarossa si rese defi­ nitivamente padrone di Algeri, destinata a diventare in breve tempo la capitale della guerra corsara mediterranea. Il sultano turco Solimano il Magnifico (1520-66) nel 1533 - quando si apprestava al confronto decisivo con la Spagna e i suoi alleati - affidò al Barbarossa, forte dei successi riportati nel Maghreb, la carica di capitano del mare, cioè il comando supre­ mo della flotta ottomana, che egli mantenne fino a tarda età; il vecchio capo corsaro si ritirò infatti a vita privata nel 1544, a settantotto anni, e morì a Istanbul meno di due anni dopo. Lungo tutto il corso del Cinquecento la flotta ottomana nel poderoso conflitto contro la Spagna e i suoi alleati avrà al suo fianco le flotte degli stati corsari, e il Maghreb sarà lo scenario principale della contesa, durata fino a metà degli anni Settanta. Il dominio su Tunisi fu uno dei motivi di contesa tra il fron­ te cristiano e quello musulmano. Gli spagnoli avevano posto 17

CORSARI NEL MEDITERRANEO

sotto la propria protezione il debole erede dell'antica dinastia locale, ma nell'estate 1534 Barbarossa lo aveva scacciato. L'imperatore Carlo V non poteva tollerare questo successo, che avvicinava ancor più la minaccia corsara all'Italia; sollecitato dal sovrano deposto si pose personalmente alla guida d'una spe­ dizione, forte di quattrocento navi e di trentamila uomini, e ri­ conquistò la città (luglio 1535), con un'impresa esaltata all'epo­ ca da innumerevoli cronache e componimenti letterari. Il successo di Tunisi fu ben presto compromesso dagli av­ venimenti successivi: il più grave scacco per gli spagnoli fu la disastrosa spedizione contro Algeri guidata nell'ottobre 1541 dall'imperatore in persona, in seguito alla quale il predominio musulmano nel Mediterraneo consegul un ulteriore rafforza­ mento, grazie soprattutto ali'audace attività delle squadre corsa­ re. Intanto un altro capo corsaro, Dragut, andava costituendo una sicura base sulle coste tunisine, con centro a Mahdia, assali­ ta con successo dagii spagnoli nel settembre I 550 e da dove Dragut era fuggito mettendo in salvo altrove la propria squadra navale. A una nuova insidia, tesagli nell'aprile 1551 dal geno­ vese Andrea Doria, la squadra di Dragut scampò abilmente: bloccato dai nemici in un canale dell'isola di Gerba, mentre il genovese indugiava nell'attacco, il corsaro fece scavare notte­ tempo una deviazione dal canale verso il mare aperto, e ben pre­ sto riprese con più vigore la sua attività. Due anni più tardi al corsaro fu affidato il governo di Tripoli, sottratta dai turchi ai cavalieri di Malta nell'agosto 1551, ed egli ne estese il territorio verso ovest. Anche Algeri, il più potente degli stati maghrebini, mentre rafforzava la propria organizzazione corsara ampliò il suo dominio terrestre, verso ovest fin quasi ai confini del Ma­ rocco, verso est togliendo agli spagnoli Bugia. Intorno alla metà del secolo la prevalenza turco-barbaresca nel Mediterraneo era ormai una realtà. Il blocco cristiano cerca­ va invano di riequilibrare le sorti del conflitto. Conclusa la pace con la Francia (Cateau-Cambrésis, 1559), Filippo II di Spagna, tranquillo sul fronte europeo, decise di tentare la riconquista di Tripoli, impresa sollecitata dai cavalieri di Malta e dal viceré di r8

I CORSARI BARBARESCHI NEL MEDITERRANEO

Sicilia, più direttamente toccati dalla minaccia corsara della città di Dragut. L'intento di un'accurata preparazione e poi il maltempo ritardarono la partenza della spedizione, prograroma­ ta per la fine d'autunno del 1559, facendo sfumare quell'ele­ mento di rapidità e di sorpresa sul quale i più avveduti basavano le speranze di successo. Dopo ulteriori esitazioni, quando già si trovava di fronte alla costa tripolitana - si era ormai nel marzo 1560 - la flotta volse contro l'isola di Gerba, col proposito di farne la base delle operazioni contro Tripoli. L'isola venne oc­ cupata facilmente ma si tardò ad approntarne le opere di difesa, poiché mancavano pietre, legname, calce. Con straordinaria ra­ pidità, invece, il sultano mandò in maggio la flotta turca alla ri­ conquista dell'isola e i cristiani furono costretti alla fuga, con gravi perdite di uomini e di navi. La disfatta spagnola accrebbe ancor più l'audacia e l'intra­ prendenza dei corsari barbareschi, padroni incontrastati del Me­ diterraneo occidentale, mentre la flotta turca restava nei mari di Levante. Incoraggiati dai precedenti successi, nel maggio 1565 i mu­ sulmani tentarono la conquista di Malta, l'isola-fortezza dei ca­ valieri di San Giovanni, la cui occupazione avrebbe assicurato loro il predominio assoluto nel Mediterraneo. Turchi e barbare­ schi, al comando di Piale Pascià, sbarcati a terra strinsero d'as­ sedio i cavalieri in alcuni forti; la sorte dei cristiani sembrava segnata, ma il protrarsi della resistenza, quando già il forte di Sant'Elmo si era arreso, consentì in settembre l'arrivo dei soc­ corsi dalla Sicilia e la salvezza dell'isola. Nell'impresa era ca­ duto Dragut, che concluse cosi la sua carriera, da rals a signore di Tripoli. Di una temporanea relativa distensione approfittò il pascià cli Algeri, Uluj Ali, un calabrese convertito all'Islàm, per attuare la conquista di Tunisi (gennaio 1 570). La Spagna infatti, impe­ gnata contro l' insun-ezione dei moriscos, musulmani rimasti sul territorio dopo la reconquista, aveva abbassato la guardia. L'Occidente cristiano, di fronte all'ulteriore aggravarsi del peri­ colo turco - nel 1570 i turchi avevano tolto Cipro ai veneziani 19

CORSARI NEL MEDITERRANEO

si affrettò a concludere un'alleanza, la Lega Santa, La Spagna, Venezia, lo Stato Pontificio e altri alleati minori unirono le loro squadre e riuscirono a infliggere ai musulmani una pesante sconfitta navale, nella famosa battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) dove si scontrarono oltre quattrocento navi con centomila uonùni a bordo; dei turchi si salvò soltanto la squadra algerina, comandata da Uluj Ali, Al di là ·delle conseguenze immediate del successo cristiano, ridotte per la pronta ricostruzione della flotta ottomana, a Lepanto «l'incanto della potenza turca fu in­ franto» come ha scritto Braudel, e «la vittoria segnò la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d'inferiorità della Cri­ stianità, la fine di un'altrettanta reale supremazia turca». Il blocco cristiano non riusci a trarre pieno profitto da Le- · panto, anche per la divergenza di intenti fra gli alleati: a Filippo n premeva attaccare le città corsare del Maghreb, mentre Vene­ zia desiderava in primo luogo garantire la sicurezza dei suoi commerci; infatti nel marzo 1573 concluse la pace con il sultano. Nel secondo anniversario di Lepanto, gli spagnoli, spinti anche dalle ambizioni personali di don Giovanni d'Austria, fra­ tellastro del re Filippo, mossero con successo alla riconquista di Tunisi (ottobre 1573), dove fu rapidamente costruita una nuova fortezza. Ma «l'impero ottomano» è ancora Braudel «non pote­ va restare inerte sotto il duplice colpo di Lepanto e di Tunisi»; nell'estate 1574 una poderosa spedizione mosse verso la Barbe­ ria, al comando del calabrese Uluj Ali, al quale il sultano dopo Lepanto aveva affidato il comando supremo della flotta ottoma­ na. La Goletta, la fortezza affacciata sul golfo di Tunisi, cadde dopo un breve assedio, e la stessa sorte toccò, dopo ulteriore re­ sistenza, al forte di Tunisi. Mentre il prestigio ottomano era cosi risollevato, gli animi dei governanti e delle popolazioni della cristianità tremarono ancora una volta. Ma il confronto cristiano-musulmano che ave­ va fino allora dominato il Mediterraneo non ebbe seguito: le due superpotenze, Turchia e Spagna, distolte da altre preoccu­ pazioni, concordarono nel 1581 una tregua più volte rinnovata e di fatto definitiva. 20

I CORSARI BARBARESCHI NEL MEDITERRANEO

Il Mediterraneo a questo punto «esce dalla graode Storia», secondo l'espressione di Brande!, e da allora la realtà del mare interno, la vita quotidiana dei centri abitati e delle popolazioni che vi si affacciano restano segnate dalla guerra corsara che as­ sume più estensione e più vigore. «La sospensione della guerra in Mediterraneo, dopo il 1574, segnò certamente la fine della lotta tra i grandi stati e l'emergere in primo piaoo nella stotia del mare della pirateria: questa guerra inferiore. Essa aveva già tenuto un graode posto dal 1550 al 1574: pavoneggiandosi, mettendosi in mostra nei momenti di sosta della guerra ufficiale. Dopo il 1574-80, si ac­ centuò più che mai; da allora dominò la storia mediterranea.»

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CORSA E CORSARI FRA PASCIÀ, DEY E BEY

Una questione assai dibattuta nella storia degli stati corsari ma­ ghrebini è quella del loro rapporto con l'impero ottomm10,-clie peraltro si modificò notevolmente dal secolo XVI in poi. Al sorgere degli stati barbareschi - Algeri, Tripoli e Tunisi nell'ordine cronologico - il sultano turco si affrettò a decreta_r­ ne la dipendenza dall'impero: in ognuno dei tre stati il governo veniva affidato per tre anni a un pascià, suo rappresentante: Collocato al vertice dell'amministrazione locale, garante della giustizia e beneficiario della riscossione delle imposte, il pa­ scià era responsabile della coffesponsione della paga ai mem­ bri della milizia. Questi, detti giannizzeri, rudi e abili combat­ tenti, assicuravano con la forza militm·e la stabilità interna e la difesa dall'esterno dello stato; spettava a loro garantire l'eser� cizio della corsa, e dunque lo svolgimento di tutta l'attività economica che ne derivava. I giannizzeri, provenienti perlopiù dal Levante ottomano e organizzati in una struttura rigorosa­ mente gerarchica a numero chiuso (da tre-quattro a sette-otto­ mila quelli in servizio attivo), erano rappresentati da un consi­ glio, detto divano (dalla stessa parola persiana da cui deriva il nome a noi noto). Ecco come il governo di Algeri in questa prima fase, preci­ samente nel 1625, è definito da un acuto diplomatico venezia­ no, Giovanni Battista Salvago:

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CORSA E CORSARI FRA PASCIÀ, DEY E BEY

È una Repubblica popolare et una Democratia militare. Il Bassà o Vice Re siede in frontispitio del Divano, e gli stanno avanti in piedi due lunghe schiere a man gionte: l'una è delli Capi di stanza e l'altra dclii Capi di squadra della militia Gianiceresca. A poco a poco, con il passare del tempo, il divano accrebbe le proprie competenze riducendo quelle del pascià, che rappre­ sentava il potere centrale. A questa ascesa della milizia, e del di­ vano che ne rappresentava gli interessi e la volontà, negli stati barbareschi conispose una trasformazione della struttura politica verso forme di autonomia e di più estesa partecipazione al potere. Un'altra forza in giuoco si aggiunse a quelle già presenti: i capi corsari organizzati nella taifa e tutti coloro che erano più di­ rettamente interessati all'esercizio della corsa. Anche i rals, co­ me i giannizzeri, spesso erano originari del Levante ottomano; raro invece che fossero nativi del Maghreb. Ancora più numero­ si, nei secoli d'oro della guerra corsara, furono i raìs di origine europea, specialmente dell'Europa mediterranea. Si trattava di cristiani passati alla fede musuhnana, e che nel mondo cristiano erano chiamati, con evidente riprovazione, rinnegati. Essi aveva­ no preso la grave decisione perlopiù dopo essere caduti schiavi in mani musulmane, proprio a seguito di vicende della corsa. La perduta speranza di ottenere il riscatto o di tornare per al­ tra via nel mondo cristiano fu di solito il movente principale del passaggio all'Islàm. «Farsi turco», come anche si diceva, apriva la strada al recupero della libertà e migliorava comunque le con­ dizioni di vita. Molti rinnegati, che avevano capacità e intrapren­ denza, si diedero all'attività corsara e fecero fortuna. Qualcuno grazie al successo nella corsa o per altre vie ascese nella gerar­ chia sociale fino alle massime cariche militari o di governo nell'impero ottomano e negli stati maghrebini. Cosl il calabrese Uluj Ali, che abbiamo ricordato, oppure, per fare un altro esem­ pio illustre, Osta Morat, odginario di Levanto, detto Turcho G e ­ novese. Divenuto musulmano a Tunisi nell'ultimo decennio del Cinquecento, si dedicò all'esercizio della corsa, e in breve tempo 23

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conseguì, come raìs e armatore di navi, una posizione apprezza­

bile per ricchezza e prestigio. Conquistò la fiducia e il favore del dey Othman (I595-16ro) e ne divenne fedele collaboratore negli affari. Più tardi, almeno dall'estate 1615, divenne «generale del­ le galere di Biserta», cioè capo della flotta tunisina, e come tale guidò alcune delle imprese corsare più notevoli nei primi decen­ ni del Seicento. Alla morte di Yusuf Dey, nel novembre 1637, Osta Morat, con una mossa astuta e d'intesa con un altro rinne­ gato, Marni Ferrarese, riuscl a farsi eleggere dey; governò, ma solo per tre anni, con severità e saggezza. La dialettica del potere e degli interessi economico-sociali fra pascià, capi locali e corsari fu in sostanza la stessa nei tre stati barbareschi, ma si attuò attraverso vicende e in tempi di­ versi. La prima città in cui i giannizzeri assunsero il potere fu Tu­ nisi. Nel 1590, soltanto una quindicina d'anni dopo la costitu­ zione della reggenza con a capo il pascià rappresentante del sul­ tano, i quattromila giannizzeri insorsero contro i quara_nta ufficiali che li comandavano ed elessero uno di loro a capo del­ la milizia, con il titolo di dey. Il dey Othman privò di ogni ruolo effettivo il pascià, e lo ridusse a formale rappresentante del sul­ tano. Al pascià spettavano pur sempre onori e proventi finanzia­ ri, ma il potere effettivo fu da allora in poi esercitato dal dey, che si valse della collaborazione del divano dei giannizzeri. A proposito della posizione del pascià nella reggenza di Tu­ nisi, così si esprime il cavalier Laurent d' Arvieux, inviato nella città maghrebina nel I 666 per conto del governo francese: Vi è un pascià, nominato dal Gran Signore, di cui è il rappre­ sentante personale; gli si fa grande onore, ma non ha voce negli affari di stato. Non si occupa d'altro che di bere, man­ giare e divertirsi come gli pare grazie alle indennità che la

Repubblica gli corrisponde.

Ben presto, in contrapposizione al potere del dey, andò af­ fermandosi quello del comandante militare (detto bey) che con­ trollava il territorio, abitato da diverse tribù arabe, e provvedeva

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alla riscossione dei tributi. A questo scopo due volte l'anno, in estate e in autunno, egli guidava una spedizione militare (mahalla) nell'interno del paese. Con Muràd (1612-31) la cari­ ca di bey diventò ereditaria, e dopo un periodo di contrasti e di lotte in cui il potere effettivo fu diviso fra le due cariche del dey e del bey, a Tunisi si giunse infine a unificare il potere nelle ma­ ni di un solo governante, cui restò il titolo di bey. Ad Algeri il sistema di governo che vedeva al vertice il pa­ scià nominato per un triennio dal sultano si mantenne più a lun­ go; anche qui però il divano della milizia assunse poteri sempre più estesi. Tuttavia lo straordinario sviluppo dell'attività corsa­ ra, che alimentava in notevole misura le entrate dello stato, fece sì che anche i capi corsari - riuniti, insieme agli esponenti delle altre categorie interessate alla corsa (marinai, fornitori delle na­ vi, ecc.), in una specie di corporazione detta taifa - esercitasse­ ro una certa influenza sulla vita politica. Fra la milizia dei giannizzeri, d'origine turca, e la taifa dei corsari, in gran parte europei d'origine, come si è detto, si creò una crescente ostilità. Nel contrasto prevalsero - salvo un breve periodo - i militari: nel 1659 il divano dei giannizzeri, approfit­ tando di un contrasto fra i corsari e il pascià, tolse a quest'ulti­ mo ogni restante potere, come era già accaduto a Tunisi. L'eser­ cizio effettivo del governo fu assunto allora dal grado più elevato della milizia, l'aghà. Gli aghà si succedevano però nel­ la carica ogni due mesi, troppo in fretta per non determinare una permanente instabilità del governo. Dall'altra parte i tentativi di qualche aghà di prolungare il limite fissato portarono soltanto a un periodo di intrighi, violenze e assassinii. Nel settembre 1671, in occasione di una «crisi di governo», i militari non riuscirono a trovare una soluzione e i corsari portarono allora al potere un loro esponente, che ricevette il titolo di dey. Questa rivincita dei corsari non durò a lungo; dal 1689 il dey fu di nuovo, e da allo­ ra per sempre, un militare. Il ruolo del pascià cosi viene descritto (in termini molto si­ mili a quelli che abbiamo visto a proposito di Tunisi) in una re­ lazione su Algeri del 1666: 25

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Il pascià inviato dal Gran Signore è riconosciuto soltanto per onore e qualche volta si fa ricorso a lui in situazioni straordi­ narie. L' aghà lo va a cercare insieme ad alcuni ufficiali. Lo precede un incaricato che grida "ecco il Re" e fa sgombrare il cammino. Talvolta fa una passeggiata fuori città con molte cerimonie. Fra i corsari e i militari, che avevano interessi diversi, si stabili un'intesa basata sulla distinzione dei ruoli: i corsari pote­ vano esercitare senza intralci il loro «mestiere» e attivavano co­ si, come meglio vedremo, tutto un fiorente giro di operazioni conunerciali e finanziarie, dalle quali molti traevano profitto; i militari per parte loro continuavano a godere di molteplici tradi­ zionali privilegi e ricevevano un congruo stipendio dallo stato, e dunque indirettamente dalla rendita della corsa. Al dey, che assunse sempre più il carattere di capo supremo della reggenza - formalmente il sovrano restava sempre il sulta­ no turco -, si venne affiancando un ristretto gruppo di ministri, detti potenze, ciascuno con precise competenze e con un titolo: il tesoriere, il comandante dell'esercito, il ministro della marina e il «segretario dei cavalli», che sovrintendeva alla raccolta dei tributi. Una fitta schiera di segretari (khogia) ed esecutori (shauish) costituiva l'apparato burocratico che si occupava di attuare le decisioni del dey e dei ministri. La reggenza di Tripoli - nata ai tempi di Muràd Aghà e di Dragut e da sempre considerata meno importante di Algeri e Tunisi - ebbe fino agli inizi del Settecento, pur con tempi e vi­ cende proprie, un'evoluzione analoga alle altre due. Dal 1595 i giannizzeri parteciparono al governo dello stato attraverso il di­ vano; l'autorità del pascià si ridusse anche qui sempre più fin­ ché, agli inizi del Seicento, il capo dei giannizzeri, Safar, si pro­ clamò dey, assunse il potere e instaurò cosi anche a Tripoli il nuovo regime, che vedeva relegato il pascià a una funzione del tutto formale. Un breve ritorno al sistema dei pascià si ebbe dal 1 6 1 5, quando il popolo, stanco del governo tirannico di Safar Dey, sollecitò l'intervento del sultano, che con l'aiuto di una squadra 26

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navale ristabili il potere del pascià e fece giustiziare Safar. Uguale sorte toccò a un altro pretendente al potere, Mustafa Scerif, nel 1631. Da allora in poi, tuttavia, la carica del dey pre­ valse pienamente su quella del pascià. I dey si avvicendarono rapidamente rendendo l'azione di governo debole e incerta, sal­ vo Mohammed (1633-49) e Othman (1649-72), ambedue rinne­ gati e originari dell'isola di Chio, che governarono con energia e successo. Un padre francescano, Francesco da Capranica, in una relazione poteva cosi affermare nel l 686 a proposito del potere a Tripoli: È più repubblica che regno e vi sono saliti ai pdmi onori li macellai e li ciabattini. Il governo del Dai [dey], così chiama­ no il padrone, è perpetuo; ma d'ordinario dura appena in uno non più di un anno, perché quando non piace, ogni ubriaco è sufficiente per fare sollevare la città e far tagliare la testa alli capi che governano. Due anni sono si diede il caso che in un dì si misero a sedere in trono e si uccisero tre Dai. 11 progressivo accentuarsi dell'autonomia degli stati comari._ maghrebini nei confronti dell'impero ottomano, e dunque del sultano, condusse agli inizi del Settecento gli stati barbareschi quasi ali'indipendenza. A Tunisi, nel 1705, un esponente della milizia, Husein, si fece eleggere bey e rese ereditario il potere nella sua famiglia. Ebbe cosl origine la dinastia huseinita, che in nulla più dipende­ va dal sultano se non per il riconoscimento d'un persistente ma vago legame della Tunisia all'impero; con alterne sorti gli hu­ seiniti governarono la Tunisia ben al di là dell'epoca corsara, che potrà dirsi definitivamente conclusa con il 1830. Anche a Tdpoli Ahmed Qararnanli, discendente d'un gian­ nizzero turco, approfittando d'una situazione di disordine si im­ padroni del potere (luglio 1711) ottenendo più tardi dal sultano il titolo di pascià; il potere restò ereditario nella famiglia che governò fino al 1835 in piena autonomia. Sempre nel I7 l l, ad Algeri, l'energico dey Ali Shauish, che aveva saputo ristabilire l'ordine in città dopo un periodo di vio27

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lenza e di anarchia, impedi l'entrata nel porto del nuovo pascià inviato da Istanbul, Da allora il sultano non ebbe più ad Algeri un suo diretto rappresentante; il dey assunse il titolo di pascià e di­ venne di fatto il sovrano dello stato corsaro, anche se formalmen­ te continuava a riconoscersi «vassallo» del sultano turco. Ecco cosa scrive sul dey di Algeri il francese Laugier de Tassy nel 1725: Il dey è padrone assoluto del Paese; governa generalmente tutto il Regno; compensa e castiga a suo arbitrio; ordina gli eserciti, gli armamenti e le guarnigioni delle piazze; dispo­ ne delle cariche e dei benefici senza dar conto a nessuno.

Benché teatro d'azione dei corsari di cui si parla in questo libro sia il Mediterraneo, sarà opportuno ricordare brevemente anche i corsari insediati sulla costa atlantica del Marocc_o, preci­ samente a Salé, alla foce del fiume Bu Regreg, accanto all'at­ tuale Rabat. La storia dei corsari saletini va distinta da quella dei colleghi del Maghreb mediterraneo, perché non ebbe nessun rapporto con l'impero turco. A Salé, fiorente centro commerciale, un certo numero di corsari si erano impiantati già prima del Seicento, ma uno svi­ luppo vero e proprio dell'attività corsara che costituisse una mi­ naccia per i cristiani non si era verificato prima dell'arrivo nel porto marocchino di moriscos cacciati dalla Spagna nel 1610. Altri rinforzi giunsero poco dopo, nel 1614, quando gli spagno­ li occuparono la località di La Mamora. Campo d'azione dei corsari saletini furono le rotte marittime verso l'America e le coste atlantiche dei paesi europei fino al mare del Nord. Nel Mediterraneo penetrarono raramente, spesso per agire d'intesa con gli algerini; sulla costa mediterranea del Marocco, a Te­ tuan, vi fu un insediamento corsaro di qualche rilievo anche se non comparabile con le città barbaresche. Il successo dell'attività corsara consentl a Salé di affermare in pieno la propria autonomia nei confronti del sultano del Ma­ rocco, ma soltanto fino al 1668. L'epoca d'oro della corsa sale­ tina era già passata. 28

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Sopito il conflitto turco-spagnolo che aveva segnato il secolo XVI fino agli anni Ottanta, né la Spagna con i suoi alleati né altri stati europei si impegnarono a fondo per stroncare l'attività dei corsari barbareschi. I rari tentativi condotti con eccessiva cautela e scarsa preparazione non sortirono alcun effetto; così l'azione contro Algeri nel 1601, guidata dal prudentissimo ammiraglio Doria. Vale la pena di soffermarsi un momento su quest'ultimo episodio, che illustra bene le preoccupazioni della Spagna e in­ sieme la sua impotenza contro la capitale maghrebina della guerra di corsa. Da Carlo V a Filippo II e ai successori, i re cat­ tolici avevano sempre visto in Algeri la fonte di maggior peri­ colo. èosì, dopo Lepanto, la Spagna si era ripromessa non tanto di sfruttare il successo contro l'impero turco quanto piuttosto di inferire alla città maghrebina un colpo decisivo: questa, almeno, l'intenzione che Filippo II aveva manifestato nel maggio 1572 al fratellastro don Giovanni, mentre qualcuno redigeva un Di­ scurso sobre la empresa de Argel. Non se ne fece nulla in quell'occasione, ma la minaccia continuò a incombere e così il progetto non venne mai abbandonato del tutto. Nel 1599 un ca­ pitano francese presentò all'ammiraglio genovese Gian Andrea Doria, detto Andrettino - nipote di Andrea, a lungo a servizio di Carlo V -, un progetto di attacco ad Algeri, che puntava più sul fattore sorpresa che non su un grande dispiegamento di forze. Il 29

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progetto fu vagliato, un ufficiale spagnolo compì una ricogni­ zione segreta, furono avviati i preparativi. Si giunse così all'agosto r6or, quando a Maiorca si riunirono settanta galere con diecimila uomini a bordo. Una flotta di queste dimensioni non poteva passare inosservata (a fine mese Istanbul ne era già al corrente, benché nessuno conoscesse l'obiettivo della spedi­ zione); non si contava, quindi, più sul solo fattore sorpresa (un commando avrebbe dovuto far saltare e occupare la Porta della Marina), ma anche sul successivo tradizionale impiego d'un massiccio apparato di forze, lento, e bisognoso di rifornimenti e di appoggi. Giunta di fronte alla costa maghrebina, ma non nel­ la posizione prevista, la flotta fu messa in difficoltà da un im­ provviso levarsi di venti da oriente; Gian Andrea decise pavida­ mente di rinunciare e ritirarsi. «È stato dunque bene» scrisse in quei giorni «cedere alla fortuna per ridursi a salvamento.» Con più disincanto, un palermitano annotò sul suo diario: «Et si rac­ conta che l'Armata andao ad Algeri, et ficiro una frocia, e si ni vinniro». Altri attacchi europei contro le città maghrebine vanno piut­ tosto giudicati come azioni corsare, per procurare un bottino d'uomini e di beni, che non come imprese volte a stroncare l'at­ tività dei barbareschi. Di questi colpi di mano diremo più avanti. La politica dei diversi stati d'Europa verso le città corsare maghrebine fu peraltro differenziata. La Francia cercò, per quanto le fu possibile, di mantenere buoni rapporti; premevano in questa direzione i mercanti e gli armatori di navi di Marsi­ glia, più che altro interessati alle relazioni commerciali e agli ingenti profitti che ne derivavano. Queste relazioni erano facili­ tate dal possesso francese di alcuni basi commerciali sulla costa maghrebina, prima fra tutte quella chiamata Bastian de France, presso il confine tra Algeria e Tunisia. Non mancarono tuttavia periodi di crisi e di ostilità, come quando, nel novembre 1609, il corsaro olandese Simon Danser, che tanto aveva contribuito allo sviluppo della marina corsara d'Algeri, abbandonò la città per andare a Marsiglia portando via con sé due potenti cannoni. Danser era venuto ad Algeri (sembra

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nel l 606) per esercitare la corsa; grazie alle audaci e brillanti im­ prese compiute, aveva accumulato rapidamente una considere­ vole fortuna e ben presto aveva cominciato ad accarezzare l'idea di far ritorno nella cristianità. Colse dunque al volo l'occasione favorevole e, per ottenere l'impunità al suo ritorno, concordò di portare con sé una decina di gesuiti, schiavi ad Algeri. Il pascià della città maghrebina reclamò la restituzione dei due magnifici cannoni di bronzo che aveva affidato a Simon e che questi aveva portato al governatore della Provenza, duca di Guisa. La risposta negativa della Francia apri un lungo periodo di tensioni e di osti­ lità fra i due paesi, che ebbe termine soltanto nel 1626, quando Sanson Napollon, inviato da Luigi XIII, riuscì a concludere la pace dopo essersi impegnato a restituire i due cannoni, Anche se deteriorati e forse perfino fumi uso, erano il segno che garantiva agli algerini di aver ottenuto piena soddisfazione. Dagli inizi del Seicento, la Gran Bretagna e l'Olanda, le due maggiori potenze marittime mondiali, con la minaccia di bom­ bardamenti navali cercarono di imporre ai barbareschi il rispetto delle proprie navi, impegnandoli fonnalmente con tregue e tratta­ ti di pace. Dinanzi alle minacce, spesso -i governanti barbareschi si piegarono, talvolta però resistettero e passarono al contrattacco. Gli inglesi inviarono squadre navali sulle coste del Ma­ ghreb, con alterna fortuna: nel 1620 al comando dell'ammiraglio Sir Robert Mansel; nel 1654-55, quando l'ammiraglio Robert Blake impose ai barbareschi il rispetto della bandiera del Regno Unito e ottenne ad Algeri la liberazione degli schiavi inglesi e olandesi. Nel 1662 il commodoro Lawson riuscì a strappare ad Algeri una pace disonorevole e senza vantaggi, mentre ottenne risultati migliori a Tunisi. Nel settembre 1669, però, la pur forte squadra dell'ammiraglio Allen dovette ritirarsi di fronte al fuoco dei forti algerini. Le condizioni di pace non di rado erano gravo­ se, pelfino per qualche aspetto umilianti, per le nazioni europee: così per gli inglesi con Algeri nel 1682 e nel 1699. Squadre olandesi si presentarono con qualche successo di­ nanzi alle città corsare nel 1662, al comando dell'ammiraglio Ruyter, ma nel 1679 le condizioni di pace con Algeri furono pe31

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santi; gli olandesi dovevano, fra l'altro, fornire ai corsari attrez­ zature e munizioni per le navi. Clausole di questo tipo divenne­ ro sempre più frequenti con l'andare del tempo, e in sostanza uno stato europeo, pur di garantire la tutela delle proprie navi e dunque dei propri commerci, era disposto a favorire l'attività dei corsari musulmani contro gli altri. Anche la Francia - che pur cercava di mantenere con i bar­ bareschi rapporti amichevoli - dovette, come già si è accennato, riconere più volte ad azioni militari. Cosi negli anni fra il 1662 e il 1664, quando il duca di Beaufort riusci a occupare Djidjelli (nelle fonti italiane Gigelli o Gigeri), sulla costa orientale algeri­ na, ma fu costretto a ritirarsene poco più di due mesi dopo, asse­ diato senza scampo dagli algerini; l'impresa - ha osservato uno storico - era stata una «prova d'energia e di debolezza al tempo stesso»; accordi di pace vennero firmati con Tunisi e Algeri, ri­ spettivamente nel 1665 e 1666, ma soltanto qualche anno dopo furono necessarie nuove manifestazioni di forza. A una vera e propria guena, dichiarata da Algeri alla Fran­ cia, si giunse nell'ottobre 1681 (in un mese i corsari catturarono una trentina di navi e trecento schiavi francesi), Nel 1682 l'am­ miraglio Duquesne bombardò duramente la città barbaresca, ma il dey, che subiva la pressione dei rais, non volle aprire trattati­ ve di pace; quando l'anno dopo la flotta francese tornò a bom­ bardare la città, il dey decise di piegarsi, ma il partito contrario alla pace insorse, lo destitul e proclamò dey un rais soprannomi­ nato Mezzo Morto. L'ammiraglio tenne per altri due mesi la città corsara sotto il fuoco dei cannoni francesi; gli algerini resi­ stettero, ma si vendicarono sul rappresentante francese, padre Jean Le Vacher, di cui. dilaniarono il corpo legandolo alla bocca d'un cannone. Solo nella primavera del 1684 si giunse alla pa­ ce, a condizioni comunque onorevoli per gli algerini. In quegli anni la Francia aveva visto guastarsi anche i rap­ porti con Tripoli, che subi un disastroso bombardamento a ope­ ra dell'ammiraglio d'Estrées, e fu costretta ad accettare dure condizioni di pace, a cominciare dalla liberazione di tutti gli schiavi cristiani (giugno 1685). Con Algeri, più ostinata nel vo32

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ler difendere la propria libertà d'azione, le ostilità si riaprirono dal 1688 al 1689, quando fu rinnovato un trattato di pace, segui­ to dall'omaggio a Luigi XIV di un'ambasceria algerina accolta nei saloni di Versailles nel luglio 1690. Guerra e pace si alterna­ rono nuovamente con Tripoli fino al trattato del maggio 1693. La pace tra la Francia e i barbareschi si mantenne per circa un ventenùio, con grande vantaggio per il commercio francese, mentre le navi mercantili di altri stati subivano la continua mi­ naccia e i frequenti soprusi dei corsari. Come scriveva uno storico francese del secolo scorso (e noi possiamo far valere il commento anche per Tunisi e per Tripoli): In pace con noi, in guerra con il resto del mondo, Algeri ren­ deva quasi inabbordabile il Mediterraneo per le altre Nazio­ ni; e mentre i nostri mercanti si arricchivano con il commer­ cio del Levante, il cui monopolio era ad essi assicurato dalla pirateria algerina, le altre Nazioni - l'Olanda, l'Inghilterra, gli Stati italiani - potevano a stento mostrare le loro navi in questo mare seminato per essi di gran pericoli.

Nella prima metà del Settecento furono sempre più nume­ rosi gli stati europei che ritennero preferibile, anziché tentare ri­ schiose prove di forza, contrattare la pace con i barbareschi, corrispondendo loro una forma di tributo in denaro o in natura e rendendo cosl sicure le proprie navi e i propri cittadini. L'Olan­ da e la Gran Bretagna firmarono trattati con Tunisi, cosl l' Au­ stria, anche a nome del regno di Napoli, e la Danimarca. Nei suoi Annali d'Italia, Ludovico Antonio Muratori espresse tutta la sua indignazione verso gli stati europei che si rassegnavano a subire le minacce dei corsari e a ingraziarseli e ottenerne tregue, più o meno fedehnente rispettate, ricorrendo al pagamento di tributi, annu a ­ li o periodici, e alla fornitura di beni e mercanzie varie, anche belliche: Sempre sarà vergogna de i Potentati della Cristianità, sl Cat­ tolici che Protestanti, il vedere che in vece di unir le loro for­ ze per ischiantar, come potrebbono, que' nidi di scellerati Corsari, vanno di tanto in tanto a mendicar da essi con pre­ ghiere e regali, per non dire con tributi, la loro amistà, che poscia alle pruove si truova sovente inclinare alla perfidia. 33

CORSARI NEL MEDITERRANEO

Talvolta però l'arroganza dei barbareschi era così sfrontata e le loro pretese così esorbitanti da spingere i governi europei a dar loro una «lezione»; spesso, per ridurre l'avversario a più miti consigli, bastava l'arrivo d'una nùnacciosa squadra navale. Così fece la Francia con Tunisi nel 1710, e con Tunisi e Tripoli nel 1728 (i tripolini, che pur avevano visto cadere un migliaio di bombe sulla città, si piegarono alla pace soltanto l'anno dopo). Da allora i rapporti della Francia con i barbareschi furono quasi costantemente amichevoli. Nel corso del Settecento, come già nel secolo precedente, non mancarono idee e progetti da parte dell'uno o dell'altro degli stati europei per risolvere il problema dei barbareschi, e si arrivò perfino a parlare di una iniziativa comune europea. Non di rado questi pro­ getti assumevano una coloritura religiosa, e rifioriva lo spirito, mai del tutto sopito, della crociata contro l'Islàm. Un certo Raynaud, già schiavo del bey di Tunisi, di cui godeva piena fiducia, propose nel settembre 1727 un dettagliato piano per bombardare i porti tu­ nisini che egli ben conosceva; due anni dopo, nel 1729, Pierre Ter­ rai, già schiavo sei anni a Meknès, una delle residenze dell'impera­ tore del Marocco, propose a Luigi XV un ambizioso progetto di conquista degli stati maghrebini, a cominciare dallo stesso Maroc­ co. Dopo aver spronato il sovrano francese verso un'impresa «de­ gna della sua gloria», e avergli vantato fertilità e ricchezza delle ter­ re da conquistare, l'entusiasta Terrai così concludeva:

Vostra Maestà procurerebbe la pace ai mari Oceano e Mediter­ raneo, asserviti da tanto tempo, con vergogna dei cristiani, dalle scorrerie dei pirati [...] Vostra Maestà resasi padrona della parte dell'Africa sotto il dominio del Re del Marocco, lo sarebbe ben presto anche delle Repubbliche di Algeri, Tunisi e Tripoli. Qualche anno più tardi il capitano marsigliese Nadal propo­ se al primo ministro francese di allestire tre fregate per andare a caccia dei corsari di Salé e ottenere la liberazione degli schiavi francesi; per procurare i fondi necessari al finanziamento del progetto, il fantasioso capitano pensò a una lotteria con tre mi­ lioni di biglietti da vendere in tutta la Francia. 34

GLI STATI BARBARESCHI E L'EUROPA

In Europa fu la Spagna il paese che restò più a lungo su po­ sizioni di ostilità intransigente verso i barbareschi. Nel 1775 in­ viò contro Algeri una spedizione di oltre trecento navi, una cin­ quantina delle quali da guerra, e 24mila uomini; nonostante la preponderanza nume1ica, la flotta spagnola subì un insuccesso, come già ai tempi di Carlo V nel 154 I. Il comandante generale O'Reilly, d'origine irlandese, agi con esitazione e lentezza e condusse l'impresa al disastro. «Si spaventò» ha scritto uno sto­ rico «d'un nemico che non conosceva, il cui disordine ne faceva sembrare maggiore il numero; mancò di coraggio e di abilità [... ] s'egli godeva allora di qualche reputazione, era arrivato il mo­ mento in cui doveva perderla.» Anni dopo, nel 1783, un'altra flotta spagnola, al comando d'un uomo di mare esperto come don Antonio Barce16, bombardò Algeri per otto giorni senza successo, e l'anno dopo replicò l'impresa; soltanto nel giugno 1786 gli algerini accettarono condizioni di pace a loro vantaggio. V aie la pena di ricordare che le vicende che opposero i bar­ bareschi all'Europa ebbero vasta eco, spesso anche prolungata, nella letteratura dei paesi interessati. E non si trattava solo delle grandi imprese come quella di Tunisi nel 1535, ma anche di sin­ goli episodi della guerra corsara, come - per fare un esempio - la cattura d'una nave corsara algerina da parte genovese nel 1780. Maggior successo contro i barbareschi ebbe, nella seconda metà del Settecento, Venezia, prossima ormai alla fine della sua gloriosa storia di repubblica indipendente. Una piccola squadra, agli ordini del capitano Giacomo Nani, impose al pascià di Tri­ poli nell'agosto 1766 di punire e risarcire i danni inferti ai vene­ ziani dai corsari, in violazione d'un trattato di due anni prima. Un ventennio più tardi Venezia e Tunisi entrarono formalmente in guerra dopo un incidente occorso a un gruppo di abitanti di Sfax imbarcatisi in Egitto su una nave veneziana. Dopo i bom­ bardamenti, nel 1784, 1785 e 1786, di alcune località tunisine, a opera di una squadra navale al comando di Angelo Emo, e la morte a Malta cieli' ammiraglio veneziano, i negoziati di pace si conclusero positivamente (18 maggio 1792). 35

LA FINE DEI BARBARESCHI

Gli sconvolgimenti in Europa negli anni della Rivoluzione fran­ cese e dell'impero napoleonico offrirono l'opportunità ai corsa­ ri maghrebini di ridare vigore alla loro attività, piuttosto in de­ clino lungo tutto il corso del Settecento. I barbareschi - che nel maggio 1798, con la conquista di Napoleone, avevano seguito con gioia la .cacciata dei cavalieri di Malta - tornarono con più ardire a minacciare e a danneggiare le coste e le navi mercantili europee. I corsari, sollecitati dall'impero ottomano che dopo la conquista napoleonica dell'Egitto aveva aperto le ostilità con la Francia, nel r 80 I giunsero ad attaccare e catturare navi con bandiera francese. A quel punto l'audacia dei maghrebini conùnciò a rivolgersi contro le navi degli Stati Uniti d'America, che in quegli anni ave­ vano iniziato a frequentare le acque del Mediterraneo. Gli ameri­ cani reagirono energicamente, soprattutto contro Tripoli. Dopo ripetuti insuccessi, una squadra statunitense riuscì a far saltare in aria il vascello Philadelphia, rimasto incagliato nella rada di Tri­ poli; la reggenza venne a patti, nel 1805, quando ormai una spedi­ zione americana era sbarcata a Derna, in Cirenaica. Da allora l'inno dei marines americani ricorda le gesta coraggiose «sulle spiagge di Tripoli». Lo stesso Napoleone pensò a più riprese a un'azione contro i corsari barbareschi, verso i quali assunse un atteggiamento fer­ mo e minaccioso; per trovarsi pronti, i responsabili francesi si

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LA FINE DEI BARBARESCHI

preoccuparono di raccogliere informazioni anche mediante mis­ sioni di spionaggio. Nel luglio 1805 Napoleone inviò ad Alged una squadra navale, al comando del fratello Gerolamo; al dey fu imposto il rinnovo della pace con la Francia e la liberazione di duecentotrenta schiavi italiani, ormai sudditi dell'impero. Quando durante il congresso di Vienna, dissolto l 'impero napoleonico, si discusse il nuovo assetto dell'Europa, l'ammira­ glio bdtannico Sir Sidney Smith - abile uomo di mare e profon­ do conoscitore del mondo islamico mediterraneo - pose ali' ordi­ ne del giorno anche la «questione barbaresca», l'esigenza cioè di mettere fine una volta per tutte ali' attività dei corsari musulmani. Con entusiasmo e fiducioso idealismo, nell'agosto 1814 il celebre ammiraglio presentò una memoda a tutti i governi inte­ ressati al problema. Nel farsi interprete di sentimenti ormai am­ piamente diffusi nell'opinione pubblica del suo e degli altri pae­ si europei, egli così scrisse: Mentre si discutono i modi per abolire la tratta dei negri sul­ la costa dell'Africa occidentale [... ] è ben motivo di stupore che non si rivolga alcuna attenzione alla costa settentrionale di questo stesso continente, abitata da pirati turchi, i quali non soltanto opprimono i loro naturali vicini, ma li catturano e li acquistano come schiavi per impiegarli, sulle navi corsa­ re, al fine di strappare ai propri focolari onesti contadini e pacifici abitanti delle coste dell'Europa [ ...] Questo vergo­ gnoso brigantaggio non solo muove a sdegno l'umanità, ma ostacola il commercio nella maniera più grave, poiché al giorno d'oggi un marinaio non può navigare nel Meditena­ neo o persino nell'Atlantico su un bastimento mercantile, senza essere oppresso dal timore di cader preda dei pirati e di venir condotto schiavo in Africa. Dopo aver insistito sui danni che l' attività corsara recava allo sviluppo del commercio, Smith propose una soluzione e f ­ ficace «per mettere per sempre l'Europa a l riparo dalla minac­ cia dei corsari africani», e cioè l'istituzione di una forza marit­ tima internazionale, costituita da contingenti di forze «anfibie» (marittime e terrestri) provenienti da diversi stati ma sotto un 37

CORSARI NEL MEDITERRANEO

unico comando, secondo una formula originale che abbiamo visto realizzarsi non senza difficoltà ai nostri giorni. Impegnati nella discussione di ben più complessi e gravi problemi, i di­ plomatici europei, tornati a riunirsi nella capitale austriaca do­ po l'intermezzo dei cento giorni napoleonici, approvarono ge­ nericamente le idee di Sidney Smith ma non fecero nulla per tradurle in pratica, anche perché l'Inghilterra e le altre maggio­ ri potenze non vedevano di buon occhio una sohizione che avrebbe condotto con ogni probabilità non solo alla fine dell'attività corsara, ma anche alla dissoluzione degli stati bar­ bareschi, rimpiazzati sulla costa africana da questo o quello stato europeo. L'opinione pubblica dei paesi europei più direttamente in­ teressati considerò invece con molto favore le idee e i progetti dell'ammiraglio britannico, e sollecitò un'azione dei governi riuscendo a vincerne poco per volta le diffidenze e le esitazioni. La Gran Bretagna decise infine, agli inizi del 1816, di inviare nel Maglueb una forte squadra navale agli ordini dell'ammira­ glio Lord Exmouth, con l'obiettivo di costringere le città corsa­ re ad accettare le decisioni che gli stati europei avevano concor­ dato. Firmati i trattati di pace a favore dei regni di Napoli e di Sardegna, i tre stati barbareschi si impegnavano a sopprimere definitivamente la schiavitù cristiana, ma non a rinunciare all' attività corsara. Le diplomazie delle maggiori potenze, dall'Inghilterra alla Russia, continuarono a trattare la questione senza raggiungere tuttavia risultati concreti. Troppo diversi era­ no gli interessi in gioco e le preoccupazioni che assillavano i contendenti. La questione barbaresca tornò in discussione nel congresso diplomatico di Aix-la- Chapelle nell'autunno 1 8 1 8. «Tanti stati, altrettante tesi» ha scritto uno storico francese a commento dei tre documenti presentati dai rappresentanti di Russia, Austria e Francia. Dopo lunghe discussioni, comunque, il 20 novembre si giunse a un'intesa: la Francia e la Gran Bretagna avrebbero as­ sunto il compito di intimare alle reggenze barbaresche la cessa­ zione dell'attività corsara

LA FINE DEI BARBARESCHI

avvertendole che l'immancabile effetto del loro persistere in un sistema ostile al commercio pacifico, sarebbe stato un' al­ leanza generale delle Potenze europee, sulle cui conseguen­ ze gli Stati barbareschi avrebbero fatto bene a riflettere, sin­ ché erano in tempo, poiché avrebbero potuto esserne colpiti persino nella loro esistenza. Una squadra navale anglo-francese raggiunse la costa ma­ ina nel settembre 1819: soltanto Tripoli si piegò del tutto, gbreb · almeno a parole; Tunisi diede una risposta vaga e contorta, in so­ stanza negativa, Algeri respinse con fermezza ogni ingiunzione. L'attività dei corsari maghrebini, dunque, proseguì ancora per un decennio, ma si andò riducendo rispetto al passato, anche in seguito alla conclusione di accordi di pace con alcuni stati eu­ ropei, dopo trattative diplomatiche talvolta precedute da dimo­ strazioni di forza. Accadde così, nel 1824, tra Francia, Stati Uniti e Tunisi nonché tra Gran Bretagna e Algeri, dopo un vano tentati­ vo di bombardamento. Un esito brillante ebbe invece la spedizio­ ne della marina sarda contro Tripo1i nel settembre 1825: scaduto l'ultimatum intimato al pascià, alcune lance, secondo il piano del . capitano Francesco Sivori, si avvicinarono furtivamente alle navi tripoline ancorate nel porto e vi appiccarono il fuoco dist:mggen­ dole; il pascià accettò allora le condizioni di pace che gli furono imposte. Non del tutto felice fu invece l'esito dell'azione com­ piuta di fronte a Tripoli dalla marina napoletana nell'agosto 1828; con la meditazione francese venne comunque confermata la pace tra il pascià barbaresco e il regno delle Due Sicilie. Intanto in Europa, fin dai tempi del congresso di Vienna, avevano continuato a levarsi con sempre maggior frequenza e con toni sempre più energici appelli di politici, intellettuali e militari, per un'azione risolutiva contro i corsari del Maghreb. Il protrarsi della loro attività appariva infatti un'intollerabile umi­ liazione per tutta l'Europa. Il grande Chateaubriand - che era passato per Tunisi nel suo itinerario da Parigi a Gerusalemme nel 1811 - presentò al­ la camera il 9 aprile l 8 l 6 una mozione che riprendeva le tesi 39

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dell'ammiraglio Smith e, facendo allusione ai cristiani ancora schiavi nelle città corsare, esclamava: Il numero di queste vittime aumenta di giorno in giorno [ ... ] Non tocca ai francesi nati per la gloria e per le imprese gene­ rose di portare infine a compimento l'opera iniziata dai loro avi? In Francia venne predicata la prima crociata� in Francia bisogna innalzare lo stendardo dell'ultima.

In un opuscolo edito a Marsiglia nel 1819 si argomentava «sulla necessità e i modi di porre fine alle piraterie dei Barbare­ schi». Nello scritto I Barbareschi e i Cristiani, pubblicato a Gi­ nevra nel 1822, in parte almeno attribuibile a Giampietro Vieus­ seux, mentre si constatava che l'Europa era «inondata d'o­ puscoli, di scritti, d'articoli di gazzette contro le Reggenze bar­ baresche», ci si chiedeva con rammarico: «non è dunque possi­ bile che le Potenze europee si uniscano sotto un'unica bandiera e parlino ai governi barbareschi tutte uno stesso linguaggio, il linguaggio della giustizia e della ragione?». Più d'un autore pensava invero che una soluzione radicale della «questione barbaresca» potesse venire soltanto dall' estin­ zione degli stati corsari per effetto d'una occupazione europea della costa africana. Nel 1819 il console francese ad Algeri, Pierre Duval, scriveva al governo: Penso che convenga estirpare il male dalla radice, ponendo l'assedio alla città d'Algeri, anima della pirateria; una volta caduta essa in mano agli Europei, trascinerebbe nel suo crol­ lo tutto il sistema della pirateria algerina e diverrebbe un fre­ no verso gli altri Stati barbareschi, che ancora si ostinassero a non rispettare il diritto delle genti.

Un decennio più tardi, dopo un lungo periodo di tensione nei rapporti fra Algeri e la Francia, il governo di Parigi inviò una spedizione alla vol_ta della città maghrebina che fu presa senza eccessive difficoltà nel 1830. Iniziò cosl, con la progres­ siva conquista coloniale dell'Algeria, un altro capitolo, lungo e doloroso, nella storia delle relazioni fra Europa e mondo arabo. 40

LA FINE DEI BARBARESCHI

Gli europei gioirono dell'occupazione di Algeri perché videro in mani cristiane quel che era stato per secoli il temuto covo dei più audaci corsari musulmani. Uno dei numerosi componimenti poetici che esaltarono rimpresa francese così ricordava la città: «Alger moderno di superbo nome / Con gente scaltra a derubar nei mari». L'occupazione di Algeri indusse anche gli altri due stati maghrebini, Tunisi e Tripoli, a liberare i pochi europei ancora detenuti nelle due città e a sottoscrivere la definitiva rinuncia all'esercizio della corsa. Finiva così, dopo secoli di vicende tor­ mentate, la lunga storia dei corsari barbareschi.

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Parte seconda

CAVALIERI E ARTIGIANI DELLA CORSA CRISTIANA

I CAVALIERI DI MALTA E I CAVALIERI DI SANTO STEFANO NELLE GUERRE MEDITERRANEE

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Nelle lotte mediterranee già ricordate, i cavalieri di Malta e i ca,­ valieri di Santo Stefano ebbero un ruolo analogo a quello dei corsari maghrebini: da un lato offrirono il loro contributo nel corso delle guerre e delle campagne militari combattute fra gli stati dei due blocchi, cristiano e musulmano; dall'altro esercita­ r6no un' «attività �i guerriglia»_ sul mare, di intercettazione dei

legni in navigazione e talora di attacco ai porti e alle località co­

stiere, cui spetta il nome di corsa o cors�, secondo 1' espressionf? italiana dell'epoca. Bisogna dunque ammettere, come abbiamo già detto, che essi furono, almeno sotto certi aspetti, corsari non meno degni di questo titolo dei loro colleghi musulmani. L'ordine cavalleresco che si intitola ancor oggi al nome di Malta - pur se la sede della sua perdurante «sovranità» è a Ro­ ma in un'elegante strada presso piazza di Spagna - ebbe origine nel secolo XI da un'istituzione (ospizio-ospedale) fondata per assistere i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Si chiama­ rono all'inizio cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. L'or­ dine, che andò assumendo col tempo carattere militare, prese parte attiva alle crociate e si spostò, con il retrocedere della pre­ senza cristiana in Levante, da Gerusalemme in altre città di Terra Santa, poi a Cipro e infine a Rodi, sottratta nel 1308 ai bizantini. Sovrano su quest'isola, l'ordine potenziò il proprio.armamento e la propria efficienza navale, arrecando gravi danni alla naviga­ zione turca. 45

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CORSARI NEL MEDITERRANEO

Difesa invano l'isola, fino alla resa ai turchi nel 1522, i ca­ valieri si ritirarono con le loro galere e le altre navi nel porto di Civitavecchia, poi in quelli di Villafranca e di Nizza, sotto la protezione del duca di Savoia; le navi furono impiegate princi­ palmente in operazioni di trasporto e di vettovagliamento ma non mancò qualche scontro con legni musulmani. Quegli anni di relativa calma servirono a incrementare e rafforzare la flotta dell'ordine fino al trasferimento a Malta. Nel 1530, infatti, Carlo V decise di assegnare ai cavalieri una sede adeguata alla loro funzione, e scelse l'arcipelago malte­ se, concesso loro «in perpetuo feudo, nobile e franco». L'impe­ ratore, tuttavia, aggiunse il gravoso onere di amministrare e di­ fendere la piazzaforte di Tripoli, una delle basi possedute dagli spagnoli sulla costa del Maghreb musulmano. I notabili maltesi, gelosi delle loro riconosciute autonomie, protestarono contro la decisione imperiale, ma invano� la popolazione invece confidò che il governo dei cavalieri garantisse la sicurezza delle isole e l'attività marinara e offrisse possibilità di lavoro e di profitto. L'arcipelago maltese - felicemente dotato dalla natura di molte profonde insenature - era invero da secoli sede di corsari, che esercitavano l'attività ai danni di musulmani e cristiani, ricllla­ mando sull'isola avventurieri dal resto del Mediterraneo, con le conseguenze negative che è facile immaginare (la corsa era stata perciò proibita nel 1449, ma fu riammessa nel 1494). Nell'ottobre 1530 il gran maestro, Philippe Villiers de l'Isle Adam, con gran parte del convento (l'insieme dei cavalieri), prese solennemente possesso delle isole maltesi, dove i prepara­ tivi per accogliere 1 1 ordine erano stati piuttosto sbrigativi: si sperava ancora infatti di poter in seguito recuperare con le armi l'isola di Rodi. Fin dalle origini le regole dell'ordine ne sancirono anzitutto il carattere religioso; i cavalieri giuravano fedeltà ai tre voti mo­ nacali: povertà, castità, obbedienza. Si aggiungeva per essi il dovere del combattimento a difesa della cristianità contro gli «infedeli», cioè i musulmani. Secondo lo spirito feudale vigente in Europa fino alla Rivoluzione francese, l'ammissione all'ardi-

I CAVALIERI DI MALTA E DI SANTO STEFANO

ne era riservata ai nobili e normalmente di nascita legittima, sal­ vo che si trattasse di un figlio di re o di un nobile di rango prin­ cipesco. Chi intendeva diventare cavaliere doveva inoltre forni­ re garanzie di moralità e rettitudine di vita. Con l'impegno di rispettare queste regole, più volte confermate, entravano dunque nell'ordine i figli cadetti delle migliori famiglie d'Europa. I cavalieri si ripartivano, secondo la nazionalità, in otto «lingue»: di Provenza, cui spettava la carica di gran commenda­ tore; di Alvernia, altra regione della Francia, con a capo il mare­ sciallo dell'ordine; di Francia, con il grande spedaliero; d'Italia (cui spettava l'ammiraglio); d'Aragona, Catalogna e Navarra (gran conservatore); d'Inghilterra (turcopiliero); d'Alemagna (gran balì); di Castiglia, Le6n e Portogallo, l'ultima a costituir­ si, nel 1462 (gran cancelliere). Ogni lingua aveva un suo palaz­ zo, detto albergo. Oltre ai cavalieri - che costituivano dunque un'aristocrazia militare -, l'ordine comprendeva i cappellani, sacerdoti addetti alle funzioni religiose e alla cura pastorale dei cavalieri, e i servienti - d'arme o d'ufficio -, scudieri dei cava­ lieri e a servizio dell'ordine con varie funzioni; a loro non era richiesta la nobiltà di nascita. I nuovi membri erano ammessi nell'ordine con una cerimo­ nia: il gran maestro ammoniva sulle prove che attendevano il cavaliere, dicendogli: Quando vorrai mangiare dovrai digiunare, quando crederai di poter dormire bisognerà vegliare. Ti si manderà qua e là anche contro la tua volontà e tu dovrai obbedire, sopportan­ do tutte le sofferenze che ti saranno imposte. Il nuovo adepto giurava di mantenere i prescritti voti. Non era previsto il ritorno allo stato laicale né il passaggio ad altro ordine; si poteva però essere espulsi per indegnità. Fin dal Medioevo l'ordine acquisì, attraverso lasciti e don a ­ zioni, numerose ed estese proprietà in molti paesi dell'Europa cristiana. Un insieme di beni costituiva una commenda, affidata all'amministrazione di un cavaliere detto commendatore. La rendita netta d'una commenda costituiva la responsione, an47

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nualmente versata al tesoro dell'ordine. La riunione di più com­ mende costituiva un. priorato, con a capo il priore; i priorati d'un intero paese erano soggetti al gran commendatore. Al vertice dell'ordine era il capitolo generale, l'organo de­ tentore della sovranità e fonte della legislazione. Si riuniva ogni tre anni ed era composto dai grandi dignitari dell'ordine (i capi delle lingue), dai priori e da alcuni cavalieri particolarmente qualificati. Le risoluzioni del capitolo erano attuate dal gran maestro, che in pratica esercitava tutto il potere, e di fatto era capo supremo della Sacra Religione, come anche l'ordine era chiamato. Il gran maestro era eletto da uno speciale capitolo ge­ nerale, formato di volta in volta attraverso una complessa pro­ cedura di cooptazione. La preminenza dell'elemento francese nell'ordine ne carat­ terizzò i primi secoli di vita, venne meno nel corso del Cinque­ cento e del Seicento e si riaffermò nell'ultimo secolo di penna­ nenza dei cavalieri a Malta, fino a quando quel11aristocratica istituzione perse il dominio dell'isola, occupata dal generale Bo­ naparte in nome della Francia rivoluzionaria (1798). Quando la minaccia turco-barbaresca nel Mediterraneo sembrò incombere, come non mai prima, sulla stessa penisola italiana, Cosimo I dei Medici, granduca di Toscana, diede vita a un altro ordine cavalleresco, con l'obiettivo specifico di com­ battere sul mare i musulmani. La costituzione del Sacro militare ordine marittimo dei cavalieri di Santo Stefano, detti stefaniani, fu proclamata nel duomo di Pisa il 15 marzo 1562; ne era gran maestro lo stesso granduca mediceo. Tutta la struttura dell'ordine - le regole di anunissione, le qualifiche e così via - presentava analogie ma anche differenze con quanto vigeva nell'ordine di Malta; fra i cavalieri stefaniani venivano ammessi soltanto nobili di nascita legittima, salvo che si trattasse di figli di principi regnanti, di solito di età superiore ai diciassette anni, di buona condotta morale e dotati di rendite per mantenersi con sufficiente decoro. Oltre ai cavalieri - impegnati ai voti di castità, povertà e obbedienza - l'ordine accoglieva ecclesiastici, distinti in nobili,

I CAVALIERI DI MALTA E DI SANTO STEFANO

che avevano il titolo di cavalieri militi sacerdoti, e non nobili, cui spettava soltanto d'esser chiamati cappellani. Al livello più basso erano i serventi d'arme - categoria ben presto estintasi -, e i serventi d'ufficio, a servizio diretto dei cavalieri. Massima autorità era il gran maestro, secondo quanto di­ sponevano gli statuti approvati con una bolla di Pio IV. Il go­ verno dell'ordine era affidato a un consiglio supremo, composto da dodici cavalieri