Lumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento 8889422203, 9788889422205

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Lumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento
 8889422203, 9788889422205

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Università Storia

Salvatore Bono

Lumi e corsari Europa e Maghreb nel Settecento

Morlacchi Editore

In copertina: stampa tedesca del XVIII secolo, inedita, di proprietà dell’autore.

Volume realizzato con il contributo del Ministero dell’Università (cofinanziamento 19971998).

ISBN 88-89422-20-3 Copyright © 2005 by Morlacchi Editore, piazza Morlacchi 7/9, Perugia. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata. [email protected] – www.morlacchilibri.com Progetto grafico della copertina e impaginazione: Raffaele Marciano Finito di stampare nel mese di marzo 2005 da Digital Print – Service, Milano

Indice

Prefazione ..................................................................................................vii Nota sui capitoli ..........................................................................................xi Avvertenze e sigle .......................................................................................xiii 1. Fra guerra e pace .................................................................................... 1 2. Ambasciatori, consoli, viaggiatori e mercanti ........................................ 13 3. Minacce corsare sulle coste europee e maghrebine ................................ 25 4. Scontri sul mare ................................................................................... 53 5. Schiavitù e conversioni sull’una e l’altra riva ......................................... 65 6. Riscatti e scambi di schiavi ................................................................... 89 7. Memorie di schiavi ............................................................................. 113 8. Algeri a metà Settecento negli scritti del console C.A. Stendardi ......... 131 9. Gli stati barbareschi nella Histoire philosophique et politique des deux Indes (1770) ......................................................................... 163 10. Gli stati del Maghreb nelle Anecdotes Africaines (1775) ..................... 179 11. La prima storia del Maghreb (1775). La Summarische Geschichte von Nord-Afrika di A.L. Schlözer ...................................................... 193 12. Un marchese siciliano uxoricida e rinnegato nella Tripoli dei Qaramanli (1783) ....................................................................... 215 13. Il Maghreb nel Giornale Istorico di Marino Doxarà (1783-1784) ...... 223 14. Un principe di Paternò schiavo a Tunisi (1787) ................................ 229

15. L’incursione tunisina a Carloforte e il riscatto dei carolini (1798-1803) ..................................................................................... 239 16. Una lettera di Yusuf Qaramanli sul trattato lusitano-tripolino del 1799 .......................................................................................... 249 Fonti e bibliografia ................................................................................. 277 Indice dei nomi ...................................................................................... 301

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Prefazione

Lungo tutto il corso del Settecento rimasero costanti nel Mediterraneo, e specialmente nel bacino occidentale, minacce e incursioni dei corsari barbareschi – così, comunemente, erano e sono chiamate le genti del Maghreb nei secoli dell’influenza ottomana; altrettanto continuarono le attività corsare europee contro i maghrebini. Proseguirono dunque allo stesso tempo gli scontri sul mare, le catture di uomini e donne da una parte e dall’altra e la conseguente riduzione in schiavitù. Tutti questi fenomeni ebbero peraltro certamente dimensioni minori che non nei secoli precedenti. Proseguirono altrettanto, anzi divennero più frequenti, meglio organizzate e più dotate di mezzi, le missioni per il riscatto degli schiavi cristiani e parimenti si intensificò la pratica degli scambi fra cristiani e musulmani. Un certo numero di schiavi da una parte e dall’altra continuò – come nei secoli precedenti – a ‘convertirsi’ integrandosi di conseguenza nella società sino allora ‘nemica’. Gli aspetti di ostilità si accompagnarono peraltro con un forte incremento di trattative diplomatiche, patti di pace, relazioni commerciali. Sul finire del secolo poi, con la spedizione di Bonaparte in Egitto (1798) tutto il Mediterraneo ‘rientrò’ nella grande storia, dalla quale era ‘uscito’, secondo la felice espressione di Braudel, dopo Lepanto. Quanto ai barbareschi, nel contesto dei rivolgimenti del periodo rivoluzionario e napoleonico, a cavallo del nuovo secolo rinnovarono con la vivacità d’altri tempi le loro gesta corsare, provocando infine dopo il congresso di Vienna (1815) la decisa reazione europea e la loro stessa fine. Eppure, nei nostri libri di storia si sente parlare di barbareschi quasi soltanto nel quadro della storia mediterranea del Cinquecento, dai tempi di Carlo V alla battaglia di Lepanto, quando i corsari barbareschi (o peggio i ‘pirati’, come più di frequente si diceva e si dice) affiancavano, con incursioni e attacchi terribili per chi li subiva, la grande strategia dell’impero ottomano, del quale erano in qualche modo ‘vassalli’. Qualcosa ancora si sente dire di essi sino alla prima metà del Seicento, ma con la guerra di Candia, a metà del secolo, la scena centrale mediterranea – una scena comunque ormai secondaria a livello mondiale – comincia a spostarsi verso la penisola balcanica e il Levante. Del

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Lumi e corsari

Mediterraneo occidentale e dei suoi corsari barbareschi quasi non si fa più parola. La persistente ‘presenza’ dei barbareschi nel Mediterraneo settecentesco e il paradossale contrasto della convivenza di quegli stati – dall’apparente ‘oscura’ e statica realtà, quasi anacronistica sopravvivenza di altri secoli – con l’Europa dei Lumi e la varietà e ricchezza dei suoi ‘progressi’, aveva attratto la mia attenzione già nei primi anni di ricerca. Negli anni ’80 poi, in particolare con la partecipazione al congresso d’Aix-en-Provence (1985) su La Méditerranée au XVIIIe siècle, tornai ad indagini collocate in quel secolo. Più tardi ancora, nell’ambito di un progetto di ricerca su “L’idea mediterranea. Storia, ideologia, prospettiva”, mi proposi di raccogliere e insieme di aggiornare i miei contributi pertinenti appunto al XVIII secolo, editi dal 1960 in poi, sparpagliati in riviste e atti accademici diversi ed ora qui riproposti. Nella revisione dei contributi degli anni ’60, ho talvolta esplicitamente rilevato e ‘corretto’ valutazioni ed espressioni non più condivise; in altri casi si è trattato di integrazioni e ritocchi, grazie anche a nuove fonti e documenti reperiti attraverso successive ricerche. Preciso questi interventi nella Nota che segue questa prefazione. Nel condurre la revisione e messa a punto mi sono inoltre convinto che l’utilità della riedizione di quei testi sarebbe stata accresciuta se una visione in qualche modo panoramica dei rapporti fra gli stati maghrebini e l’Europa nel Settecento li avesse preceduti. Ed ecco i capitoli dal primo al settimo, che intendono offrire un quadro complessivo delle relazioni fra l’Europa e il Maghreb, inevitabilmente sommario e senza alcuna pretesa di completezza quanto ai dati e all’orizzonte tematico, con funzione introduttiva rispetto ai capitoli successivi, dal carattere monografico. Nei capitoli tuttavia concernenti la guerra corsara e la schiavitù (dal 3. al 7.), su temi da me assiduamente frequentati, non mancano elementi originali. D’altra parte anche la semplice segnalazione, nei capitoli introduttivi, di spunti, di opere e di autori, potrà servire a suscitare l’interesse di altri studiosi, disposti forse a sviluppare ricerche, analisi e conclusioni più soddisfacenti, come peraltro mi auguro possa avvenire anche per altri aspetti delle relazioni fra Europa e Maghreb nel Settecento. Il titolo dato alla raccolta vuol richiamare il paradosso sopra accennato – della convivenza nel Mediterraneo settecentesco dell’Europa e dei ‘barbari’ corsari (barbareschi) – oggetto di riflessione da parte degli stessi uomini dei Lumi i quali investirono invero anche le contrade maghrebine con progetti e speranze segnate da illuministico fervore e da razionale presunzione. Oltre a sparsi cenni, in più punti del volume, alla mentalità e alle dottrine dei Lumi si richiamano, quale più quale meno, autori ed opere oggetto di analisi nel capi-

Prefazione

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tolo 9. Gli stati barbareschi nella Histoire philosophique dell’abate Raynal (1773), nel decimo sugli stati maghrebini nelle Anecdotes Africaines, nel successivo sulla Geschichte von Nord-Afrika di A.L. Schlözer e nel cap. 13. sul Giornale Historico di Marino Doxarà. Mi è grato precisare, come già accennato, che questo volume, ‘nuovo’ per oltre la metà e ‘rivisto’ nei capitoli già editi, è un frutto minore di un progetto di ricerca, concernente la storia del Mediterraneo, cofinanziato dal Ministero dell’Università nel 1997 e 1998 e della cui direzione, con sede presso il Dipartimento di Scienze storiche dell’Università di Perugia, sono stato responsabile scientifico ‘nazionale’. Desidero infine ringraziare Chetro De Carolis, per avermi aiutato nell’aggiornamento bibliografico e per tutta la sua preziosa collaborazione a tanta parte delle mie ricerche, e Raffaele Marciano, esperto consulente nelle scelte grafico-tipografiche, per la laboriosa edizione del testo.

Perugia, 31 dicembre 2002

S.B.

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Nota sui capitoli

Capitoli da 1 (Fra guerra e pace) a 7 (Memorie di schiavi) Il carattere e la funzione dei primi sette capitoli nel piano del volume sono stati accennati nella Prefazione. Qualche punto della trattazione, come è ovvio, era stato toccato qua e là in precedenti lavori dell’autore, specialmente a proposito delle incursioni e degli scontri corsari, degli schiavi, delle conversioni. Il cap. 6 Riscatti e scambi di schiavi corrisponde, salvo poche aggiunte e modifiche, alla relazione presentata al convegno su «Rapporti diplomatici e scambi commerciali nel Mediterraneo moderno» (Salerno, 23-24 ottobre 2002). Cap. 8. Algeri a metà Settecento negli scritti del console C.A. Stendardi Viene ripreso, ma integrato da successive ricerche presso lo Haus-Hof und Staatsarchiv di Vienna e le Archives Nationales di Parigi, l’articolo Algeri alla metà del secolo XVIII nella testimonianza del Console Carlo Antonio Stendardi, in “Africa”, 20/1965, 250268. Il testo in appendice sulla peste del 1752 è qui pubblicato integralmente. Cap. 9. Gli stati barbareschi nella Histoire philosophique et politique des deux Indes (1770) L’articolo Gli Stati barbareschi nella “Histoire philosophique” dell’abate Thomas François Raynal in“Africa”, 16/1959, 189-192, dunque di oltre 40 anni fa, è stato non solo integrato in base alla ricca bibliografia successiva ma posto in discussione in qualche suo ‘tono’. Cap. 10. Gli stati del Maghreb nelle Anecdotes Africaines (1775) Presenta appena qualche citazione più estesa rispetto alla edizione in “Quaderni di Studi Arabi”, 9/1991, 133-142. Cap. 11. La prima storia del Maghreb (1775). La Summarische Geschichte von Nord-Afrika di A.L. Schlözer Qualche aggiornamento bibliografico e qualche ampliamento delle citazioni rispetto al testo La ‘Summarische Geschichte von Nord Afrika’ (1775) di A.L. Schlözer, in Studi in onore di Paolo Alatri, I, Napoli 1991, 551-567.

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Lumi e corsari

Cap. 12. Un marchese siciliano uxoricida e rinnegato nella Tripoli dei Qaramanli (1783) Una rielaborazione, poco più estesa, del capitolo Un marchese di San Giuliano convertito all’Islàm, nel volume Siciliani nel Maghreb, Mazara del Vallo 1992 (2a ediz.; 1a 1989, 91-94). Cap. 13. Il Maghreb nel Giornale Istorico di Marino Doxarà (1783-1784) La mia prefazione al testo di Marino Doxarà a cura di G. Ciammaichella, Il Giornale Istorico di Marino Doxarà. Vertenze veneto-tunisine e osservazioni di un commerciante sulle Reggenze barbaresche (1783-84), Pordenone 1991, 3-5, si è mutata in una breve presentazione del Giornale, quasi del tutto debitrice alla relazione stessa e al suo curatore. Cap. 14. Un principe di Paternò schiavo a Tunisi (1787) Qualche aggiunta e relativi riferimenti bibliografici sono stati introdotti rispetto al paragrafo Il principe di Paternò, nel mio I corsari barbareschi, Torino 1964, 403-407 e 480-481, ampliato poi in Siciliani nel Maghreb (vedi sopra sul cap. 7.), 95-104. Cap. 15. L’incursione tunisina a Carloforte e il riscatto dei carolini (1798-1803) Completa rielaborazione del vecchio articolo L’incursione dei corsari tunisini a Carloforte e il riscatto degli schiavi carolini (1798-1803), in “Africa”, 15/1960, 234-238. Cap. 16. Una lettera di Yusuf Qaramanli sul trattato lusitano-tripolino del 1799 Testo, con marginali ritocchi, dell’articolo La pace lusitano-tripolina del 1799 in una lettera di Yûsuf Qaramânlî, in “Oriente Moderno”, 64/1984, 5-31.

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Avvertenze e sigle

I criteri di citazione di Fonti e bibliografia sono indicati all’inizio di quella appendice. Le citazioni sono riportate nella lingua originale (adeguando perlopiù all’uso attuale, nel caso, l’accentazione e la punteggiatura) o in traduzione italiana, secondo considerazioni di opportunità caso per caso prevalenti. Nel cap. 11 su Schlözer le numerose citazioni dell’originale tedesco sono affiancate, nel testo o in nota, da una traduzione italiana e così anche in altri casi. La trascrizione dei nomi da altre lingue è stata sempre semplificata e uniformata, anche per opportunità tipografica; in particolare per i nomi geografici è stata seguita, quando esista, la versione italiana usuale. Nei casi di individui – come taluni schiavi e rinnegati – la cui identità sussiste grazie soltanto ad una o poche menzioni nelle fonti, è stata mantenuta la forma onomastica data dalle stesse. AN, AE, Correspondance

Archives Nationales, Parigi. Affaires Etrangères. Correspondance Consulaire.

AN, Marine B 1

Archives Nationales, Parigi. Marine B 1. Décisions.

AS

Archivio di Stato, seguito dalla sigla della città.

ASFi, Principato

Archivio di Stato di Firenze, Archivio mediceo del principato.

ASNa, Segreteria di Stato. Espedienti

Archivio di Stato di Napoli. Segreteria di Stato di Guerra e di Marina. Marina. Espedienti.

ASNa, Legazioni e Consolati

Archivio di Stato di Napoli. Segreteria di Stato degli Affari Esteri. Legazioni e Consolati.

ASRm Epistolario Galere

Archivio di Stato di Roma. Camerale II Epistolario. Civitavecchia. Commissariato delle soldatesche e galere

ASV, Gonfalone

Archivio Segreto Vaticano. Arciconfraternita del Gonfalone. Opera pia del Riscatto degli schiavi.

BC

Biblioteca Comunale, seguita dalla sigla della città.

BN

Biblioteca Nazionale, seguita dalla sigla della città.

xiv

Lumi e corsari

BR

Biblioteca Regionale, seguita dalla sigla della città

HHSA, Algier

Haus-Hof und Staatsarchiv, Vienna. Staatenabteilung. Algier (1 e 2)

PF, Barbaria

Archivio storico della Congregazione de Propaganda Fide, Scritture riferite nei Congressi (SC), Barbaria

capitolo uno | 1

Fra guerra e pace

Nei rapporti fra gli stati europei e quelli maghrebini – le tre reggenze barbaresche e l’impero del Marocco – prosegue nel corso del Settecento la linea che già poteva scorgersi sin dai primi decenni del Seicento, e che divenne sempre più netta e costante dalla seconda metà di quel secolo. I governanti d’Europa cercarono cioè di far valere presso i maghrebini la loro superiorità strategica, imponendo la sottoscrizione di trattati che dovevano garantire alle proprie navi l’immunità dagli attacchi dei corsari e condizioni favorevoli per lo sviluppo dei rispettivi commerci. Considerarono peraltro vantaggioso il persistere della guerra corsara contro altri stati europei, le cui concorrenti attività venivano così intralciate e ostacolate. Tanto più si considerava con favore l’ostilità dei barbareschi se rivolta verso stati con i quali si era in contrasto nel quadro politico generale. Risultò perciò impossibile realizzare una alleanza europea per debellare i barbareschi, auspicata ed esaltata quasi novella crociata (1). Invece di far ricorso alla forza, una scelta sempre rischiosa e spesso inefficace, alcuni stati europei preferirono venire a patti con gli stati maghrebini: ottenevano l’immunità dagli attacchi corsari e condizioni vantaggiose per i commerci mediante la corresponsione, in genere con scadenza annuale, di una certa somma di denaro e, ovvero anche, di forniture, spesso di carattere strategico (necessarie cioè per l’esercizio dell’attività corsara). Queste corresponsioni potevano apparire come una sorta di tributi, ed essere dunque recriminate da parte europea o vantate da parte musulmana; nella sostanza possono essere oggi lette da noi più semplicemente come una ‘indennità’ ai barbareschi per i mancati profitti della corsa ovvero come una ‘partecipazione agli utili’ dei commerci e dei trasporti fra l’Europa e il Maghreb dalla cui gestione essi erano esclusi e che la ‘pace’ con loro rendeva per la controparte più tranquilli e redditizi (2).

(1) CHARLES-ROUX 1932, passim nei capitoli VII-X. (2) Una originale e articolata analisi in chiave di antropologia interculturale dei doni e delle forniture agli stati barbareschi da parte europea è stata offerta ultimamente da WINDLER 2002 (parte 4: Présents ou tributs?), 485-548.

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A proposito delle forniture di materiali per la costruzione, l’allestimento e l’armamento delle navi corsare (alberi, tele, piombo, casse di polvere da sparo, ecc.), così, ad esempio, attestava nel 1781 il console francese ad Algeri, Vallière: Le Roi de Danemark envoie tous les ans, comme en tributs à la Régence d’Alger un bâtiment chargé de boulets, de poudre, de câbles, de cordages, de mâtures, de planches et de goudron (3).

Fra coloro che espressero sdegno verso quella pratica, senza rendersi conto dei complici interessi dei mercanti europei e non solo, ascoltiamo la voce di Ludovico Antonio Muratori: Sempre sarà (non si può tacere) vergogna de i Potentati della Cristianità, sì Cattolici che Protestanti, il vedere che in vece di unir le loro forze per ischiantar, come potrebbono, que’ nidi di scellerati Corsari, vanno di tanto in tanto a mendicar da essi con preghiere e regali, per non dire con tributi, la loro amistà, che poscia alle pruove si truova sovente inclinare alla perfidia (4).

Nel secolo dei Lumi dunque fra Europa e Maghreb si intrecciarono prove di forza, dall’esito alterno ma nel complesso favorevole agli stati europei, con accordi e trattati di ‘pace’ e di commercio, sottoscritti con un sempre maggior numero di paesi e con più frequenti rinnovi. L’esistenza di uno stato di tregua o di pace non escludeva ovviamente che qualche raìs corsaro effettuasse prede anche ai danni di bandiere di stati con i quali vigevano accordi; ne nascevano proteste, richieste di restituzione o di risarcimento, contenziosi, talvolta più accese ostilità. Vediamo alcuni momenti ed episodi, rinviando peraltro alle storie generali dell’uno e dell’altro stato maghrebino e ai non molti lavori sulle vicende delle rispettive ‘relazioni internazionali’. Il secolo si aprì con una serie di trattati: Algeri ne sottoscrisse uno con l’Inghilterra nell’agosto 1700 (il precedente era del 1686) ed altri ne segnò nel 1702, 1703 e 1707. Tunisi concluse un trattato con la Francia nel dicembre 1710 (rinnovato poi nel 1713), dopo che una piccola squadra francese si era

(3) VALLIÈRE 1781, 50. (4) L.A. MURATORI, Annali d’Italia, XII, Milano 1749, 146, con riferimento all’anno 1726.

Fra guerra e pace

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presentata nel porto a sostegno della protesta per incidenti con i corsari. Con Tripoli l’Olanda stipulò il suo primo trattato, all’inizio del secolo, nel 1703 (rinnovato nel 1713) (5). La concorrenza tra la Francia e l’Inghilterra, ormai divenute le due maggiori potenze con interessi nel Mediterraneo, si fece sempre più vivace nel Settecento; ciascuna delle due cercava dunque di profittare dei momenti di tensione nei rapporti dell’altra con i barbareschi per migliorare la propria posizione politico-diplomatica. Così l’Inghilterra concluse un trattato con Tunisi nell’agosto 1716, mentre il bey protestava contro la Francia per un incidente ai danni di un gruppo di tunisini imbarcati su una nave francese diretta in Egitto (6). Una ‘ondata’ di trattati sopraggiunse fra il 1725 e il 1731, a cominciare da quello sottoscritto con Tunisi nel settembre 1725 dall’impero asburgico – per varie vicende politiche sempre più interessato al Mediterraneo – non senza i buoni uffici di due inviati della Porta; le norme si applicavano anche ai sudditi olandesi e siciliani dell’impero (7). L’Olanda, altra potenza molto impegnata a perseguire una politica di pace con i barbareschi, sottoscrisse un trattato con Algeri (8 settembre 1726), rinnovato nel 1731 (24 agosto), ed un altro con Tripoli (4 ottobre 1728), mentre mancarono ulteriori accordi con Tunisi dopo il trattato del 1713. Nel 1729 un altro stato europeo, il regno di Svezia, firmò un primo trattato con la reggenza algerina, affacciandosi così sulla scena politica internazionale del Maghreb; nel 1736 sottoscrisse un accordo con Tunisi e nel 1741 con Tripoli. Un’accurata analisi e comparazione delle norme dei trattati – per lo più ‘di pace’ e di commercio – degli stati barbareschi propriamente detti (Algeri, Tunisi e Tripoli) con le potenze europee fra il 1518 e il 1830 è stata curata da uno studioso di diritto internazionale, Jörg Manfred Mössner, ma il suo lavoro è rimasto poco utilizzato dagli storici del Maghreb. Dal quadro complessivo offertoci riscontriamo che il numero dei trattati si accrebbe rispetto al secolo precedente; da 42 a 69, a riprova del miglioramento delle relazioni internazionali fra i due gruppi di paesi, ed anche in conseguenza d’una progressiva sostanziale indipendenza degli stati barbareschi dalla Sublime Porta, la quale in

(5) ROUSSEAU 1864, 101-102 e 489-491 (testo; le pp. 430-568 raccolgono numerosi testi di trattati dal secolo XVII); MÖSSNER 1968, 91, 95 e 98. Sui rapporti dell’Olanda con i barbareschi nel corso del secolo: DE GROOT 1985. (6) ROUSSEAU 1864, 103-104; BONO 1964, 59. (7) L’impero austriaco segnò altri accordi con Tripoli (1726) e con Algeri (1727). BONO 1964, 58; MERCIER 1891, 341; ROUSSEAU 1864, 107, 145, 162-163 (testi alle pp. 442-450); MÖSSNER 1968, elenco dei trattati.

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Lumi e corsari

precedenza estendeva ad essi le pattuizioni dei suoi trattati internazionali. Nel corso del secolo vennero sottoscritti 28 trattati con Algeri, 22 con Tunisi, 19 con Tripoli, ed il numero conferma l’importanza rispettiva delle tre reggenze. Fra gli stati europei, la Gran Bretagna e la Francia conclusero il maggior numero di accordi (18 e 14) e con più frequenza rispettivamente con Tunisi (dodici dalla Francia) e con Algeri (otto dall’Inghilterra) (8). La lista di trattati ricostruita dallo studioso tedesco deve essere però spesso integrata con dati e testi riportati in altre fonti e in altre opere storiografiche. Una indagine di impostazione storica – più che giuridica, come quella dataci dallo storico tedesco appunto – sulle pattuizioni fra stati europei e maghrebini nel corso dei secoli, resta da compiere e da accompagnare con una raccolta dei testi dispersi in numerose sedi diverse. La Francia ebbe complessivamente più intensi rapporti con gli stati barbareschi, non senza fasi di tensione e d’ostilità dalle quali tuttavia ambedue le parti vollero sollecitamente uscire. Causa delle controversie erano di solito, come nei rapporti con altri governi, le azioni dei corsari i quali predavano i legni di questo o quello stato non rispettando talvolta gli accordi vigenti e comportandosi di fatto da ‘pirati’. Non sempre le trattative diplomatiche arrivarono a buon fine e la voce passò allora ai cannoni. Così nel 1728, per reagire alla sfida recata da corsari maghrebini a navi francesi, una squadra al comando dell’ammiraglio Grandpré si presentò minacciosa di fronte a Tunisi e qui ottenne ampia soddisfazione con il trattato del 1° luglio 1728. Tripoli invece non volle cedere, neanche dopo un duro bombardamento della città e soltanto l’anno seguente venne a patti per evitare il riaccendersi di ostilità (9). Intorno alla metà del secolo si aprì un periodo di ‘corsa alla pace’, attraverso il rinnovo o la firma per la prima volta di trattati che garantivano l’immunità dagli attacchi corsari e consentivano invece l’esercizio di proficui commerci. La Danimarca, ad esempio, più importante di quanto oggi non sia, poiché ad essa era unita la Norvegia, iniziò le pattuizioni con i barbareschi negli anni Quaranta del secolo: un trattato con Algeri (10 agosto 1746) ed un altro con Tripoli (22 gennaio 1752). Nel 1748 l’impero asburgico rinnovò i precedenti accordi con Algeri (9 ottobre) e con Tunisi (23 dicembre), l’anno dopo (27 gennaio) con Tripoli. Nel corso degli anni Cinquanta anche l’Inghilterra rinnovò il trattato con Algeri (3 giugno 1751) e similmente l’Olanda (23 novembre 1757). Dal canto suo la città libera di Amburgo sottoscrisse con la stessa

(8) Dall’elenco dei trattati in MÖSSNER 1968. (9) BONO 1964, 60-61.

Fra guerra e pace

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Algeri il primo e forse unico accordo con uno stato barbaresco (15 settembre 1751) (10). Persino l’Ordine di Malta, tradizionale avversario dei barbareschi, nel Settecento avviò con gli stati maghrebini rapporti diplomatici improntati a rispetto e cortesia, in particolare con Tripoli. Uno storico tunisino ricorda gli accordi del bey di Susa con i cavalieri sì che «le navi maltesi vennero a commerciare liberamente a Susa, portando ed esportando tutto ciò che volevano». Segnaliamo la rara Copia d’una lettera scritta in Idioma Arabo da Machamet Beì di Susa […] La quale fu inviata al Gran Maestro di Malta, in cui s’intende l’agiuto, che domanda dal detto Gran Maestro [...] (Palermo 1737). Dal canto suo la cittàstato di Ragusa, l’attuale croata Dubrovnik, in buoni rapporti con l’impero ottomano, cercò con i barbareschi intese e rapporti diretti, ancora poco conosciuti (11). Non intendiamo elencare tutti gli accordi che seguirono nel restante corso del secolo. Per quanto concerne la Francia ricordiamo soltanto il trattato con Tunisi dell’agosto 1770, nel quale fu infine sancito il contrastato riconoscimento tunisino della sovranità francese sulla Corsica. Gli ultimi trattati di ciascuno stato barbaresco nel Settecento sono così datati: Tunisi con la Francia il 25 maggio 1795; Algeri con la Francia il 15 febbraio 1799; il Portogallo con Tripoli il 14 maggio 1799 (12). Anche la repubblica di Venezia nella seconda metà del Settecento, che sul finire ne vide la completa rovina, compì le sue ultime imprese marinare contro

(10) Un ulteriore trattato con Algeri fu sottoscritto dall’impero nel 1752 (si veda il capitolo 8, sul console Stendardi). Nuovi trattati dell’Inghilterra nel 1762 e 1765 e dell’Olanda nel 1760. Con Tunisi sancirono accordi l’Inghilterra (19 ottobre 1751) e la Danimarca (8 dicembre 1751); con Tripoli ancora l’Inghilterra (19 settembre 1751) e la Francia (30 maggio 1752): MÖSSNER 1968, elenco dei trattati. Sul trattato franco-algerino del 1766: CHIRAC 1981 e EL ANNABI 1982. Per il trattato con Amburgo: BAASCH 1897, 1-28 e 47-59 (sulla rottura e su ulteriori sviluppi). Per la storia delle relazioni britanniche con Algeri e per la successione dei consoli e la loro attività vedasi PLAYFAIR 1884, 168-230. (11) Per Malta: SEGHIR BEN YOUSSEF 1705-1765, 423; ROSSI 1923-1925a; Copia d’una lettera scritta in Idioma Arabo da Machamet Beì di Susa figlio del Beì Assen Ben Alì: La quale fu inviata al Gran Maestro di Malta, in cui s’intende l’agiuto, che domanda dal detto Gran Maestro, e si da ancora notizia di quanto ha operato la Squadra di Malta. Arrivata in Malta a 9 Maggio 1737, e letta in Consiglio li 10 del medesimo, Palermo 1737 (B. Regionale Pa, Misc. A 291.5); CIAPPARA 2001, 223. Sui rapporti tra Malta e Tunisi, anche ROSSI 1932. Per Ragusa: MIOVIþ PERIþ 1993-1994 e BABINGER 1927. (12) MÖSSNER 1968, elenco dei trattati; sul trattato lusitano-tripolino del 1799 si veda il capitolo 16. Su Tunisi e la Corsica: MICHEL 1925 e ID. 1937. Sui rapporti Stati UnitiBarbareschi, fuori dal nostro quadro, menzioniamo comunque BONNEL 1997.

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i barbareschi, per difendere le proprie attività commerciali dalla corsa maghrebina, tanto più attiva e audace verso gli stati ‘nemici’ quanto più si andava limitando il campo d’azione, per effetto degli accordi con numerosi stati europei. Con un abile schieramento della flotta, che riuscì a celare la sostanziale esiguità delle forze, il capitano Giacomo Nani nell’agosto 1766 persuase il pascià di Tripoli a restituire le merci di recente predate da corsari tripolini a mercanti veneti e a punire i raìs che avevano operato in violazione del trattato fra Tripoli e Venezia (aprile 1764) (13). Nel corso del Settecento, sino al 1775, la Spagna, che nei secoli precedenti era stata tradizionale e spesso vittoriosa avversaria dei barbareschi, era rimasta in disparte nelle vicende mediterranee, aliena comunque da scendere a patteggiamenti. Nell’ultimo quarto del secolo la flotta spagnola, quasi a rinnovare le coraggiose imprese del passato, attaccò duramente Algeri senza tuttavia riuscire ad infliggere alla città corsara un colpo mortale. La prima spedizione mosse dopo una accurata preparazione, ma senza la necessaria segretezza, nel luglio 1775; a proposito del comandante, il generale di origine irlandese O’Reilly, uno storico dell’Ottocento ha così annotato: «s’egli godeva allora di qualche reputazione, era arrivato il momento in cui doveva perderla». Carlo III tentò di vendicare l’insuccesso con una nuova azione, all’inizio di agosto del 1783, esauritasi però senza esito e replicata invano l’anno dopo, al comando dello stesso don Antonio Barceló. Il periodo di ostilità si concluse infine con una pace poco onorevole per la Spagna (14 luglio 1786); pochi anni dopo, nel 1792, la Spagna accettò di ritirarsi dalla piazzaforte di Orano (14). Accanto alla Spagna fu Venezia – altra grande potenza nel Mediterraneo dei secoli precedenti – a portare, con più successo, la sua flotta sulle coste del Maghreb nell’ultimo ventennio del Settecento. In seguito all’incidente occorso ad alcuni abitanti di Sfax, reduci dall’Egitto su una nave veneziana, il governo veneto cercò di comporre la vertenza per le vie diplomatiche, con l’invio a

(13) NANI MOCENIGO 1914; CAPPOVIN 1942, 147-187. Sui precedenti rapporti venetomaghrebini: SACERDOTI 1957; sui commerci: TUCCI 1993. Sul consolato veneziano: CORÒ 1930 e ID. 1955. (14) Su tutto il periodo 1775-1792 vedi MAZARREDO 1864; MERCIER 1891, 430-436; BERBRUGGER 1864-1865; GUASTAVINO GALLENT 1950; FÉRAUD 1865 e ID. 1876; GUITTARD 1981 e ID. 1988; KURAN 1984; SCARABELLI 1999 e ID. 2000. Sul trattato del 1786: EPALZA 1974. Orano era stata tenuta dagli spagnoli, salvo una breve interruzione, dal 1509; nel 1792 la Spagna ottenne per contro un proprio stabilimento a Mers el-Kebir e altre facilitazioni. Sui presidi spagnoli: CAZENAVE 1922, EPALZA 1989. Sui rapporti con Tripoli e il trattato del 1784: ARRIBAS PALAU 1976-1977, EPALZA 1980 e ID. 1984. Per la Sicilia e il regno di Napoli: EPIFANIO 1911-1912; BONO 1977a e FILESI 1983.

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Tunisi del cavalier Querini. Le trattative però fallirono, anche per l’insorgere di un altro incidente e nel gennaio 1784 il bey Hamuda dichiarò la guerra, protrattasi con alterne vicende di bombardamenti veneziani sulle coste tunisine e di laboriose trattative, non senza lunghe fasi di stallo, sino al maggio 1792, quando l’improvvisa morte dell’ammiraglio Emo rese più facile per il bey tunisino di accettare una pace di compromesso (15). In un altro quadro si collocarono le relazioni fra l’Europa e l’impero marocchino – tema sul quale esistono adeguati lavori storiografici d’insieme, ultimo quello di Ramón Lourido Díaz, sinora mancanti per gli altri singoli stati maghrebini – poiché su di esse pesarono meno le vicende della guerra corsara (16). Dall’inizio del Settecento il sultano non poté più seguire la linea tradizionale di combattere la Spagna contando sul buon rapporto con la Francia, poiché al trono spagnolo era salito Filippo V, nipote di Luigi XIV, ed era così terminata l’ostilità fra le due potenze europee. Le relazioni franco-marocchine si raffreddarono rapidamente, sino al ritiro dei mercanti francesi dal paese maghrebino e dei consoli a Salé e a Tetuán. Alla morte di Mulay Ismail seguì un trentennio di lotte per il potere che impedì ai sovrani succedutisi l’un l’altro a brevi scadenze, spesso di pochi anni, di portare avanti una significativa politica estera; vennero comunque sottoscritti accordi di pace con la Danimarca, nel 1753, e con l’Olanda (1752) (17). Soltanto il sultano Muhammad ben Abdallàh tornò ad una politica estera attiva, a prima vista contraddittoria, poiché segnata da un rilevante potenziamento dell’attività corsara – su ciò torneremo – nonché dall’intento di riconquistare alla sovranità marocchina le basi spagnole e portoghesi nel territorio e per contro da una grande apertura verso l’Europa con la firma di numerosi trattati di commercio e di pace. Sul suo impegno per la liberazione dei musulmani schiavi nei paesi europei (non solo dei marocchini) diremo qualcosa nel capitolo sulla schiavitù.

(15) ROUSSEAU 1927, 197-215; BONO 1964, 63-66. Sullo scontro con Tunisi, e sui precedenti, riferisce ampiamente MARCHESI 1882, 36-81. Vedasi anche NALLINO 1941, RIGGIO 1949, TEMIMI 1991. Sulla missione del Querini, al cui seguito andò Marino Doxarà, si veda il cap.13. (16) LOURIDO DÍAZ 1989. Sui trattati internazionali del Marocco vedansi: CAILLÉ 1960, IANNETTONE 1977 ed altri citati in seguito. (17) Sui rapporti con la Danimarca vedasi LOURIDO DÍAZ 1989, 254-258 e 269-274; in precedenza, fra gli altri, DE CASTRIES 1926. Testo del trattato e delle conferme, nel 1754 e nel 1756, in CAILLÉ 1960, 147-157. Per l’Olanda: LOURIDO DÍAZ 1989, 253; OBDEIJN 1988. Per l’insieme della politica estera del Marocco: LUGAN 1992, 179-185.

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Fra i primi trattati quelli con l’Inghilterra nel 1760 (connesso alla composizione di un episodio corsaro), poi con la Svezia (1763) e con Venezia (1765); a seguito di quest’ultimo il sultano inviò in dono al doge dieci donne di Tabarca, giunte chi sa come in sue mani (18). Seguirono più tardi (1767) i trattati con la Spagna, la Francia e la Danimarca, poi ancora con il Portogallo (1773), che si era ritirato dalla fortezza di Mazagan nel 1769, con l’Olanda nel 1777 dopo qualche anno di rottura, con la Svezia (1777), con la Toscana (un trattato di commercio l’anno dopo ed uno di pace e di commercio nel 1784). Con una dichiarazione del dicembre 1777 il sultano accordò libero accesso ai porti marocchini a numerosi altri stati d’Europa (19). Non un trattato fra stati sovrani ma un accordo di carattere commerciale con una compagnia di commercio privata genovese fu sottoscritto nel 1769, dopo trattative appoggiate con discrezione dal governo della repubblica. I mercanti genovesi, i cui antenati avevano trafficato con profitto sulla costa atlantica del Marocco, in particolare a Mogador, seppero trarre profitto dall’intesa, grazie soprattutto all’intraprendenza e all’abilità diplomatica dei fratelli Chiappe. Anche il regno di Sardegna – che erediterà più tardi la tradizione commerciale e diplomatica della repubblica ligure – avviò rapporti diplomatici con il Marocco, con la designazione di un console, nel 1781, pur se non pervenne alla stipula di un trattato (20).

(18) Per l’Inghilterra: LOURIDO DÍAZ 1989, 263-269; sui rapporti commerciali 384-390. Per la Svezia: ivi, 271-273; sui rapporti commerciali dei barbareschi con la Svezia e gli altri stati scandinavi: DESFEUILLES 1956 e ARRIBAS PALAU 1977b. Su Venezia: LOURIDO DÍAZ 1989, 275-277 e MARCHESI 1886. Sulle donne tabarchine: LUCCHETTA 1996; su Tabarca e i tabarchini si veda, fra gli altri, LUXORO 1977 e BOUBAKER 1993. (19) Sui rapporti con la Spagna: LOURIDO DÍAZ 1989, 263-291; sui commerci 332-345 e 405-418; in precedenza, fra gli altri, ID. 1973a e 1974, ARRIBAS PALAU 1959, ID. 1981, ID. 1981a, ID. 1988. Il Marocco segnò anche, nel 1786, un trattato con gli Stati Uniti d’America, riconosciuti nel 1777. Sulla Francia: LOURIDO DÍAZ 1989, 277-282; sui rapporti commerciali, anche più tardi: 323-332 e 393-405. Sulla tregua franco-marocchina del 1765: CAILLÉ 1959. Sul Portogallo ivi, 346-352, sui commerci: 392-393; si veda anche LOURIDO DÍAZ 1976b e ARRIBAS PALAU 1988a. Sull’Olanda: LOURIDO DÍAZ 1989, 318-323, 388-389, sui commerci: 431-437, e ancora, per gli anni successivi, 547-553. Sulla Svezia ivi, 315-318 e 495-497e CAILLÉ 1958; sulla Toscana: LOURIDO DÍAZ 1989, 513-516. Sui rapporti della Gran Bretagna con il Marocco: ANDERSON 1956, LOURIDO DÍAZ 1971. Sui rapporti con la repubblica di Ragusa: ID. 1972. Sul tentativo di costituire una marina mercantile: ID. 1971a. (20) LOURIDO DÍAZ 1989, 299-305, 390-392, 520-526, 600-602; NALLINO 1945; MIÈGE 1957; PASTINE 1960; DE LEONE 1963; ARRIBAS PALAU 1955, ID. 1975b, ID. 1984; MANCA 1971, 67-75. Sui rapporti tra Genova e i barbareschi anche PASTINE 1959 e BOUDARD 1960.

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La convenzione ispano-marocchina del 1780 prevedeva la possibilità di adesione da parte delle Due Sicilie – sul cui trono sedeva Ferdinando IV, figlio di Carlo III – divenuta effettiva nell’ottobre 1782. In quello stesso anno un accordo sarebbe intercorso fra il Marocco e la città di Amburgo, mentre nella primavera dell’anno seguente per la prima volta l’impero asburgico sottoscrisse un trattato con l’impero dell’estremo Maghreb (21). La rivoluzione francese e gli sconvolgimenti che ne seguirono sino al crollo dell’impero napoleonico mutarono notevolmente il quadro mediterraneo; nel rapporto con i barbareschi pensiamo soltanto alla fine della repubblica di Venezia (1797) e della presenza a Malta dei cavalieri giovanniti (1798). Proprio alla vigilia degli eventi rivoluzionari le incertezze e le ambiguità dell’Europa nel suo atteggiamento verso gli stati corsari maghrebini – delle quali abbiamo cercato di rendere una idea – trovarono una lucida e coraggiosa diagnosi nella Memoria del comandante di marina Bartolomeo Forteguerri (1751-1809). Di fronte alla alternativa implicita nel Sistema di pace e di guerra che le Potenze europee praticano con le Reggenze di Barberia (Napoli 1786) – questo il titolo completo della Memoria – Forteguerri riconobbe che l’impiego della forza non era riuscito sino allora a risolvere il problema (le recenti ostilità ispano-algerine ne erano state l’ultima conferma) e neanche gli accordi garantivano un risultato positivo poiché venivano facilmente disattesi. Si doveva dunque ricorrere ad una azione militare concorde e coordinata di una lega di stati europei (O più guerra come dice la Memoria) ovvero – e preferibilmente a parere del Forteguerri – si doveva offrire ai maghrebini la possibilità (O più pace) di avviare un nuovo rapporto con l’Europa, con la loro stessa partecipazione alla gestione di pacifici scambi commerciali e all’equo profitto che ne derivava. I ‘barbari’ – scrive il senese – «corrono il mare per fame, e per avidità di guadagni; se potranno saziare l’una, e l’altra con la reciprocità di un commercio, ben volentieri abbandoneranno l’antico sistema per il nuovo». Il progetto di “pace” – oggi diremmo di cooperazione economica – del Forteguerri sfocia nella radicale proposta: «Si regali al Barbaro un numero di bastimenti Mercantili, li si aprano i propri Porti per riceverlo, s’inviti al commercio», in tal modo si spera e si prevede che i maghrebini «allettati dal pacifico guadagno di merci portate ne’ nostri paesi, e di altre riportate ne’ loro, colpiti dal paragone dei loro deserti con le nostre delizie, cambieranno genio, e

(21) Per i rapporti con la Spagna fondamentale RODRIGUEZ CASADO 1946. Per il resto: BUSSI 1942 e ID. 1941; CAILLÉ 1960, 40-41 e 239-243 (testi), ARRIBAS PALAU 1968 e ID. 1980; BAASCH 1897, 91-111. Sull’ultimo trattato ispano-marocchino (1799): ARRIBAS PALAU 1959 e ID. 1981, 431-432.

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si renderanno eguali al resto della specie umana»; in queste espressioni si può intravedere, al di là della consapevolezza dello stesso autore, un «disegno di omologazione culturale e assoggettamento politico», definito da Calogero Piazza “proto-coloniale” (22). L’ambiguità presente in Forteguerri si ritrova, in misure e modi diversi, in effetti in molti degli scritti di varia natura – come relazioni di viaggio, racconti autobiografici di schiavitù, descrizioni e rassegne di carattere enciclopedico – che dai primi decenni del Settecento hanno trattato degli stati barbareschi, scritti che pur presentano segni evidenti di un atteggiamento diverso, rispetto a quelli del passato. Si scorgono anzitutto un interesse e una curiosità nuovi di conoscere meglio le vicende storiche, le forme e i modi di governo, gli usi e i costumi di vita dei paesi maghrebini, come parimenti accadeva per paesi ancor più lontani, meno noti e certamente percepiti come del tutto diversi. Vi è da rilevare infatti, anzitutto, una specifica difficoltà per gli autori del Settecento nell’inquadrare la regione barbaresca negli schemi geografici e culturali dell’epoca. Essa non era una «savage region», né «a land for exploration»; l’Europa aveva avuto e aveva con il Maghreb un contatto continuo, sì che esso risultava “familiar” e come «an integral part of Mediterranean civilisation», come ben evidenzia Ann Thomson, la cui analisi costituisce il più valido contributo specifico al riguardo. D’altra parte i preconcetti e i pregiudizi dei secoli passati, in qualche modo inglobati nello stesso termine ‘barbareschi’, e rivolti più in generale a tutto il mondo ‘turco’ (nel senso di musulmano) condizionavano e frenavano ogni disponibilità al superamento della visione tradizionale (23). Non si può che evidenziare – come qua e là anche noi faremo, seguendo la Thomson e altri – un apprezzabile tentativo di comprensione che in qualche autore, come Laugier de Tassy, arriva ad aperta confutazione delle accuse ‘rituali’ contro i barbareschi, specialmente per l’attività ‘piratesca’ di cui gli europei erano vittime, e persino ad espressioni di apprezzamento. Si potrebbe quasi intravvedere un ‘mito del buon corsaro’ (24). Quei giudizi favorevoli o almeno più moderati conducono talvolta a fiduciose speranze di un rapporto con i barbareschi su basi nuove. Quelle aperture – come abbiamo visto in Forteguerri e come vedremo, per richiamare un altro (22) Le citazioni da FORTEGUERRI 1786, 40-41. Sulla sua figura e sull’opera: PIAZZA 1988; la citazione da p. 674. BONO 1964, 423-424, segnalava l’opera senza soffermarvisi. Una voce è presente nel Dizionario Biografico degli Italiani, IL, Roma 1997, 147-150 (T. Iermano) che fa soltanto cenno ad uno scritto «dedicato alla pirateria» (con riferimento a una edizione datata Napoli 1797). (23) THOMSON 1987, 1-2; BRAHIMI 1971, ID. 1975, ID. 1976, ID. 1982. (24) LAUGIER DE TASSY 1725. Su di lui: BRAHIMI 1970 e cap. 2, 16.

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esempio, nel ben più famoso Raynal (25) – sfociano quasi sempre in atteggiamenti paternalistici che preludono ad aspirazioni e progetti ante litteram ‘coloniali’. A proposito dell’atteggiamento degli illuministi verso i barbareschi si possono invero trovare altri autori e testi degni di attenzione, in particolare fra quelli italiani. Vediamo, ad esempio, le pagine di Giuseppe Gorani nelle Ricerche sulla scienza dei governi (Losanna 1790) che attestano un ulteriore mutamento della percezione e del discorso sui barbareschi, delineatosi verso la fine del secolo dei Lumi e conclamato dagli inizi del nuovo. Con distacco, se non persino con palese contraddizione rispetto alle precedenti aperture, ci si esprime ormai pienamente a favore della repressione dei ‘pirati’ barbareschi, nella prospettiva di una diretta e permanente conquista europea, quale avrà inizio ad Algeri nel 1830. La trattazione dell’illuminista milanese sul Maghreb, che egli aveva percorso dal Marocco a Tripoli, si apre esplicitamente con il capo LI, “La guerra contro i pirati”; «di tutte le guerre giuste – vi si legge – la più giusta e la più necessaria sarebbe quella che costringesse i pirati barbareschi a cessare le loro piraterie, e che liberasse per sempre l’Europa da quel flagello». Si trattava di “forcer” i maghrebini a sottrarsi alla ‘tirannide’ e ad impegnarsi nello sfruttamento agricolo dei loro territori e nello sviluppo dei commerci (26). Anche i testi letterari italiani – dal teatro sino alla poesia – possono offrire spazio ad una ricerca sulla immagine del Maghreb nel secolo dei Lumi; in effetti, tutta la letteratura italiana che abbia per tema e cornice l’‘Oriente’ o, più specificamente, il mondo arabo-islamico mediterraneo o quello africano, non è stata ancora indagata, come è stato fatto invece, da tempo e adeguatamente, per le letterature francese, spagnola e inglese (27); abbiamo raccolto indicazioni e materiali e ne faremo forse qualche utilizzo. Ora non vi è spazio, se non per un cenno esemplificativo. (25) Su Raynal si veda il capitolo 9. (26) G. GORANI, Recherches sur la science du gouvernement, II, Paris 1792, 227-233 (cap. LI, De la guerre contre les pirates); la citazione da pag. 229. Su Gorani si vedano le ‘voci’ in Enciclopedia Italiana, XVII, Roma 1933, 546-547 (A. M. G.) e in Dizionario Biografico degli Italiani, LVIII, Roma 2002, 4-8 (E. Puccinelli) dove si fa cenno dei viaggi dell’ottobre 1764 «alla volta della Spagna e del Nordafrica». (27) Fra gli altri: BEN REJEB 1981-1982; C.D. ROUILLARD, The Turk in French History Thought and Literature, 1520-1660, Paris s.d. (1938); A. VOVARD, Les turqueries dans la littérature française. Le cycle barbaresque, Toulouse 1959; A. MAS, Les Turcs dans la littérature espagnole au siècle d’or, Paris 1967, voll. 2; M. A. DE BUNES IBARRA , La imagen de los musulmanes y del Norte de Africa en la España de los siglos XVI y XVII. Los caracteres de una hostilidad, Madrid 1989.

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Per il teatro ricordiamo Carlo Goldoni con Il genio buono e il genio cattivo, ovvero Arlecchino in Tripoli, di cui riportiamo la significativa replica del genio cattivo ad Arlecchino, timoroso di trovarsi in ‘Barbaria’: Qual apprensione vi reca questo nome di Barbaria? Credete che siano barbari i popoli di questa nazione? V’ingannate. Così si chiama questa parte dell’Affrica che contiene più regni; però si rispetta qui pure l’umanità e la giustizia (28).

Molto numerosi sono i testi teatrali, editi e inediti, che hanno per protagonisti o nei quali compaiono fra i personaggi, schiavi e schiave, cristiani e musulmani, del mondo maghrebino. A proposito di schiavi, ricordiamo per la poesia il componimento composto da Giuseppe Parini in occasione del riscatto di schiavi lombardi nel 1764 e del loro ritorno a Milano, dove, accolti dal popolo festante, in presenza del cardinale Pozzobonelli, così esclamano: Finor di Babilonia in riva ai fiumi lungi da te sedemmo, almo pastore; ma tra ’l pianto che a noi scende dai lumi tornavano a Sion la mente e il core. Le sagre cetre, in pria dolci e canore, pendean tacite intorno ai salci e ai duni; Chè, devote al Dio vero, avean orrore di risonar d’avanti ai falsi numi. ……………………………… Queste incallite man, queste carni arse d’Africa al sol, questi pie’ rosi e stanchi di servil ferro, questi ignudi fianchi onde sangue e sudor largo si sparse, toccano alfin la patria terra; apparse sovr’essi un raggio di pietade, e franchi mostransi ai figli, a le consorti, ai bianchi padri ch’ oggi lor duol senton calmarse. O dolce patria! o sante leggi! O sacri riti! Noi vi piangemmo alle meschite empie d’intorno, e ai barbari lavacri (29).

(28) C. GOLDONI, Opere complete, XXII, Venezia 1923, 123-124. (29) G. PARINI, Tutte le poesie, a cura di G. Mazzali, Milano 1968, 783.

capitolo due | 13

Ambasciatori, consoli, viaggiatori e mercanti

I contatti diplomatici, le trattative, le conclusioni di accordi fra i ‘pirati’ della costa africana e gli stati dell’Europa ‘civilizzata’, di cui abbiamo cercato di dare una idea, hanno suscitato nel corso del Settecento una serie di ambascerie fra l’Europa e il Maghreb, in ambedue le direzioni, nonché la nomina e la presenza permanente di consoli, in misura più diffusa e costante che non in passato. Non mancano ricerche e ricostruzioni su aspetti, episodi, figure che compongono il vario mosaico di rapporti ma non si dispone di un quadro complessivo. Fra le missioni europee nel Maghreb – non certo una novità del secolo – ricordiamo quella diplomatico-militare francese guidata ad Algeri nel 1731 dall’ammiraglio Duguay-Trouin, della quale fecero parte, fra gli altri, il nuovo console di Francia nella città maghrebina e il ‘cavalier’ Charles-Marie de la Condamine (1701-1774), autore di una relazione in proposito, dove riferisce sia dello svolgimento dell’evento sia di aspetti diversi di Algeri e della reggenza, per cui utilizzeremo qua e là il suo testo. Vi partecipò anche, con un ruolo più modesto, il Sieur de Tollot, che ne parlò nel suo Nouveau voyage fait au Levant ès-années 1731 et 1732 (Paris 1742), pubblicato all’epoca e piuttosto noto, ma in sostanza di scarso valore. La Condamine, un vero esponente dello spirito dei Lumi nella sua curiosità e in un certo suo enciclopedismo, informa fra l’altro con dettagli sulle modalità dell’incontro degli inviati francesi con il dey e sulle discussioni a proposito di alcune catture corsare, in vista del ristabilimento di buone relazioni e della fornitura di prodotti richiesti dal governo maghrebino. Nel testo, pubblicato soltanto nel secolo scorso, il trentenne la Condamine, destinato a divenir più noto per un suo viaggio nell’America meridionale, descrive altresì vari aspetti della città e della vita locale, con accenti di curiosità non disgiunti spesso da ironia (1). (1) BERBRUGGER 1867; EMERIT 1954. Sulla missione dello stesso la Condamine a Tunisi: BEGOUEN 1898. Sul la Condamine: Biographie universelle ancienne et moderne, IX, Paris s.d., 6-8 e Nouvelle biographie générale, XXVII, Paris 1858, 544-548 (A.d.L). Numerose nel corso del secolo le missioni diplomatiche francesi nel Maghreb (v. CAILLÉ 1951).

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Un’altra missione che ben conosciamo è quella di Nicolas Rosalem ad Algeri, dal settembre 1753 al dicembre 1754, significativo esempio, pur nell’esito negativo, dei metodi, lenti e prudenti, della diplomazia veneziana, e delle obiettive difficoltà derivanti dall’ormai consolidatasi concorrenza di altre potenze europee. Il governo veneziano si era reso conto che era vano confidare nelle pressioni e nella mediazione della Sublime Porta, alla cui influenza le reggenze barbaresche si andavano sempre più sottraendo, e tentò perciò di trattare direttamente con i governanti algerini mediante un emissario, il Rosalem appunto, già per un decennio console a Smirne, che cercò di farsi passare per un semplice mercante. I dispacci e la relazione da lui presentata al Senato veneziano, nonché altri documenti, ci informano su tutta la preparazione e lo svolgimento della missione nonché della situazione politica e militare di Algeri. A proposito dei rappresentanti diplomatici europei Rosalem così riferisce: Le consul de Hollande existe mais sans qu’il est de Hollandais ni aucun trafique; mais il joue le même rôle que ceux de Danemark et d’Autriche, et ce dernier a d’autant plus de prestige qu’il ne paie aucune contribution au gouvernement du Dey, son pays étant en paix avec le sultan de Constantinople (2).

Nel quadro delle relazioni fra gli stati europei e il Maghreb nel Settecento si estesero e si consolidarono stabili rappresentanze diplomatiche europee negli stati maghrebini, non senza qualche caso inverso. Divennero anche più frequenti le ambascerie maghrebine nei paesi europei, da quella, per esempio, del tripolino Izzaden Muhammad Efendi, in Olanda, ove soggiornò qualche mese, fra il 1734 e il 1735, visitando cantieri e fabbriche d’armi, a quella diretta verso una meta sorprendente, la Svezia, dove si recò nel 1779 il tripolino Haggi Abd er-Rahman Agha, il maggior diplomatico libico del Settecento, già ambasciatore a Vienna e poi a Londra (3). Una missione di notabili libici si recò in Olanda nel 1743 e fece omaggio di una sella moresca al pretendente Giovanni Guglielmo. L’anno dopo il tripolino Ibrahim Agha si recò alla corte di Londra per confermare la situazione di pace fra i due paesi, mentre sempre da Tripoli mosse verso l’Europa nel 1748

(2) SACERDOTI 1952, la citazione da p. 85; MARCHESI 1882, 17-21. (3) Manca un saggio biografico sul personaggio, citato passim nelle diverse storie di Tripoli, come CAPPOVIN 1942. Un eco dei rapporti con la Svezia nella Geschichte di A.L. Schlözer (vedasi cap. 11). Su una ambasceria tunisina in Francia nel 1777: CONOR e GRANDCHAMP 1917, su quella del 1743: GRANDCHAMP 1931.

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l’ambasciatore straordinario Ali Efendi, recatosi in visita in Toscana (era sbarcato a Livorno) e poi in Olanda (4). Nei rapporti fra la Spagna e l’impero del Marocco una importante missione diplomatica la svolse l’ ‘almirante’ Jorge Juan y Santacilia, incaricato fra l’altro, nel novembre 1766, di definire i confini delle basi spagnole nel territorio dell’impero e di avviare trattative per un accordo di pace. Per questo, fra il 1766 e l’anno successivo, si recò in Spagna l’ambasciatore Ahmad al-Gazzàl, del cui lungo itinerario nella penisola iberica sono state studiate le varie tappe, fra cui Siviglia, Cordoba, Granada; il diplomatico marocchino ne stese una relazione dal titolo Conseguenza dello sforzo nella ricerca della pace e nella guerra; il trattato fu segnato in effetti a Marrakesh il 28 maggio 1767 (5). Ancor più rilevante la missione di Sidi Muhammad ibn Uthmàn al-Miknasi, conclusasi con la firma del convenio de Aranjuez, il 30 maggio 1780, premessa per il trattato di pace del 1782, già menzionato; la missione proseguì a Malta e a Napoli alla corte di Ferdinando IV. Sulla via del ritorno in Spagna il maltempo costrinse il veliero a riparare a Palermo, nel dicembre 1782, e qui l’ambasciatore, entusiasta per la città e la sua gente, restò sino alla primavera dell’anno 1783. Lo stesso autorevole diplomatico tornò in Spagna un decennio più tardi, a trattare in nome del nuovo sultano, Maulay al-Yazid, ma Carlo IV preferì la via della guerra, dichiarata nell’agosto 1791 (6). Sulle missioni in Spagna e nel regno di Napoli (come pure su quella a Istanbul fra il 1785 e il 1786), il diplomatico marocchino redasse tre relazioni. Dell’ultima sono state rese in italiano le pagine concernenti l’arrivo e il soggiorno a Palermo, con annotazioni sulle visite compiute e su qualche aspetto della vita in città, della quale apprezzò molto la struttura urbanistica, i giardini, l’ottimo carattere degli abitanti «gioviali, spontanei, di indole buona e pieni di premure nei confronti di chi arrivava in città» (7). (4) FÉRAUD 1927, 241; PIAZZA 1987, 543, 549. (5) PONTÓN 1869; RODRÍGUEZ CASADO 1946, 69-133; BAUER 1951; CAILLÉ 1960, 34 e 184-187 (testo del trattato); A RRIBAS PALAU 1981, 420-424, con ricche indicazioni bibliografiche, ID. 1985, ID. 1981, PÉRÈS 1930, 19-40; VILAR e LOURIDO 1994, 272-276; GORGUOS 1861. Nella visita in Spagna l’ambasciatore musulmano era stato accompagnato dal padre Bartolomé Girón de la Concepción su cui RODRÍGUEZ CASADO 1946, 50-67 e ARRIBAS PALAU 1975a; più in generale si veda LOURIDO DÍAZ 1974. Su altri scambi di ambascerie fra i due paesi: ARRIBAS PALAU 1953, ID. 1972, JUSTEL CALABOZO 1987 e MORALES 19131914. Su una ambasceria britannica: JOHSTON 1930. (6) RODRÍGUEZ CASADO 1946, 285-306; ARRIBAS PALAU 1981, 426-427, ID. 1979, ID. 1980, ID. 1981, VILAR e LOURIDO 1994, 326-329; IBN UTHMÀN 1783; FRELLER 2002. (7) IBN UTHMÀN 1783, 33. Su una missione marocchina in Toscana nel 1778: PIAZZA 1978, su un’altra a Vienna nel 1783: CAILLÉ 1962.

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Fra i rappresentanti consolari europei nel Maghreb spiccano alcune figure, come Jacques Philippe Laugier de Tassy, cancelliere del consolato francese per neanche sei mesi (fra gennaio e luglio del 1718) e della cui biografia conosciamo ben poco; di lui però divenne ed è diffusamente nota l’Histoire du Royaume d’Alger (Amsterdam 1725), pervasa – come abbiamo già rilevato – da una disponibilità del tutto nuova a guardare e descrivere i barbareschi senza gli inveterati stereotipi del passato (8). Altrettanto meritevole di maggior fama appare il console toscano-asburgico Carlo Antonio Stendardi, nativo di Siena, i cui scritti ebbi occasione di ‘scoprire’ nel 1965 ed al quale è dedicato un successivo capitolo (9). Un importante scritto su Tripoli, la Histoire von het Rijk van Tripoli in Barbarijen ci è stata lasciata dal rappresentante “delle Province Unite”, Philippe Gerbrands, agente a Tripoli dal 1713 al 1750, dopo esser stato a Livorno dal 1699 come assicuratore e mercante; l’opera, inedita, ha un certo rilievo per le vicende della prima metà del Settecento. La missione di Gerbrands ebbe «per centro ideale» il trattato di commercio e navigazione concluso fra Tripoli e le Province Unite il 4 ottobre 1728, ma nella sua ben lunga permanenza intervenne più volte a favore anche di altri paesi europei acquistando stima e gratitudine. Nel 1735 anche il governo di Danimarca e Norvegia nominò un rappresentante a Tripoli, il britannico John Smith (10). Più saltuarie, meno autorevoli e forse anche per questo meno note, le stabili rappresentanze diplomatiche barbaresche nei paesi europei. Sparse notizie su “consoli e procuratori” tripolini e tunisini nel regno delle Due Sicilie le ha accuratamente raccolte Ferdinando Buonocore. Non di rado qualcuno si attribuiva o ambiva a quel titolo, più o meno fondatamente; in qualche caso si (8) LAUGIER DE TASSY 1725. Il sottotitolo della edizione della Histoire curata da N. Laveau e A. Nouschi (Paris 1992) recita: Un diplomate français à Alger en 1724, ma il suo breve soggiorno si svolse invero nel 1718, come gli stessi curatori riferiscono. Su Laugier si veda BRAHIMI 1970. (9) Vedi cap. 8. Su un predecessore di Stendardi, il console William Plowman: SOUMILLE e PEYRAS 1972. Fra i più attivi rappresentanti della Spagna in Marocco va ricordato il console Juan Manuel González Salmón, sul quale RODRÍGUEZ CASADO 1946, ad indicem, e LOURIDO DÍAZ 1989, ad indicem. Sui consoli britannici, e in particolare J.M. Matra: DANZIGER 1982. Sul console Anthony Hatfield (1717-1728): MEUNIER 1980; su un console britannico degli inizi del secolo, Robert Cole: BROMLEY 1987, e prima PLAYFAIR 1884, 165-171. Un giudizio critico sui «defects of her diplomatic organization» (della Gran Bretagna) in ANDERSON 1956. (10) BONO 1982, 101 segnalò il testo di Gerbrands; studiato poi da PIAZZA 1987, 535 e passim e ID. 1987a. Gerbrands fu anche console della repubblica di Ragusa; documentazione in proposito l’abbiamo consultata nell’Archivio di Stato di Dubrovnik (Lettere e Commissioni di Ponente) in parte utilizzata da MIOVIþ-PERIþ 1993-1994. ROSSI 1968, 241.

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trattava di personaggi fra l’avventuriero e il millantatore. Così può dirsi del greco Haggi Demetrio Marcacchi, che aveva soggiornato qualche anno ad Algeri, dove si era islamizzato, giunto a Livorno a fine maggio 1758 dicendosi inviato straordinario e console del dey algerino; superati diffidenze e sospetti, dovuti alla assoluta “novità” del caso di uno stabile rappresentante maghrebino nel granducato, e ad alcuni atti e modi insoliti del suo comportamento, fu accettato nella speranza che la sua presenza valesse a «mantenere la buona armonia» con la reggenza algerina, in concreto a favorire la ripresa degli scambi commerciali. Trasferitosi a Firenze vi restò sino al 1765, quando una crisi dei rapporti toscano-algerini pose fine alla sua attività di ‘agente politico’, così accuratamente ricostruita da Calogero Piazza (11). Fra i rappresentanti diplomatici europei nel Mediterraneo nel secolo XVIII il più illustre è forse James Bruce de Kinnaird (1730-1794), che fu console generale ad Algeri dal 1762 sino all’agosto 1765, ma è certamente noto per i suoi successivi viaggi in Africa. Dimessosi, intraprese ampie ricognizioni nei territori di Algeria, Tunisia e Tripolitania. Sugli itinerari e gli scritti di Bruce siamo informati – ma resta ben lo spazio per ulteriori indagini – grazie all’impegno di un suo successore nella sede consolare di Algeri, il noto ‘bibliografo’ degli stati barbareschi tenente colonnello R.-L. Playfair (12). Fra i consoli di Francia nel Maghreb una certa notorietà l’ha avuta, per il cognome che portava, Louis de Chenier (1722-1795), giunto in Marocco nel 1767 – al seguito dell’ambasciatore conte de Breugnon – e rimasto a Salé sino al 1782, impegnandosi soprattutto a favorire le attività commerciali dei suoi compatrioti, come dimostra la sua corrispondenza con la Chambre de Commerce di Marsiglia, ma anche a condurre indagini storiche, i cui risultati sono raccolti nei tre volumi delle Recherches historiques sur les Maures et Histoire de l’Empire du Maroc (Paris 1787). Chenier era giunto in Marocco con moglie e figli, Marie-Joseph di tre anni e André (1762-1794), allora di cinque anni, noto come poeta e specialmente per la tragica storia di cui fu vittima negli anni del terrore rivoluzionario (13). (11) BUONOCORE 1976; PIAZZA 1982-1983. (12) BERBRUGGER 1862; PLAYFAIR 1878, 409-433, ID. 1884, 192-201, che ha ritrovato presso gli eredi del viaggiatore appunti e note, alcuni riguardanti il Maghreb. Su Bruce v. Dictionary of National Biography, III, London 1908, 98-102. (13) LOURIDO DÍAZ 1989, 464-478, HUGUET 1921, CHARLES-ROUX 1955, 23-25; CAILLÉ 1956. Sulla missione del conte di Breugnon: BAUDRY 1906. Di un console francese a Algeri, dal 1773 al 1782, il sieur Langoisseur de la Vallée, si è occupato CAZENAVE 1936. Ben studiata da GRANDCHAMP 1921 la missione nel Maghreb di Pléville – Le Pelley (1793-1794), e da CHARLES ROUX 1928 quella ad Algeri nel 1795 di un rappresentante del Direttorio, il col.

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Il mutamento complessivo dei rapporti fra l’Europa e il Maghreb si riflette in un altro aspetto significativo, al quale anche vogliamo, pur sempre rapidamente, accennare: l’arrivo nel Maghreb di un maggior numero di ‘viaggiatori’, appartenenti a svariati paesi europei. Essi non furono condotti in quelle terre da circostanze fortuite ma mossi dal desiderio di ‘conoscere’ quella regione, sia pur con interessi diversi (naturalistici, archeologici, o persino militari). Secondo la precisazione testé espressa non dovremmo iniziare questi cenni, talvolta soltanto di poche righe, con il nome del bavarese Theodor Krump, giunto in effetti a Tunisi nell’aprile 1700 in quanto missionario francescano diretto verso l’Etiopia per svolgervi il suo compito pastorale. Della sosta in Tunisia, durata un mese, il missionario tedesco diede conto nel volume pubblicato (Augsburg 1710) dopo il ritorno dall’Etiopia, dall’immaginoso e lunghissimo titolo che inizia: Hoher und Fruchtbarer Palm-Baum des Heiligen Evangelii […] (Alta e feconda palma del Santo Evangelo). Il volume, che offre descrizioni e notizie su Tunisi e Sousse, donde l’autore proseguì il viaggio verso l’interno dell’Africa, ha comunque felicemente attratto l’attenzione di Mounir Fendri – diligente studioso di Trois voyageurs allemands en Tunisie – che ne ha rilevato l’ammirazione per la Tunisia come «un petit paradis terrestre», non disgiunta però dal rammarico – affiorante in molti viaggiatori europei dell’epoca, e anche posteriori – che essa fosse, come gli altri paesi del Maghreb «peuplée par de telles brutes (Bestien) et de telles nations barbares» (14). In questa rapida ‘carrellata’ di viaggiatori, accostiamo alcuni nomi ben poco noti, per non dire sconosciuti, ad alcuni invece più o meno meritatamente noti o persino famosi. Ai noti appartiene, per esempio, Jean-André Peyssonnel (1694-1759), che fu nel Maghreb fra il 1724 e il ’25, un uomo colto, con interessi prevalentemente naturalistici, dotato di mezzi sufficienti per effettuare il viaggio a sue spese, nell’intento di raccogliere esemplari della flora locale ma anche notizie sulla geografia, la storia, l’archeologia. Il resoconto, dal titolo Voyages dans les régences de Tunis et d’Alger, pubblicato per la prima volta nel 1838, si presenta sotto forma di lettere a diversi destinatari, datate in maggioranza da Tunisi e le altre rispettivamente da Capo Negro, La Calle (due), Algeri, Bona. La curatrice di una edizione dei nostri gior-

d’Herculais; sulla successiva missione a Tripoli: ID. 1929. Nella stessa epoca agivano a Tunisi Étienne Famin, su cui GERIN-RICARD (DE) 1905 e Jacques Devoize, su cui GRANDCHAMP 1922; sul periodo rivoluzionario: DEGROS 1991. Molto interessante la prospettiva di ricerca del recente volume di WINDLER 2002 sui consoli francesi nel Maghreb dal 1700 al 1840. (14) FENDRI 1984, 1984a e 1986.

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ni, Lucette Valensi, ha rilevato che il testo, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, dedica ben poco spazio (circa il 5 per cento) agli aspetti naturalistici e sanitari, qualcosa in più alla storia (6,4 per cento), un buon sesto all’archeologia (quasi il 17 per cento), alla geografia quasi un terzo e alla etnografia più di un terzo. «Ce sont principalement – ella afferma – les hommes, leurs manières de table, leur mobilier, leur costume, leurs techniques, les formes sociales et politiques, les croyances religieuses, qui retiennent l’attention de Peyssonnel» (15). Nel febbraio 1732 giunse ad Algeri un gruppo di ricercatori tedeschi; ne facevano parte il medico Johann-Ernst Hebenstreit (1702-1757), di Lipsia – di cui parleremo – il botanico Christian Gottfried Ludwig, l’anatomista Zacharias Philip Schulze ed inoltre un disegnatore, un pittore e un meccanico. Il loro viaggio era compiuto per conto del principe Federico di Sassonia per raccogliere anzitutto “uccelli curiosi e rari animali”. Da Algeri passarono in Tunisia e qui visitarono anche Sfax e Gerba, facendo una puntata a Tripoli (settembre-dicembre 1732). Gli scritti del capo missione Hebenstreit e di altri membri – essi visitarono anche città dell’interno algerino come Médéa e Miliana – sono stati parzialmente editi nel corso del tempo, ma tutto è rimasto ben poco noto sino ai nostri giorni quando lo studioso tunisino già ricordato ne ha fatto una interessante presentazione d’insieme, dove conclude: Il est déplorable que ce voyage, qui se présente à la fois comme une véritable expédition à caractère scientifique, officiellement organisée et systématiquement exécutée, soit resté si peu connu chez nous, en dépit des résultats auxquels aboutirent des chercheurs allemands depuis déjà longtemps (16).

Nel viaggio da Algeri alle città di Médéa e Miliana, Hebenstreit aveva accettato l’aggregazione al gruppo di un pastore anglicano, Thomas Shaw (16921751), residente ad Algeri da un decennio come cappellano della piccola comunità britannica. La curiosità del religioso inglese in campo archeologico e naturalistico lo spinse a viaggiare per il paese raccogliendo notizie, esemplari di piante e animali, reperti vari. Qualche anno dopo il ritorno in patria egli pubblicò il volume Travels and Observations relating to Several Parts of Barbary and the Levant (Oxford 1738), un’opera diffusa ed apprezzata anche all’estero, dove

(15) PEYSSONNEL 1724-1725, 19; MONCHICOURT 1916; RAMPAL 1907, 23 e ID. 1917. (16) FENDRI 1984a (la citazione da p. 113). Fendri afferma che trattasi di Federico Augusto I, o Augusto II, come re di Polonia.

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l’autore parla poco di sé e dei suoi itinerari ma fornisce notizie precise su diversi aspetti del paese (17). Nella seconda metà del secolo la schiera dei viaggiatori si infittisce. La costa barbaresca fu percorsa e descritta persino dall’ufficiale della marina russa Matvéï Grigorievitch Kokovtsov nel testo Description de l’Archipel et de la Côte Barbaresque (Saint-Pétersbourg 1786). I viaggi che ci interessano si svolsero nell’estate del 1776 e del 1777 durante un periodo di congedo ma egli aveva già navigato per molti anni nel Mediterraneo a partire dal 1765, sulle galere di Malta e poi sulle prime navi russe entrate nel grande mare interno (nel 1770 si trovò a partecipare alla battaglia di Tchesmé). Il giovane ufficiale russo pubblicò anche delle Informations véridiques sur Alger, sur les mœurs et coutumes de son peuple, sur l’état de son gouvernement […], Saint-Pétersbourg 1787, più estese (144 pagine) dell’opera all’inizio citata e verosimilmente più ricche di dati; il testo non sembra tuttavia reperibile nelle biblioteche occidentali (si troverà verosimilmente in una dell’antica capitale russa). Lo scopo effettivo delle ricognizioni potrà essere chiarito da ricerche negli archivi russi, se già non effettuate. Sembra valido il giudizio di chi lo ha ‘scoperto’: «Son voyage, dont le motif apparent était une curiosité de touriste et d’archéologue, avait sans doute un but politique» (18). Dopo l’ufficiale russo ci piace menzionare un altro poco noto viaggiatore tedesco nel Maghreb, per sottolineare che anche uomini di paesi non prossimi al Mediterraneo sono giunti sulle rive del grande mare, attratti da curiosità o da interessi e compiti di varia natura. Nel caso dei tedeschi, e in particolare del barone Johan von Rehbinder, che restò ad Algeri quattro anni, spicca la cura di essere precisi ed esaustivi nelle informazioni raccolte e riferite. Nelle ‘Notizie e osservazioni’ su Algeri (Nachrichten und Bemerkungen über den algierschen (sic) Staat, Altona 1789-1800, tre volumi) il nobile tedesco profuse nelle quasi tremila pagine un eccezionale impegno e scrupolo, come mostra già la dimensione dell’opera, forse talvolta sovraccarica e troppo erudita. Il primo volume è dedicato alla descrizione geografica e alle osservazioni etnografiche, il secondo alla storia, dall’antichità ai suoi tempi, il terzo infine al governo e all’amministrazione nonché alla realtà sociale ed economica della reggenza. In una succinta presentazione dell’opera, una settantina di anni fa, si

(17) PLAYFAIR 1878, 405-407; Dictionary of National Biography, XVII, London 1909, 13841385. (18) CANARD 1951, 127 e EMERIT 1975, che cita il secondo volume come Description fidèle d’Alger e ne dà un indice. Sull’attenzione franco-russa verso la costa maghrebina: MICACCHI 1938.

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affermava che il testo, nonostante tutto, avesse una propria “valeur documentaire” (19). Alle opere meno note si alternano nella successione cronologica quelle invece più diffuse ed utilizzate dagli studiosi, come il Voyage en Barbarie dell’abate Poiret, riedito anche ai nostri giorni a cura di Denise Brahimi. Il volume è strutturato in forma di ‘lettere’ (in tutto XXIX) a diversi corrispondenti; in ciascuna l’autore svolge uno o più argomenti, non di rado tornandovi sopra in altre lettere. Vi si parla dell’ambiente naturale, di usi e costumi della popolazione locale, di pestilenze e pratiche mediche, con riferimento specialmente ai ‘Mauri’ cioè ai berberi delle zone montuose. L’abate Poiret risiedeva a La Calle, uno stabilimento commerciale francese sulla costa, al confine fra Algeria e Tunisia, e da lì compì numerose puntate verso l’interno e verso altre località della costa orientale, come Collo, Bugia, Bona. In numerose pagine egli analizza la vita della piccola comunità francese di La Calle, chiusa in sé stessa e segnata dall’assenza dell’elemento femminile. Di ciò che scrive, l’abate ha avuto quasi sempre diretta visione e esperienza, non senza sopportare gravi disagi, come più volte confessa; di alcuni luoghi tuttavia scrive in base a ciò che gli è stato riferito. Al tempo stesso riconosce i pregi della sana vita locale: «voilà – scrive nella lettera VIII – de ces plaisirs que je n’oublierai jamais, de ces plaisirs inconnus à quiconque ne sait dormir que dans le fond d’une ténébreuse alcôve»; altrove parla di emozioni e piaceri «que l’on ne connaîtra jamais dans un pays cultivé». Subisce insomma, come tutta la cultura del secolo dei Lumi, il fascino di quel mondo che pur definisce “barbaro” e “selvaggio”. Nella vivace e intelligente analisi condotta nella lunga prefazione, l’abate è così giudicato: «C’est un homme qui porte en lui tout ce que le XVIIIe siècle finissant charrie de rêves et de théories, de désirs et de principes, d’espoirs et d’appréhensions. A sa mesure, modestement» (20). Un voyage en Barbarie au XVIIIe siècle venne segnalato, come anonimo, sulla “Revue Tunisienne” del 1910. Del testo, pubblicato nella “Collection de voyages faits autour du Monde”, si dice che si presenta sotto forma di lettere, la prima da La Calle, 19 maggio 1785, scritte da un ‘ecclesiastico’. Già questi dati fanno capire che si tratta del Voyage dell’abate Poiret, come peraltro confermano i diversi passi poi citati. Non si tratta dunque di un altro anonimo testo settecentesco; di esso comunque resta da fare, ci sembra, un attento riscontro comparativo con le lettere dell’abate (21). (19) MERSIOL 1932, 309; THOMSON 1987. (20) POIRET 1785-1786, 87 e 12. (21) CARTON 1910.

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Nell’ambito dei rapidi cenni, perlopiù esemplificativi, su diversi aspetti di presenze e relazioni reciproche fra Europa e Maghreb, non vogliamo tacere del tutto gli scambi commerciali, tema ancora non adeguatamente indagato, pur se negli anni più recenti si è registrato qualche apprezzabile progresso (22). Anche nel commercio fra le due parti sembra verificarsi un incremento nel corso del secolo, accertato almeno per l’ultimo decennio; indagini specifiche potranno confermarlo. Sta anzitutto il fatto che nel secolo in questione vediamo una serie di accordi e trattati internazionali che sin dalla intestazione dichiarano di attenere al commercio (23) e che il commercio dei barbareschi si estese a paesi anche lontani dal Mediterraneo, le cui navi o comunque la rete dei loro interessi giunsero nel grande mare; si pensi, per esempio, alla Svezia. In altri casi vediamo che il reciproco interesse nell’intrattenere e potenziare scambi commerciali fece superare o comunque convisse con la guerra corsara, così nel caso di Tunisia e Malta (24). Le correnti di scambio più intense persistevano complessivamente, come è ovvio, con i paesi più vicini; altri fattori però potevano influenzarne l’andamento. Proprio nel Settecento la Catalogna, e in particolare il grande porto di Barcellona, raggiunsero l’apice del loro rapporto commerciale con il Maghreb, come ha mostrato Eloy Martín Corrales nel suo ponderoso lavoro (25). Fra i prodotti che i paesi europei importavano da quelli maghrebini erano al primo posto i cereali, il grano anzitutto, poi l’orzo (fra gli altri generi alimentari olio e datteri), cuoi e pellami, lana, cera, corallo, spugne. La Tunisia, più che gli altri paesi, esportava anche prodotti del suo artigianato, come generi di abbigliamento, in particolare gli chéchia (tipico copricapo a coppa); da Tunisi a Malta inoltre negli anni ’60-’70 vennero esportati bovini e altri capi di bestiame vivi, anche mille-duemila l’anno! Per la Catalogna furono molto importanti le forniture di grano, specialmente da Algeri. Il grano diveniva un prodotto prezioso quando cattive annate o altre circostanze ne suscitavano il bisogno; forniture, a uno o altro titolo, potevano anche andare da un paese maghrebino a favore di un altro, per esempio dal Marocco a Tripoli. Fra il

(22) La scarsa conoscenza del tema è lamentata, ad esempio, da BDIRA 1977, 41 e da MARTÍN CORRALES 1986, 253. Fra gli studi più recenti PANZAC 1992-1993 e TLILI SELLAOUTI 2003. (23) Osservazioni a proposito delle disposizioni concernenti il commercio nei trattati con i barbareschi in MÖSSNER 1968, 144-145. (24) BDIRA 1977, VALENSI 1963. (25) MARTÍN CORRALES 2001, 196-204 (Auge de los intercambios comerciales con el norte de África: 1705-1767/1782); ID. 1986; ARRIBAS PALAU 1988.

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1785 e il 1787 un ambasciatore tripolino dirottò slealmente a Malaga una partita di grano marocchino destinato al suo paese; il sovrano del Marocco se ne risentì anche nei riguardi degli olandesi, le cui navi avevano effettuato il trasporto (26). Le importazioni degli stati maghrebini erano per contro piuttosto esigue a causa delle scarse disponibilità finanziarie dei barbareschi, sia a livello pubblico che privato. Se ne trova attestazione in numerose fonti: così nel 1717 un dispaccio del console francese affermava che il paese era «fort misérable et par conséquent de peu de consommation pour quelques marchandises que ce soit». Più tardi, nel 1731, un altro rappresentante della Francia osservava che il commercio algerino era «entièrement ruiné». In paragone ad Algeri il mercato tunisino assorbiva importazioni dall’Europa in quantità e valore maggiori, e la gamma delle importazioni era ben più varia: tessuti diversi, maioliche, marmo (specialmente dall’Italia), carta, chincaglierie, metalli diversi, armi (27). Nelle relazioni commerciali, cui abbiamo accennato, figure individuali o di famiglie e ditte compaiono forse meno che non in altri secoli. Se ne ritrovano comunque, pur se le indagini storiche sono ancora poco sviluppate, come si è detto. Citiamo allora qualche nome, almeno per giustificare di aver scritto “mercanti” nel titolo di questo paragrafo. Una famiglia ebraica, i Sitbon (Giuda, Samuele e Elia) era molto attiva a Tunisi nella seconda metà del secolo; li segnala Lucette Valensi, che peraltro afferma: «On sait peu de choses des négociants qui participent au commerce entre les deux pays», Malta e Tunisi precisamente (28). Si è parlato prima di consoli e ora di mercanti. Ma nel Maghreb del Settecento, come già in precedenza, le due qualifiche spesso si assommavano in una stessa persona. È indicativa la ‘carriera’ dei fratelli Chiappe, genovesi. Francesco, il più noto, iniziò da commerciante, insieme al fratello Giuseppe, a Mogador nel novembre 1770, e un decennio dopo conseguì la carica di wakìl (commissario) per il commercio in quella località; nel 1784, infine, divenne un ‘segretario’ del sultano per gli affari esteri. Giuseppe divenne console a Mogador dal 1779. Giacomo Girolamo Chiappe venne in Marocco come cancelliere del vice-consolato di Venezia e qualche anno dopo fu nominato egli stesso

(26) VALENSI 1963, MARTÍN CORRALES 2001, LOURIDO DÍAZ 1976a; ARRIBAS PALAU 1980a, ID. 1984b; VEAUVY 1991. Su una partita di cera marocchina venduta a Cadice nel 1787: ARRIBAS PALAU 1984a. (27) AMINE 1993; citazioni da p. 14; VALENSI 1963. (28) Ivi, 81.

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vice-console a Tangeri. Un quarto fratello, Giovanni Battista, fu insieme mercante e vice-console di Genova a Casablanca, sorta in quel tempo, ma ne fu espulso per un coinvolgimento in contrabbando. Una compagnia di commercio genovese, presieduta dal marchese Francesco Saverio Viale, operò in Marocco in quel tempo, specialmente a Mogador ma ebbe suoi agenti a Tetuàn, Marrakech e altrove (29). Fra i mercanti, cui è stata prestata specifica attenzione da parte degli studiosi, ricordiamo il marsigliese Simon Merlet a Tunisi (1693-1741), il tolonese Pierre Joseph Meifrund, attivo ad Algeri per un trentennio (1752-1782) specialmente nella compravendita e nel noleggio di navi catturate dai corsari, e ancor più avanti nel secolo un altro francese, Jacques Sicard, buon conoscitore del Marocco dove agì fra molte difficoltà per conto della ditta marsigliese Rabaud e Co.; dal 1792 si trasferì a Safi e pensava di tornare in Francia ma nel 1798 era ancora lì e forse vi morì (30). Rileviamo infine che i maghrebini rimasero quasi del tutto estranei alla gestione del trasporto delle loro esportazioni; in particolare nell’ultimo decennio del secolo alcuni mercanti tunisini noleggiarono navi per la consegna delle merci esportate, tendenza che sarà poi confermata sino al 1815 (31). Nell’insieme del commercio aveva un ruolo non trascurabile l’acquisto delle prede corsare, anzitutto delle stesse imbarcazioni, da parte di mercanti e mediatori europei, come già in passato. Per la nostra epoca ce lo attesta, fra gli altri, l’inviato veneziano Rosalem: D’ailleurs tous les consuls, le cas échéant, concourent à l’achat de prises des corsaires, et en cela se distinguent particulièrement MM. Logie et Fordt avec les moyens les plus puissants (32).

(29) DE LEONE 1963 e ARRIBAS PALAU 1976, ID. 1978, ID. 1984. (30) BOUBAKER 1984, DEVOULX 1872c, 381-384; PARÈS 1931; HOSOTTE-REYNAUD 1957. (31) EMERIT 1955; FILIPPINI 1977; TLILI SELLAOUTI 2003; PANZAC 1999. (32) SACERDOTI 1952, 85-86. I consoli citati rappresentavano rispettivamente la Svezia e l’Inghilterra.

capitolo tre | 25

Minacce corsare sulle coste europee e maghrebine

Dagli ultimi decenni del Seicento, e per tutto un secolo, la guerra corsara nel Mediterraneo andò declinando, rispetto alla intensità segnata dai primi decenni del Cinquecento e sino ad allora. Declina sì, ma non scompare affatto. Non solo le rotte consuete dei legni mercantili europei, specialmente nel bacino occidentale, permangono sotto una minaccia pressoché costante, come già in passato, con la frequente preda di legni, di genti e di merci trasportate, ma anche le coste delle penisole e delle isole italiane e iberiche subiscono di tanto in tanto sbarchi di corsari e catture d’uomini e donne. Specularmente all’attività maghrebina, persiste una azione europea di difesa e di attacco nei confronti degli stati barbareschi ed anche le coste e le acque maghrebine subiscono minacce e incursioni, sia pur con minore continuità ed intensità rispetto a quelle subite dalle terre europee. Gli europei – cavalieri di Malta e cavalieri di Santo Stefano in testa – spingono invero le loro squadre navali e le loro azioni corsare a preferenza verso il Levante, dove la navigazione e i commerci offrono prede più ricche (1). Cercheremo di dare ora una visione panoramica ed esemplificativa dell’attività corsara degli uni e degli altri, barbareschi ed europei (2). Incursioni contro terre d’Europa Come per il passato, le isole, grandi e minori, furono molto esposte alla minaccia corsara anche nel Settecento. Per la Sardegna si trattò perlopiù, sino alla fine del secolo, di episodi di modesto rilievo; nel 1798, invece, l’isola di Sant’Antioco fu vittima di una delle più clamorose gesta dei corsari maghrebini, come diremo. Alcuni episodi, risoltisi infine a favore dei sardi, attestano comunque che i corsari erano soliti approssimarsi alle coste e tentare sbarchi e prede. Nel giugno 1726 due galeotte corsare, verosimilmente maghrebine, effettuarono uno

(1) Si veda, ad esempio, BONO 1991 (vedi nota 58). (2) BONO 1993 offre un quadro dell’uno e dell’altro versante del fenomeno.

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sbarco sulla costa sarda ma vennero catturate: nel 1736 una galeotta, colpita da una torre costiera nei pressi di Teulada, dovette prendere terra e restò preda dei sardi, come gli uomini che erano a bordo. Persino gli abitanti di Cagliari temettero nel 1743 «che non fossero di notte aggredite le parti non cinte di muraglie»; galere e galeotte maghrebine frequentavano le acque di Sardegna e non di rado restavano vittime del loro ardimento. Nell’avvicinarsi alle coste i corsari maghrebini correvano sempre qualche rischio: una galeotta di Biserta nell’estate 1753 restò preda, nelle acque sarde, della squadra sabauda ed un’altra fece la stessa fine l’anno seguente (3). Uomini e bestiame furono preda dei corsari sbarcati nel 1762 nelle spiagge di Siniscola e di Orosei nonché alla torre di Serpentara. Nell’ottobre dell’anno dopo fu di nuovo minacciata la torre di Portoscuro, alla punta meridionale dell’isola, ma la pronta reazione degli abitanti di Teulada limitò i danni. Nel 1764 i barbareschi molestarono le marine dell’Ogliastra e anche questa volta non mancò l’intervento di milizie locali e soprattutto di tre galere di Malta di stanza nella rada di Cagliari, le quali catturarono tre galeotte mentre una riuscì a fuggire; lo scontro costò sei morti e undici feriti ai maltesi, 49 morti e 46 feriti ai tunisini; un centinaio furono fatti prigionieri. Una quarantina di teuladini respinsero nel 1768 le ciurme, sbarcate a terra, di una mezzagalera e di una saettia. È ragionevole pensare che lo storico Pietro Martini, cui dobbiamo le notizie riferite, abbia riportato piuttosto le vittorie dei sardi che non altri episodi, nei quali i maghrebini avevano effettuato prede senza subire danni (4). Modesti danni, ma grande paura, provocò una numerosa squadra tunisina, che nell’estate del 1772, si soffermò più giorni nel golfo di Cagliari, dove predò alcuni piccoli legni. Si sparse la voce, ed accrebbe il timore, che due sardi rinnegati, dunque pratici dei luoghi, guidassero le squadre barbaresche. Come narra, ancora una volta, il nostro Martini, di nuovo nel 1777 il coraggio dei sardi ebbe ragione dell’ardire dei barbareschi: «tentatosi da una forte galeotta uno sbarco nell’isola dell’Asinara, quegli sparsi abitatori si posero in armi, l’attaccarono a fucilate, e benché orrendamente fulminati dalla galeotta, la fecero allontanare dal lido». Non si arrestò comunque la minaccia maghrebina: nell’agosto 1787 una galeotta corsara, dopo uno scontro accanito, restò nelle mani dei sardi e sorte simile toccò nel 1791 ad una grossa galeotta con sessanta uomini (27 restarono prigionieri, gli altri perirono). Sin nei mari di Corsica la squadriglia sarda inseguì, nel 1792 e nel 1794 rispettivamente, due galeotte

(3) MARTINI 1861, 234-235; ASRm, Epistolario, Civitavecchia, 68, 12 giugno 1726. (4) MARTINI 1861, 235-236 e 238-239.

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(una predata, l’altra sfuggita) e due sciabecchi; di questi, uno restò in mano ai sardi, l’altro dagli stessi maghrebini fu fatto saltare in aria (5). Per la sua posizione geografica altrettanto, se non più esposta alle insidie dei barbareschi, fu la Sicilia. Tre galere siciliane nel 1732 «vanno alla seguela di Turchi [cioè di barbareschi] che infestano il nostro mare», scrive un cronista che ne annota l’arrivo nel porto di Palermo il 14 giugno. Un bando vicereale del 1743 lamenta che «li barbari ed altri infidili, omni jornu, et maxime in la estati fannu infiniti et varii scurrarii in lochi maritimi di questo Regno; di forma che omni anno pigliano grandissimo numero di animi Christiani» (6). A causa appunto delle minacce corsare l’isola di Ustica era stata abbandonata e i barbareschi vi trovavano, «a tutto lor agio, riparo e sosta». Proprio per togliere quella opportunità ai musulmani, nel 1761 si decise di ripopolare l’isola favorendo l’arrivo di liparoti (dalla maggiore delle Eolie partirono «quattro grosse barche con 60 persone»). I barbareschi reagirono però subito al provvedimento e il 6 settembre 1762, dopo essere stati respinti una prima volta, sbarcarono di nuovo e portarono via una sessantina di persone (quaranta liparoti trovarono salvezza nascondendosi nelle grotte dell’isola) (7). Più tardi nel secolo, dopo la fallita spedizione spagnola contro Algeri, gli algerini ripresero coraggio e vigore: «sbucarono fuori dalle grotte africane gli allievi di Barbarossa e di Cacciadiavoli, e ripresero più numerosi di prima le infestazioni e le prede nel Tirreno, massime sulle coste siciliane e calabresi dove presero bastimenti d’ogni nazione e genti d’ogni paese» (8). Dopo le isole, le più colpite dai corsari musulmani furono le regioni del Mezzogiorno d’Italia. Sulla costa tirrenica calabrese diversi episodi attestano la presenza di corsari dai primi anni del secolo: nel 1707 i corsari colpirono in particolare il litorale ionico, a Cirò e a Monasterace, come testimonia, fra l’altro, una lettera del vescovo di Umbriatico, costretto alla fuga mentre era in visita pastorale; nel 1701 avevano predato nelle acque calabresi quattro tartane napoletane e un vascello genovese; nel 1725 catturarono gli uomini di guardia nella torre Moz-

(5) MARTINI 1861, 242-243. Sulla incursione a Carloforte nel 1798 v. infra, capitolo 15. (6) A. MONGITORE, Diario palermitano [...] da gennaio 1720 a dicembre 1736, in Diari della città di Palermo, IX, Palermo 1871, 192; Capitula Regni Siciliae, Palermo 1743, II, 48-49. (7) C. TRASSELLI, Il popolamento dell’isola di Ustica nel secolo XVIII, Caltanissetta-Roma 1966, 18, 20 e 34. (8) GUGLIELMOTTI 1884, 202. Minacce e catture di navi sulla costa meridionale dell’isola nell’ultimo trentennio del XVIII secolo sono segnalate da G. GIBILARO, Incursioni barbaresche nella costa da Licata a Sciacca, Agrigento 1988, 51-58.

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za, presso Palizzi. In quegli inizi del secolo fecero peraltro razzia sin sulla spiaggia di Mergellina (9). In Puglia, nel settembre 1711, i barbareschi saccheggiarono la chiesa di Cerrate, presso Squinzano, e portarono via 44 abitanti; la responsabilità dell’accaduto fu imputata all’incaricato della sorveglianza costiera, Gaetano Fiore, «incarcerato per non avere esercitato bene il suo impiego ed assistito alla marina». Nel 1714 i corsari assaltarono alcune masserizie nella zona di Lecce e fecero decine di schiavi. Il governatore della Terra d’Otranto lamentava, in un editto del 15 luglio 1716 – siamo negli anni della guerra turco-veneta –, «le continue incursioni dei corsari Turchi nelle marine di questa Provincia, che non cessano di tenere inquietati li naturali»; l’anno dopo, uno sbarco di corsari a Rocca Nuova strappò alle loro case quaranta persone e gettò in allarme Lecce (10). Le imprese dei corsari non finivano sempre bene. L’intervento degli addetti alla difesa costiera, la reazione degli abitanti, altre circostanze potevano intervenire e fermare i barbareschi. Nel 1734 il mare gettò tre galere barbaresche sulle spiagge calabre: una a Bagnara, l’altra a Nicotera, la terza presso la torre del Faro; più di ottanta musulmani vennero fatti schiavi (11). A metà del secolo il timore dei corsari maghrebini era ancora tale che capitani ed equipaggi erano propensi piuttosto a fuggire. Perciò le ‘prammatiche’ reali del 1751 e del 1759 ordinarono ai capitani di convocare la ciurma a consiglio non appena compariva la vela temuta, per decidere se abbandonare il legno o affrontare la pugna.

Ma lo storico ottocentesco così commenta: come potevasi volere che poveri marinari […] possedessero una dose così rara di sangue freddo, che avendo sotto gli occhi la vela corsara, ed in prospettiva la morte o la schiavitù, si radunassero a congresso, obbligassero il capitano a battersi, lo scrivano a registrare la deliberazione? (12).

(9) VALENTE 1973, 324-330, che segnala altri episodi fra il 1717 e il 1725; MAFRICI 1995, 75-76 e 85-86. (10) PANAREO 1933, 238-242; A. RAELI, Contro le incursioni turche, in «Rinascenza Salentina», 1/1933, 213-214. (11) MAFRICI 2002, 319-320; CISTERNINO e PORCARO 1954, 161-163. (12) N. SANTAMARIA, La società napolitana dei tempi vicereali, Napoli 1861, 105-106.

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Con l’andar del tempo il rilievo degli episodi si ridusse sempre più: nel 1763 un bastimento da traffico napoletano (polacca), inseguito dai corsari, andò a sfasciarsi alla marina di Polignano; alle porte di Castro, a sud di Otranto, nell’agosto 1780, si notò la presenza di «sei corsari barbari, i quali, dopo aversi preso alcune pecore, se ne tornarono al mare, senza esser d’alcuno molestati». Sembra quasi che la cronaca locale compatisca quei poveracci al pari delle loro vittime (13). Non sempre tuttavia le notizie erano così lievi, da sorriderci sopra più che da preoccuparsene. Nell’aprile 1761 il celebre architetto Luigi Vanvitelli, allora intento a dirigere i lavori della reggia di Caserta – dove lavoravano, fra le maestranze, centinaia di schiavi musulmani – così scrive da Napoli al fratello: «Vi saranno centinaia di Corsari a dare il guasto ne’ paesi Christiani e si faranno molti schiavi, nelle Isole e in ogni parte delli Regni di Sicilia e di Napoli, ed anche in quello del Papa». Per tutto il secolo in effetti il rischio corsaro nei mari dell’Italia meridionale fu un fattore tenuto ben presente dal mercato delle assicurazioni marittime (14). Come in tutto il Mediterraneo occidentale, anche sulle coste calabresi verso la fine del secolo si registrò una ripresa della minaccia corsara maghrebina. Nel 1798, due sciabecchi barbareschi attaccarono alcuni legni alla marina di Bianco. A volte però la reazione locale evitava il peggio: così, nello stesso anno, la popolazione di Bovalino costrinse i corsari ad accontentarsi della cattura d’uno dei due bastimenti napoletani attaccati (15). A proposito del Mezzogiorno – ma il discorso potrebbe valere anche per altre regioni d’Italia e d’altri paesi – Mirella Mafrici rileva che gli episodi di minacce, sbarchi, attacchi, sinora identificati sono «soltanto alcuni degli esempi» fra «mille e mille e mille» e che, per allargare il quadro, «basterebbe guardare, provincia per provincia, archivio per archivio, alla grande massa degli atti notarili, dove assai spesso – sotto forma di dichiarazioni, attestati e procedure di discolpa (per debiti non onorati, per malattie, per furti e rapine subite, e così via) – si hanno narrazioni di sbarchi barbareschi a terra, o di attacchi in mare a navigli della zona» (16).

(13) PANAREO 1933, 239. (14) F. STRAZZULLO, Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca palatina di Caserta, II, Galatina 1976, 695 (21 aprile); F. ASSANTE, Il mercato delle assicurazioni marittime a Napoli nel Settecento. Storia della «Real Compagnia» 1751-1802, Napoli 1979, 57. (15) MAFRICI 2002, 320. (16) MAFRICI 1995, 86.

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Nel Settecento il Lazio sembra sia stato colpito da minacce e incursioni corsare forse più che non nel secolo precedente; almeno abbiamo più notizie al riguardo, raccolte anzitutto, con qualche dettaglio, dal noto storico della marina pontificia, padre Alberto Guglielmotti, sul finire dell’Ottocento; da allora però quelle vicende non sono state oggetto di ulteriore attenzione. Così nell’estate 1702 una sessantina di maghrebini, a bordo d’una «galeotta piratica, traboccata nel mare» vennero «presi prigioni» nei pressi di Foceverde dalle guardie della vicina torre e dagli abitanti di Sermoneta e di località vicine (17). Nel riferire le gesta delle galere pontificie nel 1715, sotto il comando del capitano Francesco Maria Ferretti, il padre Guglielmotti lamenta le molestie dei ‘pirati’ «i cui danni non erano stati da meno nel Tirreno, che nell’Adriatico e nello Jonio» e ricorda come durante la campagna del Ferretti in Levante gli algerini avessero «preso gente in terra presso Terracina ed Anzio». Al ritorno però la squadra pontificia «colò a fondo un bastimento barbaresco, ne arse un altro in mezzo al pelago, e condusse il terzo a trionfo nel porto». Le pagine della Storia della Marina pontificia mirano, come è ragionevole attendersi, a segnalare ed esaltare l’attività della squadra romana e non mancano dunque, riteniamo, di riferire ogni cattura di legni nemici e di corsari musulmani. Non hanno invece un motivo diretto per elencare ogni sbarco ed ogni successo dei corsari, anche se noto, e tanto più se di modesta entità, come era di solito a quel tempo; è peraltro verosimile che molti episodi, anche per la loro esiguità, non abbiano lasciato traccia nelle fonti. Le catture, d’altra parte, di legni corsari ovvero di barbareschi sbarcati a terra, per una o altra circostanza, sono comunque per noi prova di una loro minacciosa presenza sulle coste del Lazio, di certo non sempre inefficace e sfortunata. Nel giugno 1716 un altro bastimento algerino, avvistato nel Tirreno, fu catturato da due galere genovesi appoggiate dalla galera ‘padrona’ della squadra romana; con centosessanta prigionieri ed otto cristiani liberati (18). Legni corsari maghrebini continuarono a approssimarsi minacciosi alle coste dello stato pontificio negli anni seguenti. Alcuni di essi verosimilmente effettuarono sbarchi con qualche risultato, altri invece vennero catturati in prossimità delle coste; di questi ultimi, di tutti o quasi, abbiamo notizia, come del brigantino che nell’agosto 1718 fu preso a capo d’Anzio con 50 uomini, mentre a 25 cristiani fu resa la libertà. Nello stesso tratto di costa laziale, al

(17) GUGLIELMOTTI 1884, 17-18; ASRm, Galere, Entrata e uscita, 1700-1716, 7r, 1° dicembre 1716 (pagamenti a vari per «haver preso trentadue turchi»). (18) GUGLIELMOTTI 1884, 49-50.

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largo di torre Astura, si era avvicinato, nel settembre 1723, un grosso sciabecco tripolino, comandato da un rinnegato di Trapani, ma il capitano pontificio Bussi «dopo alcune cannonate, correndogli sopra abbrivato, investillo nella poppa; e, prolungandoglisi sopravvento, se lo legò e strinse vicino»; i musulmani resistettero sino alla morte (19). Un pinco tunisino, di Porto Farina, aveva già predato nelle acque di Palo, tra la foce del Tevere e Civitavecchia, due tartane con un carico di vino, quando venne raggiunto, il 2 maggio 1724, dalla squadra del Bussi che ne ebbe facilmente ragione; 80 barbareschi restarono prigionieri mentre le due imbarcazioni tornarono libere. Allo stesso modo, ai primi di ottobre presso Anzio, una piccola nave genovese fu sottratta dallo stesso Bussi ad un legno corsaro tunisino; furono catturati una quarantina di ‘turchi’ ed il raìs, un rinnegato ‘brabanzone’. L’anno giubilare 1725 impegnò particolarmente la squadra romana a difesa delle coste dello stato, alle quali pur sempre legni barbareschi si avvicinavano, con successo o meno: fra aprile e maggio furono presi un pinco tunisino e due galeotte, precisamente di Biserta, al largo di Ventotene, con la cattura d’oltre cento uomini (20). Con poche parole, sdegnate e concise, lo storico pontificio segnala l’incursione barbaresca nel territorio del Circeo, nel maggio 1727, quando le galere romane si erano appena allontanate dalla costa. Esse avevano in certo senso protetto il viaggio verso sud, sino a Benevento, del papa Benedetto XIII, che aveva persino fatto sosta sulla spiaggia di San Felice. «Soltanto dopo il suo passaggio, e quando le galere si furono rivolte a ponente – scrive il padre Guglielmotti – qualche traditore maligno, e rinnegato, per vendetta rabbiosa contro le innocenti letizie di Sanfelice, entrò di notte nella terra, pose a ruba le case, e portò via di molta gente». Al comando del legno tunisino vi era il raìs Sciabàn; l’estate successiva egli incappò presso capo Passero nelle galere di Malta, ma riparato a terra non fu attaccato. Del riscatto di 26 sfortunati abitanti, dopo due anni di schiavitù, diremo più avanti. Nella primavera del 1727 la presenza di corsari maghrebini fu invero più volte segnalata fra l’Elba e le altre isole toscane, la Corsica e la Sardegna (21). Nelle stesse acque del Circeo si aggirò, qualche anno più tardi, nell’ottobre 1732, una nave algerina detta La Liona, comandata da un rinnegato inglese,

(19) GUGLIELMOTTI 1884, 69 e 82-83. (20) Ivi, 83-85. (21) ASRm, Epistolario, Civitavecchia, busta 69, 26 maggio, e busta 70, 9 settembre. Altri elementi sulla vicenda dei sanfeliciani in T. LANZUISI, Il Circeo nella leggenda e nella storia, Roma 1992, 313-317.

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con oltre cento uomini di equipaggio; conseguì dapprima qualche preda – come narra distesamente il Guglielmotti – ma fu dato l’allarme e due galere pontificie, uscite dal porto di Gaeta, l’affrontarono con successo. Nel corso degli anni trenta la minaccia barbaresca si accentuò nel Tirreno, poiché i corsari potevano giovarsi dell’accordo con la Francia «pel quale tutti i porti di Provenza stavano loro a rifuggio, a racconcio, a rinfresco», ma i successi della marina pontificia non mancarono sì che nel 1738 si rilevava che «la ciurma ora è piena a ribocco di schiavi turchi» (22). Le molestie corsare erano costanti, anche se non sempre i barbareschi riuscivano a realizzare i loro intenti. La mala e la buona sorte, rispettivamente per i corsari e per le vittime, dipendevano non di rado anche da circostanze fortuite, come gli eventi meteorologici. A fine maggio del 1748, ad esempio, sulla spiaggia di Maccarese, a nord della foce del Tevere, non lontano da Roma, una galeotta barbaresca «venne a naufragare» e l’equipaggio «cadde tutto prigioniero nelle mani dei mandriani e dei bifolchi, sempre armati, di maremma»; sulla marina di Montalto di Castro, nell’alto Lazio, nella cattiva stagione del 1753, prese terra «una grossa banda di algerini […] con danno gravissimo di bestiami e di gente», ma due anni più tardi, nel giugno 1757, in un grosso colpo a Castel Porziano, presso Roma, e in altre sparse catture, ben 160 ‘turchi’, (in effetti l’equipaggio d’una galera tunisina) pagarono con la schiavitù l’audacia del loro sbarco (23). Uno degli ultimi episodi sulla costa laziale ci fa sorridere per l’ingenuità degli algerini di una grossa galeotta, già predatrice in Calabria di tre bastimenti genovesi carichi d’olio, costretta dal vento sulla spiaggia del ‘Vajanico’, non lontano da Roma, nel maggio 1776: si nascosero nella macchia litoranea, ma «acceso un gran fuoco per asciugarsi, coll’insolito splendore dettero avviso di sé ai guardiani delle torri vicine» e ne vennero catturati una ottantina (24). Sul finire del secolo anche le coste laziali risentirono della diffusa ripresa dell’attività corsara. Nell’estate del 1798 il civitavecchiese Filippo Migliacci indirizzò una memoria al senato della Repubblica romana, nella quale a nome degli

(22) GUGLIELMOTTI 1884, 88-92, 109, 116; lo scontro del 1732 si concluse con la cattura di 78 algerini, la morte di 7, fra cui il raìs, e la fuga di altri 18. LODOLINI TUPPUTI 1989, 349350, attesta che il legno fu venduto a un genovese per 765 scudi; alle pp. 128-129 segnala presenze e scontri con corsari nel 1737-1740. (23) GUGLIELMOTTI 1884, 149, 154 e 180-182; nel giugno 1758 un legno tunisino con venti uomini fu catturato presso Ponza (Ivi, 182). (24) Ivi, 202-203. Qualche giorno dopo le galere pontificie recuperarono uno dei grossi bastimenti genovesi in precedenza catturati dalla galeotta algerina.

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armatori della sua città lamentava «la prodigiosa quantità di Corsari che sono usciti nella presente stagione»; pochi giorni dopo, in effetti, il senato dispose un rifornimento alle torri litoranee «poiché le spiagge sono molto infestate dai Corsari barbareschi, li quali mettono piede a terra, e impediscono le pesche» (25). Non solo quelle laziali ma anche le coste della Toscana e della Liguria subirono nel corso del Settecento la minaccia barbaresca non senza effettive incursioni a terra. Un documento del 1716, ad esempio, attesta l’abituale constatazione che i corsari maghrebini non si facevano vedere sulla costa della Versilia se non nei mesi di luglio e agosto. Ai primi di luglio 1719 una galeotta corsara avvicinatasi a Portercole fu catturata dalla squadra romana (26). Intorno alle isole toscane i corsari, come è facile immaginare, si aggiravano con frequenza, per cercare riparo e tendere insidie ai naviganti. Nell’agosto 1718 a Giannutri una goletta tunisina, con 32 uomini, fu presa da due galere pontificie e similmente nel maggio 1722, nella stessa isola, due galeotte di Biserta restarono preda dei pontifici che vi fecero oltre 60 schiavi (27). A proposito dell’isola del Giglio uno studioso locale così riferisce: «Nel 1740, dopo tanto tempo, un pirata si mise a scorazzare nel canale del Giglio; ma fu costretto a partirsene. Nel 1753 quattro galeotte turche incrociavano nelle acque gigliesi. Una di esse, rimasta momentaneamente isolata, fu attaccata e presa da nave genovese; ed allora le altre tre, piombate sul Giglio, sorpresero la torre del Campese e se ne impadronirono; ma i gigliesi riuscirono a cacciare di nuovo i punto graditi ospiti» (28). Altri episodi ci mostrano i corsari intorno alle isole più lontane, Pianosa e Montecristo. Presso quest’ultima, a fine settembre 1737, le galere del papa presero due galeotte tunisine «con un centinajo di prigionieri, e sei Toscani rimessi in libertà». Le acque fra Montecristo e Giglio furono teatro nell’ottobre 1755 di un episodio di rilievo: la fregata pontificia San Paolo scoprì un grosso pinco algerino, di 24 cannoni, che tentò coraggiosamente il combattimento ma ebbe la peggio: il raìs e altri 35 uomini perirono, oltre cento furono resi schiavi (29). (25) G.A. SALA, Diario romano degli anni 1798-1799, Roma 1882, II, 11 e 36. (26) M. PILONI, Pietrasanta e i pericoli di incursioni barbaresche sulle spiagge della Versilia, in “Rivista di Archeologia, Storia, Costume”, 5/1997, n. 2, 21-30; GUGLIELMOTTI 1884, 70, con la cattura di 28 prigionieri, da «Diario Romano», 5 luglio 1719. (27) GUGLIELMOTTI 1884, 69 e 79-80. Notizie in proposito e su altre catture in LODOLINI TUPPUTI 1989, 115-116. (28) A. BRIZI, Cenno storico dell’Isola del Giglio, Isola del Giglio 1985, 56-57. (29) GUGLIELMOTTI 1884, 113 e 171-176. Nell’ottobre 1752 presso il Giglio una galera pontificia aveva catturato un legno algerino (Ivi, 153).

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Pur se in misura ridotta, rispetto al passato, anche lo Stato di Piombino lamentò le minacce dei barbareschi sì che nel 1753 gli uomini di mare fondarono una Cassa di Redenzione per schiavi, su base mutualistica, intervenuta per la prima volta nel 1758 a favore di Antonio Tognetti, proprietario di un bastimento, e di cinque uomini del suo equipaggio. Verso la fine del secolo, nel 1796, si sollecitava il riscatto di cittadini dello stato schiavi a Tunisi dal 1784, i quali altrimenti «saranno costretti, attesi i grandi strazzi e strapazzi, a farsi Maumettani». Sul finire del secolo, nell’ottobre 1796, corsari algerini si impadronirono nel canale di Piombino di un bastimento con bandiera napoletana; cinque marinai vennero fatti schiavi. Nell’aprile seguente un altro bastimento cadde preda dei maghrebini, ma l’equipaggio riuscì a salvarsi (30). Intorno alla metà del secolo, dopo i trattati di pace e di commercio del granducato con l’impero ottomano e con le reggenze barbaresche, le acque e le coste toscane furono risparmiate, mentre i legni barbareschi potevano frequentare pacificamente i porti toscani. Queste frequentazioni tuttavia provocarono tensioni fra il governo toscano e gli stati maghrebini, sino alla aperta rottura con Tunisi, nel gennaio 1765, e poco dopo con Algeri. In primavera un corsaro barbaresco operava sfacciatamente nelle acque toscane. Ne riferiva l’attività il governatore di Livorno: il corsaro, dopo aver catturato presso la Gorgona il leuto Madonna del buon consiglio (mentre gli era sfuggito un altro piccolo bastimento), scorse senza timore lungo la costa, facendo altre prede, sì che la popolazione e gli stranieri si stupirono «nel vedere insolentire in tal guisa un corsaro su’ nostri occhi, senza che si facesse il più piccolo movimento almeno per discacciarlo». Nei decenni seguenti, sino agli anni della rivoluzione francese, mentre si perseguivano senza stabile successo accordi di tregua e di pace con gli stati maghrebini (vi si giunse nel marzo 1778 soltanto con il Marocco), i corsari continuarono a molestare le coste toscane. All’Argentario, ad esempio, tre sciabecchi maghrebini sorpresero, nel giro di pochi giorni, quattro bastimenti con ricchi carichi. Negli ultimi anni di regno di Pietro Leopoldo, anzi, «la pericolosità e l’aggressività delle incursioni barbaresche tende ad accentuarsi»; in verità il governo si era piuttosto rassegnato a sopportare quel danno (31).

(30) MASSART 1970, 114-115. I cinque catturati nel 1796 vennero riscattati nel 1798. Abbandoni di imbarcazioni per sottrarsi ai corsari sono segnalate da FILIPPINI 1985 (alcuni documenti in appendice descrivono vivacemente gli episodi in questione). (31) Sull’insieme dei rapporti toscano-maghrebini nel periodo 1765-1790 si veda GIANI 1942; la citazione da F. PERA, Nuove curiosità livornesi inedite e rare, Firenze 1899, 300-303 e 324-326.

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Proprio alla fine del secolo, nel novembre 1799, i tunisini – memori del successo nell’isola di Sant’Antioco l’anno prima – tentarono un grosso colpo nell’isola del Giglio. La piccola isola aveva subito una incursione nel 1544 ad opera del Barbarossa e rinnovate molestie negli anni e nei secoli seguenti. Il 27 aprile 1749, ad esempio, qualcuno scrisse che nei giorni scorsi costeggiavano quattro Sciabecchi Barbareschi per quelle spiagge e dicesi che abbiano fatti schiavi molti Cristiani. Essendo seguita la tregua per il nostro Augusto Padrone e le potenze affricane, fossero inviate quelle istruzioni necessarie per sicurezza dei medesimi.

Al mattino del 18 novembre 1799 i tunisini giunsero in grandi forze, si parlò di duemila uomini, trasportati da due fregate e quattro sciabecchi. Dalla cronaca riportata qualche giorno dopo sulla “Gazzetta Universale” apprendiamo che, appena avvistato il pericolo, le campane suonarono a martello e le strida delle donne e dei ragazzi furono allora grandissime, che sembrava estremo giorno di tutta quella gente […]. Non tutti gli isolani furono in tempo a porgere socorso, nulla di meno quelli che vi erano, inclusive i preti, presero le armi […].

Ai difensori arrise il successo e i maghrebini «circa le ore quattro se ne partirono, avendo lasciato nell’Isola otto morti» (un solo gigliese perse la vita). Al comando delle operazioni di difesa si era trovato il sergente Giovan Battista Pini, autore di una relazione sulla gloriosa giornata per i gigliesi (sulla fine degli anni Cinquanta vidi io stesso quel documento conservato presso il parroco di Giglio-Porto) (32). Sulla porta della chiesa principale di Giglio-Castello una iscrizione ricorda il rifacimento, per iniziativa di Ferdinando III, delle mura che cingono il borgo «a piratis tunetanis prope occupato et virtute oppidanorum cum ingenti clade hostium defenso». Numerose notizie sul fatidico giorno sono state raccolte di recente in un volume di cronaca locale. Ne riferiamo una, per terminare con una nota umoristica: Un Tunisino oppresso e gravato dal vino, restò alla marina del Campese che nella mattina seguente essendo stato preso dalla milizia […] diede il raggua-

(32) B. BEGNOTTI, Cronache gigliesi 1558-1799, Ospedaletti (Pisa) 1999, 242-263, con notizie anche su altri episodi (ivi, 295-299).

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Lumi e corsari glio della spedizione, del numero delle truppe e del motivo per cui erano venuti che era quello di saccheggiare e incendiare il Castello e per fare schiavi gli abitanti (33).

Sin sulle coste liguri, le più lontane fra quelle tirreniche dai porti barbareschi, la presenza dei corsari tornò a farsi sentire, sino agli ultimi anni del secolo, pur dopo il declino segnato intorno alla metà. Non si può dunque parlare di «ultime incursioni in Liguria» fra il 1588 e il 1646 (34). I corsari algerini catturarono una nave presso San Remo nel 1722, mentre il capitano e l’equipaggio riuscirono a riparare a terra. Qualche anno più tardi circolò la notizia di danni inferti sulla costa ligure da tre vascelli di Algeri; altri legni genovesi tentarono di inseguirli (35). Nel tardo Settecento i legni di Algeri potevano agevolmente attaccare le coste della repubblica muovendo dai ripari loro concessi sulla vicina costa provenzale. Nel giugno 1780 uno sciabecco, con 140 uomini ed armato di 18 cannoni, si era spinto verso la costa presso Bordighera. Avutane notizia, il magistrato delle galee inviò una galera, detta La Capitana, al comando del capitano Giacomo De Marchi; questi, dopo aver raggiunto il legno barbaresco, lo fece segno di colpi di cannone, poi lo abbordò e lo sottomise: una sessantina di algerini vennero catturati (molti feriti), trenta furono i morti. La capitana genovese, che lamentò sei morti, tornò in porto dopo aver recuperato le imbarcazioni già predate dal corsaro. Al tripudio popolare per il successo ottenuto, seguirono sdegno e umiliazione per aver dovuto, su energica pressione francese, restituire gli uomini fatti schiavi ed un vascello, di nuova costruzione, a compenso di quello catturato e verosimilmente demolito (36). La presenza dei corsari tornò a farsi sentire di nuovo sulle coste liguri, negli ultimi anni del secolo, dopo il declino intorno alla metà. «Anche nell’autunno (33) BEGNOTTI, 299; BONO 1964, 185-186, sulla incursione del 1799, dove, sembra erroneamente, l’autore della relazione è detto Dini; C. PAOLICCHI, Isola del Giglio. Notizie storiche, Roma s.d., 74-77. (34) G. FEDOZZI, I corsari turchi e barbareschi, Imperia 1988, 114. (35) ASGe, Maritimarum 1722, 57; ASRm, Epistolario, Civitavecchia, busta 68, 6 maggio 1726. (36) DE NEGRI 1958, che si basa su tre relazioni dell’ASGe; a stampa ci risultano il Ragguaglio dell’accorso circa la preda fatta dalla galea capitanata dal M. Cap. G. de Marchi di uno sciabecco algerino e della liberazione di tre bastimenti nazionali già fatti prigionieri del suddetto algerino, Genova 1780 (BNRm, 34.3.L.11.42) e la Nuova e distinta relazione del combattimento seguito fra la Galera Comandante di questa Sereniss. Repubblica con uno Sciabecco Turco ed altro Pinco Linguellino stato antecedentemente predato unitamentee ad altri due con la presa de’ medesimi, Genova 1780 (indicazione da un catalogo di antiquariato).

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del 1797 continuarono le crociere predatrici che infestarono tutto il mare ligustico, per cui il governo provvisorio decretò l’organizzazione di una crociera difensiva»; l’ardire dei corsari si accrebbe nei due anni seguenti: fra l’altro, il 3 luglio 1798 nelle acque di Portofino predarono un bastimento genovese e nel 1799 «continuarono a infestare la navigazione e con temerità inseguirono le loro prede sotto il fuoco delle batterie costiere» (37). Anche sulle coste adriatiche della penisola italiana pesò la minaccia corsara sino a tutto il corso del Settecento, ma i barbareschi ne furono responsabili solo in parte; perlopiù si trattava di corsari musulmani insediati in località della costa dalmata e albanese. Non sono tuttavia da escludere intese e partecipazioni alle imprese di elementi maghrebini, tanto che nelle città barbaresche troviamo schiavi catturati sulle coste e sulle acque dell’Adriatico. Non viene riscattato a Tripoli nel febbraio 1742 Francesco Ricottino della diocesi di Senigallia? Chi può dire con certezza, per esempio, quali “turcheschi” fossero quelli sbarcati il 14 agosto 1715 da una fusta nei pressi del ponte sul Metauro e datisi al saccheggio dell’osteria presso la chiesa di S. Egidio? (38). Una certa attività dei corsari barbareschi in Adriatico infastidì anche i legni e le coste occidentali della Grecia e delle isole veneziane. Nel gennaio 1725, ad esempio, un petacchio barbaresco tese con successo una insidia ad alcuni battelli di Cefalonia, di Missolungi e di Morea. Si hanno diverse notizie di catture nel corso del secolo, ma i greci abitanti di isole e di località costiere, come Missolunghi e le Ionie, erano spesso complici; un autore parla di una «accumulation des richesses en Céphalonie et à Missolongi appuyée sur la piraterie» (39). Trasmesso di generazione in generazione, il ricordo degli assalti subiti per secoli, delle migliaia di persone ridotte in schiavitù, del costante rischio per chi navigava, era radicato così profondamente nella memoria collettiva, che facilmente ci si credeva in pericolo, pur senza che ve ne fosse alcun fondamento. Ecco qualche episodio. Un legno ‘turco’ nell’ottobre 1768 a causa di una burrasca naufragò fra la torre Venneri e la Rinalda, sulla costa leccese. L’equipaggio fu catturato e rimpatriato, ma in un primo momento si credette, a quanto (37) GINELLA 1980, 91-94. Per numerosi episodi dal 1778 a fine secolo v. F. BIGA, Episodi marinareschi e provvedimenti antibarbareschi del Piemonte e della Liguria a cavallo dei secoli XVIII e XIX, in Corsari ‘turchi’ e barbareschi in Liguria (atti di convegno 1986), Albenga 1987, 183-218. (38) M.L. DE NICOLÒ, La costa difesa. Fortificazioni e disegno del litorale adriatico pontificio, Fano 1998, 64. (39) H. YANNAKOPOULOU, Quelques repaires de pirates en Grèce de l’Ouest, lieux de commerce illégal (du XVIème au XVIIIème siècle), in Économies méditerranéennes. Équilibres et intercommunications, XIIIe-XIXe siècles, Athènes 1985, 531 (519-531).

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attesta un poema d’occasione, che i turchi fossero sbarcati minacciosi; alcuni versi così recitano: A Lecce tutti s’ibbera ‘tterrire, Ci la faccia se vatte, e cci se rranca. Tutti redaanu; la Turchia è benuta, Santu Ronzu de l’autu, tu ni iuta (40).

Nell’aprile 1783, ecco l’altro caso: forse anche sotto lo shock di un terremoto, si diffusero in Calabria notizie di sbarchi corsari, di incursioni nei luoghi abitati, di violenze dei musulmani ai danni della popolazione. «Dotti, ed ignoranti – come ha scritto un autore dell’epoca – e poveri, e ricchi, malvaggi, e dabbene», furono tutti presi dal terrore, «tutti pensarono a quel modo istesso, mentre in tutti fece l’istessa impressione di timore»; in verità non si era corso alcun pericolo (41). Come sulle coste delle isole e della penisola italiana, così la minaccia musulmana pesò su quelle della penisola iberica, soprattutto ovviamente, ma non soltanto, su quelle mediterranee, «throughout the most of the eighteenth century». Per incoraggiare la reazione della popolazione locale un decreto reale concesse a qualunque privato la piena disponibilità dei musulmani catturati con esenzione da ogni imposta. Al principio del secolo, nel 1709, la riconquista algerina della piazzaforte di Orano – mantenuta sino al 1732 – provocò la caduta in mani musulmane di circa 400 spagnoli, ma nel corso del secolo la maggior parte degli schiavi spagnoli vennero catturati dai maghrebini sulle coste stesse, mediterranee e atlantiche, della penisola iberica e dunque «most of those captured on the coasts were civilians who were seized while engaged in common place, everyday activities». Specialmente sulle coste catalane e andaluse il pericolo gravò per tutto il Settecento e le autorità discussero per «remediar la piraterías de moros» (42). Nel gennaio 1736 due galeotte di Tetuàn e di Tangeri portarono via venti abitanti di Estepona, sulla costa del Sol, mentre in settembre alcune galeotte tangerine sopraffecero tre barche catalane partite da Cadice; il mese dopo i

(40) PANAREO 1933, 242-243. (41) VALENTE 1973, 331-333. (42) FRIEDMAN 1983, 30-31 e 175, con tabelle con dati quantitativi. L’autrice ribadisce (p. 30) che «the quantitative survey reinforces the impression of a continuing North African offensive against Spain’s coasts in the eighteenth century». Per la Catalogna: ASENSIO BERNALTE 1984; BARRIO GOZALO 1984.

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saletini si impadronirono nelle acque portoghesi, le più esposte alle minacce saletine, nonostante il servizio di polizia dei mari esercitato da una squadra olandese – di altre navi olandesi e francesi. In ottobre fu predata una tartana francese, con un carico di generi alimentari (burro, farina, carne) e di vino, diretta da Bordeaux verso le colonie d’America; altre navi venivano intercettate al loro ritorno. L’entrata in azione anche di una squadra francese dalla fine del 1736, sembra abbia «rallentato considerevolmente» l’attività corsara nell’anno seguente. In quel tempo invero qualche corsaro maghrebino si spingeva ancora almeno sino al capo Finisterre (43). Sino alla fine del secolo invero le acque iberiche, non solo mediterranee ma anche atlantiche, erano insicure per il rischio di incontri con legni barbareschi: un grosso bastimento livornese, ad esempio, fu catturato dai corsari nelle acque di Cadice, nel luglio 1786, con la conseguente schiavitù del capitano e d’una quarantina di uomini dell’equipaggio; un brigantino di Sampierdarena si scontrò con un corsaro algerino nelle acque di Barcellona, nel gennaio 1799 (l’equipaggio riuscì a salvarsi, ma il legno restò preda) (44). Al tema delle incursioni e delle minacce corsare subite dalle coste europee si connette quello della difesa costiera, in particolare per il Settecento della manutenzione, del ripristino, della eventuale costruzione ex novo di torri di avvistamento e di difesa contro i corsari. Intendiamo semplicemente richiamare questo aspetto che nel Settecento incontra ulteriori sviluppi e vicende; ricordiamo qualche sparsa notizia, mentre rinviamo alla bibliografia in proposito notevolmente arricchitasi nello scorso decennio (45). Intorno alla metà del secolo il viceré di Sicilia «avendo conosciuto quanto utile e necessario fosse alla pubblica sicurezza restituire in buono stato e stabilire con miglior sistema le torri per la custodia del litorale di Sicilia, ne passò ordine al Senato di Palermo»; nel 1751 compì egli stesso una ispezione alle torri e ordinò la ricostruzio-

(43) LA VERONNE 1989, 162-164. (44) GIANI 1942, 113; GINELLA 1980, 93-94. Catture di navi sulle coste iberiche, mediterranee e atlantiche, sono segnalate nei dispacci consolari francesi da Algeri (GRAMMONT 18871889, passim). (45) Alla bibliografia offerta in BONO 1964, 445-447, si aggiungono fra l’altro: G. CARITÀ, Castelli e torri della provincia di Agrigento, s.l. 1982; G. M. DE ROSSI, Torri costiere del Lazio, Roma 1984, R. RUSSO, La difesa costiera nel Regno di Napoli dal XVI al XIX secolo, Roma 1989, G. COSI, Torri marittime in terra d’Otranto, Galatina 1989, P.G. LEONARDI, Le torri costiere d’Italia, Firenze 1991, G. MELE, Torri e cannoni. La difesa costiera in Sardegna nell’età moderna, Sassari 2000. Nel maggio 1777 il viceré di Sicilia con un suo bando informava del pericolo corsaro e raccomandava alle comunità locali di «far custodire dalle suddette Guardie tutto il littorale coll’ultima diligenza» (BRPa, Stampe A 267).

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ne di quella di Mascali presso Catania. Nell’isola sarda di Sant’Antioco nel 1757 fu costruita la torre Canai, su un piccolo promontorio, di fronte agli isolotti del Toro, della Vacca e del Vitello; sul litorale laziale prossimo alla foce del Tevere, dove con il passare del tempo i detriti trasportati dal fiume facevano avanzare la costa, Clemente XIV fece costruire nel 1773 una torre dal suo nome detta Clementina (46). Navi e flotte maghrebine Il persistere nel corso del secolo di una non trascurabile attività corsara musulmana sembra contraddirsi con la riduzione delle flotte degli stati barbareschi sin dai primi decenni del Settecento, rispetto ai due secoli precedenti. Forse soltanto una maggiore ‘copertura’ delle fonti ci procura l’impressione di una attività più rilevante rispetto al passato. Le forze navali algerine furono certamente superiori rispetto a quelle degli altri stati maghrebini. In una nota relazione dei padri trinitari si afferma che gli algerini erano nel 1721 «les plus forts» fra i barbareschi, pur riferendo che il numero delle loro unità era di circa 25 (armate con 18-60 cannoni). Nell’ Etat du Royaume et de la ville d’Alger Le Roy riporta un dettagliato prospetto della flotta algerina, datato al 1718, dove elenca 18 vascelli, per ciascuno dei quali fornisce alcuni dettagli: le due unità più anziane risalivano al 1704; fra quelle più nuove, tre erano state catturate (due olandesi, nel 1715 e 1716, una catalana, nel 1715); in totale cinque su venti erano di costruzione europea. Con riferimento al 1724, Laugier de Tassy, elenca 24 navi: metà erano state costruite nella stessa città maghrebina, con una dotazione di cannoni da 32 a 52 pezzi; l’altra metà erano navi italiane, inglesi, olandesi, catturate dagli algerini e adattate alla guerra corsara (47). Le registrazioni dei salvacondotti rilasciati dal consolato di Francia alle navi algerine, conservati per il periodo 17371830, consentono di seguire con una certa precisione i mutamenti nelle dimensioni della flotta corsara di Algeri. All’inizio 17 navi, 6-8 intorno alla metà del secolo, il numero risale a 27-30 verso il 1760; negli ultimi decenni del

(46) S. MAZZARELLA – R. ZANCA, Il libro delle torri, Palermo 1985; su alcuni provvedimenti del 1798 in Sicilia: BONAFFINI 1991, 65-77; L. ROSSETTI, Il restauro della Torre costiera Canai di S. Antioco. Nota sul recupero dei beni culturali, in “Torri, soldati e corsari. Evoluzione della difesa costiera nella Sardegna meridionale”, Selargius 1996, 104-123. Sulle difese nella costa di Valencia V. PRADELLS NADAL 2002. (47) LAUGIER DE TASSY 1725, 270-275. Nel 1732, secondo SHAW 1743, I, 89, Algeri aveva soltanto sei grandi vascelli.

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Settecento torna a ridursi (intorno a 15), salvo la nota ripresa degli ultimi anni del secolo (48). I proventi effettivi dell’attività corsara algerina ci sono noti, per il periodo 1765-1815, dal ‘Registro delle prede’, studiato da A. Devoulx. Nel 1798 si raggiunse il massimo di 42 navi catturate, seguito dal 1799, con 31 prede, mentre i minimi si ebbero fra il 1770 e il 1775 (da 1 a 6), e nel 1788 e 1794 (3). Il ricavato della vendita del bottino non dipende però, ovviamente, dal numero ma dalla qualità delle prede (grandezza della nave, tipo del carico, numero degli uomini a bordo). Il valore di una preda (e dell’unità di misura, la ‘parte’, sulla cui base si calcolava il compenso spettante a ciascun membro dell’equipaggio) possono variare notevolmente: una preda del 1773 rese soltanto 727 franchi mentre un’altra, l’anno dopo, ne rese 82mila; con l’andare degli anni troviamo valori totali anche superiori (per esempio 366mila franchi per una nave olandese carica di cotone, nel marzo 1793, e il record di 685mila franchi, nel gennaio 1794, per una nave americana che trasportava un carico di lana e pellami) (49). La flotta tunisina fu sempre sensibilmente più modesta rispetto a quella di Algeri, così come lo fu quella tripolina rispetto alla tunisina. Ai tempi di Peyssonnel, intorno al 1725, la flotta statale comprendeva «trois vaisseaux de guerre de quarante à cinquante pièces de canons», di stanza a Porto Farina, ed inoltre «plusieurs galiotes et barques appartenant à des particuliers»; il frutto delle loro imprese corsare, rivolte specialmente «sur les côtes d’Italia», è ritenuto tuttavia «de peu de conséquence». Nella relazione di Monsieur Poiron (1752) si afferma che, pur ridotte di numero (5-6 “barques”, da 8 a 12 cannoni, una trentina di galeotte, con 60-150 uomini ciascuna) le forze navali tunisine erano “formidables” per gli stati europei, recando danni al commercio e riducendo persone in schiavitù (50). Fra il 1764 e il 1769 il bey possedeva due galere e un certo numero di galeotte. I registri dei passaporti rilasciati ai corsari tunisini dal console dell’impero asburgico, analizzati per il periodi 1764-1769 e 1783-1843 da Pierre Grandchamp, benemerito studioso di storia tunisina dell’epoca barbaresca,

(48) DEVOULX 1869. Qualche altra informazione in M. BELHAMISSI, Marine et marins d’Alger, Alger 1996, I, 95-96. Dati sulla flotta algerina nel 1765 e negli anni seguenti in MACONI 1877, 289. (49) DEVOULX 1871, passim. (50) PEYSSONNEL 1724-1725, 75; POIRON 1752, 11.

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consentono di conoscere altri dati significativi. Esaminiamo il primo anno in questione, il 1764. Fra il 13 aprile e l’11 dicembre vennero rilasciati 24 passaporti; per ogni nave possiamo conoscere il nome del raìs, il tipo di imbarcazione (17 galeotte e 4 pinchi), il numero dei banchi, dei cannoni, degli uomini, il porto di stanza (in maggioranza Porto Farina, e poi La Goletta e Biserta) e il proprietario (in 18 casi il bey). Il numero massimo di concessioni è registrato nel 1769: a 47 navi (18 governative). Nel quinquennio 1764-1769 il bey possedeva due galere e un certo numero di galeotte (51). Nel secondo periodo (noi prendiamo in considerazione gli anni 1783-1799) si va dai 46 passaporti del 1784 al massimo del 1798: 97 imbarcazioni, per un totale di 152 cannoni (52). Negli ultimi anni del secolo, che attestano un notevole incremento dell’attività corsara, la partecipazione del governo è piuttosto ridotta rispetto al totale, nel quale spiccano le quote di navi spettanti alle famiglie Djellouli e Ben Ayed (53). Per gli anni 1777-1824 lo stesso Grandchamp aveva in precedenza pubblicato l’elenco dei passaporti concessi dal consolato di Francia; questi dati possono servire per utili confronti e integrazioni con quelli cui si è già fatto cenno (54). Della flotta tripolina, tradizionalmente la minore fra quelle dei tre stati barbareschi, sappiamo che nel 1728 era costituita da una ‘padrona’ (una nave ‘ammiraglia’, diremmo oggi), con 22 cannoni e duecento uomini, da dodici altre navi (6-10 cannoni) nonché da legni minori. Nella relazione del ‘cadetto’ veneziano Alvise Milanovich del 1765 così si descrivono le esigue forze navali tripoline: Le Marittime sono poi assai ristrette, cioè una Fregata, detta per la sua velocità La Fama, due sciambecchi, otto Galeotte e sei scampanin (sic). Hanno pure una infinità d’altri minuti sciambecchi, quali servono per mercanzie, ma anche di questi a seconda del Genio de’ Proprietarj, ne vengono armati in Corso (55).

Sulla consistenza della flotta e sulle campagne corsare tripoline nel ventennio 1754-1773, un prezioso Mémorial, studiato da Daniel Panzac, ci offre dati (51) GRANDCHAMP 1957. (52) Nel 1783 appaiono solo tre concessioni di passaporto, ma a partire soltanto dal 7 novembre. (53) Precisiamo alcuni dati: 71 passaporti nel 1795, 70 nel 1796, 87 nel 1797. (54) GRANDCHAMP 1925. (55) MICACCHI 1934, 182; CAPPOVIN 1942, 519. Qualche dato sulla flotta tripolina nel 1749, secondo una fonte inglese, è riferito da ANDERSON 1956, 89.

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precisi. Il numero più elevato di unità navali, riscontrato fra il 1756 e il ’65, va da 9-10 a 17, mentre i minimi sono toccati all’inizio del periodo e a partire dal 1767; le campagne registrate sono 243 in totale (56). In Marocco nella seconda metà del Settecento la volontà del sovrano Muhammad ben Abd Allàh ‘statalizzò’, diciamo così, le poche unità navali di Salé nell’intento di avviare la creazione di una flotta statale – assicurandosi i profitti della corsa, peraltro in fase di declino rispetto al secolo precedente – e in prospettiva non immediata di far cessare quella aleatoria attività e di potenziare invece i rapporti commerciali con i paesi europei, nel quadro di una complessiva apertura politico-diplomatica verso l’Europa. In un decennio (1757-1768) la flotta marocchina arrivò a contare una ventina di unità. Fra i raìs alcuni erano propriamente marocchini – come Salah, attivo intorno al 1767, e Ali Perez, discendente di moriscos – altri provenivano da lontano, da Algeri, da Tripoli, dalla Turchia. Più tardi, fra il 1778 e il 1790, il sultano Muhammad tentò anche, ma senza successo, di creare una marina mercantile marocchina (57). Corsari europei contro navi e terre maghrebine Abbiamo sinora ricordato minacce e incursioni dei corsari musulmani ai danni di terre italiane e d’altri paesi europei, ma abbiam detto sin dall’inizio che v’erano nel Mediterraneo anche corsari cristiani o europei, che dir si voglia. Parliamo anzitutto dei più nobili e potenti fra loro, cioè dell’attività corsara delle marine dei grandi ordini religioso-militari – ‘di Malta’ e ‘di Santo Stefano’ – e delle flotte statali; poi diremo dei corsari ‘privati’. Le ‘gesta’ dei cavalieri ci sono sufficientemente note, pur se meno bene che non per l’età precedente (rispettivamente dal 1530 quando i cavalieri di San Giovanni, di Gerusalemme, di Rodi ottennero l’arcipelago maltese come loro sede e dal 1562, data di fondazione in Toscana dell’ordine stefaniano) quando erano ‘coperte’ da una storiografia ‘ufficiale’ e dunque agiografica, ma pur sempre ricca fonte di informazioni. In ben scarsa misura è stata invece ricostruita e valutata come attività corsara ‘cristiana’ contro i musulmani, attività che nel

(56) PANZAC 1988; ID. 2002 per la fine del secolo. (57) LOURIDO DÍAZ 1969; ID. 1971a; ID. 1989, 61-111. COINDREAU 1948, 82-84, che non fornisce dati numerici sulle unità in servizio. Sulla consistenza della squadra corsara di Salé e su alcuni suoi successi negli anni 1732-1733: LA VERONNE 1981, 141-143. Su un raìs marocchino: CAILLÉ 1960b.

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secolo XVIII si rivolse invero raramente contro le coste maghrebine, come era intensamente accaduto nei primi decenni del Seicento. Più volentieri i cavalieri cristiani, e specialmente i melitensi, agirono in Levante, anche con sbarchi e razzie sulle coste (58). In ogni caso, la storiografia ha sinora guardato al corso e alla guerra di corsa da parte cristiana soprattutto secondo l’operato delle singole marine e non nel suo insieme. Tenteremo ora di darne una visione complessiva, quale controfaccia delle minacce e delle catture sul mare e delle incursioni a terra esercitate dai barbareschi ai danni delle coste e delle popolazioni europee. Allo stato attuale delle ricerche e dei contributi storiografici si è tuttavia costretti a limitarsi quasi soltanto ad una frammentaria e non certo esaustiva segnalazione di episodi, di singoli casi, a proposito dei quali disponiamo, o potremmo reperire, informazioni più o meno estese. In modo piuttosto incerto e approssimato è consentito avanzare qualche valutazione sull’andamento complessivo del fenomeno. Nel primo decennio del secolo spiccano alcune imprese dei cavalieri melitensi che proprio allora si dotarono di una squadra di vascelli, cioè navi a vela di grande tonnellaggio, da affiancare alla squadra delle galere, secondo un progetto avanzato già un mezzo secolo prima. Il secolo si aprì (o la fine del secolo si chiuse), il 7 ottobre 1700, con la cattura di una grossa nave, diretta da Tripoli a Susa, con 155 uomini a bordo e un ricco carico di grano e olio. Sotto la fortezza stessa della Goletta i cavalieri melitensi si resero padroni, il 16 agosto 1701, di un vascello corsaro di Salé e di un legno minore. Sulla stessa costa tunisina, a capo Bon, nel giugno 1704 le galere pontificie effettuarono una rapida incursione, così riassunta dallo storico Guglielmotti: Battuta in terra la cavalleria beduina, predata alla riva una saica da venti cannoni con tutto il corredo, preso un brigantino egualmente da’ fuggitivi derelitto, combattuta e sottomessa una fusta con trenta tunisini: tutta bella gente (59).

Dopo una prima campagna nel 1705, di conserva con le galere, i vascelli dell’ordine diedero una positiva prova della loro capacità nel 1706, quando in maggio catturarono in Levante La Rosa di Tunisi, con 46 pezzi di artiglieria e

(58) CAVALIERO 1959 e ID. 1960; A. BLONDY, L’ordre de Malte au XVIIIe siècle, Paris 2002. S. BONO 1991, Corsari cristiani sulle coste di Palestina. Da documenti della Custodia di Terra Santa (1708-1715), in “Islàm. Storia e Civiltà”, 10/1991, 37-49. (59) GUGLIELMOTTI 1884, 22-23.

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oltre 300 schiavi. In giugno nelle acque siciliane le galere di Malta si impadronirono di una galeotta tunisina, traendone 37 schiavi (60). Negli anni seguenti i successi dei cavalieri furono legati a due comandanti dei vascelli, i fratelli Giuseppe e Adriano de Langon. Giuseppe coadiuvò le galere, nel giugno 1709, nell’incendiare nel mar Ionio la capitana di Tripoli; morì nell’aprile dell’anno dopo nel far preda, presso Porto Torres, di un vascello algerino, con il bottino di ben 285 schiavi, superstiti su 400 uomini dell’equipaggio. Quest’ultimo episodio possiamo conoscerlo con qualche dettaglio attraverso il racconto fatto da un genovese che si trovava al remo sul vascello catturato e recuperò la libertà, come gli altri schiavi cristiani (61). In quegli anni anche le galere del viceregno di Sardegna «sparsero il terrore per le spiaggie (sic) dell’Affrica con frequenti scorrerie, donde tornavano cariche di bottino e di schiavi». Un altro vascello algerino, detto La mezzaluna, con 163 uomini, cadde preda dei maltesi nel maggio 1713 (62). Ai tempi della guerra turco-veneta (1715-1718) e talvolta nel quadro stesso di quegli eventi, squadre e navi europee catturarono legni barbareschi con azioni di tipo corsaro. Un successo della marina stefaniana – chiusasi dalla fine del Seicento su posizioni strettamente difensive – fu raccolto ai primi di giugno del 1716 da tre galere, in navigazione verso il Levante per unirsi alla squadra veneta. Nei pressi di Capo d’Anzio ebbero notizia di un vascello algerino. «Osservatolo con i cannocchiali, si riconobbe esser di non molta forza, ma maggiore però di quello che ne era stato figurato»; si decise di raggiungerlo «con voga assai forzata navigando» e se ne ebbe ragione dopo qualche ora di manovre e di scontro. Vennero catturati 70 musulmani e quattro ‘rinnegati’, mentre tornarono in libertà dieci cristiani «di varie nazioni» (63).

(60) ROSSI 1926, 82-83. Secondo VERTOT 1778, V, 237, il bastimento catturato nel 1706 entrò nella squadra di Malta con il nome di Santa Croce. Il 12 agosto 1703 i maltesi avevano catturato una ‘barca tripolina’ con 68 uomini. Sulla cattura del 1700 si veda PATERNÒ CASTELLO 1939, non segnalato da Rossi. Sulla organizzazione della marina melitense e sulla vita a bordo si veda SCARABELLI 1991. (61) ROSSI 1926, 84. Le notizie rese dallo schiavo vennero pubblicate sotto il titolo così riportato da Rossi: Relazione distinta della presa della nave sultana nel combattimento seguito con le navi di Malta, Genova 1710. (62) ROSSI 1926, 85; VERTOT 1778, V, 244; MARTINI 1861, 232. (63) C. MANFRONI, La marina pontificia durante la guerra di Corfù (con nuovi documenti dell’Archivio Vaticano), in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 14/1891, 310 (305-363); la relazione del capitano Minucci (Livorno, 22 giugno 1716) in GUARNIERI 1960, 274 e 449-450 e testo, 274. Nello scontro morirono dodici musulmani e tre toscani, fra i quali un cavaliere.

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Conclusa la guerra turco-veneta, le marine europee ripresero ad operare con più autonomia, in cerca anzitutto di bottino, a preferenza nei mari d’Italia e di Barberia; si tennero invece lontane dal Levante, anche per il relativo rafforzamento della potenza turca. Si trattava peraltro di solito di episodi di ben ridotta entità, che impegnavano una o due unità maltesi e procuravano, quando la partita era vincente, la cattura d’uomini, da qualche decina a un centinaio. Nel 1720 i cavalieri di Malta presero però due navi algerine, con 208 schiavi, e l’anno dopo un’altra di Algeri ed una di Tunisi; nel 1722 e 1723 le prede furono perlopiù ai danni dei tripolini, le cui squadre corsare erano divenute in quegli anni particolarmente attive (64). Due galeotte e un brigantino tunisini furono catturati dai toscani nell’estate del 1719 nelle acque di Sardegna, con la preda di ben 120 schiavi, episodio celebrato nella Relazione della presa di tre galeotte corsare barbaresche fatta da due galere di Toscana nell’acque di Sardegna copiata da una lettera d’un Cavaliere che si trova nelle medesime galere, e scritta dall’acque di Montecristo li 8 luglio 1719 (Pistoia 1719). Si trattò verosimilmente dell’ultimo successo dei cavalieri toscani contro i barbareschi, poiché la marina stefaniana volgeva ormai al suo tramonto; la Toscana lorenese preferì, come già si è detto, le vie della pace e del commercio (65). Di numerosi episodi posti a segno dai cavalieri maltesi abbiamo trovato notizia, ovvero qualche ulteriore dettaglio rispetto alle menzioni presenti nelle Storie della marina dell’ordine, nel Giornale de’ successi dell’isole di Malta e Gozo redatto da Gastone Reboul negli anni 1729-1750. Nel biennio 1729-1730 gli algerini persero il vascello La Gazzella nelle acque di Lampedusa, con 178 uomini, una galeotta nelle acque di Maiorca, una barca da trasporto con un carico di grano e orzo, mentre un piccolo vascello, mandato in secca sulla costa maghrebina, fu predato dai maltesi di cannoni, vele ed altre attrezzature. Per l’anno 1731 nello stesso Giornale troviamo annotato, in aprile, il successo delle galere melitensi nel combattimento con tre vascelli algerini e la cattura, in giugno, nei mari di Sicilia d’una galeotta con 34 ‘turchi’; altri 84 musulmani furono portati in schiavitù a Malta in dicembre (66). Il ritorno in Levante dei vascelli maltesi nell’estate 1732 ebbe carattere eccezionale, e comunque non interessa il nostro discorso, che può invece prose-

(64) VERTOT 1778 V, 248-251, ROSSI 1926, 85-86. Sulla cattura della ‘padrona’ di Tripoli: PIAZZA 1992. (65) GUARNIERI 1960, 274-275. (66) REBOUL 1935, 88-95 e 118-122; altre notizie, a volte con dati diversi, da ROSSI 1926, 86.

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guire con il successo conseguito sulle coste di Spagna, presso Malaga, il 6 novembre 1736: i vascelli dei cavalieri catturarono due navi algerine con oltre trecento uomini a bordo. Anche nel decennio successivo gli scontri posero di fronte cavalieri e barbareschi: una galeotta tripolina fu presa nell’agosto 1740, un bastimento carico di frumento ed un pinco con 50 uomini nell’autunno 1741, un vascello tunisino fu affondato nel 1742, due altri fecero la stessa fine nel 1745 e così similmente altri episodi negli anni seguenti. «Ma il decennio tra il 1742 e il 1752 – osserva Mori Ubaldini – trascorse per la Marina dell’Ordine in una quasi totale assenza di traffico nemico e quindi senza alcun successo che compensasse la costante attività dei suoi vascelli e delle sue galere» mentre un vittorioso combattimento nelle acque di Favignana nel 1752 ci è riferito da una Relazione coeva (67). Dalla metà del Settecento l’attività della marina melitense andò decrescendo, anche per effetto dell’attenuarsi della corsa maghrebina o almeno del suo graduale spostarsi verso l’estremo occidente del Mediterraneo e persino al di là dello stretto, ai danni delle coste atlantiche della Spagna e del Portogallo. I cavalieri riuscirono tuttavia ad inserirsi nelle ostilità che opposero Algeri e Tunisi – nel 1756 catturarono sei legni algerini di fronte alla Goletta – e ad estendere verso occidente il loro raggio d’azione, così che nell’agosto 1759 la squadra delle galere catturò sulle coste di Spagna un centinaio di schiavi da alcuni sciabecchi barbareschi; le prede, pur se non di grande entità, continuarono nel decennio seguente ai danni delle tre reggenze barbaresche. Ancora nel 1775, verso fine maggio, una galeotta tunisina, con 80 uomini, cadde preda nelle acque di Lampedusa (68). Negli ultimi decenni del Settecento l’attività corsara dei cavalieri contro i musulmani si ridusse ma proseguì pur sempre ed il 26 aprile 1798 la San Giovanni compì forse l’ultima cattura, di uno sciabecco tunisino presso il Gozo. Il centinaio d’uomini catturati non dovette restare a lungo in schiavitù: di lì a poco essi – e tutti gli schiavi musulmani – riottennero la libertà a seguito della conquista napoleonica dell’isola (69).

(67) ROSSI 1926, 87, MORI UBALDINI 1971, 494, REBOUL 1935, passim. Sulla Relazione vedi avanti, in corrispondenza della nota 79. (68) ROSSI 1926, 88-90. Altre prede non furono di grande entità: nel 1764 tre galeotte tunisine, con 149 uomini, che avevano a lungo infestato Pantelleria e le coste della Sicilia meridionale, una tripolina l’anno dopo presso Capo Passero, una polacca turca presso Lampedusa nell’ottobre 1766. (69) Ivi , 93.

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Quanto all’altra marina dei cavalieri-corsari, quella dell’ordine di Santo Stefano, sin dalla fine del Seicento era in netto declino, sempre più impegnata nel trasporto di personaggi di riguardo – principi, prelati, ambasciatori – e di merci di gran pregio. Dagli inizi del Settecento la loro attività divenne prevalentemente difensiva, come si è visto, contro i corsari barbareschi che si spingevano ancora, più audaci o più disperati, sino alle coste europee. Proprio il declino dei ‘corsari ufficiali’ – chiamiamo così i cavalieri di Malta e di Livorno, senza polemica e senza ironia, nello spirito delle considerazioni altrove esposte – lasciò verosimilmente più spazio ai corsari ‘privati’; corsari, perché autorizzati da governi con regolari ‘patenti’, ma ‘privati’ poiché agivano su base individuale o attraverso ‘società’ di piccole dimensioni. La loro storia è ancora quasi del tutto da ricostruire, ma ne possiamo intravvedere linee d’azione e conoscerne, anche in dettaglio, qualche personaggio. Il testo di una “Patente con facoltà di armare in guerra un Bastimento con la Bandiera della Maestà Cattolica”, rilasciata in data 17 novembre 1718, ci mostra bene nei suoi 40 articoli la complessità di norme e prescrizioni a cui il ‘corsaro’ doveva attenersi, per evitare contenziosi e per consentire un sicuro controllo della correttezza del proprio operato. Sarebbero stati considerati “buona presa” «tutti li Vascelli appartenenti a nemici, e quelli comandati da Pirati Corsari, et altra gente, che scorresse il mare senza Patente di verun Prencipe né Stato Sovrano» (art. 6); ci si preoccupava anzitutto che all’atto della cattura venisse immediatamente raccolta e conservata tutta la documentazione relativa al carico: «Subbito che i capitani dei vascelli armati in guerra si fossero impadroniti di alcuni vascelli, raccoglieranno le loro Patenti, passaporti, manifesti, polize di carico, e tutti l’altri fogli, concernenti al loro carico, e discarico del Vascello impossessandosi ancora delle chiavi, casse, armadi, e camere, e facendo serrare il boccaporto, et altri luoghi dove fossero mercanzie» (art. 17) (70). I più noti corsari ‘privati’ operavano sotto bandiera dell’ordine di Malta ed erano sottoposti al tribunale degli ‘armamenti’, istituito nel 1605, o erano invece muniti di speciali patenti rilasciate direttamente dal gran maestro ed erano in questo caso sottoposti al Consolato del mare, istituito sul finire del Seicento. I corsari del gran maestro – usiamo questa espressione per intenderci – sino al 1720 erano autorizzati ad operare soltanto nelle acque maghrebine, dunque a danno esclusivamente dei musulmani. Successivamente ottennero con frequenza di poter esercitare il loro ‘mestiere’ anche nelle ben più ricche acque del Levante, dove potevano agire contro bastimenti greci e catturare merci e schia-

(70) ASFi, Principato, filza 2131, ins. 38.

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vi negri su legni turchi; ciò provocò contenziosi, ricorsi ai tribunali, decisioni dei papi. Benedetto XIII nel 1729 e Clemente XII nel 1738 stabilirono «contro le ingiuste pretenzioni de’ Greci» che era lecito far bottino di merci greche – delle quali si potesse documentare con sicurezza la proprietà – imbarcate su legni turchi da guerra o corsari; non, invece, se quei legni erano mercantili, ma di questi di fatto se ne contavano ben pochi (71). «La corsa maltese conobbe all’inizio del Settecento un secondo apogeo, sotto forma di un’esplosione quasi totalmente anarchica», ha affermato Michel Fontenay, il massimo esperto in proposito; intorno al 1710 i corsari erano una dozzina, raggiungendo la quindicina fra il 1712 e il 1720. Ma il mutamento più rilevante era che «non si trattava più di una impresa aristocratica ma di un’attività plebea, meno nobile per definizione, dunque meno onorevole». Malta peraltro fu anche base di corsari operanti sotto bandiera del regno di Spagna e del granducato di Toscana, mentre fra il 1732 e l’anno seguente il gran maestro abolì la possibilità per gli stranieri di porsi sotto la bandiera maltese, dell’ordine o del gran maestro (72). Una piccola serie di sondaggi, effettuati da Jacques Godechot, rendono un’idea delle dimensioni, relativamente ridotte, fra il 1764 e il 1788, dell’attività corsara che muoveva dall’arcipelago maltese. Nel corso dei sei anni esaminati (1764, 1770, 1775, 1780, 1785 e il 1788), un certo numero di prede vennero effettuate da corsari veneziani o del regno di Napoli, altre 24 da navi dell’ordine (4) e da corsari maltesi (20); di alcune ci viene riferito qualche dettaglio (data, località, numero delle persone predate). Questo ultimo ammontò in totale a 675, cioè 115 in media ogni anno. Le coste maghrebine colpite erano quelle della Tunisia e della Tripolitania occidentale (73). Tra le figure più di spicco di corsari maltesi – studiati per primo da Peter Earle, che ha però abbandonato questo campo di ricerca – incontriamo Giovan Francesco di Natale, originario della Corsica, al comando della nave Beata Vergine del Rosario. Dapprima ufficiale a bordo d’una nave comandata dallo zio, il capitano Giacomo di Natale, percorse le rotte del Levante prendendo parte a catture – come era costume dei corsari maltesi – anche di navi greche con merci trasportate da un porto all’altro dell’impero turco. Da capitano, Giovan Francesco di Natale guidò una nave corsara in Levante fra l’aprile 1739 e il luglio 1741, mentre nell’estate successiva operò sulle coste del Ma-

(71) EARLE 1970; BONO 1993, 56-58. (72) FONTENAY 1999, 80. (73) GODECHOT 1952.

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ghreb: svolse una campagna nei mari della Tunisia orientale, interrotta da ritorni a Malta; fra l’altro prese una imbarcazione carica d’olio e di barracani, con cinque uomini e due donne, fatti schiavi, naturalmente. Nell’aprile 1744 ottenne una nuova patente di durata quinquennale – l’altra era scaduta – per operare in Barberia, da capo Misurata alle coste marocchine. Sotto altre bandiere – del re di Sardegna e del principe di Monaco – il nostro proseguì a lungo il suo mestiere di corsaro, ma in prevalenza in Levante; nell’estate 1764 operò con successo nel mare di Sardegna come riferisce una Relazione citata più avanti (74). Sotto le bandiere dei vari stati operavano in effetti corsari originari di città diverse, del Mediterraneo ma anche di altri mari; altrettanto varia era la nazionalità di coloro che operavano a vario titolo nella organizzazione del ‘corso’ (gli specialisti erano per lo più greci, maiorchini, provenzali e dalmati). Anche nel porto dei cavalieri stefaniani erano di stanza corsari privati, sui quali sinora disponiamo di poche notizie; in Sicilia trovavano base a Palermo e a Messina ma il loro porto per eccellenza fu Trapani, come in Sardegna Cagliari, relativamente vicini alle coste maghrebine. Le coste della Francia meridionale e quelle mediterranee della penisola iberica avevano i loro corsari, a Tolone e a Marsiglia, a Valencia e a Almeria, nelle Baleari e in altre località (75). La stampa periodica settecentesca – proprio in quel secolo cominciava a moltiplicarsi e a diffondersi – riportava non di rado notizie su eventi (scontri sul mare, incursioni, sbarchi, minacce) connessi alla guerra corsara mediterranea, da una parte e dall’altra; quelle notizie suscitavano invero nel pubblico viva curiosità non disgiunta da apprensione (76). In occasione poi di alcuni episodi di maggior rilievo, i più drammatici e i più fortunati per i cristiani, si pubblicavano in via straordinaria opuscoli, di due-quattro pagine, interamente dedicati a quel dato evento. Questo tipo di fonte non è stato sinora sufficientemente utilizzato, forse anche a causa della

(74) EARLE 1970, 236-251; per la Relazione si veda in corrispondenza alla nota 80. (75) Le notizie si trovano molto sparsamente. Ad esempio, per incursioni dei corsari sardi sulle coste maghrebine intorno al 1730 e al 1744 si vedano rispettivamente P. CAU, La difesa sul mare. Breve storia navale del Regno di Sardegna in epoca sabauda, in Torri, soldati e corsari. Evoluzione della difesa costiera nella Sardegna meridionale, Selargius 1996, 104-123, e LO BASSO 2002, 130. Sui corsari spagnoli: MARTÍN CORRALES 1987; MAESTRE SAN JUAN PELEGRÍN – MONTOJO MONTOJO 2002. (76) Si veda il lavoro esemplare, pur se limitato all’inizio del secolo, di TURBET-DELOF 1973.

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sua difficile reperibilità; menziono alcune di queste ‘relazioni’ rimaste sconosciute, a quanto sembra, anche ad opere specialistiche: Relazione del combattimento, e presa d’un vascello corsaro algerino fatta dal cavaliere Fra D. Scipione Deoux francese, capitano d’un Vascello da Guerra della Sacra Religione di S.Giovanni, li 24. Marzo di quest’anno 1729. Nell’acque dell’isola di Lampedosa, Palermo, per Vincenzio Toscano, 1729 (77). Relazione della presa fatta dalla galera capitana maltese di un Bastimento Tunisino, il di cui rais chiamavasi Hassan Flalil, Ogli, Rodolsi. Sotto il comando del capitan comandante il sig. Commendatore Castelli. A 20. Novembre 1741., In Palermo, Per Antonino Gramignani, MDCCXLII (78). Relazione del combattimento navale tra quattro Galee di Malta, con due Sciabbecchi Algierini nel Canale dell’Isola di Favignana. Colla resa delli sudetti Sciabbecchi Algierini. Sotto li 16. Maggio 1752., in Palermo MDCCLII, Nella Stamperia di Stefano Amato (79). Relazione del conflitto navale Seguito il dì 4 Agosto tra corsari maltesi e barbareschi, in Lucca 1764., Per Giuseppe Rocchi (80).

(77) La copia da noi reperita trovasi in BRPa (Misc. A, 150.5). (78) BRPa: Misc. A, 157.1. La notizia venne data anche dal «Mercure de France», 1742, 184-185. (79) BRPa: Misc. A 190, 19. (80) Un esemplare alla Royal Malta Library (MZH, E Cabinet).

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Il coraggio di un capitano veneto (1749) Incontri e scontri di legni degli stati maghrebini con navi di paesi cristiani accaddero non solo nel bacino occidentale ma anche in quello orientale del Mediterraneo. Così fu per la nave mercantile S. Trinità e S. Francesco, di proprietà di sudditi veneti e comandata dal capitano Zorzi Tavanelli. Ai primi di gennaio del 1749 il legno veneto lasciò l’isola di Cefalonia diretto a Candia per caricare olio e sapone. Allontanatosi dall’isola, il mercantile fece un brutto incontro: due grossi sciabecchi che lo inseguivano, risultati poi tripolini (1). Il capitano Tavanelli, vista impraticabile la manovra per ritrovare riparo a Cefalonia, predispose gli uomini alla difesa. A bordo vi erano 31 membri d’equipaggio e 25 della milizia della Serenissima con a loro disposizione 16 pezzi d’artiglieria di medio calibro e altri 16 minori; non appena possibile cominciarono a scaricare sui legni corsari la loro potenza di fuoco. Uno degli sciabecchi fu costretto per un tratto di tempo a ripiegare, mentre l’altro riuscì a manovrare in modo da ridurre il rischio d’essere colpito; tentò l’arrembaggio, ma questo gli costò invano un gran numero d’uomini. Ebbe successo soltanto ad un secondo assalto così che l’imbarcazione veneta «fu invasa da una grande quantità di mori, turchi, ragusei e cretesi, armati di pistole che venivano scaricate senza riposo». I veneti continuarono a difendersi sino all’estremo. Dopo aver inflitto grandi perdite al nemico, si ritirarono in una camera di poppa «sbarrando la porta, per farsi forti, ma i corsari colle mannaie abbatterono i ripari ed armati di schioppi, tolti ai morti, assalirono con estrema violenza i superstiti che cercavano di difendersi – in mancanza di tempo per caricare le armi – con le braccia ed i pugni». Al termine del durissimo scontro – dopo un tentativo del capitano veneto, ferito in più parti, di incendiare la nave – si contarono fra i veneti 16 morti e (1) Tutta la storia è narrata da CORÒ 1931a, sulla scorta di documenti dell’Archivio di Stato di Venezia.

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36 feriti, fra gravi e leggeri (solo 4 indenni). I barbareschi lamentarono «più di trecento perdite», secondo la successiva dettagliata testimonianza del Tavanelli. Al rientro a Tripoli, il 19 gennaio 1749, il pascià Mohammed Qaramanli volle vedere i superstiti del coraggioso equipaggio (altri otto erano morti nel viaggio) e si adirò con i due raìs corsari, vincitori con tanta fatica mentre disponevano di seicento uomini contro neanche sessanta veneti. Di questi, i feriti gravi, una dozzina, furono portati all’ospedale cristiano (sei morirono ma gli altri si ripresero in pieno tra febbraio e marzo); gli altri furono venduti come schiavi «ad ebrei e mori». Il capitano, pur angustiato anche dalle pressioni del pascià a farsi musulmano e ad assumere il comando di sciabecchi corsari, riuscì a ristabilirsi. Durante la convalescenza fu visitato da personaggi della corte, raìs e notabili, desiderosi di udire da lui racconti di viaggio e di avventure di mare; da qualcuno ricevette persino doni, che ricambiò al ritorno in patria. Il veneziano fu, infine, riscattato per 600 zecchini (un ammontare pari a 3-4 volte il prezzo medio) grazie alla mediazione del console svedese. Da Tripoli, via Livorno, tornò a Venezia il 20 settembre. Nell’interrogatorio, come di consueto, da parte del “provveditore della Diputazione al commercio”, raccontò minuziosamente la vicenda della sua nave, dei compagni e di sé. Della città di Tripoli e della reggenza, sulle quali aveva avuto modi di raccogliere molte notizie, così fra l’altro riferì: Il porto è buono e non riceve molta battaizza di mare. Verso terra vi è un gran Castello dimora del Bassà con buone batterie. La città è circondata di mura, che hanno i loro cannoni che battono il mare. Il porto ha poca acqua, al più vi saranno dodici piedi. La città non è grande, ha un popolo di 16.000 o 17.000 abitanti fra i quali quasi la metà ebrei. Se vi sarà pace fra Venezia e quel Cantone, si farà buon commercio, e si potranno impiegare trenta bastimenti all’anno e riportarveli preziosi di oli, cere, lane ed altro. Non ha il Bey una grande marina corsara, ma solo quattro sciambecchi grandi e tre galeotte che armano in porto, ed una nave capitana delli Rais, la quale si arma in bocca del porto perché di forte pescaggio. Queste navi escono una volta sola all’anno, ed in quaranta giorni hanno debito di ritornare; e qualche anno non vanno fuori. Vi sono anche galeotte private che vanno in corso, ma sempre col consenso del Bey, al quale devono corrispondere la terza parte delle prede (2).

(2) CORÒ 1931a, 10.

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La triste sorte del capitano Prépaud (1753) Numerosi autori hanno attestato nel corso del tempo che la fama terribile della efficienza e della severità dei barbareschi induceva comandanti ed equipaggi da essi sorpresi ad arrendersi prontamente anziché tentare una qualche difesa. Sul finire del Settecento una circolare delle autorità siciliane lamentava che «all’apparire un corsaro barbaresco i rispettivi equipaggi, senza fare la minima resistenza, abbandonano subito il proprio bastimento e corrono a salvarsi a terra» (3). Dal canto loro i barbareschi cominciarono a far sempre più affidamento sul fatto che le vittime dei loro agguati e dei loro scontri non opponessero resistenza, mentre in caso contrario reagivano con estrema durezza, proprio per dissuadere altri dal seguire il malvagio esempio. Eccone una riprova intorno alla metà del secolo. Mentre navigava da Cadice verso il Levante, nel settembre 1753, per fare acquisto di grano, il bastimento «L’Assunzione», comandato dal capitano JeanFrançois Prépaud, di La Ciotat, quando si trovò nello stretto di Gibilterra, si avvide di essere inseguito da uno sciabecco corsaro senza bandiera; il comandante pensò che si trattasse di un corsaro di Salé. Dopo aver accertato, mediante un’abile diversione di rotta, le effettive intenzioni dell’avversario, Prépaud chiamò i suoi uomini alla difesa. I francesi tirarono e ricevettero alcuni colpi di cannone all’abbordaggio; anche per la disparità numerica (25 contro una sessantina, molto ben armati) furono sopraffatti. Il capitano restò leggermente ferito alla testa (4). Poiché i corsari erano algerini – e con Algeri correvano allora buoni rapporti – Prépaud e i suoi pensarono di cavarsela bene. Il raìs pensò invece di punire comunque quel tentativo di resistenza; prese il controllo della nave, vi imbarcò alcuni francesi, fra i quali il capitano in seconda, e la fece condurre ad Algeri, dove tornò anch’egli il 5 ottobre. Anche il resto dell’equipaggio fu tratto schiavo. Il dey Mohammed, «furioso che si fosse osato colpire uno dei suoi corsari, senza ascoltare alcuna spiegazione, senza tener conto dei trattati, senza voler ascoltare il console, decise ab irato, che l’infedele [Prépaud] fosse impiccato», secondo le parole di un fecondo storico ottocentesco di Algeri barbaresca, Albert Devoulx, che ha ricostruito con ampiezza l’episodio, in particolare le inchieste e discussioni ad esso seguite.

(3) G. PITRÉ, La vita in Palermo cento e più anni fa, Palermo 1911, I, 168-169. (4) Una completa ricostruzione dell’episodio in DEVOULX 1871a e ID. 1871b. Sull’episodio riferiscono ampiamente i Mémoires de la Congrégation de la Mission 1737-1865, 240-245.

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Dopo qualche giorno, ascoltate le voci di coloro che temevano la reazione del governo francese, il dey si risolse a commutare la pena in una bastonatura, eseguita però con tanta durezza e accanimento da condurre l’infelice capitano alla morte, dopo due giorni di agonia. La vicenda provocò lunghe polemiche fra l’equipaggio, il console, altri elementi della piccola comunità francese ad Algeri per l’attribuzione e lo scarico delle responsabilità di ciascuna parte. La ricostruzione di Devoulx è chiaramente ispirata all’intento di denigrare gli algerini: «ainsi cet odieux attentat au droit des gens resta impuni», egli commenta, utilizzando l’episodio per scagionare la Francia dalle accuse, non del tutto infondate, di mantenersi in pace con i barbareschi per garantire immunità ai suoi cittadini e alla sua bandiera: «Cet épisode, auquel il serait malheureusement facile de joindre plusieurs autres, est une réponse à certaines assertions calomnieuses». All’equipaggio fu resa la libertà dopo quattro mesi ma non per le ferme proteste del console francese Lemaire, bensì grazie ad adeguati donativi a chi di dovere. L’‘affaire’ del capitano Prépaud suscitò risentimento e preoccupazioni anche in Francia e qualcuno pensò che si dovesse attuare una rappresaglia armata. Così progetta un Mémoire del 1753, conservato negli archivi del ministero degli Affari Esteri, del quale ci parla François Charles-Roux: «une situation – egli dice – dont l’humiliation semble ne plus pouvoir être tolerée, fait considérer comme nécessaire d’administrer aux Algériens une sévère correction, qui puisse valoir à la France leur respect». Il documento delinea un progetto di spedizione navale che «bien conduite et exécutée, elle réduirait certainement les Algériens»; ma non si limita a questo: si pensa che la spedizione, umiliata Algeri, potrebbe effettuare un colpo di mano sui porti marocchini, persino conservando il possesso d’uno di essi. Ma – conclude con rammarico lo storico dell’età coloniale – «aucune suite ne fut donnée à ces suggestions» (5). Astuzia e fortuna del raìs Haggi Embarek (1753) L’avventurosa vicenda di cui fu protagonista il raìs el-Haggi Embarek attesta con efficacia la volubilità della sorte per gli uomini impegnati sul mare, e in particolare per quelli dediti alla guerra corsara. La storia del raìs algerino non è stata invero consegnata a documenti o ad altri testi scritti ma soltanto a tradizioni orali, ascoltate nelle vie di Algeri ottocentesca dal ricordato Devoulx, che

(5) CHARLES-ROUX 1932, 265-269.

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tuttavia diffidava profondamente della loro possibilità di consentire un’affidabile ricostruzione storica (6). Fra i vecchi uomini di mare di Algeri barbaresca presenti ancora nella città coloniale, egli incontrò il raìs Hasan, già al comando della goletta Le Pleiadi della flotta algerina, uscita il 4 ottobre 1827 contro la squadra francese del capitano Collet. Il racconto del vecchio raìs barbaresco a proposito di Haggi Embarek, vissuto un secolo prima, gli era parso, a differenza di tanti altri, credibile, così che ne cercò con successo i riscontri negli archivi d’Algeri e ne consegnò poi il racconto in uno dei suoi tanti articoli per la “Revue Algérienne”, edita nel capoluogo algerino dal 1856 e per oltre un secolo. El-Haggi Embarek era un corsaro che preferiva ancora gli sciabecchi, snelli e veloci, dotati di un discreto sistema remiero, ai grandi ma pesanti vascelli di alto bordo. Le registrazioni del consolato di Francia – studiate da Devoulx – attestano infatti che il 27 agosto 1741 il nostro raìs chiedeva il rilascio del passaporto per uno sciabecco, di 8 cannoni e 54 petrieri, chiamato – secondo un altro documento francese del 30 luglio 1742 – Il cavallo bianco. In verità però i corsari non davano nomi propri alle loro navi; le distinguevano semplicemente con il nome del comandante (per esempio la galeotta del raìs Solimano) o con riferimento alle origini o ad una qualità dell’imbarcazione (per esempio la fregata portoghese, cioè catturata ai portoghesi; lo sciabecco nuovo, ecc.). Due anni più tardi il nostro raìs era a capo di uno sciabecco ben più grande (con 24 cannoni e 25 petrieri) di proprietà dello stesso dey, del quale aveva meritato la fiducia. Per circa otto anni non vi sono prove della sua attività, ripresa invece nel marzo 1753, con la fortunata cattura di prede ai danni di portoghesi, olandesi e maiorchini. Un altro documento ci attesta che el-Haggi Embarek era andato in corsa il 27 novembre 1753, su uno sciabecco di 27 cannoni, con il quale catturò nell’estate successiva un legno di Amburgo con 24 ‘infedeli’. Le ultime registrazioni consolari con il suo nome, datate nel settembre 1762 e nel luglio successivo, ce lo mostrano al comando d’uno sciabecco ‘governativo’ di 26 cannoni. Più nulla dopo quelle date. «Era morto – si chiede Devoulx – o si era ritirato dalla corsa, per godere tranquillamente delle ricchezze accumulate durante 25 anni di attività corsara? Non sono in grado di rispondere, poiché non so nulla della fine come degli inizi di questo furfante» (7). Riferiti questi pochi ma significativi dati tratti da documenti scritti, veniamo alla tradizione orale.

(6) DEVOULX 1872. (7) Ivi, 37.

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Orgogliosi e soddisfatti, nonché arricchiti dai successi di una fruttuosa crociera verso le coste iberiche, il raìs e i suoi uomini si erano dati ‘alla pazza gioia’ nelle vie di Algeri, con violenze a danni di donne e conseguenti risse. Tre marinai si scontrarono persino con le guardie cittadine, uccidendone e ferendone alcune. Haggi Embarek, per sottrarre i suoi uomini ad ogni punizione, fece lasciare immediatamente Algeri. Riprese le vie del mare, disse loro: «ora dobbiamo fare un colpo così grande che il pascià perdonerà le nostre colpe!». Ben presto la fortuna sembrò andargli incontro. Presso le coste iberiche, che egli ben conosceva, apparve un possente galeone carico di ricchezze in arrivo dall’America. Per uomini esperti e audaci sembrava una facile preda, ma quando si approssimarono il galeone aprì una scarica di fuoco, da formidabili batterie abilmente mimetizzate. Gli algerini, dopo aver tentato invano di sottrarsi al confronto, furono costretti alla resa. Ma la vicenda non finì qui, almeno secondo la tradizione trasmessa nel tempo. Gli spagnoli si diedero a festeggiamenti senza limiti, finché caddero quasi tutti ubriachi. Haggi Embarek seppe allora sfruttare l’imprevista occasione offertasi: rapidamente e con cautela coordinò i suoi uomini, che presero il controllo della nave, immobilizzarono gli spagnoli e condussero il galeone sino ad Algeri. Come era nelle loro aspettative il pascià, soddisfatto della bella preda, concesse una generale amnistia. Amurat Bey, raìs rinnegato, nelle acque dell’Egeo (1761) Anche nel Settecento i corsari maghrebini si spingevano sin sulle coste orientali della penisola greca, tanto più agevolmente quando l’equipaggio del legno corsaro comprendeva levantini e albanesi, in particolare di Dulcigno, o europei rinnegati originari di quelle parti e dunque capaci di ben guidare la navigazione e gli sbarchi. Intorno alla metà del secolo la marina di Tripoli era piuttosto in declino, notevolmente inferiore dunque per consistenza ed efficienza rispetto a quelle di altri stati maghrebini. Il pascià Ali Qaramanli, intenzionato a risollevarne le sorti, ne affidò il comando a Amurat bey, un marsigliese rinnegato, posto dal pascià a capo della flotta della reggenza, come ci riferisce un francescano veneto, fra’ Diodato da Benablio (8).

(8) Su tutto l’episodio CORÒ 1932a, da documenti dell’Archivio di Stato di Venezia (Savi alla Mercanzia). Murat o Amurat, il cui cognome è riferito da Corò come Sicart, è da noi menzionato tra i rinnegati nel capitolo 5, come Sicard.

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La campagna della flotta tripolina nella primavera-estate 1761 era stata ben poco fruttuosa, pur avendo spaziato dal Tirreno ai bordi dell’Egeo. Il pascià era scontento ed Amurat a sua volta era molto irritato con i raìs e le ciurme, temendo di cadere in disgrazia. Decise allora, pur essendo già novembre, «di partire egli stesso per la corsa, armando la capitania, lo sciambecco grande ed altro piccolo. Suo progetto era di aspettare nei canali di Candia e Morea i bastimenti veneti che venivano da Cipro et Alessandria, carichi di mercanzie di pregio, dirette a Venezia». Adattandosi ai favori del vento si portò sulle coste del Peloponneso, e nel golfo di Corone, sul far della sera del 18 novembre, incontrò un veliero da pesca, comandato da «un greco di Corfù sempre stato in intime relazioni con li corsari». In quegli anni invero numerosi padroni di nave greci facevano da informatori e guide ai corsari maghrebini. Dall’incontro a Corone Amurat seppe che un grosso pinco genovese veleggiava, non senza difficoltà a causa dei venti contrari, verso l’Alto Egeo. Verso il tramonto del 19 novembre Amurat scorse la grande vela del pinco genovese; si sentì così sicuro della sua superiorità che non volle attendere il nuovo giorno. Mosse all’attacco e filò veloce, seguito da altre imbarcazioni, mentre il legno genovese, pesante e difettoso, faticava ad allontanarsi. All’approccio con la nave genovese Amurat gridò di esser francese (e quella bandiera in effetti aveva issato) e di volerla controllare. Il capitano genovese tentò invano di sfuggire; l’equipaggio corsaro saltò a bordo e immobilizzò i genovesi rimasti del tutto inerti. Il veliero portava grano, seta e schiavi cristiani liberati. Al rientro a Tripoli, il 2 dicembre, Amurat e i suoi vennero accolti con giubilo. La preda catturata non era disprezzabile (17 uomini e il carico). Non sappiamo se da parte genovese seguisse qualche protesta e se i tripolini conservassero o meno quella preda. Trionfo a Ibiza del capitano genovese Castellino (1763) Qualcuno degli innumerevoli scontri, per un suo effettivo carattere eccezionale o per qualche casuale circostanza, ottenne fama e risonanza ben più di altri. È stato così del combattimento sostenuto non lontano da Ibiza, il 17 ottobre 1763, dal vascello genovese San Francesco da Paola in navigazione verso Cadice al comando del capitano Domenico Castellino. Il vascello, capace di trasportare un grosso carico di merci ed insieme ben armato, di cannoni e di uomini, si trovò di fronte cinque sciabecchi e una fregata di Algeri. Il comandante genovese, considerata la sua inferiorità dinanzi al nemico, riuscì con

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astuzia e abilità di manovra ad affrontarne i legni prima che potessero schierarsi in modo unitario. «Dopo sette ore di incessante combattimento – ha scritto con enfasi un autore genovese dei nostri giorni – essi [gli algerini] dovettero rendersi conto che il geniale comandante genovese, ricorrendo a sempre nuovi accorgimenti, era riuscito ad impedire una loro coordinata offensiva, e a batterli separatamente, in più dimostrando di saper ricorrere all’uso dei cannoni con una rara maestria». Con il duro prezzo di 32 morti e 42 feriti il comandante Castellino non solo salvò la sua nave ma distolse gli algerini dall’attaccare l’isola di Formentera, che sembra fosse la meta prefissa di una incursione. Sia in Spagna che a Genova, al ritorno, il comandante genovese fu elogiato ed esaltato, persino per mezzo di composizioni poetiche (9). Il caso della Stella Matutina (1780) Nella prassi della guerra corsara a conclusione d’una cattura, il raìs o capitano si affrettava a dichiararla “buona presa” cioè preda legittima, mentre i responsabili del legno catturato ne contestavano la legittimità, se appena ne intravvedevano un motivo. Potevano in effetti sorgere contestazioni circa la regolarità dei passaporti e di altri documenti di bordo, il raìs o il capitano potevano ignorare l’esistenza di accordi di pace o di tregua, talvolta sopravvenuti dopo la rispettiva partenza dal porto di stanza, molte altre circostanze e norme potevano essere addotte a pretesto o a ragione. Un intricato caso ebbe inizio ai primi di agosto del 1780, al largo di Ventimiglia, quando la tartana toscana Stella Matutina, proveniente da Mahon, ove era andata a caricare merci per Livorno, venne catturata da uno sciabecco tunisino. Come spesso i corsari facevano, per proseguire speditamente la loro campagna corsara, i tunisini dopo oltre un giorno di navigazione abbandonarono il legno toscano presso l’isola di San Pietro. Poco dopo una fregata della marina sarda, la Saint Victor lo recuperò (10). Al sovrano sabaudo si rivolse allora il comandante della tartana, capitano Paolo Lazzarini, chiedendo la restituzione della sua imbarcazione, secondo l’esempio di altri recenti casi analoghi. Fra di essi, quello di tre bastimenti

(9) BACCHIANI 1937. (10) Per tutto l’episodio: BONIFACE 1954.

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sottratti ad uno sciabecco algerino da una galera genovese che li restituì ai proprietari, ed anche quello di un bastimento toscano, del capitano Santoni, tornato in libertà dopo la cattura da parte di un corsaro algerino, grazie all’intervento di un battello russo. Il Consolato del mare di Nizza, interpellato dal governo piemontese, espresse il suo parere nel novembre dello stesso 1780: È un principio generalmente accolto quello secondo il quale, quando una presa è stata in potere del rapitore durante ventiquattro ore ovvero se, anche prima di questo termine, essa è stata aggregata alla flotta o ha fatto scalo in qualche porto o costa dello Stato nemico o d’un alleato di lui, la si consideri come appartenente in piena proprietà al rapitore […] In maniera che, considerandosi la presa fatta come un bene del quale il rapitore ha acquisito la piena proprietà […] colui che la riprende, l’acquista come un bene del proprio nemico e, per conseguenza, la fa propria di pieno diritto senza alcun obbligo di restituzione […] Tutto ciò si applica, tuttavia, quando la preda è ripresa al nemico da un armatore della stessa nazionalità o di nazione alleata o anche da un qualche bastimento privato, ma non se essa è ripresa per l’intervento d’una nave da guerra o, in altro modo, sempre con l’impiego della forza del sovrano stesso della vittima o d’un suo alleato (e come tale si intende anche ogni neutrale) (11).

In virtù delle ultime considerazioni si esprimeva un parere favorevole alla restituzione dell’imbarcazione al capitano Lazzarini, pur con l’obbligo per lui di corrispondere alla marina sarda un compenso per il recupero. Il governo di Torino deliberò tuttavia nel gennaio 1781 di far esaminare ulteriormente il caso, con l’audizione preliminare del cavalier de Foncenex che comandava la Saint Victor. Nella nuova valutazione la conclusione fu completamente diversa, poiché si partì dalla constatazione che i barbareschi non erano ‘pirati’ ma corsari, essi erano cioè «solamente nemici delle diverse nazioni che erano in guerra contro di essi» e, come numerosi aspetti motivavano, essi esercitavano «una sovranità riconosciuta da altri popoli» (12). Ciò che catturavano diveniva loro legittima proprietà e chi ad essi la toglieva l’acquisiva di pieno diritto; non vi era dunque alcun obbligo di restituzione (ma se così si fosse disposto, si consigliava di reclamare un terzo del valore a titolo di rimborso delle spese per

(11) BONO 1964, 102. (12) Come dice la nota finale dell’articolo di Boniface i due documenti, da esso citati e da noi riportati, nell’originale sono in italiano ma nell’articolo in francese; abbiamo ritenuto preferibile ritradurli.

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il recupero). Sembra che il governo sardo decidesse comunque infine di procedere alla restituzione, forse senza nemmeno pretendere un indennizzo. Una vittoria sarda a caro prezzo (1794) Come gli altri autori, anche noi sosteniamo che l’attività corsara nel Mediterraneo abbia registrato un progressivo declino dalla metà del Settecento sino alla insospettata ripresa dopo la caduta della repubblica di Venezia e l’occupazione francese di Malta (1797-1798), ripresa durata poi sino al termine dell’epoca napoleonica. La fase di declino, sino alla vigilia della ripresa, non escluse tuttavia una serie di piccoli episodi e alcuni di una certa rilevanza. Così lo scontro, vittorioso ma tragico per l’alto prezzo umano, occorso nel gennaio 1794, d’una forte squadra sarda con due legni barbareschi. Questi erano stati avvistati, il 2 gennaio, dalla gondola Sardegna e dalla galeotta Serpente mentre perlustravano le acque fra la costa sarda e la Corsica. Le due navi rientrarono subito alla Maddalena per dare notizia dell’avvistamento al comandante della flottiglia sarda, cavalier de Chevillard. Questi decise di muovere senza indugio e in forze contro gli audaci corsari; sulle navi sarde – le mezze galere S. Barbara e S. Margherita, la galeotta Sultana e la gondola L’Aquila, oltre quelle già nominate – si imbarcarono, insieme agli equipaggi regolari, molti sardi, della Maddalena e d’altri luoghi. «Prova evidente – commenta uno storico dell’isola – di quanto i Sardi delle coste sentissero l’importanza della minaccia corsara e come liberamente concorressero, non appena possibile, alla lotta contro di essa» (13). Ecco come il noto storico della minaccia corsara arabo-islamica nell’isola, Pietro Martini, racconta l’episodio del 1794: Il combattimento durò dallo spuntare del sole sino alle ore dieci antimeridiane del 3 gennajo; ed i Sardi conseguirono piena vittoria. Il più forte degli sciabecchi fu loro preda: l’altro, equipaggiato in gran parte d’Algerini e più ostinato nella pugna, dai Turchi stessi, che appiccarono il fuoco alla polvere, fu fatto saltare in aria. Questo incendio recò gran danno ai Sardi, dei quali sessant’uno rimasero feriti nel conflitto o combusti, e di questi alcuni poco dopo perirono (14).

(13) Per tutto l’episodio: TODDE 1959. (14) MARTINI 1861, 243.

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Il successo era stato rilevante: una nave catturata con 18 cannoni e 96 uomini, poi incorporata alla marina reale, l’altra, con altrettanti uomini e 12 cannoni, distrutta. Il bottino tratto dalla nave catturata – del quale è stato pubblicato l’inventario in appendice all’articolo di Giovanni Todde sull’episodio – comprendeva un buon numero di cannoni oltre all’arredo stesso della nave (alberi, vele, remi, ancore, gomene), armi da taglio, munizioni, numerosi strumenti per la navigazione, ed inoltre un carico di cera (oltre 500 libbre), 42 libbre di canapa, 72 libbre d’olio (altre vettovaglie risultarono avariate). Tre schiavi cristiani vennero resi liberi: un civitavecchiese patrono di nave e due marinai di Gaeta. Dai due quinti del ricavo del bottino spettanti al governo sarebbero stati tratti i mezzi finanziari necessari per elargire una speciale ricompensa a coloro che avevano partecipato al combattimento: due mesi di paga ai feriti gravi e a coloro che si erano distinti nella resistenza, un mese a tutti i marinai; una indennità infine agli isolani che avevano lasciato la loro abituale occupazione (15). Il prezzo pagato per la vittoria era stato però enorme: in totale i morti furono nove ed una sessantina i feriti, per la maggior parte gravemente ustionati. Il problema maggiore fu di assicurare loro assistenza; vi concorsero gli stessi marinai, nonché mogli e figlie degli sfortunati. Per lenire le ustioni si utilizzò, fra l’altro, l’olio reperito sul legno corsaro catturato; dalle vele e da altre tele generosamente fornite dalla popolazione si ricavarono le bende necessarie. Il timore del contagio della peste, per il contatto avuto con i maghrebini, complicava la situazione, se si volevano seguire le molto prudenti disposizioni vigenti. Fuggiaschi ma non schiavi (1794) Nello stesso anno, nelle acque dello Ionio, un vascello procidano, il Sant’Andrea, all’altezza di capo Rizzuto incappò, nella notte del 6 luglio, in un corsaro di «natura turchesca» non meglio identificato. Il Sant’Andrea era stato noleggiato al mercante don Giuseppe Balsamo per trasportare da Rocca Imperiale a Barcellona un carico di doganelle. Il capitano Nicola Ambrosiano tentò di allontanarsi e di raggiungere la fregata reale, che era stata vista al largo del Capo delle colonne, per averne protezione. Fatalmente, verso l’una di notte,

(15) TODDE 1959, 13, riporta che nel 1787, in occasione della distruzione di uno sciabecco barbaresco, il re aveva concesso una annualità di paga ai feriti e 6 mesi a tutto il resto dell’equipaggio.

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un calo dei venti quasi arresta il vascello mentre il legno musulmano, una galeotta fornita di remi, ne approfitta. Come innumerevoli volte era ad altri legni cristiani accaduto, il capitano e l’equipaggio procidano «temendo perciò d’andar sicuramente in schiavitù colla Gente del Suo Equipaggio, giacché non aveva speranza di fuggire tanto per essere in perfetta calma, quanto per non aver forza da resistere alla Forza maggiore del Nemico, risolsero tutti di mettersi in salvo sulla lancia». Salvarono la vita e la libertà riparando a terra con quella imbarcazione. Al mattino riuscirono a scorgere e ad avvertire dell’accaduto la “Real Fregata” ma anche il vascello reale, gettatosi all’inseguimento, fu presto bloccato dalla mancanza di venti (16).

(16) CISTERNINO e PORCARO 1954, 112-113.

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Se nel corso del Settecento continuò nel Mediterraneo la guerra corsara, esercitata da una parte e dall’altra, vuol dire che continuò la schiavitù, di cristiani presso i musulmani, in maggior misura nel Maghreb, e di musulmani presso i cristiani, a Malta, in Italia, in Spagna, ma anche in altri paesi d’Europa. Pur se in mancanza di studi e di analisi specifiche, è consentito affermare che il secolo XVIII vide un rilevante mutamento nelle dimensioni e nel carattere della schiavitù. Da una parte e dall’altra diminuì il numero degli schiavi, salvo una certa ripresa negli ultimi anni del secolo. Le condizioni e il trattamento degli schiavi migliorarono, anzitutto quale conseguenza della stessa diminuzione del loro numero, per la cessata o molto diminuita esigenza di rematori per le squadre navali, in quanto le galere e altre navi a remi vennero sempre più estesamente sostituite da navi a sistema velico. Per quanto migliorate potessero essere le condizioni, gli schiavi soffrivano pur sempre per le costrizioni e i limiti alla loro libertà, nonché per il distacco e la lontananza dall’ambiente familiare e dai luoghi abituali. I cristiani potevano comunque nutrire maggiori speranze di ritorno in patria ed in effetti una più elevata proporzione di essi riusciva a ottenere il riscatto. Le analogie e persino le coincidenze nelle condizioni degli uni e degli altri si rilevano nel corso del Settecento come già nei secoli precedenti. Una sola fondamentale differenza ne segnava il destino: i maghrebini consideravano gli schiavi cristiani come una fonte di guadagno, attraverso il riscatto, per l’erario pubblico e per i privati che investivano nell’acquisto di schiavi e ne negoziavano poi la restituzione in libertà; per gli europei invece, gli schiavi, in maggioranza pubblici, costituivano una forza lavoro per le flotte (almeno sino alla metà del secolo) e per i lavori pubblici, ovvero per il servizio domestico privato. Il trattamento dei cristiani nel Maghreb, se non altro per il fatto che si era interessati al loro riscatto, dunque al loro mantenimento in vita, era in media verosimilmente migliore. A proposito di quelli trattenuti a Tunisi, il viaggiatore francese Peyssonnel, che non ne indica il numero, afferma: «On peut assurer que les Turcs de ce pays sont fort humains pour leurs esclaves» e più tardi un

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altro francese, il signor di Thédenat, schiavo in Algeria negli anni ’80 (ne riassumiamo la vicenda fra le Memorie di schiavi), giunse ad affermare: sarebbe desiderabile per l’umanità che gli schiavi turchi e mori che sono in mano agli spagnoli, ai napoletani, ai genovesi e ai maltesi fossero trattati così bene come lo sono i cristiani presso coloro che sono ritenuti capaci soltanto di crudeltà (1).

È fuor di dubbio che il numero degli schiavi europei nel Maghreb e dei maghrebini in Europa nel Settecento sia stato sensibilmente minore che non nei due secoli precedenti: la curva discendente ebbe inizio dalla metà del secolo XVII, come per tutta la schiavitù nel bacino mediterraneo. La graduatoria fra le tre reggenze barbaresche e il Marocco, quanto alla presenza di schiavi cristiani, restò peraltro quella dei secoli precedenti. Al primo posto risultò sempre Algeri, seguita da Tunisi e da Tripoli; meno facile collocare il Marocco dove il numero degli schiavi europei può valutarsi inferiore a Tunisi e superiore a Tripoli. Ad Algeri dopo la terribile pestilenza degli anni a cavallo del secolo, nel 1701 non vi erano più di 3mila schiavi, ma il numero verosimilmente si accrebbe per gli altri 2mila giunti nel 1708, a seguito della ‘liberazione’ di Orano dal dominio spagnolo. I frequenti riscatti però e di buon numero di individui nel corso del secolo – come si vedrà – impedirono che la presenza servile si incrementasse, se non occasionalmente. Padre Fau nel 1729 li stima in 9-10mila e qualche anno dopo un testimone parla di oltre mille schiavi pubblici e 5mila in mano a privati; Shaw nel 1738 riduce già la cifra a «circa 2000». Verso la metà del secolo il numero si era ridotto a un migliaio, ma un’altra fonte torna a stimare la popolazione cristiana di Algeri in 3mila unità, la maggior parte dei quali dovevano trovarsi in schiavitù (2). Queste cifre sembrano tuttavia contrastare per eccesso con i dati, sicuramente attendibili, dei censimenti effettuati dalle autorità algerine; il divario potrebbe peraltro risultare meno accentuato se le valutazioni degli osservatori europei si intendessero riferite all’intera reggenza e non solo alla città di Algeri, ovvero come riguardanti soltanto gli schiavi pubblici e non anche quelli in mano ai privati (3). (1) PEYSSONNEL 1724-1725, 57; THÉDENAT 1785, 165. (2) Mémoires de la Congrégation 1645-1735, 512; GRAMMONT 1887, 269; PINGAUD 1880, 334; FILESI 1983, 862, dal rapporto di un missionario; BRAQUEHAYE 1907; SHAW 1743; Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 298. (3) A. DEVOULX, Tachrifat. Recueil de notes historiques sur l’administration de l’ancienne Régence d’Alger, Alger 1852, utilizzato da CRESTI 2001, che riporta anche alcuni dati di fonti occidentali. Per gli anni 1788-1796 si va dagli 800 ai 700 schiavi.

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Negli ultimi decenni del secolo gli schiavi certamente decrescono ancora: si stimavano intorno a 2mila nel 1781, ridottisi a un migliaio nel 1787 (di cui 843 pubblici); nel 1792 ne sarebbero rimasti soltanto 200 ma il ritorno di Orano in mani algerine (gli spagnoli l’avevano rioccupata nel 1732) comportò in quell’anno l’acquisto di un mezzo migliaio di prigionieri. Nel 1796 infine un missionario informava che gli schiavi raccolti nei due bagni (dunque quasi tutti pubblici) si erano ridotti a 700, e al principio del nuovo secolo non erano più di 500 (4). A Tunisi nei primi anni Venti del XVIII secolo i cristiani in schiavitù dovevano essere ancora da cinque a tre migliaia e qualche altro centinaio complessivamente si trovava in località minori (150, per esempio, a Porto Farina nel 1719). Non abbiamo invero molti dati in proposito – e altrettanto può dirsi anche per gli altri stati maghrebini – anche perché molti autori, pur facendo cenni, più o meno estesi, della presenza degli schiavi, non precisano nulla quanto al numero (5). Nel 1741 – quando il numero doveva essersi ridotto – giungeva nella capitale l’ingente ‘bottino’ umano (circa 900 schiavi) della conquista tunisina di Tabarca, sino allora sotto il controllo genovese; a metà del secolo gli schiavi erano circa 1400 «tant Tabarquins qu’Italiens, Maltois, Espagnols ou Portugais»; nel 1767 si erano però ridotti a 267, secondo la relazione di un missionario. L’incursione tunisina a Carloforte nel settembre 1798 portò a Tunisi circa 900 schiavi e ne fece risalire il totale, risultato di 1500 nel censimento indetto dal bey Hamuda Pascià all’inizio del nuovo secolo (6). Anche per Tripoli le cifre relative al corso del secolo XVIII scarseggiano. L’esistenza all’inizio del secolo ed oltre di due vasti bagni, ciascuno della capienza di 500 uomini, e di un altro più piccolo destinato agli schiavi addetti ai lavori nei terreni intorno alla città, potrebbe indurre a ipotesi errate; nel 1760, infatti, i due bagni rinchiudevano soltanto 80 schiavi e questa cifra rimase verosimilmente quale media sino alla fine del secolo (nel 1801 se ne contavano 78) (7). (4) Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 449 e 564; FILESI 1973, 864-865. Per gli anni 1787 e 1792 i registri algerini segnano rispettivamente il numero di 572 e di 832. Qualche altra cifra è ricordata da R. DAVIS, Counting European Slaves on the Barbary Coast, in “Past and Present”, 172/agosto 2001, 98-101 (87-124). (5) Per esempio in SAINT GERVAIS 1736. Una pianta del 1721 del bagno detto di San Leonardo e di Kara Ahmed (uno dei cinque allora esistenti a Tunisi) è stata pubblicata da SACERDOTI 1950. (6) FILESI 1973, 866-867 e 870-871; POIRON 1752, 17; RIGGIO 1938. Sui tabarchini, fra l’altro: RIGGIO 1937, ID. 1938a, ID. 1943; su altri schiavi cristiani ID. 1939a, ID. 1950-1951. Sulla incursione a Carloforte, vedasi cap. 15. (7) FILESI 1973, 852 e 855.

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In Marocco ai tempi di Mulay Ismail, il cui lunghissimo regno si protrasse a cavallo del secolo (1672-1727), gli schiavi cristiani erano ancora piuttosto numerosi nell’insieme dell’impero; forse 2mila erano impiegati nei lavori pubblici. Nel 1728 a Meknès, allora capitale, ve ne erano 1100 (di cui ben 300 inglesi); generalmente i gruppi nazionali più consistenti erano gli spagnoli e i portoghesi. Nell’ulteriore corso del secolo il numero si andò riducendo; nel 1767, ad esempio, vi erano ancora 400 spagnoli e 250 francesi ma in quell’anno essi furono oggetto di uno scambio generale «sicché i bagni s’erano quasi del tutto spopolati» (8). Alla diminuzione degli schiavi cristiani nel Maghreb sino agli ultimi decenni del Settecento, corrispose una analoga flessione, forse ancor più accentuata, nella presenza di musulmani schiavi in Europa, e precisamente in Italia, Spagna e Malta, i tre paesi dove la loro presenza permase più a lungo (in Italia casi eccezionali possono ritrovarsi anche dopo il 1830). La grande maggioranza era ormai concentrata nei porti ove erano di stanza le flotte. Nel settembre 1705 tra Livorno e Pisa vi erano soltanto 496 schiavi (372 idonei al remo, 87 impiegati in servizi diversi, 43 inabili). Secondo un ruolo della marina pontificia nel febbraio 1720 la ciurma contava 257 schiavi, saliti a 396 nel 1723 (circa il 20-25 per cento sul totale dei galeotti). Sulle galere del regno di Napoli nel 1740 vi erano 352 uomini (conosciamo le generalità di ognuno e possiamo calcolare, fra l’altro, che oltre due terzi di essi avevano una età fra 21 e 40 anni); l’86 per cento erano maghrebini (i tunisini e i libici rappresentavano rispettivamente un terzo e poco meno, seguivano gli algerini con il 16 per cento e i marocchini con l’8 per cento). Sulla flotta sarda nel 1720 gli schiavi erano 253 (il 22 per cento della ciurma) (9). A Livorno nel 1747 i musulmani furono accuratamente censiti, dopo l’accordo di pace con l’impero ottomano, seguito poi da altri con diversi stati islamici mediterranei. Sul totale di 250 i maghrebini costituivano l’80 per cento (42 per cento gli algerini, 23 i tunisini, 10 i libici e 6, infine, gli abitanti del Marocco). Di loro conosciamo molti dati e sappiamo, fra l’altro, che i due terzi si trovavano in schiavitù da oltre 15 anni (il tempo medio trascorso in cattività risultava di 19 anni) (10).

(8) JULIEN 1956, 237; CLISSOLD 1977, 54; FILESI 1973, 878; LOURIDO DÍAZ 1989, 115140, che però non fornisce cifre. Nel 1715 a Meknès vi erano 112 schiavi francesi, alcuni da 30-40 anni (AN, Marine B 1, 1, 324, 11 ottobre 1715). Un panorama sulla schiavitù cristiana, e negra, nel Maghreb, ma particolarmente in Marocco è offerto da BENNET 1960. (9) BONO 1999, 181-185. (10) Ivi, 185-187.

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Non solo in Italia ma altrettanto nella penisola iberica, almeno sino agli anni ottanta del secolo, continua la presenza di schiavi musulmani, residuo di una comunità che si stava complessivamente riducendo, ma che pure si alimentava di nuovi arrivi, grazie alla attività di corsari privati. Per gli schiavi pubblici in Spagna si stima una cifra media intorno al migliaio fra il 1720 e il 1769, con punte sino a duemila. Quanto alla Catalogna una analisi dei diversi motivi di riduzione della presenza servile, fra l’altro per l’esaurirsi delle operazioni di cattura operate dalla flotta catalana, è offerta da Eloy Martín Corrales che ne sottolinea il carattere “residual” sino ad affermare che «la esclavitud musulmana había perdido su razón de ser en la Cataluña del siglo XVIII»; risulta comunque che dal 1720 al 1789 vennero catturati o uccisi 949 “berberiscos” (e nello stesso periodo 1091 catalani caddero in potere dei maghrebini). Tanto più dall’osservatorio di una piccola città, la valenziana Orihuela, si conferma che la schiavitù nel Settecento «pasa a ser un fenómeno residual. A extinguir». Soltanto fattori particolari – la vicinanza geografica al Maghreb e la presenza del servizio di imbarco dei galeotti – possono far sì che a Cartagena la presenza servile prosegua più a lungo e in misura relativamente apprezzabile (11). Sugli schiavi musulmani a Malta vi sono sinora pochi contributi perlopiù dovuti a Michel Fontenay (la ‘tesi’ di Godfrey Wettinger è tuttora inedita). Anche nelle isole maltesi il numero andò declinando nel corso del secolo, dai 2000 forse dell’inizio ai 600 schiavi ‘pubblici’ accertati al momento dell’occupazione francese (e forse cento-duecento presso privati). Da un corpus di compra-vendite a Malta si ricava il prezzo medio di 208 scudi maltesi (12). Nell’utilizzo degli schiavi europei e maghrebini nel Settecento non vi furono variazioni rilevanti rispetto al passato; persistette anzitutto la fondamentale differenza fra gli schiavi pubblici e quelli in mano a privati, il cui numero si andò riducendo radicalmente. Quanto agli schiavi pubblici, sino alla metà del secolo impiegati in maggioranza come rematori sulle galere e sulle altre navi a remi, il progressivo disarmo delle galere li rese disponibili in maggior numero per i lavori pubblici e in questi infatti li troviamo principalmente impiegati, una condizione per essi non meno dura di quella sui banchi dei rematori.

(11) BARRIO GOZALO 1980, MARTÍN CORRALES 1997 e TORRES SANCHEZ 1986; J.B. VILAR, Orihuela, una ciudad valenciana en la España moderna, IV, Murcia 1981, 185; STELLA 2000; PEÑAFIEL RAMÓN 1992, su Murcia. Sugli schiavi a Malaga: GOMEZ GARCIA e MARTÍN VERGARA 1993. Sugli algerini in Europa v. BELHAMISSI 1996. (12) FONTENAY 2001, 394-400, con tabelle.

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Il caso più noto e forse di maggiori dimensioni fu quello dei musulmani impiegati come maestranze nella costruzione della reggia di Caserta, fra il 1755 e il 1779; il loro numero andò dai 400 ai 360 circa, una percentuale dal 14 al 44 per cento rispetto al totale dei lavoratori. I musulmani, perlopiù maghrebini, erano addetti a compiti come scavare, spurgare fossati, cavare pietrisco, spaccare pietre, issare colonne. Una mansione qualificata, come la rifinitura delle riggiole, un tipo di mattonelle di maiolica, decorate e smaltate, sembra fosse riservata agli schiavi. Per contro il viaggiatore francese Joseph-Jérôme de la Lande, che ebbe occasione di vederli nel suo viaggio nel 1760, scrisse che: «ce n’erano pochi che lavorassero utilmente». In Spagna gli schiavi musulmani furono impiegati in diverse opere pubbliche, per esempio sulla strada per Guadarrama, in prossimità di Madrid, ed uno di essi, un marocchino, si lamentò scrivendo al suo sovrano che il lavoro era «senza pace e sollievo» e che egli e i suoi compagni erano malnutriti, malvestiti e non di rado bastonati (13). Nello stato pontificio gli schiavi appaiono al lavoro, fra l’altro, nel 1722 a ponte Sant’Angelo a Roma ed un responsabile osservò che essi lavoravano «con più lena e con più bona voglia de’ forzati». Quelli di stanza a Civitavecchia vennero talora persino impiegati in lavori agricoli, come ‘trapalare’ il grano, cioè rivoltarlo con la pala per consentirne l’essiccamento completo; altri lavoravano al canale del Circeo e alle torri costiere di guardia. A Cagliari intorno al 1742 gli schiavi costituirono una «forza-lavoro a bassissimo costo, a vantaggio dei privati e della stessa pubblica amministrazione, che di loro si avvaleva per la costruzione dei bastioni, fortezze, ponti, ecc.» (14). Quando gli schiavi divennero meno necessari per le galere accadde con più frequenza che fossero ‘prestati’ come domestici a ufficiali delle flotte e a funzionari pubblici; nel maggio 1779, per esempio, al comandante della ‘capitana’ pontificia ne vennero assegnati tre a servizio personale e due ciascuno ai capitani delle altre due galere (15). Come e più che in passato nel Settecento gli schiavi ottennero, sia cristiani che musulmani, mediante la corresponsione di un ‘compenso’ allo stato o al privato di cui erano proprietà, di esercitare di loro iniziativa e con una certa libertà un mestiere o attività commerciale a proprio rischio e vantaggio. Di questo aspetto così parla il padre Guglielmotti nella sua Storia della Marina pontificia:

(13) BONO 1999, 358-361 e, più in particolare, CAROSELLI 1968. Per la Spagna FRIEDMAN 1983, 75, in data 18 settembre 1767. (14) BONO 1999, 356; OLLA REPETTO 1982, 160. (15) BONO 1999, 325-326 (altri esempi nello stato pontificio, a Caserta, a Genova).

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Molti miglioravano la loro fortuna co’ lavori di maglia, di costura, di tarsia; e vendevano cestini, berretti, cintoline e simili, alla maniera moresca. Altri facevano bottega di caffè, di tabacco, e di beccheria per gli animali minuti, pecore e zebe. Per qualche tempo fu loro concesso rizzare baracca volante sulla piazza della darsena, ove essi facevano il bazar (16).

Concessioni e pratiche analoghe sono attestate in altre città italiane, come a Genova e a Napoli, e parimenti in quelle maghrebine (17). D’altra parte alcuni schiavi, specialmente fra i cristiani nel Maghreb, ebbero incarichi di rilievo, persino nella vita pubblica, come già era occorso nei secoli precedenti. Così nel 1708 il sultano del Marocco affidò una missione in Portogallo ad uno dei suoi schiavi di fiducia, lo spagnolo José Diaz, ma la successiva denuncia, da parte del sovrano maghrebino, degli accordi conclusi, lo fece cadere in disgrazia (18). La tolleranza, normalmente mostrata nel mondo islamico verso ebrei e cristiani, aveva fatto sì che nel Maghreb, come altrove in terra d’Islàm, una presenza di religiosi e di luoghi di culto cristiani fosse stata costante. A seguito del riordinamento adottato nel 1668, le missioni cattoliche in Barberia erano così rispettivamente affidate: Algeri ai padri lazzaristi, Tunisi ai cappuccini, Tripoli ai francescani riformati. All’interno dei bagni vi erano cappelle per la celebrazione della messa e di altre pratiche liturgiche. Sin dal secolo XVI pare vi siano stati nelle tre città maghrebine luoghi deputati alla sepoltura dei morti cristiani. Ad Algeri nel 1729 vi era anche una sinagoga per gli ebrei della città (19). Nella prima metà del secolo spicca ad Algeri la figura del vicario apostolico p. Lambert Duchesne, in carica dal 1705 al 1737. Le pestilenze, di tanto in tanto ricorrenti, riducevano anche il numero dei religiosi, più esposti al rischio poiché si prodigavano senza riguardi nell’assistenza ai malati; ma nuovi arrivi ristabilivano presto la normalità (20). La missione di Tunisi – dipendente non senza incresciosi contrasti dal vicariato apostolico di Algeri – era retta da padri cappuccini, qualcuno residente anche in altre località, come Biserta e Porto Farina. Qualche problema si presentava talvolta per la missione non solo per i variabili umori del bey ma

(16) GUGLIELMOTTI 1884, 96. (17) BONO 1999, 341-350 e BONO 1964, 233-235. (18) FRIEDMAN 1983, 70. (19) FILESI 1973, 380-383; BRAQUEHAYE 1907, 238 (sulla sinagoga). (20) FILESI 1973, 858-865.

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anche per occasionali contenziosi con i trinitari, dediti all’assistenza sanitaria a favore degli schiavi (21). A Tripoli un buon avvio del secolo fu segnato dalla prefettura dell’apprezzato p. Nicolò da Chio. I pascià Qaramanli furono generalmente rispettosi della missione e consentirono un tranquillo svolgimento dei suoi intenti di assistenza religiosa e materiale dei cristiani. Nel 1784 la peste annienterà la missione ma due anni dopo sarà ripristinata (22). Sino alla conclusione del regno del sultano Mulay Ismail (1727) la missione in Marocco godette della sua piena protezione e poté adoperarsi con successo nell’assistenza ai fedeli cristiani; il ruolo della missione si ridusse peraltro con la progressiva diminuzione del numero degli schiavi da assistere, così che i missionari si trasferirono dalle grandi città ‘imperiali’ dell’interno alle località costiere (23). Non mancarono per contro momenti ed episodi di dura repressione, sino ad esecuzioni capitali, di religiosi cristiani; le fonti europee li attribuiscono a ingiustificati arbitri e crudeltà delle autorità barbaresche, ma forse vi erano motivi per essi validi, come tentativi di proselitismo religioso o interferenze in questioni locali e di potere. Nel 1733 fu stranamente divulgata in Italia e fuori, la vicenda della «crudelissima morte» inflitta ad Algeri al p. francescano Francesco Zirano che in effetti era accaduta nel 1603 (24). Per gli schiavi cristiani nel Maghreb, l’opera di assistenza dei missionari cattolici si sviluppò in modo significativo, in particolare nel campo sanitario. L’ ‘ospedale’ di Algeri – cioè un luogo di ricovero e di cura per gli schiavi cristiani, la cui prima origine sembra risalire alla metà del Cinquecento – fu molto migliorato nei primi anni del Settecento, come attestano i padri trinitari recatisi nel Maghreb per un riscatto, i quali tuttavia dichiarano: Nonobstant toutes ces augmentations, l’Hôpital est encore trop petit pour le grand nombre de malades de toutes Nations, tant libres qu’esclaves qu’on y reçoit, et qu’on y soigne avec une attention qui touche jusqu’aux Turcs même.

(21) FILESI 1973, 865-873. Per i contrasti con i trinitari v. RIGGIO 1938. (22) FILESI 1973, 846-856. (23) Ivi, 873-880. (24) Il caso è riferito al 6 agosto 1733 nel Ragguaglio della crudelissima morte, che ha patito in Algieri, il p. f. Francesco Cirano minore conventuale di San Francesco [...], Milano, Torino, Genova, Palermo, s.d. Con ampia documentazione la vera vicenda del padre Zirano (non Cirano), originario di Sassari, è riscostruita da U. ZUCCA, P. Francesco Zirano († 1603). Ricerche bibliografiche, Oristano 1980.

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Più tardi venne così descritto dal padre Fau: Il y a un fort bel hôpital que le Roy d’Espagne entretient pour les esclaves chrétiens de qu’elle (sic) nation qu’ils puissent estre dont l’administration est donnée aux religieux de la Trinité espagnole, on reçoit dans cet hôpital non seulement les malades mais encore ceux qui viennent pour se delasser des fatigues de leurs patrons (25).

Anche a Tunisi fu merito dei padri della SS.ma Trinità di allestire un ospedale – qualcosa di più di un locale del bagno riservato agli ammalati – realizzato fra il 1719 e il 1723, agevolati da alcuni benefici finanziari e privilegi doganali concessi dal bey. Nei suoi Mémoires sul regno di Tunisi il francese SaintGervais scrisse nel 1736 che l’ospedale era «commode et riche» (26). Nel 1691 sempre dai trinitari era stato aperto un ospedale anche a Meknès, con il favore del sultano. L’inglese John Windus, che visitò il Marocco nel 1720 ce ne ha dato una descrizione: disponeva di un centinaio di letti, una buona capacità dunque, ma soltanto di un medico e di quattro religiosi addetti. A Tripoli, infine, un ospedale, sia pur piccolo ma allestito in locali appositamente costruiti, fu aperto nel 1707 ad opera, questa volta, di un francescano, padre Nicolò da Chio (27). La contemporanea presenza di schiavi cristiani nel Maghreb e di schiavi musulmani in diversi paesi europei fece sì che in modo sempre più esplicito e definito nel corso del Settecento venisse a stabilirsi una connessione fra le condizioni degli uni e degli altri; le autorità responsabili furono condotte a praticare di fatto una ‘reciprocità di trattamento’ per gli uni e per gli altri. Si consentivano così, almeno agli schiavi pubblici, agevolazioni e ‘diritti’, specialmente in campo religioso: avere propri luoghi di preghiera e di sepoltura, eleggere propri rappresentanti, essere autorizzati ad esercitare piccole attività artigianali e d’altra natura; per contro ci si asteneva da norme disciplinari e da punizioni troppo severe. E tutto ciò si praticava per far sì che i propri correligionari godessero dall’altra parte dello stesso trattamento e fossero sottratti a durezze ed eccessi (28). (25) COMELIN 1721, 81-82; BRAQUEHAYE 1907, 251; un cenno all’ospedale è anche nella relazione del la Condamine (EMERIT 1954, 370). (26) Sulle complicate vicende per l’istituzione dell’ospedale v. F. XIMENEZ, Colonia trinitaria de Tunez, Tetuàn 1934; Saint GERVAIS 1736, 89; RIGGIO 1938; FRIEDMAN 1983, 91-102, su Tunisi e Marocco; SEBAG 1994; su Algeri e Tunisi: PORRES ALONSO 1966. (27) XIMENEZ 1934, 247; RIGGIO 1938; BERGNA 1924, 78-79. (28) Sul cimitero cristiano a Tunisi, a proposito del quale insorse nel 1777 un contenzioso fra gli schiavi corsi e i missionari cappuccini, vedi RIGGIO 1951.

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I governi di una parte e dell’altra pretendevano attestazioni da parte degli schiavi loro correligionari del ‘buon trattamento’ ricevuto, ovvero dichiarazioni in merito provenienti da un osservatore imparziale, in genere un rappresentante consolare. Nel caso invece che pervenissero lamentele per aggravi e ingiustizie, si poteva dar luogo a rappresaglie ai danni della comunità degli schiavi dell’altra religione e anche dei religiosi presenti nel Maghreb, se le rimostranze erano giunte dagli schiavi musulmani (29). A Civitavecchia, ad esempio, il 27 gennaio 1700 il rappresentante consolare francese certificò «a chiunque spetta qualmente li turchi schiavi di queste galere pontificie son qui ben trattati», specificando alcuni aspetti delle loro condizioni e, soprattutto, del libero esercizio dell’attività religiosa. Nel febbraio 1721 i missionari francescani a Tripoli vennero incarcerati, pur se per pochi giorni, a seguito di allarmanti notizie giunte dai galeotti musulmani di Civitavecchia; a maggio, infine, i consoli di Francia e dell’impero attestarono il ‘buon trattamento’ alle ciurme musulmane nel porto laziale (30). Nel 1723 e poi nel 1737 la comunità musulmana di Genova espresse rimostranze e suscitò problemi. A Civitavecchia di nuovo nel 1739 il console francese G.A.Vidau rilasciò una dettagliata e rassicurante dichiarazione concludendo che Non v’ha paese in tutta la cristianità, e dirò anche in tutto il mondo, dove gli schiavi siano trattati meglio di qui, e dove vivano con maggior libertà.

A Genova nel 1753 le rimostranze degli schiavi della repubblica furono smentite da un attestato del console di Sua Maestà britannica. Nel settembre 1762 le notizie di maltrattamenti degli schiavi musulmani a Cartagena, diffuse ad Algeri da un moro proveniente dalla città spagnola, suscitarono rappresaglie ai danni degli schiavi e dei missionari cristiani sino a febbraio dell’anno dopo (31). Quanto alla vita religiosa degli schiavi musulmani, soltanto nel tardo Seicento, a quanto sembra, a Livorno cominciarono a disporre, per primi in Italia, di luoghi di raccolta e di preghiera nell’ambito dei bagni. Un apposito locale per la preghiera fu concesso agli schiavi di Civitavecchia già prima del 1707, a Genova nel 1737 i musulmani chiesero invano alle autorità un locale più ampio, ma continuarono ad avere verosimilmente sino alla fine della re-

(29) Vedi BONO 1999, 213-240 (cap. V, “Fra Italia e terre d’Islàm”). (30) La certificazione del vice-console francese, Pier Domenico Salani, in PF, Barbaria 3, 389r; sulla rappresaglia del 1721 e il successivo attestato v. BONO 1999, 237-238. (31) Ivi, 240; RIGGIO 1949, 57-58; Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 295.

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pubblica (1797) la loro «moschea di darsena senza alcun impedimento ed impaccio» (32). A Napoli invece quando un ambasciatore tripolino nel 1742 richiese per i suoi correligionari «nella medesima darsena qualche camera, o sia piccolo basso, tantum per far ivi le loro proprie preghiere», la questione fu esaminata, come disposto dal re Carlo di Borbone, ma si concluse che «non potrebbe perciò concedersi loro questo luogo in Napoli senza produrre non leggeri scandali, ed inconvenienti»; fu però assegnato un luogo di sepoltura, come poi si fece anche per i lavoratori musulmani nella reggia di Caserta (33). Nel Settecento a Civitavecchia, a Livorno, a Genova i musulmani disponevano di un terreno come cimitero; quanto a Livorno così riferisce la Relatione di fra’ Filippo nel 1706: Accadendo poi la morte d’un maomettano […] il cadavero del defunto vien portato, tutto coperto, da quattro schiavi fuori dalle mura di Livorno ed ivi in campo aperto a ciò deputato gli danno sepoltura (34).

Su altri aspetti delle condizioni degli schiavi pubblici siamo informati con ampiezza, specialmente per quanto concerne gli schiavi musulmani nel mondo cristiano; così per il vitto, il vestiario, la sepoltura dei galeotti (35). Trovarsi in schiavitù era condizione determinante, nella quasi totalità dei casi, nel motivare il passaggio di religione, dal cristianesimo all’islàm o viceversa. Questa osmosi fra i due grandi mondi-civiltà del Mediterraneo, quello cristiano e quello islamico, ha continuato infatti a segnare la realtà sociodemografica dei paesi maghrebini e di quelli europei meridionali. Ricordiamo che la conversione, sia presso i musulmani che i cristiani, non comportava affatto la cessazione della schiavitù ma indubbiamente spingeva ad un miglior trattamento dello schiavo ed agevolava le possibili vie di emancipazione, seguita non più da un impraticabile ritorno in patria ma dall’inserimento definitivo nella società di adozione. Il fenomeno delle conversioni nel suo aspetto di massa – a prescindere cioè da singole personalità in qualche modo eminenti – è rimasto in ombra in ambedue i versanti sino agli ultimi decenni, quando si è cominciato a parlare dei “cristiani di Allah”, come dice il titolo del bel volume dei Bennassar, cui va il merito di aver indagato organicamente il tema e di averlo imposto all’atten-

(32) GIACCHERO 1970, 185. (33) FILESI 1983, 52-57; Memorie tripoline 1911, 720. (34) FILIPPO DA FIRENZE 1706, 103. (35) BONO 1999, 191-212.

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zione degli studiosi anche al di là della ristretta cerchia degli specialisti; la loro indagine si è fermata però, come le fonti inquisitoriali utilizzate, alla fine del Seicento (36). Quanto ai musulmani, si riteneva e ancora in prevalenza si ritiene, che il passaggio al cristianesimo sia stato ben meno frequente rispetto a quello inverso, ma nel caso degli schiavi non è così (37). I cristiani convertiti all’islàm, nelle fonti e nella storiografia sono abitualmente designati con il termine ‘rinnegati’ (anche da me largamente impiegato), un termine però originariamente connotato da forte riprovazione morale e che rischia di conservare almeno una traccia di questa connotazione. I musulmani che abbracciavano il cristianesimo erano e sono detti invece convertiti, come oggi si dice sempre più comunemente anche per gli europei che passano all’islàm ed il termine viene usato senza alcuna marcata connotazione ma come semplice registrazione di un dato di fatto. Con questo animo neutrale intendiamo da parte nostra adoperare in prevalenza, per gli uni e per gli altri, il termine convertiti, pur senza considerare un tabù di riprendere talvolta la parola ‘rinnegati’, pregna di storia. Anche nel Settecento gli europei convertiti erano presenti nel Maghreb in misura apprezzabile, pur se minore, in assoluto, rispetto al passato, in conseguenza del diminuito numero degli schiavi e delle maggiori speranze di riscatto sulle quali essi potevano contare. La minore disponibilità di schiavi fece sì che le autorità maghrebine tendessero, come e più che per il passato, a scoraggiare e frenare le conversioni all’islàm. Nell’ottobre 1718, ad esempio, il pascià di Algeri fece porre in catene una decina di schiavi, che avevano espresso l’intenzione di ‘farsi turchi’, sino a che essi dichiararono di aver cambiato idea. Il religioso che riferisce la notizia spiega che il pascià «voleva soltanto il denaro del loro riscatto» ed inoltre diffidava della sincerità della decisione (38). Come in passato, la maggior parte degli schiavi cristiani si convertivano all’islàm quando avevano perduto la speranza di essere riscattati e di tornare in patria; la tentazione di ‘farsi turco’ si faceva allora più forte e spesso decisiva, sia pur con una riserva mentale. Lo dice chiaramente un documento del 1794 a proposito dello spagnolo Giuseppe Suarez di Malaga: «E comecche ritrovan(36) BENNASSAR 1989; in precedenza, fra gli altri L. ROSTAGNO, Mi faccio turco, Roma 1983. (37) Per esempio L. SCARAFFIA, I rinnegati. Per una storia dell’identità occidentale, RomaBari 1993, che pur ha opportunamente indagato il tema da un punto di vista antropologicoculturale, ha così affermato: «i pochi casi di conversione di schiavi musulmani […]» (p. 11) e più avanti: «mentre questi ultimi [i musulmani] si decidevano molto difficilmente alla conversione» (p. 15). (38) FRIEDMAN 1983, 89.

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dosi nell’impossibilità di ripatriarsi rinegò la S. Fede coll’intenzione però che essendo in libertà di fugire e salvarsi in Cristianità per abiurare e tornare nella S. Fede» (39). Se osserviamo gli innumerevoli casi testimoniati dalle fonti, troviamo peraltro motivi e circostanze estremamente differenziati, pur se riconducibili ad alcune tipologie. Per taluni, ad esempio, la conversione all’islàm era l’unica via per sottrarsi ad una condanna a morte o ad altra gravissima punizione, perlopiù a seguito di rapporti sessuali con una musulmana. Così il viaggiatore francese Peyssonnel ricorda: «L’on force les chrétiens à renier leur foi et à se faire Turcs sans quoi ils les font mourir». Il padre La Faye (1704) aveva persino accreditato l’idea che gli schiavi venissero provocati intenzionalmente nel loro desiderio sessuale per poi costringerli alla drammmatica scelta fra la vita e l’abiura: Les Turcs […] employent les attraits des femmes, qui s’y portent assez d’elles mêmes, pour les corrompre; et s’ils sont assez malheureux pour se laisser séduire, ils sont contraints, ou d’embrasser le Coran, ou de subir le suplice du feu.

Aggiunge che qualcuno era indotto nel “peccato abominevole” con la stessa tragica consequenza. Ne è esempio, fra i tanti, il maltese Francesco Attard; accusato ingiustamente nel 1760 di sodomia con un ragazzo tunisino e salvatosi con l’abbraccio all’islàm (40). Non mancano peraltro coloro che da paesi cristiani si recarono volontariamente nel Maghreb per inserirsi in quella società facendosi musulmani: si trattava perlopiù di singoli con una loro individuale motivazione – come è il caso del marchese di San Giuliano, che narriamo a parte (41) – ma talvolta di gruppi che concordavano un progetto comune. Così nel dicembre 1725 gli uomini di un vascello maiorchino, armato per andare in corsa contro i barbareschi, ripararono ad Algeri per farsi corsari (42). Chi ‘rinnegava’ non soltanto sperava o otteneva di facilitare il recupero della libertà, ma acquistando una piena parità con tutti i confratelli di fede, poteva intraprendere ogni attività, anzitutto quella corsara, e far fortuna in base alle sue personali capacità. Anche per il XVIII secolo non è affatto facile farsi una idea della percentuale dei convertiti rispetto al totale degli schiavi cristiani in un determinato contesto. Consideriamo indicativo, e non certo sottostimato, il tasso del 5-6 per

(39) CAPPOVIN 1942, 250. (40) PEYSSONNEL 1724-1725, 87-88; CAPPOVIN 1942, 253. (41) Si veda il capitolo 12. (42) “Gazette de France”, 5 gennaio 1726, 6.

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cento, ricavato da Magaly Morsy per il Marocco nel 1719 (43). Al di là comunque dei dati quantitativi, assoluti e percentuali, che cercheremo di evidenziare fra poco, ciò che più ci interessa è di mostrare il ruolo complessivamente svolto dagli europei islamizzati anche nel Maghreb del Settecento. In questa prospettiva il ‘tasso di conversione’ (fosse anche soltanto di 2-3 punti percentuali) non contrasterebbe con la rilevanza del loro ruolo, se apparisse – e a noi sembra che in qualche misura appaia – una loro influenza nel governo, nell’amministrazione, nell’attività economica, in particolare nell’esercizio della corsa e degli scambi commerciali che ne derivavano. Tra i fattori che accrescevano il potere dei cristiani convertiti vi era la loro solidarietà reciproca, anzitutto fra coloro che avevano una stessa origine regionale. Molti inoltre, convertitisi e riacquistata prima o poi la libertà, conservavano un legame di volontaria dipendenza dal precedente padrone. La situazione fu peraltro differenziata nell’uno o nell’altro degli stati maghrebini. Ad Algeri il loro numero e il loro ruolo erano andati certamente scemando dagli inizi del secolo, poiché i dey ebbero quale direttiva piuttosto costante di ostacolare, se non persino proibire, le conversioni all’islàm, per non perdere schiavi, fonte di reddito tramite il riscatto. Sul finire del secolo il numero degli islamizzati doveva essere trascurabile (il console Vallière lo indica in una trentina) e Venture de Paradis nelle sue documentate relazioni sulla città e la reggenza non precisa nulla in proposito. Ricorda soltanto che il governo non consentiva il passaggio all’islàm e che gli eventuali convertiti erano esclusi dalle cariche di dey e dalle altre massime (44). L’episodio di uno schiavo spagnolo costretto a ritrattare la sua professione di fede musulmana a furia di bastonate, secondo l’ordine dato dal dey di Algeri nel 1774, è menzionato dalla «Gazette de France» (45). A Tunisi gli europei islamizzati si mantennero più a lungo relativamente numerosi e con un certo ruolo nella vita locale. Ai tempi di Hassem ben Ali Bey, Peyssonnel rilevò che La plupart des emplois de ce royaume sont occupés par les Turcs et par les renégats qui sont regardés comme Turcs.

(43) MORSY 1983, 23. (44) VENTURE DE PARADIS 1788-1790, 154 e 181. (45) GRAMMONT 1884, 35; BONO 1964, 252-253; CLISSOLD 1977, 100-101, cita una attestazione di MORGAN, History of Algiers, London s.d., sul declino del numero e della posizione degli islamizzati.

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E precisò anzi che il bey aveva «donné presque tous les emplois principaux à des renégats», cercando anche in modo violento di emarginare ed eliminare i turchi d’origine dalle posizioni di potere; in tal modo rafforzò la sua autorità ed assicurò stabilità al suo governo (46). Fra i segretari di Ali Bey (1759-1782), ne appare uno il cui nome ne rivela l’origine: Siddi Ahmetto Genovese, il quale il 5 ottobre 1781 di fronte al console di Venezia, a nome del bey, vendette a un mercante veneziano «una polacca scaffo napoletano stata predata mesi sono da uno di questi Corsari» (47). Fu a Tripoli, sembra – più che nelle altre reggenze –, che gli islamizzati ebbero lungo tutto il secolo un ruolo significativo. Khalil Pascià, quando per primo all’inizio del secolo «meditò di scuotere il giogo del Divano, e accoppiare all’apparenza, la sostanza anche del potere» raccolse intorno a sé un gruppo fedele di convertiti e di schiavi cristiani e con il loro appoggio attuò un colpo di stato; ma il suo potere non durò a lungo e l’esito finale della vicenda vide la sua sconfitta (48). All’avvento al trono di Ali Qaramanli (1754-1795) gli islamizzati europei occupavano posti di rilievo: il grande kahya, Hussein Giorgio, di origine greca, un altro kahya, il generale delle truppe, il tesoriere e il capo dell’arsenale erano parimenti ‘turchi di professione’, secondo una vecchia espressione europea. Nella giovane età del pascià Ali i convertiti colsero l’occasione favorevole per spingere il sovrano a rianimare con più energia l’attività corsara, nella quale si affermò fra gli altri il marsigliese Sicard, come diremo più avanti. A proposito della prevalenza degli islamizzati alla corte di Ali Qaramanli il console veneto Bubich così scrisse al suo governo: «La sua Corte può dirsi piuttosto civile che militare, ed è composta la maggior parte di Rinegati». Ancor più efficaci le parole di un ‘ingegnere’ e collaboratore del console, Alvise Milanovich: La di lui corte è composta parte di turchi, e parte di Renegati, facendo però scielta delli più eruditi, e capaci di adderire alle esigenze del Governo, li quali vengono poi collocati ne’ primi posti, inalzando senza riserve sì gli uni che gli altri a seconda del loro talento (49).

(46) PEYSSONNEL 1724-1725, 77. Più avanti, a p.85, scrive che «les Turcs et les renégats qui sont, pour ainsi parler, la noblesse du pays, occupent tous les emplois du royaume qui ne peuvent être remplis que par eux». (47) RIGGIO 1950-1951, 175-176; il capitano si chiamava Felice Borzoni. (48) DOXARÀ 1783-1784, 129; ROSSI 1968, 214-217. (49) CAPPOVIN 1942, 506 (relazione del 7 febbraio 1765) e 517.

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Il console francese de Lancey in un suo dispaccio afferma che il pascià era «rinchiuso nel Castello in mezzo a 300 o 600 rinnegati, che abusano del suo nome mutando i suoi ordini e derubandolo» (50). I convertiti di origine cristiana erano generalmente i più accaniti nell’opporsi ad ogni compromesso e debolezza nei confronti delle potenze europee. Nell’agosto 1766 la decisione di restituire ai veneziani le prede reclamate da una minacciosa (ma in effetti esigua) squadra navale fu presa dal divano riunitosi senza nessun ministro ‘rinnegato’ («pas un seul renégat», le parole del console de Lancey) (51). Fra gli islamizzati più noti ricordiamo a cavallo fra gli anni ’60-’70 il georgiano Assen Gurgi, designato – ma mai accolto – ambasciatore a Venezia, il capitano di vascello francese Guaiard, posto a capo dell’Arsenale, il Raìs della Marina, responsabile della flotta e della sanità, originario di Candia (52). La dipendenza del pascià dai ‘rinnegati’ si accentuò ancor più nell’ultimo decennio del suo regno. Secondo il viceconsole francese Vallière, Ali Pascià era «circondato di vili rinnegati, che lo colmavano di adulazioni»; due di essi erano divenuti suoi generi. Anche due generi del successore ed ultimo dei Qaramanli, Yusuf, erano di origine europea; un italiano, divenuto ‘tesoriere’ (khaznadar) e lo scozzese Peter Lyle, di cui diremo più avanti (53). Secondo la testimonianza di Marino Doxarà, che qui riportiamo, i convertiti rafforzarono la loro preminente posizione lungo tutto il regno dei Qaramanli e sino al tempo della sua visita a Tripoli, più fortemente che negli altri stati maghrebini: I rinnegati, che come ho detto, furono i principali e più attivi stromenti della esposta rivoluzione, hanno in quel governo la maggior influenza, occupano i primi posti, e sono ancora considerati i più sodi sostegni del despotismo. Osservasi quindi una legge stabilita non so se da Kalil Passà, o da’ suoi successori, che le figlie dei sovrani non possono se non verso i rinnegati passare in matrimonio. Sono essi perciò in maggior numero che negli altri Cantoni di Barbaria, esigono maggior considerazione, sono accarezzati e beneficati da quei regnanti (54).

(50) DEARDEN 1976, 89. Altro cenno a p.93, da un dispaccio del 1777. (51) CAPPOVIN 1942, 170. (52) ID. 1942, 179, 239, 241, 244, 548. (53) DEARDEN 1976, 99-100, 220. (54) DOXARÀ 1783-1784, 131.

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Con riferimento al regno di Mohammed Qaramanli, qualcuno ha rilevato un «growing number of European renegades who, originally recruited and controlled by Ahmed Karamanli, were now coming in greater numbers to seek a living at the Court of Tripoli» (55). A proposito degli europei islamizzati in Marocco, si può cominciare da una citazione dall’Essai sur les mœurs di Voltaire: Ce qui est singulier, c’est le nombre des renégats espagnols, français, anglais qu’on a trouvés dans les Etats du Maroc (56).

Ne ricorda alcuni, con il nome o con qualche dato, a cominciare dallo “spagnolo” Perès, ammiraglio ai tempi del sultano Mulay Ismail e in verità un autentico marocchino di origine andalusa. Nel filosofo illuminista troviamo l’anticipazione di un atteggiamento degli studiosi europei dell’epoca coloniale: la tendenza a enfatizzare la dimensione e il rilievo del fenomeno degli islamizzati talvolta al di là dei dati obiettivi, in un inconscio eurocentrismo volto ad attribuire agli europei il merito di progressi e di successi della realtà maghrebina di quei secoli (57). Dobbiamo pacatamente guardare alla realtà storica effettiva, e anzitutto trovare cifre e dati. In effetti, sotto il lungo regno di Mulay Ismail (1687-1727) il numero dei musulmani di origine europea sembra si sia andato riducendo ma non certo sino all’esaurimento; Braithwaite parla di 600 individui, nel 1727, e in ogni caso non oltre duemila alla fine del regno di Ismail. Gran parte di questo ultimo totale piuttosto rilevante era costituito da un gruppo di islamizzati a sé stante, tipico del Marocco: i soldati e altri militari inquadrati nell’esercito imperiale, composto perlopiù di schiavi negri (‘abid), in una condizione dunque dura e non certo di prestigio. Essi comunque «constituaient une partie de l’encadrement des armes techniques comme l’artillerie ou le génie ou bien encore ils étaient utilisés comme unités-choc que le sultan exposait au feu sans tenir compte de leur pertes» (58). Un migliaio e più di islamizzati di origine europea, in maggioranza spagnoli, erano dunque a servizio nell’esercito imperiale (si erano convertiti dopo essere stati catturati all’atto della riconquista marocchina dei presidi spagnoli, come Larache e Mamora).

(55) DEARDEN 1976, 74. (56) VOLTAIRE, Essai sur les mœurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, II, Paris 1963, 430. (57) Si veda la Presentazione di S. Bono a BENNASSAR 1991. (58) LUGAN 1992, 177, CLISSOLD 1977, 87-88.

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Vediamo qualche figura di spicco. Agli inizi del secolo il francese Pillet, già negoziante a Meknès, venne destinato all’alta carica di pascià di Salé mentre in Marocco era tradizione che gli europei islamizzati non potessero assurgere a cariche nel governo centrale o nell’amministrazione locale. La relazione di Braithwaite (1727), che aveva accompagnato l’inviato inglese John Russel, ricorda la presenza dell’irlandese Carr, il qaid Ali, responsabile della fonderia di cannoni a Meknès, «assolutamente un bell’uomo, uno spirito superiore», che si intrattenne piacevolmente con gli inviati inglesi nell’impero maghrebino. Voltaire ricordò anche una irlandese, concubina del sultano Ismail ed alcuni mercanti inglesi stabilitisi a Tetuan. Un caso a sé quello del duca di Rapperda, ‘grande’ di Spagna, riparato volontariamente in Marocco nel 1731 con la sua presunta moglie e quattro servitori; abbracciato l’islàm, visse a Tetuan sino al 1737 (59). Fra i rinnegati la figura più interessante, ma poco nota sino a un decennio fa, fu l’inglese Thomas Pellow, un mozzo dodicenne catturato nel 1716 insieme ad uno zio capitano di nave e donato dal sultano ad uno dei suoi figli; questi riuscì a piegarne la resistenza e a farlo convertire all’islàm, sia pur soltanto a sentire dell’interessato ‘con la bocca’, come allora si diceva, cioè nelle esteriori apparenze. Il suo nome è noto poiché nel 1738, dopo aver a lungo servito come soldato nell’esercito del sultano, fuggì e tornò in patria, ove dettò a qualcuno le sue memorie (edite intorno al 1743-1745), una utile fonte per la nostra conoscenza del Marocco poiché nel lungo soggiorno il giovane Pellow aveva avuto occasione di percorrere e osservare largamente l’impero dell’estremo Maghreb (60). Come in passato, i ‘rinnegati’ mantenevano spesso rapporti con il paese d’origine e con la famiglia. Non mancano esempi del loro interessamento in vario modo a favore dei parenti, talvolta sollecitati a trasferirsi nel Maghreb. Ecco come l’agente diplomatico del regno di Napoli riferisce il caso del connazionale cinquantenne, Mustafà detto il Gran Doganiere, alto funzionario dell’amministrazione a Tripoli, e del nipote fatto giungere dalla città partenopea: Il caid Mustafà Doganiere di S.E. Pascià di Tripoli, volendo per la Sua bontà di animo ajutare et avanzare nel mondo, un suo Nepote chiamato Gaetano Starita, Napoletano, scrisse che il medesimo si portasse quà per via di Malta

(59) BRAITHWAITE 1731, 25, 228, 234, 246-247, 253; CLISSOLD 1977, 98-100, MORSY 1983, 22-24. Voltaire (v. nota 56), lo cita come Pilet. (60) MORSY 1983.

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come è seguito. Che essendo qua arrivato nudo e crudo, il detto Caid Mustafa li ha subito fatto de’ vestiti, camigi e tutto aveva di bisogno per poter comparire onestamente (61).

La guerra corsara fu il campo nel quale gli islamizzati esplicarono in prevalenza, tutto sommato, la loro attività. E perciò, è stato fondatamente osservato, la decadenza della corsa contribuì a farne decrescere il numero. Ad Algeri, ad esempio, a capo della taifa, la corporazione dei corsari, si trovavano degli europei islamizzati verso il 1720 e 1726, rispettivamente il marsigliese Mami Sansoun e Soliman Portal (62). Ma ancora nel 1772 il console Vallière attestava che: On voit tous les jours des Renégats, que le gouvernement regarde comme du bon coin, remplir avec toute l’autorité relative à leur place celles de Mouphty et de Cady des Turcs, de Vékilargy de la Marine et d’Amiral (63).

Verso la fine del secolo Venture de Paradis affermava con sicurezza che Les raïs anciennement, étaient tous Mores ou renégats. Sous le règne de Baba Ali on commença à introduire des Turcs dans ce corps; il n’est plus aujourd’hui composé que de Turcs levantins (64).

Fra i corsari di origine europea operanti a Tunisi nel Settecento troviamo intorno al 1730 un nativo del Levante ligure, Lazzaro Bruzone, divenuto Mustafa, affermatosi quale armatore di una squadra corsara; morì a Tunisi nel 1735, mentre difendeva la nuova patria da una invasione algerina. La sua eredità fu a lungo contesa presso i tribunali di Genova dagli eredi ma anche da coloro, anzitutto il Magistrato del Riscatto, che volevano essere indennizzati per le catture effettuate dal Bruzone e dai capitani suoi dipendenti (65). A Tunisi, rispettivamente nel 1764 e nel 1772 operavano, fra gli altri, il raìs Mehemet Saccalis, greco, al comando di una tartana del bey, autorizzata a sostare nel porto di Livorno, dove creò qualche problema, e un altro greco, il raìs Ibrahim

(61) CISTERNINO e PORCARO 1954, 98. (62) BOYER 1985, 96 e 101. (63) CHAILLOUX 1979, 30. (64) VENTURE DE PARADIS 1788-1790, 148. (65) P.L. LEVATI, I dogi di Genova dal 1721 al 1746 e vita genovese negli stessi anni, II, Genova 1913, 168-169.

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Rodopolis, di Rodi, al comando di un legno catturato dalla marina toscana, con 34 uomini d’equipaggio rinchiusi nel lazzaretto di S. Rocco (66). A Tripoli troviamo che nel febbraio 1765 il Raìs della Marina era un “qantiotto”, cioè un greco di Candia, del quale il console veneto precisava: «sono molti anni che gode un tal impiego, ma è Uomo altiero, accorto al maggior segno, ed interessato senza riserve». Negli anni settanta emerse Murat Reìs, alias il francese Sicard che insieme al Khaznadar «commandent dans le château où demeure le Pacha», ed era sempre disponibile a trasmettere informazioni al console de Lancey e a trattare con riguardo il comandante veneziano Nani che, a quanto sembra, non gli aveva lesinato qualche generoso donativo (67). La presenza dei convertiti conferiva al mondo della corsa uno spiccato carattere cosmopolita: su un vascello tripolino catturato dai cavalieri di Malta nel 1709, ad esempio, si trovavano membri dell’equipaggio originari di Francia, Grecia, Germania, Fiandra e italiani di Messina, Livorno, Ancona. A Salé ancora nella seconda metà del Settecento, in una fase ormai di netta decadenza dell’attività corsara, qualche raìs era di origine europea, a quanto riferiscono il viaggiatore Georg Höst e il console Louis Chenier (68). Anche in altri stati barbareschi i convertiti erano a diretto servizio del sovrano, quali guardie del corpo ed elementi di fiducia. Il bey di Tunisi – come riferisce il viaggiatore Peyssonnel – era «servi par des esclaves chrétiens et par quelques renégats»; questi ultimi facevano la guardia alla porta del castello o della dimora del sovrano. Incarichi di fiducia potevano anche essere ‘lavori sporchi’, affidati a ‘rinnegati’, come ad esempio la proditoria e nascosta esecuzione del corsaro Mola-Osmàn Scutarino, effettuata a Tripoli nell’ottobre 1764 ad opera di «una Patuglia di Rinegati Turchi»; l’eliminazione dello Scutarino era stata richiesta dal governo veneziano (69). Dopo un periodo più o meno lungo di adesione all’islàm, più o meno sincera e profonda, molti cristiani ‘rinnegati’ sentivano un forte richiamo per la terra e la cultura d’origine. La problematica del ‘pentimento’, come si diceva, era complessa: in qualcuno prevaleva la nostalgia del paese natale, della famiglia, degli amici, o qualche altra ragione spingeva a lasciare la terra d’islàm (nei periodi di gravi pestilenze, si è notato, il numero dei ‘pentiti’ si accresceva, per

(66) GIANI 1942, 85 e 105. (67) CAPPOVIN 1942, 172, 507 e 531-532. Murat si identifica verosimilmente con Amurat bey, di cui nel cap. 4 abbiamo riferito una campagna corsara del 1761. (68) CIAPPARA 2001, 251; COINDREAU 1948, 84. (69) PEYSSONNEL 1724-1725, 56; CAPPOVIN 1942, 135-136.

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il timore della morte e del supremo giudizio divino). Anche senza queste drammatiche circostanze in altri sinceramente maturavano, talvolta sino a diventare un incubo, il rimorso e il timore di una eterna dannazione. Cercavano allora il modo opportuno per tornare nel mondo cristiano, organizzavano un abile piano approfittando di favorevoli circostanze offerte dal movimentato mondo mediterraneo, ovvero, catturati dai cristiani a seguito di uno scontro navale o di una incursione dall’esito sfortunato, tentavano di accreditare che tutta la vicenda fosse stata volutamente programmata e ‘pilotata’ per l’intenzione appunto di tornare nel mondo europeo. Al ritorno, volontario o no, nel mondo cristiano, le autorità religiose, in particolare i ben noti tribunali dell’Inquisizione – sino a quando furono attivi –, indagavano sulla vicenda di ognuno, aprendo un ‘processo’ soprattutto contro chi negava la propria abiura della quale esistevano invece pesanti indizi o riferiva falsamente il proprio caso in termini atti a ridurre, anche radicalmente, la propria colpa. Dal risultato degli accertamenti e dalle valutazioni dei giudici dipendeva la sorte del pentito: poteva trattarsi di una lieve pena o di una condanna più severa, la galera per un certo tempo o a vita, mentre nei casi di ‘ostinazione’ nella fede musulmana si rischiava la pena capitale. Ecco qualche storia collocata nel Settecento. Un rinnegato maltese, divenuto Nahum Benandolla, paggio a servizio dell’inviato tripolino presso il governo di Napoli nel maggio 1743, si rifugiò all’arcivescovado dichiarando di volersi ‘riconciliare’. Venne accusato però di aver portato via al padrone 200 zecchini d’oro e altri valori; le autorità indagarono e alla fine ‘restituirono’ il maltese all’arcivescovo che ne aveva accettato il pentimento. Tra i galeotti della flotta napoletana nel 1760 vi era un certo Giovanni Battista Timone, originario di Pegli, che dal 1747 si trovava a Tunisi con il padre, commerciante, e i familiari. Fatto schiavo come i familiari nello sconvolgimento della occupazione algerina della città nel 1756, egli, che aveva allora nove anni, fu indotto a farsi musulmano. Catturato e condotto a Napoli il ragazzo chiese insistentemente di essere ‘riconciliato’ (70). Un sardo, detto Ciuffo, affermatosi e arricchitosi a Biserta quale raìs, nel 1773 fece conoscere alle autorità dell’isola la sua intenzione di tornare in patria. Stabilito l’accordo, mise in atto un abile piano: fece arenare a bella posta la sua galeotta nella spiaggia di Teulada e si lasciò catturare. Dopo la solenne abiura assunse il comando di una galeotta, forse la sua stessa, ed operò coraggiosamente a difesa dell’isola. In certi casi le stesse autorità civili avevano mo-

(70) ASNa, Segreteria di Stato, Espedienti 122, 1072-1182.

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tivi per perseguire i rinnegati e spesso erano ben più drastiche nelle loro sentenze: il trapanese Vito Scardino, apostata a Tunisi e colpevole d’aver catturato una decina di navi cristiane, fu impiccato a Palermo, in riva al mare, nell’ottobre dell’anno 1781 (71). Veniamo al versante musulmano del fenomeno, versante altrettanto rilevante se si considerano le conversioni al cristianesimo da parte degli schiavi maghrebini. Poiché la prospettiva di negoziare un riscatto, con possibile profitto, era ben poco probabile per i proprietari privati di schiavi musulmani – all’opposto di quanto valeva per i proprietari maghrebini – molti dei primi vedevano con favore la conversione del loro schiavo e la sua definitiva integrazione nella società nella quale era venuto a trovarsi. Un padrone cristiano – e ciò valeva anche per quello musulmano – riteneva meritorio sollecitare lo schiavo alla conversione, ed insieme vantaggioso poiché il convertito sarebbe divenuto più ‘fedele’ nei confronti del padrone e lo avrebbe servito con più lealtà ed impegno, nella speranza di una futura emancipazione. La chiesa esortava senza dubbio i fedeli a procurare la conversione dei musulmani, ma inviti, lusinghe, promesse – e talvolta non mancavano pressioni più o meno insistenti e persino violente – non sempre avevano successo. Quanto agli schiavi di proprietà pubblica, è certo che le autorità civili non vedevano invece favorevolmente la loro conversione: allo schiavo fattosi cristiano spettava un trattamento migliore e ciò significava un maggior onere per l’amministrazione. Ogni azione pubblica di proselitismo era inoltre evitata per i motivi di opportumità dei quali si è detto sopra, che conducevano ad un rispetto reciproco di fatto per i fedeli delle due religioni (72). Spesso gli schiavi pubblici dovevano ‘supplicare’ e insistere per ottenere il permesso di convertirsi al cristianesimo. Nel 1727 un certo Branca, detto Sermoneta, galeotto a Civitavecchia, era fuggito per recarsi a Roma alla Scuola dei catecumeni ma fu spedito indietro; supplicò allora «ancor più infervorato […] Battesimo, Battesimo, Battesimo», ma nulla ottenne ed anni più tardi, fuggito di nuovo, fu riacciuffato (73). È ben comprensibile d’altra parte l’impegno di istituzioni religiose e di singoli sacerdoti per esortare e preparare i musulmani alla conversione; talvolta si

(71) MARTINI 1861, 239-241. Su Vito Scardino: A. CUTRERA, Cronologia dei giustiziati di Palermo, 1541-1819, Palermo 1917, 288. (72) Su tutta la questione del proselitismo cristiano BONO 1999, 252-280. (73) Ivi, 260; 280-295, sulle modalità dei battesimi e la scelta dei padrini.

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cercava di trarre profitto da circostanze ‘favorevoli’ e dalla giovane età dei soggetti in questione. A Napoli nel 1721 un colto agostiniano di origine orientale, Paolo Israel, promosse la creazione di un Collegio degli schiavi, dove questi venivano accolti e istruiti per ricevere il battesimo. Ancora nel 1788 si attestava la presenza di religiosi «i quali hanno imparato a gran fatica questi linguaggi [arabo e turco] per continuare tale opera a gloria di Dio» (74). Anche la Casa dei catecumeni, già ricordata, proseguì a Roma la sua attività sino all’instaurazione della Repubblica romana (1797); lungo tutto il secolo presso di essa vennero registrati 352 battesimi (3-4 l’anno in media). Secondo altre registrazioni si ebbero a Roma nel Settecento 317 battesimi (69 cerimonie si svolsero a San Giovanni in Laterano e 81 a San Salvatore o a Santa Maria, ambedue nel rione Monti dove aveva sede la Casa) (75). All’atto del battesimo i musulmani prendevano abitualmente il nome e o il cognome del padrino, spesso un personaggio eminente, dell’aristocrazia o del clero. Nel 1756 uno degli schiavi impegnati nella costruzione della Reggia di Caserta ebbe a padrino lo stesso sovrano napoletano e ne ebbe così il nome altisonante di Carlo di Borbone; un altro nel 1761 divenne a sua volta un Luigi Vanvitelli, l’architetto della reggia (76). Sin qui le conversioni degli schiavi, ben più numerose in proporzione al loro numero, almeno fra i domestici, che non quelle dei cristiani in schiavitù; questi infatti proprio nel Settecento potevano contare, come vedremo, su più probabili speranze di riscatto e potevano esser dunque trattenuti dal decidere l’abiura. Ma anche da parte musulmana vi furono conversioni di persone libere, talvolta di personaggi eminenti, di famiglie reali e principesche, dei quali resta documentato o si favoleggiò che venissero a cercare il battesimo in terra cristiana. Il caso più noto – grazie alla diffusione di stampe popolari – fu quello del principe marocchino Mulay Ahmed, nipote del sultano Ismail (77). Nato nella provincia del Sus nel 1704, riparato a Mazagan per sfuggire ad avversari, da qui si recò nelle Azzorre, in Portogallo, in Spagna, infine a Roma. Qui nella basilica di San Pietro il venerdì 6 marzo 1733 fu battezzato alla presenza di numerosi cardinali e nobili; venne chiamato Lorenzo Bartolomeo Luigi Troiano (74) BONO 1999, 268-270. (75) Ivi, 278 e 284, basatosi su RUDT DE COLLENBERG 1989. (76) BONO 1999, 289. (77) H. DE CASTRIES, Trois princes marocains convertis au Christianisme, in Mémorial Henri Basset, Paris 1928, 154-158. Sul caso: Relazione del solennissimo battesimo fatto nella Sagrosanta (sic) Basilica di S. Pietro in Vaticano li 6 marzo 1733. Di Mulai Acmet principe di Marocco, Roma 1733; Raccolta di attestati diversi i quali comprovano, che D. Lorenzo Bartolomeo Luigi

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dal nome del cardinale che gli fu padrino alla cresima, ricevuta nello stesso giorno. Cosa possiamo credere invece della storia raccontataci in un «curioso romance» in versi sulla “doncella” doña Clara Ponce la quale, caduta in schiavitù ad Algeri intorno alla metà del Settecento, fece innamorare il figlio del “re”, Atarse Zelin, sì che egli le chiese di battezzarlo con il nome di Diego Francisco? Fuggirono allora dalla città barbaresca «donde fueron á parar/ a un cierto Puerto de Italia»; da qui arrivarono a Roma, benedetti dal papa, e poi in Spagna, felicemente accolti (78). Notizie più precise e credibili riguardano gente comune, come quella famiglia musulmana (i genitori e due “figlioline”) che da Susa, consigliata da un missionario, venne a Roma nel maggio 1726 «ad abbracciare la santa fede». Di un’altra storia fra le tante che possono essere scovate nei documenti, ci informa nel maggio 1776 il prefetto della missione di Tunisi: il giovane Mustafa, figlio di un turco di Levante, espresse una vocazione «così piena di fondamento» di farsi cristiano, da convincere il religioso – che lo aveva messo alla prova «quasi per lo spazio di un Anno» – ad aiutarlo a realizzare il suo proposito (79). Per concludere su questo tema, ancora ben poco indagato, osserviamo che i musulmani convertiti, pur se altrettanto e più numerosi dei cristiani passati all’islàm, in proporzione al rispettivo numero degli schiavi, non ebbero alcun ruolo apprezzabile e non emersero in alcun modo nella vita della società cristiana, poiché rimasero quasi tutti in posizione di servi o di modesti lavoratori, al massimo di fortunati artigiani. Anche per questo le fonti ne conservano pochissime tracce e gli storici non vi hanno ancora prestato sufficiente attenzione.

Troiano principe di Marocco è quello stesso che venne da quei Regni col nome di Muley Achmet […], Roma 1735; Copia di lettera mandata di Marocco a Muley Achmet figlio di Muley Bennazar figlio di Muley Ismail Re di Marocco, s.l. 1735. (78) Doña Clara Ponce. Dase cuenta en un curioso romance de los sucessos de esta Doncella, su captiverio, y como convirtió a un hijo del Rey de Argel, el qual fué su esposo, in Relaciones de Africa, a cura di I. BAUER LANDAUER, IV, Madrid s.d., 273-289. (79) ASRm, Epistolario, Civitavecchia, busta 68, 20 maggio 1726; PF, Barbaria, 8, 65r, 7 maggio 1776 e Lettere, 228, 280-281.

capitolo sei | 89

Riscatti e scambi di schiavi

Le ricerche e le ricostruzioni sulla attività del riscatto degli schiavi cristiani – alla quale sostanzialmente si limita la nostra trattazione, anche per motivi obiettivi che diremo più avanti – sono state perlopiù ‘ritagliate’ prendendo in considerazione una data istituzione o un ordine religioso (ed anche soltanto di uno stato o regione) o singole ‘missioni redentrici’ e altri episodi; la questione non è stata sinora considerata con riferimento specifico ad uno o altro paese o città del Maghreb. Nella nostra trattazione cercheremo di seguire invece proprio questo filo – per quanto possibile, poiché vedremo che si incontrano diverse difficoltà – almeno quale primo tentativo, senza pretesa di una ricostruzione esaustiva, sia perché mancano ancora indagini preliminari adeguate sia perché essa esulerebbe comunque dalla economia del presente volume. Per quanto concerne gli schiavi cristiani una novità sembra caratterizzare tutto il secolo, con maggiore o minore incisività nel corso degli anni. Le missioni per il riscatto assumono una maggiore frequenza, le disponibilità di denaro appaiono accresciute, le operazioni si svolgono più agevolmente e speditamente; tutto ciò in paragone al passato e non senza che alcuni problemi e difficoltà persistano. Algeri era ancora, come dagli inizi del secolo XVI, la capitale maghrebina, ed anche mediterranea, della guerra corsara e dunque del movimento di schiavi, in arrivo quale componente del bottino corsaro e in partenza dopo il riscatto. È difficile valutare quale sia stata la percentuale dei riscattati rispetto a coloro che cadevano in schiavitù; un certo numero restava schiavo sino alla morte, altri recuperavano la libertà ma si integravano nella società locale, senza tornare nella patria di origine, altri ancora, pur se proporzionalmente pochi, erano condotti dalla località dove erano per la prima volta arrivati, verso altre mete maghrebine o mediterranee. Pur se iniziata da Tripoli, nel maggio 1700, la prima missione di riscatto nel nuovo secolo, condotta dai trinitari francesi, con a capo il padre Philemon de La Motte, ebbe ad Algeri, in luglio, il risultato più consistente: 46 ‘redenti’. Tappa intermedia fu Tunisi, in giugno, con la liberazione di otto cristiani. Un viaggio eccezionalmente facile e rapido, con il frutto complessivo di 64 riscatti. Al ritorno a Marsiglia, dovettero tutti passare la quarantena, poi sfilarono in

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processione, il 23 agosto, secondo una pratica abituale, della quale diremo più avanti. Anche nel passaggio a Fontainebleau, dove «furono trattati con generosità veramente regia», si organizzò «una processione esotica e devota», seguita dalle finestre del palazzo dallo stesso Luigi XIV, da principi e da altri personaggi. A Parigi, infine, gli schiavi furono trattenuti per qualche giorno e di nuovo si recarono in processione, dall’abbazia cistercense di Sant’Antonio alla cattedrale di Notre-Dame (1). L’anno dopo, 1701, arrivarono ad Algeri i trinitari spagnoli; beneficiarono del riscatto 152 persone: 125 uomini (il catalogo inizia con 15 nominativi di capitani e soldati), nove ragazzi (da 9 a 17 anni) e cinque donne. Per altri dodici, già resi liberi prima dell’arrivo dei redentori, questi pagarono soltanto i ‘diritti di uscita’; tre furono scambiati con altrettanti ‘mori’. La processione si tenne a Madrid il capodanno del 1702 (2). Anche a Tunisi, dopo il passaggio dei trinitari francesi nel 1700, vi giunse una rappresentanza di confratelli spagnoli per impiegare nella benemerita attività la bella somma di 40mila scudi destinata da Innocenzo XII nel suo testamento (30 giugno 1700) per il riscatto di sudditi pontifici; il risultato della missione fu la libertà di 141 schiavi, sfilati in processione a Roma il 12 agosto e di nuovo, con altro itinerario, alla vigilia dell’Assunta. Sempre ad Algeri due ingenti riscatti furono portati a compimento l’anno dopo (aprile-maggio 1702). I mercedari delle province di Castiglia e di Andalusia restituirono la libertà a ben 482 schiavi; contemporaneamente i trinitari scalzi, anche essi di Spagna, operavano a favore di altri 160 cristiani, fra i quali tre sacerdoti, uno del loro stesso ordine (3). Se Algeri richiama il maggior numero di missioni per il riscatto, anche quando si tratti, come vedremo, di schiavi detenuti in altre località algerine, vediamo che in Marocco i ‘redentori’ si dirigono di volta in volta in località diverse (Meknès, Fès, Tangeri, Ceuta). Agli inizi del secolo trinitari e mercedari insieme visitarono Meknès, dove a quel tempo più a lungo soggiornava il sultano con la sua corte; il numero degli schiavi riscattati (rispettivamente 12 nel 1704 e 34 nel 1708) non ha confronti con le cifre concernenti Algeri (4). A parte le (1) PORRES ALONSO 1997, 231-233. Sulle processioni di ‘redenti’ v. DESLANDRES 1903, I, 394-400, e LA VERONNE 1970. (2) PORRES ALONSO 1997, 399-401. (3) MACONI 1877, 119-124; PORRES ALONSO 1997, 517-522; DEVESA BLANCO 1968, 742. SERRANO Y SANZ 1893, 73, presenta un elenco di riscatti mercedari (ci concernono quelli dal 1702 al 1798); non tutti gli episodi risultano confermati da altre fonti e spesso si evidenziano discrepanze nel numero dei ‘redenti’. L’autore elenca peraltro (pp. 78-80) alcune decine di mss. della Biblioteca Nacional di Madrid concernenti riscatti dei mercedari. (4) PORRES ALONSO 1997, 233-237.

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diversità delle situazioni specifiche, si può osservare che in tutto il corso del secolo le missioni in Marocco riscattarono gruppi di schiavi meno numerosi; il sultano era molto meno dei governanti di Algeri interessato ai proventi del riscatto, che senza dubbio costituivano, diversamente che ad Algeri, una percentuale trascurabile nelle entrate dello stato. In quei primi decenni del Settecento l’attività del riscatto fu sollecitata, oltre che dalla ‘normale’ attività corsara, da un evento di maggiore rilievo: la riconquista algerina, nel gennaio 1708, della piazzaforte di Orano, in mani spagnole dal 1509 (sarà ripresa dagli spagnoli nel 1732 e mantenuta per altri 60 anni). A Orano circa 3mila spagnoli, militari ma anche popolazione civile, restarono prigionieri e dunque schiavi. Con sollecitudine ma con mezzi limitati si mossero l’anno dopo trinitari e mercedari insieme e riuscirono a ricondurre da Algeri in Spagna 128 ‘redenti’ (di cui ben 90 donne e bambini) (5). Il secondo decennio del secolo vide un minor numero di missioni redentrici, ma si sommarono quasi mille riscattati, in grande maggioranza liberati ad Algeri, pur se in parte provenienti da Orano. I quattro riscatti avvennero rispettivamente nel 1711, ad opera dei mercedari, con 289 riscattati; nel 1713 (iniziativa congiunta dei due ordini, 204 ‘redenti’, quasi tutti fatti prigionieri ad Orano); nel 1717 a Algeri (mercedari, 232); nel 1718 (trinitari, 285). Il riscatto del 1711 ebbe un seguito sfortunato, ma veramente raro: una delle due navi della redenzione nel ritorno verso la Spagna incappò di nuovo nei corsari, questa volta tunisini, così che redentori e redenti dovettero subire altri venti mesi di schiavitù. Il pagamento di 14mila pezze (ad Algeri ne erano state pagate 135mila) restituì loro la libertà ed arrivarono infine sani e salvi a Cartagena; nel gruppo vi erano 16 donne e bambini, quattro religiosi, una trentina di ufficiali e altri soldati, quattro riscattati a Tunisi. In quel torno di tempo i trinitari francesi tornarono in Marocco; nel maggio 1712 presero in consegna a Ceuta da un autorevole mediatore 22 schiavi, raccolti da diverse località dell’impero sceriffiano, resi liberi in cambio di un numero più o meno pari di ‘mori’ e di una somma di denaro (6). (5) PORRES ALONSO 1997, 401-403. Il Diccionario 1987, 640, segnala due missioni mercedarie nel 1709 con un totale di 180 riscattati. (6) REY 1962, 31-32; CLISSOLD 1977, 111; PORRES ALONSO 1997, 237-239; DEVESA BLANCO 1999, 178-179. Il Diccionario 1987, 640-641, elenca i seguenti riscatti operati da mercedari: 46 persone in Marocco nel 1713, 234 e 41 ad Algeri nel 1717, 36 e 78 di nuovo ad Algeri nel 1719. Un Catalogo (Roma 1713) degli schiavi ‘redenti’ dai mercedari nel 1711 è segnalato da RUBINO 2002, 54-56; il saggio segnala altri cataloghi e dati sugli schiavi ‘italiani’ non ripresi nelle nostre note; altrettanto dicasi per il contributo di COCARD 2002. Una missione senza successo di trinitari spagnoli a Algeri nel 1712 è ricordata da GRANDCHAMP 1943, 114-116.

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Abbiamo sinora menzionato ‘missioni’ recatesi nel Maghreb per trattare i riscatti, su ciascuno dei quali i ‘redentori’ hanno redatto una ‘relazione’, quasi sempre diffusa a stampa, o ci sono comunque pervenuti altri documenti che ci consentono di conoscerne, con qualche dettaglio, svolgimento e risultati. Altri schiavi ottenevano però la libertà grazie alla azione svolta giorno per giorno, diciamo così, e per strade diverse, dagli stessi ordini religiosi e da altre istituzioni, religiose o laiche, attive specialmente in Italia. Di gran parte di questi riscatti siamo informati da liste stampate – spesso con il titolo di ‘catalogo’ (ne citeremo alcuni) – per riepilogare di tanto in tanto e far conoscere i risultati di questo ulteriore impegno a favore del riscatto. Altri schiavi, forse in numero maggiore rispetto a quello dei ‘redenti’ dagli ordini religiosi e da altre istituzioni, venivano riscattati grazie a un intervento diretto a favore della loro persona, promosso e seguito perlopiù dai familiari. Altri ancora riuscivano ad accumulare essi stessi, con il loro lavoro – consentito dal padrone in cambio di un determinato importo giornaliero – o in altro modo (ad esempio, da elemosine). Di tutti questi riscatti singoli, se non vi era un qualche intervento di organizzazioni che ci tenevano a registrare poi il nome dello schiavo nelle ‘loro’ liste, troviamo notizie in fonti disparate soltanto per un certo numero di casi, sicuramente per pochi sul totale; la maggior parte non ha lasciato tracce che siano pervenute sino ai nostri tempi. Nel nostro discorso intrecceremo la menzione, come già fatto, dei viaggi dei redentori e di altri riscatti di gruppi più o meno numerosi, con la segnalazione di liste di ‘cataloghi’ diversi nonché di esempi di riscatti individuali, senza presunzione, ripetiamo, di offrire un quadro completo di tipologie e di casi possibili, ma nell’intento di dare una idea dell’insieme della attività del riscatto. Proprio all’inizio del secolo, il 12 agosto 1701, si svolse nella capitale pontificia una processione di schiavi riscattati negli anni precedenti dall’Opera pia del Riscatto, istituita nel 1581 dal papa Gregorio XIII e affidata alla arciconfraternita romana del Gonfalone, con la quale tende ad essere identificata. Quegli schiavi erano stati dunque quasi tutti riscattati fuori dal secolo di cui ci occupiamo. La stessa confraternita pubblicò però più tardi, nel 1713, un elenco a stampa dal titolo Catalogo delli Schiavi Cristiani nativi dello Stato Ecclesiastico, ricattati dalla Ven. Archiconfraternita del Confalone di Roma dalla barbara servitù de’ Turchi nello spazio di quindici anni, cioè dal 1697 a tutto l’anno 1713 […], Roma 1713; possiamo ritenere che la maggior parte dei 54 redenti di questa lista abbiano recuperato la libertà nel nuovo secolo e in terra maghrebina (altri erano stati schiavi nel Levante ottomano) (7). (7) BONO 1964, 297.

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In Italia – dove prevalsero di gran lunga, rispetto ai due ordini medievali, istituzioni locali appositamente fondate per provvedere al riscatto dei concittadini o connazionali, come la già ricordata Opera romana – i trinitari ebbero il loro centro più attivo nel convento di Livorno. Abbiamo una lista di otto nominativi riscattati da quei padri fra il 1706 e il 1720 (uno a Istanbul, gli altri a Tunisi e ad Algeri) (8). Anche in Sicilia fu attiva una istituzione per il riscatto a favore dei sudditi di quel viceregno, l’Opera per la Redenzione, fondata nell’aprile 1596 ed affidata alla arciconfraternita palermitana di S. Maria la Nuova. I malcapitati, caduti in mano ai corsari, perlopiù della vicina Tunisia, dalla metà del Settecento venivano riscattati, uno o alcuni alla volta, tramite mediatori residenti nella città maghrebina (9). Nel 1721, nell’intento, ci sembra, di rilanciare l’attività della istituzione si decise di organizzare una processione di tutti coloro che erano stati liberati dopo il 1690, data dell’ultima precedente redenzione. Si prevedeva, ovviamente, che dopo un trentennio un certo numero non fosse più in vita e che altri potessero esser ormai irreperibili; si fece comunque un bando per convocarli a Palermo il 18 gennaio 1722 in qual giorno si dovrà disporre la processione solenne; ed assicurerete li detti Redenti, che dalla Redenzione de’ Cattivi se gli darà la spesa dell’accesso, e recesso, ed ancora si vestiranno di tutto punto [...] essi si sono obbligati a venire subbito, che saranno intimati; altrimenti non venendo, si procederà contro di loro alli termini, che saranno convenienti.

Conosciamo i nomi e il luogo di nascita (non altro) dei circa 400 riscattati nel corso del trentennio ma non sappiamo con precisione quanti intervennero alla processione. L’elenco dei riscattati fu pubblicato più tardi, nel 1729; ne ricaviamo che in maggior numero erano trapanesi (circa 120), 40 di Pantelleria, 37 e 35 rispettivamente di Palermo e di Messina, 32 di Lipari; gli altri di Augusta, Girgenti, Marsala e sparsamente di numerose altre località un po’ di tutte le parti dell’isola. In questo elenco erano compresi undici schiavi riscattati a Tunisi dal redentore Giuseppe Delormo; il prezzo medio fu di 300 pezze, accresciuto però sino a 390 per i diritti accessori, le mance e regalie varie.

(8) PORRES ALONSO 1997, 543-544. (9) Sulla istituzione palermitana BONO 1964, 300-307; G. BONAFFINI, La Sicilia e i Barbareschi. Incursioni corsare e riscatto degli schiavi (1570-1606), Palermo 1983; BONO 1992, 16-31.

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Come era tradizione, i ‘redenti’ percorsero in processione «la strada chiamata delli Spadari, indi per la Loggia, e finalmente entrata nella strada Toledo, detta volgarmente del Cassaro, ove trovavasi un concorso numeroso di popolo spettatore, si portò alla Madrice Chiesa» (10). Nelle liste e nei ‘cataloghi’ si indicano talora per ogni nominativo anche altri dati: l’età, il luogo di nascita, il periodo di schiavitù, il prezzo di riscatto. Quest’ultimo dato, reperibile anche in altre fonti, mostra nel corso del secolo una tendenza al rialzo, in parte attribuibile alla costante inflazione registrata in tutta Europa, in parte derivata dalla generalizzata riduzione, già rilevata, del numero degli schiavi (11). Con riferimento alla situazione verso la fine del secolo, Venture de Paradis ha scritto: Les Algériens, à cause de la paix qu’ils ont avec un grand nombre de puissances européennes, font beaucoup moins d’esclaves qu’autrefois. Mais ils ne perdent rien: ils ont augmenté le prix de la rançon. Un homme qu’on vendait autrefois pour 200, 250 sequins algériens, tous frais compris, vaut aujourd’hui 5 ou 600 sequins. Un capitaine, un pilote, un homme tant soit peu comme il faut, vaut le double (12).

Il decennio degli anni Venti segna un record nel numero delle missioni e degli schiavi riscattati ‘in gruppo’ (circa 3mila). Algeri è sempre la città corsara che ‘rivende’, diciamo così, il maggior numero di schiavi al mondo cristiano. E lì nel solo anno 1720 si conclusero tre riscatti. Il primo venne concordato, tra la fine di dicembre 1719 e il gennaio seguente, da trinitari e mercedari francesi: appoggiati dall’autorevole presenza nella città dell’ambasciatore Dusault, conclusero rapidamente il riscatto di 63 schiavi; altri 25 li liberarono i mercedari, ma incontrarono difficoltà nel rientro in patria. Fra i riscattati la nobile fanciulla Marie-Anne de Bourck, di soli dieci anni, e alcuni membri del suo seguito, la cui complicata disavventura, riferita da molti autori, ha reso più nota questa redenzione (13). Il secondo riscatto fu operato dai trinitari spagnoli in aprile a favore di 165 cristiani, sfilati in processione a Cartagena e a Madrid; in agosto, infine, giunse a compimento la redenzione promossa dai trinitari portoghesi, i quali riuscirono a ricondurre in patria 365 concittadini (fra i quali due sacerdoti e tre clerici, tredici donne, comprese una ragazza di 14 anni

(10) BONO 1964, 304-305; la citazione dal Brieve Ragguaglio 1729, 26. (11) MATHIEUX 1954, in particolare 162-163; BONO 1964, 280-281. (12) VENTURE DE PARADIS 1788-1790, 155. (13) PORRES ALONSO 1997, 239-241; VOVARD 1951.

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e una bambina di due, sei bambini). L’altra redenzione del 1720 si era diretta a Tunisi, in gennaio: i trinitari francesi riscattarono tutti i sessanta connazionali allora in schiavitù, in maggioranza originari della Borgogna (14). Nell’ordine cronologico si inserisce, nell’anno 1722, un riscatto effettuato a Tunisi, con la mediazione di un mercante livornese, di 13 schiavi: otto riscattati per denaro, quattro scambiati con sette musulmani, uno venne ‘regalato’ (15). Seguirono altre redenzioni di cui diamo elenco: 1723 1724 1724-1725 1725 1726 1726

mercedari mercedari trinitari mercedari trinitari portoghesi mercedari

Algeri Algeri Meknès e Algeri Tunisi Algeri Tunisi

425 riscattati 275 riscattati 63 riscattati 370 riscattati 214 riscattati 19 riscattati (16)

Il principale responsabile delle tre redenzioni mercedarie degli anni 17231725, padre Melchor Garcia Navarro, ne fece una esaustiva relazione, pubblicata mezzo secolo fa, con un accurato rendiconto delle spese e precisi elenchi dei riscattati con l’indicazione – ciò che per noi più conta – del prezzo, del luogo di cattura e del tempo trascorso in schiavitù; se ne potrebbe ricavare una preziosa elaborazione statistica (17). A proposito dell’ultima redenzione elencata, dalle fonti viene riferito anche che fu ‘riscattato’ un crocifisso di dimensioni naturali, posto poi nella chiesa della Trinità di Lisbona e da allora venerato sotto il nome appunto di Cristo Riscattato. La scultura aveva fatto parte del bottino preso su una nave che andava da Porto a Bahia; ad Algeri fu venduta all’asta – come sempre si faceva per ogni merce e oggetto – e fu acquistata da uno schiavo originario delle Azzorre e addetto allora come ‘scrivano alla marina’. Abbiamo menzionato questo caso poiché se ne ritrovano non pochi altri simili nelle redenzioni operate dagli ordini religiosi: immagini sacre, cadute in possesso dei musulmani, venivano invero recuperate pagando un prezzo che non corrispondeva al valore venale dell’oggetto, ma traduceva in denaro il valore sacro e devozionale

(14) PORRES ALONSO 1997, 461-462, 242-243, 523-526. (15) Ivi 1997, 544-555; un altro francese fu riscattato a Tunisi nel 1725. (16) Su questi riscatti: PORRES ALONSO 1997, 243-245 e 463-464; DEVESA BLANCO 1968, 743; ID. 1999, 179-182. Sul riscatto di due savonesi nel 1709 grazie alla mediazione di un ebreo livornese v. GRANDCHAMP 1943, 108-110; altri riferimenti a riscatti individuali passim. (17) GARCIA NAVARRO 1723-1725; BONO 1964, 321-322.

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dell’opera. A ben cercare i casi sono numerosi e degni dunque d’una analisi appropriata sinora mancante. Le ‘vie del riscatto’ – sia per quelli promossi dalle organizzazioni competenti, sia per quelli negoziati da privati a favore di congiunti – erano molteplici. Nel febbraio 1725, ad esempio, la confraternita romana diede incarico al cappuccino Teodoro da Pavia, prefetto della missione di Tunisi, di riscattare un gruppo di schiavi e per questo gli fece accreditare 3400 scudi; le trattative si conclusero l’anno dopo (1726) ed in agosto gli schiavi liberati giunsero a Livorno e vi trascorsero la quarantena. Il 25 agosto il gruppo – i nominativi appaiono nel Catalogo delli schiavi cristiani sudditi della S. Sede Apostolica, riscattati dalla Ven. Archiconfraternità del Confalone di Roma, alla quale da’ Sommi Pontefici n’è stata specialmente commessa la cura, e seguita in diversi anni, principiando dall’anno 1714 […], Roma 1726 – venne condotto in solenne processione alla presenza del papa Benedetto XIII, che concesse una indulgenza ai partecipanti (18). Torniamo ai riscatti degli ordini religiosi negli anni Venti. A riprova che le trattative e operazioni di riscatto incontravano spesso difficoltà, talvolta persino insormontabili, sta il fallimento di una missione trinitaria che intendeva recarsi a Meknès: solennemente annunciata nel febbraio 1728 si concluse, senza nulla di fatto, a dicembre dell’anno dopo. L’anno 1729 fu invece un anno molto fruttuoso per la redenzione degli schiavi. I trinitari portoghesi riscattarono a Meknès, grazie anche alla consegna di 46 ‘moros’, 113 schiavi (del loro paese o spagnoli sposati con donne portoghesi). Ad Algeri giunse in marzo una missione di mercedari francesi che ricondussero a Marsiglia 42 concittadini; a novembre i trinitari francesi conclusero un riscatto ma di sole 18 persone. L’anno si chiuse però con la liberazione sempre ad Algeri, a dicembre, di 273 schiavi, negoziata in soli cinque giorni dai trinitari spagnoli. Fra i redenti si contavano tredici donne e fanciulle ed alcuni religiosi (19). Nello stesso 1729 a Tunisi i mercedari spagnoli conclusero un riscatto di 129 schiavi, di ciascuno dei quali sono note diverse informazioni, mentre un inviato dell’arciconfraternita romana, il cappuccino Paolo Maria da Matelica, concluse il riscatto, per 450 pezze ciascuno, del gruppo di donne e bambini di San Felice Circeo, rapiti due anni prima dai corsari tunisini. Nell’archivio della istituzione romana si conserva una copiosa documentazione in proposito, in

(18) BONO 1964, 297-298. (19) PORRES ALONSO 1997, 245-246, 405-407, 464-466, 526-529; DEVESA BLANCO 1968, 750; ID. 1999, 183.

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particolare un Giornale sull’affare del riscatto redatto dal cappuccino, che consentirà una accurata ricostruzione ed analisi della vicenda. Il Catalogo delli schiavi cristiani redenti in Tunis sotto li 19 Aprile del corrente anno 1729 […], Roma 1729, ci restituisce i nomi dei 25 malcapitati abitanti della piccola località del Circeo, più altri sei riscattati grazie al generoso contributo di 1000 scudi da parte di Benedetto XIII. Il padre Paolo da Matelica sembra sia stato l’ultimo incaricato di un riscatto di schiavi inviato nel mondo musulmano dalla Opera del riscatto romana e parimenti quello del 1729 fu l’ultimo Catalogo edito (20). Anche per gli anni Venti siamo informati su un certo numero di riscatti effettuati in distinte occasioni da diverse istituzioni, che li hanno in vario modo documentati. L’istituzione palermitana nel decennio in questione riscattò a sua volta 113 schiavi (alla media dunque di 17 l’anno) i cui nominativi risultano da una Nota de’ cristiani riscattati dal 18 gennaio 1722 al 30 agosto 1729. Di questo gruppo non si dice espressamente che siano stati tutti riscattati a Tunisi, ma di certo era stato così per la maggior parte; 29 erano palermitani, fra i quali un francescano, 18 di Trapani, 12 di Lipari, 9 di Messina e gli altri di varie località (21). L’intensa attività redentrice, che ha segnato gli ultimi anni Venti, prosegue nel 1730-1731. Incontriamo anzitutto una iniziativa, nel 1730, dei padri trinitari del convento di Pellestrina, a Venezia, i quali dal 1723 operavano per conto della Magistratura veneziana “sopra gli Ospitali e Luoghi Pii”, incaricata sin dal 1565 da un decreto del senato di provvedere al riscatto dei sudditi veneti; della sua attività non sappiamo invero molto. Conosciamo però a sufficienza la missione affidata nel 1730 al trinitario Miguel de San Rafael, il cui risultato fu la liberazione a Tripoli di 24 veneti e 6 milanesi; dai dati relativi al primo gruppo notiamo che il tempo di schiavitù era stato per qualcuno anche di 36, 31 e 26 anni e il prezzo di riscatto medio di 320 ducati (22).

(20) BONO 1964, 298; DEVESA BLANCO 1968, 750; ID. 1999, 182-183. Alcuni dati su riscatti a Tunisi, fra il 1712 e il 1731, forse in parte coincidenti con quelli sopra segnalati, in M.H. CHERIF, Pouvoir et société dans la Tunisie de Husayn Bin Ali (1705-1740), Tunis 1984, 172-173. (21) La Nota è in appendice (pp. 38-40) al Brieve Ragguaglio 1729. (22) ROSSI 1923-1925, che cita la Redenzione fatta in Tripoli, pubblicata in appendice al catalogo Redemptiones Constantinopoli et Tripoli […], con elenco nominativo. Sull’attività dei Trinitari di Venezia: SACERDOTI 1965 e PORRES ALONSO 1997, 557-565. Sul padre Miguel si veda MIGUEL DE SAN RAFAEL 1730.

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Come sempre, i riscatti più ingenti toccarono Algeri: nel giugno 1730, 143 riscattati per merito dei mercedari spagnoli, 193 nel settembre 1731 dai trinitari portoghesi (183 pagati in contanti, sette scambiati e tre provenienti da Tunisi). Arrivarono infine, in ottobre, i trinitari spagnoli che ottennero la liberazione di 162 individui, fra i quali alcuni religiosi, quattro ufficiali, cinque donne e due bambine, molti fanciulli e ragazzi, tutti ricondotti in Spagna in novembre (23). Direttamente ad Orano, nel maggio 1731, si recò il mercedario spagnolo Pedro Rosvalle, sotto le spoglie di un marinaio, e riuscì a riscattare 26 uomini. Non ebbe invece fortuna un progetto di riscatto in Marocco e i religiosi della provincia trinitaria francese si diressero allora a Costantinopoli, ma ciò esula dalla nostra considerazione. Soltanto qualche anno dopo (1735) andò a buon fine una missione di riscatto a Meknès condotta dai trinitari del Portogallo (24). Dal 1731 sino al 1737 non si registrano missioni ad Algeri; forse perché, dopo i diversi riscatti, si era ridotto il numero degli schiavi e si procedeva comunque per altre strade, attraverso cioè i numerosi possibili canali di intermediazione. Si susseguirono però fra il 1735 e il ’38, non senza difficoltà, tre missioni in Marocco, rispettivamente dei trinitari portoghesi a Meknès (73 riscattati, fra i quali cinque gesuiti, imbarcatisi per l’America ma catturati dinanzi a Porto, e altri sei ecclesiastici, tutti rimasti in schiavitù per tre anni), dei mercedari francesi sempre a Meknès (75 riscatti), di trinitari e mercedari di Francia insieme, a Salé (75) e a Tangeri (14) (25). Ad Algeri i riscatti ripresero fra il 1737 e il 1739, con risultati numerici considerevoli, secondo questa successione: 1738 1738 1739 1739

mercedari spagnoli trinitari spagnoli trinitari portoghesi mercedari spagnoli

418 riscattati 166 riscattati 178 riscattati 444 riscattati (26)

(23) DEVESA BLANCO 1968, 744; PORRES ALONSO 1997, 529-530, REY 1962, 7. (24) PORRES ALONSO 1997, 247-248 e 529-530; DEVESA BLANCO 1968, 744; REY 1962. (25) PORRES ALONSO 1997, 467-469 e 249-250; DEVESA BLANCO 1968, 751-752; ID. 1999, 184-185. (26) PORRES ALONSO 1964 e ID. 1997, 250-251, 469, 530-532 e 545; DEVESA BLANCO 1968, 744-745 e 752-753; ID. 1999, 185-187.

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Gli anni Quaranta del secolo costituirono un periodo meno attivo dei trinitari e dei mercedari e un po’ di tutto il sistema dei riscatti (resta da confermare questo dato e da individuarne, se possibile, le cause); rileviamo poi, soprattutto, che i riscatti avvennero in prevalenza nel Levante e nei Balcani e non nel Maghreb (27). Ad Algeri nel 1740 il convento trinitario di Torino riscattò comunque 13 sudditi sabaudi, perlopiù di Nizza, «e ne fu fatto in Torino il catalogo e la processione» (28). Ad Algeri fra il 1741 e il 1748 i trinitari francesi liberarono 22 schiavi, quasi tutti connazionali, mentre in tutto il Maghreb fra il 1740 e il 1746 i trinitari di Livorno riscattarono almeno una decina di cristiani; i confratelli della provincia austriaca resero la libertà a 15 schiavi ad Algeri e 9 a Tripoli – quasi tutti, riteniamo, connazionali – fra il 1747 e l’aprile 1750 (29). Nel decennio successivo (1750-1759) il numero di cristiani riscattati nel Maghreb raggiunse un totale molto elevato. Si comincia, nel 1750, con la missione congiunta ad Algeri, fra settembre e ottobre, di trinitari e mercedari francesi che vi riscattarono ben 106 persone, la cui Liste venne stampata insieme a un Ordre de la procession, svoltasi l’11 e 12 dicembre (30). L’anno dopo (1751) Algeri vide l’ingente riscatto di 336 individui (ufficiali, soldati, marinai, donne e bambini) ad opera dei trinitari spagnoli. Le trattative furono rese difficili dalla richiesta algerina, inaccettabile da parte spagnola, di trattare anche il riscatto o cambio di alcuni raìs; si giunse comunque nel gennaio 1752 al vistoso risultato già detto. La questione dei raìs fu di ostacolo anche all’azione redentrice dei mercedari giunti successivamente nella stessa capitale maghrebina, i quali tuttavia riuscirono a concludere con successo, a fine novembre, la liberazione di quasi 600 persone (594), fra le quali venti ufficiali di marina, 17 donne e 18 fanciulli. Di essi tutti si tenne a Madrid, il 24 gennaio 1752, una «magnífica solemne processión» ampiamente descritta

(27) MACONI 1877, 361-362. (28) MACONI, 329-330; lo stesso autore dà passim altre sparse notizie di riscatti (per es., p. 160, di 11 schiavi liberati nel 1740) ma perlopiù senza indicare la località di detenzione. (29) PORRES ALONSO 1997, 250-251 (l’elenco segnala 36 riscattati fra il 1735 e il 1748), 545-546 e 609-610, e MACONI 1877, 152, 157-158 e 160-163. Sull’attività di riscatto a Livorno anche CASTIGNOLI 2000. Il Diccionario 1987, 641, segnala un riscatto mercedario di 60 individui in Marocco nel 1741. (30) PORRES ALONSO 1977, 251-252 e DEVESA BLANCO 1968, 754. BONO 1964, 322 e 473-474 cita un Catalogo delli schiavi cristiani [...], in edizione italiana (Roma 1752). La Liste del 1750 e altri documenti del secolo XVIII sull’attività dei ‘redentori’ sono citati da A. BERBRUGGER, Voies et moyens du rachat des captifs chrétiens, in “Revue Africaine”, 11/1867, 325-332.

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da un Sumptuoso retrato, un foglietto di quattro pagine a stampa, dove «manifiestase el adorno de las casas, regocijo de la gente, orden y aparato de la Processión, Imagenes que llevó, y calles que anduvo, con todas sus mas especiales y divertidas circumstancias» (31). Un numero minore di riscattati, ma pur sempre rilevante (248, per una spesa complessiva di 102mila ‘pesos fuertes’), fu il risultato della missione ad Algeri dei mercedari spagnoli nel 1752, celebrata da una Memoria a stampa (Barcellona 1752) con l’elenco dei ‘redenti’. Quest’ultimo venne pubblicato anche quale Catalogo (Roma 1754), suscettibile di una proficua elaborazione poiché di ogni nominativo si riferiscono con precisione molti dati (luogo di nascita, età, luogo di cattura, anni di schiavitù, prezzo). Per l’anno dopo non abbiamo notizie di missioni di riscatto recatesi nel Maghreb. Nel 1754 vediamo di nuovo i trinitari portoghesi ad Algeri fra marzo e aprile; i riscattati (228, per un ammontare di oltre 120 milioni di reali) erano di proprietà sia governativa che di privati. Particolarmente laboriosa fu la trattativa per il riscatto di un benedettino, di un altro religioso, di una ventottenne dalla quale il padrone, a Costantina, non voleva separarsi. In quegli anni operavano anche mediatori privati – dei quali molto aleatoriamente conosciamo l’attività – spesso in concorrenza con i religiosi; in effetti un certo Manuel Gomes de Carvalho nel 1750 riscattò ad Algeri, in tre viaggi, 183 connazionali (32). Nello stesso 1754 ricompare il Marocco, precisamente Fès, quale meta, per qualche tempo trascurata, di un viaggio di redenzione, questa volta di trinitari e mercedari insieme. Una Lista a stampa elenca 24 uomini di mare, riscattati insieme ad altri dieci e tutti sfilati in processione a Parigi a metà dicembre (33). Piuttosto notevole (325) il numero dei ‘redenti’ riportati in patria da Algeri dai trinitari spagnoli, dopo lunghe trattative fra il novembre 1754 e il giugno 1755. Si offrì anzitutto in cambio (due musulmani per ogni cristiano, come era pratica corrente) un folto gruppo di ‘mori’ (fra i quali 220 posti a disposizione dal re Ferdinando VI) e gli altri cristiani vennero liberati per denaro; nel gruppo vi erano dieci donne, due religiosi, due ufficiali. Porres Alonso osserva: «Y si alguno se extraña hoy de que los argelinos rescataran dos cautivos de los

(31) PORRES ALONSO 1997, 408-413; DEVESA BLANCO 1968, 746-748, il quale cita anche una contestata ristampa della Nueva relación, verdadero y curioso romance, nella quale si esponeva, in un ottavo a stampa, la vicenda del riscatto; DEVESA BLANCO 1999, 188-191 (anche su un riscatto di mercedari francesi a Algeri nel 1750, con 65 redenti). (32) PORRES ALONSO 1997, 252-253, 470-471; DEVESA BLANCO 1968, 748 e 755; il testo, di due sedicesimi, riteniamo contenga l’elenco nominativo; ID. 1999, 191-192. (33) PORRES ALONSO 1997, 252-253.

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suyos por un cristiano que daban, téngase en cuenta que los cautivos moros se estimaban poco en Espana y se vendían por muy bajo precio». Nello stesso anno si registra un riscatto a Tunisi – a cura dei trinitari della città toscana e per conto del locale governatore – di sette livornesi, rimasti schiavi per oltre dieci anni (34). Di nuovo in Marocco, a Fès e a Salé, fra il 1756 e il 1758, furono liberati 70 schiavi ad opera di un trinitario e un mercedario, solidali nella caritatevole missione; al ritorno in patria, come era tradizione quasi sempre rispettata, sfilarono in processione a Parigi. Il decennio si chiuse, per quanto ci risulta, con un riscatto operato dai mercedari spagnoli, nel maggio del 1759, con il frutto di 88 cristiani liberati, grazie al cambio di 36 ‘mori’ e la spesa di quasi 60 mila pesos (35). Nel quadro complessivo delle iniziative per il riscatto degli schiavi europei nel Maghreb, alla attività degli ordini religiosi e delle altre istituzioni di carattere religioso si aggiungono iniziative, occasionali o facenti parte di un organico progetto, assunte da alcuni sovrani e governi di una parte e dell’altra. Un episodio è degno di essere ricordato; non si trattò soltanto di un elevato numero di individui riscattati, ma è anche, ai nostri occhi, un esempio del coinvolgimento non infrequente, nelle vicende mediterranee e in particolare in quelle della guerra corsara e della schiavitù, di genti provenienti da lontano, in questo caso dall’Inghilterra. La vicenda cominciò con il naufragio, nel novembre 1758, di tre bastimenti inglesi sulle coste mediterranee del Marocco; tutti gli uomini dell’equipaggio, ben 336, vennero catturati e considerati schiavi. Nella fortunata occasione per i maghrebini, il sultano Muhammad ben Abdallàh – asceso al trono da appena un anno ma già orientato ad aprire il suo impero ai rapporti politici ed economici con l’Europa – vide non soltanto la possibilità di trarre un apprezzabile introito, ma, soprattutto, uno strumento di pressione per la conclusione di un trattato di pace e di commercio. A questo si giunse infatti, fra il regno d’Inghilterra e l’impero sceriffiano il 28 luglio 1760. Al tempo stesso fu resa la libertà allo sfortunato equipaggio e ad altri inglesi catturati su un brigantino, nel maggio 1759, ad opera di una nave corsara marocchina (36).

(34) PORRES ALONSO 1997, 533-536 e 546-547 (da MACONI 1877, 163-164). Il Diccionario 1987, 641, elenca anche un riscatto mercedario a Tunisi nel 1755 (20 persone, di cui non si conoscono i nomi). (35) DEVESA BLANCO 1968, 755-756 e 758; ID. 1999, 192-193; PORRES ALONSO 1997, 253. (36) LOURIDO DÍAZ 1976.

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I conteggi, per singoli anni o decadi, vengono complicati e condannati a restare incompleti, quando ci si trova di fronte a notizie di ‘redenzioni’ delle quali si conosce l’anno e il numero dei riscatti ma non le località di detenzione degli schiavi; questo è il caso per la redenzione effettuata nel 1751 dal p. Antonino di San Fernando, della provincia d’Austria-Ungheria, a favore di 47 schiavi. Di un altro riscatto effettuato da un padre della stessa provincia, sappiamo che beneficiarono 83 cristiani, residenti perlopiù a Costantinopoli e in altre località del Levante e dei Balcani, ma qualcuno (quanti?) anche ad Algeri. Nei conteggi di cui parliamo dovremmo inserire i nominativi compresi in ‘cataloghi’ che si riferiscono ad archi temporali più estesi e che non possono essere ripartiti cronologicamente. Come regolarsi, ad esempio, per i 434 nomi del Catalogo de’ Siciliani Redenti dalla Schiavitù de’ Barbari dall’anno MDCCXX fin ad agosto MDCCLIV (Palermo 1755)? Non vi è problema invece per altri dodici nominativi aggiunti all’elenco, come riscattati dall’agosto 1754 sino alla stampa del catalogo stesso (1755) (37). Anche nel corso di questo decennio non mancarono riscatti effettuati alla spicciolata: nel 1750, ad esempio, il convento trinitario di San Michele, a Torino, riscattò da Tunisi due piemontesi sessantenni, che avevano trascorso in schiavitù rispettivamente 25 e 32 anni. Nello stesso anno il convento milanese riscattò o cooperò al riscatto di ben undici italiani (lombardi, emiliani ed uno di Alessandria) (38). Nel ventennio 1760-1780 nelle tre reggenze barbaresche e in Marocco l’attività di riscatto proseguì costantemente, specialmente da parte dei due grandi ordini religiosi; si trattò però in numerosi casi di operazioni che ricondussero in libertà soltanto piccoli gruppi di schiavi (da una decina, o meno, a una trentina); altre volte si raggiunsero livelli di 70-90 schiavi, soltanto poche volte si giunse intorno ai 200 o più, sino alla eccezionale ‘redenzione generale’ del 1768-1769, ad Algeri, che fruttò il ritorno in Europa di 1402 cristiani. Questo numeroso riscatto venne trattato e concluso da trinitari (‘calzati’ e ‘scalzi’) e da mercedari, raccomandati al dey algerino dall’imperatore del Marocco; i tre religiosi incaricati, molto autorevoli, giunsero ad Algeri a metà ottobre del 1768, recando con loro ben 1246 ‘moros de canje’, il cambio dei quali venne

(37) BONO 1964, 305; PORRES ALONSO 1997, 417-421 e 610 e 81 (fonte). Da Algeri vennero forse soltanto i due spagnoli direttamente aiutati dalla imperatrice Maria Teresa. DEVESA BLANCO 1999, 193-194. (38) MACONI 1877, 331 e 363. Su altri riscatti del convento torinese v. N. CALVINI, Riscatti di schiavi onegliesi, in “A Vuxe da Campagnia” (Imperia), 2/1988, n.1, 7.

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trattato prima di ogni altro punto. Per 26 raìs algerini si ottennero altrettanti capitani e padroni di navi, mentre gli altri musulmani vennero scambiati in ragione di due algerini per uno spagnolo (dunque oltre seicento). I più autorevoli esponenti del governo e dell’amministrazione algerina volevano invece piuttosto ‘vendere’ i cristiani in proprie mani e ciò provocò nella città tensioni e incidenti, nei quali fu coinvolto lo stesso dey, rimasto ferito mentre distribuiva la paga ai giannizzeri. Tra novembre e febbraio si arrivò in effetti alla conclusione di diverse centinaia di riscatti per denaro. Fra questi, un gruppo di ben 323 persone – alcune in schiavitù a Mascara, Costantina e altre località della reggenza – originarie dell’isola di Tabarca, prossima alla costa tunisina, vennero riscattate nel febbraio 1769 e destinate a popolare la Isla Plana, situata di fronte al litorale alicantino, chiamatasi da allora Tabarca o Nueva Tabarca. Nel già indicato totale si contavano sette religiosi; le donne, i bambini e i giovani furono 231, i soldati e marinai 101. Il costo complessivo del riscatto, compresi gli oneri accessori gravanti anche sui ‘cambi’ e le spese di organizzazione del viaggio ecc., ammontò a poco meno di 700mila pesos (39). Nel corso degli anni ’60 si susseguirono diversi altri riscatti collettivi e individuali. Una ‘redenzione generale’ fu decisa dal senato di Venezia nel 1764 a favore degli schiavi veneti ad Algeri e Tunisi; l’esecuzione venne affidata ai trinitari del ricordato convento di Pellestrina, già tramite soddisfacente di alcuni riscatti due anni prima. In settembre si riscattarono 89 individui ad Algeri e due a Tunisi; da qui ne furono liberati altri cinque nel 1766. Una Descrizione della pubblica presentazione degli schiavi veneti (Milano 1765) offre l’elenco nominativo dei redenti, con l’indicazione per ciascuno del tempo trascorso in schiavitù e del prezzo di riscatto, nonché il testo dell’omelia pronunciata dal patriarca di Venezia in occasione della processione, il 15 gennaio 1765 (more veneto 1764). Il Catalogo ripartisce i ‘redenti’ in alcune categorie: 23 sono classificati come «Soldati restati schiavi con il capitan Brailli», quasi tutti slavi dalmati; 11 le ‘maestranze’, tutti sudditi veneti, mentre di varia ‘nazionalità’ sono i «passaggieri, caravane, marinari» (27) e similmente gli «schiavi de’ particolari» (30) (40).

(39) PORRES ALONSO 1997, 417-421. Il ‘catalogo’ a cui ha fatto riferimento BONO 1964, 315-316, dà notizia di 1381 schiavi, di cui 561 scambiati e 289 provenienti da Tabarca. Della grande ‘redenzione’ parlano anche i Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 343348. (40) Una Distinta Relazione dell’epoca è stata edita in una rara pubblicazione di TESSIER 1889; PORRES ALONSO 1997, 569. In quegli anni alla magistratura veneziana competente

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In Marocco avvennero riscatti nel 1765, a Mogador, con 92 ‘redenti’, al termine di un prolungato negoziato, e nel 1767 a Safi, a favore di ben 194 schiavi francesi, di età fra i 15 e i 57 anni, quasi tutti uomini catturati sul mare nei tre-quattro anni precedenti. A Tripoli non giunsero missioni ‘redentrici’, ma anche in questa città qualcuno fu riscattato, da uno o altro convento, individualmente; così avvenne anche ad Algeri e a Tunisi (41). Gli anni Settanta si aprirono, sembra, con un riscatto nel novembre 1770, del quale abbiamo una certa traccia, a favore di portoghesi perlopiù schiavi di proprietà governativa. Fra di essi vi erano capitani di navi (costati 2500 piastre ciascuno), sacerdoti (2000), alti ufficiali e addetti di bordo, come chirurghi (1500), e così via sino al costo di 800 piastre; dai privati vennero riscattati altri schiavi. Sul prezzo gravò un 25% circa di diritti doganali e accessori (42). Ben noto è invece il riscatto concluso nella vicina Tunisi nel 1771 dalla istituzione palermitana, a favore di 81 schiavi, in maggioranza (47) di proprietà del bey, gli altri di privati. Anche questa volta si svolse una processione dei ‘redenti’, a Palermo il 5 agosto, ed accorse grande folla – «a cagione della rarità del tempo, che abbisogna per rinnovarsene col fatto la memoria», commenta un cronista – ed invero una cerimonia simile non accadeva da mezzo secolo. Gli schiavi erano originari quasi tutti delle isole minori: Lipari, Stromboli, Pantelleria, segno che in quella seconda metà del Settecento la minaccia corsara si era attenuata e si spingeva più raramente sino alle coste della Sicilia stessa (43).

per il riscatto, già ricordata, pervennero due lettere, rispettivamente nel 1758 e nel 1762, indirizzate da Algeri dal padre lazzarista Théodore Groisselle e dal trinitario Carlo di S. Antonio, con interessanti informazioni sulle modalità e i prezzi, dichiarati in ascesa, dei riscatti (SACERDOTI 1948). (41) MACONI 1877, 192-195 e 332-334, con indicazione anche di due riscatti a Tunisi nel 1761, sei ad Algeri nel 1762, ed un’altra quindicina, perlopiù ad Algeri, sino al 1769. PORRES ALONSO 1997, 254-259 e 560-563, con la ripartizione dei riscattati a Safi (197 secondo una Liste dell’epoca) secondo la nave sulla quale erano stati catturati, fra il giugno 1763 e il marzo 1765; DEVESA BLANCO 1999, 194-195; BONO 1964, 308, segnalò un ‘catalogo’ (Milano 1765) nominativo, con indicazione del periodo di schiavitù e del prezzo. Il 15 gennaio se ne fece la processione. Nel 1763 nove sudditi veneti erano stati riscattati ad Algeri e a Tunisi. Un riscatto di 17 veneti, ma a Costantinopoli, avvenne nel 1768. Il Diccionario 1987, 641, registra un riscatto a Tunisi (20 persone, senza nominativi) nel 1763. (42) Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 348-349; non ne abbiamo trovato altra menzione. (43) BONO 1964, 305-306, dalla Relatione del riscatto eseguito l’anno 1771 dei schiavi siciliani esistenti in Tunisi e di tutto quello che si praticò al loro arrivo in Palermo, Palermo 1771.

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In quello stesso anno (1771) per la prima volta un trinitario della provincia austriaca si recò nel Maghreb, precisamente ad Algeri, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa. Il Catalogo, che dà conto dell’attività redentrice nel triennio 1771-1773, elenca 121 nominativi: un centinaio furono liberati ad Algeri e a Mascara, quasi tutti già a servizio dell’impero, sei a Tripoli (erano marinai di Trieste, già detenuti a Istanbul), sei nella stessa Istanbul e nove in varie località; 22 erano spagnoli e uno genovese. Nel Maghreb, ma anche a Costantinopoli, negli anni Settanta si susseguirono continuamente missioni di ‘redentori’, perlopiù trinitari di diversi stati europei. Ad Algeri la provincia austriaca riscattò 16 schiavi nel triennio 1773-1776, incoraggiata dai contributi finanziari di numerose istituzioni (il numero maggiore (47) era stato liberato in Turchia) (44). Negli stessi anni altri piccoli gruppi di europei vennero riscattati ad Algeri e a Tunisi. Nel 1773, sempre ad Algeri, tramite l’amministratore dell’ospedale, i confratelli trinitari di Livorno, con il cambio di sette musulmani detenuti nel porto toscano e con una integrazione in denaro, restituirono la libertà a 14 toscani e successivamente ad altri due a Tunisi. Un autore riferisce anche delle protratte ma sembra fallite trattative per il riscatto-scambio da Algeri del capitano Giuseppe Santoni e di tre suoi marinai. Come abbiamo altre volte rilevato, anche gente di paesi lontani dal Mediterraneo veniva coinvolta nelle catture e nella schiavitù e si cercava poi di liberarla. Sotto la data del luglio 1774, ad esempio, i Mémoires de la Congrégation annotano, senza dettagli, che 98 tedeschi furono riscattati ad Algeri per 337mila lire, comprese tutte le spese (45). Non sempre la documentazione ci consente di inserire i dati relativi ai riscatti in sequenza cronologica, come stiamo cercando di fare, e insieme con la distinzione fra le città del Maghreb interessate. Nel 1776, ad esempio, venne pubblicato un Catalogo di 28 “schiavi cristiani sardi”, riscattati a Tunisi dai mercedari di Sardegna appunto, fra il 1763 e il 1776. Anche i corsi sono sempre stati fra i gruppi ‘nazionali’ più numerosi nell’ambito delle comunità di schiavi cristiani nel Maghreb. All’atto dell’annessione dell’isola al regno di Francia (1768) Luigi XIV promise di interessarsi alla loro liberazione e ne affidò il compito congiuntamente a trinitari e mercedari: dopo lunghe trattative nel

(44) PORRES ALONSO 1997, 613-614. Un esame diretto del catalogo consentirebbe di accertare se la ripartizione dei redenti del 1771-1773 è stata esattamente di 47 e 16. Per l’attività redentrice dei trinitari austriaci – ancora pressoché sconosciuta – si deve partire da GMELIN 1871. (45) MACONI 1877, 169-178, ne riporta i nomi; in contante furono versate 67mila lire; Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 348.

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1779, 78 corsi poterono tornare liberi in patria: 54 da Tunisi e 24 da Algeri, fra i quali otto madri di famiglia e quindici loro figli (46). La più numerosa redenzione del decennio avvenne ad Algeri nel 1778, a favore di 223 cristiani liberati ad opera della provincia trinitaria del Portogallo, la quale, dopo aver rivendicato con fermezza presso il sovrano la propria esclusiva competenza a trattare i riscatti dei portoghesi, ottenne di prendere parte ad una iniziativa avviata già negli anni precedenti da esponenti governativi, d’intesa con alcuni mediatori presenti ad Algeri. Il risultato finale di questa vicenda – piuttosto insolita, ma indicativa delle tensioni concorrenziali fra ordini religiosi e altre istituzioni e ambienti, per assicurarsi la gestione dei riscatti – fu la liberazione, per un prezzo medio più elevato rispetto al passato, di alcuni militari del presidio di Orano, numerosi stranieri, quattro sacerdoti, due donne. Il folto gruppo sfilò in solenne processione a Lisbona, dalla chiesa di San Paolo a quella della Trinità. Di altri riscatti, a favore di austriaci, possiamo avere notizie dal Catalogo che ne elenca 83 liberati fra il 1777 e il 1780, parte a Costantinopoli, e gli altri nel Maghreb (i più ad Algeri, 9 a Tripoli) (47). Negli anni Ottanta il numero degli europei schiavi nelle città maghrebine risultava ormai piuttosto ridotto e anche le ‘redenzioni’ si diradarono sino alla fine del secolo. Spicca quella, ben documentata, conclusa ad Algeri nel 1785, voluta dal re Luigi XVI anzitutto a favore degli uomini d’arme arruolatisi nella guarnigione spagnola del presidio di Orano, qualcosa come una legione straniera dei nostri tempi. Fuggiti in gran numero da Orano, i disertori erano quasi tutti caduti nelle mani degli algerini; il vicario apostolico ad Algeri, che pure era scampato ad un tentato omicidio da parte di quegli uomini turbolenti e disperati, intercedette per loro presso il re e ne ottenne una decisione favorevole. La ‘redenzione’ fu affidata ai due ordini religiosi che vi contribuirono con somme di denaro, insieme ad altre istituzioni; tornarono in patria 315 francesi. Di altri redenti austriaci, fra il 1780 e il 1783, ci dà notizia uno dei Cataloghi pubblicati, come di consueto (48). Fra le istituzioni su base nazionale e locale, restò attiva sino alla fine del secolo ed oltre quella siciliana. Fra il 1787 e il 1804, da Algeri e da Tunisi,

(46) DEVESA BLANCO 1968, 756-757; ID. 1999, 194-195, con riferimento ad altre redenzioni di schiavi sardi, per un totale di 68, fra il 1763 e il 1776; PORRES ALONSO 1997, 259-260. (47) Ivi, 471-473 e 614, ma non si specifica la ripartizione degli austriaci per località di detenzione. (48) Ivi, 261-263; BONO 1964, 325.

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ricondusse in patria 167 persone, fra le quali quattro religiosi. Una trentina erano stati riscattati ad Algeri nel 1788 per ordine del re Ferdinando III, che aveva inviato nella città maghrebina il ‘brigadiere’ Giovanni Thomas. L’Opera palermitana sborsò 13450 onze (pari a 450 onze a persona), prezzo del riscatto, mentre le spese di viaggio e altre accessorie vennero sostenute dalla marina (49). L’attività redentrice richiedeva mezzi e perciò si sollecitavano lasciti, donazioni, elemosine. Wolfgang Goethe, trovandosi a Palermo il 12 aprile 1787, vide un aristocratico siciliano, il principe di Palagonia, che percorreva le vie della città per raccogliere le offerte dei cittadini e così lo descrive: Un signore lungo e magro, in abito di corte, che con passo maestoso e tranquillo s’avanzava sul letame, nel mezzo della strada, arricciato e incipriato, col cappello sotto il braccio, in abito di seta, la spada al fianco ed elegantemente calzato con scarpe con fibbie adorne di pietre preziose.

Più avanti l’illustre viaggiatore tedesco così aggiunge: Veramente questa colletta non frutta molto; ma lo scopo pel quale si chiede viene rammentato e, spesso, quelli che si sono astenuti dal dare durante la loro vita, lasciano in testamento delle belle somme destinate a quest’opera (50).

Altri sparsi riscatti, per qualche decina di individui, furono condotti a termine dai religiosi dei due ordini redentori e da varie altre istituzioni tuttora attive in quello scorcio di secolo (51). Anche la confraternita romana del Gonfalone – che esercitava il riscatto, come si è visto, a favore anzitutto dei sudditi dello stato pontificio – continuò sino alla fine del secolo ad interessarsi della sorte dei cristiani schiavi nel Maghreb, a proposito dei quali riceveva lettere e memoriali, degli stessi interessati o dei congiunti. Di quei documenti e di altri, inerenti alle operazioni di riscatto (concessioni di contributi ecc.) ne conosciamo circa 120 datati fra il 1742 e il 1797; in alcuni si indica l’importo del riscatto richiesto, in altri l’interessato chiede la somma mancante al completamento dell’ammontare, in altri ancora si fissa il contributo concesso. L’ultimo caso concerne una donna e la figlia,

(49) BONO 1964, 306, con riferimento al Catalogo dei Siciliani redenti dalla schiavitù delle potenze africane Algeri e Tunisi dall’anno 1787 al 1804, Palermo 1804. (50) W. GOETHE, Viaggio in Italia, tr. ital., Firenze 1955, 346. BONO 1964, 272-273, con esempi di lasciti, nel corso del secolo, a favore della confraternita del Gonfalone. (51) PORRES ALONSO 1997, 478.

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schiave a Algeri, per il cui riscatto il marito e padre, un certo G.B. Infante, napoletano, aveva rivolto a Pio VI istanza nel 1795; due anni dopo chiedeva il pagamento dei 25 zecchini, che sembra dunque gli fossero stati promessi o assegnati (52). In Italia e in altri paesi europei anche altre istituzioni continuarono ad operare nel corso del secolo XVIII per il riscatto degli schiavi cristiani. Molto resta da indagare. Così, per esempio, a proposito di Genova, dove operava dal 1597 il Magistrato del Riscatto, la cui attività è stata studiata soltanto per il Seicento. Devo constatare con rammarico che, almeno a quanto mi risulta, non sia stato sinora raccolto l’auspicio di «proseguire per l’intero corso del Settecento la ricostruzione dell’attività del Magistrato del Riscatto»; ci penserà forse un giovane studioso interessato all’area ligure che ha già dato buona prova. Ci è noto che in diverse località d’Italia e d’altri paesi istituzioni comunali o di altra natura operarono per il riscatto degli schiavi; in altre località ancora è presumibile che siano state attive istituzioni del genere, ancora da identificare e studiare. Sappiamo, per esempio, che il consiglio della comunità di Chioggia, fra il 1702 e il 1771 concesse dieci ducati ciascuno a sette suoi concittadini (due erano a Tunisi, due a Tripoli, degli altri non sappiamo dove), già da tempo schiavi, uno di loro da dieci anni (53). Riscatti e scambi di schiavi potevano coniugarsi in una stessa operazione. Qualche esempio è stato già segnalato; d’uno degli ultimi, sul finire del secolo, furono mediatori i mercedari di Sicilia che nel 1794 restituirono la libertà a 19 siciliani, cinque dei quali, nativi di Castellammare, vennero rilasciati dal bey di Tunisi in cambio di 15 musulmani concessi a quel fine dal sovrano siciliano (54). Anche nel Settecento, e forse più ancora che in passato, europei di paesi lontani dal Mediterraneo furono coinvolti nelle vicende del grande mare, e anzitutto della guerra corsara e del riscatto. La Sklavenkasse – fondata a Lubec-

(52) ASV, Gonfalone 1157, fasc. 18 e 19. Per alcuni riscatti di sudditi piombinesi nell’ultimo decennio del secolo v. MASSART 1970, 114-115. (53) La citazione proviene dalla mia prefazione a LUCCHINI 1990; il giovane studioso è Luca Lo Basso (vedi Bibliografia). Sui chioggiotti, v. LOMBARDO 1978, 101; SPIRITO 1999 ha indagato i riscatti a Ferrara, su cui anche RICCI 2000, passim. Su alcune istituzioni spagnole – fra l’altro a Bagur, presso Gerona – si veda S. RAURICH, Las Obras Pias de beneficiencia para la redención de los cautivos de la piratería berberisca, in “Revista General de Marina”, 126/ 1944, 623-630. (54) BONO 1964, 323 e 474, con riferimento al Catalogo (v. sopra nota 49).

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ca nel 1627, su base mutualistica – continuò ad operare sino alla metà del secolo XVIII. Nel 1736, la quota di contributo di coloro che venivano riscattati venne elevata, per il rialzo dei prezzi; nel 1748-1750 i corsari catturarono due navi della città tedesca (55). Nell’ultimo quarto del secolo divennero più frequenti le liberazioni di schiavi, spesso anche grazie a scambi, negoziate e concluse da sovrani e governi, nel clima di miglioramento dei rapporti fra i paesi europei e quelli maghrebini, pur nella persistenza del fenomeno corsaro (56). Diverse iniziative si connettono all’impegno del sultano marocchino Mohammed ben Abdallah di migliorare i suoi rapporti con l’Europa e di far tornare in terra d’islàm il maggior numero possibile di schiavi musulmani. Una ‘campagna’, si può dire, per la conclusione di scambi di schiavi con governi europei fu avviata dal sultano nel 1765. In relazione, o meno, con le trattative e la conclusione di trattati di pace, si pervenne a diversi accordi per la liberazione di schiavi, a cominciare dalla Spagna, Venezia, la Francia, il Portogallo, la Danimarca fra il 1765 e il 1768. L’intento di Muhammad ben Abdallàh mirava peraltro anche a migliorare le condizioni degli schiavi, in particolare per quanto concerneva la libertà di culto, e a concludere accordi che ponessero fine all’esistenza stessa della schiavitù, da una parte e dall’altra. Si ebbero anche episodi più circoscritti come quello della presunta “princesa española”, in realtà la moglie del governatore della piazzaforte spagnola di Mazalquivir, catturata dagli algerini nel dicembre 1779, insieme alla figlia e ad alcuni militari. La diplomazia si attivò immediatamente: il re di Spagna pregò il sultano marocchino di intervenire presso gli algerini, mentre fu pronto a liberare un gruppo di marocchini in suo possesso. La vicenda, nella quale entrarono varie figure di mediatori, come il francescano p. José Boltas, si concluse nel settembre 1782 quando donna Maria Hidalgo e gli altri quattro spagnoli tornarono in libertà; la felice conclusione agevolò ulteriori negoziati e intese per riscatti e scambi (57).

(55) WEHRMANN DR., Geschichte der Sklavenkasse, in “Zeitschrift des Vereins für Lübeckische Geschichte und Alterthumskunde”, 4/1884, 158-193. (56) Per alcune trattative per liberazione, riscatto e scambio di schiavi fra il 1717 e il 1748 v. BONO 1999, 436-441. (57) ARRIBAS PALAU 1975, LOURÍDO DÍAZ 1972a, ID. 1973, ID. 1977, 21-45, SERRANO Y SANZ 1893, 68-70. Un altro riscatto concluso in Marocco nel 1779 è narrato da ARRIBAS PALAU 1974. Su riscatti e scambi in Marocco LOURIDO DÍAZ 1989, 141-180.

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A seguito di una proposta rivolta dal Marocco nel 1777 ai governi europei, per agevolare il riscatto e lo scambio degli schiavi, negli anni ottanta l’azione diplomatica portò alla liberazione di 60 musulmani in Toscana, 232 a Genova e 285 a Napoli. Il passaggio a Cagliari nel novembre 1786 di due ambasciatori marocchini suscitò la speranza di servirsi della loro mediazione per negoziare accordi di scambio anche con i governi di Tunisi e di Algeri. A parte qualche riscatto e scambio alla spicciolata, soltanto nel 1791 si giunse ad una intesa più consistente con Tunisi (64 maghrebini e 16 sardi vennero liberati); altri scambi seguirono nei primi anni del nuovo secolo. Frattanto gli eventi seguiti alla rivoluzione francese, e in particolare la caduta dei vecchi regimi, condussero nel 1797 alla liberazione a Genova e a Livorno degli ultimi schiavi musulmani rimasti, perlopiù maghrebini (58). Tra la fine del Settecento e i primi anni del nuovo secolo si svolsero le laboriose trattative per il riscatto dei ‘carolini’, gli abitanti dell’isola di San Pietro, alla cui vicenda abbiamo rivolto specifica attenzione (59). Le vie del ritorno alla libertà sono sempre state molteplici; a quelle consensuali si sono aggiunti i colpi di mano di schiavi a bordo delle navi e le fughe verso terre rispettivamente cristiane o musulmane. Nei modi, nei rischi, nelle possibilità di successo non vi sono varianti nel Settecento rispetto al passato. Ricordiamo solo qualche episodio e caso, a mo’ di esempio. Un astuto progetto di fuga venne scoperto a Civitavecchia nel novembre 1718: una dozzina di galeotti musulmani della flotta pontificia avrebbero dovuto sorprendere nel porto «un gozzo o simile altro piccolo bastimento». Più tardi, nel gennaio 1727, un altro gruppetto di schiavi riuscì a mettersi in fuga su una barca, mentre andava a caricar legna da Civitavecchia a Santa Marinella, ma fu raggiunto presso Anzio. Quattro galeotti fuggirono nel 1760 dal porto di Tolone verso Genova e da qui cercarono un incerto riparo a Livorno. Una rivolta, invece, delle tre galere pontificie ‘di scarto’, di stanza a Civitavecchia, fallì infelicemente nell’agosto 1770 (60). Nell’agosto 1755 la ciurma musulmana di due galere della squadra di Sicilia – la Sant’Antonio e la San Gennaro – riuscì abilmente a sorprendere gli

(58) BONO 1999, 442-447. Su un riscatto di musulmani a Malta nel 1788-1789: ARRIBAS PALAU 1987; su un riscatto in Spagna: BODIN 1921. (59) Vedi infra, capitolo 15. Sulla cattura e sul riscatto (1797-1798) – concordato ma mai corrisposto – del principe di Paternò si veda infra, capitolo 14. (60) BONO 1999, 467 e 470-471.

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ufficiali e i membri cristiani dell’equipaggio e a condurre le due navi ad Algeri, dal cui territorio verosimilmente proveniva la maggioranza degli insorti (61). Dal Maghreb, per contro, tentarono di fuggire, con alterna fortuna, gli schiavi cristiani. Di tanto in tanto, quelli fortunati arrivavano sulle coste europee: a Palo, sulla costa laziale, ne giunsero sedici da Tunisi nel dicembre 1725 «essendogli riuscito di montare in un bastimento turco non ben fornito di gente, e di ammazzarne alcuni […] e di prender molte robbe»; espressero subito il desiderio di profittare, in tempo, per lucrare il giubileo. A Malta sul finire dell’ottobre del 1734 giunse una barca «fuggita da Barbaria» con sei giovani genovesi. Ma spesso le cose andavano male: una sessantina di schiavi, nel novembre 1737, tentarono di fuggire da Tangeri imbarcandosi a forza su una nave inglese, ma l’equipaggio stesso li rigettò in mare, lasciandoli affogare, e gli altri furono ripresi (62).

(61) ID. 1977 e ID. 1999, 471-474. (62) ASRm, Epistolario, Civitavecchia, busta 65, 12 e 23 dicembre 1725; busta 66, 12 settembre e 28 novembre 1725; REBOUL 1729-1750, 31; LA VERONNE 1989a, 141. Su fughe di schiavi cristiani, riuscite e fallite, PLAYFAIR 1884, 171-172, 180-181, 207-208.

capitolo sette | 113

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La guerra corsara e la schiavitù per tutto il corso del Settecento continuano a caratterizzare la realtà quotidiana del Mediterraneo, come abbiamo già più volte rilevato. Il numero degli individui catturati e detenuti in schiavitù di certo decresce lungo tutto il secolo, come anche si è detto, salvo una inversione di tendenza a cavallo con l’inizio del secolo seguente. Rileviamo però che è ben più abbondante e vario nel Settecento l’insieme delle memorie di singoli schiavi europei, redatte direttamente o attraverso un interposto scrittore e consegnate in testi a stampa editi all’epoca o successivamente. Alcuni autori sono noti, ma più numerosi sono invece quelli ben poco conosciuti o persino rimasti ignoti anche agli specialisti più attenti e informati. Possiamo peraltro molto ragionevolmente supporre che altri ancora potranno essere ‘scoperti’ attraverso ulteriori ricerche, specialmente in aree geografico-linguistiche sinora trascurate. Ne presentiamo dunque una rassegna, con qualche dato e qualche commento, e non senza un qualche arbitrio nel privilegiare decisamente alcuni testi sinora meno utilizzati, come quelli concernenti i ‘redenti’ bolognesi. Uno di essi, Gian-Marco Betti – di cui diremo – mi è caro poiché l’occasionale reperimento, intorno al 1950, su una bancarella di libri, del Ragguaglio (1762) della sua disavventura di schiavo, è stato all’origine del mio interessamento per il tema della schiavitù e del riscatto e più in generale della storia del Mediterraneo (1). Sarebbe anche interessante richiamare l’attenzione su qualche figura di schiavo le cui vicende, pur se non consegnate a dirette ‘memorie’, risaltano in qualche misura nelle fonti e nella storiografia per qualche motivo, perlopiù per la loro complessità e vivacità.

(1) Si veda più avanti, quando si parla del bolognese Gian-Marco Betti (pp. 125-126) e anche BONO 1954, preceduto da ID., Genovesi schiavi in Algeri barbaresca, in «Bollettino Ligustico per la Storia e la Cultura Regionale», V, 1953, 67-72.

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Una intera vita da schiavo Cominciamo con la storia di uno schiavo olandese, narrata dal protagonista in un libretto edito qualche anno dopo il suo ritorno in patria nel 1743. L’estrema rarità del testo ha fatto sì che esso rimanesse del tutto trascurato; nel 1987 è stato ripubblicato ma non ci risulta che abbia attirato l’attenzione degli studiosi interessati al tema della schiavitù mediterranea. Quella di Jan Cornelisz Dekker, nato in Frisia nel 1701, è forse la più lunga schiavitù oggetto di una narrazione autobiografica (2). Dekker, appena quattordicenne, venne catturato da corsari marocchini nel suo primo viaggio in mare, e restò schiavo in terra maghrebina per circa 28 anni, sino al 1743. Il racconto, d’una quarantina di pagine, non è così chiaro e ordinato come vorremmo per conoscere con precisione i suoi spostamenti nel territorio dell’impero sceriffiano e le vicissitudini trascorse. La nave, la de Kroonvogel, un mercantile a tre alberi in navigazione verso il Mediterraneo, fu catturata nell’agosto del 1715 presso capo San Vincenzo, sulla costa dell’Algarve, da un corsaro di Larache, il quale poco dopo si impadronì anche di un legno inglese con un carico di baccalà. Il ragazzo – che aveva perciò il pregio della giovane età – venne acquistato da un fratello del sovrano e fu destinato ad accompagnare il padrone nella regione del Tafilelt, nell’estremo sud-est del paese. Il suo viaggio fu tuttavia rinviato da un anno all’altro, almeno sino al 1719, anche perché egli si ammalò più volte e rimase a Meknès, dove subì a più riprese pressioni e violenze affinché si convertisse; forse in queste parti del racconto ricalca uno scontato stereotipo. Compì infine, in più di una settimana, il lungo e faticoso percorso a piedi, sino al lontano Tafilelt, osservato e descritto con qualche stupore. Dekker, che negli anni di schiavitù mantenne contatti epistolari con la famiglia, passò sotto diversi padroni e fu impiegato in compiti di vario genere. Si trasferì più volte da una ad altra località; da Meknès all’interno, da qui a Mamora, sulla costa, per tornare infine presso la corte imperiale a Meknès, dove venne occupato come guardiano di animali e come fabbro in una fucina. Giunse infine il riscatto, e nel settembre 1743 Dekker rivide il suolo della patria, ove poté trascorrere ancora un decennio.

(2) DEKKER J.C., Een Westfriese zeeman als slaaf in Barbarije: verlag van de belevenissen van J. C. D. in Marokko, 1715-1743, a cura di P. Boon, Schoorl 1987.

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Da Bologna alle città barbaresche Nell’ordine del tempo ci appaiono fra le prime, tra la fine del 1704 e il 1710, le disavventure di due bolognesi, Giovambattista Bertolotti e Domenico Maria Loli, riscattati dalla confraternita di Santa Maria della Neve di Bologna (3). I due si erano arruolati a servizio della repubblica di Venezia ma la nave Tigre, sulla quale si erano imbarcati, per una «fiera borrasca» fu costretta «a dare in terra» sulla costa cirenaica. A nulla valse qualche scaramuccia con le truppe locali sopraggiunte da Derna, la gente imbarcata venne fatta prigioniera; per otto mesi ben 466 uomini e 38 donne restarono nella cittadina, «nutriti di miserie». Furono poi trasferiti a Tripoli dal rinnegato corso Braim Bey. Nella nuova sede Bertolotti, allora d’anni 36, riprese a esercitare la «Professione di medico, e Barbiere, essendo Capo Chirurgo della Città e della Capitana», grazie alla pratica acquisita nel ventennio trascorso fra un ospedale veneto in Dalmazia e una ‘speziaria’. Loli, più giovane di quattro anni, ebbe una sorte peggiore, per il corso di tre anni «forzato a fare il Tagliapietra, e poi il Fornaro nella Fortezza di Cariano» (Garian, a un centinaio di km a sud di Tripoli), dove «patì sempre maggiori disastri, abbandonato d’ogni sussidio, che lo consolasse, tanto in quanto all’ Corpo (sic), quanto all’Anima». Della loro schiavitù giunse notizia a Bologna e la confraternita di S. Maria della Neve, già ricordata, si adoperò per il riscatto, felicemente negoziato con un onere di lire 4000, più alcune spese accessorie, tramite il console francese a Tripoli, contattato tramite l’ambasciatore di Francia a Venezia. I due bolognesi, tornati in cristianità via Malta e Livorno, furono festosamente accolti nella città natale verso fine luglio. Altre due storie di bolognesi, finiti in schiavitù a Tunisi, si collocano negli anni venti del secolo. La prima si concluse tristemente, poiché il redento, Carl’Antonio Vitali, morì il primo febbraio 1721, quando era da poco tornato libero, dopo esser stato «gran tempo» schiavo e mentre si apprestava a imbarcarsi per l’Italia. Il Breve racconto, edito per informare del caso i fedeli bolognesi, riferisce con molta precisione l’amara vicenda e riproduce alcuni documenti, fra i quali la ricevuta del pagamento del riscatto; nulla invece ci dice della cattura e della vita trascorsa in schiavitù dallo sfortunato Vitali (4).

(3) Nel riscatto di Gio: Battista Bertolotti e Domenico Maria Loli bolognesi schiavi in Tripoli di Barbaria Fatta (sic) dalla Veneranda Arciconfraternità di S. Maria della Neve detta il Gonfalone, Bologna 1710. Sull’attività della istituzione si veda il capitolo precedente, Riscatti e scambi di schiavi. (4) Breve racconto di quanto è seguito per il Riscatto di Carl’Antonio Vitali già schiavo in Tunesi di Barbarìa, ed ora defunto, Bologna 1722.

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L’altro bolognese, Giovan Battista Natali (5), era stato catturato nel 1715, a Napoli di Romania, mentre era a servizio della repubblica di Venezia col grado di caporale; finì sulla ‘padrona’ della squadra tunisina, ove per tre mesi «affaticava in uffizio di Marinaro, senza neppure esser coperto, non avendo altro sostentamento ogni giorno, che solamente 6. o 7. Olive secche, poco Biscotto, mezza libra in circa, e l’Acqua con stento». Passato ad altro padrone, Scidi (Sidi) Meemet Bey, venne utilizzato nel «zappare i Giardini, portar Calzine, Pietre, ed altro, in compagnia di 13. altri Schiavi» e successivamente «destinato alla Cucina del suo Padrone, però sempre a travagliare in tagliare le legna, cavar’ acqua, lavar robbe; quando pure non era mandato al Campo, ove bisognava soccombere a più gravose fatiche in governare Cammelli, caricarli di some, e soggiacere ad altre indiscretezze, ed aggravj». In quella penosa condizione sembra sia rimasto sino a quando, giunta una sua lettera a Bologna, ci si diede da fare per riscattarlo, fra l’autunno 1720 e l’estate 1722. Nella Notizia a stampa, pubblicata dopo il ritorno a Bologna del Natali, si trovano precisi riferimenti alle complesse pratiche per definire il prezzo di riscatto e per il trasferimento del denaro; i dati in proposito, quasi sempre presenti nelle relazioni sui riscatti dei bolognesi, potranno essere utilizzati nell’analisi, appunto, della mediazione commerciale e finanziaria dei riscatti. Le storie dei bolognesi costituiscono nell’insieme di questo capitolo un gruppo proporzionalmente rilevante, da noi privilegiato, come si è detto, poiché rimasto poco noto. La disavventura di Giovanni Seguassi è stata invero più drammatica e movimentata di altre e il suo riscatto in certo senso più fortunato, poiché era un ‘bombardiere’, dotato cioè di una qualifica preziosa per l’esercizio dell’attività corsara, e dunque tendenzialmente escluso dalla possibilità di un rilascio o, almeno, per un costo proibitivo per l’istituzione bolognese o per altri che volesse prendere a cuore la sua sorte (6). A sedici anni, nel marzo 1729, Giovanni «inclinato», come altri giovani incappati poi nei corsari, «a viaggiare il Mondo», lasciò la città delle due torri: da Livorno si portò a Barcellona e qui si imbarcò come bombardiere (poco o

(5) Notizia che dà l’Arciconfraternita di S. Maria della Neve, detta del Gonfalone di Bologna, per lo riscatto dalle mani de’ Turchi di Gio. Battista Natali cittadino bolognese già schiavo in Tunesi di Barberia, avutosi nell’Anno 1722, Bologna, s.d. (6) Notizia che dà l’Arciconfraternita di S. Maria della Neve detta del Gonfalone di Bologna per lo riscatto dalle mani de’ Turchi di Giovanni Seguassi cittadino bolognese già schiavo in Algeri, seguito l’anno 1734, Bologna 1735.

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molto che sapesse di quel mestiere); cambiò più volte navi, capitani, porti (Malaga, Palamos, Marsiglia, Tolone) per tornare infine a Barcellona a «scaricar mercanzie, e travagliare tanto da procacciarsi il vitto». In un nuovo viaggio, alla volta di Malaga, la sua nave si incontrò, il 15 giugno 1732, con un legno corsaro algerino, che ebbe la meglio: il bolognese, con altri 24 membri dell’equipaggio, fu reso schiavo. Al rientro dei corsari ad Algeri, il pascià, che aveva diritto di prelazione per la quota del bottino a lui spettante, «volle per suoi Schiavi il Capitano, i Piloti, gli Scrivani e i Bombardieri, e gli altri furono venduti a Mercanti». In un viaggio ‘di servizio’, diretto a Orano, il legno maghrebino sul quale Seguassi si era imbarcato, si scontrò con due navi cristiane che lo incendiarono; «con grandissima fatica esso con gli altri Schiavi si poterono liberare dal fuoco» e proseguirono sino al campo algerino prossimo ad Orano, tornata in mani spagnole dal 1732. Ricondotto ad Algeri, il bolognese fu scelto come membro dell’equipaggio d’una flottiglia corsara, della cui campagna fu testimone. La nave del Seguassi si spinse sino alle coste atlantiche della penisola iberica («avanti Lisbona pervenuti presero da otto Cristiani, che erano a bordo in quel Porto in un Barchetto»); dopo altre catture dall’occidente si spostarono in Levante, attraccarono a «Stramboul (sic), dove è la bocca del mar nero», corsero rischi e affrontarono pericoli, ma infine «arrivarono a salvamento in Algeri». Un’ultima disavventura del nostro ci è narrata dalla Notizia, edita dall’istituzione bolognese: quando, il 24 agosto 1734, fortunosamente si concluse il riscatto, per 486 pezze (un importo ‘basso’ per uno schiavo giovane e qualificato) e Giovanni già aveva in mano il «Passaporto di libertà», come si diceva, il dey algerino, prestata fede alla falsa delazione di un rinnegato maltese (che Seguassi fosse «figlio di Persone ricche, e ragguardevoli») si adirò ritenendo d’essere stato ingannato, gli strappò il ‘passaporto’ e lo fece rimettere «in catene e in ceppi». Giovanni, con pazienza e abilità, e in concreto con la promessa di donativi, ottenne l’intervento a suo favore di un guardiano degli schiavi e di un fiorentino ‘scrivano’ a servizio del dey. «Ambedue s’adoprarono, ed ebbe il Seguassi la sospirata libertà»; via Malaga-Alicante-Barcellona-Livorno tornò a Bologna, il 23 novembre di quello stesso 1734. Le disavventure degli schiavi bolognesi, come ogni altra singolarmente e con qualche dettaglio narrata, ci consentono di constatare con evidenza come ogni vicenda possa essere diversa dalle altre, nelle occasioni e modi di cattura, nelle esperienze attraversate, nella pratica per il riscatto. Floriano Bolignoli (nato nel 1735 nella parrocchia bolognese della Maddalena) fu piuttosto accontentato dalla sorte quando ventenne lasciò Bologna, «preso da giovanil va-

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ghezza di metter piè fuori dalla Patria» (7). Dopo aver girovagato per più di un anno in Italia, si imbarcò, non sappiamo per quale meta, ma la nave il 17 giugno 1756 in vista delle coste pugliesi incappò in tre legni barbareschi e «dopo più ore di fierissimo combattimento, dovette infine arrendersi alla di molto superior forza de’ nemici» (i maghrebini erano 430 mentre i cristiani soltanto 35). La nave predatrice tornò direttamente a “Tripoli di Barberia”. Il nostro toccò al pascià ma da lui fu donato al «mastro di casa, uomo di qualche umanità fornito». Dalle mani di questi passò in eredità al fratello, «uomo truce di sua natura e violento», il quale «tentò ancora più volte con minacce e con lusinghe di ritrarlo dalla cristiana Religione». Sappiamo quanto si insista nelle relazioni dei ‘redentori’ su pressioni di questo tipo a danno degli schiavi, pur se di rado esse erano effettive. A Tripoli Bolignoli restò più di un anno fino a quando il padrone, dovendo recarsi a Tunisi, lo condusse con sé per venderlo; per 400 piastre lo cedette a un discendente del noto rinnegato ligure Osta Morat. Il nuovo proprietario, di nome Sidi Mustafà, lo sottopose a maltrattamenti e a lusinghiere promesse per indurlo a ‘farsi turco’ e similmente fecero alcune giovani donne di casa a quanto narra la Relazione, della cui veridicità dobbiamo tuttavia dubitare. Ad essa possiamo prestar fede invece quando minuziosamente riferisce l’iter della pratica per il riscatto concluso per 700 piastre con un buon utile dunque per il proprietario, verosimilmente interessato più a questo che alla conversione del bolognese all’islàm. A tre anni dalla cattura il giovane Floriano fece ritorno in patria.

Da pellegrino a schiavo Nel corso del tempo numerosi sono stati i religiosi, regolari e secolari, caduti in mano agli ‘infedeli’, durante un viaggio per recarsi su un’altra riva del Mediterraneo ad esercitare il sacerdozio, o nell’intento di compiere un pellegrinaggio o per altro motivo. Per il francescano Juan del Santísimo Sacramento y Robleda, della provincia di San Gabriel, il pellegrinaggio nel 1725 da Alicante a Gerusalemme (per mare sino ad Alessandria), si era svolto felicemente. Nel viaggio di ritorno,

(7) Ragguaglio della schiavitù prima in Tripoli, e poi in Tunisi di Barbaria di Floriano Bolignoli Cittadino Bolognese e del riscatto fattone l’anno MDCCLIX dalla Veneranda Arciconfraternita di S. Maria della Neve detta del Confalone, Bologna s.d.

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passò da San Giovanni d’Acri a Cipro e qui si imbarcò su una fregata per Marsiglia, ma in vicinanza di Creta furono sorpresi da corsari tripolini (8). In alcune pagine del suo Viaje y peregrinación de Jerusalem edito nel 1844, il francescano racconta lo scontro con i corsari, l’arrivo a Tripoli, le minacce del pascià per forzarlo alla conversione e poi le sensuali lusinghe di «dos Turcas muy bizarras y bien bestidas» che lo invitano a prenderle per «mugeres» (sic). La voce dell’approssimarsi di un esercito tunisino consigliò al pascià di vendere i suoi schiavi di maggior pregio: padre Juan fu comprato da un greco che poi lo cedette ad un veneziano e così tornò in libertà. Un barone svizzero Nella vita mediterranea sono state coinvolte anche genti e persone di terre lontane, persino piuttosto remote dalle rive del mare. Questa caratteristica della storia del grande mare ben si rileva nelle vicende della guerra corsara e della schiavitù. Fra gli schiavi e i rinnegati troviamo non solo cittadini di città e regioni interne di paesi pur affacciati sul mare – come i bolognesi di cui abbiamo detto e diremo – ma anche di abitanti di paesi del tutto continentali. Nell’ottobre 1732 un nobile svizzero, Jean-Victor-Laurent, barone d’Arreger, dedito sin da giovanissimo al mestiere delle armi (era nato a Soleure nel 1699) si imbarcò a Marsiglia per raggiungere il reggimento spagnolo nel quale si era arruolato come ufficiale (9). In vista di Tarragona un pinco corsaro bloccò in una insenatura il legno che ospitava l’ufficiale svizzero e lo costrinse a seguirlo ad Algeri. Nelle sue memorie il barone d’Arreger racconta il viaggio verso Algeri, lo sbarco, l’interrogatorio da parte del dey; questi decise trattarsi di una ‘buona presa’ e dichiarò schiavo il nostro, con la rilevante concessione di poter dimorare presso i missionari francesi della congregazione di San Vincenzo, in attesa del riscatto che l’interessato considerava non lontano. Restò invece ad Algeri per ben cinque anni ed in quel periodo la sua condizione divenne difficile. Allorché una squadra navale francese si approssimò alla città barbaresca e si pensò che volesse pretendere la sua liberazione, lo schiavo (8) La vicenda di padre Juan è riferita, con molte altre anche poco note, da D.M. SERRANO Y SANZ, Literatos españoles cautivos, in “Revista de Archivos Bibliotecas y Museos”, serie 3.a, 1/1897, 542-544 (498-506, 536-544). (9) Sulla vicenda: PINGAUD 1880. Il testo delle memorie è stato utilizzato dall’abate Girard, Histoire abrégée des officiers suisses, I; più tardi il canonico Bullet de Bougnon le ha trascritte, annotate e integrate con documenti; Pingaud afferma di aver utilizzato questa edizione.

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svizzero fu rinchiuso in una sicura prigione e persino costretto a pesanti lavori di interesse pubblico: Fummo impiegati a tirare una grande carretta – caricata con grossi blocchi di pietra – alla quale erano attaccati, come bestie da traino, una dozzina di cristiani incatenati come noi a due a due e posti avanti a noi.

Su queste ed altre attività, come il carico e lo scarico delle navi, il povero e rassegnato svizzero riferisce ampiamente, forse più di ogni altro autore. Anche dei bagni, dell’affollamento e dei disagi, ci offre una realistica descrizione, giungendo ad una paradossale ammissione che vogliamo riportare nella lingua originale: Les fatigues que j’avais supportées le jour et la tristesse que m’inspirait ma situation me procuraient les plus belles nuits que j’aie jamais eues de ma vie.

Quando fu richiesto il riscatto il dey parlò di un importo spropositato, centomila piastre, lasciando però intendere che si sarebbe accontentato di trentamila. Il senato della città natale offrì un consistente aiuto, i padri mercedari assunsero la cura del caso, infine giunse il giorno della libertà. Da Algeri il nostro passò a Cartagena a metà febbraio del 1738, fu poi a Madrid e a Barcellona dove scrisse le memorie. Soltanto nel 1744 rientrò in patria e qui visse sino al marzo 1770.

Un romano dai Balcani ad Algeri Le non poche storie di schiavi più dettagliatamente conosciute ci sono note grazie a testi autobiografici o a ‘relazioni’ redatte dalla istituzione ‘redentrice’. Talvolta però basta un solo documento – un atto, una lettera, o altro – per compendiare e darci l’idea di una sfortunata e movimentata avventura. È questo il caso di un uomo d’armi romano, Giacomo Capitani e di una lettera, scorretta e disordinata, ma molto efficace, indirizzata ai genitori nel luglio 1736 da Algeri, dove si trovava schiavo. Nel documento – che vidi tanti anni fa nelle carte dell’arciconfraternita del Gonfalone (10) – l’autore dà sue

(10) ASV, Gonfalone, 1157, fascc. 37 e 44. Sulla attività ‘redentrice’ della confraternita si veda il capitolo precedente.

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notizie e riassume una vicenda, esemplare testimonianza di vita mediterranea, che condusse il protagonista da Roma a Venezia, a Belgrado e così via sino ad Algeri da dove egli scrisse il testo pervenutoci. Era stato schiavo un anno e mezzo «fra Costantinopoli e Negro pontio», riuscì a fuggire a Belgrado e a tornare in Italia passando però per «Lungheria», Vienna, poi «Lalemagna e Labavaria, Lazassia e li Svizzeri». Ma a Venezia, per un omicidio commesso a Corfù anni prima, fu arrestato e poi processato a Corfù appunto e condannato a «servire tre anni». Si imbarcò anni dopo da Livorno per Barcellona e da qui al presidio di Ceuta e poi a quello di Orano; in una sortita fu catturato dagli algerini e condotto con altri uomini nella capitale, dove Fummo venduti – scrive – come tanti porchi per la strada e fui comprato da un giudio il quale stiedi con lui otto mesi ma questa bestia voleva voltarme a essere giudio come ne aveva voltato delle altri […] mi aveva venduto a un turco ma li Ifidelli (sic) della nostra Legia credeva che io li avessi servito per donna non per omo.

Si spacciò allora per ‘cerusico’ e ottenne, per uno zecchino al mese, di poter esercitare la ‘sua’ professione. Riuscì a raggranellare quasi tutto il necessario per il riscatto quando la morte del padrone, con il passaggio dei suoi beni al dey, troncò ogni speranza di libertà e lo sottopose nuovamente ad angherie e ingiurie, come gli altri «cinque milla Christiani schiavi». Nella lettera il giovane romano si lamenta che siano «quasi cinque anni che non si vede venire alguno Riscato» per cui «molti si sono fatti turchi e molti si sono fatti giudij». Sollecitò perciò il padre a chiedere l’intervento della confraternita romana del Gonfalone o dei padri trinitari del convento di San Carlino, mentre gli raccomanda di stare attento che il giovane fratello «non vada fora di casa che non facci come me mischino che one caminato mezo mondo senza potere avere la fortuna di tornare alla casa».

Una intraprendente olandese (1743) Gli schiavi cristiani nel Maghreb erano certo in maggioranza uomini, specialmente nel Settecento, quando ormai gli sbarchi corsari sulle coste europee si erano fatti ben più rari. Non mancarono tuttavia nel Maghreb anche donne europee in schiavitù, alla cui sorte non è stata sinora rivolta pressoché alcuna specifica attenzione; eppure, la loro condizione presenta particolarità rilevanti

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ed alcune vicende hanno tinte fortemente avventurose e drammatiche. Per il secolo che ci riguarda ricordiamo, ad esempio, la fanciulla de Bourck salvatasi, sola della sua famiglia, da un naufragio sulla costa algerina ma caduta in mano a gente della Cabilia. Fu molto arduo trovare efficaci intermediari per il riscatto e venirne a capo, poiché il capo dei cabili voleva darla in sposa al figlio quattordicenne. Tutto finì comunque con un Te Deum nella cappella del consolato di Francia ad Algeri. Un’altra storia si concluse invece tragicamente, quella della inglese signora Jones, tratta schiava ad Algeri con la figlia e il figlio, di diciannove e otto anni; la sua ferma resistenza alle avances di un turco scatenò una reazione di inaudita violenza, di cui restò vittima il bambino e la donna uccise allora il musulmano. Non sappiamo se pagasse con la vita o se venisse in qualche misura giustificata (11). Di una di quelle schiave cristiane, l’olandese Maria Ter Meetelen, abbiamo un interessante testo autobiografico (12). La sua avventura cominciò a 13 anni, nel 1717, quando si diede a vagabondare per l’Europa; recatasi in Spagna, sposò (1728) un capitano suo connazionale. In un viaggio, nel 1731, la loro nave in vista del capo San Vincenzo si imbatté in un corsaro saletino; ebbe così inizio la loro schiavitù. Maria sembra che sin dalla cattura usasse abilmente delle sue grazie femminili, nel rapporto con il raìs e poi per entrare nei favori dello stesso sultano. Nella collettività degli schiavi molti malignavano, e verosimilmente con ragione, ma la giovane donna si mostrava spregiudicata e risoluta; rimasta vedova, si risposò più tardi con un connazionale, capo della comunità degli schiavi olandesi nella città imperiale di Meknès ed ebbero due figli. La giovane e coraggiosa olandese si trovò in Marocco ai tempi del connazionale Dekker, del quale abbiamo già riferito la vicenda; ebbe occasione di incontrarlo a Meknès e ambedue, imbarcatisi a Tetuán dopo il riscatto, tornarono in patria nel 1743. Maria morì una decina di anni più tardi.

(11) Sulla de Bourck, fra l’altro: Mémoires de la Congrégation 1645-1735, 580-591; sulla Jones: PLAYFAIR 1884, 186-188 e PH. GOSSE, Histoire de la piraterie, Paris 1952, 370-371. (12) La relazione originale venne pubblicata a Hoorn nel 1748; è stata riedita da H. HARDENBERG, Tussen Zeerovers en Christenslaven, Leiden 1950; è stata infine tradotta in francese da G.H. Bousquet e G.W. Mirandolle, L’annotation ponctuelle de la description de voyage étonnante et de la captivité remarquable et triste durant douze ans de moi: Maria ter Meetelen et de l’heureuse délivrance d’icelle, et mon joyeux retour dans ma chère Patrie, le tout décrit selon la Vérité et mon expérience personnelle, Paris 1956, edizione che abbiamo seguito.

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Il suo racconto autobiografico è estremamente movimentato ma persino confuso e talvolta oscuro, anche per l’uso di una lingua popolare. Riferisce frequenti spostamenti e altre complicate vicende. La sua relazione è «fort curieuse, comme on pourra s’en rendre compte», secondo le parole di chi l’ha riedita mezzo secolo fa; «Marie est une gaillarde qui ne perd jamais la tête. On a bien, il est vrai, l’impression qu’elle se vante un peu et enjolive parfois son récit». Il testo è di certo intrigante e piacevole, ma è già abbastanza noto e per questo passiamo ad un altro.

Un capitano veneto (1749) La disavventura di un capitano veneto e della sua nave, catturata dagli algerini, ci è narrata da una lettera di lui stesso, Giuseppe Bronza, edita all’epoca (1749); di essa abbiamo ritrovato uno sconosciuto esemplare nella Biblioteca Braidense di Milano (13). Le quattro pagine della lettera, indirizzata il 3 aprile, subito dopo l’arrivo nella città barbaresca, «al suo Signor Parzianevole», cioè al finanziatore, sono appunto un minuzioso racconto dell’accaduto, per giustificare d’esser stati sopraffatti dopo oltre quattro ore di combattimento. La nave tornava ai primi di marzo da porto Falmouth, in Cornovaglia, e nel golfo di Biscaglia e poi di nuovo di fronte alle coste del Portogallo si era imbattuta in violente burrasche che l’avevano sensibilmente danneggiata. Nelle acque atlantiche i veneziani si videro venire incontro da due opposti lati quattro grosse navi sospette, rivelatesi poi algerine (dapprima esibirono «insegne Inglesi»). Dopo lunga difesa – dettagliatamente descritta nella Lettera in tutte le sue fasi – quando i musulmani presero all’arrembaggio il legno veneto entrando già da tutte le parti la moltitudine de Turchi gridando, se più noi ci diffendessimo, che tutti ci avrebbero tagliati a pezzi senza dar quartiere a veruno, ci sottoposimo alla volontà del Cielo.

Lo stesso raìs algerino «lodò molto il loro coraggio protestandosi, che niuna nazione si difendeva più generosamente della Veneta», e trattò cavallerescamente il collega capitano, rimasto ferito nello scontro.

(13) Lettera che indirizza al suo Signor Parzianevole cap. Giuseppe K.r Bronza dalla parte d’Algieri dove si trova Schiavo, s.l. s.d. (Biblioteca Braidense, Miscell. Stampe popolari M 58).

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Nella lettera da Algeri il capitano Bronza, divenuto schiavo del pascià, dà poche notizie di sé e aggiunge soltanto che uno dei suoi uomini, inimicatosi con gli altri durante il viaggio e desideroso di ingraziarsi il pascià per averne qualche personale vantaggio, dichiarò: Ch’ero Cavalier, che lo era pure mio Padre di famiglia assai ricca e considerabile, del passeggero disse ch’era Mercante assai ricco, e che dipendeva da gente grande, dell’Alfiere pure disse ch’era un figlio d’una ricca e nobile Famiglia.

Altre persone per fortuna intervennero e sembra che la situazione non fosse pregiudicata. Bronza si raccomandò infine per un sollecito riscatto, non sappiamo se e quando avvenuto. Un «suddito Capitan Giuseppe Bronza» è menzionato, trent’anni più tardi, in un dispaccio del console veneziano a Tripoli; di lui si dice che era stato «insperatamente dal Passà [ pascià] soddisfatto di grandiosa somma ad esso da due anni dovuta» (14). Si tratta dello stesso capitano già schiavo nel 1749?

Altre storie di bolognesi (1753-1771) Uno dei più interessanti resoconti di schiavitù, concernenti i bolognesi riscattati dalla confraternita della loro città, è quello riguardante Giovan Leopoldo Raimondi (15), catturato dai tripolini mentre nell’ottobre 1750 tornava in Italia su un bastimento veneziano; era stato a Zante, «a colà lavorare una macchina artificiale di fuochi». Nella Breve narrazione pubblicata dall’istituzione bolognese si riferisce lo scontro con lo ‘sciambecco’ maghrebino, nel corso del quale Raimondi ebbe un ruolo significativo. Mentre infatti la maggior parte dell’equipaggio e dei passeggeri fuggì sulle lance, egli, fra i pochi restati a bordo, collaborò con coraggio al tentativo di difesa. Per un suo colpo di cannone «ben tredici de’ Corsari vennero uccisi, e rotta la vela del lor trinchetto», ma quando i maghrebini ebbero il sopravvento fu «tosto d’una ferita percosso nel capo, e d’altra crudelissima in una spalla fino a troncargli affatto l’osso». Gli convenne tuttavia, benché piuttosto mal ridotto, non darlo a vede-

(14) Dispaccio del 29 agosto 1778 (CAPPOVIN 1942, 568). (15) Breve narrazione della schiavitù, e riscatto di Gio. Leopoldo Raimondi cittadino bolognese redento ultimamente dalla Ven. Arciconfraternita di Santa Maria della Neve detta del Gonfalone, Bologna 1753.

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re, altrimenti i corsari, così si legge, «avrebbero il novello schiavo disperatamente gittato in mare». Per altri tre mesi lo sciabecco continuò a corseggiare nelle acque di Grecia, mentre il nostro si andò riprendendo in salute. Sbarcato a Tripoli e divenuto schiavo del pascià, ebbe la dura sorte di «vedersi condannato alla fabbrica sul Castello, continuamente obbligato a caricarsi di pietre, e di calcina, e di sabbia, e d’altre pesanti some, col solo vitto di sei piccoli neri pani, e un poco d’acqua al giorno, da mille odiose bestemmie, e da terribili minacce de’ Custodi continuamente trafitto». Secondo uno schema consueto, ma spesso non veritiero, si narra che i tripolini intimassero al bolognese «con terribili arme alla mano» di rinnegare e al suo diniego lo sottoponessero ad «altro più duro, ed insoffribil travaglio»: tagliar pietre e legna fuori città e riportarne il carico a spalla. «Tra mille fatiche ed affanni, e tra dileggiamento, e minacce» Raimondi trascorse tre anni sino a che la confraternita della sua città ne concluse il riscatto per lire 2.583, spese accessorie comprese, sicché a fine luglio 1753 tornò a Bologna via Livorno. Fra le più prolungate e movimentate vicende di schiavi bolognesi, vi è quella di Gian-Marco Betti (16). Lasciata Bologna nel 1750, a 25 anni, il giovane Gian-Marco «girò molto Paese, ora con avversa fortuna, ora con prospera»; in città lo avevano persino creduto morto. Cinque-sei anni più tardi cominciò la sua avventura nel mondo islamico. Catturato dai montenegrini, mentre era a servizio di un ufficiale veneto, fu venduto ai ‘turchi’. Fuggì dopo un anno e raggiunse Scutari; imbarcatosi qui per Durazzo, cadde preda dei dulcignotti (Dulcigno è il nome italiano allora usato per indicare l’attuale città albanese di Uljini). Sarebbe troppo lungo narrare distesamente le sue vicissitudini; fra cambiamenti di padrone, fughe, punizioni e patimenti (questi ultimi narrati forse al di là del vero, poiché non è normalmente credibile che un padrone lasci deperire troppo il proprio schiavo, rischiando di perdere un bene di sua proprietà). Venne infine scambiato con un negro (e un sovrappiù di 15 zecchini) e fu condotto a Tripoli a servizio del «primo ministro del Bey» (cioè del pascià, della famiglia Qaramanli). Dopo mezz’anno il padrone, un rinnegato di origine napoletana «fattosi ricco col darsi a far sua la roba d’ogni Uomo», lo diede in dono al pascià che lo destinò alle pesanti fatiche dei lavori pubblici. A questo punto, se non prima, giunse a Bologna la notizia della sua sorte (e poi una

(16) Ragguaglio della schiavitù prima in Dulcigno, e poi in Tripoli di Barbaria di Gian Marco Betti cittadino bolognese e del riscatto fattone l’anno 1762 dalla Ven. Arciconfraternita di Santa Maria della Neve detta del Confalone unica amministratrice in questa Città della Sant’Opera del Riscatto, Bologna s.d.

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lettera al padre, del 7 luglio 1761). Si attivò allora la confraternita per il riscatto, tramite corrispondenti a Livorno e il console imperiale a Tripoli: il 30 settembre 1762 il non più giovane Gian-Marco tornò nella città natale e riabbracciò il padre, che tanto aveva penato e si era adoperato per lui. Uno degli ultimi redenti dalla confraternita bolognese si chiamava Giuseppe Giovan Nicola Albertazzi (nato nel 1735) (17). Esercitava l’arte del barbiere e come tale era entrato giovanissimo a servizio dell’ ‘auditore’ Giovanni Gropelli, al cui seguito si era trasferito a Genova e da qui in Spagna, a Barcellona e in altre città. Dopo alcuni anni, tornato a Genova, volle di nuovo imbarcarsi ma la nave, non lontano dalla Corsica, fu sopraffatta da tre legni algerini, con ottocento uomini. Il Ragguaglio prosegue dicendo che i cristiani «furono ben presto legati da quei feroci con pesanti catene ai piedi, e alle braccia» e portati ad Algeri, dopo un mese di sosta a Bona, e rinchiusi nel bagno di Sidiumuda (Sidi Hamuda). Per sua grande fortuna, dal pascià fu ‘prestato’ (o ‘noleggiato’) al console olandese che lo trattò piuttosto bene. Ciò nonostante la relazione rileva che il bolognese soffriva pur sempre della condizione sottomessa e precaria di uno schiavo. In occasione della spedizione navale danese ad Algeri, il pascià ritenne prudente far trasferire tutti i suoi schiavi in alcune prigioni, a tre giorni dalla città. Terminata questa emergenza, l’Albertazzi tornò ad Algeri e poco dopo passò a servizio del console di Svezia. Finalmente, fatta giungere nella città natale notizia della sua sventura, si mise in moto la lunga catena di interventi per il riscatto (costato 2.949 lire); il ritorno in Italia (giunse a Livorno il 20 dicembre 1771) fu ritardato da alcune sfavorevoli circostanze. Una sorte non troppo sfortunata (1779) Al Settecento appartiene l’avventurosa vicenda della schiavitù in una città dell’Algeria occidentale di Thédenat da lui stesso narrataci nei Mémoires, pubblicati a metà del secolo scorso (18). Appartenente ad una famiglia di borghesia cattolica di Uzès, dove era nato nel 1758, il giovane Thédenat, rifiutata la

(17) Ragguaglio della schiavitù in Algeri di Giuseppe Gio: Nicola Albertazzi cittadino bolognese e del riscatto fatto nell’anno 1772. Dalla veneranda Arciconfraternita di Santa Maria della Neve detta del Confalone unica amministratrice in questa Città della Sant’Opera del Riscatto, Bologna s.d. (18) ÉMERIT 1948.

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carriera ecclesiastica, si arruolò in un reggimento di stanza in Corsica. Ben presto, irrequieto e desideroso di conoscere il mondo, passò a Livorno e poi a Cadice, ove andò a vivere presso un vecchio cugino del padre, della cui moglie divenne l’amante. Mentre viaggiava dalla Spagna a Marsiglia per effettuare la vendita di una partita di malaga, restò preda, il 2 aprile 1779, dei corsari barbareschi impadronitisi della tartana su cui era imbarcato. Dalle mani di un ebreo, che lo aveva acquistato per 70 zecchini quando ad Algeri fu posto in vendita il bottino della tartana, passò, per 100 zecchini, a quelle del bey di Mascara, Mohammed el Kebir, presso il quale per tre anni e sette mesi svolse l’incarico di tesoriere e maggiordomo. Nelle pagine delle sue memorie dedicate alla disavventura barbaresca il giovane francese descrive molto dettagliatamente le responsabilità e i compiti affidategli dal bey, non senza riferire qualcosa sulle varie località dell’Algeria ove ebbe occasione di andare e sulla vita nella ricca dimora del potente padrone. Pur consapevole del rischio che correva, profittò della libertà di movimento concessagli e si diede a frequentare l’harem del bey ed altre donne. Riuscì ad evitare ogni punizione e con altrettanta abilità negoziò il suo riscatto, vincendo l’opposizione del bey che non voleva privarsi di un valido collaboratore. Dalla Francia, dove tornò infine da uomo libero, capitò successivamente a Palermo, a Messina, a Genova, sino ad esercitare importanti incarichi pubblici nell’Italia occupata dagli eserciti napoleonici.

Dalla Sicilia alle coste maghrebine (1733-1755) In un manoscritto dell’erudito poligrafo marchese di Villabianca, si annotano e in qualche caso succintamente si narrano, le vicende di Persone di rango, che nella disgrazia hanno incorso di restar presi e fatti schiavi da’ Turchi e Pirati di Africa (19). Fra i casi menzionati, si colloca nel Settecento anzitutto la storia del barone Ottavio Specchi, caduto «nelle Catene de’ Mori di Algeri» nel 1733, mentre si recava per mare da Palermo a Trapani. Due anni e qualche mese durò la sua forzata permanenza in terra barbaresca, durante i quali, nonostante la

(19) Notamenti e memorie d’infelice Storia per Persone di rango, che nella disgrazia anno (sic) incorso di restar presi e fatti schiavi da’ Turchi e Pirati di Africa negli incontri marittimi de’ lor viaggi (BCPa, ms. Qq E 108 n. 2) di Francesco Maria EMANUELE e GAETANI, marchese di Villabianca.

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nobiltà de’ natali, venne assoggettato a umili e pesanti lavori, come trasportar pietre e «fare il Taverniere». Venne infine riscattato dal fratello Alessandro con una spesa complessiva di quasi 5mila scudi. Un altro ‘schiavo’ illustre, ricordato dal marchese di Villabianca, è il nobile fanciullo di nove anni, Giuseppe Foresta – primogenito di don Orazio Girolamo, marchese della Scaletta, e della altrettanto nobile Rosalba Fardella – catturato insieme allo zio Giovanni Maria Fardella e a un altro zio, a seguito della ribellione della ciurma musulmana di due galere nel porto di Trapani, nell’agosto 1755. Si ricorda di lui la costante resistenza ad «allettamenti e lusinghe» di tutta la corte di Algeri affinché si facesse musulmano. In verità, quando si entrò nelle trattative di riscatto, non si poteva al tempo stesso volerne la conversione all’islàm (20). Il marchese della Scaletta, non appena ebbe sicura notizia che il figlio era nelle mani del dey di Algeri, si rivolse all’antica istituzione palermitana, pregandola di interessarsi del caso. Ci si affidò alla mediazione del livornese Giovanni Lambiasi il quale tuttavia dopo ben due anni non arrivò ad altro se non a riferire che «il Bey invaghito delli suoi rari talenti [del giovane marchesino], ed informato benissimo della sua nascita ne dimanda zecchini 3000». Nel novembre 1761 – la vicenda del riscatto è stata ricostruita, grazie ad altri documenti, da Giuseppe Bonaffini – il livornese accettò finalmente di seguire la questione, facendone presenti le particolari difficoltà, anzitutto che il trasferimento della somma ad Algeri comportava un rischio, evitabile soltanto mediante un ‘bonifico’ gravato da una commissione del 19 per cento. Il marchese trovò invece un’altra più conveniente strada rivolgendosi al viceré Giovanni Fogliani; tramite questo autorevole intervento, portata la questione nell’ambito della corte napoletana, sul finire del 1764 si riuscì finalmente a rendere disponibile l’importo del riscatto sulla piazza algerina e a procedere alla liberazione del giovane Foresta, ormai un ragazzo sedicenne. Mentre ci è nota la vicenda del riscatto, nessun documento ci informa sinora della esperienza vissuta ad Algeri dal nobile schiavo (21). Quanto allo zio Giovanni Maria Fardella, soltanto nel gennaio 1765 poté tornare a Palermo, mentre restavano ancora ad Algeri una trentina di uomini coinvolti nell’episodio del 1755, fra i quali il fratello Giacomo.

(20) BONAFFINI 1988-1989. Sull’episodio trapanese si veda il capitolo precedente. (21) A completamento della vicenda del riscatto BONAFFINI 1991, 46-47, segnala il contenzioso sollevato dalla istituzione palermitana al fine di essere indennizzata del servizio prestato, pur se senza seguito.

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Con qualche dettaglio è invece narrata dal Villabianca la storia dei fratelli Abbate, Salvatore e Emanuele, figli cadetti del marchese di Longarini e barone di Brolo e della Ficarra. Erano in viaggio dalla Sicilia alla Spagna, per andare ad arruolarsi nelle Guardie del corpo del sovrano, quando, a poche miglia da Maiorca, il 19 marzo 1781, un legno algerino catturò la loro nave, invano battezzata Nostra Signora della Salute. Condotti nel bagno degli schiavi, come tutti gli altri catturati, e destinati a lavorare nella manutenzione delle navi, ricevettero ben presto aiuto dal tenente palermitano Vincenzo Gianrusso – un’altra vittima della ribellione del 1755 – anche egli schiavo, dunque, ma autorizzato ad abitare presso il console di Olanda. Suo tramite ebbero da un cavaliere portoghese vitto supplementare e vestiario. Dopo quasi un anno se ne ottenne il riscatto e i due fratelli tornarono in cristianità, dapprima a Tolone e infine a Palermo.

capitolo otto | 131

Algeri a metà Settecento negli scritti del console C.A. Stendardi

Intorno alla metà del Settecento si andava accentuando la decadenza di Algeri, già in atto dai primi decenni del secolo, per il decrescere dell’attività corsara e dell’entità dei proventi da essa derivati (1). La crisi della guerra di corsa algerina, per le reazioni sempre più ferme e decise delle potenze europee, con molte delle quali erano stati sottoscritti accordi di pace, faceva sentire la sua influenza su tutta la vita economica della reggenza barbaresca, provocando scontentezza in ogni categoria sociale e suscitando così inquietudini e disordini. Soltanto momentaneo fu il ristoro che recarono alle finanze dello stato e dei privati alcuni grandi riscatti di schiavi condotti a compimento principalmente dai padri mercedari (2). Ad accrescere i mali della città si aggiunsero alcune carestie, causate da annate di eccezionale siccità, e talune gravi epidemie di peste, che ebbero per conseguenza una sensibile diminuzione della popolazione (3). Nel quadro di questa decadenza economica, aggravata dalle calamità naturali che abbiam detto, la storia interna della reggenza sembra non consistere in altro che nella monotona successione al potere dei dey attraverso intrighi, congiure e rivolte, nelle quali molti di essi persero il trono e la vita. Così avvenne a Mohammed ben Beker che dopo sei anni di governo, nel dicembre 1754, restò vittima di una congiura, i cui membri furono a lor volta sopraffatti; a lui successe, dopo drammatici avvenimenti, Ali Aghà (4). Per questo avvenimento e per la storia di Algeri negli anni di governo di Mohammed ben Beker (1748-1754), costituiscono una fonte degna d’interes(1) Con riferimento all’anno 1735, ma con affermazione valida anche per gli anni seguenti, così scrive GRAMMONT 1887, 295: «Jamais le peuple d’Alger n’avait été si misérable; le nombre des vaisseaux de course diminuait chaque jour et l’argent manquait au Beylik pour en construire». (2) Sui riscatti ad Algeri negli anni 1750-1752 si veda cap. I e BONO 1964, 322-323. (3) Sulla pestilenza del 1740: GRAMMONT 1887, 297; della peste che infierì fra il 1752 ed il 1753 diremo ampiamente più avanti. (4) Gli opportuni riferimenti bibliografici saranno dati in seguito.

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se gli scritti del senese Carlo Antonio Stendardi, che fu console nella città barbaresca dal 1749 al 1755. Questi scritti erano rimasti ignoti anche agli studiosi specializzati ed agli stessi repertori bibliografici sulla reggenza barbaresca ed in genere sull’Africa, forse anche a causa dell’edizione postuma, unitamente ad altri, nella Nuova raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici (1765) (5). Ritenni opportuno segnalarli, perché non solo dal punto di vista dell’utilizzazione potevano considerarsi come inediti ma anche presentavano su alcuni temi elementi di assoluta originalità. L’insieme degli scritti è presentato sotto il titolo Ristretto della vita con alcune Relazioni e Dissertazioni per la maggior parte inedite di Carlo Stendardi nella citata Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici. Al profilo biografico dello Stendardi (Ristretto della vita, iij-ix ), attribuito a G. B. Passeri, seguono un sonetto commemorativo della duchessa di Vasto, Augusta Caterina Gerardo nata Piccolomini, ed un breve elogio funebre composto in latino dall’abate Fossi (6). Eccone anzitutto l’elenco (7): Governo d’Algieri (xv-xxxj); Commercio d’Algieri (xxxiij-xlviij); Relazione della peste d’Algieri negli anni di Cristo 1752-1753 (xlix-lx), seguita da una Parte Seconda: Sistema Generale di questa Malattia (lxj-lxvij) (i due testi sono integralmente riprodotti nella Appendice II); Meteore, ed altri fenomeni osservati in Algieri nell’Anno 1753, incominciando dall’Equinozzo Autunnale del 1752 (lxix-lxxv); Relazione della tragica morte di Mehemet Pascià Bey d’Algieri succeduta nel dì 11. di Dicembre dell’anno 1754 (lxxvij-lxxxj) (il testo è integralmente riprodotto nella Appendice I) (8).

Nel saggio del 1965 mi ero strettamente limitato all’analisi degli scritti di Stendardi, senza soffermarmi sulla sua attività diplomatica ad Algeri. Nel presente testo aggiungo qualche informazione, tratta dai suoi stessi dispacci da (5) Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, a cura di A. Calogerà, tomo XIII, Venezia, Simone Occhi, 1765, pp. 263-330, senza perciò un titolo proprio che attirasse l’attenzione dei bibliografi. Le nostre citazioni seguono però una coeva edizione – della quale possediamo un esemplare – senza indicazione di luogo e di data, con paginazione da iij a lxxxix. Gli scritti dello Stendardi non sono citati nelle bibliografie generali sull’Africa come PAULITSCHKE 1882, né in quella di PLAYFAIR 1888 e nemmeno in quella, ricca soprattutto di opere di autori italiani, di A. RIGGIO, Bibliografia sommaria dell’Oriente e dell’Africa, Tunisi 1933. (6) Il sonetto è a p. x, l’elogio funebre alle pp. xj-xjjj. (7) Nell’elenco indichiamo la paginazione della edizione coeva in estratto (vedi nota 5). (8) Come Mehemet si intenda Mohammed ben Beker. Nella Raccolta seguono gli scritti: Descrizione del mio viaggio al Vesuvio (pp. lxxxiv-lxxxix) e Divinazione sopra la luce in Napoli nel 1756 (pp. xcj-xcvij).

Algeri a metà Settecento negli scritti del console C.A. Stendardi

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Algeri e da altrove, diretti al governo di Vienna; una ricostruzione approfondita resta da condurre e forse mi ci impegnerò io stesso.

Console ad Algeri Carlo Antonio Stendardi, allora soltanto ventottenne, fu prescelto quale console dell’impero asburgico (di cui si trovò ad essere suddito dopo l’assunzione del trono di Toscana da parte dell’imperatore Francesco Stefano di Lorena), poiché possedeva una diretta esperienza del mondo musulmano ed aveva già assolto con successo un incarico a Costantinopoli per conto del governo imperiale. A vent’anni, infatti, nel 1741, aveva intrapreso un viaggio nel Levante, spintovi dalle «promesse lusinghiere di chi sperar gli fece miglior fortuna»; non sappiamo a cosa alluda la frase del biografo il quale riferisce che «in pochi mesi ebbe a provare le fraudi degli uomini, e tutte le sciagure della natura, e della fortuna» (9). Nonostante le avversità e le traversie che ci restano ignote, rimase in Oriente per tre anni, acquistando indubbiamente esperienza di luoghi e di costumi del mondo musulmano; tenne, a quanto sembra, un Diario del viaggio e compose un Capitolo geografico dedicato ad Antonio Fabbrini. Tornato in patria nel 1744, «dopo quasi tre anni d’inutile esilio», si rivolse a completare la sua formazione culturale, dedicandosi con particolare interesse, a quanto possiamo supporre dai suoi scritti successivi, alle scienze naturali. Nel 1748 ebbe l’incarico di recarsi a Costantinopoli, dove forse era già stato nel corso dei suoi viaggi, con il titolo di Commissario di Sua Maestà Imperiale, «per mandare al Gran Signore gli Schiavi Turchi, che erano a Livorno, con varj Regali per detta Corte, e per altri segreti affari eseguiti con somma felicità, ed esattezza». La sua attitudine all’osservazione degli ambienti e dei popoli ebbe modo di esercitarsi con profitto; il biografo riferisce, infatti, che egli scrisse «molte Lettere piene di riflessioni su la forma di quel Governo, che malamente vien creduto affatto dispotico ed arbitrario» (10). (9) Ristretto della vita, iv-v. (10) Ristretto della vita, v. Nello scritto sul Governo d’Algieri, a proposito delle Alleanze degli Algierini coi Principi esteri (p. xxix-xxxj) si afferma: «adesso però correndo l’anno 1749. dell’Era Cristiana». Nel Ristretto, x, è detto “Console e Ministro, per le LL.MM. II.” per le maestà imperiali d’Austria cioè, ma ciò implicava anche la rappresentanza della Toscana, unita allora all’impero asburgico, essendo stata assegnata all’imperatore Francesco Stefano di Lorena. Il DE ANGELIS, compilatore della biografia di Stendardi per la raccolta di E. DE TIPALDO, Biografia degli Italiani illustri, IV, Venezia 1837, 505, erra nell’affermare che il nostro ebbe il consolato di Toscana a Costantinopoli; l’errore è ripetuto da F. INGHIRAMI, Storia della Toscana, XIV, Fiesole 1844, 320-321, che riporta il testo del De Tipaldo.

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In virtù della stima che seppe acquistarsi per l’esito positivo della missione affidatagli, alla conclusione della pace fra l’impero ottomano e l’impero d’Austria, nel 1748, venne inviato quale console nella città barbaresca. Ad Algeri Stendardi giunse ai primi di ottobre, insieme a due ‘commissari’ imperiali, Momarz e Ippoliti, che avevano il compito di definire gli accordi di pace e recavano perciò al dey donativi ed una lettera del sultano con l’esortazione a concludere la pace con il sovrano toscano. Il console francese, nel segnalare al suo governo con viva preoccupazione quell’arrivo, accenna alla presenza di «un jeune homme qui doit résider ici en qualité de consul», mentre riferisce del proprio tentativo di distogliere il dey da ogni accordo. L’accordo di pace venne però presto concluso (8 ottobre 1748) e sul finire di febbraio giunse la ratifica toscana insieme a altri doni – fra i quali un orologio d’oro con diamanti ed un piccolo scrigno ornato di pietre preziose – e a ben 67 schiavi algerini già detenuti a Livorno. Stendardi – aggiunge il dispaccio del console francese in data 25 febbraio – «a aussi répandu d’autres présents parmi les Puissances de cette Régence» (11). Il giovane Stendardi si distinse presto per il suo attivismo diplomatico e per l’intelligenza con la quale osservava e interpretava la situazione algerina. Il console di Francia André-Alexandre Lemaire, uno dei più noti diplomatici francesi nei paesi barbareschi, ne ha tracciato un incisivo profilo: Le sieur Estandardi consul de l’Empereur est jeune, mais réglé dans les mœurs et assez discret. Son esprit est véhément et son imagination outrée. Il est autrichien déclaré. Il ne sauroit cacher l’envie qu’il porte aux succès de la France et la joie qu’il auroit de ses disgraces (12).

Già prima della fine del 1749 Stendardi redasse la sua relazione sul Governo d’Algieri . Nella città corsara restò per sette anni, sino al 1755, quando fu «costretto finalmente a partire d’Algieri pe’ tumulti, e sedizioni di quel Governo», che aprì le ostilità contro l’impero e la Toscana. Gli avvenimenti confermarono l’opinione e l’augurio espressi dal console francese nell’ottobre 1748: «Tout le monde pense ici que cette paix ne sera pas de longue durée» (13).

(11) AN, AE, Correspondance B I, 126, 11 ottobre 1748. (12) AN, AE, Correspondance B I, 127, maggio 1750, da una relazione intitolata Portraits des consuls des différentes Puissances qui résident à Alger. (13) La prima citazione da Ristretto, vij; la seconda dal dispaccio consolare del 19 ottobre 1748 (AN, AE, Correspondance B I, 126). Per la rottura della pace con l’impero e la Toscana vedi GRAMMONT 1887, 310.

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Firmato il trattato, i due plenipotenziari toscani lasciarono Algeri, consegnando al giovane console un promemoria contenente direttive e consigli per l’applicazione di quanto convenuto, per la gestione della rappresentanza consolare e per il mantenimento delle buone relazioni con il governo algerino. Sin dalle negoziazioni e per tutto il corso del consolato di Stendardi, si protrasse la sollecitazione da parte austriaca ad estendere le garanzie del trattato anche a favore dei porti fiamminghi di Ostenda e Newport, nelle Fiandre imperiali, sollecitazione costantemente respinta dal dey e dai suoi ministri. L’andamento della questione sino al maggio 1750 è riassunto in una apposita relazione del nostro console; un altro documento ci informa sui passi parimenti compiuti dai consoli imperiali a Tunisi e a Tripoli, per estendere ai due porti del Nord la validità dei trattati dell’impero con l’una e l’altra reggenza (14). Ancora una volta, il 20 ottobre 1752, Stendardi menziona la questione dei ‘due porti’, scrivendo: «devo tentar nuovamente di ottenere un articolo al nostro trattato in favore di Ostenda e Neuport negato già alle vive raccomandazioni del Gran Visire», ma si sentì rispondere dal dey che «non è il costume in Algeri di mai ritoccare i Trattati una volta segnati». Due anni più tardi la questione era sempre presente al console toscano il quale riteneva che sarebbe già stato un passo avanti ottenere una dichiarazione dal dey del seguente tenore: «che la nostra Pace essendo fatta col Sovrano, e non con alcuno delli Suoi porti tutti per natura di quella dovevano indistintamente godere dei frutti della medesima, quantunque solo alcuni di essi fossero nominatamente espressi» (15). Alla elezione del nuovo dey, a seguito della uccisione di Mohammed ben Beker, si pose l’esigenza, come di norma ad ogni successione del sovrano, di confermare i trattati vigenti. Stendardi impiegò «di novo ogni sforzo prima con affettata franchezza, poi con giusto calore per determinare il governatore [...] ad aggiungere la parola Ostenda o trascurare i nomi de’ Porti citati nell’accennato Preambolo», ma nulla si poté ottenere. Le relazioni fra l’impero ed Algeri subirono pochi mesi dopo una crisi sino alla rottura e al conseguente rientro del console Stendardi in Toscana nel marzo 1755 (16). Nell’azione diplomatica di un console europeo in una sede maghrebina non potevano a quel tempo mancare riferimenti e interventi relativi alla presenza di schiavi cristiani nella reggenza o di schiavi musulmani in questo o quello stato europeo. Nel dicembre 1750 Stendardi venne incaricato di riscattare una ventina di sottufficiali e soldati dell’esercito imperiale nonché tutti gli (14) HHSA, Algier 1, fasc. 1, 11 ottobre 1748, 28 ottobre 1749, 20 maggio 1750. (15) HHSA, Algier 1, fasc. 2, 20 ottobre 1752 e 6 agosto 1754. (16) Ivi, 31 dicembre 1754 e 29 marzo 1755.

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altri «Sudditi di tutto il Sagro Romano Impero» («cioè i Todeschi ed Hungari, quelli del litorale Austriaco, Fiume, Trieste etc.») ed anche qualche toscano. L’anno dopo in effetti il console procurò il riscatto di 24 schiavi: soltanto dieci erano compresi nell’elenco ai quali si voleva dare la precedenza. Di undici si seppe che erano già tornati liberi, uno si era fatto ‘moro’, per altri non era possibile intervenire. Al loro posto vennero riscattati quattro toscani (tre livornesi e un pistoiese) ed altri sudditi dell’impero (della costa adriatica, dei domini tedeschi, della Slesia) (17). Il carteggio di Stendardi contiene occasionalmente anche informazioni e osservazioni a proposito dei rapporti diplomatici di altri stati con la reggenza algerina, così, per esempio, di Venezia e del suo inviato Nicolas Rosalem (18). Algeri e il suo governo Per meglio inquadrare la nostra presentazione degli scritti su Algeri redatti da Stendardi, riteniamo opportuno riassumere brevemente le vicende politiche della reggenza maghrebina nel periodo in cui egli vi rappresentò il governo imperiale e quello toscano. Nel febbraio 1748, morto all’improvviso e molto probabilmente avvelenato il dey Ibrahim Kuciuk, venne eletto al suo posto Mohammed ben Beker, che aveva il titolo di ‘Khogia el-Kheil’, cioè ‘sovrintendente dei cavalli’; il nuovo sovrano, intelligente e colto, animato da principi di giustizia, si mostrò abile ed amante della pace (19). All’interno si adoperò, anzitutto, a ristabilire con severità e fermezza l’ordine molto spesso turbato negli ultimi anni, come si è detto. Il console francese Thomas così poteva scrivere, infatti, alla Camera di commercio di Marsiglia: Jamais cette ville n’a été aussi paisible; elle est maintenant aussi bien policée qu’aucune autre d’Europe, ce qui n’avait pas lieu sous ses prédécesseurs, et surtout sous le dernier Dey, qui laissait vivre les soldats avec une licence effrénée. (17) HHSA, Algier 1, fasc. 1, 26 dicembre 1750. (18) HHSA, Algier 1, fasc. 2, 20 agosto e 24 settembre 1754. (19) Secondo VENTURE DE PARADIS 1788-1790, a quel titolo corrispondeva l’ufficio di controllo dell’esazione dei tributi forniti dalle province dipendenti dal governo di Algeri e dalla vendita dei cavalli (donde la denominazione) muli e cammelli recati al dey quale donativo e tributo da talune categorie di funzionari pubblici, come i bey e i cadi (MARÇAIS 1927, 171, che trascrive il titolo Khojaf el-Khawl e lo traduce come «secrétaire des chevaux, receveur des tributs»).

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Pur preoccupandosi di potenziare le fortificazioni e gli armamenti, il dey Mohammed volle condurre una politica di buone relazioni con le potenze europee, il che, però, impedendo l’esercizio della corsa contro le navi degli stati con i quali vigeva la pace, non giovava alle entrate della reggenza e ne provocava un grave indebolimento economico. Giusto in quell’anno, il papa Benedetto XIV si adoperò attivamente per organizzare una azione congiunta contro i corsari barbareschi da parte dello Stato pontificio, Malta, Venezia, Genova e regno di Napoli (20). Nei rapporti con la Gran Bretagna si ebbe un momento di crisi nel 1749. Il governo algerino aveva fatto schiavo l’equipaggio e confiscato il carico di tre vascelli inglesi accusati di aver fornito polvere da sparo alla popolazione della Cabilia; risultate vane le proteste del console Staniford, la Gran Bretagna inviò una squadra navale agli ordini dell’ammiraglio Keppel, che il 10 agosto dinanzi al divano riunito espose le rimostranze del suo paese, ricevendone generiche assicurazioni e la promessa dell’invio a Londra di due ambasciatori, senza ottenere però ciò che più contava, cioè una pressione del dey algerino sul sovrano di Tunisi, il bey Ali Pascià, che gli era tributario, per indurlo a cedere l’isola di Tabarca e la località di Capo Negro a società commerciali britanniche. I due ambasciatori si recarono più tardi nella capitale britannica recando seco doni di ben modesto valore. La squadra britannica, forte di quattro vascelli, si ripresentò dinanzi ad Algeri il 10 luglio 1750; il dey si rifiutò di ricevere il comandante britannico e finse di offendersi per il fatto che il console Staniford si era presentato dinanzi a lui con la spada al fianco. Tornata di nuovo la flotta dinanzi alla città corsara il 16 settembre, l’ammiraglio inglese fu ricevuto dal sovrano algerino il 18 settembre, ed ottenne senza difficoltà di essere dispensato dall’ossequiare il dey con il rituale baciamano e di poter mantenere la spada al fianco durante l’udienza; ma quando chiese per la Nazione che rappresentava parità di diritti con la Francia, il sovrano algerino replicò astutamente che già gli aveva riservato due grandi favori e non poteva concedergliene un altro per non suscitare le gelosie delle altre potenze. Dopo aver ottenuto soddisfazioni di poco conto, la squadra dell’amm. Keppel si presentò nel golfo di Tunisi e domandò invano a quel governo le due località desiderate; il bey oppose di non essere autorizzato alla cessione dal dey di Algeri che rivendicava la propria autorità sull’isola di Tabarca e su Capo Negro. Sempre in quell’anno 1750 la Toscana e la città di Amburgo avanzarono richieste di pace e, mediante ricchi donativi, ne

(20) GRAMMONT 1887, 302-304.

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ottennero la conclusione; ma l’accordo fu rispettato soltanto per un anno, benché l’attività corsara non recasse grandi frutti (21) . Il progressivo decadere dell’attività corsara ed alcune sventure occorse in quell’anno (lo scoppio della polveriera che danneggiò gran numero di case e di edifici, e l’insorgere d’una pestilenza, che arrivò a mietere sino a mille settecento vittime al mese) suscitarono vivo malcontento nella popolazione e provocarono disordini, repressi con fermezza dal dey, il cui carattere sembrò da allora inasprirsi e divenire sospettoso e crudele (22). Un episodio destinato a segnare un momento di grave attrito tra la Francia e la reggenza algerina avvenne nel settembre 1753: un mercantile francese, al comando del capitano Prépaud, incontrò nelle acque di Gibilterra un legno algerino e non riconoscendone la nazionalità prese l’iniziativa dell’attacco, recando gravi danni alla nave corsara e provocando la morte d’una trentina d’uomini dell’equipaggio; il bastimento francese fu tuttavia sopraffatto e condotto ad Algeri, e mentre gli uomini dell’equipaggio erano tratti schiavi il capitano Prépaud, che inutilmente espose al dey i suoi motivi di difesa, venne condannato a mille colpi di bastone, alla qual pena non sopravvisse. La ferma protesta del console francese Lemaire, anche se non ottenne soddisfazioni formali, riuscì a far liberare i 28 marinai già resi schiavi. Il governo francese seguì con attenzione il corso degli avvenimenti, minacciando energicamente la reggenza. L’invito a Parigi del console Lemaire, nell’aprile del 1754, per consultazioni con il governo, sembrò agli algerini il segno dell’intenzione di ottenere con la forza piena soddisfazione; il timore della possibile vendetta francese è stato considerato un elemento determinante nella crisi interna che nel dicembre dello stesso anno condusse a morte il dey Mohammed (23). Quale successore di Mohammed ben Beker fu acclamato, dopo qualche ora di incertezza e di massacri, l’Aghà degli spahis, Baba Ali, ignorante, brutale e

(21) GRAMMONT 1887, 305-306, che non accenna alla richiesta di Tabarca; MERCIER 1891, 383; H. GARROT, Histoire générale de l’Algérie, Alger 1910, 572, che fa cenno, non sappiamo in base a quali fonti, alla contesa per Tabarca. Sui contrasti fra Gran Bretagna e Francia per le prerogative riconosciute ai propri rappresentanti ad Algeri: DEVOULX 1872a. (22) GRAMMONT 1887, 306, il quale aggiunge che il sovrano cominciò a dare qualche segno di follia; Stendardi, invece, nella relazione sull’uccisione del sovrano (che esamineremo più avanti) esprime un giudizio del tutto favorevole. (23) Sul ‘caso Prépaud’ e sulla conseguente crisi dei rapporti franco-algerini: GRAMMONT 1887, 307; CHARLES-ROUX 1932, 265-268, che erroneamente riferisce l’episodio al 1752, ed in particolare DEVOULX 1871a e 1871b, che illustra il contrasto sorto fra la collettività francese di Algeri ed il console Lemaire, del quale critica il comportamento. Per quanto concerne la connessione fra l’attrito franco-algerino e la crisi interna della reggenza diremo più avanti.

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fanatico. Henri de Grammont, che lo giudica come il più spregevole di tutti i dey d’Algeri, ci riferisce varie notizie e aneddoti: di carattere mutevole e irascibile, dava ordini a caso ed improvvisamente li revocava; anche su importanti questioni di stato, consultava persone di rango molto modesto, dicendo loro: «sono un asino, tu hai più giudizio di me, decidi tu!» Talvolta mostrava il suo pollice, mutilato dal morso di un asino (la mutilazione gli valse l’appellativo di Bu Seba), ricordando il suo mestiere di asinaio; talvolta, invece, era in preda al più vivo orgoglio e pretendeva un deferente e minuzioso cerimoniale. A qualche protesta rispose: «sono il capo di una banda di ladri, perciò il mio mestiere è di prendere e di non rendere» (24). Il suo governo, durato sino al febbraio 1766, fu segnato da sollevazioni e disordini delle popolazioni dell’interno, da pestilenze e calamità naturali, da ostilità algerine contro vari stati europei, a cominciare dall’Olanda, dall’Impero e dalla Toscana, e contro Tunisi, occupata nell’agosto 1756, dopo un assedio di due mesi. In relazione alla guerra condotta da Algeri contro l’altra reggenza barbaresca e all’aiuto che questa ricevette da una squadra navale maltese, guidata da cavalieri francesi, si aprì, non senza l’istigazione del console di Gran Bretagna, una nuova crisi nei rapporti tra la Francia e il governo algerino che giunse ad imprigionare il console Lemaire (25). Nella relazione sul Governo d’Algieri Stendardi esprime anzitutto il parere che l’assetto politico della reggenza possa definirsi «Governo Militare, essendo composto dal Bey Generalissimo, o sia Imperatore delle Milizie, e dal Divano, o vogliam dire alto Consiglio», ma aggiunge che negli ultimi tempi il potere del Divano era stato del tutto mortificato e ridotto alla formale approvazione delle decisioni assunte dal sovrano con il consiglio degli alti funzionari e dei favoriti che ne costituivano la piccola corte: Ma son già qualche anni, che i Bey regnanti si sono usurpata l’intiera autorità, non restando al Divano se non il misero privilegio d’essere sempre adunato per confermare le risoluzioni già concertate dal Bey con li propri suoi favoriti; onde il Governo degl’Algierini ora mai può dirsi quasi perfettamente Monarchico: dico quasi Monarchico, poiché la monarchia suppone rigidamente l’as-

(24) MERCIER 1891, 384, riporta i due nomi del dey; GRAMMONT 1887, 309, lo cita come Baba Ali. (25) Sul periodo di governo di Baba Ali, che sventò ripetuti tentativi di congiura da parte della milizia giannizzera: GRAMMONT 1887, 309-317; MERCIER 1891, 384-386. A lui, morto il 2 febbraio 1766, successe Mohammed ben Osman, uomo saggio e giusto, che tenne il potere per venticinque anni.

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Lumi e corsari soluta sopranità (sic), e gli Algerini riconoscono il Gran Signore di Costantinopoli per lor superiore (26).

Nel considerare le aspre e cruente lotte per la successione nella carica di dey, per la quale non esisteva alcuna ordinata procedura, il console senese riferisce che «si vedono non lungi dalla Città sette sepolcri, dove, se si crede alla tradizione, giaciono sette Bey eletti, e trucidati successivamente in un giorno solo». L’unico modo per impedire lo scatenarsi delle ambizioni e delle violenze alla morte del dey venne adottato, secondo Stendardi, nelle ultime occasioni: i ministri designarono immediatamente alla successione uno di essi stessi: che i favoriti del Regnante (i quali son sempre principali Ministri della Reggenza) alla morte di quello, uno fra loro ne pongano subito sopra il Seggio Reale, offerendosi di sostenerlo a condizione che egli pur li conservi nelle lor dignità; e così raddoppiate le Guardie per impedire i tumulti, non prima si pubblica la morte del Re, che l’elezione del successore» (27).

Quanto a L’Esercito, dopo averne descritto la struttura gerarchica, a proposito del reclutamento dei giannizzeri così ricorda: Ora è visibile, che questa Milizia deve per necessità diminuire ogni giorno, onde per reclutarla nuove Truppe si raccolgono di tempo in tempo in Levante, e per lo più di miserabili Pastori, di persone contumaci alle Leggi, e di gente disperata arruolata colà si ristorano le perdite del glorioso Esercito, terrore dell’Affrica, e quasi ancora dell’Europa (28).

Per quanto concerne i rapporti della città corsara con il territorio dell’interno da essa dipendente – aspetto della storia d’Algeri che deve ancora essere adeguatamente illuminato – il console toscano ritiene che il governo del dey non riuscirebbe a controllare quelle vaste regioni: se i Bey delle Provincie non vegliassero continuamente a seminare, e coltivare la discordia fra li Arabi, che dividendosi in varie fazioni, e fra loro distruggendosi, se stessi indeboliscono, e son poi forzati a prender i Turchi per arbitri delle loro dissenzioni, e ad apprenderne sempre più la potenza (29). (26) Governo d’Algieri, xvij. Come si rileva, Stendardi dà al sovrano di Algeri il titolo di bey e non quello usuale di dey. (27) Ivi, xviij. (28) Ivi, xxj. (29) Ivi, xxiij. Sui rapporti fra il governo di Algeri e le provincie dell’interno (Costantina,

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Nel breve paragrafo sulle Entrate pubbliche ed in quello sulla Marina, Stendardi fornisce alcuni dati che, pur non recando elementi di particolare rilievo, possono utilmente servire quali termini di confronto e di conferma nei riguardi delle notizie note attraverso altre fonti; vi è, tuttavia, a tal proposito la frequente difficoltà di accertare l’esatto riferimento dei termini usati e degli aspetti presi in considerazione. Quanto alle entrate dello stato algerino, Stendardi stima che «le tasse annue di tutto il regno non portano al Tesoro più di 300mila piastre, che vagliono circa 100mila zecchini toscani». Un altro autore, che scriveva in quegli anni, dà la cifra di 450mila piastre per le entrate fisse e di 220mila per quelle casuali, ma i suoi dati si riferiscono ad epoca anteriore. La dotazione della marina d’Algeri è descritta dal console toscano in «cinque Navi da guerra da 54. a 20. pezzi di cannone, [...] undici Sciabecchi di bel taglio, e del miglior legno del Nort» , mentre Le Roy afferma: Outre le nombre, de vingt Vaisseaux, tant grands que petits, qui ne diminue jamais, et qui augmente plutôt, selon que le Temps est favorable pour la Course, les Particuliers arment encore tous les Ans, pendant l’Eté, quelques Barques et au moins 12 bâtiments à Rames, dont il ne revient guères pour l’ordinaire que la moitié, le reste étant pris, échoué ou faisant Naufrage, ce qui n’empèche pas les Algériens de recommencer tous les Ans (30).

Un curioso episodio, che riportiamo cedendo al gusto dell’aneddoto, è riferito dal console toscano nel paragrafo che si intitola Delle decisioni algerine, nel quale egli mostra come l’arbitrio del sovrano sia spesso, per non dire sempre, il criterio che domina la vita politica ed amministrativa della città corsara: Nave Svedese con ricco carico – ecco l’episodio – fu visitata anni sono da Corsaro Inglese, e rilasciata. Nel partire lasciò il Passaporto sopra una Tavola; il Orano e Titteri) fornisce notizie la relazione dell’inviato veneziano ad Algeri Nicola Rosalem, che, fra il settembre 1753 e l’ottobre 1754, trattò senza un conclusivo risultato la stipula di un accordo fra la repubblica adriatica e quel governo barbaresco; vedi SACERDOTI 1952. Il testo della relazione da lui redatta al ritorno a Venezia, fornisce dati sui vari aspetti della situazione politica ed economica della reggenza. Rosalem riferisce (pp. 92-93) di essersi rivolto al suo arrivo ad Algeri al console Stendardi, già conosciuto a Smirne, il quale, pur trattandolo cortesemente, gli fece presente che non poteva accordare la sua protezione se non ai sudditi dell’imperatore d’Austria. (30) Governo d’Algieri, xxiij-xxv (Entrate Pubbliche) e xxv-xxvj (Marina). LE ROY 1750, 104, presenta una tavola con l’elenco dei 20 Vascelli che costituivano la marina d’Algeri nel 1718. Il ricordato Rosalem (SACERDOTI 1952, 80-81) afferma che la flotta algerina era costituita da otto sciabecchi, armati di 30 cannoni, cinque altri più piccoli, una galera, sei tartane, una grossa galeotta e sei più piccole, oltre le due navi indicate più sopra.

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Lumi e corsari vento gettollo per terra, ed un piccolo cane per trastullo lacerollo. Tardi se n’avvidde il Capitano Svedese, ma pur per fortuna il Sigillo Reale, e le Firme dei Segretarij di Stato si erano conservate. Lo sventurato Capitano s’abbatté in un Corsaro Algierino: mostra il lacero Passaporto; e condotto in Algieri, quivi colle reliquie del foglio alla mano espone il Console l’accidente, e questa sentenza ha in risposta dal Bey: Il cane mangiò il Passaporto, ed io mangerò il caricamento (31).

Il successivo paragrafo sui Tribunali d’Algieri si conclude con questo giudizio sulla legislazione penale e la sua applicazione: Questa severità delle Leggi raffrena veramente la licenza delle Milizie, ed il Piratico genio della Nazione, rari sentendosi i casi di furto, e più rari ancor d’omicidio; ma la soverchia prontezza, e facilità nel decidere, e condannare, porta seco talora il gravissimo disordine di fare soffrire l’innocente, disordine che distrugge la quiete de’ buoni, e che repugna totalmente all’equità naturale, la quale mal si conosce da chi altro scopo non ha che la conservazione del Governo (32).

La relazione sul governo termina con un paragrafo sulle Alleanze degli Algierini coi Principi esteri. Stendardi rileva che l’inizio del suo consolato corrispose per Algeri ad un periodo di pace prevalente («per mille combinazioni si trovano in pace con tutti li loro vicini Affricani, e con la maggior parte ancora delle Potenze Cristiane»), il che significava però limitate possibilità di attività corsara e drastica riduzione dei profitti da essa derivanti; ne erano scaturiti disagi e tensioni e numerosi ambienti locali premevano per la rottura di alcuni almeno dei rapporti di pace. Stendardi chiude con alcune indicazioni e direttive per i consoli e dunque anzitutto per lui stesso; fra l’altro consigliando: che rendano utile l’amicizia della propria Nazione a questo Governo, esercitando loro stessi, o facendo almeno esercitare ai loro subordinati il Commercio; E che per fine con spese, ed opportune larghezze si mantengano il favore degli avidi, ed ambiziosi Ministri, che sono i primi mobili della macchina del Governo (33).

(31) Governo d’Algieri, xxvj-xxvij. (32) Ivi, xxix (l’intero paragrafo, xxvij-xxix). (33) Ivi, xxxj (il paragrafo, xxix-xxxj).

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Commerci algerini Sembra che Stendardi abbia osservato con particolare interesse durante il suo soggiorno ad Algeri gli aspetti economici della vita della città, ai quali dedica una specifica relazione dal titolo Commercio d’Algieri. Egli mostra di stupirsi che l’attività commerciale sia piuttosto scarsa e languente, se considerata in rapporto con la «naturale fecondità del Paese» e con il numero degli abitanti, e le cause di questa situazione ritiene di poterle additare nella mancanza di ‘industria’, cioè di attività produttive proprie del paese, i cui cittadini, temendo gli arbitri e gli abusi del governo dispotico non trovano stimolo alle imprese economiche. I turchi, dal canto loro, cioè la classe militare che controlla e domina lo stato, essendo «per loro costituzione Soldati, hanno di rado permissione d’ingerirsi nel traffico» (34). Quali altri fattori negativi per lo sviluppo della vita economica nella reggenza algerina sono indicati la scarsità di capitali liquidi, poiché tutti tendono a investimenti immediati in beni immobili, e la totale mancanza di possibilità creditizie. Gli ostacoli specifici all’incremento dell’attività commerciale sono additati nella mancanza di lusso, che riduce il numero delle merci richieste, e nella pratica monopolistica del governo stesso, che toglie ogni impulso alla iniziativa dei privati: Manca il lusso in Algieri, ed in conseguenza è piccolo il numero dei bisogni, altra cagione, che restringe l’oggetto del trafficante [...] Quel metodo del governo di trafficar egli stesso a prezzi fissi i generi più considerabili, che qui sono abbondanti, comprandoli dai Mori, e vendendoli con gran profitto ai mercatanti d’Europa.

Con accenti di aperto liberismo economico Stendardi afferma che «chiunque porrà un limite alle speranze degli uomini, ne porrà senz’accorgersi un altro ristretto all’industria, e allo zelo» (35). A queste considerazioni di carattere generale segue nello scritto del console Stendardi l’elencazione delle principali merci oggetto di importazione da parte della reggenza barbaresca, con l’indicazione dei rispettivi paesi di provenienza, e dei prodotti invece esportati, fra i quali primeggia la lana; non mancano alcuni cenni al “commercio” degli schiavi cristiani, cioè alle modalità ed ai prezzi allora praticati per il loro riscatto. La relazione è completata, infine, da un elenco di pesi, misure e monete, con i rispettivi equivalenti, in uso ad Algeri (34) Commercio d’Algieri, xxxvj. (35) Ivi, xxxvij-xxxviij.

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in quegli anni, e da una lista di vari prodotti di consumo con i prezzi rispettivi praticati nella città corsara (36).

La peste Le relazioni, all’inizio citate, che si riferiscono ad avvenimenti particolari accaduti ad Algeri durante il soggiorno del console toscano, costituiscono certamente la parte più interessante dei suoi scritti ed offrono elementi nuovi ed originali capaci di completare ed in qualche punto modificare le nostre conoscenze sulla storia della reggenza in quel periodo. Ciò vale, anzitutto, per la relazione sulla peste d’Algeri negli anni 1752-1754, il cui testo, diviso in due parti, come si è detto, è riportato integralmente in appendice. Tutte le notizie intorno a quella pestilenza, provenienti da varie fonti storiche, sono state compendiate nella dotta tesi di Jean Marchika, il quale tenne presente, oltre alla documentazione del consolato di Francia, quanto riferito su quella epidemia da Antonio de Haen nella sua Ratio Medendi, a sua volta debitore di un’opera anonima dal titolo De peste algeriense, anni 1752-1753 (37). Risulta controverso donde la peste, presente nel 1751 sia a Costantinopoli sia in Marocco, sia giunta ad Algeri. Su questo punto Stendardi, in accordo con la testimonianza del console francese Lemaire, afferma decisamente che il contagio provenne «dalle Occidentali Provincie di questo Regno (dove per molti mesi aveva fatto strage furiosa) per mezzo di alcuni infetti Passaggieri, che furono secondo il costume liberamente introdotti» e questa ci sembra, pertanto, l’ipotesi più valida. La provenienza dal Marocco, in fondo conciliabile con le affermazioni di Stendardi, è asserita da Louis Chenier, mentre secondo altri la pestilenza giunse dalla Mecca recata dai pellegrini di ritorno dalla città santa (38). (36) Gli elenchi e la lista, Commercio d’Algieri, xliij-xlviij; al riscatto degli schiavi sono dedicate le pp. xlj-xlij. Sul commercio della lana fornisce diversi dettagli VENTURE DE PARADIS 1895, 282-283, una delle più ricche fonti per la nostra conoscenza di Algeri sul finire del secolo XVIII. (37) J. MARCHIKA, Histoire de la peste en Algérie de 1363 à 1830, Alger 1927, 95-101; l’opera, per il suo stesso carattere di tesi per il dottorato in Medicina, ebbe una limitata diffusione; personalmente ne ho consultato un esemplare presso la Biblioteca Universitaria di Vienna. L’opera di A. DE HAEN, Ratio medendi in Nosocomio practico, Paris 1774, risulta presente a Roma, per quanto ci consta, soltanto alla Biblioteca Casanatense. (38) Relazione della peste, lj. L’affermazione del Lemaire è riferita da MARCHIKA 1927, 95. L. GUYON, Histoire chronologique des épidémies du Nord de l’Afrique, Alger 1855, è citato dal Marchika; L. CHENIER, Recherches historiques sur les Maures et histoire de l’Empire du Maroc, Paris 1787. MARCHIKA 1927, 95-96, così conclude a questo riguardo: «devant une telle

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Quanto alla data in cui l’epidemia cominciò a manifestarsi, persiste qualche incertezza; il console toscano conferma in pieno ciò che è scritto nei Mémoires de la Congrégation de la Mission, cioè che la peste, presente già in maggio, fu diagnosticata con sicurezza soltanto agli inizi di giugno, come attesta il padre Bossu: Il y avait bien un mois que la peste était dans la ville quand nous en fûmes entièrement assurés [...]. Elle emportait journellement dix ou quinze personnes et on en doutait encore. Mais enfin elle éclata tellement le 3 juin 1752 que personne ne put la méconnaître (39).

Il 12 giugno negli atti del consolato di Francia il cancelliere Germain appose questa nota: «Avendoci la peste obbligato a rinchiuderci nella casa consolare, smetteremo di ricevere gli atti nel presente registro e li redigeremo su fogli volanti». Proprio le pericolose circostanze dell’epidemia, se da un lato rallentavano le attività commerciali e le conseguenti registrazioni di impegni e contratti, dall’altro spingevano molti a dettare, in forma legale, le proprie volontà in caso di morte. Così fece, a quanto afferma la biografia alla quale costantemente ci riferiamo, anche il console Stendardi, il quale, per di più, «si scrisse egli medesimo il suo Epitaffio trovato fra le sue carte, e dettato da una tranquillità Filosofica, sempre rassegnata agli ordini della Provvidenza regolatrice» (40). La relazione del console Stendardi, sulla quale non ci soffermiamo troppo a lungo poiché ne è riportato il testo in appendice, fornisce molti dettagli circa la diffusione del contagio, sottolineando il differente esito avuto dal morbo nei diversi gruppi etnici e sociali, ed illustrando le precauzioni prese dagli europei e, in misura minore, dai musulmani. Anche la dettagliata analisi dei sintomi iniziali, del decorso della malattia in coloro che ne erano colpiti, e dei metodi di cura praticati, con variabile efficacia, ci sembra costituisca un documento di grande interesse per la storia della medicina, e come tale lo segnaliamo agli studiosi specializzati. Il già ricordato Marchika riferisce numerosi particolari circa le precauzioni assunte dai religiosi residenti ad Algeri: la comunione venidivergence d’opinions nous nous hâtons d’affirmer qu’elles sont toutes soutenables. Mais, sans être importée à Alger, la maladie pouvait très bien s’y développer et naître d’une épizootie locale, reliquat d’une des précédentes épidémies». (39) Mémoires de la Congrégation 1737-1865, 229; Relazione della peste, lj, e Appendice II («Manifestossi quì sul principio di Giugno [del 1752]. Si nascose al solito per un tempo il morbo maligno sotto colore di altre comuni malattie»). (40) MARCHIKA 1927, 98, dove segnala che un certo Louis Gimon, agente ad Algeri della ditta marsigliese La Porteric, fece redigere il 14 giugno 1752 una procura in bianco da usarsi in caso di sua morte, temuta in relazione all’infierire della pestilenza; Ristretto della vita, vj.

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va impartita per mezzo d’una bacchetta lunga circa mezzo metro terminante con una mezzaluna d’argento, sulla quale si appoggiava l’ostia, bacchetta disinfettata con la fiamma dopo ogni uso; con una bacchetta dello stesso genere veniva impartita agli appestati anche l’estrema unzione. Il confessore svolgeva il suo ministero tenendo in mano una spugna imbevuta d’aceto o un vaso pieno d’un liquore forte (41). Che le notizie dateci da Stendardi siano degne di fede ci sembra provato dal fatto che esse si accordano con quanto scrive l’anonimo autore del De peste algeriense; ad esempio, che nell’ospedale dei trinitari spagnoli, ove erano accolti gli schiavi infermi, la mortalità, nonostante le molteplici cure prestate, fu più alta che non nell’insieme della città, e che, invece, nel palazzo del dey soltanto due persone, due schiavi cristiani, furono colpiti. La relativa immunità del ‘palazzo reale’ era da attribuirsi, secondo Stendardi, all’esser l’edificio molto ventilato e dotato di abbondante acqua. I due schiavi deceduti erano stati colpiti dal morbo «per essere appunto essi Ministri sempre assistenti alla Regia Cucina, e privi perciò del fresco salubre ristoro di quel soggiorno» (42). Nell’ottobre 1752, quando concluse la ‘parte prima’ della sua relazione sulla peste, il console toscano nota che la malattia «accesa sul principio del passato Giugno in Algieri, pare oggi intieramente estinta nella Città, e dalle ultime fresche pioggie temperate ancora nelle vicine campagne». In verità, il morbo tornò a diffondersi con violenza dalla primavera dell’anno successivo; Stendardi descrive così la ripresa e l’andamento della pestilenza, all’inizio della ‘parte seconda’ della sua relazione: si mantenne tutto l’Inverno vagante mite, ed incerta per la Città, finché nel seguente Aprile del 1753. col solito Termometro a gradi 14. ripullulò nuovamente con grande apprensione dei Cittadini (che il Fatalismo rende bene imprudenti, ma non già coraggiosi).

Per tre mesi andò accrescendo la sua virulenza sì che «distrusse non meno di cinque mila Persone» ma poi crescendo il Termometro in Luglio sopra li 25. gradi cominciò a snervarsi il fermento maligno. E giunto finalmente quello in Agosto sopra il 28. grado, questo dissipossi universalmente, e radicalmente per tutto l’ambito della Città (43). (41) MARCHIKA 1927, 99. (42) Il De peste algeriense è citato da MARCHIKA 1927, 97; la citazione di Stendardi dalla Relazione della peste, liv, e Appendice II. (43) Relazione della peste, lx-lxj, e Appendice II. La prima parte reca la data del 10 ottobre.

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Nella seconda parte della relazione, Stendardi non aggiunge notizie sugli aspetti e sulle forme in cui si manifestò il morbo e sulle conseguenze da esso recate, svolgendo invece un succinto ‘trattato’ sulla eziologia e la sintomatologia della peste. Anche nella corrispondenza di Stendardi da Algeri si trovano, ovviamente, cenni alla peste. Il 20 ottobre 1752 ne asserisce l’estinzione, in verità momentanea, e segnala il danno inferto al commercio dal morbo, che – egli dice – «ci ha visitati e afflitti per tutta l’Estate passata, la quale temuta in Italia assai più che non quella di tutto il Levante ha interrotto totalmente il suo Commercio con questo Regno» (44). Una attenta analisi delle preoccupazioni suscitate dalla peste maghrebina nel granducato di Toscana e dei provvedimenti assunti per tutelarsene, è stata svolta in uno scritto specifico da Calogero Piazza, il quale si è altresì impegnato a evidenziare «i problemi d’ordine internazionale – nelle relazioni commerciali colla reggenza barbaresca – che il fatto apportò». Pur se orientato da questa prospettiva, Piazza ha rilevato che la pestilenza sembrò offrire occasione «al partito del cambiamento per favorire una evoluzione costituzionale, rafforzando l’autorità del pascià sulla milizia e del governo sulle province, a modifica dei caratteri militare e periferico dell’amministrazione ottomana, verso una forma di monarchia nazionale, come nei cantoni di Tunisi e di Tripoli. E solo l’assassinio del dày (1754), ad opera di un marabutto, con un ritorno in forze dei Giannizzeri, impedì la realizzazione del progetto» (45). Tornando ai dispacci del console imperiale, un altro cenno alla peste si trova sotto la data del 4 gennaio 1753, testimonianza di un timore persistente, riferito anzitutto alla propria persona: La peste non lascia di serpeggiare ancora per la Città, e di accrescere le nostre inquietudini, tanto più che questo ultimo imbarazzo mi ha costretto più di una volta di comunicare con quantità di Persone sospette, e di passeggiare io stesso per il paese per impedire con la mia presenza un tumulto maggiore (46).

Nello scritto, di cui diremo, sulle Meteore, Stendardi annota che l’epidemia si risvegliò nell’aprile del 1753 e «crebbe col Caldo sino al Mese di Luglio a gr. 28 e sostenendosi, e crescendo il calore nel mese di Agosto si dissipò, né più se ne sentono le vestigia», ma nella lettera del 5 ottobre 1754 esprimeva di nuovo

(44) HHSA, Algier 1, fasc. 2, 20 ottobre 1752. (45) PIAZZA 1988, 201-202. (46) HHSA, Algier 1, fasc. 2, 4 gennaio 1753.

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il timore di un ritorno della pestilenza che «con qualche accidente maligno minacci la Salute Pubblica per la prossima Primavera» (47).

Meteorologia Nella Raccolta degli scritti di Stendardi, alla quale ci riferiamo, la relazione sulla peste è seguita da quella intitolata Meteore ed altri fenomeni osservati in Algieri, che riteniamo un documento unico nel suo genere per l’epoca alla quale si riferisce. Lasciandone l’utilizzazione a chi sia specificamente competente nella materia, riteniamo interessante, tuttavia, darne qualche cenno. Per ogni mese, dal settembre 1752 al settembre dell’anno seguente, sono indicate riassuntivamente le condizioni climatiche e sono riportati due dati riferentisi alla temperatura, probabilmente la minima e la massima mensile (ma ciò non è apparso del tutto chiaro). Per ottobre, ad esempio, si dice: Regnarono in questo Mese a vicenda i Venti Grecali, e Maestrali; il Tramontana fu tempestoso, nevoso; il Libeccio grandinoso, fulminante. Pioggia abbondante» (48).

Quanto al decorso termico dell’anno Stendardi nota che, pur essendo affermato dai “pratici del Paese” che quell’anno era stato particolarmente rigido nella stagione invernale e caldo in quella estiva, le temperature estreme da lui registrate erano state: la minima di 5 gradi e mezzo il 6 febbraio e la massima 29 gradi e un quarto il 12 agosto; la temperatura minima indicata corrisponde a quelle fornite dalle rilevazioni contemporanee, mentre quella massima è sensibilmente inferiore (si è forse trattato di un errore di stampa) (49). Di grande interesse ci sembra la notazione relativa ad una scossa di terremoto «torbido di circa 10. Secondi a Ciel sereno, Vento e Mare in calma», registrata ad Algeri il 21 agosto 1752. Un altro e gravissimo terremoto, registrato anche nella penisola iberica, colpì Algeri il 1° novembre 1755; le scosse

(47) Meteore, lxxiv; HHSA, Algier 1, fasc. 2, 5 ottobre 1754. Il console Lemaire scriveva, in data 25 maggio 1753, che morivano ogni giorno sessanta-settanta persone; in giugno si contarono 1.700 morti e circa altrettanti in luglio (MARCHIKA 1927, 97). GRAMMONT 1887, 306, riferisce che in occasione della pestilenza avvenne una sanguinosa rivolta degli schiavi cristiani del grande bagno; al comando di un orologiaio di Ginevra, irruppero nelle vie della città restando infine sopraffatti. (48) Meteore, lxxij. (49) Ivi, lxxiv.

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si susseguirono per lo spazio di due mesi e quasi ogni casa ed edificio subirono lesioni. Altrettanto degna di attenzione la descrizione della eclissi totale di sole verificatasi il 26 ottobre dello stesso 1752, l’anno del terremoto. Eccone il testo: Alle ore 9.38 della mattina il centro della luna si congiunse perfettamente col centro del sole. Seguirono tenebre, tali che lasciarono vedere una stella vicinissima al disco solare. I Mori spaventati temevano la distruzione dell’Universo: le Moschee si riempirono di devoti, e le femmine sopra i tetti richiamavano la luna con lo strepito di rami, padelle, ed altri domestici strumenti, alla foggia degli Arabi; Altri dicono che pretendevano applaudire così al supposto sposalizio della luna, e del sole (50).

L’assassinio del dey L’avvenimento più clamoroso accaduto ad Algeri quando vi si trovava Carlo Antonio Stendardi fu l’uccisione, già accennata, l’11 dicembre 1754, del dey Mohammed ben Beker e la elezione di Baba Ali, episodio del quale il console toscano ha redatto una narrazione basata senza dubbio su quanto ebbe ad udire da testimoni oculari o da altri personaggi dell’ambiente di corte. Sul tragico episodio anche il cancelliere del consolato di Francia ad Algeri, Jean Baptiste Germain, scrisse una Relation de la mort du dey et de l’installation de son successeur, indirizzata alla Camera di commercio di Marsiglia, alla quale spesso il diligente funzionario trasmetteva notizie sugli avvenimenti della città corsara; questo documento è stato la fonte alla quale si sono comunemente rifatti gli storici (51). È rimasto invece sconosciuto lo scritto del console Stendardi nel quale, mentre si confermano taluni punti della relazione del cancelliere Germain, altri particolari ed elementi si aggiungono, ed alcuni di qualche rilievo.

(50) Meteore, lxxv. L’eclisse di luna osservata ad Algeri il 13 febbraio 1729, venne descritta dal padre Fau in un manoscritto dal titolo Description de la ville d’Alger, avec l’observation d’une éclipse de lune, conservato alla biblioteca municipale di Bordeaux, pubblicato da BRAQUEHAYE 1907, e ripubblicato, avendolo erroneamente ritenuto ancora inedito, da ÉMERIT 1940. (51) DEVOULX 1872b. Sul cancelliere Germain: ID. 1871c, e ID. 1872c, 380-381: il Germain, uomo scrupoloso e minuzioso, fu cancelliere dal luglio 1749 al 21 maggio 1758; dal 28 aprile 1754 al 21 giugno 1755 resse ad interim il consolato per l’assenza del console André Alexandre Lemaire, recatosi a Parigi a riferire sul ‘caso Prépaud’. Lasciata Algeri nel maggio 1758 per motivi di salute non vi fece più ritorno e venne sostituito.

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Il punto di discrepanza che più spicca nelle due relazioni è dato dal nome dell’uccisore del dey Mohammed: secondo Germain si tratta di Uzun Ali, soldato, cioè giannizzero, albanese, che risiedeva ad Algeri da tre anni e vi godeva fama di uomo devoto, essendo onorato quale marabutto, mentre Stendardi parla di un semplice soldato di nome Mahamet Susà. Vi è inoltre da rilevare che secondo una cronaca indigena, alla quale si riferisce il Devoulx, il nome dell’omicida era Uzun Mohammed, con parziale coincidenza con quello datoci da Stendardi (52). Secondo la predetta cronaca il nuovo dey, Ali Aghà, fu eletto «due ore dopo il levarsi del sole», cioè poco dopo le nove, e il Devoulx trova ciò più verosimile dell’affermazione del cancelliere Germain che il dey fosse stato assassinato «alle sette». Il benemerito studioso di Algeri barbaresca ci sembra sia caduto però in un equivoco; il cancelliere di Francia affermava, infatti, come Stendardi, che Mohammed ben Beker era stato assassinato alle sette, quando si iniziava la consueta paga bimestrale dei giannizzeri, e la poca luce dell’ora (si era quasi a metà dicembre) aveva impedito alle guardie di scorgere subito cosa stesse accadendo; ciò non contrasta ma anzi perfettamente si accorda con l’affermazione che Ali Aghà sia stato eletto alle nove, poiché trascorse un certo tempo fra il colpo di mano dell’albanese, la sua proclamazione a dey, la successiva uccisione di lui ed, infine, la nomina del nuovo sovrano. Gli avvenimenti incalzarono invero con molta rapidità, tanto che lo stesso Stendardi giunge ad affermare «che tutto questo successe nel corto spazio di un’ora» (53). La narrazione del console toscano attribuisce a Mahamet Susà (o Uzun Ali che sia) alcune frasi significative per spiegare la motivazione della congiura; rivolgendosi agli altri membri della milizia l’albanese disse: Noi siamo tutti Fratelli; Io vi governerò con giustizia; Non temete: tutto anderà secondo i vostri desiderj. Se questo Cane (accennando il Cadavero del Bey) governava ancor qualche Mese, il Paese già cadeva in man dei Cristiani. Già i nostri Corsari tornano senza prede: vedrete, vedrete la differenza. Io già vi accresco di otto Saime (sono circa due lire Toscane) la paga (54).

La narrazione del cancelliere Germain attribuisce all’uccisore di Mohammed ben Becker queste parole: «Son io re d’Algeri, tutti i disordini saranno

(52) DEVOULX 1872b, 322; Relazione della tragica morte, lxxix. Mahamet non è altro che una forma corrotta per Mohammed. (53) DEVOULX 1872b, 326. Relazione della tragica morte, lxxix-lxxxij; testo in appendice. (54) Ivi, lxxx; DEVOULX 1872b, 322-323.

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finiti, il soldato sarà felice e la corsa trionferà. Io aumento la paga di cinque saime ogni due mesi». Mahamet Susà voleva presentarsi cioè come fautore d’una politica di maggiore intraprendenza corsara, promettendo al tempo stesso un miglior trattamento economico alla milizia, in virtù degli accresciuti introiti delle casse statali. Non ci sembra da accogliersi, pertanto, l’interpretazione accennata dal de Grammont (non risulta se appoggiata a qualche diretto riferimento a documenti), che cioè il dey Mohammed fosse stato ucciso come “vittima espiatoria” essendosi diffusa ad Algeri una forte preoccupazione per la temuta reazione della Francia nella crisi insorta fra i due paesi, e che i congiurati rappresentassero, perciò, una corrente più pacifista e filofrancese. Per quanto concerne il rapido corso degli eventi, dopo l’uccisione dell’usurpatore albanese, la narrazione di Carlo Antonio Stendardi è più succinta di quella del cancelliere Germain, il quale ci informa anche intorno alla sepoltura del dey Mohammed e del casnadar. I membri della congiura contro il dey Mohammed furono severamente puniti dal nuovo sovrano, Baba Ali, diffidente e timoroso anche per la propria sorte: sei di essi furono impalati, quattro strangolati, ed altri ancora uccisi a colpi di bastone (55). Degli eventi successivi alla elezione del nuovo dey, il console toscano riferì nel dispaccio del 17 gennaio 1755, ed anzitutto che: Doppo quella tragedia i primi seguenti giorni furono impiegati nel riordinare le scomposte fila della pubblica tranquillità, nel riempire i posti vacanti nel Ministero, e nelle diligenti ricerche dei Congiurati segreti, che secondo le apparenze non furono men di cinquanta (56).

La morte del dey, come si è già detto, interferì anche nella tormentata questione del trattato fra Algeri e l’impero asburgico, a proposito della inclusione dei porti fiamminghi. Pur turbata dai luttuosi e drammatici avvenimenti che egli stesso ci ha descritto, la permanenza ad Algeri del console toscano fu feconda per lui di studi e di meditazioni scientifiche. Colla sola forza dell’ingegno suo inventore, sprovveduto colà di Libri opportuni – si legge nella biografia già citata – compose vari Discorsi sulla Luce, sulle Longitudini, ed uno, come egli lo intitolò, Saggio Astronomico, da lui fatto

(55) GRAMMONT 1887, 307-308. Il casnadar (khaznadar) era il tesoriere o economo. (56) HHSA, Algier 1, fasc.2, 17 gennaio 1755.

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Lumi e corsari stampare di poi colla data di Algieri, con insieme due Memorie della Qualità, Origine, Effetti, Rimedj del Morbo Pestilenziale (57).

Né il suo interesse si limitò soltanto al campo scientifico: Prese cognizione speciale di Medaglie Romane, Greche, Arabe, Puniche, e di tutti i Monumenti di antichità, come Iscrizioni, Bassi rilievi, Pietre dure incise, delle quali per quanto permettevano le sue forze procurò di fare acquisto, e ne divenne sistematicamente intelligente. Fece fare acquisto a S.M.I. per la Galleria di Firenze d’una bella Raccolta di Medaglie che erano in quelle parti […] Raccolse pure colà molte Iscrizioni Greche, e Latine in Marmi spediti a Vienna, con molte rare Produzioni naturali di que’ climi Affricani (58).

L’attività del console Carlo Antonio Stendardi, che vorremmo in futuro illustrare ancor meglio sulla scorta della documentazione archivistica già individuata e solo parzialmente qui utilizzata, appare degna di attenzione e tale da collocarne il nome accanto a quello dei più insigni rappresentanti consolari delle nazioni europee presso le reggenze barbaresche.

(57) Ristretto, v. Del Saggio astronomico, stampato a Firenze nel 1752, con l’indicazione di Algeri, a quanto riferisce la biografia del DE ANGELIS (vedi nota 10), non abbiamo reperito alcun esemplare; il contenuto delle Memorie sulla peste è da ritenere che corrisponda a quello della seconda parte della relazione sulla peste, già esaminata. (58) Ristretto, vi. La ricerca e l’esame di monumenti archeologici ed epigrafici nei territori già appartenenti alle province dell’Africa romana, era occupazione frequente dei consoli e d’altri europei che avevano occasione di dimorare o di viaggiare nei paesi barbareschi. Ricordiamo, ad esempio, quanto fece il medico pisano Giovanni Pagni, che fu a Tunisi, presso il bey Mohammed el Hafsi, dal 1667 al 1668; cfr. S. BONO, Ricerche scientifiche ed archeologiche nella Tunisia del XVII secolo, in “Levante”, XI, 1964, 46-62.

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Appendice I – Relazione della tragica morte di Mehemet Pascià Bey d’Algieri succeduta nel dì 11. di Dicembre dell’Anno 1754. Nel dì 11. Decembre dell’Anno 1754, sulle ore sette della mattina stava il Bey d’Algieri nel fondo della gran Loggia del suo Cortile assiso al solito sopra una specie di Muricciuolo, che gli tien luogo di Trono circondato alla lontana dalle sue Guardie, e più da vicino assistito dalli suoi Cancellieri, e dal suo Tesoriere, occupati tutti nella distribuzion della paga, che facevasi in quel tempo alle Soldatesche, le quali secondo il costume aspettavano nella Corte d’essere chiamate per riceverla. Quando un semplice Soldato, nominato Mahamet Susà, alla testa di alcuni sediziosi si avanzò bruscamente verso il Pascià, e presolo per mano come se volesse baciarla, con l’altra armata di una sciabla nascosta, lo ferì gravemente sul collo. Quello tentò di ritirarsi dalla sua sede per dar luogo alle Guardie di uccidere il fellone; esse fra il barlume mattutino non potevano discernere ciò che fosse seguito, né muovevansi dai loro posti. Il Dey, sostenendo la sua testa con le proprie mani, Come, disse, tanta mia gente così mi lascia uccidere da un furfante? Lo raggiunse allora il Ribelle, e con un colpo di Pistola lo uccise. Intanto alcuni dei sollevati uccidevano il gran Tesoriere, che trovandosi a sedere presso della Cassa (lxxix) pubblica senza difesa dovè soggiacere alla trista sua sorte. Posesi allora il Pretendente su la sedia Reale, e invitò gli altri a riconoscerlo con giuramento; furono sparate alcune fucilate dalle Guardie, ma non fecero grande effetto. Il nuovo Pascià gridò loro: Che fate? Noi siamo tutti Fratelli; io vi governerò con giustizia; non temete: tutto anderà secondo i vostri desiderj. Se questo Cane (accennando il Cadavero del Bey) governava ancor qualche Mese, il Paese già cadeva in man dei Cristiani. Già i nostri Corsari tornano senza prede: vedrete, vedrete la differenza. io già vi accresco di otto Saime (sono circa due lire Toscane) la paga. A queste voci furono abbassate le armi; e già pacifico sopra il suo Trono il Sign. Mahamet Susà domandava il suo Caftan, o sia il Manto di Pascià, ordinava il tocco del tamburo, che per qualche minuto si fece sentire, comandava che fosse alzata la gran Bandiera, che i timidi Schiavi alzarono a mezz’asta. I principali Ministri della Casa Reale trovavansi appunto alla Marina, o alle loro Case non informati del tumulto dei sediziosi. Non ostante però il Maggior Domo, ed il Cavallerizzo, che erano presenti alla scena, persuasi che non vi era da sperar sicurezza per nessuno sotto un simil governo, si avanzorono, e con voce autorevole comandorono alle Guardie di trucidare il Ribelle. Ancor titubavano; quando il Cavallerizzo sparando il primo colpo incoraggì tutti gli altri, che in poco (lxxx) d’ora distrussero a colpi di fucile tutti i Sollevati, che non potevano difendersi con armi sì disuguali; alcuni per altro gettando le armi, e mescolandosi fra la folla delle Soldatesche scamparono per allora dalla morte, e poi dalla Città, ma non però dal pericolo, che li accompagna per tutto il Regno d’Algieri. Pubblicatosi l’accidente confusamente per la Città, tutta la riempì di disordine, e di terrore. Temeva la maggior parte l’insurrezione dei Mori contro dei Turchi succe-

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duta altra volta, ed accompagnata dal saccheggio, ed eccidio universale. Ciascheduno assicurava la sua porta, ed armavasi nell’interiore della sua casa per difendere la sua vita, e le sue proprie ricchezze. Quando il cannone della Fortezza ci annunziò la pacifica elezione d’un nuovo Bey, ed il pubblico Banditore ci avvertì, che era caduta sulla persona del Sig. Alì Spahilar Agà, il quale non ha lasciato fin ora mezzo intentato per ristabilire la pubblica tranquillità. Tutto questo successe nel corto spazio d’un ora, durante la quale corse il massimo rischio di una total distruzione il Governo d’Algieri. Così terminò i giorni suoi in età di 70. e più Anni Mehemet Pascià Bey d’Algieri, il più savio, il più accorto, e più disinteressato Principe, che abbia regnato dopo la Epoca della Turca Dominazione (lxxxj).

Appendice II – Relazione della peste d’Algieri negli anni di Cristo 1752.1753. La Peste portata in Algieri dalle Occidentali Provincie di questo Regno (dove per molti mesi aveva fatto strage furiosa) per mezzo di alcuni infetti Passaggieri, che furono secondo il costume liberamente introdotti, manifestossi quì sul principio di Giugno dell’anno 1752. Si nascose al solito per un tempo il morbo maligno sotto colore di altre comuni malattie, finchè fomentato questo Fuoco segreto dai Venti umidi soffocanti Meridionali, che soffiarono nell’entrare di detto mese, si palesò alla fine generale l’Incendio nella Città. I Consoli delle Nazioni ed i Mercanti Europei si racchiusero nelle proprie Case muniti di tutto ciò che in simili critiche circostanze parve opportuno preservativo non sol contro il Male, ma contro la Fame, ed altri Disordini che sogliono esserne Conseguenze. In fatti alcuni giorni dopo essendosi intimoriti i Kabaili, o sieno Montanari, e i Piskari (al servigio della Città) tentando tutti fuggirsi, più non venivano le necessarie Provvisioni, né trovavasi chi volesse trasportarle. L’unico provvedimento preso dal Governo in simile circostanza fu d’intimare la forca ai fugiaschi (lj), ed obbligar con pari minaccia la Gente della Campagna a vendere al solito benché più care le lor Derrate. Provvedimento che ha prodotto fin’ora l’effetto desiderato, ma ha talmente sparso nelli vicini, e nelli remoti Villaggj la contagiosa influenza, che la desolazione ne è divenuta poco meno che universale. Fra i Mori Cittadini la maggior parte si è rifugiata nelle proprie Ville, che sono intorno alla Città abbondantissime: ma con scarso profitto, mentre comunicando eglino nel tempo stesso con la Città, forse in quantità maggiore morti ne sono nelle

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Campagne che non dentro le Case d’Algieri, dove il numero degli estinti a cinque mila ancor non ascende. Il caldo della Stagione pare che abbia contribuito assaissimo all’aumento di questo Male, avendo io osservato più d’una volta (benché non fu sempre l’esperienza costante) che nel crescere i gradi di quello, la forza pur di questo misurata col numero degl’infetti cresceva. E fortuna può dirsi, che nelle Case d’Algieri il Termometro non montò mai sopra il 28° grado (Termometro in cui 100. gradi segnano il calore dell’acqua bollente); poiché a questa Temperie sembra potersi attribuire la mediocrità della strage, che nelle interne mediterranee pianure è stata tanto più formidabile. Indizio pure della verità di questo Presunto si è il vedere, che nelle Case all’aperto (lij) il numero dei morti è stato solo un terzo di quel degl’Infetti, laddove nel Regio Ospedale Spagnuolo con tutte le possibili assistenze, perché racchiusi e ristretti, solo un terzo delli schiavi attaccati salvossi. E posto questo principio facilmente si deducono come sue conseguenze due Fenomeni, che sono stati riguardati dalla maggior parte, vale a dire dagl’Ignoranti come inesplicabili, e dai Superstiziosi come prodigj. Il primo, che la Peste ha attaccato per lo più solo i Franciulli (sic), o li adolescenti, e fra questi ha distinto i novelli Sposi. È ben vero, che siccome le Giovanette infette sono state in maggior numero che non i Maschj, così pare secondo il nostro supposto, che quelle non debbano essere di questi men calide, o i loro umori men facili a fermentarsi. Conseguenza che punto non disconviene con certi altri Fenomeni, che tutto dì si vedono nella loro macchina, e fra li altri il trovarsi esse generalmente dei Maschj più Elettriche. L’altro, che il Palazzo Reale abitato da molta gente, e da ogni sorta di persone quotidianamente frequentato è stato rispettato da questa universale Influenza, la quale non vi ha attaccato se non due Schiavi (il che pure similmente successe nell’ultima fiera Peste triennale, che distrusse un terzo della Città.) Del qual’accidente cessa la maraviglia, quando si osservi, che detta abitazione è (liij) la più vasta fra tutte le altre, la più ventilata, essendo la sola che gode il privilegio dell’esteriori finestre, e la più fresca ancora per l’abbondanza delle perenni Fontane, che la bagnano, le quali formano la più gentile, e la più stimabile fra le Turche delizie. Né gli due Schiavi attaccati formano una sufficiente obiezione per essere appunto essi Ministri sempre assistenti alla Regia Cucina, e privi perciò del fresco salubre ristoro di quel soggiorno. Notabile è stato altresì, e deducibile dalla stessa supposta cagione, che i Negri per effetto del loro Clima nativo quasi tutti di ardente temperamento, ed astretti dalla loro Schiavitù alli ufficj più penosi delle Famiglie, sono stati i primi ed i più maltrattati dal Morbo maligno, come appunto suol avvenire in Costantinopoli, nel Gran Cairo, e generalmente in tutto il Levante.

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I Piscari Nazione confinante con il Deserto, e per convenzione destinata a servire sotto un suo Capo ai bisogni pubblici della Città d’Algieri, sono stati anch’essi più degli altri percossi da questo mortale flagello; qual maraviglia? il loro ufficio faticoso, il loro vitto misero secco oleoso, il loro abito sporco, caldo, in ogni Stagione uniforme, dovevano necessariamente produrre simile effetto. Gli Ebrei pure non men che gli schiavi Cristiani sono stati nella frequenza degli attacchi distinti. Gli uni portati dall’uso, gli altri forzati dalla necessità a pascersi (liv) di cibi poco salubri, ed a convivere sempre fra loro affollati, straordinario sarebbe stato se fosse loro diversamente avvenuto. Laddove i Mori Nazionali, e le Turche Soldatesche tutti d’indole oziosa, e di vita laboriosa nemici, leggiermente vestiti, e di molta fresca bevanda amantissimi, per il frequente uso delle lavande, e dei Bagni puliti della persona, ed in generale degli altri più comodamente albergati, sono stati visitati dalla Peste degli ultimi, e in scarso numero. Al che può avere ancora contribuito l’uso assai comune fra essi (come fra tutta la Progenie degli Arabi) degli odori Aromatici o sparsi in acque stillate sulle lor Vesti, o sulle Carni, e sulla Barba in olj e mantechiglie versati, o finalmente in grani ed in polvere insieme col cibo, e la bevanda inghiottiti. Se si eccettuino gli Europei, niun Preservativo è stato usato dagli altri per difendersi dall’Infezione Pestilenziale; essendo creduti tutti dal maggior numero inefficaci, anzi da molti (intestati di Religioso Fatalismo) stimati ridicoli, e dalla Legge e dalla Ragion condannati. Pur non ostante grande è stato il consumo d’aceto, d’acque di Lavanda e di Rosmarino, delle quali assai difficile sarebbe il raccorne li effetti. Alcuni inoltre secondo l’uso del Levante, imparato (lv) probabilmente dai Greci, maneggiavano costantemente certa Pasta di Laudano Cretico il quale spira per questo mezzo una balsamica soave fragranza; non parlo della sciocca credulità di taluni, che supposero potersi liberar la Città dalla Peste per mezzo di Magici Scongiuri accompagnati da Superstiziose Cerimonie, né della sfacciataggine di certi Impostori, che si accinsero ad eseguirlo, per non empir queste carte d’inutilità, che risvegliano solo la compassione o il disprezzo. Varj al solito ed irregolari sono stati i Fenomeni personali di questa sempre stravagante malattia; l’uno si crede di essere stato attaccato per contatto immediato d’infetta materia; l’altro per il respiro di fetido alito pestilenziale; un terzo non sa attribuirlo ad un certo principio. Chi subitamente sentinne la sorpresa, chi gradatamente la distinse: chi per mezzo di dolor di capo insoffribile, chi di fastidiosa nausea, chi di vomito violento, chi di languida vertigine, chi d’involontario tremore, chi finalmente da acutissima improvvisa puntura del Bubone maligno avvertito; tutti Sintomi che bene spesso si sono trovati congiunti nel corpo degli Infermi appestati. Et in particolare quest’ultimo, dico il Bubone, il quale è in questo morbo così frequente, che quasi suo caratteristico gli ha dato il nome presso degli (lvj) Arabi, quantunque più di rado i

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Carbuncoli e le petecchie comparischino in suo luogo, e talvolta ancora le verghe rosse, pallide, e nere nel collo e nel petto, indizj quasi sicuri di morte vicina. La Febbre che accompagna il Bubone, suol essere veementissima e producente delirio finché detto tumore non è ben turgido, il che per lo più succede in due giorni, ed allora, se per anco vive l’Infermo, comincia essa a declinare, e con essa la smania, e l’insomnio; quindi a ristabilir la perduta appetenza, ed a rinvigorirsi le forze. Frattanto si matura, si rompe, si purga il tumore, e doppo lungo tempo si cicatrizza, ed il fortunato Infermo risana. Il detto Bubone (che maturo contiene materia verde fetida, purulenta) nel suo comparire dà segni quasi sicuri del grado di malignità della malattia. Poiché fa veder l’Esperienza che se egli fu mobile, vigoroso, turgo, acceso, e grosso (per esempio come una grossa cipolla) ben presto l’ammalato scampa dal suo pericolo; laddove se era fisso, debole, arido, oscuro, e piccolo, ben presto viene in conseguenza la morte. Il luogo della comparsa di questo tumore è stato per ordinario nelle glandule della coscia, benché spesso accompagnato da qualche altro nelle parotidi, e sotto le ascelle, o da carbuncoli nelle mani, nei piedi, e nel petto. Egli ben di rado dileguossi senza la successiva morte dell’Infermo, (lvij) ma ben più spesso giunto a suppurazione, e purgato gli diè la vita. Qualche trasgressione nella dieta, e più ancora qualche ardore di collera ha esacerbato il tumore, ed introdotto nuova pestifera, e più che mai pericolosa fermentazione nel sangue di quello, che avanti il disordine era prossimo allo stato di sanità. Anzi io stesso ho veduto in questo tempo un Giovine Ebreo, che in perfetta salute irritato da un Turco, acceso perciò di sdegno e di dispetto, sentì pungersi un dito della mano, ed in poco d’ora vi sollevò un grosso tumore, che accompagnato da febbre per molti giorni lo tormentò, finché maturato con grave stento, ed aperto replicatamente col ferro, e consumato con caustici alla fine ben purgato guarì. È ben vero che in ogni tempo gli effetti delle Passioni, in particolare della collera, e del timore, sono in questo clima straordinarj, producendo esse spessissimo una non breve frenesia, e non di rado di conseguenza la morte. Semplicissimo metodo, se pur metodo dee chiamarsi, è stato quello usato dai Mori per la Cura della Peste. Niuno rimedio han somministrato ai malati, ma lasciandoli al loro arbitrio, solo un Impiastro fomentativo alcuni han fatto loro applicare al tumore, e nella sua maturità aprirlo con la lancetta, e poi libero lasciare (lviij) al maligno umore lo sfogo. Ed a dir vero gran quantità d’Infetti sono per questo mezzo scampati: anzi diversi contar se ne possono, che temendo di essere abbandonati dalla famiglia hanno nascosto il lor male, e dopo i primi assalti febbrili continuando i loro soliti uffizj senza alcun rimedio, pur sono alla fine sanati. Ma non così nel Regio Spedale dei Schiavi, amministrato dalli Padri della Redenzione Spagnuoli, dove senza risparmio di spesa molti rimedi sono stati tentati per

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sollievo dei poveri Infermi, niuno dei quali ha prodotto sempre l’effetto desiderato, ma sol qualche volta con vario ed indeciso successo. Parvero opportuni sul principio gli abbondanti Salassi: ma si trovò poi che snervavano le forze del Paziente, mentre ne temperavan la febbre: giovevoli per un tempo si provarono i vomitivi: indi a non molto dannosi: i sudorifici creduti ottimi nel Levante, si trovarono qui inefficaci, forse perché non poterono usarsi sul bel principio del male: i soli purganti non ebbero un successo felicissimo: i Bezoardi, gli Alessifarmaci, gli assorbenti, non corrisposero sempre all’intenzione di chi li diè. Il sugo di limone sperimentato già per ottimo antipestilenziale forse per la sua qualità refrigerante insieme e astringente, non fu mai amministrato solo: io non ne sò la ragione. In fine secondo le relazioni del Medico di detto Ospedale (il quale fu nel numero degli infetti), e del suo Apoticario, niuno fra (lix) i tanti rimedi assegnati dai Maestri dell’Arte si sperimentò da loro sempre efficace; ma le cure più generalmente felici si eseguirono con leggieri purganti uniti ad Elettuarj, ed Alessifarmaci, Triache, Bezzoaria, Confezioni, Corno di cervo, Avorio polverizzato, Occhj di Granchio etc., accompagnati da limonate abbondanti; mentre il tumore maligno era con fomentazioni alla maturità stimolato, fra le altre con l’applicazione di rane vive, le quali si trovarono molto opportune, impregnandosi esse in tal circostanza di un umor nero livido, il quale fu creduto esser parte del fermento maligno, attratto simpaticamente dall’animale, o dal tumor trasudato giunto poi quello ad una molle turgidità; fu aperto al solito, e ben purgato, e curato col sistema degli altri tumori ordinarj. Tanto riferiscono gli due sopraccitati Ministri di questo Spedale, soggetti pieni di probità, e di prudenza intorno ai rimedj da loro somministrati alli Schiavi Cristiani dal Contagio attaccati. E tanto io riferisco intorno ai Fenomeni di una malattia, che non lascia impunemente esaminarsi ben da vicino, e in conseguenza non abbonda di osservatori; dico della Peste, che accesa sul principio del passato Giugno in Algieri, pare oggi intieramente estinta nella Città, e dalle ultime fresche pioggie temperate ancora nelle vicine campagne. Data in Algieri nel 10. di Ottobre 1752. (lx)

Parte seconda. Sistema generale di questa malattia La Peste che, come già si descrisse, fece strage di alcune migliaja di abitatori in Algieri durante l’Estate temperata del 1752., moderata poi dalle fresche pioggie Autunnali, ma non estinta (come pur si sperava), si mantenne tutto l’Inverno vagante mite, ed incerta per la Città, finché nel seguente Aprile. del 1753. col solito Termo-

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metro a gradi 14. ripullulò nuovamente con grande apprensione dei Cittadini (che il fatalismo rende bene imprudenti, ma non già coraggiosi). E prendendo ogni giorno nuovo vigore in tre mesi di tempo distrusse non meno di cinque mila Persone; e crescendo il Termometro in luglio sopra li 25 gradi. cominciò a snervarsi il fermento maligno. E giunto finalmente quello in Agosto sopra il 28. grado, questo dissipossi universalmente, e radicalmente per tutto l’ambito della Città. Sarebbe inutile di ripetere i sintomi che accompagnarono questa insigne malattia, dopo averli ampiamente descritti nell’anno scorso, non avendoci io potuto osservare da quel tempo veruna notabile differenza. Solo gioverà replicare per confermar li Europei nel savio uso delle prudenti loro cautele in simili calamitose circostanze (lxj), che niuno accidente Pestifero in due anni di Contagio è succeduto nelle nostre case ben custodite, eccettuata la morte di tre Servi, che furono convinti di avere infrante le leggi della contumacia, o per dir meglio della non comunicazion con gl’Infetti. Tempo sarebbe adesso che liberi siamo dagli insulti di questo Nemico quanto incognito, altrettanto temuto, mentre ancor freschi ci restano nella memoria gli suoi varj terribili effetti, di tentare di discoprire in essi la cagione e natura insieme di tal Morbo distruggitore, o sieno le peculiari proprietà della sua Esistenza. Sembrerà forse troppo ardito ad alcuno l’entrare a discutere una questione che pende da tanto tempo dal Giudizio dei Fisici; ma questo riguardo, che mi tratterà dal deciderla, non mi torrà però la soddisfazione di esporre in poche parole l’ingenuo mio sentimento. La Peste è una malattia. Non vi è chi il contrasti. I Maomettani medesimi che ignorantemente e superstiziosamente la caratterizzano col nome oscuro di Flagello Divino, pur essi ne curano la Febbre e i Boboni, onde a loro dispetto per malattia la confessano. Varie sono secondo le relazioni le accidentali origini della peste, e varie a mio parere le specie della medesima. In fatti quelle Epidemiche malattie conosciute sotto nome di Peste, che insorgono (lxij) qualche volta nei Campi Obsidionali, si sentono spesso dileguate con la traslazione del Campo in situazion più salubre, e con l’uso di migliori bevande; ciò che evidentemente dimostra, che come i mali scorbutici da infezzione dell’Aria e dell’Acqua principalmente dipendono; Ma la Peste propriamente così detta semina le sue stragi quasi indifferentemente per le paludose Valli e per le ventilate Colline, per i piccoli Borghi, e per le popolose Città. Il Nido di questo Morbo è l’Egitto, d’onde il commercio lo sparge per tutte le Contrade che han relazione con quella fertilissima Provincia. La sua Proprietà distintiva è il comunicarsi altrui per mezzo del contatto, ciò che conviene a tutti i morbi maligni, ma a questo in grado eminente, onde il nome di Contagio ha sortito fra noi. Da questi lumi generali, che sono stati conosciuti da tutti i Filosofi, crederono di

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poter dedurre generalmente, che la Peste fosse un veleno o Fermento, che dalle esalazioni del Nilo inondante annualmente si formasse, e li Egiziani prima infettasse, e negli Esteri poi per mezzo loro si trasondasse. Questa opinione quantunque non corredata di più esatte osservazioni, o di più accurata dottrina, regnò pure fra i Letterati, finché gli fu sostituito il Sistema degli Animalcoli, ai quali si volle in quel tempo attribuire dagli Innovatori indiscreti d’ogni malattia la cagione (lxiij). Io per me senza oppormi ai sentimenti di questi, o di quelli, dimanderò ai primi, come mai se il loro Fermento è prodotto dal Nilo, un sì generale malore non distrugge con li uomini ancor li Animali? come restano Abitatori in Egitto? come dovunque sono Paludi od acque stagnanti in Europa, non si sente pure regnare questa fatal malattia. Ed ai secondi pure domanderò, come mai essendo la Peste una congerie di Animaletti, essa non è trasportata dal minimo soffio di vento a qualche mediocre distanza nei Lazzaretti: come questo Insetto possa talvolta in un sol momento sconvolgere tutta la macchina dell’Infetto fino a produrre repentina morte al medesimo: come i Sudorifici nuocino per lo più alla sua propagazione: come la natura tenti espellere l’animale per mezzo di un Bubone, e come finalmente resista questo mortifero vivente bene spesso al più gran freddo dell’Inverno, e quasi sempre ceda al maggior calor dell’Estate? Con mille altre interrogazioni che si potrebber soggiungere, e che intrigherebbero sempre più la matassa dei due proposti Sistemi. Or se al primo di essi altra origine si attribuisse in luogo dell’alluvione del Nilo, allora sì che potrebbero tutte le questioni fatte a mio parere spiegarsi. Suppongasi (in grazia dell’Esperienza) che nella vastissima Città del Cairo (lxiv) mal provveduta di Erbe fresche per cibo, e di salubri Acque per bevanda, viva un numero infinito d’uomini affollati in strettissime case, i quali per la continua temperie del Clima, e per il frequente uso dei Bagni Troppo Caldi, e per la fomentazione degli abiti lanini, e per il quotidiano non interrotto fumar del Tabacco esalino dai loro corpi una quantità grande di vapori grassi, che si manifestan pur troppo all’odorato, acrimoniosi e pungenti, i quali si ammassino nei loro abiti, che la miseria non lascia loro cambiare, finchè resa rancida, corrotta, ed esaltata questa evaporata materia divenga essa il supposto fermento venefico distruggitore. Ecco che questa corruttela di umana sostanza essendo ben di rado omogenea alla tessitura degli altri animali, pur ben di rado potrassi loro comunicare, e solo quegli uomini attaccherà che si troveranno disposti ad una tale alterazione di umori, e che incontrerannosi dentro la sfera di attività di quel primo Fermento esalante fatale. Ecco che non dovunque saranno pantanose lagune, germoglierà la Peste, ma sol dove viverà troppo numero di uomini ristretti, mal nutriti, mal ventilati, mal vestiti, in vita laboriosa, e stentata. Ecco che l’immediato o quasi immediato contatto divien necessario per la comunicazione di questa Peste, né può il vento trasportarla se non molto d’appresso, o sol per mezzo di più solida materia contaminata (lxv).

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Ecco che in pochi istanti (trovandosi il Corpo umano disposto e la materia morbifica tanto omogenea) può talvolta il fermento maligno attaccare direttamente li Spiriti in vece d’insinuarsi nel Corso sanguigno, e disturbandone subito l’ordine ridurre il Cuore umano in Parosismi mortali. Ecco che i Sudorifici possono esser molto giovevoli al nostro Male, tenendo aperti i pori esalanti, ed ajutando così la natura ad espellere le particelle maligne che si erano insinuate nel Corpo. Ecco che il vapore Pestifero può benissimo essere adunato dalla natura per mezzo di filtro o altrimenti in certe glandule particolari, per disloggiarlo dal resto del Corpo, e lasciarlo quivi maturare per poi purgarlo locerando ella stessa quel suo nuovo vaso Escretorio. Ecco finalmente che non sempre il Freddo invernale potrà distruggere il contagioso malore, difendendosi questo e sostenendosi con lo stesso calore vitale, mentre il più vivo ardor dell’Estate potrà spesso dissiparlo o tutto volatilizzandolo, o sciogliendo troppo e disgregando le sue parti, dalla union delle quali forse la efficacia fermentativa dipende. È da osservarsi, che oltre lo spiegare in questo sistema (con chiarezza uguale alle altre questioni di Fisica) i Fenomeni che si objettarono agli altri, questa Ipotesi dilucida ancora mille altri accidenti della malattia Pestilenziale, che si chiamano Stravaganti appunto perché non s’intendono (lxvj) come sarebbe, perché talvolta la Peste si è sfogata nei vecchj, talvolta nei fanciulli, talvolta ha preso di mira li maschj, e talvolta le femmine: come l’uso dei balsami, e più la vivace letizia purchè non violenta, preservi dal Morbo: perché più in Egitto e fra i Negri che in Costantinopoli, più in Costantinopoli che in Salonicco, in Aleppo, ed altre minori Città si conservi, e si perpetui la Peste. Ai quali accidenti potrà facilmente ciascuno assegnar la cagione dedotta dalla supposizione, che la Peste non sia una Massa di Animaletti maligni venefici, non una velenosa Putredine originata dal sedimento del Nilo, ma un Fermento Animale corrotto e corrompente prodotto dai pingui vapori exsudati ed esalanti dai Corpi di Uomini che vivono miseramente, sordidamente, laboriosamente, ed in troppo gran numero, ed affollatamente adunati, tanto più se le circostanze del clima dieno un aumento accessorio alla rancida esaltazione di quella affluenza maligna. Mentre io troncherò questo breve ragionamento, osservando che questa nuova opinione, (se non vuol dirsi sistema) mostra chiaramente dentro a quai limiti debba ristringersi quella Proposizione ammessa generalmente (e forse troppo leggiermente) dai dotti, cioè che la provida Natura abbia ordinato la Peste alla distruzione dei troppo numerosi Abitatori della Terra. In Algieri il dì I. maggio 1754 (lxvij).

capitolo nove | 163

Gli stati barbareschi nella Histoire philosophique et politique des deux Indes (1770)

Nella seconda metà del ’700 si estendeva ancora nel Mediterraneo la guerra corsara che univa in una trama di avventurose vicende le opposte sponde degli stati europei e dell’Africa del Nord islamica. L’attività dei corsari barbareschi di Algeri, Tunisi e Tripoli era allora favorita dalla rivalità anglo-francese, e si rivolgeva in particolare contro le marine e le coste delle potenze minori, mentre a loro volta dai paesi europei muovevano, talora con il tacito consenso dei governi, navi corsare non meno audaci e pericolose. La rivalità ed i contrastanti interessi delle grandi potenze continuavano ad impedire che si svolgesse contro le reggenze maghrebine un’azione militare coordinata e decisiva tale da stroncare per sempre la minaccia barbaresca. I governi europei preferivano concludere accordi con gli stati musulmani e garantire, sia pure attraverso il pagamento di gravosi tributi, l’immunità ed il rispetto per le navi e per le coste del proprio paese. Dinanzi al perdurare di siffatta situazione si levavano nel mondo cristiano voci esortanti ad una rinnovata ‘crociata’ contro i musulmani e venivano presentati minuziosi progetti per riconquistare all’Europa questo o quel porto nord-africano e per condurre a rovina l’una o l’altra delle reggenze. Tra queste voci si leva, nella seconda metà del XVIII secolo, quella d’un erudito e animoso ‘abate’ francese, l’ex gesuita Guillaume Thomas François Raynal. Quella voce, pur animata da uno spirito nuovo e tutta pervasa dalla fede illuministica del secolo, appare in verità, per quel che afferma a proposito degli stati maghrebini, in pieno contrasto con l’immagine, consolidata dalla critica lungo oltre un secolo, di un Raynal massimo fautore dell’anticolonialismo settecentesco. Come tale è stato consacrato nel 1951 da Gabriel Esquer nel L’Anticolonialisme au XVIIIe siècle: Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, il quale scrive che l’Histoire «was the greatest single arsenal of the anticolonial sentiment vaguely diffused throughout eighteenth-century France» o anche che essa «contains a more complete record of the eighteenth century French phi-

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losophic opinion than the complete works of any other single author» (1). Quell’anticolonialismo e antischiavismo si riferivano invero alla conquista e al governo da parte europea dei territori scoperti e/o occupati propriamente nell’‘oltremare’ (nelle Americhe, in Asia, nell’Africa negra) e non al vicino Maghreb mediterraneo (2). Raynal, nato nel 1713, fu educato dai gesuiti ed entrò poi nella loro Compagnia. Ma il carattere indipendente ed ambizioso lo condusse nel 1748 ad abbandonare la tonaca ed a cercare nell’attività di pubblicista il successo e il guadagno che desiderava. Si introdusse così nella società colta del tempo, ove strinse fervide amicizie, non ultima quella con Jean-Jacques Rousseau. Nel frequentare salotti e circoli Raynal ascoltava relazioni di viaggi e discussioni sui problemi dell’attualità politica e scientifica e raccoglieva in tal modo quell’ampio materiale a cui avrebbe dato ordinata espressione nella sua Histoire philosophique et politique (3). L’opera sua più nota, l’Histoire appunto, apparve anonima e con l’indicazione di Amsterdam nel 1770, ma l’autore fu presto riconosciuto ed il suo nome apparve esplicito nella edizione del 1780 (4). L’ostilità insorta sin dal primo apparire contro l’opera che combatteva l’assolutismo dei sovrani ed accusava apertamente il clero, giunse allora ad ottenerne la condanna. Nel

(1) W.R. WOMACK, Eighteenth-century Themes in the “Histoire philosophique” of Guillaume Raynal, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [a cura di Th. Besterman], Banbury 1972, (131-265) 137 e 261. (2) ID., 140-163 e 163-172 offre una puntuale analisi rispettivamente dell’Anticolonialism e della Slavery nelle idee del Raynal. (3) Per la biografia del Raynal resta tuttora valido A. FEUGÈRE, Un précurseur de la Révolution. L’abbé Raynal (1713-1796), Paris 1920 (ristampa, da noi seguita, Genève 1972), al quale dobbiamo anche la Bibliographie critique de l’abbé Raynal, Angoulême 1922. Negli ultimi anni la bibliografia si è molto arricchita; fra l’altro: G. BANCAREL, G.T. Raynal: philosophe des Lumières, Toulouse 1996. (4) Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, 1a ed. Amsterdam 1770, voll. 4; 1a revisione Amsterdam 1773-1774, voll. 7; 2a revisione: Ginevra 1780, voll. 10 e atlante; 3a revisione: postuma, Paris 1820, voll. 12 e atlante. Le citazioni nel testo seguono l’esemplare della mia biblioteca: Amsterdam 1773, precisamente il volume IV di sette. Sul successo editoriale dell’opera: G. BANCAREL, Eléments de la stratégie éditoriale de Raynal, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [Raynal, de la polémique à l’histoire, a cura di G. Bancarel e G.L. Goggi], 12/2000, 121-131. Sulle varianti delle principali edizioni hanno acutamente indagato diversi autori, fra i quali: H. WOLPE, Raynal et sa machine de guerre: l’Histoire des deux Indes et ses perfectionnements, Paris 1957, e i contributori al volume “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [L’ Histoire des deux Indes. Reécriture et polygraphie, a cura di H.J. Luesebrink e A. Strugnell], 333/1995. Vedi anche nota 5.

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maggio 1781 i volumi dell’ex-gesuita vennero bruciati e l’autore, costretto a lasciare la Francia, andò peregrinando per l’Europa, dapprima in Belgio, poi a Berlino, nel marzo 1782 (e in maggio a Potsdam incontrò il re Federico II, alla cui corte fu accolto con ammirazione), infine a Losanna (1783-1784). Seguì un lungo esilio in Provenza – fra l’altro, a Tolone e a Marsiglia – sino al ritorno a Parigi nel 1791, nel tumulto della Rivoluzione. L’estrema sinistra dell’Assemblea Nazionale, che ne aveva ordinato il richiamo, contestò il messaggio, invitante alla moderazione che Raynal le rivolse (31 maggio 1791), insieme a Malouet e Clermont-Tonnerre. Da allora e sino alla morte, seguita a Chaillot il 6 marzo 1796, il vecchio abate restò in disparte, amareggiato e in cattive condizioni economiche. L’Histoire philosophique, alla quale era affidata la sua fama, ebbe invero ampia e profonda influenza nei due decenni che precedettero la Rivoluzione, benché fosse stata – come ha scritto un critico di un secolo fa – «à la fois mal composée et mal écrite» ed egli avesse preso «de toutes mains de travaux tout faits, articles fournis par ses amis, morceaux empruntés à des écrits imprimés» senza darsi la pena «de fondre ces matériaux dans son propre récit»; lo stesso autore riconosce però che «l’Histoire philosophique et politique des deux Indes a eu plus d’influence sur la Révolution française que le Contrat social lui même» (5). Uno studioso dei nostri giorni ha confermato che essa «was for twenty crucial years, 1770 to 1790, one of the most widely read, and possibly most influential literary works in France and western Europe» e che «was as popular as it was prestigious»; un altro ancora l’ha ritenuta «il testo politico più significativo del periodo che precede la Rivoluzione francese» (6). Nella redazione della Histoire intervenne in verità un altro e ben più famoso autore, Denis Diderot, al quale si devono parte almeno dei giudizi e dei commenti più ispirati alle idee illuministiche. Secondo una testimonianza riportata dall’erudito Sainte-Beuve, Raynal avrebbe «abandonné à Diderot la refonte de son grand ouvrage, où celui-ci a inséré toutes ses déclamations qui le déparent»; il noto critico di un secolo fa rileva scandalizzato:

(5) Sulla ‘compilazione’ della Histoire vedansi G.L. GOGGI, La méthode de travail de Raynal dans l’ Histoire des deux Indes, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century”, 333/ 1995, 325-356 (vedi anche nota 4) e C.P. COURTNEY, L’art de la compilation de l’ Histoire des deux Indes, ivi, 307-323. (6) Le citazioni rispettivamente da E. SCHERER, Études sur la littérature au XVIIIe siècle, Paris 1891, 275-278, WOMACK 1972, 133 e 134 e G. RICUPERATI, Il pensiero politico degli illuministi, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, a cura di L. Firpo, IV, Torino1975, 302 (su Raynal 301-307).

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Lumi e corsari Raynal se laisse monter la tête par Diderot, au point de lui livrer son œuvre chérie, de l’aliéner comme une matière de librairie, comme un pur canevas, pour qu’il y insère des tirades d’un certain genre!

Il suo giudizio sul nostro autore è dunque in conclusione piuttosto severo: malgré son savoir, son vaste magasin de connaissances, traversées par un mouvement d’idées incontestable, on se demande s’il était autre chose, dans son siècle qu’un infatigable moulin à conversation (7).

L’opera riscosse comunque un notevole successo attestato dalle tante successive edizioni e dalle traduzioni che se ne fecero all’estero. In italiano venne tradotta dal patrizio reggiano Remigio Pupares nel 1775 e presentata al pubblico con grandi elogi come una delle opere più «solide ed esatte che siano comparse nel nostro secolo tanto fecondo di libri», nella quale «allo spirito guerriero, feroce e soverchiatore de’ passati secoli, si è sostituito il carattere della soave civile tolleranza, dell’umanità benefica, e della ricchezza giusta» (8). All’Africa settentrionale nel suo insieme sono dedicati i primi tre paragrafi del Libro XI, dei quali riportiamo il sommario: De l’ Afrique ancienne et moderne. Les Sarrasins en chassent les Romains. Les Turcs envoyent Barberousse à Alger qui s’en rend maître, de même que de Tunis et de Tripoli. Du Dey ou Chef de ces Républiques. De l’empire de Maroc. Des Arabes, de la Barbarie, et de leurs pirateries. Projet de Charles-Quint pour les détruire, mais en vain, quoique l’exécution en seroit facile. Commerce des Européens avec les États Barbaresques, et avec la côte occidentale d’Afrique.

(7) CH.A. SAINTE-BEUVE, Nouveaux Lundis, XI, Parigi 1910, 313-314; l’intero scritto, che risale al 1868, alle pp. 311-320. Sui rapporti con Diderot vedansi M. DUCHET, Diderot et l’ Histoire des Indes ou l’écriture fragmentaire, Paris 1978; G.L. GOGGI, Quelques remarques sur la collaboration de Diderot à la première édition de l’Histoire des Indes, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [Lectures de Raynal en Europe et en Amérique au XVIIIe siècle, a cura di H.J. Luesebrink e M. Tietz], 286/1991, 17-52; E. MARTIN-HAAG, Diderot, interprète de Raynal, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century”, 12/2000, 187196. Su altre fonti e collaboratori di Raynal per le notizie sul Maghreb vedansi: BRAHIMI 1972, ID. 1977 e THOMSON 1983. (8) Storia filosofica e politica degli stabilimenti e del commercio degli Europei nelle due Indie, opera dell’abate Raynal della Società Reale di Londra e dell’Accademia delle Scienze di Berlino, tradotta dal francese da Remigio Pupares, nobile patrizio reggiano, Ginevra 1775, voll. 8. La citazione è dal vol. I, VII. Seguirono altre edizioni negli anni successivi.

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Il testo inizia invero con alcune considerazioni, come di raccordo con i paragrafi finali del Libro X – sulle guerre fra inglesi e francesi, e poi anche spagnoli, nel 1759 e nel 1763 per il controllo dell’Atlantico. Del continente africano nel suo insieme si dice esso «est une région immense qui ne tient à l’Asie que par une langue de terre de vingt lieues, qu’on nomme l’isthme de Suez, lien physique et barrière politique que la mer doit rompre tôt ou tard» (9). A proposito dell’Africa settentrionale, il «pays connu depuis plusieurs siècles sous le nom de Barbarie» viene distinto dall’Egitto – di cui si sottolinea la “décadence entière”. Dopo aver rilevato che «rien n’est plus ténébreux que les premiers âges de cette immense contrée» (l’antica Libia, ovvero gli stati barbareschi), si ricorda soltanto il conflitto fra Roma e Cartagine, a conclusione del quale «le peuple commerçant devint l’esclave du peuple guerrier». I romani vincitori vennero poi scacciati dai vandali, sopraffatti più tardi dalla riconquista bizantina. Ecco come viene sintetizzata la successiva conquista islamica nel VII secolo: Les Sarrasins redoutables par leurs institutions et par leurs succès, armés du glaive et de l’alcoran, obligèrent les Romains, affoiblis par leurs divisions, à repasser les mers, et grossirent de l’Afrique septentrionale la vaste domination que Mahomet venoit de fonder avec tant de gloire. Les lieutenans du Calife arrachèrent dans la suite ces riches dépouilles à leur maître; ils érigèrent en états indépendans les provinces commises à leur vigilance (10).

Nessun cenno ulteriore sull’età che noi diciamo medievale e sino al XVI secolo quando gli abitanti di Algeri, oppressi dalla minaccia spagnola, chiesero soccorso all’impero ottomano. Inviati dal sultano, i fratelli Barbarossa diedero vita alla reggenza d’Algeri e poi a quelle di Tripoli e di Tunisi: La Porte leur envoya Barberousse, qui, après avoir commencé par les défendre, finit par les asservir. Les Bachas qui lui succédèrent, ceux qui gouvernoient Tunis et Tripoli, villes également subjuguées, et opprimées, exercèrent une tyrannie heureusement assez cruelle, pour devoir expirer dans ses excès. (9) RAYNAL 1773, 123. Dell’Africa a sud del Sahara si parla in altre parti. A proposito delle descrizioni e dei giudizi di Raynal sull’Africa e gli africani vedansi H. KHADHAR, La description de l’ Afrique dans l’ Histoire des Indes, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [L’ Histoire des deux Indes. Reécriture et polygraphie, a cura di H.J. Luesebrink e A. Strugnell], 333/1995, 149-155, e J.C. HALPERN, L’Africain de Raynal, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century” [Raynal, de la polémique à l’histoire, a cura di G. Bancarel e G.L. Goggi], 12/2000, 235-242. (10) RAYNAL 1773, 124-126.

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È interessante vedere in quali termini l’abate Raynal descrive il sistema di governo di quegli stati: C’est une espèce d’aristocratie. Le chef, qui sous le nom de Dey conduit la république, est choisi par la milice qui est toujours Turque, et qui compose seule la noblesse du pays. Il est rare que ces élections se fassent entre des soldats sans effusion de sang, et il est ordinaire qu’un homme élu dans le carnage soit massacré dans la suite par des gens inquiets qui veulent s’emparer de sa place ou la vendre pour s’avancer.

L’impero del Marocco, nonostante fosse retto da una monarchia ereditaria «est cependant sujet aux mêmes révolutions. L’atrocité des souverains et des peuples est la source de certe instabilité» (11). In un cenno sulle popolazioni del Maghreb l’autore distingue gli arabi dell’interno, dediti ad una vita primitiva di nomade pastorizia («pasteurs errans sans domicile»), da quelli della costa ove sorgono le fiorenti città, animate di traffici, arricchite dall’esercizio della corsa. A proposito dei primi, affiora la simpatia, tutta illuministica, verso il ‘buon selvaggio’; essi sono infatti «ce que devoient être les hommes des premiers âges». Alle loro «heureuses mœurs» si contrappongono quelle degli abitanti della costa, i quali sarebbero divenuti ‘pirates’ (si noti l’uso di questo termine e non di quello di ‘corsaires’) per avversione ai lavori dei campi e agli «arts sédentaires» (12). La guerra corsara era stata dapprima rivolta contro le coste della Spagna, precisamente dell’Andalusia e della Catalogna, ma in seguito si estese a tutto il Mediterraneo secondo la curiosa motivazione riferita da Raynal: Dédaignant dans la suite le butin qu’ils faisoient sur des terres qu’ils avoient autrefois cultivées, ils construisirent de gros vaisseaux et insultèrent le pavillon de toutes les nations.

Con riferimento all’attività corsara l’autore osserva: Cette marine qui s’est élevée successivement jusqu’à former de petites escadres, s’accroît tous les ans par l’avidité d’un grand nombre de chrétiens qui fournissent aux Barbaresques les matériaux de leur armemens, qui s’intéressent dans leurs courses, qui osent même quelquefois diriger leurs opérations. Déjà ces pirates ont réduit les plus grandes puissances de l’Europe à l’avilissement de leur

(11) RAYNAL 1773, 127. (12) Ivi, 127-128.

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faire des présens annuels, qui sous quelque nom qu’on les déguise, sont un vrai tribut. De l’hommage à la dépendance, à la soumission, il n’y a qu’un pas (13).

A Raynal non sfuggì dunque che lo stesso mondo cristiano procurava in vario modo un forte sostegno alla persistenza e al potenziamento della attività corsara dei barbareschi, anzitutto attraverso i costanti rapporti commerciali nonché grazie ai ‘rinnegati’ europei, che recavano nel Maghreb competenze e conoscenze di luoghi e di ambienti. Altrettanto sdegno suscitava nell’autore della Histoire la pratica, seguita dai primi decenni del Settecento da numerosi stati europei, di rinunciare ad una azione militare risoluta, ancor meglio se coordinata fra più stati, diretta contro i barbareschi nell’intento di porre fine alla loro attività corsara e, invece, preferire di contrattare con essi la pace, corrispondendo loro compensi in denaro o in natura, che potevano apparire come veri e propri ‘tributi’. In questo modo alcuni stati si assicuravano l’immunità per le proprie navi e i propri cittadini; ma non solo, lasciavano che la capacità d’azione dei corsari si concentrasse ai danni di altre marine, ponendone in difficoltà la capacità operativa e di concorrenza. Nell’articolo, da me pubblicato nel 1959, che è all’origine di questo capitolo della presente raccolta, segnalavo l’importanza di quelle osservazioni dell’abate illuminista, le quali attendevano d’essere corroborate da testimonianze e riferimenti specifici più numerosi. Quale esempio riportavo un passo della preziosa e famosa, ma tuttora inedita, Histoire Chronologique du Royaume de Tripoly, di ignoto autore: Sembra strano che, in un paese dove non vi sono materiali adatti per la costruzione di vascelli, se ne trovi così gran numero per razziare il mare. Ma Tripoli prende il legname dall’Anatolia e dall’Egitto; il ferro da Tessalonica; il cordame da Smirne, da Alessandria e, a vergogna dei cristiani, malgrado il divieto del Papa e dei sovrani europei, i mercanti di Francia, d’Italia e d’Inghilterra portano tele per vele, spade, moschetti, piombo, ecc. e i tripolini dai vascelli che catturano traggono ciò che abbisogna per costruirne altri (14).

La pubblicazione di numerosi altri testi e documenti sugli stati barbareschi, nel corso del quarantennio e più da allora trascorso, ci consente di scorgere ormai con molta evidenza quanto fosse essenziale per i maghrebini il rapporto (13) Le due citazioni ivi, 128-129. (14) Sull’Histoire chronologique e sulla possibile identità dell’autore cfr. S. BONO, Fonti inedite di storia della Tripolitania, in “Libia”, 1/1953, 117-121, che si rifà alla indagine di P. TOSCHI, Le fonti inedite della storia della Tripolitania, Intra 1934. Il passo è citato in traduzione italiana da G. CERBELLA, Mare e marinai in Libia, in “Libia”, 3/1955, 32.

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stretto e costante con quegli stessi stati europei dei quali molestavano i traffici mercantili e catturavano i cittadini. Da un lato infatti, la commercializzazione del bottino, condizione essenziale per realizzare i profitti dell’attività corsara, avveniva in gran parte in direzione degli stessi stati ‘vittime’ dei ‘pirati’, come si usava comunemente chiamarli (15). D’altra parte i donativi o tributi corrisposti da alcuni stati europei ai governi barbareschi comprendevano attrezzature e materiali vari di carattere strategico (come legname, tele, piombo, catrame, cordami, polvere da sparo ecc.) indispensabili per l’esercizio dell’attività corsara. Così ricorda, per esempio, nel 1781, il console francese ad Algeri, Vallière: Le Roi du Danemark envoie tous les ans, comme en tributs à la Régence d’Alger un bâtiment chargé de boulets, de poudre, de câbles, de cordages, de mâtures, de planches et de goudron. Ce bâtiment est escorté par une frégate. Ces divers effets sont reçus avec orgueil. On en fait des épreuves et une vérification rigoureuse.

Più avanti Vallière menziona anche gli invii annuali dall’Olanda, secondo le richieste specificate dagli algerini, fino all’ammontare della somma convenuta, e commenta infine: Toutes les puissances ont poussé trop loin les complaisances pour les barbaresques. Ces peuples sont devenus forts et redoutables par leurs propres soins. Elles leur ont fourni des armes, et des munitions de toutes espèces, qui ont déjà été tournées ou se tourneront contre elles. Quand on est en paix avec des bandits, avec des gens sans mœurs et sans lois, on doit penser que cet état ne pourra pas durer, tôt ou tard la guerre renaîtra. Les secours qu’on leur a fournis la précipite même, ou les a mis en état de ne pas la craindre, ils bravent, ils insultent, ils commettent mille brigandages. Ils soutiennent par la force leur penchant à la scélératesse, et leurs bienfaiteurs sont leurs premières victimes (16).

Il testo del nostro illuminista prosegue con l’espressione di un allarmato timore nei riguardi del ‘pericolo barbaresco’ al quale si attribuisce una potenzialità del tutto irrealistica, nonché con un cenno ad una singolare ipotesi di espansione dell’Islàm nel continente americano:

(15) Sulla distinzione fra corsari e pirati, e più in generale sulla guerra corsara e la pirateria, il commercio delle prede e gli altri fenomeni connessi si veda quanto detto negli altri capitoli e negli scritti di Bono e di altri autori citati nella Bibliografia. (16) VALLIÈRE 1781, 50 e 53.

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Pour peu que leurs forces augmentent, on ne pourra plus naviguer sans leur passe-port; et peut-être un jour auront-ils l’ambition de s’établir de nouveau sur notre continent, ou d’aller nous disputer la possession de l’Amérique. Si le mahométisme entroit dans le nouveau monde, il y feroit bien d’autres progrès que le christianisme. Une religion née sous la zone torride, doit l’occuper toute entière avec le temps (17).

Il timore appare certamente esagerato se riferito alla situazione reale negli anni in cui Raynal compilava la sua opera, ma è in qualche modo spiegabile se si considera l’intensità avuta dalla minaccia corsara musulmana nei secoli precedenti e l’audacia che ancora allora animava le agili e sfuggenti squadre barbaresche. Quanto alla previsione di possibile espansione dell’Islàm, come religione e civiltà, sarebbe interessante ritrovare eventuali anticipazioni o seguiti anche in altri autori. Raynal ricorda con parole d’elogio le imprese, sia pur vane, dell’imperatore Carlo V, al quale attribuisce una chiara consapevolezza del pericolo che i barbareschi «pourroient un jour devenir», in particolare, aggiungiamo, per la sicurezza dei suoi domini mediterranei. Passa poi ad esporre le sue convinzioni sulla sorte degli stati barbareschi e sull’azione concorde che le ‘nazioni’ europee dovrebbero intraprendere contro di essi. Il suo discorso va oltre il progetto d’una spedizione contro gli stati corsari per imporre loro la sospensione di ogni attività corsara e la liberazione degli schiavi cristiani in loro possesso. L’abate illuminista formula un preciso programma di carattere colonialista, pur se gestito da una intesa fra gli stati europei e animato dal proposito di far ‘progredire’, in senso morale e materiale, quei popoli. Possiamo ritenere in buona fede quel proposito nell’animo dell’autore come di altri, ma nondimeno non possiamo non scorgerne le radici in una fede assoluta nella superiorità europea, che per l’abate è la superiorità dei Lumi. Ecco i termini in cui il progetto viene espresso: Mais à quel peuple est-il réservé de briser les fers que l’Afrique nous forge lentement, et d’arracher ces épouvantails qui glacent d’effroi nos navigateurs? Aucune nation ne peut le tenter seule; et si elle l’osoit, peut-être la jalousie de toutes les autres y mettroit-elle des obstacles secrets. Ce doit donc être l’ouvrage d’une ligue universelle. Il faut que toutes les puissances maritimes concourent à l’exécution d’un dessein qui les intéresse toutes également. […] Qu’après s’être si souvent unis pour leur destruction mutuelle, ils prennent les armes pour leur conservation. La guerre aura été du moins une fois utile et juste (18).

(17) RAYNAL 1773, 129. (18) Ivi, 131.

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La facilità di una impresa militare contro le reggenze nord-africane risiedeva – secondo Raynal – nel fatto che le popolazioni locali erano malcontente del tirannico regime che le governava e ne avrebbero quindi favorito il rivolgimento, mentre lo stesso impero ottomano non era interessato al mantenimento di quei governi che solo formalmente ne riconoscevano la ‘protezione’: Les peuples qui habitent la Barbarie gémissent sous un joug qu’ils sont impatiens de rompre. […] Esclaves de quinze ou vingt mille Turcs ramassés dans les boues de l’empire Ottoman, ils sont de cent manières différentes la victime de cette audacieuse soldatesque. […] Nul secours étranger ne retarderoit d’un instant sa chûte. La seule puissance qu’on pourroit soupçonner d’en désirer la conservation, l’empire Ottoman, n’est pas assez content du vain titre de protecteur qu’on lui accorde, pour y prendre un vif intérêt.

Le espressioni sono ancor più severe nei confronti del sultano del Marocco: Le tyran de Maroc se joue insolemment de la liberté, de la vie de ses sujets. Ce despote, bourreau dans toute la rigueur du terme, expose tous les jours aux murs de son palais ou de sa capitale, les têtes innocentes ou criminelles qu’il n’a pas frémi d’abattre de son propre bras (19).

Il sultano era allora Muhammad ben Abdallàh (1757-1790), «souverain pacificateur», il quale «rétablit l’ordre, restaure l’autorité chérifienne et reconstruit un pays ravagé»; non è noto invero per particolare durezza e crudeltà, concordemente attribuite invece dalla maggior parte delle fonti a Mulay Ismail (1672-1727). Abdallah cercò, pur fra molte difficoltà, di potenziare le forze marittime dell’impero e l’attività corsara che aveva il suo centro a Salé; suscitò perciò reazioni armate della Francia e della Spagna. Con molti stati europei concluse trattati di commercio e di amicizia (20). Nella Histoire philosophique troviamo, direi per la prima volta, l’espressione di una fallace opinione, pur a lungo ripetuta durante il secolo XIX e sino al compiersi della spartizione europea dell’Africa settentrionale, che cioè le popolazioni arabo-berbere, ostili al governo turco, avrebbero favorevolmente accolto la conquista e l’amministrazione di una potenza europea. All’origine di questa opinione sembra esservi un pregiudizio, fatto di ignoranza e di disprez-

(19) RAYNAL 1773, 129-130. (20) Il riferimento a Muhammad ben Abdallàh è in LUGAN 1992, 182. Sul Marocco nel XVIII secolo si vedano numerose voci nella Bibliografia.

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zo verso quelle popolazioni, alle quali si stentava a riconoscere una coscienza di sé e una aspirazione alla libertà e all’autonomia. Condotta di comune accordo dalle potenze europee, l’impresa risulterà rapida e agevole; l’abate Raynal ritiene che debole resistenza sarà opposta dai sudditi di sovrani tirannici, e così forse – egli si chiede – avverrà che «la plus noble, la plus grande des entreprises, coûteroit-elle moins de sang et de trésors à l’Europe, que la moindre des querelles dont elle est continuellement déchirée?» (21). Lo spirito illuministico dell’abate Raynal, il sentimento di umanità e di fratellanza universale, l’entusiastica fiducia nel potere dell’umana ragione, lo conducono ad una visione più ampia e più elevata dell’avvenire di quei popoli e di quelle terre. Non bisogna limitarsi «à combler des rades, à démolir des forts, à ravager des côtes. Des idées si étroites seroient trop au-dessous des progrès de la raison humaine». I paesi conquistati saranno forse ‘affiliati’ alle potenze europee e la sicurezza del nuovo possesso dovrà essere assicurata dal benessere dei sudditi, resi partecipi dei valori raggiunti dalla civiltà europea, di quei «lumi» in cui tanta fiducia riponevano l’autore dell’Histoire philosophique e gli uomini del suo secolo. L’abate Raynal già presagisce il rinnovamento di quei popoli e di quei territori: Ces peuples de pirates, ces monstres de la mer, seroient changés en hommes avec de bonnes loix et des exemples d’humanité. Elevés insensiblement jusqu’à nous par la communications de nos lumières, ils abjureroient avec le temps un fanatisme que l’ignorance et la misère ont nourri dans leurs âmes; ils se souviendroient toujours avec attendrissement de l’époque mémorable qui nous auroit amenés sur leurs rivages.

Con entusiasmo visionario Raynal già vede colture agricole estendersi su terreni ora incolti, scambi commerciali alimentati da quelle produzioni e dai prodotti delle manifatture europee, più intense e regolari comunicazioni fra le opposte rive, fra «peuples qui se rencontrent nécessairement”, sì che “ce nouveau genre de conquête qui s’offre à nos premiers regards, deviendroit un dédommagement précieux de celles qui depuis tant de siècles font le malheur de l’humanité» (22).

(21) RAYNAL 1773, 131-132. (22) Le citazioni ivi, 132-133.

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All’entusiastico slancio dei passi riportati segue nel Raynal un moto di sfiducia: forse gli europei non sapranno mantenere la necessaria concordia, forse non vorranno rendere liberi e civili i popoli dei territori occupati, forse estenderanno in quelle terre l’ingiustizia e il fanatismo contro cui si è levata in Europa la civiltà dei Lumi. Se dunque – conclude con accenti che per noi suonano fra retorici e ingenui: si la réduction et le désarmement des Barbaresques ne devoient pas être une source de bonheur pour eux comme pour nous; si nous ne voulons pas les traiter en frères; si nous n’aspirons pas à les rendre nos amis; si nous devons entretenir et perpétuer chez eux l’esclavage et la pauvreté; si le fanatisme peut encore renouveller (sic) ces odieuses croisades que la philosophie a vouées trop tard à l’indignation de tous les siècles; si l’Afrique enfin alloit devenir le théâtre de notre barbarie, comme l’Asie et l’Amérique l’ont été, le sont encore: tombe dans un éternel oubli le projet que le cœur vient de nous dicter ici pour le bien de nos semblables! Restons dans nos ports. Il est indifférent que ce soient les Chrétiens ou les Musulmans qui souffrent. Il n’y a que l’homme qui soit digne d’intéresser l’homme (23).

«Parole quest’ultime vibranti non solo della nobiltà d’un animo generoso ma pervase da tutta una nuova spiritualità affermatasi nel secolo che doveva concludersi con la Rivoluzione francese», scrivevo nel mio articolo del 1959. Potrei ancora ripeterle nei riguardi dell’abate Raynal, ma devo aggiungere qualcosa dettatami non solo da una qualche evoluzione di personali convinzioni, ma da tutto ciò di cui ci ha reso consapevoli una più approfondita conoscenza del colonialismo e la storia stessa della decolonizzazione e dei decenni successivi. Scorgiamo ben oggi quali illusioni e inganni si celavano dietro quella cieca fiducia nella razionalità, presunto appannaggio europeo nelle sue espressioni migliori e nella sua piena misura, da cui derivavano programmi di sviluppo e di progresso, destinati peraltro ad essere proposti o meglio imposti con la forza a popoli di culture e tradizioni diverse. Sarebbe, crediamo, opportuna una analisi approfondita di tutti i testi del cosiddetto ‘anticolonialismo’ europeo del XVIII secolo, per mostrarne più chiaramente i limiti e, soprattutto, per porre in evidenza elementi, presenti nei loro ragionamenti e discorsi, che sarebbero stati per contro utilizzati e sviluppati nel secolo successivo per promuovere e sostenere l’avvento, a poco più di un secolo dalle ‘illuminate’ parole di Raynal, del trionfante colonialismo (24). (23) RAYNAL 1773, 134. (24) Principalmente all’anticolonialismo di Raynal è dedicato l’articolo di P. ALATRI, Agli

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La contraddizione richiamata, sin dall’inizio di questo scritto, fra l’anticolonialismo che caratterizza il pensiero di Raynal, almeno nell’immagine predominante, e l’appello alla conquista europea del Maghreb, è stata rilevata con queste parole da Ann Thomson che nel suo ottimo lavoro confronta più volte il pensiero di Raynal con quello di altri autori dell’età illuministica: It is curious, to say the least, that the condemnation of European colonial enterprise in the West Indies could go hand-in-hand with similar colonial projects for Africa, however disguised as a humanitarian undertaking and shorn of the unacceptable aspects of European colonies in the Americas – namely the slaves (25).

Nel breve paragrafo che conclude il libro XI dell’Histoire philosophique l’autore accenna in sintesi ai caratteri del commercio europeo con gli stati barbareschi. Il primato del commercio con il Marocco spetta alla Danimarca, ove nel 1755 è stata costituita a questo scopo una Compagnia mercantile. Essa reca nell’impero drappi d’Inghilterra, «des étoffes d’argent et de soie», qualche quantità di tele, tavole, ferro, catrame, e zolfo e ne trae viceversa rame, gomme, lane, cera, e cuoio. Il commercio con Algeri è di entità minore, rispetto a quello con il Marocco, e vi si fanno concorrenza inglesi, francesi ed ebrei di Livorno. Le due prime nazioni vi mandano colle loro navi drappi, droghe, carta, chincaglierie, caffè, zucchero, tele, allume, indaco e cocciniglia; e prendono in pagamento lane, cera, penne, cuoio, olii, e diverse altre merci «provenant des prises» dei corsari. Due terzi circa del commercio con Tunisi sono in mano ai francesi ed il resto ai toscani; importazioni ed esportazioni tunisine sono simili a quelle degli altri stati maghrebini. Gli affari più limitati si trattano con Tripoli, per ogni aspetto la meno importante delle reggenze barbaresche. «Le pays – scrive infatti Raynal – est si misérable, qu’on n’y peut porter que quelques clincailleries de peu de valeur»; vi si acquistano lane, senna, cera, legumi (26).

albori dell’anticolonialismo, in “Ulisse”, 12/1958, 1682-1687, il quale afferma fra l’altro: «E tuttavia Raynal è più fermo nei principi che nelle applicazioni, più deciso nelle premesse che nelle conseguenze». (25) THOMSON 1987, 135; per gli altri riferimenti ad indicem. (26) RAYNAL 1773, 134-137.

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In questa revisione del mio scritto del 1959 – il più giovanile, per così dire, fra quelli all’origine di questa raccolta – desidero segnalare la postuma Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans l’Afrique septentrionale (Paris 1826, voll. 2), non facilmente reperibile, al contrario delle ben diffuse edizioni della Histoire concernente l’insieme delle ‘due Indie’. Il testo è stato ricavato, a cura di Peuchet, da un grosso volume compilativo di Mémoires, composti da Raynal nel 1788 e rimasti inediti (27). Nell’essenziale, cioè nei giudizi più propriamente ‘politico-filosofici’ – che non sappiamo in qual misura siano piuttosto del polemico Diderot e non del diligente poligrafo ex-gesuita – il testo non appare mutato rispetto a quello della Histoire del 1770, se non per qualche poco rilevante modifica di carattere puramente stilistico ovvero volta ad armonizzare qualche passo del testo inedito con le mutate condizioni delle reggenze. Non ci sembra dunque valida l’affermazione del peraltro informatissimo e ben preciso Anatole Fugère, il massimo studioso di Raynal, a proposito della Histoire de l’Afrique septentrionale: bien qu’on ait jugé bon pour l’amour de la symétrie de l’intituler “philosophique et politique”, ne contient que des informations tout’objectives, et n’est écrite contre personne. Elle atteste donc, comme les rares corrections de l’Histoire des Indes, l’éffort tenté par Raynal pour faire œuvre d’historien consciencieux (28).

Nell’edizione a stampa il manoscritto del 1788 è stato peraltro sensibilmente accresciuto, ad opera del curatore, grazie ad aggiunte e integrazioni, esplicitamente dichiarate e volte ad ‘aggiornare’ l’opera sul periodo, quasi un quarantennio, successivo alla data di redazione. Lo schema del manoscritto originale riprendeva quello della Histoire philosophique; le integrazioni seguono volta a volta ciascuno dei sei ‘libri’, rispettivamente dedicati al Maghreb (la Barbarie) nel suo insieme, all’Egitto e a ciascuno dei quattro stati maghrebini. L’autore dell’aggiornamento del testo, Peuchet, è nettamente più ostile nei riguardi del Maghreb e delle sue popolazioni di cui «presents in contrast to the ‘Philosophe’ a totally negative picture»; egli insiste invero sulla «degradation

(27) Sulla Histoire del 1826 (elencata da PLAYFAIR 1889, n. 352) vedasi THOMSON 1995 e ID. 2000, ancor più specificamente. Un testo del console di Olanda Anthoni Nyssen, redatto nel 1788 in risposta ad alcune domande di Raynal, confluito verosimilmente nella Histoire del 1826 ed utilizzato anche da altri, è stato pubblicato da MONCHICOURT 1929, 7-64, ma sembra sia rimasto ignoto agli studiosi di Raynal. (28) FEUGÈRE 1920 (v. nota 3), 429.

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and misery brought about by despotism, considering that it is due to the Moslem ‘invaders’ who destroyed the (Christian) civilisation of North Africa by their genius for destruction and their fanaticism, and replaced it with slavery and tyranny» (29). A questo peggioramento non è estranea, riteniamo, l’influenza delle idee diffusesi con l’avvicinarsi della decisione sulla conquista francese del territorio. Nel concludere l’articolo del 1959 ponevo un retorico interrogativo: L’occupazione europea ha attuato le direttive e le mete auspicate già alla metà del ’700 dall’appassionato pubblicista francese o ha dato invece ragione ai dubbi e ai timori da lui sin da allora avanzati? Troppo ardua sentenza, affidata alla meditazione e al giudizio degli storici futuri.

E aggiungevo: A noi, che viviamo tuttora l’estremo atto di questa vicenda, è concessa la speranza, anzi diremo è consentita la fiducia, che il secolare legame di vita e di morte, d’alleanza e di guerra, di tolleranza e di inimicizia, che ha unito i popoli delle opposte rive del Mediterraneo sia d’ora innanzi il fondamento più valido per l’instaurarsi tra essi d’una nuova armonia.

Non solo perché è trascorso da allora quasi mezzo secolo, non esiterei oggi a rispondere negativamente all’interrogativo; quanto all’auspicio non vi è che da rinnovarlo, spes contra spem.

(29) THOMSON 1987, 31.

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Gli stati del Maghreb nelle Anecdotes Africaines (1775)

Fra le collane e i repertori nei quali si espresse il gusto enciclopedico proprio della cultura illuministica degli ultimi decenni del Settecento trova posto la serie di sintesi storiche, intitolate Anecdotes, pubblicate con successo a Parigi dall’imprimeur-libraire Vincent. La serie comprende volumi – tutti formalmente anonimi ma i cui autori furono e sono oggi noti – dedicati a singoli o a due e più paesi, in qualche modo connessi: così, per esempio, le Anecdotes Angloises, depuis l’établissement de la Monarchie jusqu’au règne de George III, ovvero le Anecdotes du Nord, comprenant la Suède, le Danemark, la Pologne et la Russie, depuis l’origine de ces Monarchies jusqu’à présent, o ancora, le Anecdotes des Républiques, comprenant Gênes et la Corse, Venise et Malthe, la Hollande et la Suisse. Altri volumi hanno un carattere in qualche misura diverso; storico-etnologico, per esempio le Anecdotes Chinoises, Japonaises, Siamoises, Tourquinoises, etc., e storico-istituzionale, le Anecdotes Ecclésiastiques (1). Si trattò di un lavoro di compilazione, di riassunto e di collage di altre opere, e nulla di più; tuttavia può valer la pena di dare ad essi uno sguardo per scorgere quali informazioni, giudizi ed atteggiamenti mentali vigessero all’epoca nei riguardi di questo o di quel paese, nel caso nostro dei paesi che oggi indichiamo come Maghreb, dalla Libia al Marocco. È opportuno anzitutto osservare quale collocazione l’insieme del mondo arabo-islamico abbia trovato nelle Anecdotes. In ordine cronologico apparvero: Anecdotes Arabes et Musulmanes, depuis l’an de J.C. 614, époque de l’établissement du Mahométisme en Arabie, par le faux Prophète Mahomet, jusqu’à l’extinction totale du Califat, en 1538 (1772). Anecdotes Orientales, première partie contenant les anciens Rois de Perse, et les différentes Dynasties Perses, Turques et Mogoles, qui se sont élevées successivement en Asie jusqu’aux Califes et au Sophis exclusivement (1773).

(1) Abbiamo ricavato i titoli citati dall’Extrait du catalogue dell’editore Vincent, rue de Mathurins, Hôtel de Clugny (sic), pubblicato in appendice al volume Anecdotes Africaines (1775).

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Anecdotes Africaines, depuis l’origine ou la découverte des différents royaumes qui composent l’Afrique, jusqu’à nos jours (1775). Le Anecdotes Arabes et Musulmanes offrono una storia generale del mondo arabo-islamico dalle origini dell’Islàm, precisamente dal 614 al 1538 (come si indica nel frontespizio) ma in sostanza sino alla conquista ottomana dell’Egitto (1517). La storia è scandita secondo paragrafi intestati ciascuno ad un anno e della lunghezza media d’una pagina (raramente il testo di un dato anno arriva a due-tre pagine o le supera). Nei primi tre secoli (VII-IX) la successione degli anni, pur se con interruzioni, è piuttosto serrata, anche con periodi continui di 10-15 anni l’uno dopo l’altro (2). Dal secolo X la serie degli anni si dirada sempre più; per il XIII sono registrate notizie solo sotto tredici anni e soltanto altre quattro date conducono il lettore sino al 1516 (3). Si comincia dunque con la vita del profeta Muhammad e per questo periodo la narrazione procede piuttosto distesamente con frequenti aneddoti, appunto; parimenti può dirsi per il periodo dei quattro califfi successori del profeta e delle due dinastie, omàyyade e abbàside, sino alla fine dell’impero (1258). Da allora, come si è detto, la trattazione, che ha sempre come punto di riferimento la successione dei califfi, è molto sommaria. Alla Persia preislamica e islamica è dedicato il volume delle Anecdotes Orientales (1773). Nell’Avertissement iniziale l’autore si rammarica che i persiani, gli arabi e i tartari siano conosciuti quasi soltanto attraverso i racconti delle Mille e una notte e si chiede che cosa abbia impedito di conoscere «des peuples depuis si long-temps (sic) éclairés et polis? […] qui ont cultivés les premiers les sciences pratiques et spéculatives, les principes des lois et de la morale?». L’attribuisce a due motivi convergenti: la ‘prevenzione’, secondo la quale al di fuori dei greci e dei romani non vi erano altro che barbari incivili, e la scarsità di documentazione. Spiega per contro l’impegno dell’autore nell’impostare e condurre il lavoro con criteri e metodi nuovi, più aperti e comprensivi. Il volume tratta delle antiche dinastie dei Rois de Perse sino ai sassanidi e oltre, poi ancora dei Souverains en Perse et en Sirie, fra i quali mette insieme non senza confusione selgiuchidi, assassini, moghlùl; infine dà cenni di altre dinastie “arabe”, “curde” e “persiane” nel cui ambito inserisce persino calmucchi e cosacchi.

(2) Così dal 626 al 641, dal 779 all’806, dall’890 al 903. L’autore delle Anecdotes Arabes è Jean-François de Lacroix su cui Biographie universelle ancienne et moderne, XXII, Paris s.d., 392. (3) Nel secolo X la continuità maggiore va dal 932 al 938. Nel XIII secolo figurano gli anni 1207, 1217, 1225-1227, 1230, 1236, 1238, 1242-1243, 1247, 1252, 1257-1258, 12601261. Per il periodo successivo appaiono soltanto le date 1303, 1413, 1451, 1516.

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Il Maghreb e l’Egitto sono compresi – ed è significativo – nelle Anecdotes Africaines; è sentita cioè piuttosto la loro appartenenza all’Africa che non al mondo arabo-islamico, all’Africa, presentata nella prefazione come la “vaste presqu’isle”, di cui si conoscono soltanto i margini esterni (4). Nell’insieme del continente viene fatta una ripartizione che corrisponde ai capitoli del volume, ciascuno con autonoma numerazione: Anecdotes Egyptiennes (pp. 230), una storia dell’Egitto dalla più remota antichità al secolo XVIII; Anecdotes de Barbarie (pp. 62), intese come «introduction à l’histoire de tous les Etats de cette contrée»; Anecdotes des Maroc (pp. 60), Anecdotes Algériennes (pp. 60), Anecdotes Tunisiennes (pp. 30), Anecdotes Tripolitaines (pp. 16) (5), Anecdotes Abyssiniennes (pp. 80), Anecdotes des côtes occidentale, méridionale et orientale de l’Afrique (pp. 149) (6). Prima di proseguire le osservazioni sul testo presentiamone l’autore: Jean Gaspard Dubois Fontanelle (1737-1812). Uomo di lettere, erudito e ‘filosofo’ nel senso settecentesco, fu partecipe di diverse iniziative culturali-editoriali, simili a quella per cui ora lo ricordiamo. Collaborò alla “Gazette universelle de politique et de littérature de Deux-Ponts”, dalla sua fondazione nel 1770 e sino al giugno 1776; da quell’anno curò le rubriche politiche del “Journal de politique et de littérature”, dal 1778 al 1784 curò la sezione politica del “Mercure de France”. Nel 1784 fu anche redattore della “Gazette de France” (7). La sua attività letteraria cominciò come segretario e poi redattore della “Année littéraire” di Fréron (dal 1754 sino al 1755) e con alcuni testi teatrali, commedie e tragedie; il dramma Ericie o La Vestale (1768), nel quale si accusava il fanatismo religioso, andò incontro alla condanna della censura e sollevò scandalo. Poté essere rappresentata a Parigi soltanto nel 1789 (8). Le opere di pen-

(4) Pagina IV. (5) Nelle note citeremo queste diverse parti mediante le seguenti sigle: AB per Anecdotes de Barbarie, AM per Anecdotes de Maroc, ciascuna con propria paginazione; AA per Anecdotes Algériennes; ATu per Anecdotes Tunisiennes; ATr per Anecdotes Tripolitaines. (6) All’interno di queste ultime Anecdotes Africaines, che hanno, come le altre, una autonoma paginazione, si distinguono a loro volta alcune regioni: Costa occidentale, Guinea, Costa d’oro, Costa degli schiavi, Regno del Benin, Angola, Congo, Costa meridionale. (7) Le informazioni biografiche e bibliografiche le abbiamo tratte da: Biographie universelle ancienne et moderne, XIV, Paris s.d., 340; R. D’AMAT – R. LINONZIN-LOMOTHE, Dictionnaire de biographie française, XI, Paris 1967, coll. 985-986 (P. Hamon); A. CIORANESCU, Bibliographie de la littérature française du Dix-huitième siècle, I, Paris 1969, 709. Il nostro autore è citato fra quelli che vollero «renseigner les Français par des livres français sur l’histoire de la Barbarie» da CH. TAILLART, L’Algérie dans la littérature française, Paris 1925, 4-5. (8) Nel 1767 la censura aveva rifiutato l’autorizzazione alla messa in scena. Stampata a Londra nel 1768, fu rappresentata a Lione e poi proibita sino alla rappresentazione del 19 agosto 1789 al Théâtre Français.

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siero vanno dalle Aventures philosophiques (1765), ai Contes philosophiques et moraux (1779), ai Nouveaux mélanges sur différents sujets, contenant des essais dramatiques, philosophiques et littéraires (3 voll., 1781). Le Anecdotes Africaines, pubblicate nel periodo centrale della produzione del Fontanelle, sono quasi l’unica opera che l’abbia avvicinato al mondo orientale; in anni più tardi tradusse dall’inglese l’Etat actuel de l’empire ottoman, par Ali Abesci, qui a résidé plusieurs années à Constantinople, attaché au service du Grand Seigneur (2 voll., 1791-1793) (9). Torniamo alle Anecdotes. Quelle de Barbarie (pp. 62) concernono, si precisa, la parte dell’Africa settentrionale “depuis l’Egypte jusqu’à l’Océan” e cronologicamente partono dalla conquista vandala; per l’epoca antecedente si rinvia alle future Anecdotes Romaines. Così si precisa il criterio per la redazione della storia di quel vasto spazio: Nous l’embrasserons toute entière jusqu’à l’époque où il s’y forma divers Etats séparés les uns des autres, lorsque leur indépendance réciproque exigera de les distinguer; et alors nous ferons de chacun un article à part (10).

Dopo una quindicina di pagine dedicate al periodo vandalo, scandito secondo la successione dei re, si parla della “invasion des Arabes en Afrique” e se ne ricorda il protagonista Oqba ibn Nafi (Okkuba). Il giudizio sul capo arabo e sui suoi seguaci tende ad essere, come è ovvio attendersi, tendenzialmente negativo. Si tratta di “peuples barbares” il cui «enthousiasme religieux, qui les portoit à étendre et à porter leur culte partout, faisoit des guerriers de ces brigands». Più avanti, sotto l’anno 750, data di passaggio dai califfi omàyyadi agli abbàsidi, si dice: «Ces contrées barbares, habitées par des barbares, et gouvernées par des hommes qui ne l’étoient pas moins, sont couvertes pendant longtemps de l’obscurité la plus profonde». Una frase che ci ricorda il titolo d’una celebre opera: Les siecles obscurs du Maghreb di E. F. Gautier (11). Si rileva tuttavia un qualche intento di obiettività; così nel ricordare la fondazione di Qairawàn, la città santa tunisina, nella cui prossimità viene stranamente collocata l’antica Cirene:

(9) Così è citato nella Biographie universelle; la Bibliographie del Cioranescu (v. nota 7), forse più esattamente o con riferimento ad un’altra edizione, riporta: État actuel de l’empire ottoman, avec une description particulière de la cour et du sérail du Grand Seigneur, par Elias Abesci (1792). (10) AB, 1. (11) Paris 1927. La citazione da AB, 26-27.

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Dans le cours de ses conquêtes, Okkuba ne s’appliqua pas uniquement à détruire, comme n’ont fait que trop souvent ces fléaux de la terre, qui ne laisse pas de les appeler des héros; il fonda, selon beaucoup d’écrivains, la ville de Kairwan ou de Caïrovan, à environ trente milles de Tunis, dans le lieu même ou avoit été l’ancienne Cyrene, dont les ruines furent employées en partie à la construction de la nouvelle ville (12).

La diffusione dell’Islàm e la sua affermazione sono attribuite all’impiego della forza: On le vit annoncer le prophète le poignard à la main, et commander la croyance à des peuples grossiers, dont plusieurs, n’ayant aucun culte, se soumirent facilement à celui qu’on leur imposoit sous peine de la mort (13).

Il testo prosegue con la storia comune della regione, sino agli almoravidi e agli almohadi, le cui vicende sono presentate seguendo il filo della successione dei sovrani sino all’epoca in cui «s’y forma divers États séparés les uns des autres» o, come dice a conclusione, “États indépendants” (14). Tutta l’esposizione è banalmente cronachistica e compilativa, priva peraltro di una preoccupazione, non diciamo di un rigore, di concatenazione, di completezza, pur nella necessaria concisione, di precisione di date. Il filo sostanziale del discorso è dato dagli ‘eventi’ connessi ad ogni singolo sovrano; a proposito di questi e di altri personaggi di tanto in tanto si riferisce un episodio, in forma anedottica, o un atteggiamento, non di rado mettendo loro in bocca frasi o discorsi, che animano in qualche modo la narrazione. La proporzione delle pagine dedicate rispettivamente ai quattro stati maghrebini rispecchia l’importanza che si attribuiva e l’interesse che si rivolgeva allora in Europa a ciascuno di essi: Anecdotes de Maroc, 60 pagine, Anecdotes Algériennes 60, Anecdotes Tunisiennes 30, Anecdotes Tripolitaines 16. La trattazione sul Marocco comincia con l’anno 1490 e riassume le movimentate vicende delle lotte per il potere dalla dinastia saadita a quella alauita. Le Anecdotes si soffermano sui sovrani più eminenti segnando di ognuno qualche tratto della personalità, suffragato da uno o più aneddoti appunto. Di Abd al-Malik (Abdelmelech) si sottolineano le «cruautés inouies» contro i cristiani anche nell’intento di indurli alla conversione: (12) AB, 19-20. Lo stesso erroneo avvicinamento fra Qairawan e Cirene lo compie Schlözer, verosimilmente debitore di una stessa fonte. Vedi capitolo 11. (13) AB, 22. (14) AB, 1 e 62.

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Lumi e corsari Sa manière de convaincre étoit la même que tous les descendants de Mahomet avoient employée, et plus barbare encore; ceux qui résistoient étoient déchirés à coups de sabres, ou livrés à des lions qu’il conservoit exprès pour cet usage (15).

Del grande Mawlay Ismail (Muley-Ismael) si dice che «il allia l’excès de zèle pour la religion, à la cruauté la plus horrible» e si racconta la fervida illustrazione dell’Islàm da lui fatta dinanzi ai tremanti padri mercedari ai quali a conclusione disse: J’en ai dit assez pour l’homme qui fait usage de sa raison; si vous êtes des opiniâtres, tant pis pour vous. Nous sommes tous enfants d’Adam, et par conséquent frères. Il n’y a que la religion qui met de la différence entre nous. C’est donc en qualité de frère, et en obéissant aux commandements de ma loi, que je vous avertis charitablement que la vraie religion est celle de Mahomet; que c’est la seule où l’on puisse faire son salut (16).

Si fa cenno del trattato di pace con la Francia del 1682 e, ben più estesamente, della voce accolta dal sovrano marocchino che a Parigi si conservasse «dans une boîte d’or» una lettera di Maometto al re di Francia; per ottenerla Isma’il avrebbe offerto la liberazione di tutti i prigionieri francesi in suo potere (17). Non potevano mancare aneddoti sulla crudeltà dell’imperatore né sull’eccezionale estensione del suo ‘serraglio’, dove si raccoglievano «non meno di ottocento donne» (18). Ecco un aneddoto che concerne insieme le donne e la crudeltà: Une autre fois, étant dans son palais avec ses femmes, en poignarda une, parce qu’elle avoit marché imprudemment sur un peu de farine. Il l’aimoit, et il s’affligea lorsqu’il fut revenu de ce moment de fureur; il lui fit donner tous les secours imaginables. Un chirurgien Maure appelé eut ordre de la guérir, sous peine d’être étranglé. Le Maure sçavoit (sic) que son maître ne donnoit aucune parole de cette espece, qu’il ne la tînt fidellement; il fit tout ce qu’il put pour sauver la sultane, ny réussit point, et fut en effet étranglé pour n’avoir pas fait une cure qui étoit impossible (19).

(15) AM, 23. Il testo fa riferimento al 1630 ma il sultano regnò dal 1623 al 1626. (16) AM, 29 e 30. (17) AM, 31-32. (18) Sul serraglio: AM, 32-34. (19) AM, 42-43.

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La narrazione delle Anecdotes du Maroc si arresta al 1744, durante il contrastato e discontinuo regno d’uno dei figli di Ismail, Abd Allàh; verosimilmente l’autore non poté disporre di informazioni più aggiornate, come egli stesso accenna nelle ultime righe. Qui afferma infatti che in Marocco: La barbarie continue de régner, et n’offre à la curiosité que des scènes atroces, sur lesquelles nous avons peut-être arrêté trop long-temps (sic) nos lecteurs. Les autres États de la Barbarie ne nous en offriront pas moins. Les guides manquent fréquemment dans le cours de cette histoire (20).

Le Anecdotes Algériennes cominciano con l’anno 1505, data della conquista spagnuola di Orano, ma anzitutto, secondo il nostro testo, momento in cui «commence l’indépendance d’Alger, qui forme un État séparé» ed è da qui che «naturellement doivent commencer les Anecdotes Algériennes»; molte pagine – piene di episodi coloriti ma di poco fondamento o comunque di scarsa rilevanza storica – sono poi dedicate alla fondazione della reggenza di Algeri ad opera dei fratelli Barbarossa (di Aruj si dice che era nato nell’isola di Lesbo o Mitilene, ma «selon d’autres en Sicile», notizia non sappiamo da dove tratta) (21). Dal 1519, quando Khair ed-Din si dichiarò vassallo dell’impero ottomano, si passa al 1541, alla celebre disfatta di Carlo V dinanzi alle mura di Algeri (22). Al fallito assedio della città, guidato dall’imperatore d’Asburgo, le Anecdotes Algériennes dedicano oltre quattro pagine (sul totale di 60, ricordiamo), in gran parte occupate dal racconto del ruolo avuto da un misero negro, considerato folle, il quale convinse la popolazione e lo stesso pascià Hasan Sardo a resistere ancora una decina di giorni e fu questo lasso di tempo a far sì che arrivasse il maltempo autunnale: il 28 ottobre in effetti un nubifragio inondò il campo nemico e ridusse a mal partito molte navi spagnole. Così la città fu salva. I marabutti della città attribuirono invece la salvezza alla protezione d’un venerato marabutto già da tempo onorato dalla popolazione algerina (23). Si segue poi, più o meno regolarmente, la successione dei «re d’Algeri», come li ha chiamati Haedo nella nota Topographia e Historia general de Argel (Valladolid 1612) (24). Nel narrare la “fortune extraordinaire” del calabrese Uluj Ali, si dice che

(20) AM, 59-60. (21) AA, 3. (22) Sull’attacco ad Algeri: AA, 9-13. (23) AA, 13-36. (24) Il benedettino Diego de Haedo fu ad Algeri fra il 1578 e il 1581 (sulla traduzione francese notizie in BONO 1964, 124).

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«pris sur mer par un corsaire, il fut conduit à Alger», dove si sarebbe svolta la sua fortunata carriera di corsaro. La sua cattura invece, secondo le fonti più accreditate, fu dovuta a corsari turchi e ad Algeri egli giunse più tardi, già noto e potente, quando fu nominato pascià (25). Giunto all’anno 1616 il testo ha una delle rare osservazioni di carattere generale: L’histoire intérieure d’Alger, dans le cours de ce siècle, se trouve moins connue que dans le précédent; les guides qui nous ont conduit jusqu’ici, et qui ont tous fait un long séjour en Barbarie, commencent à manquer (26).

Sotto la data del 1627 si pone una presunta frattura nei rapporti fra le tre reggenze barbaresche e l’impero ottomano, derivata dal contrasto fra l’interesse, potremmo dire la necessità ineluttabile, dei barbareschi di svolgere l’attività corsara e la volontà invece del sultano di stabilire paci, o meglio tregue, con le potenze europee. Secondo le Anecdotes Algériennes in quell’anno 1627: Tous les corsaires de Barbarie convinrent de se soustraire à la obéissance de la Porte, pour continuer leurs brigandages. Il fut décidé à Alger, à Tunis et à Tripoli, qu’on formeroit trois républiques indépendantes; que chacune aura le droit de courir indifféremment sur les Chrétiens; que tous les traités conclus par ces derniers avec la Porte, seroient regardés comme ne les intéressant en aucune manière; et que ceux qui voudroient la paix avec eux, seroient obligés de s’adresser directement au gouvernement de celle des républiques dont ils voudroient avoir l’amitié (27).

Non sappiamo donde Fontanelle abbia tratto questa informazione, certamente non corrispondente ad alcun dato storico effettivo, se riferita a quella data; il processo di autonomia delle reggenze dall’autorità centrale dell’impero ebbe un iter diverso in ciascuna di esse (28). Lo stesso Fontanelle viene invero a

(25) Sul celebre rinnegato: AA, 22-24. (26) Le fonti cui si allude sono quasi certamente Gramaye, Haedo, Dan; J.B. GRAMAYE, Africae illustratae libri decem, in quibus Barbaria gentesque eius ut olim et nunc describuntur, Tornaci Nerviorum 1622, si basava sulla propria esperienza di schiavo nel 1581. La più celebre è l’opera del padre trinitario P. DAN, Histoire de Barbarie et de ses corsaires, Paris 1637; egli fu ad Algeri per trattare un riscatto fra il 1634 e il 1635. Su Haedo vedi nota 24. (27) AA, 39-40. (28) Si veda l’ottima sintesi di MANTRAN 1989, 404-420 (Evolution vers l’indépendance des provinces du Maghreb).

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contraddirsi quando sotto la data del 1710 (più precisamente sarebbe da indicare il 1711) riferisce il definitivo rifiuto algerino di accogliere un pascià e il pieno affermarsi dell’autorità del dey Ali Shaush (Baba-Ali) e dei successori; «c’est de ce moment – conclude il testo – que les Algériens, soumis en apparence, sont réellement indépendants» (29). Tra le fonti dell’autore delle Anecdotes vi sono state le memorie dello schiavo ispano-fiammingo Emanuel de Aranda, ad Algeri fra il 1640 e il 1642. Dalla Relation de la captivité et liberté dello spiritoso gentiluomo sono ripresi infatti due aneddoti sul rinnegato – si dice veneziano – Ali Péchinin, potente e ricco raìs in quegli anni (30). Un altro autore, del secolo successivo, Laugier de Tassy, è esplicitamente citato a proposito del dey Ali Shaush «l’exemple presque unique d’un Dey mort dans son lit» (31). Con l’anno 1724 – l’assassinio del dey Mohammed – si chiudono le Anecdotes Algériennes. «L’histoire d’Alger, – si afferma – depuis cette époque, ne nous fournit que des pirateries et des violences». Quale ultima notizia, che sembra aggiunta in un secondo momento, si ricorda il bombardamento danese del 1770: Les Danois ont bombardé cette ville en 1770; mais il se sont contentés de la punir, sans exiger de satisfaction de ces corsaires (32).

Le Anecdotes Tunisiennes iniziano con l’intervento turco prima e poi spagnolo nei contrasti dinastici dei primi decenni dei secolo XVI, nel cui ambito cronologico rientra circa la metà del testo; al centro si collocano la conquista di Tunisi da parte di Carlo V nel 1535 e la restaurazione degli hafsidi. Nell’Avantpropos si ricorda che Tunisi «a éprouvé des révolutions à peu près semblables à celles des autres États de la Barbarie», cioè alle diverse dominazioni provenienti dall’esterno (33): Tous ces faits, peu connus en général, à cause de la confusion qu’y répandent les divers intérêts de princes barbares, qui toujours n’avoient pour but dans leurs conquêtes que le pillage et la destruction, n’offrent aucune anecdote inté(29) AA, 54-57. (30) AA, 43-44. La relazione del de Aranda – sulla quale vedasi BONO 1964, 449 – è stata tradotta ma non integralmente in italiano: Il Riscatto. Relazione sulla schiavitù di un gentiluomo ad Algeri, Milano 1981. Abbiamo riportato il nome del rinnegato come lo danno le Anecdotes; de Aranda scrive Pegelin, forse in italiano Piccinin o Piccinino. (31) AA, 59; LAUGIER DE TASSY 1725, menzionato anche nel cap. 2. (32) AA, 60. Sulle ostilità algero-danesi del 1770 v. BONO 1964, 58-59, con rinvio ad altri autori. (33) ATu, 3-9.

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Lumi e corsari ressante. On voit des princes barbares élevés sur le trône par le crime qui les en chasse bientôt. Ces détails horribles et monotones sont semblables à ceux que l’on a vus jusqu’à présent. Nous commencerons donc les anecdotes de cet État à la première expédition des Turcs, et qui prépara la conquête qu’ils en firent quelques années après (34).

Sotto la data del 1550 viene ricordata l’avventurosa carriera di Dragut, «un homme qui devoit répandre la terreur du nom turc dans l’Afrique et sur les mers qui la baignent» (35). Il testo di Fontanelle è sempre, lo ripetiamo, più che una equilibrata sintesi, una scelta, più o meno arbitraria, di alcuni momenti ed eventi storici; sono presenti episodi secondari e mancano fatti di rilievo primario. Così dalla menzione della occupazione algerina di Tunisi, nel 1569, si passa alla riconquista ottomana di Sinàn Pascià, in nome del sultano Selim II, nel 1574, senza il minimo cenno alla impresa di don Giovanni d’Austria nell’ottobre 1573 e alla prolungata difesa della città e della Goletta da parte spagnola (36). Sotto le date, anche questa volta discutibili, del 1595 e del 1615 è indicata la ‘rivoluzione’ che portò al potere a Tunisi, ancor prima che Algeri, i dey e la milizia giannizzera e il successivo affermarsi della dinastia dei bey muraditi, sino al 1702 (37). A proposito del bey Muràd, l’ultimo della dinastia muradita, si fa cenno a tre ‘rinnegati’, l’italiano Mazoul (sic), il chirurgo francese Carlier e un certo Papa Falson, probabilmente maltese (38). La sintesi storica concernente Tunisi si chiude con notizie sulla conclusione della crisi dei rapporti franco-tunisini fra il 1768 e il 1770. Il governo di Parigi aveva reclamato contro alcune catture corsare ai danni di abitanti della Corsica, divenuta allora francese, e dopo inefficaci passi diplomatici si risolse a effettuare una manifestazione di forza culminata con il bombardamento di Susa (agosto 1770) seguita, il 2 settembre, dalla pace che dava ampia soddisfazione alla Francia. Il testo delle Anecdotes – che sintetizza i termini del trattato – parla della «vengeance que la France a tiré des excès de ces corsaires» (39).

(34) ATu, 1-2. (35) ATu, 9-11; da p. 9 la citazione. (36) ATu, 13-14. Su questi eventi si veda la nota 39 del capitolo successivo. (37) ATu, 14-27. Sull’evoluzione politica della Tunisia barbaresca si veda MANTRAN 1989, 412-417. (38) ATu, 23-26. (39) ATu, 29-30. Vedi ROUSSEAU 1927, 169-185.

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Le Anecdotes Tripolitaines sono ben più brevi rispetto ai testi concernenti gli altri stati barbareschi (un sedicesimo, rispetto alle 30 pagine riservate a Tunisi, e a ben 60 al Marocco e all’Algeria). Dopo aver affermato che «le royaume de Tripoli a essuyé les mêmes révolutions qu’ont éprouvées les autres États de la Barbarie», il discorso parte dal 1551 quando, scacciati i cavalieri di Malta, Dragut assunse il governo della città. La vittoria ottomana – i cui motivi furono molto discussi – è attribuita al “tradimento d’un rinnegato”, di cui non si precisa nulla. La brevità della trattazione che segue è così giustificata: C’est à cette époque que nous allons commencer le peu que nous avons à en dire; car son histoire a été fort négligée, parce qu’on a trouvé qu’elle rentroit trop dans celle des autres peuples de la Barbarie, pour mériter un article à part (40).

Un cenno alla rivolta del marabutto Yahyà ibn Yahyà, che agitò la storia di Tripoli fra il 1587 e il 1590, si riscontra sotto la data del ’90, quando si concluse la ribellione antiturca accesa dal marabutto. Nonostante l’aiuto prestato al ribelle dai cavalieri di Malta e l’adesione al suo tentativo di parte della popolazione, i governanti al potere, vassalli dell’impero ottomano, ebbero ragione dei ribelli, grazie anche ai rinforzi ricevuti da Istanbul. Secondo le Anecdotes Yahyà venne ucciso dai suoi stessi seguaci, visto il fallimento del suo progetto: Le Marabout n’étoit point guerrier; il n’opposa que de médiocres efforts et beaucoup de foiblesse aux forces de ses ennemis. Les Maures et les Chrétiens, qui sentirent qu’il ne pouvoit les soutenir, voulurent mériter leur grâce en contribuant à sa ruine. Ils le massacrèrent eux-mêmes, et se soumirent (41).

Con un’affermazione piuttosto vaga – «le gouvernement de Tripoli changea vers ce temps» – si fa riferimento, sotto la data del 1600, al mutamento di regime intervenuto nella reggenza di Tripoli analogamente a quanto accadde negli altri stati barbareschi. Lo stesso Ettore Rossi, nella sua Storia di Tripoli e della Tripolitania, la più autorevole per il periodo turco, riconosce che «il periodo che va dal 1590 al 1610 circa rimane fra i più oscuri della storia tripolina». Le Anecdotes, con grande semplificazione, riconducono tutto a Mohammed di Chio (indicato come Mohamed-Bey) (42).

(40) ATr, 1-2. (41) ATr, 5. (42) ATr, 5-6; ROSSI 1968, 164.

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La monotonia delle vicende, e soprattutto la mancanza di ‘aneddoti’ nella storia della reggenza di Tripoli nel secolo XVII è così lamentata: L’histoire de Tripoli ne présente pendant longtemps que des tumultes intérieurs, dont les Deys sont toujours la victime, ou des expéditions des corsaires sur mer. Tous ces faits ressemblent à ceux que l’on a vus jusqu’ici, et ne sont point anecdotes (43).

Degni di interesse appaiono soltanto il lungo contrasto franco-tripolino degli anni 1681-1685, la pace e la conseguente ambasceria tripolina alla corte di Francia, sui quali l’autore si sofferma lungo alcune pagine (44). Le Anecdotes Tripolitaines sono più ‘aggiornate’ rispetto a quelle concernenti gli altri stati maghrebini: ultima data è il 1773, sotto la quale si narra qualcosa della missione d’un ambasciatore tripolino in Svezia. L’episodio, a quanto sembra, suscitò curiosità in Europa, sì che ne troviamo l’eco anche in un altro autore dell’epoca, cioè nella prefazione della Summarische Geschichte von NordAfrika (Göttingen 1775) dell’illuminista e poligrafo tedesco A.L. Schlözer il quale, pur senza menzionare la missione del diplomatico, ricorda i cordiali rapporti tra Svezia e Tripoli (45). L’inviato tripolino a Stoccolma visitò tra l’altro l’Accademia delle Scienze, delle cui attività restò ammirato al punto da invitare quegli studiosi a far oggetto di indagini il suo paese. Le Anecdotes – che riservano alla missione tripolina in Svezia ben quattro pagine – pubblicano il testo d’una lettera di Abd arRahmàn alla istituzione svedese. In essa, il cui testo non abbiamo trovato altrove, l’autore esprime grande stima per l’istituzione e dichiara di provenire da un paese «où l’on ne trouve rien de semblable»; aggiunge poi l’invito all’Accademia di inviare a Tripoli un proprio ‘ricercatore’ pour faire connoître à la Suède et à l’Europe les avantages dont jouit ma patrie, l’humanité de mes compatriotes, et pour dissiper enfin les préjugés qu’on me paroît avoir conçus ici contre le pays où je suis né (46).

(43) ATr, 6. (44) ATr, 6-11. (45) ATr, 11-16. La missione del 1773 non è menzionata da ROSSI 1968 che ricorda invece, p. 245, quella del 1756; soltanto con il nome della Svezia è menzionata da MICACCHI 1936, 104. È ricordata con un cenno in DESFEUILLES 1956, 218 (si fa anche riferimento a documentazione conservata negli archivi di Stoccolma). Su Schlözer si veda infra, il cap. 11. (46) ATr, 13.

Gli stati del Maghreb nelle Anecdotes Africaines (1775)

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Allo studioso che si fosse recato in Libia veniva assicurata la più confortevole e cordiale accoglienza, la massima sicurezza, la possibilità di visitare il paese «depuis les frontières de Tunis, jusqu’à celles de l’Egypte, et dans l’intérieur du pays vers Garcan [da correggere in Garian], Ben-Olid, jusqu’au royaume de Tretzen [Fezzan], où commence le pays de Nègres» (47). Secondo le Anecdotes l’Accademia svedese accettò la proposta dell’inviato tripolino e prescelse il signor Rothmann, «parce que c’étoit le seul qui voulut bien s’exposer aux fatigues de ce voyage»; si ignorava però se fosse poi partito e cosa fosse stato di lui (48). Le pagine su Tripoli si concludono con un giudizio favorevole: fra le reggenze è la più rispettosa dei trattati, pur se spesso cerca di rinegoziarli a proprio vantaggio; anche se questo atteggiamento – si osserva – fosse ispirato più «da debolezza e da timore, che non da scrupolo di correttezza», il commercio ne guadagna, ed è pur sempre un vantaggio: Nous ne dirons pas que ce soit par un sentiment de probité qu’elle en agit ainsi: il peut se faire qu’elle ne soit animée que par celui de sa foiblesse; mais le commerce y gagne, et c’est toujours un avantage (49).

Le informazioni e le osservazioni delle Anecdotes concernenti gli stati del Maghreb sono certamente caratterizzate da superficialità oltre che dalla necessaria stringatezza; raramente si trovano elementi utilizzabili oggi da uno storico. Nei loro limiti peraltro le Anecdotes attestano quale conoscenza il colto pubblico europeo dell’ultimo quarto del Settecento potesse farsi della storia dell’Occidente arabo.

(47) ATr, 12-15 (testo della lettera). (48) Il signor Rothmann potrebbe essere l’allora giovane Johann Nepomuk (1752-1811) ufficiale di artiglieria, poi insegnante di geometria e geografia e infine condirettore del Teatro di Münster, dove era nato. Vedasi W. KOSCH, Das Katholische Deutschland. Biographischbibliographisches Lexicon, III, Augsburg 1933, col. 4074. (49) ATr, 16.

capitolo undici | 193

La prima storia del Maghreb (1775). La Summarische Geschichte von Nord-Afrika di A.L. Schlözer

Anche i barbareschi – come erano chiamati in Europa gli abitanti delle città-stato corsare del Maghreb – beneficiarono in qualche misura della revisione che la cultura europea settecentesca fece del proprio giudizio, meglio dei propri pregiudizi, sui popoli ‘non civilizzati’. Al mito del buon selvaggio si affiancò, possiamo dire, un mito del buon corsaro; qualche autore, come Laugier de Tassy, denunciò le esagerazioni e persino le menzogne delle memorie di viaggio e delle relazioni sui paesi del Maghreb redatte da religiosi di vari ordini, recatisi in quelle terre d’Islàm per riscattare gli schiavi cristiani o da qualcuno di quei malcapitati, tornato felicemente nel mondo cristiano. Memorie e relazioni di religiosi e di schiavi riscattati costituivano pressoché tutta la letteratura disponibile in Europa sull’Africa del Nord; questa letteratura è stata, nell’ultimo ventennio oggetto di numerose analisi e di valutazioni per evidenziarne concezioni e orientamenti, anche inconsci e impliciti (1). Da parte nostra ci proponiamo di analizzare la prima vera e propria, nel titolo e nella sostanza, storia del Maghreb, redatta da un autore europeo, la Summarische Geschichte von Nord-Afrika, namentlich von Marocko, Algier, Tunis, und Tripoli (Göttingen 1775) del noto esponente della cultura illuministica tedesca, August Ludwig Schlözer. Pur se citata in qualche bibliografia specializzata, l’opera non è stata mai presa in diretta considerazione da studiosi interessati alla storia del Maghreb ed è raramente menzionata negli scritti critici su Schlözer (2).

(1) Ricordiamo, fra gli altri, TURBET-DELOF 1976, BRAHIMI 1982, THOMSON 1987. Su Laugier de Tassy e la sua Histoire des États barbaresques qui exercent la piraterie contenant l’origine, les révolutions et l’état présent des royaumes d’Alger, de Tunis, de Tripoli et de Maroc, avec leurs forces, leurs revenues, leur politique et leur commerce (Paris 1725, voll. 2), vedasi altri riferimenti ad indicem. (2) L’opera è elencata da PLAYFAIR 1889, al numero 274; da PLAYFAIR e BROWN 1893, al n. 415, ed ancora da ASHBEE 1889, 59, con l’erronea indicazione però del 1773 come data. Non è però ricordata dalla Thomson né da altri. Scritti su Schlözer li citeremo nelle note successive.

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Molte opere sul Maghreb, in lingua tedesca o in altre lingue europee, sono peraltro rimaste del tutto ignorate dagli studiosi (3). La Geschichte dell’erudito tedesco, specialista invero di storia russa, è la prima trattazione storica, pur se “summarische”, dell’intero Maghreb, quale oggi lo concepiamo, dalla Libia al Marocco; una storia inoltre non limitata ai barbareschi o all’epoca musulmana, ma intera nel tempo, dall’antichità più remota ai suoi giorni. È però un sommario, come dice il nome, un volumetto in 16° di neanche cento pagine. Ciò che più conta, d’altronde, è il suo esser la prima sintesi storiografica di un autore accademico, che si ponga esplicitamente, come diremo, problemi di critica storica almeno in linea di principio. Il suo orizzonte mentale e la sua sensibilità – come quelli d’altri autori dell’età illuministica – sono segnati da evidente contraddizione: da un lato si aprono verso civiltà e popoli fuori d’Europa, dall’altro conservano e persino aggravano inveterati pregiudizi (4). L’interesse dell’opera non risiede comunque nel suo contributo alla conoscenza della storia del Maghreb, ma nel suo essere fortemente indicativa della conoscenza che l’Europa colta del tempo poteva avere di quella storia. L’intento della sua vasta produzione storiografica di carattere altamente divulgativo era appunto quello di informare e ‘formare’ l’opinione pubblica. Questo suo

(3) BONO 1982, 72-74, ha osservato che «sono rimaste invece scarsamente indagate e utilizzate le fonti d’altri Paesi occidentali […] come la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, gli Stati tedeschi, in particolare le città anseatiche», e più avanti che «ancor più trascurate di quelle inglesi sono rimaste le fonti in lingua tedesca; le ricerche in questo campo daranno certamente risultati interessanti, se non altro dal punto di vista bibliografico»; di seguito ho segnalato alcune opere di diversi autori. (4) Sulla personalità e l’attività intellettuale di Schlözer indico – oltre alle voci citate nella nota seguente e in altre – soltanto alcune opere fondamentali, in particolare con riferimento al campo storiografico: B.A. (forse Adolf Bock, vedi avanti), A.L. von Schlözer, in Zeitgenossen. Biographien und Charakteristiken, IV, parte 2.a, Leipzig 1819, 3-47; DÖRING, Leben A.L. von Schlözer’s. Nach seinen Briefen und andern Mittheilungen, Zeitz 1836; A. BOCK, Schlözer. Ein Beitrag zur Literaturgeschichte des Achtzehnten Jahrhunderts, Hannover 1844; T.E. ZERMELO, A.L. Schlözer. Ein Publizist im alten Reich, Berlin 1875; H. WESENDONCK, Die Begründung der neueren deutschen Geschichtschreibung durch Gatterer und Schlözer, Leipzig 1876; F. FÜRST, August Ludwig von Schlözer, ein deutscher Aufklärer im 18. Jahrhundert, Heidelberg 1928. Fra i contributi più recenti segnalo U.A.J. BECHER, A.L. von Schlözer, in Deutsche Historiker, a cura di H.U. Wehler, VII, Göttingen 1980, 7-23; ID., Analyse eines historischen Diskurses, in H.E. BÖDECKER et alii, Aufklärung und Geschichte, Göttingen 1986, 344-362; H.E. BÖDECKER, “Ein Schrifsteller… ist ein unberufener, unbesoldeter Diener der bürgerlichem Gesellschaft”. Zum aufklärerischen Engagements A.L. Schlözer’s, “Photorin. Mitteilungen der LichtenbergGesellschaft”, 11-12/1987, 3-18; W. HENNIES, Die politische Theorie August Ludwig von Schlözer zwischen Aufklärung und Liberalismus, München 1985.

La prima storia del Maghreb (1775)

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ruolo gli venne espressamente riconosciuto da uno dei primi studiosi della sua opera, Theodor Zermelo: Eine öffentliche Meinung in der Nation zu schaffen, sie zu läutern und zu kräftigen, das war die verdienstliche Aufgabe, die sich Schlözer mit seinen Genossen, einem Justus Möser, Karl Friedrich v. Moser u. A. stellte. Er sah in ihr nicht eine unmittelbar herrschende sondern nur eine controlirende Gewalt, er hat ihr nicht geschmeichelt, sondern oft getrotzt, sie aber stets geachtet und achten gelehrt (5).

In questa prospettiva ‘pedagogica’ si colloca esplicitamente l’attività di Schlözer come autore di alcune storie adattate alla comprensione dei bambini (6). Quando compose la Geschichte von Nord-Afrika Schlözer, quarantenne, era da pochi anni “ordentlicher Professor” (ordinario) nell’Università di Göttingen, la città dove aveva completato i suoi studi dopo aver seguito i corsi universitari di teologia a Wittenberg dal 1751 al 1754 (era nato a Jagstadt, nel Württemberg nord-orientale, il 5 luglio 1735). Orfano sin da fanciullo del padre, pastore evangelico, e affidato al nonno paterno, il ventenne Schlözer aveva trovato impiego come insegnante nell’ambiente della comunità tedesca di Stoccolma e poi di Uppsala (1755-1757) (7). (5) ZERMELO 1875, 2-3 (creare una nuova opinione pubblica nazionale, darle risonanza e vigore, questo fu il compito più meritorio assunto da Schlözer insieme con altri colleghi, come Justus Möser, Karl Friedrich v. Moser e altri. In essa egli vide non un potere senza limiti ma da moderare, non l’ha lusingata ma anzi spesso contrastata, pur sempre considerandola e insegnando a tenerla in considerazione). In tutti i titoli e le citazioni è stata rispettata la grafia tedesca dell’epoca. (6) Sui libri per l’infanzia si può vedere: O. BRUNKEN, Der Professor aus Göttingen und die rappelköpfigen Bauern. Zu 3 bemerkenswerten historischen Kinderbüchern August Ludwig von Schlözers (1735-1809) im Kontext des Geschichtsbuch im 18. Jh., “Schiefertafel. Mitteilungen zur Vorbereitung einer Bibliographie alter deutschen Kinderbücher”, 4/1981, 24-47. (7) Per i dati biografici del nostro autore mi sono specialmente fondato su: F. FRENSDORFF, A.L. Schlözer, in Allgemeine Deutsche Biographie, XXXI, Leipzig 1890, 567-600 e ID., Von und über Schlözer, “Abhandlungen der k. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen”, Philologisch-historische Klasse, n.s., Berlin, XI, 4/1909, 1-114 (nelle note li citeremo rispettivamente come FRENSDORFF 1890 e FRENSDORFF 1909); W. SCHWARZ, A.L. von Schlözer. Geschichtschreiber und Statistiker, Slawist und Publizist 1735-1809, in M. MILLER – R. UHLAND, Lebensbilder aus Schwaben und Franken, VII, Stuttgart 1960, 149-181. Ricordo anche le voci della Enciclopedia Italiana, XXXI, Roma 1936, 109 e del Deutsches Literatur-Lexicon, III, Bern 1956 coll. 2505-2506 (W. KOSCH). Sugli studi slavistici si veda in particolare la decina di contributi a lui dedicati raccolti nel volume concernente anche altri due studiosi del suo tempo: Lomonosov. Schlözer. Pallas. Deutsch-russische Wissenschaftsbeziehungen im 18. Jahrhundert, a cura di E. Winter, Berlin 1962 (vol. XII della serie “Quellen und Studien zur Geschichte Osteuropas”).

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Fra il 1758 e il 1761 fu di nuovo in Germania, a Lubecca, dove svolse attività giornalistica ed a Göttingen dove seguì corsi di medicina, scienze naturali, diritto e politica: ne ripartì nel 1761 per recarsi in Russia, a Pietroburgo. Rapidamente apprese la lingua, come già lo svedese, ed intraprese con successo ricerche sulla storia della Russia, in particolare sulle fonti medievali bizantine, sino ad essere nominato da Caterina II nel 1765 professore di storia russa appunto. Due anni più tardi tornò però a Göttingen dove il 14 giugno 1769 ebbe la definitiva nomina universitaria. Alla varietà delle esperienze di lavoro e degli studi compiuti – dalla teologia all’Oriente antico, dalla contabilità mercantile alle scienze mediche e naturali, dal diritto alle ‘scienze politiche’ – corrispose nella sua attività di studioso e insegnante una altrettanta varietà di interessi di ricerca e di corsi accademici, dalla storia generale o universale alla ‘statistica’, intesa come insegnamento sull’attualità geografico-politico-sociale dei diversi stati del mondo; uno dei suoi corsi, ad esempio, riguardò l’Asia, un altro le colonie francesi del Nord America, un altro ancora Cromwell. Fra l’ottobre 1773 e il febbraio 1774 visitò la Francia, in particolare Strasburgo e Parigi, nel 1781 giunse sino a Roma e, verosimilmente incoraggiato da questo viaggio, nel semestre estivo del 1782 svolse un corso sulla storia d’Italia nel Medioevo. Negli anni seguenti si trattenne nella sua città, impegnato in una intensa attività di studioso e di pubblicista, che lo portò ad intessere una vasta e fitta rete di rapporti e di corrispondenza. «Seine Zeitschriften – scrive Frensdorff – verschaffen ihm Verbindung mit allen Kreisen, Einblick in allen Verhältnisse des damaligen Lebens in und ausserhalb Deutschland». Nel campo propriamente degli studi il suo interesse ed il suo impegno si andarono concentrando sulla storia della Russia, dove egli «trug zuerst die strenge Kritik» (recò per primo una severa critica). Morì, più che settantenne, il 9 settembre 1809, quando aveva ormai lasciato l’insegnamento e cessato quasi ogni attività (8). Ben presto nel corso della sua operosità di studioso Schlözer fu fortemente attratto dall’idea di scrivere una ‘storia universale’, un progetto certamente di grande impegno, al quale pensò di prepararsi redigendo storie di singoli popoli e paesi, forse un duecento per coprire tutto il mondo, da collegare poi in una sintesi sistematica, la Universalhistorie appunto. A questo fine andò raccogliendo materiali e redigendo alcune storie specialistiche. Più volte invero nei suoi

(8) Le due citazioni da FRENSDORFF 1909, 88 e 113 (I suoi giornali gli procurarono collegamenti con molti ambienti e conoscenza di tutti i rapporti della vita di allora in Germania e fuori).

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scritti afferma – come ci ricorda un biografo – di voler «die Geschichte eines Volks, einer Zeit, einer Periode in ein Bändchen, in ein Handbüchlein zusammenpressen» (metter dentro un volumetto, un manualetto, tutta insieme la storia di un popolo, di un’epoca, di un periodo). Ben presto si rese però conto che una ‘storia universale’ doveva essere ben altro che una collezione di storie di singoli stati, regioni, culture. Lo ha ben espresso uno dei primi studiosi di Schlözer storiografo, Adolf Bock, che ha approfondito un esame critico del suo impegno nella Universalgeschichte: Schlözer fühlte, daß die Universalgeschichte etwas Anderes sei, als ein blosses Bassin fur sämmtliche Spezialgeschichten, ohne dass diese eine philosophische Idee eine vollständige Organisation herbeiführte (9).

Si volse dunque più direttamente ad una riflessione teorica sul concetto stesso di Universalhistorie. Nel 1772-1773 pubblicò a Göttingen una Vorstellung einer Universalhistorie (che ebbe in seguito più d’un rimaneggiamento e diverse edizioni). Nella sua più matura concezione storiografica la storia universale, e parimenti le singole storie di stati e istituzioni, dovevano essere ispirate dalla esigenza di «die vergangene Welt an die heutige zu rücken und das Verhältniss beider gegen einander zu erkennen» (avvicinare il mondo passato all’odierno e comprendere il loro reciproco rapporto). Ciò a cui lo storico doveva prestare attenzione nelle singole storie, nella prospettiva della storia universale, era il loro influsso «auf das grosse Ganze, zu dem sich dies Alles ebenfalls nur als Theil verhält» (sul “grande Insieme”, rispetto al quale anche tutto questo si rapporta soltanto come parte), a prescindere da ogni valutazione della ‘importanza’ degli eventi e da ogni comparazione con i valori della civiltà cui appartiene. I principi teorici di Schlözer denotano indubbiamente una visione ‘illuminata’ e avanzata; l’applicazione concreta non è però esente da limiti e contraddizioni, come quasi sempre accade e come vedremo in qualche punto preciso (10). Lo studio della storia dell’Africa del Nord e la redazione del volumetto di cui trattiamo – a parte i motivi di attualità e la strumentalità didattica, di cui diremo – avevano verosimilmente costituito per Schlözer un tassello dell’am-

(9) BOCK 1844, 54-77 (Allgemeine Geschichte), le citazioni dalle pagine 54, 56 e 58 (Schlözer sentiva che la storia universale era altro che non un semplice contenitore di diverse storie particolari, senza che quella comportasse una idea filosofica, una organica strutturazione). (10) ID., 56 e 58.

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bizioso progetto di cui abbiam detto (11). Il Maghreb, come oggi lo chiamiamo, quanto a cultura, lingua, religione era, come è, parte del mondo araboislamico, dunque dell’Oriente, anche se prima dell’Ottocento non era sempre percepito come tale dagli europei (12). L’interesse per l’Oriente – in verità, più l’Oriente antico, biblico, che non quello arabo-islamico – aveva animato la fantasia di Schlözer ventenne; nella speranza d’un viaggio in Siria ed in Arabia aveva seguito corsi di arabo e d’altre discipline, anzitutto dell’orientalista Johan David Michaelis, per la cui fama si era trasferito all’Università di Göttingen. Anche per mettere da parte il denaro necessario per il viaggio era andato a lavorare in Svezia ed ancora quando si trovava in Russia pensava al viaggio in Oriente che non riusci però mai ad attuare (13). Anche questo interesse verso l’Oriente poté dunque essere una componente nelle motivazioni che lo decisero a redigere e pubblicare la Geschichte. La motivazione immediata fu però, come è indicato nello stesso frontespizio dell’opera, l’utilizzazione «zum Gebrauch seiner Vorlesungen», quale sussidio per le sue lezioni, a mo’ di dispense, diremmo oggi. L’aver prescelto allora quale oggetto del suo corso quell’area del mondo arabo-islamico scaturì, almeno a quanto Schlözer afferma nella prefazione (datata da Göttingen, il 3 dicembre 1774) da alcuni recenti avvenimenti così indicati: Die misslungene Empörung von Ali-Bek (sic) in Aegypten, die Marockanische Kriegs-Erklärung gegen Spanien, die Zwistigkeiten zwischen Algier und England, und die sogar literarische Verbindung zwischen Tripoli und Schweden (14).

(11) FRENSDORFF 1909, 92, che definisce Schlözer «der geborne Epitomator. Wie oft kehrt in seinen Schriften die Ankünding wieder, er wolle die Geschichte eines Volks, einer Zeit, einer Periode in ein Bändchen, in ein Handbüchlein zusammenpressen» (un epitomatore nato. Quanto spesso nei suoi scritti ritorna l’indicazione che egli voleva riassumere la storia di un popolo, di una epoca, di un periodo in un volumetto, in un libretto), con riferimento alle Kritisch-historische Nebenstunden, Göttingen 1797, 1. (12) In proposito vi è una analisi molto approfondita in THOMSON 1987, 41-63 (cap. 11, Location), dove si afferma, fra l’altro, che una «conception of Barbary as part of Europe […] had a tenacious existence» (p. 43). (13) FRENSDORFF 1890, 570. Su Johann David Michaelis, orientalista (studi biblici) e teologo (1717, Halle/Saale – 1791, Göttingen), dal 1746 professore e dal 1759 ‘ordinario’ per le lingue orientali v. Deutsches Literatur-Lexikon (v. nota 7), col. 1036 (R.M.). (14) Summarische Geschichte, 2 della Vorrede (la fallita ribellione di ‘Ali Bey in Egitto, la dichiarazione di guerra del Marocco alla Spagna, le controversie fra Algeri e l’Inghilterra, e il legame persino culturale fra Tripoli e la Svezia).

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Il richiamo ad Ali Bey è invero estraneo all’opera che non considera affatto l’Egitto, non appartenente certo al Nord-Afrika; la dichiarazione di guerra del Marocco alla Spagna, del 21 settembre 1774, è un evento che colpì molto il nostro autore (tornerà a menzionarla nelle ultime pagine), ed ha effettivamente un rilievo storico. Il contrasto del pascià di Algeri con il console britannico Archibald Campbell Fraser, in carica nella città maghrebina dall’ottobre 1767, si era acceso sin dal 1772 a seguito di alcune fughe di schiavi cristiani e della pretesa del dey di ricevere il baciamano dal rappresentante della Gran Bretagna; il dissidio si aggravò al punto che il console Fraser sul finire del 1773 lasciò Algeri ed invano nell’aprile successivo una squadra britannica, al comando di sir Peter Denis, cercò di imporne il ritorno (15). A quale “legame” o “collegamento” (Verbindung) fra Tripoli e la Svezia l’erudito tedesco precisamente si riferisse, non sappiamo indicarlo. È noto peraltro che la Svezia, grazie alla corresponsione di tributi, già da tempo manteneva buoni rapporti con Tripoli; nell’aprile 1741 era stato firmato un accordo fra i due governi ed Ali Qaramanli, salito al potere nel 1754, aveva mandato due anni dopo un suo inviato alla corte scandinava ed un altro, Abd ar-Rahmàn, era seguito nel 1773; di quest’ultimo avvenimento Schlözer aveva verosimilmente avuto notizia da qualche gazzetta dell’epoca se non ancora in maniera più diretta (16). In una considerazione d’insieme quei primi anni Settanta del XVIII secolo non sono particolarmente significativi né nella storia interna degli stati barbareschi né in quella delle loro relazioni internazionali, se non per il ricordato inizio delle ostilità del Marocco contro la Spagna (1774), conclusesi un anno dopo con l’insuccesso dell’assedio del presidio spagnolo di Melilla, che il sovrano marocchino cercava di recuperare all’integrità del suo impero. L’assedio era stato condotto personalmente dal sultano Muhammad ben Abdallàh, il cui lungo regno (1757-1790) segna un periodo di rilievo nella storia dell’impero sceriffiano per la riorganizzazione militare e finanziario-amministrativa attuata dal sovrano nella prospettiva di una riaffermazione del potere centrale. La pace

(15) PLAYFAIR 1884, 206-212. L’ebbe a vinta in sostanza il dey algerino al quale il sovrano britannico scrisse il 13 maggio 1775 annunciandogli l’invio di un nuovo console, che avrebbe «conduct himself in a manner agreeable to you». (16) MICACCHI 1936, 97 e 104; ROSSI 1968, 245. Sui buoni rapporti della Svezia con i barbareschi, grazie alla regolare e generosa corresponsione di ‘tributi’, si veda DESFEUILLES 1956, con un cenno (p. 218) alla missione diplomatica del 1773 e alla documentazione in proposito conservata negli archivi di Stoccolma, e BDIRA 1977.

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fra i due paesi fu ristabilita, dopo lunghe trattative, con l’accordo del 30 marzo 1780 (17). Nel 1775 – l’anno di pubblicazione della Summarische Geschichte – le forze spagnole compirono un altrettanto fallimentare tentativo contro Algeri; la spedizione, preparata con larghezza di mezzi e forte di una cinquantina di navi con 24mila uomini, era al comando del generale O’Reilly, di origine irlandese. Quanto a Tunisi – dove regnava Ali Bey (1759-1781) della dinastia husainita, al potere dagli inizi del secolo – nel giugno 1774 aveva rinnovato la pace con la Francia, la cui amicizia divenne in quegli ultimi decenni del Settecento un elemento costante della politica degli stati barbareschi. Nello stesso anno anche il pascià di Tripoli, Ali della dinastia Qaramanli, sottoscrisse un trattato con la Francia (12 dicembre) ed una ambasceria tripolina si recò a Versailles ad ossequiare Luigi XVI recandogli in dono cavalli, dromedari, struzzi, falconi ed altri esemplari della fauna africana; l’attività corsara era stata però incrementata contro gli altri stati europei (18). Al di là del richiamo all’attualità – confermato invero dagli eventi dell’anno di edizione e del seguente decennio – Schlözer, nel giustificare l’opportunità della sua fatica rileva, sempre all’inizio della introduzione, la stretta connessione che le vicende dell’Africa del Nord hanno avuto con quelle dell’Europa meridionale nel Medioevo; prosegue con l’affermare – e questo è degno di attenzione – che si è giunti (sottinteso: nel progresso intellettuale dell’Europa) ad estendere lo studio anche «agli Arabi e ai Mongoli, persino agli Almoravidi e agli Almohadi». Non è invero inesatto distinguere almoravidi e almohadi dagli arabi poiché essi erano berberi, come è noto. Il testo prosegue dicendo che sono da considerare sinanco «diese so genannte wilde Menschenkinder» (questi uomini cosiddetti selvaggi) quali «unentbehrliche Glieder der langen Kette, genannt Welthistorie» (componenti indispensabili della lunga catena detta storia universale) mentre erano allora considerati «wie verlassene Revier der Weltgeschichte» (come campi abbandonati della storia universale) (19).

(17) Sulla storia del Marocco nel periodo in questione si vedano RODRIGUEZ CASADO 1946 (sulla guerra ispano-marocchina 207-235), LOURIDO DÍAZ 1989, CAILLÉ 1960. In particolare sull’assedio di Melilla svoltosi dal 10 dicembre sino al fallito assalto generale del 13 febbraio v. F.S. DE MIRANDA, El sitio de Melilla de 1774 a 1775, Tanger 1939 e LOURIDO DÍAZ 1972b. (18) Sulle spedizioni contro Algeri e sui rapporti diplomatici ispano-algerini si veda nei capitoli 1 e 2. Sul regno di Ali Bey vedasi, fra gli altri, ROUSSEAU 1864, 163-195. Su Tripoli si può far riferimento a ROSSI 1968, 247, o, più specificamente, a MICACCHI 1936, 95-106. (19) Pagina 1 della prefazione («Den so weiter sind wir doch einmal, dass wir zwar auch noch, wie unsre Väter, Ägypter, Chaldär, Griechen, und Römer, studiren, aber mit diesen noch Araber und Mogolen, ja so gar Morabethen und Muahedier, verbinden»).

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L’apertura universalistica e per contro l’indiscussa discriminazione verso i “selvaggi” rispetto agli “illuminati” europei sono, come si vede, esplicite e coesistenti; si palesano peraltro anche in passi successivi. Così quando, nell’affermare che gli arabi «wurden gelehrt» (divennero istruiti), osserva: «wer sollte es von diesen sonst rohen Barbarn glauben» (chi l’avrebbe creduto di questi altrimenti rozzi barbari?). La più sconcertante espressione di un senso di superiorità, peggio che razzista, si ritrova nell’ultima pagina del volumetto. A proposito del Marocco si rileva che in quel vasto paese, più grande della Francia, possono esservi «kaum ein par Millionen Menschen, oder vielmehr Anthropomorfa» (appena un paio di milioni d’uomini, o meglio di antropomorfi)! L’orgoglio razzista del dotto di Göttingen esplode sdegnato nel constatare che “questi antropomorfi” hanno osato persino dichiarare guerra alla Spagna! (20). Con spirito critico Schlözer rinvia alla bibliografia quale fondamento del contenuto del suo testo e riconosce di non aver fatto ricorso a fonti primarie («erste Quelle»). Non è dunque un lavoro critico? si chiede; «ma allora, quante storie di stati europei sono state elaborate criticamente!» – conclude con retorica ironia. L’illuminista tedesco condivide la necessità di un ricorso a fonti arabe (fonti narrative, egli intende) e questa convinzione è certo una significativa novità, ma precisa, e non a torto, che quelle sono ben scarse a partire dal secolo XVI; fonti anteriori, egli aggiunge, sono presenti in Europa, ma bisogna attendere che siano edite e tradotte. «Muss allem Ansehen nach noch lange warten» (si dovrà aspettare ancora a lungo, a quanto sembra), conclude, e segnala che la maggior parte dei manoscritti sono a Parigi; importanti fonti ‘orientali’, in effetti, saranno rese note, e tradotte, a partire dalla metà dell’Ottocento (21). Bisogna dunque, prosegue Schlözer, seguire «Geschichtschreiber vom zweiten Rang» (storiografi di secondo rango); delle fonti ha dato un elenco in appendice (vedi avanti). Quelle opere sono piene, egli lamenta, di “contraddizioni”

(20) Summarische Geschichte, 50 e 93: «Diese marockanischen Anthropomorfa haben den spanischen Menschen neulich, den 19 Sept. 1774, den Krieg angekündet!». Secondo gli autori da noi consultati (vedi nota 16) la data della dichiarazione di guerra è il 21 settembre, come già indicato. (21) Pagina 2 verso della Vorrede. «Nun doch, wie viele Geschichten von unsren europäischen Staten sind dann kritisch bearbeitet!» Aggiunge un dato che non mi sembra noto, ma da verificare, cioè che in occasione della conquista di Tunisi del 1535 opere storiche arabe vennero portate in Europa («Nach dem Anfange des 16ten Jahrhunderts giebt es schwerlich viele inländische arabische Annalen. Höher hinauf giebt es welche, die der christlichen Plünderung in Tunis entgangen, und nach Europa gekommen sind»).

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(Widersprüche), e nella rappresentazione degli eventi e nelle date. Nella introduzione l’erudito poligrafo tedesco confessa esplicitamente che egli ha redatto il testo piuttosto rapidamente: Wer alle ihre Nachlässigkeiten berichtigen, und alle ihre Widersprüche vereinigen, oder nur die Möglichkeit einer Vereinigung aller alten und neuen Verzeichner untersuchen wollte: der müsste mehr Monate Zeit aufopfern, als ich Tage auf diese Summarien habe verwenden können (22).

Un’altra osservazione l’anticipa egli stesso: nel testo vi sono “fatti” (Thatsätze) mentre di «Maximen, Raisonnemens und Reflexionen», il lettore ne troverà ben poche; egli lascia al lettore appunto di valutare, mostrando «höfliches Zutrauen zu seiner eignen Denkkraft» (cortese fiducia nella sua propria capacità di pensare). Un altro punto è toccato nel discorso introduttivo: la scelta dei fatti («die Auswahl der Thatsätze»), da prendere in considerazione. Schlözer scrive di non aver avuto difficoltà per la quantità, ma al contrario per la scarsità di fatti rilevanti «in einem physisch und historisch dürren Weltstriche» (in una parte del mondo fisicamente e storicamente arida); l’importanza di alcuni eventi può tuttavia risiedere in alcuni dettagli, che egli ha dovuto trascurare, «durch ihre Beziehung auf andre Geschichtsteile» (per il loro rapporto con altre parti della storia) (23). Coerentemente a quanto esposto nella introduzione Schlözer ripartisce il suo pur breve testo in sei capitoli, a loro volta articolati (ad esclusione dei primi due) in più paragrafi. All’età preislamica è concesso ben poco spazio: un capitolo (pp. 6-9) sul periodo vor Christo, bis Christi Geburt (prima di Cristo, sino alla nascita di Cristo) ed un altro sul periodo unter den Römern, cioè del dominio romano-bizantino, dall’inizio dell’era cristiana al 639, che occupa tuttavia solo tre pagine (pp. 9-11) (24). Al periodo arabo-berbero – che possiamo dire ‘medievale’, secondo la periodizzazione europea (dall’avvento dell’Islàm all’affermarsi dell’influenza ottomana, agli inizi del secolo XVI) –risultano assegnate una quarantina di pagine, divise in tre capitoli: III. unter den Ara-

(22) Ivi, 2v-3r della prefazione (Chi volesse rilevare tutte le trascuratezze, raccogliere tutte le contraddizioni, o soltanto indagare la possibilità di mettere insieme tutte le vecchie e nuove raccolte, costui dovrebbe sacrificare più mesi dei giorni che io ho potuto dedicare a questo sommario). (23) Vorrede, 2v e 3r. (24) Riportiamo i titoli dei capitoli e dei paragrafi come indicati nella tavola dell’indice (Inhalt); nelle pagine del testo appaiono lievi varianti.

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bern, seit A. 639 (periodo del dominio arabo dall’anno 639) (25); IV. unter den Fatimiten, seit dem A. 908 (periodo fatimita dall’anno 908) (26); V. unter den Muahediern seit A. 1120 (periodo almohade dall’anno 1120)(27). Rispetto all’età antica quella ‘medievale’ ha dunque ricevuto una attenzione maggiore, ma più ancora proporzionalmente ne ottengono i due secoli e mezzo dell’età moderna, trattati nel VI ed ultimo capitolo: Unter den Osmanern und Scherifen, seit A. 1517 (sotto gli ottomani e gli sceriffiani, dal 1517), al cui interno la ripartizione non è più per fasi dinastico-cronologiche ma per paesi, cioè Algier, Tunis, Tripoli, Marocko (28). La diversa estensione dei paragrafi del cap. VI, concernenti i quattro stati maghrebini, deriva per un verso dalla importanza rispettiva attribuita loro comunemente e dalla proporzionalmente maggiore conoscenza che se ne aveva in Europa. Algeri (nove pagine) dal sec. XVI è considerata la città-corsara più forte, dalla quale provengono più gravi minacce ai paesi e alle flotte europee. Seguono Tunisi (cinque pagine) e Tripoli (tre pagine); quest’ultima, in verità, sembra avesse di fatto nel secolo XVIII accresciuto la sua ‘quota’ nell’insieme della attività corsara barbaresca, ma restava per così dire ‘sottovalutata’ e misconosciuta. Quanto a Tripoli Schlözer confessa peraltro di saperne poco («mehr weiss ich von Tripoli nicht») (29). La netta prevalenza della trattazione riservata al Marocco (20 pagine) può spiegarsi con la maggiore rilevanza che l’autore era portato ad attribuire all’impero sceriffiano impostosi allora all’attenzione dell’Europa per la politica di rinnovamento interno e di attivi rapporti diplomatici perseguita, come già si è ricordato, dal grande sultano Abdallàh. Forse vi ha contribuito una qualche

(25) Pagine 11-23. Dopo una trattazione sul periodo iniziale dell’avvento arabo, il testo prosegue così articolato: 1. Spanien, unter den Ommajaden, A. 775-1023 (pp. 18-20); 2. Magrab (sic) unter den Edrisiern, A. 789-941 (pp. 20-21), 3. Afrika, unter den Aglabiern, A. 800-908 (pp. 21-22) e Sicilien unter ebenderselben (p. 22), 4. Aegypten unter Tulunern und Ischiediern, A. 808-969 (p. 23). (26) Pagine 34-35. A sua volta così ripartito dopo un paragrafo iniziale concernente propriamente i Fatimidi: 1. Zeiriden in Afrika und in Magrab A. 970-1069 (pp. 26-30) e Hamadier bei Algier, (p. 29); 2. Morabethen, in Magrab und in Spanien, A. 1069-1146 (pp. 30-34) e Revolutionen von Nord-Afrika überhaupt (pp. 34-35). (27) Pagine 35-53. Dopo il paragrafo che intitola il capitolo (pp. 35-41), seguono: l. Abuhassier, in Afrika, seit A. 1206 (pp. 42-43); 2. Meriniden, in Magrab, seit A. 1213 (pp. 4345), 3. Zianier, in Telmesan, seit A. 1248 (pp. 45-53), Revolutionen von Nord-Afrika und Spanien (pp. 46-50), e Zustand von Nord-Afrika (pp. 50-52). (28) Pagine 53-93. Dopo un paragrafo iniziale (pp. 53-56), il testo così si articola: I. Algier (pp. 57-64); 2. Tunis (pp. 65-69); 3. Tripoli (pp. 70-72); 4. Marocko (pp. 73-93). (29) Summarische Geschichte, 72 (di Tripoli non so di più).

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maggiore facilità per Schlözer di documentarsi sul Marocco; rileviamo però che la trattazione è limitata quasi soltanto al secolo XVI, alla fase cioè dell’avvento al potere della dinastia sceriffiana (30). A proposito del periodo ottomano è interessante l’accostamento, dettato dallo spirito antitradizionalista proprio dell’illuminismo, che vien fatto dei giannizzeri e del loro reclutamento con i cavalieri di Malta: In Tunis aber, Tripoli, und Algier, herrschen aristocratisch, kleine Türken-heere, die aus dem Abschaume der Türken des Orients bestehen und sich alljärlich ebenso rekrutieren, wie die Deutsche Ritter vormals in Preussen, und die Johanniter jetzo noch auf Malta, verewigen (31).

Nel trattare di Algeri così si ricorda la tempesta – suscitata, secondo la tradizione locale, dai poteri di un marabutto – che nel 1541 danneggiò gravemente la flotta di Carlo V e costrinse l’imperatore a cessare l’assedio e a ritirarsi: Ein Marabut hatte das Meer mit einem Stocke geschlagen: dies that Wunder für das Raubnest, wie einst das Hemd der Maria gegen die Normänner und Russen (32).

Quanto al governo della reggenza algerina si rileva non solo la sua autonomia dall’impero ottomano ma anche la ‘democrazia’ interna: Diese Türken-heere, mit ihrem Dej an der Spitze, sind fast gänzlich unabhängig: sie scheinen Vasallen des osmanischen Kaisers zu sein, und sind doch nur seine Bundesgenossen.

(30) Sulle pagine di Schlözer concernenti il Marocco, criticamente confrontate con quelle dell’orientalista austriaco Franz von Dombay (Geschichte der Scherifen oder der Könige des jetzt regierenden Hauses zu Marokko, Agram 1801), si veda H. MATTES, Deutschsprachige Nordafrika- Forschung im 18° Jahrhundert am Beispiel der Vorlesungen des August Ludwig Schloezer und der marokkanischen Historiographie des Franz von Dombay, in “Wuqûf ”, 4-5/ 1989-1990 (Hamburg 1991), 427-438 (alle pp. 439-464 è riprodotto il testo di Schlözer). (31) Summarische Geschichte, 57 (A Tunisi,Tripoli e Algeri comandano piccoli e elitari contingenti di truppe turche, costituiti dalla feccia dei turchi d’Oriente e reclutati annualmente, i quali così si perpetuano, come un tempo i cavalieri teutonici in Prussia e ancor oggi i cavalieri di Malta). (32) Ivi, 62 (Un marabutto aveva battuto il mare con un bastone; ciò produsse un miracolo per il nido dei corsari, come una volta aveva fatto la camicia della Madonna contro i normanni e i russi).

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Der Dej ist der Sklave seiner Türken, die alle, von Aga bis zum Pauker herab, in Sachen, die die hohe Regierung betreffen, förmlich und rechtmässig […] ihre Stimme geben (33).

Lo spirito illuministico dell’autore non poteva non ispirargli un pregiudizio negativo verso gli arabi, quale affiora in più passi del testo. Per esempio, dove scrive che Diese Araber, so lange sie herrschend waren, zerstörten in Afrika das Christentum, die Gelehrsamkeit, und den Weinbau (34).

Si ricorda d’altra parte che essi introdussero alcune piante e alcune “Künste” (arti) dall’India e anche, correttamente ma non senza una punta di zelo illuministico, che la cultura araba si trasmise dalla Spagna all’Europa contribuendo a far tramontare l’‘oscurantismo’ della cultura ecclesiatica medievale: Der Geschmack an Wissenschaften zog sich von Bagdad, durch Afrika, nach Spanien herüber: und vom arabischen Spanien, nicht von dem durch Osmanen erobert Byzant, giengen die ersten Strahlen aus, die das christliche Europa aufheiterten, und den dicken Nebel der Unwissenheit und der Vorurteile zerteilten, welcher ein halbes Jahrtausend über unsern Klöstern gehangen hatte (35).

A proposito della cultura degli arabi viene segnalata anche la loro particolare disposizione alla poesia: Dichter waren die Araber schon, wie sie noch Barbaren waren; dies blieben sie auch im Zeitraume ihrer Aufklärung (36).

(33) Summarische Geschichte, 57 e 64 (Queste truppe turche, con alla testa il loro dey, sono quasi del tutto indipendenti: sembrano vassalli dell’imperatore ottomano, ma sono i suoi alleati. Il dey è lo schiavo dei suoi turchi, i quali tutti, dall’agha al segretario, esprimono formalmente e con valore giuridico il loro voto sulle questioni che concernono i grandi affari del governo). (34) Ivi, 15 (Questi arabi sino a quando dominarono, in Africa distrussero il Cristianesimo, la cultura e la coltivazione della vite). (35) Ivi, 50-51 (Il gusto della scienza passò da Baghdad, attraverso l’Africa, sino alla Spagna, e dalla Spagna araba, non da Bisanzio conquistata dagli ottomani, si irradiarono i primi raggi che illuminarono l’Europa cristiana e infransero la fitta nebbia dell’ignoranza e del pregiudizio che aveva gravato sui nostri conventi per un mezzo millennio). (36) Ivi, 57 (Poeti gli arabi erano già quando erano ancora barbari e lo restarono anche al tempo del loro ‘illuminismo’).

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Un riconoscimento specifico, sia pur indiretto, alla ricchezza intellettuale anche della regione maghrebina risulta implicito nella segnalazione della distruzione del patrimonio librario di Tunisi ad opera dei conquistatori spagnoli nel 1535: Zugleich vernichteten sie eine Menge Bücher, deren Verlust fur die Geschichte von Tunis, von den Abuhassiern, und von Nord-Afrika überhaupt, vielleicht auf immer unersetzlich ist (37).

Dall’esame della Geschichte dell’illuminista tedesco scaturiscono due altre contrastanti osservazioni: da un lato sono frequenti errori ed imprecisioni, più o meno evidenti, dall’altro si riscontra qualche osservazione e valutazione perspicua, ben più di quanto ci potremmo attendere in considerazione della data dell’opera e della mancanza nell’autore di una diretta esperienza e di una specifica competenza su quei paesi. Ecco alcuni esempi. La città tunisina sorta dalla prima stabile base di occupazione degli arabi, guidati nel 670 da ‘Uqba ibn Nafi, l’attuale Qairawàn, viene indicata come “Kairwan” (Cyrene); resta incomprensibile l’accostamento dell’antica città cirenaica, di fondazione greca, al centro militare e religioso situato nell’attuale Tunisia. Di Tripoli si dice che venne conquistata da Pedro Navarro nel 1503 (anziché nel 1510) e poi riconquistata all’Islàm da Khair edDin nel 1535, sino a quando «Karl V. eroberte sie zum zweitenmal» (Carlo V la conquistò per la seconda volta); non si precisa la data ma sembrerebbe immediatamente dopo, con evidente confusione con la vicenda di Tunisi (salvo ricordare correttamente che Carlo V affidò Tripoli, ma fu nel 1530, ai cavalieri di Malta) (38). A proposito della riconquista musulmana di Tunisi nell’estate 1574 – tanto per dare un altro esempio di inesattezze – si dice che la spedizione ottomana «eroberte Tunis, wo ein Graf Serbelloni kommandierte, samt Golette, im ersten Sturm» (conquistò Tunisi, dove comandava un conte Serbelloni, insieme alla Goletta, al primo assalto). In effetti le forze turche sbarcarono sulla costa maghrebina il 13 luglio ma soltanto il 20 agosto attaccarono la fortezza della Goletta dove il comandante, lo spagnolo Portocarrero, si arrese il giorno 23; dalla città di Tunisi posta, come la sua fortezza, sotto la responsabilità del mi-

(37) Summarische Geschichte, 67 (allo stesso tempo distrussero una quantità di volumi, la cui perdita è irreparabile, forse per sempre, per la storia di Tunisi, degli Hafsidi, e in generale del Nord Africa). (38) Ivi, 12 e 70-71.

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lanese Gabrio Serbelloni, i cristiani si ritirarono il 17 luglio ma la fortezza resistette eroicamente sino al 13 settembre. Non può dirsi dunque che il forte di Tunisi né quello della Goletta siano caduti «al primo assalto» (39). Tra le osservazioni segnaliamo una precisazione sull’atteggiamento della popolazione maghrebina (“Afrikaner”) nei confronti degli spagnoli e dei turchi, visti come gleiche Feinde, und gleich fremd: aber jene waren Christen, und diese Mohaemmeder; folglich wollten die Afrikaner das Joch, da sie ein Joch haben sollten, lieber von Glaubensgenossen als von Unglaeubigen erdulten (40).

Una verità molto semplice che spesso però gli europei hanno trascurato di considerare. Possiamo infine fare qualche osservazione sul Verzeichnis bibliografico che Schlözer pone al termine del volumetto e che presentiamo in appendice – sia pur con diverso ordine delle voci – per fornire un dato informativo non certo secondario e per rendere più facilmente verificabili alcune osservazioni. Quanto alla data di edizione delle opere citate (per le traduzioni si considera quella dei testi), esclusi i volumi sull’Egitto e sui turchi, si riscontra che un’opera sola è del secolo XVI , cinque del XVII , nove del XVIII (41); l’opera più recente è però del 1765, di un decennio anteriore alla Summarische Geschichte, un’altra è anteriore di un quindicennio circa, tutte le altre di un quarto di secolo o più (42). L’elenco comprende 17 voci ordinate, sembra, secondo la materia del testo, dapprima tre opere di carattere più generale poi quelle concernenti Algeri, poi l’insieme degli stati barbareschi, infine il Marocco; fuori ordine, al quindicesimo posto del Verzeichnis, appare l’opera di Mar’i ben Yusuf al-Hanbali sull’Egitto, paese che in verità resta fuori, e giustamente, dalla trattazione (43).

(39) Summarische Geschichte, 69. Sugli eventi di Tunisia del 1574 si può vedere S. BONO, Tunisi e la Goletta negli anni 1573-1574, “Africa”, XXXI/1976, 1-39, e L’occupazione spagnuola e la riconquista musulmana di Tunisi (1573-1574), “Africa”, XXXIII/1978, 351-382. (40) Summarische Geschichte, 55 (parimenti nemici e parimenti estranei ma quelli erano cristiani e questi musulmani. Per conseguenza gli africani se dovevano sopportare un giogo preferivano quello dei compagni di fede anziché quello degli infedeli). (41) Rispettivamente per i tre secoli n. 1 della tavola, nn. da 2 a 6 e nn. da 7 a 15. (42) Numero 15 della tavola e numero 14. (43) Le tre opere corrispondono ai numeri 4, 15 e 16. Al-Hanbali è l’ultima voce (n. 17) della nostra tavola.

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Sette opere concernono soltanto il Marocco (44), quattro l’intero Maghreb (dal Marocco alla reggenza di Tripoli) (45), tre soltanto Algeri, una i tre stati barbareschi, propriamente detti ; una, infine, l’Egitto ed una i turchi (46). Verosimilmente Schlözer ha utilizzato soprattutto i volumi che poteva agevolmente consultare nelle biblioteche di Göttingen; qualche altro lo aveva probabilmente consultato nelle biblioteche di Parigi. Nella sua bibliografia mancano invero alcune opere di carattere più generale, come Dapper (47), o specifico come Dan (48), destinato a divenire testo fondamentale di riferimento sui barbareschi; fra gli scritti editi nel mezzo secolo precedente l’edizione della Geschichte oltre a quelli da Schlözer menzionati si possono ricordare le relazioni di viaggio o i Mémoires di soggiorni in terra barbaresca del diplomatico francese d’Arvieux (49), del console a Tunisi Saint Gervais (50), dell’erudito pastore anglicano Thomas Shaw (51), dello sfortunato Thomas Pellow a lungo schiavo e rinnegato in Marocco (52), del francese sieur Tollot (53), per finire con un’opera anteriore di pochi anni alla Summarische Geschichte, la relazione sul ventennio di viaggi in tre continenti di William Lithgow (54).

(44) l numeri 1, 2, 3, 6, 8, 10 e 11. (45) Cioè i numeri 4, 5, 14 e 15 della tavola bibliografica. (46) Numeri 9, 12 e 13. Per gli stati barbareschi, l’Egitto e la Turchia rispettivamente ai numeri 7, 17 e 16 della nostra tavola. (47) O. DAPPER, Naukeurige beschrijvinge der Afrikaensche gewesten van Egypten, Barbaryen, Lybien, Biledulgerid, Amsterdam 1676. (48) P.F. DAN, Histoire de Barbarie et de ses corsaires, Paris 1637. Una edizione olandese: Amsterdam 1684. (49) L. D’ARVIEUX, Mémoires, Paris 1735, voll. 6, pubblicati postumi a cura del domenicano J.B. Labat. L’autore, morto nel 1702, era stato a Tunisi nel 1666 e ad Algeri nel 1674 quale negoziatore per il governo francese. (50) J. BOYER DE SAINT GERVAIS, Mémoires historiques qui concernent le gouvernement de l’ancien et du nouveau Royaume de Tunis, Paris 1736. (51) TH. SHAW, Travels and Observations relating to Several Parts of Barbary and the Levant, Oxford 1738; trad. francese: Voyages de Monsr. Shaw, La Haye 1743, voll. 2. L’autore soggiornò ad Algeri e viaggiò negli stati barbareschi fra il 1720 ed il 1732. (52) TH. PELLOW, The History of the long Captivity and Adventures of M P., in South Barbary […], London [1739 o 1740]. Su questa opera si può vedere l’ottima recente edizione francese con ampio commento a cura di MORSY 1983. (53) J.B. TOLLOT, Nouveau voyage fait au Levant ès-annés 1731 et 1732. Contenant les descriptions d’Alger, Tunis, Tripoly de Barberie, Alexandrie en Egypte, Terre Sainte, Costantinople, etc…, Paris 1742. (54) W. LITHGOW, A most delectable, and true discourse, of an admired and painefull peregrination from Scotland to the most famous Kingdomes in Europe, Asia, and Affrica, London 1632: così in PLAYFAIR e BROWN 1893, n. 142, che segnala una prima edizione, con altro

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Nessuna di queste opere tuttavia ha il carattere di storia, cioè di ricostruzione meditata ed organica; la Summarische Geschichte è, come si è detto, la prima opera storiografica in senso proprio e lo resterà ancora a lungo, poiché altre mescolano narrazione degli eventi storici a notizie occasionali e curiosità di vario genere; talvolta, come nel caso delle Anecdotes arabes et musulmanes (Paris 1772) o delle Anecdotes africaines (Paris 1775), il titolo è già rivelatore (55). Per un’altra storia del Maghreb degna di questo nome bisognerà attendere l’opera di Gustav Diercks, non a caso un altro studioso tedesco, che nel 1861 pubblicò a München il volume Nordafrika im Lichte der Kulturgeschichte, rimasto anche esso del tutto trascurato (56). La Geschichte, come si è detto, è essenzialmente un compendio di fatti («bloss Facta ohne Raisonnement»), come rileva un già ricordato biografo, il quale non nasconde che la maggior parte degli scritti dell’illuminista di Göttingen, esclusi quelli concernenti la Russia, sono «im rohen Stil hingeworfen Scharteke» (scartafacci buttati giù in uno stile rozzo) (57). Ma dovevano essere, come l’autore stesso ha tenuto a evidenziare, un sussidio per le sue lezioni e queste erano invece tali da procurargli straordinario successo fra gli studenti e verosimilmente anche al di là di questi; arrivò ad avere fra i cento e i duecento ascoltatori, quando l’intera Università di Göttingen contava 800-900 studenti. Il suo eloquio è invero descritto dai contemporanei come «höchst lebendig und originell» (vivacissimo ed originale); le caratteristiche ed il contenuto del

titolo, nel 1614, ma precisa che «the completed work did not appear until 1632». Il catalogo a stampa della British Library registra invece il titolo da noi riportato con la data del 1614. (55) Il titolo della prima opera così prosegue: depuis l’An de J.C. 614, époque de l’établissement du Mahométisme en Arabie, par le faux Prophète Mahomet, jusqu’à l’extinction totale du Califat, en 1538. Nell’altra opera – il cui sottotitolo precisa Depuis l’origine ou la découverte des différents royaumes qui composent l’Afrique, jusqu’à nos jours – riguardano il Maghreb le Anecdotes de Barbarie (pp. 62), de Maroc (pp. 60), Algériennes (pp. 60), Tunisiennes (pp. 30), Tripolitaines (pp. 16). Sulle Anecdotes si veda il capitolo Gli stati del Maghreb nelle Anecdotes Africaines, 1775. (56) L’opera del Diercks è elencata in PLAYFAIR 1889, ma erroneamente datata al 1886 e dunque al n. 4582. Diercks (1852-1934) è ricordato nel Deutsches Literatur-Lexicon (vedi nota 7), III, Bern 1956, col. 188. (57) FRENSDORFF 1890, 574 e FRENSDORFF 1909, 93-94; la frase così prosegue: «wie für kleine Kinder, für die er die Menschen allerdings nicht selten ansehen möchte» (come se fossero per bambini, alla stregua dei quali peraltro egli non di rado soleva considerare gli uomini).

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suo insegnamento richiamarono intorno alla sua cattedra un uditorio entusiasta, come dice Frensdorff: Seine Lehrgabe, seine nicht bloss aus Büchern stammenden Kenntnisse, der Blick, den er in fremde Länder und Verhältnisse gethan, seine festliche, männliche, unter schwierigen Verhältnissen bewährte Persönlichkeit sammelte bald eine grosse und enthusiastische Zuhörerschaft um seine Katheder (58).

(58) Il suo talento nell’insegnare, le sue conoscenze non soltanto libresche, lo sguardo posato su paesi e questioni straniere, la sua personalità vigorosa e maschia, maturata anche attraverso difficili esperienze raccolsero presto intorno alla sua cattedra un numeroso ed entusiasta uditorio.

La prima storia del Maghreb (1775) Opera 1. D. DE TORRES 1 Relación de los Xarifes, Sevilla 1535 ( ) 2. G. MOÜETTE 2 Histoire des conquêtes de Mouley Arcry, Paris 1683 ( ) 3. G. MOÜETTE Relation de la captivité [...] dans les Royaumes de Fez, et de 3 Maroc, Paris 1683 ( ) 4. SIEUR DE LA CROIX Relation universelle de l'Afrique ancienne et moderne…, Lyon 4 1688 ( ) 5 5. Schauplatz barbariscber Sklaverei, Hamburg 1694 ( ) 6. F. PIDOU DE SAINT OLON 6 Relation de l'Empire de Maroc, Paris 1695 ( ) 7. Allerneuester Zustand der afrikaniscben Königreicbe Tripoli, 7 Tunis, und Algier, Hamburg 1708 ( ) 8. S. OCKLEY 8 An Account of South-West Barbary, London 1713 ( ) 9. LAUGIER DE TASSY 9 Histoire du Royaume d'Alger, Amsterdarn 1725 ( ) 10. J. WINDUS 10 A Journey to Mequinez, London 1725 ( ) 11. J. BRHAITHWAITE The History of the Revolutions in the Empire of Morocco, 11 London 1729 ( ) 12. LE ROY Etat général et particulier du Royaume et de la Ville d'Alger, 12 La Haye 1750 ( ) 13 13. An Epitome of the History of Algiers, London 1750 ( ) 14 14. Histoire des Etats Barbaresques, Paris 1757 ( ) 15. D.D. CARDONNE Histoire de l'Afrique et de l'Espagne sous la domination des 15 Arabes, Paris 1765 ( ) 16. J. DE GUIGNES 16 Geschichte der Hunnen, Greiswald 1770 ( ). 17. MAR’I BEN YUSUF AL-HANBALI 17 Geschichte der Regenten in Aegypten, Hamburg 1772 ( ).

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Marocco

Paesi considerati Algeri Tunisi

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(1) Indichiamo la data della prima edizione citata al n. 42 da PLAYFAIR e BROWN 1893, 231-232, i quali ricordano l’edizione parigina del 1636 sotto il titolo Relation de l’origine et du succèz [sic] des Chérifs […]. Schlözer cita l’edizione di Siviglia, 1586 e la traduzione francese effettuata da Charles de Valois, duca d’Angoulème, Paris 1667. (2) Per l’indicazione completa del lunghissimo titolo ed una minuziosissima descrizione dell’opera v. TURBET-DELOF 1976, 225-227, al n. 247; PLAYFAIR e BROWN 1893, 269, n. 296, erroneamente la datano al 1682.

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(3) Schlözer aggiunge l’indicazione d’una traduzione olandese, Leyden 1707, citata insieme ad altre da PLAYFAIR e BROWN 1893, 268-269, n. 295, che però erroneamente data la Relation al 1682. TURBET-DELOF 1976, n. 248, 227-229, segnala insieme una traduzione olandese, forse la stessa, come s.d. (4) L’opera (elencata da TURBET-DELOF 1976, 237-238, al n. 258) ha avuto successive edizioni; Schlözer fa riferimento a quella di Lyon, 1713, in 4 voll., che è dunque effettivamente esistita, mentre Turbet-Delof dice di dubitare dell’indicazione in proposito reperita nella bibliografia data da MINISTÈRE DE LA GUERRE, Tableau de la situation des établissements français dans l’Algérie de 1840, Paris 1841, 429. Il titolo così prosegue: où l’on voit ce qu’il y a de remarquable, tant dans la terreferme que dans les îles, avec ce que le roi a fait de mémorable contre les corsaires de Barbarie, etc. (5) Il titolo prosegue oder von Algiers, Tunis, Tripoli, und Salee. L’opera è citata da PLAYFAIR 1889, 18, n. 197, da PLAYFAIR e BROWN 1893, 271, n. 309 e da altri repertori. (6) Da Schlözer l’autore è indicato come S. Olon; come ampiamente documenta TURBET-DELOF 1976, 250-252, n. 268, la prima edizione dell’opera, con il titolo Etat présent de l’empire de Maroc, è del 1694; successive traduzioni in inglese (1695), olandese (1698), italiano (1699). (7) L’indicazione bibliografica data da Schlözer così prosegue: von einem gelerten Jesuiten. Aus dem Französischen. Deve trattarsi della traduzione tedesca dell’opera anonima, ma da attribuirsi al padre trinitario Philemon de la Motte, Etat des royaumes de Barbarie, Tripoli, Tunis et Alger, contenant l’histoire naturelle et politique de ces pays, Rouen 1703, sulla quale si veda TURBET-DELOF 1976, 262-263, n. 279, che segnala due traduzioni olandesi (1704 e 1714) ed un’altra edizione francese (Rouen 1731); molti autori, anche BONO 1964, 421, l’hanno erroneamente attribuita ad un altro trinitario, Jean-Baptiste de la Faye. La traduzione tedesca è segnalata invece da PAULITSCHKE 1882, 68, nn. 668 e 669. (8) Il titolo così prosegue: containing what is most remarkable in the Territories of the King of Fez and Morocco. Written by a Person who had been a Slave there a considerable time. Si veda PLAYFAIR e BROWN 1893, 273, n. 328 che segnala una traduzione francese del 1713. Una traduzione tedesca: Eines englischen Sklaven Beschreibung der Süd West Barbarey worinnen die merkwürdigsten Dinge des maroccanische Kayserthums zu ersehen sind, Hamburg 1717, è citata da PAULITSCHKE 1882, n. 674. Simon Ockley, professore di arabo nell’Università di Cambridge, è soltanto il curatore dell’edizione del manoscritto anonimo. (9) Nello stesso anno l’opera venne pubblicata, sempre ad Amsterdam, in traduzione olandese; una traduzione spagnola apparve a Barcellona s.d. ma 1733. Il titolo così precisa: avec l’état présent de son gouvernement, de ses forces de terre et de mer, de ses revenues, police, justice, politique et commerce. Sull’opera v. PLAYFAIR 1889, 20, n. 220. (10) L’opera di John Windus è citata da Schlözer come Reise nach Mekinez im Jahr 1725: è la traduzione tedesca di F.G. Weber (Hannover 1726) più esattamente citata, come altre traduzioni ed edizioni, da PLAYFAIR e BROWN 1893, 275, n. 342. (11) Il titolo così prosegue: upon the death of the late Emperor Muley Ismael, being a most exact Journal of what happened in those parts in the last and part of the present year. Notizie sull’autore, sull’opera e sulle traduzioni in PLAYFAIR e BROWN, 1893, 276, n. 349; Schlözer sembra non conoscere la traduzione tedesca: Allerneueste Maroccanische Staats-Veränderungen, Hamburg 1730. (12) Schlözer elenca l’edizione del 1750 e la traduzione tedesca: Allgemeine und besondre Statsverfassung des Königreichs und der Stadt Algier, Hannover 1752, ignorata invece da PLAYFAIR

La prima storia del Maghreb (1775)

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1889, 23, n. 255, che definisce l’opera «a mere piracy of the work of Laugier de Tassy», e da PAULITSCHKE 1882. (13) Riportiamo testualmente l’indicazione di Schlözer, che così prosegue: «extracted from Haedo, Marmol, M. de Tassy, Morgan, etc.», e precisa che si tratta di un testo in -8 e di pp. 54. Corrisponde probabilmente al n. 256 di PLAYFAIR 1889, 23-24, così descritto: The present State of Algeria. An epitome of the history of Algiers from the first settlement of the Moors. […] to the time they rendered themselves independent of the Ottoman Porte. (14) Il titolo, non interamente riferito da Schlözer, analogamente a tutti gli altri casi, così prosegue: qui exercent la piraterie. Contenant l’origine, les révolutions et l’état présent des Royaumes d’Alger, etc. Par un auteur qui y a résidé plusieurs années avec caractère public; vedasi PLAYFAIR 1889, 24, n. 263; al n. 257 è citata l’edizione originale inglese «by a gentleman», Morgan, di cui si dice che fu «an indefatigable plagiarist». L’opera è definita «a mere translation of Laugier de Tassy, who again copied from Marmol» (per la parte storica, s’intende, poiché la Descripción general de Africa de L. Marmol-Carvajal, è del 1573). (15) Il titolo così prosegue: composée sur différens manuscrits arabes de la Bibliothèque du Roi. Schlözer fa seguire l’indicazione bibliografica della traduzione tedesca di Crist Gottl von Murr, Nürnberg 1768; PLAYFAIR 1889, 20, n. 220, e con ben più estese informazioni PLAYFAIR e BROWN 1893, 283, n. 399, affermano che la traduzione tedesca del von Murr è datata Zürich 1770 (forse una seconda edizione). (16) Schlözer precisa: «Einleit. S. 416-469», cioè introduzione, pp. 416-469, di questa traduzione tedesca. L’opera originale, Histoire Générale des Huns, des Turcs, des Mongols, et des autres Tartares occidentaux è datata Paris 1756-1758, voll. 4. (17) Mar’i ben Yùsuf al-Hanbali, nato presso Nablus nel secolo XVI, studiò a Gerusalemme e al Cairo, dove fu lettore del Corano e insegnante nella Università di al-Azhar e poi professore di diritto hanbalita presso la moschea tulunide; morì nel 1624. Schlözer ne elenca l’opera tradotta in tedesco, peraltro non integralmente, da Johann Jakob Reiske da un manoscritto di Leida, e pubblicata nel “Magazin für die neue Historie und Geographie” a cura di A.F. Büsching, vol. V, Hamburg 1771, 367-454; il titolo dell’opera è reso in latino come Oblectamentum inspicientium de historia Chalifarum et Sultanorum, qui Aegypto praefuerunt. Su Mar’i si veda F. WÜSTENFELD, Die Geschichtschreiber der Araber und ihre Werke, Göttingen 1882, 261 262, e C. BROCKELMAN, Geschichte der arabischen Literatur, II, Berlin 1902, 369. Ringrazio il collega Renato Traini per avermi fornito le precise indicazioni atte a individuare l’autore, citato da Schlözer molto imprecisamente come Maraj.

capitolo dodici | 215

Un marchese siciliano uxoricida e rinnegato nella Tripoli dei Qaramanli (1783)

Le lettere spedite da Tripoli, sul finire del Settecento, dalla cognata del console inglese Richard Tully, costituiscono una delle fonti più preziose e piacevoli alla lettura, per conoscere la società tripolina fra il 1783 e il 1793, l’ultimo turbolento e infelice decennio del lungo regno di Ali Pascià Qaramanli (17541793). Quel decennio fu segnato da una grave pestilenza (1784-1786), da ripetute carestie, da contrasti con Venezia, da un conflitto tra i figli di Ali Pascià: Hasan, il primogenito, al quale venne conferita la carica di Bey, massimo comandante militare e responsabile della riscossione dei tributi dalla popolazione dell’interno, Ahmed e Yusuf, il più giovane, che uccise il primogenito e si ribellò al padre; regnerà più tardi e a lungo (1795-1832), dopo un biennio di governo (1793-1795) dell’avventuriero di origine georgiana Ali Borghul (1). Proprio nell’anno 1783, in cui arrivò a Tripoli l’incerta autrice della Narrative of a Ten Years’ Residence at the Court of Tripoli in Africa (London 1816) (2) vi giunse anche, dalla natia Sicilia, un marchese di San Giuliano, uxoricida e fuggiasco. Intendiamo narrarne la storia sulla scorta appunto d’una delle lettere (1) Il periodo dei Qaramanli (1711-1835) è stato relativamente ben studiato; si vedano, fra gli altri, MICACCHI 1936, ROSSI 1968, DEARDEN 1976, utile anche se non rigorosamente scientifico. Altre indicazioni in BONO 1982, 34-35. (2) Il titolo così prosegue: from the Original Correspondence in the Possession of the Family of the Late Richard Tully, Esq. the British Consul. Comprising Authentic Memoirs and Anecdotes of the Reigning Bashaw, his Family, and other Persons of Distinction; also an Account of the Domestic Manners of the Moors, Arabs, and Turks. Nelle successive edizioni (London 1817 e 1819, in due volumi) il titolo fu mutato in Letters Written during a Ten Years’ Residence at the Court of Tripoli […]; nelle citazioni seguiremo l’edizione del 1819 che indicheremo come Letters 1819. Le edizioni sono sempre con tavole. Una riedizione è stata curata da Seaton Dearden (London 1957). Una traduzione francese apparve a cura di J.W. MAC CARTHY, Voyage à Tripoli, ou Relation d’un séjour de dix années en Afrique, Paris 1819, voll. 2. Negli anni ’80 è stata edita a Tripoli una traduzione in arabo. DEARDEN 1976, 94, nota 1, afferma, senza fornire precisazioni, che «There is some evidence that these letters were published through the influence of Edward Blaquière», autore delle Letters from the Mediterranean […] (London 1813).

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Lumi e corsari

della anonima dama britannica, sulla cui identità e sulla cui opera precisiamo ancora qualcosa. La Narrative si presentava come un bel volume, di grande formato, con alcune tavole acquarellate a mano, costituito da una serie di lettere, datate appunto fra il luglio 1785 e il 20 novembre 1793; per questa sua intrinseca natura le edizioni successive vennero intitolate Letters Written during a Ten Years’s Residence, con la precisazione che le Letters erano «published from the originals in the possession of the family of the late Richard Tully», il cognato appunto dell’autrice che era stato vice-console e console britannico a Tripoli. Il riferimento al nome del Tully provocò l’equivoco di ritenerlo o comunque di citarlo in pratica come autore delle lettere. Nella prefazione in verità si afferma con tutta chiarezza che le lettere furono «written by the sister-in-law of the late Richard Tully», della quale però non si dice il nome. Quasi a conciliare il nome del Tully e la femminilità dell’autore si suppose che questo fosse la sorella, anziché la cognata, del console, ma le parole della “Preface” non consentono dubbi. A complicare il caso, la stessa anonima prefazione si chiude paragonando, con intento elogiativo, la cognata del console Tully alla celebre Lady Mary Wortley Montague, autrice negli stessi ultimi decenni del Settecento di lettere che informarono il pubblico europeo, in modo brillante ed efficace, sull’Oriente ottomano. Da questo richiamo alla nota Lady è accaduto, complicando le cose, che qualcuno abbia a sua volta attribuito le Letters da Tripoli alla Wortley Montague (3). Mentre null’altro ci è noto della cognata del console Tully, se non attraverso la sua opera, molto di più sappiamo di lui. Nato a Livorno, da una famiglia irlandese, con ottima conoscenza dell’italiano, si era trasferito a Tripoli da giovane, intorno al 1768, ed era entrato nelle simpatie del pascià Ali. Dopo aver servito come vice dei consoli Barker, Bayntun e Cooke, sul finire del 1777 ottenne infine la sospirata nomina a console che esercitò sino al 1790; gli pervenne allora la comunicazione del licenziamento da ‘console’, anche se di

(3) Lo stesso DEARDEN 1976, che pur ha chiarissimi i dati della questione, nella bibliografia (pag. 326) elenca l’opera come Tully Richard, Narrative ecc., London 1819 (in verità l’edizione del 1819 si intitola Letters) mentre a pag. 94 cita l’autrice come ‘sister’ del console, e in nota conferma che «Whether Miss Tully was sister or sister-in-law of Tully is not now known». La corretta attribuzione a “une des belles-sœurs” del console è fatta nel volumetto di SAVINE 1912, che offre una scelta delle Lettres (manca quella sul marchese di San Giuliano). Il primo, per quanto ci risulta, ad attribuire le Letters alla Wortley Montague fu ROSELLI 1914, seguito da ROSSI 1968 (p. 226 e altre ad indicem, che cita sempre il «Diario di Lady Wortley») e da BONO 1982, 38-39, caduto anche in altre imprecisioni.

Un marchese siciliano uxoricida e rinnegato nella Tripoli dei Qaramanli

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fatto servì presso il consolato britannico sino al 1793, quando giunse il nuovo console, Simon Lucas. Ecco il ponderato giudizio di un autore dei nostri giorni sulla sua attività: For the next fourteen years Richard Tully, gentle, friendly, conscientious, was to follow the fortunes of the Regency in a series of neat, carefully written and descriptive despatches which cover the most depressing periods of the history of the Karamanlis (4).

Chiarito, come abbiam visto, ogni equivoco sull’autrice, pur se ne resta sconosciuto il nome, aggiungiamo che già la prefazione esaltava il valore delle Letters da Tripoli con queste parole: The work will be found an object of peculiar curiosity, from the lively and artless manner in which it lays open the interior of the Court of the Bashaw of Tripoli. It contains, we believe, the only exact account which has ever been made publickly known of the private manners and conduct of this African Despot, and it details such scenes and events, it gives such sketches of human weakness and vice, the effects of ambition, avarice, envy, and intrigue, as will seem scarcely credible to the mind of an European (5).

L’autrice poté invero fornire per un decennio notizie precise e giudizi perspicui su personaggi, eventi, aspetti, anche riservati, della vita della corte e della reggenza tripolina, per il fatto che essa aveva modo di frequentare liberamente e costantemente la corte stessa, grazie al cordiale rapporto corrente tra la famiglia del console Tully e quella del regnante pascià. Nel rendere dense di contenuto e insieme attraenti le pagine delle Letters tripoline, valsero certo le doti personali dell’autrice, che appare donna intelligente, colta, sensibile, attenta e capace di cogliere ogni tratto dell’ambiente e della società che la circondava. Così sono state efficacemente descritte la sua personalità e la sua testimonianza su Tripoli nell’età dei Qaramanli: She was a woman uniquely gifted, not only with considerable literary skill, but with an observant and retentive eye, and an unremitting industry in committing facts to paper […] These letters, written often on the same day the events they described occurred, are of unique value to the chronicler of the Karamanlis,

(4) DEARDEN 1976, 94. (5) Letters 1819, I, iii-iv.

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Lumi e corsari coming as they do from the pen of one who had constant and easy access to the Castle (6).

Ed eccone un bell’esempio nel racconto della storia del nobile siciliano. In una giornata d’autunno, nel novembre 1789, l’anonima dama partecipò con una ventina di europei presenti a Tripoli da ‘liberi’ – la maggior parte, qualche centinaio, vi dimoravano come ‘schiavi’, catturati dai corsari – ad una escursione ad est della città. Vollero verosimilmente profittare del tempo ormai mite e della sicurezza tornata nel paese, almeno nel territorio circostante la capitale, dopo la recente ‘campagna’ del Bey contro le tribù dell’interno; si fecero comunque accompagnare da alcuni ‘dragomanni’, con funzione di guardie del corpo e di interpreti, scelti fra gli addetti al servizio diretto del pascià. Lungo il cammino – attraverso un paesaggio che la dama inglese descrive con molto garbo ed efficacia – visitarono, fra l’altro, una piccola moschea, «remarkable for its great neatness», guardarono con curiosità il ‘lago’ (la salina, cioè) di Tagiura, da cui si estraeva un prodotto «much finer, both in flavour and colour, than the salt from the two famous lakes of Delta», ammirarono la vita – serena e persino gioiosa per un osservatore esterno – della popolazione locale: The Mahomedan peasantry, though slaves to their lords in every thing but name, appeared contented and happy. Whole families were laying round the doors of their cottages, laughing, smoking, singing, and telling romantic tales. They brought us fresh dates, bowls of new milk, and jars of sweet lakaby (7).

In questa tranquilla atmosfera, si notò qualcosa di particolare in uno dei dragomanni, che i colleghi trattavano con qualche riguardo. Qualcuno, forse proprio la nostra gentildonna, fu curioso di sapere chi fosse quell’uomo e l’interessato riferì un «extraordinary account of himself». Ascoltiamo. Si trattava di un “renegado” – figura non certo infrequente nella società barbaresca, anche sul finire del Settecento – il quale si presentò come “marchese di San Giuliano”, divenuto Hamed quando aveva abbracciato l’Islàm. Il personaggio è stato più tardi ben identificato, grazie specialmente alle ricerche di un erudito sacerdote catanese, Giuseppe Longo, il quale ai tempi della guerra libica raccolse varie notizie su vicende e persone che avevano in

(6) DEARDEN 1976, 98. (7) Letters 1819, II, 67-69. La citazione successiva da p. 70.

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qualche modo collegato La Sicilia e Tripoli (così si intitola il volumetto appunto, con la precisazione Cenni storici siculo-tripolini dall’epoca normanna sino a noi, Catania 1912). Era il figlio unico, Orazio, nato a Catania il 26 ottobre 1757, di Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano e di Capizzi, e di donna Maria Paternò e Gravina; al battesimo – il giorno dopo la nascita, come allora si usava e si usò sino ai primi decenni del secolo scorso – gli fu padrino Luigi Paternò e gli vennero imposti anche altri nomi: M. Vincenzo, Agatino, Giuseppe, Carmelo, Filippo, Benedetto. Neanche ventenne, nell’aprile 1777, aveva sposato a Siracusa l’altrettanto nobile Rosana Petroso, allora soltanto quattordicenne, orfana di Francesco Petroso e Crescimanno di Castrogiovanni, principe – per dirla tutta – di Pullicarini, San Filippo, Casoletto e Fondichello. Dal matrimonio erano nati tre figli: nel dicembre 1779 il primogenito Antonino, erede dunque dei titoli nobiliari del casato Paternò Castello, ramo Sangiuliano; nel maggio dell’ 81 Francesca e infine Giuseppa, il 6 marzo 1783 (8). Entrato a servizio della corte napoletana, il marchese Orazio ebbe il comando di un corpo di guardie scelte, «all persons of distinction». Non sappiamo tutte le notizie che il marchese diede di sé, delle sue origini, della sua famiglia. Narrò di certo la tragedia a seguito della quale era arrivato in terra musulmana; la gentildonna britannica ascoltò e riferì commossa il racconto nella sua lettera dell’11 novembre 1789. Innamoratissimo della moglie ancora giovinetta – di cui ricordava «with entusiasm the personal and mental charms» – sino ad essere accecato dalla sua stessa passione, non diede retta ai pettegolezzi a un certo momento diffusisi nell’ambiente della corte borbonica, «of an illicite correspondance» di lei con il principe di Calabria, durante una sua assenza dal regno per motivi di servizio. Nel persistere delle voci, osservò con attenzione il comportamento della giovane consorte e, ahimé, «he was convinced she was culpable». A causa del suo ruolo non poté allontanarsi e allontanare la famiglia dalla corte; poté soltanto incaricare qualcuno di sorvegliare la moglie e ben presto fu informato del momento in cui i due amanti si trovavano insieme nella stessa sua abitazione. Nulla poteva evitare un ‘delitto d’onore’, riferito così nelle Letters: He immediately went home, when the first person he met in a corridor leading to his wife’s apartments, was one of her women with an infant in her arms

(8) LONGO 1912, 79-85.

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Lumi e corsari belonging to her mistress; an infant, whose birth and existence the Marquis was an entire stranger to. He, in a paroxysm of rage, stabbed the attendant, and the infant falling on the marble floor, instantly expired at his feet. He immediately proceeded to his wife’s room, where the Prince of Calabria was attempting to support the Marchioness, who, on hearing the Marqui’s voice, had fallen senseless on the sofa. The Prince perceiving the Marquis so near him armed with his sword, stained with the blood of the victim he had just slain, made a spring to the window, and saved himself by jamping from the balcony. The Marquis turned to the sofa, and plunging his sword through his wife’s body, left his house and fled (9).

La tragedia si compì, fulminea e sanguinaria, coinvolgendo un bambino innocente ed una cameriera, forse troppo devota. Tutto si svolse secondo la più scontata cronaca nera d’un delitto d’onore. Resta soltanto poco chiaro e poco credibile il cenno che la giovane moglie avesse avuto un figlio dall’amante; la notizia non è confermata da altre fonti. Per quella gestazione peraltro vi sarebbe stato a mala pena il tempo fra la nascita di Francesca e quella di Giuseppa. Il marchese fuggì da Napoli imbarcandosi non sappiamo con quale meta, prima che, secondo l’ordine impartito dal viceré Domenico Caracciolo, marchese di Villarmosa, giungessero da Palermo «due compagnie di granatieri […] a fine d’arrestare il reo, che s’era reso latitante ed i rei complici, e i fautori e dare braccio forte ed ajutare la Regia Corte Capitanale di Catania». Negli atti del Senato di Catania, che annotano la predetta notizia, si aggiunge una curiosa decisione burocratica: «Il Viceré ordinò al Senato di provvedere alle spese dovute alle due compagnie di granatieri e che dette spese per i letti, per l’alloggio, per l’olio, per la doppia paga e per ogni altra cosa bisognevole, dovevano andare a carico del Marchese di San Giuliano, don Antonino Paternò Castello, Padre del Marchesino don Orazio autore del delitto». Nel febbraio 1911 – non sappiamo come mai proprio allora – il “Giornale di Sicilia” pubblicò sotto lo pseudonimo di Maurus, che nascondeva un «elegante scrittore di cose patrie», una rievocazione romanzata della tragica storia del marchese Orazio. Il sacerdote Longo gli contestò numerose, più o meno gravi, inesattezze ma soprattutto d’aver raccontato che il marchese, fuggito da Catania, si fosse imbarcato per Genova e poi per il Levante e che in questo viaggio, squassatasi la nave per la tempesta, e ritrovatosi naufrago su un isolotto, fosse

(9) Letters 1819, II, 71-72.

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stato assalito da predoni, derubato e poi buttato in mare, ove miseramente annegò (10). La verità, almeno quel tanto che che possiamo saperne, è un’altra. Il destino, cioè la cattura da parte di un corsaro tripolino del veliero su cui si trovava, lo condusse nella città barbaresca, dove l’uxoricida «directly embraced the Mahomedan faith». Da queste ultime parole sembra che l’intenzione di “farsi turco” fosse già ben presente nell’animo del marchese. All’inizio del secolo scorso il già ricordato raccoglitore di memorie siciliane, don Giuseppe Longo, che riferì la storia del marchese di San Giuliano, vi aggiunse altre notizie, avute «da un illustre personaggio che compì, anni sono, una sua escursione a Tripoli»: il nobile Hamed aveva più tardi sposato una donna della famiglia dei Qaramanli e ne aveva avuto tre figli: Ali, Mustafà e Mohammed. L’anonimo viaggiatore nel soggiorno a Tripoli aveva anche raccolto notizie sui discendenti di Hamed, alcuni viventi allora nella città maghrebina: Mohammed, già vicecommissario della polizia di Tripoli, e Mustafà, esattore fiscale a Zanzur, figli di Ali; il defunto Hasan, già funzionario delle Finanze, figlio di Mustafà; una figlia di Mohammed, infine, di cui non ci è detto il nome (11). Questi o altri che siano stati i suoi discendenti, è molto verosimile che il marchese di San Giuliano islamizzato abbia avuto nipoti e pronipoti a Tripoli, pur se ignari della ascendenza siciliana. Nei giorni dell’occupazione italiana qualcuno se ne ricordò, confondendo epoche e nomi; così attesta Giovanni Artieri: «si sussurrava persino d’una ‘parentela’ tra il ministro degli Esteri di San Giuliano e il Pascià di Tripoli, Hassuna Qaramanli, per via di un nonno del di San Giuliano, profugo in Libia al tempo della rivoluzione siciliana del 1848 per aver ucciso un rivale, accolto nella famiglia Qaramanli di cui aveva sposato una ragazza» (12). Quel che ci fa sorridere sono le conseguenze che il buon sacerdote Longo scioccamente presumeva di poter trarre quando affermava: «non solo ci sono rapporti d’antico dominio della Sicilia su Tripoli ma ancora rapporti di parentela tra gli attuali Capi Arabi di Tripoli ed i Siciliani, quali sono i discendenti di

(10) LONGO 1912, 80 e 87. (11) Le notizie sul matrimonio e sulla discendenza di Hamed ivi, 90-94. Hasan, figlio di una turca, ripudiata dal marito Mustafà pochi mesi dopo la sua nascita, divenne ricco e lasciò a sua volta sei figli maschi e due femmine. Dalla figlia di Mohammed, allora vivente, erano nati Ali, giovane funzionario del tribunale, ed una figlia. (12) G. ARTIERI, Cronaca del regno d’Italia, I, Milano 1977, 1064, riportato da A. DEL BOCA, Gli Italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922, Bari 1986, 67.

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Orazio Paternò Castello. Sarebbe questa ancora un’altra ragione, perché questi Capi Arabi accettino di buon volere il fatto compiuto dell’annessione di Tripoli alla Sicilia e quindi all’Italia» (13). Ci piace terminare la rievocazione di quel personaggio dalla tragica storia, con le ultime parole che di lui scrisse la gentildonna inglese, commossa, sembra, dalla sconvolgente vicenda del trentenne marchese e forse colpita dal suo fascino ‘latino’: He is young and handsome, but proud and ferocious, and speaks with a sanguinary exultation of the dreadful revenge he procured himself (14).

(13) LONGO 1912, 91. (14) Letters 1819, II, 72.

capitolo tredici | 223

Il Maghreb nel Giornale Istorico di Marino Doxarà (1783-1784)

Quanto abbiano contribuito alla nostra conoscenza dei paesi islamici del Mediterraneo le relazioni e in genere ogni testimonianza di inviati del governo della Serenissima e d’altri veneziani – viaggiatori, missionari e mercanti – è ben noto. Una secolare tradizione di rapporti – di diplomazia e di commercio, di intese e di intrighi, di ostilità e di coesistenza – di Venezia con il Levante, e in minor misura con l’occidente del mondo arabo-islamico, ha reso per lungo tempo i veneziani, forse più di altri europei, capaci di comprendere e valutare quel mondo, prossimo nel Mediterraneo ma pur, per religione e cultura, così diverso. Per quanto riguarda i paesi del Maghreb – dalla Libia al Marocco attuali – basti ricordare la relazione di Giovan Battista Salvago, redatta nel 1625 sotto il titolo Africa overo Barbaria ma pubblicata tre secoli dopo (Padova 1937), a cura di Alberto Sacerdoti, benemerito studioso delle relazioni fra Venezia e il Maghreb (1). Non certo al livello della secentesca relazione del dragomanno (interprete) Salvago, ma non priva di validità quale fonte per la conoscenza degli stati barbareschi e dei loro rapporti con Venezia nel Settecento, è stata diligentemente edita da Glauco Ciammaichella la relazione di Marino Doxarà, in appendice alla ricostruzione della missione diplomatica veneziana presso le reggenze di Tunisi, Tripoli e Algeri guidata dal patrizio Andrea Maria Querini, negli anni 1783-1784, al cui seguito appunto il Doxarà si trovava (Il Giornale Istorico di Marino Doxarà. Vertenze veneto-tunisine e osservazioni di un commerciante sulle Reggenze barbaresche, 1783-84, Pordenone 1991). Con il saggio di Ciammaichella la ricerca storiografica torna sulle relazioni di Venezia con il Maghreb, tema a lungo privilegiato, dagli ottocenteschi

(1) La relazione, presentata al doge di Venezia, per dare conto della sua missione, compiuta nel 1625, per il riscatto di schiavi veneti a Algeri e a Tunisi, riferisce di quelle trattative e informa, con molto acume, del sistema di governo, della organizzazione e della vita economico-sociale delle due reggenze; indicazioni bibliografiche in BONO 1964, 420-421.

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lavori di Vincenzo Marchesi sino a quelli di Corò, Cappovin, Sacerdoti. Dopo questi ultimi autori però, nulla più era stato scritto dagli anni ’60 sulla repubblica adriatica e il Maghreb nel secolo XVIII, mentre l’attenzione degli studiosi era tornata con più vigore e successo sui rapporti del mondo barbaresco con il regno di Napoli, grazie ai molteplici contributi di Teobaldo Filesi, con la Sicilia, specialmente per merito di Giuseppe Bonaffini, con la Sardegna (Bruno Manca), con il granducato di Toscana (spicca la monografia di Calogero Piazza), con Lucca, della quale Marco Lenci ha ben mostrato ignoti aspetti di storia ‘mediterranea’ e con Genova, infine, alla cui bibliografia si è aggiunta nel 1990 la monografia di Enrica Lucchini sulla attività del Magistrato del Riscatto (2). Nel Settecento invero, e particolarmente nella seconda metà, le relazioni di Venezia con i paesi del Maghreb andarono assumendo rilevanza ben maggiore che non per il passato, anche per il motivo verosimilmente che in Levante la presenza veneziana, in termini di sovranità e di influenza, e i tradizionali rapporti di commercio si erano ormai ridotti a ben poco. Gli stati barbareschi dal canto loro avevano stipulato accordi di tregua con numerosi stati europei e furono perciò portati a far convergere la loro attività corsara ai danni delle bandiere non protette da accordi, molte di stati italiani, fra cui Venezia. Nei rapporti con le reggenze barbaresche, in particolare nel caso di controversie e di crisi, il governo veneziano era solito sollecitare l’intervento dell’autorità imperiale ottomana, nel presupposto che essa fosse riconosciuta e rispettata dai governanti maghrebini. Questa via diplomatica produsse alcune volte effetti positivi ma in altri casi non servì a nulla. La repubblica adriatica riuscì comunque a sanare alcuni incidenti provocati da imprese corsare e a concludere accordi di pace con gli stati maghrebini, e precisamente: con Tunisi e Algeri nel 1763, con Tripoli infine nell’aprile 1764, con il conseguente ristabilimento nella città maghrebina di un console veneto, il conte Giuseppe Ballovich. Quest’ultimo patto di pace fu infranto ben presto dalle azioni di alcuni corsari tripolini; il governo della Serenissima dispose allora una manifestazione di forza: una piccola squadra si recò a Tripoli, agli ordini del capitano Giacomo Nani, e il pascià, timoroso di una azione effettiva, accettò di punire i raìs, risarcire i danni e confermare il trattato del ’64. Un rinnovato intervento da parte veneta si ebbe alla fine dell’agosto 1778, affidato al comando dell’ammi-

(2) Si vedano le voci in Fonti e bibliografia e inoltre M. LENCI, Lucca, il mare e i corsari barbareschi nel XVI secolo, Lucca 1987.

Il Maghreb nel Giornale Istorico di Marino Doxarà (1783-1784)

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raglio Angelo Emo, il quale riuscì con la sola manifestazione di forza, ad ottenere soddisfazione (3). Dopo un ventennio di relazioni complessivamente tranquille con i paesi maghrebini e di proficuo sviluppo degli scambi commerciali, nel 1784 si giunse con Tunisi ad un aperto conflitto, quale sbocco finale di una grave crisi diplomatica, provocata dalla disavventura di una nave veneta noleggiata ad Alessandria nel marzo 1781 da un gruppo di mercanti di Sfax; scoperti a bordo alcuni casi di peste, la nave mutò itinerario e finì in giugno a Malta, dove venne bruciata con le merci e tutti gli effetti personali imbarcati, mentre i passeggeri vennero costretti nel lazzaretto per la consueta quarantena. A nulla servì l’invio a Tunisi del cavalier Andrea Maria Querini, al cui seguito il Doxarà si trovava, come si è detto. Un sopravvenuto incidente fece fallire ogni trattativa e si giunse così alla guerra; i sudditi veneziani dovettero abbandonare senza indugi il paese maghrebino. Non poteva mancare la reazione veneziana: agli inizi di settembre del 1784 una squadra navale, di nuovo al comando dell’anziano ammiraglio Emo, apparve nelle acque di Tunisi; dopo vane trattative la squadra veneta si recò dinanzi a Susa e bombardò a più riprese la città senza piegare la fermezza del bey nelle sue richieste. L’anno dopo (1785) si svolse una nuova e più energica azione: fra luglio e gli inizi di novembre i cannoni veneti colpirono duramente Susa, Sfax e la Goletta. Il bey accettò infine di intavolare trattative di pace, pur con talune precise condizioni, ma per la sua intransigenza i negoziati si interruppero dopo qualche mese; tra la primavera e l’autunno del 1786 le navi della Serenissima replicarono invano il bombardamento delle città tunisine. Soltanto dopo la morte improvvisa dell’ammiraglio Emo, a Malta dove era riparato, il bey Hamuda, ‘salvata la faccia’ per la presenza di un altro negoziatore, accettò di concludere una tregua e di sottoscrivere il 3 maggio 1792 un accordo di pace, che prevedeva fra l’altro il versamento da parte veneziana di una indennità di 40mila zecchini. L’impegno di Ciammaichella ha ripreso degnamente un filone di studio che era stato, come si è detto, trascurato, forse perché si riteneva pressoché esaurito in base alle fonti disponibili. In effetti, del testo da lui reso disponibile agli studiosi era conosciuta l’esistenza; uno studioso veneto, Antonio Pilot, nel 1913 ne aveva pubblicato i capitoli su Tripoli ed una ventina d’anni dopo Francesco Corò, senza aver conoscenza della precedente edizione, ripropose la

(3) Sul trattato del 1764 v. CAPPOVIN 1942, 116-121 e 149-187 sulla spedizione del 1766, e NANI MOCENIGO 1914.

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relazione settecentesca alla considerazione degli studiosi, ripubblicandone una selezione di pagine concernenti la Libia (4). Glauco Ciammaichella, studioso formatosi anche presso l’ottima scuola della Maison de la Méditerranée di Aixen-Provence e già autore, fra l’altro, di una interessante ricerca sulla confraternita senussita e il commercio transsahariano (5), ci ha offerto della relazione di Marino Doxarà una edizione integrale, scrupolosamente annotata e integrata da puntuali notizie sul manoscritto e da indicazioni sulla vicenda biografica dell’autore. Poiché ci sembra che l’edizione del Giornale di Marino Doxarà non abbia potuto avere adeguata diffusione (ben raramente ne abbiamo visto citazioni) riteniamo utile dare più estese informazioni sul contenuto del testo, per sollecitare gli studiosi ad utilizzarlo più ampiamente. Nel corso dei 28 capitoletti, di due-tre pagine ciascuno, in cui il testo è ripartito, si alternano notizie sullo svolgimento e le tappe del viaggio nonché sulle visite, gli incontri, le trattative nelle diverse città (principalmente a Tunisi, agosto-settembre 1783 e gennaiofebbraio 1784) con notizie sui luoghi e sui diversi aspetti della vita locale. Si tratta a volte di cenni di poche righe o di una o due pagine, ma non senza interesse, quando non si tratti di riferimenti, per noi poco utili, a vicende storiche ben note. Interessanti, fra l’altro, i cenni a Lampedusa e Kelibia, il profilo del bey Hamuda (cap. VIII, Carattere del Ministro, e del Principe), la descrizione della struttura di governo e delle forze militari di Tunisi. Della città si dice che «promette molto in distanza; ma di questa illusione ognuno si disinganna tosto che le si avvicina» (cap. XI, Della città, popolazione e femine di Tunesi) e i brevi cenni che la riguardano non sono affatto lusinghieri. Più estesa, e d’una coloritura meno negativa, la descrizione di Algeri, mentre di Tripoli si rileva che è «più debole delle altre [città] d’Africa». Quanto all’attività corsara della reggenza più orientale colpisce l’osservazione – non smentita certo dalle notizie concrete che abbiamo – che «il corso per molto tempo è stato il più forte, e il meglio armato» nell’insieme del Maghreb, ma si trova «al presente in una total deiezione». A proposito del governo di Tripoli Doxarà si sofferma sull’operato di Khalìl Pascià, «il primo che meditò di scuotere il giogo del Divano, e accoppiare all’apparenza, la sostanza anche del potere». La descrizione delle saline di

(4) PILOT 1913, CORÒ 1930a, ID. 1931. (5) G. CIAMMAICHELLA, Libyens et français au Tchad (1897-1914). La confrérie senoussie et le commerce transsaharien, Paris 1987.

Il Maghreb nel Giornale Istorico di Marino Doxarà (1783-1784)

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Zuara, al cui sfruttamento Venezia era molto interessata, è di particolare rilevanza, poiché non ne abbiamo molte (6). Molto spesso nelle relazioni di viaggiatori, diplomatici e altri europei, concernenti paesi arabo-islamici, l’autore vuol dare conto anche della religione propria di quei paesi, anche se ormai nel Settecento in Europa chi avesse voluto poteva procurarsi piuttosto facilmente una conoscenza sufficientemente fondata dell’islàm. Nelle pagine di Doxarà su Qual sia la Religione ed i costumi di quegli abitanti si sente – come in molte sue altre – la mentalità illuministica del nostro, sulla quale Glauco Ciammaichella svolge una fine analisi nella sua Introduzione. Il mercante evidenzia un «legame del fanatismo religioso colla tirannia: legame funesto al genere umano che accieca le nazioni e le addormenta sopra i mali presenti con terrori lontani, che santifica i delitti del despota, e fa adorare lo scettro di ferro con cui egli le opprime» (7). Un tratto molto caratteristico della società maghrebina nei secoli dell’influenza ottomana era la presenza di cristiani in condizioni di schiavitù; nessuna relazione di viaggiatori o di inviati politici europei può tacerne. Ma Doxarà riferisce piuttosto di un’altra presenza servile, quella dei negri d’Africa. Degli schiavi cristiani – che erano ormai ridotti, in verità, a cifre ben esigue – si fa solo qua e là qualche cenno sommario. Dell’attività corsara, della divisione delle prede e della schiavitù dei cristiani, Doxarà torna a parlare più estesamente a proposito di Algeri, ma in termini generici, per condannare la persistenza di quel “crudele sistema” per il quale «migliaia di braccia, munite degl’istromenti inventati, e perfezionati per la distruzione degli uomini, si muovono per sostenere i furori di un despota, l’avidità di un principe, l’inquietudine e le passioni di un cortigiano» (8). Marino Doxarà (1755-1835), nato a Zante da famiglia greca, aveva raggiunto Venezia dall’isola natia in giovane età; nella capitale adriatica compì i suoi studi e divenne poi un “negoziante distinto”, sembra piuttosto bene integrato nella società veneziana. Sappiamo invero poco di lui, meno di quanto ci è noto invece del padre e del nonno, appartenenti ad una nobile famiglia di Zante legata alla metropoli veneziana. Il mercante greco si trovava a servizio del nobile Andrea Maria Querini (1757-1825) quando a questi fu affidato il comando della missione diplomatica nel Maghreb. Costui, di nobilissima famiglia veneziana, era entrato sin dall’adolescenza pur non essendovi propenso, (6) DOXARÀ 1784, 128 e 129, rispettivamente nei capitoli XXIV, Della città, popolazione, commercio, rendita, e Marina di Tripoli, e XXV, Del governo di quel Regno. (7) Ivi, 95. (8) Ivi, 118. Sugli schiavi, a proposito di Tunisi, le pp. 93-94, e poco dopo, 96-98, sugli schiavi negri e sul loro commercio nella stessa città maghrebina.

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nei ranghi della marina militare della Serenissima. Nel maggio 1783 era stato nominato ‘almirante’ e tre anni dopo raggiungerà il massimo grado, ‘capitano delle navi’. Continuò la carriera anche dopo la caduta della repubblica, e nel giugno 1798 divenne comandante generale della marina austro-veneta. Sulla nave del Querini la funzione del greco, suppone molto ragionevolmente Ciammaichella, era «quella di consulente finanziario e di supervisore della contabilità generale della spedizione». E poiché il nostro era anche «una personalità colta, certamente esperta nel settore degli scambi commerciali con l’Impero ottomano, anche se non praticante le lingue ‘orientali’ e certamente senza nessuna esperienza diretta dei paesi del Maghreb», il senatore Iseppo Diedo – a cui poi la relazione sarà dedicata – gli chiese di redigere un rapporto che informasse sulle condizioni politico-economiche generali, e in particolare sul commercio, delle reggenze barbaresche. La personalità del Doxarà, uomo del suo tempo, e cioè del secolo dei Lumi, è finemente analizzata dal curatore dell’edizione del Giornale, che trae elementi e indizi dal testo stesso, confrontato anche con quelli di altri autori europei della stessa epoca. «Ci sembra – afferma Ciammaichella – che la cultura che sottende le sue osservazioni e i suoi giudizi non si discosti molto da quella di matrice illuministica in voga nel tempo in Europa», e ciò appare molto evidente ed esplicito nelle osservazioni a proposito della vita economica e commerciale; le convinzioni liberiste lo portano a denunciare «varie manomissioni del potere sui fragili meccanismi della produzione, della commercializzazione dei beni a livello interno ed estero nonché le pratiche fiscali ottuse e rapaci». Alla luce della Ragione e dei Lumi le forme di governo e le istituzioni della società maghrebina non possono non apparirgli tiranniche e oscurantiste; nella stessa prospettiva la religione ‘maomettana’ viene accusata di superstizione e di fanatismo. Questi atteggiamenti accomunano Doxarà a molti autori del suo tempo, ma mancano invece in lui la curiosità e qualche indizio di ‘comprensione’ del mondo arabo-islamico, presenti in altri testi. Glauco Ciammaichella rileva l’apporto essenziale del Giornale per documentare la missione Querini e la sua utilità per arricchire la conoscenza del Maghreb in quegli ultimi decenni del Settecento. Ma il senso critico e della misura non gli fanno sopravvalutare né la figura del mercante greco-veneziano né il valore del suo scritto, di un «testimone legato a pochi luoghi ben circoscritti e che passa la maggior parte del suo tempo in mare» (9).

(9) DOXARÀ 1784, 11 e 13, nel paragrafo iniziale (pp. 11-17) intitolato Un commerciante ‘illuminista’ e la Barbaria.

capitolo quattordici | 229

Un principe di Paternò schiavo a Tunisi (1787)

Della vivace ripresa dell’attività corsara barbaresca sul finire del secolo XVIII fu vittima, nel luglio 1797, anche uno degli esponenti più in vista della nobiltà siciliana, Giovan Luigi Moncada, principe di Paternò, duca di San Giovanni, conte di Caltanissetta, e d’altri numerosi titoli nobiliari insignito. L’aristocratico siciliano era in navigazione per trasferirsi da Palermo a Napoli, ove intendeva fissare ormai la sua dimora, «da che la presenza della Real Corte in quella capitale, l’amenità dei luoghi, e il fasto di quella nobiltà, gli avean posto nell’animo un vivo desiderio di poter gareggiare coi più ricchi fra quei magnati». Questa ambizione – d’essere più vicino e più strettamente partecipe alla vita di corte – gli s’era accesa più forte, poiché di recente il suo già ricco patrimonio si era accresciuto d’una rendita annua di oltre 40 mila scudi; aveva infatti vinto in via definitiva, con sentenza del 26 giugno 1797, una lunga ed accanita vertenza giudiziaria contro Giuseppe Toledo, duca di Ferrandina e marchese di Villafranca, ed aveva riottenuto tutti i diritti sulla contea di Adernò, Certorbi e Biancavilla (1). Avaro come notoriamente era, il nobile siciliano attratto dalla possibilità di risparmiare sul nolo aveva scelto per il viaggio a Napoli un vecchio veliero, «che logoro era divenuto dai menati viaggi», il San Nicolò, al comando di un capitano greco e di proprietà di un armatore albanese detto Giacomo Inglese. Il Paternò vi si era imbarcato con un tesoro di 50mila scudi ed inoltre gioielli, argenterie, cavalli e beni vari, accompagnato da un seguito di sedici persone; sul veliero viaggiava anche un folto gruppo di mercanti, diretti a Napoli anche essi con denari e merci di valore (si trattava in tutto di una settantina di passeggeri) (2).

(1) PELAEZ 1887, 133-134. Il Toledo era entrato in possesso della disputata contea in seguito al matrimonio con Caterina Moncada Aragona. Il principe di Paternò aveva intentato causa ed ottenuto nel 1780 una prima sentenza favorevole, annullata però dal re Carlo III. «Agitatasi novellamente quella lite», si era giunti alla predetta sentenza definitiva. (2) G. PITRÉ, La vita a Palermo cento e più anni fa, I, Palermo 1904, 171.

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Il comandante della nave, il capitano Atanasio Buga, di Missolungi, aveva arbitrariamente inalberato bandiera ottomana, per far ritenere ai passeggeri che così la nave fosse stata resa immune da ogni minaccia dei corsari maghrebini; non possedeva invece la vera ed effettiva garanzia del ‘firmano’ imperiale, prescritto per tutte le navi con bandiera ottomana. D’altra parte si era proditoriamente accordato con i tunisini per far cadere la nave in una imboscata. Partito da Palermo il 26 luglio il comandante greco «si trattenne più giorni nel mare di Ustica con la scusa di calmana», cioè di mancanza di venti; diede così modo ad una galeotta corsara di raggiungere il San Nicolò in prossimità dell’isola, il 30 luglio, e di averne ben presto ragione. L’erudito siciliano Emanuele Pelaez – che per primo ha ricostruito l’episodio, servendosi principalmente del Diario inedito del marchese di Villabianca – narra che il veliero «erasi fermato presso di un’isola, dove il greco pilota, col pretesto che l’acqua entrava nel legno, avealo condotto a naufragare»; la cattura era dunque avvenuta «non per un mero caso, ma per il tradimento del padrone del legno e del capitano che comandavalo». La supposizione di una precisa intesa dell’armatore o del comandante della nave, o di ambedue, con i corsari tunisini circolò sin dall’inizio. «Sentiremo – scrive il Villabianca – se in questa sì ricca presa vi sia stata mistura di frode dell’albanese greco padrone» (3). Più di recente uno studioso ha creduto invece di poter escludere ogni tradimento, poiché la cattura sarebbe avvenuta quando il veliero era già nei pressi di Napoli, prossimo dunque all’arrivo. L’indicazione è data in un dispaccio da Tunisi, del console dei Paesi Bassi e dell’Impero, Anthoni Nyssen, al primo dragomanno dell’ambasciata di Prussia a Costantinopoli: «una piccola galeotta tunisina commandata dal Rais Kraktscià s’incontrò vicino a Napoli colla Polacca S.to Nicolò», ma noi riteniamo più sicure, perché direttamente provenienti dagli interessati, le notizie raccolte dal Villabianca. Alla cattura seguì, come era rituale, la dichiarazione di ‘buona presa’, come riferisce fra gli altri lo stesso dispaccio del Nyssen:

(3) VILLABIANCA, Diario, f. 268. Indicheremo anche in seguito come Diario il volume XX dei Diarî del marchese di Villabianca, Francesco Maria EMANUELE e GAETANI (BCPa, Qq d 112), ampiamente utilizzato dal Pelaez ma al quale siamo direttamente risaliti. Più avanti il Villabianca sostiene che i due dovessero ritenersi conniventi. PELAEZ 1887, 135-137, afferma che la galeotta tunisina «avealo catturato presso l’isola d’Ustica», e che «i marinari, salvandosi in un battello, aveano tratte dalle acque le casse ed il tesoro, che il principe portava seco». Il nome del capitano greco è riportato variamente (Atanasio Buga da PELAEZ 1887, 134; Attanasio Bugo da RIGGIO 1947, 252; Anattasio (sic) Buco in un documento riportato ivi, 256).

Un principe di Paternò schiavo a Tunisi

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Il turco corsaro esaminate le carte della Polacca suddetta e non avendo ritrovato il fermano del gran Signore, ma solamente il Passaporto dell’Agà e del Cadi di Missolungi la dichiarò buona presa e la condusse qui il quattro del languente mese di agosto. Esaminato il tutto da questo Bassà fu confermata buona la presa e quindi dichiarato schiavo il Prencipe Paternò con tutti li passaggieri di nazioni nemiche non meno che l’equipaggio (4).

Mentre il veliero con il principe, il seguito e gli altri passeggeri, veniva rimorchiato verso la costa maghrebina, a Napoli e a Palermo se ne temeva di giorno in giorno una cattiva sorte. Dopo qualche settimana infatti altre navi portarono la notizia che il San Nicolò era ancorato nel porto di Tunisi e che tutti i passeggeri erano stati considerati schiavi. Qualche giorno più tardi, alla moglie del principe, Giovanna del Bosco di Belvedere, che già viveva alla corte borbonica, fu recapitata una lettera di mano del coniuge; si seppe così che «giungendo a Tunisi fu inserrato all’istante nel bagno o sia luogo di carcere de’ schiavi unitamente a’ nostri sfortunati concittadini di lui compagni e socii in viaggio». Da un’altra lettera del Paternò si apprese che era poi stato “consegnato”, proprio per un riguardo alla sua persona, in casa di un negoziante francese, un certo Famin, mentre gli altri passeggeri erano chiusi nel ‘bagno’ (5). La sventurata sorte del ricchissimo aristocratico aveva suscitato, come è facile immaginare, grande emozione fra la nobiltà e la gente di corte del regno. Lo stesso sovrano Ferdinando – dalla reggia di Caserta, il 23 agosto – scrisse al Paternò una missiva di conforto, nella quale gli «prometteva che avrebbe fatto ogni opera per ottenere al più presto, non pure la sua liberazione, ma ben anche il giusto castigo dello infido e traditor capitano» (6). La disavventura del patrizio palermitano ebbe vasta eco nel popolo siciliano ed un anonimo dettò, con popolaresca arguzia, un fantasioso dialogo del principe con un tunisino: Tunisino Paternò Tunisino

Sei schiavo, vieni ai piedi del Bey. Il Principe son io di Paternò. Non vaglion questi fumi un corno qui.

(4) Un estratto della lettera, senza data ma dell’agosto 1797, è riportato con altri documenti e con il testo integrale d’un dispaccio del 17 settembre, da RIGGIO 1947, 256-259. (5) VILLABIANCA, Diario, ff. 267-269, fra gli altri, e lettera del Nyssen all’ambasciatore austriaco a Napoli (17 settembre 1797) in RIGGIO 1947, 257-259. Alcuni passeggeri, resi schiavi, erano stati condotti in una dimora di campagna del bey. Vedi anche PELAEZ 1887, 135-136. (6) VILLABIANCA, Diario, f. 270.

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Ei gonfiando e sbuffando zufulò. Ma tosto il Tunisin lo ricoprì D’un aspro sacco, e i piè gl’incatenò. Paternò Tunisino Paternò Tunisino Paternò

Il birbo Capitano mi tradì. Presto e vedrai se mai ti coglionò. Dunque per un Signor non v’è pietà! Che Signore, minchion! bestemmii affè Contro la musulmana autorità. Dunque la dolce Principessa ahimè Non vedrò?… ahi maledetta avidità Che mi spoglia, m’insacca, e annoda i piè.

La ‘schiavitù’ del principe accese la commossa immaginazione di un altro anonimo poeta, autore del seguente sonetto, dal titolo Il principe solo: Dov’è la mia pecunia, il mio Tosone? Quant’era meglio il legno raguseo! Ah birbo greco! Ah quanto fui minchione Fidandomi alla fe’ d’un fariseo! Fra brutti ceffi e barbare persone De’ Sicoli Baroni il Corifeo Senza rispetto alcun, senza ragione È incatenato come vil plebeo. Ma la Corte di Napoli e di Spagna, Tutti i miei feudi, il dritto delle genti, E mia famiglia sì onorata e magna Non lasceranmi inulto, e allor mi tocca La mia bella abbracciar. Con questi accenti Sfogò, sbuffò, fischiò, serrò la bocca (7).

Lo stesso Villabianca fu ispirato dalla dolorosa vicenda a scrivere qualche verso e due ne riporta nel suo Diario: Egli ebbe nel mattin clamide d’ostro E di ferri andò grave la sera (8).

(7) I due componimenti sono riportati da PELAEZ 1887, 147-148. (8) VILLABIANCA, Diario, f. 272, non riportati dal Pelaez.

Un principe di Paternò schiavo a Tunisi

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Per consolare il principe e per accertare di persona la possibilità del riscatto, si recarono a Tunisi il figlio secondogenito Guglielmo, duca di San Giovanni, e il cognato Arrigo del Bosco, che lo trovarono «in stato mediocre di salute»; nei mesi precedenti aveva infierito a Tunisi una delle non infrequenti pestilenze (9). I corsari – appunto perché tali, e non pirati – dovevano svolgere la loro attività seguendo precise regole e, anzitutto, dovevano rispettare le bandiere delle nazioni amiche e i salvacondotti debitamente ottenuti dagli interessati. Si cercò dunque, nel caso del San Nicolò, di far valere il fatto che innalzava bandiera ottomana e che pretendeva di avere una patente delle autorità turche. Il bey Hamuda contestò la mancanza del firmano del sultano mentre il governo di Istanbul, per venire incontro ai fermi passi espletati dal rappresentante diplomatico del regno di Napoli, sostenne le ragioni del Paternò e degli altri siciliani catturati, considerando illegittima la cattura. A nulla valse però la presa di posizione del governo ottomano – la cui autorità dal governo di Tunisi era riconosciuta solo a parole – né sortì miglior effetto il tentativo di persuasione del bey tunisino da parte di un inviato del sultano, Isaac Bey, «principe turco e secondo ammiraglio della sua armata navale» (10). Visto vano ogni tentativo di pressione sul bey di Tunisi, il Moncada si risolse pur a malincuore ad avviare trattative per il proprio riscatto. Dalla iniziale richiesta di 600mila scudi si giunse ad un accordo per la metà; il riscatto valeva peraltro anche per tutta la gente a servizio del principe. Soltanto 60mila scudi – che era pur sempre una somma ingentissima – furono versati in contante; per fronteggiare l’ingente pagamento il principe sottoscrisse una cambiale a favore di due agenti finanziari a Tunisi, operanti su ordine di due banchieri francesi di Napoli; per il resto il principe si impegnò al pagamento dopo il ritorno in Sicilia. Dei denari e altri beni che erano imbarcati sul veliero catturato, il Moncada recuperò soltanto la decorazione dell’ordine di San Gennaro,

(9) VILLABIANCA, Diario, f. 274. (10) Dettagliate informazioni sulla missione di lsaac Bey, sbarcato a Tunisi il 30 novembre, nella lettera del console Nyssen al gran maestro di Malta, datata 12 dicembre 1797; sulle condizioni del principe anche le lettere dello stesso console al gran maestro (6 novembre) e all’ambasciatore a Costantinopoli, d’Herbert (8 novembre), tutte in RIGGIO 1947, 260-266. PELAEZ 1887, 134, nota 1, attesta l’esistenza di diffusi casi di contraffazione delle patenti; a pagina 138 aggiunge, fra l’altro: «Ciò che fu discusso fra l’inviato del sultano ed il bey non fu mai conosciuto».

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di cui era insignito, «dapoiché essendo questa una croce, l’osservante musulmano l’ebbe a peccato il ritenerla presso di sé» (11). Recuperata la libertà, il principe il 17 dicembre 1797 si imbarcò su una nave francese per Malta. Qui il personaggio turco che si era adoperato a suo favore a Tunisi «pretendeva anch’egli non poche miglia (sic) di scudi, in premio dei suoi buoni uffici». Figuriamoci se il principe accolse la richiesta! Il Moncada si trattenne nell’isola dei cavalieri per la consueta quarantena ed oltre, senza preoccuparsi del suo debito verso il bey; questi si adirò per l’inadempienza e inviò i suoi sciabecchi nel canale di Malta, «con manifesto disegno di catturarlo un’altra volta, per non avere ancora pagato al bey la intera somma del pattuito riscatto». La minaccia dei corsari sconsigliò al principe di riprendere il mare e d’altra parte non dovette troppo rammaricarsi della prolungata sosta a Malta ove ebbe modo di «sperimentare i pregi non comuni di una gentildonna dell’isola», che condusse poi seco in Sicilia (12). Gli riuscì infine, imbarcandosi sulle navi maltesi che andavano in convoglio scortato a comprar grani in Sicilia, a tornare in patria; sbarcato a Girgenti, passò a Cammarata e a Misilmeri e rientrò a Palermo il 4 aprile 1798, accolto con festeggiamenti da parenti ed amici. Dalle notizie che abbiamo non sembra che il principe raggiungesse a Napoli la moglie e il figlio, nato mentre egli era ‘schiavo’, o viceversa. Alla nascita del “novello Moncada”, nonostante la prigionia del consorte, la principessa Giovanna «non lasciò di ricevere in casa tutta la nobiltà di Napoli che da lei fu trattata con splendidezza». Il patrizio siciliano se ne andò invece a vivere da solo nella sua contea di Adernò. Quanto alla gentildonna maltese di cui si è detto una volta in Sicilia, «attribuitole un largo assegno, tenevala in sua casa col titolo di madama governante» (13). L’esborso dei 60mila scudi, le altre spese e i danni subiti, crearono al principe, o almeno alla sua avarizia, qualche difficoltà finanziaria. Rivolse perciò una istanza al re per ottenere una qualche dilazione per certi pagamenti a terzi; i funzionari siciliani, però, probabilmente per la cattiva fama del Moncada, espressero parere sfavorevole. Dell’impegno con il sovrano tunisino, il principe non

(11) RIGGIO 1947, 254-255, da lettere del console Nyssen all’ambasciatore austriaco a Napoli e al console russo a Palermo; PITRÉ 1904, 170-174; PELAEZ 1887, 139, che commenta ironicamente: «Vedi scrupolo barbaresco!». (12) Ivi, 140-141, secondo il quale il Paternò «s’imbatté a Malta con il bey turco»; lettere del Nyssen (RIGGIO 1947, 266-267) dicono che Isaac partì insieme al principe il 17 dicembre. (13) VILLABIANCA, Diario, ff. 357 e 275bis; da Tunisi aveva portato «una preziosa cavalla barbaresca, per uso di farne razza» (PELAEZ 1887, 141).

Un principe di Paternò schiavo a Tunisi

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si preoccupò affatto. Ecco come l’illustre Giuseppe Pitré, con arguzia e forse un po’ di ironia, immaginò che il principe avesse ragionato: Egli s’era trovato a viaggiare pei fatti suoi; andava a prestar servizio al Re; una masnada di ladroni avealo proditoriamente assalito e tradotto in catene; condannato contro ogni diritto di natura e delle genti a perpetua schiavitù, aveva soscritta, per liberarsi, un’obbligazione quasi superiore alle sue forze presenti: ed ora lo presumevano tanto sciocco da buttar via quella somma ingentissima! (14)

Dopo mesi e mesi di attesa, il bey Hamuda Pascià si rivolse al re di Napoli. Un incaricato del bey presentò al sovrano napoletano l’autografo dell’obbligazione sottoscritta dal Paternò ed il re la trasmise alla magistratura il 9 luglio 1800. In essa così si leggeva: Io infrascritto Principe di Paternò dichiaro per il presente qualmente son debitore presso questo Ecc.mo Bassà Bey di Tunisi per saldo del Trattato conchiuso per il mio riscatto, e quello di diciotto persone componenti il mio seguito, nella somma di 300.000 Pezzi duri effettivi, o la lor valuta a ragione di piastre tre, e carrubbe sei l’uno, che mi obbligo di pagare in tre rate, cioè un terzo per tutto il prossimo Maggio 1798, un terzo per tutto Dicembre 1798, e l’ultimo terzo per l’ultimo Maggio 1799, obbligando per il complimento del presente accordo i miei beni presenti, e d’avvenire, ed acciocchè costi dove convenga firmo il presente di proprio pugno. Tunisi a dì 14. Dicembre 1797 (15).

L’incaricato tunisino, pur nel linguaggio diplomatico, aveva minacciato la rottura della pace vigente con il regno di Napoli; re Ferdinando si rese ben conto delle «dannose conseguenze per gli Stati, e i Sudditi del Re, se non si vedesse amministrata la più rigorosa, e la più sollecita giustizia» e dispose perciò che le ragioni del bey venissero sostenute dall’avvocato fiscale del Real Patrimonio, dall’avvocatura dello Stato, diremmo noi. La Memoria a stampa, presentata a firma dell’avvocato Di Blasi al Supremo Magistrato del Commercio, non nasconde l’anormalità di questo intervento della «voce del Regio Fisco per il sostegno, e lo adempimento di una privata convenzione», ma – si dichiara esplicitamente – la questione, pur se concerneva l’obbligazione di un

(14) ID., 141; PITRÉ 1904, 172. (15) Memoria presentata al Magistrato del Commercio dall’avvocato fiscale del Real Patrimonio Marchese di Blasi in sostegno delle istanze del Bey di Tunisi contro il Principe di Paternò, Palermo 1800, 3 (BCPa, LXI F 2A, 8).

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privato, metteva a repentaglio «la pubblica fede, l’armonia delle Potenze, e la tranquillità dello Stato». La ragion di stato, in altre parole, voleva che la pretesa del sovrano maghrebino venisse accolta dalla competente magistratura. Un trattato di tregua, firmato il 21 giugno 1799, vigeva allora fra il regno di Napoli e la reggenza tunisina (16). La Memoria, con sottili argomentazioni e con diffuse citazioni di autorevoli giuristi, si preoccupò anzitutto di ribadire il principio che «la lettera di cambio tratta all’ordine del Predatore per prezzo del convenuto riscatto è obbligatoria come qualunque altra procedente dalla più valida contrattazione mercantile». La difesa del Paternò spostava però la discussione su un altro piano, che cioè l’obbligazione fosse «nulla, perché preceduta da una causa ingiusta, e non da un legittimo diritto di guerra, e perciò come figlia unicamente del timore e della violenza, debba riputarsi inefficace, e rescindersi col favor delle Leggi». L’«ingiustizia della causa» derivava precisamente dalla «illeggittimità della preda» e dalla «ingiustizia della guerra delle Nazioni Barbaresche». La cattura sarebbe stata invero illegittima in quanto la nave inalberava bandiera ottomana ed aveva un firmano del sultano (17). La competenza a giudicare della legittimità della presa era tuttavia – si rispondeva – della sola reggenza di Tunisi e questa aveva appunto giudicato positivamente; quanto alla dichiarazione di illegittimità espressa dalle autorità ottomane si ribatteva con diversi argomenti, preminente dei quali la constatazione che «la Porta ottomana non impera sopra le cennate Reggenze, ed appena vi esercita un diritto di sola protezione», che cioè Tunisi era indipendente dall’impero ottomano. Con altrettanta decisione venne contestata la pretesa “ingiustizia” della attività corsara tunisina; l’argomentare, molto serrato, così concluse: Che siavi stata fra noi, ed i Tunisini una guerra pubblica è un fatto incontrastabile, vie più confermato dalla triegua recentemente stabilita: che la Reggenza di Tunisi eserciti attualmente una Potestà Sovrana senza alcuna dipendenza lo abbiamo osservato; onde non può dirsi giammai circa gli effetti guerra illegittima quella di tali Potenze Barbaresche, tuttochè fusse originata da cause ingiuste, ed irragionevoli (18).

(16) Ambedue le citazioni da Memoria, 3; il testo italiano del trattato in ROUSSEAU 1927, 535-536. (17) Memoria, 4-8 (le citazioni da 8). (18) Ivi, 9-19 (le citazioni da 14 e 18).

Un principe di Paternò schiavo a Tunisi

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Al di là comunque delle sottili disquisizioni giuridiche, vi era una decisa volontà politica di non suscitare l’ostilità del bey. Il 31 luglio 1800 la sentenza del Magistrato del Commercio confermò infatti l’obbligo del principe di Paternò «a sodisfare il debito contenuto nella polizza». Uno storico siciliano ha così amaramente commentato: «riesce assai penoso il considerare che l’autorità giudiziaria, preposta alla tutela della vita e delle sostanze dei cittadini, venisse allora a legittimare un atto di pirateria il più sfrontato, che qualsiasi governo, geloso del suo decoro, avrebbe non solo energicamente respinto, ma ben anche punito» (19). La sentenza sfavorevole non indusse certo il principe di Paternò al pagamento, e la sua ostinazione suscitò nel bey di Tunisi un forte risentimento ed un atteggiamento diffidente e poco disponibile verso il regno napoletano. Sembra perciò che il sovrano partenopeo abbia disposto, il 20 ottobre 1802, che attraverso i canali convenienti, faccia assentare sulle rendite del principe di Paternò i ducati quarantamila annui, dovuti per le pezze trecentomila, residuo del suo riscatto da Tunisi, e tutte le somme che si percepiranno faccia per ora rimanerle in sequestro presso il Regio Fisco. Vuole inoltre S.M. che essendosi dal Real Erario anticipate delle somme per questo effetto alla Reggenza di Tunisi, se ne faccia pure su i medesimi beni assicurare il rimborso.

Par di capire che il governo di Napoli anticipasse qualcosa al bey, garantendosi sui beni del principe. Documenti napoletani confermano invero la disponibilità, a favore del bey, fra il 1801 e il 1803, di un deposito bancario, diremmo, di 18.300 pezzi costituito a parziale scomputo del debito del principe insolvente. Qualche anno dopo, nel luglio 1805, l’erario del regno era ancora impegnato, crediamo invano, nel tentativo di recuperare la somma anticipata al bey. D’altra parte il risentimento del bey aveva reso più difficili, e più cari, tutti i riscatti di schiavi cristiani sulla piazza di Tunisi, come denunciava con preoccupazione l’istituzione palermitana dedita a quella meritevole attività, la Redenzione de’ Cattivi (20).

(19) Il dispositivo della sentenza è alla p. 20 ed ultima della Memoria. Lo storico citato è il PELAEZ 1887, 142. Secondo il breve racconto dell’avventura del principe di Paternò fatto da PITRÉ 1904, 170-174, il principe avrebbe pagato il prezzo del riscatto e le spese processuali, «dando in ipoteca tutti i suoi feudi». (20) BONAFFINI 1991, 54-55, e FILESI 1973, 138, 248 e 267 (segnalazione di documenti dell’Archivio di Stato di Napoli).

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Il patrizio palermitano era ricorso in appello e la causa si trascinò a lungo. Nel settembre 1812 l’avvocato fiscale del Magistrato del Commercio «aveva rilevato essere incompatibile la commessagli difesa colla carica che rivestiva» e proponeva di nominare un «curatore» che sostenesse le ragioni del bey di Tunisi. Con sottili argomentazioni l’avvocato, che nel giudizio di prima istanza aveva accettato la tutela degli interessi del bey, fece rilevare la differenza fra la situazione di allora e quella presente: «Allora – egli disse – la nostra politica esigeva che si fosse accordato il favore della legge allo esperimento delle azioni del Bey», poiché era vigente con lui un trattato di tregua; con il trascorrere degli anni i rapporti con il bey erano mutati ed ormai non era più interesse del regno soddisfare le pretese del sovrano maghrebino; un argomento giuridico fondamentale fu, nelle argomentazioni dell’avvocato, la natura di “privato” del bey. Il tribunale accolse la tesi dell’avvocato fiscale e propose al re di nominare un autorevole avvocato del foro palermitano quale “curatore ad lites” del bey; quanto al merito, sembra che anche nella seconda istanza il giudizio fosse favorevole ad Hamuda Pascià. Veniva così ribadita – commenta lo storico siciliano – «la ingiustizia, che, sotto la ispirazione dell’autorità politica, commettevano i tribunali nel dare ragione al Bey di Tunisi» (21). Anche se gli anni passavano e ci si inoltrava nel nuovo secolo, il bey non mancava di ribadire e reclamare il suo credito; con particolare vigore le sollecitazioni a regolare la pendenza vennero ripetute fra il 1817 e il 1819, fra l’altro direttamente al console napoletano in occasione di una udienza, nel maggio del ’19. Come riferì il console sardo a Tunisi, il bey pretendeva «di voler essere pagato di un obbligo che si estorse al Principe di Paternò nel tempo della sua cattività» (22). Qualche anno più tardi, nel gennaio 1823, si diffuse la voce che il bey non dimentico del suo credito fosse sul punto di «envoyer à Naples et à Bruxelles un ambassadeur pour obtenir satisfaction au sujet de l’esclave Paterno»; il diplomatico francese, che riferiva quella intenzione, stranamente affermava: «le gouvernement napolitain s’est emparé de la somme, que la Régence va réclamer». Della questione si discuteva ancora, ma senza alcun esito, negli anni seguenti sino almeno al 1831 (23). (21) PELAEZ 1887, 142-146; dall’ultima pagina la citazione. (22) ASNa, Legazioni e Consolati, fascio 7277, 30 luglio e 23 agosto 1817, 17 luglio 1818; fascio 7278, 8 ottobre 1819 e 20 dicembre 1821, segnalati, con altri, da FILESI 1973, 168, 169, 170, 172 e 175. (23) Lettera del viceconsole Ch.E. Malivoire del 22 gennaio 1823 al ministro degli Esteri (RIGGIO 1947, 254). ASNa, Legazioni e Consolati, fascio 7279, maggio-ottobre 1823; fascio 7280, 12 settembre 1827; fascio 7282, 24 gennaio 1831, segnalati, con altri, in FILESI 1973, 155, 177, 178, 180 e 183.

capitolo quindici | 239

L’incursione tunisina a Carloforte e il riscatto dei carolini (1798-1803)

Negli ultimi anni del Settecento, in relazione al generale sconvolgimento determinato dalle guerre napoleoniche, le reggenze barbaresche di Algeri, di Tunisi e di Tripoli avevano ripreso con più audacia ed intensità la guerra corsara tornando a rendere insicura la navigazione ed a minacciare le coste europee del Mediterraneo. Per il numero di abitanti tratti schiavi, più di ottocento, spetta un triste primato nella storia delle incursioni barbaresche nei paesi italiani all’incursione operata il 2 settembre 1798 da una squadra corsara tunisina, a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro prospiciente la costa sulcitana della Sardegna (1). L’episodio, e specialmente il difficile iter del riscatto dei ‘carolini’, è stato oggetto di attenzione da parte di qualche storico nella prima metà del secolo scorso, nel pieno cioè dell’età coloniale. È interessante perciò rilevare anzitutto quale mentalità e prospettiva ispirassero quei contributi: in essi i tunisini vengono chiamati più spesso ‘pirati’ che non ‘corsari’ e di loro si stigmatizza «l’avidità della preda», «la venalità ingorda, l’astuzia subdola ed ostinata», il riscatto è visto come «l’ultima crociata incruenta della vecchia Europa contro i barbari mediterranei», e così via con altre significative espressioni, alcune delle quali le citeremo più avanti nel testo (2). Carloforte, detta in origine Carlo Forte, era allora l’unica località abitata dell’isola di San Pietro. Quel centro si era costituito a seguito del programma di ‘colonizzazione’, promosso da Carlo Emanuele III; con diverse misure era stato favorito il trasferimento nell’isola di abitanti dell’isolotto di Tabarca, sito davanti alla costa tunisina, ma dal Cinquecento posto sotto la sovranità genovese ed abitato perciò da oriundi liguri. Nell’aprile 1738 era sbarcato a San (1) G. MANNO, Appendice per gli anni dal 1773 al 1779 alla Storia di Sardegna, Capolago 1847, 420 e seg. L’episodio è ricordato da ROUSSEAU 1927, 237; sulle successive vicende del riscatto pp. 247-248. (2) Le espressioni citate si ritrovano rispettivamente: la prima in PONTIERI 1934, 144 (il quale peraltro riconosce con equità la clemenza del bey); le altre due in IMERONI 1935, 580. Altro contributo dell’epoca: LORIA 1937.

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Pietro un primo gruppo di 76 ‘tabarchini’, come furono a lungo chiamati; successivamente giunsero altri due bastimenti con 478 persone ed in totale il 24 agosto si potevano già contare circa 600 abitanti (3). Il popolamento della piccola isola doveva servire, oltre che ad «aumentare la scarsa e sterile popolazione della Sardegna», anche, e soprattutto, «per strappare alle insidie dei barbareschi un punto ov’essi erano soliti annidarsi, e donde macchinavano nuove scorrerie sulle prospicienti coste dell’isola». Forse proprio per contrastare quest’ultimo intento i tunisini attuarono l’audace progetto di colpire il capoluogo dell’isoletta, in grado già di vantare un rilevante incremento demografico ed un promettente progresso economico. In quello scorcio del secolo per contro la Sardegna aveva attraversato una crisi politica e militare (nel 1793 Carloforte era stata occupata e tenuta dai francesi per qualche tempo). Anche la minaccia barbaresca – che per secoli aveva gravato sull’intera Sardegna – si era fatta di nuovo più temibile, come ricordano numerose testimonianze delle cronache e dei documenti locali dell’epoca (4). Le prime notizie sull’incursione tunisina le comunicò, dalla rada stessa di Carloforte il 4 settembre 1798, l’inviato del viceré Vivalda, cavalier Antonio Grondona, che tuttavia in quel momento non possedeva ancora informazioni sicure e dettagliate sul “terribile avvenimento”. I corsari maghrebini, giunti con una squadra costituita da «cinque orche tunisine, uno sciabecco, due altre così dette barche, una polacca, ed una galeotta», erano sbarcati nascostamente e all’alba del 2 settembre di sorpresa attaccarono il paese e ne iniziarono il saccheggio. I malcapitati abitanti, dato l’allarme, tentarono con disperato coraggio di difendere le proprie case (5).

(3) Sulla colonizzazione di Carloforte anche R. CIASCA, Momenti della colonizzazione in Sardegna nel secolo XVIII, in “Annali della Facoltà di Letteratura e Filosofia della R. Università di Cagliari”, Bologna 1928, 103 e sgg. (4) Sulle incursioni barbaresche contro la Sardegna si veda il cap. I. All’incursione a Carloforte dedica un capitolo la sintesi divulgativa di G. VALLEBONA, Carloforte. Storia di una colonizzazione, Cagliari 1988. (5) Relazione al Vice Re Vivalda dal suo inviato, cav. Antonio Grondona, da bordo della fregata francese La Badine inviata a Carloforte il 5 settembre 1798, in IMERONI 1935, 588-589. Una relazione di prima mano sul tragico evento – redatta nella città maghrebina dal visconte Asquer di Flumini, il 15 settembre 1798, e pervenuta a Cagliari il 7 ottobre, con dettagli sulla cattura e il trasporto a Tunisi degli schiavi – è segnalata da G. OLLA REPETTO, Sardegna, Nord-Africa e Turchia. Saggio di fonti dell’Archivio di Stato di Cagliari, in “Bollettino Bibliografico e Rassegna Archivistica e di Studi Storici della Sardegna”, 9/1988, 37 (il saggio, che citeremo come OLLA 1988, elenca numerosi documenti attinenti alla vicenda di Carloforte). Alcune lettere del rappresentante spagnolo a Tunisi, Arnoldo Soler, che riferisce tra l’altro il nome del raìs tunisino come Mohammed Arraez Romeli, sono riportate da LOTH 1905.

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«A colori abbastanza vivaci, con qualche spunto tra il romanzesco e il drammatico», così l’attacco è stato narrato da un noto storico sardo dell’Ottocento, Giuseppe Manno: I barbari sparsi in poco d’ora per tutta quella piccola terra, aveano sgangherato le porte ed illuminato colle loro fiaccole quelle chete abitazioni. I popolani atterriti e quasi disensati erano afferrati senza contrasto ed incatenati. Incatanavansi i vecchi, i fanciulli quali trovavansi giacenti nei loro letti a quell’ora avanzata di notte. Le donne aveano anche a paventare onta e villanie; ed alcune di quelle disgraziate furono trafitte dal pugnale dei barbari in sullo stesso loro letto perché aveano ricusato fortemente gl’immondi loro abbracciamenti (6).

«Finora sono sei le persone morte che si vanno scoprendo – scriveva il 5 settembre il cav. Grondona, ancora a bordo della nave che lo aveva trasportato – e fra queste alcune donne che sorprese nel loro letto, hanno voluto resistere alla brutalità dei pirati». Alcuni abitanti della piccola isola riuscirono a fuggire, addentrandosi nelle alture e nelle boscaglie; altri, barricatisi nelle case, sostennero validamente l’assalto barbaresco: trenta tunisini restarono uccisi. I corsari non rispettarono l’immunità diplomatica delle abitazioni consolari. Il console inglese poté salvarsi offrendo ricchi doni; quello francese fu trascinato via con i suoi familiari e soltanto sulla via del ritorno i tunisini, ritenuto troppo audace e pericoloso quell’affronto ad un rappresentante della Francia, lo rinviarono indietro con i suoi. Nella notte del 3 settembre i tunisini ripresero la via del mare «passando tra l’Isola Piana e S. Pietro»; oltre al vario bottino del saccheggio – la chiesa parrocchiale era stata «parimenti spogliata di tutti i sacri arredi» – essi recavano seco più di ottocento abitanti, oltre la metà donne, circa 150 ragazzi e quasi 200 uomini. L’inviato governativo – incaricato di distribuire i primi aiuti a coloro che, in un modo o nell’altro, avevano potuto sottrarsi alla razzia corsara – sbarcato a Carloforte il 6 settembre comunicò qualche altra notizia ribadendo che «il guasto e gli orrori commessi dai barbareschi sono indicibili e non è possibile finora procurarsi una distinta relazione dell’occorso e del numero delle persone fatte schiave» (7). La notizia dell’incursione barbaresca a Carloforte si diffuse rapidamente nel regno e fuori, suscitando sentimenti di angoscia per la sorte dei malcapitati carolini e di sgomento al pensiero dell’ingente somma necessaria per riscattare

(6) MANNO 1847, riportata da MARTINI 1861, 245-246. Il giudizio sullo storico sardo è di PONTIERI 1934, 125. (7) IMERONI 1935, 590.

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una folla così numerosa. Il governo non era assolutamente in grado di fronteggiare con le proprie risorse quel grave onere: «l’erario in condizioni disperate, un groviglio di emergenze reclamanti continui sacrifizî finanziarî, la crisi economica, effetto ad un tempo della crisi locale e della situazione generale europea, che paralizzava le fonti non copiose della ricchezza pubblica, tutto ciò costituiva un ostacolo non lieve per le buone intenzioni delle sfere dirigenti» (8). Si fece allora appello ai sentimenti di umana solidarietà e di carità cristiana dei privati e delle istituzioni benefiche; le generose offerte raccolte confluirono nella Cassa per la redenzione dei carolini prontamente istituita. Proprio a Cagliari erano presenti i padri mercedari, i quali abitualmente, secondo la secolare tradizione dell’ordine, raccoglievano offerte e provvedevano, almeno con parziali aiuti, al riscatto degli schiavi, ma la loro ‘cassa della redenzione’ nel marzo 1799 non contava neanche mille lire sarde. Per il fondo speciale a favore dei ‘carolini’, il duca di San Pietro, signore di Carloforte, inviò 2000 scudi; il re di Sardegna Carlo Emanuele IV destinò alla cassa le rendite dei beni già appartenenti ai gesuiti, ordinando altresì ai notai di esortare i testatori a disporre lasciti a favore dei carolini; il papa Pio VI, con breve del 29 ottobre 1798, su sollecitazione del sovrano sabaudo destinò al riscatto dei carolini le rendite provenienti, nel successivo quinquennio, dai cosiddetti «benefici vacanti ovvero senza cura d’anime», e chiese al clero dell’isola per lo stesso periodo un sussidio annuale straordinario di 15.000 scudi sardi (9). Il bey di Tunisi, Hamuda Pascià, sin dal 25 settembre aveva inviato a Cagliari dettagliate proposte per il riscatto dell’intero gruppo di sudditi sardi; con lodevole equanimità Ernesto Pontieri riporta, secondo informazioni trasmesse dal console francese a Tunisi, che il sovrano tunisino aveva riprovato le violenze brutali che, contro ogni sua intenzione, erano state perpetrate a Carloforte; che con una certa umanità egli trattava i carolini, da lui fatti concentrare tutti in un luogo; e che aveva impedito la loro vendita, nonostante le buone offerte già avanzate da incettatori di schiavi e da commercianti di Algeri e di altri mercati nord-africani (10). (8) PONTIERI 1934, 129. (9) OLLA REPETTO 1988, 32, 36 e 37. Il provvedimento pontificio di Pio VI fu prorogato da Pio VII il 30 settembre 1803, quando in effetti i carolini erano stati liberati (ma le rendite servivano a ripianare l’anticipazione effettuata). (10) PONTIERI 1934, 130. Hamuda Bassà o Pascià Bey, figlio di Ali Bey, salì al trono a 23 anni nel 1782 e regnò sino al 1814. Animato da spirito d’indipendenza egli venne a rottura con Venezia una cui squadra nel 1784 bombardò Susa e nel 1785 la Goletta; si sottrasse ad ogni vassallaggio nei confronti di Algeri respingendone gli attacchi armati nel 1807 e nel 1813. Vedi JULIEN 1952, 300-301; ROUSSEAU 1927, 194-195.

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Nonostante le difficoltà il sovrano sabaudo incaricò il conte di Sant’Antioco, don Giovanni Porcile, di recarsi a Tunisi per trattare la questione del riscatto. L’agente prescelto, già comandante della flotta regia, era provvisto di buone conoscenze a Tunisi ove si recava spesso per motivi d’affari. Nel febbraio 1799 tuttavia il conte non era ancora partito, non avendo ricevuto la somma necessaria alle proprie spese, e così scriveva: che in riflesso a tutte le sovranarrate spese cui dovrà necessariamente soccombere, anche col maggior risparmio, non è possibile al Sottoscritto di eseguire detta sua missione se non le viene versato il fondo di 4 mila Scuti Sardi statili assegnati dalla Provvida Munificenza della M.S. (11).

Nel frattempo, si era provveduto ad inviare a Tunisi, a conforto degli schiavi carolini, indumenti e derrate alimentari, elencati minutamente in un documento; fra l’altro, formaggio, uva passa, vino moscato (12). Le trattative con il bey, intraprese dal conte Porcile nella tarda primavera, non furono troppo difficili; rispetto alla proposta inviata a Cagliari dal sovrano tunisino neanche un mese dopo l’incursione a Carloforte, che chiedeva un prezzo medio di 300 zecchini veneti (cioè piastre tunisine 2475 a persona) il prezzo venne sensibilmente ridotto, a mille piastre. Qualcuno ha tuttavia giudicato severamente: «con troppa arrendevolezza il Porcile aderì alle condizioni di riscatto messe innanzi dal bey e, con non minore ingenuità, le giudicò miti». Il compromesso, siglato il 21 giugno 1799, fissava diverse altre condizioni, fra le quali: sino alla consegna della ratifica da parte sarda, sarebbero stati esclusi dal riscatto «tutti quelli, e quelle, che hanno cambiato o cambiassero di Religione» o che fossero frattanto deceduti, ma dopo quella consegna il prezzo sarebbe stato corrisposto anche per gli eventuali morti e rinnegati (artt. 2 e 3); per gli schiavi appartenenti a raìs o ad altri privati il riscatto sarebbe stato trattato separatamente ma il bey assicurava l’“autorevole sua mediazione” affinché fosse fissato un prezzo equo (art. 4); il re di Sardegna si impegnava a liberare ed inviare a Tunisi 22 musulmani schiavi a Cagliari (art. 6); la misura dei diritti accessori al prezzo del riscatto, «scrivano, carta franca, sigillo, Guardian Bassa ed altro», era «a proporzione» ridotta «in conseguenza della ribassa generosamente stata accordata» dal bey stesso (art. 8); restava immutato il 10%

(11) Nota delle spese per la Missione del conte Porcile inviato speciale al Beij (sic) di Tunisi per trattare del riscatto degli schiavi carolini (13 febbraio 1799), IMERONI 1935, 597-598. (12) Nota dei regali comprati in Cagliari da portarsi in Tunisi, ivi, 592.

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di spettanza al primo ministro, Sidi Yussuf Coggia (art. 9); per il pagamento dell’ingente somma risultante si stabiliva infine una dilazione nello spazio di due anni e cioè un terzo dell’importo da corrispondersi al momento del rilascio degli schiavi, un terzo dopo un anno e l’altro terzo allo scadere del secondo anno (art. 10) (13). Poco contava in realtà valutare la moderazione o meno delle condizioni concordate, in sé considerate; il vero problema era l’indisponibilità per il governo sabaudo della somma necessaria. Il regno sardo versava invero in una situazione molto grave: il Piemonte era stato invaso dalle armate napoleoniche e la corte sabauda, rifugiatasi a Cagliari da marzo a settembre del 1799, era ancora esule da una sede ad altra. La morte del negoziatore e firmatario del compromesso del giugno 1799, don Giovanni Porcile, sopravvenuta a Tunisi a fine settembre dello stesso anno, allontanò ancor più la possibilità di ratifica e di esecuzione dell’accordo stesso; nulla poté parimenti la visita a Cagliari del figlio di don Giovanni Porcile, don Antonio, già schiavo a Tunisi ed autorizzato a recarsi presso la corte a perorare l’attuazione dell’accordo firmato dal padre, con l’obbligo sulla parola di tornare subito con il denaro o senza. Sul finire del 1799 il bey minacciò che se i patti già conclusi non fossero stati subito ratificati egli si sarebbe considerato libero da ogni impegno; di lì a poco in effetti una dozzina di schiavi furono ceduti ad alcuni trafficanti algerini. Gravi sconvolgimenti colpivano allora il Piemonte e l’Italia tutta, mentre in Sardegna oltretutto proseguivano le sommosse contadine; gli sventurati abitanti di Carloforte per circa due anni sembrarono quasi dimenticati. Nel marzo 1800 l’arrivo nella rada di Cagliari di una fregata russa sembrò aprire una nuova strada al riscatto degli schiavi carolini. Il principe Carlo Felice, che governava l’isola in nome del fratello e aveva preso particolarmente a cuore la sorte degli abitanti di Carloforte, pensò di inviare dal bey il comandante della nave russa, Macedoniski, per ottenere almeno assicurazioni, come

(13) PONTIERI 1934, 131. Trattato di Riscatto generale della maggior parte della popolazione dell’Isola di San Pietro, ossia Carloforte in Sardegna, stata condotta schiava in Tunisi il dì 8 settembre 1798; stipulato fra il Bassà Bei S.E. Amoda e l’Ill.mo Sig. Conte di S. Antioco Don Giovanni Porcile, incaricato di S.M. il Re di Sardegna il 21 giugno 1799 (IMERONI 1935, 590592). Il trattato fu sottoscritto anche dai “Consoli Generali Incaricati d’affari” europei presso il Bey. Tra le varie dettagliate prescrizioni del trattato si stabiliva all’art. 6 che dovevano essere inviati in dono al Bey «cento coffis circa di puzzolana». L’art. 7 prevedeva il riscatto per 60 zecchini ‘mabubi’ di ogni musulmano caduto in schiavitù sino all’estinzione del debito. L’articolo 10 accoglieva la richiesta del bey che il governo sardo desse «o la garanzia di qualche Potenza amica della Regenza, o un pegno equivalente».

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fu, che gli schiavi non sarebbero stati venduti. Uno stallo della questione venne peraltro registrato alla corte di Cagliari fra l’estate 1801 e il febbraio 1802 (14). Il principe sabaudo ritenne allora che il sovrano tunisino avrebbe potuto esser ridotto a miglior consiglio da un intervento del sultano ottomano, se questi fosse stato sollecitato in tal senso dal potente ed amico zar di Russia, Alessandro I. Questi in effetti, accogliendo l’appello di Carlo Emanuele IV, interessò il sultano il quale a sua volta, in data 1° agosto 1802, inviò un firmano al bey di Tunisi, nominalmente in qualche modo suo ‘vassallo’, invitandolo a liberare subito tutti i carolini, senza alcuna pretesa di denaro. Troppo era stato richiesto, evidentemente, e nulla pertanto si ottenne dal sovrano maghrebino, se non una diplomatica ed evasiva risposta recata al sultano da uno degli ufficiali del bey. Il prestigio della Russia entrò ancora tuttavia in giuoco attraverso l’azione svolta dal console russo a Tunisi per la ripresa delle trattative di riscatto; si ebbero invero nuovi negoziati, ben presto però di nuovo interrottisi. Un intervento diretto dello zar presso il sultano fu di nuovo sollecitato, agli inizi del 1803, dal re di Sardegna al segretario di stato pontificio, cardinal Consalvi, il quale ne incaricò il nunzio apostolico a Mosca, monsignor Arezzo. In quel momento d’altra parte il riscatto dei carolini era già avviato a favorevole conclusione per altra via (15). Più efficace della mediazione russa e veramente risolutivo si mostrò, infatti, l’intervento presso il bey tunisino dell’uomo che diveniva in quegli anni il più potente sovrano d’Europa, Napoleone Bonaparte. A lui, tramite il commissario generale di Francia a Tunisi, Devoize, si erano rivolti sin dal 1802 il sardo cavalier Gaetano Pollini, ricco e intraprendente commerciante di grano, ed il piemontese cavalier De Barthes, inviati nella città maghrebina per riprendere le trattative a proposito dei carolini, rispettivamente da Carlo Felice e da Vittorio Emanuele I – successo sul trono sabaudo nel giugno 1802 (16). Il console Devoize, con il prestigio che gli proveniva dal parlare a nome del Primo console della Repubblica francese, «il cui nome correva ormai temuto per ogni dove, e col deciso proposito di mortificare l’insolente viltà d’un bar-

(14) Sugli sviluppi dal 1799 al 1802: MARTINI 1861, 61-62; PONTIERI 1934, 130-138; OLLA REPETTO 1988, 32 e 34-35; nel settembre 1801 il viceré sardo incaricò il conte di Pierles, che si recava a Tunisi per suoi motivi, di interessarsi dei carolini. (15) La data del firmano è riferita da MARTINI 1861, 110; PONTIERI 1934, 134-135; sull’azione della Santa Sede: KLEYNTJENS 1937. (16) Sull’intervento di Napoleone e del commissario Devoize: MARTINI 1861, 118-119; PONTIERI 1934, 137 e 141.

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baro, che osava fare il prepotente verso infelici e verso un governo debole», ingiunse anzitutto al bey di riconsegnare senza alcuna pretesa quel centinaio di carolini i quali, al momento dell’incursione tunisina, rifugiatisi nella casa del viceconsole francese, si trovavano dunque sotto la sua protezione e tuttavia erano stati tratti schiavi. Il bey cedette su questo punto e con migliore disposizione che non per il passato «quasi per incanto» – commenta Pontieri nella sua accurata esposizione – riprese le trattative per un riscatto generale dei carolini. Un accordo fu presto concluso: anzitutto fu accettato da parte tunisina il cambio degli schiavi maghrebini presenti a Cagliari con altrettanti schiavi sardi, cambio alla pari, e non a vantaggio dei musulmani (due a cinque, o altra proporzione, come di solito). Per gli altri il prezzo fu stabilito in piastre 500 – metà di quanto fissato nell’accordo del 21 giugno 1799 – per un totale di lire sarde 340mila circa. Pur ridotta la somma era ingente, considerato che vi si dovevano aggiungere gli oneri complementari. Quale frutto degli appelli alla generosità pubblica e delle disposizioni di cui si è detto, una certa somma era stata accumulata nella ‘Cassa per la redenzione’, ma nel 1802, mentre pur si tentavano diverse strade per un accordo di riscatto, il governo spinto da pressanti esigenze finanziarie prelevò dalla cassa stessa 60mila scudi (17). Fra il 1802 e il 1803 si cercò un prestito estero, da rimborsare ratealmente, ma le condizioni proposte – come mostra ciò che ne riferisce Ernesto Pontieri – erano molto gravose; la soluzione giunse, mentre si definiva l’accordo, dalla grande generosità del duca di San Pietro, signore feudale dell’isola di cui recava il titolo, il quale senza figli né altri eredi, pose a disposizione una parte della somma necessaria e garantì, sui propri beni, per il resto. Dopo cinque anni, nella primavera del 1803, il riscatto venne infine realizzato. Con lettera pastorale del 17 giugno 1803 il vescovo di Cagliari poteva lietamente annunciare ai fedeli il ritorno in patria dei carolini. Secondo l’uso, si svolse a Cagliari il 24 giugno una festosa processione che accompagnò gli schiavi ‘redenti’ «dalla Chiesa di Buonaria alla Primaziale, ove si tenne una solenne cerimonia di ringraziamento con canto del Te Deum».

(17) Per procurare l’ingente somma necessaria al riscatto la corte sabauda aveva svolto in varie riprese laboriose trattative per un prestito da banchieri privati. MARTINI 1861, 61, in riferimento al 1799-1800, PONTIERI 1934, 137-140, anche in riferimento alla fase conclusiva del riscatto, quando le trattative per il prestito pervennero ad un risultato concreto, e al ritorno in patria dei carolini.

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I carolini tornati da Tunisi erano 755; il 4 e il 6 giugno ne erano sbarcati a Cagliari 486, altri 269 giunsero il 4 luglio. Undici erano stati venduti ad Algeri, ventitré erano stati liberati in occasioni precedenti e sei si erano convertiti all’islamismo. Alcune donne erano rimaste libere a Tunisi e tra i figli che alcune di esse ebbero, avendo sposato eminenti musulmani, sembra debbano annoverarsi due bey. Durante i cinque anni trascorsi a Tunisi si ebbero nella comunità degli schiavi carolini 117 morti e 95 nascite, secondo le registrazioni del cappuccino fra’ Settimio da Montealboddo, pro-vicario apostolico a Tunisi. Alla presenza delle autorità, dei magistrati, del clero, di gran folla di popolo esultante e commosso, un canonico pronunziò l’orazione per commemorare la felice conclusione della dolorosa vicenda. Nel suo discorso indirizzò anzitutto parole di ringraziamento al re, Vittorio Emanuele, dicendo di lui: salito appena al Trono tra le indefesse cure del magnanimo suo cuore al bene dirette ed alla felicità dei suoi sudditi volse il pensiero a questa grande impresa, e formò il pietoso disegno di recarla con fervido impegno al più spedito, al più felice compimento.

Di Carlo Felice ricordò la cura appassionata e la “mirabile destrezza” mostrata a favore dei carolini. Un nome non fu pronunziato nell’orazione del canonico, il nome di colui che, con la sola suggestione della propria potenza, più di ogni altro aveva contribuito a restituire la libertà agli schiavi carolini: Napoleone Bonaparte. «Il silenzio fu notato e variamente commentato»; un rappresentante francese a Cagliari, definito tuttavia «un esaltato delle idee dell’89 e di carattere facilmente eccitabile», compì passi ufficiali di protesta. Tutto ciò in effetti è ben comprensibile se si considera quanto fossero allora freddi, per non dire ostili, i rapporti del regno sabaudo con la Francia napoleonica (18). Con il ritorno dei carolini nella piccola isola si concluse il clamoroso episodio del ’98. I contatti e i passi diplomatici intrecciatisi per procurare il riscatto contribuirono certamente, al di là della soluzione del caso, a sensibilizzare i responsabili politici europei nei riguardi della ‘questione barbaresca’. Si pensò da allora sempre più alla necessità di porre termine in via definitiva all’attività corsara e alla schiavitù che ne conseguiva. Gli eredi del secolo dei Lumi non potevano più tollerare la presenza di corsari sulle coste stesse del Mediterraneo. In nome di quel progresso, di cui si era fatto ardente assertore l’illuminismo settecentesco – ha concluso Pontieri e noi con lui – anche questo vecchio pro-

(18) IMERONI 1935, 594.

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Lumi e corsari blema veniva maturando nella coscienza politica del tempo, la quale reclamava che si trovasse finalmente l’energia necessaria per recidere alle radici la causa di tanta offesa alla civiltà e di continue piaghe ai popoli (19).

Negli anni che seguirono e nel presente gli abitanti di Carloforte non hanno forse mai pensato di dover essere riconoscenti al grande figlio della Corsica per la libertà dei propri concittadini per cinque anni schiavi in Tunisi barbaresca.

(19) PONTIERI 1934, 143-144.

capitolo sedici | 249

Una lettera di Yusuf Qaramanli sul trattato lusitano-tripolino del 1799

Poco sappiamo – non ci sembra vi sia alcun contributo specifico – sulle relazioni delle genti e dei governi del Portogallo con le reggenze barbaresche di Algeri, Tunisi e Tripoli, mentre conosciamo già abbastanza bene vicende ed aspetti della lunga presenza portoghese in alcune località del Marocco, fra cui Tangeri e, più in generale, dei rapporti del regno iberico con l’impero sceriffiano, culminati nel trattato del 1774 (1). Molto succinte risultavano invero le notizie intorno all’evento più rilevante delle relazioni lusitano-tripoline, la firma, il 14 maggio 1799, del primo trattato di pace, il cui testo si trova peraltro nelle raccolte ufficiali (2). Ricerche svolte a Lisbona mi hanno fatto reperire alcuni documenti che consentono una ben più precisa conoscenza, con numerosi particolari inediti, sui precedenti e sulle circostanze della stipula del trattato. Nell’Arquivo da Torre do Tombo si trova una lettera, del tutto isolata, indirizzata dal pascià Yusuf Qaramanli, in data 12 gennaio 1800, al reggente di Portogallo, Giovanni, e nella Biblioteca Central

(1) Indichiamo, a titolo orientativo, alcuni scritti di carattere generale o specifici sul secolo XVIII: E. PELLISSIER, Expéditions et établissements des Portugais dans l’Empire du Maroc, in Mémoires historiques et géographiques sur l’Algérie, Paris 1844, 121-173; OLIVEIRA MARTINS 1937; V. DE CARVALHO, La domination portugaise au Maroc du XVe au XVIIIe siècle (1415-1769), Lisbonne 1942; LOURIDO DÍAZ 1976. Sul trattato del 1774 vedi nota 15. (2) MOESSNER 1968, 96, segnala il trattato nella raccolta di G.F. MARTENS, Supplément au recueil des principaux traités, Göttingen 1802 segg., vol. III, 164 segg.; ne cita e commenta le clausole alle pp. 103, 105, 106, 111, 113, 120, 122, 125, 128, 130, 138, 144, 145. Il testo da noi riprodotto nella Appendice III è tratto da Ministero degli Affari Esteri, Trattati, convenzioni e accordi relativi all’Africa, vol. 1 (1648-1799), Roma 1940, 596-607. ROSSI 1968, 262 nota 16, fa riferimento al Martens, Recueil, 2a ediz., VI, 612, n. 67. Il testo trovasi anche in Colleção de tratados, convenções, contratos e actos publicos celebrados entre a Coroa de Portugal e as mais potencias desde 1640 até ao presente, IV, Lisboa 1857, 98. P. TOSCHI, Le fonti inedite della storia della Tripolitania, Intra 1934, 58, segnala un “Articolo aggiunto al trattato di pace esistente fra il principe reggente di Portogallo e Yusuf Qaramanli Pascià il 24 febbraio 1807. Testo italiano. È una copia (un foglio di due pagine)”, da lui riscontrato nell’archivio del consolato inglese a Tripoli, ora riteniamo al britannico Public Record Office.

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da Marinha una sconosciuta Relação do modo com que desempenhou o chefe de divisão, Donald Campbell, a commissão […] (Lisboa 1799) (3). Riteniamo di fornire un contributo alla storia della reggenza di Tripoli, ed insieme della politica estera del Portogallo, pubblicando in appendice sia la lettera del Qaramanli (nella traduzione portoghese dell’epoca, unita all’originale in lingua araba), sia la ricordata Relação; aggiungiamo per comodità degli studiosi interessati il testo del trattato del 1799 e dell’armistizio immediatamente precedente. Faremo anche un cenno al contenuto e alle traduzioni del poema composto dal brasiliano Francisco Cardoso per celebrare il successo portoghese del 1799 (4). La firma del trattato del 1799 si colloca nel contesto dei rapporti intercorsi sul finire del secolo XVIII fra la reggenza stessa, la Gran Bretagna e la Francia, nel quadro più ampio del contrasto fra le due potenze europee scaturito dall’estendersi dell’intervento francese nel Mediterraneo con l’occupazione di Malta e la spedizione in Egitto. Riepiloghiamo perciò brevemente quel contesto. Nel regno dei Qaramanli, che controllava un lunghissimo tratto di costa mediterranea, Napoleone aveva visto una preziosa via di collegamento, per la trasmissione di notizie e l’invio di rifornimenti, fra l’Europa e l’Egitto. Il pascià Yusuf – che nel 1795 aveva spodestato il fratello Ahmed II, al potere da pochi mesi – era dal canto suo decisamente favorevole alla Francia, sulla scia di una

(3) Tra i materiali dell’archivio provenienti dal Ministero degli Esteri vi è una caixa intitolata Consulados de Portugal. Estados Barbarescos (1789-1832). All’interno vi sono diversi fascicoli, non riordinati né numerati, uno dei quali concernente la reggenza di Tripoli. La lettera di cui ci occupiamo è il documento di data più antica; ne diamo in appendice il testo portoghese. Il principe Giovanni, nato nel 1767 da Pietro III (1717-1786) e da Maria di Braganza (17341816), era stato avviato al governo sin dal 1792, a causa della malattia mentale della madre, successa al trono nel 1777 al padre Giuseppe, quale Maria I. Dal 1799 Giovanni era formalmente reggente; dal 1816 regnò a pieno titolo. La citazione bibliografica completa della Relação può desumersi dalla intestazione della ristampa che ne diamo nella Appendice II. La Relação non è citata da PLAYFAIR 1889, né da alcuno degli autori a noi noti. (4) J.F. CARDOSO, Carmen heroicum de rebus a Lusitanis ad Tripolim gestis, Lisboa 1800; ricordato da ROSSI 1968, 262, nota 16, che menziona anche la traduzione francese dal titolo Guerre de Tripoli (Paris 1846). In effetti nella copertina risulta la data 1846 mentre nel frontespizio quella del 1847 (esemplare da noi consultato presso la Bibliothèque de France a Parigi; Yc. 10079); vedi riproduzione del frontespizio in BONO 1982, 67. Nella biblioteca del Dépôt des Archives Nationales di Aix-en-Provence (collocazione: 3400), si trova un’altra edizione o tiratura di stampa che presenta la stessa duplicità di date e reca nella copertina e nel frontespizio il nome del traduttore, S. De Latour “curé de St.-Thomas d’Aquin”, mentre nell’esemplare parigino si indica come autore della traduzione «Un ancien desservant d’une succursale de Paris» ed il nome (come Delatour) è aggiunto a matita. Per altre notizie sulle traduzioni in portoghese e in francese cfr. altresì infra, 256-257.

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tradizionale amicizia, ininterrotta almeno dalla pace del 1729. Il sultano ottomano aveva però considerato con giustificata preoccupazione l’invasione francese dell’Egitto, parte dell’impero, e si era perciò naturalmente schierato a fianco della Gran Bretagna; sollecitò dunque il pascià tripolino – in linea teorica ‘vassallo’ della Sublime Porta – a fornire appoggio alle operazioni antifrancesi e, quale primo provvedimento, ad arrestare il console e i sudditi francesi residenti a Tripoli (5). Mentre lasciò cadere nel vuoto le richieste più impegnative, Yusuf cercò almeno all’apparenza di dare esecuzione al provvedimento concernente i francesi: li fece così raccogliere e tenere tutti in arresto ma non appena l’inviato del sultano partì da Tripoli li restituì prontamente in libertà. Il console britannico Simon Lucas lasciò indignato la città maghrebina e riferì l’accaduto a Nelson, capo della flotta britannica nel Mediterraneo; questi inviò prontamente a Tripoli un suo emissario con una lettera per Yusuf, il quale nella risposta all’ammiraglio britannico sembrò aderire a tutte le richieste ma non appena il vascello Vanguard, al comando del capitano Hardy, scomparve dalla vista del castello di Tripoli tornò a mostrarsi nei fatti filo-francese (6). Quando Nelson venne informato di questo comportamento ambiguo e quasi irridente verso la Gran Bretagna scrisse al Qaramanli “a stern letter”, affidandola al commodoro Donald Campbell, comandante di una delle più grosse unità della squadra portoghese – la Affonso de Albuquerque – postasi agli ordini dell’ammiraglio britannico, incaricato di ricondurre a Tripoli il console di Sua Maestà, di imporre al pascià l’esecuzione della volontà britannica e di fargli sottoscrivere un trattato di pace con il Portogallo per il quale si cercava da tempo una intesa (7). (5) Sugli avvenimenti del 1799 la narrazione più estesa in DEARDEN 1976, 144-149, che ha utilizzato (vedi p. 326) gli State Papers Foreign del Public Record Office, ma non ne fornisce precise indicazioni (manca un apparato di note). Sugli stessi eventi FÉRAUD 1927, 313-314, che utilizza documenti francesi, ma riferisce erroneamente alcune date (vedi avanti testo e nota 9). Si veda anche MICACCHI 1936, 154-160, secondo la corrispondenza del console danese Giovanni Federico Lochner (Nota sulle fonti, p. 302), e ROSSI 1968, 261-262. Altri autori saranno citati nella nota 12. (6) DEARDEN 1976, 327, indica il periodo di consolato del Lucas negli anni 1793-1801. Il Lucas – che da giovane aveva vissuto per tre anni schiavo in Marocco, apprendendovi la lingua araba – era poi stato per 16 anni vice-console presso la corte marocchina e successivamente interprete per l’arabo a Londra. Nel 1788 l’African Association, allora costituita, l’aveva inviato a Tripoli per compiere un viaggio di esplorazione nel Fezzan, ma da Misurata aveva dovuto tornare indietro. Nel luglio 1793 giunse a Tripoli come console, con un piccolo seguito; fra gli altri il medico Bryan MacDonough (ivi, 124-128; 131-138, sull’attività del Lucas sino al 1799). (7) Il testo dell’ultimatum di Nelson ivi, 146-147.

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La nave portoghese, forte di 74 cannoni, lasciò Palermo il 30 aprile 1799 e giunse nel porto di Tripoli il 6 maggio; il Campbell, affidato il comando della Affonso all’ufficiale José Maria de Almeida, scese a terra il 7 maggio per trattare con il pascià. Questi si mostrò favorevole alla conclusione della pace con il Portogallo – che egli stesso, come vedremo, aveva sollecitato – mentre alla richiesta di consegnare il console e i cittadini francesi replicò di essersi impegnato ad inviarli a Costantinopoli. Campbell minacciò l’uso della forza, poi concesse una dilazione di dodici ore; l’indomani, 8 maggio, rinnovò le minacce e si apprestava ad attuarle, ma il peggioramento delle condizioni meteorologiche, che sembra provocassero qualche danno alla nave, lo costrinse a far allontanare la Affonso. La nave portoghese si ripresentò nel porto maghrebino il giorno 11 e Campbell ordinò di passare all’azione; di fronte agli svolgimenti sfavorevoli ai tripolini – alcune navi vennero catturate dai portoghesi – il pascià dovette piegarsi anche alla consegna dei francesi e a sollecitare un armistizio, prontamente accettato dal comandante portoghese. Nonostante una formale ripresa di corretti rapporti con il rappresentante consolare britannico, Yusuf Qaramanli continuò con abile segretezza a mantenere intese con i francesi e ad appoggiarne la causa; «On savait – scrive lo storico francese Féraud – que son inclination était toujours pour nous et que même il avait enjoint sous main à ses corsaires de respecter le pavillon tricolore» (8). A proposito della firma del trattato con il Portogallo, che si inserisce nella vicenda sopra riepilogata, le fonti sinora disponibili e le opere storiografiche dicono ben poco. Nelle Annales Tripolitaines il Féraud non ricorda espressamente il trattato ma pubblica il rapporto sugli avvenimenti tripolini inviato dal console Beaussier al ministro degli Esteri Talleyrand – datato 6 messidoro, cioè 28 luglio 1799 (e non 24 dicembre come scrive Féraud) – dove si legge un cenno al trattato in questione: «Le commodore Campbell ne quitta point la rade de Tripoli sans avoir arrêté et signé un armistice avec le Pacha jusqu’à

(8) La citazione finale è di FÉRAUD 1927, 315. I nostri cenni sull’episodio sono basati principalmente sulla Relação. DEARDEN 1976, 147-148, narra l’azione anglo-portoghese con qualche dettaglio, ma data l’arrivo nel porto di Tripoli all’8 maggio; il successivo allontanamento è attribuito a «some reason». Di una rottura del pennone della bassa gabbia parla invece FÉRAUD, 313, peraltro molto impreciso (vedi nota 10); MICACCHI 1936, 156, accenna ad una «improvvisa avaria» e a p. 159 scrive: «Eppure non era un mistero per nessuno che egli (Yusuf ) aveva cercato e cercava tuttavia di ristabilire buoni rapporti con il Governo della Repubblica». Sui rapporti di Tripoli con la Francia fra il 1799 e il giugno 1801 quando venne firmato un nuovo trattato di pace v. CHARLES-ROUX 1932, 385-392 e ID. 1929.

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l’arrivée du traité avec le Portugal, dont M. Souza, consul général de S.M.C., attendu incessamment de retour de Madrid sera porteur» (9). Quel primo trattato fra Tripoli e i portoghesi «qui savaient admirablement se défendre contre les pirates barbaresques avec lesquels ils étaient les seuls chrétiens à ne pas vouloir signer de traités» è ricordato dal Vadala – che menziona anche sommariamente il ricordato poema del brasiliano Cardoso (non Gardoso) –, mentre nulla ne dice lo storico francescano Costanzo Bergna nella sua storia di Tripoli dal 1510 al 1850; egli cita soltanto la spedizione del ‘contrammiraglio’ Campbell. Nella storia della reggenza di Tripoli all’epoca dei Qaramanli, Rodolfo Micacchi, dopo aver concluso la narrazione dei movimentati eventi tripolini del ’99, scrive che il Campbell non solo aveva preteso dal pascià la consegna dei francesi «ma lo aveva anche costretto ad un trattato di pace con il Portogallo» (10). La Storia di Tripoli di Ettore Rossi ricorda in poche righe l’azione angloportoghese e la consegna dei francesi ed aggiunge: «In quell’occasione il Pascià di Tripoli firmò il primo Trattato di pace con il Portogallo, auspice l’Inghilterra ed alle stesse condizioni fatte agli Inglesi». Neanche il Dearden – che, come si è detto, si sofferma con relativa ampiezza sugli avvenimenti in discussione, apportando elementi e dettagli nuovi – aggiunge molto sulla questione del trattato: and a Portuguese Captain called on the Bashaw and drew up and signed with him a peace treaty between Tripoli and Portugal, which, among its terms, included the payment by the Bashaw of a sum of 12,000 piastres for damage done to Portuguese shipping.

Nel testo del trattato non si trova invero alcuna indicazione del pagamento di questa somma, un indennizzo corrisposto forse al comandante britannico (11). Il trattato del 1799 è rimasto altresì presso che sconosciuto alla stessa storiografia portoghese, anche in opere specificamente dedicate al secolo XVIII.

(9) FÉRAUD 1927, 314; l’intero rapporto è pubblicato alle pp. 313-314. Sulle indicazioni del tutto erronee delle date si veda ROSSI 1968, 262, nota 15. SLOUCH 1908, 82 – che trae le sue notizie principalmente dalla cronaca di un rabbino – cita «l’intervention d’une flotte anglaise» senza alcun riferimento ai portoghesi ed in modo molto inesatto, a causa dell’oscurità della fonte («Le texte est assez obscur ici»). (10) VADALA 1919, tomo 1, 247; BERGNA 1925, 253; MICACCHI 1936, 159. (11) ROSSI 1968, 262; DEARDEN 1976, 148. Indicazioni bibliografiche sul testo del trattato alla nota 2.

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Non è neanche citato, per esempio, nella História politica e militar (1860) di J. M. Latino Coelho, che pur ricorda il potenziamento della marina sul finire del secolo XVIII, né nella História (1866) di S.J. da Luz Soriano e neanche da L. A. Rebello da Silva (1869-1871). Né migliori risultati si riscontrano nella consultazione di opere più recenti, come la vasta História de Portugal (1926-1928) di Fortunato de Almeida e quella di Peres e Cerdeira del 1934 (12). È indicativo che nella voce “Tripoli” della Grande Enciclopédia Portugueza e Brasileira si ricordano le spedizioni contro la città barbaresca di Angelo Emo e di altri, ma non quella anglo-portoghese del 1799 (13). In considerazione della scarsità di notizie sinora note, la lettera di Yusuf Qaramanli – pubblicata in appendice – ha un certo valore per quel che riferisce sui precedenti del trattato. Il pascià tripolino afferma che già nel 1798, l’anno prima della spedizione della Affonso, aveva cercato la mediazione del re di Spagna, Carlo IV, «o sincero em a nosa amizade em palavras e feitos […] o mais vezinho ao noso coração» per concludere un trattato di ‘paz e amizade’ nella prospettiva specialmente di avviare proficui scambi commerciali fra i due paesi (14). Alla lettera di Yusuf, in data 17 luglio 1798 – per la cui redazione il pascià tripolino non fa cenno di aver ricevuto alcuna ‘pressione’ – il monarca spagnolo rispose il 7 novembre comunicando la favorevole disponibilità portoghese ad un trattato alle condizioni già sottoscritte con il Marocco (nel trattato cioè del 1774) (15). Yusuf accettò «com prazer por ser coiza de reciproca ventaje» ed il 7 febbraio 1799 – così afferma nella sua lettera – inviò un testo da lui firmato (12) J.M. LATINO COELHO, História politica e militar de Portugal desde os fins do XVIII século até 1814, tomo II, Lisboa 1860, 352-364, sui progressi della Marina; S.J. LUZ DA SORIANO, História da guerra civil e do estabelecimento do governo parlamentar em Portugal comprehendendo a história diplomatica, militar e politica deste reino desde 1777 até 1834, tomo 11, Lisboa 1866; L.A. REBELLO DA SILVA História de Portugal nos séculos XVII e XVIII, tomi IV e V, Lisboa 1869-1871. Citiamo anche F. DA FONSECA BENEVIDES, Rainhas de Portugal, tomo I, Lisboa 1878, che nelle pagine dedicate al regno di Maria I (pp. 180-208) ricorda soltanto che la marina portoghese operò d’intesa con quella britannica fra il 1793 e il 1796 in funzione antifrancese (pp. 199-200). D. PERES – E. CERDEIRA, História de Portugal, vol. VI, Barcelos 1934, cap. XIV (pp. 269-288) sui negoziati diplomatici con la Francia e il periodo di lotte 17951801. Da René Basset (vedi nota 16) è ricordata una ricostruzione dell’episodio di Joaquim Pedro Celestino Soares, in Quadris navaes, t. I, 199-207 (che non abbiamo potuto consultare). (13) Volume XXXIII, Lisboa-Rio de Janeiro s.d., 904-905. (14) Carlo IV di Spagna, nato nel 1748 e morto nel 1819, regnò dal 1788 al 1808, quando perse il trono a seguito dell’occupazione napoleonica della Spagna. (15) Sul trattato, dell’11 gennaio 1774, si veda BRANDÃO DE CASTRO 1971, 303-370. Il testo del trattato, in varie raccolte, fra cui Ministero degli Affari Esteri, Trattati, convenzioni e accordi relativi all’Africa, vol. I (1649-1799), Roma 1940, 445-451.

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(al quale Giovanni avrebbe dovuto aggiungere la sua firma). Si rammarica dunque il sovrano tripolino che fosse invece giunta la Affonso, la quale, pacificamente salutata dai cannoni tripolini, per contro «praticou com nosco coizas muito desagradaveis», cioè l’azione armata del 13 maggio 1799. Yusuf tuttavia, pur avendo subito «grande perda», trattenne ogni impulso e non reagì per rispetto della pace da parte sua già sottoscritta; in questi termini presenta nella lettera il suo comportamento. Qualche giorno dopo il ‘suddetto Comandante’, cioè il Campbell – continua a riferire Yusuf – recò un testo di trattato «semelhante à paz de Inglaterra»; alle domande di Yusuf su quale fosse stata la sorte del trattato (nel testo si usa il plurale), firmato e spedito tramite Carlo di Spagna, la risposta fu che il monarca spagnolo non aveva fatto saper nulla in proposito. Il pascià tripolino, sottolineando tutta la sua buona volontà, scrive di aver prestato fede a quanto gli veniva riferito e di aver perciò firmato il nuovo trattato, quello che ci è noto. Il trattato vero e proprio venne preceduto da un armistizio – sotto forma di scambio di lettere – secondo il quale il pascià si impegnava a sottoscrivere una pace «nos termos da Paz presentemente em pé, e que existe entre Tripoli, e a Gram Bretanha»; il pascià da parte sua mentre accettava i termini di pace in vigore con la Gran Bretagna, teneva a ricordare il precedente interessamento del sovrano spagnuolo: se devia advertir, que a Corte de Hespanha tinha já interessado na mesma Paz; e que só no caso de se não effeituar por aquella via, por que já se tinha fallado, he que parece se deve fazer em direitura, para o que estamos promptos, e a faremos com as mesmas condições da Paz de Inglaterra.

Yusuf cercò invero sino all’ultimo di ottenere che la pace fosse stabilita nei termini, a lui evidentemente più favorevoli, negoziati dalla mediazione spagnola (16). (16) Il testo delle lettere precede quello del trattato di pace vero e proprio (v. Appendice III). Il testo portoghese della lettera scambiata all’atto dell’armistizio, il 13 maggio, corrisponde esattamente al testo originale arabo reperito da René Basset nella biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Lisbona (Gab. V, gav. 1a, maço 2) e da lui pubblicato con traduzione francese (R. BASSET, Notice sommaire des manuscrits orientaux de deux bibliothèques de Lisbonne, Lisbonne 1894, sulla lettera pp. 26-29). Il Basset ricorda che una traduzione della lettera era stata già pubblicata dal p. Sousa (riteniamo debba identificarsi con il de Sousa autore di Documentos arabicos para a história portugueza, Lisboa 1790) nell’opuscolo Tratado de paz e amizade entre o muito alto e poderoso senhor Dom João, principe regente de Portugal e o illustrissimo senhor Jusef bax Carmanaly (sic) regente e governador de Tripoli, assignado em Tripoli em 14 de maio de MDCCXCIX, Lisboa 1799; rileva però che il significato del testo «ne paraît pas avoir été nettement saisi» da quel

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Nell’ultima parte della sua missiva Yusuf Qaramanli esprime, con solennità ed enfasi, il suo augurio che la pace «seja hua paz com boa sorte para nos ambos e de proveito para os nosos suditos», e tiene a segnalare di aver trattato il comandante Campbell con tutti gli onori; conclude, infine, esprimendo la sua approvazione per la nomina – che gli risulta essere nelle intenzioni del re portoghese – di un console del Portogallo nella persona del ‘doutor Inglez’ (nel testo vi è l’abbreviazione dr.). Dovrebbe trattarsi di Bryan McDonough, un medico appunto, giunto a Tripoli nel luglio 1793 al seguito del console britannico Simon Lucas (17). A lui, che almeno dal 1798 figura quale vice-console, Yusuf Pascià, dopo il vittorioso attacco anglo-portoghese, aveva affidato il compito di recarsi a bordo della Affonso quale emissario per la richiesta di pace. Non abbiamo riscontri della sua nomina a console nel 1800 ma due suoi dispacci ci attestano che esercitava quella carica fra il 1801 e il 1806 (18). Veniamo infine all’opera letteraria ispirata dall’azione portoghese del 1799. L’edizione originale del poema, composto in latino da Francisco Cardoso e poi tradotto in portoghese dal Barbosa du Bocage apparve a Lisbona nel 1800. Ben poco si sa dell’autore: originario del Brasile, ove compì gli studi, si recò in Portogallo «attiré par le besoin ou l’ambition». Il poema, dedicato al principe reggente Giovanni, doveva servirgli ad entrare nei favori della corte; ottenne

traduttore. L’orientalista francese segnala anche presso la Biblioteca Nacional di Lisbona una Carta de Donald Campbell, chefe da nau Affonso de Albuquerque ao Marquez de Niza, commandante da esquadra portugueza, de 5 de junho de 1799; la lettera accompagna una relazione di 24 pagine sulle trattative con il pascià. Sarebbe ovviamente interessante anche l’esame di questo documento e il confronto con quanto sinora ci è noto. (17) Sull’arrivo a Tripoli nel 1793 del MacDonough, a seguito del console Lucas, vedi nota 6. DEARDEN 1976, 149, scrive che il MacDonough – che il Lucas «for lack of any family successor to whom to leave his property, adopted as his son» – successe nella carica di console alla morte del Lucas il 4 maggio 1801. Nell’indice, p. 327, indica il MacDonough quale console dal 1801 al 1803; in ciò contrasta però con altre sue indicazioni (vedi nota seguente). (18) TOSCHI 1934, 58, nell’elencare una serie di trattati, allora nell’archivio del consolato inglese a Tripoli, cita quello del 1798: «Rinnovazione dei trattati fatti fra Yussuf Qaramanli e il Console Simon Lucas, il 16 luglio 1798. Testo turco e inglese a fronte; sigilli e firme di Simon Lucas, Console e Bryan MacDonough, Vice-Console». Sulla parte svolta negli eventi del 1799 vedi DEARDEN 1976, 147-148, che lo qualifica ‘chargé d’affaires’; una citazione del MacDonough, a proposito dei rapporti tripolino-statunitensi nel 1799, a p. 152. I dispacci – rispettivamente in data 17 settembre 1801 e 21 marzo 1806 – si trovano nella stessa collocazione della lettera di Yusuf (vedi nota 3). DEARDEN 1976, 211, scrive – in contrasto con le pp. 149 e 327 (vedi nota 17) – che, alla morte del Lucas, William Wass Langford «was instructed to take over the consulate ad interim» e aggiunge: «This for despite efforts on the part of Lucas’s adopted son, Bryan MacDonough, to have the post himself».

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invero soltanto la nomina a professore di latino a Bahia, città natale, dove tornò (19). Verso la metà del secolo un ecclesiastico, S. De Latour, avuta segnalazione del poema da Ferdinand Denis e procuratasene a fatica una copia, provvide a farne una traduzione francese pubblicata, a fronte del testo latino, sotto il titolo di Guerre de Tripoli; in una lunga prefazione si parla anche d’altri poeti in lingua portoghese. Il De Latour stesso – pur avendo compiuto la fatica della traduzione – non attribuisce agli ottocento versi del Carmen heroicum alcun valore estetico, ma soltanto il merito di aver conservato la memoria d’un nobile evento della storia portoghese del quale – egli dice – «sans le poème que j’ai traduit, et c’est là son principal mérite, le Portugal même en aurait presque perdu le souvenir» (20). La trama del poema segue in effetti con molta fedeltà il corso degli avvenimenti quale ci è narrato dalla Relação e da altre fonti, come sopra brevemente riassunto. Nei versi del Cardoso i tripolini vengono presentati con toni ed immagini presi dal più scontato repertorio della retorica antimusulmana: Qua gens perfidia, quo crimine Maura nefando Pectora Lusiadum veteri succenderit igne (vv. 19-20).

Per la figura di Yusuf Qaramanli non potrebbero trovarsi accenti più spregiativi: Eminet imperio praestans feritate tyrannus, Obscoenae stirpis custos obscoenior ipse (vv. 38-39).

I tripolini sono i suoi … socii, nova monstra, ferarum. Ungue rapace quibus proeunt, virtute minores (vv. 55-56).

(19) Il nome del Cardoso è indicato precisamente come José Francisco Cardoso de Moraes (1761-1841) in Enciclopedia Universal Ilustrada Europeo-americana, XI, Barcelona s.d., 885. Notizie su di lui e sulla traduzione portoghese si traggono anche dalla prefazione dello stesso De Latour. Manuel Maria Barbosa du Bocage (1766-1805) tradusse, con molto successo, numerosi classici latini ed opere poetiche e narrative di autori stranieri (v. Enciclopedia Universal Ilustrada Europeo-americana, VII, 701-702.) (20) Pag. LXIX della prefazione. La citata Enciclopedia (vedi nota precedente) menziona il traduttore in francese come Souquet de la Tour.

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Sullo sfondo sta il disprezzo – e, ovviamente, l’assoluta misconoscenza – della religione islamica, del suo profeta e dei suoi seguaci: … quales mendax emiserit auctor, Haeresis infandae comites, Mahometus alumnos (vv. 70-71).

Verso la chiusa il poema ricorda la sottoscrizione dell’armistizio, premessa del trattato di pace: Insuper optatum largitur nomen amici, Quod domino firmum augusto promittit habendum (vv. 712-713) (21).

(21) La traduzione francese dice: «Il lui donne, en outre, le nom désiré, le nom d’ami, et promet, pour ce traité, l’agrément du monarque».

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Appendice I – Lettera di Yusuf Qaramanli al Reggente Giovanni di Portogallo (12 gennaio 1800). Tradução da Carta escrita por Sua Excelencia o Baxá de Tripole a Sua Alteza o Princepe de Portugal e suas dependencias Seja Louvado o unico, só, e Omnipotente, que não tem Companheiro, nem Maior, nem Filho, este hé Deos. Do Escravo de Deos perfeito, Princepe de fieis, Guerreiro segundo a vontade Divina, O Escravo de Deos Jose Bascia, filho de Ali Bascia, filho de Mohamet Bascia, filho de Ahmet Bascia Caramalli, Comandante da prazerenda Tripole protegida de qualquer insulto, e ultraje. Ofrece a mais cordial reverencia, e a mais affectuosa expresão de amizade, cordialidade e afeição ao inclito em a Nação de Christo, Excelso entre os Princepes Nazarenos, glorioso entre os sequazes do Evangelio, defensor dos seos dogmas, que não admitem mais alteração ou mudança, o noso caro amigo João Princepe de Portugal, e suas dependencias, a quem Deos conceda o cumprimento dos seos dezejos. Depois de ter cultivado os sentimentos da nosa afeição e perfeita amizade que dezejamos seja prezistente e eterna, e que tome sempre hum novo vigor, se faz cordialmente prezente a vosa sabedoria, que objeto da presente nosa, e o contheudo da mesma hé, que na pasada data de 17 de Julho de 1798 temos escrito ao noso sincero amigo, o noso benévolo que nao tem defeitos, o sincero em a nosa amizade em palavras e feitos, o possessor do Reino de Hespanha, o mais vezinho ao noso Coração, El-Rei Carrolos 4.° que Deos conserve e prospere, pello objeto de concluir a paz, e amizade entre nós e a Rainha vosa Mai, e tãobem para abrir hum commercio ventajoso a ambos os nosos vasalos e a sobredicta Magestade Sua nos respondeo em data de 7 de Novembro do mesmo anno, que a Rainha vosa Mai aceitara de muita boa vontade a Nosa propozição, e que dezejaria que fosse concluida a mesma paz e amizade pellas condições da paz do Imperador de Marrocos; e nós temos aceitado tal propozição com prazer por ser coiza de reciproca ventaje para os Commerciantes dos suditos de ambas as partes; e temos firmado a paz expedindo-a a sobredicta Magestade Sua com a nosa de 7 de Fevereiro de 1799. Depois disto veio aqui hua Náu da vosa armada denominada Affonso de Albuquerque comandada pello Comandante Campbell, e com a vosa bandeira que nós salvámos. Elle praticou com nosco coizas muito dezagradaveis; e nos fizemos hum esforço contra a nosa natureza de lhe não

* Del documento si offre una edizione diplomatico-interpretativa condotta su copia fotostatica da Nicoletta Longo della Università della Calabria – che vivamente ringrazio per la cortesia –, la quale ha anche rivisto le appendici II e III, riprodotte dalle edizioni a stampa; sono stati rispettati gli arcaismi nell’uso degli accenti, mentre è stato corretto qualche evidente errore di stampa.

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corresponder; tendo-nos cauzado grande perda, sem que da nosa parte lhe sucedesse o mais minimo desgosto; tudo pella amizade que vos professamos, e para manter somente a nosa palavra, que tinhamos dado para a concluzão da paz, sem querer tratalo como elle praticou com nosco. Elle nos segurou ignorar a paz que tinhamos concluido entre nós; e nós abandonamos aquella que por nosa mão tinha sido feita, por meio da expedição que fizemos com a nosa firma no tratado de paz sobredicto; e partio da melhor maneira, e com satisfação. Depois disto veio novamente o sobredicto Comandante em hum Brigue de guerra Inglez, expedido por Vosa Alteza trazendo o tratado de paz semelhante à paz de Inglaterra; e com a vosa respeitavel asignatura, sem comtudo aprezentar carta credencial de Vosa Alteza para nós; e tendo-lhe preguntado o que se tinha seguido dos tratados por nós firmados e expedidos por meio da Magestade Sua Catolica à Rainha Vosa Mai, elle respondeo que El-Rei de Hespanha não tinha jamais escrito coiza algua sobre tal objeto; e que a este respeito nada se tinha entendido, dandose isto por escrito; e nós prestamos fé à sua palavra, firmando a paz que Vosa Alteza expedio, sem faltar em nada a hum só artigo, como Vosa Alteza verá pello tratado que nós temos firmado, conservando em noso poder o que Vosa Alteza firmou. Tudo isto vos dizemos para governo voso, e para informarvos miudamente do sucesso. Rogamos ao Altíssimo que seja hua paz com boa sorte para nós ambos, e de commum proveito para os nosos suditos; tendo da nosa parte salvado, e recebido o sobredicto Comandante como Embaixador, fazendolhe as mais destintas honras, ainda mais que aos outros embaixadores das outras potencias; e isto na prezença de todo o Universo, como hé conhecido a todos os Consules das outras Nações aqui rezidentes; e entre as outras honras e destinções que uzamos com o mesmo, o conduzimos com nosco à Caça Real, para melhormente fazermos conhecer a qualquer a estima que vos profesamos, rogando ao Altíssimo que a nosa prezente se vos una no mais favoravel tempo, achando-vos na maior tranquilidade, e boa saude; esperando da parte de Vosa Alteza a dezejada resposta acompanhada com a correspondencia do noso afecto que vos profesamos para pagar os nosos dezejos e fidelidade. Entre tanto a nosa palavra será sagrada, e inviolavel em qualquer tempo, rogando-vos que queiraes corresponder aos nosos dezejos, e acreditar que de hoje em diante nos consideramos como dois corpos em hua alma, sendo só devedidos pella Religião, como o Omnipotente hé testemunha da nosa sincera e perfeita amizade. Tendo alem disto entendido que Vosa Alteza está na intenção de querer nomear para Consul aqui rezidente em seu serviço o Doutor Inglez; nós o aceitamos com prazer, asim como faremos em qualquer outra coiza que a Vosa Alteza possa ser grata. Dada em Tripole de Barbaria a 15 da Lua de Sciavan, que corresponde a 12 de Janeiro de 1800.

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Appendice II – Relazione anonima coeva sulla spedizione portoghese a Tripoli (1799). Relacão do modo com que desempenhou o chefe de divisão Donald Campbell, a commissão de que o encarregou, o almirante Lord Nelson, na viagem ao porto de Tripoli, a fim de effectuar a paz entre o Baxa daquella Regencia, e a Coroa de Portugal.

Impressa por Ordem de Sua Alteza Real o Principe Nosso Senhor Lisboa m. dcc. LXXXXIX. na officina de Simão Thaddeo Ferreira. RELAÇÃO [3] O Almirante Lord Nelson, conhecendo o bom serviço que faria á Coroa de Portugal, se concorresse para que se realizasse a Paz entre o Baxá de Tripoli, e aquella Coroa, e aproveitandose da occasião que lhe proporcionava a retirada, que de Palermo se propunha fazer para Tripoli o Consul da Nação Ingleza, naquella Regencia, Simão Lucas; destacou a Náo Affonso de Albuquerque para ir a esta commissão, e ao seu Commandante Donald Campbell, Chéfe de Divisão da Armada Real, deo as instrucções necessarias, intimando-lhe, que recebesse a seu bórdo, e conduzisse a Tripoli o Consul Inglez, devendo ambos empregar toda a diligencia, para reduzir o Baxá a annuir ás justas representações, que lhe fazia na sua Carta de Officio, e que tinha por principal objecto a Paz entre a Coroa de Portugal, e a Regencia de Tripoli; devendo se abster de commetter hostilidades, e causar effusão [4] de sangue, menos, quando o Baxá não quizesse assentir a huma Proposta tão digna de se attender. Semelhantes Ordens forão dadas ao Chéfe de Divisão Campbell, pelo Commandante da Esquadra Portugueza, Marquez de Niza. Dispostas as cousas, do modo que fica dito, sahio de Palermo no dia 30 de Abril do presente anno a Náo Affonso de Albuquerque; e depois de 6 dias de viagem, pareceo de fronte de Tripoli. Querendo o distincto Chéfe de Divisão Campbell, que não houvesse difficuldade em ter logo communicação com a terra, içou Bandeira Ingleza, e fez o sinal costumado entre os Inglezes, quando desejão que o seu Consul venha a bórdo; com effeito dentro em pouco intervallo chegou o Encarregado dos Negocios da Grão-Bretanha, Breim Mac Donogh, com quem Chéfe Campbell, e o Consul Simão Lucas tratárão dos objectos da sua commissão; e não sendo hora opportuna de se entregar ao Baxá a Carta de Officio, que levárão do Almirante Nelson, ficou transferido este passo para o dia seguinte. A 7 de Maio se aproximou a Náo ás baterias, a tiro de espingarda, e o Commandante mandou o seu Escaler a terra com o Consul Inglez: passada huma hora e 40 minutos, fez este o sinal convencionado com

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o Commandante, pelo qual se fazia saber que o Baxá de Tripoli estava determinado a condescender com a vontade do Lord Nelson; entáo a Náo arreou a Bandeira Ingleza, e o Chéfe içou o seu Pavilhão juntamente com a Bandeira Portugueza, dando a esse tempo as baterias de terra huma salva de 21 tiros, que igualmente era sinal de que o [5] Baxá se resolvia a entrar em negociações de Paz. Attendendo ao perigo que corria a Náo por estar tão perto de terra, em tempo em que era facil a mudança de vento, determinou o Chéfe retirarse desta situação, e mandou o seu Escaler a terra, para receber do Consul Inglez notas que fossem consequentes aos sinaes que se havião feito. Como porém este fìzesse constar em resposta ao Chéfe de Divisão Campbell, que era necessario que desembarcasse para se principiarem os ajustes, resolveo elle ir á presenca do Baxá de Tripoli; e procedendo com a reflexão, e acerto que caracterisão o merecimento de hum tão benemérito Official, mandou fundear a Náo, e entregando todo o governo della ao Capitão de Fragata, Commandante José Maria de Almeida, lhe deixou a seguinte Ordem, a qual sobejamenre mostra assim o heroico procedimento, e louvavel conducta do mesmo Chéfe de Divisão, como a confiança que elle punha na prompta execução, e exacto desempenho da Ordem que deixava ao distincto, e habil Commandante, José Maria d’Almeida. Ordem ao Commandante da Náo Affonso d’Albuquerque. Sendo absolutamente necessario que Eu vá a terra para arranjar as negociações entre a Corte de Portugal; e a Regencia de Tripoli, entrego a v. m. as Cartas, e Ordens do Almirante Nelson, para que v. m. possa obrar conforme a ellas, no caso que haja algum embaraço em Eu voltar a bórdo: e determino positivamente[6] que nenhuma consideração ao que póde succeder á minha pessoa, sirva de obstaculo a empregar as mais vigilantes medidas contra Tripoli, no caso de romper hostilidades, o que deve succeder, não voltando Eu esta noite para bórdo. Bórdo da Náo Affonso d’Albuquerque a velha, na frente de Tripoli 7 de Maio de 1799, Donald Campbell, Chéfe de Divisão, Senhor José Maria d’Almeida, Commandante. Tendo assim arranjado as cousas, se dirigio immediatamente o Chéfe de Divisão á Presença do Baxá, e na entrevista que tiverão, mostrou grandemente aquelle Official, tudo quanto convinha ao ponto, e objecto da sua commissão, e que era essencialmente preciso para se realisar hum Tratado de Paz, entre a Coroa de Portugal, e a Regencia de Tripoli, que o Baxá mandasse entregar-lhe; segundo as Ordens do Almirante Nelson o Consul, e Visconsul Francez, e todos os mais Francezes, que se achavão na Cidade, a esta proposta respondeo negativamente o Baxá, querendo persuadir ao Chéfe de Divisão Campbell, que hum semelhante procedimento se oppunha á sua honra, e conducta, visto que estava determinado a remetter a Constantinopla os ditos Francezes, para que tinha já prompta a embarcação. Huma tal asseveração seria capaz de fazer succumbir qualquer Encarregado que estivesse tratando esta materia

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com o Baxá de Tripoli; porém o habil, e previsto Campbell, conhecendo a falta de sinceridade do Musulmano, e observando que aquellas expressões nascião da affeição aos Francezes, lhe tornou, que para[7] satisfazer aos escrupulos que mostrava ter na entrega dos Francezes, temendo ser arguido, e censurado, lhe dava a sua palavra de honra, que os enviaria a Palermo, para dalli serem transportados a Constantinopla; e que deste modo, cumpria os seus deveres, satisfazendo ao Almirante Nelson, obsequiando o Grão Senhor, e preenchendo a sua palavra. Huma proposta, tão conciliante da parte do Chéfe Campbell, foi desatendida pelo Baxá de Tripoli, produzindo novas allegações, igualmente frivolas, e vãas. Como porém aquelle Official presistisse, em que se lhe entregassem os Francezes, e désse a saber ao Baxá que estava disposto a principiar hostilidades, este lhe pedio 24 horas para responder effectivamente á mencionada proposta, e sendo-lhe só concedidas 12, se retirou o Chéfe Campbell para bórdo da sua Náo, esperando a final resolução do Baxá, até á huma hora da tarde do dia seguinte. Estando o mar bastantemente procelloso, no dia 8 de Maio, e sendo por esse motivo difficil a communicação com a terra, mandou o Chéfe de Divisão o seu Escaler a buscar a resposta promettida; e na carta que então escreveo ao Consul interino, lhe dizia, para o fazer constar ao Baxá, que dado o caso, que não annuisse ás representações, que no dia antecedente lhe havia feito, sobre a remessa dos Francezes, que immediatamente declarava o Porto de Tripoli em estado de bloquêo, não só como hum Porto inimigo de Portugal, mas tambem como hum Porto, aonde os Francezes encontravão soccorro, e de donde lhes era permittido mandar viveres para a llha de Malta, [8] em manifesta violacão da fidelidade, que o Baxá deve ao Grão Senhor; procedimento, que encontrava a boa fé das Potencias que estavão em guerra com a Franca, e que se oppunha aos interesses de Inglaterra: na mesma carta encarregava Campbell ao Consul interino da Grão-Bretanha, que participasse a todos os Consules residentes em Tripoli, que elle estava sériamente determinado a rechaçar qualquer embarcação, que se dirigisse áquelle Porto, huma vez que o Baxá não consentisse na proposta, a respeito da entrega dos Francezes. Em resposta a esta carta, recebeo o Chéfe de Divisão huma do Consul interino, pela qual lhe fazia vêr que o Baxá continuava na mesma inacção, não se resolvendo a convir na requisição dos Francezes, pois que, dentro em 10 dias, os havia de enviar ao Grão Senhor, a que estava obrigado em virtude do Real Firman do mesmo Soberano. Nesta occasião pôde saber o referido Chéfe que entre o Baxá, e o Consul de França, havia huma correspondencia secreta; em consequencia do que, conheceo, sem nuvem, que o mesmo Baxá não estava disposto a enviar os Francezes a Constantinopla, e por isso mandou novamente significar-lhe, que não só bloquearia o Porto de Tripoli, mas tambem arrazaria as suas batarias. Em toda a tarde do dia 8, e manhã do dia 9, correo hum tempo tão opposto, que não deo lugar a effeituar o ataque contra a Cidade de Tripoli; mas melhorando depois o tempo, mandou o Chéfe suspender a Náo, e fazer alguns bórdos, a fim de buscar lugar proprio para fundear, ordenando juntamente que as embarcações [9] miudas armadas, se dirigissem á pequena entrada do Porto, para que em quanto a Náo se

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occupava contra as baterias, entrassem ellas no Porto, atacando, e queimando os Navios que se achavão nelle fundeados. Ordenadas as cousas da forma que fica dito, e havendo se retirado para bórdo de huma embarcação Dinamarqueza, que se achava surta no Porto, o Consul Inglez, a fim de evitar desconfiança, de ter elle intervindo em semelhante disposição, esperava impaciente o valeroso, e destemido Campbell o momento de atacar as baterias da Cidade; porém o tempo, inteiramente adverso, frustou o intento, e obrigou a Náo a soffrer algum damno, pois lhe partio a verga da gávea, hindo pelos ares o vellaxo, e a vella do estai de prôa. Em consequencia de hum tal accidente, julgou o Chéfe de Divisão, ser muito conveniente que a Náo cruzasse fóra vista da Cidade, a fim de livrar-se de maior damno, e de fazer persuadir aos Mouros que de todo se retirava. Acabada que foi a tormenta, e agitação do mar, veio a Náo no dia 11 buscar a terra, e avistou ao nascer do Sol para Leste huma Polaca, á qual deo logo caça; e como fosse fundear perto de terra; ordenou o Chéfe Campbell, que as embarcações miudas lhe fizessem todo o fogo, (a1) a que a dita Polaca respondia [10] com toda a sua artilheria, que se compunha de 18 peças. Vendo o Commandante da Polaca (que era o Vice Almirante do Baxá,) a intrepidez, actividade, e destreza com que os Portuguezes atacavão, e se defendião; resolveo mandar cortar a amarra, a fim de que cahindo a Polaca sobre a terra, podesse a sua tripulacão escapar á maior ruina, salvando-se na lancha. Acudindo ao estrondo da artilheria huma grande parte de Arabes, fizerão elles hum vivo fogo sobre as embarcações que perseguião a Polaca; porém os Portuguezes mostrárão nesta occasião o valor de que são dotados, peleijando debaixo de todo o risco, (a2) e com muita especialidade se distinguirão o Capitão de Fragata, José Maria d’Almeida, o Capitão Tenente, Miguel José de Oliveira Pinto, os Primeiros Tenentes, Pedro da Silva, e Luiz de França, os Segundos Tenentes, Alexandre Luiz de Sousa Malheiros, João Eleuterio da Rocha, e Francisco Homem, o Guarda Marinha, Gauderio José da Guerra, e o Sargento de Mar Manoel Ignacio. Foi o resultado deste Combate perderem os Moiros a Polaca, á qual os Portuguezes lançárão fogo, e perderem 25 ou 30 homens; quando as [11] embarcações miudas, ou Escaleres da Náo, se recolhêrão com a falta de hum só marinheiro, que morreo depois do conflicto. Ficando desta sorte victoriosas as Quinas de Portugal, ordenou o Chéfe de Divisão no dia 12, que a Náo se aproximasse á Cidade, a fim de continuar o ataque; e nesta occasião se avistárão ao mar duas embarcações, ás quaes se deo immediatamente caça, e pouco depois forão aprezadas; sendo huma dellas, a maior Fragata Tripolina, a cujo bórdo vinha o Almirante, e a outra huma preza Sueca. Tanto que o Baxá foi informado deste acontecimento, mandou significar ao Chéfe de Divisão, que estava determinado a remetter-lhe os Francezes pedidos, esperando que em troca lhe fossem restituidas as duas embarcações, e prisioneiros: a esta proposta, respondeo Campbell, que se se lhe não entregassem os Francezes, elle proseguiria nas hostilidades; e que pelo que pertencia á restituição dos prisioneiros, esse era hum objecto, que devia entrar nas negociações da Paz. Conhecendo o Baxá a positiva resolução, em que se achava o Chéfe de Divisão, se determinou a mandar para bórdo da Náo Affonso d’Albuquerque os Francezes, que até então tinha recusa-

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do mandar; depois do que, cuidando o mesmo Chéfe de Divisão de estabelecer huma Paz honrosa, entre Portugal, e a Regencia de Tripoli, offereceo ao Baxá o Armisticio do theor seguinte, que elle acceitou, e prometteo assignar: ARTIGO I. O Baxá do Tripoli, seus herdeiros e Successores, se obrigão a concluir hum firme, sincéro, e inviolavel Tratado de Paz, e amisade[12] com o Reino do Portugal, expressamente nos termos da Paz, que subsiste entre Tripoli, e a Grão Bretanha. ART. II. Até estes termos serem ratificados, he mutuamente ajustado que céssem as hostilidades, de huma, e de outra parte, do dia de hoje em diante. ART. III. Os subditos de huma, e outra Nação, gozarão de todos os privilegios especificados no Tratado de Paz, acima declarado, entre Tripoli, e a Grão Bretanha. Datado na presença de Deos Todo Poderoso, a bórdo da Náo de Sua Magestade Fidelissima, Affonso d’Albuquerque, na frente de Tripoli, aos 14 do Maio do 1799. DONALD CAMPBELL. Este Armisticio, sendo assignado pelo Chéfe de Divisão, Donald Campbell foi remettido ao Baxá, para tambem o assignar. Em quanto porém se demorou em terra a assignatura do Armisticio, do que Campbell enviou ao Baxá dous Exemplares, hum para ficar em seu poder, e outro para lhe ser restituido, na fórma do costume, e estilo; em quanto digo, houve esta demora, recebeo o dito Chéfe de Divisão huma carta do Consul do Hespanha, na qual lhe dizia, que o Baxá se suspendia assignar os termos do Armisticio, visto que a Paz de Portugal, se achava proposta por Sua Magestade Catholica, e acceita por Sua Magestade Fidelissima; e esta carta respondeo Campbell, que elle tinha de satisfazer as Ordens, que lhe havião sido intimadas, e que por isso cumpria que o Baxá se désse pressa em assignar o Armisticio [13] que havia recebido. Durante este intervallo, o qual deo motivo a pensar que o Baxá pertendia illudir as tenções, e projectos de Campbell, mandou este Chefe interceptar a passagem, que hum Bergantim intentava fazer para o Porto de Tripoli; e querendo os Mouros estorvar esta resolução, procurando encalhar o dito Bergantim, dispôs o Chéfe que a Fragata, que havia aprezado lhe désse caça; e com effeito satisfez esta ordem com tanto desempenho, e acerto o Capitão Tenente, Manoel do Canto e Castro, que dentro em pouco tempo aprisionou o Bergantim, matando nesta acção, dous dos Mouros da sua tripulação. Apenas o Baxá teve noticia deste acontecimento, receando que as hostilidades continuassem, mandou levar ao Chéfe de Divisão, o Armisticio já assignado; em consequencia do que houve por bem o dito Chéfe entregar o Bergantim, e restituir

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os Mouros, que a esse momento estavão a bórdo da Náo, cujo número era de mais de 200. Lisongeando-se o Baxá com esta heroica acção, pertendeo que se lhe restituisse tambem a Fragata aprezada; ao que igualmente annuio o Chéfe de Divisão, porém debaixo das seguintes condições, que o Baxá admittio.[14] ARTIGO I. Que a Fragata fosse avaliada em trinta mil duros de Hespanha 30.000 duros ART. II. Que o Baxá pagasse immediatamente os tres oitavos desta somma, pertencentes aos Officiaes, Marinheiros, e Equipagem, que vem a ser onze mil duzentos e cincoenta duros 11.250 duros ART. III. Que o Baxá recebesse os cinco oitavos que restavão, que montão a dezoito mil setecentos e cincoenta duros, como hum presente da parte de Sua Magestade Fidelissima, na fórma do estilo, e costume observado entre as Nações, que celebrão Tratados de Paz. 18.750 duros Total 30.000 A bórdo da Náo de Sua Magestade Fidelissima, Affonso de Albuquerque, surta na frente de Tripoli, aos 18 de Maio de 1799. DONALD CAMPBELL. Pelo que pertence á preza Sueca, que se havia feito juntamente com a Fragata, determinou o brioso Campbell, que tambem fosse restituida, e a esta restituição foi presente o Consul da dita Nacão. Havendo o Chéfe de Divisão, Donald Campbell, satisfeito tão distinctamente, como fica ponderado, os pontos da sua commissão, se retirou para bórdo da sua Náo; e antes de mandar[15] levantar ferro, fez constar á Officialidade, e guarnição della, que se achava assignado o Armisticio, entre a Coroa de Portugal, e a Regencia de Tripoli; e que, reconhecendo a honra, zelo, e actividade, com que cada hum dos Individuos tinha, proporcionadamente ao lugar, que occupava, concorrido para se conseguir huma semelhante vantagem, rendia a todos os bem merecidos agradecimentos, e protestava a confiança que devião pôr no prémio, que em virtude de tal conducta, era d’esperar S. A. R. lhe mandasse liberalisar. He esta a Relação do que em Tripoli praticou o benemérito, Chéfe de Divisão, Donald Campbell, a qual trouxe à Augusta Presença de S. A. R. o Principe Nosso Senhor, o Capitão de Fragata, José Maria d’Almeida, que commandava a Náo Affonso d’Albuquerque, debaixo das ordens do dito Chéfe, e ficando S. A. R. informado

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do distincto serviço, que lhe havião feito naquella occasião todos os Portuguezes, que estavão a bórdo da referida Náo, tem ordenado que sejão remunerados condignamente, e que se formalise o Tratado de Paz, com a Regencia de Tripoli, de que hão de resultar as grandes vantagens á Monarquia Portugueza.

a1 Nesta occasião experimentou o Escaler, commandado pelo Capitão Tenente, Miguel José de Oliveira Pinto, hum consideravel damno, em consequencia do violento choque do mar, que o obrigou a ficar quasi soçobrado; mas o desembaraço, e intelligencia deste Official não succumbio a semelhante revéz, antes continuou com mais energia o ataque contra a Polaca, ajudado pelo Escaler que commandava o Capitão de Fragata, José Maria d’Almeida, que por entre hum terrivel fogo de metralha foi em seu soccorro, conseguindo ambas as embarcações derrotarem inteiramente a referida Polaca. a2 Para se conhecer a destreza, e actividade com que os Portuguezes se houverão neste Combate, basta advertir que eráo muito desproporcionadas as forças das embarcações: pois, a Polaca tinha de guarnição 150 homens, e montava 18 pecas; quando as embarcações miudas apenas levavão 30 homens, e a sua artilheria consistia em huma peça do calibre de dezoito.

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Appendice III – Trattato fra Tripoli e il Portogallo (14 maggio 1799). Tratado de paz e amizade entre o principe regente, o senhor Dom Jõao e Jusef Baxa Carmanaly, Regente e Governador de Tripoli, assignado em Tripoli, aos 14 de maio de 1799, e ratificado por parte de Portugal no 1.° de agosto do dito anno. Nos, Dom João, por graça de Deos Principe de Portugal, e dos Algarves, d’aquém, e d’além mar, em Africa Senhnor de Guiné, e da Conquista, Navegação, e Commercio de Ethiopia, Arabia, Persia, e da India, etc. Como Regente, e Governador dos ditos Reinos, e Senhorios: Fazemos saber aos que esta Nossa Carta de Confirmação, Approvação, e Ratificação, virem, que no dia quatorze de Maio de mil setecentos noventa e nove da Computação Christã e da Hegira Turco mil duzentos e treze, e dez dias da Lua de Delhejia, se ajustou, concluio, e assignou a bordo da Náo da Minha Armada Real, denominada Affonso de Albuquerque, em frente de Tripoli, hum Armisticio entre Donald Campbell, Chefe de Divisão, e Commandante da referida Embarcação de Guerra, da Nossa Parte, e o Illustrissimo Senhor Jusef Bax Carmanaly, Regente, e Governador de Tripoli de Barbaria, cujo Armisticio de Nossa Parte he do theor seguinte. Termos de hum armisticio concluido entre Portugal, e Tripoli pelo Chefe de Divisão Donald Campbell. O Baxá de Tripoli, seus Herdeiros, e Successores se obrigão a concluir hum firme, sincero, e inviolavel Tratado de Paz, e Amizade com o Reino de Portugal, expressamente nos termos da Paz presentemente em pé, e que existe entre Tripoli, e a Gram Bretanha; e até estes Termos serem ratificados; he mutuamente ajustado que as hostilidades cessem de huma parte, e de outra desde o dia de hoje por diante; e que os Subditos de huma, e outra Nação, gozem de todos os Privilegios especificados no Tratado de Paz assima declarado entre Tripoli, e a Gram Bretanha Datado na presença de Deos Nosso Senhor Todo Poderoso, a bordo da Náo de Sua Magestade Fidelissima, Affonso de Albuquerque, na frente de Tripoli no dia quatorze de Maio de mil setecentos noventa e nove da Computação Christã, e da Hegira Turco mil duzentos e treze, e dez dias da Lua de Delhejia. (L. S.) DONALD CAMPBELL Em reciprocidade do Armisticio assima transcrito se lavrou outro Original da parte do Illustrissimo Senhor Iusef Bax Carmanaly, Regente, e Governador de Tripoli de Barbaria, cujo theor he o seguinte: O louvor seja dado a Deos, digno de todo o louvor. O motivo de se escrever o conteudo neste papel, he o seguinte: Chegando a este Porto de Tripoli o Chefe Donald Campbell, Commandante de Não de El Rei de Portugal, e fallando comnosco sobre a Paz entre esta Regencia, e a Corte de Portugal, lhe respondemos que não tinhamos duvida de a fazer, e com os mesmos Artigos

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e Condições da que se acha feita, e axiste entre a Nossa Regencia, e a Corte da Gram Bretahna; mas que se devia advertir, que a Corte de Hespanha tinha já interessado na mesma Paz; e que só no caso de se não effeituar por aquella via, por que já se tinha fallado, he que parece se deve fazer em direitura, para o que estamos promptos, e a faremos com as mesmas Condições da Paz de Inglaterra. Foi escrita a oito do mez de Zulhage de mil duzentos e treze, que corresponde aos quatorze de Maio de mil setecentos noventa e nove. O Magnifico por seu Deos, e Creador Jusef Bax Carmanaly, Regente, e Governador de Tripoli de Barbaria. Em virtude das Condições expressas no mencionado Armisticio se concordan nos termos de estabelecer hum firme, sincero, e inviolavel Tratado de Paz, e Amizade entre o Serenissimo Senhor Principe do Brazil, Regente de Portugal, seus Reinos, e Vassallos, e o Illustrissimo Senhor Jusef Bax Carmanaly, Regente, e Governador de Tripoli de Barbaria, seus Herdeiros, e Successores, cujos Artigos, em conformidade dos estabelecidos no Tratado de Paz com Inglaterra, são do theor seguinte: Em Nome de Deos todo poderoso I. Em primeiro lugar se estipula, e ajusta que daqui em diante haverá para sempre huma Paz verdadeira, e inviolavel entre o Serenissimo Senhor Principe do Brazil, Regente de Portugal, e os Illustrissimos Senhores Governadores da Cidade, e Reino de Tripoli, e entre todos os Dominios, e Subditos de cada huma das Partes; e se acontecer que os Navios, e Subditos de cada huma das Partes se encontrem no mar, ou em qualquer outro sitio, não se molestaráõ huns aos outros, antes tratar-se-hão reciprocamente com todo o respeito, e amizade possivel. II. Que todos os Navios mercantes pertencentes aos Dominios de Portugal, e que traficão para a Cidade, ou qualquer parte do Reino de Tripoli, não pagaráõ mais do que tres por cento de Direito de Alfandega por toda a casta de mercadorias que hajão de vender; e as que não houverem de vender, ser-lhes-ha permittido embarcallas outra vez a bordo, sem pagar nenhuma sorte de Direito qualquer que este seja, e partiráõ sem embaraço algum, ou vexação.

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Lumi e corsari III.

Que todos os Navios, e mais Embarcações, assim as que pertencem ao Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, ou a algum dos Subditos do mesmo Senhor, como as pertencentes ao Reino, e Povo de Tripoli, passaráõ livremente o mar, e traficaráõ onde bem lhes parecer, sem revista embaraço, ou vexação, humas das outras; e que todas as pessoas, ou passageiros de qualquer Paiz que seja, e todos os dinheiros, mercadorias, e móveis pertencentes a qualquer Povo, ou Nação, que se achem a bordo de algum dos ditos Navios, ou Embarcações, serão inteiramente livres, e não serão retidos, tomados, ou pilhados, nem receberáõ de cada huma das Partes perjuizo, ou damno algum qualquer que este seja. IV. Que os Navios de Guerra Tripolinos, ou quaesquer outras Embarcações pertencentes a Tripoli, encontrando-se com alguns Navios mercantes, ou outras Embarcações dos subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal (não sendo em algum dos mares pertencentes a algum dos Dominios de Sua Alteza Real) poderão mandar a bordo hum só bote com dous homens, além da Companha ordinaria de remeiros, e não mais: os dous homens, porém não entraráõ em qualquer dos ditos Navios mercantes, ou das outras Embarcações, sem expressa licença do Commandante de qualquer dos ditos Navios, ou Embarcações; e então apresentando-lhe hum Passaporte assignado pelo Ministro, Conselheiro e Secretario de Estado dos Negocios de Marinha, e Dominios Ultramarinos de Portugal, e sellado com o Sello das Armas Reaes, partirá immediatamente o dito bote; e o Navio, ou Navios mercantes, Embarcação, ou Embarcações proseguiráõ livremente sua viagem, ou viagens; e posto que o Commandante, ou Commandantes do dito Navio, ou Navios mercantes, Embarcação, ou Embarcações não appresentem Passaporte algum do sobredito Ministro, Conselheiro, e Secretario de Estado, com tudo, se a maior parte da Tripulação, do Navio, ou Embarcação for composta de Subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, partirá immediatamente o dito bote; e o Navio, ou Navios mercantes, Embarcação, ou Embarcações proseguiráõ livremente sua viagem, ou viagens. E encontrando-se qualquer dos ditos Navios de Guerra, ou outras Embarcações do sobredito Serenissimo Senhor Principe Regente con algum Navio, ou Navios, Embarcação, ou Embarcações pertencentes a Tripoli, se o Commandante, ou Commandantes de qualquer Navio, ou Navios destas, Embarcação, ou Embarcações destas apresentar hum Passaporte assignado pelos principaes Governadores de Tripoli, e huma Certidão do Consul de Portugal alli residente, ou que houver alli de residir, ou se tal Passaporte não tiverem, mas se as suas Tripulações forem compostas de Turcos, Mouros, ou Escravos pertencentes a Tripoli, então proseguiráõ livremente os ditos Navio, ou Navios, Embarcação, ou Embarcações Tripolinas.

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V. Que nenhum Commandante, ou outra pessoa de algum Navio, ou Embarcação de Tripoli, tirará de qualquer Navio, ou Embarcação dos subdidos do Serenissimo Senhor Principe de Portugal pessoa alguma, ou pessoas, quaesquer que estas sejão, para conduzillas a qualquer parte que seja, a fim de serem examinadas, ou debaixo de outro algum pretexto; nem usará de força, ou violencia contra pessoa alguma de qualquer Nação, ou qualidade que seja, que se ache a bordo de algum Navio, ou Embarcação, dos subditos de Sua Alteza Real, sob qualquer pretexto que ser possa. VI. Quel nenhum Navio, ou Embarcação naufragada pertencente ao Dito Serenissimo Senhor Principe Regente, ou a qualquer dos subditos de Sua Altezza Real, sobre qualquer parte das Costas pertencentes a Tripoli, será feita preza, e que nem os seus bens serão apprehendidos, nem a gente feita escrava; mas que todos os subditos de Tripoli farão todos quantos esforços puderem para salvar a dita gente, e os seus bens. VII. Que nenhuns Navios, ou outras Embarcações de Tripoli terão licença, e liberdade para irem a qualquer outro lugar que se ache em inimizade com o Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, a fim de serem empregados no mar como Corsarios contra os subditos de Sua Alteza Real. VIII. Que se algum Navio, ou Embarcação de Tunis, Argel, Tetuão, Salé, ou qualquer outro lugar que se ache en guerra com o Dito Serenissimo Senhor Principe Regente, trouxer alguns Navios, ou Embarcações, gente, ou bens pertencentes aos subditos do Mesmo Senhor a Tripoli, ou a algum outro porto, ou lugar daquelle Reino, o Governador d’alli não permittirá que sejão vendidos dentro do Territorio de Tripoli, bem como se acha estipulado em Argel. IX. Que se acontecer que algurn subdito do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal morra em Tripoli, ou seu Territorio, os seus bens, ou dinheiro não serão apprehendidos pelos Governadores, ou Ministros alguns de Tripoli, mas ficaraõ todos elles em poder do Consul de Portugal, ou seu Agente.

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Lumi e corsari X.

Que nem o Consul de Portugal, nem outro algum subdito do Dito Serenissimo Senhor Principe Regente será obrigado a pagar as dividas de outro algum dos subditos de Sua Alteza Real, a não ser no caso que por hum acto público se tenha constituido fiador das mesmas dividas. XI. Que os subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, que se acharem em Tripoli, ou seu Territorio não serão em materia de contestação sujeitos a alguma outra jurisdicção senão á do Dey, ou Divan, excepto succedendo que elles estejão em litigio entre si mesmos, no qual caso não serão elles sujeitos a outra alguma decisão, senão só á do Consul. XII. Que no caso que succeda que algum subdito do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, que se ache em qualquer parte do Reino de Tripoli, espanque, mate, ou fira hum Turco, ou Mouro; se elle for apanhado, deverá ser punido do mesmo modo, e não com maior severidade do que o deve ser hum Turco, sendo culpado do mesmo crime: se succeder porém que elle fuja, então nem o Consul de Portugal, nem nenhum outro dos subditos de Sua Alteza Real será de sorte alguma inquirido, ou incommodado por aquelle motivo, nem se fará processo algum, nem proferirá sentença sem que seja perante o Consul. XIII. Que o Consul de Portugal, que em qualquer tempo para o futuro residir em Tripoli, gozará alli sempre de inteira liberdade, e segurança de sua pessoa, e estado; e ser-lhe-ha licito escolher seu proprio Druggermano (Interprete), e Corretor, e ir livremente a bordo de qualquer Navio que se ache na Bahia, tantas vezes, e quando bem lhe parecer, e ter a liberdade de sahir ao Campo; que ser-lhe-ha concedido hum lugar para o Culto Divino; e que ninguem o injuriará de palavra, ou de obra, e que em todas as occasiões terá a liberdade de arvorar a Bandeira do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal no topo de sua Casa, e no seu bote, quando for embarcado.

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XIV. Que não só durante a continuação desta Paz, e Amizade mas igualmente se acontecer haver para o futuro algum rompimento, ou guerra entre o Dite Serenissimo Senhor Principe Regente, e a Cidade, e Reino de Tripoli, o dito Consul, e todos os mais subditos de Sua Alteza Real, que habitem o Reino de Tripoli, terão sempre e em todo o tempo, assim de paz, como de guerra, plena e absoluta liberdade para se ausentarem, e partirem para o seu proprio Paiz, ou qualquer outro em qualquer Navio, ou Embarcação da Nação que já mais lhes parecer, e para levarem comsigo todo o seu estado, bens, familia, e criados, e isso sem interrupção alguma, ou embaraço. XV. Que nenhum subdito do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, vindo, ou indo de passageiro a algum porto será por modo algum vexado, nem com elle se intrometteráõ, quer com sua pessoa, quer com seus bens, posto que a bordo de algum Navio, ou Embarcação que esteja em inimizade com Tripoli; e o mesmo se observará a favor dos subditos de Tripoli. XVI. Que quando algum dos Navios de Guerra do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal apparecer diante de Tripoli, logo que o Consul de Portugal, ou o Commandante do dito Navio o fizer scíenta aos principaes Governadores de Tripoli, far-se-ha immediatamente huma Proclamação pública para segurar os cativos Christãos; e se depois disso alguns Christãos, quaesquer que estes sejão, fugirem para bordo de algum dos ditos Navios de Guerra, não serão elles requeridos, para que voltem outra vez para terra; nem o dito Consul, ou Commandante, ou outro algum dos subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente será obrigado a pagar cousa alguna pelos ditos Christãos. XVII. Que todos os Navios mercantes que vierem á Cidade, e Reino de Tripoli, posto que não pertenção a Portugal, terão plena liberdade de se pôr debaixo da protecção do Consul de Portugal, pelo que toca á venda, e disposição de suas fazendas, e mercadorias, se assim lhes parecer, sem que nisso sejão de modo alguin embaraçados, ou vexados.

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Lumi e corsari XVIII.

Que todas as vezes que algum Navio de Guerra do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, e com bandeira do mesmo Senhor apparecer diante da dita Cidade de Tripoli, e vier ancorar na Bahia, immediatamente depois que o Consul de Sua Alteza Real, ou o Official do Navio der disto aviso ao Dey, e Governo de Tripoli, salvaráõ elles em honra de Sua Dita Alteza Real com vinte e sete tiros de peça, que serão disparados do Castello, e Fortes da Cidade, e responderá o dito Navio, disparando o mesmo numero de tiros. XIX. Que a nenhum subdito do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal será permitido fazer-se Turco, ou Mouro na Cidade de Tripoli (sendo a isso induzido por alguma sorpreza qualquer que esta seja) excepto no caso que elle voluntariamente compareça perante o Dey, ou Governador com o Consul de Portugal, e Druggermano tres vezes dentro de tres dias, e em cada hum dos dias declare a sua resolucão de se facer Turco, ou Mouro. XX. Que pois he costume dos Consules Europeos fazer os seus cumprimentos ao Baxá nas Festas do Ramadão, e Bairão, (Quaresma, e Pascoa) por este Artigo se declara, que o Consul do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal entrará no numero dos primeiros Consules admittidos á Audiencia. XXI. Que se alguns dos Navios de Guerra do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal vierem com alguma preza a Tripoli, ou a algum outro Porto, ou lugar daquelle Reino, poderão livremente vendella, ou dispôr por outro modo della ao seu proprio arbitrio, em ser por alguem vexados, e que os ditos Navios de Guerra de Sua Dita Alteza Real não serão obrigados a pagar Direitos de Alfandega de sorte alguma; e que se elles houverem mister provisões, viveres, ou quaesquer outras cousas, poderáõ livremente comprallas pelos preços que forem correntes. XXII. Que todas as vezes que para o futuro acontecer que pelos Navios, ou subditos de cada huma das Partes se faça, ou commetta alguma cousa contraria a estes Artigos, pedindo-se por isso satisfação, dar-se-ha esta, e inteira, e sem sorte alguma de demora; e não será licito quebrantar esta Paz, excepto se for negada a satisfação pedida; e seja

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quem quer que for a causa do quebrantamento da Paz, será seguramente punido com pena competente. XXIII. Que os subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal (além das estipulações contidas neste) gozarão de todos os privilegios, e vantagens que ora são, ou que para o futuro forem concedidos aos subditos da Nação mais favorecida. XXIV. Que no caso que alguns dos subditos do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal hajão de importar ao dito Reino de Tripoli, ou a algum dos seus Portos, e Dominios quaesquer Munições de Guerra, como peças de artilharia, espingardas, balas, barras de ferro, e todas as castas de madeira propria para construcção de Navios, pez, alcatrão, resina, enxarcia, amarras, mastros, bigotas, ancoras, vélas, e todos os mais aprestes de guerra, tanto por mar, como por terra, assim como proviseõs de boca, a saber trigo, cevada, legumes, avêa, ou cousas semelhantes, não pagaráõ tributo algum, ou Direito de Alfandega, qualquer que seja. XXV. Que serão expedidos, e dados promptamente, e sem a menor difficuldade Passaportes por parte da Regencia de Tripoli a todos os subditos Commerciantes, ou outros do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal; como tambem aos seus Navios, e Embarcações de Guerra, e de Commercio, quando as circumstancias assim o exijão, e estes se lhe solicitem, sejão quaes forem os fins que para isso concorrão, ou se alleguem. XXVI. Que nenhum Navio mercante pertencente a Portugal, ou a alguma outra Nação, que esteja debaixo da Protecção do Consul de Portugal, e que se ache no Porto de Tripoli, será demorado mais que oito dias de sahir, e proseguir sua viagem, como o motivo de acabar de armar os Navios de Guerra do Governo, ou debaixo de outro algum pretexto qualquer que este seja. XXVII. Que todos os Paquetes, Correios Maritimos, ou outras quaesquer Embarcações de Aviso, em Commissão do Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, serão tratados com o mesmo respeito, que os Navios de Guerra do mesmo Senhor; e toda

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a devida attenção se haverá para com a Commisão de Sua Alteza Real; e tanto ao encontro, como á separação, serão tratados os ditos Paquetes, Correios Maritimos, ou outras quaesquer Embarcações de Aviso, como Amigos; e se algum dos Corsarios de Tripoli commetter a menor falta, ou violencia contra elles, o Capitão, ou Arraes que a commetter, será mui severamente castigado, sem que se lhes admittão suas desculpas. XXVIII. Que todos, e cada hum dos Artigos deste Tractado serão inviolavelmente guardados, e observados entre o Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal e os Illustrissimos Baxá, Senhores, e Governadores da Cidade, e Reino de Tripoli; e entre os Dominios, e Subditos de cada huma das Partes; e a Nossa Fé será Fé Nossa; e a Palavra Nossa será Nossa Palavra. XXIX. Esta Paz estabelecida neste Tratado entre o Serenissimo Senhor Principe Regente de Portugal, seus Reinos, e Vassallos, e o Illustrissimo Senhor Jusef Bax Carmanaly, Regente, e Governador de Tripoli de Barbaria, seus Herdeiros, e Successores, deve ser remettida, e ratificada no tempo de seis mezes, para depois disto se dar principio á sua observancia. Dado na Presença de Deos Nosso Senhor Todo Poderoso, a bordo da Náo de Sua Magestade Fidelissima Affonso de Albuquerque, na frente de Tripoli, no dia 14 de Maio de 1799 da Computação Christã, e da Hegira Turco 1213, e dez dias da Lua de Delhejia. E sendo-Nos presente o mencionado Armisticio, assim como o mesmo Tratado, cujo theor fica assima inserido; e bem visto, considerado, e examinado por Nos tudo o que nelles se contém, os Approvamos, Ratificamos, e Confirmamos assim no todo, como em cada huma das suas clausulas, e estipulações: promettendo em Fé, e Palavra Real observallos, e cumprillos inviolavelmente, e fazellos cumprir, e observar, sem permittir que se faça cousa alguma em contrario por qualquer modo que possa ser. E em testemunho, e firmeza do sobredito, fizemos passar a presente Carta por Nos assignada, sellada com o Sello Grande das Nossas Armas, e referendada pelo Nosso Ministro, Conselheiro, e Secretario de Estado dos Negocios Estrangeiros, e da Guerra abaixo assignado. Dado no Palacio de Quéluz em o primeiro de Agosto do Anno do Nascimento de Nosso Senhor Jesu Christo de mil setecentos noventa e nove. O PRINCIPE Com Guarda (L. S.) Luiz Pinto De Souza

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Fonti e bibliografia

Per coerenza con l’intento e la struttura complessiva del volume – che abbiamo dichiarati nella Prefazione – non si è inteso offrire qui un quadro, neppure orientativo, delle fonti a stampa (e tanto meno inedite) relative agli stati barbareschi e ai loro rapporti con l’Europa nel Settecento. L’elenco presentato comprende anzitutto le fonti e i contributi critici utilizzati e citati più volte nelle note (dove vengono indicati con il nome dell’autore e una data, di pubblicazione o con riferimento alla edizione originale o redazione). Sono state escluse, salvo pochissime eccezioni, opere di carattere più generale concernenti la storia del Mediterraneo (a cominciare da quella di Braudel), gli stati barbareschi, la guerra corsara, la schiavitù, le conversioni. Fonti e contributi utilizzati del tutto occasionalmente o nell’ambito di un unico capitolo sono citati soltanto in nota, in modo completo, e vengono richiamati, nel capitolo stesso, con nome dell’autore e data; non sono riportati nella bibliografia, piuttosto lunga, nonostante i precisi limiti osservati. Per non appesantire le note e per offrire in questa sede un panorama orientativo – ma senza alcuna pretesa di esaustività – sul tema complessivo del volume, sui rapporti cioè fra l’Europa e il Maghreb nel Settecento, si è preferito elencare qui anche altri studi critici, citati una sola volta nelle note (e pochi altri non citati), se il loro contenuto afferisce direttamente al tema del volume.

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ABI AYAD A., Les bombardements d’Alger de 1783 et 1784, à travers quelques documents littéraires espagnols, in “Revue d’Histoire Maghrébine”, 81-82/giugno 1996, 1951. AL-MAZRI B., Le Maghreb arabe, la Suède et le commerce mondial, in “Revue d’Histoire Maghrébine”, 7-8/gennaio 1977, 115-116. AMINE M., Conditions et mouvements des échanges de la Régence ottomane d’Alger, in “Revue d’Histoire Maghrébine”, 69-70/maggio1993, 11-48. ANDERSON M.S., Great Britain and the Barbary States in the Eighteenth Century, in “Bulletin of the Institute of Historical Research”, 29/1956, 87-107. ARRIBAS PALAU M., Rescate de cautivos catalanes por Jorge Juan, in “Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona”, 24/1951-1952, 233-238. ID., Una embajada marroquí enviada a España en 1792, Tetuán 1953.

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ID., El texto árabe del tratado de 1799 entre España y Marruecos, in “Tamuda”, 7/ 1959, 9-51. ID., Establecimiento de una casa comercial española en Marruecos, frustrado al retirarse Salmón de Tánger, in “Miscelánea de Estudios Arabes y Ebraicos”, 12-13/1964, 157-192. ID., La accesión de Fernando IV de Nápoles al convenio de Aranjuez y el tratado de 1782 entre Marruecos y el Reino de las Dos Sicilias, in “Hespéris-Tamuda”, 9/1968, 233288. ID., Rescate de cautivos en Malta por Muhammad b. Utmàn, in “Hespéris-Tamuda”, 10/1969, 273-329. ID., Embajadas marroquies a España proyectadas en 1792, in “Correspondance d’Orient”, 11/1972, 41-61. ID., Sobre seis malteses apresados en 1779 por una fregata marroquí y liberados posteriormente, in “Studi Magrebini”, 6/1974, 129-196. ID., El cautiverio de cinco españoles en Argel (1780-1782), in “Hespéris-Tamuda”, 16/ 1975, 99-173. ID., El viaje de Fr. Bartolomé Girón de la Concepción a Marruecos en 1765, in “Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán”, 11/1975a, 37-56. ID., Algunos datos sobre el primer cónsul del reino de Cerdeña en Marruecos, in “Studi Magrebini”, 7/1975b, 155-160. ID., La actividad comercial del Marqués Viale en Marruecos, in “Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos”, 79/1976, 3-25. ID., La mediación de Marruecos entre España y Tripoli en 1784, in “Almenara”, 10/ 1976-1977, 49-82. ID., La abolición de la esclavitud de cristianos en Marruecos en el siglo XVIII, in “Cuadernos de Historia del Islam”, 8/1977, 5-45. ID., La estancia en España del “almirante”al-Mansur (1767-1768), in “Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán”, 15/1977a, 7-48. ID., La correspondencia de Pedro Wick, cónsul de Suecia en Tánger, con los hermanos Salmón, in “Miscelánea de Estudios Arabes y Ebraicos”, 26/1977b, 61-82. ID., Reclamaciones del marqués Viale contra la casa comercial española de Casablanca y el cónsul Salmón, in “Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán”, 17-18/ 1978, 39-82. ID., Algunas cartas del embajador marroquí Muhammad b.Utmàn al primer ministro español conde de Floridablanca, in Actes du Premier Congrès d’Histoire et de la Civilisation du Maghreb, Tunis 1979, 7-28. ID., Un embajador marroquí de finales del siglo XVIII: Muhammad b.Utmàn, in “Awraq”, 3/1980, 118-130. ID., Un litige de l’ambassadeur de Tripoli Ahmed Khudgia à Malaga (1785-1787), in “Revue d’Histoire Maghrébine”, 19-20/ottobre 1980a, 157-176. ID., Tres tetuanies en Ibiza, liberados en 1767, in “Cuadernos de la Biblioteca Española de Tetuán”, 21-22/giugno-dicembre 1980b, 315-328.

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Indice dei nomi | 301

Indice dei nomi

L’indice comprende i nomi di persona e i nomi geografici (questi in corsivo), nonché quelli degli autori citati nel testo (restano esclusi i nomi contenuti nelle indicazioni bibliografiche e archivistiche). Non figurano nell’indice i nomi che ricorrono con molta frequenza e quelli troppo generali, come Europa, Levante, Oriente, Maghreb (ovvero Barbaria e Barberia), Algeri, Tunisi, Tripoli, Marocco e qualche altro.

Abbate Emanuele e Salvatore dei Marchesi di Longarini, schiavi, 129 Abd Allàh, figlio di Ismail, sultano del Marocco, 185 Abd al-Malik, sultano del Marocco, 183 Abd ar-Rahmàn, inviato, 190, 199 Adamo, 184 Adriatico, mare, 30, 37 Agrigento, v. Girgenti Ahmad al-Gazzàl, inviato, 15 Ahmed Mulay, vedi Troiano Aix-en-Provence, 226 Albertazzi Giuseppe Giovan Nicola, schiavo, 126 Alemagna, v. Germania Aleppo, 161 Alessandria, 102 Alessandria d’Egitto, 59, 118, 169, 225 Alessandro I, zar di Russia, 245 Algarve, 114 Ali, islamizzato (già Carr), 82 Ali Bey (Bek), pascià d’Egitto, 198, 199 Ali Borghul, pascià di Tripoli, 215

Ali Efendi, inviato, 15 Ali Pascià, bey di Tunisi, 79, 137, 200, 242 Ali Pascià Qaramanli, v. Qaramanli Ali Perez, raìs, 43 Ali Shaush (Baba Ali), dey di Algeri, 187 Alicante, 117, 118 Almeida Fortunato de, autore, 254 Almeida José Maria de, comandante, 252, 262, 266, 267 Almeria, 50 Alsazia, 121 Ambrosiano Nicola, capitano, 63 Amburgo, 4, 5, 9, 57, 137 Anatolia, 169 Ancona, 84 Andalusia, 90, 168 Angola, 181 Antonino di San Fernando, trinitario, 102 Anzio, 30, 31, 110 Arabia, 198, 268 Aranda Emanuel de, autore, 187 Aranjuez, 15 Arezzo, nunzio, 245 Argentario, 34 Arlecchino, 12 Arreger Jean-Victor-Laurent, barone di, 119 Artieri Giovanni, autore, 221 Arvieux Laurent d’, diplomatico, 208 Aruj Barbarossa, corsaro, 27, 35, 185 Asinara, isola, 26 Asquer di Flumini, visconte, 240 Assen Gurgi, islamizzato, 80 Astura, torre, 31 Atarse Zelin, cristianizzato, 88 Attard Francesco, schiavo, 77 Augusta, 93 Austria (Impero, Austria-Ungheria), 14, 102, 134, 136, 139, 141, 151, 230 Azzorre, 87, 95

302 Baba Ali (anche Alì Spahilar Agà), dey di Algeri, 83, 131, 138, 139, 149, 150, 151, 154 Babilonia, 12 Baghdad, 205, 209 Bagnara, 28 Bagur, 108 Bahia, 95, 257 Balcani, 99, 102, 120 Baleari, isole, 50 Ballovich Giuseppe, console, 224 Balsamo Giuseppe, mercante, 63 Barbarossa, corsari, 167, 185 Barbosa du Bocage Manuel Maria, autore, 256, 257 Barcellona, 22, 39, 63, 110, 116, 117, 120, 121, 126 Barceló Antonio, comandante, 6 Barker, console, 216 Barthes (de), inviato, 249 Basset René, autore, 254, 255 Baviera (Bavaria), 121 Bayntun Edward, console, 216 Beaussier Bonaventure, console, 252 Belgio, 165 Belgrado, 121 Ben Ayed, famiglia tunisina, 42 Benedetto XIII, papa, 31, 49, 96, 97 Benedetto XIV, papa, 137 Benevento, 31 Benin, regno del, 181 Bennassar Bartolomé, autore, 75, 81 Ben-Olid, 191 Bergna Costanzo, autore, 253 Berlino, 165, 166 Bertolotti Giovanbattista, schiavo, 115 Betti Gian-Marco, schiavo, 113, 125 Bianco, marina di, 29 Bisanzio, 205 Biscaglia, golfo di, 123 Biserta, 26, 31, 33, 42, 71, 85, 89 Blaquière Edward, autore, 215

Lumi e corsari Bock Adolf, 194, 197 Bolignoli Floriano, schiavo, 117, 118 Bologna, 115-118, 124, 125, 240 Boltas José, francescano, 109 Bona, 19, 21, 126 Bonaffini Giuseppe, autore, 128, 224 Bonaparte Napoleone, 245, 247, 250 Bordeaux, 39, 149 Bordighera, 36 Borgogna, 95 Borzoni Felice, capitano, 79 Bosco di Belvedere Arrigo del, 233 Bosco di Belvedere Giovanna del, 231, 234 Bossu Arnoult, padre, 145 Bourck Marie-Anne de, schiava, 94, 122 Bovalino, 29 Brahimi Denise, autrice, 21 Brailli, capitano, 103 Braim Bey, islamizzato, 115 Braithwaite John, autore, 81-82, 211 Branca (Sermoneta), galeotto, 86 Brasile, 256 Braudel Fernand, 277 Breugnon (de), ambasciatore, 17 Bronza Giuseppe, capitano, 123, 124 Bruce de Kinnaird James, console, 17 Bruxelles, 238 Bruzone Lazzaro, islamizzato, 83 Buga Atanasio, armatore, 230 Bugia, 21 Bubich, console, 79 Buonocore Ferdinando, autore, 17 Bussi Papirio, capitano, 31 Cabilia, 122, 137 Cacciadiavoli, corsaro, 27 Cadice, 23, 38, 39, 55, 59, 127 Cagliari, 26, 50, 70, 110, 240, 242-247 Cairo (il), 155, 160, 213 Calabria, 32, 38 Cambridge, 212 Cammarata, 234

Indice dei nomi Campbell Donald, comandante, 251253, 255, 256, 259, 261-266, 268 Campbell Fraser Archibald, console, 199 Campese, marina e torre del, 33, 35 Canai, torre, 40 Candia, 53, 59, 80, 84 Capitani Giacomo, schiavo, 120 Capo Bon, 44 Capo d’Anzio, 30 Capo delle colonne, 63 Capo Misurata, 50 Capo Negro, 19, 137 Capo Passero, 31, 47 Capo Rizzuto, 63 Capo S. Vincenzo, 114, 122 Cappovin Giorgio, autore, 224 Caracciolo Domenico, marchese di Villarmosa, 220 Cardoso de Moraes José Francisco, poeta, 250, 253, 256, 257 Carlier, islamizzato, 188 Carlo di S. Antonio, trinitario, 104 Carlo Emanuele III di Savoia, 239 Carlo Emanuele IV di Savoia, 242, 243, 245 Carlo Felice, viceré di Sardegna, 244, 245, 247 Carlo III di Borbone, 6, 9, 72, 87, 229 Carlo IV di Spagna, 15, 254, 255 Carlo V d’Asburgo, 171, 185, 187, 204, 206 Carloforte (Carlo Forte), 67, 239-244, 248 Cartagena, 69, 74, 91, 94, 120 Cartagine, 167 Casablanca, 24 Caserta, 29, 70, 75, 87, 231 Castel Porziano, 32 Castellammare, 108 Castelli, capitano, 51 Castellino Domenico, capitano, 59, 60 Castiglia, 90 Castro, 29

303 Catalogna, 22, 38, 69, 168 Catania, 40, 219, 220 Caterina II di Russia, 196 Cefalonia, 37, 53 Cerdeira E., autore, 254 Cerrate, 28 Ceuta, 90, 91, 121 Chaillot, 165 Charles de Valois, duca d’Angoulème, 211 Charles-Roux François, autore, 56 Chenier (de) André, 17 Chenier (de) Louis, console, 17, 84, 144 Chenier (de) Marie-Joseph, 17 Chevillard (de), cavaliere, 62 Chiappe Francesco, mercante, 23 Chiappe Giacomo Girolamo, cancelliere, 24 Chiappe Giovanni Battista, vice-console, 23 Chiappe Giuseppe, mercante, 23 Chiappe, fratelli, 8 Chioggia, 108 Ciammaichella Glauco, autore, 223, 225228 Cipro, 59, 70, 97, 119 Cirano Francesco, v. Zirano Circeo, 31, 70, 97 Cirene (Cyrene), 182, 183, 206 Cirò, 27 Ciuffo, raìs sardo, 85 Civitavecchia, 31, 70, 74, 75, 86, 110 Clemente XII, papa, 49 Clemente XIV, papa, 40 Clementina, torre, 40 Clermont-Tonnerre Aimé-Marie-Gaspard, conte di, 165 Cole Robert, console, 16 Collet, capitano, 57 Collo, 21 Congo, 181 Consalvi Ercole, cardinale, 245

304 Cooke, Edward, console, 216 Cordoba, 15 Corfù, 59, 121 Cornovaglia, 123 Corò Francesco, autore, 6, 224, 225 Corone, golfo di, 59 Corsica, 5, 26, 31, 49, 62, 126, 127, 188, 248 Costa d’oro, 181 Costa degli schiavi, 181 Costa meridionale (Africa), 181 Costa occidentale (Africa), 181 Costantina, 100, 103, 106, 140 Costantinopoli (Istanbul), 14, 15, 93, 98, 102, 104-106, 117, 121, 133, 140, 144, 155, 161, 189, 230, 233, 252 Creta, 119 Cromwell, Oliver, 196 Dalmazia, 115 Dan Pierre François, autore, 208 Danimarca, 2, 4, 5, 7, 8, 16, 109, 170, 175 Dapper Olfert, autore, 208 Dearden Seton, autore, 253 Dekker Jan Cornelisz, schiavo, 114, 122 De Marchi Giacomo, capitano, 36 Delormo Giuseppe, redentore, 93 Denis Ferdinand, autore, 257 Denis Peter, comandante, 199 Deoux D. Scipione, capitano, 51 Derna, 115 Devoize, commissario generale, 18, 245 Devoulx Albert, autore, 41, 55-57, 150 Di Blasi, avvocato, 235 di Natale Giacomo, capitano, 49 di Natale Giovan Francesco, corsaro, 49 Diaz José, schiavo, 71 Diderot Denis, 165, 166, 176 Diedo Iseppo, senatore, 228 Diego Francisco, cristianizzato (già Atarse Zelin), 88 Diercks Gustav, autore, 209

Lumi e corsari Diodato da Benablio, francescano, 58 Djellouli, famiglia tunisina, 42 Dombay Franz von, autore, 204 Doxarà Marino, inviato, 7, 79, 80, 223, 225-228 Dragut, corsaro, 188, 189 Dubois Fontanelle Joseph-Gaspard, autore, 181, 182, 186, 188 Dubrovnik (Ragusa), 5, 16 Duchesne Lambert, vicario apostolico, 71 Duguay-Trouin René, ammiraglio, 13 Dulcigno, 58, 125 Durazzo, 125 Dusault Denise, ambasciatore, 94 Earle Peter, autore, 49 Egeo, mare, 58, 59 Egitto, 3, 6, 160, 161, 167, 169, 176, 180182, 191, 198, 199, 207, 208, 250, 251 Elba, isola, 31 Emanuele e Gaetani Francesco Maria, marchese di Villabianca, 127-129, 230, 232 Embarek el-Haggi, raìs, 56-58 Emo Angelo, ammiraglio, 7, 225, 254 Eolie, isole, 27 Esquer Gabriel, autore, 163 Estepona, 38 Etiopia, 18 Fabbrini Antonio, dedicatario, 133 Falmouth, porto, 123 Famin Etienne, agente, 18, 28, 231 Fardella Giacomo, schiavo, 128 Fardella Giovanni Maria, schiavo, 128 Fardella Rosalba, nobile, 128 Faro, torre del, 28 Fau, autore, 66, 73, 149 Favignana, 47, 51 Federico di Sassonia, 19 Federico II di Prussia, 165 Fendri Mounir, autore, 18, 19 Féraud Charles-Laurent, autore, 6, 15, 252

Indice dei nomi Ferdinando di Borbone (IV di Napoli, III di Sicilia), 9, 15, 35, 107, 231, 235 Ferdinando VI di Spagna, 100 Ferretti Francesco Maria, capitano, 30 Fès, 90, 100, 101, 109 Fezzan (Tretzen), 191, 251 Fiandra (Fiandre), 84, 135 Filesi Teobaldo, autore, 224 Filippo V di Spagna, 7 Filippo da Firenze, autore, 75 Finisterre, capo, 39 Fiore Gaetano, sorvegliante, 28 Firenze, 17, 152 Fiume, 136 Foceverde, 30 Fogliani Giovanni, viceré di Sicilia, 128 Foncenex (De), cavaliere, 61 Fontainebleau, 90 Fontenay Michel, autore, 49, 69 Fordt, console, 24 Foresta Orazio Girolamo, marchese della Scaletta, 128 Foresta Giuseppe, marchese della Scaletta, 128 Formentera, 60 Forteguerri Bartolomeo, autore, 10 Fossi, autore, 132 França Luiz de, tenente, 264 Francesco Stefano di Lorena, imperatore, 133 Francia, 2-5, 7, 8, 23, 24, 32, 40, 50, 56, 57, 74, 84, 98, 105, 109, 115, 122, 137-139, 144, 145, 149-151, 163, 165, 169, 172, 184, 188, 190, 196, 201, 241, 247, 250, 252, 254 Frensdorff F., autore, 196, 209 Fréron Élie Catherine, letterato, 181 Frisia, 114 Fugère Anatole, autore, 176 Gaeta, 32, 63 Garcia Navarro Melchor, mercedario, 95 Gautier Émile Félix, autore, 182

305 Genova, 8, 24, 60, 70, 71, 74, 75, 83, 108, 110, 126, 127, 137, 220, 224 Gerardo Augusta Caterina, duchessa di Vasto, 132 Gerba, 19 Gerbrands Philippe, diplomatico, 16 Germain Jean Baptiste, cancelliere, 145, 149-151 Germania (v. anche Alemagna), 84, 121, 196 Gerona, 108 Gerusalemme, 118, 213 Gharian (Garcan), 115, 191 Giacomo inglese, armatore, 229 Giannutri, 33 Gianrusso Vincenzo, schiavo, 129 Gibilterra, 55, 138 Giglio, isola del, 33, 35 Gimon Louis, agente, 145 Ginevra, 148 Giovanni d’Austria, principe, 188 Giovanni Gugliemo, pretendente olandese, 14 Giovanni, reggente del Portogallo, 249, 250, 255, 256, 259 Girgenti, 93, 234 Girón de la Concepción Bartolomé, francescano, 15 Giuseppe di Braganza, 250 Godechot Jacques, autore, 49 Goethe Johann Wolfgang, 107 Goldoni Carlo, 12 Goletta, vedi La Goletta Gomes de Carvalho Manuel, redentore, 100 González Salmón Juan Manuel, console, 16 Gorani Giuseppe, autore, 11 Gorgona, la, isola, 34 Göttingen, 195-198, 201, 208, 209 Gozo, 47

306 Grammont Henri D. (de), autore, 139, 151 Gran Bretagna, v. Inghilterra Granada, 15 Grandchamp Pierre, autore, 41, 42 Grandpré de, ammiraglio, 4 Grecia, 37, 84, 125 Gregorio XIII, papa, 92 Groisselle Théodore, lazzarista, 104 Grondona Antonio, cavaliere, 240, 241 Gropelli Giovanni, ‘auditore’, 126 Guadarrama, 70 Guaiard, islamizzato, 80 Guerra Gauderio José da, guardiamarina, 264 Guglielmotti Alberto, autore, 30, 32, 44, 70 Guinea, 181 Haedo Diego de, autore, 185, 213 Haen Antonio de, autore, 144 Hamuda Pascià, bey di Tunisi, 7, 67, 126, 225, 226, 233, 235, 238-242, 244-246 al-Hanbali Mar’i ben Yusuf, autore, 207, 211, 213 Hardy, capitano, 251 Hatfield Anthony, console, 16 Hasan Sardo, pascià di Algeri, 185 Hasan, raìs algerino, 57 Hassan Flalil Ogli Rodolsi, raìs, 51 Hassem ben Ali, bey di Tunisi, 78 Hebenstreit Johann-Ernst, viaggiatore, 19 Herbert d’, ambasciatore, 233 Herculais d’, Louis-Alexandre d’Allois, inviato, 18 Hidalgo Maria, 109 Homem Francisco, tenente, 264 Höst Georg, viaggiatore, 84 Hussein Giorgio, islamizzato, 79 Ibiza, 59 Ibrahim Aga, inviato, 14 Ibrahim Kuciuk, dey di Algeri, 136 Ibrahim Rodopolis, raìs di Rodi, 83 Ignacio Manuel, sergente, 264

Lumi e corsari Impero Ottomano (Turchia, Sublime Porta), 3, 5, 14, 34, 38, 43, 68, 92, 134, 167, 172, 185, 186, 189, 204, 233, 236, 251 India, 205 Infante G.B., napoletano, 108 Inghilterra, 2-5, 8, 16, 24, 101, 137-139, 169, 175, 194, 199, 198, 250, 251, 253, 255 Innocenzo XII, papa, 90 Ionio, mare, 45, 63 Ippoliti Carlo, commissario, 134 Isaac Bey, inviato, 233, 234 Isla Plana, 103 Ismail, sultano del Marocco, 7, 68, 72, 81, 82, 87, 172, 184, 185, 187 Israel Paolo, agostiniano, 87 Istanbul, v. Costantinopoli Italia, 46, 65, 68, 69, 88, 93, 108, 118, 121, 126, 127, 147, 169, 196, 200 Izzaden Muhammad Efendi, inviato, 14 Jagstadt, 195 Jones, signora, 122 Juan del Santísimo Sacramento y Robleda, francescano, 118, 119 Juan y Santacilia Jorge, diplomatico, 15 Kara Ahmed, proprietario di schiavi, 67 Kelibia, 226 Keppel Augustus, ammiraglio, 137 Khair ed-Din (Barbarossa), ammiraglio, 167, 185, 206 Khalìl Pascià (Kalil Passà), pascià di Tripoli, 79, 80, 226 Kokovtsov Matvéï Grigorievitch, ufficiale, 20 Kraktscià, raìs, 230 Krump Theodor, francescano, 18 La Calle, 19, 21 La Ciotat, 55 la Condamine Charles Marie de, inviato, 13, 73 La Faye Jean Baptiste de, trinitario, 77

Indice dei nomi La Goletta, 42, 44, 47, 188, 206, 207, 225, 242 la Lande Joseph-Jérôme de, viaggiatore, 70 Lambiasi Giovanni, livornese, 128 Lampedusa, 46, 47, 51, 226 La Motte Philemon de, trinitario, 89 Lancey de, console, 80, 84 Langford William Wass, console, 256 Langoisseur de la Vallée, console, 17 Langon Adriano de, comandante, 45 Langon Giuseppe de, comandante, 45 Larache, 81, 114 Latino Coelho J.M., autore, 254 Latour S. De (Delatour), autore, 250, 257 Laugier de Tassy Jacques Philippe, autore, 10, 16, 40, 187, 193 Lazio, 30, 32 Lazzarini Paolo, capitano, 60, 61 Le Roy, autore, 40, 141 Lecce, 28, 38 Leida, 213 Lemaire André Alexandre, console, 56, 134, 138, 139, 144, 148, 149 Lenci Marco, autore, 224 Lesbo, 185 Liguria, 33, 36 Lione, 181 Lipari, 93, 97, 104 Lipsia, 19 Lisbona, 95, 106, 117, 249, 256 Lithgow William, autore, 208 Livorno, 15-17, 34, 48, 54, 60, 68, 74, 75, 83, 84, 93, 96, 99, 105, 110, 115117, 121, 125-127, 133, 134, 175, 216 Lochner Giovanni Federico, console, 251 Logie, console, 24 Loli Domenico Maria, schiavo, 115 Londra, 14, 137, 166, 181, 251 Longo Giuseppe, 218, 221, 226 Longo Nicoletta, 259 Lourido Díaz Ramón, autore, 7

307 Lubecca, 109, 196 Lucas Simon, console, 217, 251, 256, 261 Lucca, 224 Lucchini Enrica, autrice, 224 Ludwig Christian Gottfried, botanico, 19 Luigi XIV di Francia, 7, 90, 105 Luigi XVI di Francia, 106, 200 Luz Soriano da, gesuita, 254 Lyle Peter, islamizzato, 80 MacDonough Bryan, viceconsole, 251, 256 Maccarese, spiaggia di, 32 Macedoniski Michele, comandante, 244 Machamet, bey di Susa, 5 Maddalena, isola della, 62, 117 Madrid, 70, 90, 94, 99, 120 Mafrici Mirella, autrice, 29 Mahamet Susà, vedi Uzun Ali Mahemet Saccalis, islamizzato, 83 Mahon, 60 Maiorca, 46, 129 Malaga, 23, 47, 69, 76, 117 Malouet Pierre-Victor, politico, 165 Malta (anche Ordine di Malta), 5, 9, 15, 20, 22, 23, 25, 26, 31, 43, 45, 46, 48, 49-51, 62, 65, 68, 69, 82, 84, 110, 111, 115, 137, 189, 204, 206, 225, 233, 234, 250 Mami Sansoun, islamizzato, 83 Mamora, 81, 114 Manca Bruno, autore, 224 Manno Giuseppe, autore, 241 Marcacchi Haggi Demetrio, agente, 17 Marchesi Vincenzo, autore, 224 Marchika Jean, autore, 144, 145 Maria I di Braganza, 250 Maria Teresa, imperatrice d’Austria, 102, 105 Marrakech, 15, 24, 27 Marsala, 93 Marsiglia, 17, 50, 89, 96, 117-119, 127, 136, 149, 165

308 Martín Corrales Eloy, autore, 22, 69 Martini Pietro, autore, 26, 62 Mascali, torre, 40 Mascara, 103, 105, 127 Matra J.M, console, 16 Maurus, pseudonimo, 220 Mazagan, 8, 84 Mazalquivir, 109 Mazoul, islamizzato, 188 Mecca, 144 Médéa, 19 Meemet Bey, tunisino, 116 Mehemet Saccalis, islamizzato, 83 Meifrund Pierre Joseph, mercante, 24 Meknès, 68, 73, 82, 90, 95, 96, 98, 114, 122 Melilla, 199, 200 Mergellina, spiaggia di, 28 Merlet Simon, mercante, 24 Mers el-Kebir, 6, 167, 188 Messina, 50, 84, 93, 97, 127 Metauro, 37 Micacchi Rodolfo, autore, 253 Michaelis Johan David, orientalista, 198 Migliacci Filippo, armatore, 32 Miguel de San Raffael, trinitario, 97 al-Miknasi, vedi Muhammad ibn Uthmàn Milano, 12, 123 Milanovich Alvise, ‘ingegnere’, 42, 79 Miliana, 19 Minucci, capitano, 45 Misilmeri, 234 Missolungi, 37, 230, 231 Misurata, 251 Mitilene, 185 Mogador, 8, 23, 24, 104 Mohammed Arraez Romeli, raìs, 240 Mohammed ben Beker, dey di Algeri, 55, 131, 132, 135-139, 149-151, 153, 154, 187 Mohammed ben Hassan, dey di Algeri, 187

Lumi e corsari Mohammed ben Osman, dey di Algeri, 139 Mohammed di Chio, pascià di Tripoli, 189 Mohammed el Hafsi, tunisino, 152 Mohammed el Kebir, bey di Mascara, 127 Mola-Osmàn Scutarino, corsaro, 84 Momarz Gaspare (anche Mommartz), commissario, 134 Monaco, principato di, 50 Monasterace, 27 Moncada Giovan Luigi, principe di Paternò, 110, 229-238 Moncada Guglielmo, duca di San Giovanni, 233 Moncada Aragona Caterina, 229 Montalto di Castro, 32 Montecristo, isola di, 33, 46 Morea, 37, 59 Mori Ubaldini Ubaldino, autore, 47 Morsy Magaly, autrice, 78 Mosca, 245 Möser Justus, autore, 195 Moser Karl Friedrich von, autore, 195 Mössner Jörg Manfred, autore, 3 Mozza, torre, 27 Muhammed (Maometto), profeta, 167, 180, 184 Muhammad ben Abdallàh, sultano del Marocco, 7, 43, 101, 109, 172, 199, 203 Muhammad ibn Uthmàn al-Miknasi, ambasciatore, 15 München, 209 Münster, 191 Muràd, bey di Tunisi, 188 Murat Reìs (Amurat bey), v. Sicard Muratori Ludovico Antonio, 2 Murcia, 69 Mustafà detto Gran Doganiere, 82 Nablus, 213 Nahum Benandolla, islamizzato, 85

Indice dei nomi Nani Giacomo, comandante, 6, 84, 224 Napoli, 6,15, 71, 75, 85, 87, 110, 220, 229-231, 233, 234, 238 Napoli di Romania, 116 Napoli, regno di, 29, 49, 68, 82, 85, 137, 224, 232, 233, 235-237 Natali Giovan Battista, schiavo, 116, 128 Navarro Pedro, comandante, 95, 206 Negroponte (Negro pontio), 121 Nelson Orazio, 251, 261-263 Newport, 135 Nicolò da Chio, francescano, 72, 73 Nicotera, 28 Nilo, fiume, 160, 161 Nizza, 61, 99 Norvegia, 4, 16 Nueva Tabarca, 103 Nyssen Anthoni, console, 176, 230, 231, 233, 234 O’Reilly Alexander, comandante, 6, 200 Ockley Simon, autore, 212 Ogliastra, 26 Olanda (anche Paesi Bassi, Province Unite), 3-5, 7, 8, 14, 15, 129, 139, 170, 176, 194, 230 Oliveira Pinto Miguel José de, capitano, 264 Orano, 6, 38, 66, 67, 91, 98, 106, 117, 121, 141, 185 Orihuela, 69 Oronzo (Ronzu), santo, 38 Orosei, 26 Osta Morat, dey di Tunisi, 118 Ostenda, 135 Otranto, 28, 29, 39 Pagni Giovanni, medico, 152 Palagonia, principe di, 107 Palamos, 117 Palermo, 15, 27, 39, 50, 86, 93, 104, 107, 127-129, 220, 229-231, 234 Palizzi, 28 Palo, 31, 111

309 Pantelleria, 47, 93, 104 Panzac Daniel, autore, 42 Paolo Maria da Matelica, cappuccino, 96, 97 Papa Falson, islamizzato, 188 Parigi, 90, 100, 101, 138, 149, 165, 181, 184, 188, 196, 201, 208 Parini Giuseppe, 12 Passeri G.B., autore, 132 Paternò Castello Antonino, marchese di San Giuliano, 219, 220 Paternò Castello Antonino, figlio di Orazio (v.), 219 Paternò Castello Francesca, 219, 220 Paternò Castello Giuseppa, 219, 220 Paternò Castello Orazio, marchese di San Giuliano (poi Ahmed), 77, 215-222 Paternò e Gravina, donna Maria, 219 Paternò Luigi, 219 Paternò, principe di, v. Moncada Péchinin Ali (Pegelin, Piccinin, Piccinino), raìs, 187 Pegli, 85 Pelaez Emanuele, autore, 230 Pellestrina, 97, 103 Pellow Thomas, schiavo, 82, 208 Peloponneso, 59 Peres D., autore, 254 Perès, marocchino, 81 Persia, 180, 268 Petroso e Crescimanno Francesco, principe di Castrogiovanni, 219 Petroso Rosana, 219 Peuchet, autore, 176 Peyssonnel Jean-André, viaggiatore, 18, 19, 41, 65, 77, 78, 84 Piana, isola, 241 Pianosa, isola, 33 Piazza Calogero, autore, 10, 17, 147, 224 Piemonte, 37, 244 Pierles, conte di, 245 Pietro III di Portogallo, 250

310 Pietro Leopoldo, di Toscana, 34 Pietroburgo, 196 Pillet, islamizzato, 82 Pilot Antonio, autore, 225, 226 Pini (o Dini) Giovan Battista, sergente, 35 Pio VI, papa, 108, 242 Pio VII, papa, 242 Piombino (canale di, Stato di Piombino), 34 Pisa, 68 Pitré Giuseppe, autore, 235 Playfair Robert Lambert, console, 17 Pléville-Le Pelley Georges René, inviato, 17 Plowman William, console, 16 Poiret J.-L.-M., viaggiatore, 21 Poiron, viaggiatore, 41 Polignano, 29 Pollini Gaetano, inviato, 245 Polonia, 19 Ponce Clara, schiava, 88 Pontieri Ernesto, autore, 242, 246, 247 Ponza, 32 Porcile Antonio, conte di Sant’Antioco, 243, 244 Porcile Giovanni, conte di Sant’Antioco, 243, 244 Porres Alonso Bonifacio, autore, 100 Portercole, 33 Porto, 95, 98 Porto Farina, 31, 41, 42, 67, 71 Porto Torres, 45 Portocarrero, comandante, 206 Portofino, 37 Portogallo, 5, 8, 47, 71, 87, 98, 106, 109, 123, 249-253, 256, 259, 268 Portoscuro, torre di, 26 Potsdam, 165 Pozzobonelli, cardinale, 12 Prépaud Jean-François, capitano, 55, 56, 138, 149

Lumi e corsari Provenza, 32, 165 Prussia, 204, 230 Puglia, 28 Pupares Remigio, traduttore, 166 Qairawàn (Kairwan), 182, 183, 206 Qaramanli, dinastia, 72, 215, 217, 221, 250, 253 Qaramanli Ahmed, secondogenito di Ali Pascià, 215 Qaramanli Ahmed I, pascià di Tripoli, 81 Qaramanli Ahmed II, pascià di Tripoli, 250 Qaramanli Ali, Hasan, Mustafà, Mohammed, discendenti, 221 Qaramanli Ali Pascià, pascià di Tripoli, 58, 79, 125, 199, 200, 215-218, 221 Qaramanli Hasan Bey, primogenito di Ali Pascià, 215 Qaramanli Hassuna, pascià, 221 Qaramanli Mohammed, pascià di Tripoli, 54, 81 Qaramanli Yusuf, 80, 215, 249-257 Querini Andrea Maria, inviato, 7, 223, 225, 227, 228 Rabaud & Co., mercante, 24 Ragusa (Dubrovnik), 5, 8, 16 Raimondi Giovan Leopoldo, schiavo, 124, 125 Rapperda, duca di, islamizzato, 82 Raynal Guillame Thomas François, illuminista, 11, 163-169, 171-176 Rebello da Silva L.A., autore, 254 Reboul Gastone, autore, 46 Rehbinder Johann von, viaggiatore, 20 Ricottino Francesco, schiavo, 37 Rinalda, torre, 37 Rocca Imperiale, 63 Rocca Nuova, 28 Rocha João Eleuterio da, tenente, 264 Rodi, 84

Indice dei nomi Roma, 32, 33, 36, 39, 70, 86-88, 90, 121, 167, 196 Rosalem Nicolas, inviato, 14, 20, 24, 136, 141 Rossi Ettore, autore, 189, 253 Rosvalle Pedro, mercedario, 98 Rothmann Johann Nepomuk, ufficiale, 191 Rousseau Jean Jacques, 164 Russel John, inviato, 82 Russia, 196, 198, 209, 245 Sacerdoti Alberto, autore, 223, 224 Safi, 24, 104 Saint Gervais J. Boyer de, console, 73, 208 Sainte-Beuve Charles-Augustin, autore, 165, 166 Salah, raìs marocchino, 43 Salani Pier Domenico, vice-console, 74 Salé, 7, 17, 43, 44, 55, 82, 84, 98, 101, 172, 271 Salonicco, 161 Salvago Giovan Battista, inviato, 223 San Felice Circeo, 96 San Giovanni d’Acri, 119 San Giuliano Antonino, marchese di, ministro, 221 San Giuliano, marchese di, v. Paternò Castello San Pietro, duca di, 242, 246 San Pietro, isola di, 60, 110, 239-241 San Remo, 36 Sanpierdarena, 39 Sant’Antioco, isola di, 25, 35, 40 Santa Marinella, 110 Santoni Giuseppe, capitano, 61, 105 Sardegna, 8, 25, 26, 31, 45, 46, 50, 62, 105, 224, 239-245 Sardegna (Regno di), 50, 61 Sassari, 72 Scardino Vito, islamizzato, 86 Schlözer August Ludwig, illuminista, 183, 190, 193-195, 197-204, 207, 208, 212

311 Schulze Zacharias Philip, anatomista, 19 Sciabàn, raìs, 31 Scutari, 125 Seguassi Giovanni, schiavo, 116, 117 Selim II, sultano, 188 Selim III, sultano, 245 Senigallia, 37 Serbelloni Gabrio, comandante, 206, 207 Sermoneta, 30 Serpentara, torre di, 26 Settimio da Montealboddo, cappuccino, 247 Sfax, 6, 19, 225 Shaw Thomas, viaggiatore, 19, 66, 208 Sicard Jacques, mercante francese, 24 Sicard (anche Sicart, Murat o Amurat Bey), corsaro, 58, 59, 79, 84 Sicilia, 6, 27, 29, 39, 40, 46, 50, 60, 93, 104, 108, 110, 127, 129, 185, 215, 221, 222, 224, 233, 234 Siddi Ahmetto Genovese, islamizzato, 79 Sidi Hamuda, algerino, 126 Sidi Mustafà, discendente di Osta Morat (v.), 118 Siena, 16 Silva Pedro da, tenente, 264 Sinàn Pascià, comandante, 188 Siniscola, 26 Sion, 12 Siracusa, 219 Siria, 198 Sitbon Elia, Giuda, Samuele, mercanti, 23 Siviglia, 15, 211 Slesia, 136 Smirne, 14, 141, 169 Smith John, diplomatico, 16 Soares Joaquim Pedro Celestino, autore, 254 Sol, costa del, 38 Soler Arnoldo, diplomatico, 240

312 Soleure, 119 Soliman Portal, islamizzato, 83 Solimano, raìs, 57 Sousa Malheiros Luiz de, tenente, 264 Souza, console, 253 Spagna, 5-9, 15, 38, 47, 49, 65, 68-70, 82, 87, 90, 91, 98, 101, 109, 110, 122, 126, 127, 129, 168, 172, 198, 199, 201, 205, 232, 255 Specchi Alessandro, schiavo, 128 Specchi Ottavio, schiavo, 127 Squinzano, 28 Staniford Ambrose, console, 137 Starita Gaetano, napoletano, 82 Stati Uniti d’America, 5, 8 Stato pontificio, 30, 70, 107, 137, 245 Stendardi Carlo Antonio, console, 5, 16, 131-152 Stoccolma, 190, 195, 199 Strasburgo, 196 Stromboli, 104 Suarez Giuseppe, schiavo, 76 Suez, istmo, 167 Sus, 87 Susa (Sousse), 18, 44, 88, 188, 225, 242 Svezia, 3, 8, 14, 22, 24, 126, 190, 198, 199 Svizzera, 121 Tabarca, 8, 67, 103, 137, 138, 239 Tafilelt, 114 Tagiura, 218 Talleyrand Charles-Maurice de, ministro, 252 Tangeri, 24, 38, 90, 98, 111, 249 Tarragona, 119 Tavanelli Zorzi, capitano, 53 Tchesmé, 20 Teodoro da Pavia, cappuccino, 96 Ter Meetelen Maria, schiava, 122, 123 Terracina, 30 Terra d’Otranto, 28 Tessalonica, 169

Lumi e corsari Tetuán, 7, 24, 38, 82, 122 Teulada, 26, 85 Tevere, fiume, 31, 32, 40 Thédenat, schiavo, 66, 126 Thomas Giovanni, ‘brigadiere’, 107 Thomas, console, 136 Thomson Ann, autrice, 10, 175 Timone Giovanni Battista, islamizzato, 85 Tirreno, mare, 27, 30, 32, 59 Titteri, 141 Todde Giovanni, autore, 63 Tognetti Antonio, armatore, 34 Toledo Giuseppe, duca di Ferrandina, 229 Tollot J.B., viaggiatore, 13, 208 Tolone, 50, 110, 117, 129, 165 Torino, 61, 99, 102 Toro, isolotto del, 40 Toscana (anche Granducato), 8, 15, 33, 43, 46, 49, 110, 133-135, 137, 139, 147, 224 Trapani, 31, 50, 97, 127, 128 Traini Renato, arabista, 213 Trieste, 105, 136 Troiano Lorenzo Bartolomeo Luigi, cristianizzato (già Mulay Ahmed), 87 Tully Richard, console, 215, 217 Uljini, vedi Dulcigno Uluj Ali, pascià, 185 Umbriatico, vescovo di, 27 Ungheria, 102, 121 ’Uqba ibn Nafi (Oqba, Okkuba), 182, 183, 206 Uppsala, 195 Ustica, 27, 230 Uzès, 126 Uzun Ali (o Uzun Mohammed), giannizzero, 150, 153 Vacca, isolotto della, 40 Vadala R., autore, 253 Vajanico, spiaggia di, 32

Indice dei nomi Valencia, 40, 50 Valensi Lucette, autrice, 19, 23 Vallière Césarin-Philippe, console, 2, 78, 80, 83, 170 Vanvitelli Luigi, architetto, 29, 87 Venezia, 6, 8, 9, 24, 54, 59, 62, 79, 80, 97, 103, 109, 115, 116, 121, 136, 137, 141, 215, 223, 224, 227, 242 Venneri, torre, 37 Ventimiglia, 60 Ventotene, isola, 31 Venture de Paradis Jean-Michel, 78, 83, 94 Versailles, 200 Versilia, 33 Viale Francesco Saverio, marchese, 24 Vidau G. A., console, 74 Vienna, 14, 15, 121, 133, 152 Villabianca, marchese di, v. Emanuele e Gaetani Vincent, editore, 179 Vitali Carl’Antonio, schiavo, 115 Vitello, isola del, 40 Vittorio Emanuele I di Savoia, 245, 247 Vivalda Filippo, viceré di Sardegna, 240 Voltaire, 81, 82 Wettinger Godfrey, autore, 69 Windus John, viaggiatore, 73 Wittenberg, 195 Württemberg, 195 Wortley Montague, Lady Mary, 216 Yahyà ibn Yahyà, marabutto, 189 al-Yazid Maulay, sultano del Marocco, 15 Yussuf Coggia Sidi, tunisino, 244 Zante, 124, 227 Zanzur, 221 Zermelo Theodor, autore, 195 Zirano Francesco, francescano, 72 Zuara, 227

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