Come l'Occidente è diventato ricco. Le trasformazioni economiche del mondo industriale
 8815017909, 9788815017901

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Nathan Rosenberg

Luther E. Birdzell

Come l'Occidente è diventato ricco Le trasformazioni economiche del mondo industriale

il Mulino

ISBN 88-15-01790-9 Edizione originale: How The West Grew Rich. The Economie Trans/ormation o/The Industriai World, New York, Basic Books, 1986. Copyright© by Ba­

sic Books, Inc., New York. Copyright© 1988 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Giuseppe Nobile.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, com­ presa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Indice

p.

7

Prefazione

15

I.

Introduzione

57

II.

Il punto di partenza: il medioevo

97

III.

Lo sviluppo del commercio fino al 1750

147

IV.

L'evoluzione delle istituzioni favorevoli al commercio

181

V.

Lo sviluppo dell'industria: 1750-1880

233

VI.

Diversità d'organizzazione: la società per azioni

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VII.

Tecnologia, . Egli non considerò la tecnologia occidentale come una distinta fon­ te di crescita, ma come una derivazione della spinta trainante alla ricerca della ricchezza personale. Ma per Marx, il compor­ tamento dei capitalisti non era tanto un fenomeno psicologico indipendente quanto una reazione alle specifiche pressioni del­ le istituzioni capitalistiche. La crescita economica capitalistica non era per Marx una semplice concessione che egli era pronto a fare per gli scopi della sua trattazione, ma un punto centrale della teoria dell'ineluttabilità della rivoluzione. Per Marx la cre­ scita capitalista in termini di risultati economici, determinan­ do migliori condizioni di vita per i lavoratori, faceva sl che questi inevitabilmente si avvantaggiassero delle potenzialità di una ap­ propriazione rivoluzionaria dei mezzi di produzione. Se la teo­ ria appare oggi non plausibile, ciò è perché l'appropriazione dei mezzi di produzione non si è dimostrata una precondizione ne­ cessaria alla condivisione dei benefici della crescita economica da parte dei lavoratori. Il punto essenziale per Marx era la sua convinzione che il capitalismo fosse incapace di tradurre la sua grande crescita potenziale in più alti livelli di benessere mate­ riale per i lavoratori. La crescita economica è difficile che si verifichi senza che l'economia sia organizzata in modo tale che chi può contribui­ re all'espansione abbia incentivi per farlo, e Marx era indub­ biamente nel giusto quando sottolineava l'importanza degli in­ centivi al profitto offerti dal capitalismo contemporaneo. Ma

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un secolo dopo la sua morte, se noi osserviamo gli sforzi del Terzo Mondo per conseguire lo sviluppo, risulta evidente la necessità di qualcosa di più degli incentivi. Gli incentivi al profitto non possono far sl che una comunità sia in grado di fare ciò che non sa fare. Le conoscenze, e una struttura istituzionale che dia spazio a una loro crescita e consenta agli incentivi di operare, sono al­ trettanto importanti. La grande difficoltà di identificare le fonti della crescita eco­ nomica occidentale ha costretto ad alcune spiegazioni psicolo­ giche che sono poco meno che scoraggianti. Fra queste una che ha riscosso abbastanza consensi è che il declino del feudalesi­ mo fu in qualche modo collegato a un cambiamento psicologi­ co, il quale dette luogo alle istituzioni del mercato grazie ad un certo nuovo spirito capitalista o all'intensificazione di impulsi migliorativi più avanzati e più elevati rispetto a quelli che esi­ stevano in Cina, in India o nell'Islam. Ciò è stato sostenuto da Werner Sombart e da altri 3• Ma non è stato tanto il bisogno di far progredire gli interessi del singolo, sperimentato dal ge­ nere umano, ad aver subito notevoli variazioni, quanto le pos­ sibilità di gratificazione ed il modo in cui queste possibilità po­ tevano essere gestite. Max Weber pose il problema dell'impor­ tanza centrale di ciò che egli definl «l'impulso economico»: L'idea che la nostra età razionalistica e capitalistica sia caratterizzata da un interesse economico più forte che in altri periodi è puerile; gli spiriti più di­ namici del capitalismo moderno non sono pervasi da un impulso economico più forte di quello, per esempio, di un mercante orientale. Il puro scatenarsi dell'interesse economico in quanto tale ha prodotto solo risultati irrazionali; uomini come Cortez e Pizarro, che ne furono forse la più eloquente incarna­ zione, erano assai lontani dal modello di una condotta economica razionale. Se l'impulso economico di per sé è universale, la questione da porsi è come operano le relazioni attraverso cui esso viene razionalizzato e razionalmente adattato in modo da produrre istituzioni razionali del tipo dell'impresa capitalistica 4•

Il caso Noi vedremo che la storia delle economie occidentali inclu­ de almeno tre, e forse quattro, serie di eventi che potrebbero definirsi rivoluzioni. A cominciare dal XV secolo, vi fu un'e­ spansione degli scambi e del commercio che può essere consi­ derata come una rivoluzione mercantile. Tre secoli dopo, nel XVIII secolo, si ebbe la rivoluzione industriale. Alla fine del-

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lntroduzio11c

l'Ottocento e all'inizio del secolo XX, l'introduzione dell'energia elettrica e del motore a combustione interna equivalse a una seconda rivoluzione industriale. Nel nostro tempo, gli sviluppi nelle banche-dati elettroniche e nelle reti informatiche, incor­ porati nei sistemi di comunicazione e nei computer, sembrano in grado di determinare una rivoluzione dei sistemi informati­ vi, se non l'hanno già compiuta. Si potrebbe spiegare la crescita della ricchezza occidentale come la conseguenza della fortuna straordinaria di aver speri­ mentato queste quattro benefiche rivoluzioni in cinque secoli, proprio come potrebbe spiegarsi la fine della precedente socie­ tà feudale attraverso la cattiva sorte di essere stata travolta da troppe pesti, guerre, carestie nel XIV secolo. Ma quando un fulmine è caduto quattro volte nello stesso posto, è meglio ipo­ tizzare che è la topografia del posto ad attrarlo in modo così insistente. In un altro senso è il caso la vera spiegazione, perché le ori­ gini delle istituzioni economiche occidentali non possono attri­ buirsi alla saggezza di un essere umano identificabile. Esse so­ no un prodotto della storia, conseguenze impreviste di azioni intraprese per ragioni del tutto diverse. Erano già mature al tem­ po in cui Adam Smith diede inizio alla moderna analisi della loro struttura. Oggi quell'attività analitica non si è esaurita in nessun luogo. Il caso è ciò che ha prodotto la ricchezza dell'Oc­ cidente nel senso che i risultati dell'evoluzione biologica sono dovuti al caso, ma quei processi, il loro esito e le loro interrela­ zioni richiedono ancora molte ricerche. Il malgoverno

Un diverso gruppo di spiegazioni della ricchezza occidenta­ le è stato spesso avanzato in argomentazioni politiche. La ric­ chezza occidentale è stata attribuita a varie forme di errata ge­ stione del potere, alcune delle quali fortemente criticabili se­ condo criteri moderni, se non sulla base dei criteri prevalenti al tempo in cui il malgoverno fu esercitato. Le forme di malgo­ verno più comunemente addebitate alle economie occidentali sono le maggiori ineguaglianze di reddito e di ricchezza, lo sfrut­ tamento dei lavoratori, il colonialismo, l'imperialismo, la schia­ vitù. Come motivazioni per sostenere le azioni di solidarietà, nazionali e internazionali, per emanare una legislazione socia-

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Introduzione

sola ragione che impedisce di approvare la tesi che le inegua­ glianze che ne derivano siano in qualche misura una condizione assolutamente necessaria della crescita economica è la possibi­ lità che possano esistere dei metodi per indurre la gente ad im­ pegnarsi nell'attività della produzione di ricchezza senza incentivi e penalità rilevanti. Oggi la possibilità è solo ipotetica, poiché nessuna società avanzata ha funzionato senza un sistema di in­ centivi e penalità, anche se molte di esse hanno accentuato più le penalità che gli incentivi rispetto a quelle occidentali. Se le ineguaglianze determinate dal funzionamento dei mer­ cati capitalistici sono ingiuste e se così è, il grado in cui si può rimediare ad esse senza creare ulteriori ingiustizie, sono pro­ blemi con molte ramificazioni, di cui alcune molto controver­ se. Le difficoltà sono solo in parte dovute alla complessità deri­ vante dal fatto che i redditi e le ricchezze molto elevate, come pure la povertà più profonda, hanno molteplici cause e che la loro soppressione passa per una grande varietà di misure politi­ che, alcune meno accettabili di altre. Una difficoltà più oggettiva è che le occupazioni essenziali all'ordinario funzionamento di una società moderna esigono ca­ pacità e mansioni molto diverse e che esse si diversificano no­ tevolmente per condizioni di lavoro, per status sociale e cultu­ rale, per il rischio di disoccupazione o di altre forme di penali­ tà, e per la sensazione di fare qualcosa di interessante, utile od esaltante. I mercati capitalistici si basano sulla diversificazione dei redditi monetari per far corrispondere la quota di popola­ zione interessata a ciascuna occupazione (l'offerta di lavoro) al­ la quota di posti di lavoro disponibili in quell'occupazione (la domanda di lavoro). Il saggio del salario che fa incontrare l'of­ ferta e la domanda non informa ciascuno su ciò che è importan­ te per il soggetto, ma solo su quanto si può guadagnare accet­ tando un certo posto di lavoro o una data occupazione. Esso offre solo un dato rilevante per la scelta dell'individuo tra pren­ dere o lasciare. In assenza di diversificazione dei saggi del sala­ rio sarebbe necessario fare uso di una qualche forma di obbli­ gatorietà per evitare un eccesso di offerta di lavoratori nelle oc­ cupazioni più interessanti e una carenza in quelle meno inte­ ressanti. Le ineguaglianze sono così un'alternativa socialmente efficace ad un sistema di lavoro obbligatorio. Nonostante i loro limiti, i mercati capitalistici si sviluppa­ rono storicamente come un progresso rispetto ai mercati me-

Introduzione

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dievali in cui i prezzi venivano fissati con l'intento di realizza­ re la giustizia, o almeno quella giustizia che chi fissava i prezzi aveva in mente. La sostituzione di un sistema di prezzi che si basa sull'incontro della domanda e dell'offerta, a delle sistema­ tiche ingiustizie dei prezzi fissati legalmente può avere o non avere creato una società più giusta, ma ha certamente generato una società più libera e più ricca. I nuovi mercati erano più ef­ ficienti da un punto di vista economico, e la loro crescita era più strettamente intrecciata con l'espansione degli scambi e della produzione. Essi semplificarono il ricorrente dilemma etico che riguarda il conflitto fra giustizia e efficienza economica, poiché sebbene il loro sistema dei prezzi si basasse sull'efficienza eco­ nomica senza tentare di valutare il valore relativo degli esseri umani, la loro efficienza economica contribuì notevolmente al­ la riduzione della povertà, la più incontrastabile delle ingiustizie. Lo sfruttamento

Secondo l'uso del vocabolario, lo sfruttamento è parte di tutta l'attività economica, ma col solo significato di utilizzazio­ ne delle capacità economiche del soggetto. In termini marxisti, la parola è usata impropriamente per descrivere il processo col quale, si ritiene, la classe capitalista si appropria di parte del prodotto del lavoro, il suo >, «adempi­ mento delle promesse», «puntualità» e (se si trattava di lavora­ tori) «operosità», «diligenza», «onestà» e «fedeltà». Almeno per

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ciò che concerne il XVI e il XVII secolo, le origini di questo sistema di valori vanno ricercate nella religione. Gli insegnamenti sociali della chiesa cattolica derivavano dal medioevo. Durante il periodo medievale, la consuetudine feu­ dale dettava rigidamente i termini dei rapporti economici, e nelle campagne come nelle città le regole delle corporazioni erano ben fissate. Un sistema di valori derivato da un'economia medieva­ le, basato su consuete relazioni di fedele sottomissione, non po­ teva certamente adattarsi ad un'economia commerciale in cui la scelta individuale e la contrattazione avevano soppiantato lo scambio basato sulla consuetudine e stavano infine prendendo il posto delle relazioni basate sull'uso. La proibizione dell'usu­ ra è uno degli esempi più citati di dottrina religiosa che si scon­ trava con le esigenze della nuova classe mercantile. Ma manca­ va qualcosa di più importante: un atteggiamento morale che avrebbe facilitato, incoraggiato e legittimato il nascente mon­ do delle relazioni di mercato. Ciò che era necessario allo sviluppo delle economie occiden­ tali non richiedeva che ci si facesse carico del benessere econo­ mico dei membri meno agiati della società, né suggeriva che un insolito successo economico fosse una prova di merito persona­ le, ma testimoniava la mancanza di carattere o poteva essere un ostacolo per la salvezza eterna. Ci sono poche testimonianze di una diffusa fiducia che una maggiore uguaglianza nella distri­ buzione delle entrate potesse essere desiderabile da un punto di vista morale. Molti moralisti moderni considerano questi ar­ gomenti fondamentali per una moralità politico-economica, ri­ ferendosi principalmente alle questioni relative alla distribuzione. Ma quasi nessuno li ritiene rilevanti per la crescita economica o per lo sviluppo delle istituzioni economiche occidentali - poi­ ché tali argomenti si riferiscono principalmente a questioni di produttività e di offerta. L'idea di povertà come moralmente . intollerabile in una società evoluta dovette attendere l'emerge­ re di una società progredita, molto tempo dopo il periodo di cui ci stiamo occupando. Fu la riforma protestante nel XVI secolo a fornire un mo­ dello morale necessario al capitalismo mercantile. La specifica connessione tra la nascita storica del capitalismo europeo e la riforma protestante degli inizi del XVI secolo è stata ampiamente dibattuta. Il dibattito si accese senza più fermarsi, sin dalla pub­ blicazione del libro di Max Weber L'etica protestante e lo spirito

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del capitalismo 12• W eber, mentre si preoccupava di specificare che non stava tentando di presentare una spiegazione mono­ causale della nascita del capitalismo, sosteneva che il protestan­ tesimo era servito a promuoverlo. Come spiega Landes, Weber: non riteneva che fu solo il protestantesimo a promuovere il capitalismo; in effetti egli riportò altri elementi per completare la sua spiegazione dello svi­ luppo di un'economia industriale moderna: la nascita dei moderni stati-nazione che si basavano su una burocrazia di professionisti; i progressi scientifici; il trionfo del razionalismo. Ma egli giunse al problema del capitalismo parten­ do da una prospettiva universale. Si chiedeva perché il capitalismo industria­ le si manifestò in occidente, in particolare nell'Europa nord-occidentale, e non per esempio in Cina, che solo poche centinaia di anni prima era stata più ricca e avanzata, politicamente, economicamente e tecnologicamente. E scoprì che il protestantesimo era una delle principali caratteristiche di differenza 13.

Weber si riferiva soprattutto al ramo calvinista del prote­ stantesimo. Calvino dava grande rilievo all'idea degli «eletti» che sono predestinati alla salvezza. Secondo Weber, per il pro­ testantesimo il dovere di ogni individuo o «chiamata», aveva un profondo valore e dava ad ognuno la speranza di essere tra gli eletti. Weber può non aver centrato il punto anche perché non era cosl importante per la sua argomentazione. Nel contesto della sua disputa con la chiesa cattolica romana, Calvino si preoccu­ pò di negare che la gerarchia ecclesiastica avesse il potere di di­ spensare la salvezza eterna e che il clero avesse responsabilità morali o altri poteri distinti da quelli dei laici. La dottrina della predestinazione contraddiceva l'idea della chiesa unica deten­ trice del potere di dispensare la salvezza 14• A chi desiderasse sapere se era predestinato alla salvezza o alla dannazione, Cal­ vino dava certezze basate sull'evidenza della chiamata, della fede, della fuga dal peccato, lasciando nell'incertezza delle possibili conseguenze chi non udiva la chiamata, chi era privo di fede o cqi persisteva nel peccato. E facile individuare un fattore che influenzava direttamen­ te il successo economico delle comunità protestanti in un'altra dottrina anch'essa riferita al rifiuto calvinista di accordare spe­ ciali poteri al clero, cioè quella dottrina che considerava il lavo­ ro di ogni componente della comunità cristiana, quindi non so­ lo di quelli impegnati in un lavoro specificamente religioso, co­ me una forma di servizio divino. Egli giunse cosl alla conclu-

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sione che per il lavoro quotidiano, «accadrà che non ci sforze­ remo di attirare a noi le ricchezze, di rubare gli onori con mez­ zi leciti o illeciti, con violenza o astuzia, o con altri mezzi obli­ qui; ma cercheremo soltanto i beni che non ci distoglieranno dall'innocenza» 15• Poteva essere più stimolante non escludere che la ricerca di onori e ricchezza potesse realizzarsi con opero­ sità, diligenza e onestà. In ogni caso, il calvinismo impregnava il lavoro di mercanti e artigiani, così come quello di preti e sovrani, dei valori del servizio religioso. Non sorprende che la santificazione del lavo­ ro del protestantesimo calvinista servì a generare sicuri modelli di comportamento per i suoi fedeli, perfettamente compatibili con uno scorrevole fluire del capitalismo: un intenso impegno nel lavoro, lealtà, diligenza, abnegazione, austerità, parsimonia, puntualità, adempimento delle promesse e fedeltà agli interessi di gruppo - in breve, l'«ascetismo intra-mondano» che Weber distingueva dall'«ascetismo ultra-mondano» dei monaci cattoli­ ci, che non credendo nella dottrina calvinista secondo cui il la­ voro, che quotidianamente si svolgeva riel mondo, era santifi­ cato come ogni altra forma di servizio divino, rifiutavano i do­ veri terreni e si ritiravano nei monasteri. L'«ascetismo intra­ mondano» del protestantesimo, al contrario, portava ad inca­ nalare le energie umane nel mondo degli affari respingendo, al­ lo stesso tempo, i frivoli piaceri del mondo materiale. Weber non fu il primo ad osservare le avverse conseguenze secolari dell'«ascetismo ultra-mondano». Edward Gibbon nella sua Sto­ ria della decadenza e rovina dell'Impero Romano, pubblicata nel 1776, aveva criticato nel capitolo 3 7, l'irresponsabilità civica del più antico movimento monastico, osservando, in uno dei suoi più miti commenti, che «intere legioni si seppellivano in quei religiosi santuari, e la medesima causa, che sollevava l'an­ gustia degli individui, diminuiva la forza e il vigore dell'impero». Nel prolungato dibattito sulle tesi weberiane, due repliche sono state dominanti. Prima di tutto, le istituzioni capitaliste emersero in molti paesi in cui prevaleva il cattolicesimo, specialmente in Italia, in parte della Germania meridionale e dei Paesi Ba�si, sebbene non così rapidamente come nelle aree protestanti. E forse utile ricordare le complicazioni che derivano dal fatto che cattolice­ simo e protestantesimo erano eterogenei. Il protestantesimo della chiesa inglese e della chiesa luterana dei principati tedeschi è,

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a volte, considerato più vicino al cattolicesimo romano che non al protestantesimo di Calvino, o di Knox, o a quello successivo diJohn Wesley. Bisogna quindi chiedersi perché fu proprio l'In­ ghilterra, il paese probabilmente meno protestante e più restio all'ascetismo protestante a causa dell'esperienza negativa con il puritanesimo cromwelliano del XVII secolo, a trainare lo svi­ luppo del capitalismo. Forse una risposta parziale può essere ·tro­ vata nella tradizione calvinista degli scozzesi, che si ritiene co­ munemente abbiano avuto un ruolo importante nel commercio britannico dato dal loro numero elevato. Anche il cattolicesi­ mo, dal tempo delle prime spedizioni di missionari in Irlanda e in altre parti del nord Europa, aveva mostrato una notevole volontà di adattamento alle condizioni e agli usi locali. Senza un attento esame delle pratiche religiose locali (che non è il ca­ so di iniziare adesso) in quelle aree cattoliche dove il commer­ cio si sviluppò abbastanza presto, non si può affermare che la religione locale non fosse in relazione con le necessità della classe mercantile cosl come il cattolicesimo medievale. Secondo, molti hanno asserito che la relazione causale tra il protestantesimo e il capitalismo fosse molto più complessa della semplicistica interpretazione attribuita a Weber. Si può dire che non fu il protestantesimo a creare il capitalismo ma piuttosto il capitalismo a creare il protestantesimo 16• Con questo i criti­ ci di W eber volevano dire essenzialmente che il protestantesi­ mo offriva una serie di dottrine che erano veramente congenia­ li e allettanti per un capitalista di successo, che era portato ad abbracciarle. Oppure, con minor polemica, si può asserire che la nuova classe di mercanti e capitalisti aveva dei bisogni mora­ li e religiosi che non erano soddisfatti dalle istituzioni religiose feudali, che quindi avevano lasciato un vuoto colmato poi dal protestantesimo. Per questo non è necessario supporre che i capitalisti aderi­ rono ad una religione per adattarla ai propri interessi finanzia­ ri. Non deve sorprendere se gli individui del XVI secolo, che avevano un senso morale maggiore di quanto fosse comune du­ rante il rinascimento europeo, furono attratti, in numero spro­ porzionato rispetto a tutta la popolazione, dai movimenti ri­ formisti religiosi e si diedero da fare, in numero altrettanto spro­ porzionato, per creare le istituzioni capitalistiche. La società rinascimentale non spiccò per alti scrupoli morali e i tratti es­ senziali del capitalismo emergente potevano essere ben più co-

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muni tra gli individui interessati alla riforma religiosa. Non è necessario tentare di stabilire i meriti di queste posizioni 17• Piuttosto, vogliamo sottolineare alcuni aspetti re­ lativamente indiscussi che ci interessano più da vicino. Weber non si interessò tanto della dottrina specifica o del contenuto simbolico del protestantesimo, ma dei modelli di comportamento sociale inculcati da questo credo religioso. Il protestantesimo indubbiamente incoraggiò e legittimò modi di comportamento specificamente capitalisti che contribuivano fortemente al suc­ cesso nel mercato capitalista. Inoltre, è quasi certo che l'effet­ to a lungo termine della riforma protestante fu il progressivo allontanarsi della religione dallo stretto coinvolgimento con la sfera dell'attività commerciale. Il protestantesimo sanzionava un alto grado di responsabilità individuale per la condotta mo­ rale e riduceva l'autorità del clero; inoltre, i mercanti protestanti furono in grado di liberarsi dalle costrizioni religiose che rite­ nevano incompatibili con la propria esperienza. Date le circo­ stanze, sarebbe stato troppo aspettarsi che il clero cattolico con­ tinuasse ad insistere con dottrine che potevano solo portare i propri fedeli benestanti ad abbracciare il protestantesimo. Sem­ pre più il mondo religioso fu portato ad ammettere che ciò ·che sembrava giusto all'interno del mondo del commercio era giu­ sto anche per quel mondo. Cosl, rispetto alla proibizione del­ l'usura, John Hicks osservava: La comparsa della banca, come attività regolare, è un indice che la proibizio• ne dell'interesse, quanto meno in campi appropriati, sta venendo meno. Questo cominciò a verificarsi, lo si deve forse sottolineare, molto tempo prima della Riforma; nella misura in cui «l'etica protestante» ebbe 1ualcosa a che fare con ciò, fu la pratica che fece l'etica e non il contrario 8•

Quindi, le autorità religiose, qualsiasi giudizio pronuncias­ sero sulla condotta degli affari commerciali, abbandonarono gra­ dualmente la posizione secondo cui la quotidiana condotta de­ gli affari dovesse essere regolata dalla autorità ecclesiastica o ad essa direttamente soggetta. Nel corso del XVI e XVII seco­ lo, la sfera commerciale fu, in una parola, secolarizzata. Dive­ nendo sempre più indipendente dall'autorità ecclesiastica, ac­ quisì un grado sempre maggiore di autonomia dall'intervento religioso. La religione stava gradualmente trasformando la sua influenza frenante nei confronti dello sviluppo del capitalismo in una forza che sanciva e sosteneva il capitalismo mercantile

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con gli insegnamenti morali necessari allo scorrevole fluire di uno sviluppo del sistema commerciale. Non era solo questione dei contenuti teologici del cattolicesimo e del protestantesimo. Era, in parte, una questione di competizione dovuta all'esistenza di numerose religioni rivali, che, come la competizione di di­ verse nazioni rivali, consentiva alla nuova classe mercantile di ribellarsi alle costrizioni di un'autorità e di rifugiarsi sotto un'autorità migliore. Una esauriente valutazione delle relazioni storiche tra il ca­ pitalismo e la religione richiede una comprensione della rela­ zione dialettica tra queste due sfere, ma anche una riflessione sugli adattamenti e i cambiamenti che si ebbero all'interno del­ la stessa sfera religiosa. Tawney considera «violento» il contra­ sto tra il «ferreo collettivismo» praticato nella Ginevra di Cal­ vino e il «rifiuto impaziente di tutte le tradizionali restrizioni delle attività economiche che caratterizzò il mondo industriale e commerciale inglese dopo la guerra civile» un secolo più tar­ di; tale opinione è stata condivisa da altri 19• Un certo sentore di incoerenza deriva, in parte, da due tra le numerose tendenze del pensiero protestante e, in parte, da una combinazione tra i cambiamenti nella percezione morale e una certa insensibilità intellettuale nei confronti del significato del passaggio da una società integrata ad una società pluralista. Il protestantesimo rafforzava la fede che la salvezza fosse pro­ fondamente individuale e personale. I buoni servizi resi obbli­ gatoriamente sotto il controllo sociale o i trasferimenti miseri­ cordiosi di ricchezza imposti dall'esattore delle imposte non fa­ cevano avanzare il pellegrino verso la salvezza di un solo passo. Allo stesso tempo, i preti e le chiese si consideravano strumenti di insegnamento e di esempio, e non esitavano a rimproverare il proprio gregge errante per gli sbagli commessi e ad escludere dalle proprie comunità chi continuava a commetterne. Tra il XVI e il XIX secolo, la fiorente classe borghese giunse a consi­ derare «le tradizionali restrizioni delle attività economiche» come l'oppressione di un'aristocrazia in decadenza. Tuttavia, le due tendenze del pensiero protestante continuarono e il clero non permetteva che passassero inosservati quelli che essi riteneva­ no gli eccessi degli uomini d'affari del XIX secolo. In effetti, il clero aveva avuto un ruolo importante nell'approvazione del­ le prime leggi sul lavoro industriale inglese. Ma da allora, il mon­ do commerciale era divenuto altamente specializzato e chi vi

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partecipava non prestava più ascolto agli imperativi morali del clero più di quanto lo prestasse chi partecipava al mondo della scienza, delle arti, della musica, o della letteratura. Tawney avrebbe potuto contrastare, in modo più o meno opportuno, «il ferreo collettivismo» dell'Inghilterra puritana con «il rifiuto impaziente di tutte le tradizionali restrizioni» dell'attività let­ teraria, «che caratterizzò il mondo» letterario «inglese dopo la guerra civile» - l'età, bisogna ricordare, che fu teatro della Re­ staurazione. Il protestantesimo, nato dal XVI secolo, non anticipò le dot­ trine economiche del XVIII secolo di Adam Smith. Non si trat­ tava, del resto, di una vera dottrina economica. Ma essa diede alla classe mercantile una responsabilità morale altamente indi­ viduale al di fuori del controllo del clero e dogmi morali che enfatizzavano appunto la parsimonia, l'operosità, l'onestà, e l'a­ dempimento delle promesse che erano necessarie alle istituzio­ ni capitaliste. L'emergente classe mercantile e il suo autonomo settore economico, come ogni altro sistema sociale ampio ed au­ tonomo, aveva bisogno di un adeguato sistema etico e morale. Il protestantesimo contribul alla nascita del capitalismo nel senso che si adattava meglio alle nuove esigenze di quanto non faces­ se il cattolicesimo. Biso_gna ricordare un'altra probabile conseguenza della Ri­ forma. E stato detto che una riduzione delle spese per la reli­ gione, come una riduzione di quelle per la guerra, torna a van­ taggio dell'espansione industriale. Una tale riduzione si ebbe, in Inghilterra, dopo la conversione di Enrico VIII al protestan­ tesimo e può aver motivato quella di altri paesi protestanti. Un punto strettamente collegato è che, nei paesi cattolici, una no­ tevole parte dei terreni apparteneva alle fondazioni ecclesiasti­ che e non era quindi acquistabile secondo le consuetudini del commercio. La loro espropriazione, nei paesi che divennero pro­ testanti, accrebbe apprezzabilmente le terre e le risorse mine­ rarie che potevano essere sfruttate dalla classe mercantile. John U. Nef sottolinea quanto segue: La rottura di Enrico VIII con Roma (subito seguita dalla scomparsa di mona­ steri e di altre associazioni religiose) e la conseguente riduzione sia del nume­ ro sia della ricchezza del clero, fornirono le condizioni favorevoli all'espan­ sione industriale alla vigilia dell'età elisabettiana, molto tempo prima che la lotta per la costituzione divenisse acuta. La proporzione delle entrate nazio-

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nali necessaria per mantenere le fondazioni ecclesiastiche era minore in In­ ghilterra dopo la loro scomparsa del 1536 e del 1539 rispetto a quella che si era avuta per circa ottocento anni. Questo non si verificò affatto in quei paesi che erano rimasti legati alla chiesa cattolica romana. In Francia il clero manteneva la propria autorità sulla proprietà e rimase sempre molto numero­ so. In Spagna e nell'Olanda spagnola aumentarono di numero i preti, i mona­ ci e le suore. La parziale espropriazione del clero in Inghilterra (e negli altri paesi occiden­ tali - Svezia, Danimarca, Scozia e Olanda in particolare) permise ai com­ mercianti privati di ottenere il possesso della terra e le risorse minerarie con maggiore vantaggio e più facilità che nel mediocvo 20 .

Oltre l'espropriazione delle fondazioni religiose, la riforma fu connessa a lungo andare all'aumento della ricchezza della classe capitalista e della chiesa, infatti le dottrine calviniste della pre­ destinazione e della santificazione del lavoro implicavano che i capitalisti potessero assicurare alla famiglia la proprietà inve­ ce di donarla o lasciarla alla chiesa. Le associazioni mercantili A questo punto ci occuperemo di una innovazione istitu­ zionale che fu importante in quanto facilitò la politica di tran­ sizione dal feudalesimo al capitalismo ed indicò la strada verso il capitalismo moderno: la connessione o l'alleanza tra i governi e le classi mercantili. Tale connessione fu sviluppata in un in­ sieme di regole di politica economica che vanno sotto il termi­ ne di mercantilismo 21• Storicamente, furono particolarmente significative in quanto determinarono un'espansione del com­ mercio riuscendo ad evitare le vecchie tradizioni e istituzioni medievali. I governi delle monarchie emergenti in Europa erano innanzi tutto centri di potere militare ed il principale requisito econo­ mico del potere militare era l'oro che serviva per comprare le armi (spesso all'estero) e pagare le truppe. La Spagna riceveva le scorte di oro dall'America. Negli altri paesi, era difficile espro­ priare ai sudditi le loro scorte di oro e, una volta che le riserve· erano state espropriate e spese, si esaurivano. La soluzione mer­ cantilista fu di vendere merce all'estero più di quanto se ne im­ portava e fare pagare la differenza in oro. Si preferivano i ma­ teriali grezzi che potevano essere trasformati in manufatti e quin­ di esportati con profitto, anche se i mercantilisti non erano in

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generale favorevoli alle importazioni. Le materie prime che pro­ venissero dai possedimenti coloniali erano ancora più gradite perché si evitava cosl di dare il proprio oro agli stranieri. Per ottenere dalle esportazioni di ogni prodotto le maggiori entrate possibili, la teoria mercantilista imponeva che l'espor­ tazione di un prodotto dovesse dipendere da un opportuno mo­ nopolio; cosl, per esempio, un mercante francese non avrebbe dovuto competere con un altro, perché ciò avrebbe determina­ to una diminuzione del prezzo del manufatto francese e favori­ to l'acquirente straniero. Analogamente, stabilendo un mono­ polio sull'importazione di un prodotto, si evitava il rischio che gli acquirenti locali potessero competere tra loro, causando un inopportuno aumento del prezzo delle importazioni. Le conces­ sioni di tali monopoli fecero sl che i monarchi, i cortigiani più influenti e i mercanti divenissero soci in affari. Le autorità po­ litiche quindi partecipavano personalmente ai profitti delle at­ tività mercantili e manifatturiere. La teoria può apparire stra­ na e la pratica distorta, ma il mercantilismo era abbastanza for­ te e diffuso per spiegare il declino del dominio commerciale di cui le città italiane e quelle della lega anseatica avevano goduto sin dal XII secolo. Si possono meglio capire i fatti non come prodotto dell' a­ dozione dei principi mercantilisti (che si svilupparono soltanto successivamente), ma piuttosto come un allontanamento dal feu­ dalesimo e come un aspetto della lotta contro la corona che im­ poneva tasse senza il consenso del parlamento. Nella società feu­ dale, i diritti commerciali erano garantiti regolarmente dalle con­ cessioni del feudatario. Si allestivano fiere grazie alle conces­ sioni del signore feudale e le corporazioni ottenevano allo stes­ so modo il potere di decidere sulle loro attività artigianali. Queste concessioni venivano vendute per ricavare denaro nelle situa­ zioni in cui il potere di tassazione era fortemente contestato. Poteva trattarsi di una somma una tantum di un pagamento di­ lazionato di tasse per i privilegi concessi, o di entrambe le cose. Le tasse provenienti dal commercio della lana, che era nelle mani dei mercanti della lana, furono la principale fonte di entrate della corona inglese per molto tempo. Ma anche se la doppia pratica adottata dai nuovi stati-nazione di diminuire le importazioni e accordare privilegi commerciali esclusivi ai propri cittadini può apparire strana, essa ebbe un ruolo determinante nella costitu­ zione di una classe mercantile libera di commerciare secondo

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le clausole delle numerose concessioni, perché membri abbastanza infl�enti della classe politica condividevano i profitti. E opportuno fare un'altra considerazione circa la conces­ sione di monopoli. La maggior parte di essi erano destinati ad incoraggiare l'introduzione di nuove attività. L'Inghilterra, in particolar modo, deve il fatto di essere passata da un'attività basata sull'esportazione di materie prime ad una economia le­ gata alla manifattura, soprattutto ai monopoli concessi per in­ durre Flemish ed altri immigrati a trasferirsi - con le loro com­ petenze - in Inghilterra. Monopoli furono accordati a tessito­ ri stranieri fin dal 1331 e si estesero poi a molti altri settori. Secondo North e Thomas, 55 monopoli furono concessi duran­ te il regno di Elisabetta e tra questi, 21 furono assegnati a stra­ nieri o a persone che avevano ottenuto la cittadinanza 22 • A distanza di secoli non è facile stabilire quali fattori con­ tribuirono alle concessioni di monopoli. Essi fecero sì che le am­ ministrazioni regie si schierassero a favore dell'espansione del commercio non necessariamente per una questione di principio, ma soprattutto per aumentare le entrate. Sotto un certo aspet­ to i monopoli commerciali servirono da insegnamento: la loro introduzione fornì alle amministrazioni regie una dimostrazio­ ne concreta e immediata di come fosse possibile condividere con la classe mercantile emergente l'interesse per l'espansione del commercio. Al tempo di Adam Smith, la lezione era già assimi­ lata ed egli invitò ad abbandonarla. Ma l'associazione tra il go­ verno e i capitalisti persistette in forme che andavano dalla ven­ dita esclusiva alle peculiari istituzioni di approvvigionamento militare, espedienti questi che non sono stati abbandonati nel Terzo Mondo dei nostri giorni. La divisione politica europea come fonte di crescita Alla luce dei fatti relativi ai mercanti trattati nel paragrafo precedente, sembra certo che lo sviluppo del capitalismo occi­ dentale sia dovuto in gran parte alla frammentazione dell'Eu­ ropa in una moltitudine di stati e di principati. Non si trattava di un solo >, infatti il loro prin­ cipale prodotto non erano i macchinari in quanto tali, ma una trasformazione della tecnologia ed una riduzione dei costi della produzione tessile. Essi traevano i propri profitti non dall'abi­ lità nella manifattura, ma dalla capacità di progettare macchine che potessero filare e tessere meglio e con costi minori di quelle ideate dai loro predecessori e dai rivali contemporanei. Essi vi riuscirono pienamente anche se i loro nomi sono pressoché di­ menticati. Le ceramiche L'adozione del sistema industriale dipese dalle caratteristi­ che di ogni settore: un esempio di tale relazione è ben illustrato dalle ceramiche. La fabbricazione di ceramiche è una delle più antiche attività. Non sappiamo se gli antichi decoratori di vasi

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greci - alcuni dei quali artisti di prim'ordine la cui arte è rico­ nosciuta dagli esperti della decorazione pittorica antica - usas­ sero la pittura per decorare un oggetto già esistente oppure se ordinassero un oggetto dalla forma adatta alla pittura che essi avevano in mente. Ma nel diciottesimo secolo non vi erano più dubbi: dimensione, forma, materiale e decorazione del prodot­ to erano concepiti congiuntamente. L'unità di progettazione rese conveniente riunire in un so­ lo locale le successive fasi del processo produttivo, infatti la rea­ lizzazione futura del disegno e la qualità del prodotto finito inizia con la selezione, la macinazione e l'impasto dei materiali usati e termina solo con le decorazioni e i ritocchi finali. Ciò non avrebbe precluso, di per sé, ad un maestro vasaio e ad appren­ disti della bottega artigiana di occuparsi delle varie fasi, una per volta, ma la divisione del lavoro in fasi successive era più effi­ ciente. In parte, tale efficienza derivava dal fatto che alcune fasi richiedevano maggiore abilità di altre, ed era un peccato che i lavoratori più qualificati perdessero tempo con un lavoro che poteva essere eseguito da lavoratori meno abili. Inoltre al­ cune fasi, quali la macinazione e l'impasto dei materiali, erano effettuate meglio dai macchinari azionati da energia idraulica (prima dell'utilizzazione del vapore) e questo bastò a portare la produzione della ceramica oltre la scala del singolo telaio azio­ nato da un solo operatore. Nel 1787 nello Staffordshire c'era già un'industria di piccole fabbriche di ceramica ed i maestri vasai avevano una media di un centinaio di impiegati a testa 28• La produzione di ceramica era stata trasferita dalle piccole bot­ teghe o case coloniche alla fabbrica prima che la macchina di Watt fosse comunemente impiegata. Il pioniere della produzione industriale fuJosiah Wedgwood. Egli divise la sua fabbrica in varie sezioni secondo il tipo di pro­ duzione e, all'interno di ogni settore, i lavoratori furono classi­ ficati secondo numerose specializzazioni. A. e N.L. Clow de­ scrivono così la divisione del lavoro in questa fabbrica: Il graduale moltiplicarsi dei procedimenti di fabbricazione dei prodotti cera­ mici portò, come nelle altre industrie, a una marcata suddivisione del lavoro. La fabbrica Etruria di Josiah Wedgwood, dove per la prima volta fu intro­ dotto il principio della specializzazione, era divisa in reparti a seconda del tipo di ceramica prodotta: ceramica d'uso comune, ornamentale, diaspro, ba­ salto e cosl via. Nel 1790 lavoravano nel reparto «ceramica comune» circa 160 operai delle seguenti categorie: preparatori della barbotina, plasmatori

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di argilla, tornitori e loro garzoni, fabbricanti di pannelli, fabbricanti di piat• · ti, pressatori di stoviglie cave, tornitori di stoviglie piane, fabbricanti di ma• nici, operai addetti alla cottura del biscotto, all'immersione nella vernice, al­ la pennellatura, all'incastellatura e alla cottura delle stoviglie nel forno di se­ conda cottura, ragazze addette alla macinazione dei colori, pittori, smaltatori e doratori e, infine, gente addetta al rifornimento del carbone, modellisti, fabbricanti di forme e di caselle e un bottaio 29.

Nell'industria tessile i filatori producevano il filato e i tes­ sitori il tessuto, ma nell'industria delle ceramiche ogni prodot­ to passava attraverso le mani di molti lavoratori e nessuno pro­ duceva un prodotto vendibile. Nell'eliminare ogni connessione facilmente individuabile tra il lavoro svolto dall'operaio e il pro­ dotto vendibile frutto dei suoi sforzi l'industria della ceramica anticipò le industrie successive. Torneremo a parlare di questa forma di organizzazione del lavoro più avanti nel capitolo. Per le ceramiche, la maggior parte delle innovazioni del di­ ciottesimo secolo furono rivolte al prodotto più che al sistema di fabbricazione. Se l'industria sperimentò mai dei cambiamenti rivoluzionari, questi furono la scoperta dell'impasto morbido delle porcellane. L'industria inglese dovette anche passare dal­ la legna al carbone come combustibile e di conseguenza l' indu­ stria si concentrò nello Staffordshire dove erano disponibili sia il carbone che la creta. I vasai, nel servirsi del prodotto più tipico della rivoluzione industriale, cioè la macchina a vapore, anticiparono i filatori rim­ piazzando le ruote idrauliche con il vapore, che usavano per ma­ cinare ed impastare le materie prime e che subito applicarono ai torni e alle altre attrezzature meccaniche. Ma si trattava più di una applicazione del vapore - nelle fabbriche e su attrezza­ ture già esistenti - che di una vera e propria rivoluzione indu­ striale. Non ci furono cambiamenti radicali nella fabbricazione della ceramica come quelli introdotti nell'industria tessile dal filatoio meccanico di Arkwright o dal telaio meccanico di Cart­ wright. Il sistema industriale si estese alle ceramiche perché era vantaggioso unificare il controllo delle fasi del processo produt­ tivo (che poteva essere realizzato in una bottega con un solo supervisore), specializzare i lavoratori in una sola fase del pro­ cedimento (che poteva essere- realizzato solo con un certo nu­ mero di lavoranti) ed ancora per i vantaggi che derivavano dal­ l'utilizzare una fonte centrale di energia - sia essa la macchina a vapore o la ruota idraulica. Ma l'invenzione di nuovi macchi-

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nari adatti all'industria non ebbe un ruolo fondamentale nel pro­ gresso del sistema di fabbricazione della ceramica come lo ebbe invece per l'industria tessile e per quella del ferro e dell'acciaio. Produzione più alta e prezzi più bassi: una causa della crescita dei mercati? Insieme ai problemi di relazioni sociali tra i proprietari di fabbriche e i dipendenti, lo sviluppo dell'industria portò ad un enorme aumento della produzione. L'importazione di cotone grezzo in Inghilterra è forse il più valido indice dell'aumento della produzione dei tessuti di cotone. Dal 1791 al 1795, l'in­ dustria tessile britannica importava una media di poco più di 27 milioni di sterline di cotone grezzo all'anno: dai 19· milioni di sterline nel 1793 a quasi 35 milioni di sterline del 1792. Dal 1896 al 1900, le importazioni britanniche di cotone grezzo rag­ giunsero la media di 1.799 milioni di sterline - un aumento di quasi 6 7 volte 30• La produzione di ghisa è un altro indice particolarmente utile della enorme massa di produzione industriale in un periodo in cui il ferro ed un suo derivato, l'acciaio, erano relativamente più usati nell'industria di quanto lo siano oggi-. Durante il di­ ciottesimo secolo, la produzione inglese di ghisa aumentò dalle 25.000 tonnellate del 1720 alle 125.080 tonnellate del 1796 e forse 200.000 tonnellate del 1800 31 - un aumento di circa ot­ to volte negli ultimi ottant'anni del secolo. Ottant'anni più tardi nel 1880, la produzione britannica di ghisa fu di 7.749.000 ton­ nellate - un aumento di quasi trentanove volte. Fino al 1800 circa è facile spiegare l'espansione della pro­ duzione occidentale come una risposta dei produttori ad una domanda creata dall'apertura di nuovi canali di commercio. Ma le cifre che mostrano l'aumento della produzione dopo il 1800, considerate insieme ai notevoli cambiamenti nella produzione industriale, fanno pensare che, ad un certo punto del XIX se­ colo, la relazione causale tra crescita dei mercati � rivoluzione industriale divenne biunivoca o addirittura di segno opposto_. Dopo il 1800 si ebbe una rivoluzione nel modo di soddisfare i bisogni economici e, almeno apparentemente, questa espan­ sione riguardò più la produzione che il commercio. Ma la rela-· zione tra l'espansione della produzione e quella del.commercio

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è abbastanza complessa da meritare un piccolo approfondimento. Un aumento dell'attività commerciale dovuta all'espansio­ ne di vecchi mercati e all'apertura di nuovi, può determinare un aumento della ricchezza anche se non c'è un cambiamento del volume o anche della qualità della produzione. Per l'econo­ mia ortodossa, questo effetto positivo è un corollario del teore­ ma secondo cui lo scambio spontaneo non si verifica a meno che ogni parte non creda che ciò rechi vantaggi ai propri inte­ ressi, e tali vantaggi sono l'aumento del benessere economico di chi effettua lo scambio, cioè della sua ricchezza. L'effetto positivo può essere illustrato riferendosi a una qualsiasi econo­ mia della monocoltura. Il benessere economico di un paese co­ me il Brasile è evidentemente maggiore di quanto sarebbe se tutta la produzione di caffè brasiliano fosse consumata nel pae­ se stesso. Il benessere e la ricchezza del Brasile sono immensa­ mente maggiori grazie allo scambio del caffè esportato con i pro­ dotti importati e anche alla ricerca di nuovi mercati. Si può an­ che supporre che la coltivazione e lo scambio del caffè contro importazioni renda il Brasile più ricco di quanto non sarebbe se sostituisse al caffè altre colture da esportare. Non c'è dubbio che, dal quindicesimo secolo ad oggi, lo svi­ luppo del commercio e l'espansione dei mercati abbiano contri­ buito sostanzialmente al progresso economico occidentale, in un modo che non rispecchia semplicemente l'aumento quanti­ tativo della produzione. Il commercio avrebbe migliorato il be­ nessere economico anche se la produzione totale non fosse cam­ biata ed avrebbe aumentato in qualche misura la produzione anche se la tecnologia non fosse progredita. Inoltre alcuni cam­ biamenti tecnologici nacquero come risposte dirette alle neces­ sità di un crescente volume di scambi. Infine, il commercio au­ mentò la produzione fornendo molte - forse la maggior parte - delle condizioni e degli incentivi necessari per migliorare la tecnologia e l'organizzazione della produzione, del trasporto e della distribuzione. Fino al 1750 o 1800, è quindi possibile considerare l'espan­ sione del commercio come il risultato della caduta dei costi di trasporto, dell'iniziativa mercantile di aprire i mercati e dell'in­ troduzione di nuove relazioni favorevoli al commercio. Questi sviluppi spinsero l'industria a produrre abbastanza da soddisfare i nuovi mercati, ma tale spinta implicava una tendenza dei prezzi al rialzo piuttosto che al ribasso. Durante il diciannovesimo se-

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colo il quadro cambiò. Lo sviluppo del commercio fu stimolato dalla richiesta di materie prime da parte delle fabbriche e dal1' apertura di nuovi mercati; lo stimolo maggiore venne dalla ca­ duta del costo di produzione industriale e non da variazioni nei costi di trasporto o nelle condizioni di scambio. L'espansione della produzione non fu stimolata da un aumento dei prezzi, infatti, se si esclude l'effetto di guerre e depressioni, il dician­ novesimo secolo fu un'epoca di prezzi in declino. In breve, con il trascorrere degli anni, la pressione economica per l' espansio­ ne dei trasporti e del commercio ebbe origine nella manifattura di un accresciuto volume di beni. Le merci erano offerte a prezzi sempre più bassi, riflettendo il declino dei costi di fabbricazio­ ne dovuto principalmente al progresso tecnologico. Quindi, dopo aver riconosciuto al commercio il merito di aver favorito il benessere materiale dell'Occidente, si deve al­ tresl tener conto del ruolo avuto per il benessere economico dal1'aumento quantitativo nel volume della produzione. Alcuni, la maggior parte forse, degli sviluppi dell'Occidente durante la ri­ voluzione industriale si possono direttamente ricondurre ai prq­ gressi nell'organizzazione e nella tecnologia di produzione. E vero che l'aumento della produzione non avrebbe accresciuto il benessere umano senza il contemporaneo sviluppo di magaz­ zini, depositi, mercanti, finanzieri e sistemi di trasporto, ne­ cessari a portare la produzione fino ai suoi destinatari. E nem­ meno ciò sarebbe accaduto se non fossero esistite le relazioni di mercato che ripagavano debitamente i produttori dei loro sfor­ zi e a prezzi generalmente compatibili con le esigenze dei com­ pratori. Ma magazzini, depositi, commercianti, finanzieri, si­ stemi di trasporto e relazioni di mercato non sono peculiarità dell'Occidente come lo è il suo prodotto pro capite. In breve, la rivoluzione industriale fu un periodo in cui i pro­ gressi tecnologici e organizzativi ebbero un ruolo fondamentale nel determinare la crescita, maggiore di quello che ebbero prima del 1750. Tali progressi si basavano, ed in verità dipendevano, dal commercio, dal mercato, dalle relazioni di proprietà e da al­ tre basi istituzionali che erano state poste in precedenza. Ma per un cambiamento cosl radicale dobbiamo cercare di guardare al di là degli incentivi economici convenzionali e di includere, nella ricerca delle cause, impulsi causali e rapporti organizzativi speci­ fici della tecnologia e dell'organizzazione occidentale. Questa ri­ cerca è l'argomento principale del capitolo ottavo.

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La formazione delle risorse di capitale delle imprese Alcune ricostruzioni storiche si sono basate sull'ipotesi che la rivoluzione industriale, con il suo spostamento verso la pro­ duzione manifatturiera, richiese l'accumulazione di grandi quan­ tità di capitale. Invero, se la semplice formula aritmetica, «consumo = produzione - accumulazione di capitale», spiegasse realmente il processo dell'accumulazione si dedurrebbe che molte persone devono aver-sacrificato il consumo corrente per accu­ mulare capitale. Marx si disse certo che l'accumulazione com­ porta un sacrificio, ma rilevò che i capitalisti erano riusciti a scaricarlo sul lavoro. Altri attribuirono l'accumulazione ai prin­ cipi calvinisti degli stessi capitalisti. Ancora oggi i leader del­ l'URSS si rifanno al bisogno di accumulare capitale, sotto for­ ma di investimenti industriali, per fornire una spiegazione del loro rifiuto cli produrre beni cli consumo. I paesi del Terzo Mon­ do e quelli socialisti hanno assunto debiti gravosi per fornire capitale alle nuove industrie, ed alcuni banchieri occidentali han­ no supposto che tali prestiti servano ad un utile scopo econo­ mico. Può esserci del vero in tutto questo, ma non può fondar­ si soltanto sulla storia della rivoluzione industriale inglese; bi­ sogna ricorrere a spiegazioni diverse.. Tanto per cominciare, la storia indica che il capitale neces­ sario alle prime fabbriche era scarso. Il primo opificio di Ark­ wright a Cromford costò 1.500 sterline ed il secondo 3.000. L'in­ troduzione del vapore e le fabbriche a più piani, verso la fine del diciottesimo secolo, spinsero il costo di una filanda a 15. 000 sterline; ma a quel tempo i proprietari delle prime fabbriche ave­ vano dietro di sé venti anni di affari, a volte molto proficui. Qualche testimonianza cli una richiesta di fondi provenienti dal­ l'esterno deriva dal fatto che i proprietari di fabbriche spesso parteciparono a società bancarie, ma tali partecipazioni posso­ no indicare che i proprietari industriali avevano fondi in ecce­ denza da investire o avevano bisogno di stretti legami con le banche per fornirsi del capitale d'esercizio 32 • Naturalmente, il capitale disponibile durante la rivoluzione industriale non era stato creato dal nulla. Ma non fu accumula­ to con i sacrifici dei cittadini protestanti, né espropriato alla forza-lavoro con massicce riduzioni di salari, o ottenuto dalla riduzione dei consumi. Nessuna riduzione del reddito·reale dei lavoratori o dei proprietari terrieri né del tasso di consumo, né

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le misure nazionali per aumentare il tasso di risparmio, furono necessari per finanziare le nuove macchine e le nuove forme di organizzazione industriale. Piuttosto, l'aumento della produzione causato dalle fabbriche era più che sufficiente per pagare le spese d'investimento in un breve periodo di tempo, poiché l'aumen­ to era notevole e i costi del capitale modesti. Il finanziamento delle fabbriche fu agevolato dal sistema in­ glese delle banche locali che, con le normali disponibilità dei depositi bancari, crearono l'offerta monetaria necessaria al ca­ pitale d'esercizio dei loro clienti industriali - che eguagliava approssimativamente il capitale fisso incorporato nei nuovi im­ pianti. Senza dubbio, sia le scorte e le vendite finanziate dal capitale d'esercizio, sia l'impianto di base finanziato dal capi­ tale fisso costituivano attività reali che dovevano essere in qual­ che modo recuperate nel ciclo reale di produzione, forse attra­ verso l'effetto inflazionistico dell'aumento della offerta di mo­ neta creato dai depositi bancari. Ma poiché si trattava di un periodo di stabilità o di diminuzione dei prezzi, gli effetti del­ l'inflazione dovevano essere compensati da altri fattori. Uno di questi fu un aumento della produttività nelle nuove fabbriche e una conseguente spinta al ribasso sui prezzi. Per porre la stes­ sa questione in termini di economia «reale» piuttosto che di eco­ nomia