Cahiers du cinéma. La politica degli autori. I testi [Vol. 2] 8875212503, 9788875212506

Questo volume fa da complemento a quello, già pubblicato da minimum fax, che raccoglie le interviste ai grandi cineasti

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Italian Pages 220 [185] Year 2010

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Cahiers du cinéma. La politica degli autori. I testi [Vol. 2]
 8875212503, 9788875212506

Table of contents :
Cover
Colophon
Frontespizio
Presentazione di Antoine de Baecque
La politica degli autori | Seconda parte: i testi
Genesi di un’idea
Su tre film e una certa scuola di Eric Rohmer
Amare Fritz Lang di François Truffaut
Alì Babà e la «politica degli Autori» di François Truffaut
Abel Gance, disordine e genio di François Truffaut
Difesa e illustrazione di una politica
Quando un uomo... di Alexandre Astruc
Il cinema e il suo doppio (Il ladro di Alfred Hitchcock) di Jean-Luc Godard
Lettera su Rossellini di Jacques Rivette
I maestri dell’avventura (Il grande cielo di Howard Hawks) di Eric Rohmer
Sull’invenzione (Il temerario di Nicholas Ray) di Jacques Rivette
Bergmanorama di Jean-Luc Godard
Mizoguchi visto da qui di Jacques Rivette
Polemiche e revisioni
Sulla politica degli autori di André Bazin
Eric Rohmer risponde a Barthélémy Amengual
Vent’anni dopo. Il cinema americano, i suoi autori e la nostra politica in discussione di Jean-André Fieschi, Jean-Louis Comolli, Michel Mardore,André Téchiné, Gérard Guégan, Claude Ollier
La scomparsa dell’autore?
Il film senza padrone (L’Amour fou di Jacques Rivette) di Sylvie Pierre
La favolosa storia di Pelle d’Asino di Jacques Demydi Serge Daney
Il fuoricampo dell'autore (Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson) di Jean-Pierre Oudart
Ripensamenti critici su una politica
Nick Ray e la casa delle immagini di Serge Daney
Che autori, che autori! A proposito di una politica di Olivier Assayas
Politica del cinema, discrezione degli autoridi Thierry Jousse
Sulla «politica delle misure» di Serge Toubiana
Di vedetta. Che cosa resta della politica degli autori? di Antoine de Baecque

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MINIMUM FAX CINEMA

nuova serie 4

Cahiers du cinéma La politica degli autori. Seconda parte: i testi titolo originale: La politique des auteurs. Les texts traduzione di Andreina Lombardi Bom. © Cahiers du cinéma, 2001 © minimum fax, 2003, 2010 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax piazzale di Ponte Milvio, 28 – 00135 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 – fax 06.3336385 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: marzo 2003 II edizione: aprile 2010 I edizione digitale: novembre 2013 ISBN 978-88-7521-565-1

CAHRIERS DI CINÉMA

LA POLITICA DEGLI AUTORI SECONDA PARTE: I TESTI a cura di ANTOINE DE BAECQUE con la collaborazione di GABRIELLE LUCANTONIO traduzione di ANREINA LOMBARDI BOM

PRESENTAZIONE di Antoine de Baecque

La politica degli autori è senza dubbio l’idea critica più celebre della storia del cinema. Quale critico non se n’è avvalso? Ma chi sa esattamente di cosa è fatta? Questa espressione è giunta a designare tutto e il contrario di tutto. L’America, per esempio, ne ha fatto un uso al tempo stesso preciso e massiccio, dopo che Andrew Sarris l’ha adattata sotto il nome di «Author Theory» ed è divenuta con grande rapidità una delle chiavi di lettura dei film nelle università d’oltreoceano. In Francia o in Italia, il concetto è stato un po’ limitato (l’idea di autore si è affrancata dalla sua strumentalizzazione politica) e, allo stesso tempo, ha avuto un successo di gran lunga superiore alle intenzioni iniziali dei suoi fondatori. Il «cinema d’autore» è diventato la firma del cinema internazionale, se non addirittura il solo e unico genere che comprende film peraltro diversissimi: giovani cineasti appena usciti dalle scuole, registi indipendenti con uno stile cinematografico estremamente personale, figure di rilievo che si accaparrano i premi, i riconoscimenti, le copertine delle riviste e i finanziamenti dei mecenati privati o pubblici. La definizione di autore, oggi, comprende posizioni molto diverse, ma significa più o meno la stessa cosa per i cineasti che se ne gloriano: fare un cinema che assomigli a loro stessi. L’espressione è diventata celebre, ma conserva le sue ambiguità. Raccontarla attraverso i testi dei Cahiers du cinéma è dipingere una genesi, un trionfo, misurandone allo stesso tempo gli effetti, valutando le sue rimesse in discussione e presentando i suoi avversari, anche all’interno della rivista stessa. È anzitutto risalire alla sua fonte, quindi andare incontro alla personalità critica di François Truffaut, che per

primo ha introdotto il concetto, tra il 1954 e il 1955, e l’ha forgiato come un’arma diretta contro la critica e contro il cinema francese di spicco nella metà degli anni Cinquanta. Il 1° settembre 1954, su Arts, Truffaut pubblica un articolo elogiativo su un cineasta allora piuttosto dimenticato e disprezzato, Abel Gance. È in questo testo, «Sir Abel Gance», che appare per la prima volta l’espressione «politica degli autori». Per il giovane critico ventiduenne, esiste un paradosso che consiste nell’ammirare i lavori muti di Gance pur denigrandone i film parlati. Questa era l’opinione pressoché unanime della critica. Dunque, sostiene lui, i film parlati di Gance derivano esattamente dallo stesso genio visionario di quelli muti, e non si può fare l’elogio degli uni e denigrare gli altri senza contraddirsi. «Forse devo fare la seguente confessione», confida allora ai lettori del settimanale Arts. «Io credo alla “politica degli autori” o, se preferite, mi rifiuto di fare mie le teorie tanto stimate nella critica cinematografica dell’“invecchiamento” dei grandi cineasti, se non addirittura del loro “rimbambimento”. Non credo neanche all’esaurimento del genio degli emigrati: Fritz Lang, Buñuel, Hitchcock o Renoir». Così, Truffaut attacca alle spalle due dei pregiudizi critici più radicati per affermare con forza: bisogna amare tutti i film di Abel Gance, quelli ritenuti minori come quelli proclamati maggiori. La politica degli autori è proprio questa maniera di amare tutto Renoir, tutto Becker, tutto Rossellini, tutto Lang, tutto Hitchcock, così come tutto Gance fu amato e difeso da Truffaut. Ed è anche un modo di giustificare questo amore: i testi fondatori dei Cahiers du cinéma associano in modo irreversibile l’ammirazione per un cineasta e la comprensione del suo universo formale, personale, insomma la sua visione del mondo. Il primo acquista il titolo di «autore», la seconda prende il nome di «messa in scena». La politica degli autori è questa maniera di amare e di difendere il lavoro di alcuni cineasti in nome di una visione e di una comprensione del loro talento di metteurs en scène. In questo modo i Cahiers costituiscono un pantheon di autori nel corso degli anni Cinquanta, «tutti metteurs en scène», come li definisce

Rohmer, che la rivista amerà, difenderà, incontrerà, farà parlare; una base diventata un classico della critica cinematografica: Becker, Renoir, Gance, Rossellini, Buñuel, Ophuls, Bergman, Mizoguchi, Hitchcock, Hawks, Lang, Nicholas Ray… Ma questo amore per i metteurs en scène non è libero da provocazioni: deve considerarsi un fatto meramente politico? No. Si può infatti interpretare la parola «politica» in un’accezione profondamente ironica, come un segnale di disimpegno auspicato dalla critica (in un momento in cui gli ambienti intellettuali non fanno che parlare d’impegno). La sola politica dei Cahiers consiste nel parlare di cinema, di autori, di messa in scena. La politica degli autori qui si riallaccia e preannuncia l’aforisma di Luc Moullet («La morale è una questione di carrellata»), ripreso e rovesciato da Jean-Luc Godard («Le carrellate sono una questione morale»); in altre parole, la morale di un film (il suo contenuto, il suo messaggio politico se vogliamo) è tutta contenuta nella forma cinematografica esibita dall’autore (inquadrature, movimenti di macchina, montaggio, cioè la messa in scena). Si tratta addirittura di disimpegnare il giudizio e la scrittura sui film da qualsiasi nozione di contenuto (non esiste più una gerarchia tra soggetti grandi e piccoli, tra messaggi buoni e cattivi) e di forma (le condizioni economiche, politiche, tecniche, storiche di produzione e di realizzazione dei film vengono superbamente ignorate dalla politica degli autori). Quello che fa un grande film, quello che impone un grande soggetto, quello che trasmette un messaggio, è la verità della messa in scena. Questa elaborazione strategica e questa costruzione teorica sono perfette, quasi troppo perfette. Costituiscono le prime pagine del romanzo dei Cahiers du cinéma, subito destinate al successo, a far ingelosire ogni direttore di rivista, a far sentire complessato ogni critico che intenda avventurarsi verso i lidi cinematografici. Del resto queste teorie peseranno sull’insieme delle generazioni di critici che si succederanno ai Cahiers e allo stesso tempo ne saranno le ispiratrici. E questo senza

dubbio perché la storia dei Cahiers, che per cinquant’anni segue l’uscita dei testi fondatori di Truffaut, può essere considerata come quella di una rilettura e di una riscrittura critica della politica degli autori. André Bazin, figura tutelare, è il primo a intraprendere quest’opera di riscrittura, essendo sempre stato molto scettico nei confronti della tendenza (di cui temeva gli effetti perversi) che voleva l’elogio sistematico di un cineasta, il paradosso che un film minore di un autore fosse più interessante dell’opera unica di un cineasta misconosciuto, e addirittura ciò che nei Cahiers egli ha chiamato «il culto estetico della personalità». Allo stesso modo, molto presto nella rivista si alzano alcune voci che mettono in guardia dagli accecamenti di ogni politica degli autori, in particolare dalla maniera in cui questa politica si rifiuta d’interrogarsi sul contesto economico, tecnico, politico, storico, in cui nasce ogni film, anche d’autore. Paradossalmente, è il passaggio alla regia della prima generazione critica scaturita dai Cahiers, quella della Nouvelle Vague, che rivelerà meglio le ambiguità della politica degli autori. Infatti, la politica degli autori si mostra davvero poco efficace nella difesa del cinema giovane. E questo poiché fino a quel momento si era data da fare a eleggere dei padri, dei saggi, quei vecchi cineasti che la critica ufficiale aveva disprezzato in nome dei suoi pregiudizi: Renoir, Rossellini, Gance, Guitry, Ophuls, Lang, Hitchcock. La politica degli autori è l’invenzione di una filiazione ideale, quella della Nouvelle Vague dai suoi «grandi padri», in Europa come a Hollywood. Questa politica è pertanto in grado di valutare meglio ciò che si accumula (un’opera personale fatta di tutti i film di un autore eletto) da ciò che emerge (le opere prime o seconde dei giovani cineasti da eleggere). Infine, il suo campo d’elezione resta il cinema classico americano, qualche volta quello francese (il «dogma delle grandi nazioni creatrici» secondo Rohmer) e si trova più sprovveduta in campi sconosciuti, senza riferimenti: cosa fare e cosa dire dei film brasiliani, cecoslovacchi, canadesi, giapponesi, indiani, quelli che appaiono sulla scia internazionale della Nouvelle Vague, di questi «nuovi cinema» arrivati dal nulla? La politica degli

autori sembra restia a questo «movimento giovanile», contemporaneo alla sua epoca, reattivo ai tempi, in cui una generazione si appropria del cinema, e, più ampiamente, del mondo. Turbolenta, contestatrice, prestissimo politicizzata: così è la risposta dei nuovi mondi cinematografici tanto al disimpegno formale della critica degli anni Cinquanta quanto alla vana artificiosità del tempo dei «compagni», risposta tanto più sferzante visto che i Cahiers du cinéma erano appena stati rilevati da Daniel Filipacchi nel 1964.[1] Dandosi come obiettivo quello di conoscere e di far conoscere questi film di giovani cineasti internazionali, i Cahiers mutano la loro prospettiva critica: entrano nei loro «anni non leggendari», infrangono alcune certezze e alcuni idoli (perfino se etichettati come «autori»). Jean-Louis Comolli, giovane caporedattore degli «anni Filipacchi», parla così della necessità di «rivedere» gli strumenti della critica e di «inventare» un nuovo spettatore. Luc Moullet, dal canto suo, crea il concetto di «terzo cinema» per designare quei film che sfuggono alle tradizioni classiche, e la visione dei quali implica un’immersione in un determinato contesto geografico, sociale, politico. Qui, la risposta alla segretezza della cinefilia, che restava nascosta tra le pieghe della regia, è iconoclasta perché prende nello stesso tempo in considerazione elementi che sono estranei alla forma del film, anche se la condizionano: la sua fabbricazione, la sua economia, la sua appartenenza politica. Questo cinema «localizzato» è il manifesto della giovane critica degli anni Sessanta, che denuncia spesso, proprio sui Cahiers, la tradizione cinefila e la sua «politica» limitata al quadro dello schermo. Questa revisione critica è accompagnata da una ridiscussione dell’idea stessa di «autore». Michel Foucault non teorizza ancora la sparizione dell’autore dietro la materia creativa o dietro la realtà sociale, ma s’interroga con falsa ingenuità su «che cos’è un autore» e Jacques Rivette proclama il suo desiderio di veder arrivare il tempo del «film senza padrone». Per non parlare dei collettivi che, come gruppi politici, artistici, cinematografici, letterari, video, invadono in

quel periodo il campo della creatività negando per definizione e provocazione una singolarità individuale artistica che rimandano alle credenze romantiche e autoriste degli esibizionisti. Un paradosso vuole che nel momento preciso in cui la politica degli autori trionfa nella critica internazionale («author theory») e sulla scena francese (il «cinéma d’auteur»), i Cahiers du cinéma mettano in dubbio la sua pertinenza. Poiché la politica degli autori ha riportato nettamente la vittoria per la quale era stata inventata… E l’iconoclastia che abbiamo appena rievocato è una reazione minoritaria e isolata. Bollettino della vittoria, invece: tutti coloro che fanno professione di fede nel cinema – critici, riviste, cineclub, sale d’essai, pubblici poteri, festival e retrospettive – hanno aderito con il passare del tempo alla nozione di autore e alla legittimità della sua politica. Al punto che bisogna parlare talvolta di una dogmatizzazione della politica degli autori costruita intorno a un duplice processo: l’autorificazione senza misura e l’infatuazione per l’elogio. In questo senso, la critica spesso diventa solo una garanzia di consacrazione per l’autore di film: non scopre più il film, non fa altro che identificarlo e autenticarlo come segno e firma di autore. Il critico si è trasformato nell’esperto di una politica di consacrazione. È così che bisogna intendere questa critica della critica all’opera nei Cahiers du cinéma da una ventina d’anni. Il tempo degli autori è ritornato, certo, poiché ogni film ha ritrovato un padrone, ma di autori non ne occorrono poi così tanti («Che autori, che autori», s’infuria Olivier Assayas) né occorre che si diano troppo da fare («Politica del cinema, discrezione degli autori», reclama Thierry Jousse come una forma di programma minimo). Altrimenti, ogni autore è minacciato di strumentalizzazione culturale (il suo divenire «misura di scarpa», secondo l’espressione di Serge Toubiana), nel momento in cui serve essenzialmente da plusvalore artistico agli investimenti di un mecenate, di un ministero, di una televisione o di un grande festival. Essere critico oggi, sembrano dire quei testi, è quindi fare soprattutto un uso

critico della politica degli autori. Distinguere i suoi apporti provocatori e i suoi interessi fecondi: è l’unica teoria che permette di parlare del cinema americano con vigore operandovi una scelta allo stesso tempo draconiana, necessaria e stimolante. Vederne anche i mascheramenti e gli effetti nefasti: la politica degli autori fa da schermo all’elaborazione di una cartografia dei cinema più vivi e più dinamici del mondo. In un caso, a Hollywood, la politica degli autori rivela alcuni splendidi alberi in mezzo a una foresta di conformismo; nell’altro, sulla mappa del mondo, nasconde le foreste più fitte dietro gli alberi isolati del riconoscimento internazionale. [1] Editore e imprenditore (del suo gruppo fanno parte, fra l’altro, le testate Elle e Paris-Match), aiutò i Cahiers a uscire da una grave crisi economica e ne mantenne la proprietà fino al 1969. [n.d.t.]

LA POLITICA DEGLI AUTORI SECONDA PARTE: I TESTI

GENESI DI UN’IDEA

SU TRE FILM E UNA CERTA SCUOLA di Eric Rohmer

Bisogna essere assolutamente moderni. Arthur Rimbaud

«Sì», dico io, «lei ha ragione: lungi da me l’idea di un neoclassicismo. Se il cinema non è in grado di rappresentare quanto di più attuale c’è nelle nostre preoccupazioni, lo lascio perdere volentieri. Ma intendiamoci. Vuole degli esempi?» «Dica…» «Va bene, lei mi porta a fare un accostamento al quale non avevo pensato. In tutta la produzione del dopoguerra vedo già tre film chiave, nuovi nella forma, moderni nel soggetto: Il fiume, Stromboli e, terzo, Il peccato di Lady Considine… o meglio Delitto per delitto; optiamo per quest’ultimo». (Questo accadeva circa un anno fa.) «Renoir, Rossellini, Hitchcock, pressappoco tutti e tre delle vecchie volpi…» «Lo ammetto, anche per il secondo, ma che importa? Se il cinema è un’arte, e questo lei me lo concederà, io credo che in questo come in altri campi l’autentica originalità ha bisogno di attendere anni e anni. Conoscete il detto di quel pittore sessantenne». «Che disse: “Sono io i pittori giovani”… Sono d’accordo. Riguardo ai soggetti… Se almeno lei mi avesse citato Giungla d’asfalto, Monsieur Verdoux, Ladri di biciclette, che so!» «Questi film, e molti altri ancora, rappresentano il loro tempo, come riflessi di un’epoca, tutto sommato, abbastanza esaltante. Prima parlavo con una certa pomposità di preoccupazioni, diciamo di aspirazioni…»

«L’arte prima dell’azione, diceva Rimbaud». «Sì e no. Questa idea di un prima e di un dopo, di una evoluzione unilineare, mi sembra molto contestabile. Gli ultimi quartetti di Beethoven non sono più o meno moderni delle prime opere di Liszt, né le Bagnanti di Cézanne dei primi Matisse. I film che ho citato sono abbastanza fuori dal loro tempo per non passare di moda, ma proprio di esso esprimono meglio il malessere o le speranze. D’altro canto, essi costruiscono più di quanto non demoliscano e, se criticano, denunciano ciò che non ha ancora preso forma, piuttosto che attardarsi nella satira di ciò che non esiste più». «Ritorno ai buoni sentimenti, ai valori tradizionali. Reazione contro un certo progressismo sciocco, se ho ben afferrato?» «Ritorno, reazione: mi sembra eccessivo! Questi film sono moderni, lo dico e lo sostengo; il fatto che in apparenza si riferiscano a una certa idea dell’uomo che è più quella dei secoli scorsi che quella in voga oggi non mi disturba minimamente. Progressione dialettica, dovrebbero dire i nostri marxisti. Tuttavia, attenzione al sistema: certi critici letterari hanno un bell’imprecare contro i sottoprodotti di scuole ancora viventi, surrogati di Breton, Faulkner o Kafka: fatica sprecata, se non hanno nient’altro da proporre». «Perché, secondo lei, il cinema propone?» «In questi rari e confortanti esempi, sì. È una misera impresa e uno snobismo detestabile esaltare la moglie e non l’avventuriera, la dolcezza del focolare piuttosto che il romanticismo dei bar, se è solo una volontà esasperata di bruciare quello che gli altri adorano. Se l’eroina di Stromboli, oltre che alla libertà, aspira alla morale, non abbiamo forse il quadro di un secolo che porta già il giogo di un’emancipazione, dicono alcuni, appena abbozzata? E quegli esseri insignificanti di Delitto per delitto, non li vedo tanto invischiati nell’assurdo quotidiano, come marionette di plexiglas in una parata da fiera caligaresca,[2] quanto alle prese con lo scrupolo di una coscienza della quale

l’automatismo della vita moderna non ha fatto che affilare la punta estrema. Quanto al Fiume, forse questo film tenta solo di riconciliarci con un mondo la cui idilliaca dolcezza non ne attenua affatto la crudeltà. Lei conosce quel poeta che, quando gli viene il ghiribizzo, dipinge ectoplasmi e amebe. Mi permetta di rifiutare con grande ingenuità una visione dell’uomo di cui il cinema ingenuo è, parola mia, incapace di appropriarsi. Perciò auguriamoci che esso non ci induca a chiuderci a riccio dal momento che si rivelerà adatto a esaltare le gesta umane». «Anche nella vita moderna». «E specialmente, senza dubbio, nella misura in cui la vita moderna si dimostra più refrattaria a questa impresa – sebbene lei conosca la mia ammirazione per Nanuk o Tabù. Che cosa c’è di più insopportabile sullo schermo, me lo conceda, dello spettacolo della macchina; nella nostra vita di oggi, il contatto dell’uomo e dell’utensile diventa così astratto (manovrare una leva, premere un bottone) che non è possibile che i nostri occhi se ne interessino senza una di quelle violenze o stratagemmi dai quali nasce l’arte. Pensi a quella magnifica scena in cui, davanti all’acqua che sgorga, i robot di Metropolis si riscoprono vivi. Io so che la nostra pittura, la nostra musica, la nostra architettura, da quasi cento anni seguono la strada inversa. Il cineasta che osasse dichiarare ad alta voce che questo non lo riguarda avrebbe la mia ammirazione. Sto semplificando di proposito per sottolineare che queste filosofie del comportamento, del fallimento, queste assurdità di cui parlavo, non mi interessano. Curiosa contraddizione, quella di una coscienza che viene degradata al rango di epifenomeno e della quale si strombazzano allo stesso tempo non so quali rivendicazioni alla libertà!» «Quindi anche lei eleggerebbe la libertà a valore supremo?» «Perché no? Ma voglio che si sia liberati da altre costrizioni… Vede, proprio in quei film…» Questo dunque accadeva un anno fa. Si dà il caso che in quei primi mesi del 1953, gli eventi abbiano apportato alla mia tesi

esempi ancora più convincenti di quelli da me invocati. Opere molto diverse, certo, come La carrozza d’oro, Europa ’51, Io confesso, sono prodotti di temperamenti, di concezioni, di metodi del tutto opposti. Eppure sono rimasto colpito non solo dalla parentela del loro stile, nelle sue più alte ambizioni, ma dall’identità del tema che sviluppano. Tutti e tre orchestrano una sorta di sfida dello spirito all’inerzia della materia sociale, e dico sfida, non rivendicazione, richiamo a qualche losca pietà. La solitudine che ci rivelano è quella dell’essere eccezionale, a volte reso tale dalle circostanze, la solitudine del genio, non del paria o del fallito. All’eroe della finzione classica, essi sostituiscono non quel famoso antieroe di cui Rousseau lanciò la moda, ma un essere che l’umiltà della sua condizione, il suo candore, la bizzarria di un destino, lungi dal giustificarlo, offrono completamente al rigore del nostro giudizio. Tutte cose che non si potrebbero dire di una Regina d’Africa, di un Luci della ribalta, di un Umberto D., che il mio interlocutore dell’anno scorso non mi aveva nascosto di aver molto apprezzato. Confesso che se mi riproponessi di esaltare questi ultimi tre film, non mi mancherebbero le parole per dimostrare bene la stima esatta in cui li tengo. Voglio dire che il mio elogio s’iscriverebbe all’interno di categorie che la critica d’arte moderna ha così accuratamente delimitato che si perdona volentieri il fatto di riferirvisi solo attraverso allusioni indirette. Parlerei per esempio di un’idea del fallimento che dopo l’Educazione sentimentale è divenuta per il lettore o lo spettatore esperto la pietra di paragone di una incontestabile pretesa di profondità. Rileverei in queste tre opere la presenza di una certa nozione dell’evento puro che, come è noto, ha preso il posto della vecchia idea di Dio o del destino. Aggiungerei però che l’affabulazione di questi temi non può fare a meno di una sfumatura di humour nero nella prima opera, discreto nelle ultime due e fortunatamente in grado di compensare gli effetti di un’emozione del resto non meno discreta e contenuta. In questo secolo si è verificato un tale capovolgimento nella gerarchia dei valori estetici che le situazioni, gli intrighi che i nostri predecessori avrebbero

presentato come l’effetto del puro e semplice corso delle passioni sono oggi considerati soltanto come espedienti melodrammatici. Non vedo proprio in che cosa il soggetto di Europa ’51 sia più inverosimile di, mettiamo, Polieuto di Corneille, in che cosa le nostre lacrime siano da esso meno nobilmente sollecitate; il fatto che l’efficacia dell’immagine vi raddoppi quella della parola, o si sostituisca a essa, non può certo offendere un amante del cinema. Se un criminale scaltro tiene un prete nelle reti dello stesso ricatto morale di cui Ulisse aveva sperimentato gli effetti sul giovane cuore di Neottolemo, la rarità di questo dato non intacca affatto la verosimiglianza dei fatti che ne derivano. Io credo semplicemente che lo scopo dell’arte, di un’arte di finzione, sia quello di dare un fondamento a una situazione straordinaria, di andare verso la verità piuttosto che di allontanarsene. Prendete, per esempio, uno dei più bei temi del romanzo del XIX secolo, quegli eroi di Goethe, di Balzac che s’identificano a tal punto con il fuoco di una passione che sembra non possano sopravvivere al suo soffocamento. Non si muore d’amore in un film, né dell’eccesso di uno scrupolo come in Honorine o nelle Affinità elettive. Non posso fare a meno di constatarlo. Ma questo perché? Perché l’arte dello schermo non è ancora capace di rendere palpabile l’evidenza di un tale influsso dello spirito sul corpo. Scommetto che questo avverrà, e in alcune scene del Peccato di Lady Considine o della Conversa di Belfort non se ne vede già un abbozzo? Ma interrompo questi riferimenti letterari per paura che tradiscano il mio progetto, più che sostenerlo, dato che volevo semplicemente dimostrare che il cineasta avrebbe torto a mostrarsi a priori refrattario alla sollecitazione di temi passati ma non caduti in disuso e che non solo allargano il campo della sua invenzione, ma pongono in piena luce un mondo di rapporti già più o meno chiaramente percepiti dal pittore o dal romanziere classico (la natura umana non è un po’ sempre la stessa?) senza che costui avesse alla sua portata lo strumento più adatto a esprimerlo. È curioso notare che, se la consideriamo dal punto di vista di una simbologia del gesto, dell’atteggiamento umano, la letteratura, diciamo prima di

Flaubert, si mostra molto più ricca rispetto a una descrizione del mero comportamento, a una ricerca talmente priva di valore metaforico che, tutto sommato, finisce col perdere la sua efficacia primitiva. Avete notato come la bellezza delle immagini di Goethe o di Balzac, per rimanere sul mio esempio, ha come fondamento un’idea scientifica che fa sorridere noi moderni, il sentimento di un’affinità fra il corpo e lo spirito che sembra puerile, ma che ha radici così profonde nelle nostre convinzioni, e che ha talmente influenzato il nostro linguaggio, che non saprei biasimare il cinema per avergli dato, mediante un ricorso semplicissimo all’evidenza, un nuovo e irrefutabile fondamento? E tuttavia, se mi fossi accontentato di dire che questi tre film sono cinema, e proprio la forma più alta di quest’arte, mentre i tre che gli contrappongo non sono altro che dei buoni film di sceneggiatori, avrei paura di essere capito ancor meno. Come, Chaplin? – Eh, sì! Lasciando la strada limitata e sicura della pantomima alla quale ha dato lustro con il suo genio comico, forse ha conservato tutta la sua intelligenza, ma il suo talento ha perso moltissimo in efficacia. Se ho citato un lavoro di John Huston è perché mi pare che questo metteur en scène sia uno dei rappresentanti più brillanti e più caratteristici di una certa intellighenzia della sua professione, ricca più di spirito che di vera sensibilità, e confesso che il suo stile, anche se formato alla migliore scuola – quella americana, intendo – mi è sempre sembrato, malgrado alcune trovate felici, abbastanza povero d’inventiva. E direi lo stesso dell’italiano De Sica. Che mi si perdonino queste frecciate: il mio scopo, in questo articolo, è quello di chiarire più che di demolire; ma questa luce che io vorrei delle più vive può solo scaturire più viva da una contrapposizione. E, d’altro canto, la quasi unanimità della critica non ha forse schiacciato sotto il peso del suo disprezzo, se non addirittura sotto gli insulti, sia La carrozza d’oro, sia Europa ’51, sia Io confesso? Suprema ingiuria, a questi film non si accordava nemmeno l’onore di riconoscervi il fallimento di un’ambizione, in tutti e tre manifestamente altissima; si attribuiva la scelta del loro soggetto all’effetto della rassegnazione, del disgusto, o

addirittura della necessità più materiale. Sì, esiste un cinema maledetto, e, cosa grave, questa maledizione non è tanto opera dell’alta finanza, di una censura, di un pubblico ignaro, ma di coloro la cui stessa professione sembrerebbe garantire, se non sempre la giustezza, per lo meno la prudenza e la probità del giudizio. È vero che alcuni critici, e tra i più competenti, hanno già detto in che conto tenevano l’uno o l’altro di questi film. Ma non mi basta, in questa sede voglio difenderli tutti insieme, allo scopo di rivelare meglio il suono nuovo e sconcertante che emettono. So che vi è una certa tracotanza nell’opporsi a un gusto tanto generalmente condiviso: perciò non parlo a mio nome personale. Poiché Pierre Kast mi ha fatto poco tempo fa l’onore di promuovermi capofila di una scuola che brilla forse più per la fiamma che per il numero dei suoi adepti, tendenza che in seguito alla sua inchiesta André Bazin poneva alla punta estrema – e sono d’accordo – del dogmatismo nella critica, mi sia permesso di farmi interprete dei gusti di una frazione, certo minoritaria, ma pur sempre una frazione della redazione di una rivista il cui eclettismo, in seno a uno stesso amore per il cinema, garantisce abbastanza la competenza e la serietà. Non credo che vi sia una buona critica che non s’ispiri a un’idea, sia dell’arte, sia dell’uomo, sia della società, e che non rimproveri a questo o a quel giornale politico di osservare nei suoi giudizi sull’arte una linea troppo rigorosa. Tuttavia nei Cahiers, che hanno per unico argomento il cinema, è con le dovute precauzioni e in maniera analogica che mi capita, in generale, di fare appello a delle convinzioni che non si sono formate unicamente con la frequentazione dei cinema: vorrei che il mio, il nostro dogmatismo – se di dogmatismo si tratta – fosse ispirato prima di tutto dalla coscienza di un’evoluzione della quale, fra tutte le arti, solo quella del film mantiene chiaramente l’impronta. Il fatto di assimilare il valore cinematografico di un’opera alla violenza di una certa rivendicazione sociale mi apparirebbe, da parte di un Pierre Kast, come una «simpatica spiritosaggine» se il senso dell’evoluzione più feconda non fosse stato – anche in certi autori tradizionalisti di anteguerra – proprio verso la sinistra, secondo il vecchio principio di Hugo «libertà

nell’ordine, libertà nell’arte». Concedo che un tale precetto abbia portato i suoi frutti, ma è altrettanto certo che, nella Bisanzio in cui viviamo, esso ha perduto la sua ragione d’essere. Ecco perché voglio, per concludere, tornare all’aspetto di questi tre film sui quali mi ero prima soffermato: quello sociale. Dopo che il cinema è assurto alla dignità di arte, vedo un solo grande tema che esso si sia proposto di sviluppare: l’opposizione di due ordini, l’uno naturale, l’altro umano, l’uno materiale, l’altro spirituale, l’uno meccanico, l’altro libero, l’uno del desiderio e della brama, l’altro dell’eroismo o della grazia; contrapposizione tutta classica, ma il privilegio della nostra arte è di darne una traduzione così diretta che al tramite del segno si sostituisce l’immediato dell’evidenza. Nel cinema è dunque apparso un universo di rapporti che le altre arti, anche se lo avevano illuminato, potevano solo indicare, non mostrare: il rapporto dell’uomo con la natura, il rapporto con gli oggetti e quello, più direttamente sensibile e certo tra i più belli (ma anche, dall’era del sonoro, quello meno visibilmente traducibile), dell’individuo con la società. Tema ingrato, fra tutti, la mera convenzione che in quest’ambito sostituisce l’efficace inclinazione dell’esperienza o dell’istinto. La carrozza d’oro ha, tra gli altri, il grande merito di andare oltre la satira nella quale si vuole ancora relegare il suo autore, nonché, grazie a una sorta di buffoneria sublime che non annovera, che io sappia, alcun precedente nell’arte – neanche in Shakespeare – di dotare l’uomo come di una seconda natura, di esaltare la commedia per mezzo della verità con cui imita una delle parti più profonde della vita umana, che è appunto commedia. Così la sfida che la Magnani lancia alla corte del Perù ne acquista solo un maggiore rilievo: non si tratta tanto di denunciare l’ordine in quanto tale – impresa facile e del tutto vana – quanto di smascherarne le necessarie contraddizioni. Se l’arte è, in fondo, morale, non lo è perché scopre la strada di un’eguaglianza o di una libertà astratte, ma perché ne esalta piuttosto l’eccezione, che solo la regola rende possibile, e, in qualche modo – per quanto sia urtante questa idea – la diseguaglianza di ognuno davanti al destino, se non

addirittura davanti alla salvezza. Ma eccomi a sconfinare sul terreno di quella Europa moderna di cui Rossellini ha delineato, con pochi tocchi arditi, la tara essenziale: una tolleranza più tirannica della stessa intolleranza poiché ci rifiuta perfino la libertà di scegliere i nostri modelli, una giustizia più ingiusta dell’ingiustizia, poiché restituisce a ognuno solo ciò che non gli appartiene. Non c’è forse, persino nella freddezza, nella meschinità dei gesti della cortesia moderna, l’eco di un disordine dello spirito, troppo ansioso di liberarsi da forme suggerite finora dalla dimestichezza con la natura, affinate da un lungo lavoro del tempo? Ho sempre insomma ammirato in Alfred Hitchcock la più viva sensibilità per la materia cinematografica unita – fatto notevole per un metteur en scène che non è mai stato un autore – alla continuità di una linea purissima, all’identità di un progetto estremamente ambizioso. Quella suspense di cui, di grazia, gli si riconosce di saper mantenere abilmente la tensione, la vedo, in lui, sempre superata da un interesse altro, da un’attesa, non tanto dell’evento quanto delle sue ripercussioni in un pensiero di cui la precisione quasi metallica dell’immagine non saprebbe alterare i contorni agili e sfuggenti. Ed eccoci rivelata la ricchezza non solo psicologica ma anche morale di questo famoso tema del sospetto, di un certo ricatto al coraggio, alla purezza, all’innocenza, che ritroviamo in ognuno dei suoi film. No, non è la fiacchezza di eroi o eroine, tanto disprezzati dai nostri esteti, che si trova, grazie a lui, a essere così impietosamente messa a nudo, ma, direi, lo scrupolo acuto di una coscienza che, nell’istante in cui viene soffocata, si ritrova d’un tratto nuova a sé stessa. Siamo d’accordo sul fatto che, nel corso dell’opera di questo cineasta, un tale dato si è a poco a poco arricchito, approfondito, depurato da alcune inverosimiglianze che non sono mai, del resto, dispiaciute poi tanto. Il rimprovero che avrei acconsentito a muovere a Hitchcock, quello di farci interessare più alla situazione che al personaggio stesso, più a una condizione che a un carattere, cade davanti a questo affresco grandioso – questo è l’aggettivo giusto – che saprei paragonare solo a ciò che di più perfetto ci ha offerto la storia dello

schermo. Una costante attenzione plastica è posta al servizio non, come in tanti altri registi, di una volontà di fare dell’arte a tutti i costi, ma della necessità di esprimere tutta la fragilità della condizione ecclesiastica in una società meno sensibile al prestigio dell’apparato e dell’abito che alla rigida impassibilità di un volto dove la minima traccia di gioia, di sofferenza umana, stupisce, inquieta, irrita. Quale scena è più bella di quella della caduta del prete, illuminato a un tratto sul senso di quella croce che senza dubbio non aveva scelto lui di portare, quel precipitarsi della folla sull’uomo solo, quel cristallo che si rompe e che egli incrina a raggiera con il gomito, come già aveva fatto Scarface con il pugno al vetro del bugigattolo in cui il suo rivale attendeva la sentenza di morte. Facile effetto, si dirà, ma io credo che sia riservato ai più grandi cineasti l’impiego dei mezzi più diretti, più efficaci sui nostri nervi, mentre il ricorso all’allusione, l’ellissi cara ad alcuni è anche troppo spesso segno di aridità e di povertà. Se vi è sistematicità, preconcetto, formalismo in Hitchcock è perché questa forma, tanto denigrata, non è affatto un inutile ornamento e si lega così strettamente al contenuto che qualsiasi altra espressione che non sia cinematografica è per lui praticamente impensabile… Mi auguro che la critica cinematografica si liberi alla fine dalle idee dettate dai suoi antenati, che si metta a considerare con occhi e spirito nuovi alcune opere che, a mio parere, conteranno molto di più nella storia del nostro tempo delle scialbe sopravvivenze di un’arte che non c’è più. (Apparso sul numero 26 dei Cahiers du cinéma, agostosettembre 1953) [2] Allusione al film Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, uno dei capolavori del cinema espressionista. [n.d.t.]

AMARE FRITZ LANG di François Truffaut

Alla vigilia della stesura di un articolo che vorrebbe allo stesso tempo generico e preciso, esauriente e documentato, il critico cinematografico comincia a invidiare al suo confratello letterario il privilegio della biblioteca dove fanno tappezzeria pesanti volumi di opere complete consultabili e citabili a piacimento. È raro infatti che tutti i film di un cineasta siano fruibili nello stesso momento; è la ragione per cui apprezzo particolarmente il caso che ha voluto che, in questo mese di dicembre 1953, uscisse un nuovo Fritz Lang, Il grande caldo, e che alcune sale rionali avessero in cartellone Rancho Notorius e Maschere e pugnali, proprio mentre il Parnasse riprendeva La strada scarlatta e la Cinématheque ci presentava, una sera dopo l’altra, il suo ultimo film tedesco, Il testamento del dottor Mabuse (sottotitolato in danese), e il primo film americano, Furia (sottotitolato in fiammingo). La solitudine morale, l’uomo che conduce da solo una lotta contro un universo ostile e indifferente: questi sono i temi preferiti di Lang. Perfino i titoli stessi dei suoi film testimoniano la fedeltà a questo argomento: M, il mostro di Düsseldorf, Furia, Sono innocente!, Duello mortale, e così via. Un uomo s’impegna in una lotta per dovere – se è un poliziotto, un soldato o uno studioso – oppure per noia. Arriva sempre il momento in cui è stanco di lottare, in cui la causa per cui lotta mostra un’incrinatura. È sul punto di abbandonare l’impresa quando un evento gli fa riprendere il duello, spingendolo fino al sacrificio di sé. Questo evento è quasi sempre la morte di qualcuno, estraneo a tutto ciò, spesso una donna, una donna amata in qualche caso (Joan Bennett in

Duello mortale, la vecchia signora di Maschere e pugnali, la fidanzata di Kennedy in Rancho Notorius, Jocelyn Brando nel Grande caldo). È allora che il conflitto diviene strettamente individuale, che ragioni personali si sostituiscono a quelle sociali o politiche, che l’unico pensiero della vendetta, infine, si sostituisce a quello iniziale del dovere. (Walter Pidgeon, in Duello mortale, se ne infischia della barbarie nazista. Hitler ha ucciso Joan Bennett: bisogna uccidere Hitler. Glenn Ford, nel Grande caldo, darà le dimissioni dalla polizia per vendicarsi più efficacemente.) Tutto si gioca e s’intreccia, in Lang, nel cuore di un universo altamente morale. Certo, al suo interno la morale convenzionale non ha alcun peso e le forze in quanto tali (polizia, esercito, resistenza) ci vengono mostrate quasi sempre volgari, manchevoli e vili. La società e la brava gente ricevono spesso quello che si meritano. Gli eroi di Lang sono, in realtà, marginali alla società, ecco perché lo spionaggio ha nei suoi film una parte così importante. Mai niente di melodrammatico, poiché l’eroe non è altro che il giustiziere di sé stesso, che non difende né i deboli né gli oppressi, che non rivendica niente, che vendica solo una vittima per film; solo gli esseri eccezionali interessano Lang, eccezioni che per pudore rivestono le umili sembianze di una entraîneuse, di una spia, di un poliziotto o di un rozzo cowboy. «Universo altamente morale», dicevo più sopra, universo convenzionale mi risponderà qualcuno, non senza esattezza del resto. Gli intrecci di Fritz Lang si prendono gioco delle convenzioni e ci giocano. Gettati in un conflitto nel quale il realismo rasenta l’inverosimile e lo sfida, i personaggi di Lang avanzano nella loro notte, estremizzati al punto tale che i cattivi diventano infami, e i buoni assurgono al sublime. Certo, l’emozione, sempre sollecitata, è tale che bisognerebbe essere tristemente distaccati per non immaginarsi almeno per un istante di essere Dio, e punire uno o salvare un altro. E se Fritz Lang tutto sommato si sostituisce egli stesso al Divino, come potremmo rimproverarglielo dopo

che, per tutta la durata del racconto, ha saputo così bene ora sottomettersi e ora regnare, essere dominato e dominare di volta in volta? A una moda che in tutti i campi, fino al cinema, si compiace di umiliare portando ovunque la confusione, vantandosi di provocare la disfatta dei sentimenti, sono molto contento di opporre Fritz Lang, moralista sui generis, cineasta quasi balzachiano, che non si vergogna di tagliare e di concludere. Per Fritz Lang, ogni inquadratura risponde alla domanda «come?», gli uomini amano le donne, e ne vengono ricambiati, la terra è rotonda e gira perfino, due più due fa sempre quattro. Il grande caldo è un bel film. È la riproduzione molto precisa in chiave thriller dell’eccellente Rancho Notorius. Ammirevole direttore di attori (e soprattutto di attrici), Fritz Lang dà finalmente a Gloria Grahame la sua grande occasione. Lei si accoccola sul divano alla sua maniera, telefona, danza, fa l’inchino alla cinese, viene ustionata, mascherata e, ahimè, muore. La sua recitazione aspra è perfetta per tutto il film. La storia narrata è tanto bella quanto semplice, la violenza è come sempre estrema. «Il grande caldo (The Big Heat). Né brutto, né bellissimo. Fritz Lang non è più Fritz Lang. Lo sappiamo già da qualche anno. Non vi è più traccia di simbolismo nelle opere che fabbrica oggi il regista di Metropolis. E di espressionismo non ce n’è più tanto». Queste poche righe di Louis Chauvet sintetizzano abbastanza bene i sofismi che bisogna urgentemente dissipare. Rivedendo l’opera di Fritz Lang, si rimane sorpresi da quanto c’era di hollywoodiano nei suoi film tedeschi (L’inafferrabile, Metropolis, Il testamento del dottor Mabuse) e da quanto egli abbia voluto conservare di germanico nelle sue opere americane (le scenografie, alcuni tipi d’illuminazione, il gusto delle prospettive, degli angoli vivi, la maschera di Gloria Grahame in questo caso, e così via). Si comprende facilmente quanto potesse essere irritante la partenza dei nostri migliori cineasti europei per Hollywood. Si cade nella tentazione puerile di vedere scomparire, con

l’esilio, la parte più luminosa del loro genio. Ma lo sciovinismo non ci guadagnerebbe se i critici preferissero adottare la prospettiva opposta (dato che la grazia di saper guardare sembra essere stata loro negata per sempre) e dichiarare che il meglio della produzione americana è d’ispirazione europea (Hitchcock, Lang, Preminger, Renoir e così via)? Un’altra leggenda vuole che il metteur en scène americano sia un «ingegnoso bricoleur» che «salva come può» i soggetti «incredibili» che gli vengono «imposti». Quindi non è strano che tutti i film americani di Fritz Lang, anche se firmati da sceneggiatori differenti e girati per conto delle case di produzione più diverse, raccontino sostanzialmente la stessa storia? Questo non ci fa pensare che Fritz Lang potrebbe anche essere un vero autore di film? E se i suoi temi, le sue storie, per arrivare fino a noi, prendono a prestito la parvenza banale di un thriller fatto in serie, di un film di guerra o di un western, non dovremmo vedere in questo il segno della grande serietà di un cinema che non avverte la necessità di ornarsi di etichette invitanti? Una cosa è certa: per fare cinema, bisogna far finta, o se preferite questo slogan: per parlare con il produttore, il travestimento è di rigore. Ora, dato che ci si camuffa sempre da contrario di se stessi, non ci si meraviglierà di vedermi preferire i cineasti che imitano l’inconsistenza… Bisogna amare Fritz Lang, salutare l’arrivo di ognuno dei suoi film, precipitarsi a vederli, tornarci spesso e attendere con impazienza il prossimo (sarà Gardenia blu). Nota Pubblicato nella «Série Noire», con il titolo francese Coups de torchon,[3] il libro di William P. McGivern da cui è tratto Il grande caldo si rivela di molto inferiore al film a dispetto della fedeltà di quest’ultimo al romanzo. Semplicemente si «crede» al film, ai suoi personaggi e a ciò che accade, ma non agli stessi personaggi, agli stessi avvenimenti nel libro. La stessa osservazione vale per Il grande sonno, La fuga, e così via. Si

deve alla censura cinematografica americana il fatto che Marlowe non sia più un pederasta e che i personaggi diventino amabili oppure odiosi senza mezzi termini. Necessità quindi di una censura moralista (che esige che venga proposta una morale). Eppure, prendiamo il film di Lang: una sceneggiatura identica fatta in Francia, che chiamasse in causa la polizia francese, la magistratura francese, conservando anche l’ultima scena (Glenn Ford che rientra nella polizia), ebbene, questa sceneggiatura non supererebbe neanche la fase della precensura. Come dice Rossellini: Dov’è la libertà? (Apparso sul numero 31 dei Cahiers du cinéma, gennaio 1954) [3] Il titolo italiano è La città che scotta. [n.d.t.]

ALÌ BABÀ E LA «POLITICA DEGLI AUTORI» di François Truffaut

Le circostanze hanno voluto che io vedessi due volte Alì Babà in una piccola sala senza atmosfera prima di rivederlo finalmente in una cornice molto più adeguata, una sera di Capodanno in mezzo ai cinquemila spettatori del GaumontPalace tra i quali – secondo Renoir – solo tre persone potevano «capire». C’è bisogno di precisare che io mi sono annoverato subito tra questi tre eletti, arrivando a sospettare perfino dell’esistenza degli altri due? Alla prima visione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda mi ha annoiato, alla terza mi ha appassionato e incantato. Senza dubbio lo rivedrò ancora ma so bene che, superato vittoriosamente lo scoglio rischioso del numero 3, ogni film prende posto nel mio museo privato, molto ristretto. (Tra parentesi, se tutti i cinefili avessero visto tre volte L’isola di corallo, Il tesoro della Sierra Madre e La Regina d’Africa ci sarebbero molti meno «hustoniani».) Non è che rivedendo Alì Babà si capiscano o si scoprano più cose, come si può dire ad esempio della Carrozza d’oro, di Gli uomini preferiscono le bionde o di Casco d’oro), ma alla stregua dei musical (Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi e così via) l’ultimo film di Becker va conosciuto bene per essere apprezzato. Bisogna aver oltrepassato lo stadio della sorpresa, bisogna conoscere la struttura del film perché svanisca la sensazione di squilibrio avvertita all’inizio. C’è una scena in cui Fernandel, dopo aver recuperato il suo pappagallo fuggito nella caverna e averlo rimesso in gabbia, riparte camminando prima molto in fretta e poi, bruscamente, in modo maestoso, con passo leggero e felpato. Questa incrinatura di ritmo, questa rottura del movimento, sottolineata

abbastanza bene dall’interruzione nella musica e dalla sua ripresa su un tempo più lento, inducono immancabilmente al riso senza che la sceneggiatura intervenga, senza che si possa parlare propriamente di gag. Questa piccola notazione procura un piacere sempre vivo; rivedendo il film, ci si accorge che è il momento che si aspettava, con tanta più impazienza in quanto è un effetto di cui si aveva già, più o meno inconsciamente, provato la qualità. Questo fenomeno difficilmente analizzabile – lo si osserva di continuo nel corso della Carrozza d’oro, per esempio – si ritrova in tutte le inquadrature dello stupefacente Muftì, e nella scena in cui, sotto un sole martellante, Cassim e il capo dei ladri arrostiscono nelle loro gabbie – come lo Iago di Orson Welles – mentre una panoramica ci rivela un uccello che saltella sul terreno cocente, in cerca di una polla d’acqua per sopravvivere. Questi istanti, un po’ dispersi in Alì Babà, ci restituiscono a tratti la strabiliante e continua ricchezza di stile e d’inventiva nel dettaglio che appartiene al miglior film di Jacques Becker: Casco d’oro. Ma non per questo i difetti – poiché difetti ce ne sono – si dileguano. Ne vedo parecchi e passo subito a elencarli prima di aggiungere gli elementi positivi. Un progetto di questo tipo richiedeva l’impiego di una determinata stilizzazione. Jacques Becker ha scelto la commedia buffa in un Oriente da Canebière.[4] Da parte mia avrei preferito un adattamento convenzionale che si prestasse a trovate plastiche più ricche, per esempio il racconto volteriano – come non pensare alla danza di Zadig quando Fernandel si allontana dalla caverna, l’andatura appesantita dal peso delle ricchezze? – o, decisamente, avrei preferito un’illustrazione del racconto rigorosamente fedele al modo in cui lo raccontavano le nostre nonne e ispirata alle stampe di Épinal. Ma non avviamo un processo interminabile e impossibile alle intenzioni; deplorata la bruttissima musica di Paul Misraki (un Van Parys avrebbe fatto più al caso nostro) prendiamocela

un po’ con Henri Vilbert. I giurati di Venezia non si sono sbagliati quando gli hanno conferito non so quale «leone» di non so quale metallo. Potete esserne certi: chi interpreta un cornuto viene sempre incoronato. I giurati sono così… «comprensivi». E poi, una parte da cornuto, fa molto psicologico. Ma un attore del genere, appena gli affidate una parte in cui deve muoversi, saltare, correre, si tira indietro: «Io recito in modo più interiore»; capirai! Vilbert è perciò un Cassim penoso: quando entra in scena, viene voglia di rifare l’inquadratura. Ecco i tre elementi che impediscono la riuscita completa del film: la sceneggiatura debole, poco rigorosa, la musica e Vilbert. Per essere il suo debutto nel colore, Becker se l’è cavata in modo ammirevole. E la regia? È di Jacques Becker, vale a dire che Alì Babà è insieme a Grisbì il film francese meglio realizzato dell’anno. Come La regola del gioco, Alì Babà termina in un inseguimento con battaglia. Questa scena straordinaria imprime al film un ritmo scapigliato che piacerebbe ritrovare in tutto il lavoro. Non dimentichiamo che Alì Babà è un po’ un film di Fernandel. Fernandel non mi ha mai fatto ridere, e ancor meno piangere, ma il suo stile di recitazione è perfettamente «azzeccato» alla regia; le smorfie – delle quali è impressionante vedere, attraverso le reazioni del pubblico, a che punto siano dosate, misurate, cronometrate, interrotte – «cadono» inesorabili come le inquadrature e si concatenano splendidamente. Un lavoro simile, un mestiere simile, costringono, come direbbe Bazin, se non all’ammirazione per lo meno al rispetto. È così che, con Fernandel, Becker è riuscito là dove avevano fallito Claude Autant-Lara (Arriva fra’ Cristoforo) e Yves Allégret (Santarellina). Al mio confratello Jean Aurel piace che un film sia prima di tutto un documentario sull’attore o l’attrice che interpreta il ruolo principale. In questo senso gli piacerà molto Alì Babà, che è un documento straordinario su un monumento chiamato Fernandel.

Da Alì Babà si sprigiona un fascino, o meglio un’influenza affascinante che i film francesi più elogiati di quest’anno non hanno saputo procurarmi. Anche se Alì Babà fosse mal riuscito, lo avrei difeso ugualmente in virtù della «politica degli autori» che i miei consimili nella critica e io stesso pratichiamo. Tutta basata sulla bella frase di Giraudoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori», essa consiste nel negare l’assioma, caro ai nostri predecessori, secondo cui vale per i film quello che vale per le maionesi, o vengono male o vengono bene. Passando da un argomento all’altro, giungeranno – i nostri predecessori – a parlare, senza perdere nulla della loro serietà, dell’invecchiamento sterilizzatore se non addirittura del rimbambimento di Abel Gance, Fritz Lang, Hitchcock, Hawks, Rossellini e perfino Jean Renoir nel suo periodo hollywoodiano. A dispetto della sua sceneggiatura triturata da dieci o dodici persone, dieci o dodici persone di troppo a eccezione di Becker, Alì Babà è il film di un autore, un autore giunto a una maestria eccezionale, un autore di film. Così, la riuscita tecnica di Alì Babà conferma la fondatezza della nostra politica, la «politica degli autori». P.S. Insieme ad Alì Babà viene programmato un cortometraggio straordinario da non perdere: Naufrage volontaire di Alain Bombard. (Apparso sul numero 44 dei Cahiers du cinéma, febbraio 1955) [4] In effetti, tutti o quasi gli attori di Alì Babà sono marsigliesi. [La Canebière è un quartiere di Marsiglia, n.d.t.]

ABEL GANCE, DISORDINE E GENIO di François Truffaut

Piacere senza eccezione è meglio che irritare. Tuttavia non è affatto il gusto di dar fastidio che induce a parlare di un film o di un cineasta in un modo piuttosto che in un altro. Il lettore è sempre in tempo a lasciar perdere. Ma una cosa è probabile: che sia passato il tempo della «critica alla Zanuck».[5] Questa critica è parziale, enfatica e subdolamente polemica. Non c’è molto di interessante da dire sulla Torre di Nesle. Tutti sanno che si tratta di un film eseguito su ordinazione con un budget ridicolo e la cui parte migliore è rimasta nei cassetti del distributore. La torre di Nesle è, se vogliamo, il meno bello dei film di Abel Gance. Ma poiché si dà il caso che Abel Gance sia un genio, La torre di Nesle è un film geniale. Genio, Abel Gance non possiede affatto genio: è posseduto dal genio, vale a dire che se gli date una cinepresa portatile e lo appostate in mezzo a venti operatori del cinegiornale all’uscita del Palais Bourbon o all’entrata del Parc des Princes,[6] vi riporterà, lui e solo lui, diversi metri di pellicola nei quali ogni inquadratura, ogni immagine, ogni sedicesimo o ventiquattresimo di secondo recheranno l’impronta stessa del genio, invisibile e presente, visibile e onnipresente. Come avrà fatto? Solo lui lo sa. A dire il vero, credo che non lo sappia bene neanche lui. Ho osservato per un po’ Abel Gance mentre girava La torre di Nesle, e lui ci credeva otto ore al giorno, cioè mentre ci lavorava. Non c’è alcun dubbio che siano migliori i film nei quali credeva ventiquattr’ore al giorno. Ma otto ore sono otto ore. Mi ricordo il primo piano della Pampanini che si guardava nello specchio, in un monologo interiore, quindi in silenzio. Venti centimetri separavano lo specchio dal viso, il viso dall’obiettivo. A venti centimetri dallo specchio, dal viso e

dall’obiettivo stava, fuori campo, Abel Gance. Era lui che, proteso verso l’attrice intimidita e italiana, pronunciava il monologo che sullo schermo sarebbe stato recitato da una doppiatrice: «Guardati, Margherita di Borgogna, guardati nello specchio; che cosa sei diventata? Nient’altro che una puttana…!» (Cito a memoria.) Questo monologo insensato, Gance lo pronunciava a mezza voce in tono sussurrato ma lirico, lirico. Non era più regia d’autore, era ipnotismo! Fantastico! Non vedevo l’ora di guardare questa sequenza sullo schermo. Il risultato? Magnifico. Era contratta, la sgualdrina, gli occhi di fuori, la bocca aperta in un ghigno infame, le grinze della quotidiana lascivia notturna a segnare un po’ ovunque il suo viso regale: era, parola mia, la più grande attrice del mondo, come già Sylvie Gance in Napoléon, la Presle in Paradiso perduto, Ivy Close nella Ruota, Line Noro in Mater dolorosa, Jany Holt in Un grande amore di Beethoven, Viviane Romance in La Vénus aveugle e Assia Noris nella Maschera sul cuore. Andate a vedere la Pampanini nella Torre di Nesle, andate a vederla in qualche altro film e se non capite in che cosa Gance è geniale, è perché io e voi non abbiamo la stessa idea di cinema, e quella giusta, ovviamente, è la mia. Lascio che sia Jean Renoir a rispondervi: «Sono magnifiche, le smorfie, quando sono ben fatte». Abel Gance non ha solo amici: quanti Caini sulla sua strada! Posseduto dal genio, è impareggiabile nel lasciarsi possedere da Tizio, Caio o Sempronio. Oggi perfino l’Empire è contro di lui. Al diavolo le rivalità disumane; stufo, Gance lascia sempre l’Eldorado ai cineasti della domenica; lo hanno seppellito per dodici anni nella cittadella del silenzio perché dopo aver fatto la cernita dell’erba buona aveva lasciato quella cattiva nell’erbario. Gance è un grande prato verdissimo. La zizzania è opera dell’erbario, non sua. L’atteggiamento schietto è suo amico e l’atteggiamento ambiguo suo rivale. Al margine desolato del cinema francese l’erba si è inaridita. È arrivato il momento di imparare a scegliere:[7] bisogna bruciare l’erbario con il suo bordo dorato.

A Gance hanno dato del «fallito» e in tempi recenti del «fallito geniale». Ebbene, i detrattori intorno a Gance pullulavano ma, incapaci com’erano di intaccare il suo genio, sono stati altrettanto incapaci di rovinarlo. Adesso si pone la questione di stabilire se si può essere allo stesso tempo falliti e geniali. Io credo addirittura che il fallimento sia il talento. Riuscire è fallire. Voglio in fin dei conti difendere questa tesi: Abel Gance autore fallito di film falliti. Sono convinto che non c’è un solo grande cineasta che non sia disposto a sacrificare qualcosa: Renoir sacrificherà tutto (sceneggiatura, dialoghi, tecnica) a vantaggio di una miglior recitazione dell’attore, Hitchcock sacrifica la verosimiglianza poliziesca a vantaggio di una situazione predeterminata, Rossellini sacrifica i raccordi di movimento e di luce per una maggiore freschezza – o anche un maggior calore – degli interpreti, Murnau, Hawks, Lang sacrificano il realismo dell’ambiente e dell’atmosfera, Nicholas Ray e Griffith la sobrietà. (Sulla nozione di sacrificio nelle opere geniali.) Dunque, il film riuscito, secondo i nostri predecessori, è quello in cui tutti gli elementi partecipano ugualmente di un tutto che merita allora l’aggettivo «perfetto». Ora: la perfezione, la riuscita impeccabile, io le giudico abiette, indecenti, immorali e oscene. In questo senso il film più odioso è incontestabilmente La kermesse eroica per tutto quello che vi si trova di compiuto, di attenuato, di ragionevole, di misurato: per le porte socchiuse, i percorsi abbozzati e soltanto abbozzati, per tutto quello che vi si trova di piacevole e di perfetto. Tutti i grandi film della storia del cinema sono film «falliti». Si è detto che lo fossero all’epoca, lo si dice ancora per alcuni di loro: Zero in condotta, L’Atalante, Faust, True Heart Susie, Intolerance, La cagna, Metropolis, Liliom, Aurora, La regina Kelly, Un grande amore di Beethoven, Il cavaliere della libertà, La Venus aveugle, La regola del gioco, La carrozza d’oro, Io confesso, Stromboli (cito alla rinfusa e ne salto alcuni quasi altrettanto belli). Confrontate questa lista con quella dei film riusciti e avrete sotto gli occhi tutta la vecchia disputa dell’arte ufficiale.7 È bello anche andare a rivedere il Napoléon di Abel Gance su allo Studio 28. Ogni inquadratura è un lampo e irradia luce su tutto ciò che le sta

intorno. Le scene parlate sono prodigiose, e non, come si scrive ancora oggi nel 1955, indegne di quelle mute! «Sir Abel Gance», come dice Becker! Non lo ritroveremo tanto presto nel cinema mondiale, un uomo di tale levatura, pronto a sconvolgere il mondo, La Divina Tragedia, a trattarlo come creta, prendendo a testimoni dell’obiettivo il cielo, il mare, le nuvole, la terra, sì, tutto questo, nel cavo della mano. Per lasciar lavorare Abel Gance, cercasi sponsor tipo Luigi XIV. Scrivere ai Cahiers du cinéma, che provvederanno a inoltrare. Urgente. (Apparso sul numero 47 dei Cahiers du cinéma, maggio 1955) [5] La critica «alla Zanuck»5a è quella che consiste nel separare le cose buone dalle cattive, la critica che aggiunge ai suoi giudizi commenti professorali: «può far meglio», «dovrebbe impegnarsi di più», e così via. Roger Regent pratica la critica «alla Zanuck» quando dichiara dopo aver appena visto Rififi: «Ci sono delle lungaggini; si sarebbero potuti tagliare dieci minuti della rapina». La critica «alla Zanuck» contraddice la «politica degli autori»; Claude Mauriac pratica la critica «alla Zanuck» quando canta le lodi di Roma città aperta, Les Amoureux sont seuls au monde, Europa ’51 e La grande razzia, stroncando parallelamente Francesco giullare di Dio, Gli amanti di Toledo, Stromboli e Il dormitorio delle adolescenti. Sarebbe più semplice scegliere una volta per tutte fra Rossellini e Decoin! 5a. Com’è noto Darryl F. Zanuck, che presiede ai destini della Twen tieth Century Fox, sovrintende lui stesso al montaggio dei film in Cinemascope prodotti dalla casa, tagliando qua e là ciò che gli dà fastidio. [6] Il Palais Bourbon è la sede dell’Assemblea Nazionale, il Parc des Princes è lo stadio di Parigi, «casa» della squadra Paris Saint Germain. [n.d.t.] [7] «C’è un tempo per la modestia, ma ce n’è anche uno per l’esagerazione. Gance schernito da una generazione di critici beffardi, noi ci proponiamo di riabilitarti. Il cinema oggi ha bisogno di ambizioni forsennate, di dismisura, di follia, di

sogni idioti, di ipertrofia del cervello, di orgoglio volontario, di esplosioni di coraggio, di sregolatezze gelide, tanto quanto di coscienza o di volontà di scelta. E allora smettiamola con la contemplazione dei grandi antenati, no?, e con le natiche tranquillamente installate sulla similpelle dei cineclub, scuole serali che non sono altro». Alexandre Astruc, in La Nef, novembre 1948.

DIFESA E ILLUSTRAZIONE DI UNA POLITICA

QUANDO UN UOMO… di Alexandre Astruc

Quando un uomo dopo trent’anni, e attraverso cinquanta film, racconta pressappoco sempre la stessa storia – quella di un’anima alle prese con il male – e mantiene lungo questa linea unica lo stesso stile fatto essenzialmente di una maniera esemplare di denudare i personaggi e di immergerli nell’universo astratto delle loro passioni, mi sembra difficile non ammettere che ci troviamo una volta tanto di fronte a un’autentica rarità, tutto sommato, in questa industria: un autore di film. Aggiungerò che mi capita, vedendo e rivedendo le opere di Alfred Hitchcock, di avvertire – a tratti – la stessa impressione che si prova leggendo autori come, mettiamo, Dostoevskij o Faulkner, di trovarsi in un universo al tempo stesso estetico e morale in cui il bianco e il nero, l’ombra e la luce, e perfino quell’arte comune al romanzo e al cinema che è la regia, esprimono, ancora più del racconto stesso, il segreto lacerante che i personaggi portano in fondo al cuore. (Apparso sul numero 39 dei Cahiers du cinéma, «Speciale Hitchcock», ottobre 1954)

IL CINEMA E IL SUO DOPPIO (IL LADRO DI ALFRED HITCHCOCK) di Jean-Luc Godard

Primo tempo. Lo Stork Club, si sa, è uno dei ritrovi più raffinati (sophisticated) di New York. Aria condizionata, odore di sigari avana, rossetti hi-fi… ma la macchina da presa, nella sala che si svuota in sovrimpressione sui titoli di testa, non inquadra né le dive nevrotiche, né i milionari a zonzo. Si avvicina poco a poco alla sobria orchestrina che stiracchia dei languidi blues. Lo Stork Club chiude. Christopher Balestrero[8] (Henry Fonda) pizzica un’ultima corda, ripone il suo contrabbasso, e uscendo augura la buona notte al portiere. In questo istante, grazie all’angolazione dalla quale è filmata la scena, si ha l’impressione che due poliziotti lo scortino. È un caso. I due lo superano e continuano il loro pattugliamento. Più che anticipare il futuro arresto di Balestrero, Hitchcock simboleggia con questa inquadratura il ruolo primordiale che la casualità riveste nel Ladro, segnando ogni secondo del film con la sua impronta inalterabile. Poco interessa al regista dell’Uomo che sapeva troppo la psicologia nel senso abituale della parola, ormai contano soltanto i voltafaccia del destino. Ancora prima dei titoli di testa, Hitch, giocando secondo le regole, ha del resto avvisato lealmente lo spettatore. Sotto un’illuminazione violentemente contrastata, si vedeva la sua sagoma corta e rotonda fare qualche passo, poi fermarsi. Una voce sorda, umile, si alzava: «Questo film non somiglia a nessuno degli altri miei film. Nessuna suspense. Nient’altro che la verità». Cerchiamo di leggere tra le righe. L’unica suspense del Ladro è quella della casualità stessa. Il soggetto di questo film più che nell’imprevisto degli avvenimenti sta nella loro probabilità. In ogni ripresa, ogni battuta, ogni

inquadratura, Hitchcock fa l’unica cosa da fare per la ragione un po’ paradossale ma perentoria che egli ha il diritto di fare qualsiasi cosa: «Que sera sera», poiché «What will be» has been.[9] Riprendiamo il nostro racconto. Balestrero, Manny per gli amici, prende la metropolitana per andare nei sobborghi a dormire il sonno del giusto. Strada facendo, annota sul giornale i risultati delle corse. Ogni tanto vi punta delle piccole somme, più per passare il tempo che per l’attrattiva del guadagno. A Rose, sua moglie (Vera Miles), che gli chiede perché, lui risponde che più dei cavalli gli interessa vedere quanto avrebbero potuto fargli perdere o vincere le scommesse che fa molto spesso a tempo perso, per il suo piacere personale, per il gusto del calcolo che, dice, lo riguarda in quanto musicista.[10] Notiamo incidentalmente che nessuna inquadratura del giornale in cui s’immerge Balestrero nella metropolitana è inutile. In tutta la sua carriera, Hitchcock non ha mai girato una sola inquadratura gratuita. Anche le inquadrature più insignificanti, alla fin fine, servono sempre all’intreccio e lo arricchiscono un po’, nello stesso modo in cui il piccolo «tocco» caro agli impressionisti arricchiva il quadro. Derivano il loro valore particolare solo dall’osservazione dell’insieme. In questo giornale, per esempio, vediamo la pubblicità di una marca di auto. Sappiamo così che Balestrero ha moglie e due figli, perché intorno all’auto vi sono una donna e due bambini che fanno sorridere il nostro modesto eroe. Altro esempio, ancora più probante: sul giornale c’è anche la pubblicità di una compagnia di assicurazioni. Questa inquadratura spiega come Balestrero possa pensare subito a chiedere un prestito su una polizza di assicurazione, quando avrà bisogno dei trecento dollari che Rose, sofferente per un dente del giudizio, gli chiede per pagare il dentista. Perciò alla fine della discussione con Rose, che è già a letto, abbiamo già diritto a uno dei cinque o sei ammirevoli primi piani che arricchiscono questo film di sprazzi degni più di Murnau che di Dreyer. Dopo essersi lamentata in modo discreto, dovremmo dire femminile, del suo mal di denti, Rose si lascia convincere volentieri di essere la moglie più affascinante del

mondo. Chiede a Manny di fare il bravo e di lasciarla dormire. Controcampo e lungo primo piano su Henry Fonda, lo sguardo perso nel vuoto, che riflette, che pensa, che è. A questo proposito, ritroveremo un analogo primo piano in una scena decisiva del penultimo rullo, dopo la visita psichiatrica diRose,[11] quando Balestrero deciderà di sistemare la moglie, impazzita, nella migliore clinica che ci sia. La bellezza di ognuno di questi primi piani, di questi sguardi attenti solo al trascorrere del tempo, nasce dall’intrusione del senso della necessità in quello del futile, dell’essenza nell’esistenza. La bellezza del volto di Henry Fonda, durante questo attimo straordinario che non finisce mai, è paragonabile a quella del giovane Alcibiade descritta da Platone nel Simposio. Ha come unica garanzia nient’altro che l’esatta verità. Ci troviamo nel dramma più rocambolesco perché siamo nel documentario più perfetto, più esemplare. Questi due primi piani non possono che terminare moralmente nello stesso modo. In quel caso Balestrero dichiara allo psichiatra: «Voglio il meglio per lei». Manny ama Rose tanto più in quanto lei ha dubitato della loro felicità terrena ed è impazzita a causa di questo, prova irrefutabile del loro amore reciproco. In questo caso, il primo piano termina con una panoramica su Fonda che si china a baciare Vera Miles nell’incavo della nuca. L’indomani mattina, mentre separa i figlioletti che bisticciano, Balestrero decide di andare a chiedere alla sua compagnia di assicurazioni quanto denaro può prendere in prestito sulla polizza di Rose. Ma, quando entra negli uffici, una segretaria crede di riconoscere in lui l’autore di una rapina, commessa diversi mesi prima ai danni della suddetta compagnia. Allertata, la polizia attende Manny davanti a casa e lo porta via per un interrogatorio senza dargli il tempo di avvertire Rose. Al commissariato, egli apprende di essere sospettato non di una sola, ma di diverse rapine presso i negozi del vicinato. Le somme rubate sono misere, 30, 45, 70 dollari. Ma la sensazione di un ingranaggio inesorabile è tanto più forte in quanto i poliziotti, i testimoni, l’ambiente, tutto resta un po’ scialbo, misero e bizzarro. Qui la sceneggiatura ritrova senza difficoltà quella naturalezza nell’invenzione che

costituisce il pregio di tutti i film di Griffith. Il banale processo di campo-controcampo riprende in conclusione la sua efficacia originaria grazie alla verità delle premesse dell’argomento. I cambi d’inquadratura sono semplicemente e unicamente condizionati dai movimenti degli sguardi. Così quando le due smorfiose della compagnia di assicurazioni dovranno riconoscere Balestrero, messo in fila con altri sospettati, un cineasta più maldestro, mentre contano: «uno, due, tre, quattro», avrebbe probabilmente fatto una carrellata laterale, alternando le ragazze e i poliziotti, e fermandosi ogni volta su Fonda, quarto nella fila degli accusati. Ma così avremmo avuto solo i punti di vista separati delle ragazze, degli ispettori e del falso colpevole. Hitchcock ci dà questi punti di vista riuniti. Non si vedono ma si sentono le ragazze che contano fino a quattro, la macchina da presa volta le spalle a Fonda e inquadra in campo lungo il commissario il cui sguardo si sposta per quattro volte di seguito. Anche inquadrare l’ispettore in primo piano sarebbe stato un errore, poiché non è il suo punto di vista che importa (il suo sguardo cambia direzione in modo professionale, senza intenzione malevola) bensì quello di Balestrero, che intuiamo spaventato proprio dallo sguardomeccanico del commissario. Prima di essere una lezione di morale, Il ladro è in ogni momento una lezione di regia. Nell’esempio che ho appena citato, Hitchcock ha saputo darci in una sola inquadratura l’equivalente di numerosi primi piani, con una forza che questi, separati, non avrebbero avuto. Ma soprattutto, e questo è l’importante, lo ha fatto consapevolmente, al momento giusto. Allo stesso modo saprà, quando occorre, fare l’inverso, e dare in alcuni veloci primi piani l’equivalente di un campo lungo. Il rilievo delle impronte digitali, moderno marchio d’infamia che un tempo il boia imprimeva con il ferro rovente sulla carne del criminale, questo segno infamante, Hitchcock ce lo fa provare in maniera terribile. Pollice, indice, medio anneriti, sguardi dell’ispettore, Fonda inebetito, torsione dei polsi quando le dita rotolano sul cartoncino: le inquadrature si accavallano l’una sull’altra, in un montaggio rapido e forsennato che ricorda Rapporto confidenziale di Welles. La

calma che segue, quando gli vengono svuotate le tasche prima che passi quella notte in prigione, fa solo risaltare meglio il vuoto morale e fisico in cui si trova Balestrero, a cui non resta altro che la forza di registrare, di vedere. Questo spiega come mai per trattare, immediatamente dopo, l’arrivo del falso colpevole nella sua cella, Hitchcock adoperi la tecnica più elementare. Quello che avrebbe potuto passare per una suprema civetteria da parte del più celebre virtuoso della macchina da presa non è altro, in effetti, che la prova della sua modestia. Questo evento vissuto, come Bresson, Hitchcock ce lo offre senza abbellimenti. Balestrero entra nella sua cella, guarda il letto: controcampo sul letto, il lavabo: controcampo sul lavabo, alza gli occhi: controcampo sull’angolo dei muri e del soffitto, guarda le sbarre: controcampo sulle sbarre. Capiamo a quel punto che Manny vede senza guardare (al contrario del tenente Fontaine) così come al processo sentirà senza ascoltare. Alfred Hitchcock, una volta di più, prova che il cinema, meglio della filosofia e del romanzo, è oggi in grado di mostrare i dati immediati della coscienza. Balestrero, stanco, si appoggia al muro, quasi ubriaco di vergogna. Chiude gli occhi molto forte, tentando, per lo spazio di un secondo, di riprendersi. Inquadrandolo in campo medio, la macchina da presa traccia allora dei cerchi sempre più rapidi intorno a lui, su un asse perpendicolare al muro a cui Fonda si è appoggiato. Questo movimento rotatorio serve da collegamento con l’inquadratura successiva che mostra, il mattino dopo, Balestrero condotto in tribunale, secondo la consuetudine americana, per l’udienza preliminare che determinerà se l’accusato ha diritto o no a un vero processo. Come spesso avviene, è nei collegamenti fra una sequenza e l’altra che Hitchcock analizza delle sensazioni, delle impressioni soggettive troppo marginali per trovare posto nel corso di una scena importante. Grazie a questo movimento di camera, arriva qui a rendere percepibile un tratto puramente fisico, la contrazione delle palpebre che Fonda abbassa, la forza con cui, per una frazione di secondo, rinserrano l’orbita dei suoi occhi, facendo passare nell’immaginazione sensoriale un vertiginoso caleidoscopio di astrazioni che solo un

movimento di macchina così stravagante poteva rendere con successo. Un film in cui ci fossero solo notazioni del genere sarebbe poca cosa, ma un film in cui abbondano in aggiunta al resto è tutto. Dopo La finestra sul cortile, Hitchcock moltiplica deliberatamente questo tipo di effetti «epidermici» e, se relega in secondo piano la trama dell’intrigo, è per meglio svelarne a tratti l’evidente bellezza. Queste notazioni neorealistiche non sono mai gratuite. Sono altrettanti precipitati di un corpo il cui carattere, per parafrasare La Bruyère, si rivela una volta immerso nel bagno chimico del mondo. Guardarsi intorno è vivere liberi. Il cinema, che riproduce la vita, deve perciò filmare dei personaggi che si guardano intorno. La tragedia di Christopher Emmanuel Balestrero è di non potersi più guardare intorno. E Hitchcock ha ragione di sostenere che Il ladro non è un film di suspense, come le sue produzioni precedenti, poiché ne è il rovescio. La suspense non deriva neanche più dal fatto che vediamo succedere quello che sapevamo sarebbe successo, come nell’Uomo che sapeva troppo, ma al contrario dal fatto che non accade quello che, in fin dei conti, avevamo temuto di veder accadere. Povero Clouzot che crede ancora a Fantomas,[12] quando nel Ladro l’orrore proviene dalla suspense stessa che agisce come fantasma. Ammiriamo a questo proposito l’inquadratura, ottimamente ripresa da Robert Burks, in cui il furgone cellulare che conduce Balestrero in tribunale attraversa un ponte sospeso: piccola silhouette nera, sobbalzante all’ombra degli immensi piloni di ferro, e che evoca stranamente la carretta di Nosferatu all’arrivo nel paese dei fantasmi. Manny, in effetti, non sa più bene chi, tra lui e gli altri, sta diventando un fantasma. Le rare inquadrature di strade che si susseguono prima che scorga di nuovo sua moglie in tribunale, quelle poche inquadrature passano, per lui e per noi, come un miraggio. Rose stessa è un miraggio. La si intravede vagamente in secondo piano mentre Balestrero si vede rifiutare la libertà provvisoria per non essere in grado di versare una cauzione di settemilacinquecento

dollari. In mezzo ad altri detenuti, viene trasportato nella grande prigione di Long Island in attesa di comparire davanti al procuratore distrettuale. Umiliato e offeso, questo potrebbe essere il sottotitolo dostoevskiano della seconda e della terza parte, che finisce con la nuova reclusione di Balestrero nella folla dei criminali comuni. Il brutto sogno è diventato realtà. In Io confesso, padre Logan si rifiutava di parlare. Nel Ladro, Balestrero arriva a dubitare perfino del linguaggio, per vergogna, poi per lucidità. Nell’universo concentrazionario in cui si trova catapultato, non guarda altro che i piedi di chi cammina davanti a lui. Qui Hitchcock riprende il procedimento con il campo in carrellata indietro e il controcampo in carrellata avanti utilizzato nell’ultima scena di Io confesso, quando Montgomery Clift avanza verso O.E. Hasse. Possiamo rimproverarglielo? No, poiché, nello stesso modo, nella scena in cui la vicedirettrice della compagnia di assicurazioni guarda Henry Fonda al di sopra della spalla di una dattilografa, avevamo ritrovato un effetto già utilizzato in Io confesso, quando Karl Malden spia, al di sopra della spalla di un subordinato, Anne Baxter che chiacchiera con Montgomery Clift. Anche un altro effetto, utilizzato stavolta nell’Uomo che sapeva troppo, la carrellata laterale in primo piano sulle note della musica, viene qui ripreso quando Manny, al commissariato, rilegge il biglietto che gli ispettori gli hanno dettato e si accorge di aver commesso lo stesso errore di ortografia del vero colpevole. Facciamo notare tuttavia che questi tre effetti sono utilizzati nel Ladro in momenti meno decisivi che nei film precedenti, e che mentre nel secondo caso servivano a rafforzare l’impatto, nel primo occupano un posto più modesto.[13] Questa è senz’altro la migliore prova che Hitch riprende un procedimento solo con perfetta cognizione di causa e di effetto. Delle sue trovate più grandi, si serve oggi a titolo di conclusione e non più di postulato estetico. Così, l’uso di un piano sequenza non è mai stato meglio giustificato che nella scena della seconda reclusione, quando, ripreso di schiena, Manny entra nella sua cella: la porta di

ferro scivola dietro di lui e ostruisce il campo della macchina da presa che viene avanti e inquadra il nostro falso colpevole attraverso l’apertura dello spioncino. Passa qualche minuto. Manny, più morto che vivo, appare completamente amorfo. Allora si sente, fuori campo, gridare sempre più forte: «Balestrero, Balestrero!» Manny si volta verso la macchina da presa che indietreggia inquadrando nuovamente la porta e gli occhi di Manny attraverso lo spioncino in formato cinemascope. Questa inquadratura riprende quella in cui Manny, appena arrestato, seduto tra i due ispettori, vedeva nel retrovisore della Chevrolet gli occhi del guidatore che lo fissavano. La riprende, ma capovolgendone il significato. La macchina da presa indietreggia davanti a Manny dopo averlo spinto nella cella. Si compie un primo miracolo. Il film si ribalta completamente. Quarta parte. Manny viene messo in libertà provvisoria. La cauzione è stata versata da suo cognato che lo aspetta fuori con Rose, che diventerà il personaggio principale del resto del film. E Hitchcock ce lo dimostra in una sola inquadratura. Mentre Balestrero rivede i suoi figli, Rose telefona a un avvocato. Il regista indugia a lungo su questa telefonata. Inutilmente, sembra. E invece no. In effetti è in questa inquadratura che ritroviamo il famoso tema del transfert di colpevolezza tanto caro all’autore di Delitto per delitto. Nel Ladro, il transfert non consiste nell’assunzione da parte del falso colpevole del delitto commesso dal colpevole vero, ma dello scambio della libertà di Manny per quella di Rose. A falsa colpevolezza, falso transfert. O meglio: transfert dell’innocenza. Il falso colpevole diventa la falsa colpevole: Hitchcock, non dimentichiamolo, è più di chiunque altro il cineasta della coppia. L’innocenza di Rose è colta qui nel suo originario senso d’ingenuità. Rose ha l’innocenza di credersi colpevole per aver dubitato per un attimo dell’innocenza di Manny, anzi per ancor meno: per aver creduto possibile dubitarne. Verrà punita per aver soltanto temuto la probabilità di un avvenimento che non si verifica, probabilità che non

aveva affatto bisogno di temere, dal momento che ama suo marito. L’ingenuità più schietta rivela a volte i sentimenti più fragili. L’innocenza di Rose, la sua stupidità quasi, sarà la sola causa della sua improvvisa follia. Ricordiamo la scena in cui, inquieta per l’assenza di Balestrero, veniva a conoscenza, grazie a una telefonata della polizia, dei sospetti che pesavano su di lui. Rose, allora, dava questa prima e curiosa risposta: «Ero sicura che fosse qualcosa del genere». Dice proprio quello che è a mille miglia dal pensare, quello che addirittura non penserà mai. Ma il solo fatto di averlo detto basta a farla dubitare di se stessa. L’animo più infantile è anche il più orgoglioso. Rose dovrà pagare con la sua follia la sua folle incongruenza di linguaggio. Goethe e Balzac ci hanno descritto eroine simili, che trovano nella spaventosa logica della loro passione prima la causa e poi l’alimento naturale della loro autodistruzione fisica.[14] Odile o Honorine moderna, Rose aiuta con tutte le sue forze Manny a trovare gli alibi di cui vuole servirsi il loro avvocato. Essendo in vacanza all’epoca delle rapine, cercano le persone con cui giocavano a carte e riusciranno così a confutare le testimonianze a carico. Purtroppo Rose, nel corso dell’inchiesta, inizia a convincersi suo malgrado di stare aiutando il marito non tanto per un moto naturale del cuore quanto per dovere. La quarta parte finisce con l’esplosione in pieno giorno di questa scoperta che tormentava Rose solo interiormente. Manny viene a sapere che il suo ultimo testimone è morto. Rose allora scoppia in una risata isterica. Colpo di scena? No. Come scrive Aristotele: è verosimile che molte cose avvengano contro la verosimiglianza. Se Rose impazzisce di rimorso, questo succede perché è logico che la pazzia avvenga contro la logica. Ogni sequenza decisiva del Ladro, in effetti, ha il suo corrispondente, il suo doppio, che la giustifica sul piano dei fatti mentre allo stesso tempo ne raddoppia l’intensità sul piano drammatico.[15] La risata di Rose fa eco a quella delle ragazzine che abitano ora nell’appartamento di uno dei

testimoni scomparsi. La scenata in cui Rose colpisce Balestrero è il doppio, il negativo, di quella in cui, all’inizio del film, lei aveva scherzosamente espresso un leggero dubbio sulla probabilità che avevano di essere felici in questo mondo. All’arbitrarietà della situazione corrisponde ovviamente l’arbitrarietà della messa in scena. Il colpo di spazzola che colpisce Fonda alla testa è trattato in quattro inquadrature rapidissime nelle quali si vede solo la partenza e l’arrivo del gesto: Rose e la spazzola, Fonda, lo specchio rotto, la testa ferita di Fonda… Questo montaggio è quasi quello del Ballet mécanique.[16] Ma gli dà, singolarmente, un nuovo lustro. Meglio: Hitchcock ci dimostra che una trovata tecnica è inutile se non è anche una conquista formale nel cui crogiolo formerà quella fusione che si chiama stile. E alla domanda «Che cos’è l’arte?» Malraux ha già risposto appunto: «Ciò mediante cui le forme divengono stile». Quinta e ultima parte. Primo piano del rosario che Balestrero sgrana sotto il tavolo mentre O’Connor, il suo avvocato, alla maniera di Perry Mason, si sforza di fare in modo che i testimoni dell’accusa si contraddicano.[17] A forza di fare il furbo sui dettagli, riesce a ottenere il suo scopo. Esasperato dalla discussione, uno dei membri della giuria si alza e chiede al giudice di far cessare questi maneggi stupidi. O’Connor coglie la palla al balzo e invoca subito un vizio di procedura per chiedere il rinvio del processo. Riesce ad averla vinta. Segno foriero del secondo miracolo. Sempre in libertà provvisoria Manny ritorna a casa. Sua madre bada alla casa in assenza di Rose che è in clinica. Egli si rammarica che il processo sia stato rinviato. La sua falsa colpevolezza gli pesa più che se fosse vera. Tuttavia, dice a sua madre, ha pregato Dio di aiutarlo. A Dio non bisogna chiedere aiuto, gli risponde lei, ma forza. Nella sua stanza, vestendosi per andare allo Stork Club, Manny riflette su quest’ultima frase: chiedere a Dio la forza. Primo piano di Fonda che si annoda la cravatta. Primo piano di un quadro che rappresenta Cristo. Nuovo primo piano di Fonda che guarda il quadro, quindi inizio di una sovrimpressione: dietro il volto di

Fonda compare l’inquadratura di una strada con un uomo in impermeabile e cappello floscio che avanza verso la macchina da presa finché non è inquadrato anch’egli in primo piano. I suoi lineamenti vanno a coincidere con quelli di Fonda, il suo mento sembra fondersi con quello di Fonda, le narici con quelle del naso di Fonda… ma no, la sovrimpressione svanisce. E ci troviamo davanti agli occhi il vero colpevole, sul quale la macchina da presa effettua una panoramica mentre sta andando appunto a tentare un’altra rapina. La transizione, qui, non è più la cerniera con cui si articola il racconto, ma la molla del dramma di cui parafrasa il soggetto. Il vero colpevole, arrestato grazie al sangue freddo di una commerciante, è a sua volta preso in consegna dalla polizia che lo trasporta al commissariato. L’ispettore che aveva interrogato Manny incrocia l’individuo nel corridoio, esce dal commissariato, fa pochi passi, si ferma, e capiamo che ha capito che Balestrero è innocente. «Ok, Manny?», gli chiede dopo averlo fatto rintracciare. «Ok!», risponde Fonda con un sorriso stupendo. L’ultima scena del film mostra Balestrero in clinica. Malgrado la buona notizia, Rose è ben lontana dalla guarigione. «Speravo in un miracolo», dice Manny, deluso. «I miracoli esistono», gli risponde una graziosa infermiera, «bisogna saper aspettare». Due anni più tardi, a mo’ di epilogo, veniamo a sapere che Rose, guarita, trascorre di nuovo giorni felici con la sua famiglia. A voi la conclusione. (Apparso sul numero 72 dei Cahiers du cinéma, giugno 1972) [8] Nella versione italiana del film il nome del protagonista è americanizzato in Ballister. [n.d.t.] [9] «“Che sarà, sarà”, perché “Quello che sarà” è stato»; Godard parafrasa i versi della canzone «Que sera, sera», cantata da Doris Day nell’Uomo che sapeva troppo. [n.d.t.] [10] Il personaggio di Henry Fonda ricorda quello del reporter nella Finestra sul cortile per quella sorta di pigrizia, e per il «dilettantismo» tipico dei piccoli borghesi che scimmiottavano i detective dei romanzi polizieschi nell’Ombra del dubbio.

[11] Hitchcock tratta questa scena in modo meno satirico di quanto faccia Rossellini con quella, identica, di Europa ’51, nella quale Ingrid Bergman rifiuta di rispondere allo psicanalista. [12] Il riferimento è a Henri-Georges Clouzot, regista di noir e film di suspense (Vite vendute, 1953; I diabolici, 1954) poco amato dalla Nouvelle Vague per il suo «accademismo». [n.d.t.] [13] Allo stesso modo, l’immensa carrellata in avanti su cui si chiudeva Giovane e innocente veniva ripresa in Notorious, ma a metà del film. [14] Il personaggio di Vera Miles ricorda qui, in modo molto più caricato, quello di Ingrid Bergman in Notorious e nel Peccato di Lady Considine. [15] Citiamo alla rinfusa: i due periodi di reclusione; i due test di scrittura al commissariato; le due discussioni con Rose in cucina; le due sentenze; a parte i titoli di testa, lo Stork Club riappare due volte; Manny va due volte in clinica, due volte dall’avvocato, due volte con due funzionari di polizia in due negozi per farsi riconoscere; lo spioncino che ripete lo specchietto retrovisore; la compagnia di assicurazioni è nello stesso edificio dello studio dell’avvocato; i due miracoli operati sul volto di Fonda; la colonna sonora di Herrmann è costituita partendo da due note, e così via. [16] Cortometraggio di Fernand Léger (1914). [n.d.t.] [17] La dimostrazione di questa manovra dell’intelligente avvocato è che una delle segretarie, secondo testimone citato, commette involontariamente un errore; quando le viene chiesto di indicare Fonda, seduto, dice: «È quello in piedi, laggiù». O’Connor cerca di moltiplicare questo genere di gaffe involontarie dei testimoni.

LETTERA SU ROSSELLINI di Jacques Rivette

L’ordinamento protegge. L’ordine regna. Charles Péguy

Lei non stima affatto Rossellini; mi dicono che non le piace Viaggio in Italia; tutto sembrerebbe a posto. Invece no: il suo rifiuto non è sicuro al punto da non farle cercare il parere dei rosselliniani; questi la infastidiscono, le riescono molesti, come se lei non avesse la coscienza a posto riguardo ai suoi gusti. Che procedimento strano! Ma abbandoniamo questo tono scherzoso. Sì, io ammiro tutta l’opera e specialmente l’ultimo film di Rossellini (o per lo meno l’ultimo che abbiamo visto). Per quali motivi? Ah, ecco che diventa subito più difficile; non posso invocare davanti a lei il trasporto, l’emozione, la gioia: sono linguaggi che lei non ammette assolutamente come prova; spero per lo meno che li comprenda. (E se no, che Dio la aiuti.) Ancora una volta, cambiamo tono per farle piacere. La maestria, la libertà, ecco le parole che lei può capire; poiché qui abbiamo proprio il film in cui Rossellini afferma meglio la sua maestria e, come in ogni arte, attraverso il più libero esercizio dei suoi mezzi: ma su questo tornerò poi. Ho da dire qualcosa di meglio, e che le dovrebbe interessare di più: se esiste un cinema moderno, eccolo qua. Ma lei ha ancora bisogno di prove. 1. Se giudico Rossellini il cineasta più moderno, non lo faccio senza ragione; ma neppure con ragione. Mi sembra impossibile vedere Viaggio in Italia senza avvertire con forza un dato evidente: che questo film apre una breccia, e che il cinema intero ci deve passare attraverso, pena la vita. (Sì, ormai non c’è altra via di salvezza per il nostro disgraziato

cinema francese che una buona trasfusione di questo sangue giovane.) È soltanto, si capisce, un’impressione personale. E vorrei prevenire subito un equivoco: ci sono altre opere, altri autori che senza dubbio sono non meno grandi; ma, come dire, sono meno esemplari: intendo, arrivati a un determinato punto della carriera, la loro creazione sembra chiudersi in se stessa, quello che fanno vale solo grazie a lei e all’interno delle sue prospettive. Ed ecco certamente la fine dell’arte, che non rende più conto ad altri che a se stessa e che, superati i tentativi e le ricerche, scoraggia i discepoli isolando i maestri: il loro dominio muore con loro, come le leggi, i metodi in esso vigenti. Lei ha stima di Renoir, di Hawks, di Lang e, in un certo qual modo, di Hitchcock; La carrozza d’oro può dare origine a copie confuse, ma non può far nascere una scuola; le prime sono possibili solo grazie alla presunzione e all’ignoranza, e i veri segreti sono nascosti così bene in un gioco di scatole cinesi che per scoprirli ci vorrebbero senza dubbio tanti anni quanti ne conta adesso la carriera di Renoir; e si confondono con i mutamenti e i progressi che un’intelligenza creativa eccezionalmente curiosa ed esigente ha operato da trent’anni a questa parte. L’opera giovanile, o della prima maturità, conserva nel suo slancio, nei suoi balzi, l’immagine dei movimenti della vita quotidiana. Attraversata da un’altra corrente, è legata al periodo in cui nasce e ha difficoltà a distaccarsene. Ma il segreto della Carrozza d’oro sta nella sua creazione, e nei problemi, nelle prove, nelle scommesse che il creatore si pone per completare un oggetto e dargli l’autonomia e la raffinatezza di un mondo ancora inesplorato. Quale esempio migliore, per descriverla, se non quello di un lavoro ostinato e discreto, che alla fine cancella ogni traccia del suo passaggio? Ma che cosa potranno mai ricordare pittori o musicisti delle ultime opere di Poussin o di Picasso, di Mozart o di Stravinskij, se non una disperazione salutare? Si può pensare che anche Rossellini salirà (e si abituerà) a questo puro punto[18] in uno o due lustri; non c’è ancora arrivato, per fortuna, osiamo dire; è ancora tempo di seguirlo,

prima che in lui stesso si stabilisca a sua volta l’eternità; mentre l’uomo d’azione vive ancora dentro l’artista. 2. Moderno, ho affermato: fin dai primi minuti di proiezione di Viaggio in Italia, un nome, che sembrerebbe non avere nulla a che vedere con lui, mi ha assillato la mente senza sosta: Matisse. Ogni immagine, ogni movimento confermava dentro di me la parentela segreta del pittore e del cineasta. Questo è più semplice esprimerlo che dimostrarlo; voglio tuttavia arrischiarmi a farlo, ma temo che le mie prime ragioni le sembreranno molto frivole, e quelle successive oscure o speciose. Basta anzitutto vedere: per tutta la durata della prima parte, constati questo gusto per le grandi superfici bianche, appena ravvivate da un tratto netto, da un dettaglio quasi decorativo. Se la casa è nuova e di aspetto modernissimo è certo che Rossellini si sofferma prima di tutto sulle cose contemporanee, sulla forma più recente del nostro stile di vita e dei nostri costumi; è anche per semplice godimento visivo. Questo può sorprendere da parte di un realista (e anche neorealista); perché, buon Dio? Realista, anche Matisse lo è, che io sappia: l’economia di una materia agile, il fascino della pagina bianca e solcata da un solo segno, della zona vergine aperta all’invenzione del tratto giusto, tutto questo mi sembra un realismo migliore di quanto non siano i sovraccarichi, le smorfie, l’oleografismo pseudo-russo di Miracolo a Milano; tutto questo, lungi dal danneggiare l’intento del cineasta, gli dà un accento nuovo, attuale, che ci raggiunge nella nostra sensibilità più recente e più viva; tutto questo colpisce l’uomo moderno che è in noi, e testimonia già la nostra epoca con altrettanta precisione di quanto faccia la narrazione; tutto questo parla già del brav’uomo del 1953 o del 1954: è già il soggetto. 3. Sulla tela, una curva volitiva contorna senza immobilizzarlo il colore più vivo; una linea spezzata, eppure unica, circonda una materia miracolosamente viva, quasi colta intatta alla sua origine. Sullo schermo, una lunga parabola, agile e precisa, guida e trattiene ciascuna sequenza, poi si richiude su di essa

con esattezza. Pensi a un film qualsiasi di Rossellini: ogni scena, ogni episodio le torneranno in mente non come una successione di campi e di inquadrature, un susseguirsi più o meno armonioso di immagini più o meno splendenti, ma come un’ampia frase melodica, un arabesco continuo, un solo tratto implacabile che conduce con sicurezza gli esseri verso ciò che loro ancora ignorano e che racchiude nella sua traiettoria un universo fremente e definitivo; che sia un frammento di Paisa’, un fioretto di Francesco giullare di Dio, una «stazione» di Europa ’51, o anche l’insieme di questi film, la sinfonia in tre movimenti di Germania anno zero, la linea ascendente ostinata del Miracolo[19] o di Stromboli (le metafore musicali vengono spontanee come quelle pittoriche), lo sguardo instancabile della macchina da presa recita sempre la parte della matita, un disegno temporale procede sotto i nostri occhi (ma stiamo tranquilli: niente sequenze al rallentatore che pretendano di istruirci scomponendo apposta per noi l’ispirazione del Maestro); viviamo secondo la sua evoluzione fino alla sfumatura finale, fino a che l’immagine si perde nel tempo così come era spuntata dal biancore della tela. Ci sono i film che cominciano e che finiscono, che hanno un principio e una fine, che conducono la narrazione dal suo primo momento fino a che tutto rientra nell’ordine e nella quiete, con dei morti, un matrimonio o la verità; ci sono Hawks, Hitchcock, Murnau, Ray, Griffith. E ci sono i film che non hanno niente di tutto questo, e tornano al tempo come i fiumi al mare; e che ci suggeriscono alla fine solo le immagini più banali: fiumi che scorrono, folle, eserciti, ombre che passano, sipari che calano all’infinito, una fanciulla che danza fino alla fine dei tempi; ci sono Renoir e Rossellini. Sta a noi quindi prolungare in silenzio questo movimento ridiventato segreto, questa curva dissimulata, rientrata sotto terra: non abbiamo ancora finito con lei. (Naturalmente, tutto questo è arbitrario, e lei ha ragione: anche i primi si prolungano, ma in maniera del tutto diversa, mi sembra; soddisfano lo spirito, i loro vortici ci alleviano, mentre gli altri ci caricano e ci appesantiscono. Ecco che cosa volevo dire.)

E ci sono i film che raggiungono il tempo in una immobilità mantenuta dolorosamente; che si esauriscono nella posizione pericolosa su una cima come irrespirabile; così è Il miracolo, così è Europa ’51. 4. È troppo presto per simili slanci? Un po’ troppo presto, temo; torniamo dunque sulla terra e, poiché lo desidera, parliamo di inquadrature: ma in questo squilibrio, in questa distanza dai centri di gravità abituali, in questa apparente incertezza, che la turbano così tanto nell’intimo, mi permetta di ritrovare ancora la stessa impronta, l’asimmetrismo di Matisse, la «stonatura» magistrale della composizione, placidamente decentrata, che turba anche il primo colpo d’occhio e solo in seguito rivela il suo equilibrio segreto, nel quale i valori giocano un ruolo tanto quanto le linee; e che dà a ogni dipinto un movimento discreto, come qui in ogni momento un dinamismo trattenuto, l’inclinazione profonda di tutti gli elementi, tutte le curve e i volumi di un dato istante verso il nuovo equilibrio, il nuovo squilibrio del prossimo secondo verso quello successivo; tanto che potremmo, usando una dotta perifrasi, chiamarla l’arte del successivo nella composizione (o meglio, della composizione successiva), che, al contrario di tutte le ricerche statiche che soffocano il cinema da più di trent’anni, mi sembra, a ben vedere, la sola invenzione plastica permessa al cineasta. 5. Non insisto più: ogni parallelo diventa presto fastidioso, e temo che questo sia già durato troppo; e poi chi si può convincere quando colui che verifica è anche colui che ha appena formulato l’ipotesi? Mi permetta solo un’ultima osservazione, sul Tratto: la grazia e la goffaggine indissolubilmente legate. Salutiamo in entrambi gli artisti una grazia giovane, brusca e legnosa, goffa eppure di una spigliatezza sconcertante, ai miei occhi la stessa dell’adolescenza, dell’età ingrata, in cui i gesti più sconvolgenti, più riusciti scaturiscono dalla sorpresa di un corpo impacciato da un acuto disagio. Matisse e Rossellini affermano la libertà dell’artista, ma non si lasci trarre in

inganno: una libertà vigilata, costruita, in cui l’architettura primaria si dissolve alla fine nell’accenno. Poiché occorre aggiungere questo tratto, che riassumerà tutti gli altri: il senso comune dell’abbozzo. L’accenno più autentico, più dettagliato del dettaglio, e la copia più minuziosa, la sistemazione più autentica della composizione, ecco i miracoli nei quali risplende la verità sovrana dell’invenzione, dell’idea madre che deve solo comparire per regnare, tracciata sommariamente a grandi linee essenziali, maldestre e frettolose, ma che riassumono venti studi particolareggiati. Giacché è proprio in questi film rapidi, improvvisati con mezzi di fortuna e girati in mezzo alla confusione che spesso l’immagine diventa evocatrice, che si trova il solo quadro fedele del nostro tempo; e anche questo tempo è un abbozzo. Come non riconoscere all’improvviso l’aspetto fondamentalmente accennato, mal composto, incompiuto della nostra esistenza quotidiana; questi gruppi arbitrari, queste riunioni tutte teoriche di esseri rosi dal fastidio e dalla stanchezza, come li riconosciamo, quanto sono l’immagine irrefutabile, accusatrice, delle nostre società eteroclite, senza armonia, discordanti. Europa ’51, Germania anno zero, e questo film che potrebbe intitolarsi Italia ’53 così come Paisa’ era già Italia ’44, ecco il nostro specchio, che non ci lusinga affatto; speriamo ancora che questo tempo, fedele a sua volta all’immagine di questi film fraterni, si orienti in segreto verso un ordine profondo, verso una verità che gli darà senso e giustificherà alla fine tanto disordine e tanta fretta confusa. 6. Ah, ecco che la faccenda diventa inquietante: l’autore si tradisce; sento già bisbigliare: campanilismo, fanatismo, intolleranza. Ma questa libertà famosa e tanto proclamata, questa libertà di espressione, ma anzitutto libertà di esprimere tutto di sé, chi la spinge più lontano? Fino alla sfacciataggine, esclamano allora; perché la cosa più strana è che ci sono ancora quelli che se ne lamentano, e sono proprio quelli che la rivendicano con maggior clamore (per quali scopi? la liberazione dell’uomo? va bene, ma da quali catene? che

l’uomo sia libero, è quello che impariamo al catechismo; è quello che mostra con semplicità Rossellini; e il suo cinismo è quello della grande arte). Il nostro amico M. dice con garbo: «Viaggio in Italia è come gli Essais di Montaigne»; sembra che non sia un complimento; mi permetta di giudicare diversamente, e di meravigliarmi insomma che il nostro secolo, che non si lascia turbare più da niente, finga di scandalizzarsi perché un cineasta osa parlare di sé senza forzatura; è vero che i film di Rossellini sono sempre più regolarmente film amatoriali, film familiari; Giovanna d’Arco al rogo non è una trasposizione cinematografica del celebre oratorio, ma il semplice film-ricordo di una rappresentazione di quest’ultimo interpretata da sua moglie, come La voce umana era anzitutto la registrazione di una performance di Anna Magnani (il fatto più strano è che Giovanna al rogo, come La voce umana, è tuttavia un vero film, in cui l’emozione non ha nulla di teatrale; ma questo ci porterebbe lontano). Così l’episodio di Siamo donne non è altro che il racconto di una giornata della stessa Ingrid Bergman; così Viaggio in Italia offre una lieve trasparenza, e George Sanders un volto che non dissimula affatto quello stesso del regista (un po’ sbiadito, senza dubbio, ma è per umiltà). Ecco che Rossellini non filma più soltanto le sue idee, come in Stromboli o in Europa ’51, ma la sua vita più quotidiana; questa vita però è «esemplare», nell’accezione più goethiana: che in essa tutto sia insegnamento; e tutto sia anche errore; e l’esposizione di un pomeriggio movimentato della signora Rossellini non è più frivola, in questo contesto, del lungo racconto che ci fa Eckermann di quella bella giornata del primo maggio 1825 in cui lui e Goethe si esercitarono nel tiro con l’arco. Ed ecco il suo paese, la sua città; ma un paese privilegiato, una città eccezionale, che conserva intatte l’innocenza e la fede, che vive a proprio agio nell’eternità; una città provvidenziale. Ed ecco allo stesso tempo il segreto di Rossellini, che è quello di muoversi, con una libertà continua e con un solo semplice movimento, nell’eternità visibile: il mondo dell’incarnazione. Ma che il genio di Rossellini sia possibile solo nel cristianesimo, questo è un punto su cui non

insisterò, poiché Maurice Schérer, meglio di quanto non sappia fare io, lo ha già sviluppato in una rivista, i Cahiers du cinéma, se ben ricordo. 7. Una tale libertà, completa, stravagante, in cui la licenza estrema non va mai a discapito del rigore interiore, è una libertà conquistata; per meglio dire, meritata. Questa idea di merito è troppo nuova, temo, e sorprendente per essere chiara; e poi, meritata in che modo? A forza di meditazione, di approfondimento di un pensiero o di un’armonia centrale; a forza di radicamento di quel germe predestinato nella terra concreta che è anche la terra intellettuale («che è identica alla terra spirituale»); a forza di ostinazione, che autorizza ogni abbandono ai rischi della creazione, e vi spinge anche il nostro disgraziato autore; ancora una volta, l’idea è diventata carne, l’opera, la verità futura sono diventate la vita stessa dell’artista, che ormai non può fare più nulla che evada da questo polo, da questo punto magnetico. E ho paura che ormai anche noi non possiamo più uscire da questo circolo a cui tutto si riconduce, da questo ritornello di base ripreso in coro: che il corpo è anima, l’altro è me stesso, l’oggetto è verità e messaggio; eccoci presi anche noi in questo luogo dove il passaggio da un’inquadratura all’altra è perpetuo e infinitamente reciproco; in cui gli arabeschi di Matisse non sono solo legati invisibilmente al loro focolaio, non lo raffigurano soltanto, ma sono il fuoco stesso. 8. Questa posizione ha delle strane ricompense; ma mi permetta ancora una deviazione, che come tutte le deviazioni avrà il vantaggio di condurci più rapidamente dove voglio condurla. (E poi diventa ovvio che non cerco di tenere un ragionamento ininterrotto, ma che mi ostino piuttosto a ripetere la stessa cosa in maniere diverse; ad affermarla in registri diversi.) Ho già parlato poco fa dello sguardo di Rossellini; l’ho anche, credo, paragonato un po’ in fretta alla matita ostinata di Matisse; non importa, non si può insistere troppo sull’occhio del cineasta (e chi dubita che non risieda anzitutto là il suo genio?), e soprattutto sulla sua singolarità; ah, non si tratta affatto di Cine-occhio, di obiettività

documentaria e di altre sciocchezze simili; vorrei farle toccare (con mano) i veri poteri di questo sguardo: che non è forse il più sottile, come quello di Renoir, né il più acuto, come quello di Hitchcock, ma il più attivo; e nemmeno si sofferma su qualche trasfigurazione delle apparenze, come quello di Welles, né sulla loro condensazione, come quello di Murnau, ma sulla loro cattura; una caccia di ogni istante, in ogni istante rischiosa, una ricerca corporale (e quindi spirituale; una ricerca dello spirito fatta dal corpo), un movimento incessante di presa e d’inseguimento che conferisce all’immagine un non so che di vittorioso e insieme d’inquieto: l’accento stesso della conquista. (Ma ascolti, la prego, che cosa c’è di diverso in questo: non è una conquista pagana, non sono le prodezze di un generale miscredente; lo sente quanto c’è di fraterno in questa parola, e di quale conquista si tratta? quanto vi si insinuano l’umiltà e la carità?) 9. Poiché «ho fatto una scoperta»: c’è un’estetica della televisione; non ridete, non è questa, ovviamente, la mia scoperta; e ciò che è questa estetica (ciò che comincia a essere), l’ho scoperto solo poco tempo fa in un articolo di André Bazin che lei ha letto come me nel numero a colori dei Cahiers du cinéma (ottima rivista, decisamente); ma ecco quello che ho visto: che i film di Rossellini, per quanto su pellicola, sono anche loro sottomessi a questa estetica della diretta, con tutto ciò che comporta in termini di azzardo, di tensione, di caso e di provvidenza (ed è già una prima spiegazione del mistero di Giovanna al rogo, in cui ogni cambiamento d’inquadratura sembra correre gli stessi rischi e provoca la stessa angoscia di ogni cambiamento di macchina da presa). Ed eccoci, questa volta per mezzo del film, celati nell’ombra, con il fiato sospeso e lo sguardo puntato sullo schermo che ci accorda finalmente questi privilegi: spiare il nostro prossimo con l’indiscrezione più sconveniente, violare impunemente l’intimità fisica degli individui, sottoposti senza saperlo alla nostra sorveglianza appassionata; e allo stesso tempo, la violazione immediata dell’anima. Ma bisogna, come giusto castigo, subire immediatamente l’angoscia dell’attesa, l’idea fissa di quello che verrà dopo; il peso del tempo dato

improvvisamente a ogni gesto; non si sa che cosa sta per succedere, quando, come; s’intuisce l’evento, ma senza vederlo progredire; tutto accade per combinazione, subito inevitabile; il sentimento stesso dell’avvenire, nella trama impassibile di ciò che dura. Ecco qui, lei dirà, dei film da voyeur? Piuttosto da veggente. 10. Ecco, ho usato un termine pericoloso, al quale sono state fatte dire un sacco di sciocchezze, e che non mi piace affatto scrivere; le occorre ancora una definizione. Ma come chiamare in altro modo questa facoltà di vedere attraverso gli esseri e le cose l’anima o l’idea che si portano dentro, questo privilegio di raggiungere attraverso le apparenze il doppio che le fa esistere? (Rossellini sarebbe platonico? Perché no? Pensava anche di girare Socrate.) Perché mentre la proiezione seguiva il suo corso, non era più a Matisse che pensavo, ma, mi scusi, a Goethe: all’arte di unire anzitutto col pensiero l’idea alla materia, di confonderla con il suo oggetto mediante le virtù della meditazione; ma chi descrive l’oggetto ad alta voce dà subito un nome all’idea per tramite suo. Naturalmente per fare questo occorrono diverse condizioni: e non solo quella concentrazione primaria, quella macerazione intima del reale che sono il segreto dell’artista e alle quali noi non abbiamo accesso; e del resto non ci riguardano. Occorre anche la nitidezza nella presentazione di questo oggetto, segretamente gravido; la lucidità e la franchezza (la famosa «descrizione oggettiva» di Goethe). Questo ancora non basta; è qui che entra in gioco l’ordinamento, no, l’ordine stesso, cuore della creazione, disegno del creatore; quella che viene chiamata modestamente in linguaggio professionale la costruzione (e che non ha nulla a che vedere con l’assemblaggio, tanto in voga, che ubbidisce ad altre leggi); l’ordine insomma, che, dando un posto a seconda dei meriti a ogni cosa che appare, nell’illusione della loro semplice successione, obbliga la mente a concepire un’altra legge diversa dal caso dietro il loro sobrio apparire. Questo il racconto, film o romanzo, quando è grande, lo sa già; i romanzieri, i registi, da molto tempo, Stendhal e Renoir,

Hawks e Balzac, sanno fare della costruzione il segreto del loro lavoro. Il cinema tuttavia è sempre rifuggito dal «saggio» (riprendo il termine usato da A.M.) e ha rinnegato i suoi sventurati franchi tiratori, Intolerance, La regola del gioco, Quarto potere. C’è stato Il fiume, primo poema didattico: c’è adesso Viaggio in Italia, che, con una nitidezza perfetta, offre finalmente al cinema, finora costretto al racconto, le possibilità del saggio. 11. Il saggio, da più di cinquant’anni, è la lingua stessa dell’arte moderna; è la libertà, l’inquietudine, la ricerca, la spontaneità; ha poco a poco (con Gide, Proust, Valéry, Chardonne, Audiberti) schiacciato il romanzo; da Manet e Degas in poi regna sulla pittura, e le dà il suo incedere passionale, lo stile della ricerca e dell’approccio. Ma lei ricorderà quel gruppo tanto simpatico che, qualche anno fa, si era dato non so più quale numero come obiettivo, e che reclamava senza sosta la «liberazione» del cinema; stia tranquillo, una volta tanto non si trattava del progresso dell’uomo; semplicemente si augurava alla settima arte di respirare un po’ di quell’aria più leggera in cui fiorirono i suoi avi; tutto era dettato da nobili sentimenti. A quanto pare, tuttavia, alcuni dei sopravvissuti non apprezzano affatto Viaggio in Italia; sembra incredibile. Poiché qui abbiamo un film che è al tempo stesso quasi tutto ciò che essi invocavano nelle loro raccomandazioni: saggio metafisico, confessione, giornale di viaggio, diario intimo… e non lo hanno riconosciuto. È una storia edificante che ci tenevo a raccontarle per intero. 12. Vedo per questo una sola ragione; temo proprio di essere cattivo (ma la cattiveria sembra di moda): è la paura morbosa del genio che regna in questo periodo. Vanno di moda la sottigliezza, le raffinatezze, i giochi da principi dell’intelletto; Rossellini non è sottile, ma prodigiosamente semplice. Così anche la letteratura: chi sa imitare Moravia è geniale; e ognuno si estasia davanti alle brutte copie di un Soldati, di un Wheeler, di un Fellini (parleremo in un’altra occasione del signor Zavattini); la ripetizione stucchevole, la noia vengono tenute

in conto come spessore romanzesco, o come senso della durata; l’inazione, la fiacchezza sono la fine della sottigliezza psicologica. Rossellini piomba in questa palude come un rimedio peggiore del male; la gente volta le spalle a questo zoticone con smorfie piene di rimprovero. Nulla, in effetti, di meno letterario o romanzesco; a Rossellini non piace molto raccontare; non ha nulla a che fare con le disonestà dell’argomentazione: la dialettica è una ragazza che va a letto con il primo venuto del pensiero filosofico, e si offre a tutti i sofismi; e i dialettici poi sono delle canaglie… I suoi eroi non dimostrano niente, agiscono; per Francesco d’Assisi, la santità non è un bel pensiero. Se a Rossellini capita di voler difendere un’idea, l’unico mezzo che ha per convincerci è agire in uguale misura, creare, fare dei film; la tesi di Europa ’51, assurda a ogni nuovo episodio, ci sconvolge dopo cinque minuti, e ogni sequenza è prima di tutto il Mistero dell’incarnazione di questo pensiero; neghiamo lo svolgimento tematico dell’intreccio, capitoliamo davanti alle lacrime di Ingrid Bergman, davanti all’evidenza delle sue azioni e della sua sofferenza; a ogni scena il cineasta porta a compimento il teoreta moltiplicandolo per l’incognita più grande. Ma qui, non c’è più il minimo impaccio: Rossellini non dimostra, lui mostra. E noi abbiamo visto: il fatto che tutto in Italia esprima un senso, che l’Italia intera sia una lezione e partecipi a un dogmatismo profondo, che ci si trovi all’improvviso nel regno dello spirito e dell’anima, questo forse non appartiene al regno delle verità pure, ma appartiene certo, per il tramite del film, a quello delle verità sensibili, che sono ancora più vere. Non si tratta più di simboli, e noi ci troviamo già in cammino verso la grande allegoria cristiana. Tutto quello che lo sguardo di questa donna smarrita, perduta nel reame della grazia, incontra adesso, quelle statue, quegli amanti, quelle donne incinte che le fanno ovunque da corteo ossessivo, poi quelle figure giacenti su monumenti sepolcrali, quei teschi, quei labari infine, quella processione di un culto quasi barbaro, tutto splende adesso di un’altra luce, tutto diventa «altro»; ecco

visibilmente sotto i nostri occhi la bellezza, l’amore, la maternità, Dio. 13. Tutti concetti assai fuori moda, eppure eccoli visibili: non rimane che velarsi il viso, o inginocchiarsi. In Mozart c’è un istante nel quale la musica non sembra nutrirsi di altro che di se stessa, dell’ossessione di un accordo puro, e tutto il resto sono solo approcci, approfondimenti successivi, e ritorni da quel luogo supremo in cui il tempo è abolito. Forse ogni arte raggiunge il suo compimento solo attraverso la distruzione momentanea dei suoi mezzi, e il cinema non è mai così grande come in alcuni istanti che oltrepassano e annullano bruscamente il dramma: penso al turbinare febbrile di Lillian Gish, all’immobilità prodigiosa di Jannings, alle ammirevoli pause del Fiume, alla scena notturna, veglie e sonni, di Tabù, a tutte quelle inquadrature che i più grandi sanno disporre al centro di un western, di un poliziesco, di una commedia, in cui il breve sguardo su se stesso del protagonista abolisce a un tratto il genere (e penso soprattutto a quelle due confessioni di Ingrid Bergman e di Anne Baxter, quei due lunghi ripensamenti su loro stesse delle eroine che sono il centro esatto e il nucleo di Il peccato di Lady Considine e Io confesso). Dove voglio arrivare? A questo: non c’è niente che indichi in Rossellini il grande cineasta meglio di quei vasti accordi che sono in mezzo ai suoi film tutte le inquadrature di sguardi; che siano quelli del ragazzetto sulle rovine di Berlino, quelli di Anna Magnani sulla montagna del Miracolo, quelli di Ingrid Bergman sui sobborghi romani, sull’isola di Stromboli, su tutta l’Italia insomma (e ogni volta le due inquadrature, quella della donna che guarda, poi il suo sguardo; e talvolta entrambi mescolati); si raggiunge bruscamente una nota alta, che si tratta solo di tenere attraverso modulazioni minime e ritorni perpetui alla dominante (conosce la Cantata 1952 di Stravinskij?); così le strofe successive di Francesco si concatenano sulla base (decifrabile) della carità. Oppure nel cuore del film c’è quel momento in cui i personaggi vivono sullo sfondo, e si cercano senza trovarsi, quella vertigine di sé che li coglie, come al centro della sinfonia c’è l’autocompiacimento della nota fondamentale; da dove viene

la grandezza di Roma città aperta, di Paisa’, se non da questa brusca pausa degli esseri, da questi tentativi immobili di fronte all’impossibile fraternità; da questa stanchezza improvvisa che li paralizza per un secondo proprio nel momento cruciale dell’azione. La solitudine di Ingrid Bergman è al centro di Stromboli come di Europa ’51: la protagonista gira a vuoto, senza progresso apparente; eppure avanza senza saperlo, grazie al logorio stesso della noia e del tempo, che non potranno resistere a uno sforzo così prolungato, un ritorno così ostinato sulla sua decadenza, una stanchezza così poco stanca, così attiva, così impaziente, e che finirà pure per vincere quel muro d’inerzia e di abbandono, quell’esilio dal vero reame. 14. L’opera di Rossellini «non è allegra»; anzi è profondamente seria e si sottrae totalmente alla commedia; e immagino che Rossellini condannerebbe il riso con la stessa cattolica virulenza di Baudelaire (e nemmeno il cattolicesimo è allegro, malgrado quelli che predicano bene e razzolano male… Da questo punto di vista, Dov’è la libertà? deve sembrare piuttosto strano). Che cosa dice instancabilmente? Che gli esseri umani sono soli, e di una solitudine incolmabile; che noi abbiamo nei confronti degli altri solo un’ignoranza totale, fuorché in caso di miracolo o di santità; che solo la vita in Dio, nel suo amore e nei suoi sacramenti, solo la comunione dei santi, possono permettere di incontrare, di conoscere, di possedere un altro essere oltre a sé; e che non si conosce e non si possiede se stessi se non in Dio. In tutti questi film, i destini umani tracciano delle curve separate, che si incrociano solo per caso; posti faccia a faccia, uomini e donne si rinchiudono in se stessi e proseguono il loro monologo ossessivo; testimonianza dell’«universo concentrazionario» degli uomini senza Dio. Però Rossellini non è solo cristiano, ma cattolico, vale a dire carnale fino allo scandalo; ricordiamo quello del Miracolo; del resto, il cattolicesimo è per vocazione una religione scandalosa: il fatto che anche il nostro corpo partecipi al mistero divino, all’immagine del corpo di Cristo, non è che vada a genio a tutti, e c’è decisamente in questo

culto, che fa della presenza carnale uno dei suoi dogmi, un senso concreto, pesante, quasi sensuale, della materia e della carne, da cui gli spiriti puri sono oltremodo disgustati; la loro «evoluzione intellettuale» non gli permette più di condividere misteri così grossolani. E poi il protestantesimo è più alla moda, in particolar modo tra gli scettici e i libertini; ecco una religione più intellettuale, un po’ astratta, che fa fare subito un figurone; le ascendenze ugonotte danno lustro a un blasone senza fallo. Non dimenticherò tanto presto con che aria disgustata alcuni parlavano non molto tempo fa di quanto Ingrid Bergman piangesse e tirasse su col naso in Stromboli. E bisogna riconoscerlo, questo si spinge (Rossellini lo fa spesso) ai limiti del difendibile, di ciò che è decentemente ammissibile, al margine dell’impudicizia. Il modo in cui egli dirige Ingrid Bergman è tutto coniugale, e si basa sulla conoscenza intima più della donna che dell’attrice; diciamo anche che il nostro piccolo mondo cinematografico è assai restio ad accogliere una simile idea dell’amore, che non ha niente di folle né di gioioso, una concezione così seria e davvero carnale (non abbiamo timore di ripetere questa parola) di un sentimento che oggi viene conteso piuttosto tra l’angelicità e l’erotismo, quando i due estremi non finiscono per convivere; e i nostri Dolmancé[20] sono urtati dalla sua rappresentazione (o anche solo dalla sua immagine in filigrana, attraverso il volto della sposa remissiva), quasi fosse una qualche oscenità del tutto estranea ai loro ameni, leggeri – e tanto moderni – capricci. 15. Non ne parliamo più; ma lei capisce adesso che cos’è questa libertà: quella dell’anima fervente in seno alla provvidenza e alla grazia, che non l’abbandonano mai nelle sue tribolazioni, la salvano dai pericoli e dagli errori e trasformano ogni cimento a sua maggior gloria. Rossellini ha l’occhio di un moderno, ma anche lo spirito; è il più moderno di noi tutti: è sempre il cattolicesimo quel che c’è di più moderno. Lei è stanco di leggermi; io comincio a essere stanco di scrivere, o per lo meno si è stancata la mia mano; in realtà

avrei voluto dire ancora molte altre cose. Ne basterà una sola: l’originalità sorprendente della recitazione, che qui è come spenta, uccisa man mano da un’esigenza superiore; tutti i gesti, gli slanci, tutte le vampate devono cedere a questa costrizione intima che li obbliga a farsi da parte e a defluire nella stessa umiltà sbrigativa, quasi ansiosa di arrivare a compimento e di farla finita. Questa maniera di svuotare gli attori deve indurli spesso a ribellarsi, ma c’è un tempo per ascoltarli e un tempo per farli tacere. Se vuole la mia opinione, io credo che questa sia la vera recitazione cinematografica di domani. Eppure quanto abbiamo amato la commedia americana, e tanti filmetti il cui fascino era quasi tutto nell’inventiva zampillante delle movenze e degli atteggiamenti, le trovate spontanee di un attore, le moine graziose, il battito di ciglia di un’attrice svelta e piacente; il fatto che uno degli scopi del cinema sia questa ricerca squisita del gesto, il che era vero ieri, e ancora due minuti fa, forse non lo è più dopo questo film; in esso c’è un’assenza di ricerca superiore a qualsiasi riuscita, un abbandono più bello di qualsiasi slancio, una povertà ispirata, superiore alla più abbagliante performance di qualsiasi diva. Questo andamento stanco, quest’abitudine così profonda a tutti i gesti che il corpo non li esalta più, ma li trattiene e conserva dentro di sé, ecco la sola recitazione che potremo assaporare per parecchio tempo; dopo questo sapore acre, qualunque grazia può essere solo insipida e senza memoria. 16. Con l’uscita di Viaggio in Italia, tutti i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni; niente di più impietoso della giovinezza, di questa intrusione categorica del cinema moderno, in cui possiamo infine riconoscere quello che attendevamo confusamente. Con buona pace degli spiriti tristi, è questo a turbarli o a infastidirli, ad aver ragione oggi, è questo che è vero nel 1955. Ecco il nostro cinema, quello che appartiene a noi che a nostra volta ci accingiamo a girare dei film (adesso gliel’ho detto, può darsi che succeda presto); per cominciare ho lanciato già un’allusione che l’ha incuriosita: esisterebbe forse una scuola Rossellini? E quali sarebbero i suoi dogmi? Non so se ci sia una scuola, ma so quello di cui ha bisogno: si tratta anzitutto di intendersi a proposito della

parola «realismo» – che non è una tecnica di sceneggiatura – sarebbe un po’ semplicistico, né uno stile di regia, ma un’idea di fondo ben precisa: che la linea retta è il percorso più breve tra un punto e un altro (giudichi secondo questo metro i suoi De Sica, Lattuada, Visconti). Secondo punto: al diavolo gli scettici, i lucidi, i circospetti; l’ironia e il sarcasmo hanno fatto il loro tempo; si tratta insomma di amare il cinema tanto da non apprezzare molto quello che viene chiamato oggi con questo nome, e da volerne dare un’idea un po’ più esigente. Lo vede, questo non costituisce un programma, ma può bastare per darle il coraggio di agire. Che lettera lunga. Bisogna scusare i solitari; quello che scrivono somiglia alle lettere d’amore spedite all’indirizzo sbagliato. E poi credo che oggi non vi sia altro argomento più impellente. Ancora una parola: ho cominciato con una frase di Péguy; eccone un’altra che le offro per concludere: «Il kantismo ha le mani pulite» – Kant e Lutero, e anche tu, Giansenio, datevi la mano – «ma non ha mani». Sempre il suo devoto Jacques Rivette

(Apparso sul numero 46 dei Cahiers du cinéma, aprile 1955) [18] Parafrasi di alcuni versi del «Cimitero marino» di Paul Valéry: «[…] Tempio del tempo, in un sospir riassunto, / salgo e m’abituo a questo puro punto […]», Einaudi, Torino 1966, traduzione di Mario Tutino. [n.d.t.] [19] Secondo episodio del film L’amore (1948), con Anna Magnani. [n.d.t.] [20] Personaggio della Filosofia nel boudoir del Marchese de Sade. [n.d.t.]

I MAESTRI DELL’AVVENTURA (IL GRANDE CIELO DI HOWARD HAWKS) di Eric Rohmer

Non è che io vada matto per i western. Questo genere ha le sue esigenze, le sue convenzioni, come tutti gli altri, ma nel suo caso sono più rigide. Quelle praterie, quelle mandrie, quelle orribili città di legno, quei banjo, quegli inseguimenti, quegli eterni bravi ragazzi e il loro rozzo coraggio, quelle zaffate di umorismo di Scozia o d’Irlanda stancano giustamente chiunque, in questo vecchio mondo, rechi nel suo bagaglio un passato più altisonante e molto più lontano. Tuttavia i più grandi maestri, i Ford, i Wyler, hanno saputo affermare in questo campo la loro maestria, senza sacrificare nulla di loro stessi. Devo perfino, a nome dei Cahiers, fare ammenda verso Fritz Lang: Rancho Notorius non ha avuto in questa sede l’omaggio di un «pezzo». Concedo che questo film non ci dice nulla sul suo autore che non sapessimo già, tranne smentirne una pseudo-decadenza. Ma forse siamo, noialtri critici, più sensibili alla sollecitazione del nuovo che alla legge rigorosa dell’equità, che dovrebbe essere la nostra regola. Colgo quindi l’occasione per denunciare un curioso pregiudizio, secondo cui ogni cineasta avrebbe vita breve: contarne i giorni è addirittura un esercizio che per la maggior parte dei miei confratelli costituisce il più evidente dei piaceri. Per quale maestro dello schermo non hanno gridato alla decadenza? Da Gance a Renoir, da Clair a Ford, da Lang a Hitchcock… Per quanto mi riguarda, do credito più all’uomo che all’opera e mi arrendo con estrema lentezza, quando purtroppo è necessario, all’evidenza. In poche parole, io tengo per i vecchi, non perché me lo imponga la loro età, ma mi sembra difficile ammettere che da così in alto possano cadere

così in basso – se è vero che sono stati così in alto. Quanto al ruolo del caso, che si dice regni sovrano in quest’arte (un altro sofisma) non credo che sia tanto grande da aver impedito a qualche cineasta geniale (basterebbe questa come prova del suo genio) di riuscire a fare quello che voleva fare, esattamente come lo voleva fare. Quanto al genio di Hawks, rimando all’eccellente articolo che Jacques Rivette ci ha dato qualche mese fa. Non trovo nulla da aggiungere a quello studio, esauriente quant’altri mai. Anch’io considero Hawks il più grande cineasta (a parte Griffith) nato in America, per i miei gusti molto superiore a Ford, in genere più stimato. Quest’ultimo mi annoia (che ci posso fare?) tanto quanto l’altro mi incanta. Un criterio molto superficiale, si dirà. Ma ne siamo sicuri? Ricordo che Alain[21] citava L’isola del tesoro di Stevenson come una delle sue letture preferite: non si preoccupava d’altro, è vero, che di passare per un buon lettore vorace, diceva lui. Ma chi ha letto Il Signore di Ballantrae sarà d’accordo con me sul fatto che l’autore del racconto che affascinò i suoi dodici anni, oltre ad avere la stoffa di un sapiente narratore, era anche un grande conoscitore di uomini, in parole povere un grande romanziere. «Lo scopo dell’arte è di far vedere», diceva Conrad nella prefazione al Negro del Narciso. Frase speciosa come lo stile di questo autore che vorrei amare di più. Le parole non dovrebbero tanto suggerire quanto esplorare? Se l’unica preoccupazione del romanziere fosse quella di accostarsi, attraverso il linguaggio, alle apparenze e di attenersi solo a queste, al migliore dei romanzi preferirei mille volte il film più modesto, non fosse altro perché, liberandomi dalla noia della descrizione, mi coinvolge nel turbine di un’azione che anche la prosa più bella rallenta o irrigidisce. È uno dei meriti del cinema, e non il minore, quello di averci resi più severi nei riguardi di un bel linguaggio che rende solo più evidente la debolezza del linguaggio, di averci resi più sensibili alla parte vigorosa dello stile che a quella altisonante, più al verbo che all’aggettivo o all’intenzione, più al movimento che alla sensazione o allo stato, più alla morale che a non so quale nebulosa cosmogonia.

Questa è, per lo meno, l’opinione che ho di Stevenson. Devo al cinema il mio gusto per i classici, ai quali questo scrittore appartiene, nel genere dell’Avventura. Da nessuna parte ho visto mettere meglio allo scoperto le radici segrete della volontà umana, tratteggiare meglio, annegare meno nell’enfasi l’istante in cui la scelta si afferma, mentre l’azione s’innesca. Il succedersi degli eventi è così ben studiato perché ogni volta il protagonista dev’essere portato a rispecchiarsi nell’avvenimento stesso, per fortuito che sia: l’attesa e un’angoscia più che tragica sarebbero altrettanto pesanti se la più piccola delle sue decisioni non minacciasse la sua libertà, ancor più della sua vita? Leggete il sorprendente Riflusso della marea (che soggetto per Hawks!); vedrete come, sottoposto al logorio di un pericolo costante, il carattere dei personaggi si consolida o si smussa, come l’oscuro si schiarisce e il chiaro comincia a oscurarsi, ma quasi come se accadesse da sé, non per un trucco del narratore. Per far in modo che resti in serbo nell’uomo una parte sconosciuta (poiché credo che egli sia libero e pronto a rinascere in qualsiasi momento), non mi piace molto che mediante artifici, ellissi o eclissi, mi si tolga dalla vista il mio eroe nell’istante preciso in cui lo aspetto, lo spio, lo giudico. Così è Howard Hawks. A parte qualche violento sprazzo, talvolta insopportabile, in lui tutto è fase preparatoria. Nessuna enfasi, nessuna retorica nell’esposizione del fatto, perfino troppo asciutta per essere risolutamente brutale. L’aspettativa viene esaudita, l’avvenimento non la supera ma la realizza pienamente, e l’impossibile diventa, a cose fatte, possibile, necessario, e il difficile diventa l’azione più facile del mondo. Così come Hitchcock gioca con la paura, la paura che ingrandisce il pericolo, che gonfia il reale di immaginari fantasmi, allo stesso modo nell’ottica di Howard Hawks, che è quella del coraggio, che cosa resterà del fatto stesso, se non l’asciutta indicazione della sua possibilità materiale, geometrica? In questo mondo di destrezza fisica in cui vivono gli eroi del folklore yankee, non è consentito nessun passo falso: a chi pretende di dipingerlo, non è permessa nessuna sbavatura, nessun annebbiamento, nessuna metafora. Non

conosco nessun regista più indifferente alla plastica, più banale nel suo montaggio, ma, in compenso, più sensibile al disegno esatto del gesto, alla sua esatta durata. E come per uno sportivo l’efficacia è lo stile migliore, qui la poesia è un di più, se si vuole, ma allo stesso tempo è basilare, indistinguibile dall’elemento utile che vuole enfatizzare. Senza dubbio Hawks è più personale, più sorprendente, più sovranamente elegante nella satira burlesca, nell’eccesso contratto in una smorfia che nella mezzatinta eroicomica in cui lo relega un’abile sceneggiatura di Dudley Nichols, più tradizionale, più conforme allo spirito di Ford rispetto al virile e fiammeggiante Fiume rosso. Ma che profusione di particolari sotto l’uniformità del disegno, che rifiuta di sfruttare l’orrore facile di un’amputazione, di un volto bruciato, di una lotta tra un uomo e una donna, che matematica bellezza in quei combattimenti, in quei capovolgimenti dove l’equilibrio si sconvolge, il sistema delle forze si rovescia, ma non si annulla! Vedo riservato a Hawks un posto particolare. Altri grandissimi, Renoir, Stroheim o Vigo, hanno brillato per virtù totalmente opposte: il disprezzo per le forme conosciute, una dura intransigenza; altri ancora, per una volontà di astrazione, di sistematicità, caratteristica di cui l’autore di Scarface non si preoccupa affatto. Bisogna serbargli rancore per questo? Va bene, il suo non sarà il primissimo posto dal momento che bisogna dare il giusto valore al rischio, all’ambizione. Ma si può rimproverare a un cineasta di non essere altro che un cineasta, di non cercare affatto di far esplodere le frontiere della sua arte, di mantenersi invece sempre al di qua e portare a una classica perfezione il genere popolare del western, del poliziesco, della commedia musicale? Ci sono due modi di amare il cinema che non apprezzo molto. Uno è quello di coloro che si sentono stranamente obbligati a vezzeggiare in quest’arte tutto ciò che quest’arte non è, giungendo ad ammirare sullo schermo qualsiasi dramma pretenzioso, melodramma scadente, poema da autodidatta che altrove il loro buon gusto disapprova; l’altro è quello di coloro – sono

forse meno dannosi? – che si affrettano invece a lodare tutto, sensibili, dicono loro, solo all’ingenuità, anche a costo di metterla dove non c’è. È comprensibile che in mancanza di capolavori ci si adatti meglio alle cose ordinarie che a quelle pretenziose e che una musica popolare sia, tutto sommato, meno ostile all’orecchio di una sonata contemporanea. Ma il cinema è già troppo vecchio e troppo rispettabile per essere trattato così alla leggera. E le cose sono mai andate diversamente? Chi si azzarderebbe oggi a parlare dell’ingenuità di Griffith, o addirittura di Chaplin? Io non credo alla poesia involontaria, in quest’ambito ancor meno che altrove. Penso che i migliori western siano, tutto sommato, quelli che sono stati firmati da un grande nome. Dico questo perché amo il cinema, perché credo che esso sia il frutto non del caso ma dell’arte e del genio degli uomini, perché penso che non si possa amare profondamente nessun film se non si amano profondamente quelli di Howard Hawks. (Apparso sul numero 29 dei Cahiers du cinéma, dicembre 1953) [21] Pseudonimo di Emile-Auguste Chartier, saggista francese. [n.d.t.]

SULL’INVENZIONE (IL TEMERARIO DI NICHOLAS RAY) di Jacques Rivette

Il privilegio più costante dei maestri è senza dubbio quello di vedere che ogni cosa, anche l’imperfezione più semplice, torna a loro vantaggio invece di farli sfigurare; se adesso ci si meraviglia che io faccia rientrare in questa legge l’ultimo film di Nicholas Ray, ci si prepara male a gustare un lavoro sconcertante e che richiede un po’ d’amore, non di indulgenza; non occorre perdonargli nulla, bisogna amare questa disinvoltura, questo gradevolissimo disprezzo per le scenografie, la plastica, i raccordi di luce, la precisione di un ruolo secondario, e riconoscere perfino nelle goffaggini di questa vivacità non la caricatura, ma l’esagerazione giovanile di un cinema che ci è caro, dove tutto è sacrificato all’espressione, all’efficacia, al mordente di un riflesso o di uno sguardo. Non mi dispiace che si esageri in questo modo; e il divertimento dell’autore, che sento qualche volta trapelare, ci ripaga di molti film che ci comunicano solo gli sbadigli del regista. Ma vorrei adesso parlare della serietà profonda di questa esecuzione: lavoro brioso, lo concedo, ma perché Nicholas Ray è prodigo di idee (che un grande soggetto qualche volta riesce a incanalare in maniera ben precisa, e non dimentichiamo l’ammirevole progressione di Neve rossa) che qui si sparpagliano a caso secondo l’inventiva; ma è proprio questa inventiva che mi colpisce, continuamente inaspettata. Di sicuro Ray non è tra quelli che ignorano il valore estetico della sorpresa, né che il bello ha il dovere di essere sorprendente; ma se l’immaginazione è la regina delle capacità, mi sembra che il suo regno si stia riducendo molto, giorno dopo giorno, da ogni parte; e quindi il fatto che l’inventiva possa consistere anzitutto nel semplice piacere di

filmare, come la libertà creatrice del pennello sulla tela non ha molte possibilità di essere preso sul serio. E quando parlo di idee, intendo idee di regia o anche, a costo di scandalizzare, di inquadratura o di successione dei piani, le uniche di cui voglio riconoscere oggi la profondità e che possano raggiungere la figura segreta, scopo di ogni opera d’arte. Quando François Truffaut accosta Nicholas Ray a Bresson, io vedo due cineasti ossessionati allo stesso modo dall’astratto, la cui unica preoccupazione è quella di raggiungere sempre e al più presto questa figura ideale, e cosa importa della goffaggine se così ci si arriva più alla svelta? Nel Temerario si vede come l’idea di un ruolo, di una scena, abbozzati in fretta, talvolta contino più della sua realizzazione, buona o cattiva (ma si capirà quanta stima ho di Nicholas Ray se lo definisco un metteur en scène, non un semplice réalisateur); come l’invenzione di ogni istante non è altro che la preoccupazione di riportare alla luce con nuove picconate l’unica statua nascosta. Si capisce forse che la bellezza non gli è indifferente; ma da che parte la cerca? (Domanda tutto sommato fondamentale.) Io noto una certa dilatazione del dettaglio espressivo, che cessa di essere dettaglio per entrare nella trama – come il gusto per i primi piani drammatici, sorpresi nel movimento della scena – e soprattutto la ricerca di una certa estensione dell’agire contemporaneo e l’inquietudine della vita, ansia perpetua affine a quella dei personaggi, insomma il gusto del parossismo, in cui anche gli istanti più pacati conservano qualcosa di febbrile e di provvisorio. Ancora qualche parola: Nicholas Ray è uno di quelli che vanno fino in fondo e che sanno sfruttare lo sviluppo di una trama. Tutto ha origine sempre da una semplice situazione in cui due o tre persone affrontano alcune idee elementari e fondamentali dell’esistenza. E la vera lotta si svolge in uno solo di loro, contro il demone interno della violenza, o il demone di un peccato segretissimo, che sembra legato all’uomo e alla sua solitudine; qualche volta accade che una donna lo salvi; sembra perfino che in questo caso solo lei ne abbia il potere; siamo lontani dalla misoginia.

Nicholas Ray ci ha sempre proposto il racconto di una crisi morale, da cui l’uomo esce vincitore o vinto, ma alla fine lucido: vanità della violenza, di tutto quello che non è la felicità e che distoglie l’uomo dalla sua vocazione profonda. Se l’arte deve rivelare «l’eroismo della vita moderna», poche opere riescono meglio in questo intento. Notiamo tuttavia che i personaggi battono presto in ritirata, che il mondo tutto sommato non s’intromette molto oppure, stranamente, interviene per danneggiarli; che la salvezza è una questione privata. Forse si rimpiangerà di vedere questi eroi mettersi in disparte con tanta fretta; si consideri anche che lo fanno non senza aver lasciato al mondo la sua opportunità, né senza avere talvolta prolungato inutilmente la prova; ma per la società moderna non è spesso la solitudine, se non il disprezzo, l’omaggio più giusto? (Apparso sul numero 27 dei Cahiers du cinéma, ottobre 1953)

BERGMANORAMA di Jean-Luc Godard

Nella storia del cinema ci sono cinque o sei film dei quali non piace fare la critica, se non limitandosi a queste parole: «È il film più bello che ci sia!» Perché non c’è elogio migliore. Perché parlare ancora, infatti, di Tabù, di Viaggio in Italia, o della Carrozza d’oro? Come la stella di mare che si apre e si chiude, questi film sanno offrire e nascondere il segreto di un mondo del quale sono allo stesso tempo gli unici depositari e l’affascinante riflesso. La verità è la loro verità. La recano nel profondo di loro stessi, e, tuttavia, lo schermo si lacera a ogni inquadratura per spargerla ai quattro venti. Dire di loro: «È il film più bello che ci sia», è dire tutto. Perché? Perché è così. E solo il cinema può permettersi di impiegare questo ragionamento infantile senza ritegno. Perché? Perché è il cinema. E perché il cinema basta a se stesso. Per decantare i meriti di Welles, di Ophüls, di Dreyer, di Hawks, di Cukor, perfino di Vadim, ci basterà dire: è cinema! E quando il nome di grandi artisti dei secoli passati appare come termine di confronto sotto la nostra penna, noi non vogliamo dire altro. Ve lo immaginate, invece, un critico che decanti l’ultimo lavoro di Faulkner dicendo: è letteratura; di Stravinskij, di Paul Klee dicendo: questa è musica, questa è pittura? Ancora meno, del resto, potremmo parlare in questi termini delle opere di Shakespeare, Mozart o Raffaello. A un editore, fosse anche Bernard Grasset,[22] mai più verrebbe l’idea di lanciare un poeta con lo slogan: questa è poesia! Perfino Jean Vilar,[23] rabberciando Il Cid di Corneille, sarebbe arrossito a far mettere sui manifesti: questo è teatro! Mentre «questo è cinema!», più che la parola d’ordine, resta il grido di guerra del venditore, ma anche dell’appassionato di film. In poche parole, fra tutti i privilegi che ha il cinema, non è certo il

minore quello di poter erigere la propria esistenza a ragion d’essere, e fare, nello stesso tempo, dell’etica la sua estetica. Cinque o sei film, ho detto, + 1, perché Un’estate d’amore è il film più bello che ci sia. L’ultimo grande romantico I grandi autori sono probabilmente quelli il cui nome viene pronunciato solo quando è impossibile spiegare in altro modo la molteplicità di sensazioni e sentimenti che ci assale in determinate circostanze insolite, di fronte a un panorama sorprendente, o in occasione di un avvenimento imprevisto: Beethoven, sotto le stelle, in cima a una scogliera battuta dal mare; Balzac, quando, vista da Montmartre, Parigi sembra appartenerci; d’ora in poi, se il passato gioca a nascondino con il presente sul viso di colei o colui che amiamo; se la morte, quando umiliati e offesi arriviamo finalmente a porle la domanda suprema, ci risponde con un’ironia tutta in stile Valéry che bisogna cercare di tirare avanti; d’ora in poi, dicevamo, se le parole «estate stupefacente», «ultime vacanze», «miraggio eterno» ritornano sulle nostre labbra, è perché automaticamente abbiamo pronunciato il nome di colui che una seconda retrospettiva alla Cinématheque Française ha definitivamente, per quelli che avevano visto soltanto qualcuno dei suoi diciannove film, consacrato come l’autore più originale del cinema europeo moderno: Ingmar Bergman. Originale? Il settimo sigillo o Una vampata d’amore, passi; se proprio vogliamo, Sorrisi di una notte d’estate; ma Monica e il desiderio, Sogni di donna, Till glädje sono al massimo delle sottospecie di Maupassant, e quanto alla tecnica, parliamone: inquadrature alla Germaine Dulac, effetti alla Man Ray, riflessi sull’acqua alla Kirsanoff, flashback come non ne sono più permessi, tanto sono antiquati: «No, il cinema è un’altra cosa», esclamano i nostri tecnici accreditati; e, prima di tutto, è un mestiere. Be’, no! Il cinema non è un mestiere. È un’arte. Non è una squadra. Si è sempre da soli; sulla scena come di fronte alla pagina bianca. E per Bergman, essere solo vuol dire porre

delle domande. E fare dei film vuol dire rispondere. Non si potrebbe essere più classicamente romantici. Certo, di tutti i cineasti contemporanei, è senza alcun dubbio l’unico a non disconoscere apertamente i processi cari all’avanguardia degli anni Trenta, quelli che perdurano ancora in tutti i festival del film sperimentale o amatoriale. Ma nel caso del regista di Sete si presenta come una scelta audace, perché questa paccottiglia Bergman la destina con perfetta cognizione di causa ad altri fini. Queste inquadrature di laghi, di foreste, di erbe, di nuvole, questi angoli falsamente insoliti, questi controluce troppo ricercati, non sono più nell’estetica bergmaniana dei giochi astratti della macchina da presa o delle prodezze di fotografia; si integrano, al contrario, nella psicologia dei personaggi nell’istante preciso in cui si tratta, per Bergman, di esprimere un sentimento non meno preciso; per esempio, il piacere di Monica quando attraversa in battello Stoccolma che si sveglia, poi la sua stanchezza quando inverte il percorso in mezzo a una Stoccolma che si addormenta. L’eternità in aiuto dell’istantanea Nell’istante preciso. In effetti, Ingmar Bergman è il cineasta dell’istante. Ognuno dei suoi film nasce con una riflessione del protagonista sul momento presente, approfondisce questa riflessione mediante una sorta di smembramento della durata, un po’ alla maniera di Proust, ma con più forza, come se si fosse moltiplicato Proust sia per Joyce che per Rousseau, e diviene finalmente una gigantesca e smisurata meditazione da un’istantanea. Un film di Ingmar Bergman è, se vogliamo, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si estende per un’ora e mezzo. È il mondo tra due battiti di palpebra, la tristezza tra due palpiti di cuore, la gioia di vivere tra due battute di mani. Da qui l’importanza primordiale del flashback in queste fantasticherie scandinave di passeggiatori solitari. In Un’estate d’amore, è sufficiente un’occhiata allo specchio perché MajBritt Nilsson parta come Orfeo e Lancillotto alla ricerca del paradiso perduto e del tempo ritrovato. Usato quasi sistematicamente da Bergman nella maggior parte dei suoi

lavori, il flashback cessa quindi di essere uno di quei poor tricks, i «miseri trucchetti» di cui parlava Orson Welles per diventare, se non il soggetto stesso del film, per lo meno la sua conditio sine qua non. Per giunta, questo stilema, anche impiegato semplicemente come tale, ha d’ora in avanti l’incomparabile vantaggio di arricchire notevolmente la sceneggiatura, poiché comunque ne costituisce sia il ritmo interno sia la cornice drammatica. Basta vedere uno qualsiasi dei film di Bergman per notare che ogni flashback finisce o comincia sempre «in situazione», in duplice situazione dovrei dire, perché il colmo è che questo cambio di sequenza, come nel miglior Hitchcock, corrisponde sempre al turbamento interiore del protagonista: in altre parole, provoca un nuovo sviluppo dell’azione, il che è prerogativa dei più grandi. Sbaglieremmo a prendere per scorrevolezza quello che è in realtà un eccesso di rigore. Ingmar Bergman, l’autodidatta denigrato da «quelli del mestiere», dà qui una lezione ai nostri sceneggiatori più bravi. Vedremo più avanti che non è la prima volta. Sempre in anticipo Quando Vadim fece il suo esordio dietro la macchina da presa, l’applaudimmo per essere arrivato in tempo mentre la maggior parte dei suoi colleghi era ancora in ritardo di una guerra. Quando vedemmo le smorfie poetiche di Giulietta Masina, applaudimmo allo stesso modo Fellini la cui freschezza barocca aveva un buon profumo di rinnovamento. Ma questa rinascita del cinema moderno era stata già portata al suo apogeo, cinque anni prima, dal figlio di un pastore svedese. Allora, dove avevamo la testa quando Monica e il desiderio uscì sugli schermi parigini? Tutto quello che rimproveriamo ancora ai cineasti francesi di non saper fare, Ingmar Bergman l’aveva già fatto. Monica e il desiderio era già Piace a troppi, solo riuscito in maniera perfetta. E quell’ultima inquadratura delle Notti di Cabiria, quando Giulietta Masina fissa ostinatamente la cinepresa, abbiamo dimenticato che è già, anche quella, nel penultimo rullo di Monica e il desiderio? Questa cospirazione improvvisa tra lo spettatore e l’attore che

entusiasma tanto André Bazin, abbiamo dimenticato di averla vissuta con una forza e una poesia mille volte maggiori, quando Harriet Andersson, gli occhi ridenti velati di sgomento e inchiodati all’obiettivo, ci prende a testimoni del disgusto che prova nel dover scegliere l’inferno piuttosto che il cielo. Per essere esperti non basta volerlo. Chi proclama a gran voce di essere il primo non per questo lo è. Un autore veramente originale è quello che non depositerà mai le sue sceneggiature presso la società competente. Poiché, ci dimostra Bergman, è nuovo ciò che è giusto, e sarà giusto ciò che è profondo. Comunque, la novità profonda di Un’estate d’amore, di Monica e il desiderio, di Sete, del Settimo sigillo è il fatto di avere soprattutto un’ammirevole precisione di tono. Per Bergman, certamente, sì, un gatto è un gatto. Ma lo è per molti altri, e questo è il meno. L’importante è che, dotato di un’eleganza morale a tutta prova, Bergman può adattarsi a qualsiasi verità, anche la più scabrosa (l’ultima scena di Donne in attesa). È profondo ciò che è imprevedibile, e ogni nuovo film del nostro autore spesso confonde i più calorosi sostenitori del precedente. Ci si aspettava una commedia, e invece abbiamo un mistero medievale. Il loro unico aspetto in comune è spesso questa incredibile libertà delle situazioni alla quale Feydeau darebbe dei punti, proprio come ne potrebbe dare Montherlant alla verità dei dialoghi, peraltro nel momento in cui, paradosso supremo, Giraudoux farebbe altrettanto riguardo alla loro modestia.[24] Non c’è bisogno di dire che questa sovrana disinvoltura nell’elaborazione del manoscritto è anche, non appena la cinepresa comincia a ronzare, un’assoluta maestria nel dirigere gli attori. Ingmar Bergman, in questo campo, è pari a un Cukor o a un Renoir. Certamente, la maggior parte dei suoi interpreti, che del resto fanno talvolta parte della sua compagnia teatrale, sono in genere attori straordinari. Penso specialmente a Maj-Britt Nilsson, il cui mento volitivo e le cui smorfie di disprezzo richiamano talvolta Ingrid Bergman. Ma è necessario aver visto Birger Malmsten nei panni di un giovincello sognatore in Un’estate d’amore, e averlo ritrovato, irriconoscibile, in quelli di un borghese impomatato in Sete; è necessario aver visto Gunnar

Björnstrand e Harriet Andersson nel primo episodio di Sogni di donna e averli ritrovati, con un altro sguardo, nuovi tic, un ritmo del corpo diverso in Sorrisi di una notte d’estate, per rendersi conto dello stupefacente lavoro di modellatura di cui è capace Bergman, a partire da quel «bestiame» di cui parlava Hitchcock. Bergman contro Visconti Ovvero sceneggiatura contro regia. È lecito fare queste opposizioni? Si possono opporre un Alex Joffé e un René Clément per esempio, poiché è solo questione di talento. Ma quando il talento arriva così vicino al genio da creare Un’estate d’amore e Le notti bianche, è utile dissertare all’infinito per sapere chi è in fin dei conti superiore all’altro, l’autore completo o il metteur en scène puro? Forse sì, dopo tutto, perché si analizzano due concezioni del cinema delle quali l’una vale forse più dell’altra. Ci sono, in generale, due tipi di cineasti. Quelli che camminano per strada a testa bassa e quelli che camminano a testa alta. I primi, per vedere quello che accade intorno a loro, sono obbligati ad alzare spesso e improvvisamente la testa, e a voltarla ora a sinistra, ora a destra, abbracciando con una serie di colpi d’occhio il campo che si offre alla loro vista. Essi vedono. I secondi non vedono niente, loro guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Quando gireranno un film, l’inquadratura dei primi sarà ariosa, fluida (Rossellini), quella dei secondi serrata al millimetro (Hitchcock). Nei primi troveremo un montaggio senza dubbio eterogeneo ma terribilmente sensibile alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di una precisione straordinaria sulla scena, ma che hanno il proprio valore astratto di movimento nello spazio (Lang). Bergman si collocherebbe meglio all’interno del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti, all’interno del secondo, quello del cinema rigoroso. Dal canto mio, preferisco Monica e il desiderio a Senso, e la politica degli autori a quella dei metteurs en scène. Del fatto che Bergman, fra tutti i cineasti europei, eccetto Renoir, ne sia

in effetti il rappresentante più tipico, nessuno potrebbe ancora dubitare; Basterebbe La prigione a fornirne, se non la prova, perlomeno il simbolo più evidente. Il soggetto è noto: un regista si vede proporre dal suo professore di matematica una sceneggiatura sul diavolo. Tuttavia, non è a lui che accadrà una serie di disavventure diaboliche, ma al suo sceneggiatore, a cui ha richiesto di continuare il progetto. Da uomo di teatro, Bergman acconsente a mettere in scena pièce altrui. Ma da uomo di cinema, intende rimanere il padrone assoluto. A differenza di un Bresson e di un Visconti, che trasfigurano a modo loro un punto di partenza che raramente è personale, Bergman crea ex nihilo avventure e personaggi. Il settimo sigillo è diretto meno abilmente delle Notti bianche, le sue inquadrature sono meno precise, le angolazioni meno rigorose, nessuno può negarlo; ma, e questo è il punto fondamentale della distinzione, per un uomo di talento immenso come Visconti fare un film molto buono, in fin dei conti, è questione di avere un gusto molto buono. È sicuro di non sbagliarsi, e in una certa misura, gli riesce facile. È facile scegliere le tende più belle, i mobili più perfetti, fare gli unici movimenti di macchina possibili se uno sa in anticipo di esserci portato. Per un artista, conoscersi troppo bene equivale un po’ a cedere alla facilità. Quello che è difficile, al contrario, è avanzare in terra ignota, riconoscere il pericolo, correre dei rischi, avere paura. Sublime è l’attimo, nelle Notti bianche, in cui la neve cade a larghi fiocchi intorno alla barca di Maria Schell e Marcello Mastroianni! Ma questo sublime non è niente in confronto al vecchio direttore d’orchestra di Till glädje che, disteso sull’erba, guarda Stig Olin guardare amorosamente Maj-Britt Nilsson sulla sua sedia a sdraio, e pensa: «Come descrivere uno spettacolo di una bellezza così grande!» Ammiro Le notti bianche, ma amo Un’estate d’amore. (Apparso sul numero 85 dei Cahiers du cinéma, luglio 1958) [22] Direttore delle Editions Grasset, primo editore di Proust, pubblicò tra l’altro autori del calibro di Maurois, Mauriac, Cocteau e Radiguet. [n.d.t.]

[23] Regista e attore teatrale, direttore dal 1951 al 1963 del Théâtre National Populaire. [n.d.t.] [24] Georges Feydeau (1862-1921), commediografo e autore di vaudeville; Henri de Montherlant (1896-1972) autore di drammi di argomento storico e religioso; Jean Giraudoux (1882-1944) narratore e commediografo. [n.d.t.]

MIZOGUCHI VISTO DA QUI di Jacques Rivette

Come parlare di Mizoguchi, senza cadere in una duplice trappola, ossia nel gergo dello specialista, o in quello dell’umanista? Che questi film rientrino nella tradizione, o nello spirito, del no¯ o del kabuki, può darsi; ma chi c’insegnerà poi il significato profondo di queste forme drammatiche, e non è come voler spiegare l’ignoto con l’inconoscibile? Eppure non possiamo dubitare che l’arte di Mizoguchi sia fondata sul gioco di un genio personale all’interno degli schemi di una tradizione drammatica; ma se volessimo affrontarlo allora in termini di civiltà, e ritrovarvi soprattutto certi valori universali, avremmo fatto dei progressi? Che gli uomini siano uomini sotto tutte le latitudini, questo potremmo prevederlo; il fatto di meravigliarcene ci fornirebbe informazioni soltanto su noi stessi. Ma questi film – che, in una lingua sconosciuta, ci raccontano storie completamente estranee ai nostri costumi o alle nostre abitudini – questi film ci parlano davvero in un linguaggio familiare. Quale? L’unico a cui deve tutto sommato aspirare un cineasta: quello della messa in scena. Gli artisti moderni non hanno scoperto i feticci africani convertendosi all’idolatria, ma perché questi oggetti insoliti li avevano colpiti per il linguaggio scultoreo. Se la musica è un idioma universale, lo stesso vale per la messa in scena: è questa, e non il giapponese, che è necessario imparare per capire «il Mizoguchi». Linguaggio comune, ma portato qui a un grado di purezza che il nostro cinema occidentale ha conosciuto solo eccezionalmente. Si obietterà: perché, di queste avventurose operazioni di scandaglio che sono le nostre visioni di film giapponesi,

vogliamo ricordare solo Mizoguchi? Ma il cinema giapponese ci è peraltro così estraneo? È un linguaggio familiare, ma non lo stesso con cui ci parlano altri cineasti: consiste, ad esempio, soltanto nell’esotismo la superficiale differenza di toni che separa un Tadashi Imai (Mahiru no ankoku) da un Cayatte, un Heinosuke Gosho (Entotsu no Mieru Basho) da un Becker, un Mikio Naruse (O-Kasan) da un Le Chanois, un Teinosuke Kinugasa (Jigoku-mon) da un Christian-Jaque, o addirittura un Satoru Yamamura[25] (Kanikosen) da un Raymond Bernard; se riserviamo un posto diverso a un Kaneto Shindo (Genbaku no ko), a un Keisuke Kinoshita (Nogiku no gotoki Kimi Nariki), quello che c’è d’insolito nelle loro inflessioni lo si deve comunque più alla preziosità che allo slancio di un canto personale. In poche parole, tutti costoro usano il linguaggio del cinema occidentale più codificato: il caso-tipo è quello di Kurosawa, che passa dai classici europei ai film contemporanei «coraggiosi» con la sdolcinatezza astiosa e solenne di un Autant-Lara; i suoi «film di spada»[26] sono tuttavia paragonati ai film storici di Mizoguchi, dove si cercherebbe invano il minimo duello, o il brontolio più insignificante (quel pittoresco che ha determinato il successo facile dei Sette samurai e di cui si ha ora il diritto di chiedersi se non fosse destinato specialmente all’esportazione), e dove una presenza acuta del passato è ottenuta attraverso mezzi di una semplicità sconcertante, e quasi rosselliniana. Tregua di riconciliazione: il giochetto Kurosawa-Mizoguchi ha fatto il suo tempo. Lasciamo che l’ultima falange dei kurosawiani si ritiri in disparte, si può paragonare solo quello che è comparabile, e che ha ambizioni altrettanto elevate. Mizoguchi, lui solo, impone il sentimento di un linguaggio e di un universo specifici, che non devono rendere conto ad altri che a lui. Se Mizoguchi ci seduce, anzitutto non è lui a tentare di sedurci, e non si abbassa mai verso lo spettatore: sembra il solo di tutti i cineasti giapponesi a cantare esclusivamente le gesta dei suoi avi (Yang Kwei-Fei fa parte del loro repertorio nazionale allo stesso titolo del nostro Cid), ed è anche l’unico

che possa così aspirare alla vera universalità, quella dell’individuo. Il suo universo è quello dell’irrimediabile; ma in esso la sorte non è immediatamente il destino: nessun fato, né Erinni. Nessuna accettazione remissiva, ma il progredire della riconciliazione; che cosa importano le inezie dei dieci film che conosciamo adesso? Tutto vi accade in un tempo puro, che è quello dell’eterno presente: tempo passato, tempo futuro vi mescolano spesso le loro acque, una stessa meditazione sulla durata li percorre tutti; tutti finiscono nella gioia serena di chi ha vinto i fenomeni illusori delle prospettive. Mentre l’unica sospensione è data da questa incontenibile linea ascendente verso un certo livello di estasi, «corrispondenza» di queste note estreme, di questi accordi tenuti in modo interminabile e che non finiscono, ma si spengono con il fiato del musicista. Tutto si armonizza alla fine in questa ricerca del luogo centrale, dove le apparenze, e quella che chiamiamo «natura» (o la vergogna, o la morte), si riconciliano con l’uomo – ricerca comune a quelle dell’alto romanticismo tedesco, e di un Rilke, di un Eliot – e che è anche quella della macchina da presa: posta sempre nel punto esatto, in modo che il minimo spostamento curvi tutte le linee dello spazio, e sconvolga il volto segreto del mondo e dei suoi dei. Un’arte della modulazione. (Apparso sul numero 81 dei Cahiers du cinéma, marzo 1958) [25] In realtà il nome del regista (e attore) citato è Sô Yamamura, non Satoru. [n.d.t.] [26] Con questo termine vengono indicati i ken-geki (chambara in lingua popolare), appartenenti a un sotto-genere del film storico giapponese. [n.d.t.]

POLEMICHE E REVISIONI

SULLA POLITICA DEGLI AUTORI di André Bazin

Goethe? Shakespeare? Tutto quello che è firmato con i loro nomi è ritenuto buono, e ci si sforza invano di trovare bellezza anche in cose sciocche, non riuscite, deformando così il gusto generale. Tutti questi grandi talenti, i Goethe, gli Shakespeare, i Beethoven, i Michelangelo, creavano, accanto a opere belle, cose non solo mediocri, ma semplicemente orrende. Tolstoj, Diario, anni 1895-1899

Una piccola differenza Capisco benissimo i pericoli della mia iniziativa. I Cahiers du cinéma hanno la fama di praticare una «politica degli autori». Questa opinione, anche se non è giustificata dalla totalità degli articoli, trova il suo fondamento nella loro maggioranza, soprattutto da due anni a questa parte. Sarebbe inutile o ipocrita fingere in nome di pochi riferimenti contrari che la nostra rivista sia di una benevola neutralità critica, e la scaltrissima lettera di Barthélémy Amengual (che abbiamo pubblicato nel nostro n. 63)[27] era del tutto pertinente. Ciononostante i nostri lettori ci hanno esplicitamente fatto notare che questo postulato critico – implicito o proclamato – non veniva adottato con la stessa costanza da tutti i collaboratori abituali dei Cahiers e che potevano esserci delle divergenze anche serie nell’ammirazione o più precisamente nei gradi di ammirazione verso alcuni autori. Tuttavia è vero che sono quasi sempre i più entusiasti fra noi a prevalere e questo per una ragione che Eric Rohmer ha esposto benissimo nella sua risposta a un lettore (n. 64): generalmente preferiamo, in caso di opinioni divergenti su un film importante, dare la parola a chi lo ha maggiormente gradito. Ne consegue che i sostenitori più rigorosi della politica degli autori sono a lungo andare avvantaggiati poiché, a torto o a ragione, individuano sempre nei loro autori preferiti la

fioritura delle stesse specifiche bellezze. Così Hitchcock, Renoir, Rossellini, Fritz Lang, Howard Hawks o Nicholas Ray possono, attraverso i Cahiers, apparire come autori quasi infallibili che non riuscirebbero a sbagliare nemmeno un film. Vorrei perciò evitare subito un malinteso. Le grane che vado a cercarmi presso i miei compagni, quelli più convinti della fondatezza della loro politica degli autori, costituiscono una controversia che non mette in discussione l’orientamento generale dei Cahiers. Quali che siano le nostre differenze di opinioni sulle opere e sui creatori, gli entusiasmi e le avversioni che ci accomunano sono abbastanza numerosi e abbastanza forti da suggellare il nostro gruppo, e se ritengo di non concepire il ruolo dell’autore nei film allo stesso modo di François Truffaut e Eric Rohmer, per esempio, questo non impedisce che, nella misura in cui credo anch’io alla realtà del concetto di autore, generalmente condivida anche le loro opinioni, se non le loro passioni. Li seguo, è vero, meno spesso nelle loro valutazioni negative, vale a dire nella loro severità nei confronti di film che mi capita di trovare difendibili, ma anche allora, e il più delle volte, è perché ritengo che il lavoro vada oltre il suo autore (fenomeno che loro contestano e reputano una contraddizione critica). In altri termini, noi differiamo un poco solo nella valutazione dei rapporti fra l’opera e il creatore, ma non ci sono autori dei quali io rimpianga, nel complesso, la difesa sui Cahiers, anche se non sono sempre d’accordo sui film utilizzati a sostegno di queste tesi. Infine aggiungo che, anche se credo che la «politica degli autori» abbia indotto i suoi sostenitori in più di un errore specifico, essa mi sembra come risultato complessivo abbastanza feconda da giustificarli contro i loro detrattori. È rarissimo che gli argomenti in nome dei quali li sento più spesso formulare condanne non mi obblighino a passare in tutta sincerità dalla loro parte. È perciò in tali termini, che sono un poco quelli di una lite in famiglia, che vorrei affrontare ciò che mi sembra tuttavia avere il valore non di un controsenso, ma di un «errato senso»

critico. L’opportunità mi è stata fornita dall’articolo del mio amico Domarchi sul Van Gogh di Vincente Minnelli. Per quanto la sua lode sia intelligente e moderata, mi sembra che un articolo così non avrebbe dovuto essere pubblicato sulla stessa rivista che si era permessa, nel numero precedente, la stroncatura di Huston da parte di Eric Rohmer. Questa severità implacabile da una parte e questa indulgenza ammirata dall’altra possono essere spiegate solo con il fatto che Minnelli è un pupillo di Domarchi e che Huston non è un «autore dei Cahiers». Parzialità felice fino a un certo punto, visto che ci porta a difendere un film che illustra molto meglio alcuni fenomeni culturali americani piuttosto che il talento personale di Vincente Minnelli. Coglierò inoltre Domarchi in contraddizione facendogli notare che avrebbe dovuto, all’occorrenza, sacrificare Minnelli a Renoir, poiché è stata la realizzazione di questo Van Gogh ad avere obbligato l’autore di French Cancan a rinunciare al suo. Non vorrà mica sostenere che un Van Gogh di Jean Renoir non sarebbe stato più prestigioso per la politica degli autori di un film di Minnelli? Ci voleva il figlio di un pittore, lo ha fatto un metteur en scène di balletti filmati! Ma comunque sia, questo esempio per me è solamente un pretesto: sono stato messo a disagio molte altre volte dalla sottigliezza di un’argomentazione che non bastava a riscattare l’ingenuità del postulato, che per esempio prestava a filmetti di secondo piano le intenzioni e la coerenza di un’opera voluta e meditata. E certamente, dall’istante in cui si afferma che il cineasta è in tutto e per tutto figlio delle sue opere, non ci sono più film minori poiché anche il meno importante fra loro è ancora a immagine e somiglianza del suo creatore. Ma vediamo come stanno le cose e pertanto risaliamo, se me lo consentite, alle origini. Un aforisma e un’argomentazione È chiaro che la «politica degli autori» non è altro che l’applicazione al cinema di una nozione generalmente ammessa nelle arti individuali. François Truffaut ama citare la

frase di Giraudoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori»; battuta polemica la cui portata mi sembra in fin dei conti abbastanza limitata. La tesi contraria potrebbe benissimo essere offerta alle riflessioni dei candidati all’esame di maturità o al concorso a cattedre. Le due formule, come le massime di La Rochefoucauld e di Chamfort, invertirebbero semplicemente la loro proporzione di verità e di errore. Eric Rohmer dal canto suo constata (o afferma) che ciò che resta nell’arte non sono le opere, ma gli autori, e che i programmi dei cineclub tutto sommato non smentiscono questa verità critica. Ma osserviamo anzitutto che l’argomentazione di Rohmer è di portata molto più ristretta dell’aforisma di Giraudoux, poiché, se sono gli autori che restano, questo non avviene necessariamente grazie alla totalità delle loro opere. Esistono una quantità di esempi del contrario. Se è esatto che il nome di Voltaire ha più importanza della sua bibliografia, ciò che conta, a distanza di secoli, in definitiva non è tanto il Dizionario filosofico quanto la mente di Voltaire, un certo stile di pensiero e di scrittura. Ma dove possiamo ritrovarne oggi il principio e l’esempio? In una produzione teatrale abbondante e pessima o nel volume leggero dei Racconti? E Beaumarchais, è necessario cercarlo anche nella Madre colpevole?[28] Del resto anche gli «autori» di quei tempi avevano, sembra, coscienza della relatività del proprio valore, visto che disconoscevano facilmente le proprie creature, quando non giungevano addirittura a farsi attribuire, viceversa, dei libelli la cui qualità gli appariva lusinghiera. Per loro, al contrario che per noi, contavano solo le opere in quanto tali, fossero anche le loro, e bisogna arrivare alla fine del XVIII secolo, proprio con Beaumarchais, perché la nozione di autore finisca per definirsi giuridicamente nei suoi diritti, doveri e responsabilità. Non dimentico certo le contingenze storiche e sociali: le censure poliziesche o morali rendevano l’anonimato talvolta necessario e sempre scusabile, ma si avverte chiaramente che l’anonimato degli scritti della Resistenza in Francia non sminuiva affatto la dignità e la responsabilità dello

scrittore. È solo dal XIX secolo che la copia o il plagio sono diventati vere e proprie colpe professionali che screditano il loro autore. Nello stesso modo, in pittura, se qualsiasi «crosta» oggi viene pagata esclusivamente in base alle dimensioni e alla notorietà della firma, un tempo la qualità oggettiva delle opere era considerata molto di più. Infatti la difficoltà di autenticare parecchi quadri antichi ne è la prova, e quello che usciva dalla bottega di un pittore poteva benissimo essere l’opera di un allievo senza che oggi sia possibile dimostrarlo o affermarlo, e, se si risale ancora più indietro nel tempo, sarà pur necessario considerare le opere anonime pervenute fino a noi come figlie non di un artista ma di un’arte, non di un uomo ma di una società. Naturalmente prevedo la replica. Non bisogna oggettivare la nostra ignoranza, cristallizzarla in realtà. Certo ognuna di queste opere, la Venere di Milo come la maschera negra, aveva in realtà un autore e tutta la scienza storica moderna mira, colmando le lacune, ad assegnare dei nomi alle opere; ma non abbiamo certo aspettato questo supplemento di erudizione per ammirarle e pascercene. La critica biografica non è che una delle molteplici dimensioni possibili della critica, tanto è vero che si discute ancora sull’identità di Shakespeare o di Molière. Giustamente se ne discute! Vuol dire che la loro identità non è indifferente. Infatti è certamente necessario considerare l’evoluzione dell’arte occidentale verso una maggiore personalizzazione come un progresso, un affinamento della cultura, ma a patto che questa individualizzazione venga a perfezionare la cultura senza pretendere di definirla. È il momento di ricordare un luogo comune scolastico ma inconfutabile: l’individuo trascende la società ma la società è anche e anzitutto in lui. Non esiste perciò critica totale del genio o del talento che non tenga conto dei determinismi sociali, della congiuntura storica, del background tecnico che, per larga parte, li determinano. È per questo che l’anonimato di un’opera è solo un handicap molto relativo alla sua comprensione. Relativo in ogni caso rispetto all’arte cui essa

appartiene, allo stile adottato e al contesto sociologico. L’arte africana potrà restare anonima, anche se in compenso è spiacevole sapere così poco della società che l’ha generata. Dio non è un artista Ma L’uomo che sapeva troppo, Europa ’51 o Dietro lo specchio sono contemporanei dei quadri di Picasso, di Matisse o di Singier! Ne consegue per questo che sono collocati sullo stesso piano di individualizzazione? Non mi sembra! Che mi si perdoni questo ulteriore luogo comune: il cinema è un’arte popolare e industriale. Queste condizioni preliminari non costituiscono altro che un insieme di vincoli, non più di quanto avvenga per l’architettura: rappresentano un insieme di dati positivi e negativi con i quali è proprio necessario fare i conti. E questo in particolar modo nel cinema americano a cui i nostri teorici della politica degli autori indirizzano i loro apprezzamenti principali. Quello che determina la superiorità mondiale di Hollywood è certamente il valore di pochi ma è anche la vitalità e, in una certa misura, l’eccellenza di una tradizione. La superiorità di Hollywood è solo marginalmente di ordine tecnico; risiede molto di più in quello che potremmo chiamare in una parola il genio cinematografico americano, ma che dovremmo analizzare e poi definire attraverso una sociologia della produzione. Il cinema americano ha saputo tradurre in modo prodigiosamente adeguato l’immagine che la società americana voleva di se stessa. Non passivamente, come una semplice attività di divertimento e di evasione, ma dinamicamente, vale a dire partecipando con i propri mezzi alla costituzione di questa società. Ciò che è ammirevole nel cinema americano è appunto la sua necessità nella spontaneità. Frutto della libera impresa e del capitalismo, di cui racchiude allo stesso tempo i veleni reali o virtuali, è anche in un certo qual modo il più vero e il più realista di tutti i cinema, dato che rivela fino in fondo le contraddizioni di questa società. Proprio Domarchi, che ha posto chiaramente in evidenza tutto questo con un’analisi perspicace e documentata, mi dispensa dallo sviluppare l’argomento.

Ma ne consegue che ogni regista è imbarcato su questa fiumana potente e che il suo itinerario artistico deve essere ovviamente calcolato tenendo conto della corrente e non certo come se veleggiasse liberamente su un lago tranquillo. In effetti non è vero nemmeno nelle discipline artistiche più individuali che il genio sia libero e sempre uguale a se stesso. E del resto cos’è il genio se non una determinata congiuntura tra alcune doti indiscutibilmente personali, un dono delle fate, e il momento storico? Il genio è una bomba H. La fissione del nocciolo di uranio provoca la fusione della polpa di idrogeno. Ma un sole non nasce dalla pura e semplice disintegrazione dell’individuo, se questa non si ripercuote nelle strutture dell’arte che la circonda. Da qui il paradosso della vita di Rimbaud. La sua nova poetica improvvisamente comincia a declinare e l’avventuriero si allontana come una stella ancora rosseggiante, ma che si sta spegnendo. Non che Rimbaud fosse cambiato, senza dubbio, ma nulla veniva ad alimentare un’incandescenza che aveva ridotto in cenere, tutto intorno a lei, la letteratura. Semplicemente, il ritmo abituale di questa combustione nei grandi cicli artistici è di solito più elastico di quello della vita umana. La letteratura procede per secoli. I suoi secoli durano, è vero, solo una sessantina di anni, ma sono abbastanza, con lo sfasamento dei tempi del successo, per assicurare a Voltaire o a Gide di morire all’ombra degli allori. Il genio, si dice, prefigura ciò che lo seguirà. Questo è vero, ma dialetticamente! Poiché si potrebbe dire anche che ogni epoca ha i geni dei quali ha bisogno per definirsi, negarsi e superarsi. Voltaire, di conseguenza, era terribile come drammaturgo quando si credeva erede di Racine e geniale come narratore quando metteva in parabola le idee che avrebbero fatto esplodere il XVIII secolo. E anche senza riferirsi a fallimenti altrettanto assoluti la cui causa è quasi esclusivamente di competenza della sociologia dell’arte, la sola psicologia della creazione potrebbe bastare a rendere conto di molte disomogeneità tra le opere dei migliori autori. Notre-Dame de Paris è ben poca cosa accanto alla Leggenda dei secoli, Salammbô non vale Madame Bovary, né Corydon vale il Diario de «I falsari».[29] Non discutiamo su

questi esempi, ce ne sarebbero sempre per tutti i gusti. Si può ammettere la continuità del talento senza identificarlo con non so quale infallibilità artistica, una sorta di assicurazione contro l’errore che potrebbe essere solo un attributo divino. Ma Dio, Sartre ce l’ha già detto, non è un artista! Si presterebbe al creatore, contro ogni verosimiglianza psicologica, una imperturbabile generosità di ispirazione, e sarebbe necessario ammettere che quest’ultima si scontra ogni volta con tutto un complesso di circostanze specifiche che rendono il risultato mille volte ancora più rischioso nel cinema che in pittura o in letteratura. Inversamente, devono poter esistere ed esistono effettivamente delle prodezze nella produzione per il resto mediocre di un autore. Il mito del sonetto di Arvers[30] è sensato e deve esortare il critico a una vigile attenzione. Frutto della felice congiuntura di un momento di equilibrio precario tra un talento e l’ambiente, questi splendori fugaci in effetti non dimostrano un granché sul valore creativo personale, ma non sono per questo intrinsecamente inferiori agli altri e senza dubbio non li farebbe apparire tali una critica che non cominciasse con il leggere la firma in fondo al ritratto. Il genio brucia Ora, quello che è vero in letteratura lo è ancora di più nel cinema nella misura in cui quest’arte, ultima venuta, accelera e moltiplica i fattori dell’evoluzione comuni a tutte le altre. In cinquant’anni il cinema, partito dalle forme più grossolane dello spettacolo (primitive ma non inferiori), ha dovuto percorrere il cammino che oggi lo innalza talvolta al livello del teatro o del romanzo. Allo stesso tempo, la sua evoluzione tecnica è stata tale che nessuna arte tradizionale ne ha conosciuta una paragonabile in un arco temporale così breve (se non forse l’architettura, altra arte industriale). In queste condizioni, è normale che il genio bruci dieci volte più in fretta e che l’autore ancora nel pieno possesso dei suoi mezzi smetta di essere sulla cresta dell’onda. È stato il caso di Stroheim, di Abel Gance, di Orson Welles. Cominciamo addirittura ad avere un distacco sufficiente per assistere a un

fenomeno curioso: perfino mentre questi cineasti sono ancora vivi, l’onda seguente può riportarli a galla. Così è stato per il messaggio di Abel Gance o di Stroheim, il cui modernismo oggi si riafferma. Sono d’accordo sul fatto che ciò dimostra la loro qualità di autori, ma senza ridurre per questo la loro eclisse di registi alle contraddizioni del capitalismo o alla stupidità dei produttori. Fatte le debite proporzioni, vale per gli uomini di genio nella breve storia del cinema quello che varrebbe per un Racine di centoventi anni che scrivesse del teatro raciniano in pieno secolo XVIII; le sue tragedie sarebbero state migliori di quelle di Voltaire? Se ne può discutere, ma scommetto di no. Mi verranno opposti Chaplin o Renoir o Clair; è vero, ma il fatto è che ognuno di loro beneficia di altre doti che non dipendono dal genio e che gli hanno appunto permesso di adattarsi alla congiuntura cinematografica. Il caso di Chaplin è naturalmente unico ed esemplare: in quanto autore-produttore, ha saputo essere lui stesso il cinema e la sua evoluzione. Ne consegue perciò – limitandosi alle leggi più generali della psicologia della creazione – che, poiché i fattori obiettivi del genio hanno maggiori possibilità di modificarsi nel cinema più che in ogni altra arte, possono avvenire dei rapidi disadattamenti tra il cineasta e il cinema che riducono tutt’a un tratto, brutalmente, il valore delle sue opere. Ovviamente ammiro Rapporto confidenziale e vi ritrovo le stesse doti di Quarto potere. Ma Quarto potere apre un’era nuova nel cinema americano e Rapporto confidenziale è solamente un film di secondo piano. È il cinema che invecchia Ma fermiamoci su questa tesi che ci permette, credo, di arrivare al vivo del dibattito. Penso infatti che i miei interlocutori non solo rifiuterebbero di dire che Quarto potere è un film migliore di Rapporto confidenziale: affermerebbero più volentieri l’opposto, e capisco bene come potrebbero farlo. Rapporto confidenziale, che è il sesto film di Orson Welles, ha già presunzione di progresso. Non solo Welles aveva più esperienza di se stesso e della sua arte nel 1953 che nel 1941,

ma per quanto sia grande la libertà che aveva saputo conquistarsi a Hollywood il suo Quarto potere resta per forza, in una certa misura, un prodotto RKO.[31] Il film non avrebbe visto la luce senza almeno la complicità di una meravigliosa apparecchiatura tecnica e dei suoi non meno ammirevoli operatori. Gregg Toland, per citare solo lui, non per nulla ha il suo peso nel risultato. Al contrario, Rapporto confidenziale è interamente firmato Welles. Fino a prova contraria, verrà perciò ritenuto a priori superiore in quanto più personale e perché la personalità, invecchiando, può solo avere progredito. A questo proposito non posso ovviamente che dare ragione ai miei giovani polemisti quando affermano che l’età, in quanto tale, non riuscirebbe a diminuire il talento di un cineasta, e quando reagiscono violentemente contro il pregiudizio critico che consiste nel ritenere le opere giovanili o mature costantemente superiori alle opere della vecchiaia. Così abbiamo letto che Monsieur Verdoux non valeva La febbre dell’oro o abbiamo visto rimpiangere il Renoir della Regola del gioco mentre si criticava quello del Fiume o della Carrozza d’oro. Eric Rohmer ha risposto ottimamente su questo punto: «La storia dell’arte non ci offre, che io sappia, alcun esempio del fatto che un genio autentico abbia conosciuto alla fine della sua carriera un periodo di vero declino; piuttosto ci incita a trovare, sotto la goffaggine o la povertà apparente, la traccia di questa volontà di spoliazione che caratterizza l’“ultima maniera” di un Tiziano, di un Rembrandt, di un Beethoven o, più vicino a noi, di un Bonnard, di un Matisse, di uno Stravinskij…» (Cahiers du cinéma n. 8, «Renoir americano»). È solo per una discriminazione assurda che si può attribuire unicamente ai cineasti una senilizzazione da cui gli altri artisti sarebbero esenti. Rimangono i casi eccezionali di rimbambimento, ma anche questi sono più rari di quanto si creda. Baudelaire paralizzato, che non riusciva ad articolare nient’altro che una bestemmia smozzicata era forse meno baudelairiano? Robert Mallet ci riferisce, a proposito di Valéry Larbaud[32] condannato da venti anni all’immobilità e al silenzio, di come il traduttore di Joyce, che lottava contro la paralisi, si fosse

ricostituito un vocabolario di una ventina di parole semplici con le quali riusciva ancora ad articolare dei giudizi letterari straordinariamente penetranti. In verità le rare eccezioni che si potrebbero invocare non farebbero che confermare la regola. Il grande talento matura ma non invecchia. Questa legge di psicologia artistica non ha alcuna ragione di risparmiare il cinema, e le critiche fondate implicitamente sull’ipotesi della senilità cadono da sé. Bisogna applicare il postulato inverso e dirsi che là dove noi crediamo di ravvisare una decadenza il nostro senso critico deve essere in fallo poiché un impoverimento dell’ispirazione sarebbe un fenomeno poco verosimile. Da questo punto di vista, il partito preso della politica degli autori è fertile e gli do ragione contro l’ingenuità, se non addirittura la stupidità, dei pregiudizi che essa combatte. Ma tenendo conto di questo richiamo all’ordine, bisogna tuttavia rendere ragione di eclissi o decadimenti che colpiscono le opere di uomini incontestabilmente grandi. Credo di averne già abbozzato più sopra la giustificazione. In effetti essa è di ordine non psicologico ma storico. Il dramma non sta nell’invecchiamento degli uomini, ma in quello del cinema: si lascino pure sorpassare dalla sua evoluzione, quelli che non sanno invecchiare con lui. Di qui l’eventualità di una serie di fallimenti che possono arrivare fino al crollo completo senza che si debba per questo supporre che il genio di ieri è diventato un imbecille. Si tratta solo, ancora una volta, della comparsa di un divario tra l’ispirazione soggettiva del creatore e la congiuntura obiettiva del cinema, ed è quello che la politica degli autori vuole ignorare. Per i suoi sostenitori Rapporto confidenziale è quindi più importante di Quarto potere poiché essi vi trovano, a buon diritto, più Orson Welles. In altri termini, dell’equazione autore + soggetto = opera essi vogliono prendere in considerazione solo l’autore, mentre il soggetto è ridotto a 0. Alcuni fingeranno di concedermi che, d’altro canto, tra autori di pari capacità un soggetto buono vale più, ovviamente, di uno cattivo, ma i più sinceri o i più insolenti mi confesseranno che tutto si svolge come se le loro preferenze andassero invece ai filmetti di serie B nei quali la

banalità convenzionale della sceneggiatura lascia più spazio all’apporto personale dell’autore. Un culto estetico della personalità Certamente, è sul concetto stesso di autore che sto per essere attaccato e ammetto che l’equazione posta in precedenza è artificiosa, così come la distinzione scolastica della forma e dello sfondo. Per trarre profitto dalla politica degli autori bisogna esserne degni, e questa scuola sostiene appunto la necessità di distinguere gli «autori» veri dai «metteurs en scène», anche se di talento: Nicholas Ray è un autore, Huston sarebbe solo un metteur en scène, Bresson e Rossellini sono autori, Clemente non è altro che un grande regista, ecc. Questo concetto di autore si oppone di conseguenza alla distinzione autore-soggetto, perché essere degni di entrare nel cenacolo degli autori implica molto più della valorizzazione di una materia prima. Almeno in una certa misura, l’autore è sempre egli stesso il proprio soggetto. Qualunque sia la sceneggiatura, è sempre la stessa storia che lui ci racconta, o se la parola storia si presta a equivoci, diciamo che è sempre lo stesso sguardo e lo stesso giudizio morale lanciato sull’azione e sui personaggi. Jacques Rivette dice che l’autore è colui che parla in prima persona. La definizione è buona, adottiamola. La «politica degli autori» consiste, insomma, nello scegliere, in seno alla creazione artistica, il fattore personale come criterio di riferimento, quindi nel postularne la permanenza e anche la crescita da un’opera all’altra. Certamente si riconosce che esistono film «importanti» o «di qualità» che sfuggono a questa ripartizione, ma per l’appunto a questi verranno preferiti sistematicamente quelli in cui, fossero anche basati sulla peggiore sceneggiatura di circostanza, si può leggere in controluce il blasone dell’autore. Lungi da me l’intenzione di negare lo spirito positivo e il valore metodologico di questo partito preso. Anzitutto, ha il merito di trattare il cinema come un’arte adulta e di reagire contro il relativismo impressionista che il più delle volte presiede ancora alla critica cinematografica. Confesso che la pretesa esplicita o ammessa da parte di un critico di revisionare ogni

volta la produzione di un cineasta alla luce del suo giudizio ha un che di ubuescamente[33] presuntuoso. Sono d’accordo se si dice che la critica ha dei limiti umani e, a meno che non la si voglia abolire del tutto, è necessario partire dai sentimenti, dai piaceri o dai fastidi provati personalmente a contatto con un’opera. Va bene, ma a condizione, appunto, di ridurre l’impressione al suo ruolo di vincolo. Siamo costretti a passarci, ma non a usarla come punto di partenza. In altre parole, ogni atto critico deve consistere nel riportare l’opera in questione a un sistema di valori, ma questo processo non dipende solo dall’intelligenza, la sicurezza del giudizio deriva anche, o anzitutto (se limitiamo l’avverbio al suo significato cronologico) dall’impressione globale provata di fronte al film. Considero perciò due eresie simmetriche il fatto di applicare obiettivamente a un’opera una griglia critica passepartout, così come quello di considerare sufficiente l’affermazione del proprio piacere o del proprio disgusto. Il primo nega il ruolo del gusto, il secondo stabilisce a priori la superiorità del gusto del critico su quella dell’autore. Aridità o presunzione! Quello che mi piace nella politica degli autori è il fatto che essa reagisce contro l’impressionismo pur prendendone il meglio. Infatti il sistema di valori che propone non è ideologico. Parte da un apprezzamento in cui il gusto e la sensibilità hanno la parte maggiore, poiché si tratta di distinguere l’apporto dell’artista in quanto tale, al di là del capitale costituito dal soggetto o dalla tecnica: di individuare l’uomo dietro allo stile. Ma fatta questa distinzione, sul nostro critico incombe la petizione di principio che consiste nel far partire la sua analisi dall’affermazione che il film è buono perché è d’autore. La griglia che il critico impone sull’opera è poi il ritratto estetico del cineasta dedotto dalle sue opere precedenti. E ha ragione nella misura in cui la promozione del cineasta alla dignità di autore non sia sbagliata; perché obiettivamente ha più ragione a fidarsi del genio dell’artista che non della sua intelligenza di critico, ed è da qui che la politica degli autori ritrova il principio della critique des beautés.[34]

Quando si ha a che fare con il genio, è sempre un buon metodo ritenere a priori che una supposta debolezza dell’opera non sia altro che una cosa bella che non si è ancora arrivati a capire. Ma ho mostrato che questo metodo aveva i suoi limiti anche nelle arti tradizionalmente individualistiche come la letteratura, e a maggior ragione nel cinema in cui le anastomosi sociologiche o storiche sono innumerevoli. Accordando una tale importanza ai «film di serie B», la politica degli autori riconosce e conferma a contrario questa dipendenza. D’altro canto, la politica degli autori è senza dubbio la più pericolosa, perché i suoi criteri sono molto difficili da formulare. È significativo che, esercitata negli ultimi tre o quattro anni dalle nostre penne migliori, in gran parte attende ancora la sua teoria, e non possiamo dimenticare come Rivette presentava Hawks alla nostra ammirazione: «L’evidenza è il marchio del genio di Hawks; Il magnifico scherzo è un film brillante e s’impone alla mente mediante l’evidenza. Eppure alcuni si rifiutano, rifiutano ancora di essere soddisfatti dalle affermazioni pure e semplici. Il disconoscimento non ha forse altri motivi che questo»… Si vede il pericolo, costituito da un culto estetico della personalità. Utile e pericolosa Tuttavia non è questo che conta, almeno fintantoché la politica degli autori viene esercitata da persone di gusto che sanno rimanere attente. È il suo aspetto negativo che mi appare più serio. È fastidioso lodare a torto un’opera che non lo merita, ma il rischio è meno nefasto che respingere un film pregevole perché il suo regista finora non ha realizzato nulla di buono. Non che i critici di autore non si compiacciano ogni tanto di scoprire o incoraggiare un talento che si rivela, ma essi disdegnano sistematicamente in un film tutto ciò che proviene da un fondo comune e che tuttavia costituisce qualche volta la parte più mirabile, come pure, in altre circostanze, la più detestabile. Così, una certa forma di cultura popolare americana è all’origine del Van Gogh di Minnelli, ma un’altra cultura più spontanea è anche alla base della commedia

americana, del western, del poliziesco noir, dove la sua influenza è questa volta benefica, perché costituisce la ricchezza e la salute di questi generi cinematografici, frutto di un’evoluzione artistica in meravigliosa simbiosi con il pubblico. Così si vede criticare un western di Anthony Mann (e Dio sa se mi piacciono i western di Anthony Mann!) come se non fosse anzitutto un western, vale a dire tutto un insieme di convenzioni di sceneggiatura, di recitazione e di messa in scena. So benissimo che in una rivista di cinema si possono omettere questi dati preliminari, tuttavia devono essere almeno sottintesi, mentre la loro esistenza sembrerebbe piuttosto taciuta per pudore, come un limite un po’ ridicolo e che potrebbe sembrare fuori luogo ricordare. In ogni caso verrà disdegnato, o trattato con condiscendenza, il western di un regista non gradito, fosse anche levigato e perfetto come un uovo. Ora, che cos’è Ombre rosse se non un western ultraclassico nel quale l’arte di Ford in effetti consiste unicamente nel condurre personaggi e situazioni a un grado assoluto di perfezione? E mi capita di vedere alla commissione di censura degli stupendi western di terza categoria quasi anonimi ma che testimoniano una conoscenza ammirevole delle leggi del genere e ne rispettano lo stile dal principio alla fine. Paradossalmente, i sostenitori della politica degli autori ammirano in particolar modo il cinema americano, che è quello in cui i vincoli di produzione sono più pesanti. È vero, il cinema americano è anche quello in cui vengono messe a disposizione del regista le massime agevolazioni tecniche, ma questo non funge da compensazione. Ciononostante ammetto che a Hollywood la libertà sia più grande di quanto si dice, a patto di saperne leggere le manifestazioni, e aggiungerò anche che la tradizione dei generi è un fulcro della libertà creativa. Il cinema americano è un’arte classica, ma, appunto, perché non ammirarvi quanto c’è di più ammirevole, vale a dire non solo il talento dell’uno o dell’altro tra i suoi cineasti, ma il genio del sistema, la ricchezza della sua tradizione sempre viva e la sua fertilità al contatto di nuovi contributi, come dimostrerebbero se ce ne fosse bisogno film come Un americano a Parigi, Quando la moglie è in vacanza o Fermata

d’autobus? È vero che Logan ha la fortuna di essere considerato un autore, o quantomeno un apprendista autore. Ma poi non si loda più in Picnic e Fermata d’autobus quello che tuttavia mi sembra essenziale, vale a dire la verità sociale, certo non data come fine a se stessa, ma integrata a uno stile di narrazione cinematografica nello stesso modo in cui l’America d’anteguerra era integrata alla commedia americana. Cerchiamo insomma di concludere. La politica degli autori mi sembra racchiudere e difendere una verità critica essenziale di cui il cinema ha bisogno più di tutte le altre arti, proprio nella misura in cui l’atto di vera creazione artistica è più incerto e minacciato che altrove. Ma la sua pratica esclusiva condurrebbe a un altro pericolo: la negazione dell’opera a vantaggio dell’esaltazione del suo autore. Abbiamo tentato di mostrare perché autori mediocri possano, per combinazione, realizzare dei film ammirevoli e come, in compenso, perfino il genio sia minacciato da una sterilità non meno fortuita. La politica degli autori ignorerà i primi e negherà quest’ultima. Per quanto utile e feconda, mi sembra perciò, indipendentemente dal suo valore polemico, che debba essere completata da altri approcci che restituiscono al film il suo valore di opera. Questo non significa affatto negare il ruolo dell’autore, ma restituirgli la preposizione senza la quale il sostantivo «autore» effettivo non è altro che un concetto zoppicante. «Autore», senza dubbio, ma di cosa? (Apparso sul numero 70 dei Cahiers du cinéma, aprile 1957) [27] Cfr infra, p. 129. [n.d.t.] [28] Commedia di P.A. Caron de Beaumarchais, che completa (dopo Il barbiere di Siviglia e Il matrimonio di Figaro) la cosiddetta Trilogia di Figaro. [n.d.t.] [29] Si tratta di opere, rispettivamente, di Victor Hugo, Gustave Flaubert e André Gide. [n.d.t.] [30] Félix Arvers (1806-1850), poeta divenuto celebre grazie a un unico sonetto. [n.d.t.] [31] Casa di produzione cinematografica americana. [n.d.t.]

[32] Poeta francese (1881-1957). [n.d.t.] [33] L’allusione è al dramma Ubu re di Alfred Jarry. [n.d.t.] [34] Principio che postula una critica fatta partendo dalle caratteristiche positive di un’opera, anziché da quelle negative. [n.d.t.]

ERIC ROHMER RISPONDE A BARTHÉLÉMY AMENGUAL

«La politica degli autori» è il titolo di un articolo che François Truffaut si è proposto di scrivere molto tempo fa. Ma quello che viene ben concepito ha bisogno solo di essere enunciato. La parola circola fra di noi come nel campo avversario: questo slogan colto al balzo fornisce una nuova ossatura al sistema dei nostri detrattori. Quello di cui ci accusano alcuni dei nostri lettori non è tanto il fatto di celebrare alcuni a scapito di altri, quanto di difenderli con una costanza senza limiti. Questa è l’opinione che il nostro collaboratore Barthélémy Amengual esprime con una virulenza e una concisione che mi permetteranno di omettere molte lettere dallo stile più prolisso o più timido: I paradossi più irritanti dei Cahiers du cinéma, o almeno dei loro Giovani Turchi,[35] dipendono dal loro atteggiamento critico, contraddittorio soltanto in apparenza, davanti ai film che amano. Da una parte, essi affrontano le opere come se fossero meteoriti caduti dal cielo, autosufficienti, recanti in se stessi la loro fine e il loro inizio, universi completi, monadi perfette, di fronte alle quali il critico deve solo definire i propri rapporti, le proprie certezze, le proprie illusioni, le proprie somiglianze, i propri valori. Locande spagnole, o i posti più belli del mondo, o paesaggi dove fermarsi a fare un picnic: i film rimandano ai critici gli intenti e i volti che essi gli assegnano. A partire da questo le storie ingegnose di un Hitchcock possono diventare drammi cristiani, o anche cattolici, e un certo neorealismo superiore può

riprodurre, fosse anche nell’assenza, la presenza concreta del divino. Ma a dispetto di questa posizione che guarda l’opera allo stesso modo in cui guarda un dato frammento del mondo – donna, fiore, golfo, sasso – che quindi ignora l’autore, i suoi discorsi come le sue intenzioni, i Cahiers du cinéma vantano una politica degli autori. Incensano una manciata di cineasti ai quali assegnano, senza battere ciglio e senza alcuna restrizione, la paternità assoluta del minimo dettaglio, della più gracile allusione, del più fugace accento dei film prodotti da questi registi, e questo malgrado sappiano benissimo che ovviamente c’è una bella differenza tra il dire del regista e il fare del produttore, a Hollywood almeno come altrove. Tutti i processi alle intenzioni, allora, valgono se servono a costruire una metafisica, a fissare uno stile, a consolidare una visione del mondo. Ma questi stessi processi alle intenzioni diventerebbero indegni sospetti inquisitori se i critici dei Cahiers si proponessero di vedere a che scopo il film può essere stato prodotto, a chi serve, a chi nuoce (intenzionalmente o indirettamente), di che cosa è il riflesso. In fondo, non ci sono autori, per i Cahiers du cinéma, se non nella misura in cui questa presenza invocata rafforza l’esistenza dei film come mondo, come natura. Più il cineasta è «autore», più comodamente il suo film può essere chiosato. Di Dio, unico Autore perfetto, la Creazione è infinitamente indefinita. E perciò cade la contraddizione. I nostri Giovani Turchi sono coerenti. Come quei materialisti del Settecento, che facevano a meno di Dio in tutto ma avevano bisogno di un primo motore, i loro universi cinematografici – macchine perfette – rivendicano un Orologiaio. Non aggraverò la mia posizione aggiungendo che i Cahiers, malgrado quello che essi ne dicono, e spesso, non mi sembrano esenti da una religione divoratrice.

Ma loro ci tengono che tutto sia in ordine. Perciò hanno preso Hawks, Hitchcock e pochi altri e ne hanno fatto altrettante ipostasi del Dio dei Filosofi. Ci sono comunque, è ovvio, degli autori al cinema. Ma a questi autori veri, e spesso, ahimè, più numerosi di quanti ne occorrerebbero per un solo film, i Cahiers du cinéma preferiscono questo autore ideale, con la A maiuscola, che in tutta libertà essi costruiscono a partire dalle pellicole che hanno visto firmate dallo stesso nome. E così il cerchio idealistico si chiude. Film e autori veri (di tutte le categorie) sfuggono al mondo e alla storia per poi, divenuti puro cinema, entrare a far fruttare l’assoluto nei Musei dell’immaginario. Barthélémy Amengual

Concederò al nostro censore che l’atteggiamento che ci rimprovera non è esente da un certo dogmatismo, e che in effetti non si tratta (anche se il numero delle sorprese gradevoli prevale su quelle sgradevoli) dell’affermazione di un fatto che si verifica sempre, ma di una linea di condotta, di una politica per dirla tutta. Questa fede, se di fede si tratta, è stata condivisa da persone più prudenti di noi. Alain, che non ha la reputazione di cattivo maestro, ne aveva perfino fatto una delle sue fissazioni, invocando in suo soccorso Chateaubriand e la sua idea della critique des beautés. Se l’Università preferisce, in questo momento, pesare meschinamente i pro e i contro – timidezza lodevole ma sterile – si mostra nel complesso più generosa e più categorica nei confronti del passato. Non ci sono più, sulle tavole dell’Accademia di Belle Arti, le Bagnanti di X accostate alla Battaglia di Y…, ma un Braque, un Botticelli, un Bruegel affiancati a più giusto titolo. In tutti i campi, oggi, pittura, musica, letteratura, la politica dei brani scelti cede il passo a quella delle opere complete. Quello che resta non sono opere, ma autori, e, al cinema, leggendo i programmi dei cineclub e delle cineteche, scommetto che, a torto o a ragione, non saranno diversi. Il nome del regista prende, sui manifesti, il posto d’onore, ed è giusto. So che la

«paternità assoluta del minimo dettaglio» non gli è stata concessa insieme alla sua patente professionale. Sta a lui conquistarla e noi constatiamo che arriva a farlo, se ha un minimo di carattere, di autorità, di genio, che si chiami Fritz Lang, Ophüls, Hitchcock o Renoir. Il film è per lui un’architettura nella quale le pietre non sono – non devono essere – figlie della sua stessa carne. Nessuno gli nega il diritto di incidere il suo nome alla base del monumento, anche se non ha maneggiato la cazzuola e la livella. Il paragone avanzato da B. Amengual è giusto: l’universo della creazione estetica è un mondo di cause finali, governato da una volontà autocratica. L’idea di un Dio orologiaio, di un demiurgo, non è presa a prestito dall’arte? E del resto, a questi «autori veri» (suppongo che B.A. intenda con questo i collaboratori del capo, l’addetto alla fotografia, lo scenografo, il musicista o lo sceneggiatore), noi lasciamo, così mi sembra, nei Cahiers un posto che i nostri confratelli dei quotidiani o dei settimanali non hanno sempre il tempo di concedere. E allora? Il nostro peccato è minimo, se è d’intenzione. Dove sono i casisti? (Apparso sul numero 63 dei Cahiers du cinéma, ottobre 1956) [35] Riformatori; l’appellativo, spesso usato nei confronti dei critici dei Cahiers Truffaut, Chabrol, Godard, Rohmer e Rivette, deriva dal movimento politico che prese il potere in Turchia nel 1908. [n.d.t.]

VENT’ANNI DOPO. IL CINEMA AMERICANO, I SUOI AUTORI E LA NOSTRA POLITICA IN DISCUSSIONE di Jean-André Fieschi, Jean-Louis Comolli, Michel Mardore, André Téchiné, Gérard Guégan, Claude Ollier

La politica degli autori e il cinema americano sono stati e sono ancora i punti più scottanti, i passi più difficili nella storia e nella geografia della cinefilia. La difesa e la presentazione dell’una e dell’altro, condotte in parallelo dai Cahiers dai loro primi numeri fino a ora, ne hanno fatto delle opzioni fondamentali, preliminari e necessarie a ogni volontà di riconoscimento plenario del cinema come arte maggiore. Ebbene, è arrivato il momento di fare il bilancio di questa lotta: la battaglia impegnata simultaneamente per l’accettazione della politica degli autori e quella del cinema americano si chiude con due risultati contraddittori. Da una parte tutto conduce, sembra, a un bollettino di vittoria: a parte qualche somaro della critica le cui idee, vista la loro mancanza, non erano granché suscettibili di rinnovamento, tutti coloro che fanno professione di fede nel cinema, critici, riviste, cineclub, amatori, tengono ormai conto della realtà della nozione di autore e della fondatezza della loro politica, come dell’importanza del cinema americano, storicamente ed esteticamente. Su questo fronte, la battaglia è vinta al di là di tutte le previsioni. Quello che conta è dunque proseguirla su altri fronti: tocca al cinema giovane prendere il testimone nella staffetta. Ma, d’altra parte, man mano che trionfavano, la politica degli autori e quella del cinema americano hanno presto superato, come è inevitabile per le idee seducenti, l’ambito iniziale delle loro definizioni.

In nome dell’una e dell’altra, abusi, eccessi, errori e deliri hanno avuto buon gioco nel moltiplicarsi. Più esse perdevano senso, più acquistavano valore mitico; più cadevano nello specifico, più acquistavano forza di assoluto. Per finire, le libere scelte e le scommesse sono diventati dogmi e sistemi. È con questi abusi che noi ce la prendiamo. È la dogmatizzazione della politica degli autori e la valorizzazione sistematica dei film americani che noi mettiamo in discussione, nella misura in cui ci sembra – e i film recenti, tanto americani quanto europei, così come l’evoluzione del cinema nel suo complesso ce lo confermano in continuazione – che attenersi a regole che non sopportano alcuna eccezione, a sistemi che ricusano in anticipo qualsiasi contraddizione, finisce per restringere sia la ricchezza del cinema sia la comprensione che possiamo averne. Non si tratta pertanto di bruciare l’idolo che abbiamo adorato. Al contrario: si tratta di non smettere di accompagnare il cinema nella sua scoperta di se stesso. Il tempo degli autori è passato e non è passato; quello del cinema americano deve forse ancora venire. Ma ciò che conta è, al momento, accorgersi che la bellezza al cinema non conosce regole né limiti, che smentisce le leggi alle quali la si crede sottomessa, che si manifesta nei primi film come negli ultimi, che insomma è infedele e capricciosa, e che ritrovarla nella stessa forma in cui è già esistita in passato conta meno che esserne sorpresi ogni volta. Noi non siamo né i professori né i giudici di un cinema portato a compimento, siamo i testimoni di un cinema che si sta facendo. Così il dibattito che segue non ha altra ambizione che quella di porre o riproporre delle domande che ci sembrano serie. Abbiamo girato a vuoto tanto a lungo da avere un po’ di vertigine, ora che il girotondo è finito e che si tratta di ripartire. Il cinema, nell’essenziale, è ancora da scoprire, ma non spetta ai nostri lettori dircelo? Jean-André Fieschi: Quello che importa è mettere in chiaro il malinteso o i malintesi che, da anni, alterano i rapporti che i

cinefili in generale mantengono con il cinema americano e con le nozioni di Autore o di Messa in Scena così come sono state esaminate, spesso confusamente, talvolta in modo eccessivamente teorico, in questi stessi Cahiers. Il primo di questi malintesi riguarda ciò che si potrebbe chiamare una sacralizzazione abusiva del cinema americano nel suo complesso, cinema più o meno considerato dalla grande massa degli appassionati di cinema come un oggetto non solo essenziale e privilegiato, ma anche magico. Diciamo che, su questo particolare punto, si è verificato un cambiamento abbastanza radicale: una volta alleggerito della sua funzione magica, tributaria per gran parte al fascino dell’esotismo (va da sé che non parliamo di Chaplin, Welles o Hitchcock ma piuttosto di Walsh, Hathaway o Stuart Heisler, di tutti gli artigiani, piccoli o grandi, a cui si deve la qualità dei film commerciali, dei film di genere o prodotti in serie), è stato necessario arrendersi all’evidenza che per noi, giovani europei che vogliono fare film, il cinema americano non è un cinema esemplare, come è stato affermato con un po’ di leggerezza, ma è un cinema che, tranne poche eccezioni ben note (Sternberg, Welles, Hitchcock, Lang e tutti i nostri «autori») ci riguarda meno, se non a titolo di puri e semplici appassionati o consumatori, degli attuali film italiani, polacchi, francesi o brasiliani. E che la qualifica di autore, nella misura in cui implica un giudizio di valore (ci torneremo più avanti), non si applica a un centinaio di cineasti, ma a un numero molto più ristretto che rimane da delimitare con la massima precisione possibile. Jean-Louis Comolli: La nozione di «autore», così come è stata difesa dai Cahiers, era all’inizio, mi sembra, abbastanza vicina a quella di autore in letteratura o in pittura: un uomo che gestisce a suo piacimento la propria opera, nella quale c’è lui stesso nella sua interezza. Si trattava per i critici e futuri cineasti dei Cahiers di affermare che nel cinema, «arte collettiva», c’era la possibilità per degli artisti di proporre la loro «visione del mondo», esprimere le loro preoccupazioni personali, o anche intime; in breve, che in esso non vi era un

annullamento dell’individuo, del creatore nella collettività della creazione, bensì il contrario… Michel Mardore: Si badi che negli Stati Uniti, per le persone intelligenti come Richard Brooks, il vero autore del film è il producer, vale a dire colui che raduna le idee, sceglie gli artigiani, si assume la responsabilità dell’opera. Sono stati considerati come autori dei lavoratori specializzati. Fieschi: Quando si legge un’intervista con Minnelli, che è molto simpatico ma non ha granché da dire, e poi un’intervista con John Houseman, che ha prodotto alcuni film di Minnelli, appare evidente che l’autore è Houseman e non Minnelli. Lo stesso vale per un buon numero di commedie musicali, nelle quali il contributo di Arthur Freed, che sceglieva sceneggiature, coreografi, attori, scenografi e registi, è più importante di quello di questi ultimi. Anche quando un cineasta diventa produttore di se stesso, è padrone di se stesso ma ha lo stesso un padrone: è un po’ come il problema dell’autocensura dei giornali in alcuni paesi fascisti. E non è che i film ottenuti con questo metodo siano per forza più liberi o più coraggiosi che se fossero prodotti da Zanuck. Ci sono delle cose perlomeno curiose, nel nostro caro cinema americano: come per esempio il fatto che Vidor rinneghi il finale, sublime, della Fonte meravigliosa. Ecco un film, e non solo nell’ambito del cinema americano, in cui la personalità e l’individualità di un uomo e di un creatore sono state affermate con molta forza e poche concessioni. Ebbene, Vidor stesso, perfino contro il suo stesso capolavoro, viene influenzato dalla mentalità del producer. Comolli: La politica degli autori era un’affermazione al tempo stesso ambiziosa (riconoscere al cinema tutto il prestigio di un’arte a pieno titolo) e molto umile: l’autore cinematografico era semplicemente l’equivalente dello scrittore, del pittore, del musicista, di fronte alla sua opera come gli altri di fronte alle loro. Ma, allo stesso tempo, questa definizione era integrata da un postulato che dipendeva non tanto dall’apprezzamento critico quanto dal giudizio di valore: dal momento in cui a un cineasta veniva riconosciuta la

qualifica di autore, i suoi film si valorizzavano l’un l’altro, dato che ogni film successivo dell’«autore» poteva essere solo, se non ogni volta eccellente, di certo perlomeno interessante. Cioè veniva riconosciuta una certa fedeltà dell’autore a se stesso, delle costanti di ispirazione, di soggetti, di espressione e così via, che non solo caratterizzavano il cineasta e ognuno dei suoi film, ma costituivano l’essenza del loro interesse. A partire da questo, si è verificata una sorta di slittamento. Si è creata una confusione tra la nozione di autore e la nozione di tema: è bastato rilevare delle costanti, delle ossessioni in un cineasta per definirlo «autore» – il che è giusto – e per ritenerlo grande – il che era, nella maggior parte dei casi, improprio. Al contrario, quando si amava (per un motivo o per un altro) un cineasta fino a quel momento non riconosciuto come autore, ci si ostinava – del resto con successo – a trovare nella sua opera un qualcosa di «tematico», in modo da autenticare automaticamente l’autore e confermare la qualità presunta della sua opera. In poche parole, ogni grande autore aveva una tematica, ogni cineasta che veniva nominato grande autore si trovava dotato di una tematica, e la minima presenza di una tematica sottoponeva un’opera alla politica degli autori. Abbiamo quindi un fenomeno di amplificazione della nozione di autore. Una valorizzazione reciproca dell’autore e del tema. Appare evidente che anche i peggiori registi hanno le loro ossessioni e che le trattano nei loro film. Male, si capisce. E queste non sono di grande interesse. Fieschi: La tematica generalmente è una grossa balla, almeno nei termini in cui viene posta: allora quella di Ford starebbe nel manuale del piccolo reazionario. Quanto poi a quella di Walsh, riducibile ai due o tre principi essenziali dell’avventura, non è mai una garanzia, ovviamente, del successo individuale del film: Tamburi lontani è un remake abbastanza preciso di Obiettivo Burma!; ma questo non spiega in nessun modo perché il secondo è un grande film e il primo no.

Comolli: Nello stesso modo, la tematica fulleriana non è certo la cosa più interessante del mondo. Se nei cineasti si cercano delle idee, è meglio trovarle altrove. Non sono sicuro che siano espresse al meglio proprio nei film. Fieschi: Un altro esempio: il soggetto di My Fair Lady è incontestabilmente più cukoriano di Sessualità, che è uno dei capolavori del suo autore, mentre My Fair Lady è perlomeno discutibile, malgrado tutto quello che ne potrà dire un esegeta pernicioso come Téchiné. André Téchiné: Se Sessualità è superiore a My Fair Lady, questo nulla toglie al valore di My Fair Lady, checché ne pensiate. Rispetto al musical di Broadway, Cukor opera un vuoto barometrico stupefacente. Vi è un chiaro rifiuto dello spettacolo o, più precisamente, dello spettacolare. Il caso di Cukor è particolare e questa particolarità è la stessa per ogni cineasta americano preso indipendentemente, perché ci sono solo delle eccezioni ed è nella misura in cui tali eccezioni coincidono che le si dogmatizza, distruggendo nello stesso tempo la loro complessità, canalizzandole. La via viene quindi aperta ai seguaci e non ai creatori. Comolli: Tutto questo ripropone perciò la domanda: che cos’è un autore nel cinema? La qualifica di autore risiede nella fedeltà ai temi, nell’uniformità delle loro elaborazioni? O non è necessario ridurre la quantità degli autori e fare in modo che corrisponda rigorosamente alla qualità stessa delle opere? Storicamente, a essere designati come autori sono stati per primi i grandi cineasti: Hawks, Rossellini, Hitchcock, Lang, Mizoguchi, Bergman, Buñuel, Renoir… Allargare la qualifica di autore vuol dire svalutarla. Pertanto, se la politica degli autori è potuta sembrare fondata sulla realtà nel caso di alcuni grandi cineasti, questo è dovuto alla scelta preliminare di questi cineasti, alla scommessa fatta su di loro. Un certo gusto prelude a ogni politica degli autori e ne costituisce il fondamento. E quando la politica degli autori è usata a vanvera e si trova perciò in fallo, è questione di cattivo gusto. Non è l’interesse di una tematica a costituire il valore di un’opera, ma viceversa.

Bisogna evitare di confondere continuità tematica e costante estetica. Gérard Guégan: I bostoniani odiavano il West e quelli che progettavano la sua conquista: la Storia è poi andata avanti senza di loro. All’indomani della Liberazione, l’accoglienza riservata ai film d’oltreoceano fu in qualche modo analoga. Lo stesso disprezzo, la stessa devozione. E, come sempre, la fede fece il resto. Di necessità, un critico tirò fuori una definizione: hitchcock-hawksiano. L’epoca (L’Ecran français era sprofondato in un antiamericanismo pietoso) si prestava alla violenza. Un’ortodossia nuova, a quanto sembrava, prese forma: la politica degli autori. Comunque, a rileggere quei numeri dei Cahiers, siamo d’accordo nel constatare l’inesistenza di criteri sui quali si baserebbero le ragioni di una scelta. Senza dubbio, la loro assenza ha favorito una sistematizzazione della suddetta politica che, col passare degli anni, ha corso il rischio di non essere altro che una griglia, applicabile a qualsiasi prodotto. Bazin, in un articolo intorno al quale dovrebbe necessariamente organizzarsi la critica dei critici, deplorava egli stesso l’esilità della teoria. «Tuttavia non è questo che conta», scriveva, «nella misura in cui la politica degli autori viene esercitata da persone di gusto che sanno rimanere attente». Chi non sarebbe tentato di vedere in questa seconda proposizione la chiave di tutti i nostri problemi? Perché i fatti parlano da soli: dall’epoca di Truffaut e di Rohmer, gli errori si contano sulle dita di una mano. Era necessario risaldare vari elementi, dargli una coerenza organica; loro ci riuscirono. In loro assenza, e poiché bisognava pur vivere, venne fabbricato un codice che (l’occasione fa l’uomo ladro) si modificò più di una volta di fronte a un Ulmer o a un Walsh, per citare solo due esempi. Di deformazione in deformazione, il postulato si trasformò in legge fin troppo intollerabile. Lo si evocava a ogni piè sospinto. Dal recinto sacro venivano respinti Brooks, Welles, Wilder, Donen. Al che, si formò un clan che li riprese nel suo grembo; o meglio, le piccole tribù si accamparono nei paraggi dei Musei del Cinema e chiesero uno

statuto adatto per Daves e Corman. La politica degli autori diventava un mezzo elegante per far prendere lucciole per lanterne. Mardore: Per ristabilire il punto di partenza, occorrerebbe rovesciare il punto di vista di Truffaut. Più di dieci anni fa, Truffaut, allo scopo di imporre la politica degli autori, esigeva dai suoi lettori una presa di posizione. In sostanza gli diceva: «A voi piacciono quattro o cinque film di Kazan, tre o quattro di Clément. È meglio scegliere una buona volta tra Kazan e Clément, invece di cavillare sulla qualità di ogni film». In questo modo implicava una superiorità della personalità, della tematica. Era in qualche modo una scommessa, una lotteria dove i buoni valori erano giocati, mentre i cattivi valori, anche se trionfavano accidentalmente, venivano respinti. Questo punto di vista tattico è oggi superato. Il film comincia a contare più dell’autore, al contrario di come hanno immaginato gli storici che credevano il cinema impersonale nella sua infanzia e personale nella sua età adulta. Guégan: Prendiamo il caso dell’ultimo Minnelli. A molti è sembrato che noi rigettassimo brutalmente quello che era adorato dal pubblico (o sembrava esserlo). Ci dichiariamo colpevoli, comunque. Non siamo, infatti, responsabili di un terrorismo che riduce ogni pensiero all’accettazione dei valori normativi, che esige da ogni spettatore la sua spersonalizzazione? Tacere oggi la mediocrità dell’ultimo Minnelli porterebbe a non distinguere nella sua opera i successi dai fallimenti. Conveniamone una volta per tutte: l’arte di Minnelli tira fuori la sua grandezza dalla sua schiavitù alle convenzioni americane. Un esempio: costruire un mondo in tutto simile a quello vero per poi deformarlo mentre lo si filma; sopprimete il primo elemento e avrete Castelli di sabbia. Il passo falso di un Welles ha un altro sapore: c’insegna che un autore può sbagliare, ma i suoi errori sono mille volte più appassionanti dei mezzi successi di un altro, che Lo straniero, malgrado i suoi insuccessi, prefigura L’infernale Quinlan. Allo stesso modo ignorare il coraggio superbo di Pelle di donna di

Autant-Lara per esaltare le false audacie di My Fair Lady conduce a negare l’arte del nostro tempo, mentre privilegiare il passato per autenticare il futuro è un’impostura. Funzione, questa, assunta di frequente dalla critica tematica, poiché, per questa, il pensiero preesiste all’opera d’arte, la condiziona in una continuità idealistica. Prendete Walsh, che qualcuno preferisce a Welles; che cosa accadrebbe se ci venisse la voglia d’intrattenere a lungo i nostri lettori sull’omaggio che gli dedicò la Cinémathèque? Una rottura con la tradizione? Non credo. Tutt’al più un attrito, ma un attrito che a lungo andare perderebbe tutta la sua importanza, dato che comunque del suo cinema si prenderebbe in considerazione solo quello che piace: dal Sentiero della gloria a Far West, tanto per tener conto solo di questi ultimi vent’anni, ecco dieci film per i quali noi continueremo a lottare. Ma esigere che vengano citati anche tutti gli altri per sostenere l’ipotesi di un secondo livello è come augurargli una morte violenta, perché la bellezza dei film di Walsh sta in questa efficacia riducibile all’unica visione, questa lettura a voce alta di un’intenzione evidente durante tutta la proiezione. Detto questo, abbiamo forse fatto i difficili con Far West? Dalla situazione critica di questi cineasti nasce un vantaggio: quello di rompere con una fede chiusa e impura, di riprendere in mano lo scetticismo senza il quale non si costruisce nulla di durevole. Senza il quale noi avremmo scartato l’ultimo Mackendrick o l’ultimo Mulligan. Altri si preoccuperanno di sviluppare ciò che qui deve essere considerato solo come un punto di vista, nato da una discussione intorno a un tavolo, e di dire in che modo Straub, Bertolucci, Groulx, Forman e Skolimowski inaugurano non tanto un cinema nuovo quanto una piattaforma critica nuova. Mardore: Noi non abbiamo più il diritto di trascurare le coincidenze fortunate, in nome dell’assoluto di una politica degli autori, perché è arrivato il momento di prevedere un cinema aperto, vale a dire non dogmatico. Ognuno, in questa prospettiva, può avere la sua chance. Non è un rovesciamento delle teorie, delle alleanze, ma un approccio alla totalità del

cinema. Non devono più esserci perlomeno, «maledetti» dalla critica.

film

«maledetti»…

Peraltro, il cinema americano non è mai stato «tutto». Bergman e Buñuel hanno avuto i loro difensori. Si parla di una tendenza dei Cahiers, ma in effetti, è necessario distinguere molte cose, e molti periodi. All’origine, anteriormente alla creazione della rivista, l’autore di film è un autore completo. Crea la sceneggiatura, la musica, dirige gli attori, controlla la fotografia, ecc. Il prototipo è Chaplin. A rigore, Welles o Sternberg. Più avanti, l’autore è prima di tutto l’inventore (o il rewriter) della sceneggiatura che è responsabile in secondo luogo della regia, anche se la regia prende il primo posto nella mente dei cinefili. Ogni intervista ai cineasti americani conferma che, al di fuori di ogni problema giuridico di partecipazione, o di «firma», loro hanno effettivamente il controllo della sceneggiatura. Quindi sono degli autori. A partire da questo punto, si è sviluppata la nozione di una scelta. Dato che gli americani, e alcuni europei, si considerano responsabili sia della sceneggiatura che della regia, era importante prendere una decisione. La «visione personale», il punto di vista sul mondo apparvero come dei criteri assoluti, allo stesso titolo della pura regia. La nozione di «continuità» (nell’ispirazione, nella tematica) prevalse sulla diversità. Un regista «interessante» meritava che venisse esaminato anche il meno importante dei suoi prodotti. Il regista «non interessante» non meritava che ci si prendesse il disturbo di considerare neppure la migliore tra le sue produzioni. La politica degli autori consisteva in un’arbitrarietà consapevole, intenzionale. È contro questa arbitrarietà che noi reagiamo. Guégan: Conviene rammentare una vecchia regola caratteristica di questa redazione: quello a cui il film piace di più ne scrive. Regola che, appena istituita, provocò un’inflazione della qualità. A più riprese, infatti, ciò che ci eravamo riproposti sfociò in una pedagogia dell’entusiasmo perlomeno dubbia. Una terminologia inesatta, irritante, faceva tabula rasa delle critiche reali o probabili. Comunque sia, non dimentichiamo che questo parere illuminato esisteva soltanto

in funzione di un simbolo grafico che indicava un punteggio, più noto sotto il marchio «Conseil des Dix».[36] Il mistero (ma c’era un mistero?) perdeva consistenza quando si confrontava la recensione del film e l’opinione dei saggi o turbolenti Dieci. Nessun film beneficiò mai dell’unanimità. Si trovava sempre un punto critico, una o due stellette per dominare il destino, togliergli la sua parte d’ignoto. Alla pari, i due partiti condannavano il culto e permettevano di giudicare onestamente, di essere di parte solo al momento stabilito. Comunque, una pratica corrente del pubblico dei cineclub insegna che solo gli elogi arrivano ai lettori e che l’eccezione è la regola. Insomma, le relazioni che esistono fra di noi ricorderanno quelle osservate da Pavlov fra i quadrupedi. La scienza le definisce riflessi condizionati… Fieschi: Si tratta però di chiarire mediante degli esempi, ed è precisamente a livello di esempi che tutto si complica. Ci sono, diciamo, sessanta cineasti americani che hanno firmato dei film ben fatti, interessanti o in qualche modo appassionanti, per il soggetto, o perché sono stati interpretati da Bogart o Cooper, o per una data intuizione del paesaggio e altre bellezze del dettaglio. Queste bellezze, certamente, sono tutt’altro che trascurabili, anzi contribuiscono in buona parte a creare quel piacere fisico dello spettacolo che l’America ha saputo portare alla perfezione. Ma non trascurarle non significa che bisogna vedere soltanto loro, a detrimento di idee più fondamentali. Conosciamo tutti questa aberrazione cinefila che sta nel considerare, in un film, solo il momento prezioso in cui Jack Elam schiaccia un mozzicone di sigaretta sull’occhio sinistro di un capo Apache senza una gamba, fischiettando «La Marsigliese», o una certa risposta di Lee Marvin, sputata fuori prima di rendere l’anima sotto una raffica di mitra. La politica degli autori è rapidamente degenerata in politica degli artigiani, poi in politica dei cottimisti. Adesso si cercano abbastanza comunemente in Ray Enright o Joseph Pevney le rarità che ieri ci dispensavano Ford o Boetticher. Presto verrà l’epoca di Henry Levin e Jean Negulesco.

Questi eccessi testimoniano la vittoria irreversibile del cinema americano, ed è appunto perché una certa battaglia è stata vinta che conviene di nuovo mostrarsi esigenti. Non ci sono più cineasti o film maledetti dal pubblico cinefilo, se pure ce ne sono ancora di maledetti dai distributori. Perciò è venuto il momento di parlare con più serenità e di riconoscere che Castelli di sabbia, Prima vittoria o anche Lord Jim sono brutti film, il che non toglie nulla ai meriti di Spettacolo di varietà, Seduzione mortale o Il figlio di Giuda. Reciprocamente, lodare un dato film di Gordon Douglas, di Hathaway o di Stuart Heisler non indica che le loro opere siano da prendere in considerazione globalmente. Senza dubbio si arriva all’impossibilità di una teoria sul cinema in generale e sul cinema americano in particolare: per anni, affinché la posizione dei Cahiers fosse fruttuosa, è stato certamente necessario attenersi a una sorta di costrizione dogmatica rigida, e proporre classificazioni convenienti per separare il grano dal loglio. Ma oggi abbiamo bisogno di ridiventare sensibili al film in sé, il che non implica affatto, del resto, un abbandono delle nostre scelte fondamentali riguardo a persone come Hawks, Hitchcock, Ford o Kazan. Bisogna rimanere all’erta, e saper riconoscere che Lilith (e Fiesta d’amore e di morte non cambia nulla) è uno dei più bei film americani di questi ultimi anni. Mardore: La cinefilia è estranea alle verità più elementari dell’esistenza. Se ci sono stati degli eccessi nella politica degli autori, nell’idolatria della messa in scena, questo dipende forse dalla personalità di gente che non aveva alcun contatto con la realtà. Non si tratta di sapere se la regia di Tourneur trascenda l’immagine di un uomo che bacia una donna, ma di capire quello che Tourneur pensa dell’amore, della grana della pelle di questa donna, delle sue labbra, del desiderio dell’uomo, e così via. Tutte cose che non si trovano nell’analisi degli esteti. Le piccole idee di regia, come le definiva Truffaut, e la trascendenza del soggetto mediante lo sguardo del cineasta non bastano più a soddisfarci. Il soggetto diventa più importante degli artifici che lo valorizzano.

Comolli: Se si ritorna all’accezione più banale e più modesta del termine autore cioè «autore del proprio film», si può esercitare una politica di autori buoni e cattivi per quanto riguarda i cineasti europei, poiché tutti quelli che ne sono coinvolti sono, a prescindere dal successo dei loro film, necessariamente autori fin dall’inizio. Ma il cinema americano continua a porre gli stessi problemi, tanto complessi da impedire ogni sistematizzazione della politica o della qualifica stessa di autore. In esso ogni caso è un caso particolare. Vi si trovano degli autori completi, dei non-autori completi, e tutte le gradazioni tra una libertà totale e una sottomissione totale, tra l’espressione personale e la creazione anonima. Che cosa se ne deve concludere, se non che è impossibile tentare una politica degli autori rigida e dogmatica per questo cinema? Il cinema americano, fondamentalmente, non è un cinema di autori. Al contrario di quello europeo. Gli autori, in America, sono delle eccezioni, che confermano la regola non di una costanza, di un’invariabilità delle opere, ma della loro estrema fragilità, della loro complessità, della loro plasmabilità che le porta a mutare continuamente per adattarsi a ogni situazione nuova, e che le rende, in fin dei conti, ribelli a ogni definizione globale, estranee a ogni schema tematico. Ogni grande cineasta americano è un’eccezione che contraddice anche le altre eccezioni. Per quanto riguarda la norma del cinema americano, la maggior parte è costituita da film di produttori nei quali, come per miracolo (ed è questo miracolo ad affascinare ogni cinefilo), filtra a volte una particella di espressione personale del regista del film. Il fatto che tutto si coalizzi contro l’espressione personale di questo cineasta ce la fa sembrare tanto più ammirevole ed esemplare, per quanto poco si sia manifestata. Ma questo «miracolo» non basta a fare di ogni cineasta americano un grande cineasta, né del cinema americano di oggi un cinema dell’espressione personale, un cinema di autori, peculiare della loro politica. Il cinema americano è grande per i cineasti che gli sfuggono. Il cinema americano che c’interessa è quello dei film che ci fanno conoscere degli uomini. È bastato rivedere qualche film di Capra per rivalutare questo cineasta finora in disgrazia. Lo

stesso vale per Ford. Basterebbe vedere tutti i film di Walsh per contraddire questo genere di rivalutazione frettolosa e indurre a considerare soltanto una politica dell’opera ridotta ai suoi elementi migliori. D’altro canto, e non è meno importante, il cinema americano che amiamo e difendiamo non è tutto il cinema americano. Basta vedere qualche film di Lubitsch per ricollocare Preminger al suo vero posto, più modesto. Resta da dare battaglia per quanto riguarda Lubitsch, DeMille, Capra e lo stesso Ford. Fieschi: Al limite, in effetti, il vero autore è impensabile nel cinema americano: si considerino il silenzio di Sternberg, e Chaplin, l’esilio di Welles, i rifiuti di Ray o Mankiewicz. Téchiné: Un punto di vista, diciamo più obiettivo, più storico, indica chiaramente l’evoluzione del cinema americano e proprio attraverso questa la vanità delle teorie un po’ frettolose che ha suscitato. Lo sconvolgimento economico provocato dalla crescente emigrazione dagli studi di Hollywood e legato alla scomparsa delle grandi società di produzione non ha cambiato soltanto le condizioni industriali. Il fenomeno di decentramento che si è progressivamente manifestato non ha avuto come unica conseguenza quella di rinnovare le regole del mercato. È ovvio che il turbamento delle condizioni in cui si svolgono le riprese, provocato dal declino degli studios, impedisce o limita determinati generi come la commedia musicale, senza introdurre, per dirlo correttamente, dei generi di sostituzione. La continuità del cinema americano non è una continuità fatta di costanti, di analogie nelle quali si distinguono delle linee di forza suscettibili di venire erette a sistema. È, al contrario, piuttosto che una sopravvivenza o una decisa rottura, un movimento continuo, uno slittamento logico in riferimento a un contesto preciso. Film così diversi, per storia, tema e soggetto, come Sessualità, Lilith o Splendore nell’erba, testimoniando lo stesso impegno nel far erompere la narrazione, sono più utili, per capire l’America e il suo cinema, della sussistenza di

forme convenzionali che verificano o fingono di confermare le teorie stabilite. A questo livello è possibile dire che i tre film citati sono comunicanti. La concezione innovativa che si può tentare di elaborare in un secondo tempo parte da questa semplice constatazione. Comolli: In definitiva, se ci si pone la domanda: cos’è che caratterizza un autore, cos’è che fa sì che un cineasta sia un autore nel senso forte del termine, si cade in una trappola nuova: è il suo «stile», vale a dire la «messa in scena», nozione altrettanto pericolosa, proteiforme, non circoscrivibile di quella di autore. Messa in scena vuol dire due cose: l’una, com’è ovvio, l’operazione che consiste nel mettere in scena qualcosa; l’altra, misteriosa, il risultato di questa operazione. Ora, quando il critico parla della «messa in scena» di un film, la giudica e scopre qua e là elementi di bellezza, alimenta una confusione – che forse è solo di vocabolario – tra quello che vede sullo schermo, cioè un risultato, e ciò a cui si presume debba rimandare il risultato, cioè un insieme di mezzi, una serie di atti. Ma precisamente questi atti, questi mezzi, non hanno un valore intrinseco: valgono solo ciò che vale il risultato, il film. Questo valorizza quelli, e non il contrario. Cioè la sorte della messa in scena è di annullarsi nel suo stesso coronamento. Il film, in quanto risultato di una messa in scena, si sostituisce a questa sotto tutti i punti di vista, rimpiazza la realtà operazionale con una realtà artistica. Soltanto il film – grazie alla messa in scena – assurge all’esistenza concreta dell’oggetto estetico. La messa in scena, una volta terminato il film, ha solo un’esistenza astratta e fantomatica. O soltanto dogmatica. Per dirla ancora in altre parole, la messa in scena non è, non può essere l’oggetto di un apprezzamento estetico. Il suo risultato, che è il film, può pretenderlo. La messa in scena non è un oggetto, né un’opera d’arte, né un’espressione, ma un mezzo di espressione, stilistico, retorico, tecnico e così via. Non si giudica un mezzo. E, reciprocamente, l’essenza del cinema non risiede nei suoi mezzi. La messa in scena perciò non rientra nell’ordine dei valori. Essa ha giocato, nei Cahiers,

un ruolo artificioso: è stata anteposta al resto con la pretesa di trovare in essa i criteri di bellezza del film, ma ne era solo la spiegazione illusoria: bisogna cercare la bellezza dei film nella realtà stessa dei film come oggetti. Mardore: Non si tratta di negare la «messa in scena», a vantaggio di uno «stile» che non ne sarebbe, in fondo, molto lontano, ma di differenziare gli individui che hanno una personalità autentica da quelli che hanno delle «ossessioni». Il carattere, come direbbe Welles, rimane l’unico criterio. Non si tiene abbastanza conto della personalità, cioè di tutto ciò che l’autore porta in sé, di quello che egli rappresenta nel mondo, della forza che possiede per esprimere questo mondo. Non ci sono criteri estetici, ma solamente criteri personali. I cinefili lo hanno negato, in nome della «pura messa in scena», che è la nozione meno definibile che si possa immaginare. Infatti, una minima dose di talento estetico, se la propria personalità «erompe» nell’opera, avrà la meglio sul tecnico più abile. Scopriamo che non ci sono regole. L’intuizione, la sensibilità, trionfano su tutte le teorie. Fieschi: Questa nozione di «carattere» segnalata da Mardore è effettivamente decisiva per la giusta definizione dell’autore. Aggiungo che è meglio avere un cattivo carattere che nessun carattere. Con il tempo, persone come Huston o Wilder, che tuttavia hanno sbagliato più film, quantitativamente, di Wyler o Preminger, hanno avuto su di loro il vantaggio di una linea seguita con ostinazione se non sempre con rigore, e il fatto che questa linea abbia condotto a film come La notte dell’iguana o Baciami stupido ne mostra a sufficienza la validità. Mardore: La definizione arbitraria della «messa in scena» confutava a priori tutte le eresie, tutte le varianti. Cinque o dieci anni fa, un film come Lilith sarebbe stato stroncato, proprio in nome della politica degli autori e della messa in scena. Ebbene, Lilith usa degli effetti ottici, degli angoli di ripresa, delle costruzioni nel montaggio che sarebbero apparsi desueti e antiestetici. Il cinema americano si limitava, nello spirito della politica degli autori, a una negazione di ogni

intervento spettacolare, «demiurgico», del suddetto autore. Questa semplicità forzata condannava a priori tutti i preziosismi, le forme barocche, insomma anticonvenzionali (perché la semplicità e le cancellature sono varianti della convenzione). Non si può sapere, in Lilith, fino a che livello sia intervenuto Rossen. Uno scrittore che usa una forma arcaica, un preziosismo d’altri tempi, non è necessariamente un ritardato o un imbecille. Può avere scelto questo stile per darsi un certo distacco narrativo. Noi non abbiamo il diritto di sentenziare, di privilegiare una forma a detrimento di un’altra. È necessario difendere l’idea di un pluralismo di forme, di stili, contro un classicismo che inaridisce, e che oltretutto non è mai esistito nella mente dei cineasti americani. L’importante è spezzare una costrizione estetica e morale. Guégan: Ma, si dirà, dove vanno i Cahiers? Prendendo come pretesto il film di Allio, Jacques Rivette su Les lettres françaises, suggerisce una via. Il rovescio della critica brechtiana (o presunta tale) degli anni Sessanta non implica un rifiuto del pensiero originale. Anzi, occorre meditare il suo insegnamento e non sprofondare in una pura e semplice critica alla sceneggiatura. Ciò su cui ci dobbiamo interrogare è l’effetto. Da dove e come? Viaggio in Italia pone una domanda del genere. Ricordate, George Sanders e Ingrid Bergman assistono a una festa. Felice, Ingrid ci sorride. Inquadratura successiva: Sanders la guarda. Poi, di nuovo Ingrid nel campo. Il significato è rovesciato. I temi sfiorati in questa serie di inquadrature rimandano a un’idea generale, ma lo stile stesso di Rossellini la rende particolare. Ecco dove dobbiamo andare. Con un movimento analogo, Il bandito delle undici pone ancora le stesse domande. Rispondere significa comprendere. Significa rifiutare anni di incertezza, riprendersi le terre conquistate, ricominciare a coltivarle. In una straordinaria prefazione alla Vita di Rancé,11 Roland Barthes dimostra che il gatto giallo di Chateaubriand è forse tutta la letteratura. Sta a noi ritrovarlo nel cinema che ci piace. Allora verrà un’epoca nella quale sarà facile godersi in compagnia La città è salva, Io sono un evaso

o I trafficanti della notte, film senza autore, certo, ma film che hanno fatto scrivere a Bazin: «Ciò che è ammirevole nel cinema americano è appunto la sua necessità nella spontaneità». Siamo più vicini che mai a una vera politica degli autori. Claude Ollier: Parlando di autori, occorre sottolineare il fatto che Jerry Lewis è, con Penn, l’unico autore apparso da cinque anni a questa parte nel cinema americano. La ragione non sta, secondo me, in una considerazione di ordine tematico né in una di rappresentazione ossessiva, ma, più precisamente, nel fatto che Lewis ha creato delle forme nuove. Credo che la nozione di autore, cioè lo stile, conduca inevitabilmente alla necessità di una simile analisi. Questa affermazione implica molti sviluppi, che sarebbero: 1) un inventario di queste forme in base alle opere necessarie; 2) un’analisi elementare di ognuna di queste forme (per esempio: un’analisi delle gag basate sull’utilizzo intermittente del suono); 3) uno studio comparato di queste forme con quelle del genere comico precedente, allo scopo di determinare su quali punti precisi verta l’invenzione; 4) la classificazione di queste invenzioni formali a seconda che esse vertano: a) sul plastico, b) sulla narrazione, c) sulla distanza stabilita dall’attore tra se stesso e la sua creazione; 5) un esame dei significati, delle implicazioni attivate dai segnali prima elencati e analizzati. Forse è davvero indispensabile, al punto in cui siamo, parlare di cinema in termini di invenzione formale: poiché, a scanso di equivoci, se un dato film ci riguarda è perché propone un carattere nuovo, quello che Céline chiamava «una piccola musica». Ma che cos’è una «piccola musica» se non l’arte di riunire attraverso la metafora e la metonimia forme tradizionali e forme nuove in un discorso personale?

L’originalità di una messa in scena creativa, innovativa, marchio di un autore, deve perciò essere analizzata in termini di segni e di significati. Se, nella produzione attuale, un certo numero di film (brasiliani, polacchi, italiani, francesi) c’interessano, è perché le forme che creano ci incuriosiscono. Il nostro compito è quello di determinare in che cosa ci incuriosiscono e quali collegamenti devono essere stabiliti tra queste e le forme antecedenti. Non c’è ragione perché nel campo cinematografico debba andare diversamente che nella musica o nella letteratura. Il problema, per quanto sia più complesso, è tuttavia lo stesso: esiste un divenire delle forme, un’evoluzione irreversibile; il ruolo del critico è quello di determinare su che punto preciso si concentri l’innovazione e – per contrappasso – la caducità. (Apparso sul numero 172 dei Cahiers du cinéma, novembre 1965) [36] Opera (1844) di René de Chateaubriand sulla vita di un religioso del XVII secolo. [n.d.t.]

LA SCOMPARSA DELL’AUTORE?

IL FILM SENZA PADRONE (L’AMOUR FOU DI JACQUES RIVETTE) di Sylvie Pierre

Esistono diversi Amour fou, vale a dire un’infinità: 1) tutti quelli che Jacques Rivette avrebbe potuto montare a partire dalla pellicola da 16 e 35 mm impressionata alla fine delle riprese; 2) tutti quelli che Levent e Becker avrebbero potuto filmare a partire da quello che è accaduto durante le riprese; 3) tutti quelli che avrebbero potuto filmare se durante le riprese fosse accaduto qualcos’altro. Se si è fatto riferimento al surrealismo nel film di Jacques Rivette, è per caso, perché il film reca lo stesso titolo di un libro di André Breton. Il bello è che stavolta il caso, che a questo punto non è più tale, è in armonia con la natura profondamente aleatoria del film. Quello che ci piace è che il caso, all’opera nel suo ambiente ideale, ha svolto il suo compito nell’Amour fou e ha imposto al film la necessità arbitraria della sua lunghezza: quattro ore e dodici minuti. Rigore bizzarro dell’inesorabile, oscuro progredire di ciò a cui non è possibile replicare. Non lasciatevi trarre in inganno: un’opera del genere non nasce da sé. Non si tratta affatto di un parto mistico, ma di un film in cui, una volta tanto, il regista ha cercato di non essere dio. Questo annullarsi comporta un grande sforzo. Prima di tutto occorre lasciar parlare: per questo, inoltre, occorre che vi sia la parola. Parola istintiva, non appresa. In breve occorre collocarsi là dove una cosa davvero parla, là dove l’altra si manifesta. Non troppo vicino, la parola ne risulterebbe alterata. A rispettosa distanza, come diceva Ponge.[37] Ma

nemmeno troppo lontano, non oltre i limiti dell’udibile. Soprattutto bisogna parlare la stessa lingua di chi sta parlando: di qui la necessità di adottare tecniche diverse, ma anche una certa ingenuità negli approcci e negli scambi. È necessario calibrare pazientemente la naturalezza di una familiarità senza artifici. Allora tutto può succedere, e ogni sguardo è consentito. Nessuna spudoratezza da parte di chi si offre, né violazione da parte di chi prende. Sono accadute cose che si vedono: ecco il film.[38] E a un tratto ecco giustificata la sua lunghezza, perché non è concepibile che siano concentrate arbitrariamente nella loro durata alcune cose deliberatamente osservate, quando si verificano nel tempo diluito della non-finzione – o più precisamente, di una finzione che mira a rendere conto tanto fedelmente dei modi della non-finzione che finisce per giocare secondo le regole e adattarsi realmente a essa (Kalfon che gioca a mettere in scena per davvero l’Andromaca di Racine). La lunghezza del film è il suo realismo: ci vuole in effetti molto tempo per allestire una rappresentazione, e ci vuole molto tempo, quando ci si ama, per lasciarsi. Molto tempo perché in quesi casi (e sempre) nessun momento è significativo ma al tempo stesso tutti lo sono, perché la vita è significativa solo nella sua interezza (come aveva giustamente intuito Pasolini, in «Osservazioni sul piano sequenza»[39]). E si può parlare ancora di «significato»? L’intero è appunto privato di senso, e rimanda solo all’«essere esistito» di tutte le sue parti. Ci si può ovviamente chiedere come mai Rivette non abbia spinto l’Imitation of life fino all’astensione dal montaggio. Il film sarebbe allora la totalità del materiale girato. Ma sembra che il montaggio – in fin dei conti unico momento di rottura tra vita e film, dato che è il passaggio da una materia vivente a un oggetto cinematografico – abbia per l’appunto tenuto conto solo del fenomeno di dispersione progressiva della vita durante la pura e semplice registrazione integrale.

La totalità del materiale girato è viva solo agli occhi delle persone presenti alle riprese. E quella stessa vita languirebbe, se non fosse sostenuta dall’orizzonte del montaggio futuro, sempre presente ai loro occhi. Il montaggio è qui forse un mezzo per operare l’unica conservazione vivente della vita; un processo di selezione amorosa analogo a quello della memoria. In queste condizioni, il soggetto, l’idea di partenza della sceneggiatura, non è altro che il fantasma di un intervento decisivo. È semplicemente ciò che dà origine al cinema. Sarebbe quasi inutile, se non fosse stato necessario il suo calore perché le cose succedessero da sole. L’apporto del soggetto consiste in un residuo tematico (teatro, suicidio, pazzia), fantasmatico (complotto, persecuzione), culturale (l’ossessione musicale moderna per le combinazioni e i rischi), finalmente dominato, finalmente relegato al livello di un’ossessione non riducibile a contenuti senza importanza, ma il cui ruolo vitale è quello di mettere in opera delle strutture incentivanti. Ma bisogna dire anche che questo apporto dinamico iniziale dell’autore del film è obbligato. È l’altra faccia dell’annullamento: lasciarsi parlare. Lasciar parlare di sé tutto quello che è impossibile tacere. In altre parole: riconoscere l’esatta inclinazione della propria pendenza, e lasciarvisi andare senza artifici. Trovare il motivo della propria ripetizione insistente. Ciò che Rivette chiama la «facilità» non è nient’altro che questo. Non si tratta del rituale borghese dell’espressione – ultimo residuo di una teoria della grazia, che crede a una trascendenza possibile del verbo personale – ma, al contrario, di un capovolgimento utilitaristico dei limiti individuali del proferire: servirsi delle proprie ritrosie o dei propri desideri, o anche dei propri capricci, come semplici mezzi per prestare al dire alcune costanti, come garanzie della propria coerenza, prove di validità. Sempre là si ritrova per caso il surrealismo, ma senza l’ingenuità che considera l’infracosciente più sacro del cosciente, e che in questo modo accorda alla parola,

lasciata libera di esprimersi, il rispetto dovuto a un dio. Senza tentativo di risalita archeologica verso una zona di parola più vicina alle motivazioni fondamentali, più perentoria. Un surrealismo senza piedistallo, meno terrorista, figlio migliore: vicino a cose motivate, cose amate: gli attori che sono stati scelti e che vengono lasciati liberi, il teatro che vive la sua vita nel cinema, la musica di un amico, il gatto. Perciò se L’amour fou è un film moderno, non è che vi si trovino degli elementi moderni. Con il tempo lo scambio hitchcock-rosselliniano di stupidaggini tra Claire e Sebastian riceverà il suo coup de masse, il cinema nel cinema, e anche il 16mm nel 35mm, il suo coup de nasse, la distruzione dell’ambiente il suo coup de tasse, come viene detto nel film.[40] Ciò che è moderno è il fatto che una scelta volontariamente ingenua, deliberatamente spontanea al massimo grado, di «cosa mettere nel film» escluda immediatamente, come se non fosse interessante, tutta la psicoanalisi o qualsiasi lettura interpretativa. L’importante è che nello spessore oscuro del loro colore arbitrario, del loro funzionamento misterioso, materiali, operatori, tutte le cose che si trovano nel film lo costruiscano. A questo livello si trova la pigrizia. Non una pigrizia alla Renoir, ingenua, innata e scaltramente, genialmente vantaggiosa; pigrizia di astuto sfruttatore che sa quale terra scegliere in modo che essa lavori per lui (si vedano, appunto nella puntata curata da Rivette della trasmissione televisiva Cinéastes de notre temps, le testimonianze quasi imbarazzanti di Renoir e Michel Simon) – e che lavoro fa lui per la terra, oltre a quello di valorizzare a proprio vantaggio le sue ricchezze? Ma una pigrizia acquisita contro natura, in tutta coscienza, e che spinge il rispetto e la riconoscenza nei confronti di chi lavora per lui fino a dimenticare che egli lo utilizza, che scegliendolo, anche così com’è, lo manipola già. Al contrario di quella di Renoir, la pigrizia di Rivette è calcolo, ma il suo effetto è innocenza, appunto quella di un amour fou.

(Apparso sul numero 204 dei Cahiers du cinéma, settembre 1968) [37] Francis Ponge (1899-1988), poeta francese. [n.d.t.] [38] Identica la politica di precauzione che segue Kalfon [l’attore che nel film interpreta il ruolo di un regista teatrale, n.d.t.] di fronte al testo di Racine. Egli impedisce al verso di intervenire contro il senso, perfino a livello della dizione. Quella che impone ai suoi attori poggia su delle unità di idee nella frase, non sul ritmo artificiale del verso alessandrino. Spezzato, quest’ultimo diventa una base melodica e la sua autorità musicale ne risulta decuplicata. [39] In Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972. [n.d.t.] [40] Gioco di parole intraducibile; coup de masse vuol dire «mazzata», coup de nasse «colpo di nassa», coup de tasse «colpo di tazza». [n.d.t.]

LA FAVOLOSA STORIA DI PELLE D’ASINO DI JACQUES DEMYdi Serge Daney

L’«itinerario» di Pelle d’Asino[41] consiste nell’andare da un castello a un altro castello, passando per una capanna. Tuttavia, questo viaggio non è mostrato (più precisamente – si veda il ralenti – è nascosto alla vista). Perché? È che il procedere di questo viaggio non è più sottoposto a una soggettività qualsiasi (Pelle d’Asino, Demy o anche Perrault avrebbero voluto qualcosa), ma a un sistema di ingressi e uscite il cui modello è presentato proprio all’inizio del film: l’asino e l’oro. C’è una progressione solo a condizione a) di uscire da qualcosa, b) di uscirne sotto un’«altra» forma. O ancora: ogni passaggio dà luogo a una metafora. Questo crea simultaneamente una «tematica» (contenitore/contenuto, genitori/figli, ambiente/personaggio, e anche sporco/pulito) individuabile in tutti i film di Jacques Demy e, per la prima volta con La favolosa storia di Pelle d’Asino (da qui l’interesse del film), qualcosa di simile alla formulazione del principio secondo il quale una storia può progredire, un personaggio può apparire, un film può farsi, se è chiaro che non si tratta tanto del passaggio da un piano a un altro, quanto da un piano a un’altra narrazione, dato che ogni momento decisivo è quello di un cambio d’involucro. Ma a quale condizione sono possibili queste «mutazioni»? Tutto accade come se un contenuto appartenente alla stessa serie (quella del pulito o quella dello sporco) del suo contenitore (p. es.: principessa/1° castello) dovesse, per separarsene, per esserne liberato, frapporre tra sé e questo contenitore un secondo involucro, appartenente all’altra serie, che giocherà il ruolo di isolante. L’errore della fata è di credere di poter ottenere il primo spostamento, la partenza della

principessa, obbligando il re a offrirle degli abiti sontuosi, inefficaci perché appartengono alla stessa serie, quella del pulito. Pelle d’Asino potrà lasciare il castello di suo padre solo nel momento in cui, alla catena oro-asino-castello, si sostituirà la sua replica principessa-pelle d’asino-castello. Il secondo «luogo» del film è la capanna situata nel cuore della foresta. È qui che il regista, una volta messo a punto il sistema, lo lascia funzionare con il massimo rigore e la massima libertà. Ogni elemento del film vi è iscritto due volte, di cui una nella serie dello sporco, il che dà luogo a una scissione generalizzata di cui dà l’annuncio, e fa quasi la parodia, il pappagallo che presiede ai limiti di questo luogo. Se con scissione s’intende una sorta di articolazione a livello di una stessa superficie, è proprio così che bisogna vedere la coesistenza perfetta su uno stesso piano della principessa e della sguattera, dei mobili lussuosi e della misera capanna. Tutto accade come se la capanna, tra i due castelli, in mezzo al film e alla foresta, fosse il luogo privilegiato, il luogo in cui il film prende un’altra piega, in cui tutto quello che altrove si presenta sotto forma di alternativa (o/o) è presente in contemporanea (e, e…), luogo «fuori gioco» e quasi «fuori film» da dove si può guardare indietro o avanti poiché negli specchi, vere e proprie inquadrature generate dall’inquadratura, appare il re, poi il principe. A questo punto una domanda: Pelle d’Asino può lasciare la capanna solo se qualcuno viene a cercarla. Perché? Sembra che, come nel primo caso (oro/asino), lei debba uscire una prima volta sotto una forma metaforica (anello/torta) che le serve da modello, anticipa e permette il suo vero passaggio dalla capanna al secondo castello dove, togliendo la pelle d’asino, si trova di nuovo in un rapporto immediato con un contenitore della sua stessa serie. Il che pone il problema di sapere che cosa si è guadagnato alla fine del film, oltre alla formazione di tre coppie invece che due, assortite per età. Si può osservare che il castello dell’inizio è uno spazio chiuso e il secondo è un luogo di passaggio. Si può tentare una lettura etnologizzante che

vedrebbe nella storia di Pelle d’Asino il passaggio da un sistema endogamo a un sistema esogamo. Questo è perlomeno il senso della canzone della fata, canzone sospetta e che potrebbe benissimo servire da esca (perché all’origine della storia non sono le «esigenze della civiltà» ma il desiderio molto preciso della fata). Infatti, le ultimissime inquadrature del film sono ambientate in un luogo aperto (né castello, né foresta) dove le tre coppie in bianco (né azzurro, sangue rappreso, né rosso, sangue che cola, ma bianco: sterilità) rappresentano delle pedine, ridotte infine a un valore puro (in senso linguistico), su una scacchiera ideale. Perciò, per la prima volta, beneficiando delle convenzioni della fiaba, Demy può sistematizzare il bisogno che ricorre in tutti i suoi film: che i personaggi, i film e, al limite, le immagini di questo film, debbano pur saltare fuori da qualche parte, parte che, a sua volta… È così nella produzione dei film: da Lola in poi l’intreccio è autoreferenziale e viene dato come qualcosa che si ri-produce. Sarà poi un gioco da ragazzi (Les parapluies de Cherbourg, Josephine) istituire un circuito chiuso di riferimenti in cui ogni intervallo è concepito come semplice variabile, dove il Medesimo continua a ritornare. Produzione dei personaggi: sia attraverso le situazioni genitori-figli, sia quando un personaggio viene a occupare un posto rimasto vuoto, a interpretare il ruolo di un altro, e così via. Abbiamo detto che il sistema metaforico si collocava intorno a un asse pulito/sporco. Ogni contenitore che porti in sé un contenuto diventa sporco. Non sembra che ci si spinga molto lontano se si accosta ciò al tema del parto, della donna incinta o della ragazza madre, tema ricorrente in Jacques Demy. Una donna incinta è immediatamente marchiata (anche ai suoi stessi occhi: si pensi alla Deneuve nei Parapluies) di sporcizia. È sporca perché l’unica maniera di dare conto della nascita del bambino sarà nell’ordine della «teoria cloacale», indissociable dall’ignoranza, in questo caso dalla preclusione, di ogni atto sessuale. Qui si delinea un problema che conviene – per il momento – porre in termini quanto più possibile generali:

1. Se ogni elemento di un film non deve più essere riferito a un pre-testo (dato che l’unico «referente» di un’immagine è sempre e solo l’apparecchiatura di ripresa di fronte a questa immagine), come dare conto della sua comparsa, delle sue trasformazioni, della sua scomparsa? 2. Occorrerà che il film ne esponga – in qualche punto e a modo suo – la legge, il modello. Poiché il filo conduttore non è più «come passare da un piano a un altro», ma piuttosto «come la risposta a questa domanda è già abbozzata, indicata, iscritta nel film». 3. Iscrizione che sarà sempre «accanto», metaforica, analogica: non centro nascosto o modello in scala, ma rappresentazione del funzionamento del film nel film stesso. Nel cinema «classico» che oggi sembra urgente imparare a leggere e del quale Demy è uno degli ultimi eredi, questa rappresentazione è sempre individuabile nella storia e nei «temi» dei quali si alimenta, e in particolar modo quello della riproduzione dell’essere umano, poiché insomma è in questa modalità analogica che il problema non ha potuto fare a meno di porsi, modalità che potremmo riassumere così: il bambino, come l’immagine, vede la luce. Senza dubbio le soluzioni sono diverse: per esempio, in Renoir, l’attenzione è talmente concentrata sulla produzione (sempre identificata in lui con un atto sessuale) che il prodotto (film, bambino, film-bambino) è prestissimo trascurato, abbandonato, scaricato (la famosa «paura delle responsabilità» nella Scampagnata, l’estrema scarsità di bambini nei film di Renoir, e così via). Al contrario, in Lang, ogni inquadratura rischia in ogni momento di essere gravida di un’altra, sia per mezzo di raccordi nell’asse sia per un sistema di schermo nello schermo (le grotte nel Sepolcro indiano). Demy adotta un sistema diverso che consiste, durante l’episodio della capanna, nel disseminare gli elementi delle due serie, così che ogni inquadratura sembra sottoposta a una sorta di scissione amebica. Segnaliamo rapidamente che questa rimanda immediatamente a un sistema di riproduzione asessuato. Nei film di Jacques Demy, non c’è mai, in nessun momento, un atto sessuale. I padri sono sempre assenti,

perduti, il che rende meno misterioso il desiderio del re di Pelle d’Asino per sua figlia: la paternità non esiste. Le conseguenze di questo sono temibili: nessun accesso della prole alla metafora paterna, nessuna rimozione originale: cioè la suddetta prole, intrappolata in una relazione duale, non si separerà mai davvero dal contenitore. Al massimo, lo cambierà: la Madre, l’Ambiente, la Città, e così via. Nota Questa copulazione, c’era da sospettarlo, ritorna continuamente. Così in Pelle d’Asino l’importanza del cibo. Ritorna anche nella nettezza esagerata delle inquadrature, nettezza che rievoca il cinema pubblicitario in cui l’immagine come prodotto rischia sempre di far dimenticare il prodotto da tradurre in immagini. (Apparso sul numero 229 dei Cahiers du cinéma, maggiogiugno 1971) [41] Eroina della celebre fiaba omonima di Charles Perrault, che per sfuggire alle mire del proprio padre assume un aspetto disgustoso, indossando una pelle d’asino, e si nasconde in una capanna solitaria finché non riesce a far innamorare di sé un principe. [n.d.t.]

IL FUORICAMPO DELL’AUTORE (QUATTRO NOTTI DI UN SOGNATORE DI ROBERT BRESSON) di Jean-Pierre Oudart

1. L’intreccio sviluppato dalla sceneggiatura non è diverso da quello degli altri film di Bresson: consiste sempre in un rapporto erotico isterico. Non bisogna intendere con questo che Bresson abbia inserito nel suo film, nell’elaborazione stessa della sceneggiatura, una descrizione clinica dell’isteria. Egli condensa, come in precedenza: 1) il rapporto di una donna (una ragazza) con due uomini che può essere fatto risalire da una parte all’analisi clinica dell’isteria, e dall’altra al romanzesco piccolo-borghese che lo investe costantemente (non è te che desidero ma un altro, perché io stessa sono un’altra e desidero qualcos’altro); 2) certi rapporti sociali e certi stili di comportamento che denotano direttamente la borghesia provinciale (o della Parigi marginale) e un ambiente intellettuale tra il sesto e il sedicesimo arrondissement[42] (interni di una nudità discretamente valorizzata che corrispondono a un’interiorità delle comparse anch’essa costantemente valorizzata; ruolo dell’«accento» alto-borghese in tutti i film di Bresson). Se le apparenze sociali e il «già scritto» (il pre-testo) dei film bressoniani sono sempre stati costituiti da questo, la loro sovradeterminazione, fino a Au hasard Balthazar, insisteva sugli ideologemi[43] radicati in essa e produceva degli effetti ideologici di scrittura che si sono affievoliti nei film seguenti e sono scomparsi in Quattro notti di un sognatore. L’insistenza di questi effetti era determinata dal fatto che:

1) l’ambiente fittizio dell’intreccio era estremamente oppressivo, portatore di minacce di aggressione, di stupro. Eroi ed eroine se ne liberavano in modo fittizio e se ne estraniavano ideologicamente mediante la loro posizione di commutatori della storia (spostamento, fuga in avanti); questa posizione era sovradeterminata da una condotta o in eccesso o in difetto in relazione al desiderio degli altri e alle loro norme. Questo scarto mostrava un’alterità tanto più integrale in quanto il suo inserimento aveva una consistenza solo finzionale, e faceva insistere gli effetti ideologici di questa alterità solo nell’articolazione filmica della storia (sguardi suturanti, voci e gesti feticizzati come iperreali in immagini che perdono sistematicamente l’impressione di realtà del cinema classico, e così via). 2) L’ambiente fittizio, che comprendesse o no elementi specifici delle apparenze sociali del soggetto Bresson, era invariabilmente inserito in posizione referenziale rispetto ai protagonisti della storia: vale a dire, nel rapporto della coppia fittizia costituita dal protagonista o dalla protagonista e dagli altri, l’ambiente era del tutto soffocante, aggressivo, violatore nel campo chiuso dei rapporti ideologici ed erotici direttamente costitutivi dell’intreccio, cioè nel campo dell’inserimento idealistico di contraddizioni interne all’ideologia piccolo-borghese (sesso/amore, potere/amore; potere = rapporto erotico, rapporto economico = rapporto erotico, e così via). Anche in Così bella così dolce i rapporti economici dei personaggi non descrivono nient’altro che l’intreccio – del resto pertinente per la psicanalisi – di un rapporto erotico «nevrotico». Così, del resto, Bresson iscriveva le sue apparenze sociali solo con una reticenza che, all’occhio dei suoi spettatori piccolo-borghesi, è stata a lungo considerata al tempo stesso il segno della sua «aristocrazia» (rifiuto di una certa volgarità oscena del cinema francese d’anteguerra, continuata in seguito), del suo cattolicesimo (i veri conflitti non hanno come posta gli oggetti di questo mondo, anche se tali oggetti ne costituiscono la «materia»), e anche di un certo attivismo

politico (poiché, malgrado tutto, questo artista cattolico faceva del «mondo» sociale il luogo fittizio di questa contraddizione, e dei personaggi socialmente marginali i rivelatori di questa contraddizione). Questo significa che Bresson ha sempre conosciuto la sua ideologia e che la sua cultura nevrotica (intendiamo con questo il suo interesse per intrecci erotici sovradeterminati da un inserimento di fantasticherie da nevrotico) è sempre stata oggetto di un’opera di disconoscimento: per esempio, il fatto di non evidenziare mai l’elemento sessuale e quello economico in relazione ai desideri del soggetto Bresson per le ninfette borghesi (o travestite da proletarie), né in relazione al suo interesse per i soldi. *** Partendo da questo si può notare in Quattro notti: 1) che il mondo dei protagonisti consiste esclusivamente in elementi denotati dalle apparenze sociali contemporanee del soggetto Bresson, e che il luogo delle riprese è costantemente segnato come luogo bressoniano (i Lungosenna, il Drugstore, ecc.): cioè le riprese – e il montaggio – del film producono costantemente un effetto di esteriorizzazione dell’intrigo «nelle» apparenze sociali contemporanee del cineasta e dello spettatore e connotate come luogo privilegiato delle contraddizioni ideologiche esposte dalla storia; 2) che come nei film precedenti (Così bella così dolce), l’inserimento dell’elemento economico, qui molto rarefatto, serve solo a dare consistenza all’intreccio erotico (lo studente affittuario); 3) che questo intreccio erotico è disinvestito completamente degli effetti ideologici che la scrittura dei film precedenti faceva insistere: viene messo in scena con una piattezza totale, forma l’oggetto di una descrizione che neutralizza il plusvalore ideologico-erotico dei film precedenti; 4) che, denotato come artista marginale e nevrotico (al limite della psicosi), il personaggio che ha il ruolo di narratore

(e di messaggero nel rapporto dell’eroina con l’altro – l’uomo che la desidera e che è l’oggetto del desiderio di lei) è il terzo termine di questo intreccio erotico isterico; questo terzo termine permette di esporre la contraddizione dell’intreccio (desiderio/amore), ed è anch’esso precluso a ogni determinazione economica e sessuale (non ha né statuto economico né vero desiderio sessuale; e analogamente la sua attività è feticizzata, e le scene in cui rimorchia ragazze e in cui osserva da voyeur i rapporti sessuali degli altri hanno nella storia la posizione di avvenimenti esterni allo sviluppo dell’intreccio). A partire da questo, il sistema finzionale del film può essere descritto come il classico triangolo degli intrecci erotici piccolo-borghesi (marito-moglie-amante), ma precluso a ogni iscrizione sovradeterminata economico-sessuale. La storia consiste nell’esposizione, per un’ora e mezza, di un rapporto sessuale cominciato e poi rimandato fino alla fine del film, e di un rapporto amoroso irrilevante per lo sviluppo della trama. Quello che insiste nella storia è solo il cieco desiderio di far accadere questo racconto in un esterno che Bresson immagina come esterno sociale del film mentre non è che il luogo feticizzato delle sue inquadrature, in cui sintomaticamente il cineasta fa entrare una serie di feticci culturali piccoloborghesi (vicoli pittoreschi in contrasto con gli oggetti della civiltà industriale capitalista, gadget, ninfette, hippy), vale a dire il condensato-disarticolato della sua repressione politicosessuale, a cui si aggiungono alcune scene nelle quali l’elemento sessuale è iscritto come esterno antisociale della storia. Così che, repressa nell’intreccio, l’iscrizione del desiderio del soggetto Bresson è preclusa nel reale-fittizio del suo sviluppo narrativo (nei film precedenti, erano l’operazione dell’inquadratura e l’operazione di taglio/sutura a esserne investite), e si compie in maniera allucinata, sotto forma di pratica sociale che ha luogo nell’esterno del film, vale a dire in un’area delle riprese confusa con il luogo della pratica sociale degli attori del film.

Da questo si vede che il riferimento in ultima istanza alla pratica sociale (o piuttosto l’iscrizione referenziale di una pratica sociale) è l’ultima risorsa del cinema idealistico per darsi una parvenza di posizione politica, cioè per riprodurre un discorso che, come quello di Bresson, non essendo più operante sul fronte della lotta ideologica (come lo erano stati i suoi film all’epoca della Nouvelle Vague), si spaccia, nell’hic et nunc del reale-fittizio della messa in scena, per la presentificazione «in diretta» di una pratica sociale che si presume rifletta attivamente le contraddizioni dell’ambiente reale del cineasta. *** Se l’intreccio bressoniano ha solamente una consistenza idealistica (tanto nei suoi termini quanto nella loro articolazione), la sua iscrizione in una storia sovradeterminata dalle sue fantasticherie erotiche insistenti ne sarebbe disturbata, se egli non censurasse radicalmente il loro inserimento. La censura operata sul lavoro di Bresson pesa, come quella di Morte a Venezia, su una duplice articolazione economico/sessuale (nella quale l’erotismo bressoniano costituisce l’elemento represso) dei significanti del desiderio del soggetto Bresson, di cui si può, attraverso l’analisi dell’insieme dei suoi film, costituire la scena. Nella prassi dell’iscrizione bressoniana, questa censura può essere analizzata: a) a partire dall’istituzione fittizia di un rapporto sadiano tra il seduttore e la sua vittima, dove il primo assiste all’apparizione dei sintomi del turbamento nell’altro; b) come l’iscrizione repressa dei rapporti stabiliti durante le riprese del film tra il regista e i suoi attori (le sue attrici); ossia, letteralmente, il divieto di indicare come operatore della seduzione il regista che ordina alle sue attrici di offrirgli la confessione di un turbamento erotico che costituisce tutto il «prezzo» dell’inquadratura (i discorsi di Bresson sulle «sorprese» ottenute durante le riprese dei suoi film sono

comunque sadiani, anche se camuffati mediante psicologia e misticismo). Inoltre è sempre a un altro che tocca, nella storia, la confessione del piacere della vittima, o piuttosto il racconto bressoniano si struttura come un’articolazione dei rapporti tra carnefice e vittima che dà allo spettatore il tempo di comprendere il sintomo del turbamento della vittima come: a) l’oggetto di un’asserzione anticipata (il che significa avvenuta nei confronti di qualcuno che è assente dalla scena); b) il commutatore della storia, che anticipa la presentificazione, nell’inquadratura successiva, del carnefice, la cui «presenza» sutura retroattivamente l’enunciazione, e annulla infine il rapporto sadiano, il cui effetto era prodotto dalla notazione sistematica della «differenza» della sutura. Questo rapporto sadiano tra il regista e le sue attrici, indicato dalla notazione della sutura, costituisce così l’elemento represso del racconto bressoniano. Esso sovradetermina d’altronde la narrazione bressoniana, nella quale s’iscrive invariabilmente sotto forma di intreccio isterico, in cui una ragazza è divisa tra un desiderio sessuale e una richiesta d’amore che non sono indirizzate allo stesso uomo. È straordinario che in Balthazar Marie venga stuprata quasi sotto gli occhi di Jacques, e che lui sia il primo a vederla dopo lo stupro: lo stupratore è l’operatore di un rapporto sadiano in cui l’innamorato è il regista, e il personaggio dell’innamorato bressoniano (castrato) è il prodotto di un disconoscimento del rapporto sadiano tra il regista e le sue attrici che scagiona il dominatore, che ricaccia il dominio in un intreccio isterico in cui esso viene fatto apparire solamente come indesiderato. In Quattro notti di un sognatore, la preclusione economicosessuale di questo personaggio, rappresentato come psicotico, segna indubbiamente il limite estremo della regressione dell’iscrizione ideologica bressoniana, sovradeterminata da questa fantasticheria sadiana qui eliminata dalla scrittura del film: al disconoscimento che manteneva al tempo stesso la

consistenza dell’intreccio isterico e l’insistenza erotica di un discorso politico represso sui rapporti tra il regista e le sue attrici si sostituisce qui una mancanza di desiderio di sapere alcunché su questa repressione che è l’aperto riconoscimento dell’impotenza politica di questo discorso idealistico, la sistemazione del cineasta in una prassi filmica «culturale» marginale e debole, il cui prodotto ha solo, come valore di scambio, la traccia feticizzata del passaggio dell’autore in alcuni scenari parigini. 2. Contraddizioni finzionali e contraddizioni storiche nella Nouvelle Vague Un tale rapporto sadiano tra il regista e il suo gruppo di comparse, elemento erotico represso dei loro rapporti di produzione, sovradetermina costantemente la scrittura dei cineasti della Nouvelle Vague francese: si tratta sempre di collocare una compagnia di attori dilettanti, spesso tratti direttamente da un ambiente borghese, all’interno di una trama i cui elementi sono pure denotati direttamente come pratiche borghesi, in modo da formulare la confessione di ciò che si presume la Borghesia reprima, e fare in modo che questa confessione costituisca l’oggetto di una conoscenza di cui lo spettatore è designato come l’unico beneficiario, e che va ad arricchire le casse della sua posizione ideologica. Questa posizione ideologica è dedotta dall’ideologia e dalla prassi del cinema «diretto», o «cinema-verità», la cui scena può essere descritta come il rapporto sovradeterminato di quattro fattori: a) implicitazione delle apparenze sociali della compagnia rappresentata; b) implicazione del discorso politico che immagina il distacco dalla sua classe e dalle sue apparenze; c) enunciazione di un discorso ideologico (moralizzante, metafisico, erotico), che respinge questa separazione a vantaggio dell’esposizione di una contraddizione interna alla classe (l’ambiente borghese e il suo elemento represso); d) collocazione al posto di comando della storia (cioè quello di agente della confessione della verità) di un «operatore» che

condivide socialmente la classe rappresentata e ideologicamente i suoi valori culturali (per cui, quindi, la verità consisterà nell’esposizione di una contraddizione ideologica interna a questa classe). La contraddizione determinante della scena finzionale di questo cinema consiste perciò nel rapporto tra un regista piccolo-borghese e un gruppo di comparse (dilettanti) anch’esse piccolo-borghesi, dove la posta in gioco è la verità dei rapporti fra queste comparse così come è interpretata dall’ideologia del regista (che può essere chiamato un dominatore nel senso che nella messa in scena della verità non accade niente di cui egli non sia già al corrente). La regia bressoniana ci aiuta a capire come questa verità consista elettivamente in un significato sessuale e come essa insista in quanto feticcio erotico-ideologico: se in Bresson è per bocca di una donna che questa verità si fa sentire più volentieri, ciò accade attraverso un feticcio (erotismo e altro supplemento di anima), un surrogato di qualcosa che resta invece escluso dalla messa in scena della confessione, e cioè la posizione sovradeterminata del regista come dominatore economico e desiderante. Se c’è produzione di un feticcio, è precisamente nel senso di un oggetto a che accade nella storia al posto di un significante che non ha fatto di esso l’oggetto di un giudizio di realtà, e che fa insistere sul modo della repressione le determinazioni del personaggio dell’operatore precluso, iscritto come mancante nella storia. Il feticcio bressoniano è connotato come erotico non per il semplice fatto che il significante (bocca, occhio, mano) consiste in un oggetto ritagliato dal corpo erogeno delle sue attrici, ma al contrario perché nella finzione bressoniana (l’intervallo della sutura) esso non è denotato come sessuale da nessuna comparsa, e viene anzi inserito in un’altra catena significante che consiste nella sovradeterminazione della scena finzionale da parte della scena ideologica dei rapporti tra il regista e le sue attrici: processo che insiste ogni volta che la preclusione della posizione del regista viene sottolineata, e che analogamente entra a far parte della trama nella misura in cui il cineasta ve la iscrive (in particolare Il processo di Giovanna d’Arco).

Quello che è più feticizzato nel cinema-verità, vale a dire nell’insieme dei film della Nouvelle Vague, è il momento storico specifico e il campo geografico delle riprese del film: adesso dobbiamo considerare non più solo l’effetto di un rifiuto di tenere conto, nell’iscrizione letterale del film, dei rapporti di produzione economica e dell’erotismo del regista, ma anche del rifiuto di tenere conto dell’esterno storicosociale di questi rapporti (dato che l’illusione ideologica di questo cinema consiste in ultima istanza nella confusione dell’iscrizione di effetti secondari delle lotte di classe – conflitti che colpiscono una famiglia, un piccolo gruppo, una troupe cinematografica – con quella delle loro determinazioni principali). Ciò che è precluso dal cinema-verità e che ritorna nel feticismo della «diretta», e che costituisce il supplemento ideologico del suo sistema finzionale, è l’esterno storicosociale della sua produzione. Dire che è precluso significa che il cineasta: a) ne ha tenuto conto nella sua prassi ideologica e sociale, cioè nella sua prassi politica; b) ne ha tenuto conto anche nell’ideologia della sua prassi significante, poiché il suo film è rivolto a uno spettatore che si suppone abbia pensato le contraddizioni principali che sovradeterminano quelle esposte dal suo film, giacché il discorso filmico interpella lo spettatore come soggetto politico, cioè come soggetto che conosce la frattura tra la finzione narrativa e il reale contatto esterno, ma che la sa interpretare solo in termini ideologici. Il feticismo del «discreto» può essere compreso in ultima istanza solo come il segno di una divisione fra il campo finzionale e l’esterno storico-sociale, ma di una divisione nella quale uno dei termini non forma l’oggetto di una iscrizione letterale perché è implicito ideologicamente come momento storico specifico delle riprese del film, di cui si presume che gli spettatori abbiano operato l’analisi politica: il fuoricampo effettivo del cinema «diretto» è il posto di uno spettatore che si presume abbia già prodotto l’analisi dei rapporti tra la scena del film e il suo esterno, e tra questa scena (in quanto luogo di

produzione dei sintomi che la affliggono) e il discorso che si suppone che egli tenga su questi sintomi. Bisognerà tornare, in un’analisi più approfondita, sulla storia della produzione di questo cinema nel campo di un’intellighenzia piccolo-borghese. Non è un caso se i suoi discorsi mimano i discorsi universitari: tutto il cinema della Nouvelle Vague è stato prodotto come il plusvalore, sempre incarnato da un autore, di una presunta conoscenza delle contraddizioni della società borghese, e tutti i suoi effetti ideologici dipendono da ciò che ha continuamente praticato l’asserzione di questa presunta conoscenza. È la sovradeterminazione di questa prassi dell’asserzione da parte dei cineasti dell’intellighenzia piccolo-borghese che converrà reiscrivere metodicamente. (Apparso sui numeri 236 e 237 dei Cahiers du cinéma, marzo e aprile 1972) [42] Circoscrizioni di Parigi; il sesto arrondissement, cioè la Rive Gauche, si identifica con l’ambiente intellettuale «impegnato», generalmente di sinistra, mentre il sedicesimo è abitato dalla ricca borghesia conservatrice. [n.d.t.] [43] Termine (coniato sul modello di fonema, sema e così via) che indica la più piccola unità intelligibile dell’ideologia. [n.d.t.]

RIPENSAMENTI CRITICI SU UNA POLITICA

NICK RAY E LA CASA DELLE IMMAGINI di Serge Daney

Ricordo un’epoca in cui, in uno dei quattro caffè del Trocadéro, qualcuno (qualche topo di cineteca) poteva sostenere che il più grande cineasta del mondo era X o Y, ma che Nicholas Ray aveva fatto forse il più bel film del mondo. Alcune sere era Vittoria amara, altre sere Dietro lo specchio. C’è sempre stato Nicholas Ray da una parte e tutti gli altri dall’altra, come se tra lui e il cinema esistesse un legame privilegiato, che toccava a noi proteggere. Si sapeva già che la sua carriera non era facile, che sarebbe finita prima del tempo. Più di Welles, Ray aveva le caratteristiche del grande loser. Senonché qualche volta perdere significa vincere. Pathos? Romanticismo facile? Sì, ma si sapeva anche – l’aveva detto in un’intervista ai Cahiers – che per lui il cinema era appena cominciato, che si riusciva solamente a intravederlo, che ci avrebbe sorpreso. Discorsi strani per un cineasta di Hollywood. Discorsi che non avremmo dovuto dimenticare. Presentato a Cannes nel 1973, riscoperto dopo la sua morte nel 1980, programmato in inglese e di contrabbando all’ActionRépublique per una settimana, We Can’t Go Home Again ci dice che avevamo ragione. Avevamo ragione nel metterlo «a parte» perché lui, che non girava più, esegue, a titolo postumo, un perfetto «giro della morte» cinematografico. Traiettoria unica, la sua: è il solo ad avere seguito i suoi due interessi principali – i giovani e il cinema – nelle loro avventure più recenti. Dal suo esilio, dal suo ritiro, all’inizio degli anni Settanta, Ray è l’unico cineasta della sua generazione a testimoniare in vivo quello che i giovani e il cinema stanno diventando. E non perché, in mancanza di meglio, egli si sarebbe dedicato tardi alle «esperienze», ma perché fa parte di quei cineasti che possono essere solo contemporanei. Ecco

perché a Godard è piaciuto tanto. Ecco perché, nella nostra immaginazione, Ray non invecchiava, non più di quanto invecchiasse il cinema stesso. We Can’t Go Home Again è semplicemente un altro film di Ray, datato 1973. Ancora un film sulla gioventù, quella post-Sessantotto, generosa e chiacchierona, drogata e pragmatica, violenta e sentimentale. Ancora un film sull’educazione, il grande tema di Ray, questa volta con il cineasta rappresentato per quello che è: un nome, una gloria avvizzita, il professore di cinema che ha fatto, tanto tempo fa, Gioventù bruciata. Ancora un film su padri che non sono padri, che falsificano l’Edipo, mimano la propria morte, stringono dei nodi che non si potranno più tagliare. Ray, cineasta gordiano: alla fine del film, si impicca davanti ai suoi studenti terrorizzati, di notte, in un fienile. La voce fuori campo dell’impiccato mormora a una giovane coppia: «Prendetevi cura l’uno dell’altra». Come non pensare quindi alla Donna del bandito? Ancora un film sull’impossibilità del ritorno, sulla fuga in avanti, sulla mancanza di casa. Perché il film è unico: in esso un cineasta disintegra e ricompone quello che costituiva la materia stessa del suo film. Lo schermo è popolato di immagini più piccole che vibrano, coesistono, si confondono. Grida e confessioni galleggiano su un fondo nero, ma questo fondo nero qualche volta è l’ombra di una casa, con un tetto, come le disegnano i bambini. E non una casa per dei personaggi, ma una casa per le immagini «che non hanno più casa»: il cinema. Non possiamo più tornare a casa… Nel 1977 si teneva al Bleecker di New York, con grande successo, la prima «Semaine des Cahiers». Seppi che Ray – che teneva delle lezioni a un isolato da lì – aveva appena lasciato la sala durante la proiezione di Numéro deux. Gli corsi dietro. Ci presentammo. A lui non piaceva il film di Godard, troppo duro, intellettuale, autodistruttivo. Io ridevo sotto i baffi. Anche lui, aggiunse, aveva fatto un film del genere, prima di Godard, ma i rulli erano andati perduti, in una seconda fase di montaggio, da qualche parte. Nel 1980, la sua vedova Susan Ray è venuta a Parigi con il film sotto braccio. Vuole finirlo, rimontarlo, aggiungervi qualcosa, in conformità con il desiderio di Ray che non era soddisfatto del film. Ha ragione

lei? Non ne sono sicuro. Certo è che nessuna cineteca al mondo dovrebbe dormire tranquilla all’idea di non avere nel suo fortino una copia di We Can’t Go Home Again. (Apparso sul numero 310 dei Cahiers du cinéma, aprile 1980)

CHE AUTORI, CHE AUTORI! A PROPOSITO DI UNA POLITICA di Olivier Assayas

Fino a quest’anno la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si era distinta rispetto alle altre manifestazioni internazionali analoghe programmando, in parallelo alle selezioni tradizionali, una retrospettiva organizzata scientificamente e destinata a chiarire un aspetto della storia del cinema o l’opera di un cineasta. Nel 1979 l’integrale di Marcel Pagnol, nel 1980 tutti i film di Mizoguchi, nel 1981 i primi quindici anni di Howard Hawks e nel 1982, in occasione del cinquantesimo anniversario del festival, una programmazione di film rari o misconosciuti legati alla storia della Mostra. Quest’anno Adriano Aprà, che aveva organizzato le ultime tre retrospettive, si è rivelato non disponibile poiché impegnato nei preparativi di un film su Roberto Rossellini. Di conseguenza, e su impulso del direttore della Mostra, Gian Luigi Rondi, gli omaggi sono stati spostati proprio a Venezia, cioè fuori dalla portata dei giornalisti. Ma anche se si fossero tenuti al Lido l’entusiasmo non sarebbe stato maggiore: dal momento che chiunque possieda un televisore ha ampie possibilità di familiarizzare con la filmografia di René Clair, e per quanto riguarda Elio Petri, certamente non è un caso se appena i suoi film uscivano nuovi fiammanti dal laboratorio non si aveva già più voglia di andarli a vedere. No. Quest’anno la casella era vuota. Era vuota perché, come alla roulette, Rondi aveva spostato tutte le sue pedine sulla nozione di autore. Giuria di autori, film di autori, chiacchiere di autori. La messa in scena di questa teoria, che in venticinque anni ha compiuto un percorso bizzarro, ha raggiunto il suo apogeo con la tavola rotonda degli autori che si è tenuta nella sala grande. Di fronte allo

schermo, sul palcoscenico, su tutta la lunghezza, un tavolo immenso e, dietro, un’infinità di sedie sulle quali erano stati disposti tutti quelli che erano presenti in città e che avevano realizzato più di un film. Al centro Rondi presiede e nel suo discorso di apertura individua l’oggetto del dibattito: siete tutti degli autori, pensate che la comparsa delle nuove tecnologie rimetta in discussione il vostro statuto, oppure vi porti a riconsiderare il vostro modo di procedere? Quali nuove tecnologie? Quale statuto? A questo era incaricato di rispondere un comico «gruppo di lavoro» per mezzo del suo portavoce, il soporifero Ugo Pirro. Il quale, dopo una serie di digressioni aggrovigliate che giravano intorno all’idea che il problema fosse insieme serio e complesso, finisce per concludere ingiungendo al pubblico di non minimizzarlo. Applausi modesti. Era suppergiù l’ultima volta della giornata che si sentiva parlare di nuove tecnologie. Mentre Rondi si sforzava disperatamente di riportare in argomento un dibattito di cui non controllava né gli annessi né i connessi, gli interventi sedativi si susseguivano. Carl Schultz, l’autore del melodramma australiano (Careful He Might Hear You) faceva sapere che aspettava l’anno 2000 a piè fermo. Vatroslav Mimica, l’autore del Falcone, sviluppava un’apologia del cineasta in quanto poeta; Marcel Martin, Léon Hirszman, Mohammed Lakhdar-Hamina, Giuliano Montaldo e diversi altri hanno recitato poi, uno dopo l’altro, il loro credo autorista, considerando questa teoria come una specie di fortezza assediata da un esercito di piccoli robot e creature extraterrestri, presentandosi l’un l’altro come tanti Davy Crockett ad Alamo. Una buona metà del tavolo della conferenza era occupata da membri della giuria che presto, trascinati dal loro presidente, Bernardo Bertolucci, hanno levato le tende in modo da poter consumare uno spuntino prima di una nuova serie di proiezioni. Diplomatico, il regista di Novecento ha insistito sull’appoggio, se non a parole perlomeno con la presenza, fornito all’eccellente iniziativa del presidente Rondi. È rimasto quindi solo un mezzo tavolo a chiudere il dibattito, lasciando che si susseguissero ancora alcuni interventi secondo un ordine stabilito in precedenza.

Non tutto è stato così ridicolo come tendo a descriverlo, in particolare grazie ai due interventi di Alexander Kluge, che da una parte ha sviluppato diverse idee molto ricche sulla questione e dall’altra, a causa dell’educata incomprensione suscitata dalle sue personalissime considerazioni, ha fornito all’atto pratico la dimostrazione di che cosa sia un autore: un singolare modo di procedere. Naturalmente la vastissima definizione dell’autore come responsabile del suo film, quella cioè che è stata adottata a Venezia, è ormai obsoleta. E se ci fosse stato bisogno di fornirne la dimostrazione, questo vuoto dibattito sarebbe stato sufficiente. I pochi cineasti di una certa levatura presenti non hanno quasi parlato e si ha piuttosto la sensazione che se l’avessero fatto in tutta sincerità – virtù alla quale le tavole rotonde non sono molto propizie – vi sarebbe stata qualche possibilità di ascoltare delle tesi blasfeme. In ogni caso qui sta il punto interrogativo, e le molteplici discussioni scaturite dai problemi sollevati sono appunto la conferma della loro attualità e dell’urgenza che ci sarebbe di riformulare in maniera contemporanea una teoria del regista cinematografico. 1. Come tutti, io ho delle idee sulla teoria degli autori. E, a essere assolutamente sincero, l’idea principale è che la questione sia chiusa. Di tanto in tanto mi capita di fare riferimento alla teoria degli autori, è per automatismo puro e semplice. Dico «teoria», penso «fatto». Il problema dell’attribuzione del film, dal momento che questo è un’opera d’arte, è risolto. Il regista ne è il responsabile. E non solo in virtù della celebre battuta: «Non so a chi si deve il successo di questo film ma so benissimo a chi ne avrebbero rimproverato il fiasco», il film appartiene al cineasta. È chiaro che il regista, e lui solo, controlla nei minimi dettagli gli elementi disparati che, uniti e organizzati, costituiscono un insieme che viene chiamato cinema. E che è un’arte specifica. Tale affermazione, per quanto sensata, richiama una serie di commenti.

Innanzitutto s’impone, quasi automaticamente, una restrizione; a partire da quando si definisce il film opera d’arte? Prendiamo una definizione di opera d’arte grande abbastanza da includere sia il disegno di un bambino che una statua di Prassitele: il fissare nel tempo un’espressione personale. Questa definizione è già molto restrittiva e più che discutibile, ma nella fattispecie sufficiente, poiché comprende l’unica questione che ci riguarda, quella dell’impulso individuale a creare. Quale che ne sia l’origine, un’opera d’arte è la messa in relazione, mediante un atto, di un’idea con la sua realizzazione. Considerata in questo modo, sarebbe l’espressione di un sistema di astrazioni, di sentimenti o di impressioni che vanno oltre i limiti della parola. Mi si perdonino questi giri di parole e queste approssimazioni, che mi permettono di venire al sodo: l’autore precede l’opera. Tizio, che ha girato Caio, non è un autore perché la tale persona autorizzata dichiara che lo è, oppure perché Caio corrisponde a dei criteri definiti. No. Tizio è un autore dal momento in cui dice di esserlo. Dal momento in cui desidera esserlo. Dal momento in cui si assume per intero la responsabilità della sua opera. E pertanto Caio è un film d’autore. Vedete, mi accontento di poco. Senza dubbio è il termine che confonde le idee. È inadeguato. L’uovo viene dalla gallina, il ritratto dal pittore, l’anello dall’orefice, la scultura dallo scultore. E il film? Dall’autore? Niente affatto. È il libro che viene dall’autore. E perché c’è bisogno di accostare il film al libro? Perché si parla di caméra-stylo?[44] Perché ci sono distributori che vogliono essere editori di film? Dopo tutto, i laboratori di sviluppo potrebbero essere tipografie. E poi, i film verrebbero mostrati nelle librerie – o anche nelle multilibrerie – di fronte ad assemblee di lettori. Smetto di fare il pagliaccio, ma riconoscerete a mia discolpa che dopo vent’anni i complessi del cinema nei confronti della scrittura fanno sorridere. Torniamo indietro nel tempo. Torniamo indietro fino alla fine degli anni Cinquanta: che cosa constatiamo uscendo dal cronoscafo del professor Mortimer[45] e osservando il

panorama con un tantino di apprensione? Il cineasta artista del muto, lo sperimentatore dei tempi eroici si è estinto molto tempo fa per lasciare il posto a una specie coriacea e adattata molto meglio alla prosperità popolare del mercato, l’umile e prolifico cottimista, che fa del suo meglio con quello che gli viene dato e che china il capo di fronte alla domanda, al produttore, ai generi, alle star e cos’altro ancora? Vittima del suo successo, il cinema è un’arte popolare; più popolare che arte anche se alcuni individui, contro venti e maree, ne hanno mantenuto viva la fiamma. Ora i film si fanno piuttosto in squadra e sotto la guida di un capo. Il quale capo, a seconda dei suoi successi, acquisisce potere, il mezzo necessario per imporre sempre di più il suo punto di vista, imporre la sua personalità nei film che realizza. Fu questo stato di cose che determinò – poiché tornava utile ai suoi interessi – l’avvento della generazione della Nouvelle Vague: la prima, storicamente, a ritenere che fare dei film fosse più degno delle sue ambizioni che scrivere libri. Eccoci qua. Anche se oggi l’idea è comunemente accettata, all’epoca era una pillola piuttosto difficile da mandar giù. Si passa dal letterario al visivo e la nozione confusa di autore è il cavallo di Troia che si fa rotolare nella fortezza della rispettabilità in nome di un visivo più letterario del letterario. Generazione cardine, la Nouvelle Vague sarà la più cinematografica delle avanguardie cinematografiche. Con questa bella formula, risaliamo sul nostro apparecchio e torniamo ai giorni nostri per constatare che, fatta eccezione per il concetto di autore, il cinema si è radicalmente sbarazzato dei suoi complessi nei confronti della scrittura. Si può anche constatare che i romanzieri che sbirciano verso il cinema sono molto più numerosi dei cineasti che sbirciano verso il romanzo. In fondo i teorici dell’autore hanno avuto talmente ragione e la personalità del cineasta artista – in quanto tipo sociale – si è imposta così bene che adesso l’«autore» è più il cineasta (genere Anticipo sugli Incassi) che il romanziere. Paradosso che eviterò di inseguire più a lungo se non ricordando certe scaramucce nelle retrovie i cui simboli potrebbero essere le contorsioni e le facce da cugino povero di

Claude-Jean Philippe, preso in giro ogni settimana da Bernard Pivot alla fine di Apostrophes,[46] in riparazione di tutti i crimini della Settima Arte contro la letteratura. Si è capito che sembra passato il tempo in cui il cineasta doveva travestirsi da autore per consolidare la sua posizione. Dal momento in cui si ammette, a torto o a ragione, che il cinema c’è e che, se c’è, può essere un’opera personale, si è costretti ad andare fino in fondo e riconoscere che tanto il «cineasta» quanto l’«autore» hanno diritto alla considerazione che si accorda ai fatti accertati. A quel punto è solo una questione di lessico e io tenderei a vedere la parola «autore» come sinonimo circostanziale di «cineasta». 2. Tutto sommato quella che ho enunciato fin qui è un’equivalenza autore/cineasta nel momento in cui quest’ultimo rivendica il film. E ho anche affermato che il cineasta, per modesto che sia, per la semplice evoluzione delle sue competenze professionali e il conseguente ampliamento delle sue prerogative, tenda con una certa fatalità verso l’autorismo. Ciò che disturba in queste due proposizioni sono due fatti, il secondo legato al primo: la caratteristica dell’autore di film – così come è considerato tradizionalmente – è appunto di non fare film d’autore – così come è considerato tradizionalmente – ed è quindi legata in modo indissolubile alla teoria degli autori, di cui non ho valutato, fin qui, l’influenza. Queste due questioni apparentemente oscure hanno una soluzione unica e semplice, che è la doppia natura della teoria degli autori. Non credo che mi si possa smentire se affermo che c’è un punto a monte e uno a valle, la teoria così come è stata applicata da Bazin e da altri ai cineasti del passato e la teoria così come è stata applicata da altri cineasti alle proprie opere. C’è una galassia di differenza. Perché quali sono i registi riabilitati dall’autorismo? Per l’appunto quelli che hanno operato dopo che, secondo l’opinione comune, il cinema con il sonoro ha smesso di essere un’arte e prima che lo sia ridiventato con la Nouvelle Vague. Si può d’ora innanzi affermare, fatti alla mano, che il cinema dei registi francesi che

idearono la teoria degli autori aveva, ha e avrà solo relazioni strettamente aneddotiche con quello dei suoi modelli e particolarmente dei suoi modelli americani. Gli autori di cinema che fecero Hollywood non hanno mai girato film d’autore e se lo hanno fatto è stato per caso, per i casi della vita, a causa del crollo del sistema degli studios che li ha, contro la loro volontà, abbandonati a loro stessi. Cerco degli esempi: i film di scuola di Douglas Sirk, quello di Nicholas Ray, We Can’t Go Home Again, o ancora il superbo e mitico Arruza di Budd Boetticher, per il quale il regista ha rinunciato alla sua carriera. A eccezione dell’ultimo, che è un caso particolare, nessuno di questi film aggiunge molto alla gloria di questi cineasti, al punto che perfino loro li considerano lavori fatti con la mano sinistra. Perfino Anatahan di Josef von Sternberg, il film più personale di uno dei grandi megalomani generati da Hollywood, entra solo a gran fatica nello stretto recinto dell’autorismo. Autorismo la cui caratteristica è la primordiale coscienza di sé del cineasta. Coscienza di sé, aggiungerei, innata in Welles: caso unico nella sua epoca. Il film d’autore è quello che ha anzitutto un autore e che poi è film. Dove lo stile è fatto per essere visto, dove può essere fine a se stesso. E questa ambizione è fra le più legittime. Nel suo stile, cioè in sé stesso, cioè, ancora, nella propria ispirazione, il cineasta va a cercare la materia viva da cui costituirà la sua opera. Così ragionavano i cineasti del muto, così i registi sono artisti. Perciò la domanda che si pone è quella dell’ingenuità. Perché se si ammette che il Paradiso Terrestre nella storia del cinema, la sua preistoria, non è il muto, ma il primo periodo del sonoro, bisogna riconoscere che la grazia è legata all’ignoranza. Perché se con la Nouvelle Vague l’ingenuità scompare, in quanto dopo di essa diviene impossibile girare un film senza porsi la questione della firma, o senza sapere che si pone il problema della firma, tutto un cinema viene offuscato dal suo avvento. Un cinema che si ha il diritto di porre più in alto, quello di Ford, di Lang, di Hitchcock. È chiaro che, consapevolmente o no, la Nouvelle Vague ha largamente contribuito a inchiodare la loro bara. Naturalmente è arduo determinare se la teoria degli autori sia

nata da una congiuntura storica che l’ha suscitata o se al contrario abbia veramente indirizzato il corso degli eventi. Ad ogni modo non è un caso che essa sia contemporanea al declino del sistema degli studios, alla rivolta antihollywoodiana delle vittime del maccartismo e che, insomma, sia erede in linea diretta della grande scuola estetica puramente europea del dopoguerra, quella del neorealismo. La tradizione dei film europei aveva aperto la strada alla Nouvelle Vague e sarebbe difficile non vedere dei segnali precursori nel rigore e nell’esigenza delle opere di Bresson, di Dreyer, di Rossellini o anche di Jean Cocteau e di alcuni altri «autori completi» provenienti dal teatro e dalla letteratura come Guitry, Pagnol e – perché no – André Malraux, ben più preoccupati dello stile e della firma rispetto ai registi cinematografici loro contemporanei. A questo proposito sarebbe sbagliato trascurare l’influenza che ha potuto avere il pesante complesso nei confronti della scrittura nutrito dai cineasti cosiddetti della Qualità Francese. Comunque sia, una volta che la teoria è stata formulata, l’innocenza diviene impossibile. O per dirlo in modo più immaginoso, una volta pronunciato l’«apriti sesamo» non si può più parlare di tesoro nascosto: che cosa c’era esattamente nella caverna? La chiave del cinema moderno, certo, ma poi anche malintesi a bizzeffe. Malintesi perché, della teoria degli autori, gli unici a sapersene servire consapevolmente furono quelli che l’inventarono. Finché si tratta di teoria, la problematica è semplice. È quando si tratta della pratica che tutto si confonde. Indiscutibilmente, e in tutte le sue fasi, la carriera dei cineasti della Nouvelle Vague è modellata dall’autorismo. Godard, Rohmer, Truffaut, e in misura minore Resnais e Rivette la cui carriera è stata più caotica, hanno saputo acquisire il prestigio e i mezzi pratici per realizzare senza compromessi, senza simulacri né polvere negli occhi, le opere che si portavano dentro. Solo che, vent’anni dopo, il loro impeto non è stato in grado di stimolare un vero ricambio generazionale, e ciò malgrado quell’istituzione essenziale del cinema francese di oggi che è l’Anticipo sugli Incassi. Destino paradossale quello di una teoria destinata a valorizzare, fra i cineasti, le

individualità più forti e che in fin dei conti ha dato origine solo a questa entità collettiva e tutto sommato abbastanza uniforme che è il cinema d’autore. Tenderei ad aggiungere cinema d’autore sovvenzionato, nella misura in cui la sfumatura è ben carica di senso. Perché la particolarità del cinema d’autore è di dichiararsi contro un altro cinema, quello, per intenderci, che frutta denaro. Quello che può dare luogo a operazioni finanziarie o commerciali. Che cosa sarà stata la post-Nouvelle Vague se non il costituirsi di una rete semi-parallela destinata a produrre film preoccupati anzitutto di affermare il loro status e solo in secondo luogo di rivolgersi a un pubblico? Non farò esempi, ma ognuno ha in mente dei film – buoni o cattivi, non importa – interamente concepiti per dimostrare, in modo mostruosamente ridondante, di essere opera di un autore. Oppure film che all’interno dell’azione seminano indizi che hanno lo stesso scopo. Per un Téchiné o un Jacquot che hanno saputo utilizzare il contesto per creare le condizioni delle loro opere, quanti altri ce ne sono che, vittime degli impasse teorici, hanno vissuto la loro esistenza di autori di cinema solo come un lungo periodo di disoccupazione scandito dalle riunioni dell’Anticipo? E in cambio di cosa? In cambio della parola ed eventualmente del rispetto aleatorio di una recensione talvolta compiacente e spesso distratta. Magro bottino. Ci vorranno grandi sforzi per trasporre nel cinema il prestigio della tiratura limitata. Oggi, benché il pubblico abbia accettato e digerito la nozione di autore di cinema, sembra precisarsi con una certa violenza che questo stesso pubblico non ha esattamente un debole per un cinema d’autore che parte dalla negazione del pubblico stesso. Dato che gli autori sono dappertutto, autore per autore si preferisce quello di Rocky. Quanto agli spettatori di cinema d’essai, è da molto tempo che accordano la loro preferenza ai film del passato. Tutto sommato la questione che pone oggi il cinema d’autore è quella della sua capacità di sopravvivere. Le sue facoltà di adattamento sono sufficienti oppure soffocherà nell’autocompiacimento, incapace com’è di sapersi rinnovare? Incapace com’è di proporre un’alternativa vitale al cinema di largo consumo. Incapace com’è di

confrontarsi con i desideri del pubblico. Si tratta di pragmatismo, e in materia di pragmatismo esiste un vero e proprio caso da manuale, quello di Chabrol. D’istinto, ha saputo subito imporre da solo su scala francese un sorprendente mercenarismo che è forse la migliore approssimazione al sistema americano dei film di serie B. Se avesse fatto dei film migliori, il che non era ontologicamente escluso dal suo modo di procedere, Chabrol avrebbe avuto una carriera esemplare: scivolando tra il passato e il presente, tra la cinefilia e la pratica, i momenti di grazia e la semplice macelleria, attraversando i generi, è stato al gioco, si è messo al servizio del cinema del suo tempo invece di adoperarsi per modellarlo a sua immagine e somiglianza. Questo vuol dire essere un cineasta, vuol dire essere rispettoso delle contingenze. Tenere conto dell’economia e tenere conto del pubblico è ancora il modo migliore che si sia trovato di appartenere alla propria epoca. Perché se chiunque ammette di buon grado che l’autore esiste prima delle opere, si può affermare ugualmente che l’epoca esiste prima dell’autore. È lei a riformulare continuamente le condizioni oggettive delle sue pratiche; ed è a lei che bisogna rendere conto. L’epoca si definisce mediante il rapporto che istituisce tra l’opera e il suo pubblico. Mediante le condizioni nelle quali permette apertamente, tacitamente o anche accidentalmente la sopravvivenza dell’artista. Il grande cineasta nasce dal suo tempo come il grande film nasce dall’incontro di un individuo con una cascata di casi storici. Prendete Il disprezzo, ecco l’esempio-tipo del film che non si poteva fare prima, che non si potrà più fare dopo. C’era solo quel cineasta a poterlo fare ed era necessario che lo facesse in quel momento, che era il momento giusto. E se oggi il cinema d’autore si trova in difficoltà, tanto finanziariamente quanto artisticamente, si ha il diritto di pensare che questo è dovuto al fatto che non sa parlare del proprio tempo con le parole del proprio tempo, che non sa trasformare l’aria che si respira in immagini. Del resto, nel Disprezzo, Godard ha detto tutto questo meglio di quanto potrà mai essere detto. E per di più è una storia d’amore.

(Apparso sui numeri 352 e 353 dei Cahiers du cinéma, ottobre e novembre 1983) [44] Caméra-stylo è un’espressione teorica che, assimilando il regista all’autore letterario, indica la cinepresa come se fosse la sua «penna». [n.d.t.] [45] Protagonista della serie a fumetti Les aventures de Blake et Mortimer, che nell’episodio «Le piège diabolique» [La trappola diabolica] del 1962 viaggia nel tempo a bordo del «cronoscafo» del professor Miloch. [n.d.t.] [46] Celebre e seguitissima trasmissione letteraria settimanale, andata in onda sulla televisione pubblica francese dal 1975 al 1990, in prima serata. [n.d.t.]

POLITICA DEL CINEMA, DISCREZIONE DEGLI AUTORI di Thierry Jousse

Il produttore Christian Fechner rifiuta di mostrarci il suo Elisa. La Gaumont fa lo stesso per Prêt-à-porter, l’ultimo Robert Altman (uscito negli Stati Uniti, perciò visibile da tutti, da cui il ridicolo del divieto di proiezione). Bertrand Tavernier, proprio lui, quantunque sia un ex critico, desidera che noi non parliamo del suo ultimo film prima dell’uscita nelle sale e ce lo fa sapere. Questa accumulazione di piccoli fatti e altre scaramucce non è nuova e non richiede toni lamentosi. È semplicemente rivelatrice di quanto sia timoroso e freddoloso l’ambiente del cinema in Francia, senza dubbio all’altezza di quest’epoca quanto mai balladuriana.[47] È sempre la stessa argomentazione: i film sono così fragili, così esposti, bisogna proteggerli. Sempre lo stesso appello a sostenere il cinema francese nella sua totalità, nel suo corporativismo indivisibile, la stessa concezione umanitaria del ruolo della critica. Soprattutto niente ondate. Soprattutto niente conflitti. Sarà perciò necessario in un futuro prossimo ricostruire uno stile per la funzione critica, riformulare una pedagogia del gusto e del discorso. Ma anche riparlare del marketing, della promozione e specialmente dei gruppi di pressione, del finanziamento dei film, dell’ideologia del cinema francese… È appunto quello che affronta, un poco più avanti su queste colonne, Pierre Hodgson, in un testo che scuote un poco questo torpore pericoloso nel quale il liberalismo selvaggio cerca quasi sempre di avvolgerci. È anche una maniera abbastanza polemica di aprire un dibattito sul futuro del cinema che amiamo e sull’ipoteca economica e politica che si vorrebbe far pesare su di lui. Di sicuro ne riparleremo. Piuttosto che lasciarsi andare alla malinconia o

all’intimidazione, il cinema francese trarrebbe vantaggio dal prendere a modello Youssef Chahine,[48] la sua vitalità, il suo senso della contaminazione interculturale, della lotta, la sua capacità di affrontare senza paura i temi più rischiosi, il suo senso della messa in scena. Con L’emigrante, ci fa dono di un film che occupa un posto assolutamente unico nel cinema mondiale. Un film che gareggia con gli americani sul piano dello spettacolo e dell’avventura, con mezzi molto meno consistenti. Una favola mitologica che obbliga lo spettatore a pensare pur meravigliandolo, che fa storia dal punto di vista del presente, che mette in scena un grande racconto rileggendo la propria autobiografia. Del resto il pubblico egiziano non si è sbagliato decretando all’Emigrante un successo considerevole. E nemmeno la censura, attaccando frontalmente questo film che fa appello ai libri santi, Bibbia e Corano, e che osa rappresentare un profeta, o in ogni caso ispirarsi a lui. Il fanatismo ha colpito ancora e il cinema preserva così, paradossalmente, la sua forza di sovversione. Quanto a JeanLuc Godard, egli ha fatto di Youssef Chahine, in questa situazione di resistenza e di generosità, una sorta di alter ego; ha deciso di far uscire il suo bellissimo autoritratto, JLG/JLG, insieme al film precedente del cineasta, Il Cairo, un cortometraggio, anche questo proibito in Egitto, non dai religiosi ma dai laici del governo. Si tratta di una ripoliticizzazione del nostro rapporto con il cinema? Sì, e senza dubbio più in generale della nostra relazione con le immagini, ma a condizione di ridare alla parola «politica» il suo senso forte piuttosto che quello degradato che ha preso in generale nei media, vale a dire quello di una lotta, di una riflessione, di una vigilanza, di un senso critico. È a questa condizione, e soltanto a questa condizione, che potremo sfuggire al consumo puro e semplice, e che il cinema e il pensiero che lo alimenta potranno avere un ruolo attivo e ritrovare la loro capacità di intervento nella vita della città. Essere un autore nel cinema non è necessariamente sinonimo di sfoggio o di effetto di firma. Prendiamo per

esempio Clint Eastwood o Claude Chabrol. Fanno incontestabilmente parte del Gotha dei cineasti attivi, senza parlare della loro influenza mediatica, soprattutto per il primo, la cui carriera di attore qualche volta ha messo in ombra quella di regista. Quanto al secondo, spesso si è consegnato da solo al gioco dei media, non senza uno spirito un po’ birichino, ma qualche volta con una certa ostentazione, a rischio di guastare la propria immagine di cineasta a vantaggio di quella di istrione. Eppure, la virtù maggiore di entrambi è senza dubbio la discrezione. Prendiamo I ponti di Madison County o Il buio nella mente, i loro ultimi film che escono alla fine dell’estate: in entrambi i casi i registi sembrano scomparire dietro ciò che svelano, lasciando alla regia l’unica incombenza di metterci di fronte al mondo che costruiscono. Non hanno alcun bisogno di esibirsi, perché sono onnipresenti nel film grazie alla sola forza della loro fede nel cinema. A prescindere dal grado di riuscita del loro film – Il buio nella mente è di sicuro uno dei migliori Chabrol, mentre I ponti di Madison County è un Eastwood imperfetto anche se circonfuso di una malinconia fantomatica infinitamente personale – quello che traspare in questo caso è una concezione dell’autore che avanza mascherato, dietro un genere, un libro, un materiale impuro, non per modestia, ma soltanto per trasmettere meglio una visione del mondo che spesso acquista una dimensione morale, politica o anche metafisica. Sia nel caso di Eastwood che in quello di Chabrol, il film è tutto sommato più importante dell’autore e del suo universo, dell’artista e del suo mondo interiore. Perché non si è artista o autore prima di un film, ma solamente dopo, in una successione che finisce per coesistere in modo ammirevole. È la ragione per la quale tanto Eastwood quanto Chabrol hanno dovuto aspettare prima di essere riconosciuti come autori a pieno diritto, soltanto perché non hanno mai cercato in particolar modo di farlo sapere nei loro film. Ma è anche il motivo per cui, in ultima analisi, la loro opera ci appariva così densa, la loro traiettoria così impressionante, la loro esistenza così importante. E anche in maniera semplice, perché si collocano entrambi in un luogo che non è molto affollato in quest’ultimo periodo, uno spazio-

tempo dove il cinema ha ancora la vocazione – in qualche luogo tra il suo divenire-minoritario e la sua deriva-versol’industria-dell’entertainment – a essere universale. E questo è tremendamente prezioso. (Apparso nel numero 489 dei Cahiers du cinéma, marzo 1995) [47] Allusione a Edouard Balladur, Primo Ministro francese dal 1993 al 1995. [n.d.t.] [48] Regista, attore, sceneggiatore e produttore egiziano. [n.d.t.]

SULLA «POLITICA DELLE MISURE» di Serge Toubiana

Durante la sua conferenza stampa del 22 aprile 1996, durante la quale ha rivelato l’elenco dei film selezionati quest’anno a Cannes, così come il programma dei festeggiamenti, Gilles Jacob ha ripreso, non senza umorismo, una frase famosa di Jean Gabin che evocava ai suoi tempi le «pointures»[49] del cinema. Di questa nozione di «misure» bisogna soprattutto non sottovalutare la portata, perché si tratta forse di un passo avanti decisivo nel campo della teoria. In effetti nessuno meglio di noi può constatare che il concetto di «autore» ha fatto il suo tempo, e lo ha fatto anche molto bene. Da parecchio avevamo bisogno, pena restare in panne dal punto di vista teorico ed essere piantati in asso definitivamente, di trovare un altro termine, più giusto e che aprisse nuove prospettive al cinema contemporaneo. Suo malgrado, Gilles Jacob ci ha appena reso un magnifico servizio. La nozione di misura la metteremo ovviamente alla prova, a partire da questo maggio a Cannes. E, perché no, tenteremo di elaborare una «politica delle misure», dopo aver detto chiaramente che ognuno, presso i Cahiers come altrove, deve poter trovare liberamente la scarpa che gli calza meglio. Osiamo comunque, a inizio di partita, polemizzare con il delegato generale: usava la parola pointures riferendosi solamente ad alcuni dei nomi di cineasti presenti quest’anno a Cannes (immagino che pensasse a Bernardo Bertolucci, a Robert Altman o ai fratelli Coen)? Oppure è d’accordo con noi nel dire che la parola non implica evidentemente alcuna connotazione peggiorativa, e che esistono tante «misure» quanti piedi?

Di questa «politica delle misure» prevedevamo l’arrivo ai Cahiers già da qualche tempo, perché ha ormai invaso il cinema mondiale. Non c’è bisogno di dire, per esempio, che l’ultimo lavoro di Bertolucci, Io ballo da sola, è una misura italiana, di lusso, ma in saldo. Girato in Toscana, in uno dei più bei panorami del mondo ma con soldi «internazionali», questo film presenta un lungo stuolo di personaggi del jet set, dimostrando così che l’industria del lusso ha un futuro roseo davanti a sé. Ma a forza di voler andare a tutti la misura bertolucciana rischia di non andare a nessuno. A Cannes, di misure ne avremo di tutti i colori, e per tutti i prezzi. Così vuole il mercato internazionale… Il cinema francese, per esempio, che quest’anno avanza con orgoglio e forte di una bella squadra – non meno di cinque film in concorso – non avrà pace finché non avrà dimostrato che la sua industria, attaccata da ogni parte sul proprio territorio (vedere il caso recente di Désiré, l’ultimo film con Belmondo, che ha già fatto scorrere molto inchiostro per via di un’uscita a pelle di zigrino[50]), è in grado di presentare nella vetrina del suo negozio alcuni bei campioni del suo artigianato. Si potranno così calzare stivaletti (Ridicule, di Patrice Leconte, che apre il festival, è un film in costume) o mocassini, a meno che non sia necessario equipaggiarsi di scarponi militari per scoprire il film di Jacques Audiard, Un héros très discret, che parla di un personaggio poco comune al tempo della Liberazione. Per Un ragazzo, tre ragazze, il magnifico film di Eric Rohmer (in chiusura della sezione «Un certain regard»), dei semplici sandali da spiaggia saranno sufficienti e ci lasceranno il piede più leggero. Siamo sinceri, la «politica delle misure» è un concetto per tutti i terreni. In Francia più che altrove. Basta semplicemente prevedere la strada per attrezzarsi di conseguenza. Sempre dal punto di vista del cinema francese, i Cahiers non stanno più nella pelle dopo aver visto alcuni film; confessiamo che è stato necessario agire con un poco di astuzia quest’anno per eludere la vigilanza estrema del Delegato generale, i cui ordini erano spietati: nessuna proiezione per la stampa di film di Cannes prima di Cannes! Che fosse Parfait amour di Catherine

Breillat ed Encore di Pascal Bonitzer (tutti e due selezionati nella sezione «Cinémas en France», e da vedere seduta stante), Irma Vep di Olivier Assayas («Un certain regard»), o Comment je me suis disputé, ou Ma vie sexuelle, di Arnaud Desplechin (competizione ufficiale), questi film, per non citarne altri, costituiscono un «poker d’assi» ideale, a cui aggiungiamo volentieri il film di Rohmer. Ciò che hanno in comune questi cinque film sono un’energia e una forza incredibilmente stimolanti, un vero piacere e una comprensione del cinema. In breve, queste scarpe su misura cucite a mano ci hanno deliziato. Lo slogan ideale per lanciare questo 49° Festival potrebbe essere perciò: Visto che è in buona forma, il cinema francese cammina su due gambe! Ma di qui a proclamare «Calziamo scarpe francesi!», c’è solamente un passo, che assolutamente non bisogna fare. Perché l’interesse di Cannes consiste nel trarre diletto dalla scoperta delle «misure» venute da tutto il mondo, guidata da una curiosità insaziabile: come si fanno le scarpe in America, in Asia e in ogni altro posto del mondo? Se i film francesi sono validi (e di sicuro lo sono quelli citati più sopra), e qualsiasi cosa la giuria presieduta da Francis Coppola deciderà il prossimo 20 maggio, ecco già quello che si potrà ricordare di questo Festival di Cannes. Resterà l’essenziale: queste piccole, grandi e medie «misure», che hanno stile e permettono di andare lontano, devono ancora essere accolte presso distributori ed esercenti. Visto che – ahimè! – il male del cinema francese è fin troppo risaputo: tanto la nostra cinematografia è in grado di fornire un numero di «modelli» molto più grande di chiunque altro al mondo, quanto il suo sistema di vendita, in piena ricomposizione intorno ai multisala, sembra ben poco adatto a fare in modo che ogni film, secondo la sua misura, possa trovare il suo pubblico. Ci si risparmierà di parlar male delle televisioni, per non far disperare la Croisette dove la televisione si considera a casa propria. Ma è giusto ricordare che solo le «grandi misure» hanno accesso al prime time, e che il resto del cinema in generale ne è escluso.

È del resto il punto debole – l’economia che designa sempre certi rapporti di forza – di questa nozione di «politica delle misure». Perché se bisogna già introdurre una sorta di discriminazione, in funzione dei gusti – o piuttosto della mancanza del gusto – a vantaggio dei tre o quattro programmatori di circuiti che fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato delle calzature, allora è finita per la nostra libertà di spettatori. Una vera «politica delle misure» richiede in effetti un’apertura mentale, una curiosità verso l’altro, un brio e uno slancio verso film di tutte le marche e tutti i modelli, che il sistema di distribuzione attualmente in vigore, interamente orientato verso il trionfo delle misure extralarge americane, stenta a far suo. A questa posta in gioco, che è fondamentale, è necessario rispondere con un’alleanza, un fronte unito di tutti quelli che, qualunque sia la loro taglia e qualunque sia il loro modello preferito, hanno voglia di camminare secondo il loro ritmo, in tutta indipendenza. (Apparso sul numero 502 dei Cahiers du cinéma, maggio 1996) [49] Il termine francese vuol dire sia «numero di scarpa» che «pezzo grosso, figura di punta». Di qui una serie di giochi di parole ripetuti in tutto l’articolo ma che non è possibile rendere in italiano. [n.d.t.] [50] Cioè che si restringe progressivamente; l’allusione è al romanzo Peau de chagrin di Honoré de Balzac. [n.d.t.]

DI VEDETTA. CHE COSA RESTA DELLA POLITICA DEGLI AUTORI? di Antoine de Baecque

Nulla. Non ne resta nulla. O troppo, ne resta troppo. Perché a cosa serve una parola, autore, che è necessario spiegare continuamente, integrare con presupposti, chiarimenti, circostanze, prove? Perché non liberarsene[51] come ha fatto la pittura con la parola figurativo? Perché non abbandonarla una volta per tutte a quelli che se ne vantano di più, che se ne compiacciono quasi: al giovane-cinema-d’autore come al vecchio-cinema-di-altri-tempi, a tutti quelli per cui «autore» suona come una patente di rispettabilità, e la politica omonima somiglia a un’assicurazione sulla vita quotata nella borsa dei valori culturali? Perché non attingere altrove le idee e i concetti di cui abbiamo bisogno oggi per fare critica, nel campo della pittura, della danza, della musica, della filosofia, della storia, o nei film stessi? È vero che l’«autore» e la sua «politica» sono strumenti che sono serviti abbondantemente. In particolare e in primo luogo su queste colonne. La politica degli autori ha persino stravinto.[52] Bollettino della vittoria: tutti coloro che fanno professione di fede nel cinema, critiche, riviste, cineclub, sale d’essai, poteri pubblici culturali, hanno aderito con il passare del tempo alla nozione di autore e alla legittimità della sua politica. Omaggi, retrospettive, incontri, resoconti, critiche, rassegne stampa, tutto quello che viene scritto sul cinema si vanta, consapevolmente o no, di questo gioco di scrittura ereditato. Occorre per questo uscire da un siffatto gioco critico? E in quale spazio perdersi allora? Quale cavalcatura montare?

Perché ciò che viene contestato è più la dogmatizzazione della politica degli autori che la sua stessa esistenza. Più gli abusi, gli eccessi, gli errori, le totali libertà o i deliri causati dalla fede nell’autore che la sua posizione in quanto tale. L’autore si è trasformato in valore assoluto e la sua politica in mito, ecco il duplice effetto perverso di un processo: quello di una «autorificazione» senza misura e di un’infatuazione per l’elogio che, insieme, costruiscono le trappole in cui si perde e si annichilisce il giudizio critico. Il tempo degli autori è passato? Senza dubbio, se lo si considera anzitutto una posta in gioco negli scontri fra critici. Certamente no, se crediamo che appariranno ancora, al cinema, universi a misura esatta di colui che li ispira, li forma, li plasma. Importa soprattutto, adesso, vedere che i film validi non conoscono regole né limiti, che dimostrano la falsità delle leggi alle quali li si crede sottoposti. Né ai professori, né ai giudici di un cinema compiuto, conviene diventare testimoni di un cinema che si sta costruendo. Tuttavia, il critico spesso non è altro che una garanzia di consacrazione dell’autore: il suo rapporto con lo spettacolo si è completamente pervertito, rovesciato. Egli non scopre più un film, lo identifica e lo autentica come segno d’autore. L’autore, in questo senso, è anzitutto un segnale che gli viene rivolto, un segnale che bisognerebbe perciò recepire con una certa diffidenza: attenzione, pericolo, autorificazione in corso… E allora la politica degli autori si libererebbe del suo peso e si trasformerebbe in un esercizio dello sguardo che lo renderebbe più acuto, più critico, più attento. In agguato. Appunto questo mese di novembre del 1997, come a farlo apposta, sembra voler mettere alla prova lo sguardo critico. Siamo in presenza di cinque film che, in modo quasi ovvio, rimandano alla concezione originale dell’autore. Cinque universi ciascuno dei quali è tanto affine a una traccia personale e originale quanto potrebbero esserlo le impronte digitali. Carne tremula, Hana-Bi, Il sapore della ciliegia, Parole, parole, parole, Marius e Jeannette rappresentano il mondo-cinema di Pedro Almodóvar, Takeshi Kitano, Abbas Kiarostami, Alain Resnais, Robert Guédiguian. Ma detto questo, che cosa abbiamo detto, esattamente? Non molto.

L’affermazione non è falsa, e sono parecchi quelli che si potrebbero ritrovare, grosso modo, in questa scelta, con la possibilità di stabilire una «classificazione» diversa secondo i loro gusti e le preoccupazioni del momento. E tutti sarebbero d’accordo in nome di questa idea: i film appena citati sono rispettabili, o anche piacevoli, perché impongono a modo loro l’equazione di base della politica degli autori: un universo = un autore. E ancora, presi insieme, questi film non sembrano costituire un sistema: le cinque proposte formali, come le cinque personalità, non si somigliano affatto. Uno a uno, questi film e i loro registi sono una sfida lanciata all’autorismo. Kitano, per esempio, pratica una mistura di generi che qualche volta diventa francamente carnevalesca poiché dal punto di vista narrativo e visuale va alla deriva di registro in registro, di rinvio in rinvio; la sua personalità in definitiva regge solo in un atteggiamento minimale, una posizione minimalista che potrebbe essere spazzata via in ogni momento: sorriso in tralice, disincantato, zoppicare composto, distaccato, e strizzata d’occhio maniacale, come un tic incontrollato. Si sente benissimo che il corpo stesso di Kitano, che potrebbe essere la sua firma d’autore, la sua sigla estetica, il suo atto di cinema, è in definitiva il prodotto di altri incroci, più spesso esterni all’arte dello schermo: un’immagine coniata dalla televisione, ritoccata dalla vita (un grave incidente di motocicletta), poeticizzata dalla pittura. Una immagine che, qualunque cosa accada, Kitano si è già condannato senza dubbio ad abbandonare. Non potrà andare molto più lontano in questo senso: sembra avere realizzato Hana-Bi per apparire ancora più forte e scomparire in futuro. Strana concezione dell’autore quella che consiste nell’annullare il proprio corpo sovraesponendolo. Una concezione, in ogni modo, priva di qualunque compiacimento. Almodóvar è, anche lui, in una strana posizione antiautorista, una posizione obbligata. Egli tenta, film dopo film, di liberarsi di se stesso, di scaricare una immagine di marca che lo ha consacrato autore proprio mentre lo istituiva gran sacerdote della Movida madrilena, cantore del grafismo kitsch o profilo ideale dell’avanguardia postmoderna.

Dopo Il fiore del mio segreto, che già era costruito come una sottrazione (dopo la quale non rimaneva altro che un film, un semplice film, libero dagli orpelli del demiurgo) piuttosto che come la somma dei segni d’autore, Carne tremula porta a maturazione questo processo: Almodóvar non è più un cliché d’autore, ma somiglia ormai ai suoi film (e non il contrario), calmo, sereno, ampio nelle sue idee, di una crudezza diretta e naturale quando parla di corpi. Allo stesso modo, Abbas Kiarostami può davvero essere classificato tra gli autori, quando dell’autore sembra piuttosto essere l’immagine definitivamente cristallizzata? Il paradosso vuole che Kiarostami sia il più autore di tutti nella sua concezione del cinema – la cinepresa nei suoi film interpreta volentieri il ruolo di coscienza del mondo – e senza dubbio il meno autore nella sua pratica di cineasta. Perché i segni dell’autorismo si dissolvono continuamente nella molteplicità e nell’eterogeneità dei suoi interessi e delle sue pratiche. Kiarostami, lo si è visto in occasione di retrospettive che mostrano tutti i suoi film, è al tempo stesso grafico, fotografo, pittore, pubblicitario, segue il filo ossessionale delle sue idee ma lavora anche su commissione, affronta le proibizioni e i tabù politici. Il ritratto tracciato allora sembra più vicino al perverso polimorfo che all’autore di cinema, è più esplicito che di cattivo gusto. Se fosse necessario continuare la dimostrazione di questa de-posizione dell’autore, si potrebbe ricordare la diffidenza di Resnais verso tutte le gerarchie di valori culturali che lo fa allegramente divagare e gli fa regolarmente scegliere oggetti che sfuggono all’attesa autorificazione, o la scelta del collettivo in Guédiguian che lo conduce a mettersi, più di quanto dovrebbe, al servizio degli altri, come produttore, organizzatore, o semplicemente amico. Non piega il mondo a sua misura, è lui a piegarsi, si piace come riflesso degli altri. Perché, quindi, tentare di collezionare i segni dell’autore mentre gli «autori» stessi continuano a confondere le tracce, a sfuggire alla propria reputazione e a rinunciare agli effetti di conoscenza e riconoscimento? Mese dopo mese, il critico ha qualcosa di meglio da fare che starsene a guardare un’opera

che si ripete regolarmente, solo per aggiungere un gioiello alla sua raccolta personale di autori di famiglia. Questo «ritorno dello stesso» assomiglia alla gestione cinefila di un’eredità autorista, una maniera di accompagnare le stirpi del cinema verso la consacrazione, il che non ha niente di eccitante. Anche a costo di rimanere nell’attualità mensile del cinema, piantati là e fieri di esserci, ci si presenta una più audace «politica dei film (del mese)». Questa posizione critica, abbastanza scomoda perché è effimera – richiedendo dei riflessi rapidi – e screditata – c’è effettivamente un che di ridicolo in questo ruolo di vedetta mensile –, è comunque interessante perché può consentire, appunto, di sbarazzarsi dell’autorismo sistematico. Si tratterebbe, in realtà, di considerare i film, più che fondamenti successivi nella costituzione di un’opera d’autore, come apparizioni che sbocciano di volta in volta disegnando un panorama cinematografico cangiante ed effimero. Prendere letteralmente sul serio quello che è solo, in generale, la conseguenza del caso, di una scelta di distribuzione, o della produzione mensile di una rivista. Perché non lanciarsi la sfida di trovare una coerenza là dove certamente non esiste: stabilire dei legami tra film e film in uno spazio geografico determinato (le sale francesi) e in un tempo stabilito (un mese di cinema)? Questa «politica dei film» è abbastanza paragonabile all’atteggiamento del critico durante un festival: destabilizzato dalla confusione delle proiezioni, è costretto a vedere insieme dei film che non hanno a priori alcuna attinenza, condotto a elaborare delle relazioni audaci, spesso un po’ deliranti, tra le opere di diverso statuto. Come se lavorasse sotto ipnosi. I paragoni, le scorciatoie devono essere fatti a questo prezzo: è sufficiente voler spostare un poco l’angolo di visione, osare degli accostamenti tra film molto diversi, preferire l’instabile al prevedibile e la sorpresa alla reputazione autorista. Qui la critica trova una forma di gioco di scrittura sperimentale: dare forma stabile, nel tempo di un articolo, nel tempo di un incontro, a una mappa del cinema che tuttavia abbiamo accettato volontariamente in tutto il suo disordine.

In questo senso, si possono avanzare tre proposte per una «politica dei film» questo mese (correndo il rischio che non siano più valide il mese prossimo, ma ne resterà sempre qualcosa che riprenderà vita un po’ più avanti in maniera improvvisa e sfasata, mentre la gestione dell’opera di un autore non riprende mai vita, si limita a ritornare). 1. Spazi in cantiere I cinque film di novembre sono estremamente connotati, in precisi ambiti locali, e questa geografia è in se stessa un discorso sul cinema. I luoghi, i personaggi, le storie sono in cantiere come gli elementi di un film in corso di realizzazione. I personaggi del Sapore della ciliegia misurano a grandi passi questo cantiere come se non ne potessero più uscire. Quasi tutto il film ha luogo in poche centinaia di metri quadrati aridi, desolati, in mutazione perpetua. In un cantiere dello stesso tipo s’incontrano Marius e Jeannette, sopra Marseille, un cantiere vuoto, spazio di desolazione che somiglia più a un cimitero che a uno spazio di lavoro, il cimitero della «civiltà operaia», di un habitus in via di estinzione. Ma questo cantiere è anche la fonte di una rigenerazione: è il luogo dove rinasce l’amore, lo spazio degli incontri e del desiderio. È anche in questa maniera che Kiarostami filma il proprio cantiere: dopo la morte e il buio totale, spaventoso, stupefacente, viene il ritorno di una vita, rigenerata e come alimentata dai cadaveri, che si manifesta sotto forma di un’erba verde e tenera che spunta fitta sulla terra prima sterile. Lo sfasciacarrozze di Hana-Bi, i terreni abbandonati dei sobborghi madrileni, gli appartamenti vuoti che vengono visitati continuamente in Parole, parole, parole sono altrettanti spazi improbabili e disabitati, destrutturati e pronti a essere acquistati, in cui gli individui si ritrovano in cantiere, ricostruiti per un progetto futuro, iniziati a una vita nuova. Questa non è una casa che ciascuno si porta addosso, con le sue regole precise e le sue comodità ordinate, ma un cantiere che tutti acquistano e integrano nel loro modo di vivere. Tutti, in questo spazio ristretto, sono al lavoro; ognuno viene elaborato (e il film con loro). 2. Cantieri dove i corpi maturano

Se il protagonista del Sapore della ciliegia ci tiene tanto a essere seppellito nel cantiere che misura ossessivamente, è perché sa che il suo corpo «ci maturerà» bene. Cadavere decomposto poco a poco, mescolato alla terra che deve esservi gettata sopra, sciolto nel buio delle viscere, delle tenebre, della morte sotterranea. In un altro modo, preso sul limitare della sua esistenza, il giovane rappresentato da Pedro Almodóvar ha il dovere di far maturare il proprio corpo. È quello che si avverte meglio in Carne tremula, questo modo di imparare il proprio corpo, di «alterarlo» progressivamente al contatto con il corpo degli altri. In effetti, Victor diventa «il miglior scopatore del mondo». È molto bella l’idea che il cinema sia uno spazio dove i corpi maturano, che lo schermo accolga dei corpi in un momento della loro forma e che li conduca, un po’ più tardi, a un’altra forma. Tutto questo s’imprime sulla pellicola come gli stati successivi ed evolutivi di una sorta di patologia: i corpi invecchiano col film. Questo si avverte con grande forza in Kitano e in Resnais, tanto più forte in quanto gli stessi corpi, di film in film, continuano appunto a maturare. Nei film di Resnais si ritrovano da una quindicina d’anni gli stessi attori: si ha l’impressione di essere invecchiati con loro, di essere accompagnati dalla loro presenza nel passaggio alla mezza età mentre loro, con uno spostamento di generazioni, passano poco a poco verso una sorta di incertezza delle apparenze. Dussollier, per esempio, o anche Arditi, sono invecchiati, le tempie ingrigite, la schiena curva, le rughe incavate, e ancora, va sottolineato, interpretano ruoli collocati una ventina d’anni prima nella cronologia delle età della vita. Gli attori incarnano personaggi che hanno l’età che loro avevano quando hanno incontrato Resnais. Nel frattempo, naturalmente, sono maturati. Ed è questo che Parole, parole, parole fa vedere con una gioiosa depressione, fa cantare nostalgicamente. Kitano, dal canto suo, non ha uguali nell’eleganza e nella presenza del corpo che matura e si disfa, se non nella corporeità strana e malinconica di Clint Eastwood. 3. Corpi che assomigliano al loro creatore

Marius zoppica, con la gamba rigida. Zoppica nello stesso tempo in cui il suo cantiere si svuota di ogni traccia di vita. Ma questa maniera di essersi fabbricato un corpo – inoltre si viene a sapere abbastanza presto nel corso del film che questa menomazione è solo mimata, solo una maschera artificiale: Marius si è fabbricato questo corpo straziato come un impostore, un contraffattore – è soprattutto un mezzo per coinvolgersi nel movimento del mondo. Perché nulla impedirà a Marius di camminare, di misurare a grandi passi il suo cammino, di raggiungere il promontorio da dove può abbracciare la città con lo sguardo. Un identico ostacolo rivelatore è filmato da Almodóvar: David si lancia tanto più profondamente nell’universo in quanto è paralizzato. La perdita dell’uso delle gambe lo spedisce, con una violenza assolutamente controllata, nella strada, sui campi di pallacanestro, nella vasca da bagno con sua moglie. Accompagna un movimento più vasto che è quello del desiderio, della follia omicida, della gelosia. Marius e David, non psicologicamente né fisicamente, ma in questa maniera di parlare mediante il corpo, costituiscono dei ritratti estremamente precisi dei loro creatori, Robert Guédiguian e Pedro Almodóvar. Il primo per il suo impegno, il secondo per il suo feticismo, dedicano tutti i loro sensi a queste apparizioni nelle quali l’ostacolo serve solamente a provocare la presa di coscienza o a stimolare il piacere. La faccia di Alain Resnais ha la stessa affinità con la presenza fisica del suo film: un vecchio gentiluomo la cui curiosità gioviale nasconde appena l’angoscia che lo attanaglia, un uomo che possiede la sovranità suprema di potersi permettere tutto, oscillando tra l’eleganza e la depressione, tra il pensiero e la modestia, il fascino e una maniera moderna di essere «vecchiotto». Quel poco che si sa di Abbas Kiarostami non ci sorprende molto guardando Il sapore della ciliegia: una maniera un po’ caparbia di essere impenetrabile, una cortesia sulla quale non si può fare affidamento, un pragmatismo che gli fa seguire ostinatamente la sua strada, una facciata che preserva in sé i misteri della vita dei morti. Tutte caratteristiche che accostano, fino a confonderli, il ritratto del regista e il paesaggio del film.

Kitano non è da meno in materia di autoritratti, visto che si trova a filmare sul proprio corpo il panorama fisico e mentale in cui sono immersi tutti i personaggi di Hana-Bi. Egli possiede, attraverso il suo modo di esserci, serena e nervosa, impenetrabile e limpida, prosaica e poetica, una generosità senza equivalenti: solo lui offre a tutti i suoi spettatori pezzi del suo corpo sotto forma di altrettanti stati d’animo. Vedere il ritratto del cineasta nello specchio offerto da tutti i corpi, riuniti, del suo film: si osserva che la «politica dei film» finisce per ritrovare uno dei dati principali della «politica degli autori», l’autoremorfismo che fa in modo che ogni buon film, comunque vadano le cose, assomigli fisicamente, punto per punto, al suo creatore. Ecco perché era indispensabile confrontare queste idee con la parola degli stessi autori. E questo numero dei Cahiers tenta di provocare questi incontri nel corso di cinque lunghe interviste con Almodóvar, Kitano, Resnais, Kiarostami e Guédiguian. Ricordate di aver mai letto tale abbondanza di parole di cineasti? Ma d’altro canto, ricordate forse un mese di cinema altrettanto denso e vivo di questo mese di novembre del 1997, in cui si riesce quindi a ricadere sui propri piedi «autoristi» dopo aver molto vaneggiato in mezzo ai film? Ma, in fin dei conti, se bisognasse tenere a mente una cosa sola di questo articolo in forma di (non) linea editoriale, sarebbe senz’altro l’elogio della divagazione. Quella che, tra i film di un mese, aggiungendo qualche volta dei libri, apre sufficientemente lo spazio allo sguardo critico in modo da sentirsi obbligati a stabilire delle connessioni, dei legami, a praticare tra film e film degli accostamenti che funzionino come altrettanti collage e montaggi. Alcuni incerti, altri audaci. E qualche volta fantasiosi. (Apparso sul numero 518 dei Cahiers du cinéma, novembre 1997) [51] André Labarthe, «Mort d’un mot: mise en scène», Cahiers du cinéma, n. 195, novembre 1967.

[52] Può essere utile una rilettura della tavola rotonda intitolata «Il cinema americano, i suoi autori e la nostra politica in discussione», preceduta da un’introduzione di JeanLouis Comolli, Cahiers du cinéma, n. 172, novembre 1965 [supra, p. 134].

INDICE

Presentazione di Antoine de Baecque La politica degli autori Seconda parte: i testi Genesi di un’idea Su tre film e una certa scuola di Eric Rohmer Amare Fritz Lang di François Truffaut Alì Babà e la «politica degli Autori» di François Truffaut Abel Gance, disordine e genio di François Truffaut Difesa e illustrazione di una politica Quando un uomo…di Alexandre Astruc Il cinema e il suo doppio (Il ladro di Alfred Hitchcock) di Jean-Luc Godard Lettera su Rossellini di Jacques Rivette I maestri dell’avventura (Il grande cielo di Howard Hawks) di Eric Rohmer Sull’invenzione (Il temerario di Nicholas Ray) di Jacques Rivette Bergmanorama di Jean-Luc Godard Mizoguchi visto da qui di Jacques Rivette Polemiche e revisioni Sulla politica degli autori di André Bazin Eric Rohmer risponde a Barthélémy Amengual Vent’anni dopo. Il cinema americano, i suoi autori e la nostra politica in discussione di Jean-André Fieschi, Jean-

Louis Comolli, Michel Mardore,André Téchiné, Gérard Guégan, Claude Ollier La scomparsa dell’autore? Il film senza padrone (L’Amour fou di Jacques Rivette) di Sylvie Pierre La favolosa storia di Pelle d’Asino di Jacques Demy di Serge Daney Il fuoricampo dell’autore (Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson) di Jean-Pierre Oudart Ripensamenti critici su una politica Nick Ray e la casa delle immagini di Serge Daney Che autori, che autori! A proposito di una politica di Olivier Assayas Politica del cinema, discrezione degli autori di Thierry Jousse Sulla «politica delle misure» di Serge Toubiana Di vedetta. Che cosa resta della politica degli autori? di Antoine de Baecque