Archeologia sott'acqua
 9788862270199

Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
INTRODUZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
CAPITOLO PRIMO. ARCHEOLOGIA SOTT’ACQUA: STORIA E ATTUALITÀ DELLA DISCIPLINA
CAPITOLO SECONDO. GLI SVILUPPI RECENTI DELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA NEI PAESI MEDITERRANEI DAL 1980 AD OGGI
CAPITOLO TERZO. LA FORMAZIONE E LE CARATTERISTICHE DEI SITI SOMMERSI
CAPITOLO QUARTO. PORTI, APPRODI E INFRASTRUTTURE COSTIERE
CAPITOLO QUINTO. NAVI, NAVIGAZIONE E COMMERCIO NEL MONDO ANTICO
CAPITOLO SESTO. METODI E STRUMENTI DI INDAGINE, DI GEOREFERENZIAZIONE E DI DOCUMENTAZIONE
CAPITOLO SETTIMO. IL CANTIERE ARCHEOLOGICO SUBACQUEO: SCAVO, PRONTO INTERVENTO CONSERVATIVO. METODI E TECNICHE DI LAVORO
BIBLIOGRAFIA

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« ARCHAEOLOGIA MARITIMA MEDITERRANEA » papers · 2.

ARCHEOLOGIA SOTT’ACQUA Teoria e pratica ROBERTO PETRIAGGI BARBARA DAVIDDE PETRIAGGI

PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE 2015

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and  institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2015 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Stampato in Italia · Printed in Italy isbn 978-88-6227-019-9 isbn 1970-1411 * Prima edizione: settembre 2007 Seconda edizione: gennaio 2015

parentibus, natae, fratribus, itineris nostri comitibus

SOMMARIO Roberto Petriaggi, Barbara Davidde Petriaggi, Introduzione alla seconda edizione Roberto Petriaggi, Barbara Davidde Petriaggi, Introduzione alla prima edizione

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capitolo primo ARCHEOLOGIA SOTT’ACQUA: STORIA E ATTUALITÀ DELLA DISCIPLINA

L’uomo, il mare e gli abissi (rp ) L’età delle prime esplorazioni (rp ) Da Antikythera a Mahdia (rp ) Mahdia (rp ) Il recupero delle navi di Nemi (bdp ) L’autorespiratore ad aria e la nascita della moderna ricerca subacquea (bdp ) Gli archeologi sott ’ acqua (bdp )

19 21 25 28 32 38 42

capitolo secondo GLI SVILUPPI RECENTI DELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA NEI PAESI MEDITERRANEI DAL 1980 AD OGGI

Italia (rp ) L’archeologia subacquea nel Mediterraneo Francia (rp ) Spagna (rp ) Grecia (bdp ) Croazia (bdp ) Israele (bdp ) Turchia (bdp ) Egitto (bdp ) Paesi del Magreb (bdp )

53 69 69 70 71 72 72 72 73 74

capitolo terzo LA FORMAZIONE E LE CARATTERISTICHE DEI SITI SOMMERSI

Gli ambienti sommersi (rp ) Ambiente ipogeo Lago

75 76 77

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sommario

Fiume Palude Torbiera Ambiente lagunare Ambiente marino I siti archeologici sommersi Manufatti mobili (rp ) Relitti (rp ) Strutture architettoniche sommerse (bdp ) Esempi di siti sommersi Insediamenti palafitticoli e infrastrutture portuali nei laghi (bdp ) Insediamenti, infrastrutture e relitti in ambito fluviale (bdp ) Mare: insediamenti costieri (bdp ) Mare: i relitti (bdp )

80 81 82 83 85 88 88 88 91 94 94 98 105 110

capitolo quarto PORTI, APPRODI E INFRASTRUTTURE COSTIERE

Generalità (bdp ) Porti egiziani e scali preistorici (bdp ) Porti fenici (bdp ) Porti fenicio-punici (bdp ) Porti greci (bdp ) Porti etruschi (bdp ) Porti romani (rp ) Peschiere (rp )

113 115 116 120 123 125 126 136

capitolo quinto NAVI, NAVIGAZIONE E COMMERCIO NEL MONDO ANTICO

Imbarcazioni primitive (rp ) Costruzione navale nel Mediterraneo dall’ età del Bronzo all’ età greco-romana (rp ) Diverse tipologie navali (rp ) Trasporti speciali (rp ) Capacità di carico dei mercantili antichi (rp ) Attrezzatura di bordo (bdp ) Commercio dei beni di lusso (bdp ) L’estrazione e il commercio del marmo in età romana (bdp )

142 148 157 162 165 167 171 173

sommario Navi da guerra di età greco-romana (rp ) Struttura delle navi da guerra e loro capacità offensiva (rp )

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capitolo sesto METODI E STRUMENTI DI INDAGINE, DI GEOREFERENZIAZIONE E DI DOCUMENTAZIONE

Metodi di ricognizione visiva (bdp ) Metodo della Chiocciola Metodo del Pendolo Metodo del traversino L’ala subacquea Scooter subacqueo La cosiddetta ‘sciabica’

187 188 189 190 191 191 191

Metodi di prospezione strumentale (bdp ) Ecoscandaglio o Sonar Side scan sonar Sonar Multibeam Laser batimetrico Sub bottom profiler Magnetometro Metaldetector Minisommergibile Minisommergibili senza equipaggio

192 192 192 194 195 195 195 196 196 197

Esempi pratici di prospezione (bdp ) L’esplorazione del porto di K·Ó‹ (Bir’ali) Prospezioni in acque profonde a largo di Sinope (Mar Nero)

198 198 202

Sistemi di georeferenziazione e rilievo (bdp ) In prossimità della costa Determinazione del punto dal mare Allineamenti Punto con due rilevamenti bussola Punto con tre rilevamenti bussola Cerchio capace In mare aperto: gps Metodi di rilievo subacqueo (rp ) Gli strumenti per il rilievo manuale Le tecniche Metodo del rilievo per coordinate polari Metodo di rilievo con trilaterazione Metodo di rilievo per assi cartesiani o per coordinate ortogonali Quote, dislivelli e inclinazioni Uso della livella a bolla d’aria

204 204 205 205 205 206 206 207 208 210 211 211 212 213 213 213

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sommario Uso dell’ecclimetro Uso della livella ad aria Come ricavare una sezione o un prospetto dsm (Direct Survey Method) sharps (Sonic High Accuracy Ranging and Positioning System)

La documentazione per immagini (bdp ) La documentazione fotografica Il fotomosaico La fotogrammetria La fotografia aerea La documentazione video La documentazione 3D laser scanner

214 214 215 215 215 216 216 217 217 220 221 221

capitolo settimo IL CANTIERE ARCHEOLOGICO SUBACQUEO: SCAVO, PRONTO INTERVENTO CONSERVATIVO. METODI E TECNICHE DI LAVORO

Segnalazioni (rp )

225

Ricerca scientifica (rp ) L’organizzazione del cantiere subacqueo e il metodo di scavo archeologico (rp ) La sicurezza sul cantiere Il recupero ed il pronto intervento conservativo sul cantiere (bdp ) La conservazione e la protezione in situ (bdp ) Sistemi di protezione in situ (bdp ) Reburial Method (Metodo di protezione mediante seppellimento) Metodo di protezione con l’impiego della sabbia Metodo di protezione con sabbia e telo gommato Metodo di protezione con geotextile e sabbia o altri sedimenti Metodo di protezione con teli di polietilene e sacchetti di sabbia Metodo di protezione con prati artificiali Metodo di protezione mediante reti del tipo anti-caduta di polipropilene (Debris netting/Shade cloth) Metodo di protezione con sabbia, sacchi di sabbia e lastre di cemento Metodo di protezione con sacchetti di sabbia, rete di ferro zincata elettrosaldata e sabbia Metodo di protezione con sacchi di sabbia e pannelli d’acciaio modulari Metodo di protezione con casse modulari di ferro verniciato prive di fondo Metodo di protezione con casse di acciaio prive di fondo Metodo di protezione con guscio di silicone

225 226 231 232 238 239 239 240 241 242 243 243 244 245 246 246 247 248 249

sommario

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La protezione e la conservazione in situ dei reperti di metallo e dei relitti di età moderna con lo scafo di metallo 251 251 Il progetto Restaurare sott ’ acqua (rp ) Bibliografia (rp ) (bdp )

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INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

G

li sviluppi recenti della ricerca e il progresso delle tecnologie connesse ci hanno indotto a corredare la seconda edizione del nostro manuale Archeologia sott’acqua con indispensabili ed essenziali aggiornamenti, nello spirito manualistico della pubblicazione e nei limiti dello spazio concesso dall’Editore. Questa è stata anche l’occasione per correggere gli errori non voluti e i refusi tipografici presenti nella prima edizione. Archeologia sott’acqua. Teoria e pratica, come già è stato enunciato nella introduzione alla prima edizione, è concepito come strumento informativo e di orientamento per gli studenti e per chi fosse interessato, a vario titolo, al lavoro degli archeologi sott’acqua, agli aspetti tecnici della ricerca, a quelli del lavoro subacqueo, della tutela e della conservazione, ma anche (perché no?), alla storia delle scoperte e delle esperienze che hanno portato questo campo di indagine archeologica agli attuali complessi sviluppi. Ovviamente l’intero pianeta è teatro di ricerche che hanno per oggetto il mondo sommerso. Noi, per la nostra esperienza professionale, per il target al quale ci rivolgiamo e in considerazione della preponderanza della letteratura anglosassone dedicata alle ricerche fuori del Mediterraneo, ci siamo invece soffermati all’interno di questo ambito geografico che ha visto nascere, tra l’altro, la disciplina di cui si tratta. Archeologia subacquea è stato, in passato, il titolo di importanti manuali, sia in lingua italiana che in lingua inglese: perché, allora, questo titolo: Archeologia sott’acqua e non Archeologia subacquea o, come altri ancora usano dire, Archeologia marittima? Oggi, nella letteratura specialistica archeologica, alcuni preferiscono indicare con il termine archeologia subacquea il complesso degli studi e delle ricerche volti al patrimonio sommerso pertinente alle acque interne e con archeologia marittima lo studio delle testimonianze relative al rapporto tra l’uomo e il mare nell’accezione più vasta, comprendendo cioè anche lo studio dei paesaggi costieri, dei porti, dei relitti etc. Noi come titolo per il nostro manuale abbiamo preferito scegliere una definizione inclusiva, che comprendesse, in senso olistico, le tracce che nei millenni l’uomo ha disperso nelle sterminate distese del territorio sommerso, costituite da manufatti mobili e immobili di diverse tipologie che, sia per caratteristiche materiche sia per distribuzione topografica e cronologica, si ritrovano quasi indifferentemente nel mare, nelle lagune e nei bacini interni. Inoltre abbiamo ritenuto che al lettore fossero ugualmente utili nozioni sul lavoro subacqueo, sulle tecniche, sulle tecnologie e i metodi. Di tutto questo abbiamo trattato, rimandando ad altre sedi, indicate nelle note e in bibliografia, l’approfondimento dei temi relativi ai singoli settori specialistici (quali l’archeologia navale, l’archeologia marittima, l’archeologia fluviale, l’archeologia lagunare, ecc…). Roberto Petriaggi · Barbara Davidde Petriaggi

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INTRODUZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

L

’ idea di scrivere un manuale di archeologia subacquea nasce dalla nostra espe-

rienza didattica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e dalla constatazione che, a ventisei anni dalla pubblicazione dell’ormai storico manuale di Piero Alfredo Gianfrotta e Patrice Pomey, si sentiva l’esigenza di un manuale in lingua italiana in grado di fornire, agli studenti universitari e al pubblico colto, le necessarie informazioni e gli opportuni aggiornamenti sulla materia.1 Non sono mancate, in questi ultimi anni, anche in Italia, interessanti pubblicazioni utili a fornire efficaci strumenti didattici per gli studenti universitari; si tratta, per lo più, di studi dedicati ad aspetti specifici della materia, nei quali essi possono trovare informazioni diverse e complementari per la loro formazione. Gli argomenti trattati spaziano dal commercio marittimo, alle rotte, all’archeologia navale, alle tecniche del lavoro subacqueo, ai materiali (contenitori ceramici, suppellettili di bordo e strumenti di navigazione). Tra i lavori editi citiamo, a titolo di esempio (e non ce ne voglia chi, per nostra distrazione, non si trovasse in questo elenco che non pretende di essere esaustivo) gli utilissimi studi di Patrizio Pensabene, ed altri, sull’organizzazione del commercio del marmo e delle cave nell’antichità e sui vari aspetti legati all’utilizzo di questa classe di materiali;2 il volume di Antonio Rosso che sviluppa gli aspetti collegati all’ambiente subacqueo, al lavoro e alle tecniche di documentazione.3 Ricordiamo ancora Piero Dell’Amico, soprattutto per gli studi sull’architettura navale4 e per una recente pubblicazione a carattere didattico nella quale, dopo una rapida retrospettiva sugli sviluppi della disciplina a partire dalla metà del secolo appena trascorso, espone una utile sintesi degli studi ceramici, con particolare riferimento alle anfore, e torna sul lavoro subacqueo e sugli strumenti relativi.5 Per lo studio della ceramica, ed in particolare delle anfore, gli articoli di Michel Gras, Jean-Paul Morel, Clementina Panella e Giuliano Volpe, che riassumono gli interventi presentati nel corso delle lezioni della Certosa di Pontignano. Essi sono raccolti nel ricco volume curato da Giuliano Volpe e, grazie anche alla vasta bibliografia di riferimento, approfondiscono lo studio dei traffici commerciali nel mondo antico attraverso l’analisi dei relitti.6 Questo testo e quello di Enrico Felici,7 sono i più vicini a soddisfare l’esigenza di

1 Cfr. Gianfrotta Pomey (1981). Tra le recenti pubblicazioni in lingua straniera citiamo: per l’archeologia subacquea in generale Ruppé, Barstad (Eds.) (2002); Green (2004); per l’archeologia navale McGrail (2001); Pomey, Rieth (2005). 2 Cfr. Pensabene (1994). Cfr. anche Borghini (a cura di) (2001). 3 Rosso (1997). 4 Dell’Amico (2002). Molto utili le schede dei relitti. 5 Dell’Amico (2005). 6 Cfr. Volpe (a cura di) (1998), in particolare Gras (1998), pp. 477-484; Morel (1998), pp. 485529; Panella (1998), pp. 531-560; Volpe (1998), pp. 561-626. 7 Cfr. Felici (2002). Questo volume, per scelta dell’Autore, privilegia gli aspetti tecnici, quelli relativi agli strumenti e ai metodi di lavoro subacqueo, gli interventi conservativi. Alla sua completezza avrebbe contribuito la trattazione della storia, anche recente, della disciplina, la descrizione delle tipologie navali con cenni sull’evoluzione delle tecniche di costruzione e una maggiore attenzione, in generale, agli aspetti storico-archeologici, che vengono invece opportunamente affrontati nella trattazione delle costruzioni portuali e delle infrastrutture in opera cementizia.

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introduzione alla prima edizione

ampiezza di trattazione e, nello stesso tempo, essenzialità e rigore scientifico che, secondo noi, si dovrebbero pretendere da un manuale. E ancora, ricordiamo Luciana Giacobini, Barbara B. Marchesini e Letizia Rustico per il loro contributo allo studio degli impianti di allevamento del pesce individuati lungo le coste dell’Etruria Meridionale.1 Meritano ancora menzione Carlo Beltrame, per il suo meticoloso e documentato studio sull’attrezzatura e l’armamento di bordo, con utilissimi riferimenti ai relitti;2 Pietro Janni3 e Stefano Medas,4 per gli aspetti legati alla navigazione nel mondo antico ed il rapporto degli antichi con il mare e, infine, Francesco Paolo Arata per il lavoro con il quale delinea e riassume le attuali conoscenze riguardanti il commercio marittimo delle opere d’arte.5 Da parte nostra, dunque, abbiamo ritenuto che fosse di qualche utilità la realizzazione di un volume che raccogliesse le informazioni derivanti da questo sapere sparso e dalla nostra esperienza personale, per metterle a disposizione degli studenti e di quanti siano interessati a questi argomenti, con la necessaria sintesi e la semplicità di linguaggio che si addicono ad una pubblicazione manualistica, senza rinunciare, tuttavia, alla rigorosità scientifica dell’informazione e alla pretesa di offrire un valido strumento di approfondimento a chi ne sentisse la necessità, come si evince dalle numerose note che corredano ogni singolo capitolo e dall’apparato bibliografico. Abbiamo, infine, ritenuto importante dare un adeguato spazio ai temi della conservazione e del restauro, argomenti che sono parte precipua della nostra attività di ricerca e di lavoro e che, a nostro avviso, devono ormai fare parte della formazione professionale di ogni archeologo, anche subacqueo. Se è vero, infatti, che le operazioni di restauro sono di competenza dei restauratori, figure professionali specializzate in questo delicato lavoro, è altrettanto necessario che l’archeologo, al quale è demandata per competenza la direzione dello scavo archeologico e la gestione dei siti, dei complessi monumentali e dei musei, sia a conoscenza, seppure nelle linee generali, della problematica del restauro e della conservazione, anche in situ, dei manufatti archeologici sommersi. La sfida del futuro è senz’altro costituita dalla necessità di conservare nel miglior modo possibile il patrimonio recuperato dalle acque, come insegna, tra le altre, la problematica legata al restauro dei relitti e del legno bagnato in generale; ma si evidenzia anche, e si impone con sempre maggiore urgenza, la necessità di essere in grado di trasferire ai Beni sommersi le metodologie e le tecniche della conservazione e del restauro che normalmente si applicano ai monumenti all’asciutto. Quanto sopra, non solo per meglio corrispondere alle raccomandazioni dell’Unesco6 sulla conservazione in situ, ma anche e soprattutto, per contribuire fattivamente alla realizzazione dei protocolli necessari per la corretta gestione del patrimonio costituito dai parchi archeologici sommersi e per una fruizione che sia compatibile con le esigenze della conservazione. Roberto Petriaggi · Barbara Davidde 1 Giacobini, Marchesini, Rustico (1994). 2 Beltrame (2002). 3 Janni (1996). 4 Medas (2004). 5 Arata (2006). 6 unesco, Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage, Parigi 2-11-2001.

capitolo primo ARCHEOLOGIA SOTT’ACQUA: STORIA E ATTUALITÀ DELLA DISCIPLINA 1 L’uomo, il mare e gli abissi

S

i può ragionevolmente immaginare che uomini capaci di nuotare ed immergersi abilmente in apnea siano esistiti fin dai tempi più remoti, ancora prima di quanto ci è stato tramandato dalla letteratura antica. È noto, infatti, dai ritrovamenti archeologici, che le popolazioni costiere di alcune aree geografiche ricavavano grandi guadagni dall’attività della pesca e, soprattutto, dalla cattura dei murici (murex trunculus, murex brandaris, murex erinaceus, purpura haemostoma), molluschi impiegati per la produzione della porpora. Si distinguevano in questa attività gli abitanti della costa siro-palestinese2 e quelli delle isole greche.3 Questo tipo di pesca, insieme a quella del corallo, era comunque diffusa in tutto il Mediterraneo come hanno documentato, tra l’altro, recenti ritrovamenti archeologici.4 Oltre alle attività legate alla pesca e al commercio, sono ricordate anche imprese di guerra sul mare con la partecipazione di incursori ante litteram, capaci di imprese sensazionali. Ricordiamo la vicenda di Scilla di Scione e di sua figlia Hydna che, dopo aver intrattenuto rapporti di collaborazione con i Persiani di Serse, una volta passati dalla parte dei Greci, si distinsero nell’audace agguato alla flotta persiana alla fonda in una baia protetta. Essi recisero le gomene delle ancore delle navi nemiche e, lasciando che i bastimenti scarrocciassero disordinatamente in balia della incombente tempesta, determinarono la perdita di diverse unità, contribuendo in modo decisivo alla vittoria dei Greci.5 Tucidide racconta che anche durante la guerra del Peloponneso furono impiegati subacquei per far pervenire i rifornimenti agli Spartani assediati a Sfacteria

1 In questo Capitolo tratteremo, soprattutto, della storia recente di questa disciplina, con particolare attenzione agli avvenimenti che hanno caratterizzato il secolo xx. La natura manualistica di questo lavoro ci obbliga, tuttavia, a ricordare brevemente alcuni argomenti relativi alla storia più antica del rapporto dell’Uomo con il Mare e le sue profondità. Questi aspetti sono già stati affrontati in altri lavori di analogo soggetto e soprattutto da Gianfrotta, Pomey (1981): 18-27. 2 Vedi per es. Moscati (a cura di) (1988): 81-82. 3 Diogene Laerzio, Vita di Eraclíto, ix, 12 e Vita di Socrate, ii, 22. 4 P. Trousset, La pesca, le sue tecniche e i prodotti del mare nell’Africa del Nord antica, e J. Zaouali, Il contributo degli studi malacologici per la conoscenza storica dell’attività di pesca nella regione di Cartagine:comunicazioni presentate al Seminario dell’École Française “La pesca nell’antichità” marzo 1997; Rieth (a cura di) (1998); Faure (1998): 268-272; Pomey (1995), pp. 459-484; P. Pomey, Un témoignage récent sur la pêche au corail à Marseille à l’epoque archaïque, comunicazione presentata al Seminario dell’École Française Le risorse del Mare - Le materie preziose, il 19-03-1996; Gianfrotta (1999), pp. 9-36; Purpura (2005), pp. 93-106. 5 Erodoto, Storie, viii,8; Pausania, Periegesi della Grecia, x, 19,1; Plinio, Naturalis Historia, xxx,139.

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capitolo primo

(Tucidide, Storia, iv, 26), mentre nel corso della guerra tra Siracusa ed Atene i guastatori della flotta ateniese ebbero il loro da fare per segare i pali conficcati sul fondo marino dai subacquei siracusani a protezione delle infrastrutture portuali della città siciliana (Tucidide, Storia, vii, 25). Nel mondo romano esistevano professionisti raggruppati in una corporazione denominata Corpus Urinatorum, associata al Corpus Piscatorum. Gli urinatores erano nuotatori subacquei specializzati per i recuperi di merci finite sott’acqua incidentalmenFig. 1. Epigrafe degli Urinatores di Ostia. te o a causa di un naufragio. I loro Da Pellegrino (1982). compiti prevedevano anche la manutenzione di pozzi, cisterne, fognature, lavori portuali, manutenzione degli scafi, ecc…. Oltre a quanto testimoniato dai documenti epigrafici di età imperiale di Roma e di Ostia1 (Fig. 1), indizi certi della loro attività si riscontrano in alcuni siti subacquei. Per tutti valga il caso del relitto della Madrague de Giens il cui carico venne parzialmente recuperato poco tempo dopo il naufragio, come ha permesso di accertare lo scavo archeologico.2 Il tentativo di recuperare il carico dopo un naufragio è un’azione logica e scontata, laddove se ne presenti l’opportunità e la possibilità. Che non sia un fenomeno tipico solo dell’epoca romana è testimoniato da episodi e testimonianze di periodi storici diversi. Tra i tanti ricordiamo i documenti della Geniza del Cairo, una raccolta di lettere che si scambiavano i commercianti ebrei che vivevano in paesi musulmani, molto utile per la ricostruzione del commercio del mondo islamico tra il x e il xii secolo. In uno di questi documenti si parla del recupero di parte del carico di ferro di una imbarcazione affondata nei pressi di Bab el-Mandeb (Mar Rosso).3 Gli scrittori antichi tramandano anche aneddoti legati alla vita quotidiana ed alcuni episodi curiosi, come quello dello scherzo fatto da Cleopatra ad Antonio che si cimentava nella pesca (Plutarco, Vite parallele, Antonio), o fatti ispirati da favolose leggende, come quella dell’immersione di Alessandro Magno all’interno di una sfera di cristallo. Un rilievo, proveniente dal Tempio di Ercole (80-65 a.C.) ad Ostia Antica, ci presenta quello che può essere definito il primo recupero di archeologia subacquea che è stato documentato con un utilizzo delle immagini paragonabile a quello 1 Pellegrino (1982), pp. 317-325. 2 Tchernia et alii (1978); Pomey (1982), pp. 133-154 e, in particolare, sul recupero del carico da parte degli urinatores, cfr. Tchernia (1989), pp. 489-497. 3 Tangheroni (1982): 61-62; Throckmorton (a cura di) (1988): 88-89, il quale, però, non specifica la datazione del naufragio.

archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina

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Fig. 2. Rilievo del Tempio di Ercole. (Ostia Antica, Museo).

della moderna cronaca giornalistica (Fig. 2). Viene, infatti, rappresentato il momento del recupero di una statua bronzea dai tratti arcaizzanti, raffigurante l’eroe greco. Essa era rimasta impigliata nella sciabica, e i pescatori sono visibilmente impegnati nello sforzo di trarla a riva. Si tratta, forse, di un evento realmente accaduto sulla spiaggia di Ostia, come si può arguire dalla vivacità della rappresentazione che, interpretato in chiave oracolare, è stato riproposto al momento della dedica del rilievo da parte dell’aruspice Gaius Fulvius Salvis. Ad epoche più recenti, invece, dopo la parentesi medioevale, si debbono notizie di ritrovamenti che, usciti dall’ambito della cronaca curiosa o dell’episodio leggendario, manifestano la prospettiva di un diverso approccio con il mondo sommerso. L’età delle prime esplorazioni Gli uomini del Rinascimento mostrano una viva curiosità nei confronti di quanto custodito dagli abissi e, per violarne i segreti, elaborano bizzarri progetti e costruiscono macchine ed attrezzi di nuova concezione. Si tratta, per lo più, delle prime campane d’aria che permettono all’uomo di rimanere sott’acqua per un tempo molto limitato e senza grande libertà di movimento. Fra i tanti progetti di Leonardo da Vinci, ad esempio, esistono anche campane d’aria denominate àliti. Famosa è la storia dei tentativi secolari prodigati nel recupero delle navi di Nemi (Fig. 3) e degli strumenti escogitati a questo scopo, fra i quali non poteva mancare l’utilizzo di una delle prime campane batiscopiche1 (Fig. 4). 1 Per notizie più dettagliate cfr. Ucelli (1950): 6-24. In questo lavoro viene sintetizzata la lunga storia dei tentativi di recupero delle due navi. Già Leon Battista Alberti – 1446 – con apneisti genovesi tentò improvvidi interventi con uncini di ferro; Francesco De Marchi, poi, nel 1535, fu autore di alcune audaci passeggiate sui relitti, dentro una ingegnosa campana di legno dotata di oblò per la visione subacquea.

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capitolo primo

Fig. 3. Carta del Lago di Nemi. Da Ucelli (1950).

Nel xvii secolo vengono compiuti notevoli progressi tecnici nella costruzione di questi apparecchi costruiti per agevolare i recuperi e le esplorazioni dei fondali. Il modello dell’astronomo Edmund Halley appare particolarmente avanzato: esso presenta una panca anulare per più persone, numerosi oblò ed un sistema di ricambio dell’aria (Fig. 5). Nel 1664, con un mezzo simile, furono recuperati a 30 metri di profondità, 50 cannoni di bronzo del Vasa, la nave ammiraglia della flotta svedese affondata nel 1628 al momento del varo. Bisognerà attendere, però, l’inizio del xix secolo perché l’uomo possa muoversi in semi-autonomia sul fondo marino, utilizzando le prime tute da palombaro. Il prototipo era stato inventato dal tedesco Kleingert nel 1797. Questi scese ad una profondità di 12 metri nel fiume Oder, utilizzando la nuova tuta. Per respirare, non potendo sfruttare l’aria compressa da una pompa, come sarebbe accaduto nei modelli successivi, egli si servì dell’aria proveniente da una campana immersa alla sua stessa profondità (quindi alla stessa pressione alla quale egli era sottoposto), collegata al casco che egli indossava (Fig. 6). Grazie ai nuovi progressi tecnologici, nel

archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina 23 1827 con rinnovato impegno proseguirono i tentativi di recupero delle navi romane di Nemi. Il Cavaliere Annesio Fusconi, per esempio, per migliorare il lavoro nelle acque del lago, montò sulla sua zattera una pompa ad aria che alimentava una campana del tipo di Halley leggermente modificata. Fortunatamente per le navi, in questa occasione furono portati a termine pochi disordinati recuperi, grazie ai contrattempi, anche di natura meteorologica, che rallentarono i lavori. Disastrosi, invece, furono gli interventi attuati nel 1895 da Eliseo Borghi che, con l’ausilio di un palombaro, asportò alla rinfusa numerosi reperti dalle navi (Fig. 7). Tra questi, le protomi bronzee (Fig. 8), ora al Museo Nazionale Romano, e una grande Fig. 4. La campana batiscopica utilizzata quantità di legname lasciato, poi, a da Francesco De Marchi nel 1535 per esplorare marcire all’aperto. i fondali del Lago di Nemi.

Fig. 5. Campana di Edmund Halley. Da Gianfrotta, Pomey (1981).

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capitolo primo

Fig. 6 L’equipaggiamento da palombaro inventato dal tedesco Kleingert nel 1797.

Fig. 7. Palombari al lavoro in una stampa del xix secolo. Da D’Agostino (1992).

Le ricerche archeologiche subacquee condotte dai palombari sono documentate anche in Grecia, dove, nel 1884, il noto archeologo greco Christos Tsountas organizzò prospezioni subacquee nello stretto di Salamina, alla ricerca di testimonianze archeologiche relative alla battaglia navale del 480 a.C. È ovvio che queste prime ricerche e questi primi tentativi sono animati da un tipo di curiosità e condotti con metodi che poco hanno a che vedere con i moderni criteri della ricerca archeologica subacquea. L’Archeologia, del resto, conquista la dignità di disciplina scientifica solo nel corso del Novecento, dopo un processo culturale durato alcuni secoli, e che in questa sede non possiamo riassumere per motivi di spazio. Come è noto, questa scienza storica si pone lo scopo di ricostruire la storia della presenza dell’uomo sulla terra a partire dall’analisi delle trasformazioni ambientali e materiali che le sue attività hanno determinato nel tempo e dallo studio dei manufatti. L’archeologo, dunque, non si limita a “liberare”, a “mettere in luce” i monumenti e le opere d’arte più significative, finalità che fino agli inizi del secolo xx era stata

archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina 25 perseguita, in virtù di una fuorviante interpretazione del concetto di Storia dell’Arte Antica, con mera finalità di recupero, ma dovrà, soprattutto, interpretare la stratificazione archeologica, interrogare il terreno, decifrarne e leggerne le “storie” nascoste nelle stratificazioni generate dal susseguirsi dei processi di erosione (o distruzione) e accumulo (o costruzione).1 Da questi concetti di base discende un accentuato interesse per le testimonianze della cultura materiale, un tempo trascurate dai cercatori di tesori (la ceramica, gli strumenti di lavoro, ecc…), che, a prescindere dalle opere d’arte e dai monumenti più insigni, raccontano più da vicino il vivere quotidiano. Questi elementi sono fondamentali per ricostruire la storia dei Fig. 8. Testa di lupo di bronzo proveniente consumi e dell’economia, dell’orgadalla prima nave di Nemi. Da Ucelli (1950). nizzazione delle fabbriche e delle officine, della natura del commercio e della distribuzione dei prodotti, con le relative vie di penetrazione terrestri e marittime. All’inizio del xx secolo, dunque, tali principi non sono ancora completamente acquisiti e un atteggiamento poco attento per la documentazione scientifica si manifesta, con maggiore evidenza, proprio nelle ricerche archeologiche sottomarine. Il ritardo è comprensibile se si considerano le difficoltà tecniche strettamente legate all’indagine subacquea, la cui organizzazione era interamente delegata ai professionisti del settore, palombari e pescatori. Come vedremo, tali limiti si manifestarono, in vario modo, in occasione dei primi recuperi. Da Antikythera a Mahdia Come è ampiamente noto a chi si occupa della materia, nel 1900, a largo dell’isola di Antikythera (Grecia), a 55/60 metri di profondità, alcuni pescatori di spugne individuarono casualmente i resti di una nave del i sec. a.C. (Fig. 9). Il carico era costituito da una grande quantità di opere d’arte di bronzo e di marmo pario oltre che da dodici anfore originarie delle isole greche di Rodi e di Kos, undici piccoli contenitori di vetro (ciotole e tazze), ceramica pergamena oltre a varie tipologie di ceramica comune utilizzata dall’equipaggio. Vista l’importanza del ritrovamento, varie Istituzioni greche furono informate e coinvolte nell’organizzazione del recupero, il Ministero dell’Istruzione, l’Uni1 Harris (1979); Carandini (1981).

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Fig. 9. L’isola di Antikythera, indicata nella carta con il nome di Cerigotto. (Da Atlante e Repertorio Geografico, Tav. 53, Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma, 1973).

versità, il Ministero delle Antichità e quello della Marina Militare; quest’ultimo mise a disposizione un’imbarcazione attrezzata con argani per sollevare i reperti. Al Ministero delle Antichità fu affidato il compito di controllare le operazioni di recupero che vennero compiute dai pescatori. Le fasi dell’intervento furono particolarmente difficili a causa delle condizioni del mare e dell’elevata profondità che influì in modo negativo sull’efficienza e la lucidità dei palombari. Infatti, essi confusero per grandi formazioni rocciose le concrezioni che avvolgevano e nascondevano al loro interno i frammenti di varie statue di bronzo e quindi, invece di recuperarle, le allontanarono dal sito. I materiali comunque recuperati sono ora al Museo Nazionale di Atene. Tra le statue di bronzo risaltano per importanza un efebo, originale della metà del iv sec. a.C. (noto d’ora in poi come l’Efebo di Antikythera (Figg. 10-11) ed altre databili fra il iv e il iii a.C.1 Proviene dal relitto di Antikythera anche un misterioso stru1 Una statuetta femminile con peplo dorico, due giovani nudi di cui uno con mantello, una testa di filosofo, una statuetta di efebo, vari frammenti di arti di statue fra i quali il braccio di un pugilatore; tra gli oggetti di bronzo si segnalano, inoltre, due spade, uno strumento musicale e vari oggetti di

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Fig. 11. L’Efebo di Antikythera, particolare. (Atene, Museo Nazionale Archeologico).

mento di bronzo ad ingranaggi, probabilmente utilizzato per la navigazione, che ha fatto discutere per anni gli studiosi del settore circa la sua presenza a bordo ed il suo effettivo impiego.1 Il sito è stato esplorato anche negli anni 50 da Jaques-Yves Cousteau e da Frédéric Dumas, i quali individuarono, tra l’altro, i resti del relitto, pertinente Fig. 10. L’Efebo di Antikythera. ad una nave costruita con la tecnica di (Atene, Museo Nazionale Archeologico). assemblaggio a mortase e tenoni. La data del naufragio e la rotta percorsa della nave di Antikythera sono state per anni controverse, soprattutto perché i primi recuperi non sono stati effettuati da archeologi professionisti e quindi non si è stati in grado di interpretare alcune informazioni importanti. Il riesame di tutti i dati, che si è svolto dal dopo guerra fino a tempi recenti, ha permesso ormai di indicare tra l’80 e il 70 a.C. il momento del naufragio, di situare in Asia Minore il porto di partenza e di includere l’isola di Paro fra i porti intermedi visitati dalla nave.2

arredo; le 36 statue di marmo pario, tutte in cattivo stato di conservazione e databili al i sec. a.C., sono copie o rielaborazioni di originali famosi (ricordiamo, fra le altre, una copia dell’Afrodite Cnidia di Prassitele e un Ercole del tipo Farnese – Fig. 12 –) e rappresentano figure maschili e femminili in vari atteggiamenti e quattro cavalli, forse facenti parte di una quadriga (Fig. 13), cfr. Bol (1972). 1 Wright (2005), pp. 241-244. Cfr. anche p. 162 nota 3. 2 Weinberg et alii (1965).

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Fig. 13. Cavallo (marmo pario) dal relitto di Antikythera. (Atene, Museo Nazionale Archeologico).

Mahdia Nel 1907 alcuni pescatori di spugne tunisini scoprirono a largo di Mahdia (Fig. 14), a 39 m di profondità, il relitto Fig. 12. Ercole del tipo Farnese di una nave antica, lunga circa 40,6 m e (marmo pario) dal relitto di Antikythera. (Atene, Museo Nazionale Archeologico). la larga circa 13,80, naufragata con il suo carico costituito per lo più da colonne, capitelli e statue di marmo e di bronzo. La Direzione delle Antichità della Tunisia diede inizio ad una serie di campagne di recupero che terminarono nel 1913; tutti i reperti furono depositati al Museo del Bardo a Tunisi. Quello che non fu recuperato, per esempio una settantina di colonne di marmo pentelico, disposte in sette file, venne, comunque, documentato. Altre campagne di scavo, condotte nel 1948 da Philippe Taillez e Jaques-Yves Cousteau e nel 1954-1955 da Guy de Frondeville, portarono al recupero di alcune colonne, all’identificazione dello scafo, alla realizzazione della sua pianta e di un filmato a colori. Tutti i reperti recuperati furono restaurati ed esposti nel Museo del Bardo.1 Nel 1984, a seguito della chiusura al pubblico del Museo del Bardo, le opere d’arte vennero affidate al Rheinisches Landesmuseum di Bonn per essere sottoposte ad un nuovo restauro. L’occasione si rivelò di fondamentale importanza per riprendere l’analisi e lo studio sistematico dei materiali di Mahdia, quelli editi e quelli inediti. 1 Fuchs (1963).

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Fig. 14. Tunisia. Mahdia. (Da Atlante e Repertorio Geografico, Tav. 78, Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma, 1973).

Nel frattempo, nel 1992 e nel 1993 si svolsero nuove indagini subacquee sul luogo del naufragio. Terminati i restauri, i reperti furono esposti in una mostra e, sempre nel 1994, furono pubblicati i risultati dei restauri e delle analisi scientifiche in due volumi a cura di Gisela Hellenhkemper Salies.1 Il primo dato ormai certo è che la nave di Mahdia trasportava opere d’arte destinate al mercato antiquario di Roma e che non faceva parte della flotta di Silla di ritorno verso la capitale dopo il saccheggio di Atene dell’86 a.C., come molti studiosi avevano ipotizzato.2 La data del naufragio viene indicata fra il 90 e il 60 a.C. sulla base dello studio del vasellame di bronzo e dei reperti ceramici. Le poche anfore rinvenute, 5 complete e 4 in frammenti, e datate fra il’80 e il 70 a.C., sono importanti per conoscere alcuni dei porti in cui la nave attraccò nel corso dei suoi viaggi: l’isola di Kos, l’Italia, la Spagna Meridionale e la Tunisia. Interessanti per lo studio della vita di bordo, oltre ai pesi da rete di piombo, agli ami per la pesca e ad alcune macine, sono alcuni lingotti di piombo e sette tegulae 1 Hellenhkemper Salies et alii (Ed.) (1994). 2 Già Fuchs (1963) e Gianfrotta, Pomey (1981): 201 erano arrivati alle medesime conclusioni.

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mammate della cucina;1 la merce trasportata, si è detto, era costituita da opere d’arte, molte delle quali uscite dalla bottega dell’artista in tempi non molto precedenti al naufragio (i manufatti di marmo erano privi dei perni metallici per l’assemblaggio), altre, invece, erano veri e propri oggetti di antiquariato. Sono del i sec. a.C. le colonne di marmo pentelico ed i capitelli a Chimera che sembrano essere i più antichi fra quelli dello stesso tipo noti in varie località della Grecia e dell’Italia. Facevano parte della mercanzia di marmo anche 20 basi attiche e numerosi capitelli ionici ispirati ai Propilei di Atene. Alcuni capitelli dorici ed un altare sembrano essere stati prelevati da abitazioni private e da santuari. Cinque iscrizioni attiche del iv sec. a.C. di marmo dell’Imetto e del PenFig. 15. Erma in stile neoattico di bronzo telico (due provenienti dal santuario di divinità barbata, opera firmata da Boeto di Calcedonia (ii sec. a.C.) dal relitto di Mahdia. di Paralos) erano state interpretate co(Tunisi, Museo del Bardo). me zavorra, visto il loro scarso valore sul mercato antiquario, ma, in seguito, calcolato che il loro peso è irrilevante paragonato a quello dell’intero carico, si è ipotizzato che potessero essere state utilizzate, piuttosto, come equilibratori nello stivaggio del carico. Non è detto, comunque, che esse stesse non potessero essere apprezzate e quindi vendute a qualche collezionista. Erano senza dubbio destinati al mercato della Capitale o al mercato italico, più genericamente, i crateri di marmo con scene dionisiache e i cinque candelieri di marmo prodotti dalla stessa officina dei capitelli a Chimera. Alcuni busti di marmo pario, un tempo considerati come statue singole (Afrodite ora identificata come Arianna, Eracle, ora Satiro con la pelle di pantera ecc…), sono stati interpretati, dopo i recenti restauri, come frammenti di tondi marmorei, imagines clipeatae, databili intorno al 120 a.C., destinati a decorare le pareti di qualche lussuosa villa. Fra la statuaria di bronzo, ricordiamo una statuetta di Eros che suona la cetra, quella di un satiro in corsa, quella di Hermes e quelle di tre piccoli danzatori, di fattura alessandrina (seconda metà del ii sec. a.C.). È stata rinvenuta, inoltre, la statua di un Eros che probabilmente teneva in mano un arco. Il fanciullo, fino ad ora era stato identificato come un genio alato 1 Beltrame (2002): scheda p. 120.

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Fig. 16. Efebo di Maratona. (Atene, Museo Nazionale Archeologico).

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Fig. 17. Poseidone da Capo Artemisio. (Atene, Museo Nazionale Archeologico).

(Agone?) ed era messo in relazione con l’erma in stile neoattico di bronzo di divinità barbata, opera firmata da Boeto di Calcedonia (ii sec. a.C.) (Fig. 15); i restauri hanno appurato che le due statue non fanno parte dello stesso gruppo. Numerosissime, poi, le appliques ed i piccoli oggetti di bronzo destinati a decorare klinai ed altri mobili di lusso.1 Questo breve excursus sui carichi delle navi di Antikythera e Mahdia getta una luce sul traffico di manufatti artistici tra l’Italia e la Grecia nei secoli ii e i a.C. e permette di avere un’idea del grande interesse dell’aristocrazia romana nei confronti delle opere d’arte provenienti dal Mediterraneo orientale. Esso offre, inoltre, un quadro esemplificativo di quella che doveva essere la tipologia del carico delle imbarcazioni tra il ii sec. a.C. e l’inizio dell’età imperiale romana; carichi eterogenei che, come testimoniano anche i ritrovamenti verificatisi in seguito, sono sempre più frequentemente caratterizzati dalla presenza di pregevoli manufatti artistici accompagnati alle derrate alimentari e ai prodotti di consumo. I primi anni del novecento, dunque, portano alla scoperta di relitti con carichi importanti che offrono agli studiosi lo spunto per interpretazioni complesse e controverse, come abbiamo visto. Non mancano, tuttavia, negli anni che seguono, scoperte casuali di singole opere d’arte fuori contesto avvenute nel corso di normali attività di pesca. Esse costituiscono altrettante tappe nella storia dei recuperi sottomarini e nella Storia dell’Arte greca. Ricordiamo, per esempio, la statua di bronzo dell’Efebo, recuperata a Maratona nel 1925 (Fig. 16) o quelle del Poseidone (Fig. 17) e del Fanciullo fantino venute alla luce a largo di Capo Artemisio nel 1928 (Fig. 18). 1 Hellenkemper Salies et alii (Ed.) (1994).

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Fig. 18. Il Fanciullo fantino da Capo Artemisio. (Atene, Museo Nazionale Archeologico).

Il recupero delle navi di Nemi In Italia, in quello stesso anno, inizia la fase finale del recupero delle navi romane del lago di Nemi. Grazie al poderoso dispiegamento di mezzi voluto dal Governo Italiano, il progetto, conclusosi nel 1932, comportò il parziale prosciugamento del lago (Fig. 19), per favorire l’emersione degli scafi ed il conseguente alaggio e trasporto degli stessi, prima all’interno di un hangar poi nel museo appositamente realizzato fra il 1934 e il 1940 dall’architetto Vittorio Ballio Morpurgo.1 Il Museo delle Navi di Nemi rappresenta il primo esempio, in Italia, di edificio architettonico progettato e costruito ex novo in funzione dei reperti archeologici da ospitare (Fig. 20). La struttura è articolata in due vani gemelli rettangolari, destinati ad accogliere le due navi, separati da una galleria centrale su cui si affaccia l’ingresso principale e ricorda, come hanno osservato alcuni studiosi, il progetto architettonico degli arsenali pontifici del Trastevere o dell’arsenale di Civitavecchia disegnato dal Bernini.2 L’edificio ospitava, oltre ai resti degli scafi delle due navi romane, anche altre imbarcazioni minori quali un piccolo battello affondato in antico nel tentativo di recuperare reperti dalle navi e due piroghe di età protostorica.3 1 Ucelli (1950). 2 Ghini, Gizzi (1996): 29-52. 3 Il resto della collezione era formato dagli elementi architettonici e dalle decorazioni bronzee, dalle attrezzature di bordo (bozzelli, anelli di piombo ecc…), dalle ancore (una di legno con ceppo

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Fig. 19. Lago di Nemi. Le idrovore utilizzate per svuotare il lago. Da Ucelli (1950).

Fig. 20. Museo delle Navi di Nemi, opera dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo. Da Ucelli (1950).

Grazie al ritrovamento di bolli laterizi e di condutture plumbee che riportano il nome dell’imperatore Caligola (37-41 d.C.) siamo in grado di attribuire a questo imperatore la costruzione delle navi. fisso di piombo, un’altra di ferro, rivestita di legno, con ceppo mobile, l’antenata dell’ancora ammiragliato introdotta per la prima volta dalla Marina Inglese nel 1852) e da singoli reperti significativi per lo studio della tecnologia degli antichi (resti di una noria, di una pompa a stantuffo, frammenti di una piattaforma girevole, ecc.).

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Fig. 21. Lago di Nemi. La prima nave in corso di scavo. Da Ucelli (1950).

Fig. 22. Lago di Nemi. La seconda nave nel Museo. Da Ucelli (1950).

Esse erano due scafi di notevoli dimensioni (la prima nave misurava m 71 × 20 × 2; la seconda m 73 × 24 × 2,50), che riportano alla mente le grandi navi dei sovrani ellenistici, ai quali l’imperatore romano si ispirava, attrezzate con ogni tipo di agiatezza, secondo il gusto e lo stile del tempo (Figg. 21-22). A poppa della prima nave dovevano essere ubicate le cabine e gli ambienti chiusi, come dimostrano i ritrovamenti di porte, finestre, borchie, tegole del soffitto rivestite di lamine di piombo ecc., mentre a prua dovevano essere edicole e padiglioni pavimentati a mosaico e decorazioni a intarsi marmorei; sulla nave erano

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Fig. 23. Alcuni reperti provenienti dalle navi romane del lago di Nemi. Da Ucelli (1950).

presenti anche terme e locali riscaldati. Fra le decorazioni bronzee ritrovate, ricordiamo le balaustre con erme bifronti e le cassette che decoravano i bagli dei timoni con la rappresentazione di avambracci. Anche sulla seconda nave erano resti di edicole, padiglioni e ambienti di soggiorno riccamente decorati, come attestano gli elementi di balaustra, i frammenti di pavimenti a intarsi marmorei, le colonne, le lastre di terracotta, le cerniere di porte e finestre (Fig. 23). Tra i più significativi elementi decorativi di bronzo spiccano due calotte cilindriche con protomi di leone, dodici cassette quadrangolari (otto con protomi ferine, tre con avambraccio teso ed una con la testa di Medusa) destinate a decorare teste di bagli (Fig. 24). Il ritrovamento delle navi di Nemi è stato fondamentale per lo studio della tecnica di costruzione navale in età romana. Era la prima volta, infatti, che si potevano analizzare nei minimi particolari navi del i sec. d.C. (Fig. 25). I due scafi, a fondo piatto, erano costruiti secondo la tecnica detta a fasciame portante, con il fasciame assemblato a paro con mortase e tenoni e chiodi di rame a doppia squadra, incassati e stuccati. Sulla seconda nave a poppa e a prua, per migliorarne la governabilità, erano stati sistemati, sopra l’aposticcio, due remi timone. L’analisi delle specie legnose ha accertato che i mastri d’ascia d’età romana utilizzavano legni diversi a seconda della parte della nave: il fasciame, ad esempio, era di legno dolce di pino, il ponte di quercia, i tenoni di rovere. La carena di tutti e due gli scafi era spalmata con minio di ferro ed era rivestita ester-

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Fig. 24. Testa di Medusa di bronzo, dalla prima nave di Nemi. Da Ucelli (1950). Fig. 25. Ancore dalle navi di Nemi: namente da lana catramata (una misceuna di legno con ceppo plumbeo ed una la di pece vegetale bitume e colofonia) di ferro rivestita di legno, con ceppo mobile. e, quindi, era stata ricoperta da sottili Da Ucelli (1950). lamine di piombo fissate con piccoli chiodi di rame (come si era soliti fare, in quell’epoca, per difendere le imbarcazioni che navigavano in mare dalla teredo navalis,1 che però non è presente in acqua dolce; questo denota che le maestranze che lavorarono a Nemi erano solite costruire navi o barche per il mare) (Fig. 26). Non sappiamo con certezza quale funzione avessero questi palazzi galleggianti, difficili da manovrare, sia per la loro mole, sia, soprattutto, perché costretti dalle dimensioni così ridotte del lago; possiamo immaginare che galleggiassero sul lago senza muoversi eccessivamente. È molto probabile che potessero avere qualche relazione con le celebrazioni religiose in onore di Diana nemorense, il cui culto ha radici antichissime nella regione, e che era adorata in un santuario costruito a partire del iv sec. a.C. sulla riva settentrionale del lago. Del resto, in età romana, il lago tutto, il bosco e le zone circostanti sono pervasi da un profondo spirito religioso che si esplica non solo nel culto di Diana nemorense ma anche nella complessa saga del Rex Nemorensis. Guido Ucelli, colui che progettò il recupero delle navi di Nemi, non era un archeologo; tuttavia diresse con competenza i lavori e, soprattutto, adottò un metodo rigoroso e, possiamo dire, moderno nello studio e nella pubblicazione dei dati scientifici. È proprio grazie ai rilievi editi nel suo volume che è stato possibile ricostruire fedelmente i modelli in scala 1:5 dopo che, la notte del 31 maggio 1944, le navi furono completamente distrutte da un incendio divampato nel Museo nel corso della ritirata dell’esercito tedesco2 (Fig. 27).

1 Sulla teredo navalis vedi oltre, in particolare a proposito del legno archeologico in contesti sottomarini. 2 Questo oscuro episodio non è mai stato completamente chiarito. Vedi il racconto dei fatti in Ghini, Gizzi (1996): 24-25.

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Fig. 26. Chiodini a testa piatta per il fissaggio delle lamine di piombo sulla carena. Da Ucelli (1950).

Fig. 27. L’interno del Museo di Nemi dopo l’incendio. Da Ucelli (1950).

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capitolo primo Da alcuni anni, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologica del Lazio e con la consulenza di una Commissione di esperti, è iniziato un progetto di ricostruzione della seconda nave di Nemi in scala 1:1 (per ora sono stati eseguiti la chiglia con la prua e l’aposticcio di poppa, con il remo timone)1 (Fig. 28). L’autorespiratore ad aria e la nascita della moderna ricerca subacquea

Nella storia delle ricerche archeologiche subacquee il 1942 rappresenta l’anno della svolta epocale: il Comandante Jacques-Yves Cousteau e l’ingegnere Emile Gagnan mettono a punto il primo autorespiratore ad aria (erogatore) che da essi prende nome. Da questo momento il sommozzatore potrà nuotare sott’acqua ed esplorare i fondali in piena autonomia Fig. 28. Prua e akrostolion della seconda nave, senza dipendere, e quindi esserne liappena ricostruiti, esposti davanti mitato negli spostamenti, dal tubo al Museo di Nemi. che lo collega all’imbarcazione di appoggio e che gli fornisce l’aria, e senza essere appesantito da scafandri o da altre componenti dell’attrezzatura particolarmente onerose. Questo strumento, nato soprattutto per essere utilizzato a scopi militari, si diffonderà molto velocemente fra i pescatori e i subacquei sportivi e, nel decennio compreso tra il 1950 e il 1960, faciliterà enormemente l’indagine archeologica sottomarina, anche se i primi archeologi ‘subacquei’ dirigeranno le operazioni svolte dai subacquei professionisti e dai volontari solamente dalla superficie. Dopo le prime immersioni archeologiche con l’erogatore, compiute nel 1948 ancora sul relitto di Mahdia, negli anni che seguono sono sperimentati gli strumenti più idonei allo scavo subacqueo, fra i quali, per la prima volta, una sorbona ad aria sul relitto di Anthéor/Chrétienne A, negli anni dal 1949 al 1954.2 1 Sulle navi di Nemi vedi recentemente Bonino (2003). 2 Cfr. Tortorici (1998): 29. La nave, naufragata intorno al 75 a.C., proveniva dalla Campania (era di Pompei, proprietà della famiglia dei Lassii il cui nome, scritto in lingua osca, compare su alcuni coperchi di pozzolana trovati a bordo) e trasportava, tra l’altro, anfore vinarie Dressel 1 sistemate su tre livelli, ceramica a vernice nera e di uso comune e vari utensili da carpentiere. Lo studio dello scafo, effettuato da Frédéric Dumas, ha permesso di conoscerne la tecnica di costruzione, a fasciame portante, la scassa dell’albero maestro ed ha rintracciato, su alcune parti del fasciame, segni e simboli incisi dai carpentieri per facilitare l’assemblaggio dei pezzi cfr. Dumas (1964).

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Fig. 29. Grafico con ricostruzione e spaccato della Nave di Albenga. (Studio Belisario Müller).

In Italia, nel 1950, il professor Nino Lamboglia decise di impiantare un vero e proprio cantiere subacqueo sul relitto di Albenga, dopo che un primo tentativo fatto dalla società so.ri.ma. per recuperare il carico di anfore con una benna montata sulla nave Artiglio, come scrisse lo stesso Lamboglia, aveva procurato gravi danni ai reperti antichi.1 Con l’appoggio della nave Artiglio, fece esplorare il relitto da alcuni palombari mentre egli, dalla superficie, seguiva il recupero del carico che venne poi datato tra il 100 e l’80 a.C.2 Nel corso di queste campagne, nel 1959, il Lamboglia sperimentò l’utilizzo dell’ecoscandaglio per realizzare una sezione del relitto (Fig. 29). Tra il 1952 e il 1957, in Provenza (Francia), il professor Fernand Benoit e il comandante Cousteau indagano un relitto repubblicano rinvenuto nell’area del Gran Congloué, presso Marsiglia, ad una profondità di 32/45 metri.3 Il fatto che nessun archeologo effettuò immersioni sul sito, non permise agli studiosi di rendersi conto che il giacimento, in realtà, constava di 2 relitti, particolarità già denunciata dalla discordanza cronologica dei materiali rinvenuti. La 1 Cfr. Pallarés (1997-1998), pp. 21-56. 2 L’imbarcazione, che trasportava anfore di forma Dressel 1 e poche della forma Lamboglia 2 e Dressel 27, giaceva a circa un chilometro e mezzo dalla costa, ad una profondità di circa 42 metri. Completava il carico una fornitura di ceramica a vernice nera, di produzione campana A e C. Cfr. Lamboglia (1950), pp. 1-8; Lamboglia (1952), pp. 131-236; Lamboglia (1961b), pp. 213-220; Lamboglia (1964), pp. 219-228. Degno di interesse il ritrovamento a bordo di sette elmi di bronzo, che, con ogni probabilità, dovevano essere utilizzati dagli stessi marinai nel caso di un attacco da parte dei pirati e non dovevano essere parte del carico cfr. Cavazzuti (1997), pp. 197-213 e Beltrame (2002): 35. Lunga 40 metri, larga 10/12 metri, l’oneraria di Albenga è la più grande nave da carico romana fino ad ora indagata. A pieno carico poteva trasportare dalle 11000 alle 13000 anfore, disposte in almeno cinque strati, per una portata di 500-600 tonnellate. Tra l’altro, nel relitto fu rintracciato ciò che restava dell’albero della nave, caso che è rimasto unico, fino ai recenti ritrovamenti del porto di Olbia (estate 2001) e di Sinope (Mar Nero), cfr. p. 198. 3 Benoit (1961).

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Fig. 30. La nave Daino a Baia. Da Pallarés (2001).

datazione corretta di questi due relitti sarà data solo molti anni più tardi. Il primo, ascrivibile alla fine del iii sec. a.C., era carico di anfore rodie e greco-italiche accompagnate da ceramica campana A; il secondo, invece, era carico di Dressel 1 A e ceramica campana B, inquadrabili tra la fine del ii e l’inizio del i sec. a.C. Anche le ricerche degli anni successivi, come l’esplorazione del relitto del Titan condotta negli anni 1957-1958 da Fernand Benoit e dal comandante Philippe Tailliez, non contemplarono immersioni di archeologi. La nave rinvenuta a circa 27/28 m di profondità, trasportava anfore Dressel 12 che contenevano pesce in salamoia e anfore Dressel 10, che, probabilmente, erano riempite dello stesso prodotto.1 La datazione del naufragio si attesta verso la metà del i sec. a.C. Nel corso dello scavo di questa nave venne realizzata, per la prima volta, una copertura fotografica del sito, ed il recupero dei reperti seguì un ordine preciso e sistematico.2 Nel 1957 il professor Lamboglia fonda il Centro Sperimentale di Archeologia sottomarina ad Albenga, presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri. Allora l’Italia ebbe, per prima, una nave adattata alle ricerche sottomarine, la Daino, un ex dragamine con cui furono compiuti interventi lungo tutta la penisola3 (Fig. 30). Tra i principali lavori di Nino Lamboglia ricordiamo il cantiere del 1959 sul relitto di Spargi, una nave che si comprese essere stata affondata dai pirati intorno alla fine del ii sec. a.C. per il rinvenimento, tra l’altro, di una corazza di bronzo e 1 Tailliez (1961), pp. 175-198, Tailliez (1965), pp. 76-93. Come avviene molto spesso, nel corso dello scavo sono stati ritrovati numerosi oggetti relativi alla vita di bordo oltre che ceramica a vernice nera, ceramica comune, tegole e un ceppo d’ancora di piombo cfr. Beltrame (2002): 131. Lo scafo era costruito a doppio fasciame mentre l’ossatura era costituita da soli madieri. È stata messa in evidenza la presenza, tra l’altro, di un paramezzale che, per le dimensioni, è stato identificato come una scassa. 2 Benoit (1958), pp. 5-39. 3 Cfr. Pallarés (1997-1998): 28-37.

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Fig. 31. Baia: la quadrettatura del Lamboglia e le strutture sommerse. Da Scognamiglio (2007).

di un cranio concrezionato con un elmo.1 In quella occasione, per la prima volta, venne sperimentato il rilevamento con il reticolo subacqueo.2 Negli anni 1959-60, il Lamboglia fu attivo anche a Baia per la pianificazione e la realizzazione di un’indagine topografica. Com’è noto, Baia è stata un centro turistico-balneare dell’aristocrazia romana dalla fine della Repubblica a tutto l’Impero. A partire dalla tarda antichità, l’abitato iniziò a sprofondare in acqua a causa del bradisismo. L’area urbana era caratterizzata da lussuose ville marittime, edifici pubblici e infrastrutture costiere. Tra la fine del i a.C. e gli inizi del i sec. d.C., nei pressi di Baia furono realizzate le prime installazioni fisse, a doppio bacino, per la flotta militare romana e cioè, il Portus Iulius, prima, e, successivamente, quello di Miseno, entrambi creati da Agrippa. Benché il lavoro non sia stato completato perché interrotto per vari motivi prematuramente, in questa occasione si mise a punto un metodo efficace e preciso di rilevamento archeologico subacqueo; si realizzarono piante e sezioni delle strutture sommerse indagate e si stabilì, a grandi linee, l’andamento dell’antica linea di costa (Fig. 31). Sempre in questa occasione ci si rese conto del1 Gianfrotta (1981): 227-242. Il fatto che l’elmo fosse indossato al momento del naufragio denuncia lo svolgimento di un combattimento a bordo. Il carico di questa nave era costituito da Dressel 1 A,B,C, ceramica a vernice nera A e B e manufatti di marmo e bronzo. 2 Lamboglia (1961), pp. 143-166.

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capitolo primo

Fig. 32. Molo del Porto di Claudio presso l’Aeroporto di Fiumicino.

l’utilità della sorbona anche nella esecuzione, sott’acqua, di uno scavo stratigrafico.1 Frattanto, tra il 1957 e il 1961, a Stoccolma, si compiva il recupero del Vasa, la nave ammiraglia della flotta svedese affondata nel 1628 durante il varo. In Italia, negli stessi anni, la costruzione dell’Aeroporto Intercontinentale di Fiumicino, propiziava un’estensiva indagine archeologica nel sito dell’antico porto di Claudio. Durante i lavori vennero alla luce la diga foranea ed altre importanti opere relative alle infrastrutture portuali (Fig. 32). Inoltre, si rinvenne una singolare flottiglia di cinque relitti, composta da tre battelli ascrivibili alla categoria delle naves caudicariae, una piccola oneraria ed una barca da pesca. Questi reperti sono ora conservati nel Museo delle Navi Romane di Fiumicino2 (Fig. 33). Gli archeologi sott ’ acqua Una tappa fondamentale nella storia dell’archeologia subacquea è stata quella della scoperta del relitto di Capo Chelidonia nel 1960, quando per la prima volta, un archeologo scese sott’acqua per prendere parte attiva alle ricerche; fu 1 Lamboglia (1971), pp. 225-249; Maiuri (1961): 108; Pallarés (2001), pp. 13-28, con bibliografia circostanziata delle ricerche di Lamboglia a Baia e, più in generale, in Italia e in Provenza. 2 Per una trattazione più dettagliata si rimanda ai capitoli seguenti. Per le notizie sugli scavi del porto di Claudio e sul recupero delle navi vedi Testaguzza (1970); Santa Maria Scrinari (1979). Per le indagini più recenti sugli stessi relitti cfr. Boetto (2000), pp. 99-102; Boetto (2000a); Boetto (2003), pp. 66-70.

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Fig. 33. Museo delle Navi di Fiumicino. Interno.

George F. Bass, alla guida di un gruppo di ricercatori dell’Università di Pennsylvania1 (Fig. 34). Sempre Bass, tra il 1961 e il 1964, diresse lo scavo del relitto di Yassi Ada i, il cui naufragio è datato a poco dopo il 625 d.C. per la presenza di alcune monete d’oro e di bronzo, la più recente delle quali è un follis dell’imperatore Eraclio. In questa occasione, fu attuato il primo scavo completo di un relitto con il rilievo totale e la ripresa stereofotogrammetrica. Lo studio analitico dei resti della nave ha fornito numerosi dati che hanno portato alla ricostruzione dello scafo e all’esame delle tecniche costruttive.2 Nel 1964, Bass scavò anche un secondo relitto, poco distante da questo ma più profondo (36/42 metri), quello cosiddetto Yassi Ada ii, della metà del iv sec. d.C. Esplorato e documentato in stereofotogrammetria con l’ausilio del sottomarino Asherah, esso era realizzato in tecnica mista; il carico comprendeva 1100 anfore e ceramica orientale.3 Nel 1967, durante le ricerche a 1 Bass (1967); per le ricerche e gli studi successive vedi “Cape Gelidonya Wreck” in Delgado (Ed.) (1997): 84-86. Il relitto, databile a cavallo del 1200 a.C., si trovava a 26/30 m di profondità sui fondali antistanti il promontorio. Il carico constava, principalmente, di lingotti di rame (da Cipro), bronzo e stagno; attrezzi, di cui alcuni esemplari già usati e destinati alla fusione, armi siriane e cipriote. Il materiale era in gran parte concrezionato con le rocce del fondale e per il suo recupero fu necessario l’impiego di martinetti idraulici. Notevole la presenza a bordo di ceramica micenea e di sigilli, tra i quali, uno, a cilindro, più vecchio di 500 anni rispetto al naufragio! L’armatore e comandante doveva essere un mercante/fabbro, siriano o cipriota. 2 van Doorninck (1972): 140; Bass, van Doorninck (1982), pp. 119-132. È stato possibile, in questo caso, identificare anche la zona della cambusa con la cucina. Il carico, situato ad una profondità di 30-36 m, era costituito da circa novecento anfore vinarie. La nave era costruita secondo una tecnica che è stata definita mista: dopo aver montato i corsi di fasciame dell’opera viva i carpentieri hanno irrobustito la struttura con la posa di madieri, quindi, hanno ripreso la costruzione del fasciame fino alla murata, poi hanno inserito gli staminali e alla fine hanno montato gli scalmi connessi con la parte terminale del fasciame. 3 van Doorninck (1976), pp. 115-131.

Fig. 34. Turchia, Capo Chelidonia (indicata nella carta come C. Gelidonya), Kas¸ (Ulu Burun), Yassi Ada, nella carta Iç Ada, e Bodrum. L’isola di Cipro con il sito di Kyrenia. Da Atlante e Repertorio Geografico, Tav. 60, Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma, 1973.

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archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina 45 Yassi Ada, Bass sperimentò, per la prima volta, l’uso del side scan sonar per l’individuazione di siti archeologici sommersi.1 Un altro archeologo subacqueo attivo in quegli anni nel Mediterraneo Orientale e che possiamo annoverare tra i padri di questa disciplina è Elisha Linder che nel 1960 fonda, insieme ad un gruppo di ex sommozzatori della Marina Militare, la Undersea Exploration Society of Israel. Nel corso degli anni ’60 l’attività di Linder è incentrata sullo studio e sulla documentazione dei siti costieri e dei porti fenici presenti lungo il litorale israeliano (Fig. 35). Frattanto, nel 1966, in Francia, è istituita, nell’ambito del Ministero della Cultura, la Direzione per le Ricerche Archeologiche Sottomarine (drasm) incaricata delle ricerca, della tutela e della catalogazione del Patrimonio archeologico subacqueo. Per facilitare e ottimizzare la sua attività di Fig. 35. Porti della costa siro-palestinese. ricerca, la drasm viene dotata dell’ArDa Moscati (1988). chéonaute, una nave dismessa dalla Marina Militare, attrezzata ad hoc per il lavoro archeologico subacqueo (Fig. 36). Negli anni settanta avvengono significative ricerche e ritrovamenti degni di nota: Honor Frost2 esegue indagini nel bacino orientale del Mediterraneo e studia, tra i più eminenti porti fenici, quelli di Tiro e di Sidone. In Egitto l’archeologa indaga il porto di Alessandria e, in Italia, scava la nave di Marsala (1971-1974), unico esempio di nave da guerra risalente al primo conflitto contro Roma3 (Fig. 37). In Israele nel 1972 inizia l’attività del Recanati Center for Maritime Studies dell’Università di Haifa. Tra le finalità di questo Istituto, oltre alla ricerca sul campo, la formazione di archeologi subacquei in ambito universitario. In questi anni gli 1 Un’ampia documentazione fotografica relativa alle ricerche dell’Institute of Nautical Archaeology è visibile sul sito web http://nauticalarch.org/photos_and_videos/select_photo_gallery/. 2 Una pioniera della subacquea che iniziò a immergersi subito dopo l’introduzione dell’autorespiratore ad aria. Ella ha preso parte alle più importanti ricerche nel Mediterraneo, fin dall’inizio degli anni ’50 e ha pubblicato numerosissimi studi di archeologia subacquea. Fece parte dell’équipe di archeologi che lavorò con Bass a Capo Chelidonia. 3 Frost et alii (1981). La nave è stata identificata come una di quelle che partecipò alla battaglia delle Egadi del 260 a.C., ed è stata definita punica per la presenza di lettere dell’alfabeto punico sul fasciame. Recentemente G. Purpura ha riproposto il problema di una possibile origine romana della nave in base alla provenienza delle pietre di zavorra cfr. Purpura (1997), pp. 100-106.

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Fig. 36. L’Archéonaute.

Fig. 37. Marsala, il Baglio Anselmi ed il relitto della nave punica. (foto R. Ciabattoni).

archeologi israeliani effettuano sistematicamente scavi e ricerche nei siti di Acco ed Athlit. Essi sono attivi, in particolare, presso quest’ultimo sito, identificato come un emporio fenicio del vi-v sec. a.C., di cui restano un molo interno e una diga frangiflutti e, nella baia Nord, numerosi relitti di età fenicia. In Italia gli anni che vanno dal 1960 al 1977 si distinguono per l’incessante attività del professor Lamboglia su innumerevoli siti, con le sue nuove imbarcazioni,

archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina 47 Cycnus e Cycnulus, che avevano rimpiazzato la nave Daino.1 Lo studioso organizza corsi di archeologia che hanno formato numerosi giovani archeologi, presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, e si fa promotore di congressi internazionali che hanno dato l’opportunità di interessanti confronti scientifici e di preziosi scambi di esperienze attuate grazie alle nuove tecnologie. Nel 1972, intanto, in Calabria lungo la costa di Riace, il subacqueo romano Stefano Mariottini scopriva casualmente i famosi Bronzi ora custoditi nel Museo del capoluogo calabrese. Durante le ricognizioni condotte negli anni successivi al ritrovamento, nulla si trova della nave che li trasportava, così come del resto del carico, ed un mistero rimangono il porto di partenza e quello di destinazione2 (Figg. 38-39). Sempre nel 1972, in Francia, inizia, sotto la direzione degli archeologi subacquei Patrice Pomey e André Tchernia del cnrs e dell’Université de Provence, lo scavo sistematico del relitto della Madrague de Giens, uno dei relitti più famosi e meglio indagati di questi ultimi decenni (Fig. 40). La nave, rinvenuta nel 1967 a circa 20 metri di profondità a largo della penisola di Giens, era parzialmente coperta da un potente strato di posidonie. Per questo motivo, prima di iniziare lo scavo, soprattutto per individuare l’orientamento della nave, furono effettuate prospezioni con un magnetometro. Il sito archeologico si estendeva per circa 40 metri di lunghezza e 12 metri di larghezza. Lo scavo di questo relitto è durato ben dieci anni e, come si è accennato, è ancora oggi portato ad esempio per il rigore scientifico con cui è stato condotto e per la completezza della documentazione (rilievo stereofotogrammetrico e raccolta dei dati archeologici in un database informatizzato).3 Nel corso dello scavo è stata accertata l’attività degli urinatores subito dopo il naufragio.4 Infatti, rimosso lo strato di posidonie che sigillava gli strati antichi, alcune zone della nave sono apparse prive del carico e lo scafo era disseminato di pietre locali, diverse per caratteristiche petrologiche da quelle della zavorra. Si doveva trattare delle pietre utilizzate dagli urinatores come pesi per facilitare e velocizzare la discesa sul fondo. Dopo il recupero del carico, gli archeologi si sono dedicati allo studio dei resti lignei che avevano conservato particolari tecnici interessanti. In sintesi, possiamo dire che la nave era lunga 40 m e larga 9, aveva uno scafo molto robusto e costruito in modo accurato secondo il metodo del guscio

1 Lamboglia (1961a), pp. 12-17; Lamboglia (1971a), pp. 176-192. 2 Il Bronzo A, che raffigura probabilmente Tideo, è attribuito ad Agelada il Giovane di Argo, maestro di Mirone, Fidia e Policleto; il Bronzo B raffigurerebbe, invece, Anfiarao ed è attribuito ad Alcamene che, in questa occasione avrebbe collaborato con Agelada per il monumento della Saga dei Sette a Tebe eretto nell’agorà di Argo nel 450 a.C. circa. Cfr. da ultimo Moreno (2003), pp. 45-60. 3 Il carico della nave, tutto recuperato, era costituito da tre strati di anfore Dressel 1B disposte su tre livelli per un’altezza di 3 metri circa. Sopra le anfore, sistemati in casse di legno, erano servizi di ceramica campana a vernice nera. Alcune altre tipologie di anfore potevano costituire parte del carico o essere utilizzate dall’equipaggio. Lo studio della ceramica comune ha permesso di individuare la zona occupata dalla cucina di bordo. La presenza su alcune anfore del sigillo di Publius Veveius Papus, noto nella zona di Terracina, la tipologia del carico, oltre al ritrovamento di alcune monete, permettono di datare il naufragio al 75-60 a.C. 4 Cfr. a p. 20 nota 2.

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Fig. 38. Bronzi di Riace: Bronzo A (Tideo). Fig. 39. Bronzi di Riace: Bronzo B (Anfiarao). (Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale).

portante, a doppio fasciame, tenuto insieme da mortase e tenoni; il fasciame, inoltre, era rivestito da una lamina di piombo di protezione. Secondo gli studi di architettura navale, la Madrague de Giens doveva avere due o tre alberi, mentre il suo profilo architettonico denotava caratteristiche tali da renderla particolarmente adatta alla navigazione.1 (Figg. 41-42) Negli anni settanta, i lavori di documentazione condotti sui relitti della Madrague de Giens e del Planier iii si rivelano una ottima occasione per migliorare la qualità e la precisione della documentazione fotografica. Come abbiamo visto, infatti, sono state eseguite riprese stereoscopiche tradotte graficamente da un foto1 Tchernia et alii (1978); Pomey (1982), pp. 133-154; Tchernia (1986): p. 242; Tchernia (1989), pp. 489-497.

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Fig. 40. Anfore del relitto della Madrague de Giens. Da Tchernia et alii (1978).

Fig. 41. A confronto il profilo della Nave da Madrague de Giens e quello della nave rappresentata nel mosaico del frigidarium delle terme di Thémétra (iii sec. d.C.), (Tunisia). Da Pomey (1982).

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Fig. 42. La nave oneraria rappresentata nel mosaico del frigidarium delle terme di Thémétra (iii sec. d.C.), (Tunisia). Foto Centre Camille Jullian, cnrs da Pomey, Rieth (2005).

restituore e in entrambi i casi, in via sperimentale, si è utilizzata l’informatica per l’archiviazione e la gestione dei dati di scavo. Nel 1972, intanto, George F. Bass aveva fondato l’American Institute of Nautical Archaeology e, in seguito, il suo gruppo di ricercatori si impegnava nello scavo e nello studio di vari relitti antichi, alcuni già individuati negli anni precedenti, altri, invece, venuti alla luce in quegli anni: ricordiamo fra tutti, la nave del 1600 a.C. naufragata in località Sheytan Deresi in Turchia;1 il relitto ellenistico (300 a.C.) rinvenuto a 65 metri di profondità sulla Secca di Capistello, presso la costa orientale dell’isola di Lipari (Sicilia), dove gli archeologi hanno usufruito dell’appoggio dei mezzi forniti dalla SubSeaOil Service;2 il relitto bizantino naufragato nell’xi sec, intorno all’anno 1024, a Serçe Limani (Turchia) a 32 m di profondità, scavato negli anni dal 1977 al 1979.3 Le esplorazioni subacquee condotte dagli 1 Bass (1976), pp. 293-303. 2 Tra i mezzi usati, una campana batiscopica, una camera di decompressione subacquea, telefono e televisione subacquea a circuito chiuso, un piccolo sommergibile, oltre che una nave appoggio e altre imbarcazioni più piccole. Il carico della nave era costituito da anfore c.d. greco-italiche, alcune anfore puniche, diverse centinaia di vasi a vernice nera di varie forme. Per una sintesi delle ricerche condotte su questo relitto e più in generale sui relitti eoliani cfr. Bound (1992): 59-61 e 31-50. 3 Bass, van Doorninck (1978), pp. 119-132. Lo scavo di questo relitto, lungo circa 14,5 m che poteva trasportare circa 27 tonnellate di carico, denominato anche relitto dei vetri dal momento che

archeologia sott ’acqua: storia e attualità della disciplina 51 americani nel sito di Serçe Limani, hanno permesso di affermare che questo porto naturale situato lungo la costa turca, a nord dell’isola di Rodi, era utilizzato come ancoraggio fin dall’età del Bronzo. Le ricerche hanno restituito, inoltre, un secondo relitto di una nave oneraria naufragata intorno al 280-275 a.C., parzialmente scavato negli anni dal 1978 al 1980. Il carico era costituito principalmente da vino prodotto nella penisola Cnidia, trasportato, come di consueto, all’interno di circa 600 anfore. Nel corso dello scavo di questo relitto è stato ritrovato un tubo di piombo, forse la più antica testimonianza della pompa di sentina. Sempre negli anni settanta, Richard Steffy e Michael Katzev completano il restauro della nave mercantile di età ellenistica denominata Kyrenia, naufragata alla fine del iv sec. a.C. a largo di Cipro (Fig. 34) e scavata negli anni 1968-1969 dal Katzev.1 In Italia, intanto, nel gennaio del 1977, una deprecabile e assurda disgrazia causava la morte di Nino Lamboglia, perito per annegamento nel porto di Genova. La sua scomparsa chiude anche la fase pionieristica dell’archeologia subacquea, quella delle prime sperimentazioni del metodo di ricerca in un ambiente del tutto nuovo. La pubblicazione di manuali quali quello di Honor Frost nel 1963, intitolato Under Mediterranean, e di quello edito da G. F. Bass nel 1972 intitolato A history of seafaring based on Underwater archaeology, e, più recentemente, le pubblicazioni dei risultati di scavo dei relitti e dei siti sommersi, di cui si è detto in precedenza, dimostrano che i principi e i metodi dello scavo archeologico subacqueo, come anche quelli della prospezione, della documentazione e del recupero, sono stati ormai codificati e standardizzati nelle loro linee essenziali. furono rinvenute circa 3 tonnellate di frammenti di vetro pronti per essere riciclati (un centinaio di forme complete sono state in seguito ricostruite dai restauratori), si è rivelato particolarmente interessante non solo per la ricostruzione delle rotte commerciali nel Mediterraneo nel periodo d’oro della navigazione islamica e per la documentazione dell’abilità artigianale dei vetrai islamici, ma anche per lo studio delle tecniche di costruzione navale secondo il metodo ‘a scheletro portante’ e per l’incremento delle nostre conoscenze sulla vita di bordo dei marinai e dei passeggeri. 1 Gli stessi studiosi daranno un importante contributo ad un progetto di archeologia sperimentale che vedrà tra il 1982 e il 1985 la realizzazione di una replica di questa nave. La replica, battezzata Kyrenia ii, come vedremo in seguito, sfilerà lungo l’Hudson nella parata del 4 luglio 1985 e poi navigherà da Atene a Cipro andata e ritorno.

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capitolo secondo GLI SVILUPPI RECENTI DELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA NEI PAESI MEDITERRANEI DAL 1980 AD OGGI 1

I

n questo capitolo si offre un panorama delle Strutture e degli Istituti che sono attualmente preposti alla ricerca archeologica subacquea nei principali Paesi mediterranei e si descrivono, in modo sintetico, le diverse politiche di gestione e tutela del patrimonio archeologico sommerso. Naturalmente, ci si soffermerà più a lungo sui fatti italiani. Italia Nel 1981, a nove anni dalla scoperta, sono finalmente esposti al pubblico i Bronzi di Riace, reduci dal lungo restauro presso il Laboratorio della Soprintendenza Archeologica di Firenze.2 Questo evento sembra riaccendere, in generale, non solo l’interesse dell’opinione pubblica per le opere d’arte, ma anche, nel mondo politico, una certa attenzione nei confronti dell’archeologia subacquea. La volontà di operare per la salvaguardia del patrimonio archeologico subacqueo coinvolge tutti i Paesi europei e, anche nel campo del diritto internazionale, si vogliono trovare soluzioni efficaci per risolvere i numerosi problemi posti dal moltiplicarsi dei ritrovamenti. Del resto, già nel 1978, il Comitato dei Ministri della Comunità Europea, nella raccomandazione n. 848, aveva sollecitato una Convenzione Europea sul Patrimonio culturale subacqueo e la creazione di un gruppo di lavoro che si occupasse di questi argomenti sia dal punto di vista legislativo, sia scientifico, sia formativo. In Italia, nel 1981, viene pubblicato il manuale di Piero Alfredo Gianfrotta e Patrice Pomey Archeologia Subacquea. Storia, tecniche, scoperte e relitti, opera che costituisce il primo lavoro di sintesi, sulla materia, in lingua italiana. Questo libro è stato, nell’ultimo quarto di secolo, il punto di riferimento obbligato, e per certi versi insuperato, per tutti coloro che si sono accostati all’archeologia subacquea. Inoltre, la pubblicazione negli anni 1982, 1985 e 1986 di tre supplementi al Bollettino d’Arte dell’allora Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, dedicati all’archeologia subacquea, sembrò essere la testimonianza del desiderio di imprimere una svolta alla ricerca scientifica in questo settore e alla tutela dei Beni sommersi, da parte dell’Amministrazione dello Stato.

1 Per motivi di spazio e di opportunità, considerato quanto detto nella premessa, in questo Capitolo non si tratterà dell’organizzazione della Materia e dell’attività di ricerca dei Paesi extra Mediterranei, sebbene altrove nel volume sia dato rilievo a fatti di particolare interesse. 2 Vlad Borrelli, Pelagatti (1984).

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capitolo secondo

Fig. 1. Il porto di Baia prima dell’allontanamento del porto commerciale.

Fino alla morte di Lamboglia, infatti, le Soprintendenze archeologiche avevano delegato all’Istituto di Studi Liguri e a ditte private la ricerca attiva, limitandosi alla tutela dei Beni. In questi volumi, accanto alla pubblicazione di materiale sporadico rinvenuto casualmente o in occasione di sequestri, che, se ben interpretato, si rivela in ogni caso utile per gli studi sul commercio nel Mondo antico,1 appaiono studi approfonditi o interessanti relazioni su ricognizioni preliminari di antichi relitti. Ne ricordiamo alcuni, come quello della nave romana di Spargi, del ii sec. a.C.,2 quello della nave carica di dolia di Ladispoli, della prima metà i sec. d.C.;3 quello della Secca di Capistello (Lipari), naufragato intorno al 300-280 a.C., uno dei numerosissimi relitti documentati nelle isole Eolie;4 il relitto interrito della nave di età augustea rivenuto in località Valle Ponti-Comacchio;5 quello di età normanna scoperto a largo di Marsala6 e quello denominato relitto del vetro, rinvenuto nelle acque antistanti il litorale di Malamocco e datato al xv sec. d.C. (Venezia).7 Finalmente in questi volumi viene dedicato ampio spazio anche all’archeologia delle acque interne (laghi e fiumi d’Italia), che stava fornendo dati essenziali per lo studio del popolamento in età preistorica e protostorica; ricordiamo per tutti lo 1 Vedi per es. Gianfrotta (1982), pp. 13-36; Incitti (1986), pp. 195-202; Profumo (1986), pp. 39-48. 2 Pallarés (1986), pp. 89-102. 3 D’Atri, Gianfrotta (1986), pp. 203-208. 4 Cavalier (1985), pp. 53-61. 5 Berti (1986), pp. 25-32. La nave, spiaggiata con il suo carico di legname e vasellame, ha restituito numerosi oggetti della vita quotidiana ancora in ottimo stato di conservazione, cfr. più recentemente Berti (1990), pp. 219-226. 6 Purpura (1985), pp. 129-136. 7 Molino et alii (1986), pp. 179-194.

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea 55 studio e la documentazione dei villaggi palafitticoli del piccolo lago piemontese di Viverone e di quelli identificati nella torbiera di Mercurago riferibili all’Età del Bronzo;1 le ricerche condotte nei bacini lacustri laziali, per esempio nel lago di Bracciano per lo studio del villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo in loc. Vicarello e, per i fiumi, le ricerche condotte nel Tevere per lo studio della portualità di Roma antica.2 Nella storia dell’archeologia subacquea italiana si inserisce, a questo punto, la vicenda che riguarda la ripresa delle indagini topografiche a Baia, la città romana ora sommersa. Questo capitolo della nostra storia merita una più dettagliata disamina, anche perché esso rappresenta il primo tentativo di recupero culturale e ambientale di un bene archeologico e architettonico complesso, realizzatosi solo in anni recenti.3 Ne gli anni 1981-1983 si riprende il progetto di Nino Lamboglia che prevedeva lo studio topografico della città sommersa. Piero Alfredo Gianfrotta dirige lo scavo stratigrafico subacqueo del Ninfeo di Punta Epitaffio, un ambiente che faceva parte del palazzo imperiale la cui sistemazione si data al periodo GiulioClaudio4 (Figg. 2-3). Sintomi di quello che sembrò un fermento innovativo sulla scia dei fatti di Baia e dei numerosi lavori pubblicati nei primi supplementi del Bollettino d’Arte già richiamati, si riscontrano anche nell’avvio del primo corso per operatori subacquei per l’archeologia riservato ai tecnici del Ministero per i Beni Culturali, nel 1982. Dovranno passare ancora quattro anni, però, prima che il Ministero si doti, a “livello centrale”, di “una struttura di coordinamento fra le varie attività subacquee” come auspicato da Licia Vlad Borrelli nel 1982.5 1 Fozzati, Nisbet (1982), pp. 101-122. 2 Per Vicarello cfr. Fugazzola Delpino (1982), pp. 123-148; per il Tevere vedi Mocchegiani Carpano (1982): 151-165. Per l’archeologia delle acque interne vedi anche il Capitolo terzo, pp. 77-84 e 94-105. 3 Dal giugno 2001, nell’area di Baia sommersa, è stato istituito un Parco Sommerso. La zona archeologia sommersa, delimitata con boe, si estende per una superficie di 177 ettari. L’itinerario di visita, corredato di pannelli che illustrano i monumenti, comprende i resti della villa dei Pisoni, le terme del palazzo imperiale, i resti della “Villa con ingresso a protiro”, alcuni ambienti termali con pavimentazioni a mosaico e taverne allineate lungo un asse viario. Le visite guidate sono organizzate da un consorzio di imprese, sotto il controllo della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta che ha in gestione il Parco. Il Parco Sommerso di Baia è aperto anche ai visitatori che non si immergono; infatti questi ultimi possono vedere i fondali marini a bordo di una barca con il fondo trasparente. Molto lungo è stato l’iter che ha portato alla creazione di questo parco poiché Baia moderna è stata, fino a pochi anni fa, un porto commerciale abbastanza frequentato, dove, tra l’altro, avveniva giornalmente l’imbarco della pozzolana. Due, in particolare, sono gli anni che hanno aperto la strada alla sua realizzazione: il 1994 quando vennero sospese le operazioni di imbarco della pozzolana e il 1996 quando fu regolamentata la nautica da diporto vietando l’ormeggio nel tratto di insenatura occupato dalla città sommersa (Fig. 1). Una sintesi degli avvenimenti in Miniero (2001): 29-35. Dall’agosto del 2002 il Parco ha assunto la denominazione di Area Marina Protetta. 4 Cfr. Andreae Zevi (a cura di) (1983). Per i dettagli cfr. Capitolo terzo, pp. 105-108. Vedi anche Di Fraia et alii (1985-86), pp. 211-229; Di Fraia (1993), pp. 21-48; Scognamiglio (1993), pp. 65-70; Scognamiglio (1997), pp. 35-45; Miniero (a cura di) (2000a). 5 Vlad Borrelli (1982): 11.

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capitolo secondo

Fig. 2. Il Ninfeo di Punta Epitaffio durante lo scavo. Acquarello da B. Andreae, F. Zevi (1983).

Fig. 3. Il Ninfeo di Punta Epitaffio. Plastico ricostruttivo in scala. Baia, Museo Archeologico del Castello Aragonese.

Nel 1986, infatti, viene istituito, presso l’Ufficio Centrale per i Beni Archeologici Architettonici Artistici e Storici, il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (stas) con il compito di supportare le Soprintendenze Archeologiche nella progettazione degli interventi. Nel rispetto dell’organizzazione degli Uffici del Ministero, la programmazione, la direzione scientifica e l’organizzazione dei cantieri archeologici subacquei saranno sempre di competenza delle Soprintendenze, che affideranno i lavori a ditte private, a collaboratori esterni, o a ricercatori delle Università. Nel 19921, in seguito alla scoperta dei Bronzi di Brindisi, parti di statue di diverse epoche databili tra i secoli iv-iii a.C. ed il iii d.C., costituenti il carico di una nave che trasportava frammenti di

1 Andreassi, Cocchiaro (1992), pp. 3-16; più recentemente, De Palma, Fiorentino (2003), pp. 97-117.

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea

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Fig. 4. Punta del Serrone (Brindisi). Una fase dello scavo con i frammenti di alcuni reperti bronzei in evidenza sul fondo.

bronzo da rifondere, il Ministro Alberto Ronchey autorizzò, per la prima volta, gli archeologi e i tecnici subacquei dello stas ad immergersi per condurre direttamente i cantieri sommersi e propose un disegno di legge per regolamentare la Materia (Figg. 4-5).1 Questo Disegno di Legge ancora oggi non è stato approvato, nonostante siano passati diversi anni e nonostante esso sia stato modificato da vari Governi. Il decreto di autorizzazione all’immersione fu, tuttavia, una importante presa di coscienza da parte dell’Amministrazione dello Stato che, fino ad allora, non aveva mai permesso ufficialmente ai propri tecnici di esercitare tale attività e si è rivelato, nel tempo, fondamentale per la sicurezza degli operatori.

Fig. 5. Punta del Serrone (Brindisi). La testa del cosiddetto Principe Ellenistico o Lucio Emilio Paolo, durante il restauro.

1 Tuttavia, come vedremo, i provvedimenti presi nel 1992 nei confronti dei subacquei dello stas, non furono estesi al personale delle Soprintendenze Archeologiche, al quale, fino al 1996, non sarà consentito ufficialmente di lavorare sott’acqua. Questa situazione generò un giustificato malcontento fra i tecnici del Ministero.

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In esso sono, infatti, stabiliti i principi basilari per la sicurezza dell’immersione ed i limiti operativi.1 Grazie a tale Decreto, inoltre, il Ministero, dal 1992, ha iniziato a stipulare polizze assicurative per questo ristretto gruppo di dipendenti autorizzati al lavoro subacqueo e li ha sottoposti annualmente a visite mediche di controllo. Le Soprintendenze non avendo, dunque, nel proprio organico archeologi autorizzati all’immersione continueranno ad affidare, di volta in volta, la direzione dei lavori ai collaboratori esterni. Gli archeologi e i tecnici dello stas si limitavano, infatti, ad effettuare i sopralluoghi preliminari valutando l’entità dei ritrovamenti. In quegli anni si aprono per i liberi professionisti, giovani archeologi e tecnici, nuove speranze di prospettive di lavoro. Alla fine del 1993, alcuni di questi, si riuniscono in una Associazione denominata aia Sub – Associazione Italiana degli Archeologi Subacquei – con la finalità principale di contribuire alla difesa, alla valorizzazione e allo sviluppo dell’Archeologia Subacquea in Italia e della figura professionale dell’archeologo subacqueo. Tra l’altro, l’Associazione promuove Convegni Scientifici e Cicli di Conferenze sulle ricerche archeologiche subacquee in Italia.2 Nello stesso anno, viene attivato il primo insegnamento di Archeologia Subacquea tenuto da Piero Alfredo Gianfrotta all’Università della Tuscia di Viterbo. L’impegno di questo Ateneo si riflette anche in una nuova iniziativa editoriale, la rivista scientifica «Archeologia subacquea. Studi, ricerche e documenti», diretta da Piero Alfredo Gianfrotta e Paola Pelagatti, pubblicata a partire dal 1993 per i tipi dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.3 Sempre nel 1993 ha luogo, presso Ravello, un importante Convegno Internazionale per la Tutela del Patrimonio Archeologico Subacqueo che vede la partecipazione di insigni studiosi europei e si conclude con una risoluzione contenente rilevanti tematiche e incisive raccomandazioni. Tra queste, per quanto riguarda l’Italia, si esprime l’auspicio di una riforma degli ordinamenti di tutela, con specifici provvedimenti riguardanti i beni archeologici subacquei. Più in generale, si auspica l’omologazione tra le varie leggi nazionali in materia di archeologia subacquea e una più attenta considerazione dei problemi riguardanti il con1 La morte di Luca Cianfarani, geologo subacqueo dello stas, perito nel corso di un sopralluogo nel fiume Velino nel novembre del 1991, si sarebbe, forse, potuta evitare se si fosse provveduto a regolare per legge, tempestivamente, la sicurezza nel lavoro archeologico sott’acqua. 2 Associazione italiana archeologi subacquei (a cura di) (1997); Giacobelli (a cura di) (2001); Benini, Giacobelli (a cura di) (2003), Giacobelli (2004). Tra i fondatori dell’Associazione ci è grato ricordare Fabio Faccenna, giovane studioso scomparso prematuramente nel 1997. 3 Attualmente l’insegnamento di Archeologia Subacquea è presente in numerose Università Italiane (Venezia, Bologna, Pisa, Roma, Napoli, Caserta, Lecce, Foggia, Catania, Trapani, Palermo), nell’ambito dei Corsi di Laurea in Lettere o in Conservazione per i Beni Culturali. Purtroppo, la maggior parte degli insegnamenti è tenuto da docenti a contratto e, quindi, la continuità della didattica è fortemente dipendente dai fondi ministeriali e dalle scelte dei singoli Atenei, come, del resto, l’attività di ricerca, dal momento che i professori a contratto non possono attingere, come i professori ordinari e associati, ai finanziamenti annuali che il Ministero riserva alla ricerca scientifica. Solo presso Università della Tuscia di Viterbo, dall’anno accademico 2002/2003, era stato attivato un Corso Triennale di Laurea in Archeologia subacquea che è stato recentemente soppresso.

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Fig. 6 Anfore del relitto della Iulia Felix. (Cortesia E. Mitchell).

trollo internazionale delle acque extra territoriali e di quelle di riconosciuta pertinenza nazionale.1 Finalmente, a metà degli anni novanta il Ministero per i Beni Culturali organizza, per il proprio personale, due nuovi corsi di formazione per operatori in archeologia subacquea. Così dal 1996 le Soprintendenze Archeologiche possono disporre di personale autorizzato all’immersione subacquea organizzato in Nuclei Operativi, diretti da un archeologo subacqueo, ove esso sia presente nell’organico. I Nuclei subacquei sono impegnati soprattutto nell’attività cosiddetta d’urgenza, ossia nella documentazione e nella tutela dei siti sommersi o nel recupero dei reperti isolati che sono segnalati dai subacquei sportivi, sempre più numerosi, visto anche lo sviluppo esponenziale dello sport subacqueo. Ci sono alcune ricerche, fra le tante iniziate tra gli anni novanta ed i primi anni del duemila, che ci sembra importante ricordare per la loro rilevanza scientifica o per le soluzioni tecniche adottate durante i lavori, o perché ancora in corso. Fra gli scavi archeologici subacquei di antichi relitti, segnaliamo quello della nave da trasporto denominata Iulia Felix, una corbita naufragata nella laguna di Grado tra il 117 e il 150 d.C. con il suo carico costituito soprattutto da anfore del tipo Africana IA, Tripolitana I, anfore di tradizione coa ed anforotti simili alla forma Dressel 19 (Fig. 6). Il prodotto contenuto non era vino, bensì allec o semplice salsamentum (conserve e salse di pesce). Secondo gli scavatori, infatti, il produttore di salsa di pesce avrebbe riutilizzato queste anfore vinarie, arrivate sulla piazza di 1 Vedovato, Vlad Borrelli (a cura di) (1995).

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uno dei più importanti empori presenti sull’Adriatico attraverso vie commerciali differenti, per trasportare la conserva di pesce di sua produzione. Oltre a queste osservazioni, interessanti per la storia dei commerci in altoAdriatico nella metà del ii sec. d.C., lo scavo sistematico di questo relitto ha evidenziato le caratteristiche dello scafo e quindi le tecniche di costruzione navale. La direzione di questo lavoro è stata affidata ad alcuni dei più noti archeologi italiani ed il cantiere è stato un valido campo di prova per alcuni giovani studiosi, ora esponenti del mondo dell’archeologia subacquea italiana. Inoltre, la vicenda del suo recupero, avvenuto nel settembre del 1999, ha costituito il primo tentativo, purtroppo non riuscito, di recuperare un relitto di grandi dimensioni intero, senza smontarlo o segarlo, come si usa generalmente fare.1 Negli anni 1996-1997, nella Laguna di Venezia, ai margini dell’antico isolotto sommerso di San Marco in Boccalama, sono stati rinvenuti due vascelli di grandi dimensioni: una galea (nave da guerra) e una rascona (nave da trasporto) che, nel xiv secolo, furono zavorrate, affondate e ancorate con grossi pali perché servissero da casseri per il rialzo delle rive dell’isola, minacciata dagli allagamenti. Un espediente che servì per breve tempo: pochi decenni dopo l’isola e il monastero agostiniano che vi sorgeva dovettero essere abbandonati perché furono inghiottiti dalle acque della Laguna. Lo scavo e la documentazione dei relitti sono avvenuti in due fasi, delle quali la prima direttamente sott’acqua (giugno-luglio 2001), la seconda a secco, dopo aver prosciugato e isolato con paratie metalliche l’intera area di lavoro (agosto-ottobre 2001) (Fig. 7). L’esperienza condotta costituisce un unicum per il panorama italiano ed è un esempio di cui tener conto per le originali soluzioni di indagine adottate e per la decisione di conservare in situ i reperti in attesa di un progetto di recupero che assicuri la migliore riuscita per la conservazione degli scafi.2 Di rilevanza internazionale è lo scavo che dal 1989 Maria Antonietta Fugazzola Delpino ha condotto per molti anni in località La Marmotta, nel lago di Bracciano, dove è venuto alla luce un villaggio neolitico datato tra il 5750 e il 5260 a.C. Esso è il più antico insediamento Neolitico di sponda dell’Europa Occidentale fino ad oggi conosciuto. Il sito, a circa 360 metri dalla riva, ha restituito numerosissime ceramiche varie per forme, dimensioni e tecniche di decorazione. 1 La nave scoperta nel 1986 è stata oggetto di numerose campagne di documentazione e scavo a partire dal 1987. In particolare vedi Dell’Amico (1997), pp. 93-128 e Auriemma (1997), pp. 129-156 con bibliografia precedente. Da segnalare, nel carico, la presenza di una botte contenente frammenti di vetro destinati alla fusione per riutilizzo cfr. Giacobelli (1997), pp. 311-313. Il progetto di recupero dell’arch. Massimo Colocci dell’Università di Tor Vergata, prevedeva di imbracare lo scafo, lungo 16 m e largo 6,00, all’interno di un guscio di legno lamellare. Tuttavia, l’estrema fragilità del legno archeologico ha costretto i tecnici a ripiegare sul metodo tradizionale. Le porzioni dello scafo sono ora in corso di restauro presso il Museo Nazionale dell’Archeologia Subacquea. 2 Il programma di ricerca ha visto il coinvolgimento di vari Enti: Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Soprintendenza Archeologica – nausicaa – che ha esercitato il coordinamento scientifico ed il controllo delle operazioni); Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Magistrato alle AcqueConsorzio Venezia Nuova); Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica (Università Cà Foscari di Venezia-Consorzio Venezia Ricerche). Cfr. D’Agostino, Medas (2001), pp. 3-15; Ambrosini (1998), pp. 43-48.

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Fig. 7. Laguna di Venezia, scavi presso l’antico isolotto sommerso di San Marco in Boccalama. Da ambrosini (1998).

Abbondante è l’industria litica, rappresentata da oggetti di ossidiana, pietra, selce. Innumerevoli gli oggetti di uso comune e suppellettili da cucina. Di importanza fondamentale la scoperta di resti di cereali e leguminose, semi di frutti di specie selvatiche e resti di animali da allevamento e cacciagione che hanno fornito importanti dati sulla dieta e le abitudini di quella comunità. Formidabile è la piroga monossile, lunga circa 10,5 metri e larga 1,08 ora esposta al Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini”, ricavata da un unico tronco di quercia (Fig. 8).1 A partire dalla fine degli anni novanta e precisamente dal 1998, in diverse località italiane si è susseguita una serie di rinvenimenti di relitti interriti, che per numero degli esemplari scoperti e per le metodologie di scavo e di conservazione costituiscono la sfida più importante di questo inizio secolo per chi si occupa di restauro del legno bagnato e una fonte preziosa di conoscenze per gli studiosi di archeologia navale. Per questo, pur non appartenendo, di rigore, a contesti subacquei, questi ritrovamenti meritano di essere ricordati. Durante i lavori per la realizzazione del Parco di Teodorico a Ravenna, a poca distanza dal Mausoleo, nel novembre del 1998 è stato messo in luce un relitto datato agli anni precedenti la metà del v secolo d.C. che costituirebbe, quindi, l’imbarcazione più antica costruita con la tecnica a scheletro portante (Fig. 9). Come 1 Per la storia di questo sito vedi Fugazzola, Mineo (2000), pp. 121-126 con bibliografia precedente. Vedi anche in questo volume Capitolo terzo, p. 96 e Capitolo quinto, pp. 140-141.

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Fig. 8. Museo Pigorini, Roma. Le due piroghe del villaggio della Marmotta entro la teca posta nel salone d’ingresso.

Fig. 9. L’imbarcazione tardo-antica rinvenuta presso il Mausoleo di Teodorico a Ravenna in fase di scavo (Archivio iscr).

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea 63 la nave di Valle Ponti-Comacchio, non si tratta di una nave naufragata, ma abbandonata sul bagnasciuga o spiaggiata (Fig. 10).1 Quasi negli stessi giorni, a Pisa-San Rossore, i lavori di costruzione della nuova stazione ferroviaria hanno portato alla scoperta di un tratto dell’antica rete di canali che costituiva il bacino idrografico proprio dell’agro centuriato della Pisa di età romana. Qui è stato rinvenuto un gran numero di relitti sovrapposti o a poca distanza l’uno dall’altro, più o meno integri, ma tutti in un ottimo stato di conservazione, ed una grande quantità e varietà di materiali archeologici databili, come i relitti, tra la fine dell’Età ellenistica e l’Età tardo-antica2 (Figg. 11-12). La presenza di tante navi di periodi Fig. 10. Il relitto rinvenuto presso diversi ha fatto pensare di essere di Valle Ponti (Comacchio). Da Berti (1986).

Fig. 11. Cantiere delle Navi di Pisa-San Rossore. In primo piano l’imbarcazione denominata Nave F nel guscio di resina (Archivio iscr). 1 Medas (1999), pp. 135-138; Maioli, Medas (2001): 104-135; Dell’Amico (2002): 132 e 158. Lo scafo, originariamente lungo circa 10-11 metri, e largo 2,50 si è conservato per una lunghezza di 6,84 per 1,20 metri. 2 Bruni (a cura di) (2000); Camilli (a cura di) (2002).

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Fig. 12. Cantiere delle Navi di Pisa-San Rossore. La Nave B nel guscio di resina (Archivio iscr).

fronte ad un tratto dell’antico porto pisano. Tuttavia, da osservazioni recenti, sembrerebbe di poter attribuire questo contesto ad un corso d’acqua minore (un ramo del Serchio), che è stato teatro di improvvise alluvioni dell’Arno in conseguenza delle quali si è formata l’impressionante serie di relitti. In particolare, i singoli relitti o insiemi di più relitti, potrebbero rappresentare altrettante fasi alluvionali con conseguenti spostamenti di alveo del corso d’acqua interessato.1 Sempre nel corso di lavori pubblici e precisamente nella costruzione di un tunnel per la viabilità, nei pressi del porto di Olbia, nell’estate del 1999, sono stati rinvenuti otto relitti pertinenti a imbarcazioni della tarda età romana e cinque medievali. Gli scavi, condotti dalla Soprintendenza Archeologica per le province di Sassari e Nuoro, sono proseguiti negli anni successivi ed hanno portato il numero dei relitti individuati a ventiquattro. Alla luce di quanto pubblicato fino ad ora, sembra di poter dire che le otto imbarcazioni di età romana affondarono contemporaneamente nel v secolo in seguito ad un incendio nel corso di eventi bellici, forse legati all’invasione vandalica, dopo essere state private di tutta la suppellettile di bordo. Le navi di età medievale (xiii secolo), invece, furono affondate intenzionalmente ed utilizzate come casseforme per la costruzione del molo. Da segnalare il rinvenimento di due alberi di nave, tre aste da timone in un’area di cantiere attrezzata.2 1 Camilli (2004), pp. 53-76.

2 Riccardi (2000), pp. 1263-1273.

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Fig. 13. Napoli, scavi metropolitana stazione Piazza Municipio. I relitti romani. Giampaola et alii (2005).

A Napoli, negli anni 2003-2004, grazie agli scavi eseguiti per la linea metropolitana, sono venuti alla luce importanti resti archeologici che hanno fornito informazioni più chiare circa l’andamento della linea di costa e l’ubicazione del porto della città antica. Infatti, dai dati preliminari diffusi dalla Soprintendenza Archeologica per le Province di Napoli e Caserta sembra possibile affermare che il porto fosse caratterizzato da una unica ampia insenatura avente per limiti, nella topografia moderna, una linea più interna, con orientamento nw/se, da piazza Municipio a Piazza Bovio, e l’attuale Stazione Marittima. Pare, dunque, superata l’ipotesi di Mario Napoli, derivata dalle argomentazioni di B. Capasso per l’età medievale, circa la presenza di due bacini separati anche in età antica. Nel corso dei lavori sono stati rinvenuti i resti di tre navi per le quali è stato predisposto un attento piano di recupero che prelude alle fasi di lavaggio e desalinizzazione (Fig. 13). I resti di altri due relitti sono stati scoperti più recentemente. Tra i più importanti ritrovamenti di relitti interriti fuori dall’Italia, bisogna menzionare quello di Istanbul presso Yenikapi. Qui, nel contesto dei lavori per la costruzione della stazione della metropolitana, gli scavatori si sono imbattuti nei resti di uno dei porti della città bizantina. Tra reperti di ogni genere e opere in muratura, lo scavo, iniziato nel 2004, mise alla luce un primo relitto nel 2005. Con il progredire dei lavori sono stati scoperti 37 relitti, databili tra il v e l’xi secolo d.C. Non solo navi da trasporto, ma, avvenimento eccezionale, anche intere galee da guerra sono riemerse dal fango di quella che

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è stata interpretata come l’area del Portus Theodosiacus.1 Gli ultimi anni del secolo xx possono essere ricordati per due fra le più sensazionali scoperte di opere di bronzistica antica, quella del Satiro Danzante di Mazara del Vallo e quella dell’Atleta con lo strigile, o Apoxiomenos, che, seppure ritrovato a Lussino in Croazia, è stato restaurato grazie al notevole contributo dei restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Come spesso avviene in questi casi, anche per il Satiro la scoperta è dovuta ai pescatori professionisti: durante una battuta di pesca a largo di Mazara del Vallo, su un fondale di circa 500 Fig. 14. Il Satiro danzante di Mazara del Vallo metri, l’equipaggio del peschereccio (Archivio iscr). “Capitan Ciccio”, si trovò impigliato fra le reti la statua di bronzo denominata “Satiro Danzante”. Si tratta della raffigurazione di un giovane Satiro colto nel momento culminate della danza orgiastica, nell’atto di spiccare un salto puntellandosi sul piede destro2 (Fig. 14). Il ritrovamento ha subito destato l’interesse degli studiosi che hanno formulato le ipotesi più varie sull’attribuzione dell’opera e della sua origine. Alcuni, tra cui Eugenio La Rocca, la ritengono un’eccellente esecuzione del tardo ellenismo, altri, per esempio Antonino Di Vita, la collocano in ambito romano, Bernard Andreae è convinto di trovarsi di fronte ad un originale greco, Paolo Moreno, poi, la attribuisce al genio di Prassitele.3 Non può essere esclusa, tuttavia, l’ipotesi che possa trattarsi di una copia di bronzo tratta da un originale greco-ellenistico che, per le numerose repliche nelle arti minori, dovette godere di grande fortuna fino alla piena età imperiale.4 Nulla sappiamo concretamente della nave che trasportava il Satiro, da dove venisse e dove fosse diretta, né, tanto meno, quando naufragò. È il destino che accomuna molti sensazionali ritrovamenti per i quali non è stato possibile con1 Cfr. Giampaola et alii (2005), pp. 48-91. Per i relitti e lo scavo di Yenikapi vedi: Z. Kiziltan, G. Baran Çelik, Stories From The Hidden Harbor. Shipwrecks of Yenikapi. Published by Istanbul Arkeoloji Müzesi, Istanbul, 2013. 2 La statua è priva di entrambe le braccia e della gamba destra. Il tipo è replicato su sarcofagi, gemme ed oggetti minori databili tra l’inizio dell’età augustea ed il ii secolo d.C. 3 Le varie ipotesi presentate sono discusse diffusamente in Petriaggi (a cura di) (2003) e Petriaggi (a cura di) (2005). 4 Vedi in particolare Petriaggi, Donati (2005): 111-114. Il restauro è stato condotto dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma ora Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Per le notizie relative si rimanda alle opere citate.

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea 67 durre sistematiche ricerche archeologiche. La neonata Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana ha in programma prospezioni strumentali nel canale di Sicilia con l’ottimistico auspicio di poter ritrovare “i compagni del Satiro” e aggiungere quindi le pagine non scritte di questa storia.1 Il bronzo di Lussino, invece, databile al tardo ellenismo, è stato ritrovato nell’isola croata da un turista belga e raffigura un atleta al termine di una gara, intento, come sembra, a detergersi dall’olio con lo strigile (Fig. 15). Il tema iconografico ebbe grande fortuna nell’antichità ed è noto, in questa redazione, da alcune repliche, la più importante delle quali è a Vienna.2 Una delle esigenze più pressanti per la tutela è quella della conoscenza della consistenza del Patrimonio sommerso sia dal punto di vista della georeferenziazione, sia dal punto di vista della quantificazione e del rischio di perdita. All’inizio degli anni novanta, sono stati finanziati con fondi pubblici due progetti dedicati alla catalogazione dei siti sommersi e dei relitti di alcune regioni dell’Italia centro-meridionale. I risultati di quel censimento non ebFig. 15. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, bero, tuttavia, sensibili risvolti positivi gennaio 2007. L’Apoxiomenos di Lussino è esposto dopo il restauro. per l’attività di tutela; uno dei motivi di questo parziale insuccesso fu che gran parte dei dati registrati non contenevano indicazioni sufficientemente chiare, ovvero erano privi di coordinate geografiche. Nel 2004, grazie alla Legge 8 novembre 2002, n. 264 – Disposizioni in materia di interventi per i beni e le attività culturali e lo sport, art. 13 – Censimento dei beni archeologici –, ha avuto inizio un’indagine sistematica sul Patrimonio sommerso di quattro regioni italiane, tra le più rilevanti per la consistenza presunta di beni sommersi. L’iniziativa, denominata “Progetto Archeomar”, è nata con lo scopo di realizzare il censimento dei Beni giacenti nei fondali marini italiani delle re1 Tusa (2005), pp. 23-33.

2 Michelucci (a cura di) (2006).

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gioni Campania, Calabria, Puglia e Basilicata attraverso la direzione tecnico-scientifica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il progetto si è chiuso nel 2011 con le indagini condotte nel Lazio e in Toscana. I siti sommersi, siano essi relitti o beni complessi (porti, infrastrutture costiere, peschiere, insediamenti ecc…) presentano diversi problemi in ordine alla loro conservazione. Non sempre è possibile il recupero e quando questo viene effettuato il processo conservativo è lungo, costoso e non sempre offre garanzie di riuscita e durabilità.1 Quando è possibile, quindi, sarebbe auspicabile conservare e rendere fruibili in situ i beni sommersi, come, del resto, è stato evidenziato dalla raccomandazione dell’unesco del 2001 che suggeriva di valorizzare, proteggere e conservare in situ, ove possibile, il Patrimonio culturale subacqueo.2 Proprio in quest’ottica si inserisce il progetto dell’Istituto Centrale per il Restauro, ora Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (iscr), che, da alcuni anni, contempla la sperimentazione di metodologie, tecniche e strumenti innovativi per il restauro delle strutture antiche sommerse.3 L’impegno per il momento attuale e per il futuro dovrebbe essere quello di fare sì che l’Italia rioccupi il posto che a Essa compete tra i Paesi iniziatori di questa disciplina: la strada passa attraverso la pianificazione degli interventi sul “territorio sommerso”, l’adeguamento degli strumenti legislativi4 e amministrativi, il potenziamento delle risorse umane ed economiche. Nell’attuale contesto Euro-mediterraneo, poi, è indispensabile il coordinamento con gli altri Paesi per ciò che riguarda la tutela dei giacimenti sottomarini nelle alte profondità, la tutela delle acque extra territoriali e la redazione di carte archeologiche che contengano dati anche riguardanti i rischi di perdita dei Beni sommersi.5 Passiamo ora ad un rapido sguardo sull’organizzazione della tutela del patrimonio sommerso e della ricerca archeologica subacquea nei principali Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. 1 Davidde (2004), pp. 137-150 con ampia bibliografia. 2 unesco Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage Parigi 2-11-2001. 3 Per l’attività dell’Istituto nel campo della conservazione in archeologia subacquea cfr. Petriaggi (2002), pp. 74-82; Petriaggi (2004), pp. 273-276; Petriaggi, Mancinelli (2004), pp. 109-126; Petriaggi (2005), pp. 135-147; Petriaggi, Davidde (2005), pp. 161-170 e Petriaggi, Davidde (2008), (2007). Cfr., inoltre, quanto detto nel Capitolo settimo, pp. 251-265. 4 Vedi per esempio il recente Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto legislativo n. 41 del 22 gennaio 2004) emesso ai sensi dell’art. 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002 che nella Sezione ii Ricerche e rinvenimenti fortuiti nella zona contigua al mare territoriale, art. 94, così recita: «Gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della zona di mare estesa alle dodici miglia marine a partire dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio culturale subacqueo” allegate alla Convenzione unesco sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001». 5 Sul tema della cooperazione nel Mediterraneo si è espressa la già citata Convenzione dell’Unesco (art. 6). Inoltre, dal 3 al 5 aprile 2003, a Siracusa, si è svolto il Convegno “La Cooperazione nel Mediterraneo per la Protezione del Patrimonio Culturale Subacqueo” conclusosi con un testo denominato “Convenzione di Siracusa” che costituisce un confortante momento di incontro ed un punto di partenza comune sulla problematica riguardante la tutela e lo studio dei Beni sommersi nel Mediterraneo cfr. Felici (2003): 14-15. Per le attenzioni nei confronti della conservazione dei Beni archeologici sommersi cfr. Petriaggi (2005a), pp. 173-177.

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L’archeologia subacquea nel Mediterraneo Francia In Francia la protezione del Patrimonio culturale subacqueo è regolata dalla legge 874/1989. Questa legge definisce Beni culturali marittimi «I giacimenti, i relitti, resti o, generalmente, ogni bene che rappresenta un interesse preistorico, archeologico o storico… situati nell’ambito del demanio marittimo o nel fondo del mare, nella zona contigua (art. 1)». Dagli anni ottanta ad oggi, l’attività della drasm oggi il drassm1 è rivolta principalmente alla realizzazione della Carta archeologica del patrimonio archeologico sommerso con la catalogazione dei relitti antichi presenti a largo delle coste francesi. Il suo personale è costituito da tecnici ed archeologi subacquei in possesso di un brevetto di immersione professionale, a differenza di molti altri colleghi europei che svolgono la loro attività di ricerca con un brevetto sportivo. Ogni anno nuovi relitti vengono censiti e ci si dedica allo studio sistematico ed eventualmente allo scavo di quelli più interessanti o a rischio di perdita.2 Oltre a questo lavoro, molto impegnativo, il drassm ha rivolto la sua attenzione all’archeologia degli alti fondali. Numerosi i relitti profondi documentati grazie alle avanzate tecnologie messe a disposizione dalla ditta privata Comex e dall’Institut Français de Recherche pour l’Exploitation de la Mer (ifremer). Queste esplorazioni hanno permesso, tra l’altro, di sperimentare metodologie e tecniche di rilevamento e di documentazione grafica e fotografica per mezzo di battelli sottomarini e rov, oltre che le tecniche di recupero dei reperti mediante l’uso di bracci mobili.3 Il drassm, inoltre, conduce ricerche in collaborazione con alcuni Musei statali quali il Museo della Marina a Parigi, quelli di Nizza, Antibes, Cannes, Marseille, Istres, Agde, Port Vendre, Saint-Vaast La Hougue e Nantes, che nelle loro collezioni ospitano, fra l’altro, numerosi reperti di provenienza subacquea e riferibili, comunque, alla marineria antica. All’interno del drassm è attivo un laboratorio di conservazione e restauro dei materiali provenienti dallo scavo subacqueo. I due laboratori di restauro statali più importanti sono l’Arc Antique a Nantes, specializzato nei metalli e negli oggetti mobili e l’Arc Nucléart a Grenoble, noto soprattutto per il restauro del legno bagnato ed in particolare di relitti (ricordiamo fra tutti le navi del porto di Marsiglia, rinvenute interrite nel corso dei lavori in Place Jules Verne). 1 Per l’istituzione della drasm vedi p. 45. Il 4 gennaio 1996 la drasm è stata riorganizzata e ribattezzata Dipartimento per la ricerca archeologica sottomarina e subacquea - drassm. Il suo campo di ricerca è stato esteso anche ai laghi ed ai fiumi, ossia alle acque interne. 2 Per avere un’idea del tipo di ricerche e di documentazione eseguita annualmente si consiglia la consultazione dei Bilan Scientifique du Département des Recherches Archéologiques Sous-Marines edito dal Ministero dell’Educazione nazionale e della Cultura. 3 Long (1998), pp. 341-379.

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capitolo secondo

In Francia esistono, poi, altre istituzioni o centri di ricerca coinvolti nell’esplorazione subacquea. Fra questi ricordiamo il Centre Camille Jullian (cnrs) ed il Centro di Studi Alessandrini con sede ad Alessandria d’Egitto. Il Centre Camille Jullian, con sede ad Aix-en-Provence, si è occupato, tra l’altro, dello studio della nave romana della Madrague de Giens, magistralmente condotto in tutte le sue fasi, dallo scavo, allo studio del carico e della rotta commerciale, allo studio delle tecniche di costruzione navale e alla definizione di un’ipotesi ricostruttiva. In questi ultimi anni il Centro è impegnato in un programma di catalogazione e di esami di tipo dendrocronologico delle specie legnose delle navi antiche naufragate lungo le coste francesi. È in corso anche l’elaborazione e lo studio dei dati tecnologici e di architettura navale delle navi rinvenute a Place Jules Verne (Marsiglia). Nel 2010 presso il drassm è stata istituita un’unità operativa di conservazione preventiva. Essa cura gli interventi conservativi sui reperti recuperati nel corso delle campagne di scavo o a seguito di ritrovamenti fortuiti; gestisce, inoltre, i materiali già presenti nei magazzini e si occupa di fornire agli archeologi le nozioni di base per intervenire prontamente per la conservazione dei reperti nel corso dello scavo. In Francia, come nella maggior parte delle università europee, non esiste un corso di laurea espressamente dedicato all’archeologia subacquea, ma gli insegnamenti pertinenti a questa materia (tecnica dello scavo, architettura navale greco-romana e medievale, storia dei commerci nel mondo antico, ecc…) fanno parte del piano di studi di archeologia greca e romana e medievale delle università di Parigi, Marsiglia, Aix-en-Provence, Arles, Perpignan. Gli studenti francesi, come del resto quelli provenienti da tutto il resto del mondo, hanno ogni anno la possibilità di partecipare, come volontari, alle indagini e agli scavi archeologici subacquei diretti dal drassm, un’ottima occasione per fare esperienza e mettere in pratica gli insegnamenti teorici appresi all’Università. L’attività di ricerca svolta dagli archeologi subacquei francesi è largamente documentata in prestigiosi periodici e collane per i quali si rimanda alla bibliografia. Spagna In Spagna, con la Costituzione del 1978 e poi con successivi interventi legislativi, l’Amministrazione Generale dello Stato e le diciassette Comunità autonome hanno formulato una nuova legislazione per la protezione del patrimonio archeologico spagnolo e quindi, anche del patrimonio archeologico subacqueo. In particolare, la gestione e la tutela del patrimonio archeologico subacqueo sono demandate ai Centri regionali specializzati. Nel 1980 furono istituiti il Museo di Archeologia Marittima e il Centro di Ricerche Archeologiche Sottomarine di Cartagena, entrambi alle dirette dipendenze del Ministero della Cultura, ora ribattezzato Museo Nacional de Arqueoloxía Subacuática (arqua). In seguito, furono creati altri Istituti: nel 1992 il Centro di Archeologia Sottomarina della Catalogna, il Centro Andaluso di Archeologia Sottomarina e, nel 1997, il Centro di Archeologia Sottomarina della Comunità di Valencia.

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea 71 Oltre a questi Istituti specializzati, esistono, presso altri Centri regionali di Archeologia, quali per esempio quello Cantabrico, quello dei Paesi Baschi, della Galizia o delle Baleari, gruppi di lavoro dedicati alla catalogazione dei giacimenti archeologici e al controllo dei lavori pubblici lungo le coste. L’attività del Museo Nacional de Arqueoloxía Subacuática (arqua) di Cartagena si esplica su più campi, dalla formazione professionale, alla tutela, dalla documentazione alla ricerca archeologica, dal restauro alla divulgazione scientifica e per il grande pubblico. Sin dall’inizio della sua istituzione ha organizzato corsi di aggiornamento sul tema dell’archeologia subacquea per archeologi, restauratori, topografi, fotografi e tecnici del settore. Inoltre, dal 1999, in collaborazione con il Politecnico di Cartagena, ha istituito un Master in archeologia marittima. Molte Università spagnole, poi, prevedono l’archeologia subacquea nei loro piani di studio. Anche in Spagna, come negli altri paesi del Mediterraneo, la grande quantità di siti e relitti sommersi mette tra le priorità degli Enti preposti la tutela e la documentazione dei giacimenti archeologici, con la realizzazione di progetti di Cartografia dei Beni sommersi. Tra i Musei dedicati alla Materia ricordiamo il già citato arqua di Cartagena ed il Parco archeologico sommerso dell’antica città focese poi colonia romana di Emporiae, oggi Ampurias, dove è possibile fare snorkeling sulle rovine sommerse del porto. Grecia Dal 1976 il Ministero della Cultura greco prevede nel suo organigramma un Dipartimento per le Antichità Subacquee, denominato “Eforia Enalion Archaiotiton”. Questo ufficio, con sede ad Atene, composto da archeologi e tecnici subacquei, è operativo su tutto il territorio nazionale e si occupa della tutela, della gestione e della conservazione del vasto patrimonio archeologico subacqueo di questo Paese. Il Dipartimento conduce direttamente le ricerche archeologiche subacquee e ne pubblica i risultati. Nel corso della sua attività si avvale della collaborazione degli altri Uffici del Ministero preposti al Patrimonio Culturale e del Ministero della Marina Commerciale, della Direzione Generale della Polizia Portuale e della Marina Militare. Esiste, poi, l’Hellenic Institute of Marine Archaeology, un Istituto di ricerca non a fini di lucro, istituito nel 1973, che annovera fra i suoi membri, tutti volontari, archeologi e tecnici subacquei, e che, sotto la supervisione del Dipartimento, effettua scavi e ricerche subacquee. L’Istituto pubblica, inoltre, due riviste scientifiche importanti: Enalia e Enalia Annual (in lingua inglese). Infine, non dobbiamo dimenticare l’Hellenic Institute for Preservation of Nautical Tradition, nato nel 1981, impegnato in progetti sperimentali di architettura navale, quali quello della costruzione di Kyrenia ii. Esso organizza, ogni due anni, il noto Simposio internazionale sulla costruzione Navale nell’antichità (tropis). Fra i Musei dedicati all’archeologia subacquea ricordiamo l’Aegean Maritime Museum (privato) di Mykonos e il Piraeus Hellenic Maritime Museum.

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capitolo secondo Croazia

In Croazia è attivo l’Underwater Archaeology Department-Management of Cultural and Natural Heritage, (Ministero della Cultura) con sede a Zagabria impegnato nello studio topografico degli antichi siti costieri e di relitti.1 Inoltre, a Zara è stato attivato, di recente, il Centro per l’Archeologia Marina con finalità di ricerca archeologica subacquea e di restauro dei reperti.2 Israele Nel 1989 è stata istituita la Israel Antiquities Authority, un organismo statale preposto al controllo e al coordinamento delle Antichità, incluse quelle subacquee. Al suo interno agisce il Marine Archaeology Branch, un ufficio che si occupa della ricerca e della tutela in questo settore. La sua attività e le sue competenze sul territorio sono analoghe a quella delle nostre Soprintendenze archeologiche. Tra i numerosi studi e ricerche, si ricorda il recupero e il restauro dell’antica barca del lago di Galilea e l’impegno nella cartografia dei siti archeologici sommersi che, come si può notare, costituisce una delle priorità più sentite dagli organismi di tutela delle diverse Nazioni. Nell’ambito Universitario è importante ricordare il Leon Recanati Institute for Maritime Studies, con sede ad Haifa, istituito nel 1972. I corsi di formazione che questo Istituto offre abbracciano diverse discipline umanistiche e scientifiche, rivolte all’approfondimento degli aspetti delle attività umane legate al mare. Molto intensa l’attività di divulgazione scientifica attraverso pubblicazioni e cicli di conferenze. Ai ricercatori del Centro sono dovuti alcuni dei ritrovamenti archeologici più interessanti degli ultimi decenni che è possibile ammirare in mostra permanente presso il National Maritime Museum in Haifa, come il rostro di bronzo di Atlith, e i reperti del relitto di Ma’agan Micael, esposti nel Museo Hecht, nel Campus dell’Università. Il Centro è coinvolto, inoltre, in numerosi progetti di ricerca, tra i quali risaltano quelli degli scavi di Caesarea Maritima e lo scavo, il restauro e la musealizzazione del relitto di Ma’agan Micael. Turchia La ricerca archeologica subacquea in Turchia deve, senz’altro, la sua nascita ed il suo sviluppo all’attività di George F. Bass e dell’American Institute of Nautical Archaeology e alla lungimiranza del Ministero della Cultura turco che ha favorito le missioni straniere nel Paese fin dal 1960. Un atteggiamento che ha permesso ai giovani archeologi turchi di formarsi sotto la guida di studiosi di alto livello scientifico in possesso, oltre tutto, di notevoli risorse economiche. 1 Cfr. per esempio Glušcˇevic´ (2004), pp. 41-52; Fouache et alii (2005), pp. 115-134. 2 Per l’attività del Ministero della Cultura croato in questo settore cfr. Mesic´ (2008), pp. 233-245.

gli sviluppi recenti dell ’archeologia subacquea 73 Questa opportunità ha consentito loro di essere in grado, nel giro di pochi anni, di dirigere con capacità e con successo scavi e ricerche nel proprio paese, come ha dimostrato la vicenda dello scavo del relitto del xiv sec. a.C., individuato da un pescatore nel 1982 a largo di Ulu Burun. Qui le campagne di scavo del 1982 e del 1984 sono state dirette da George F. Bass, mentre, nei dieci anni successivi, ha diretto i lavori Cemal Pulak, un archeologo di origini turche formatosi nell’équipe di Bass.1 La legge di tutela turca, come del resto in Italia prevedeva la vecchia legge 1089/39, assicura la salvaguardia di tutto il patrimonio archeologico nazionale, senza distinzione esplicita tra terrestre e subacqueo. Nel 1983 fu aggiunto, tuttavia, uno specifico paragrafo che individuava zone di particolare interesse archeologico, nelle quali si proibiva l’immersione senza un permesso governativo. Dal 1989 questa Mappa di interdizione è stata resa pubblica. L’organismo responsabile dell’archeologia subacquea in Turchia è il Museo Nazionale di archeologia subacquea di Bodrum (istituito nel 1963), che, oltre a laboratori di restauro e ambienti per la didattica, custodisce il carico e gli scafi del relitto bizantino di Yassi Ada e di quello di Serçe Limani, oltre ad altri reperti provenienti da vari siti sommersi. All’Università di Istambul, poi, esiste il Dipartimento di Archeologia subacquea impegnato nelle ricerche nel mare di Marmara. Egitto Grazie alla collaborazione con Istituti e Missioni di ricerca stranieri, in Egitto si registra una discreta attività soprattutto ad Alessandria e nelle zone limitrofe. Qui Franck Goddio dirige da circa un decennio campagne di ricerca subacquee nel sito del Portus magnus e del faro. Spettacolari sono i ritrovamenti di statue gigantesche ed elementi architettonici disseminati sul fondale. Ad oggi sono stati recuperati circa 500 reperti che sono stati esposti al pubblico a Berlino ed a Parigi con notevole successo. È possibile fare immersioni nei siti archeologici grazie ai diving locali che accompagnano i turisti su un relitto greco e sui resti del cosiddetto Palazzo di Cleopatra. È prevista la realizzazione di percorsi subacquei con tunnel sommersi, collegati con il costituendo Museo del Mare e la nuova Biblioteca di Alessandria.2 Dal 1996 è attivo il Department of Undewater Archaeology (dua), con sede ad Alessandria, sotto la direzione dell’Egyptology Sector of the Supreme Council for Antiquities, che è un organismo del Ministero della Cultura. Il dua ha il compito di tutelare il Patrimonio Sommerso egiziano sia presente nel Mediterraneo, sia nel Mar Rosso e anche nel Nilo e nei suoi affluenti, così come nei cinque laghi presenti nel Paese.

1 La nave trasportava un carico di lingotti di rame e stagno, vasellame, armi siriane e articoli di pregio. Pulak (1994), pp. 8-16. 2 Amin, Salomé pp. 61-66.

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capitolo secondo Paesi del Magreb

Per quanto riguarda i paesi del Magreb, l’organizzazione della ricerca subacquea è solo agli inizi. Difficoltà di ordine economico ed organizzativo non hanno finora permesso a questi Stati di esprimere al meglio le loro possibilità. La cooperazione e la partecipazione a progetti attivati da missioni straniere, nord europee e americane soprattutto, oltre alla partecipazione in partnerariato a progetti attivati dalla Comunità Europea, sta permettendo agli archeologi nord-africani di compiere veloci progressi nel superamento del divario tecnologico ed organizzativo.

capitolo terzo LA FORMAZIONE E LE CARATTERISTICHE DEI SITI SOMMERSI Gli ambienti sommersi*

L’

ambiente è «l’insieme delle condizioni fisico-chimiche (quali la temperatura, l’illuminazione, la presenza di sali nell’acqua e nel terreno, i movimenti eventuali del mezzo) e biologiche (presenza di altri organismi), che permettono e favoriscono la vita degli esseri viventi… Ogni organismo è adatto a vivere in un determinato ambiente pur presentando una maggiore o minore adattabilità alle variazioni delle condizioni ambientali…».1 Come gli esseri viventi, anche i manufatti che si trovano in un determinato contesto ne subiscono inevitabilmente l’influenza e soggiacciono alle peculiari regole o alle leggi che lo caratterizzano. La presenza di determinati parametri, come vedremo, condiziona la vita e la proliferazione degli organismi biodeteriogeni che possono ricoprire e degradare i manufatti sommersi. Questi stessi parametri, in particolari circostanze, possono condizionare anche l’attività di ricerca.2 * Si ringrazia Maria Cristina Bruno per avere pazientemente riletto i paragrafi sull’ecosistema acquatico e per le sue preziose osservazioni. 1 Dizionario Enciclopedico Treccani s.v. ambiente. 2 La temperatura dell’acqua, per esempio, condiziona la permanenza del subacqueo in immersione. L’uso della muta stagna risolve in parte il problema dell’insorgere dell’ipotermia nelle immersioni in acque fredde. Bisogna considerare, però, che l’operatore impegnato in lavori che implicano scarso movimento, quali il rilievo o la documentazione fotografica, risentirà maggiormente delle basse temperature. Per tutti, una volta usciti dall’acqua, sarà necessario poter disporre di un ambiente confortevole dove asciugarsi e rivestirsi in fretta. Queste precauzioni sono da tenere presenti soprattutto nel caso di un cantiere che prevede, evidentemente, un lavoro protratto a lungo nel tempo. Malesseri da raffreddamento quali raffreddori o mal d’orecchio, o, ancor peggio l’insorgere di disturbi cronici, per esempio le sinusiti, potrebbero incidere negativamente sul programma di lavoro. Il valore della salinità condiziona, anche se lievemente, la galleggiabilità del subacqueo che dovrà aumentare o diminuire i piombi da utilizzare in immersione. La pressione a livello del mare è pari a 1 atmosfera (atm) ed aumenta di 1 atm ogni 10 metri di profondità. L’elevata profondità di un sito archeologico implica, inevitabilmente, un maggiore impegno fisico da parte dei subacquei e quindi una programmazione più articolata e più attenta dei tempi di immersione e delle tappe di decompressione. La trasparenza dell’acqua influenza il lavoro del subacqueo (sia il lavoro di prospezione che quello di scavo e documentazione e impone l’utilizzo di strumenti adeguati; per esempio, soprattutto la documentazione fotografica e quella video risentono degli effetti negativi dovuti alla presenza nell’acqua di particelle in sospensione che riflettono il lampo del flash). Il moto ondoso rende difficoltoso il lavoro di chi presta assistenza sulla barca e quello del subacqueo, soprattutto quando si opera a basse profondità. Per resistere al trascinamento dell’onda il subacqueo potrà piombarsi più del solito. Si consiglia di rinforzare sempre gli ormeggi delle imbarcazioni in appoggio. La corrente influisce molto sul lavoro e sulla resistenza del subacqueo. Nel corso di prospezioni di vasti tratti di fondale, per non stancare eccessivamente gli operatori, si possono utilizzare gli scooter subacquei, si possono organizzare le prospezioni seguendo la corrente, seguiti a distanza dalla barca appoggio che recupera gli operatori e li riporta a monte. Nel caso di lavoro nei fiumi, si può

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capitolo terzo

Fig. 1. Una grotta affacciata sul mare (© Jenny Rollo).

La classificazione ambientale dei siti sommersi può essere così ripartita: Ambiente ipogeo Interessano la nostra ricerca i siti ipogei, che possono essere distinti in naturali e artificiali. Tra i primi possono essere annoverate le grotte, ora allagate o sommerse, frequentate, in genere, da comunità preistoriche,1 dove restano notevoli testimonianze dell’attività umana. Tra i secondi, ricordiamo i condotti fognari, i cunicoli, le miniere, i pozzi, le cisterne, ecc… L’esplorazione di questi siti implica una buona preparazione in campo speleologico (Fig. 1). La scarsa visibilità, gli ambienti angusti, l’eventuale inquinamento e la facilità con la quale il sedimento del fondo in brevissimo tempo può rendere nullo il camlavorare ancorati a pesi posizionati strategicamente. Le maree condizionano in modo notevole le immersioni nelle zone dove questi fenomeni si presentano in modo costante (per es. in ambiente lagunare, alla foce dei fiumi, negli stretti). Inoltre, i moti di marea possono generare correnti che sono di grande potenza quando si muovono in canali o stretti, formando anche vortici e gorghi, vedi per es. lo stretto di Messina. In questi casi è indispensabile programmare le immersioni consultando le Tavole di marea e richiedendo l’assistenza di specialisti (sommozzatori dei Vigili del fuoco, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, delle Capitanerie). 1 Ricordiamo, per esempio, la grotta Cosquer con le sue numerose pitture e incisioni murali del Paleolitico Superiore, individuata nel corso dell’esplorazione del sifone ai piedi della falesia denominata “de la Voile” del Cap Morgiuou (Cassis - Marseille - Francia) alla profondità di 37 metri, cfr. Collina-Girard (1998), pp. 167-182.

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Fig. 2. Il lago di Posta Fibreno (Frosinone).

po visivo, fanno dei siti ipogei un ambito di lavoro riservato ai più esperti, anche se di estremo interesse per le possibilità di rinvenire una abbondante messe di dati. Lago I laghi si possono distinguere in base al tipo di acqua in laghi d’acqua dolce, salmastra e salata. I laghi generalmente ricevono acqua dai corsi d’acqua tributari, dalla piovosità diretta o indiretta (portata per percolamento da tutto il bacino imbrifero) e da sorgenti subacquee e la cedono al mare attraverso gli emissari. I laghi privi di emissario, o laghi chiusi, non hanno invece collegamento con il mare: l’acqua che vi giunge è bilanciata dall’evaporazione e la salinità è conseguente alla sua concentrazione. La loro classificazione può essere fatta anche in base alla genesi della loro conca e possono essere naturali, tettonici, glaciali o artificiali. Esaminiamo di seguito i parametri che possono avere una qualche influenza sul nostro lavoro o sui materiali presenti in questi contesti (Fig. 2). La concentrazione salina o salinità. Per i laghi di acqua dolce la salinità è quasi sempre inferiore al 3%. Bisogna sottolineare poi che la composizione dei sali presenti nell’acqua di lago prevede una quantità maggiore di carbonati piuttosto che di cloruri, tipici dell’acqua di mare. Il contenuto di sali delle acque di un lago dipende da diversi fattori: i principali sono la natura del substrato roccioso del bacino di alimentazione del lago stesso, il tasso di ricambio delle acque e il tasso di evaporazione.

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capitolo terzo

Il contenuto di ossigeno. L’ossigeno disciolto nell’acqua dei laghi proviene non solo dal contatto con l’atmosfera (che è in realtà una quantità irrilevante, poiché la velocità con cui le molecole di ossigeno passano dall’aria all’acqua e la velocità con cui queste si diffondono nella massa idrica è estremamente bassa, tranne quando sono presenti moto ondoso e venti, che generano turbolenze rimescolando fra loro gli strati superficiali con quelli sottostanti), ma è anche prodotto in situ e dai processi di fotosintesi espletati dai vegetali che vivono nell’acqua (alghe e macrofite ma soprattutto fitoplancton, ossia alghe unicellulari che vivono sospese nella colonna d’acqua fino alla profondità corrispondente al limite massimo di penetrazione della luce). Quando l’ossigeno è in eccesso rispetto al valore di saturazione si libera e si trasferisce nell’atmosfera. Parte dell’ossigeno viene consumato in situ dai processi respiratori degli organismi acquatici e dai processi di demolizione e ossidazione delle spoglie animali e vegetali che avvengono sul fondo. L’ecosistema lacustre è molto sensibile all’inquinamento. I fertilizzanti dilavati dai terreni agricoli possono innescare il processo di eutrofizzazione, ossia di crescita anomala della flora acquatica, soprattutto la componente microscopica (fitoplancton). La quantità di alghe e di piante acquatiche che si sviluppa deturpa il paesaggio, ma soprattutto, quando si decompone, produce odori sgradevoli, consuma l’ossigeno disciolto nell’acqua e rende asfittici gli strati più profondi del lago. Sul fondale si accumulano sedimenti di varia natura e nelle acque avvengono reazioni chimiche che mutano l’equilibrio e la composizione dell’ecosistema (quando le acque sono molto calcaree si ha, ad esempio, la precipitazione di carbonato di calcio). Il processo di eutrofizzazione può provocare danni ai manufatti di natura organica, velocizzando il processo di deterioramento. La densità. La densità dell’acque lacustri varia a seconda della temperatura e dell’afflusso di acque dall’immissario. A 4 °C si ha la massima densità dell’acqua; al di sotto e al di sopra di questo valore, l’acqua è meno densa, quindi più leggera. Una temperatura media intorno ai 4 °C si riscontra nei laghi delle zone temperate alla fine della stagione invernale. La temperatura. I valori della temperatura variano in base alla posizione geografica, alle condizioni ambientali, alla temperatura esterna dell’aria, alla temperatura delle acque immesse. In definitiva, le caratteristiche termiche delle acque lacustri dipendono dal bilancio calorico del lago, vale a dire dalla quantità di radiazione solare in arrivo e di quella riflessa, dallo scambio energetico ad onda lunga, dal calore sensibile e da quello di evaporazione, dall’energia calorica immessa dalla pioggia e dai tributari e da quella asportata dall’emissario. Il profilo termico dei laghi temperati (ossia la temperatura misurata dalla superficie al fondo) varia nei diversi momenti dell’anno. In inverno nei laghi situati ad altitudini elevate o ad alta quota (Nord Italia, laghi alpini e appenninici) la densità dell’acqua diminuisce per raffreddamento, e si

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crea una instabile stratificazione termica inversa, con uno strato superficiale più freddo sopra uno strato più profondo di acqua a 4 °C. Il ghiaccio, quando arriva a formarsi, copre la superficie del lago poiché la sua densità a 0 °C è molto minore di quella dell’acqua. Nei laghi ad altitudini/latitudini minori (es: laghi vulcanici laziali) nei periodi invernali la colonna d’acqua ha la stessa temperatura dal fondo alla superficie con una temperatura al fondo dell’ordine di 8 °C. Con il sopraggiungere della primavera la radiazione solare determina un innalzamento della temperatura superficiale, la barriera termica scompare e l’azione del vento può facilmente provocare un rimescolamento delle acque più superficiali, a contatto con l’atmosfera e quindi contenenti abbondante ossigeno disciolto, con quelle sottostanti. Questa circolazione primaverile ricarica di ossigeno l’intera colonna d’acqua. Il rimescolamento completo avviene solo se durante il periodo di isotermia sopraggiunge un vento forte e persistente, ma può accadere che questo venga a mancare ed in tal caso il rimescolamento non avviene, o avviene parzialmente. Con il progredire della stagione estiva il riscaldamento si fa sempre più evidente finché in estate i laghi diventano stratificati, con lo strato superiore più caldo (‘epilimnio’) che galleggia su quello più freddo (“ipolimnio”), con uno strato di transizione intermedio (‘metalimnio’), per cui l’azione di rimescolamento del vento si limita allo strato superficiale, senza interessare il corpo d’acqua sottostante. In autunno l’acqua superficiale si raffredda, diventa più densa e scende verso il fondo. Con essa si abbassa anche il metalimnio, sempre più sottile. Come già in primavera, per azione del vento il rimescolamento delle acque si intensifica ed esita, infine, in una circolazione completa (circolazione autunnale) al termine della quale il corpo d’acqua si trova a circa 4 °C con l’ossigeno disciolto uniformemente distribuito. La trasparenza. Le acque lacustri sono generalmente ricche di sospensioni inorganiche costituite dai sedimenti provenienti dal fondale e da quelli trasportati dall’immissario o dalle piogge. Sono presenti, poi, sospensioni di origine organica dovute alla crescita stagionale del fitoplancton e delle alghe. La trasparenza può essere, quindi, molto ridotta. Anche le condizioni meteorologiche influiscono sulla trasparenza dell’acqua. Le piogge, per esempio, favoriscono la scarsa visibilità. Nel corso delle stagioni in cui la temperatura dell’acqua è più fredda si osserva un generale miglioramento della trasparenza dell’acqua. Il moto ondoso. Sebbene meno frequente e generalmente meno importante rispetto al mare, questo movimento delle acque trae la sua origine dagli agenti meteorologici. Per i danni ai manufatti subacquei vedi quanto scritto sul moto ondoso marino. Le correnti. Anche nei laghi sono presenti movimenti di deriva e di compensazione, che si formano a diverse profondità, per la differenza di temperatura e per vari fattori meteorologici.

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capitolo terzo

La marea. Come nei mari, anche nei laghi esiste il fenomeno dell’innalzamento e dell’abbassamento periodico del livello delle acque, seppure di minore entità. Questo fenomeno è sovrapposto a quello detto delle sesse, che sono invece determinate dalla variazione della pressione atmosferica. Anche le coste lacustri possono subire modificazioni a causa delle maree, con conseguenze sulla conservazione delle presenze archeologiche. I fondali. I fondali dei laghi sono formati per lo più da argilla o da sedimenti molto fini con presenza di materiali organici. Soprattutto nei bassi fondali, o nei pressi dell’emissario, si riscontrano, poi, ciottoli, massi e sedimenti sabbiosi. Lo stato di conservazione dei manufatti di natura organica ed inorganica, soprattutto se completamente coperti dal sedimento, è discreto. In acqua dolce, inoltre, non esistono le teredini (vedi oltre) e quindi il legno non subisce quel tipo ulteriore di degrado. Fiume Si definisce fiume un corso d’acqua continuo, con portate più o meno costanti, con un fondale a pendenza dolce. Esso nasce generalmente in aree montuose e defluisce, quindi, verso quote più basse. La maggioranza dei fiumi sfocia nel mare o in un lago, ma ve ne sono alcuni in aree carsiche che vengono inghiottiti dal terreno, continuando a scorrere come fiumi sotterranei, o che evaporano prima di raggiungere la foce. Naturalmente il corso del fiume e la qualità delle sue acque sono condizionati dalla morfologia del territorio e dal suo grado di antropizzazione e di industrializzazione1 (Fig. 3). La salinità. Come per i laghi, la salinità è generalmente inferiore al 3%. La temperatura. Pressoché costante; leggermente inferiore sul fondo. Il suo valore dipende dall’ambiente circostante, come si è detto per i laghi, e in generale si crea un gradiente di aumento della temperatura procedendo dalla sorgente alla foce. La trasparenza. Il valore della trasparenza delle acque dipende primariamente dai sedimenti trasportati (soprattutto quelli fini quali limo e argilla), secondariamente dal tasso di inquinamento e dalle condizioni meteorologiche (la pioggia diminuisce la trasparenza dell’acqua). 1 La foce di un fiume, sia essa a delta o ad estuario, rappresenta, poi, un ambiente a sé stante rispetto a quello del suo stesso corso. L’incontro dell’acqua dolce con l’acqua di mare, gli scontri fra le correnti ecc. fanno variare alcuni parametri ambientali quali, per esempio, la salinità, che comunque ha un valore sempre inferiore a quella del mare aperto, la granulometria dei sedimenti e la trasparenza dell’acqua.

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Fig. 3. Il fiume Astura verso la foce.

I fondali. La qualità e la quantità dei sedimenti trasportati dai fiumi variano durante il loro percorso in ragione delle caratteristiche del fondo. Ghiaia, sabbia, limo, argilla, detriti di ogni genere, organici ed inorganici, sedimenti organici, sono fattori variamente caratterizzanti i fondali dei fiumi. L’azione modellatrice dei fiumi presenta tre caratteristiche diverse: nei pressi della sorgente le acque erodono la roccia, nel tratto mediano del fiume trasportano i sedimenti erosi a monte, e infine, vicino alla foce, depositano i sedimenti. L’attività di erosione si può rivelare particolarmente dannosa per i manufatti presenti in alveo, quali i resti delle fondazioni di antichi ponti, banchine o acquedotti, palificate. Per altri tipi di manufatti mobili di natura organica o inorganica che possono trovarsi sui fondali fluviali, vale quanto detto per i laghi. Il rotolamento ed il trasporto di un reperto inorganico (per esempio di un frammento di ceramica) ad opera della corrente del fiume, fluitazione, può fornirgli un aspetto levigato, con le superfici di frattura smussate e arrotondate. Palude Si definisce palude una zona priva di alberi, che si presenta sommersa o semi-sommersa dall’acqua, dove la falda freatica è presente in prossimità del terreno. La vegetazione in questi contesti è costituita da erbe, canne e falaschi e da tutte quelle piante che sviluppano il loro apparato radicale nel suolo coperto o saturo d’acqua, ed il loro apparato fogliare al di sopra dell’acqua.

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capitolo terzo Naturalmente le paludi possono svilupparsi lungo le sponde dei laghi e dei fiumi (paludi d’acqua dolce) (Fig. 4), oppure nelle pianure costiere di marea o sulle sponde dei laghi salati (paludi d’acqua salata) (Fig. 5). La palude rappresenta una fase dell’evoluzione dei laghi, per i quali esiste una successione lago-stagnopalude-torbiera che porta all’interramento del lago stesso. Torbiera

Fig. 4. Paesaggio palustre di acqua dolce.

La torbiera ha origine in quelle zone dove stagnano le acque di precipitazione e di drenaggio. Qui si accumula la torba, un materiale derivato dalla parziale decomposizione di piante acquatiche o tipiche dei contesti umidi. Essa determina un ambiente anaerobico con varia-

Fig. 5. La Camargue (Francia), particolare del paesaggio lagunare di acqua salata. Foto Antonello Gorgoretti.

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Fig. 6. Una torbiera.

bili livelli di acidità. Di aspetto spugnoso e di colore bruno, la torbiera è un ecosistema ideale per la conservazione dei reperti organici. In passato era frequente l’uso di raccogliere la torba per utilizzarla come materiale da combustione. Tale pratica ha consentito, tra l’altro, la scoperta di numerosi siti e reperti di età preistorica1 (Fig. 6). Ambiente lagunare Le lagune sono vaste zone anfibie separate dal mare da cordoni litorali, a volte interrotti da bocche di accesso; nelle lagune sono molto spesso presenti formazioni insulari. Qui la circolazione delle acque è lenta e la profondità è molto ridotta. Il livello di salinità dell’acqua varia a seconda del valore di salinità del mare e dell’apporto di acqua dolce fornito dai fiumi che vi sfociano. La laguna di Venezia, costituisce l’esempio di sito archeologico lagunare più importante d’Italia (Fig. 7). Da diversi anni la Soprintendenza Archeologica del Veneto è impegnata nel progetto della Carta Archeologica Lagunare per la localizzazione e lo studio delle presenze antiche, anche al fine di redigere una Carta del Rischio.2 1 Si ricorda la torbiera dei Lagoni di Mercurago, in Piemonte, dove, intorno alla metà dell’ottocento, furono recuperati importanti manufatti dell’età del bronzo, realizzati in materiale organico, e fu scoperta la prima palafitta italiana. Cfr. pagine seguenti. 2 Fozzati, Arenoso Callipo, D’Agostino (1998), pp. 183-216.

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capitolo terzo

Fig. 7. La carta della Laguna di Venezia. (Da Atlante e Repertorio Geografico, Tav. 21, Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma, 1973)

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Ambiente marino L’ambiente marino, per la sua complessità ed estensione, e in ragione delle peculiarità di diversi habitat è suddiviso in: regione costiera,1 regione pelagica,2 regione bentonica3 e regione abissale.4 Il complesso delle acque marine occupa i 7/10 dell’intera superficie terrestre. Le caratteristiche peculiari dell’ecosistema marino che maggiormente condizionano la conservazione dei manufatti, e quindi anche la ricerca archeologia subacquea, sono: La concentrazione salina o salinità. Essa definisce il contenuto di grammi di sale disciolto in un chilogrammo di acqua marina;5 la salinità varia molto nei diversi mari: negli oceani è circa del 35-36%, nel Mediterraneo europeo oscilla dal 37 al 40%; nei mari italiani la salinità è intorno al 37/38% con valori intorno al 33% nel mare Adriatico; scarsissimi di sali sono l’Oceano glaciale artico (17.6%) e il Baltico (7,4%), mentre i valori più elevati di salinità sono presenti nel Mar Rosso (45-46%). Spesso la salinità condiziona la vita degli animali; per esempio le teredini (Teredinidae - Teredo Navalis), molluschi bivalvi che, scavando gallerie, provocano il degrado dei manufatti lignei, prediligono un ambiente con almeno il 12% di salinità e vivono fino alla profondità massima di 200 metri. Il valore del pH. Esso è dato dal rapporto tra la concentrazione di ioni idrogeno e ioni ossidrili. Il pH è neutro nell’acqua pura mentre, per la concentrazione dei sali presenti in soluzione, nell’acqua di mare il pH è alcalino, ossia basico, con valori leggermente superiori a 7. Il contenuto di ossigeno. La percentuale di ossigeno disciolto in acqua marina ha una grande influenza sui fenomeni di corrosione dei metalli ed, in genere, sui manufatti organici sommersi. La sua origine, similmente a quanto illustrato per i laghi è fisica (dissoluzione dell’ossigeno atmosferico) e biotica (fotosintesi operata dal fitoplancton). La solubilità dell’ossigeno nell’acqua varia a seconda della temperatura, delle condizioni di stagnazione o di corrente e, fattore di estrema rilevanza, dell’inquinamento. La presenza delle praterie di Posidonia sui fondali marini, indicatrice della qualità delle acque, genera l’aumento dell’ossigeno disciolto, diminuisce il movi1 Zona in parte emersa, in parte sommersa, nella quale agiscono il moto ondoso e le maree. 2 Zona di mare aperto, che ha limiti non precisamente determinabili né in senso orizzontale né in senso verticale. Comunemente, sul piano orizzontale si considera limitata dal margine esterno della zona litorale, e, sul piano verticale, dal livello della sottostante zona abissale (500-1000 metri di profondità). 3 Dal greco bénthos ‘profondità’. 4 Dalla profondità di 500 metri, dove i fondali melmosi sono principalmente di origine planctogena, le acque sono assolutamente calme, non esiste illuminazione solare né la vegetazione autotrofa. 5 I sali disciolti in acqua marina, oltre a piccole quantità di bromuri, cloruri, carbonati e solfati di sodio, potassio, calcio, e magnesio, sono costituiti per ¾ da cloruro di sodio.

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Fig. 8. Un tipico fondale del Mediterraneo a largo di Al-Homs (Libia).

mento dell’acqua sul fondo favorendo la diminuzione dell’erosione delle coste e forma una protezione meccanica naturale per gli eventuali siti sommersi (Fig. 8). La temperatura. La temperatura dell’acqua del mare varia a seconda dei fattori stagionali, della latitudine e della profondità. Infatti le variazioni più rilevanti interessano gli strati superficiali, mentre al di sotto dei 100 metri non si riscontrano differenze di rilievo. Negli abissi la temperatura si aggira intorno agli 0°. Valori alti della temperatura dell’acqua favoriscono la vita degli organismi che possono ricoprire o degradare un manufatto sommerso (biodeteriogeni). La densità. Nelle acque marine essa dipende direttamente dalla temperatura e dalla salinità e, come queste ultime, varia stagionalmente anche a seconda della variazione di afflusso di acque dolci dalla costa. La trasparenza. La quantità di organismi planctonici e la presenza o all’assenza in sospensione di particelle di natura organica ed inorganica possono ostacolare la penetrazione dei raggi solari. Questi penetrano nell’acqua in modo direttamente proporzionale al valore di trasparenza e il loro potere di penetrazione è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda delle radiazioni. Per esempio, le radiazioni rosse e gialle dello spettro solare sono le prime ad estinguersi del tutto intorno ai 150-200 metri. Ne deriva che la vegetazione autotrofa si arresta a questa profondità e solo fino a queste batimetrie, dunque, è possibile trovare animali che si nutrono di alghe.

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Il moto ondoso. Si tratta del movimento delle particelle d’acqua provocate dai venti. Esso è trasmesso fino ad una profondità pari alla metà della lunghezza dell’onda.1 L’azione del moto ondoso si può percepire fino ad alta profondità, ma la sua potenza riesce a spostare materiali leggeri come la sabbia non oltre i 50 metri. L’influenza negativa del moto ondoso sui siti sommersi è particolarmente rilevante nei siti che si trovano su fondali poco profondi. Il carico e le strutture di un relitto appena scavato a scarsa profondità, possono venire completamente sconvolti e cancellati da una improvvisa mareggiata. Può anche accadere il fenomeno inverso, ossia, il moto ondoso può spostare il sedimento del fondale marino e esporre, inaspettatamente, un relitto con il suo carico. Le correnti marine. Sono costituite da spostamenti permanenti di una massa liquida, in una data direzione, dovuti all’azione del vento o alla differenza di temperatura, di salinità, di livello tra masse d’acqua contigue. La marea. Il moto di marea è generato dal periodico innalzamento e abbassamento del livello dei mari e degli oceani, a causa dell’attrazione gravitazionale della Luna e del Sole sulle masse d’acqua. Solitamente le maree hanno una frequenza legata al passaggio della Luna, quindi di circa 12 ore. Anche la marea può causare modificazioni costiere, gli effetti dipendono dall’inclinazione della costa e dal tipo di substrato. I fondali. In generale, un fondale marino può essere costituito da sabbie più o meno fini, da fanghi o da rocce di varia natura e da sedimenti di natura organica. Ognuno di questi ambienti favorisce l’insediamento di particolari organismi ed ospita diverse comunità animali e vegetali in relazione anche ad altri fattori di condizionamento (la luce, la profondità ecc…). Per quanto riguarda i siti archeologici sommersi, possiamo dire che, generalmente, la presenza di un fondale sabbioso o fangoso facilita la conservazione di manufatti di natura organica ed inorganica, soprattutto se il sedimento li ingloba o li ricopre completamente, così da creare un ambiente anaerobico, anossico, cioè il tipo di ambiente più favorevole al mantenimento dello status della materia. Il fondale roccioso, invece, dove il sedimento è quasi assente e, se presente, è fluttuante a causa del moto ondoso, favorisce la distruzione dei manufatti; quelli di origine organica, infatti, rimangono scoperti e tendono a decomporsi nell’acqua e quelli di origine inorganica, seppure più resistenti, subiscono un primo danneggiamento al momento dell’impatto, precipitando con violenza, quindi ulteriori danni per l’azione meccanica del moto ondoso e delle correnti e per i fenomeni chimici indotti dall’ambiente. Tuttavia, questa categoria di materiali 1 La lunghezza d’onda è pari alla distanza fra due creste d’onda successive o due cavi d’onda successivi.

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può essere soggetta ad un fenomeno che ne determina la protezione e quindi la conservazione. Infatti, attraverso i processi di trasformazione chimica sopra detti, a cui concorrono anche gli organismi viventi presenti nell’ambiente, su di essi si formano strati sovrapposti di concrezioni, per lo più carbonatiche, che lentamente li ricoprono. Molto spesso, soprattutto nel caso dei reperti ferrosi, queste concrezioni inglobano, in un corpo unico, sassi ed altri materiali presenti nei pressi del manufatto, rendendolo quasi irriconoscibile. I siti archeologici sommersi In linea generale, la presenza di manufatti elaborati dall’uomo in epoche anteriori alla nostra definisce un sito di interesse archeologico. Per quanto riguarda i siti sommersi, distinguiamo tre tipologie principali: – I siti caratterizzati da manufatti mobili sporadici. – I siti identificabili per la presenza di relitti. – I siti distinti per la sopravvivenza di strutture architettoniche sommerse.

A volte, è possibile che antichi relitti o antiche infrastrutture costiere, per motivi legati alla modificazione della linea di costa, siano ritrovati sulla terraferma a notevole distanza dal mare, o, addirittura, in contesti oggi urbanizzati. Questi siti, quindi, una volta posti alla luce, denotano di frequente affioramenti di acque di falda e caratteristiche di conservazione dei reperti, che, per i motivi appena esposti, hanno molto in comune con quelle dei reperti di provenienza subacquea. Tali materiali necessitano di attenzioni specifiche e di metodologie di recupero che, come vedremo, si possono collocare a metà strada fra quelle proprie dello scavo subacqueo e quelle specifiche dei contesti terrestri. Manufatti mobili Si definiscono sporadici i manufatti, le opere d’arte ecc., ritrovati isolatamente sul fondale e apparentemente fuori contesto. Il ritrovamento di un singolo oggetto può, infatti, ad un esame più attento, ricondurre all’identificazione di un sito più complesso. Un’ancora o un’anfora possono essere la traccia isolata del passaggio di una nave (Fig. 9); è possibile, però, che, attuando una ricognizione sistematica del fondale, a qualche decina di metri dal ritrovamento ci si imbatta nell’intero relitto. Ciò detto si comprende come sia estremamente azzardato procedere a recuperi affrettati, senza avere precedentemente compiuto una attenta ricognizione del contesto di giacitura. Relitti Si definisce relitto, in senso stretto, una nave affondata in un momento non meglio precisato. Il termine potrebbe essere esteso, però, a qualsiasi manufatto che sia finito sul fondo del mare, di un lago o di un fiume per cause accidentali.1 Se il 1 Dal latino relinquere, lasciare, abbandonare e, per estensione, perdere.

la formazione e le caratteristiche dei siti sommersi relitto per antonomasia, come si è detto, è quello di una nave, si può comunque definire relitto, qualsiasi natante affondato, anche una piroga, una barca, una zattera ecc. A seconda del luogo di giacitura i relitti presentano caratteristiche peculiari che richiedono diverse strategie di intervento. Essi si distinguono in: – relitti sommersi in bacini interni, fiumi e laghi (fondali sabbiosi, melmosi, rocciosi, misti) (Fig. 10); – relitti insabbiati o interriti; si ritrovano all’interno della linea costiera, sulla terra ferma (Fig. 11); – relitti spiaggiati (Fig. 12); – relitti sommersi a bassa profondità, in prossimità della costa marina o delle foci dei fiumi (fondali sabbiosi, melmosi, rocciosi, misti);

Fig. 9. Subacqueo con anfora.

Fig. 10. Fiume Stella. Comune di Marano Lagunare (Udine). Relitto degli inizi del i sec. d.C. di una nave naufragata a circa 7 km dalla foce mentre trasportava un carico di tegole e coppi prodotte da officine locali e destinate all’esportazione. L’imbarcazione a fondo piatto era larga 3 metri e lunga 8-10 metri; le fiancate erano alte circa 1 metro. Le tavole del fasciame di quercia e olmo erano assemblate con cuciture di fibre vegetali.

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capitolo terzo – relitti sommersi in mare a profondità medio-alta o a largo (fondali sabbiosi, melmosi, rocciosi, misti); – relitti profondi (oltre la profondità abitualmente praticata dagli sportivi) (Fig. 13).

Fig. 11. Fiumicino. Nel corso dei lavori per la costruzione dell’aeroporto “Leonardo Da Vinci”, vengono alla luce imbarcazioni di età romana. (Da Testaguzza 1970).

La formazione e l’aspetto di un sito archeologico come questi appena descritti variano di molto, anche in relazione alla presenza o meno del carico e alle sue caratteristiche, alle modalità del naufragio, alla qualità del fondale, alla velocità di ricopertura da parte dei sedimenti, alle caratteristiche chimico-fisiche dell’ambiente sommerso, all’eventuale interferenza di atti antropici in un momento successivo al naufragio.1

Fig. 12. Un relitto spiaggiato. (©Maarten De Wispelaere mdw81). 1 Beltrame (1997), pp. 333-340; Beltrame (1998), pp. 141-166; Beltrame (2002): 3-9.

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Strutture architettoniche sommerse All’interno di questo gruppo si possono creare dei sottogruppi distinguendoli per i materiali utilizzati nella costruzione dei manufatti: – – – –

strutture di pali o tavolati lignei (Fig. 14); strutture in blocchi di materiale lapideo più o meno regolarizzato (Fig. 15); opere in muratura (Fig. 16); opere miste (Fig. 17).

Nello studio delle strutture oggi sommerse è necessario, anzitutto, distinguere quale fosse la loro originaria destinazione d’uso: vale a dire se furono costruite per stare in acqua, ovvero se furono sommerse in un momento successivo alla loro costruzione. Alla prima categoria appartengono: opere portuali di banchinaggio, fondazioni e piloni di ponti, peschiere. La loro realizzazione direttamente in acqua si deve alla profonda conoscenza delle proprietà dei materiali da costruzione da parte degli architetti e

Fig. 13. Minisommergibile esegue una ricognizione su un relitto.

Fig. 14. (1854) Una delle prime ricognizioni di siti palafitticoli sommersi a Morges sul lago Lemano (Svizzera). Da Fozzati, Nisbet (1982).

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Fig. 15. Lago di Albano. Molo romano. Da D’Agostino (1992).

delle maestranze antiche, come vedremo in seguito nel capitolo dedicato al tema delle tecniche di costruzione in acqua. Alla seconda categoria, vanno riferite quelle strutture che si trovano sotto il livello dell’acqua per fenomeni di carattere tettonico e/o climatico intervenuti successivamente alla loro realizzazione: villaggi palafitticoli, insediamenti costieri, infrastrutture portuali e urbane. Ci sono, poi, casi particolari come quello di Hierapolis, dove le antiche terme giacciono sott’acqua per l’esondazione delle acque delle sorgenti non più canalizzate o le officine lapidarie dell’antica Kaulonia, presso Monasterace, in Calabria, oggi sommerse dal mare. In altri casi le strutture sono crollate in acqua, come dimostrano i resti del palazzo imperiale di Capri, presso Marina Piccola, precipitati in mare dalla costa sovrastante (Fig. 18).

Fig. 16. Baia. Una Pila in opera reticolata.

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Fig. 17. Ivrea. Veduta della banchina romana sul fiume Dora Baltea. Da Fozzati, Nisbet (1982).

Fig. 18. Capri. Le strutture del palazzo imperiale precipitate in mare.

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capitolo terzo Esempi di siti sommersi

Nei paragrafi successivi prenderemo in esame alcuni siti particolarmente significativi, suddividendoli in base alle caratteristiche ambientali. L’ambiente, infatti, come si è detto, influisce in modo rilevante sull’evoluzione dello stato di conservazione dei manufatti ed, inoltre, condiziona le metodologie di ricerca, di scavo, di recupero, di restauro e conservazione. È indispensabile, quindi, che l’archeologo sia in grado di valutare e di decidere, di volta in volta, le più adeguate strategie di intervento. Insediamenti palafitticoli e infrastrutture portuali nei laghi La ricerca archeologica subacquea nei laghi ha avuto lontani inizi che hanno portato alla scoperta e alla identificazione di quegli insediamenti comunemente noti come villaggi palafitticoli. Nel 1854, in occasione di un periodo climatico eccezionalmente siccitoso, fu possibile osservare l’affioramento di numerosi pali lungo le rive dei laghi alpini. Tra i più noti ritrovamenti, si ricorda il sito di Obermeilen (Lago di Zurigo), caratterizzato da palificazioni in acque poco profonde. Ferdinand Keller per primo, sulla base dei confronti con quanto avveniva presso alcune popolazioni primitive contemporanee, interpretò questi resti archeologici come testimonianze di un insediamento palafitticolo, nella forma di villaggio posto su palafitte in acque alte.1 Nel 1919, dopo uno scavo intensivo in località Federseemoor (Svevia settentrionale), Heinrich Reinerth scoprì costruzioni in terreno torboso con pavimento a livello del suolo e quindi teorizzò che gli insediamenti lacustri erano tutti situati nella zona rivierasca e non nelle acque alte, come supponeva il Keller.2 A partire da questo momento, fino alla fine degli anni ’40, gli studiosi si divisero in due partiti, dei quali quello del Keller era il più nutrito. Tra la fine degli anni ’40 e gli inizi degli anni ’50 Emil Vogt abbracciò la tesi della costruzione in terraferma basandosi sui risultati dello scavo di Elgolzwil 3.3 A cento anni dalla scoperta di Obermeilen il mondo accademico era ormai d’accordo con Vogt nel ritenere obsoleta la teoria degli insediamenti sull’acqua. Tra gli anni ’60 e gli anni ’80, grazie anche al contributo di altre discipline (lo studio della variazione della riva dei laghi dal Neolitico al Tardo Bronzo, gli studi sui pollini e sulle specie arboree, gli studi dendrocronologici ecc.) ed a più attente osservazioni sull’ecosistema antico, è stata dimostrata la costruzione di villaggi in zone umide, cioè in quella parte della riva lacustre periodicamente sommersa dalle acque (vedi per esempio gli studi sul villaggio palafitticolo di Fiavé in Trentino4 (Fig. 19).

1 Keller (1878). 2 Vedi Reinerth (1936). 3 Vogt (1951), pp. 193-315. 4 Per Fiavé e per una panoramica sugli insediamenti dell’Età del Bronzo in Italia cfr. Marzatico (1995-1996), pp. 15-23; Cardarelli, Di Gennaro (1996), pp. 259-266.

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Fig. 19. Fiavé. Le palafitte del Villaggio dell’età del Bronzo. Foto L. Fozzati da D’Agostino (1992).

La sommersione di questi insediamenti preistorici sarebbe dovuta, secondo le teorie più diffuse, sia a fattori climatici, a seguito dell’alternarsi di climi freddi e caldi, sia a situazioni legate a fattori di natura geomorfologica e tettonica localizzati, capaci di determinare sensibili variazioni idrogeologiche. Questi fenomeni relativi al livello delle acque lacustri, non sono limitati soltanto al periodo preistorico. Non sono rari, infatti, i casi di insediamenti di età romana oggi sotto il livello delle acque dei laghi, come dimostra la villa romana in località Polline, lungo le rive del lago di Bracciano, nell’Italia centrale, la foresta fossile del lago di Martignano inabissatasi in età tardo-romana ed i resti di moli e forse di una villa datata dall’età repubblicana all’età imperiale, nel lago di Albano.1 I limiti costituiti dalla spazio a nostra disposizione e dall’ambito cronologico oggetto di questo volume, non consentono di dilungarci sugli innumerevoli esempi di ricerche e studi dedicati alla preistoria delle acque interne in Europa centrosettentrionale. Sarà necessario, tuttavia, aggiungere alcune notizie relative all’inizio delle ricerche in Italia e alla situazione attuale. Si devono a Bartolomeo Gastaldi, geologo e docente di mineralogia presso il Collegio degli Ingegneri di Torino, l’avvio delle ricerche in ambiente lacustre e gli studi sistematici sui villaggi palafitticoli in Italia. Lo studioso, infatti, dopo essere venuto a conoscenza delle ricerche archeologiche intraprese nella vicina Svizzera 1 Ghini (1995-1996), pp. 185-196.

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a Neuchatel, iniziò ad indagare alcuni laghi del nord. Nel 1860 rinvenne la prima palafitta italiana nel Lagone di Mercurago, presso Arona e pubblicò i risultati nel 1862.1 Le ricerche terminarono con la sua morte nel 1879 e, come vedremo, ebbero un nuovo impulso, circa un secolo più tardi. In Italia centrale le prime esplorazioni nei laghi laziali risalgono alla fine degli anni ’50 del novecento con l’attività dell’ing. Alessandro Fioravanti, il quale rinvenne sui fondali del lago di Bolsena il villaggio palafitticolo del Gran Carro, datato alla prima Età del Ferro.2 Negli anni ’70-’80 le ricerche si intensificarono e quindi anche le scoperte. Fu individuato, grazie alle segnalazioni di Alberto Di Mario, istruttore subacqueo, già direttore della Scuola Federale di immersione fips di Roma ed assiduo collaboratore della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, un villaggio dell’Età Bronzo Finale/Prima Età del Ferro presso Capodimonte (Lago di Bolsena, Monte Bisenzio).3 Villaggi della media Età del Bronzo, poi, furono scoperti nei laghi di Mezzano, di Martignano e in quello di Bracciano, nella località di Vicarello. Sempre a Bracciano, in località La Marmotta, è stato rinvenuto un insediamento neolitico. Quest’ultimo villaggio è oggetto di numerose campagne di scavo a partire dal 1989 sotto la direzione di Maria Antonietta Fugazzola Delpino.4 Per i laghi del Nord Italia ricordiamo i lavori di Luigi Fozzati a Viverone (Piemonte) e a Lazise sul lago Garda. A Viverone l’inizio dell’attività di prospezione risale al 1965 quando Guido Giolitto, un appassionato di archeologia, decise di effettuare una serie di indagini. Queste portarono alla scoperta di palificate in diverse località dal 1966 al 1971. I reperti, di eccezionale importanza, fornirono indicazioni consistenti sulla vita e sull’industria dei siti in gran parte ascrivibili all’età del Bronzo Medio. Luigi Fozzati, nella seconda metà degli anni settanta, avviò una serie di campagne di scavo durate circa quindici anni. L’eccezionalità delle scoperte è stata tale da determinare una nuova definizione per il periodo cronologico esaminato: la Cultura di Viverone.5 Le prime segnalazioni nel Lago di Garda, presso Peschiera, risalgono al 1830. Durante operazioni di dragaggio per le fortificazioni in corso di realizzazione da parte dell’esercito austriaco, nel 1850-1851, nella medesima località vennero alla luce numerosi reperti relativi ad un insediamento palafitticolo. Da allora è stato un susseguirsi di prospezioni e ritrovamenti che nel 1955 hanno portato alla sco-

1 Sugli inizi dell’archeologia lacustre in Italia cfr. Fozzati, Nisbet (1982), pp. 101-122. 2 Fioravanti (1963), pp. 428-430; Guidi (1976), pp. 64-66. 3 Per i rinvenimenti nel lago di Bolsena e nei laghi dell’alto Lazio cfr. Fugazzola Delpino (1988), pp. 17-26; Di Mario (1976): 55-57. 4 Per il villaggio di Vicarello cfr. fra gli altri Fugazzola Delpino (1982), pp. 123-148. Per il villaggio della Marmotta cfr. Fugazzola Delpino (1996); Fugazzola Delpino, Mineo (2000), pp. 121-126, Fugazzola Delpino (2001), pp. 13-25. Vedi anche in questo volume Capitoli secondo p. 55 e quinto p. 140. 5 Cfr. Bertone, Fozzati (a cura di) (2004).

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perta di un complesso insediamento nell’Isolone del Mincio, durante i lavori di regolarizzazione dell’alveo del fiume. Negli anni ottanta la Soprintendenza Archeologica del Veneto ed il Museo Civico di Storia Naturale di Verona hanno collaborato all’attuazione di un cantiere archeologico sull’abitato palafitticolo dell’antica e media Età del Bronzo, in località La Quercia nel comune di Lazise. Fra le scoperte più importanti in Italia centrale, oltre al citato villaggio della Marmotta, si segnala quella del villaggio perilacustre del Lago di Albano (Roma), il villaggio cosiddetto delle Macine, per la presenza di un centinaio di macine e macinelli di pietra porosa vulcanica. Le ricerche, iniziate nel 1984, proseguite a fasi alterne fino Fig. 20. Milano. Museo della scienza e della ad oggi, hanno messo in luce l’abitato tecnica. Una delle piroghe recuperata di una comunità attiva nel periodo di dal fiume Oglio in vetrina. transizione tra il Bronzo antico e il Bronzo medio (1.700-1.600 a.C.) e dedita alla caccia, alla pesca e all’agricoltura. La fine del villaggio sembra essere sopraggiunta nel Bronzo medio (metà xv sec. a.C.).1 Un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato, poi, ai ritrovamenti di piroghe o imbarcazioni monossili di età preistorica e più recenti. Fra le più conosciute in Italia si ricordano quelle del villaggio della Marmotta (Lago di Bracciano) e quelle rinvenute nel lago di Bolsena2 oltre ai numerosi esemplari recuperati nei fiumi e nei laghi dell’Italia settentrionale3 (Fig. 20). Il loro studio permette anche di fare ampia luce sulle tecnologie in possesso delle popolazioni primitive che, tra l’altro, navigavano molto più di quanto si possa immaginare.4

1 Direttore degli scavi Annalisa Zarattini della Soprintendenza archeologica del Lazio. Per le prime ricerche cfr. Chiarucci (1995-1996), pp. 175-183. Dati più recenti in Angelini et alii (2006), pp. 158-168. 2 Una di queste è ancora conservata sott’acqua a largo dell’isola Bisentina con un sistema di protezione di cui si parlerà più avanti. La seconda è stata recuperata ed il suo restauro è stato ultimato. 3 Nei primi anni 90, soltanto dal fiume Oglio, sono state recuperate otto piroghe. L’esame al radiocarbonio ha stabilito che esse sono state fabbricate tra vi ed il x secolo d.C. 4 Per la navigazione in età preistorica vedi, per esempio: Medas (1993), pp. 103-147.

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Fig. 21. Londra. La banchina del porto del tardo i sec. d.C., nei pressi di Fish Street Hill. Da Milne (1985).

Insediamenti, infrastrutture e relitti in ambito fluviale I fiumi, per la loro funzione di vie di comunicazione e di penetrazione verso l’interno, rappresentano un deposito preferenziale di reperti archeologici e di resti di manufatti architettonici, che coprono un amplissimo spazio temporale. La storia e la descrizione dei vari rinvenimenti richiederebbero un volume apposito. Ci limiteremo, per i soliti limiti di spazio, ad illustrare solo alcuni degli esempi più noti. Di grande interesse risultano le ricerche fluviali all’interno dei centri abitati delle grandi città europee che ebbero un ruolo significativo nel mondo romano. Da ricordare le ricerche condotte dal drassm nel fiume Rodano ad Arles dal 1989 ai nostri giorni. I risultati di questi lavori sono stati pubblicati nel corso degli anni in varie sedi. Recentemente, il ritrovamento di una testa ritratto di tarda età repubblicana, con caratteristiche fisionomiche tali da ipotizzarne l’identificazione con Giulio Cesare, ha fornito l’occasione per la realizzazione di una esaustiva mostra corredata da un ricco catalogo. Venti anni di scavi subacquei hanno aggiornato i dati storico-archeologici di Arles romana rivelando aspetti fino ad oggi sconosciuti sull’organizzazione del porto antico di Arles e sulla sua vocazione sia come scalo fluviale che marittimo.1 Sono da menzionare i rilevanti risultati delle ricerche condotte nel Tamigi, che hanno fornito dati sull’organizzazione del porto di Londra e sulle tecniche di co1 Long, Picard (a cura di) 2009.

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Fig. 22. Londra. Grafici riproducenti varie casseforme di banchine presenti lungo il Tamigi dal i al iii sec. d.C. Da Milne (1985).

struzione utilizzate per le banchine. Queste ultime erano realizzate con l’impiego di casseforme costipate di terra, con un sistema costruttivo diverso rispetto, per esempio, alle banchine in calcestruzzo realizzate lungo il Tevere (Figg. 2122). Numerosi anche i relitti rinvenuti lungo il corso del fiume, databili tra il i e xi sec. d.C.1 Una importante città di frontiera sul fiume Reno, Magonza – l’odierna Mainz –, conserva presso il Museum für Antike Schiffahrt i resti di alcune navi di età tardo-

1 Vedi Milne (1985); Marsden (1994).

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Fig. 23. Mainz. Museum für Antike Schiffahrt. Frammento di una delle quattro imbarcazioni per il trasporto delle truppe lungo il fiume Reno (Mainz tipo A), datate alla fine del iv sec. d.C. Un ulteriore tipo B più corta e larga, era destinato al pattugliamento della frontiera lungo il fiume.

romana (Fig. 23). Si tratta forse delle imbarcazioni militari denominate lusoriae e di altre ad uso dei magistrati e dei funzionari del governo provinciale dette naves iudiciariae.1 A Roma il fiume Tevere è stato oggetto di indagini volte a ricostruirne l’antico corso e a delineare il profilo delle opere portuali e di banchinaggio di età romana, e a identificare i resti in alveo di antichi ponti, di mulini e di strutture pertinenti all’età medievale e rinascimentale.2 Il più antico emporio sul Tevere fu quello nei pressi del Velabro tra il Foro Boario e quello Olitorio dal quale trasse la sua ragione d’essere l’insediamento che poi si trasformò nella Roma storica (Fig. 24). Al vi sec. a.C. risalirebbe la prima sistemazione monumentale del Portus Tiberinus con opere di banchinaggio riprese e ampliate nel ii sec. a.C., come mostrano i resti di muri d’argine in opera quadrata di tufo rinvenuti nel corso dei lavori per la costruzione dei muraglioni del Tevere alla fine del 1800. Gli unici resti monumentali superstiti lungo le rive, oltre alla Cloaca massima datata all’età dei Tarquini (Fig. 25), risalgono alla fine dell’età Repubblicana e all’età Imperiale e sono il tempio dedicato al dio che proteggeva il passaggio, 1 Pferdehirt (1995). 2 Mocchegiani Carpano (1982), pp. 151-165; Mocchegiani Carpano (1984), pp. 21-81; N. Becchetti, P. Becchetti (1989).

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Fig. 24. Il porto tiberino di Roma arcaica. Particolare del Plastico di Roma - Museo della Civiltà romana (Roma).

Portuno, e quello in onore di Ercole Olivario, oltre a pochi resti architettonici riferibili ai portici delle aree di mercato. Questo scalo, in uso fino al ii sec. a.C. non fu comunque mai abbandonato completamente e risulta ancora utilizzato in età imperiale come approdo preferito dalla piccola navigazione fluviale proveniente dall’entroterra sabino. Agli inizi del ii a.C. risalgono i lavori di sistemazione della riva tra l’Aventino e l’attuale monte Testaccio, dove esisteva il cosiddetto Emporium, l’area caratterizzata da horrea ed infrastrutture collegate al porto commerciale di Roma che durerà per tutta l’età imperiale.1 Scavi della fine dell’ottocento condotti da padre Luigi Bruzza e, più recentemente, nell’ultimo ventennio dello scorso secolo, da Claudio Mocchegiani Carpano e da Roberto Meneghini hanno posto in luce le banchine del porto fluviale con i magazzini ad esso connessi2 (Figg. 26-27). L’Emporium è conosciuto anche con il nome di Ripa Marmorata per l’esistenza dei 1 Zevi (2004): 215. 2 Mocchegiani Carpano (1982), pp. 151-165; Mocchegiani Carpano (1984), pp. 21-81.

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capitolo terzo

Fig. 25. Anonimo. Il Tevere e la Cloaca Massima 1875 circa. Collezione P. Becchetti. Da N. Becchetti e P. Becchetti (1989).

Fig. 26. Le banchine del porto di Testaccio in corso di scavo alla fine dell’ottocento. Da Mocchegiani Carpano (1984).

la formazione e le caratteristiche dei siti sommersi

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Fig. 27. I magazzini del porto di Testaccio dopo gli scavi degli anni ottanta del secolo scorso.

Fig. 28. Félix Benoist. Il porto di Ripa Grande con, a destra, le pendici dell’Aventino e i blocchi della Statio ancora lungo la riva del fiume (1868 circa). Collezione P. Becchetti. Da N. Becchetti e P. Becchetti (1989).

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capitolo terzo

Fig. 29. Il porto di Traiano, un tratto della fossa Traiana e l’Episcopio.

numerosi blocchi di marmo di cava lavorato e semi-lavorato rimasti per secoli abbandonati lungo la riva, prova dell’esistenza della Statio, ovvero il terminale del commercio dei marmi provenienti dalle cave d’Oriente e d’Africa (Fig. 28). Nel 1990 furono avviate anche le prime ricognizioni subacquee sistematiche della Fossa Traiana, il canale artificiale che collegava il Tevere con i Porti Imperiali, oggi denominato canale di Fiumicino (Fig. 29).1 La ricerca aveva lo scopo di redigere una mappa del fondo fluviale corredata da immagini filmate per giungere alla definizione dell’antica morfologia del corso d’acqua e alla conoscenza della sua sezione originale, con il posizionamento topografico dei resti archeologici ancora in situ. I lavori e le ricerche storiche e d’archivio furono però interrotti nel 1993 per mancanza di finanziamenti e mai più ripresi. Nonostante il carattere preliminare e la brevità dell’intervento, importanti indizi furono conseguiti. Infatti nei pressi di Capo Due Rami, dove era l’incile del canale, nella campagna 1992-1993 furono individuati e documentati resti di una pavimentazione in alveo costituita da un nucleo cementizio rivestito da lastre di travertino. La superficie del lastricato rilevata fu di circa 20 metri quadrati. I blocchi di travertino erano posti in opera con grappe metalliche delle quali alcune a coda di rondine. In quella occasione furono individuati anche allineamenti di pali li1 Nei decenni precedenti, infatti, era stata accertata la presenza in alveo di una grande quantità di marmi lavorati e semi-lavorati e di reperti architettonici. Numerosi esemplari, recuperati irregolarmente, sono oggi visibili nei pressi del Museo delle Navi di Fiumicino e degli scavi di Ostia. Vedi Baccini Leotardi (1979); Baccini Leotardi (1988); Pensabene (1994).

la formazione e le caratteristiche dei siti sommersi

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Fig. 30. Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese-Baia). Ricostruzione (ambientazione) quasi al vero del Ninfeo di Punta Epitaffio con le statue originali.

gnei. Tale situazione potrebbe far pensare ad una pavimentazione che avrebbe costituito una sorta di fodera del canale nei pressi dell’incile, dove la corrente era più vorticosa, costruita per impedire una eccessiva escavazione dei fondali in caso di piene e di alluvioni. Allo stato attuale non è possibile stabilire se tale pavimentazione fosse estesa ad un più ampio tratto della Fossa o addirittura a tutto il suo corso.1 Questi resti sommersi, tuttavia, potrebbero anche essere interpretati come la platea di sostruzione di sovrastrutture ora sparite (il pilone di un ponte?). Mare: insediamenti costieri Per l’età romana presentiamo l’esempio dell’insediamento sommerso più noto e più significativo presente sul territorio italiano. Si tratta di Baia, il centro turisticobalneare flegreo preferito dall’aristocrazia romana dalla fine della Repubblica a tutto il periodo imperiale, che dalla tarda antichità iniziò a sprofondare nel mare a causa del bradisismo. Dopo le ricerche di Nino Lamboglia, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ottanta fu intrapreso lo scavo stratigrafico del Ninfeo di Punta Epitaffio, dal 1 Le campagne 1992-1993 sono durate complessivamente non più di venti giorni. Gli operatori, inoltre, hanno lavorato in un ambiente ad alto tasso di inquinamento con visibilità scarsa ed in presenza di corrente e di ostacoli e detriti pericolosi sparsi sul fondale. Per una notizia preliminare Cfr. Petriaggi (1995-1996), pp. 199-202.

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capitolo terzo

Fig. 31. Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese-Baia). Statua di Ulisse che porge la coppa. Marmo di Luni.

Fig. 32. Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese-Baia). Statua del compagno di Ulisse con l’otre. Marmo di Luni.

quale provengono i reperti esposti nel Castello aragonese di Baia. A questo scavo, per la prima volta in Italia, partecipò un archeologo subacqueo, Piero Alfredo Gianfrotta, personalità di spicco dell’archeologia subacquea del nostro Paese. Il Ninfeo era parte del palazzo imperiale e la sua sistemazione si data al periodo Giulio-Claudio (Fig. 30). La decorazione dell’abside trova confronti con il ninfeo della villa di Tiberio a Sperlonga, anch’esso decorato con scene del ciclo di Ulisse. Lo scavo stratigrafico ha individuato ed evidenziato le varie fasi di vita che ha attraversato il monumento. In un primo momento esso presentava una decorazione parietale a mosaico, conchiglie e finte rocce incrostate e la sua funzione di sala da pranzo è indicata dalla presenza di triclini marmorei di cui restano alcuni elementi affacciati su una vasca rettangolare. Nell’abside della sala erano collocate statue di marmo raffiguranti l’episodio di Ulisse nell’antro di Polifemo (Ulisse che porge la coppa e un suo compagno con l’otre pieno di vino) (Figg. 31-32); nelle nicchie dei lati lunghi trovavano posto le statue di alcuni personaggi della famiglia dell’imperatore Claudio (42-54 d.C.), Antonia Augusta, sua madre, rappresentata come Venere genitrice (Fig. 33); un torso loricato variamente identificato; una statua di bambina, secondo lo Zevi una delle figlie di Claudio morta in tenera età; due statue di Dioniso (Fig. 34).1

1 Cfr. Andreae, Zevi (1983).

la formazione e le caratteristiche dei siti sommersi

Fig. 33. Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese-Baia). Statua di Antonia Minore, rappresentata post mortem come Venere Genitrice, con piccola statua di Eros nella mano sinistra. Marmo di Paros.

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Fig. 34. Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese-Baia). Statua di giovane Dioniso con pantera. Marmo di Luni.

Alla fine del iii sec. d.C. si data la nuova decorazione parietale di lastre di marmo bianco scanalato con capitelli corinzieggianti a calice; poco dopo, agli inizi del iv sec. d.C., a causa del bradisismo, il palazzo iniziò ad essere invaso dal mare e quindi vennero sbarrati gli accessi del Ninfeo e recuperate gran parte delle decorazioni parietali oltre alle condutture in piombo. La statua di Polifemo, non ritrovata durante i lavori di scavo, venne evidentemente recuperata in antico, dal momento che al suo posto, nel v sec. d.C., fu sepolto un bambino in un’anfora africana. Successivamente, prima che l’ambiente fosse definitivamente sommerso dalle acque, altre sepolture occuparono l’abside; da una di queste proviene una moneta d’oro di Giustiniano (527-565 d.C.). Nel Castello aragonese di Baia, ora Museo archeologico, è stata realizzata una interessante ricostruzione del Ninfeo, in scala quasi al vero, con le statue originali recuperate. Lo scavo ha dato il via ad un lavoro topografico più ampio, in corso ancora oggi, che sta delineando con precisione lo sviluppo planimetrico della città antica.1 1 Per la schedatura del degrado delle strutture sommerse e per il restauro in situ di alcuni settori urbani vedi in questo volume p. 256 (nota 1) e seguenti.

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capitolo terzo

Fig. 35. Pianta di Baia sommersa. Da Scognamiglio (1997). Legenda: a: ninfeo di Punta Epitaffio; b: terme; c: villa dei Pisoni; d: pilae; e: villa con ingresso a protiro; f: ingresso al Baianus Laucus; g: ruderi presso i cantieri di Baia; h: complesso con un giardino porticato; i: dati tratti dalle foto aeree; l: gettata cementizia in direzione di Puteoli; m: molo.

Di fronte a Punta Epitaffio, a 6 m di profondità, era una strada selciata a grandi blocchi che correva per circa 100 m. Allineati con la strada sono stati visti un porticato ed altri edifici. Baia doveva apparire, secondo la testimonianza degli autori antichi, come una località densamente edificata fino al mare, affacciata sul Baianus Lacus (Fig. 35). La linea di costa era situata molto più avanti rispetto a quella odierna; gli archeologi hanno accertato che il mare aperto di età romana era a circa 370 m dall’attuale linea costiera, grazie al ritrovamento di venticinque pilae in opera reticolata. Esse avevano funzione di scogliera artificiale a protezione del quartiere marittimo di un grande complesso residenziale identificato, in seguito al ritrovamento di una fistula aquaria con l’indicazione del nome del proprietario Lucio Calpurnio Pisone, come la Villa dei Pisoni.1 La villa, divenuta proprietà imperiale, subì significative trasformazioni in età adrianea.

1 I Pisoni erano una ricca e importante famiglia romana le cui proprietà vennero confiscate nel 65 d.C., in seguito al fallimento della congiura contro Nerone. Cfr. Lombardo (1993), pp. 49-63.

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Fig. 36. Lo stagnum Neronis a Baia rappresentato sulla fiaschetta tardo antica, un souvenir di produzione puteolana, rinvenuta a Varsavia. Da Miniero (2000a).

A questo periodo risale il grande cortile a pianta rettangolare (circa m 100 × 60) che presenta su ogni lato porticati variamente e riccamente decorati a nicchie curvilinee inquadrate da semicolonne in laterizio. Il quartiere marittimo della villa è situato a sud del cortile ed era dotato di due approdi con moli, di cisterne per la raccolta dell’acqua e di peschiere. Non lontano dalla Villa dei Pisoni si trova un’altro edificio di cui sono stati identificati vari ambienti termali (caldarium, tepidarium e frigidarium) e un ninfeo a pianta emidecagonale. Altri resti della città sono stati individuati a sud-ovest della Villa dei Pisoni: lungo una strada, ora insabbiata, ci sono ambienti termali; sul lato opposto una schiera di negozi ed una villa, denominata convenzionalmente “Villa con ingresso a protiro”, di cui si conoscono l’ingresso a protiro, l’atrio, alcuni ambienti dalla funzione incerta ed un cubiculum decorato a mosaico. Molte altre sono le strutture antiche ora sommerse individuate davanti ai cantieri navali, al molo Omlin e a largo del Castello di Baia, dove per esempio, sono in corso i lavori di documentazione di una vasta area di peschiere, porticati, padiglioni e di un edificio con pianta semicircolare, difeso da pilae, che è stato identificato dagli archeologi con lo Stagnum Neronis, peschiera o bacino chiuso da moli, raffigurata su una fiaschetta tardo-antica di Pozzuoli, dove sono rappresentati i paesaggi, le ville e i palazzi della costa tra Baia e Miseno1 (Fig. 36). I risultati degli scavi stratigrafici sembrano datare agli ultimi anni del iii sec. d.C. l’inizio dell’abbandono di alcune zone della città. Nell’area esterna all’antica linea di costa, davanti all’insediamento sommerso del Portus Iulius, in località Secca Fumosa, alla profondità di 16-19 metri, si trovano ventotto piloni in calcestruzzo (Pilae) che, vista la loro disposizione, sembrano essere stati costruiti per proteggere dalla forza del mare la costa e le infrastrutture costiere. È stato ipotizzato, inoltre, che sulla Secca Fumosa poteva essere ubicato un faro, probabilmente con una banchina e un molo2 (Fig. 37). 1 Per i dettagli cfr. Di Fraia et alii (1985-86), pp. 211-229; Di Fraia (1993), pp. 21-48; Scognamiglio (1993), pp. 65-70; Scognamiglio (1997): pp. 35-45; Miniero (2000a): pp. 7-21. 2 Scognamiglio (2002), 47-55, in part. 52-55.

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capitolo terzo

Fig. 38. Relitto arcaico della nave di Gela 1. Askos a figure rosse di Epiktetos. Da Panvini (2001).

Recentemente, puntuali osservazioni sul cosiddetto ‘disegno’ di Giovanni Pietro Bellori, riconsiderazioni delle Fig. 37. Baia. fonti antiche e riflessioni su alcuni Una delle pilae della Secca Fumosa. aspetti particolari di un affresco a Stabiae, hanno fatto meglio interpretare le Pilae come sostruzioni dell’isola artificiale sulla quale doveva sorgere il complesso delle terme di Marco Licinio Crasso Frugi.1 Mare: i relitti Come esempio di relitti rinvenuti in mare abbiamo scelto quello della prima nave arcaica di Gela, uno dei rari documenti di nave arcaica scoperti e pubblicati in Italia. L’analisi scientifica del primo relitto di Gela, rinvenuto nel 1988 a 4-5 metri di profondità, nel tratto di mare antistante la costa della contrada Bulala, ha offerto interessanti spunti di ricerca per lo studio del commercio marittimo in età arcaica.2 Ad oggi, sono documentati una quindicina di relitti di questo periodo storico, rinvenuti esclusivamente nel Mediterraneo occidentale e datati dalla fine del vii all’inizio del v sec. a.C. A questi si è aggiunto, nel 1990, il secondo relitto arcaico di Gela, rinvenuto a largo dell’emporio di questa colonia, nelle vicinanze dell’omonimo fiume, e datato al terzo venticinquennio del v secolo a.C.3 Una delle caratteristiche peculiari delle imbarcazioni di età arcaica è quella di trasportare un carico eterogeneo, costituito da derrate alimentari e da prodotti di 1 Gianfrotta (2010): pp. 193-209; Di Fraia (2011): pp. 43-73. 2 Lo scavo è stato diretto da Rosalba Panvini della Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Caltanissetta. Per le notizie sul carico e sullo scafo vedi Panvini (1991), pp. 193-200; Freschi (1991); Panvini (1997), pp. 135-142; Panvini (2001), pp. 15-95 con ampia bibliografia. 3 Faccenna (1997), pp. 143-146; Benini (2001): 97-106.

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artigianato più o meno raffinato, che, molto spesso, non costituivano la merce imbarcata nel porto di partenza. Questo tipo di commercio marittimo, definito di cabotaggio, prevedeva frequenti soste in empori marittimi, dove era possibile scambiare parte dei prodotti imbarcati con nuove merci. Tale attività implicava un’organizzazione complessa che presupponeva l’interazione tra produttori, artigiani, mercanti, proprietari navali, clienti, secondo dinamiche ben precise che le ricerche archeologiche subacquee aiutano a delineare.1 Dall’analisi del carico, Rosalba Panvini ipotizza che la nave abbia fatto scalo in Attica, forse al Falero, quindi nel Peloponneso, lungo le coste della Calabria e della Sicilia, prima di naufragare in vista di Gela, intorno al 500-480 a.C. Gli stretti rapporti commerciali e politici di Gela con l’Attica sono testimoniati dalla ceramica attica di notevole pregio trasportata a bordo della nave (si ricordano una oinochoe trilobata a figure nere con scene di Gigantomachia attribuita alla “Classe di Athena 581”, una grande coppa a figure nere con cavallo e personaggio maschile retrospiciente; tre askòi attici del tipo a ciambella, di cui due a vernice nera). Inoltre, tra i resti del carico si rileva la presenza di tre askòi attici a figure rosse del ceramografo Epiktetos (490-480 a.C.) (Fig. 38), di quattro arule fittili dipinte di probabile produzione corinzia, di alcuni frammenti di un cratere e dell’ansa di uno stamnos di ceramica laconica oltre ad una grande varietà di forme ceramiche prodotte da officine siciliane e magnogreche ad imitazione dei modelli dell’area del Mediterraneo orientale. Erano poi presenti anfore vinarie, olearie e per la conservazione del pesce salato o in salamoia (60% di anfore dell’isola di Chio, 20% di anfore greco-occidentali dette greco-massaliote, 10% di anfore corinzie A, rare anfore samie, lesbie, milesie, corinzie B, attiche “à la brosse”, puniche). Alcuni reperti, quali un piccolo cinghiale fittile, il braccio di una statuetta di legno e un tripode bronzeo, sono stati messi in relazione dalla Panvini con le cerimonie religiose che potevano svolgersi a bordo. Testimonianze della vita di bordo sono: uno zufolo, frammenti di klinai e panche di legno rifinite con borchie di bronzo, numerose forme di ceramica acroma (pentole rodie e attiche, tre lucerne attiche, olpai, bocchette, coperchi, ecc.), il manico di un colino bronzeo con testa di anitra e uno stilo di osso, forse utilizzato dal mercator per compilare il registro delle spese e il diario di bordo. Lo scafo al momento del ritrovamento era completamente ricoperto da grosse pietre di zavorra (calcarenite, pietra lavica e granito). Il relitto era adagiato su un fondale misto, costituito da strati sovrapposti di sabbia, ghiaia e argilla. Le analisi, eseguite su alcuni campioni lignei dal laboratorio di Bioarcheologia del Centro di restauro di Palermo, hanno accertato che la natura del fondale sembra aver contribuito a proteggere il legno dai danni di natura meccanica ed ha limitato l’attacco degli organismi biodeteriogeni. 1 Gras (1995); Gras (1998), pp. 477-484 con bibliografia.

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capitolo terzo

Fig. 39. Pianta del relitto arcaico della nave di Gela 1. Da Freschi (1991).

Nel corso dello scavo è stato possibile documentare la struttura dello scafo (18,00 × 6,80) e la tecnica di costruzione navale (Fig. 39).1 Si tratta di una nave costruita secondo il sistema “a fasciame portante”2 con le assi del fasciame cucite con cordicelle di fibre vegetali e connesse tra loro mediante il sistema a mortase e tenoni. I madieri erano inchiodati dall’esterno al fasciame con chiodi di rame o di ferro. Alla fine di ogni campagna, il relitto è stato protetto da una grande quantità di sacchetti di sabbia, da uno spesso strato di sabbia sciolta e da grandi lastre di cemento. In questo modo si è riusciti a difendere la nave antica e il suo carico dall’azione distruttrice del mare, dall’attività dei clandestini e dalla pesca a strascico. Al ritrovamento ha fatto seguito il restauro degli oggetti mobili e di alcuni frammenti dello scafo recuperati in fase di scavo.3 Alla conclusione dello scavo, lo scafo è stato recuperato e trasportato in Inghilterra dove è stato restaurato presso il laboratorio di Portsmouths. A conclusione del restauro il relitto è ritornato in Sicilia, dove attende di essere esposto in museo.

1 Nella prima fase il rilievo è stato realizzato utilizzando una quadrettatura mobile, costituita da quadrati di 1,50 per lato, in un secondo momento, invece, si è preferito optare per il sistema del rilievo per coordinate cartesiane. L’asse di riferimento, che correva lungo tutto il relitto longitudinalmente, era costituito da un cavo d’acciaio fissato saldamente al fondale con picchetti. 2 Dell’Amico (2002): 112 preferisce ipotizzare un metodo di costruzione “misto”. Per i dettagli sulle tecniche di costruzione navale vedi il Capitolo quinto. 3 Hug (1990), pp. 37-39; Giglio, Ferradini, Schneider (2004), pp. 99-108.

capitolo quarto PORTI, APPRODI E INFRASTRUTTURE COSTIERE Generalità

T

ra le strutture che sono attualmente sommerse dalle acque ve ne sono di quelle concepite già in antico appositamente per svolgere la propria funzione nell’elemento liquido o, comunque, umido, mentre altre sono state sommerse per cause dovute a fenomeni tettonici o all’attività dell’uomo.1 Tra i monumenti ascrivibili al primo tipo vanno, ovviamente, annoverate le opere portuali, le peschiere, le fondazioni dei piloni dei ponti (Fig. 1), ecc…. La maggior parte dei complessi portuali antichi, però, è oggi difficilmente rintracciabile, o perché sono stati interriti o perché distrutti, sommersi dal mare o,

Fig. 1. Roma. Fondazioni di uno dei piloni del ponte neroniano presso l’attuale Ponte Umberto I. 1 Cfr. Capitolo terzo. Da rilevare come spesso, per l’erezione di dighe, deviazione di corsi d’acqua e modifiche del regime delle correnti costiere, siti più o meno antichi sono finiti sommersi dalle acque anche in tempi recenti. Esempi: il sito romano di Zeugma e quello medievale di Hasankeyf in Turchia, l’uno già sommerso, l’altro in procinto di esserlo in seguito alla costruzione di sbarramenti idroelettrici sul fiume Tigri.

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capitolo quarto

Fig. 2. Stampa ottocentesca del porto di Civitavecchia che ricalca la topografia del porto romano.

porti, approdi e infrastrutture costiere

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in alcuni casi, perché sono stati nascosti dalle strutture portuali moderne che si sono sovrapposte ai resti antichi (Fig. 2). Esiste una diversificata tipologia di porti che possono essere classificati seguendo un criterio di giudizio che prende in esame le caratteristiche proprie di ciascuna situazione. Una prima distinzione di massima può essere operata tra i porti propriamente detti, caratterizzati dalla presenza di infrastrutture di servizio e protezione, e gli approdi e i ripari naturali, cioè costituiti da tratti di litorale che, per la conformazione stessa della costa, offrono protezione e possibilità di ormeggio ai natanti. È frequente, poi, il caso in cui ripari naturali vengono artificialmente attrezzati con infrastrutture di protezione e di servizio, quali dighe frangiflutti, banchine, opere di canalizzazione. Alle volte viene sfruttata una particolare conformazione favorevole della costa, come la presenza di una penisola, per creare scali sui due versanti, ovvero, come si riscontra già in epoca arcaica prima presso i Fenici e poi presso i Greci, si realizzano doppi bacini scavandone almeno uno all’interno della costa.1 Esistono, poi, porti totalmente artificiali, realizzati in seguito ad un progetto originale, per ragioni di opportunità economiche o strategiche, indipendentemente da considerazioni riferibili alla morfologia costiera. È possibile, inoltre, una ulteriore distinzione tra porti esterni, dotati, cioè, di moli protettivi protesi dalla costa verso il largo, e porti interni, realizzati nelle foci e all’interno dei corsi fluviali o delle lagune costiere, ovvero scavando bacini artificiali all’interno della costa. Il mondo romano, con l’utilizzo dell’opera cementizia, introdusse elementi innovativi nell’ambito dell’architettura pubblica e privata e, ovviamente, le nuove tecniche furono proficuamente impiegate anche nella costruzione dei porti.2 Analizzeremo di seguito le caratteristiche degli impianti portuali e delle loro infrastrutture, partendo da quelli più antichi. Porti egiziani e scali preistorici Lungo il Nilo dovevano esserci sicuramente porti e attracchi di cui ora non resta più traccia. Un’idea del loro aspetto si evince dai rilievi e dai dipinti murali; altre informazioni, sull’organizzazione amministrativa del porto e sul personale addetto, si ricavano da iscrizioni e papiri. Le opere di banchinaggio vero e proprio erano più spesso sostituite da semplici scivoli. Talvolta banchine su pali di legno o su pile di massi sovrapposti costituivano una più consistente struttura di approdo. Gli Egiziani si distinsero precocemente, poi, nella realizzazione di infrastrutture di sostegno alla navigazione, come testimonia la realizzazione di un’imponen1 Cfr. Frost (1971),103-111; Frost (1973): pp. 75-94; Moscati (a cura di) (1988): 26-27; Blackman (1982a), pp. 79-104; Blackman (1982b), pp. 185-211. 2 Esempio tra i più significativi, illustrato da fortunate campagne di indagini archeologiche sottomarine, è il porto di Caesarea Maritima, voluto da Erode il Grande cfr. Raban (1985), pp. 11-44; Oleson (1985), pp. 165-172; Raban (1988), pp. 217-273; Raban, Oleson (Gen. Ed.) (1989); Raban, Holum (Eds.) (1996); Blackman (1996): 41-49; Brandon (1996), pp. 25-40; Brandon (1997), pp. 4558; Brandon (1997a), pp. 13-33.

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capitolo quarto

te opera di ingegneria idraulica, ossia il canale navigabile che collegava il Delta del Nilo al Mar Rosso voluto dal faraone Neco (610-595 a.C.).1 Questo, a sezione trapezoidale, misurava 5 metri di altezza e 45 metri di larghezza massima ed era rivestito lungo le sponde da roccia a gradoni. Ad Alessandria d’Egitto, ad ovest dell’isola di Faro, sono stati rinvenuti i resti del porto di età minoica, costruito intorno al 1800 a.C. Il bacino principale era lungo 2340 metri, largo 300 e profondo dai 6 ai 10 metri. Il porto poteva accogliere ben 400 navi, lunghe 35 metri. I frangiflutti a scogliera e le banchine sono stati costruiti con grandi blocchi di pietra, alcuni della misura di 5 metri. A Creta, in località Nirou-Khani si notano ancora due darsene rettangolari della misura di metri 46 × 3 scavate nella roccia e divise da un muretto verticale, identificate come il porto del 1500 a.C.2 Lungo la costa siro-palestinese, fin dall’età del Bronzo, sono stati individuati numerosi siti con evidenti tracce di sistemazione del litorale ad opera dell’uomo, per migliorare l’approdo in determinate zone o per creare dei porti sicuri. Sempre all’età del Bronzo risalgono le prime frequentazioni degli approdi di Akko, TelDor, Athlit (Fig. 35, Capitolo primo, p. 45).3 Porti fenici I Fenici raggiunsero un alto livello tecnico nella costruzione di strutture in mare. I moli venivano costruiti in modo da creare delle camere con muri perimetrali formati da massi sovrapposti. Al loro interno veniva costipato un nucleo di pietrame. La disposizione dei blocchi perimetrali era effettuata con il lato lungo ortogonale al filo della banchina per ottenere la massima coesione con il nucleo e la maggiore resistenza alla spinta del mare. Un esempio tipico è la diga sommersa dell’antico porto di Tabbat el-Hamman (Siria) datato al ix sec. a.C. (Nei pressi c’è anche l’approdo sull’isolotto di Machroud e il porto di Rouad)4 (Fig. 3). Diversi siti della costa palestinese sono stati oggetto di scavi recenti che hanno accertato epoche molto antiche di frequentazione. Akko, ad esempio, menzionata già dalle fonti dell’Antico Regno, ha restituito tracce di abitazioni della prima età del Bronzo, quando la foce del fiume Na’aman era forse usata come ancoraggio, fino alle strutture portuali antiche e appartenenti a epoche più recenti, quando la città fu ribattezzata San Giovanni d’Acri. Nel periodo persiano venne costruito un porto nel lato Nord della baia di Akko, visibile ancora oggi. Il porto, naturalmente, è stato utilizzato nel corso dei secoli, quindi sono state individuate tracce degli antichi frangiflutti ed altre installazioni portuali dal periodo fenicio al periodo ellenistico-romano ed infine il bastione di Ibn Tulun con le costruzioni crociate. Nella baia, si trovano, inoltre, resti di relitti dal v sec. a.C. all’età napoleonica.5 1 De Romanis (1996): pp. 71-73. Altre notizie sui porti egizi e cretesi in Franco (1997). 2 Sulla morfologia di porti e approdi nell’Egeo in età preistorica cfr. Tartaron et alii (2003), pp. 27-36. 3 Galili et alii (2002), pp. 927-961. 4 Braidwood (1940), pp. 183-221. 5 Raban (1993), pp. 29-31.

porti, approdi e infrastrutture costiere

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Fig. 3. La diga sommersa dell’antico porto di Tabbat el-Hamman (Siria), ix sec. a.C. Da Braidwood (1940).

Athlit, a circa venti chilometri a sud dell’odierna Haifa, era posta nei pressi di un promontorio che delimitava due insenature. Il porto (Fig. 4) sfruttava il bacino nord, poiché quello a sud era pericoloso per la presenza di scogliere sommerse. Esso era protetto a est da due isolotti a nord e a ovest da due moli artificiali. Il molo di nord serviva per l’attracco delle navi commerciali, il molo ad ovest era adibito all’ancoraggio della flotta locale, mentre, presso l’isolotto a sud ancoravano le navi militari. Le ricognizioni subacquee, fino ad ora compiute, fanno risalire le strutture del porto a non prima del vii sec. a.C., in un’epoca molto più recente rispetto all’occupaFig. 4. Ricostruzione porto di Athlit. Da Z. Friedman in http://www2.rgzm.de/ zione del sito.1 Navis2/Harbours/Friedman/Atlit/ Il sito di Tel-Dor, 30 km. a sud di fig11Reconstruction.jpg Haifa, è menzionato per la prima volta nel xiii sec. ed è nominato, poi, nel racconto di Wenamon (1100 a.C.). Due lagune poco profonde, una a Nord l’altra a Sud, hanno restituito le testimonianze di più di 3000 anni di attività marinara. Resti di installazioni marittime con una banchina in blocchi di arenaria nella baia Sud (Fig. 5), canali tagliati nella roccia e tre scivoli risalgono al periodo persiano.2

1 Galili et alii (2002): 936-937.

2 Raban (1985), pp. 11-44; Raban (1987), pp. 118-126.

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capitolo quarto

Fig. 5. Tel Dor: la banchina sud. Da Raban (1985).

L’esplorazione dei porti e degli approdi lungo le coste siro-palestinesi è iniziata negli anni ’30 con il padre gesuita André Poidebard; in particolare furono da lui compiute esplorazioni terrestri e subacquee con l’ausilio di palombari e pescatori di spugne locali. Furono, poi, eseguite fotografie aeree dei porti di Tiro (1934-1936) e Sidone, (19461950).1 Le ricerche furono riprese negli anni ’70 dal geografo Paul Sanlaville con l’osservazione del cambiamento del livello del mare nell’area di Tiro e Sidone e soprattutto, a partire dagli anni ’60, dall’archeologa Honor Frost nelle località di Tiro, Sidone, Biblo, isola di Arwad (Aradus) a nord di Tabbat el-Hamman, Batroun, Rouad (Libano) e Athlit (Israele).2 Le coste israeliane sono state studiate a partire dagli anni ’60 dagli archeologi dell’Università di Haifa, principalmente da Elisha Linder e Avner Raban (Tel-Dor, Tantura Lagoon, Akko, Athlit, Caesarea Maritima). Fig. 6. I porti di Tiro. Da Moscati (1988). 1 Cfr. Poidebard (1939); Poidebard (1951). 2 Linder (1967), pp. 25-29; Frost (1971), pp. 103-111; Frost (1973), pp. 75-94.

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Fig. 7. I due bacini del porto di Sidone. Da Blackman (1982 a).

Le ricognizioni subacquee e i piccoli interventi di scavo effettuati negli anni ’30 da Poidebard a Tiro, permisero di definire la planimetria del porto che già era stata individuata con le foto aeree (Fig. 6). Il porto, scavato nella roccia, era costituito da due bacini, uno aperto a nord, che sfruttava una baia naturale, (detto Porto Sidonio), ed uno a sud, con ampie strutture artificiali, (detto Porto meridionale o egiziano) formate da grossi blocchi di pietra. I due bacini erano collegati fra loro da un canale navigabile ed erano protetti da moli frangiflutti. I massi dei moli, del peso di diverse tonnellate, vennero trasportati via mare per poter essere posti in opera sul sito che, all’epoca, era un’isola e, solo successivamente, fu collegata alla costa con un molo costruito da Alessandro Magno. È difficile stabilire con precisione quando queste strutture siano state edificate. Gli studi di Honor Frost propongono una datazione anteriore al ii sec. a.C. con la probabilità che alcuni interventi risalgano all’età del Bronzo. A Sidone (Fig. 7), negli anni ’50, Padre Poidebard, sempre grazie a prospezioni subacquee e allo studio delle foto aeree, individuò un porto interno di età romana, difeso da lunghi moli, della larghezza di circa 15 m. Sul lato Ovest del porto furono realizzati serbatoi a quote rialzate per raccogliere le creste d’onda e smorzarne la forza. L’acqua raccolta poteva rifluire all’interno del porto. Questo dispositivo, unitamente all’accorgimento di realizzare aperture nei moli, come altrove testimoniato per l’epoca antica, è utilizzato ancora oggi nei porticcioli turistici per il ricambio dell’acqua.1 1 Franco (1997): 7-24.

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H. Frost negli anni ’70 effettuò ulteriori prospezioni subacquee nell’isola di Zire (Fig. 8), proprio di fronte al porto di Sidone, dove individuò una zona di attracco con bitte che l’archeologa ha datato alla prima età del Bronzo. Il sito era stato interpretato in precedenza come una zona di cava. Solo le immersioni di H. Frost permisero di individuare moli sommersi in corrispondenza di queste bitte emergenti. In un’altra zona dell’isola l’archeologa trovò sott’acqua anche grandi blocchi rettangolari e frammenti di colonne che interpretò come i resti di moli smantellati. La Frost ipotizza che i moli dell’isola risalgano all’età persiana ed abbiano quindi subìto rifacimenti in età romana. Infatti, in una gettata in calcestruzzo furono rinvenuti frammenti dello stesso materiale (la quarzite) che era stato Fig. 8. Il porto di Sidone e l’isola di Zire. utilizzato nella fortezza di età persiaParticolare da una carta del 1912. na a Biblo.1 La città di Arado, infine, disponeva di un complesso portuale costituito essenzialmente da due bacini e, forse, da una laguna più interna, con un cothon paragonabile a quello di Cartagine. Porti fenicio-punici Tucidide (vi,2,6) riferisce che in Sicilia i siti prescelti dai popoli fenicio-punici per la costruzione di scali costieri, erano caratterizzati da isolette prospicienti la costa o da promontori protesi sul mare, perché in questi posti era favorito l’approdo per le navi e il commercio con gli indigeni. Questi siti, inoltre, costituivano una posizione strategica facile da difendere. Tipica di alcuni porti fenici in occidente è la presenza di un cothon, bacino interno, artificiale, utilizzabile all’occorrenza come bacino di carenaggio, presente a Mozia in Sicilia, e a Cartagine e Mahdia in Tunisia. L’insediamento di Mozia (Fig. 9) fu fondato nell’viii sec. a.C. dai Fenici e distrutto nel 397 a.C. da Dionisio I di Siracusa. Il cothon è datato al vi sec. a.C. e presenta un canale pavimentato con una scanalatura centrale per favorire il transito delle chiglie. Era dotato di una saracinesca che si alzava o si abbassava a seconda delle necessità. Anche in questo caso il bacino è scavato all’interno della roccia ed 1 Frost (1973), pp. 75-94; Frost (1999), pp. 69-73; Frost (2001), pp. 277-279.

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Fig. 9. Pianta dell’isola di Mozia. Da a cura di Moscati (1988).

è fornito di banchine. Una strada som- Fig. 10. Pianta con l’isola Mozia e lo stagnone. Da a cura di Moscati (1988). mersa portava alla terraferma dove sorgeva la necropoli posteriore al vi sec. a.C. Secondo la missione inglese che lo ha scavato, il cothon era un bacino di carenaggio e il porto comprendeva piuttosto tutto lo stagnone1 (Fig. 10). Per il porto di Cartagine (Fig. 11) abbiamo una descrizione di Appiano (iii sec. d.C. in Libyca 96) che si ispira ad un passo di Polibio, il quale fu testimone oculare dell’assedio di Cartagine (distrutta nel 146 a.C.). Appiano descrive due porti: uno commerciale, rettangolare, circondato da banchine; l’altro circolare, con al centro un isolotto con scivoli per alare circa 220 navi da guerra e magazzini per il rimessaggio delle attrezzature. Ciascuno scivolo era delimitato da colonne ioniche. Sull’isolotto sorgeva anche il padiglione del navarco (capo della flotta). Gli scavi britannici sull’isolotto circolare hanno messo in luce 30 scivoli a piano inclinato, disposti simmetricamente a ventaglio; al centro è emersa un’area con una pianta esagonale, quella del padiglione del navarco di cui si è detto. Sulle rampe inclinate, lunghe dai 30 a i 50 m, erano disposte traverse di legno per facilitare l’alaggio e il varo delle navi. Le strutture si datano alla prima metà del ii sec. a.C. grazie ai frammenti ceramici, poco prima, quindi, della distruzione della città. Alcuni sondaggi lungo il perimetro del porto circolare hanno portato alla luce altre cinque cale.2 I resti di alcune officine metallurgiche presso l’isolotto, datate ad un periodo precedente, erano forse in collegamento con strutture portuali o cantieri navali. 1 Isserlin (1974), pp. 188-194; Famà (1995): 171-179. 2 Yorke, Little (1974), pp. 85-10; Yorke, Davidson (1985), pp. 157-165; Hurst (1994).

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Fig. 11. Una ricostruzione del porto di Cartagine.

Nel porto commerciale, gli scavi americani hanno individuato la banchina della seconda metà del iii sec. a.C.1 Questo porto, verso sud, era accessibile da un canale il cui tracciato è ancora visibile nella laguna. All’imboccatura del canale c’era un grande terrapieno, di forma trapezoidale, irregolare, interpretato come una banchina a protezione dei venti dei quadranti orientali e settentrionali, per le navi in entrata nel porto. In età romana (ii sec. d.C.), il porto commerciale venne ristrutturato e la pianta divenne esagonale allungata e contemporaneamente venne istituita la Classis commodiana per il rifornimento di grano a Roma. Data questa disposizione topografica dei due bacini, le navi militari per entrare in porto dovevano passare per quello commerciale. Nel 147 quando Scipione l’Emiliano bloccò l’accesso al porto, i Cartaginesi aprirono un canale di fuga dal porto circolare al mare aperto. Probabilmente il porto circolare era usato più come rimessaggio invernale per riparazioni dei natanti, piuttosto che ricovero per tutta la flotta contemporaneamente. C’erano, evidentemente, altri porti e approdi lungo il litorale all’interno del lago di Tunisi, come si evince da un passo di Cicerone che definisce Cartagine circondata da porti.2 Poco si conosce dei porti e approdi anteriori al ii secolo a.C. Un canale navigabile, precedente alla seconda metà del iv secolo a.C., sembra collegasse la zona dell’isolotto del porto militare con il lago di Tunisi a sud del tofet, dove esisteva un’ansa in epoca arcaica.3 1 Stager (1978): 19-37. 2 Cic. De Lege Agraria ii,32,87. 3 Cfr. tra gli altri R. A. Yorke, O. P. Davidson (1985), pp. 157-165 con bibliografia.

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Porti greci Come per i Fenici, anche per i Greci era molto importante la scelta dei siti dove fosse opportuno costruire porti con le relative infrastrutture. Il vi e il v sec. sono secoli decisivi nell’evoluzione dell’architettura portuale. Le fonti ci forniscono scarse notizie sulle tecniche costruttive, soprattutto per le epoche più antiche. Erodoto parla con ammirazione della costruzione dei moli del porto di Samo, voluto dal tiranno Policrate nel sec. vi a.C., caratterizzato da moli lunghi fino a 400 metri e gettati su fondali profondi anche 35 metri.1 Questi moli, così come quelli delle altre città greche ed ellenistiche erano costituiti da blocchi di pietra squadrati poggianti direttamente sul fondo roccioso o sul fondo sabbioso. Come fu rilevato a Tiro, i blocchi potevano, a volte, delimitare una sorta di cassaforma in modo da formare una specie di platea adatta a sostenere il peso delle sovrastrutture. A Tiro, la cassaforma era riempita di detriti battuti, mentre, nei casi di Delo, Thera, Laurion, era riempita di calce e sabbia. Nel porto di Santorini, invece, la cassaforma era riempita di terra. Molto spesso le città greche che si trovavano nell’entroterra si dotarono di insediamenti portuali sulla costa nei punti più favorevoli, come la città di Corinto. Ricerche subacquee di archeologi americani hanno preso in esame il sito di Kenchreai, il porto orientale di Corinto sul golfo Saronico. Si tratta dei resti di vari edifici ora sommersi (un tempio, numerosi magazzini, il faro) e del lungo molo, tutti costruiti con blocchi di pietra squadrati. L’altro porto di Corinto, quello Occidentale, il Lechaion, si trovava dall’altra parte dell’istmo2 affacciato sul golfo di Corinto (Fig. 12). Gli architetti Greci, inoltre, in alcuni casi approfittavano della morfologia della costa sfruttando baie o insenature già esistenti per migliorare la capacità dei porti, come nel caso del Pireo, il porto principale di Atene, dove era presente una penisola naturale con 3 insenature. Le due insenature orientali vennero utilizzate come porti militari (Zea e Munychia) mentre Chantaros, l’insenatura più ampia, fu utilizzata come porto commerciale (Fig. 13). Il porto del Pireo fu realizzato, secondo la tradizione antica, da Ippodamo di Mileto, il famoso urbanista del v secolo. La sua costruzione, iniziata sotto Temistocle nel 494 a.C., fu terminata subito dopo le guerre persiane, intorno al 470 a.C. Il porto sfruttò le insenature già esistenti che furono chiuse all’interno delle mura cittadine. Tutto il Pireo era fortificato da un allineamento doppio di mura che lo collegava alla città. Grazie alle numerose descrizioni degli scrittori antichi è possibile ricostruire una serie di impianti e attrezzature portuali; ad esempio la zona degli alaggi coperti dove il piano inclinato aveva un incasso al centro per favorire l’alloggiamento della chiglia durante le operazioni di entrata delle navi. C’era anche l’arsenale di Filone (iv sec. a.C.), magazzino che serviva per conservare l’armamento delle triremi quando non navigavano: vele, ancore, cime e 1 Erodoto, iii, 60.

2 Scranton et alii (1978).

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Fig. 12. Carta con l’ubicazione dei porti di Corinto. Da Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol. ii Roma, 1959 s.v. Corinto.

Fig. 13. Pianta con i porti del Pireo.

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attrezzature varie. L’arsenale era, anche in questo caso, costruito in opera quadrata dallo stilobate fino agli elevati, con il materiale che era stato ricavato dalla regolarizzazione dei bacini dei tre porti del Pireo.1 Porti etruschi Sul litorale tirrenico a Nord di Roma sono noti diversi siti che in epoca etrusca costituivano altrettanti porti e scali commerciali (Fig. 14). A poca distanza da Roma, troviamo già Pyrgi, porto di Caere presso il quale sorgeva un santuario frequentato da navigatori di diverse etnie.2 Il porto etrusco occupava la zona Fig. 14. Carta geografica con l’indicazione dei porti etruschi. Da Enei (2006). costiera antistante il Castello che è il risultato dell’evoluzione del sistema difensivo nei confronti delle incursioni dei Saraceni realizzato tra il ix e il xii secolo. Nella fase etrusca (Fig. 15), esisteva un canale di accesso all’impianto portuale situato tra i due banchi rocciosi, oggi sommersi davanti al Castello, che in quel periodo erano certamente emergenti. Alcune scogliere artificiali furono realizzate per migliorare l’accoglienza della struttura. Nella prima metà del iii sec. a.C., pressappoco in concomitanza con la fondazione della colonia romana di Pyrgi, sopravvive la struttura portuale etrusca che viene incrementata con la costruzione di nuove infrastrutture quali la grande peschiera databile all’età tardo repubblicana, ed altre di età imperiale.3 Più a nord, la città di Tarquinia aveva il suo sbocco al mare nel porto di Gravisca, di cui non è nota l’esatta ubicazione e che alcuni ritengono di poter localizzare presso l’attuale molo di porto Clementino. Anche qui, come a Pyrgi, esisteva un santuario nel quale sono state ritrovate iscrizioni greche databili tra il vi e l’inizio del v secolo a.C., che attestano la funzione del sito come emporio mediterraneo. La conquista romana, agli inizi del iii a.C., determina l’abbandono del santuario e probabilmente rese inservibile il porto.4 Nello stesso tratto di costa tirrenica, presso l’attuale Montalto di Castro, la località Le Morelle conserva i resti di probabili strutture portuali pertinenti all’insediamento dell’etrusca Regae, in età medievale scalo portuale di Tuscania. Nell’entroterra scavi archeologici hanno messo in luce tracce di un insediamento da1 Blackman (1982a), pp. 79-104; Blackman (1982b), pp. 185-221; Garland (1987). 2 Tale frequentazione è testimoniata, fra l’altro, dal ritrovamento delle note lamine d’oro con testo in lingua etrusca e in lingua fenicia: cfr. Enei (2004): 22-23 con bibliografia. 3 Enei (2004): 58-59. 4 Cristofani (1989): 122-124.

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Fig. 15. Pianta del porto Etrusco di Pyrgi. Da Enei (2004).

tabile tra la metà del vi e la metà del v a.C. Regae fu lo scalo dell’importante centro di Vulci che possedeva un ulteriore sbocco al mare alla foce del fiume Fiora, che era navigabile fino alla città.1 A differenza delle città fin qui menzionate che, situate nell’interno, avevano costituito i loro scali lungo la costa a qualche chilometro di distanza dall’abitato, Populonia, prospiciente il golfo di Baratti, che è stata considerata uno dei massimi centri siderurgici del mondo antico,2 si configura come polis direttamente gravitante sul mare. Essa era dotata di un porto ricordato anche da Strabone3 e da Livio4 che fa riferimento al suo impiego per le operazioni militari nel ii sec. a.C. Resti archeologici relativi all’attività portuale consistono nelle strutture superstiti degli arsenali per due navi.5 Porti romani Si deve ai Romani l’introduzione in larga scala dell’uso della malta idraulica che permise la realizzazione di strutture in calcestruzzo, gettate direttamente in casseforme lignee collocate in acqua. La malta idraulica è una variante della malta aerea, ottenuta mediante l’impiego di calce mescolata alla pozzolana invece che alla sabbia. La proprietà dell’im1 Cristofani (1989): 124-125. 3 Strabo 5, 2, 6. 4 Liv. 28, 47.

2 Pallottino (1985): 283-285. 5 Cristofani (1989): pp. 125-128.

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Fig. 16. Le cassaforme descritte da Vitruvio in una stampa del 1673. In primo piano la cassaforma allagata, in secondo piano la cassaforma stagna. Da Dalmas (1965).

pasto è quella di tirare dopo quattro giorni, anche se completamente sommerso in acqua, come riferisce Vitruvio. Egli, nei suoi libri sull’architettura (in particolare il libro v) descrive dettagliatamente la tecnica dell’impasto e delle gettate. Le sue informazioni sono preziose anche per la ricostruzione dei modelli di casseforme che variavano, a seconda della malta usata. Ecco la descrizione dei tre tipi di cui parla lo scrittore latino. – Cassaforma per malta idraulica (Fig. 16, in primo piano e Fig. 17): questo tipo di cassaforma era costruita direttamente in acqua ed è il primo di quelli descritti. Essendo destinata ad un impasto di malta idraulica, questa cassaforma non doveva essere a tenuta stagna e, secondo Vitruvio, era anche priva di fondo.1 Il procedimento di costruzione iniziava con l’infissione nel fondale di pali verticali (destinae) con la funzione di ancorare la struttura al fondo marino e di sostenerla. Successivamente, a questi pali verticali venivano collegate delle travi trasversali (catenae), che avevano la funzione di contenere le spinte esercitate dall’interno all’esterno della cassaforma dall’opera cementizia fresca. Quindi, lungo il perimetro esterno a questa tessitura di travi venivano montate i tavolati che costituivano le pareti della cassaforma (arca). Questi tavolati erano collegati alle catenae e sostenuti dall’esterno da pali di quercia montanti conficcati nel fondale (stipites). Una volta terminata la costruzione dell’arca, l’opera cementizia era gettata all’interno, direttamente a contatto delle pareti, fatto che è confermato dal1 A Caesarea Maritima e nel porto di Laurons (Francia) sono archeologicamente documentate anche casseforme con il fondo, non descritte da Vitruvio. Le fasi di costruzione e di impiego nel porto di Caesarea sono descritte da Raban (1998): 227-246: in sintesi, furono costruite a terra, trasportate sul sito dove dovevano essere posizionate, trainate da barche, e quindi riempite di malta e fatte affondare.

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Fig. 17. Assonometria di una cassaforma del molo Est del porto di Anzio. Da Felici (1998).

le impronte delle assi che si nota nelle superstiti costruzioni in mare. Questo sistema di costruzione permetteva l’esecuzione modulare di casseforme accostate. – Cassaforma per malta aerea (Fig. 16, in secondo piano): la cassaforma stagnata, il secondo tipo dei tre descritti da Vitruvio, prevede la realizzazione di pareti con doppia paratia con l’intercapedine riempita di argilla costipata in panieri fatti di alga di palude. Prima di introdurre la malta, la cassaforma doveva essere svuotata dall’acqua mediante una coclea di Archimede o delle norie, per permettere il tiraggio della malta aerea, isolandola dall’acqua circostante. Una volta verificatosi il tiraggio della malta, la funzione della cassaforma ai fini del contenimento della struttura cessava. – Il terzo tipo di cassaforma descritto da Vitruvio prevede la costruzione di un blocco prefabbricato da far precipitare in mare direttamente dalla terraferma o sul limitare delle banchine, per determinarne l’avanzamento in acqua. È difficile discernere archeologicamente l’impiego di questo metodo di costruzione. Ad esso, comunque, sembra alludere Virgilio quando nell’Eneide descrive il precipitare di una pila (pilone) nel mare di Baia.1

I recenti progressi della ricerca subacquea hanno consentito di documentare archeologicamente la struttura delle casseforme lignee che, in alcuni casi, sono materialmente conservate, almeno in parte. 1 Aen 9, 710 e segg. Per una trattazione delle tecniche di costruzione in opera cementizia vedi Felici (1998): 275-340.

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Fig. 18. Disegno ricostruttivo del porto di Caesarea Maritima. A. Raban.

A volte, quando non sono conservate le strutture lignee, sono, però, evidenti le impronte lasciate dalle assi di legno e dai pali sull’opera cementizia. Palificate e casseforme erano utilizzate anche per creare platee per la fondazione dei ponti, ovvero per la realizzazione di opere di contenimento degli argini di fiumi e laghi.1 Le ricerche stanno definendo le tecniche impiegate nella costruzione dei moli del complesso neroniano di Anzio2 e delle opere relative agli impianti di Baia3 e Miseno,4 mentre i lavori subacquei che da molti anni si conducono sul sito del porto erodiano di Caesarea Maritima, in Israele, hanno documentato la sorprendente conservazione delle strutture sommerse consentendo di capire le varie fasi e i metodi di costruzione. Il Porto di Caesarea Maritima è un caso esemplare per valutare al meglio le tecniche descritte da Vitruvio5 (Fig. 18). Caesarea fu costruita alla fine del i sec. a.C. ad opera di Erode, re di Giudea, sovrano che aveva un indirizzo politico filoromano. Lo stesso nome Caesarea viene dato alla città per celebrare l’amicizia del re con l’Imperatore. 1 Ucelli (1950): 119-130. 2 Felici (1993), pp. 71-104; Felici, Balderi (1997), pp. 11-20. 3 Scognamiglio (1993), pp. 65-70; Scognamiglio (1997), pp. 35-45; Scognamiglio (2002), pp. 47-55. 4 Benini (2001 a), pp. 51-56. 5 Oleson (1985), pp. 165-172.

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Abbiamo una bellissima descrizione di Caesarea da parte di Giuseppe Flavio, lo storico ebreo romanizzato che vive nella seconda metà del i d.C. ed è autore di un’opera sulla guerra giudaica. Parlando della costa di Caesarea, egli narra che1 «chi navigava lungo la Fenicia e verso l’Egitto era costretto ad ancorare in mare aperto quando si scatenava il libeccio». Questo, infatti, è un litorale con bassi fondali che non offriva naturalmente la possibilità di approdo. «…Il re, piegando la natura al suo volere, con opere di grande costo costruì un porto più grande del Pireo, e nei suoi recessi preparò ampi attracchi profondi; nonostante la natura del luogo gli fosse ostile lottò contro tutte queste difficoltà in modo che la solidità dell’impianto sfidasse la violenza del mare… Una volta stabilite le dimensioni del porto, Erode fece gettare in mare alla profondità di 20 braccia una serie di blocchi lunghi per lo più cinquanta piedi, alti 9 e larghi 10 piedi, alcuni erano anche più grandi». Sono blocchi di conglomerato. «…Quando la parte subacquea fu colmata, il molo che sporgeva dall’acqua fu portato ad una larghezza di 200 piedi, di cui 100 furono allestiti per frantumare le onde e vennero perciò chiamati frangiflutti, i restanti costituirono la base di un grosso muro di recinzione. Questo muro era intramezzato da enormi torri… Vi erano numerose banchine per l’approdo di chi giungeva e il bastione prospiciente, tutto intorno, costituiva un’ampia strada per chi sbarcava. L’imboccatura del porto era a settentrione, poiché in quel punto il vento più favorevole soffia dal nord. All’imboccatura si elevavano tre statue colossali su ciascuno dei due lati, poggiate su colonne, delle quali quelle a sinistra di chi entrava in porto erano sostenute da una massiccia torre; quelle a destra da due grandi massi dritti e uniti, più alti della torre che stava di fronte». Nel corso degli anni ’80 gli archeologi israeliani diretti da Avner Raban hanno condotto una serie di prospezioni e scavi sottomarini in tutta l’area del porto e soprattutto alla testata del molo nord che misurava 15 × 22 metri. Gli scavi subacquei hanno documentato anche i resti delle enormi casseforme. Queste erano costruite in legno con travi orizzontali e verticali connesse tra loro con la tecnica delle mortase e tenoni. In alcuni casi, infatti, il buono stato di conservazione del legno ha permesso di osservare il collegamento delle travi e dei tavolati. Tutta la pozzolana per costruire il porto è stata fatta venire dai campi Flegrei. Gli archeologi subacquei hanno individuato i resti delle torri alle due testate dei moli; probabilmente, almeno una di queste veniva usata come faro. Inoltre, è stata confermata la descrizione degli isolotti con le statue che erano di fronte alle torri. Infatti, durante le immersioni, è stato individuato un basamento. Il porto di Caesarea andò sommerso già in età tardo antica e bizantina (iv-v-vi sec.), per movimenti tellurici, ma sicuramente venne usato anche in epoche successive, dal momento che nel periodo delle crociate (secoli xii-xiii), si costruirono nuovi moli, o si rinforzarono quelli romani, utilizzando i materiali recuperati dalla città o dal porto romano. Probabilmente per la realizzazione di questo porto, che è completamente artificiale, ci si valse dell’esperienza non solo di progettisti romani, ma molto proba1 Traduzione a cura di Giuseppe Ricciotti e Margherita Bignardi in Raban (1998): 270-273.

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Fig. 19. Il porto di Puteoli rappresentato sulla fiaschetta tardo antica, un souvenir di produzione puteolana, rinvenuta a Populonia. Da Miniero (2000a).

bilmente anche di maestranze romane, forse dell’area flegrea, poiché la malta, come si è detto, fu impastata con pozzolana importata da quei territori.1 Già dagli inizi del ii sec. a.C. la zona dei Campi Flegrei, a cominciare da Pozzuoli, era ricca di insediamenti portuali e infrastrutture ad essi collegate, poiché Pozzuoli costituiva il porto commerciale di Roma. Le ricerche subacquee effettuate sia nella zona di Pozzuoli, che a Miseno, e a Nisida hanno messo in luce i resti delle installazioni portuali e dei moli di questi centri.2 In età repubblicana, a Pozzuoli confluivano tutte le merci provenienti dal bacino del Mediterraneo destinate al mercato della Capitale: spezie, tessuti, ceramiche, vino, schiavi e principalmente il grano, destinato all’Annona.3 L’aspetto del porto romano era noto grazie a raffigurazioni incise su una ampolla di vetro di età tardo-antica rinvenuta a Populonia (Fig. 19). Il molo è rappresentato su Pilae ed è abbellito da archi onorari sostenenti centauri marini, da colonne onorarie e da statue. Le indagini subacquee hanno evidenziato 12 Pilae del molo che risultano essere state costruite su fondazioni di pali. Tra Pozzuoli e Capo Miseno, sfruttando i bacini preesistenti del Lucrino e dell’Averno, Agrippa, per volere di Augusto, costruì il Portus Iulius, il primo porto militare di Roma (Fig. 20). I laghi interni furono collegati con un canale e tutto intorno ad essi erano le strutture che accoglievano le attrezzature per le navi, arsenali e scivoli. Il Portus Iulius ebbe breve vita a causa della facilità con cui si insabbiava e, quindi, la flotta militare venne ben presto trasferita al nuovo porto di Capo Miseno, anch’esso dotato di due bacini (Fig. 21). Prospezioni subacquee condotte in anni recenti all’ingresso di questo porto hanno consentito di constatare la presenza dei resti del molo e delle bitte di ormeggio in pochi metri d’acqua.4 1 Per le ricerche archeologiche a Caesarea cfr. Raban (Ed.) (1985); Raban, Oleson (Gen. Ed.) (1989); Raban, Holum (Eds.) 1996; Raban (1998), pp. 217-273. 2 Gianfrotta (1998), pp. 153-176; Benini (2001a), pp. 51-56; Ceraudo et alii (2001), pp. 73-83. 3 Camodeca (1994), pp. 103-128; Camodeca (2001), pp. 85-94. 4 Scognamiglio (2006), pp. 65-77.

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Fig. 20. Puteoli, Portus Iulius e Baia. Plastico conservato nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei (Castello Aragonese - Baia).

Fig. 21. Il porto di Miseno ai nostri giorni. Sullo sfondo Punta Pennata.

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Fig. 22. Planimetria complessiva dei porti di Claudio e di Traiano (fase traianea, inizi ii sec. d.C.) da recenti indagini realizzate dal Portus Project.

Tra la metà del i sec. d.C. e l’inizio del secolo seguente si colloca la realizzazione del più imponente complesso portuale dell’antichità, quello dei porti Imperiali di Claudio e di Traiano1 (Fig. 22). Per risolvere l’annoso problema dell’approvvigionamento alimentare di Roma, nel 42 d.C. l’imperatore Claudio volle realizzare un porto a nord della foce del Tevere. La grandiosa opera comportò la costruzione di imponenti strutture di supporto e di protezione dalle onde del mare, quali due lunghi moli foranei, la banchina di attracco ad est, per una estensione di 500 metri, magazzini, edifici di servizio ed un alto faro a quattro piani. Il bacino interno aveva un’area di circa 80 ettari. L’inaugurazione dell’impianto avvenne, probabilmente, sotto Nerone al quale si deve una emissione monetale del 66 d.C. con una vivace rappresentazione del porto in piena attività. A dispetto delle ammirate descrizioni dei contemporanei, si rivelarono, però, esatte le pessimistiche previsioni dei tecnici del tempo che ne avevano predetto il progressivo insabbiamento a causa dei detriti fluviali che le 1 Mannucci, Verduchi (1996), pp. 15-28; Giuliani (1996), pp. 29-44; Verduchi (1996), pp. 5560; Zevi (2004), pp. 211-219; Keay et alii (2004), pp. 221-232; Verduchi (2004), pp. 233-246.

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capitolo quarto

correnti marine convogliano verso nord. Oggi il fenomeno è meno evidente per la diminuita portata d’acqua del Tevere, imbrigliato da dighe a monte di Roma, ma dall’antichità ai giorni nostri la costa è avanzata di circa tre chilometri. L’imperatore Traiano, per ovviare a questi inconvenienti, tra il 103 e il 112 d.C. realizzò un secondo bacino scavato artificialmente all’interno della linea costiera, ampio 33 ettari, di forma esagonale, raccordato per mezzo di un canale ed una darsena all’impianto claudiano (Fig. 22 e Fig. 29, Capitolo terzo, p. 95 e p. 100). Una serie monetale del 112 ne tramanda la perfetta immagine geometrica richiamando, con ogni probabilità, la cerimonia dell’inaugurazione. Il nuovo scalo, attrezzato con strutture funzionali, magazzini ed edifici residenziali, venne a costituire una nuova città denominata Portus Ostiensis o Portus Romae o anche Portus Urbis. Con l’imperatore Costantino la città prese il nome di Civitas Flavia Constantiniana Portuensis ed ebbe un vescovo proprio a partire dall’anno 314. Più tardi sarà designata con il semplice nome di Portus, nome tramandato fino ai nostri giorni.1 La fortuna dei porti imperiali crebbe e declinò con quella della Capitale per la quale furono costruiti; l’ultimo grande evento che coinvolge i porti e la città portuale fu il blocco ad opera dei Goti per affamare Roma difesa da Belisario nel 553. Dai porti imperiali, risalendo il corso del fiume le navi raggiungevano Roma i cui porti sul Tevere furono utilizzati fino all’800 (Fig. 24, Capitolo terzo, p. 101). Scavi archeologici a Testaccio alla fine del secolo xix (Fig. 26, Capitolo terzo, p. 102) e presso Via Marmorata, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo, hanno messo in luce le banchine del porto fluviale con i magazzini ad esso connessi (Fig. 27, Capitolo terzo, p. 103).2 Tra i porti fluviali indagati in anni recenti abbiamo già ricordato quello di età imperiale di Londra, le cui banchine lungo il Tamigi erano realizzate con l’impiego di casseforme costipate di terra, con un sistema costruttivo diverso rispetto alle banchine realizzate lungo il Tevere.3 Tornando in ambito mediterraneo merita attenzione l’impianto portuale di Leptis Magna, la colonia fenicia che diventò civitas foederata, città alleata di Roma già nel ii sec. a.C. e che diede i natali all’imperatore Settimio Severo. La città fondò la sua ricchezza sull’attività commerciale e, quando era ancora colonia fenicia, nel iii sec. a.C., aveva già un suo porto, identificato presso l’odierno porto di Al-Homs da Antonino Di Vita.4 Divenuta municipio romano alla fine del i sec. d.C., Leptis fu oggetto di notevoli trasformazioni urbanistiche e di abbellimenti da parte degli Imperatori. A partire dall’impero di Nerone, in fasi successive, cominciò la trasformazione della foce del Wadi Lebda in quello che, sotto i Severi, diverrà l’imponente porto della città, quando questa conobbe il suo massimo splendore (Fig. 23). 1 Coccia (1993), pp. 177-200; Paroli (2004), pp. 247-266. Per i nuovi aggiornamenti dovuti allo sviluppo delle ricerche del progetto Portus, consultare il sito http://www.portusproject.org/. Vedi anche Keay et alii (2004): pp. 221-232 e Keay, Paroli (2011) con bibliografia precedente. 2 Mocchegiani Carpano (1982), pp. 151-165; Mocchegiani Carpano, Pisani Sartorio (a cura di) (2005): 104-127; 209-235. 3 Cfr. il Capitolo terzo, pp. 98-99. 4 Di Vita (1974), pp. 229-249.

porti, approdi e infrastrutture costiere

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Fig. 23. Leptis Magna. Pianta della città e del porto. Da Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol. iv, Roma, 1959 s.v. Leptis Magna.

All’inizio si collegarono le isolette che si trovavano alla foce del fiume per facilitare la costruzione dei lunghi moli. Il nucleo della struttura fu realizzato in conglomerato cementizio, secondo il metodo delle casseforme; le banchine ebbero, poi, un rivestimento costituito da conci lapidei di opera quadrata. Un particolare interessante è costituito dalla caratteristica della banchina che presenta due livelli, di cui il più basso per il periodo di bassa marea. Purtroppo Il porto di Leptis si insabbiò molto presto per i detriti trasportati dal fiume che le correnti marine, imbrigliate dai moli artificiali, non riuscivano più a smaltire; il tratto di mare di fronte al porto è da alcuni anni oggetto di indagini subacquee da parte degli archeologi francesi che hanno individuato i resti sommersi del proseguimento del molo Nord Orientale. La torre sul molo occidentale di Leptis, di base quadrangolare a più piani, veniva utilizzata, forse come faro.1 Infatti, questo tipo di infrastruttura era sempre presente a designare l’accesso ai porti, o presso le testate dei moli o su isolette di fronte all’ingresso. Esso costituiva forse l’aiuto più importante per le navi in avvi-

1 Per il porto romano di Leptis Magna vedi Bartoccini (1958), pp. 7-134 e Laronde, pp. 247-256.

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cinamento, tanto che la sua immagine fu usata nelle rappresentazioni artistiche come simbolo iconografico del porto. Il nome della struttura deriva da quello dell’isola di Pharos presso Alessandria d’Egitto, dove nel iii sec. a.C. venne realizzato il prototipo di tali edifici. Il faro di Alessandria, famosissimo nell’antichità, è descritto dagli scrittori antichi,1 ma ne esistono anche alcune descrizioni di autori arabi del vii sec. d.C. Esso, considerato una delle sette meraviglie del mondo, è rappresentato su rilievi, su mosaici e su una serie di conii monetali di età romana. Era costituito da tre parti: un basamento a pianta quadrata alto 60-70 m per 30 m di lato, rastremato verso l’alto, con finestre, decorato, agli angoli superiori, con statue di tritoni nell’atto di suonare il corno; sopra a questo basamento rastremato, partiva una seconda struttura sempre a pianta quadrangolare alta intorno ai 30-35 m con finestre. Più in alto, era la lanterna vera e propria, all’interno di un colonnato circolare che sosteneva un tetto conico, sormontato da una statua colossale di Poseidone con tridente. Il fuoco era alimentato con legni resinosi ed oli minerali, a combustione lunga. Dietro al fuoco uno specchio concavo mobile non solo potenziava la luce, ma permetteva di direzionarla. La distanza coperta dal fascio luminoso raggiungeva i 50 chilometri, a detta dei contemporanei.2 Peschiere La malta idraulica è stata determinante, come si è visto, nello sviluppo delle infrastrutture costiere legate agli insediamenti residenziali che si svilupparono, con grande intensità, a partire dall’età tardo repubblicana. Plinio narra che fu Sergio Orata per primo ad installare impianti per l’ostricoltura nel territorio di Baia. Tra la fine del ii e l’inizio del i sec. a.C. nell’area geografica compresa tra il Lazio e la Campania, si diffuse, presso i ceti aristocratici, la moda di alloggiare in ville marittime dotate di peschiere. Queste dimore lussuose erano, inoltre, dotate di infrastrutture marittime, quali i porticcioli e le darsene che, consentendone il ricovero, permettevano l’uso dei natanti per la pesca, la navigazione di cabotaggio e di altura. Recenti ricerche sulle peschiere del Tirreno hanno evidenziato non solo la relazione tra le ville marittime e le peschiere, ma anche la relazione tra queste ultime e gli scali portuali, dove queste potevano costituire un temporaneo vivaio per il pescato da introdurre sul mercato.3 Per quanto riguarda la tipologia, le descrizioni degli autori contemporanei al periodo di massima fioritura di questi impianti (dal i secolo avanti Cristo al ii dopo) coincidono perfettamente con i dati archeologici.

1 Cfr., per esempio, Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, iv, 10, 5. 2 Per i fari nel mondo antico cfr. per esempio F. Castagnoli s. v. “Faro” in Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale, vol. iii, Roma; Reddè (1979), pp. 845-872; sul faro di Alessandria cfr. Medas (2004): 78-80 con bibliografia precedente. 3 Giacobini, Marchesini, Rustico (1994).

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Si adattavano alla realizzazione delle peschiere sia le coste fangose che quelle sabbiose, ma le migliori, secondo Columella e Plinio, erano quelle rocciose. La loro realizzazione poteva prevedere sia l’intaglio nella costa rocciosa, sia la costruzione di opere in muratura. Le unità componenti gli impianti erano tre: le perimetrazioni, naturali o artificiali, attraverso le quali erano praticate aperture per l’eventuale afflusso d’acqua; i canali di captazione e di adduzione d’acqua che assicuravano il ricambio ottimale, senza il quale il ristagno delle acque poteva causare cattivi odori e la morte dei pesci; le vasche di stabulazione delle specie ittiche. I canali di cui si è detto, per sfruttare al meglio le correnti e la provenienza delle onde, venivano spesso costruiti a raggiera, con grate sulla fronte per impedire la fuga dei pesci. Le vasche, il fondo delle quali doveva trovarsi a sette piedi sotto il livello del mare per l’ottimizzazione del flusso idrico, venivano suddivise in settori geometrici, ciascuno destinato ad una diversa specie, nel quale erano ricreate le condizioni per l’habitat ideale di ciascuna di esse: tane, rifugi, anfratti, nicchie per assicurare la protezione dai raggi cocenti del sole. Era, poi, indispensabile assicurare la disponibilità di acqua dolce per modulare la salinità e la temperatura del bacino ristretto e, in alcuni casi, per favorire l’adattamento di specie abituate all’acqua salmastra delle foci fluviali (cefali, spigole, mormore, ecc…). Se si considera che il livello del mare nell’area tirrenica, dall’antichità ad oggi, si è alzato mediamente tra i 50 centimetri e il metro, si può osservare che alcuni impianti che oggi sono sommersi dovevano essere ad una quota superiore al livello del mare. Tali impianti potrebbero essere riferibili a vasche per la lavorazione del pesce e questo potrebbe essere il caso, ad esempio, della peschiera di Torre Valdaliga e di quella di Punta della Vipera, presso Civitavecchia. Ma potrebbe anche trattarsi del tipo delle vasche da allevamento di cui parla Varrone, distinguendo piscine in mare e piscine ricavate a qualche distanza dalla costa. Anche la costa alta e rocciosa era sottoposta a scavi e intagli allo scopo di ricavare vasche e canali. Anzi, in questi casi, vere e proprie grotte con soluzioni monumentali potevano accrescere la suggestione esercitata dall’articolazione naturale delle volumetrie rocciose costiere. Per i casi di Sperlonga, Ponza, Capri, Ventotene si è pensato anche a ninfei di particolare importanza, legati alla committenza imperiale.1 Tra le varie testimonianze superstiti, ricordiamo la peschiera della Villa romana di Torre Astura (Fig. 24), dalle imponenti dimensioni (m. 150 × 120) che, grazie al suo stato di conservazione, permette l’osservazione e lo studio delle tecniche costruttive. Essa è suddivisa in diversi settori geometrici. Un ponteacquedotto, di cui è visibile un tratto lungo circa 130 metri, collega il complesso situato all’estremità del promontorio con quello centrale della residenza, oggi interrata. 1 Gianfrotta (2002), pp. 67-90, in particolare pp. 87-8; Gasparri (2002), pp. 91-100.

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capitolo quarto

Questa villa era dotata di tutte le comodità che la vita urbana aveva ormai reso consuete, comprese le terme, con gli ambienti riscaldati dall’aria calda che circolava sotto i pavimenti e tra le intercapedini dei muri. Questi, poi, erano ornati da affreschi di cui rimangono poche tracce, risparmiate dalla combinata azione distruttiva della salsedine e del vento. Il complesso di Torre Astura costituisce, forse, uno degli esempi più compiuti e più ricchi della tipologia di ville marittime, grazie anche alla presenza di un porto, del quale restano i moli, con gli elementi delle casseforme lignee utilizzate per le gettate, e alcune bitte di ormeggio cadute sul fondo. È nota da tempo la presenza sui fondali del porto dei resti di almeno tre antichi relitti e di elementi Fig. 24. Torre Astura. Il promontorio architettonici quali fusti di colonne, e la peschiera da una foto aerea dell’Aeronautica Militare. Da Piccarreta (1977). frammenti di capitelli ed altro materiale edilizio.1 Lungo la costa, in direzione nord-ovest, sorgevano numerose altre ville marittime con analoghi impianti per l’allevamento del pesce, delle quali poco è visibile attualmente, perché in parte insabbiate, in parte erose dal mare. 1 Per ulteriori dettagli sul porto di Torre Astura cfr. Capitolo settimo, nota 2, p. 252.

capitolo quinto NAVI, NAVIGAZIONE E COMMERCIO NEL MONDO ANTICO

S

ebbene non siano giunti fino a noi i resti delle imbarcazioni utilizzate nei tempi più antichi nel mar Mediterraneo o nelle acque interne, è possibile senz’altro ricostruire i movimenti degli uomini e, quindi, intuire e valutare l’abilità e le capacità tecnologiche da essi raggiunte nella navigazione, attraverso l’analisi di alcune classi di materiali che possono essere considerati dei veri e propri fossili guida.1 La diffusione delle culture materiali del Paleolitico Superiore costituisce la prima testimonianza archeologica della capacità dell’uomo di realizzare natanti in grado di attraversare il mare già intorno al x-ix millennio a.C. Da questo periodo in poi, infatti, inizia a svilupparsi una rete di contatti tra regioni diverse, grazie al progresso delle tecniche di navigazione. Lo sviluppo degli scambi commerciali favorisce la circolazione delle idee, della cultura e delle tradizioni dei popoli; le varie credenze religiose, le diverse espressioni artistiche, le conoscenze tecnologiche quali, per esempio, le tecniche della coltivazione, i semi, le piante, ecc. si propagano attraverso il Mediterraneo e lungo i corsi dei fiumi che in esso sfociano, per dilagare nel continente europeo. Le materie prime e i manufatti preziosi costituiscono una parte rilevante dei carichi trasportati a bordo delle imbarcazioni; a partire dal Mesolitico, per esempio, si diffonde l’ossidiana dell’isola di Milos sia in ambito egeo che in ambito peloponnesiaco (Fig. 1).

Fig. 1. Strumenti di ossidiana proveniente dall’Isola di Milos. Museo Archeologico Nazionale, Atene. 1 La forma di queste imbarcazioni primitive può essere dedotta, inoltre, dall’osservazione di analoghi esemplari utilizzati da popolazioni primitive viventi ancora ai giorni d’oggi, da confronti con riproduzioni in miniatura di imbarcazioni o, infine, dalle fonti iconografiche.

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capitolo quinto

Questa roccia magmatica effusiva, vetrosa di colore nero e lucente, che con facilità può essere trasformata in una lama tagliente molto utile nella costruzione di falcetti, coltelli, lame di freccia e altri strumenti da taglio, rappresenta un’innovazione tecnologica che favorì le popolazioni che ne controllavano lo sfruttamento e che erano capaci di lavorarla: l’ossidiana sarà uno dei beni più preziosi negli scambi commerciali nel Mediterraneo. Molto diffuse nel Neolitico erano anche l’ossidiana di Lipari, quella di Palmarola e quella della Sardegna, tutte esportate in diversi siti della costa tirrenica.1 Nel Neolitico, inoltre, si osserva un notevole progresso tecnologico che permette la realizzazione di grandi Fig. 2. “Padella” da Syros imbarcazioni monossili. Il perfezionacon raffigurazione di nave, 2500 a.C. mento degli utensili litici consentì, Museo Archeologico Nazionale, Atene. probabilmente, la costruzione di battelli particolarmente accurati la cui tipologia resta in parte sconosciuta. I trasporti dovevano avvenire su imbarcazioni mosse da pagaie, poiché sembra che la vela sia stata introdotta solo alla fine del Neolitico, intorno al iv millennio a.C., quando, all’inizio dell’Età del Bronzo, si intensificarono i commerci e i contatti culturali soprattutto tra i popoli del bacino orientale del Mediterraneo2 (Fig. 2). Tra le testimonianze archeologiche più sensazionali relative a questi natanti ricordiamo la già citata piroga monossile, rinvenuta negli anni ’90 dello scorso secolo nel lago di Bracciano nel villaggio in località La Marmotta e datata poco dopo il 6000 a.C., ora esposta presso il Museo Pigorini a Roma3 (Fig. 8, Capitolo secondo, 1 Nel Mediterraneo occidentale l’ossidiana è presente in Sardegna, a Lipari (cfr. per esempio Castagnino (1997): 160-161 e bibliografia precedente) a Pantelleria, a Ponza e a Palmarola. Numerosi gli studi e vastissima la bibliografia sui centri di produzione e sulla sua diffusione. Cfr. ad esempio, Tykot (1996), pp. 39-82; Nicoletti (1997), pp. 259-269; Zei et alii (1981); Torrence (1982), pp. 193221; Ammerman (2003), pp. 547-557; Robb, Tycot (2003), pp. 1021-1026; De Francesco et alii (2004), pp. 303-309. 2 Cfr. Agouridis, (2000), pp. 101-112. 3 La piroga era stata costruita scavando un unico tronco di quercia lungo 10,50 metri. La larghezza dello scafo misura a poppa 1 metro e a prua circa 75 centimetri. Esso era rafforzato da quattro listelli trasversali (costole), ottenute a risparmio nel corpo della struttura, alti circa 25 centimetri, che dovevano avere anche la funzione di stabilizzare lo scafo. Tre blocchi trapezoidali, dotati di fori, sono stati individuati sul fondo; si è pensato che potessero essere usati per fissare l’albero per una vela. Interessanti i segni degli strumenti utilizzati dal maestro d’ascia, ancora ben visibili lungo tutto lo scafo. Durante le numerose campagne di scavo sono state individuate altre quattro piroghe, oltre ai numerosi modellini di nave in argilla utilizzati, probabilmente, nel corso di cerimonie religiose, utili

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p. 58). Lo studio dei materiali rinvenuti nel villaggio ha fatto ipotizzare che la sua gente si sia stabilita sulla riva del lago di Bracciano, dopo aver viaggiato per mare.1 Le più antiche notizie storiche riguardanti la navigazione commerciale, però, risalgono al 2650 a.C. Si tratta di testi egiziani ascrivibili alla iv dinastia. Uno di essi parla di quaranta navi che erano state inviate in Libano dal faraone Snerfu per approvvigionarsi del legno di cedro, molto ricercato anche per le costruzioni navali. Infatti, come abbiamo visto precedentemente, un fortissimo impulso allo sviluppo delle rotte commerciali scaturì dall’esigenza di attingere alle fonti di approvvigionamento delle materie prime necessarie al progresso industriale e tecnologico. Questo spiega come già nel terzo millennio a.C. fossero aperte le rotte verso l’Occidente e la Spagna, terra ricca di miniere, dove la tradizione collocava il mitico regno di Tartessos, la “terra dei metalli”, rotte lungo le quali si distribuiranno i centri delle fiorenti colonie fenicie e greche. Ovviamente, molto di più di quanto accade oggi, la navigazione antica dipendeva dall’andamento delle stagioni e dal regime dei venti e delle correnti. Inoltre, la durata del viaggio non era prevedibile, poiché le antiche navi, armate di vela quadra, erano capaci di risalire il vento in modo limitato, navigavano preferibilmente con il vento in poppa, al lasco o al traverso ed erano spesso costrette a cambiamenti di direzione o a lunghe soste.2 A complicare la situazione si aggiungeva la difficoltà di determinare la propria posizione e di orientarsi. L’orientamento si basava, principalmente, sull’osservazione dei movimenti del sole e delle costellazioni. Come si sa, il sorgere ed il tramontare del sole avvengono in punti diversi, a seconda delle stagioni e la scoperta dell’utilità della Stella Polare, come riferimento per la direzione Nord, sarebbe avvenuta solo più tardi, probabilmente dopo la fine dell’Evo Antico.3 anch’essi per la ricostruzione delle varie tipologie dei natanti. Cfr. Fugazzola Delpino (1996); Fugazzola Delpino, Mineo (2000), pp. 121-126; Fugazzola Delpino (2001), pp. 13-25. 1 È stata rinvenuta ceramica dipinta molto simile alla ceramica del primo neolitico presente in Tessaglia (Nord della Grecia) ed una statuetta di pietra saponaria, che molto ricorda le rappresentazioni della dea madre delle antiche culture greche e del Medio Oriente. Anche qui è stata rinvenuta l’ossidiana delle isole Eolie e di Ponza, utilizzata per le lame dei coltelli ed una pietra di colore verde proveniente dall’Italia nord-occidentale, impiegata per le lame delle asce. Il Villaggio della Marmotta non era, o non rimase a lungo, un avamposto isolato della frontiera neolitica. Infatti, la sua posizione in una zona centrale dell’Italia e del Mediterraneo ne fece un importante centro commerciale in contatto con altre comunità del Mediterraneo. La sua vita si protrasse per circa 400 anni, fino all’improvviso abbandono per cause sconosciute (forse un incendio o un’inondazione), intorno al 5230 a.C. 2 Dopo che nel 1985 fu completata la costruzione della nave Kirenia ii, copia del relitto scavato presso Cipro alla fine degli anni ’60, prove sperimentali di navigazione hanno evidenziato che questo tipo di imbarcazione, armata di vela quadra, era in grado di stringere sufficientemente il vento, navigando di bolina con angoli fino a 60°-50°. Questa dimostrazione sembrò contraddire definitivamente la convinzione che le navi di età classica, con quel tipo di armamento velico, non potessero risalire il vento. Tuttavia non siamo in grado di stabilire con certezza se queste prestazioni siano da attribuire alle caratteristiche architettoniche di questo tipo di nave, dotata di uno scafo filante di piccole dimensioni (14 m), con la prua con piede di ruota rettilineo e con l’albero decentrato in avanti, o se possano essere tranquillamente generalizzate. Cfr. Medas (2004): 192. 3 Il Rougé distingue le principali rotte dell’antichità greco-romana dividendole, essenzialmente, in tre settori: a) Rotte del Mediterraneo orientale; b) Rotte del Mediterraneo occidentale; c) Rotte OrienteOccidente. All’interno di questi settori le recenti scoperte di relitti, anche su alto fondale e molto a largo

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capitolo quinto

Le nostre principali fonti di documentazione sulle antiche imbarcazioni sono i monumenti figurati, le notizie degli storici e degli scrittori antichi, quelle dei documenti epigrafici e, negli anni più recenti, i ritrovamenti archeologici subacquei.1 Le notizie sulle tecniche di costruzione, desunte per lo più da opere letterarie, sono, tuttavia, scarse; infatti i primi trattati di costruzione, sebbene di difficile interpretazione, compaiono solo in età moderna,2 per quello che oggi sappiamo, intorno al xv secolo, epoca alla quale risale il manoscritto veneziano Fabbrica di Galere datato al 1410 che trasmette il tracciato degli scafi mediante istruzioni verbali e non con l’ausilio dei disegni come avverrà in seguito.3 Le fonti scritte sono, almeno per l’età antica, molto frammentarie e poco significative ai fini della ricostruzione delle tipologie navali. Esse sono di qualche utilità riguardo alla vita a bordo e riguardo alle rotte e sono costituite, essenzialmente, dalle citazioni di storici e da racconti di scrittori che riportano storie di navigazioni e di naufragi.4 Famosi fra tutti, il viaggio di Wenamon (1100 a.C.) e quello del vescovo Sinesio (iv sec. d.C.), e i naufragi narrati da S. Paolo5 e da Flavio Giuseppe. Importanti documenti sulla navigazione antica sono, poi, i portolani che, scritti da gente di mare per essere usati da gente di mare, forniscono informazioni molto valide sulle rotte, sulla conformazione delle coste e sulla vita economica dei relativi periodi storici. Da ricordare il Periplus Maris Erithraei6 e lo Stadiasmus Maris Magni7 databili alla metà del i sec. d.C.8 Anche l’epigrafia ci tramanda notizie, soprattutto sui tipi di nave e sul personale imbarcato (cfr. ad esempio le iscrizioni dei marinai imbarcati sulle flotte militari di Ravenna e di Miseno) oppure quelle che si riferiscono a persone che hanno perduto la vita in circostanze legate ad un viaggio per mare.9 Imbarcazioni primitive Delle piroghe si è già detto. Bisognerà, ora, ricordare altri tipi di imbarcazioni primitive, tra le quali erano sicuramente molto diffuse le semplici zattere costruite con tronchi d’albero saldamente legati tra loro.10

dalle coste, danno la possibilità di ampliare e migliorare le nostre conoscenze su questo argomento. Per le tecniche di navigazione in età antica vedi per esempio Janni (1998): 449-476, Medas (2004). 1 Notevoli, come vedremo sono i limiti di affidabilità delle fonti iconografiche, dovuti sia alla difficoltà tecnica di rendere i particolari costruttivi, sia al sostanziale disinteresse, e a volte alla vera e propria ignoranza, dell’artista nei confronti di questo argomento. Cfr. Janni (1996): 31-34. Cospicua, tuttavia, è la messe delle raffigurazioni, dai modellini fittili dell’età neolitica e dell’età del bronzo a quelli più elaborati di produzione egizia, dalle pitture vascolari e parietali, ai bassorilievi greci e romani. Attraverso le fonti iconografiche ci sono giunte immagini sull’armamento e l’attrezzatura: apparati di governo, alberatura, velatura, Janni (1996): 34-37; Basch (1987); Medas (2004): 183-208; Friedman (2006), pp. 115-145. 2 Dell’Amico (2002): 31-32; Pomey, Rieth (2005): 56-58. 3 Dell’Amico (2002): 22. 4 Janni (1996): 27-31; Beltrame (2002): 35-36. 5 Atti degli Apostoli 27; cfr. Janni (1996): 331-334. 6 Casson (1989). 7 Di Vita (1974), pp. 229-249; Uggeri (1996), pp. 277-285. 8 Su questo argomento cfr. Medas (2004): 109-154 con bibliografia precedente. 9 Di Stefano Manzella (1997), pp. 215-230. 10 Cfr. Casson (1995): 3-6.

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Fig. 3. Kelek in navigazione. Da un rilievo del palazzo di Sennacherib a Ninive (704-681 a.C.). Disegno da Basch (1987).

Il kelek era, invece, una zattera usata principalmente in Mesopotamia costituita da una piattaforma di legno tenuta a galla normalmente da otri di pelle, che erano legati all’intelaiatura o, in rari casi, da anfore vuote. Questo tipo di natante, così vicino ai moderni battelli pneumatici dal punto di vista concettuale, compare in un bassorilievo assiro a Ninive (Fig. 3); ed è noto che i soldati assiri, come molto più tardi i soldati romani, erano soliti utilizzare gli otri anche per il guado dei fiumi. Altre imbarcazioni, tipiche in questo caso dell’antico Egitto, ma presenti anche in Bassa Mesopotamia, come attestano alcuni bassorilievi assiri, erano le barche di canne o di papiro.1 Si tratta di imbarcazioni con la poppa più rialzata rispetto alla prua, costruite con fusti di papiro intrecciati e legati insieme a formare una grossa stuoia che veniva piegata e legata alle estremità; tutta la struttura era tenuta saldamente insieme da legature fatte con corde di papiro (Fig. 4). Questo tipo di barca era molto adatto per la navigazione fluviale e sembra essere originario dell’Alto Egitto; esso è attestato nella regione a partire dal periodo Preistorico-Predinastico (5000-3000 a.C.). Ad esso si aggiunge un altro tipo più solido, in legno, tipico del Delta del Nilo che, molto probabilmente, imitava le imbarcazioni orientali costruite per navigare in mare. Naturalmente le fonti, sia iconografiche che archeologiche, sono molto rare per questa epoca. Esistevano, poi, barche di pelle che navigavano sia nei fiumi che in mare denominate quffa in ambiente assiro, e note come coracle nell’Oceano Atlantico e sul mar Nero2 (Fig. 5). La quffa era una barca tonda, formata da un’armatura di legno sulla quale erano tese pelli cucite tra loro e impermeabilizzate con resine e bitume. Era solita1 Cfr. Casson (1995): 11-15; Friedman (2006): 120-129. 2 Casson (1995): 6; Friedman (2006): 129-130.

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Fig. 4. Bassorilievo dalla Tomba di Ptahhotep. Barca di papiro in costruzione. Da Friedman (2006).

Fig. 5. Quffa in navigazione. Da un rilievo del palazzo di Sennacherib a Ninive (704-681 a.C.). Disegno da Basch (1987).

mente utilizzata per scendere lungo i fiumi e non era adatta però per risalirli. Alla fine del viaggio veniva smontata e il legno poteva essere venduto. La coracle, invece, era una vera e propria imbarcazione da mare, con tanto di chiglia, prua e poppa, costruita con uno scheletro di legno su cui si stendeva la pel-

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Fig. 6. La nave del faraone Cheope. Da Friedman (2006).

le cucita; le giunture del pellame erano calafatate. Questo tipo di imbarcazione poteva navigare sia a remi che a vela. Nel Periplo del mar Eritreo (Cap. 27), datato al 50 d.C. circa, viene riferito che l’incenso prodotto nella regione dell’Hadramawt veniva trasportato nel porto di Kanê oltre che a bordo di navi, anche a bordo di “zattere di pelle”. In Egitto, a partire dal Regno Antico (i-viii Dinastia 2920-2150 a.C.), si cominciano a costruire navi di legno. La loro forma e la tecnica di costruzione sono note da molto tempo grazie allo studio della nave del faraone Cheope o Khufu (25512528 a.C. circa), che fu sepolta lungo il lato sud della piramide di Cheope e fu riscoperta nel 1954 (Fig. 6). Gli archeologi trovarono la nave, lunga circa 43 metri, in ottimo stato di conservazione ma completamente smontata. Venne, quindi, rimontata e fu costruito, proprio accanto alla piramide un museo per ospitarla. Non distante esiste anche una seconda nave (Cheope II), che però non è ancora stata scavata. La nave di Cheope I è stata costruita a fasciame portante; le tavole sono state assemblate con l’impiego di mortase e tenoni, senza perni, e cucite con legature a “V” (Fig. 7). Gli archeologi hanno documentato la presenza di simboli dipinti su alcune parti dello scafo, molto probabilmente utili nelle fasi di assemblaggio dei pezzi. Nella costruzione della nave non venne usato assolutamente metallo ad eccezione di due grappe di rame. Sono stati trovati cinque paia di remi e due remi timone. La parte superiore dello scafo è intagliata ad imitare fasci di papiro ed anche la forma dello scafo ricorda le imbarcazioni di papiro utilizzate nei pelle-

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capitolo quinto

Fig. 7. Sezione della nave di Cheope secondo Dell’Amico (2006).

grinaggi sacri. Si riteneva che Ra, il dio Sole, nel suo viaggio attraverso il cielo, navigasse a bordo di navi di papiro. Forse la nave di Cheope è stata utilizzata dal Faraone/Sole durante una celebrazione del viaggio del sole nel cielo, oppure fu costruita per un pellegrinaggio sacro del faraone o dopo la sua morte. Alcuni, vista la precisione e l’accuratezza delle tecniche di costruzione e visti alcuni segni di logorio fatti dalle cime sul legno, ipotizzano che la nave debba aver navigato almeno una volta, altri, invece, a causa della mancanza del calafataggio, negano che possa aver navigato.1 Sempre a questo periodo sono datati i rilievi rinvenuti in una tomba di tre fratelli fondatori della v dinastia (2550 a.C.). Uno di loro, Sahure, fa decorare la tomba con la rappresentazione di una spedizione navale da lui effettuata in mar Rosso (Fig. 8). Le navi raffigurate hanno un profilo lunato, ovvero a spicchio d’arancia, con il fondo piatto, senza chiglia, caratteristica quest’ultima peculiare alle navi egiziane; sono molto larghe e pescano poco. I legni utilizzati per la costruzione erano specie locali: acacia e fico sicomoro; da questi tipi di alberi si ricavavano tavole molto corte e questo, naturalmente, condizionava la struttura della nave. Per evitare che il fasciame cedesse sotto l’azione del mare formato, si utilizzava un cavo che teneva insieme la barca e che la attraversava dalla prua alla poppa, dove era vincolato ad una sbarra trasversale sporgente fuori bordo. Il cavo era sostenuto da forcelle, e tenuto in tensione da un tenditore. A cavallo del cavo si trovava l’albero, a “capra” ovvero a cavalletto, abbattibile, tenuto da stralli, dal quale pendeva una vela quadra, alta e stretta.2 1 Dell’Amico (2002): 105-106; Dell’Amico (2005a), pp. 13-45.

2 Jones (1995): 41.

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Fig. 8. Una delle navi del faraone Sahure. Da Basch (1987).

Recentemente, l’archeologa Cheryl Ward ha illustrato il ritrovamento di 14 navi ad Abydos nel deserto egiziano, a nord di Luxor. Si tratta del più antico ritrovamento di imbarcazioni costruite con tavole di legno assemblate tra loro con fibre vegetali. La loro costruzione è datata alla Prima Dinastia, circa 5000 anni fa. Le navi, che hanno un corpo affusolato e misurano dai 19 a 20 metri di lunghezza, sono state rinvenute, come avviene di sovente in Egitto, sotterrate in tombe costruite con mattoni di fango.1 Anche per il Regno Medio abbiamo testimonianze archeologiche: sono da segnalare le “barche di Dashur”, sei barche senza ossatura, cucite e dotate di incastri a mortase e tenoni. Si tratta di barche funerarie ritrovate presso la piramide di Senusret III (1887-1859 a.C.). Ne restano quattro esemplari, due conservati negli Stati Uniti, due al Cairo.2 Nel Regno Nuovo (1550-1070 a.C.) si osservano importanti trasformazioni nella tecnica di costruzione navale. Molto è dovuto all’importazione dal Libano di nuove specie di alberi, principalmente il cedro del Libano, che permette di ricavare tavole lunghe anche oltre i dieci metri. Le navi di questa epoca sono dotate di un albero fisso semplice, con un solo piede, al quale era sospeso un pennone recante una vela quadra, non alta e molto larga. I remi erano fissati a scalmi, mentre due grandi remi a poppa, montati su falchette e dotati di un manubrio per facilitarne le manovra, fungevano da timone. Sono di questo periodo le navi della regina Hatshepsut (xviii Dinastia 1550 a.C.), rappresentate nel tempio a Deir-el-Bahari (Fig. 9). La flotta è colta nel momento in cui arriva al paese di Punt (identificato ora come la Somalia); in queste navi notiamo una variante del cavo che teneva unite la prua e la poppa: le cinghie di prua e di poppa, vere e proprie gomene, penetrano sul ponte della nave attraverso apposite aperture (cubie). Cambia il sistema di tensione che ora si ottiene facendo risalire lungo l’albero la gomena con l’aiuto di una corda secondaria che permette di mantenere stabile la tensione desiderata.3 1 Ward (2003): 19-23; Dell’Amico (2005a): 21-22. 2 Dell’Amico (2002): 109; Dell’Amico (2005a): 28-34. 3 Casson (1995): 16-21; Jones (1995): 53, 55, 56.

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Fig. 9. Una delle navi della regina Hatschepsut raffigurate nel tempio di Deir-el-Bahari. Da Mariette (1877).

Sui muri del tempio di Medinet Habu è rappresentata la prima battaglia navale nel corso della quale si scontrarono le navi egiziane contro quelle dei Popoli del Mare (1190 a.C.). Probabilmente l’avvenimento deve essere ambientato in una località nei pressi del Delta del Nilo. Le navi egiziane sono rappresentate affusolate e provviste di un parapetto per difendere i rematori dalle armi nemiche. Sono navi abbastanza piccole, che trasportano venti rematori e un timoniere che manovra il remo timone. La prua termina con una testa di un leone che tiene tra i denti una testa umana. Vista la posizione, questa testa di leone che è abbastanza in alto rispetto alla linea di galleggiamento, ma troppo in alto per essere uno sperone, è stata interpretata dagli archeologi come una sorta di ariete che doveva colpire la fiancata della nave nemica per smantellarla, o per sconvolgere i ranghi di voga.1 Costruzione navale nel Mediterraneo dall ’ età del Bronzo all ’ età greco-romana Lo studio delle navi Egiziane ha evidenziato, come si è detto, che esse erano costruite assemblando gli elementi mediante cuciture realizzate con intrecci di cordino di fibre vegetali; lo scafo risultava, così, a fasciame autoportante (tecnica detta ‘shell first’, o ‘prima il guscio’). Ciò significa che la costruzione poteva procedere in altezza senza il sostegno delle costole interne, con le tavole del 1 Jones (1995): 59-61.

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fasciame montate a paro e assemblate con l’ausilio di linguette di legno inserite in apposite cavità realizzate nei comenti (tenoni entro mortase), ma non bloccate da cavicchi. Già prima delle attuali scoperte, dovute alla ricerca archeologica subacquea, il recupero delle navi di Nemi aveva offerto l’opportunità di riconoscere che queste erano state costruite secondo la tecnica del tipo shell first. Inoltre, nelle navi di Nemi risultò chiaro che le mortase e i tenoni erano fissati nelle loro sedi con cavicchi di legno (Fig. 10); la presenza di questi costituiva un valido sistema di fissaggio delle tavole del fasciame al posto delle cuciture (Fig. 11). Questo metodo costruttivo risulterà, in seguiFig. 10. Schema di assemblaggio mediante to al progredire delle scoperte subac- mortase e tenoni. Da Gianfrotta Pomey (1981). quee, il più diffuso nel Mediterraneo greco-romano. Più precisamente i ritrovamenti archeologici hanno evidenziato che questo metodo era già impiegato fin dal xiv sec a.C., come attestato dal relitto di Ulu Bu-

Fig. 11. Un modello di nave oneraria in costruzione. Sono evidenti i tenoni e i cavicchi.

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Fig. 12. Rilievo funerario di Publius Longidienus. Museo Archeologico Nazionale di Ravenna.

run del tardo xiv sec. a.C., di cui si è detto nel Capitolo secondo, e sarebbe stato adottato fino al vi sec. d.C. circa. Alla luce di queste scoperte, è più chiara l’interpretazione della stele funeraria del fabbro navale Publius Longidienus, conservata nel Museo Nazionale di Ravenna, nella quale si può riconoscere una prova iconografica della tecnica di costruzione ‘a fasciame autoportante’ (Fig. 12). La costruzione dello scafo procedeva in maniera inversa a quella dei nostri giorni; si metteva in opera prima la chiglia, alla quale si collegava la maggior parte dei corsi di fasciame formando il guscio, mentre le membrature interne (costole e madieri) venivano collocate in un momento avanzato della costruzione, come si osserva fare da Longidieno, colto proprio nel momento di rifinire una ordinata da inserire nello scafo già quasi ultimato.1 Lo studio dei relitti nel Mediterraneo ha potuto accertare, inoltre, la compresenza e la sopravvivenza di diversi sistemi di assemblaggio nelle varie epoche: il metodo delle cuciture, ad esempio, è presente insieme a quello ‘a mortase e tenoni’ anche in età imperiale romana.2 La Madrague de Giens, la nave del Lacydon (porto di Marsiglia) e altri relitti denotano, poi, alcune particolarità architettoniche che presuppongono la contemporanea applicazione sia della tecnica antica ‘shell first’, ovvero ‘a fasciame autoportante’, sia di quella che consideriamo moderna, cioè a “scheletro portante”, che è stata quella che ha prevalso dal medioevo ai giorni nostri (Fig. 13). I primi 1 Casson (1995): 206, nota 24, fig. 163. L’Autore, inoltre, da pagina 220 a seguire, tratta della terminologia delle parti strutturali dello scafo, che nominiamo di seguito, con citazioni interessanti di fonti e di termini greci e latini. 2 Cfr. il relitto di Valle Ponti in Berti (1990), pp. 219-226.

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Fig. 13. Costruzione su scheletro. Stampa di un vascello del xviii in costruzione. Da Curti (1968).

esempi di questo procedimento costruttivo datano a partire dal vi secolo circa d.C. (Tantura Lagoon A) - vii d.C. (Pantano Longarini e Yassi Ada).1 Tale metodo di costruzione prevede l’impostazione della chiglia e dell’ossatura interna, sulla quale vengono poi inchiodate le assi del fasciame (skeleton first). Passiamo ora ad osservare i principali elementi architettonici della nave, la loro posizione e la loro funzione. La chiglia, elemento che diversifica le navi mediterranee da quelle Egizie, nate essenzialmente per essere utilizzate nel Nilo, è il trave, generalmente composto da più segmenti assemblati con sistemi di giunti ad incastro molto elaborati, che costituisce la spina dorsale della nave (Figg. 14-15). La terminologia latina che designa questo elemento è primum statumen navis, ma più comunemente carina. Se per le navi onerarie (da carico) la chiglia poteva es-

Fig. 14. Diversi esempi di giunzione tra gli elementi della chiglia. Da Gianfrotta, Pomey (1981).

1 Per il relitto di Tantura Lagoon A cfr. Kahanov, Royal (1996), pp. 21-23; per Yassi Ada cfr. van Doorninck Jr. (1976), pp. 115-131; per il relitto di Pantano Longarini vedi P. e J. Throckmorton (1973): 243 e segg. Recentemente presso Ravenna e presso Pisa sono state scoperte imbarcazioni che potrebbero, forse, anticipare un poco questi termini cronologici. Cfr. Maioli, Medas (2001), pp. 104135; Bruni (2000): 48-51; Camilli (2004): 71.

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Fig. 15. Sezione maestra del relitto dell’Ans des Laurons 2 dove sono indicati i nomi delle principali componenti architettoniche in italiano e in inglese.

Fig. 16. Il relitto della nave Fiumicino 4. La freccia bianca indica la scassa dell’albero. Museo delle navi romane, Fiumicino, Roma.

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sere in legno di pino, per le navi da guerra le fonti scritte suggeriscono l’uso della quercia, più resistente nel caso in cui il vascello era tratto in secco o alato sugli scivoli degli arsenali. Al di sopra della chiglia poteva essere collocato un trave di rinforzo denominato paramezzale (Fig. 17), mentre verso prua, a circa un terzo della lunghezza totale della nave, era posizionato un altro massello ligneo con un’apertura nella parte superiore, la scassa (Figg. 15-16), entro la quale Fig. 17. Ossatura della nave: terminologia. era innestato il piede dell’albero. Un sistema di bloccaggio a puntelli assicurava quest’ultimo in posizione. I puntelli erano facilmente rimovibili per consentire di estrarre il piede dell’albero e permetterne il ribaltamento.1 Lo scheletro interno (ossatura), che prende il nome latino di costae, è l’insieme delle ordinate e dei madieri che rinforzavano, dall’interno, il fasciame delle navi (Figg. 15-17). I bagli, che prendono il nome latino di transtra, sono le travi che congiungono trasversalmente le opposte murate e sostengono, ove presente, il ponte (Fig. 18).

Fig. 18. Modello in scala 1:5 della seconda nave romana di Nemi, particolare dei bagli. Museo delle navi romane, Nemi, Roma. 1 L’albero era rimosso per lavori di rimessaggio o per varie necessità. Nelle navi da guerra si smontava l’albero prima della battaglia, per facilitare la manovra con i remi e le operazioni militari. Dalle fonti iconografiche risulta che le navi erano armate, prevalentemente, con uno o piuttosto con due alberi. Tuttavia sono noti anche tre alberi.

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Fig. 19. Rilievo Torlonia: particolare della nave oneraria. Calco. Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, Roma.

Le cinte di rinforzo, sono visibili, sui monumenti figurati, come corsi di fasciame sporgenti e di dimensioni maggiori. Il loro nome era cintae ed avevano la funzione di proteggere le fiancate dagli urti accidentali (Fig. 19). Il fasciame (laterum tabulae), infine, era costituito dall’insieme delle assi lignee delle fiancate che dal primo corso presso la chiglia (torello) risaliva su fino alla quota del ponte e lo superava con i parapetti. Verso prua e verso poppa le assi si stringevano e si innestavano, le une alle altre, con una giunzione ad unghia. Il fasciame esterno poteva essere semplice o doppio, come ha evidenziato il relitto della Madrague de Giens. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si è rilevata la presenza di un fasciame interno poggiato al di sopra degli elementi dell’ossatura, coste e madieri. Le tavole che lo compongono sono denominate serrette o, se di sezione maggiore come quelle adoperate in corrispondenza dei ginocchi, serret-

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Fig. 20. La prima nave di Nemi durante lo scavo: un operaio mostra particolari del rivestimento dello scafo. Da Ucelli (1950).

toni. L’insieme delle tavole che rivestono il fondo dello scafo è detto pagliolato. Qui le tavole sono amovibili per consentire l’ispezione e la pulizia della sentina. I madieri, al disotto del pagliolato, presentano fori di forma geometrica variabile (tondi, quadrati, a cuspide) per il libero scorrimento delle acque di sentina tra la prua e la poppa. Come si è già detto, le assi erano assemblate a paro con il sistema di incastro a mortase e tenoni. Chiodi di bronzo o di ferro potevano, in alcuni casi, costituire ulteriori elementi di fissaggio. La nave da guerra di Marsala (Fig. 37, Capitolo primo, p. 46), costruita secondo questa tecnica, denota, inoltre, la messa in opera di parti prefabbricate; lettere e segni di riferimento presenti sulle tavole del fasciame, indicano che dovevano esistere degli schemi standardizzati, il cui impiego permetteva di costruire in breve tempo l’intera nave. Ciò spiegherebbe la facilità con cui gli antichi erano in grado di allestire ingenti flotte da guerra in pochissimo tempo, come ci attestano le fonti (Polibio, Plinio, ecc. …).1 A completamento della costruzione la struttura veniva impregnata con resine e pece (in particolare l’opera viva) per aumentarne la resistenza nei confronti dell’umidità e dell’attacco degli organismi marini.2 I relitti di navi da trasporto hanno dimostrato che, almeno fino alla metà del i sec. d.C., le carene potevano essere rivestite anche da una lamina di piombo ri1 Frost (1973a): 33-49; Frost (1974), pp. 35-54; Frost et alii (1981); Frost (1981), pp. 65-75; Medas (2000): 175. 2 Sulla nave C del cantiere di Pisa San Rossore sono state notate tracce di calafataggio con resine e vernici protettive. Cfr. a cura di Camilli (2002) Fig. 5.

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Fig. 21. Affresco da Akrotiri (Isola di Santorini) con processione di navigli. Atene. Museo Archeologico Nazionale.

battuta da chiodini di rame a testa piatta. Tale procedimento è stato riscontrato anche sui relitti delle navi di Nemi1 (Fig. 20). Perché una nave potesse dirsi ben riuscita, era importante che i legni utilizzati fossero in grado di garantire una efficace resistenza meccanica, in relazione alla funzione da svolgere nel contesto architettonico del vascello: la forma naturale delle varie sezioni arboree prescelte, costituiva la migliore garanzia in questo senso.2 Le fonti antiche ci informano sulle specie legnose utilizzate e sulla loro raccolta. L’abete o il pino erano quelle maggiormente impiegate, soprattutto per il fasciame e l’impavesata (parapetto), insieme al gelso e all’olmo; il platano, troppo soggetto alla putrefazione, non era apprezzato. Sotto la linea di galleggiamento il pino offriva garanzie di resistenza contro l’umidità, mentre le tavolette che costituivano i tenoni erano per lo più in legno di quercia e le caviglie in legno di olivo, quercia, ciliegio. L’abete, per la sua leggerezza, era impiegato anche per l’albero, il pennone e i remi. Gli elementi che richiedevano una maggiore resistenza, come si è visto a proposito della chiglia, erano realizzati con legni adeguati e, preferibilmente, quercia o, come nel caso delle cinte di rinforzo e l’epotìs, il baglio più prossimo alla prua, frassino, olmo o gelso. Anche il cipresso veniva impiegato ed, in Oriente, il cedro. La già citata nave di Marsala, per esempio, ha la parte centrale della chiglia di pino, mentre il dritto di poppa è realizzato con legno di acero. Gli esempi forniti dall’archeologia navale indicano, però, che spesso si usciva da questi schemi, frutto dei precetti dettati dai teorici (Teofrasto, Plinio, Vegezio) e che la disponibilità locale condizionava, in pratica, la scelta delle specie legnose.

1 Ucelli (1950).

2 Rival (1991).

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Diverse tipologie navali1 Gli scrittori antichi, come ad esempio Omero, e le fonti iconografiche, lasciano intendere che le navi, dall’età del Bronzo al periodo geometrico, non erano di forme differenti in relazione all’uso, per cui non è immediata la distinzione tra navi commerciali e navi da guerra. Per il xvii-xvi secolo a.C., ad esempio, le pitture di Santorini mostrano eleganti vascelli a remi e a vela, con fastose sovrastrutture e personaggi assisi sul ponte protetti da cabine e baldacchini, probabilmente impegnati in una processione rituale (Fig. 21). La stessa tipologia di imbarcazione è raffigurata anche in contesti di battaglie2 (Fig. 22). Anche sulle decorazioni vascolari del tardo Bronzo e dell’età del Ferro, è possibile distinguere imbarcazioni di Fig. 22. Affresco da Akrotiri (Isola di Santorini) con scena di combattimenti sul mare. forma allungata con propulsione veliAtene. Museo Archeologico Nazionale. ca associata ai remi. Da quanto si può dedurre dalle immagini, i tipi più comuni presentano per lo più un solo ordine di rematori lungo le fiancate, in numero che va da circa trenta a cinquanta per ogni natante. Per questo motivo, dal numero dei rematori, le navi vengono denominate rispettivamente triakontoro e pentekontoro (Fig. 23). A partire dalla fine dell’viii a.C., invece, esse si differenziano sempre più e quelle da trasporto si segnalano per una forma tondeggiante ed un sistema di propulsione essenzialmente velico; quelle da guerra, invece, saranno caratterizzate da una forma allungata, con la prua munita di rostro e avranno un sistema di propulsione misto, cioè a remi e a vela. All’inizio del vii sec. a.C. la tradizione pone l’invenzione della tipologia più nota fra le navi da guerra dell’Antichità: si tratta della trireme (Fig. 24). La nave, di una lunghezza ipotetica intorno ai 35 m per una larghezza di 5 m, era dotata di

1 Per necessità di compendiare, ci limitiamo ad una veloce trattazione delle tipologie navali mediterranee, soprattutto dall’età Bronzo alla fine del mondo antico. Informazioni dettagliate per il periodo dall’età del Bronzo alla fine dell’età ellenistica in Basch (1987): 76-336; Mc Grail (2001): 88-154. 2 Cfr. Casson (1991): tavv. 4 e 5.

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capitolo quinto

Fig. 23. Nave dell’età del Ferro (750-700 a.C.) con cinquanta rematori (pentekontoro?). L’artista mostra “ a volo d’uccello” i rematori di entrambe le fiancate collocandoli su due file sovrapposte. Da Koster (1923).

Fig. 24. Rilievo Lenormant. Rappresentazione di una fiancata di trireme con la disposizione dei tre ordini di rematori. Dal basso talamiti, zigiti e traniti. Atene. Museo dell’Acropoli.

un triplice ordine di remi per un totale di 170 rematori.1 Durante la navigazione ordinaria, la trireme utilizzava la propulsione velica, mentre in battaglia, come si vedrà quando parleremo della marina da guerra romana, si avvantaggiava della manovrabilità offerta dalla forza e dall’abilità del suo equipaggio. L’invenzione di questo modello navale è attribuita da alcuni al corinzio Aminocle, da altri ai Fenici. In realtà, alla luce delle attuali conoscenze, è più opportuno parlare di una tipologia di nave scaturita da un contesto culturale mediterraneo non precisabile, sintesi di una koiné di esperienze tecniche e di conoscenze di architettura navale e di strategia militare. 1 Sull’ampio dibattito circa la ricostruzione della triere o trireme ateniese e greca vedi Basch (1987): pp. 265-336. Più in generale, sulla problematica delle poliremi di età ellenistica idem: 337-394; Morrison (1995); Bonino (2003).

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Fig. 25. I modelli di navi presenti nel mosaico di Althiburus (Tunisia). Da Duval (1949).

Le navi da trasporto, invece, cominciano ad assumere la caratteristica forma tondeggiante (navi tonde) e vengono denominate in greco olkàdes e in latino onerariae (Fig. 19), mentre le navi da guerra, più genericamente assumono la denominazione di naves longae. Logicamente una nomenclatura più articolata designava i diversi tipi di navi commerciali, come attestano le fonti scritte e iconografiche, anche in relazione al carico trasportato1 (Fig. 25). Per le navi da guerra, come approfondiremo qui di seguito, la denominazione varierà ancora soprattutto dalla distribuzione dei rematori. La maggior parte delle navi onerarie trasportava merci di varia natura, e in più vasellame, vettovaglie e suppellettili di diverso genere. Le merci erano contenute, per lo più, in anfore, anche se alcune tipologie di prodotti, come le granaglie o i legumi secchi, si prestavano ad essere trasportate in sacchi, o sciolte all’interno della stiva. I relitti più antichi, databili a partire dal tardo iii millennio a.C. hanno confermato che, già allora, sulle navi venivano imbarcate anfore per il trasporto di derrate.2 Le anfore viaggiavano, come già abbiamo detto altrove, impilate nelle stive in più strati sovrapposti (Fig. 26). Per attutire i colpi determinati dal moto on1 Per il mosaico di Althiburus in Tunisia iii sec. d.C. dove compaiono alcune rappresentazioni di navi accompagnate dal nome, cfr. Duval (1949): 118 e seguenti. 2 Serpico et alii (2003), pp. 365-375; Antonopoulos et alii (1991), pp. 10-42.

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capitolo quinto

Fig. 26. Relitto di Giglio Porto in corso di scavo, si notano le anfore del primo strato in posizione di carico. Da Dell’Amico (2004).

doso, tra le pance delle anfore accostate si interponevano fronde, rametti di specie arboree cespugliose e quanto fosse utile a questo scopo. Alle anfore si accompagnava la ceramica da mensa, sia del tipo fine (sigillate, lucerne) sia del tipo meno raffinato (ceramica comune, lucerne). In genere le anfore venivano smaltite, dopo l’uso, in discariche situate presso gli scali, perché impossibile riutilizzarle, dato che la terracotta si impregnava facilmente degli umori e degli odori dei liquidi contenuti. È facile capire che un’anfora impregnata di olio o dei resti maleodoranti del garum, nel caso di quelle adibite al trasporto di salse di pesce, difficilmente poteva essere utilizzata per un secondo trasporto. Famosa la discarica presso il porto fluviale di Roma, che diede luogo al monte Testaccio, costituita per la maggior parte da anfore olearie della Betica.1 Le anfore vinarie erano impeciate e resinate all’interno, mentre le altre risultano prive di questo trattamento, che doveva in qualche modo conferire un gusto particolare al contenuto.2 Già dal secolo xix si comprese l’importanza dello studio e della classificazione delle anfore; H. Dressel intraprese lo studio di quelle ritrovate a Roma nel Castro Pretorio e stilò una tavola tipologica rimasta per decenni insuperata (Fig. 27).3 Diversi studiosi, da allora, si sono cimentati nel tentativo di individuare le differenti 1 Cfr. Rodríguez Almeida (1972), pp. 106-240; Rodríguez Almeida (1979), 873-975; Rodríguez Almeida (1984). 2 Forse nel vino greco denominato Retsina si può riconoscere la sopravvivenza di un gusto antico, radicato ancestralmente nei greci di oggi. 3 Dressel (1899).

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Fig. 27. Tavola tipologica del Dressel. Dressel (1899).

aree di produzione, la cronologia, il contenuto delle anfore; le classificazioni tipologiche, con le produzioni individuate, sono ormai numerose e risulterebbe

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capitolo quinto eccessivamente riduttivo tentare di riassumerne la problematica in questo breve spazio.1 Trasporti speciali

Esistevano, poi, navi specializzate per particolari merci quali le naves lapidariae, le frumentariae. Tra le navi specializzate possiamo anche includere una categoria dedicata al trasporto del vino. Si tratta di vere e proprie “navi containers” all’interno delle quali erano sistemati stabilmente nella stiva enormi contenitori globulari di terracotta, i dolia, per il trasporto del vino sfuso (Fig. 28). Una volta giunti a destinazione, il vino era travasato in altri contenitori, venduto o conservato negli Horrea vinaria. Sono stati ritrovati diversi relitti lungo la Fig. 28. Dolio. Relitto di Diano Marina rotta che collegava l’Italia centro me(Imperia). ridionale alla Gallia. La maggior parte di questi relitti è databile entro la metà del i secolo d.C., almeno da quanto risulta dalle testimonianze fino ad oggi attestate.2 Tra i carichi più singolari vanno annoverati quelli trasportati dalle naves bestiariae o cercuri (dal greco Kérkuroi), navi impiegate per il trasporto degli animali selvaggi che erano utilizzati negli spettacoli circensi3 (Figg. 29-30). Altre navi 1 Il primo che ha tentato di riordinare la tavola tipologica del Dressel è stato Nino Lamboglia cfr. Lamboglia (1955), pp. 241-270, seguito da Fausto Zevi cfr. Zevi (1966), pp. 208-247. Da segnalare, inoltre, Recherches sur les amphores romaines, Collection de l’École Française de Rome 10, Rome 1972. Per l’identificazione delle tipologie di anfore, più recentemente, cfr. Peacock, Williams (1986); Sciallano, Sibella (1991), e, in lingua italiana Caravale, Toffoletti (1997). Gli studi sulle anfore sono numerosissimi e sono articolati per tipologie e produzioni; citiamo fra tutti Tchernia, (1986); Gras (1998), 477-484; Panella (1986), pp. 251-272; Panella (1998), pp. 531-560, Panella (2000), pp. 177-275; ricordiamo, poi, i convegni Méthodes classiques et méthodes formelles dans l’étude des amphores, Actes du colloque de Rome, 27-29 Mai 1974, Collection de l’École Française de Rome 32, École Française, Paris, 1977 e Amphores romaines et histoire économique: dix ans de recherches. Anfore romane e storia economica: Un decennio di ricerche. Actes du colloque de Sienne (22-24 mai 1986), Rome, 1989, (Collection de l’École française de Rome, 114). Più recentemente, sui commerci, i materiali e le rotte del Mediterraneo cfr. De Maria, Turchetti (Edd.) (2004) e Gallina Zevi, Turchetti (Edd.) (2004). 2 D’Atri, Gianfrotta (1986), pp. 203-208; Gianfrotta, Hesnard (1987), pp. 285-297; Morel (1998): 496-499; per il relitto di Diano Marina cfr. P. Dell’Amico, F. Pallarés, Il Relitto di Diano Marina e le Navi a dolia: Nuove Considerazioni. De Triremibus. Festschrift in honour of Joseph Muscat, San Gwann (Malta), 2005, pp. 67-114. Sulle navi a Dolia vedi anche: P. Dell’Amico, F. Pallarés, Appunti sui relitti a dolia, «amm» 8, 2011, pp. 47-135. 3 Cfr. i mosaici della villa tardoantica di Piazza Armerina.

Fig. 29. Mosaico con scene di cattura di belve per il circo. Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

Fig. 30. Particolare del mosaico con scene di cattura di animali per i giochi del circo. Piazza Armerina, villa del Casale, Enna.

eccezionali dovevano essere quelle adibite al trasporto degli obelischi, come quella che trasportò a Roma l’obelisco per il circo di Caligola.1 Per la navigazione nei fiumi e nei laghi, inoltre, ci si serviva di navi a fondo piatto che praticavano la navigazione interna. Sul Tevere, tra Roma e il mare, erano impiegate imbarcazioni di questo genere denominate naves codicariae (Fig. 31), per trasportare in città le merci scaricate dalle navi onerarie nei porti di Claudio e di 1 Testaguzza (1970): 105-111.

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Traiano (Fig. 32). Esse erano trainate controcorrente verso Roma aggiogate a bufali che percorrevano una via golenale lungo il fiume, detta via dell’alaggio. Tre delle navi conservate nel museo di Fiumicino presso Roma appartengono a questa tipologia.1 Nei fiumi dell’Europa centro settentrionale è testimoniato anche l’alaggio effettuato da uomini al posto degli animali (Fig. 33), e il trasporto di vino all’interno di botti su navi a remi (Fig. 34). Ancora, per la navigazione nelle Fig. 31. Rilievo con nave caudicaria. acque del Rodano, del Reno e del Ara funeraria. Museo Nazionale Romano, Roma. Danubio erano diffusi diversi tipi di navi fluviali, quali quelli rinvenuti a Zwammerdam (Olanda) a Oberstimm, a Lione, ecc…, caratterizzati da una forma allungata con sezione a U e con le estremità di poppa e di prua conformate a rampa per facilitare lo sbarco e l’imbarco delle merci.

Fig. 32. Mosaico raffigurante una scena di trasbordo delle merci da una nave oneraria ad una nave caudicaria. Piazzale delle Corporazioni, Ostia antica, Roma. 1 Petriaggi (1997a), pp. 16-20; Petriaggi (1997b), pp. 15-18; Boetto (2000), pp. 99-102; Boetto (2000 a).

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Fig. 33. Scena di alaggio con schiavi al posto degli animali da tiro (Provenza). Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

Fig. 34. Rilievo di nave fluviale con botti (Neumagen). Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

Altri esemplari di battelli, facenti parte della flotta del Reno, sono costituiti dalle lusoriae, navi militari, e dalle iudiciariae, destinate in età tardoantica ai viaggi di servizio degli alti funzionari amministrativi, come gli esemplari ora esposti nel Museo Navale di Mainz1 (Fig. 23, Capitolo terzo, p. 100). Capacità di carico dei mercantili antichi La stazza dei mercantili antichi poteva raggiungere livelli notevoli:2 la capacità di trasporto era calcolata in anfore (unità di 45-50 chilogrammi) o modii (circa 6.6 1 Cfr. Pferdeirth (1995): 17-36.

2 Casson (1995): 183-200.

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chilogrammi). Dalle fonti sappiamo dell’esistenza di navi dalle stive capaci di contenere oltre 10.000 anfore, myrioforoi, intorno alle 450/500 tonnellate, ovvero fino a oltre 180.000 moggi di grano, pari a circa 1200 tonnellate, come l’Isis, nave della flotta granaria di Alessandria, descritta da Luciano (Navigium, 5), lunga 53 metri, larga 14 e alta circa 13 metri dalla chiglia al ponte. Una capacità di carico pari a circa 330 tonnellate (50.000 moggi) Fig. 35. Sepolcro di Naevoleia Tyche era il requisito minimo richiesto con rappresentazione di nave oneraria. dallo Stato romano per il conferiScavi archeologici di Pompei, Napoli. mento di speciali condizioni a chi volesse offrire a nolo la propria nave per i trasporti dell’Annona. Del resto è stato calcolato che se sotto Augusto, a Roma, circa 750.000 persone potevano contare sul frumento distribuito gratuitamente dalle Autorità, aggiungendo quello consumato dal ceto più elevato, dovevano annualmente raggiungere la Capitale circa 270.000 tonnellate di grano, pari a circa 40.000.000 di modii. Tra i relitti noti è stato stimato che la Madrague de Giens, nave in origine lunga circa 40 metri, trasportasse un carico di circa 300/400 tonnellate di anfore, disposte su tre o quattro strati, mentre la nave di Albenga ne trasportava 500/600 tonnellate, disposte su almeno cinque strati.1 Un tipo di merce particolarmente richiesta dall’aristocrazia romana erano le spezie provenienti dall’Oriente. Se, infatti, il condimento più utilizzato nel mondo romano, il garum, confezionato all’interno di speciali anfore, era largamente commercializzato nel Mediterraneo, dalla Siria e dall’Arabia, attraverso i traffici con l’India giungevano le spezie e l’incenso, fortemente richiesti per la preparazione di cibi, di medicinali e per il culto.2 Nel corso delle lunghe traversate, per la stabilità della nave era importante la presenza della zavorra (da saborra, sabbia), onnipresente nelle stive. Oltre alla sabbia, anche pietrame di varia pezzatura era utilizzato per questa funzione e, in qualche caso, anche i legumi, come le 800 tonnellate di lenticchie che furono utilizzate come zavorra per la nave citata che trasportò l’obelisco per il Circo di Caligola.3 In ogni caso si cercava di non ritornare dal viaggio con la nave priva di un certo quantitativo di carico: se questo fosse stato di peso inferiore a quello del viaggio di andata, la differenza sarebbe stata rimpiazzata dalla zavorra.

1 Pomey, Tchernia (1978), pp. 233-251. 2 Per il commercio con l’India vedi per esempio quanto detto nel Capitolo sesto al paragrafo “L’esplorazione del porto di K·Ó‹ (Bir’ali)” con bibliografia citata. 3 Plinio, N.H., 16, 201.

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Attrezzatura di bordo Possiamo definire la nave, in qualsiasi epoca, come un ecosistema umano perfettamente autonomo che, insieme, contiene e rappresenta in se stessa quanto di meglio si può immaginare dal punto di vista strumentale e tecnologico. Le navi dell’antichità, per quanto possano apparire spartane e primitive agli occhi di un osservatore Fig. 36. Bozzelli moderni. moderno, hanno restituito, attraverso La somiglianza con quelli antichi provenienti lo scavo dei relitti, non solo i contenitodagli scavi archeologici è sorprendente. ri e le merci trasportate, ma anche una grande varietà di attrezzatura di bordo, suppellettili e strumenti di lavoro, non di rado di sorprendente livello tecnico e tecnologico.1 Immaginiamo il numero e la diversità delle manovre fisse e correnti necessarie per il governo della velatura (Fig. 35). Drizze, scotte, amantigli, realizzati con l’intreccio di fibre vegetali, sono andati perduti, ma restano, invece, i bozzelli, organi dotati di carrucole, indispensabili per facilitare lo scorrimento delle funi (Fig. 36), e gli anelli di piombo, talvolta di legno, cuciti sulle vele per guidare le sagole che erano manovrate per imbrogliare la vela o per modificarne la geometria. Bigotte e arridatoi, anch’essi restituiti dal mare, consentivano la giusta tensione degli stralli che assicuravano l’albero nella sua posizione. Bitte, gallocce, strumenti per ancorare le funi nella posizione voluta e ancora mastelli di legno, sessole per sgottare l’acqua, vasellame da cucina, attrezzi ed ami da pesca e suppellettile per gli usi quotidiani dell’equipaggio e un numero di attrezzi di piccole e grandi dimensioni e di materiali diversi che gli scavi archeologici continuano a restituire, e che richiederebbero uno spazio enorme per essere elencati tutti con la descrizione delle loro funzioni, riempiono i rendiconti dei lavori archeologici subacquei. Una menzione a parte meritano le armi di difesa e di offesa che talvolta si rinvengono anche a bordo delle navi onerarie.2 Non era infrequente, infatti, la ne1 Basti pensare al meccanismo in bronzo recuperato all’inizio dello scorso secolo dal relitto di Antikythera, del quale sono state realizzate fino ad oggi quattro campagne radiografiche per cercare di comprendere il funzionamento degli ingranaggi che lo compongono. Si trattava, quasi certamente, di uno strumento di navigazione, anche se non si può escludere che facesse parte del carico. Si tratterebbe, allora, di un meccanismo destinato a qualche scienziato o matematico, visto che si è pensato che potesse servire per interpretare i moti stellari e/o lunari. Le ultime radiografie del 2005 sono esposte ai visitatori presso il Museo Archeologico Nazionale di Atene. Attualmente un gruppo di ricercatori greci e britannici si sta accingendo a rilevare nuove radiografie con raggi x di elevata tecnologia, per ottenere immagini tridimensionali dell’interno. Queste potrebbero essere di aiuto per cercare di comprendere quali fossero l’effettivo funzionamento e l’impiego di questo strumento. Sull’attrezzatura di bordo e la suppellettile cfr. Beltrame (2002): 9-63. Aggiornamenti sono disponibili su http://www.antikythera-mechanism.gr/. 2 Cfr. ad es. i sette elmi ritrovati a bordo del relitto di Albenga e la corazza e il cranio con tracce del casco di bronzo dal relitto di Spargi che hanno fatto pensare ad un attacco di pirati. Anche le otto punte di lancia rinvenute nel relitto della Kyrenia fecero pensare ad un attacco. Cfr. Capitolo primo, p. 39 e p. 51, Cavazzutti (1997), pp. 197-213 e, per ulteriori informazioni, Beltrame (2002): 33-36.

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Fig. 37. Elmo del tipo di Montefortino, dalla costa di Ragusa (Sicilia). Da Di Stefano (2007).

cessità di doversi difendere da attacchi di pirati; piuttosto che a mercenari asFig. 38. Disegno con scandagli di piombo. Da Gianfrotta Pomey (1981). soldati a questo scopo, si deve pensare che le armi fossero utilizzate, al bisogno, dagli stessi membri dell’equipaggio (Fig. 37). Da ricordare anche gli scandagli, costituiti, in genere, da pesi di piombo dalla forma di un tronco di cono con base concava che era spalmata di sostanze appiccicose come resine e pece (Fig. 38). Calato fuori bordo all’approssimarsi della costa e salpato dal marinaio contando le ‘braccia’ di recupero, lo strumento dava informazioni sulla profondità e, grazie all’impronta del fondo rimasta appiccicata alla base, anche la natura del fondale (sabbioso/fangoso o roccioso), dato utilissimo per l’ancoraggio. L’acqua raccolta nella sentina per infiltrazione o caduta dal ponte, doveva essere sgottata frequentemente. Se le imbarcazioni più piccole potevano utilizzare i semplici attrezzi di cui si è parlato, le navi mercantili e militari si servivano di pompe di sentina, che potevano essere del tipo a stantuffo o, come più spesso risulta dagli scavi, del tipo a bindolo.1 Si trattava di un sistema di sollevamento dell’acqua per mezzo di dischetti di legno che, vincolati ad una fune, risalivano un condotto che dalla sentina scaricava attraverso gli ombrinali situati sui parapetti. La risalita dei dischetti, ognuno dei quali imprigionava dentro il tubo una piccola quantità d’acqua convogliandola verso l’esterno, era provocata da un dispositivo a manovella ed ingranaggi con il quale si trasmetteva il movimento alla fune (Fig. 39). 1 Sul funzionamento di questo tipo di pompa di sentina cfr. Enei (2005), pp. 149-160 ed anche Beltrame (2002): 22-25.

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Fig. 39. Interno della cassa con la puleggia di un modello di pompa di sentina “bindolo”. Museo del Mare e della navigazione antica. Santa Severa, Roma. Da Enei (2005).

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Fig. 40. Ancora litica. Museo del Mare e della navigazione antica. Santa Severa, Roma.

A questo servizio, noioso e ripetitivo, potevano essere addetti giovani mozzi, marinai anziani o temporaneamente parzialmente abili, ovvero, su navi di dimensioni ragguardevoli, muli o asini potevano essere aggiogati ad un meccanismo rotante, di maggiori dimensioni, che trasmetteva il moto agli ingranaggi, ma non abbiamo notizie dettagliate a questo proposito. Tra i ritrovamenti concernenti l’attrezzatura di bordo occupano un posto preminente le ancore. Studi sistematici hanno preso in esame le diverse tipologie, da quelle litiche di età preistorica (dal terzo millennio a.C.) a quelle di ferro, di età bizantina e medievale.1 L’ancora litica è il primo intuitivo sistema per cercare di tenere fermo un natante; il principio è molto semplice e si basa sull’efficacia del peso come elemento stabilizzante. I più antichi esemplari sono costituiti da pietre informi o di forma vagamente regolare dotate di un foro per l’alloggiamento della cima di tenuta (Fig. 40). Ad uno stadio di evoluzione successivo appartengono ancore di pietra dotate di tre fori, due dei quali servivano per l’alloggiamento di marre di legno che avevano la funzione di far presa sul fondale, migliorando l’efficienza dello strumento. In età arcaica compare il tipo di ancora costituito da un ceppo di pietra con fusto e marre di legno, che costituisce il modello evolutivo definitivo della tipologia dell’ancora. L’ancora con ceppo in pietra, o di altro materiale litoide, fu utilizzata dalla fine dell’viii al iv secolo a.C. insieme, comunque, ai modelli che lo avevano preceduto, che non furono del tutto soppiantati (Fig. 41). La funzione del ceppo era quella di appesantire il fusto e le marre che erano di legno e che, quindi, avrebbero galleggiato; inoltre, la sua collocazione perpendi1 Cfr. Kapitän (1971): 383 e segg; Gianfrotta (1977), pp. 285-292; Gianfrotta (1980): 103 e segg.

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Fig. 41. Ancora di legno con ceppo di pietra ed ancora litica a cinque marre. Museo del Mare e della navigazione antica. Santa Severa, Roma.

Fig. 42. Ancore e ceppi di piombo. Al centro, ancora di legno con ceppo di tipo mobile; a destra in fondo, ancora di legno con ceppo di tipo fisso; a sinistra e in fondo ceppi di tipo fisso. Museo archeologico di Palermo.

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colare al piano delle marre, faceva in modo che queste assumessero sul fondo la giusta inclinazione per potersi aggrappare. Intorno al iv secolo a.C. il ceppo di pietra fu soppiantato da quello di piombo (Fig. 42). Questo presentava il vantaggio di un maggior peso a parità di volume ed era di facile realizzazione; bastava, infatti, ricavare una forma nella sabbia o nel terreno, infiggervi il fusto con le marre rivolte Fig. 43. Contromarre di piombo. verso il cielo e colare all’interno della Museo del Mare e della navigazione antica. forma il piombo fuso che, per questo Santa Severa, Roma. e per altri usi, veniva stivato a bordo in lingotti o in lamine. Elementi accessori dell’ancora sono costituiti dalle contromarre, anch’esse realizzate con il piombo e dalla forma caratteristica a tre fori1 (Fig. 43). Nell’età ellenistica fanno la loro comparsa le ancore di ferro che vengono utilizzate assieme ai tipi precedenti e che si affermeranno nell’età imperiale romana, fino a sostituire del tutto le ancore del tipo classico nell’età tardo antica e bizantina2 (Figg. 44-45). Una innovazione databile già all’età romana è, infine, quella del ceppo mobile sulle ancore di ferro come hanno evidenziato le ancore scoperte a Nemi3 (Fig. 25, Capitolo primo, p. 36). Commercio dei beni di lusso Si è parlato della differenziazione dei vari modelli di navi da trasporto in funzione del tipo di carico. Spesso le merci di lusso o le opere d’arte accompagnavano un carico di natura diversa. Infatti se, ad esempio, le naves lapidariae o quelle per il trasporto degli animali per i giochi del circo sono da considerarsi tra i modelli di alta specializzazione, la norma era costituita dai trasporti promiscui, dal momento che le navi, soprattutto quelle che effettuavano la navigazione di cabotaggio, potevano imbarcare merci diverse nei vari approdi che contrassegnavano le tappe del viaggio fino al porto di destinazione finale. Inoltre, si cercava di occupare ogni spazio disponibile ed il vasellame, come si è visto, viaggiava come merce di accompagnamento impilato nelle stive, tra gli interstizi disponibili tra le anfore o le balle di mercanzie più voluminose. Dei contenitori utilizzati per il trasporto marittimo, solo le anfore, i dolia e i recipienti in 1 Prima dei rinvenimenti di ancore antiche complete, le contromarre costituivano un enigma per la difficoltà di interpretare la funzione dei tre fori. 2 Sembra che gli ultimi ceppi di piombo possano essere stati realizzati nel iii secolo d.C., anche se possono essere rimasti in uso ancora per un tempo non definito cfr. Purpura (2003): 3. 3 Cfr. supra Capitolo primo, nota 3, p. 32.

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Fig. 44. Tavola tipologica dell’ancora di legno. Da Dell’Amico (2007).

Fig. 45. Tavola tipologica dell’ancora di ferro di età romana. Da Dell’Amico (2007).

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terracotta sono giunti in gran numero fino ai giorni nostri. Sacchi, botti e, in genere, tutti i contenitori costituiti da materiale deperibile sono andati perduti. Alcune eccezioni sono rappresentate dal ritrovamento di resti di cesti di vimini.1 Le opere d’arte, come le statue e la suppellettile di lusso, erano trasportate probabilmente entro imballaggi di paglia e avvolte da tessuti pesanti per attutire i colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione2 (Fig. 46). Per il commercio ed il trasporto di statue di bronzo e di marmo, di supFig. 46. Particolare del calcagno pellettile di lusso, mobilio e altro, si del Satiro danzante di Mazara del Vallo con impronta del tessuto di imballaggio rimanda a quanto detto nel capitolo (Archivio iscr). riguardante la storia delle scoperte subacquee, dove vengono analizzati i ritrovamenti isolati di opere d’arte e i carichi più significativi dei relitti scoperti nei decenni passati e negli anni più recenti.3 Nelle pagine seguenti ci soffermeremo, in particolare, sull’estrazione e sul trasporto del marmo, uno dei beni più ricercati e più indicativi del lusso, della ricchezza e della potenza di chi poteva disporne. L’estrazione e il commercio del marmo in età romana Le principali cave di marmo presenti nel bacino del Mediterraneo entrarono progressivamente sotto l’influenza diretta di Roma, via, via che la sua politica di espansione le consentì di annettere i principali luoghi di estrazione all’interno dei suoi confini (Fig. 47). Le tappe di questo processo possono essere sintetizzate dai seguenti avvenimenti: – 190 a.C. Battaglia di Magnesia e vittoria contro Antioco iii di Siria. Con la conseguente pace di Apamea, nel 188 Roma diviene signora del Mediterraneo orientale. – 146 a.C. Distruzione di Corinto ed annessione dei territori greci unitamente alla distruzione di Cartagine ed alla creazione della provincia d’Africa. In Grecia sono localizzate alcune tra le cave dei marmi più ricercati, sia per la statuaria che per le costruzioni. Si ricordano le cave del Pentelico e Imezio (Atene); Serpentino e Rosso antico (Peloponneso); Pario e Nassio (isole Cicladi); Karistio (Eubea); Verde antico (Tessa-

1 Berti (1986): 30-31; Grandinetti (2000), pp. 109-117. 2 Per i resti dell’impronta di un telo di imballaggio rinvenuto sulla pianta del piede superstite del Satiro danzante di Mazara del Vallo cfr. Petriaggi, Donati (2005): 115, fig. 12. Una ulteriore testimonianza di imballaggio di merci con sacchi di tela in Di Stefano (2007): 154. 3 Per il commercio marittimo di opere d’arte cfr. da ultimo Arata (2006).

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Fig. 47. Cava presso il Wadi Jabrun, regione di Silin, Libia.

glia); Tasio (Isola di Taso). Presso Cartagine era estratto soprattutto il Giallo antico, o Numidico, nelle cave di Chemtu, e il Nero antico presso il Gebel Aziz. – 133 a.C. Morte di Attalo III di Pergamo, che lascia erede del suo regno il popolo romano. Tra le principali cave di Asia minore si distinguono quelle del Proconnesio (isola di Marmara); quelle nei pressi di Asso, dove si cavava il Lapis Sarcofagus; quelle dell’Isola di Chio, dove si cavava il Portasanta; quelle dell’Africano a Teos e del Pavonazzetto a Docimio. – 31 a.C. Vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra ed annessione dell’Egitto che dà accesso alle cave di diverse qualità di graniti, onici, brecce, porfido ecc…

Dopo la conquista dell’Oriente, dunque, accadde che i rappresentanti dell’aristocrazia romana si convinsero di essere gli eredi diretti della tradizione greco – ellenistica, della quale assimilarono avidamente la cultura e, ancor più precocemente, i segni e la simbologia del potere. In linea con questa filosofia, anche l’architettura pubblica e privata mutò, adottando stili e soluzioni architettoniche e urbanistiche proprie del mondo greco, con i santuari circondati da ampi spazi porticati o distribuiti su terrazzamenti scenografici, su esempio delle città dell’Asia minore. L’introduzione dell’uso del marmo nell’architettura pubblica e privata era parte integrante di questo programma di rinnovamento. Tra le conseguenze più evidenti nell’architettura templare, si rileva l’abbandono del tipo architettonico del tempio etrusco-italico e l’adozione degli ordini ar-

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chitettonici greci. Sono, inoltre, realizzati per la prima volta edifici di spettacolo stabili e grandiosi. All’inizio è diffuso ancora l’uso di materiali tradizionali, alternati all’impiego dei marmi, quali il travertino o il calcare, il tufo e il peperino. Però, ad imitazione del marmo, le partiture architettoniche erano stuccate e poi completate con finiture cromatiche. Anche nei pavimenti, l’introduzione di piccole scaglie di marmi colorati nei battuti di cocciopesto o nei tappeti di tessellati bianchi, denota il gusto per il cromatismo e per lo sfarzo. Nel tentativo di ricercare materiali somiglianti al marmo greco, ma che fossero di più immediata disponibilità, dall’età di Cesare si avviò anche lo sfruttamento delle cave di Luni, presso Carrara Tra i promotori dell’uso di arredi marmorei le fonti ricordano soprattutto i seguenti personaggi: L. Licinio Crasso che meritò l’appellativo di Venere Palatina per aver adornato l’atrio della sua casa con colonne di marmo imezio, già alla fine del ii secolo a.C.; M. Lepido, console nel 78 a.C., che nella sua casa impiegò soglie di giallo antico; C. G. Cesare che, secondo Svetonio, quando viaggiava portava con sé tessellata et sectilia pavimenta con i quali adornare le dimore in cui soggiornava e che, come riferisce Cicerone, stabilì una tassa per ogni colonna importata a Roma. Contemporaneamente all’importazione di marmo per usi architettonici, si diffuse l’uso delle suppellettili e della statuaria di marmo. Per soddisfare la grande richiesta che si verificò intorno alla fine dell’età repubblicana, nacquero officine di artisti che producevano copie di famosi capolavori; tra queste si distinsero le officine neoattiche, presso Atene, che utilizzavano soprattutto il marmo pentelico o il pario. Dopo la conquista delle principali aree di produzione, l’aristocrazia senatoria romana cercò precocemente di stabilire la sua influenza ed il suo controllo sulle cave, tanto che il nome di nobili romani è ancora legato a qualche tipo di marmo (vedi ad esempio il Luculleo o Africano). Grazie a provvedimenti di confisca, acquisti ed eredità, Augusto inaugurò una politica di monopolio imperiale nei confronti delle principali zone estrattive dell’impero.1 I blocchi provenienti dalle cave di proprietà imperiale recano iscrizioni incise, tra le quali si distinguono l’indicazione della data consolare e, a volte, l’indicazione Caes(aris) o Caes(aris) Nostri. Talvolta sono presenti bolli in piombo recanti l’effigie dell’imperatore, racchiusi entro un incasso circolare. Tra le indicazioni più comuni troviamo i numerali preceduti da N o da L (numerus, locus); se la cava era suddivisa in diversi distretti estrattivi, questi appaiono indicati con il termine di officina seguito da un nome generalmente al genitivo. L’indicazione caesura, seguita da un nome in genitivo, indica il taglio e, la specificazione del settore, brachium, poteva essere aggiunta, in alcuni casi, seguita da un numerale. 1 Ulteriori informazioni sull’organizzazione delle cave e del commercio in Pensabene (a cura di) (1998).

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Fig. 48. Particolare degli incassi per l’inserimento dei cunei nella cava di granito di Capo Testa in Sardegna.

Fig. 49. Machina tractoria nel rilievo degli Haterii. Musei Vaticani, Roma.

Fig. 50. Deposito di marmi recuperati dal Tevere: colonne in gruppi di quattro, ancora da separare, e blocchi semilavorati da rifinire. Scavi di Ostia antica, Roma.

Alcune sigle come P, indicano un controllo di qualità che poteva convalidare il pezzo, P(robatum), oppure respingerlo, repr(obatum), mentre una R sbarrata orizzontalmente stava per recognitum, cioè accettato. Gli incaricati che apponevano queste certificazioni, i rationales, erano presenti non solo nelle cave, ma anche nei porti di imbarco e nei centri di arrivo, per cui appaiono spesso gli stessi nomi con le stesse date consolari in blocchi provenienti da cave diverse. Sovrinten-

Fig. 51. Cava a gradoni presso il Wadi Jabrun, regione di Silin, Libia.

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Fig. 52. Una fila di fori per l’inserimento dei cunei per tagliare blocchi di granito. Cava di granito di Capo Testa in Sardegna.

dente dell’intera organizzazione delle cave statali era il Procurator marmorum, generalmente un liberto imperiale che risiedeva nella Statio Marmorum di Roma, mentre altri Procuratores sovrintendevano alle singole cave, curando anche la concessione di limitati appalti a privati, anch’essi schiavi o liberti imperiali. La mano d’opera era essenzialmente servile o costituita da ergastolani, mentre i lavori più delicati potevano essere affidati ad artigiani liberi. Per l’estrazione e la lavorazione dei blocchi venivano utilizzati diversi tipi di cunei, di scalpelli e picconi (Fig. 48). Particolari macchinari, detti machinae tractoriae, azionati da decine di schiavi, erano utilizzati per il sollevamento e lo spostamento dei blocchi. Una di queste macchine è raffigurata nel rilievo del mausoleo degli Haterii, ora ai Musei Vaticani (Fig. 49). Il lavoro di sgrossatura, poi, veniva eseguito direttamente sul posto e ancora oggi sono evidenti i segni lasciati dagli strumenti di lavoro, ad esempio su alcuni blocchi recuperati dal fondo della Fossa Traiana (Fig. 50). Le maestranze che operavano esercitando le specifiche competenze, erano ordinate secondo una precisa gerarchia: dal soprintendente alla cava, agli architetti responsabili del taglio, ai probatores, una sorta di esercito ben addestrato si cimentava con il difficile compito di estrarre il prezioso materiale, sia scavando a cielo aperto, sia sottoterra. Nello scavo a cielo aperto, si attaccava la parete cercando di sfruttare le stratificazioni e le fenditure naturali per ottenere tagli a gradoni (Fig. 51). Ove necessario, le linee di taglio venivano create artificialmente per mezzo di cunei di legno o di ferro che, bagnati nel primo caso, scaldati, nel secondo, dilatandosi determinavano il distacco dei blocchi (Fig. 52).

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capitolo quinto

Di gradone in gradone, i tagli si susseguivano fino a lasciare un unico fronte segnato dalle linee di lavorazione e alto anche qualche decina di metri. Lo scavo in galleria era eseguito se si presentava poco agevole quello a cielo aperto, o se si doveva seguire una particolare vena pregiata e, in ogni caso, spesso le due tecniche erano praticate contemporaneamente. Attraverso il trasporto per mare, marmi di tutte le qualità raggiungevano il porto di Roma e, da qui, risalendo la Fossa Traiana, le chiatte fluviali lo trasportavano fino alla Statio Marmorum, tra l’Aventino e l’odierno Testaccio (Fig. 28, Capitolo terzo, p. 103). Le navi adibite al trasporto dei marmi, naves lapidariae, erano eccezionali per robustezza e, a volte, per dimensioni. Famosa fu quella che, dopo aver trasportato a Roma l’obelisco vaticano, fu utilizzata da Claudio come cassaforma per le fondazioni del faro del suo porto. La ricerca archeologica subacquea ha portato alla scoperta di numerosi relitti di naves lapidariae.1 Tra i più antichi si ricorda la già citata nave di Mahdia, dei primi decenni del i secolo a.C., che trasportava sia blocchi grezzi che elementi semilavorati o parti architettoniche da rifinire, assieme a statue e oggetti artistici.2 Tra i numerosi ritrovamenti di navi cariche di sarcofagi, si citano i relitti di Torre Sgarrata, presso Taranto, con marmi e sarcofagi databili al ii secolo d.C., provenienti dall’Asia Minore e da Afrodisia;3 quello di Methoni, nel Peloponneso, con sarcofagi a festoni del iii secolo d.C. realizzati con una particolare pietra vulcanica originaria di Assos, nella Troade. Si tratterebbe, forse, del Lapis sarcophagus di cui parla Plinio, una pietra capace di corrodere un corpo in quaranta giorni.4 Sempre presso Taranto, degno di menzione è il relitto di San Pietro in Bevagna, databile alla prima metà del iii secolo d.C., con sarcofagi a vasca e rettangolari, appena sbozzati. Il carico, proveniente da Afrodisia o dall’area greco-insulare, era razionalmente disposto con i sarcofagi più piccoli collocati all’interno dei più grandi, per guadagnare spazio; notevoli, inoltre, alcuni sarcofagi rettangolari a cassa doppia destinati ad essere separati nel laboratorio di destinazione.5 Un relitto con carico costituito da marmi di diversa provenienza (il proconnesio e il pavonazzetto) è quello rinvenuto presso Punta Scifo (Crotone), a circa 200 metri dalla costa, intorno ai 7 metri di profondità. Le iscrizioni consolari presenti sulle colonne e sui blocchi squadrati hanno indicato due momenti di estrazione diversi, il 197 e il 200 d.C. La diversa qualità del carico, unita a questo dato, ha fatto presupporre l’esistenza di un centro di smistamento lungo la rotta, dove i marmi potevano sostare anche qualche tempo, prima di essere avviati ai centri di destinazione.6 Lungo la costa orientale della Sicilia, a Marzamemi, negli anni ’60 dello scorso secolo, fu rinvenuto un relitto databile al vi secolo d.C. che trasportava l’intero corredo lapideo destinato alla costruzione di una chiesa e, con ogni evidenza, ordinato espressamente. Tra i rinvenimenti, parti dell’altare e della balaustra con 1 Pensabene (1972), pp. 317-362. 3 Throckmorton (1988), pp. 263-274. 5 Alessio, Zaccaria (1997): 211-224.

2 Cfr. supra pp. 24-27. 4 Plinio, N.H., xxxvi, 131. 6 Pensabene (1978), pp. 105-118.

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ventotto basi di colonna, ventisette capitelli corinzi e colonne monolitiche in marmo proconnesio, lastre di rivestimento del pulpito, decorate, in marmo verde antico della Tessaglia.1 Innumerevoli sono, poi, i blocchi di marmo che giacciono ancora oggi sul fondo del canale di Fiumicino (Fossa Traiana) nei pressi del quale doveva esistere una Statio che, insieme a quella di Ripa Marmorata presso il Testaccio, costituiva il centro di smistamento dell’Urbe; un grande quantitativo di blocchi recuperati nei decenni scorsi può essere oggi visibile presso gli scavi di Ostia Antica (Fig. 50).2 Gli ultimi marmi di cava iscritti risalgono al tempo di Alessandro Severo. A quell’epoca (prima metà del iii sec. d.C.), l’enorme riserva costituitasi nei secoli precedenti aveva ormai placato la fame di marmi pregiati e, d’altra parte, da questo momento storico si riscontra una certa contrazione nell’attività edilizia monumentale. Per le grandi opere pubbliche dei secoli iii e iv non era infrequente la pratica del riuso o quella di realizzare in mattoni, ricoperti, poi, da lastre marmoree, alcuni particolari architettonici per i quali, un tempo, si sarebbe impiegato il marmo in blocchi. Il marmo che ancora raggiungeva Roma veniva importato espressamente per edifici la cui costruzione era certa e non più per essere accumulato come riserva nei depositi urbani. Questa particolare situazione sarà ancor più evidente nel corso del iv secolo, quando l’impiego su larga scala di colonne, capitelli e partiture architettoniche di marmo appositamente eseguiti, fu riservato esclusivamente ai grandiosi cantieri delle basiliche costantiniane. Navi da guerra di età greco-romana Se si escludono la più volte citata nave punica di Marsala (iii sec. a.C. circa) e i resti scarsi di una sua consorella non recuperata, non ci sono pervenuti relitti di navi da guerra perché queste, prive del carico che solitamente funge da protezione delle strutture lignee, sono andate in massima parte distrutte per l’azione dell’ecosistema marino. Pertanto, le caratteristiche delle navi da guerra ci sono note in massima parte dalle fonti scritte e da quelle iconografiche. Poco si ricava, da queste, sulle loro dimensioni. È vero che gli scavi archeologici hanno evidenziato, in diverse località del Mediterraneo, bacini di carenaggio e antichi arsenali, dalla misura dei quali è possibile dedurre qualcosa per quanto riguarda le navi che potevano esservi ospitate, ma si tratta di ritrovamenti di strutture databili quasi esclusivamente all’età greca o ellenistica, caratterizzate da rampe in pietra, digradanti verso il mare, fiancheggiate da colonne e coperte da tetti spioventi (Fig. 53).3 I confronti tra le varie situazioni pervenute danno una dimensione media, almeno per le triremi di età classica ed ellenistica, di circa 35 m di lunghezza per 1 Kapitän (1969), pp. 122-133; Kapitän (1980), pp. 71-136. 2 Baccini Leotardi (1979); Pensabene (1994). 3 Blackman (1990), pp. 35-52; Blackman et alii (2013).

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Fig. 53. Porto di Cartagine, isolotto dell’ammiragliato. Gli scivoli per il ricovero della flotta. Da Gianfrotta, Pomey (1981).

Fig. 54. Affresco con la rappresentazione di navi da guerra romane. Museo archeologico Nazionale, Napoli.

circa 5 m di larghezza. Che cosa sia stato, poi, recepito di questi moduli in età romana e, in particolare, nell’età imperiale, è difficile stabilirlo, né le raffigurazioni artistiche, per le deformazioni e la sommarietà di esecuzione, possono essere utili a tal fine.1 Tutto ciò che si può dire osservando le rappresentazioni, soprattutto pittoriche, di navi da guerra, è che esse appaiono veramente più lunghe che larghe e abbastanza basse sul profilo dell’acqua (Fig. 54). Esse, inoltre, dovevano la loro agilità e manovrabilità alla presenza dei rematori. In effetti le vele erano usate durante la navigazione di crociera, ma, in assetto di battaglia, l’albero era rimosso e, come si è detto sopra a proposito della trireme greca, si manovrava con i remi. L’invenzione della trireme tra la fine dell’viii e l’inizio del vii secolo a.C. stabilisce, dunque, un modello di riferimento al quale si riconducono tutte le successive evoluzioni dei vascelli da guerra. I romani, nel corso dell’età imperiale, utilizzeranno un modello di nave ispirato sì alla trireme classica, ma modificato in alcuni elementi essenziali, tra i quali spicca il sistema di allestimento dei piani di voga. La trireme romana di epoca imperiale, così come appare nelle rappresentazioni figurate, può presentarsi esteriormente sotto due aspetti, a seconda della di1 Per i navalia di Roma vedere per es. Coarelli (1968), pp. 27-37.

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Figg. 55-56. Rilievo con trireme (Pozzuoli). Museo archeologico Nazionale, Napoli.

sposizione dei rematori entro gli apposticci di voga: nel primo tipo i remi escono da portelli posti sul fronte dei ballatoi (Fig. 55), mentre nel secondo i remi escono al di sotto dei ballatoi, poggiando, evidentemente su scalmi collocati nella parte bassa degli stessi (Fig. 56).1 Una questione aperta è quella riguardante le poliremi, le navi, cioè, che vengono denominate quadriremi, quinqueremi, esere, ecc… e che si impongono alla ribalta della marineria da guerra mediterranea nel corso dell’età ellenistica. Questi nomi dipendevano dalla presenza di più ordini di remi sovrapposti, ovvero dal fatto che ad un singolo remo potevano essere applicati più rematori? Come simili bastimenti manovrassero e quali soluzioni tecniche fossero adottate per permettere l’operatività dei rematori, non è ancora oggi perfettamente chiaro. L’ipotesi condivisa dalla maggior parte degli studiosi è, tuttavia, quella che non si siano impiegati più di tre ordini di rematori sovrapposti e che per le cosiddette poliremi si debba supporre l’applicazione di più rematori su uno stesso remo, secondo un sistema di voga denominato a scaloccio.2 (Fig. 57). Del resto, già per l’età ellenistica vengono citati colossi impressionanti (fino alle tessarakontere, navi da quaranta), che hanno fatto ipotizzare architetture navali paragonabili ai nostri catamarani, perché non si capisce come in un solo scafo potessero essere ospitati così numerosi ordini di remi oppure, meglio, come tanti rematori potessero essere applicati su un solo remo. Le unità da guerra dell’Impero romano non furono, comunque, superiori alle esere, secondo la documentazione epigrafica di cui disponiamo, probabilmente ammiraglie delle due Flotte Pretorie. Un modello molto diffuso di nave da guerra fu la cosiddetta Liburna, un tipo di bireme leggera, forse non pontata, in origine usata dai pirati illirici ed entrata in servizio nelle flotte romane dopo le vitto1 Per un commento alle Figg. 56 e 57 cfr. Basch (1987): 438-441. 2 Di parere diverso sembra Reddé (1986): 47-59.

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Fig. 57. Due proposte per la disposizione dei rematori a scaloccio su una quinquereme a due ordini (a sin.) e ad un solo ordine di rematori (a ds.). Da Basch (1987)

rie di Pompeo sui pirati. Considerato che doveva trattarsi di navi leggere e veloci, forse non venivano dotate di sistemi di difesa o di offesa come le torri smontabili che appaiono su unità di stazza maggiore (Fig. 58).1 A dispetto della fortuna goduta presso gli scrittori di cose navali, stando alle epigrafi pervenuteci le liburne non sembrerebbero i vascelli più diffusi, esse sono menzionate sessantadue volte, mentre le quinqueremi sono attestate sessantasei volte. Sembrerebbero guidare questa sorta di classifica le triremi con duecentottantadue menzioni. Quanto alla velatura, le navi da guerra erano dotate di due alberi a vela quadra, uno a prua detto dolon, ed uno nella parte mediana, il malus o albero maestro, dal quale pendeva la vela principale. Probabilmente la vela di prua serviva per rimontare il vento o agevolare le manovre di virata, mentre nelle andature portanti era poco funzionale essendo coperta dalla vela principale. Struttura delle navi da guerra e loro capacità offensiva Le fonti iconografiche rappresentano le navi da guerra come battelli allungati, dal profilo asimmetrico, con poppe alte e tondeggianti e prue basse, a profilo concavo, terminanti con un rostro. Gli elementi architettonici costitutivi delle navi da guerra poco differiscono da quelli che caratterizzano le navi da trasporto, se si escludono alcune peculiarità di carattere spiccatamente offensivo o difensivo, e la presenza di una sorta di balconata lungo le murate (parexeiresia), necessaria all’alloggiamento dei rematori e assente nelle onerarie. 1 Osservazioni sulle navi della Colonna Traiana in Basch (1987): 445-452.

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Fig. 58. Particolare con due navi biremi acatafratte dalla Colonna Traiana, (liburne?). Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

La presenza di un rostro a prua rende l’intera nave simile ad un gigantesco proiettile o ad una lancia protesa contro l’unità nemica. Ci sono giunte diverse rappresentazioni dei rostri e, da quanto ci è possibile osservare, possiamo suddividerli in due tipi fondamentali: quello che ha l’aspetto di tre lame di spada sovrapposte (Fig. 56) e quello a forma di un unico cuneo rivolto all’insù (Fig. 59). Non sembra si possa parlare di evidenti differenze cronologiche, in quanto i due tipi risulterebbero in uso contemporaneamente. Tuttavia, dalla fine del i secolo d.C., sui monumenti figurati non compare più il rostro a tre lame. Il rostro era costituito da un fodero metallico di bronzo applicato al prolungamento delle cinte, e anche a quello della chiglia, sulla linea di galleggiamento o poco al di sopra, come nel caso di quello di Athlit in Israele e di quelli rinvenuti nel mare delle Isole Egadi. Qui, infatti, la Soprintendenza del Mare Siciliana svolge da alcuni anni un programma di ricerca in collaborazione con la rpm Nautical Foundation alla ricerca delle testimonianze dello scontro tra romani e cartaginesi del 241 a.C. L’indagine ha portato al recupero e allo studio di 10 rostri di bronzo appartenenti a relitti di imbarcazioni dei due schieramenti impegnati nello scontro. Un ulteriore rostro individuato sul fondale è ad oggi (agosto 2014) ancora da recuperare.

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Fig. 59. Particolare della prua di una nave bireme; in evidenza il rostro (embolion) e il proembolion. Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

L’eccezionale ritrovamento ha contribuito a ampliare le conoscenze sulle tipologie e sulle tecniche esecutive di questi particolari dotazioni delle navi da militari oltre che su questo evento storico.1 Al di sopra del rostro (embolion in greco) ne esisteva uno secondario più piccolo (proembolion), avente la funzione di danneggiare le sovrastrutture della nave nemica (Fig. 59). Esso era variamente configurato, come si evince dai monumenti pervenutici. Un esemplare a testa di cinghiale proviene dal porto di Genova.2 Le navi pontate (naves constratae o cataphractae), a partire dall’età ellenistica, erano a volte dotate di una protezione merlata, di impavesate protette da scudi e di castelli di prua alti e merlati, i propugnacula (Fig. 60). All’occorrenza potevano dotarsi di torri facilmente rimovibili e ricostruibili in caso di necessità. Da queste, o dai castelli di prua, o dai casseri a poppa (ove presenti), potevano essere scagliati proiettili, anche incendiari, grazie a macchine belliche analoghe a quelle impiegate dagli eserciti di terra. Tutto ciò lascia arguire come la tattica di guerra navale nell’età ellenistica e romana si fosse evoluta in modo complesso e fortemente dissimile dall’età classica, quando la principale strategia di assalto era incentrata 1 Linder (1991); Tusa, Buccellato (2008); Buccellato, Tusa (2009); Tusa, Buccellato (2010), Gnoli (2012), Tusa, Royal (2012). 2 Cavazzuti (1997a): 79-89.

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Fig. 60. Monumento funerario con fregio raffigurante una nave catafratta con propugnacula e guerrieri. Calco del Museo della Civiltà Romana, Roma.

nel tentativo di speronare l’unità nemica attraverso le manovre del diékplous e del perìplous. Infatti, le nuove tattiche di guerra navale prevedevano un bombardamento a distanza con l’impiego di tutto ciò che poteva danneggiare la nave nemica e il suo equipaggio. L’attacco non era più finalizzato all’immediato speronamento, anzi, le manovre di artiglieria servivano a mettere in seria difficoltà l’avversario e a decimarne gli effettivi, in previsione dell’eventuale assalto finale. Dopo lo speronamento, poteva aver luogo l’arrembaggio con il combattimento corpo a corpo, nel quale erano impiegate le armi individuali. Alla luce di queste considerazioni, l’espediente dei corvi adoperati dalla flotta di Caio Duilio nel 260 a.C. contro quella cartaginese appare, agli albori della storia della marineria romana, come la testimonianza della tempestiva adozione delle più moderne tecniche di tattica di guerra sul mare, piuttosto che l’espediente improvvisato da un popolo di contadini ignari dell’arte della navigazione.1 1 Petriaggi (2004a), pp. 99-110. Sulla marina imperiale romana cfr. anche Starr (1966) e Reddé (1986).

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capitolo sesto METODI E STRUMENTI DI INDAGINE, DI GEOREFERENZIAZIONE E DI DOCUMENTAZIONE

L

e ricerche archeologiche di superficie e quelle subacquee possono essere condotte con l’utilizzo di apparati più o meno tecnologici oppure attraverso la semplice prospezione visiva non strumentale. In ambedue i casi, perché la ricognizione possa portare a validi risultati, è essenziale la corretta esecuzione del metodo e la scrupolosa registrazione di ogni elemento conoscitivo. Ogni ambiente acquatico, per le sue caratteristiche peculiari, obbliga all’adozione di particolari accorgimenti operativi che saranno di volta in volta adattati alle necessità contingenti (condizioni di visibilità, morfologia del fondale, presenza o assenza di correnti, profondità, ecc.). Molto spesso, a motivare la necessità di una prospezione è il ritrovamento casuale di reperti archeologici da parte di pescatori professionisti o subacquei sportivi. È il caso, soprattutto, delle scoperte fatte in acque libere, relative ai reperti mobili, ovvero a relitti o singoli oggetti riferibili all’attrezzatura navale, alla vita di bordo o al commercio (ad esempio ancore, anfore ed opere d’arte). Meno frequentemente, la ricerca prende le mosse da uno studio preliminare condotto sulle fonti storiche o d’archivio, dall’analisi di documenti cartografici o da osservazioni e rilevamenti topografici, come nel caso di ricerche sulle infrastrutture costiere (peschiere, porti, approdi ecc.), note dalla tradizione cartografica o scritta e spesso oggetto di studi pregressi. Alcune volte, sono i resti visibili in superficie, parte storicizzata dell’ambiente costiero, che inducono a sospettare la presenza sott’acqua di una continuità architettonica. Metodi di ricognizione visiva La ricognizione visiva è condotta da uno o più operatori che si muovono sott’acqua su una porzione di fondale preventivamente delimitata che, in seguito, verrà riprodotta su una appropriata cartografia.1 Prima di iniziare una ricognizione visiva può essere di grande utilità prendere informazioni sulle caratteristiche del fondale, sulla sua profondità e sulla presenza o meno di correnti. Infatti, tutti questi elementi condizioneranno la scelta dei sistemi da adottare e la conseguente delimitazione topografica degli ambiti di ricognizione. 1 Come è noto, per motivi di sicurezza, è consigliabile non scendere da soli in acqua. Pertanto, anche operazioni che possono essere condotte da un solo subacqueo è consigliabile che siano effettuate in coppia o sotto la sorveglianza di un compagno di immersione.

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È evidente che l’esplorazione di un basso fondale sabbioso pianeggiante in acque calme e con buona visibilità comporta scelte operative diverse da una ricognizione svolta in mare aperto su alti fondali scoscesi, rocciosi o con forti variazioni di quote. Altra cosa, ancora, è la prospezioni del fondo di un fiume dove, oltre a dover far fronte alla corrente, alla cattiva visibilità e all’inquinamento, bisogna fare attenzione al pericolo costituito dai rifiuti taglienti (vetro, ferro ecc.) che, purtroppo, sono frequenti nei corsi d’acqua. Si deve, tuttavia, sottolineare che a volte la ricognizione visiva, seppure condotta in modo ineccepibile dal punto di vista metodologico, può portare a risultati fuorvianti. I fondali sabbiosi o limosi, infatti, tendono a coprire o scoprire le presenze archeologiche in ragione della meteorologia stagionale, dell’incidenza del moto ondoso e delle correnti oppure per l’avvenuta modificazione dei fenomeni idrogeologici a causa della costruzione di opere architettoniche invasive lungo la costa (porti, infrastrutture turistiche, scogliere frangiflutti ecc…). Sarà quindi vantaggioso informarsi presso la gente del luogo sulle recenti modifiche dell’assetto costiero oltre che dei venti e delle correnti dominanti e di quanto altro possa risultare utile alla preparazione dell’intervento. I metodi più utilizzati per le ricognizioni visive sono gli stessi impiegati comunemente dai Corpi dei subacquei militari e dai Vigili del Fuoco. Non tutti, come vedremo, hanno la stessa efficacia e praticità in campo archeologico.1 Metodo della Chiocciola (Fig. 1) Si individua il punto di partenza della ricognizione segnalandolo con un picchetto (punto 0). L’operatore fissa al picchetto 0 una cima o una rotella metrica di una lunghezza predefinita ed inizia ad ispezionare il fondale nuotando in cerchio attorno al picchetto. L’operatore può decidere se partire dal centro o dall’estremità della cordella, compiendo cerchi concentrici attorno al punto 0. A seconda del modo di procedere, ad ogni giro l’operatore accorcerà o allungherà la cordella di una misura costante e adeguata alle condizioni di visibilità. In questo modo, sarà possibile ispezionare un’area circolare più o meno ampia. I reperti individuati nel corso della ricognizione saranno posizionati misurando le loro coordinate polari e la loro distanza rispetto al punto 0 e saranno segnalati con cartellini o pedagni colorati. Se la visibilità lo consente, il metodo può essere applicato sia a fondali pianeggianti che accidentati. In quest’ultimo caso l’operatore ispezionerà il fondale da una quota leggermente più elevata per quel tanto che gli consentirà di non urtare con la cordella sulle asperità del fondo durante le esecuzioni dei cerchi. La chiocciola non è un metodo molto efficace dal punto di vista della redditività se deve essere applicato su aree estese che comportano la moltiplicazione dei cerchi. Infatti, dovendo accostare più cerchi di ricognizione, risulteranno degli spazi non coperti che dovranno essere esplorati sovrapponendo un ulteriore cerchio a porzioni di fondo già ispezionate. 1 Vari autori hanno trattato questo tema, in Italia, più recentemente, cfr. Rosso (1997); Felici (2002): 17-43.

metodi e strumenti di indagine e di documentazione

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Fig. 1. La chiocciola.

Questo metodo, invece, è utile per ritrovare sott’acqua un sito noto del quale si conoscono le coordinate. Metodo del Pendolo (Fig. 2) Derivato dal precedente, è il metodo del pendolo che consente di esplorare un arco di circonferenza partendo da un centro 0. L’operatore posizionerà due cime della stessa lunghezza divergenti dal centro 0 e delimitanti l’area da esplorare. Come nella chiocciola, partendo dal centro o dall’estremità di una delle due cime, l’operatore si sposterà verso l’altra accorciando o allungando la cordella. Questo metodo, come quello della chiocciola, può essere applicato su superfici estese

Fig. 2. Il pendolo.

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capitolo sesto

semplicemente realizzando diversi “pendoli” accostati. I reperti individuati all’interno della sezione di cerchio saranno posizionati misurando la loro distanza dal centro 0 e le loro coordinate polari, per trilaterazione, o per coordinate cartesiane. Anche in questo caso potranno essere utilizzati pedagni e cartellini per metterli in evidenza sul fondo. Metodo del traversino (Fig. 3) Questo è il metodo che permette la più efficace ricognizione di un fondale. Bisogna delimitare il settore da indagare con due cime parallele a formare un corridoio ab-cd. Meglio utilizzare due rotelle metriche che consentono agli operatori di misurare esattamente i propri spostamenti e di rilevare più velocemente i reperti rinvenuti. Una volta predisposto il corridoio ab-cd, i due operatori collegano perpendicolarmente i due lati lunghi del corridoio con un’altra rotella metrica ef, detta traversino. Quindi essi (1 e 2), si collocheranno rispettivamente sul punto e e sul punto f tenendo ciascuno il traversino con la mano destra. Inizieranno, quindi, il percorso lungo il traversino osservando ciascuno il settore alla propria sinistra. Giunti alla fine del percorso, gli operatori spostano la rotella metrica/traversino di una misura concordata in precedenza, pari a quanto consentito dalla visibilità, realizzando un nuovo tracciato gh. Da qui proseguiranno come in precedenza, il n. 1 partendo da g e il n. 2 partendo da h. Gli operatori ripeteranno questo procedimento sistematicamente fino a giungere alla fine del settore da esplorare. In questo modo non risulteranno zone non esplorate, i due operatori si controllano a vista ed è possibile coprire anche ampie zone di fondale semplicemente ribaltando più volte il percorso. Grazie all’impiego di rotelle metriche i reperti individuati potranno essere facilmente posizionati con il metodo degli assi cartesiani.

Fig. 3. Il traversino.

metodi e strumenti di indagine e di documentazione

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L’ala subacquea Con questo sistema è possibile esplorare vaste zone di fondale di profondità medio-alta, anche in condizioni di visibilità non eccellente. L’operatore subacqueo si aggrappa ad una tavola sagomata e dotata di maniglie, bussola e profondimetro (ala) che viene trainata dalla superficie da un battello. Il subacqueo può modificare l’inclinazione dell’ala, che si comporta come una pinna, e, di conseguenza, variare il suo assetto e dirigersi verso il fondo o verso la superficie. È intuitivo che il sistema, pur nelle sue più o meno comode versioni, è riservato a subacquei esperti e allenati e a piloti abili e che, comunque, non è esente da rischi. Scooter subacqueo (Fig. 4) Con l’ala subacquea abbiamo introdotto una categoria di prospezioni a vista che necessitano di un supporto tecnico-logistico un po’ più complesso. Esistono sul mercato vari modelli di scooter che possono trasportare l’operatore nel corso di prospezioni subacquee. Questi strumenti si rivelano utili soprattutto in particolari circostanze, per esempio in occasione di prospezioni di vaste aree da effettuare in un tempo ristretto, oppure per facilitare il lavoro nel caso di correnti contrarie. Sono strumenti maneggevoli e di facile manutenzione che, tuttavia, richiedono un periodo di pratica per poter essere utilizzati al meglio. La cosiddetta ‘sciabica’ Da ultimo descriviamo un metodo che non è corretto definire a vista, dal momento che l’identificazione del sito avviene per mezzo di una procedura piuttosto empirica e approssimativa. La cosiddetta “sciabica”, è poco raccomandabile perché può provocare danni ai reperti individuati, tuttavia è descritta in diversi manuali di prospezione archeologica. Due barche disposte parallelamente ad una certa distanza tra loro percorrono lentamente la stessa rotta, trascinando sul fondo una cima zavorrata dotata, ad intervalli regolari, di sagole con galleggianti che salgono verso la superficie. Quando si nota che un galleggiante rimane indietro rispetto all’arco di cerchio formato dall’allineamento degli altri, significa che la sciabica sul fondo ha incontrato un ostacolo in prossimità di quest’ultimo. Un subacqueo, allora, si dovrà immergere per controllare. È ovvio che il sistema presuppone un fondale perfettamente piatto (sabbioso o limoso) perché altrimenti qualsiasi asperità naturale potrebbe trarre in inganno gli operaFig. 4. Uno scooter subacqueo. tori. Si può notare che nel caso del-

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l’aggancio di un reperto mobile (anfora, ecc.), questo potrebbe essere spostato o addirittura danneggiato dalla trazione. Pertanto, se questo può essere un sistema valido per ricercare reperti non di importanza archeologica, è fortemente sconsigliato per i nostri fini. Metodi di prospezione strumentale1 Come si è detto le prospezioni subacquee possono essere condotte anche utilizzando strumenti di alta tecnologia messi a punto per le attività industriali o militari e che svolgono egregiamente il loro compito anche per l’archeologia subacquea. Le prestazioni di questi apparati sono in continua evoluzione e così anche il loro numero, frutto del progresso tecnologico. Gli strumenti disponibili possono essere distinti in due categorie: quelli impiegati da una imbarcazione appoggio e quelli utilizzati dall’operatore direttamente sott’acqua. Ecoscandaglio o Sonar L’ecoscandaglio o Sonar, abbreviazione inglese di Sound Navigation and Ranging, seppure utilizzato generalmente dai pescatori e dai diportisti per rilevare profondità, caratteristiche del fondale o presenza di banchi di pesci, può essere di qualche utilità anche per l’archeologo che può utilizzarlo per ritornare su siti dalle caratteristiche morfologiche già note (ad esempio il cumulo di anfore di un relitto su un fondale piatto, oppure la secca teatro di un naufragio). Esso consiste in un apparecchio che trasmette impulsi elettrici ad un trasduttore immerso nell’acqua il quale li trasforma in onde acustiche ultrasonore. Queste, propagandosi in forma di onde circolari, delineano un cono che si allarga verso il fondale. Le caratteristiche del trasduttore condizionano l’accuratezza del rilevamento e la profondità raggiungibile. Un ostacolo intermedio o il fondale stesso provocano un’onda di ritorno che viene captata dal trasduttore. Attraverso il calcolo automatico del tempo intercorso tra la partenza del segnale ed il suo ritorno si determina la profondità del bersaglio. Gli ecoscandagli più moderni offrono la possibilità di una restituzione tridimensionale delle caratteristiche del fondale. Per interpretare correttamente i dati è necessaria, comunque, una certa esperienza da parte dell’utente. Side scan sonar (Fig. 5) Il Sonar esiste anche in una versione a scansione laterale. Esso è costituito da uno strumento generatore di impulsi, da un registratore grafico e da uno strumento denominato “pesce”, il trasduttore, a forma di siluro che viene trainato dall’imbarcazione appoggio mediante un cavo e che emette lateralmente, a destra e a sinistra, gli impulsi ultrasonori (Fig. 6). L’eco di ritorno dei due fasci di impulsi, ana1 Oltre alle letture consigliate nella nota precedente, si consiglia di aggiornare le proprie informazioni su questi strumenti in continua evoluzione consultando sul Web le pagine dedicate e quelle delle ditte specializzate nella loro costruzione e commercializzazione.

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logamente a quanto avviene nel caso dell’ecoscandaglio, viene elaborato dal registratore grafico e restituisce un rilievo tridimensionale del fondale e di ciò che giace su di esso (Fig. 7). Le informazioni possono essere elaborate al computer e georeferenziate attraverso il sistema di rilevamento satellitare. Questo tipo di sonar usa fasci di energia acustica. Alcune frequenze risultano più efficaci di altre; le alte frequenze, come quelle da 500kHz a 1MHz danno eccellenti risoluzioni, ma l’onda ultrasonora attraversa solo brevi distanze. Minori frequenze, quali quelle tra 50 kHz o 100 kHz danno Fig. 5. Monitors a bordo della nave Idrografica della Marina Militare Italiana Mirto. risoluzione più bassa ma la distanza percorsa dalle onde acustiche aumenta notevolmente. Il ‘pesce’ genera un impulso sonoro per volta e aspetta che il suono sia riflesso di ritorno. La qualità dell’immagine riprodotta dipende dal tempo che intercorre tra l’emissione di un fascio e quella del fascio successivo. L’immagine, dunque, viene riprodotta un poco alla volta: gli oggetti più consistenti, riflettendo maggiore energia, generano un segnale più luminoso, mentre, quelli meno consistenti, che non riflettono altrettanto bene, danno immagini più scure. L’impossi-

Fig. 6. Il “pesce” sul ponte della Mirto.

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capitolo sesto bilità delle onde sonore di propagarsi oltre gli ostacoli si manifesta, nell’immagine sonar riprodotta, in ombre molto scure, leggibili dietro di essi. Sonar Multibeam (Fig. 8)

Fig. 7. L’immagine di un relitto rilevata dal Side Scan Sonar, sul monitor di bordo. (Foto Sub Sea Research).

Nel sistema, denominato convenzionalmente Side Scan Sonar, come si è detto, il pesce emette un solo fascio sonar per lato. Per assicurare al meglio la copertura totale del fondo marino e ovviare a effetti negativi sulle immagini riprodotte, la velocità di esecuzione del rilevamento deve essere di 5 nodi o anche inferiore. Questi inconvenienti sono superati con l’uti-

Fig. 8. La Villa dei Pisoni a Baia da un’immagine a scansione Multibeam (Cortesia Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli).

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lizzo del Sonar Multibeam. Infatti, in questo caso, lo strumento genera diversi simultanei e adiacenti fasci di impulsi paralleli per ciascun lato. Ciò permette la massima copertura, una registrazione veloce dei dati con straordinaria risoluzione e chiarezza delle immagini riprodotte. Si possono trovare sul mercato sonar multibeam che generano 5 fasci per lato, che restituiscono un’alta risoluzione di immagine del fondo marino con i target presenti, operando ad una velocità fino a dieci nodi, con un irraggiamento di 300 metri di ampiezza. Laser batimetrico Nell’indagine geologica costiera, per conseguire dati complessi dtm (Dati Morfologici Terrestri) finalizzati alla restituzione della dinamica geomorfologica e idrologica dell’interfaccia terra/acqua, il sonar multibeam può essere utilizzato insieme al laser aviotrasportato e al laser scanner terrestre. In acque trasparenti, infatti, il laser scanner batimetrico risulta particolarmente potente ed efficace tanto da poter essere usato come economica alternativa ai sonar multibeam. Alla base di questo tipo di strumento è la tecnologia lidar (Light Detection and Ranging) che sfrutta la luce laser per eseguire misurazioni. Un sistema lidar consiste in un trasmettitore (laser), un ricevitore (optical telescope) e un rilevatore estremamente sensibile (tubo fotomoltiplicatore). Sub bottom profiler Questo strumento, costituito, come il side scan sonar da un registratore grafico e da un ‘pesce’ trainato dalla barca appoggio per mezzo di un cavo, è utilizzato per rilevare la presenza di reperti (relitti, siti, reperti sporadici) nascosti sotto i sedimenti del fondale. Esso emette brevi impulsi acustici a bassa frequenza che riescono a penetrare gli strati dei sedimenti, i quali, a loro volta, riflettono gli impulsi sonori ciascuno in modo diverso, a seconda della propria densità. L’eco di ritorno viene elaborato dal registratore grafico che produce una strisciata con la sezione della stratifigrafia presente sotto il fondale. Magnetometro Il Pianeta Terra è caratterizzato da un proprio Campo Magnetico (Campo Magnetico Terrestre - cmt) il cui valore varia da circa 20.000 nT, o poco più, all’equatore, ai circa 70.000 nT delle zone polari con variazioni temporali e locali. La presenza di giacimenti e cumuli di reperti di natura archeologica genera interferenze nei confronti del cmt. L’utilizzo del magnetometro consente di misurare i valori dell’intensità del cmt e di analizzarne variazioni e anomalie. L’impiego di questo strumento in archeologia è largamente diffuso sia in campo terrestre che subacqueo. Il metodo geofisico di prospezione magnetica si è rivelato un valido strumento per localizzare strutture archeologiche sepolte, relitti carichi di anfore o di altro materiale ceramico (ne è influenzato il campo magnetico) o metallico e più in generale, siti di interesse archeologico. Lo strumento più idoneo per la prospezione archeologica è il magnetometro a protoni, i cui van-

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Fig. 9. Ricognizione con metal detector.

taggi consistono nell’elevata precisione e nell’estrema rapidità operativa. Quello utilizzato per le ricerche subacquee è costituito da una unità di bordo utilizzata per l’acquisizione, il controllo e la registrazione dei dati e da un veicolo sottomarino detto ‘pesce’, utilizzato per rilevare i dati e trasmetterli in superficie attraverso il cavo di traino. Il ‘pesce’, trainato sott’acqua, registra con continuità l’intensità del campo magnetico. Se questa, misurata nella realtà, è diversa da quella teorica della zona, o presenta delle variazioni pronunciate in distanze relativamente brevi, tale anomalia può essere riferita alla presenza di un corpo magnetico adagiato sul fondale o sepolto a profondità variabili. Metal detector (Fig. 9) Il mercato offre una grande varietà di metal detector per uso subacqueo che possono essere facilmente utilizzati in immersione. Lo strumento rileva la presenza dei metalli, anche di quelli nascosti dai sedimenti. Naturalmente, l’efficacia di penetrazione è direttamente proporzionale alla potenza dello strumento. Il suo impiego può essere utile per completare una prospezione su un sito archeologico dove si sospetti la presenza di oggetti metallici. Minisommergibile (Fig. 10) Le esplorazioni nei medio-alti fondali possono essere effettuate a vista da parte di uno o due tecnici imbarcati su piccoli sommergibili. Questi sono generalmente dotati di illuminatori, videocamera, macchina fotografica, bracci meccanici ecc…

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Fig. 10. Mini sommergibile. (Foto Ozyris).

e permettono di effettuare diverse operazioni oltre alla semplice prospezione. È ovvio che una attrezzatura di questo genere non è di comune disponibilità e, comunque, presuppone la presenza di una vera e propria nave appoggio, di personale altamente specializzato e di una logistica complessa. Apparecchi di questo tipo sono di proprietà di società private specializzate in lavori subacquei, oppure sono imbarcati sui mezzi della Marina Militare e delle Forze dell’Ordine. Per esempio, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano si avvale della collaborazione della Marina e degli altri Corpi preposti alla vigilanza sul mare per le indagini degli alti fondali.1 Minisommergibili senza equipaggio Tra i minisommergibili si distinguono questi strumenti che non ospitano a bordo operatori, ma vengono comandati a distanza da una imbarcazione o da un sommergibile. Sono comunemente denominati rov (Remotely Operated Vehicle) se possono essere manovrati attraverso un cavo che li congiunge alla base operativa, oppure auvs (Autonomous Underwater Vehicles), se sono dotati di sistemi di movimento autonomo (Fig. 11). 1 Il drassm ha indagato relitti rinvenuti su alti fondali utilizzando minisommergibili delle Ditte comex ed ifremer. Nel corso di queste ricerche sono stati condotti esperimenti di documentazione fotografica tridimensionale computerizzata, di pulitura del relitto dai sedimenti utilizzando i blaster in dotazione (potenti eliche che spazzano il fondale) e la siglatura e il recupero dei reperti per mezzo di bracci meccanici cfr. Long (1998), pp. 341-379.

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Grazie a motori elettrici si muovono liberamente sott’acqua; ospitano a bordo varie apparecchiature (telecamere, macchine fotografiche, gps, bracci meccanici, profondimetri ecc…) che permettono loro di eseguire documentazione di vario tipo ed operazioni delicate quali il prelevamento di campioni o di reperti. La loro versatilità di impiego li rende particolarmente utili laddove si intenFig. 11. L’auv Alive della Cybernetix. da limitare l’intervento diretto del subacqueo, soprattutto in condizioni di difficile operatività come quella rappresentata dagli alti fondali, o dall’esplorazione dell’interno dei relitti di età moderna; esemplare il caso del Titanic dove il rov era manovrato da un sommergibile. Esempi pratici di prospezione A conclusione di questi paragrafi, si presentano due esempi di prospezioni archeologiche condotte utilizzando metodi e strumenti completamenti differenti che però hanno portato, entrambi, al ritrovamento di siti di interesse archeologico. Il primo, si riferisce all’individuazione dell’area di ancoraggio dell’antica K·Ó‹ (Bir’ali - Repubblica dello Yemen),1 importante scalo sudarabico lungo la rotta commerciale che univa il Mediterraneo all’India attraverso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Per il secondo esempio, si propongono le prospezioni sottomarine condotte dal 1998 al 2003 dall’Institute for Exploration (ife), in collaborazione con vari Enti ed Istituti di ricerca, a largo di Sinope sulla costa turca del Mar Nero, nel corso delle quali sono stati utilizzati Side Scan Sonar e rov.2 L’esplorazione del porto di K·Ó‹ (Bir’ali) Le ricerche archeologiche subacquee presso Bir’ali, nella Repubblica dello Yemen, non sono iniziate a seguito di una segnalazione o del ritrovamento casuale di reperti in mare, bensì dallo studio delle fonti antiche, dall’esame delle fotografie aeree e dall’analisi dei reperti rinvenuti nel corso degli scavi archeologici condotti da una Missione russa e poi russo-francese dalla metà degli anni ottanta dello scorso secolo. Alexander Sedov e Michel Mouton, gli archeologi responsabili di queste ricerche territoriali, il primo per l’Accademia delle Scienze di Mosca, il secondo per il cnrs di Lione, accolsero con entusiasmo l’idea di ospitare nella loro missione i ricercatori italiani ideatori del progetto, nonostante non avessero mai dedicato particolare attenzione al mare, forse anche perché i pescatori locali non avevano 1 In latino Cane, in letteratura si trova indicata in vari modi: Qana’, Kanê, Qâni. 2 Ward, Ballard (2004), pp. 2-13 con bibliografia precedente.

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Fig. 12. Il sito di Kanê. Da Sedov (2000).

mai segnalato la presenza di reperti antichi sott’acqua. In particolare, Alexander Sedov intravedeva la possibilità di trovare sott’acqua le testimonianze del passaggio delle navi onerarie che avevano trasportato il vino e gli altri beni di produzione indiana e mediterranea i cui contenitori ceramici erano stati ritrovati in grande quantità nei magazzini della città sudarabica (Fig. 12). Le principali fonti riferibili a questo porto sono costituite da alcune iscrizioni sudarabiche del iii-iv sec. d.C. e dal Periplo del Mare Eritreo, un itinerario marittimo scritto intorno al 40-50 d.C., da un greco-alessandrino di cui non conosciamo il nome.1 Questo documento raccoglie tutte le informazioni pratiche per un commerciante che avesse voluto intraprendere una spedizione verso l’Oceano Indiano. Nel Periplo sono indicati con ricchezza di particolari i porti principali, gli approdi, le distanza percorse, i tipi di mercanzie, la situazione politica dei vari paesi incontrati durante il viaggio per mare dall’Egitto all’India. Il Periplo indica K·Ó‹ come emporio del regno dell’Hadramawt, il regno dell’Incenso. La città, dominata dal promontorio denominato Husn-al-Gurâb, sul quale sorgeva l’acropoli con il faro, sembra essere frequentata a partire dal i sec. d.C. fino 1 Per il Periplo del Mar Eritreo vedi Casson (1989).

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ai primi anni del vii sec. d.C. Fino al 1996 i materiali rinvenuti negli scavi di terra testimoniavano una prevalenza di contatti con alcune regioni della penisola italica, con la Palestina, l’Asia minore, la Partia e l’India, alcune zone del Golfo Persico e l’isola di Socotra. Nel iii-iv d.C. gli scambi commerciali interessavano maggiormente le regioni dell’Africa del Nord dell’Africa dell’Est e della Mesopotamia, mentre nel periodo finale della frequentazione del sito (v-inizi vii d.C.) sono stati documentati contatti con la regione di Antiochia, con Gaza, l’Etiopia e la Mesopotamia. Altre informazioni relative al porto ci vengono da alcune epigrafi sudarabiche Fig. 13. L’ancora litica rinvenuta nella baia nord di Kanê. di cui si è accennato in precedenza. Una di queste narra che nel 230 d.C. un re sabeo, Sha’ar Awtar, nel corso di una campagna militare per la conquista del regno dell’Hadramawt, fece incendiare e affondare 43 navi ancorate nella baia del porto. Un’altra, invece, ricorda la presenza di cantieri navali nel porto nel iv sec. d.C.1 Altre notizie interessanti per la morfologia del porto derivarono dalla lettura del diario di un ufficiale inglese, Lt. Wellsted, che nel 1834, a bordo della nave Palinurus, visitò la baia e vide i resti della città antica. Egli individuò due porti,uno principale nella baia a Nord ed uno secondario, nella baia a Sud, quest’ultima ormai insabbiata. Non potendo iniziare le esplorazioni a partire da resti antichi o da aree di interesse archeologico già individuati da altri, dopo l’osservazione di alcune foto aeree scattate dagli archeologi russi, si reputò opportuno, in primo luogo, di perlustrare, secondo il metodo del traversino, la fascia di mare da 0 a 5 m di profondità, partendo dalla baia nord fino alla baia sud. In questo modo, si sarebbe potuta verificare la presenza o meno di infrastrutture portuali (moli, banchine ecc…) che, peraltro, non sembravano essere evidenti dalle foto aeree. Nessuna testimonianza di questo tipo fu individuata e non si rinvennero neanche resti archeologici sporadici. Inoltre, la baia sud, come aveva notato l’ufficiale inglese nel 1834 era completamente insabbiata. Si decise, quindi, di continuare sistematicamente le immersioni, allontanandosi dalla costa da -5 a -10 metri di profondità. Nell’ampia 1 Per gli scavi archeologi dell’abitato cfr. Sedov (1992), pp. 110-137; Sedov (1994), pp. 11-35; Sedov (1997), 365-384; per le ricerche subacquee vedi Davidde (1997), pp. 351-355; Davidde, Petriaggi (1998), pp. 95-100; Petriaggi, Davidde (2000), pp. 240-243; Davidde, Petriaggi, Williams (2004), 85-100. La missione è stata favorita da Alessandro De Maigret (i.s.i.a.o.).

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Fig. 14. Alcuni frammenti di anfore e orci rinvenuti sul fondale dell’area di ancoraggio nella baia nord di Kanê.

baia Nord, a circa 100 metri dalla costa alla profondità di 6,70 metri, quasi di fronte ai magazzini dell’incenso, dopo soli due giorni di lavoro, fu individuata la zona dell’antico ancoraggio. I primi ritrovamenti furono un blocco di pietra squadrato allungato, un’ancora litica troncopiramidale e numerosi frammenti ceramici (Fig. 13). Per saggiare la consistenza archeologica dell’area si pensò di utilizzare l’ancora come fulcro di una prospezione a chiocciola. L’area, caratterizzata da una notevole quantità di reperti ceramici che si estendevano per un ampio raggio dall’ancora, suggerì l’opportunità di stabilire dei settori da esplorare con il metodo del traversino. I reperti sono stati, quindi, posizionati secondo il metodo della trilaterazione o degli assi cartesiani. Nel corso delle due campagne di ricerca che si sono svolte nel 1996 e nel 1998, ed in particolare nelle tre settimane effettive di lavoro subacqueo che ha visto impegnati quattro operatori subacquei, è stata esplorata e rilevata un’area di circa 1000 metri quadrati, sono stati recuperati circa 300 reperti ceramici di cui 150 sono parti significative di anfore, di giare, di vasellame di ceramica comune e un solo frammento di piatto di sigillata italica (Fig. 14). La presenza di numerosi blocchi di pietra squadrati,1 con un solco nella parte mediana per l’alloggiamento della cima, ha fatto pensare che la città, pur non essendo dotata di moli e banchine, avesse, nella baia nord, molto ampia e protetta dai venti, un settore attrezzato per l’attracco delle grandi navi onerarie. Queste potevano ancorarsi ai corpi morti (i blocchi di pietra) segnalati, molto probabilmente, da otri di pelle galleggianti legati alle cime e le mercanzie erano poi trasportate in città a bordo di imbarcazioni più piccole che potevano essere facilmente portate a secco sulla riva. 1 Sei di questi erano nell’area esplorata ma molti altri sono stati individuati nella baia.

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Lo studio dei materiali rinvenuti nel corso delle ricerche subacquee ha contribuito ad una migliore definizione dei rapporti commerciali di questo porto sudarabico, con l’India ed il mondo Mediterraneo. In particolare, le analisi petrologiche eseguite dal David F. Williams dell’Università di Southampton su un centinaio di campioni prelevati da frammenti di anfore, hanno messo in evidenza i rapporti commerciali di questa città sudarabica. Per esempio il 39% delle anfore Dressel 2/4 provengono dall’Italia Meridionale, soprattutto dalla Campania, mentre un altro 28% sono di produzione Cilicia. Questo dato è particolarmente interessante poiché rappresenta la testimonianza archeologica del contenitore del vino Laodiceo di cui ci parlano anche le fonti antiche. Prospezioni in acque profonde a largo di Sinope (Mar Nero) Questo progetto di ricerca studia i traffici ed i rapporti commerciali tra la regione di Sinope e la Crimea dal Neolitico all’età Bizantina, attraverso l’esame dei relitti e dei ritrovamenti archeologici effettuati sulla terraferma.1 L’esplorazione sottomarina effettuata con Side Scan Sonar e rov negli anni fra il 1998 e il 2000 e nel 2003, ha permesso, inoltre, di analizzare l’eccellente stato di conservazione dello scafo di alcuni relitti rinvenuti tra gli 85 e i 320 metri di profondità. A queste batimetriche, in un ambiente anossico come quello riscontrato nel Mar Nero, il legno dello scafo non è più attaccato dalla teredo navalis che vive generalmente in acque con il 12% di salinità ed a profondità inferiori ai 200 metri. Le prime esplorazioni, effettuate con Side Scan Sonar nel 1998, hanno interessato il tratto di mare presso il porto di Sinope ad una profondità massima di 60 metri. Nel 1999 le anomalie rilevate sono state fotografate da una fotocamera montata su un rov. Il ritrovamento più significativo è un vaporetto del xix secolo. Nel 2000, poi, si è proseguito esplorando i fondali ad ovest di Sinope, trainando un trasduttore Side Scan Sonar su fondali di 40/50 metri. In questo modo è stato possibile identificare dei target che sono stati ispezionati e fotografati, in seguito, da due veicoli subacquei: la slitta recante strumenti ottici, denominata Argus e il rov, denominato Little Hercules. L’Argus costituiva una piattaforma per l’impiego di luci e strumenti ottici, controllata e manovrata dai tecnici imbarcati sulla nave appoggio. Essa era dotata di un Fan Bean Scanning Sonar a 675 kHz che ha permesso di ritornare con facilità sui bersagli precedentemente identificati. Little Hercules ed Argus erano collegati fra di loro così da ottimizzarne la funzionalità. Tra i relitti rinvenuti si segnalano quelli denominati A (-101 metri), B (-85 metri), C (-85 metri) e D (-320 metri) datati tra il iv e il vi sec. d.C. Infatti, dei primi tre è perfettamente visibile il cumulo di anfore che componeva il carico, mentre del relitto D si conservano perfettamente alcuni elementi della struttura lignea ed in particolare l’albero che si erge per circa 11 metri dalla superficie del sedimento del fondale. Se sono rarissimi i casi in cui si sono conservate porzioni relative ad alberi di antiche navi, senza dubbio il ritrovamento di un albero conservato an1 Cfr. p. 198, nota 2 in questo Capitolo.

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cora in posto è un caso eccezionale. Le sue caratteristiche strutturali e morfologiche hanno fatto ipotizzare agli scopritori che ci si trovi di fronte ad uno dei più antichi esempi di nave armata a vela latina. La ricerca su alti fondali rende possibili ogni giorno scoperte inaspettate come quella qui ricordata e l’utilizzo delle moderne tecnologie permette, in molti casi, di registrare in modo sempre più preciso i dati visivi del ritrovamento e di redigere, in attesa di un intervento di indagine archeologica, rilievi fotogrammetrici dettagliati dei relitti. In Italia, questa metodologia di ricerca non è stata mai condotta in modo sistematico, ma è stata impiegata in casi eccezionali per motivi non sempre legati all’indagine archeologica.1 Fra le ricerche archeologiche propriamente dette, ricordiamo l’attività della Soprintendenza Archeologica per la Toscana che con il Progetto “Baratti 2001” ha iniziato l’esplorazione dei fondali antistanti la baia di Baratti (da -15 a -60 metri) con Side Scan Sonar e rov. Nel corso delle prime prospezioni fu individuato un probabile relitto di nave oneraria che trasportava anfore Dressel 1B e Dressel 1C a largo della Centrale dell’Enel di Piombino. Come già accennato nel capitolo secondo, dal 1 aprile 2004, grazie alla Legge 8 novembre 2002, n. 264 – Disposizioni in materia di interventi per i beni e le attività culturali e lo sport, art. 13 – Censimento dei beni archeologici –, è stata condotta un’indagine sistematica sul Patrimonio sommerso di quattro regioni italiane, tra le più rilevanti per la consistenza presunta di beni sommersi. L’iniziativa, denominata “Progetto Archeomar”, prevedeva la realizzazione del censimento dei Beni giacenti nei fondali marini italiani delle regioni Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, Lazio e Toscana. L’articolazione del progetto ha previsto quattro fasi: la selezione delle aree marine da indagare realizzata attraverso il riesame dei fondi di archivio dei vari Enti e la schedatura dei dati in un Sistema Informativo Territoriale; una campagna in mare di 310 giorni operativi, con l’appoggio di 3 navi oceanografiche ed altri natanti minori per effettuare rilevamenti strumentali fino a 500 metri di profondità; da ultimo è stata prevista la divulgazione dei dati, attraverso supporto cartaceo e digitale, per diversi livelli di utenza (Autorità di controllo statali, studiosi, pubblico).2

1 Nel 1980, per esempio, un aereo civile venne abbattuto per errore a largo di Ustica, durante eventi poco chiari legati ad attività militari. Le conseguenti indagini della magistratura comportarono la ricerca dei resti del velivolo rinvenuto, poi, a circa 3000 metri di profondità. In quella occasione, i sommergibili ed i Rov della Società ifremer fotografarono, oltre alla carlinga dell’aereo che poi venne recuperato, anche alcuni relitti risalenti al periodo tardo romano. 2 Non è la prima volta che in Italia si tenta un censimento dei beni archeologici sommersi. Accadde già nei primi anni ’90 del secolo appena trascorso, quando due progetti, aventi questo preciso scopo, interessarono le coste meridionali della Penisola, partendo da quanto si conserva negli archivi delle Soprintendenze e degli Enti territoriali e dalle segnalazioni in qualsiasi modo registrate. I risultati di quel censimento non ebbero, tuttavia, sensibili risvolti positivi per l’attività di tutela; uno dei motivi di questo risultato poco confortante fu che gran parte dei dati registrati non contenevano indicazioni sufficientemente chiare, ovvero, erano privi di coordinate geografiche. Ulteriori informazioni in http://www.archeomar.it

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capitolo sesto Sistemi di georeferenziazione e rilievo1 In prossimità della costa (Fig. 15)

La determinazione della posizione di un punto in mare o in acque interne, quando la costa è abbastanza vicina, viene effettuata da terra con strumenti ottici tradizionali (tacheometro, teodolite), ovvero con il più veloce e preciso sistema della stazione integrata. Il rilevamento con gli strumenti ottici consiste, in breve, nel fare base a terra su due punti fissi a e b di cui è nota la distanza. Facendo successive stazioni su i due punti, si traguarda il bersaglio 1 in acqua (ad esempio una stadia posizionata sulla verticale del punto da rilevare). La posizione di quest’ultimo viene determinata, secondo il principio topografico dell’intersezione in avanti di due semirette, dalla misura delle distanze a1 e b1 e dell’ampiezza degli angoli in a e in b. Oggi è possibile, da un’unica stazione, detta appunto ‘integrata’, compiere la lettura simultanea degli angoli orizzontali (azimutali) e verticali (zenitali). Inoltre, con l’ausilio di un prisma ottico riflettente posizionato sul bersaglio, il tacheometro elettronico dello strumento è in grado di rilevare anche le distanze. Perché la misurazione possa essere validamente effettuata, però, è necessario che l’asta graduata, che reca il prisma, sia mantenuta verticalmente sul punto. Per profondità comprese da qualche decimetro a cinque o sei metri sono sufficienti gli aggiustamenti compiuti manualmente dal personale in immersione. Per profondità superiori l’asta dovrà essere montata su una sorta di atollo galleggiante e sarà manovrata da almeno due operatori. Uno, in superficie, orienterà il Fig. 15. Posizionamento con base topografica prisma, uno, in profondità, curerà il nei pressi della riva. perfetto allineamento del puntale con Disegno E. Mitchell. Rielaborazione r.p. il bersaglio e, munito di sistema di comunicazione con la superficie, fornirà al topografo il dato relativo alla profondità. Ovviamente l’efficacia del risultato dipenderà molto, oltre che dalle più o meno favorevoli condizioni meteorologiche e ambientali, dalle capacità e dall’affiatamento degli operatori.

1 Per comodità di chi volesse approfondire questi argomenti e trovare più ampi riferimenti bibliografici si rimanda ai più recenti lavori in lingua italiana: Rosso (1987): 65-129; Faccenna, Felici (1998), pp. 63-139; Felici (2002): 44-64.

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Fig. 16. Posizionamento per allineamenti.

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Fig. 17. Posizionamento con due rilevamenti bussola.

Determinazione del punto dal mare La determinazione del punto in mare in vista della costa offre diverse soluzioni, secondo il grado di precisione che la situazione richiede a giudizio di chi è chiamato a decidere. Alcune volte, tuttavia, il metodo è imposto dalla necessità contingente e dalla mancanza di strumenti di rilevamento semplici o elettronici. La tradizione marinaresca offre una certa varietà di sistemi per far fronte a necessità di questo genere: è ovvio che l’affidabilità di un posizionamento ottenuto con metodi empirici sarà rapportata alle capacità di chi li ha applicati e, in ogni caso, non potrà che essere limitata. Sarà, tuttavia, di una qualche utilità per potere avere la facoltà di ritornare, se non sul punto esatto, perlomeno nella zona che ci interessa. Esaminiamo, dunque, i metodi di posizionamento più praticati, in ordine crescente di complessità e di affidabilità. Allineamenti (Fig. 16) Se sulla costa esistono punti elevati fissi (campanili, tralicci, torri di avvistamento, antenne, ecc…) a diverse situazioni di prospettiva e di distanza, l’operatore ne annoterà due che appaiono allineati e sovrapposti dal suo punto di osservazione. Quindi volgerà lo sguardo per un angolo di distanza abbastanza ampio dal primo obbiettivo e cercherà altri due target nelle medesime condizioni. Le due semirette che si dipartono dai punti rilevati e convergono verso l’osservatore ne determinano la posizione. Il metodo è molto comodo per tornare sul posto con una buona approssimazione, ma non per riportare la posizione su una carta. Punto con due rilevamenti bussola (Fig. 17) L’operatore osserverà un punto cospicuo (ad esempio un faro) attraverso l’alidada di una bussola da rilevamento e rileverà l’angolo compreso tra la direzione del punto e il Nord (Rlb - Rilevamento bussola). Si otterrà così una retta di rilevamento. Ripetendo il procedimento su un altro punto a terra, l’intersezione della

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capitolo sesto

Fig. 18. Posizionamento con tre rilevamenti bussola.

prima retta con quella nuovamente ottenuta darà la posizione. Perché questa risulti ben determinata, i due rilevamenti dovranno differire tra loro di un angolo non inferiore a 30° e non superiore a 150°. Prima di riportare il punto sulla carta, sarà tuttavia necessario correggere il dato in funzione della deviazione magnetica ‰, quindi della declinazione magnetica d. Il Rilevamento Vero sarà dato da: Rlv = Rlb + (± ‰) + (± d). Punto con tre rilevamenti bussola (Fig. 18) L’individuazione di tre punti notevoli permette di delineare tre rette di rilevamento. Difficilmente queste convergeranno esattamente nel punto in cui si trova l’osservatore. Si determinerà, allora, una più o meno estesa area triangolare detta “triangolo di confusione” al centro della quale è da collocare la posizione. Se il triangolo di confusione risultasse troppo grande, sarebbe opportuno ripetere i rilevamenti. Per minimizzare gli errori di tale procedura sarebbe meglio scegliere bersagli il cui rilevamento complessivo formi un angolo di almeno 120°. Per riportare i rilevamenti sulla carta saranno necessarie le correzioni di cui al punto precedente. Cerchio capace (Fig. 19) Tra i sistemi tradizionali per fissare i luogo di posizione è il più preciso, ma non serve per ritornare sul punto in mezzo al mare. Prevede l’utilizzo di un sestante (strumento normalmente usato per misurare gli angoli verticali) per misurare l’angolo A tra una prima coppia di punti notevoli individuati sulla costa (1 e 2). La misura di questo angolo sarà necessaria quando si dovranno riportare i rilevamenti sulla carta. Si uniranno i punti 1 e 2 con una semiretta. Dai punti 1 e 2 si tracceranno due semirette con angolo pari a 90°- A. Si farà centro nel punto di intersezione tra le due semirette e si traccerà un cerchio di raggio pari alla distanza da 1

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Fig. 19. Cerchi capaci.

o da 2. La nostra posizione O sarà sulla circonferenza virtuale che passa anche sui due punti notevoli. Questo sarà il primo “cerchio capace” che, tuttavia, non sarà sufficiente per determinare la nostra posizione esatta. È necessario rilevare un terzo punto sulla costa (3) e misurare, quindi, l’angolo B formato fra la semiretta passante per il punto 3 e quella passante per il punto 2, ripetendo le operazioni descritte. La posizione esatta si avrà nel punto di intersezione tra i due cerchi capaci. Un metodo più semplice per trasferire i rilevamenti sulla carta prevede l’utilizzo di un foglio di carta lucida sulla quale, con l’ausilio di un goniometro, si disegnano le tre semirette O1, O2, O3, con angoli di una misura pari a quella degli angoli rilevati, nell’esempio 54° e 46°. Il foglio lucido viene quindi sovrapposto alla carta nautica e si dovranno sovrapporre le tre semirette sui tre punti cospicui. Il punto di origine delle tre semirette indicherà sulla carta la nostra posizione. In mare aperto: gps In mare aperto, quando la costa non è in vista, i sistemi impiegati per determinare la posizione si basano sugli strumenti normalmente utilizzati per la navigazione d’altura. Tra questi, il più moderno e preciso e, ultimamente, ampiamente diffuso, è quello denominato gps, acronimo per Global Positioning System. Si può considerare come una evoluzione satellitare del precedente sistema di posiziona-

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capitolo sesto

mento denominato loran che si basava sulla triangolazione di tre o più emittenti radio posizionate sulla crosta terrestre. L’intersezione dei tre cerchi formati dai segnali emessi dalle stazioni a terra, permetteva di dedurre la propria posizione. L’uso del loran presupponeva l’esistenza di stazioni che emettevano il loro segnale fisso su isole, coste e montagne così da dare copertura ad un determinato settore del globo terrestre e non su tutto il globo. La base del sistema gps è la trilaterazione dai satelliti; le stazioni, in questo caso, sono nello spazio e si muovono continuamente a 20.000 km dalla terra ed emettono un segnale in ogni direzione. I ricevitori gps sono dei piccoli calcolatori che, automaticamente, si sintonizzano con 4 satelliti o più. Da ogni satellite viene ricevuto un segnale che contiene la sua identificazione, la sua posizione ed il tempo d’invio del segnale medesimo. Il ricevitore calcola la distanza percorsa dal segnale facendo la differenza tra il tempo d’invio ed il tempo di ricezione. La velocità del segnale, infatti, è nota ed è quella della luce: 300.000 Km/s. Per ogni satellite il ricevitore individua così una sfera di posizione. Con quattro satelliti si determinano altrettante sfere di posizione, le quali si incontrano in un punto che è la posizione del ricevitore. L’affidabilità del rilevamento per usi topografici, però, non è assoluta. Infatti, essendo nato per usi militari, il sistema è sotto il controllo del Dipartimento della Difesa americano, che può indurre a suo piacimento degli errori denominati con la sigla s.a.1 (errore di disponibilità selettiva, Selective Availability), per impedire a nazioni ostili di utilizzarlo. Se consideriamo che apparecchiature dal costo non troppo elevato, quali quelle di cui si dispone normalmente per usi nautici, denotano possibilità di errori dovuti alle loro stesse caratteristiche tecniche, possiamo affermare che difficilmente si consegue un’accuratezza inferiore ai 10 metri di errore. Questi inconvenienti sono superati utilizzando il sistema dgps (gps Differenziale). Esso funziona adottando l’accorgimento di servirsi di due apparecchi, dei quali uno è utilizzato dall’utente in movimento, l’altro è posto a terra in una stazione dalle coordinate note. Questo rileva la propria posizione gps inficiata dall’errore di cui, in questo caso, è possibile identificare l’entità, essendo nota la vera distanza dai satelliti. Mettendo in comunicazione i due strumenti, quello fisso e quello mobile utilizzato sui punti da rilevare, si può correggere l’errore di rilevamento mediante un software specifico. L’approssimazione che si può ottenere, a seconda dei casi e degli apparecchi utilizzati, può essere fino ad un metro ed anche meno di un metro. Metodi di rilievo subacqueo Al tema del rilievo dei monumenti e all’importanza di questo argomento nella ricerca archeologica, anche subacquea, sono stati dedicati numerosi lavori specifici.2 1 Il 1 maggio 2000 il presidente Clinton ha deciso di togliere la s.a. Tuttavia nulla assicura sulla sua non reintroduzione in futuro da parte della Amministrazione u.s.a. 2 In generale sul rilievo archeologico vedi Carandini (1981); Giuliani (1986). Per il rilievo subacqueo cfr. Rosso (1987): 81-129; Faccenna, Felici (1998): 89-98; Felici (2002): 122-164; A questi ultimi, in particolare, si rimanda per una più ampia trattazione dei numerosi metodi applicativi.

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È solo attraverso questo processo di documentazione, infatti, che si acquisiscono le dimensioni reali del manufatto o dell’area di indagine e si realizza una vera e propria banca dati di informazioni relative alle tecniche, alle fasi costruttive, ai restauri, alla morfologia del terreno ecc… Il prodotto finale è costituito da un disegno che risponde alle leggi della geometria descrittiva e/o analitica realizzato in una scala adeguata all’uso che se ne vuole fare: quanto più si intende scendere nel dettaglio, tanto più si avrà cura di scegliere un rapporto a piccolo denominatore. La documentazione grafica di base di un bene archeologico sommerso, sia esso un relitto o un sito monumentale, è costituita dal rilievo planimetrico corredato da sezioni e prospetti e dal disegno al dettaglio di particolari utili alla ricostruzione di elementi di singolare interesse o di singoli manufatti. Nel caso di aree di grande estensione o di rilievi di insieme, potranno essere utilizzate scale da 1/50 a 1/500, rinunciando alla caratterizzazione realistica delle tecniche e dei particolari di costruzione, limitandosi all’utilizzo di una simbologia convenzionale ovvero, nelle scale a denominatore più alto, raffigurando esclusivamente lo sviluppo planimetrico dei manufatti. Naturalmente, il rilievo di insieme più efficace e più affidabile è quello ottenuto dalla restituzione grafica di un rilievo fotogrammetrico. Tuttavia, documentazioni di settori limitati di scavo o di particolari momenti della stratigrafia, potranno trovare giovamento dalla esecuzione di planimetrie grafiche anche con l’impiego di un reticolo mobile, come si vedrà in seguito. Un livello più dettagliato della documentazione grafica è necessario quando si vuole procedere all’analisi delle superfici e dei volumi, presenti o scomparsi ovvero quando si vogliono documentare le fasi di scavo o di restauro o la tecnica di costruzione navale. La scala da scegliere per questa documentazione non deve superare mai il rapporto 1/50. Sarà possibile, così, caratterizzare nel modo più adeguato le superfici architettoniche adottando la simbologia convenzionale o creata all’occorrenza, da indicare nella ‘legenda’ allegata. I rilievi comprenderanno la planimetria ed i prospetti di ogni singolo ambiente o di ogni singola unità stratigrafica. Per la graficizzazione dei particolari architettonici navali o di complesse sezioni stratigrafiche, si preferisce adottare la scala 1/1, utilizzando fogli di acetato trasparente o lastre di plexiglass e matite dermatografiche. Come per le prospezioni, anche per il rilievo esistono numerosi metodi, da quelli che utilizzano strumenti semplici a quelli che prevedono l’uso di strumentazioni più sofisticate. Il comune denominatore di ognuno di questi è costituito dalla necessità che le operazioni si svolgano nel tempo più breve con il conseguimento del massimo risultato. Questo perché, come è noto, il lavoro subacqueo è fortemente condizionato dalla profondità in cui si opera e dal tempo di permanenza in quota. Dunque, avendo la necessità di operare ad elevate profondità o, comunque, in situazioni che comporterebbero l’uscita dell’operatore dalla ‘curva di sicurezza’, l’organizzazione del lavoro deve contemplare l’adozione di attrezzature adeguate (campana batiscopica, camera di decompressione, interfono ecc.) e la presenza di un numero congruo di subacquei.

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capitolo sesto

Sebbene le nuove tecnologie stiano trasformando completamente i metodi di rilievo archeologico subacqueo, reputiamo opportuno descrivere nel dettaglio le tecniche di rilevamento manuale che, a nostro avviso, devono continuare ad essere parte del bagaglio culturale dell’archeologo, anche subacqueo. Infatti, non solo è necessario che un archeologo sia in grado di rilevare direttamente un sito sommerso, qualora non abbia a disposizione strumenti tecnologicamente avanzati ma, anche nel caso fortunato di poter disporre di moderne tecnologie, crediamo sia conveniente che il rilievo manuale sia praticato come opportunità di migliore approccio e conoscenza del sito. Durante questa attività, infatti, sarà possibile osservare direttamente dettagli e particolari che potrebbero sfuggire agli strumenti, anche a quelli più precisi e tecnologici. Gli strumenti per il rilievo manuale Gli strumenti che il disegnatore subacqueo dovrà utilizzare nel suo lavoro sono di facile impiego e reperimento: Tavoletta di pvc per il sostegno dei fogli da disegno. Fogli da disegno di poliestere. È consigliabile una grammatura intorno ai 90-95 gr. Questi possono essere prestampati e recare all’occorrenza la quadrettatura o schede realizzate per usi specifici. Fogli di acetato per il rilievo in scala 1:1. Matite di legno morbide (h o hb) da collegare con un sagolino alla tavoletta. Bussola. Metro snodato, goniometro, righello, squadra di materiale plastico. Stadia di plastica. Palina graduata di plastica e la freccia per indicare il Nord, elementi indispensabili nelle riprese fotografiche. Rotella metrica di plastica rinforzata indeformabile. Ecclimetro per misurare gli angoli zenitali. Profondimetro. Livella di plastica o di metallo a bolla d’aria. Livella ad aria (tubo di gomma trasparente). Pesi di piombo di varie dimensioni. Sagole e galleggianti per costruire pedagni con cui segnalare i reperti. Picchetti di metallo per identificare punti e capisaldi e per delimitare aree topografiche. Chiodi per fissare etichette o da utilizzare come capisaldi per collegare sagole e cordini di nylon nel disegno delle sezioni. Etichette di materiale plastico. Puntine da disegno colorate per mettere in risalto particolari salienti ad esempio i pioli di legno utilizzati nella costruzione navale per connettere gli elementi dello scafo ecc… Reticolo mobile di forma quadrata di 1 o 2 metri di lato, suddiviso, per mezzo di sagole o elastici, in maglie quadrate di dimensioni prestabilite. Questo strumento è utilissimo per il rilievo 1/1.

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Martello e mazzetta. Moschettoni d’acciaio. Elastici. Coltello. Le tecniche Tra le tecniche di rilievo diretto usate più comunemente, sott’acqua come in superficie, ricordiamo quella che utilizza le coordinate polari, la tecnica della trilaterazione e quella basata sugli assi cartesiani. Ciascuna, come vedremo, presenta vantaggi e svantaggi; saranno l’esperienza dell’archeologo e le necessità contingenti a suggerire l’adozione dell’uno o dell’altro metodo. Naturalmente, viste le condizioni del lavoro subacqueo, non è pensabile di realizzare direttamente sott’acqua un rilievo “pulito” o “finito”. In realtà, sott’acqua si disegnerà uno schizzo misurato molto dettagliato, nel quale verranno riportati sinteticamente ed in modo schematico la posizione e l’aspetto dei singoli reperti, i rapporti metrici intercorrenti tra loro e i capisaldi del rilievo. Tutti gli accorgimenti finalizzati alla ottimizzazione delle operazioni potranno essere di volta in volta sperimentate dall’operatore. L’operatore potrà, inoltre, aggiungere in margine allo schizzo, commenti ed osservazioni che saranno utili, una volta tornato a terra, per la redazione del rilievo finito. Metodo del rilievo per coordinate polari Questo sistema è più speditivo rispetto a quello delle trilaterazioni ma meno affidabile in quanto a precisione. Scelto un punto o e un allineamento di riferimento oy, il posizionamento del punto A è dato dalla misura della distanza oa e dall’angolo · formato dall’allineamento oy e dalla semiretta oa. Questo rilevamento può essere praticato mediante l’utilizzo di un goniometro di grandi dimensioni fissato sul fondale mediante un’asta alla quale è collegata la fettuccia metrica. Un operatore leggerà sul goniometro la misura dell’angolo tra l’allineamento di riferimento oy e la fettuccia; mentre un secondo operatore, che manovra la fettuccia, prenderà nota della distanza. In alternativa al goniometro può essere usata la bussola, le misurazioni effettuate potranno avere come allineamento di riferimento la direzione del nord. In entrambi i casi non si è esenti dalla possibilità di commettere errori. Infatti, per quanto la bussola o il goniometro siano di grandi dimensioni, sarà praticamente impossibile la lettura precisa al grado, a causa delle difficoltà determinate da oscillazioni involontarie degli strumenti e degli operatori, dai movimenti oscillatori e dalle dimensioni della fettuccia. Inoltre, l’operatore che legge la fettuccia sarà soggetto ad errori di stima. La bussola, poi, com’è noto, è influenzata dagli oggetti metallici che notoriamente non mancano tra l’attrezzatura del subacqueo. Il metodo, che non è affidabile per rilievi di precisione, può avere una qualche utilità nei rilevamenti speditivi per determinare la posizione sul fondale di materiali sparsi, quando non è necessario raggiungere una estrema accuratezza come, ad esempio, in occasione di un sopralluogo di verifica di una segnalazioni in previsione dell’attuazione dell’intervento archeologico vero e proprio.

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capitolo sesto Metodo di rilievo con trilaterazione1 (Fig. 20)

La posizione di un punto 1 può essere misurata rispetto ad altri due punti (a e b) posti ad una distanza nota su una medesima linea di base della quale costituiscono gli estremi. Pertanto, dal punto a si misura la distanza a1 e dal punto b si misura la distanza b1. Si riportano sulla carta con il compasso le misure rilevate, facendo centro in a e in b. Il punto di intersezione dei due archi di cerchio disegnati sarà la posizione di 1. La stessa operazione potrà essere ripetuta per 2, 3. Questo metodo, tuttavia, non è esente da alcuni inconvenienti determinati da errori di diversa natura: l’errore di lettura (errore grossolano) che è più frequente di quanto non si creda, dovuto a distrazione, errato posizionamento dello “zero” della fettuccia metrica, scarsa competenza dell’operatore; errore dovuto alla cattiva tensione della fettuccia (dovuto all’operatore o a condizionamenti esterni per es. ostacoli, presenza di corrente ecc…) o cumulo di errori per la differente tensione nelle diverse misure successive; errori accidentali dovuti a leggeri spostamenti rispetto ai punti di base, nel caso che le operazioni siano condotte da diversi rilevatori; errori elementari dovuti alla graficizzazione del rilievo (la posizione dell’ago del compasso sui vertici, l’uso di matite e pennini sovradimensionati ecc…); errore di apprezzamento delle frazioni minime dell’unità di scala. Tutte queste possibilità di errore possono concorrere nell’ambito di ogni singola misurazione. Pertanto, nel posizionare i punti successivi a c sarà opportuno utilizzare, ove possibile la base originaria ab. In alternativa, sarà necessario servirsi della misura di controllo. Se questa risulterà esatta, si potrà procedere avendo la garanzia dell’esattezza delle nuove linee di base, nel caso

Fig. 20. Metodo di rilievo con trilaterazione. Disegno E. Mitchell. Rielaborazione r.p.

1 Il principio della triangolazione, invece, ideato dall’olandese Snellius nel 1617, prevede la misura degli angoli di a1 e di b1, determinati dalle semirette ac e bc, per stabilire la posizione di c. Questo metodo si ricollega a quello topografico di rilevamento denominato intersezione in avanti, nel quale, la posizione di c si ricava dalla misura degli angoli a1 e b1 usando strumenti ottici.

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contrario sarà necessario ripetere la trilaterazione. In questo metodo di rilevamento la distanza tra i punti rilevati è inversamente proporzionale alla precisione della misurazione. Inoltre, se ne consiglia l’impiego su fondali privi di forti dislivelli e di ostacoli, soprattutto quando si è alle prime armi. Metodo di rilievo per assi cartesiani o per coordinate ortogonali (Fig. 21) È un metodo più rapido e per molti aspetti più affidabile del precedente e, Fig. 21. Metodo di rilievo per assi cartesiani o per coordinate ortogonali. proprio per questo, è applicabile a diversi livelli, per misurare sia le piccole sia le grandi distanze. È tra l’altro, molto comodo ed immediato da utilizzare all’interno dei quadrati di un reticolo. Bisogna costruire, possibilmente con moduli metrici rigidi, due assi di riferimento xy. Per posizionare il punto c basterà misurare la distanza di questo da x e da y, facendo attenzione a tenere la fettuccia in posizione ortogonale. Per avere una maggiore sicurezza del conseguimento dell’ortogonalità, è possibile utilizzare una squadra oppure l’ortogonalità può essere stabilita tenendo lo 0 sul punto da rilevare e portando la fettuccia sull’asse x o y. Facendola oscillare a destra e a sinistra, la misura più piccola leggibile sulla fettuccia corrisponderà al punto di tangenza fra l’arco di cerchio descritto con il movimento e l’asse di riferimento e quindi alla posizione in cui la fettuccia è realmente ortogonale a questo. Quote, dislivelli e inclinazioni La documentazione grafica comporta anche la misurazione dei dislivelli tra punti situati in quote diverse ovvero la realizzazione di sezioni e prospetti (sezioni/prospetti dello scafo di un relitto, di un manufatto architettonico sommerso, sezioni stratigrafiche ecc…). È indispensabile in questi casi determinare la quota O ovvero il valore dei dislivelli. Uso della livella a bolla d’aria Sovente, soprattutto dovendo rilevare le sezioni o i rapporti di quote tra settori diversi dello scavo, è necessario eseguire misurazioni specifiche. Come sulla terra, si può rivelare utile e semplice l’utilizzo di una livella a bolla d’aria. Volendo misurare il dislivello tra il punto A situato alla quota più elevata e il punto b, situato più in basso, si effettuerà la misurazione in questo modo: si posiziona sul punto A l’estremità di un’asta, su cui è stata applicata la livella a bolla, curando che si mantenga in bolla. Quindi, sul punto b si alzerà una stadia ad incrociare l’asta nel punto x. La lettura del valore x corrisponde al dislivello.

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capitolo sesto Uso dell’ecclimetro (Fig. 22)

Fig. 22. Ecclimetro. Da Rosso (1987).

Il dislivello tra a e b può essere valutato usando un’ecclimetro. Questo strumento può essere ottenuto con un goniometro nel cui centro viene applicato un filo a piombo. Poggiando il goniometro su un’asta che unisce i punti a e b, l’inclinazione del filo a piombo permetterà di leggere i gradi della pendenza. La distanza a e b è nota, il dislivello potrà essere ricavato graficamente o mediante calcolo trigonometrico.

Uso della livella ad aria (Fig. 23) La livella ad aria si ottiene da un tubo di gomma trasparente che sarà portato sul fondo pieno d’aria. Il dislivello tra il punto a ed il punto b si misura nel modo seguente: un’estremità del tubo, con l’apertura in basso, si fissa in a; si porta l’altra estremità su una stadia collocata sulla verticale di b. Qui si comincerà a portare verso il basso l’estremità del tubo di gomma fino a che si noteranno fuoriuscire delle bolle d’aria nell’estremità posta in a. Dopo l’uscita di qualche bolla, si noterà all’interno del tubo in b un’interfaccia aria/acqua. Questa per il principio dei

Fig. 23. Livella ad aria. Disegno E. Mitchell. Rielaborazione r.p.

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vasi comunicanti si troverà alla medesima quota di a; a questo punto basterà leggere sulla stadia la quota corrispondente all’interfaccia aria/acqua (xX) che indicherà il dislivello bx. Come ricavare una sezione o un prospetto (Fig. 24) Il rilevamento di una sezione o di un prospetto sfrutta lo stesso principio del rilievo per assi cartesiani. Si realizza arbitrariamente una quota 0 determinando un allineamento in bolla ab. Si consiglia di utilizzare una rotella metrica per poter leggere direttamente le misure orizzontali. Da questa linea, Fig. 24. Rilievo con profilometro. procedendo da un’estremità verso l’altra, si misureranno le distanze dei punti da rilevare. Si avrà cura di mantenere l’ortogonalità con sistemi appropriati (ad esempio utilizzando un filo a piombo). Nella realizzazione di sezioni di scafi è anche possibile utilizzare un profilometro, una sorta di versione magnum del pettine utilizzato per il rilievo della ceramica. Se lo strumento non è fatto scorrere lungo telai prestabiliti e già in bolla, sarà necessario di volta in volta posizionarlo in bolla e relazionarlo rispetto alla quota 0.

dsm (Direct Survey Method) È un metodo di rilevamento che è stato sviluppato per uso subacqueo per aumentare l’accuratezza dei risultati quando è necessario rilevare non soltanto misure planimetriche ma anche misure in elevato, come nel caso dei relitti in cui è conservata una notevole porzione dell’opera viva. Si tratta di una specie di triangolazione tridimensionale che misura direttamente, da tre o più punti la cui posizione è nota, i vari elementi da rilevare nelle tre dimensioni. Logicamente il prodotto di una simile operazione non può essere riportato direttamente sulla carta. I calcoli di restituzione possono essere fatti a mano ma normalmente si usa un computer. A tal fine, sono stati messi a punto dei software specifici. Il margine di errore è sufficientemente accettabile soprattutto quando si lavora in condizioni di scarsa visibilità.1

sharps (Sonic High Accuracy Ranging and Positioning System) È uno strumento ad ultrasuoni che accelera i procedimenti di rilievo subacqueo e permette un grado di accuratezza elevatissimo. Fu ideato da Martin Wilcox 1 Questo metodo di rilevamento è stato utilizzato, tra l’altro, durante lo scavo del Mary Rose dove le condizioni di visibilità erano particolarmente critiche cfr. Rule (1982): 218-220.

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capitolo sesto

dell’Applied Sonics Laboratory di Gloucester – Virginia – e applicato per la prima volta nella seconda metà degli anni ottanta a Yorktown – Virginia – sul relitto del Betzy, una nave da trasporto affondata nel 1781, coprendo distanze di oltre 30 metri con un’accuratezza di errore minore di un centimetro. Le ulteriori modifiche del sistema hanno permesso una estensione della copertura ad oltre 100 metri con una comprensibile riduzione della accuratezza di errore calcolabile attorno ai due centimetri alle massime distanze. Successivamente, nel 1987 fu impiegato su diversi relitti indagati nell’ambito del progetto New Jersey.1 Il suo funzionamento si può sintetizzare in questo modo: tre o più trasmettitori di impulsi sono posizionati attorno all’area da rilevare; essi sono collegati ad un computer a bordo dell’imbarcazione appoggio per mezzo di cavi. Un subacqueo manovra un trasmettitore/puntatore anch’esso collegato al computer di bordo. Il trasmettitore/puntatore del subacqueo posizionato sul punto da rilevare emette dei brevi impulsi ultrasonici. Gli impulsi vengono rilevati dagli altri trasmettitori/ricevitori e automaticamente determinano la posizione del target. Gli impulsi, infatti sono ricevuti in un tempo direttamene proporzionale alla distanza del trasmettitore/puntatore rispetto a ciascuno dei trasmettitori/ricevitori. Il computer di bordo elabora i dati trasmessi effettuando, in tempo reale, il calcolo delle coordinate xyz. Il pregio di questo procedimento consiste nel fatto che gli impulsi del trasmettitore/puntatore raggiungono il computer di bordo compiendo un viaggio di sola andata alla velocità della luce. In questo modo è possibile, non solo ottenere misure estremamente precise, come si è visto, ma anche velocizzare enormemente le operazioni. Donal J. Shomette riferisce che sul Betzy furono rilevati più di 600 punti xyz in meno di un’ora, mentre sarebbero stati necessari tre mesi di lavori usando i metodi di rilievo tradizionali. La documentazione per immagini Si tratta di un indispensabile complemento della documentazione grafica e si ottiene attraverso la ripresa di immagini fotografiche e video. Fino ad alcuni anni fa la documentazione fotografica poteva essere eseguita in formato analogico e digitale. Oggi l’uso del formato digitale ha quasi del tutto soppiantato quello dell’analogico, che sopravvive confinato ad usi artistici, industriali e di nicchia. La documentazione fotografica Macchine analogiche costruite appositamente per l’uso subacqueo erano disponibili fino a qualche anno fa (cfr. la notissima nikonos nelle varie versioni) oppure potevano essere usate macchine in custodie scafandrate concepite per i vari modelli (nikon, hasselblad ecc.). I vantaggi erano costituiti dalla possibilità di utilizzare ottiche di elevata qualità e pellicole invertibili bianco e nero e colori (diapositive) che forniscono immagini di qualità migliori per la stampa e la pubblicazioni rispetto alle fotocamere di1 Delgado (Ed.) (1997): s.v. Sonic High Accuracy Racing and Positioning System (sharps).

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gitali usate comunemente. Le digitali, però, in continua evoluzione, offrono d’altro canto la comodità di avere la documentazione in tempo reale con standard qualitativi soddisfacenti. I software per la manipolazione delle immagini digitali, consentono di migliorarne in maniera sorprendente le caratteristiche di luminosità, nitidezza, colore ecc… . Ove possibile, a bassa profondità ed in acque chiare, oppure in presenza di sospensione, è meglio non usare il flash per evitare che la luce di questo venga riflessa dalle particelle fluttuanti davanti all’obiettivo. In molte situazioni si è rivelata utile l’adozione di visori riempiti di acqua limpida da interporre tra l’obbiettivo e l’oggetto da fotografare. Utile, può essere anche l’impiego del tubo di Ruoff (vedi Capitolo settimo, p. 230) oppure l’interposizione tra la macchina e l’oggetto da fotografare di contenitori trasparenti (sacche di plastica, coni di plexglass ecc…) riempiti di acqua limpida. Le immagini andranno realizzate con l’accortezza di posizionare riferimenti indicanti il nord, il nome del sito e la data del giorno nonché i rapporti dimensionali mediante l’inserimento nella scena di paline metriche, scale grafiche ecc… . Pur nella brevità di questa trattazione è doveroso ricordare che una buona documentazione fotografica non può prescindere da riprese d’insieme e particolari realizzate prima, durante e alla fine di un intervento archeologico.1 Utili possono rivelarsi anche le macrofotografie soprattutto per lo studio dei particolari architettonici o costruttivi dei manufatti; per la documentazione dei siti di giacitura, dei sedimenti, delle formazioni biologiche; per l’analisi del degrado e dello stato di conservazione ecc…. Il fotomosaico (Fig. 25) Il fotomosaico permette di avere una visione di insieme di un sito. La ripresa fotografica deve essere realizzata in modo che ogni immagine si sovrapponga alla successiva di almeno il 40% e all’adiacente di circa il 20%. Per motivi dovuti alle deformazioni ottiche, è sconsigliabile usare obbiettivi con focale inferiore ai 28 mm. Tutti i fotogrammi devono essere scattati in maniera che la distanza tra l’obbiettivo e il sito da documentare sia costante e che la fotocamera sia perpendicolare al fondale. Per questo è indispensabile costruire un telaio metallico su cui far scorrere la macchina fotografica. È utile, inoltre, posizionare sul fondale dei riferimenti metrici (reticolo topografico, bersagli a distanze note ecc…) che serviranno alla migliore ricomposizione delle immagini, soprattutto nel caso di manipolazioni successive al computer. La fotogrammetria Questo sistema di ripresa, più complesso da mettere in opera rispetto al fotomosaico, permette però di ottenere un rilevamento tridimensionale del sito 1 I criteri guida per le riprese fotografiche in archeologia subacquea discendono, con ovvi distinguo, da quelle utilizzate negli scavi terrestri. Si rimanda ai capitoli dedicati a questo argomento in Barker (1996): 201-212; Felici (2002): 189-193.

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capitolo sesto

Fig. 25. Fotomosaico di un relitto.

sommerso. Come per la fotogrammetria in ambito aereo, anche sott’acqua l’avvento delle nuove tecnologie di grafica computerizzata, associato all’uso di foto camere digitali, ha consentito oggi una maggiore diffusione e un utilizzo più semplice della fotogrammetria, con costi più contenuti. Tutto ciò ha anche reso quasi obsoleto l’utilizzo di metodi e macchinari che tuttavia descriveremo qui di seguito perché ancora in uso e per necessità di documentazione storica. Iniziamo descrivendo le varie fasi di ripresa ed i principi di esecuzione. Il fotografo procede sistemando su un binario a cavallo del reticolo, due macchine fotografiche ad una distanza costante dal fondale, posizionate in modo che anche la distanza fra loro risulti sempre costante. Nel corso del lavoro di ripresa, egli dovrà fare in modo che ogni fotogramma si sovrapponga al successivo per almeno il 60% e all’adiacente dal 20 al 30%. Come per il fotomosaico è necessario sistemare sul sito i riferimenti metrici. I fotogrammi così realizzati vengono esaminati e sottoposti ad un procedimento di restituzione attraverso speciali apparecchi, detti, appunto, “apparati restitutori”. Si otterrà, quindi, un’immagine tridimensionale da cui sarà possibile ricavare le dimensioni reali di ogni singolo oggetto.1 1 Per maggiori dettagli cfr. Piccarreta, Ceraudo (2000) e Felici (2002): 177. Il progresso tecnologico in continua evoluzione permette di velocizzare le operazioni di rilevamento. Software sofisticati correggono eventuali imprecisioni e permettono di eseguire lavori sempre più accurati. Per un recente intervento di rilievo planimetrico con l’impiego di fotogrammetria realizzata attraverso macchine fotografiche digitali, cfr. Cibecchini et alii (2006): 26-33; vedi per esempio Canciani et alii (2002): 95-100.

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Fig. 26. Sarcofagi del relitto di San Pietro in Bevagna (ta). Un’immagine del rilievo eseguito con il sistema ScubaScan (Archivio iscr).

Una ulteriore possibilità offerta dall’utilizzo di immagini fotogrammetriche digitali è quella rappresentata dalla restituzione di modelli tridimensionali di manufatti sommersi. Ad esempio nel 2009 l’iscr ha utilizzato il sistema ScubaScan per rilevare il carico di sarcofagi del relitto di San Pietro in Bevagna (ta), in collaborazione con la Società Menci Software che ha progettato e sviluppato questo metodo di documentazione insieme all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa e asaStudio. Il sistema ScubaScan, mediante l’uso di tre fotocamere digitali calibrate, disposte parallelamente e ancorate su un supporto in alluminio, era in grado di generare modelli 3D a nuvola di punti che contenevano le stesse informazioni cromatiche rgb delle immagini digitali dalle quali erano ricavati. Su ogni modello 3D era, inoltre, possibile applicare una texture raster, incrementandone ulteriormente la leggibilità.1 (Fig. 26) Analogamente, nel Parco Sommerso di Baia l’iscr, nell’ambito del progetto Comas (www.comasproject.eu), sta collaborando con il Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale dell’Università della Calabria, per sperimentare tecniche di rilevamento 3D; in particolare la ricostruzione 3D di alcuni siti sommersi è stata effettuata utilizzando una sola macchina fotografica digitale e tecniche multi-vista implementate mediante l’utilizzo di codici open source.2 1 Petriaggi, Davidde (2010): pp. 131-137.

2 Gallo et alii (2012): pp. 121-128.

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capitolo sesto

Ulteriori esperienze in questo settore sono in corso altrove come, ad esempio a Pavlopetri, sull’insediamento dell’età del Bronzo, sommerso intorno al 1000 a.C. in Laconia (Grecia). I lavori sono a cura di varie Università e Istituti di ricerca tra cui University of Sydney’s Australian Centre for Field Robotics, Institute of Aegean Prehistory (instap), University of Nottingham, The British School at Athens e il Ministero della Cultura greco.1 La fotografia aerea Fondamentale per lo studio delle strutture sommerse è la consultazione e/o la realizzazione di foto aeree. Queste immagini possono essere ottenute nel modo più semplice fotografando i siti da un’altura, da un edificio elevato o da un pallone frenato, oppure, per ottenere risultati di più ampio utilizzo, fotografando a bordo di un mezzo aereo. L’efficacia del risultato dipende dalle condizioni meteomarine, dall’incidenza della luce sulla superficie del mare e dalla trasparenza delle acque. Si ricordano, tra le prime esperienze significative di questo sistema di documentazione, le foto aeree dei porti imperiali di Roma e dell’Isola Sacra, effettuate da un pallone dell’Aeronautica militare nel 1907 e quelle del corso del Tevere eseguite nel 1908 dal Genio Militare. Negli anni trenta e all’inizio degli anni cinquanta, l’abate gesuita André Poidebard si servì delle foto aeree per documentare i resti sommersi degli antichi porti fenici di Tiro e Sidone. Al 1957 risale la presentazione, da parte del Comandante Raimondo Bucher, delle foto aeree dei resti sommersi di Portus Iulius rilevate durante una missione militare nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Inoltre, è possibile realizzare immagini dall’alto assicurando una macchina fotografica radiocomandata ad un pallone frenato oppure montandola su un aeroplanino telecomandato2 o, ancora, su altre tipologie di apparecchi volanti comunemente denominati “droni”. Un impiego avanzato della fotografia aerea è costituito dall’aerofotogrammetria. In questo caso, vengono eseguiti fotogrammi successivi dell’area oggetto della ricerca, da un aereo che vola sempre alla medesima quota. Le fotografie in parte si sovrappongono, così che ogni punto sia presente in due fotogrammi. Speciali strumenti (restitutori, collimatori…) consentono di disegnare e trasferire su carta gli elementi rilevati.3 Da sottolineare, anche per la fotogrammetria aerea, il crescente utilizzo della fotogrammetria digitale, accanto a quello della fotografia satellitare, per ottenere rilievi fotogrammetrici di vaste aree della superficie terrestre. 1 Mahon et alii (2011): 2315-2321); http://www.nottingham.ac.uk/pavlopetri/index.aspx). 2 In Italia, ad esempio, quest’ultimo sistema era usato negli anni settanta da Antonio Solazzi, fotografo della Soprintendenza Archeologica del Lazio. 3 Tra i numerosi Enti che possiedono archivi di foto aeree si segnala l’Aerofototeca Nazionale, Laboratorio per la fotointerpretazione e l’aerofotogrammetria del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con sede a Roma, che conserva circa due milioni di immagini realizzate sul territorio italiano per lo più dall’aviazione inglese e da quella americana nel corso della seconda guerra mondiale. Per approfondire l’argomento vedi Piccarreta, Ceraudo (2000).

metodi e strumenti di indagine e di documentazione

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La documentazione video L’utilità delle riprese video si manifesta sia nel campo della tutela che in quello della sicurezza e della documentazione scientifica. Infatti, è noto che in alcuni siti particolarmente esposti al rischio di incursioni da parte di clandestini, sono state collocate telecamere fisse a circuito chiuso in grado di trasmettere immagini in tempo reale agli addetti al controllo.1 Telecamere di tipo fisso possono essere poste sott’acqua per controllare l’attività di un cantiere di scavo e permettere all’imbarcazione appoggio di seguire costantemente gli operatori ed intervenire rapidamente in caso di necessità. Nell’eventualità in cui per i più svariati motivi il direttore dei lavori non sia in grado di immergersi, la telecamera a circuito chiuso gli permetterà di seguire costantemente il lavoro. Telecamere mobili possono essere manovrate dai subacquei in immersione e documentare costantemente i particolari delle operazioni. La moderna tecnologia, come si è visto per le fotocamere, offre una vasta gamma di strumenti di lavoro. Le riprese video digitali sono senz’altro le più versatili. Infatti da un filmato digitale possono essere tratti singoli fotogrammi ovvero l’intera ripresa può essere elaborata al computer così da ottenere, grazie a software dedicati, perfino le restituzioni grafiche e i fotomosaici.2 La documentazione 3D laser scanner (Fig. 27) Il metodo di acquisizione 3D mediante l’uso di laser scanner è fra quelli più impiegati sulla terraferma e sta muovendo i primi passi anche in archeologia subacquea. Esso offre risultati di precisione maggiore rispetto alla fotogrammetria 3D, ma necessita di strumenti per il momento ancora costosi. La documentazione 3D scanning, che si serve del laser, si avvale di una “famiglia” di tecnologie, ciascuna delle quali è messa a punto per sopperire alle necessità di acquisizione di diverse tipologie di oggetti, dai più piccoli, come le monete, a intere aree topografiche o edifici. Lo strumento acquisisce automaticamente e velocemente la posizione di migliaia di punti, le cosiddette nuvole, che definiscono la superficie di un oggetto o di un sito, visualizzandoli in una immagine tridimensionale. Le linee del procedimento di scansione si articolano in momenti diversi, il primo dei quali è costituito dalla vera e propria acquisizione della forma geometrica dell’oggetto, che può richiedere diversi piani di scansione. Segue l’allineamento dei dati provenienti da queste diverse scansioni e il cosiddetto merging, processo automatico, che porta alla definitiva edizione 3D dell’oggetto. Oltre al laser scanner, per completare i processi di documentazione sono impiegati software di rielaborazione al pc, in alcuni casi disponibili gratuitamente. In Italia l’iscr ha realizzato rilievi con il laser scanner subacqueo presso il Parco Sommerso di Baia per progettare gli in1 In Italia ricordiamo l’esempio del relitto di Giglio Porto e quello di Cala Gadir, Pantelleria. 2 Per gli impieghi più sofisticati della documentazione video è importante che essa sia realizzata avendo presente l’obbiettivo che si desidera conseguire e come per la fotografia, è importante che le riprese contengano i riferimenti metrici che ne consentano ogni ulteriore manipolazione.

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capitolo sesto

Fig. 27. Rilievo tridimensionale di ambiente pavimentato a mosaico. Villa con ingresso a Protiro, Parco Sommerso, Baia, Napoli. Rilievo di Gabriele Gomez De Ayala (Archivio iscr).

terventi conservativi e documentare il sito sommerso. In particolare, è stato utilizzato il laser scanner Naumacos L1 per l’ambiente pavimentato in opus sectile delle Terme presso Punta dell’Epitaffio e il Naumacos L3 per documentare l’ambiente pavimento con un mosaico bianco e nero con motivo ad esagoni e pelte della Villa con ingresso a protiro. Questi laser generano dense nuvole di punti

metodi e strumenti di indagine e di documentazione

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estrapolando contemporaneamente le informazioni texture delle porzioni di superficie scannerizzata e la presa di fotografie digitali, permettendo di ottenere rilievi 3D con risoluzione sub-millimetrica. Il sistema è in grado di orientare le immagini 3D con gps incorporato e di creare mosaici tridimensionali di aree estese, allineando le varie scansioni modulari mediante un sistema di mire ottiche utilizzate in fase di post produzione.1 Anche il laboratorio di Visione Laser dell’Enea di Frascati sta perfezionando un laser scanner subacqueo denominato re-vue- Remote Viewing in Underwater Environment che può operare fino a 400 metri di profondità.2

1 I due strumenti sono stati messi a punto da Gabriele Gomez de Ayala a partire dal 2007 vedi http://www.centroeuromediterraneo.org/sd/arba/web/index.php?area=1&page=cem&id=36&ln g=it; http://www.centroeuromediterraneo.org/sd/arba/web/index.php?area=1&page=cem&id= 37&lng=it; Davidde, Petriaggi, Gomez De Ayala (2012). 2 Per ulteriori informazioni e bibliografia aggiornata visitare il sito internet http://www.frascati.enea.it/utaprad/3D_laser_scanner_sub.htm.

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capitolo settimo IL CANTIERE ARCHEOLOGICO SUBACQUEO: SCAVO, PRONTO INTERVENTO CONSERVATIVO. METODI E TECNICHE DI LAVORO

L’

apertura di un cantiere archeologico, secondo le norme vigenti in Italia, è riservata al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ed i lavori sono diretti dagli archeologi delle Soprintendenze archeologiche o da professionisti esterni all’Amministrazione dello Stato incaricati, con atto formale, di condurre lo scavo per conto del funzionario responsabile. In alcuni casi, però, la facoltà di condurre scavi può essere concessa a Istituti Universitari o di ricerca, italiani o stranieri, sotto il coordinamento amministrativo ed il controllo delle Soprintendenze.1 Un cantiere archeologico, così come si e già detto parlando delle prospezioni, può essere avviato per: Segnalazioni

È il caso che si verifica più spesso, anche in conseguenza di attività ludiche e di lavori pubblici o privati. A seguito della segnalazione la Soprintendenza dispone sopralluoghi e limitati saggi di scavo che possono poi portare ad un intervento più articolato e organico (vedi punto 2 o 3). Nella maggior parte dei casi, però, si attuano interventi di urgenza, finalizzati alla rapida individuazione e alla registrazione dei dati archeologici, che si concludono, quasi sempre, con il recupero o con la conservazione in situ dei reperti segnalati. Strategie e finalità si differenziano, a seconda del caso, potendo prevedere: 1) la sola ricognizione del sito con o senza la realizzazione di sistemi di protezione da agenti esterni, naturali e umani; 2) la ricognizione e la documentazione con la realizzazione di sistemi di protezione da agenti esterni, naturali e umani; 3) la ricognizione, la documentazione, lo scavo e il recupero. Ricerca scientifica Se il cantiere prende le mosse da studi di carattere storico e/o topografico, quasi sicuramente l’intervento avrà le caratteristiche di un lavoro organico e programmato, fino al corretto immagazzinamento dei reperti e alla pubblicazione scientifica dei risultati. Prima dell’impostazione del cantiere è importante aver ben chiari gli obiettivi che si vogliono conseguire; per ottimizzare i tempi di intervento, infatti, bisogna pre1 Cfr. artt. 88 e 89 del D. Lgs. n.42 del 22 gennaio 2004 - Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

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disporre il cantiere attuando un calendario operativo che tenga conto delle seguenti operazioni preliminari: a) acquisizione dei dati sulla natura e l’estensione del sito; espletamento di tutte le indagini preliminari; b) valutazione delle risorse umane e strumentali; c) progettazione del cantiere archeologico e del pronto intervento di recupero; individuazione delle infrastrutture per il ricovero del materiale archeologico recuperato; d) determinazione del piano di sicurezza. I principi dello scavo archeologico subacqueo sono gli stessi che regolano lo scavo terrestre, si basano cioè sulla teoria dello scavo stratigrafico.1 Naturalmente, l’ambiente subacqueo implica l’impiego di strumenti che normalmente non vengono utilizzati a terra.2 L’organizzazione del cantiere subacqueo e il metodo di scavo archeologico Fattori determinanti di cui tener conto nell’organizzazione del cantiere sono la profondità e la distanza del sito dalla costa. Infatti, nel caso di uno scavo in mare aperto, sarà necessario disporre di una base galleggiante (pontone o imbarcazione appoggio dotata di tutta l’attrezzatura necessaria),3 di una base logistica a terra e di imbarcazioni veloci con funzioni di collegamento tra le due postazioni. Più semplice da organizzare è un cantiere nei pressi della riva, in quanto le attrezzature di lavoro, l’assistenza alle immersioni e la logistica, potranno essere collocate tutte a terra. La prima operazione consiste nella delimitazione topografica del sito. Per analogia con lo scavo terrestre potrà essere scelto il sistema di divisione dell’area in quadrati che permetterà di avere riferimenti precisi per i rilievi (piante, sezioni) e per la documentazione video-fotografica (Fig. 1). La scelta del materiale costi1 Capitolo primo, pp. 24-25 e in questo Capitolo, pp. 230-231. 2 Per una trattazione della storia dello scavo archeologico subacqueo e per l’evoluzione dei sistemi di scavo e di documentazione si rimanda al Capitolo primo. Cfr., inoltre, Tortorici (1998): 29-62 e Felici (2002): 65-119. 3 Oggi le nuove tecnologie offrono la possibilità di dotare l’imbarcazione appoggio delle più varie e sofisticate strumentazioni. L’adozione di un corredo più o meno ampio dipenderà dalle necessità del lavoro. Se si opera in prossimità della costa e si dispone di una valida base a terra, il corredo strumentale potrà essere relativamente limitato; diverso il caso di lavori in alto mare, laddove dalla completezza della strumentazione e dalla disponibilità di valide attrezzature per il pronto intervento sia per la sicurezza, sia per il ricovero dei materiali, dipenderà il successo delle operazioni. Ecco un elenco della strumentazione che si può trovare su una ben attrezzata barca appoggio: gps, ecoscandaglio, Sub Bottom Profiler, Side Scan Sonar, rov, magnetometro, scooter subacqueo, telecamera a circuito chiuso, gru o bracci di sollevamento, compressore, motori a scoppio, generatore di corrente, narghilé, metal detector, varie attrezzature da lavoro e di cantiere (rilievo, fotografia, documentazione video, palloni di sollevamento ecc.), personal computer e varia strumentazione informatica, attrezzature e prodotti per il pronto intervento conservativo, cassetta e materiali per il pronto soccorso, camera iperbarica monoposto.

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Fig. 1. Prova a terra del reticolo topografico per il cantiere subacqueo.

tuente la maglia dei quadrati potrà cadere su elementi elastici, semi-rigidi o rigidi a seconda del caso e della disponibilità. È ovvio che ciascuna scelta comporterà vantaggi e svantaggi e soltanto la corretta strategia dello scavo, l’abilità degli operatori e la predisposizione di controlli frequenti potranno minimizzare gli errori e gli inconvenienti. Prima di iniziare lo scavo sarà necessario annotare le caratteristiche topografiche del sito ed eseguire riprese fotografiche della situazione iniziale. Si procederà, quindi, allo scavo vero e proprio con impiego di attrezzature adeguate alle condizioni di giacitura dei reperti. Per rimuovere i sedimenti vengono utilizzate delle pompe aspiranti dette ‘sorbone’ che possono funzionare ad aria o ad acqua (Fig. 2). Il principio di funzionamento si basa sulla capacità di aspirare i detriti grazie ad una corrente di aria o di acqua generata forzatamente all’interno del tubo di aspirazione (Fig. 3). Nel caso della sorbona ‘ad aria’ si utilizza un compressore a bassa pressione collocato in superficie. Per mezzo di una manichetta l’aria viene convogliata all’interno del tubo semirigido, realizzato in corrugato plastico, della sorbona. L’innesto avviene presso la testa metallica dello strumento situata in prossimità del fondale. L’aria, entrando nel tubo a sezione più larga rispetto alla manichetta, si espande e sale verso la superficie creando un risucchio che richiama i detriti dalla

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Fig. 2. Un archeologo mentre scava con una sorbona ad acqua.

bocca della sorbona verso la superficie. La rimozione e l’aspirazione di questi possono essere agevolate da un lento movimento della mano davanti all’apertura che sarà dotata di una sorta di filtro, costituito da una croce metallica in grado di trattenere gli oggetti di dimensioni tali che, se risucchiati, potrebbero ostruire il condotto. Questo tipo di sorbona funziona bene a profondità relativamente alte, laddove la forte differenza di pressione tra il fondale e la superficie favorisce una energica risalita dell’aria. La potenza dell’aspirazione può essere variata con una maniglia di regolazione, poiché, in alcuni casi, si potrebbe rivelare eccessiva. Appropriati sistemi di ancoraggio renderanno stabile sul fondo il tubo della sorbona, che altrimenti, sotto la spinta dell’aria, tenderebbe a risalire verso l’alto. Nell’allestire il sistema sarà opportuno tenere conto delle correnti, onde evitare il riporto dei sedimenti espulsi dalla coda della sorbona sull’area di scavo. Per i bassi fondali, inferiori ai 10 m, è più indicato l’impiego della sorbona ‘ad acqua’. In questo caso il lungo tubo giace sul fondale. Dal solito compressore viene pompata acqua all’interno di una manichetta che s’innesta al tubo con il getto orientato verso la coda. La corrente d’acqua che così viene generata produce l’azione di risucchio desiderata. Lo scavo con quest’ultimo tipo di sorbona risulta molto più morbido e controllabile, in quanto il flusso dell’acqua è costante e l’operatore può manovrare più agevolmente lo strumento, senza gli scossoni caratteristici del sistema ad aria. La sorbona ad acqua non è indicata solo per i bassi fondali, ma può essere impiegata a qualsiasi profondità, qualora le condizioni del sito da scavare ne consigliassero l’utilizzo. In tutti i casi, alla fine del tubo, in coda alla sorbona, è bene porre un vaglio, costituito da un cesto metallico a piccole maglie, per raccogliere eventuali oggetti minuti accidentalmente risucchiati e sfuggiti all’occhio dell’operatore (Fig. 4). I metodi appena descritti sono quelli più consueti. In casi particolari, si può ricorrere all’utilizzo di sistemi meno “discreti”, come quello della “lancia ad acqua”,

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Fig. 3. Nello schizzo si distinguono diversi strumenti di lavoro: A: sorbona ad acqua; B: la freccia indica il tubo di Ruoff; C: sorbona ad aria; D: lancia ad acqua. Sulla barca appoggio i compressori per il funzionamento degli strumenti. Disegno R.P.

(Fig. 3) un idrante che stacca i sedimenti con un potente getto d’acqua, o quello della “spingarda”, un tubo idraulico al cui interno viene convogliato un potente getto di aria compressa che permette di rimuovere i sedimenti (Fig. 5). Questi sistemi possono essere utilizzati per potenti strati, archeologicamente sterili, che in alcuni casi si trovano sovrapposti agli strati archeologici, come le mattes delle radici morte della posidonia o il limo compattato del fondo dei fiumi. L’uso di simili espedienti non consente, però, un attento controllo dello scavo ed è poco raccomandabile se non in occasioni particolari e in mani esperte. In alcuni casi, come a Capo Chelidonia, sono stati utilizzati anche martinetti idraulici per staccare dal fondale roccioso masse informi di concrezioni che racchiudevano al loro interno i reperti metallici.1 1 Bass (1991), pp. 69-82.

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capitolo settimo

Fig. 4. Il vaglio di una sorbona ad aria.

Fig. 5. Si allestisce una “spingarda” da conficcare nel banco melmoso per smottare i sedimenti del fondo fluviale. Fossa Traiana - Fiumicino, Roma.

Per risolvere il problema della visibilità, che in genere è abbastanza ridotta e che può diventare pessima nel corso dello scavo a causa della forte sospensione generata dal lavoro, può rivelarsi utile l’utilizzo dello strumento comunemente noto con il nome di Tubo di Ruoff, dal nome di Ulrich Ruoff che lo ha progettato (Fig. 3). Si tratta di un tubo rigido dotato di buchi che lo fanno somigliare ad un flauto. A questo tubo si innesta una manichetta che convoglia acqua chiara a pressione; l’acqua uscirà dai fori generando una forte corrente. Se si avrà cura di disporre il tubo con i fori rivolti verso l’esterno rispetto all’area che si sta scavando, la corrente risucchierà la sospensione e schiarirà il campo di lavoro. Come si è detto, il metodo di scavo con cui si opera è quello stratigrafico. La stratificazione archeologica è costituita da diverse componenti denominate unità stratigrafiche, a loro volta definite positive (accumuli: costruzione di muri, pavimenti ecc…) o negative (erosioni: fosse, distruzione di muri ecc…). Sarà individuata e scavata per prima l’unità stratigrafica più recente, quella che copre le altre unità ma non è coperta da altre e così di seguito. Nello scavo stratigrafico, dunque, si procede secondo lo schema qui riportato: 1) individuazione della u.s., definizione dei suoi limiti e dei rapporti con le altre uu.ss.; 2) documentazione (fotografie, disegni, descrizione sulla scheda); 3) scavo della u.s.1 1 Se non si è in grado di operare in tal senso, può succedere, come è già accaduto, di non saper distinguere tra i materiali di più relitti sovrapposti, come nel caso del relitto del Gran Congloué cfr.

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Il diagramma stratigrafico o Matrix, poi, che sarà redatto a cura del direttore dello scavo, riprodurrà schematicamente le fasi della stratificazione. Le singole uu.ss., rappresentate dal numero identificativo, saranno messe in relazione tra loro in una sorta di albero genealogico che ne evidenzia l’evoluzione cronologica nella loro specificità di azioni positive o negative. Successivamente sarà possibile associare le uu.ss. tra loro funzionali in insiemi rappresentanti i diversi momenti della storia del sito. Questi insiemi, le attività, documentano il verificarsi di un particolare evento (ad esempio un incendio, la ristrutturazione di un ambiente, la chiusura di porte o finestre o l’apertura di altre ecc…); più attività possono, poi, concorrere alla realizzazione del diagramma di insiemi più ampi e significativi della vita del sito, costituiti dai periodi (ad esempio l’abbandono dell’insediamento per un evento nefasto, ovvero la ripresa della sua frequentazione). Con le dovute differenze, questi ragionamenti possono essere applicati alla stratigrafia di un relitto, offrendo la possibilità di ricostruire attività connesse alla sua vita di nave (successive stratificazioni di merci di diversa provenienza che indicano pluralità di scali; segni di riparazione dello scafo; tracce di incendio, resti umani o tracce di combattimento che possono gettare luce sugli ultimi tragici momenti di vita della nave), ovvero attività verificatesi dopo il naufragio (ad esempio la prova del recupero delle mercanzie da parte degli urinatores; tracce di violazioni e danneggiamenti più o meno recenti; la successione stratigrafica dei resti degli organismi marini che danno informazione sulle vicissitudini delle condizioni di giacitura). Nella fase di scavo, grande attenzione dovrà essere posta alla catalogazione dei reperti già al momento del ritrovamento. Essi andranno segnalati con un cartellino recante il numero ed i dati identificativi topografici. Sarà, quindi, eseguito il rilievo e la documentazione fotografica e fotogrammetrica secondo quanto già detto nel Capitolo sesto. Analoga attenzione meriterà l’ambiente circostante; di ogni reperto saranno registrate le condizioni di giacitura e saranno prelevati campioni dei sedimenti del fondale e dell’acqua. Questi dati si riveleranno particolarmente utili al restauratore che si occuperà del recupero e del pronto intervento sul cantiere e poi del restauro. La sicurezza sul cantiere È importante tenere sempre presente, prima di ogni altra considerazione, la necessità che tutte le operazioni si svolgano nelle condizioni di massima sicurezza per gli operatori. In fase di progettazione, come è stato detto in precedenza, è fondamentale che venga individuato un professionista preposto alla progettazione e all’esecuzione di un piano di sicurezza che stabilisca le procedure da adottare per prevenire i possibili rischi. Nel corso del cantiere è determinante la programmazione delle immersioni, in modo che i turni non siano stressanti, cercando di evitare le immerLong (1987), pp. 9-36. In un sito monumentale sommerso, poi, la successione stratigrafica documenta non solo le ultime fasi di vita, dall’abbandono alla sua completa “sommersione”, ma anche i periodi precedenti in cui il settore oggetto dello scavo era utilizzato e frequentato dall’uomo.

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sioni ripetitive, soprattutto quando il cantiere è profondo. Nei cantieri, a partire da -15 m, è obbligatoria la presenza di una camera iperbarica; ma anche in quelli, invece, dove la profondità è minore, sarà opportuno allertare, in ogni caso, una struttura pubblica o privata dotata di camera iperbarica, per un eventuale caso di emergenza1 (Fig. 6). La risoluzione di problemi e difficoltà contingenti riguardanti l’operatività e la sicurezza, possono richiedere, di volta in volta, accorgimenti Fig. 6. Camera iperbarica monoposto che saranno modulati a seconda delpresso il cantiere del relitto di Montalto di Castro, Viterbo. l’emergenza. Nel corso di un cantiere archeologico subacqueo nella Fossa Traiana, ad esempio, la difficoltà rappresentata dalla corrente del corso d’acqua fu superata fornendo un peso di 30/40 kg all’operatore che doveva eseguire i rilievi sott’acqua. Tale arnese era costituito da un lingotto di piombo entro una scatola di ferro fornita di una maniglia che la faceva assomigliare ad un grosso ferro da stiro. Risultò, quindi, agevole per l’operatore, preventivamente imbracato con un cavo di sicurezza collegato al pontone galleggiante, eseguire i rilievi in corrente stando agganciato alla maniglia con un moschettone. Egli, inoltre, poteva comunicare tramite un interfono subacqueo con i colleghi pronti in stand by per eventuali emergenze. Il recupero ed il pronto intervento conservativo sul cantiere Dopo avere documentato il materiale archeologico nella sua posizione di giacitura, si è pronti per il recupero. I metodi di recupero dovranno essere valutati considerando lo stato di conservazione di ogni singolo reperto. Generalmente, se i reperti sono in soddisfacenti condizioni di solidità, uno dei metodi più usati è rappresentato dall’impiego di barelle o cesti di plastica fatti salire in superficie con l’ausilio dei palloni di sollevamento (Fig. 7). Quando, invece, il reperto è molto fragile e rischia di subire danni nello spostamento, si interverrà direttamente sott’acqua cercando di consolidarne o irrigidirne la struttura con metodi opportuni, quindi si effettuerà il recupero. Mai esporre per lungo tempo al sole qualsiasi reperto dopo il recupero!

1 La camera iperbarica mobile consiste in una struttura di acciaio facilmente trasportabile, all’interno della quale prende posto il subacqueo da sottoporre a trattamento in caso di embolia o di altri eventi traumatici. Nella camera iperbarica viene artificialmente riprodotta la pressione ambiente nella quale egli si trovava a lavorare. Un tecnico specializzato controllerà, quindi, la decompressione e gradatamente, sulla base di apposite tabelle, la ricondurrà ai valori normali.

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Fig. 7. Cantiere didattico icr (ora iscr) presso Torre Santa Sabina, Brindisi. Gli allievi si apprestano a recuperare i reperti utilizzando una barella e una cesta di plastica (Archivio iscr).

Come è stato più volte ripetuto, è evidente l’importanza della presenza sul cantiere di un restauratore, meglio se subacqueo, in quanto in grado di attivarsi per il corretto intervento sul materiale archeologico che potrà essere più o meno compromesso dalla lunga permanenza in acqua. Il restauratore assisterà, dunque, l’archeologo già sott’acqua così da provvedere alla messa a punto d’iniziative specifiche fin dal momento dell’individuazione dei manufatti. Non è raro, infatti, il caso di reperti organici o comunque molto compromessi che, al momento del recupero subiscono irreversibili danni o, addirittura, vanno incontro alla distruzione. Il pronto intervento conservativo va attuato, quindi, prima dell’immagazzinamento che precede lo studio analitico degli oggetti ritrovati.1 Il mancato intervento di prevenzione nei confronti dei processi di corrosione e di deterioramento che intervengono immediatamente dopo il recupero dei reperti sommersi, ne determinerebbe la sicura perdita, con la conseguente compromissione dei dati scientifici. L’attenzione da porre verso le operazioni relative alla conservazione costituisce non un momento facoltativo, ma determinante per la riuscita del progetto di ricostruzione storico-archeologica. Le condizioni ambientali, infatti, influiscono direttamente sui processi degenerativi del materiale archeologico di natura organica o inorganica, determinando 1 In generale per il restauro di reperti di provenienza subacquea si consiglia la lettura dei manuali Pearson (1987) ed Hamilton (1996). Per il pronto intervento sul cantiere cfr. Leskart (1987), pp. 117-121.

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Fig. 8. Reperto n. 96 subito dopo il recupero. Cantiere didattico icr (ora iscr) presso Torre Santa Sabina, Brindisi (Archivio iscr).

Fig. 9. Reperto n. 96 dopo l’intervento di restauro. Si tratta di 4 elmi di ferro impilati come dovevano trovarsi nell’armeria di bordo della nave al momento del naufragio. Cantiere didattico icr (ora iscr) presso Torre Santa Sabina, Brindisi (Archivio iscr).

differenti conseguenze. Queste saranno tanto più drammatiche, quanto più i materiali per le loro caratteristiche si prestano a scambi chimici con l’esterno. In genere i metalli, il ferro in particolare, ed i reperti costituiti da materiale organico, come il legno, rappresentano il problema più serio per chi si occupa di conservazione di oggetti recuperati dall’acqua, specie se si tratta di acqua di mare. Gli organismi marini formano attorno agli oggetti metallici incrostazioni, per lo più costituite da carbonato di calcio che, spesso, ne camuffano l’aspetto originario. Alla superficie dell’oggetto si concrezionano, inoltre, i vari elementi del fondale, dalla sabbia alle pietre. Non un oggetto singolo, ma anche numerosi oggetti possono essere ricoperti e inglobati da un unico conglomerato di incrostazioni, che possono includere anche materiali di natura diversa come ceramica, ossa ecc… (Figg. 8-9). In questo caso, guai a tentare di smantellare l’intricata costruzione lasciandosi sopraffare dalla fretta e dalla curiosità: si rischierebbe di perdere tutto. Dopo aver proceduto alla registrazione dei dati di cui si è detto, l’intero conglomerato sarà, quanto prima, trasferito in un laboratorio dove, sarà eseguita una documentazione accessoria costituita da fotografie, disegni e osservazioni sulla natura delle incrostazioni, radiografie. Alle volte, l’indagine ai raggi x rivela che all’interno delle incrostazioni il metallo si è completamente disintegrato lasciando un vuoto: in questo caso possono essere eseguiti calchi introducendo speciali resine che si rimodellano nella cavità, replicandone le forme dell’oggetto. Quando il reperto è conservato, i criteri di pulitura dipenderanno dalla valutazione di quali prodotti di corrosione sono compromettenti per la sua conservazione e quali vadano rimossi soltanto per ragioni estetiche. I processi di corrosione determinati dai cloruri su ferro, rame e leghe metalliche contenenti rame, sono

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esiziali a lungo termine, mentre raggiungono un grado di relativo equilibrio su piombo, argento e relative leghe e non compromettono l’integrità del metallo che si è conservato. Per facilitare la rimozione dei prodotti incrostanti vengono attuati procedimenti di vario tipo, consistenti, nella maggior parte dei casi, nella riduzione elettrolitica o in lavaggi finalizzati a diluire la concentrazione salina. È importante che, prima del trattamento specifico, non vengano forzatamente rimosse le incrostazioni Fig. 10. Statua di marmo di figura femminile che, anche se può sembrare strano, seduta, recuperata negli anni novanta dalla villa costituiscono una sorta di protezione con ingresso a protiro di Baia. Come si vede, è completamente devastata dai litofagi. In nei confronti dell’avanzamento dei secondo piano si intravedono alcuni grossi dolia processi corrosivi. Per le indagini che di terracotta. Giardini del Castello Aragonese, Baia, Napoli. precedono il restauro si impiegano tecniche endoscopiche, raggi x, analisi metallografiche, elettrochimiche, fisiche, finalizzate sia alla migliore conoscenza del reperto e del suo stato di conservazione, sia a definirne, ove possibile, la cronologia (analisi del C14 sui resti organici, termoluminescenza sui frammenti ceramici e terre di fusione ecc…). Dopo i trattamenti di desalinizzazione è importante disidratare nel più breve tempo possibile ed in maniera efficace il reperto metallico. A questo scopo possono essere effettuati impacchi di alcol etilico o acetone e l’asciugatura potrà essere effettuata in corrente d’aria calda. Il reperto, infine, sarà immagazzinato in un luogo a temperatura ed umidità controllate in attesa dell’intervento di restauro conservativo. I materiali ceramici e lapidei, invece, richiedono interventi di minore impegno. Dove il marmo o la pietra non siano stati compromessi dall’azione dei litofagi (Fig. 10), è sufficiente effettuare risciacqui in acqua mista (marina e di rete), quindi in acqua corrente ed infine in acqua deionizzata fino alla quasi totale desalinizzazione. A questo punto si potranno rimuovere meccanicamente le incrostazioni, operazione da lasciare al restauratore. Nel trattamento conservativo vero e proprio potranno essere utilizzati prodotti specifici in grado di restituire una sufficiente solidità ai materiali lapidei decoesi o che denotino fessurazioni e sfaldamenti. Per quanto riguarda la ceramica, è necessario considerare la tecnica e la qualità dell’impasto; le terrecotte ed in genere le ceramiche prive di patine, vernici, invetriature sono sicuramente più permeabili ai sali di quanto non siano, ad esempio, le porcellane. È generalmente raccomandabile di sottoporre questi materiali ai ripetuti lavaggi di cui si è detto per rimuovere i sali che, cristallizzando nel loro interno, potrebbero determinare fratture ed esfoliazioni superficiali delle ingub-

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Fig. 11. I danni causati dalla teredo navalis all’ossatura di un relitto della prima età imperiale romana, situato a scarsa profondità e soggetto a frequenti coperture e scoperture. Capo Linaro, Santa Marinella, Roma.

biature e delle eventuali vetrine esterne. La disidratazione avverrà lentamente in luogo ombroso. I manufatti che sono costituiti da materiali organici sono quelli che presentano una più ampia gamma di problemi per chi si occupa di conservazione e musealizzazione. Essi sono preda non soltanto dell’aggressione chimica determinata dall’ambiente circostante, ma sono altresì oggetto di una continua elaborazione da parte di microrganismi diversi che rendono gli oggetti estremamente instabili. Condizioni favorevoli alla conservazione di questi materiali sono quelle determinate da un ambiente anaerobico, che impedisce lo sviluppo di forme biologiche, o, ma non è il nostro caso, estremamente arido, come quello desertico. Condizioni estreme, dunque, la prima delle quali si presenta abbastanza frequentemente al di sotto del limo fangoso di laghi, stagni o anche del mare. Fra i materiali organici, il legno è quello che si trova più di frequente; questo materiale se esposto all’ambiente esterno, viene rapidamente degradato dagli agenti biologici (Fig. 11). Se in condizioni di conservazione più favorevoli, perché protetto dalla sabbia o dal fango, il legno perde, comunque, progressivamente le sue componenti solubili finché anche la cellulosa delle pareti cellulari si dissolve lasciando alla rete di lignina il compito di sostenere l’intera struttura. Il legno diventa, allora, spugnoso e l’acqua va ad occupare gli spazi lasciati disponibili dalla decomposizione della cellulosa. Finché il reperto resta sommerso, la situazione è in equilibrio ma, una volta riportato in superficie, l’acqua evapora rapidamente dal suo interno, determinan-

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Fig. 12. Un elemento dell’ossatura di un relitto fortemente degradato per erronea conservazione in magazzino.

do il collasso delle pareti cellulari e, di conseguenza, gravi deformazioni, fessurazioni, svergolature (Fig. 12). Il reperto di legno,una volta recuperato, dovrà essere mantenuto in acqua addizionata con composti biocidi che hanno la funzione di impedire la proliferazione di funghi, batteri, muffe. Il pronto intervento conservativo, prevede lavaggi desalinizzanti contestualmente al trattamento biocida. È preferibile movimentare l’acqua di lavaggio con piccole pompe ad immersione; è bene che la concentrazione di sali solubili diminuisca gradatamente per evitare che all’interno delle cellule lignee degradate si crei una pressione osmotica eccessiva in grado di danneggiarle. Una volta che l’attività biologica si è fermata ed il contenuto di sali solubili dell’acqua è diminuito notevolmente, si procede alla pulitura delle superfici con vaporizzatori a mano e pennelli di setola morbida, così da rimuovere le patine biologiche ed i depositi residui di sabbia e terra. A questo punto i reperti sono pronti per essere sottoposti al trattamento consolidante. Come consolidanti vengono utilizzati, secondo i casi e le esperienze dei singoli laboratori, glicole polietilenico a diverso peso molecolare (peg), resine acriliche o vegetali, saccarosio, oli siliconici, ecc… Altri trattamenti, quali la liofilizzazione (Fig. 13), la deidratazione con solventi non acquosi ed altri ancora, che sarebbe difficile illustrare brevemente, vengono impiegati con buoni risultati nella conservazione dei reperti lignei, anche in associazione con il consolidamento tramite peg. Il metodo da scegliere dipende, il più delle volte, dalle dimensioni dell’oggetto e dai condizionamenti imposti dal tempo, dai fondi disponibili e dalle capacità organizzative. Questi parametri sono da tenere ben presenti al momento di progettare qualsiasi ricerca archeologica, dove l’aspetto economico si rivela l’elemento di massi-

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mo condizionamento: dalla possibilità di assicurare la corretta applicazione del metodo prescelto fino al suo naturale compimento dipende, infatti, il raggiungimento o la compromissione dei dati scientifici desumibili dai materiali coinvolti nei processi conservativi. La massima cura del conservatore consiste nella scelta di trattamenti reversibili e suscettibili di modificazioni in caso di ulteriori interventi. Nessun trattamento garantisce che l’oggetto permanga in condizioni stabili per un tempo indeterminato e, se non vengono adottate adeguate misure di prevenzione negli spazi espositivi o nei magazzini, nulla esclude che i procesFig. 13. Liofilizzatore per il trattamento di reperti lignei di dimensioni medio-piccole. si degenerativi possano ripresentarsi a Laboratorio del Centro arc Nucléart breve termine. di Grenoble, Francia. La naturale tendenza degli elementi agli scambi chimico-fisici non può essere definitivamente annullata da nessun intervento artificiale, per quanto sofisticato e costoso. Solo un attento monitoraggio e la continua sorveglianza dei fattori di rischio consentiranno il permanere delle condizioni ottimali dell’oggetto e di rimandare, quindi, l’inevitabile momento di dover intervenire ulteriormente nel continuo tentativo di allontanare la fine delle cose. La conservazione e la protezione in situ La protezione e la conservazione di un sito sommerso o di un relitto che non siano inseriti in un Parco Archeologico o in un’Area Marina Protetta, quindi senza sorveglianza e non soggetti a restrizioni particolari, quali per esempio i divieti di navigazione, di ancoraggio, di pesca, di immersione senza guida, ecc…, è molto complessa. In genere, con una sola campagna non si esaurisce lo scavo di un relitto o di un sito archeologico. L’archeologo dovrà quindi provvedere fin dall’inizio a lasciare il sito in modo che rimanga protetto dagli agenti esterni e, soprattutto, dal pericolo di effrazioni da parte dei clandestini. È ovviamente impossibile programmare lo scavo, il recupero, il restauro e l’esposizione in Museo di tutti i relitti che sono già conosciuti e posizionati sulle carte archeologiche, e lo stesso vale, a maggior ragione, per le nuove segnalazioni. D’altro canto, la scelta di non indagare un relitto solo per timore del successivo degrado significherebbe limitare le nostre possibilità di conoscenza delle tecniche di costruzione navale, dell’economia, della vita quotidiana nell’antichità, ecc…

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Ma, anche la mancanza di sistemi di protezione, e di tutela attiva comporterebbe, comunque, la sua perdita totale. È necessario, dunque, scegliere i metodi di protezione più idonei e, molto spesso, soprattutto nel caso di relitti di imbarcazioni con lo scafo di legno, la scelta consiste nel ricoprire il sito o dopo un’accurata documentazione, o dopo lo scavo e il recupero totale del carico. La decisione di ricoprire è senz’altro positiva per la tutela e la conservazione del sito, anche se impedisce al pubblico di avere un contatto diretto con il monumento. Esistono, tuttavia, diverse tipologie di relitti e quindi diverse metodologie e strategie da utilizzare per la protezione e la conservazione in situ. Dal punto di vista degli aspetti conservativi, i relitti antichi possono essere distinti in due categorie principali: relitti di imbarcazioni con lo scafo di legno, con o senza carico e relitti di imbarcazioni con scafo di metallo, con o senza carico (di questa categoria fanno parte anche i relitti di aerei e di elicotteri precipitati in mare nel corso dell’ultima guerra mondiale). A seconda del periodo storico a cui appartengono, variano le tipologie delle mercanzie trasportate, dei contenitori, degli arredi e delle attrezzature di bordo. Tuttavia dal punto di vista conservativo anche questi oggetti possono essere ricondotti a tre categorie, in base alla materia costitutiva: – Manufatti realizzati con materia organica: legno, cuoio, fibre vegetali e animali. – Manufatti realizzati con materia inorganica: ceramica, lapidei, metalli. – Manufatti realizzati con materiali polimaterici.

La presenza del carico costituisce un fattore di protezione per le superstiti strutture lignee della nave. Numerosi studi sull’influenza dell’ambiente marino e lacustre nei processi di degrado del legno confermano che lo scafo non può assolutamente essere lasciato scoperto sul fondale, pena la sua rapida dissoluzione. Lo scavo archeologico che preveda esclusivamente il recupero del carico condanna, dunque, il relitto alla distruzione. Ricoprire o seppellire, per proteggere i reperti di natura organica e le membrature della nave al termine dello scavo e della documentazione archeologica, sono consuetudini sulla cui valenza ai fini della conservazione molto si è scritto e dibattuto. In questa sede si esamineranno i sistemi di protezione in situ comunemente adottati per i relitti e si accennerà ai metodi impiegati per la protezione in situ dei siti architettonici sommersi. Sistemi di protezione in situ 1 Reburial Method (Metodo di protezione mediante seppellimento) Già nel 1892 Arthur Bulleid, nel corso dello scavo del villaggio palafitticolo del lago di Glastonbury (1892-1907), uno dei primi lavori riguardanti siti umidi in Inghilterra, comprendendo i limiti delle tecnologie del suo tempo per la conservazione dei reperti di provenienza subacquea, ordinò che questi venissero sepolti nuovamente e lasciati sul fondo, e che i pochi reperti recuperati fossero conser1 Davidde (2004), pp. 137-150.

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vati in acqua in attesa di tempi migliori. Tutto il materiale dello scavo fu restaurato poi, nel 1962. Il Reburial Method prevede il recupero dei reperti di materiale organico (frammenti dello scafo, che a volte, se trovato intero, viene smontato appositamente, oggetti rinvenuti a bordo, ecc…), la loro catalogazione e documentazione (grafica, fotografica, archeologica e attraverso analisi scientifiche) ed infine la loro sepoltura in trincee scavate nel fondale. I reperti possono essere sepolti direttamente nelle trincee senza essere avvolti con particolari involucri, oppure possono essere avvolti in teli di materiali plastici e/o sistemati in casse. Vale la pena di osservare che, per queste finalità, è molto utile l’utilizzo di contenitori che permettano agli archeologi di recuperare in futuro ogni singolo reperto senza dover sconvolgere troppo il sito. Per l’imballaggio possono essere utilizzati fogli di polietilene e di polipropilene; per le casse sarebbe fondamentale optare per contenitori di materiale non deperibile in acqua quale il Polietilene ad Alta Densità (hdpe) poiché il Polietilene (pe) sembra avere una minore durata nel tempo.1 Questo metodo è adottato molto frequentemente nei paesi del Nord Europa e, in alcuni casi, negli Stati Uniti e in Canada. Esso viene scelto soprattutto quando lo scavo archeologico restituisce un grandissimo numero di reperti che, per motivi economici ed organizzativi, non possono essere restaurati e musealizzati rispettando gli standard accettati generalmente dalla comunità scientifica. Per facilitare il compito di chi dovesse un giorno occuparsi del loro recupero, è molto importante numerare ogni singolo reperto e schedare accuratamente la posizione che occuperà nella trincea e nella cassa, prima del suo riseppellimento. È testimoniato anche l’uso di smontare i resti di interi relitti in diverse porzioni e di interrarne i frammenti nel fondale marino.2 Metodo di protezione con l’impiego della sabbia Il più comune sistema di protezione in situ consiste nella copertura dei resti della nave con un potente strato di sabbia, senza lo smontaggio ed il trasferimento all’interno di trincee all’uopo realizzate. Questo è anche il sistema più economico e si può rivelare di qualche efficacia e facile da realizzare se il relitto giace su un fondale sabbioso. Al termine del cantiere di scavo il sito viene ricoperto con la sabbia semplicemente utilizzando la sorbona al contrario. Il metodo, però, non è efficace sui bassi fondali (il relitto verrebbe scoperto in poco tempo dall’azione del mare), né presso le spiagge frequentate dai bagnanti (il relitto sarebbe facilmente preda dei curiosi, dei vandali e dei clandestini). Se si utilizza questo procedimen1 Cfr. lo scavo archeologico effettuato nell’ambito del Marstrand Project dal 1997 ad oggi in Nyström (2002): 167-174. 2 Nel 1984, al termine dello scavo archeologico del relitto del San Juan durato circa quattro anni, tutte le parti dello scafo affondato nella Red Bay, alla bocca della Georgian Bay in Canada, nel xvi sec., sono state posizionate in una trincea su tre strati, circondate e ricoperte dalla sabbia e da geotextile. Il sistema di protezione si è rivelato efficace, infatti l’uso del geotextile protegge il legno ed impedisce l’attacco degli organismi biodeteriogeni; la scelta di smontare il relitto prima di seppellirlo potrebbe lasciare perplessi; forse determinanti per questa decisione sono stati le dimensioni della nave ed il suo precario stato di conservazione, cfr. Stewart, Murdok, Wandell (1995): 791-805.

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to bisogna prevedere un programma di monitoraggio al fine di controllare che il relitto non riemerga dal fondale e venga attaccato dagli agenti biodeteriogeni e sottoposto al saccheggio dei clandestini. La nave romana di Spargi (120-100 a.C.), per esempio, fu manomessa in vari settori nonostante gli archeologi l’avessero ricoperta accuratamente con la sabbia al termine di ognuna delle campagne di documentazione e/o di scavo che si sono succedute negli anni dal 1958-59 fino al 1980.1 Esistono moltissimi casi come questo ma raramente sono ricordati in letteratura. Spesso nelle pubblicazioni scientifiche si presta scarsa attenzione agli argomenti riguardanti i metodi di protezione attuati al termine delle campagne archeologiche. Raramente, infatti, sono indicate le procedure adottate per ricoprire il relitto nell’arco di tempo che divide una campagna di scavo da quella successiva e tanto meno si riferisce di un qualche programma di controllo per valutare lo stato di conservazione dello scafo, una volta che questo viene ricoperto definitivamente. È interessante, a questo proposito, ricordare le osservazioni pubblicate da Patrice Pomey sullo stato di conservazione di 26 relitti antichi rinvenuti a largo delle coste francesi, scavati e poi ricoperti con la sabbia del fondale, esaminati in occasione di sopralluoghi condotti nell’ambito di un progetto di studio dendrocronologico.2 Nel 35% dei relitti esaminati (tutti rinvenuti a circa 30 m di profondità, tranne uno che si trova a -4/6 m), il legno dello scafo è stato ritrovato in un buono stato di conservazione perché lo strato dei sedimenti era rimasto invariato nel corso degli anni, grazie alla profondità del sito di giacitura. Nel 46% dei casi, invece, lo scafo di legno è risultato quasi completamente perduto mentre nel 19% la struttura è risultata particolarmente fragile e destinata a degradarsi irrimediabilmente in breve tempo. Le cause che, secondo l’archeologo francese, hanno determinato la cattiva conservazione del legno per il 65% dei relitti esaminati, sono la scarsa profondità del sito di giacitura, l’attività dei clandestini, l’azione distruttiva compiuta dallo scavo archeologico e anche il tipo di copertura utilizzata (la sabbia del fondale), che, evidentemente, si è rivelata molto poco efficiente. Per ricoprire un relitto possono essere utilizzati anche sacchetti di sabbia, sistemati ordinatamente tra le membrature del relitto. Anche in questo caso è necessario controllare periodicamente che il mare o i curiosi non smontino la copertura (Fig. 14). Metodo di protezione con sabbia e telo gommato Il relitto della Stora Sophia (1627) lungo circa 40 m, rinvenuto a circa 26 metri di profondità, è stato protetto con uno strato di sabbia e da un telo gommato, con la funzione specifica di impedire l’erosione della sabbia. Sopra il telo gommato sono stati posizionati piccoli blocchi di cemento.3

1 Pallares (1986): 101, nota 7. 2 Pomey (1998), pp. 53-57. 3 Bergstrand (2002): 160-161.

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Fig. 14. Copertura con sacchi di sabbia del relitto di Capo Linaro dopo la manomissione da parte di ignoti. Santa Marinella, Roma.

Metodo di protezione con geotextile e sabbia o altri sedimenti Gli esperimenti condotti sul relitto post-bizantino rinvenuto a largo di Zakinthos hanno dimostrato che i geotextile Terram 2000 e 4000, composti dal 70% di Polipropilene e dal 30% di Polietilene, prodotti dalla Terram Geosynthetics, sono un ottimo materiale per proteggere e ricoprire i relitti. Naturalmente, per evitare che il tessuto si sposti bisognerà ricoprirlo di sabbia, meglio se in sacchi e/o materiale di riporto. Sempre a Zakinthos è stata provata, tra l’altro, l’inefficacia del geotextile Terram 44 composto dal 100% di Poliestere.1 Nel 1998 il relitto di un’imbarcazione del xvii sec. naufragata al largo delle isole di Marstrand e Kaöre, che presentava un avanzato stato di deterioramento dovuto sia all’azione meccanica sia biologica, è stato ricoperto con successo da uno strato di argilla proveniente dal porto di Marstrand, da sabbia e teli di geotextile coperti a loro volta da pietrame. Questo tipo di copertura si è dimostrato efficace anche per difendere il relitto dalle correnti generate dal traffico dei ferry-boats.2 Il Landesdenkmalamt Baden-Württemberg dal 1993 sta sperimentando sistemi di protezione in situ con l’utilizzo di geotextiles e sedimenti artificiali per salvare dall’erosione i pali delle palafitte del sito preistorico di Sipplingen (Lago di Costanza).3 1 Pornou, Jones, Mark, Moss (1998), pp. 58-64. 2 Olsonn (2002), pp. 145-154. 3 Kolb (2000), p. 586.

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Fig. 15. Copertura con geotessuto e sacchi di ghiaino su un pavimento a mosaico delle terme della Villa dei Pisoni. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

La copertura con geotextile e sacchetti di sabbia può essere utilizzata con successo anche per la protezione in situ di resti architettonici sommersi di particolare pregio o particolarmente delicati, quali per esempio, pavimenti in opus sectile, mosaici, battuti ecc.1 (Fig. 15). Metodo di protezione con teli di polietilene e sacchetti di sabbia Questo sistema prevede l’utilizzo di teli di polietilene da sistemare direttamente sul relitto; al di sopra del polietilene vengono posizionati i sacchetti di sabbia. Una protezione in situ così congegnata è stata effettuata sul relitto di Diano Marina.2 Metodo di protezione con prati artificiali I prati artificiali sono utilizzati generalmente dalle industrie off- shore per proteggere condutture e cavi sottomarini. In ambito archeologico sono stati adottati per proteggere relitti antichi in nord Europa e in Australia.3 Si tratta di teli di materiale sintetico acquistabili sul mercato nelle dimensioni volute. Essi sono intessuti con fronde flottanti ad imitazione di una prateria sottomarina. 1 Davidde (2004): 142.

2 Felici (2002): 224-225.

3 Gregory (2009).

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Fig. 15a. Un telo intessuto di prateria artificiale pronto per essere impiegato a Baia (Archivio iscr).

Il loro impiego è consigliato in contesti sottomarini con elevata quantità di sedimenti in sospensione. Il sedimento, infatti, viene catturato dalle fronde e ricopre velocemente il sito. Si consiglia di posizionare il prato con il lato lungo orientato perpendicolarmente alla corrente, per fa sì che questa possa convogliare con maggiore efficienza i sedimenti in sospensione.1 Nell’ambito del progetto europeo sasmap,2 sono stati sperimentati vari sistemi di ancoraggio, per evitare di utilizzare picchetti infissi nel fondale (metodo standard utilizzato off-shore). Sempre nell’ambito dello stesso progetto, come vedremo in seguito, a proposito del Parco archeologico sommerso di Baia, l’uso di questi prati è in corso di sperimentazione per valutare la loro efficienza nella protezione di strutture archeologiche sommerse dall’erosione marina. (Figg. 15a e 15b) Metodo di protezione mediante reti del tipo anti-caduta di polipropilene (Debris netting/Shade cloth) Questo sistema di protezione in situ è stato sviluppato nel corso del progetto europeo MoSS Project, Monitoring, Safeguarding and Visualizing North-European Shipwreck Sites, ed è stato utilizzato con successo per proteggere alcuni relitti in 1 Gregory, Manders, In situ preservation of wreck sites, in Gregory, Björdal (2011): pp. 114-115. 2 www.sasmap.eu.

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Fig. 15b. Particolare del telo raffigurato alla Fig. 15a posizionato sul fondo del mare a Baia (Archivio iscr).

Olanda, Germania, Danimarca e Sri Lanka.1 Il metodo prevede l’utilizzo di reti di polipropilene a maglia fitta, usate normalmente nei cantieri edili, posizionate sul sito archeologico, generalmente un relitto su fondale sabbioso, mediante catene e picchetti. Le reti così realizzate imprigionano il sedimento trasportato dalla corrente ricoprendo completamente il sito archeologico. Metodo di protezione con sabbia, sacchi di sabbia e lastre di cemento In alcuni casi, i relitti rinvenuti su bassi fondali sono stati protetti da vari strati di sacchi di sabbia coperti a loro volta da lastroni di cemento. A Torre Santa Sabina (Brindisi), uno dei relitti rinvenuti nella baia, a pochi metri dalla spiaggia, è stato protetto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia con geotextile e sacchetti di sabbia coperti da grandi lastre di cemento (Fig. 16). Questo sistema è sembrato l’unico possibile vista la scarsa profondità nella quale è stata rinvenuta la nave e soprattutto dal momento che la spiaggia è molto frequentata dai turisti (parte del carico, tra l’altro, è stato trafugato nel periodo in cui la nave non era protetta in alcun modo). Il medesimo metodo si è rivelato efficace nel caso della prima nave arcaica di Gela.2 1 Gregory, Manders, In situ preservation of wreck sites, in Gregory, Björdal (2011): 115-118. 2 Cfr. Capitolo terzo, p. 112.

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Fig. 16. Copertura con lastre di cemento di un relitto a bassa profondità, nella baia di Torre Santa Sabina, Brindisi.

Metodo di protezione con sacchetti di sabbia, rete di ferro zincata elettrosaldata e sabbia In Italia è molto utilizzato il sistema di protezione con la posa di sacchetti di sabbia e reti di ferro zincate ed elettrosaldate, ricoperte a loro volta da sabbia. Le reti sono infisse saldamente al fondale con picchetti della lunghezza di circa 1,00/2,00 metri. Anche questo metodo è relativamente economico e facile da realizzare. Ma, seppure più efficiente delle coperture con sabbia o con sacchi di sabbia, offre una protezione limitata nel tempo sia per l’attacco degli agenti marini che deteriorano la rete, sia per la facilità con cui quest’ultima può essere tagliata dai clandestini (Fig. 17). È necessario, anche in questo caso, organizzare monitoraggi periodici e sostituire le reti metalliche quando iniziano ad essere attaccate dalla corrosione. Questo sistema di copertura, con alcune varianti, è stato adottato anche per proteggere il relitto della nave di Grado (nave oneraria prima metà ii sec. d.C., ora in restauro) al termine delle campagne di scavo: il relitto è stato ricoperto con teli di polietilene, quindi da uno strato di sabbia ed infine da due strati di pannelli di reti metalliche elettrosaldate collegate con cavi d’acciaio a quattro blocchi di cemento disposti ai vertici del relitto. Inoltre, per impedire l’avvicinamento al sito da parte delle turbosoffianti (particolari imbarcazioni per la pesca dei molluschi), attorno al relitto furono posizionati 24 blocchi di cemento armato del peso di circa 3 tonnellate ciascuno.1 Metodo di protezione con sacchi di sabbia e pannelli d’acciaio modulari Per sperimentare nuovi sistemi di protezione in situ, la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale ha utilizzato un particolare tipo di copertura per proteggere un relitto di nave oneraria di ii sec. a.C., rinvenuto a 38/40 metri di profondità a largo di Montalto di Castro (Viterbo). Si tratta di pannelli modulari metallici zincati e ricoperti di vetroresina, della misura di m 2 × 2. I lati di ciascun

1 Dell’Amico (1997), pp. 93-128.

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Fig. 17. Copertura con rete elettrosaldata di un relitto dopo un tentativo di effrazione. Santa Caterina di Nardò, Taranto.

pannello sono rinforzati con tondino di acciaio saldato sulla lamiera e anch’esso rivestito con vetroresina. Il tondino crea notevoli difficoltà di taglio con le cesoie. I pannelli sono posti a ‘testuggine’, collegati tra loro con anelli di catena zincati dello spessore di 12 mm. Per migliorare la mimetizzazione, alla vetroresina è stato applicato un gelcoat dello stesso colore del fango del fondale (Fig. 18). Tutto il sistema è stato, poi, ancorato sul fondo, lungo il perimetro dello scudo, con particolari picchetti antistrappo in ferro zincato, del diametro di cm 5 e della lunghezza da 1 m a 1 m e mezzo, recanti all’estremità inferiore alette mobili d’incaglio (Fig. 19). Questo tipo di copertura modulare può essere rimossa anche solo a settori e, qualora si decidesse di scavare e recuperare il relitto, può essere utilizzata per un’altra nave.1 Metodo di protezione con casse modulari di ferro verniciato prive di fondo La piroga, rinvenuta a Capodimonte (Lago di Bolsena) nel 1991 a circa 11/12 m di profondità, è stata protetta da 12 casse modulari di ferro prive di fondo, dipinte con una pittura antiruggine di colore verde, posizionate nel senso della lunghezza della piroga, leggermente sovrapposte le une alle altre e fissate tra loro con perni ribattuti (la piroga misura 9,60 × 0,80 × 0,60). Le casse presentano dei fori per favorire la circolazione dell’acqua.2 1 Petriaggi (1997), pp. 341-344.

2 Davidde (2004): 144.

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Fig. 18. I pannelli di lamina di ferro zincato con bordi rinforzati da tondino di ferro e verniciati con gelcoat del colore del fondale, sulla barca appoggio prima della collocazione a protezione del relitto. Montalto di Castro, Viterbo.

Metodo di protezione con casse di acciaio prive di fondo

Fig. 19. Picchetto antistrappo del tipo utilizzato per bloccare la testuggine di scudi metallici sul relitto situato a circa 40 metri di profondità a largo di Montalto di Castro, Viterbo.

Una protezione costituita da una cassa di acciaio modulare è stata usata per le navi fenicie di Mazarron. Ogni lato della cassa è stato fissato nel fondale marino; il lato superiore della cassa è formato da pannelli di acciaio modulari di m 1 × 1 che possono essere aperti singolarmente. La cassa è stata ricoperta da uno strato di sabbia e piccole pietre, quindi da una rete metallica fissata con picchetti al fondale, ed infine da uno strato di sabbia e sassi. La protezione ottenuta con questo metodo è sembrata efficiente.1

1 Neguerela (2000), pp. 580-586.

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Fig. 20. Cantiere didattico icr (ora iscr). Una prova di calco di silicone su un relitto. Punta Ala, Grosseto (Archivio iscr).

Metodo di protezione con guscio di silicone (Fig. 20) Alla metà degli anni ’80 uno dei due relitti del Lido Signorino, presso Marsala è stato protetto in situ con un guscio di silicone rhodorsil rtv 1600, addizionato con catalizzatore w tixo bleu in percentuale del 5% di peso. Il guscio è stato realizzato alla profondità di m -2 circa, con una temperatura poco inferiore ai 20°. Il silicone è stato applicato in strati su pezze di tessuto di lino (50 × 70 cm). Non sappiamo, a distanza di tempo, come si sia comportato questo tipo di protezione e quindi non abbiamo dati per valutarne l’efficacia.1 Concludendo questa panoramica sui metodi di protezione in situ degli scafi di legno, si può osservare che le protezioni del tipo a cassa, soprattutto se in acciaio o in metallo zincato, seppure più costose, sembrerebbero essere senz’altro più efficaci dal punto di vista conservativo. Il relitto non è oppresso dal peso dei sistemi protettivi (lastre di cemento, sacchi di sabbia, ecc…) che lo ricoprono e quindi è al riparo dai cedimenti strutturali, ma è anche protetto dalle reti a strascico e dalle ancore. Inoltre, la mancanza di luce inibisce lo sviluppo degli organismi biodeteriogeni e quindi rallenta notevolmente i processi di degrado. Gli organismi che si sviluppano al buio e in ambiente anaerobico continueranno ad agire, ma il loro è un lavoro più lento e quindi meno aggressivo nei confronti dei reperti. Un altro 1 Meucci (1986), pp. 155-158; Meucci (1993), pp. 51-73.

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Fig. 21. Protezione del relitto di Vlaška Mala con gabbie metalliche. Isola di Pag, Croazia. Da Radic´ Rossi (2006).

aspetto positivo di questo tipo di protezione, come di quello a pannelli, consiste nel fatto che, sia le casse che i pannelli, possono essere smontati e rimontati nel corso delle campagne di scavo oppure possono anche essere adoperati per altri relitti. In Croazia hanno sperimentato con successo la musealizzazione in situ dei relitti con carichi di anfore, proteggendoli con gabbie metalliche. Guide subacquee incaricate, conducono i visitatori all’interno della gabbia per una visita al sito archeologico (Fig. 21).1 Utilizzare il silicone per la protezione in situ dei relitti è senz’altro un metodo molto costoso e quindi difficilmente potrà essere messo in opera su larga scala. Negli anni 90, archeologi spagnoli hanno realizzato sott’acqua una controforma di silicone per eseguire il calco del relitto romano di Grum de Sal presso Ibiza, nelle isole Baleari; calchi di silicone di statue e altri reperti litici rinvenuti nel porto di Alessandria (Egitto) sono stati eseguiti dagli archeologi francesi. Il fatto, invece, che sia possibile realizzare sott’acqua calchi di silicone per effettuare copie è particolarmente interessante, perché potrebbe aprire nuove vie alla musealizzazione delle navi con gli scafi di legno.2 Si può valutare, infatti, l’ipotesi di effettuare calchi di porzioni dello scafo, scegliendo magari fra quelle più significative, per esporle in museo o per realizzare modelli in scala a scopo di studio o didattico. Nel frattempo il relitto resterà protetto sott’acqua in attesa di tempi migliori. 1 Cfr. Radic´ Rossi (2006) (2014), pp. 10-12; Mesic´ (2008), pp. 238-242. 2 Martinez, Brasal (1993), pp. 183-189.

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Quello che è certo è che ogni sistema protettivo ha una validità limitata e che, per non andare incontro a brutte sorprese, occorrerebbero controlli periodici e, ancora meglio, sarebbe opportuno portare a termine i lavori nel più breve tempo possibile.1 La protezione e la conservazione in situ di reperti di metallo e dei relitti di età moderna con lo scafo di metallo Già dalla fine degli anni ottanta è stato messo a punto un metodo per la misurazione della velocità di corrosione e per la conservazione in situ dei reperti di metallo ferroso, ancore, cannoni, navi o aerei. Il metodo consiste nel trasformare il complesso mare-reperto in un vero e proprio bagno elettrolitico. Collegando, infatti, il reperto metallico da proteggere ad un anodo di sacrificio costituito da un metallo più debole rispetto a quello del reperto (generalmente alluminio, zinco) è possibile rallentare la velocità di corrosione del metallo a discapito dell’anodo. Il chimico Ian D. Mac Leod ha sperimentato con successo questo metodo su molti relitti, alcuni con lo scafo di ferro affondati nel corso di battaglie navali della seconda Guerra Mondiale, altri, del xviii-xix con lo scafo di legno che però hanno conservato cannoni ed ancore di ferro quali, per esempio, quelli dei Relitti di Duart Point - The Swan 1653 e The Dartmouth 1690 (Scozia). I controlli periodici confermano l’efficacia del metodo e la stabilizzazione dei processi di corrosione.2 Dal 1992 i subacquei muniti di un rilievo planimetrico visitano The Swan seguendo il percorso indicato da un filo di Arianna. I reperti più significativi sopravvissuti al naufragio, cannoni e ancore, sono protetti con il sistema dell’anodo di sacrificio; le porzioni dello scafo di legno sono state coperte con sacchi di sabbia poiché il loro stato di conservazione stava peggiorando sensibilmente, dal momento che erano state lasciate per un certo periodo scoperte. I relitti di età contemporanea con lo scafo di metallo, oltre ad essere una importante testimonianza della storia recente che merita di essere salvaguardata e valorizzata al pari dei relitti più antichi, si sono rivelati anche una grande risorsa ambientale. Infatti, la loro presenza, soprattutto nelle zone di riserva di pesca o comunque nelle aree naturalistiche, contribuisce in modo rilevante al ripopolamento del mare, poiché la loro struttura colonizzata dagli organismi marini, si trasforma in un vero e proprio reef artificiale. Il progetto restaurare sott ’ acqua In un parco archeologico sottomarino non è quasi mai possibile offrire ai visitatori un complesso monumentale chiaramente leggibile nelle sue componenti architettoniche perché queste sono solitamente colonizzate in modo massiccio dagli 1 Recentemente in Spagna è stato messo in opera un sistema di protezione consistente in una rete da pesca per proteggere le anfore, senza sovraccaricarle del peso della sabbia, sulla quale sono stati disposti pannelli di rete elettrosaldata cfr. Cibecchini et alii (2006a), pp. 43-56. 2 Mac Leod et alii (1985), pp. 113-132; Mac Leod (1987), pp. 49-56; Mac Leod (1996), pp. 111115; Mac Leod (2001), pp. 48-58; MacLeod (2002), pp. 871-880; Gregory (1999), pp. 164-173; Gregory (2000), pp. 93-100.

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organismi marini. La pulitura delle strutture, il loro consolidamento e, in genere, gli interventi di manutenzione e restauro devono essere condotti direttamente sott’acqua, con tecniche e materiali fortemente condizionati dall’ambiente. Nell’estate 2001 è stato attivato a Torre Astura il primo cantiere sperimentale del progetto “Restaurare sott’acqua”, concepito per venire incontro a queste esigenze e dedicato alla sperimentazione di strumenti, materiali e metodologie per la conservazione, il restauro in situ e la valorizzazione dei siti e delle strutture archeologiche sommerse. A Torre Astura l’intervento conservativo è stato rivolto ad alcune vasche della grandiosa peschiera rettangolare, ancora ben conservata (m 150 × 120) e suddivisa in settori geometrici, che fronteggia le strutture superstiti lungo la costa.1 L’eccezionale complesso archeologico costituito dalla villa di Torre Astura, dal suo porto e dalle altre ville circostanti, si estende per alcuni chilometri, lungo le spiagge tra Nettuno e Foce Verde2 (Fig. 24, Capitolo quarto, p. 138). L’area è inserita 1 Il cantiere di restauro sperimentale è stato promosso dal Nucleo per gli interventi di archeologia subacquea dell’allora Istituto Centrale per il Restauro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ora iscr, grazie alla collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per il Lazio e dell’Ufficio Tecnico Territoriale Armi e Missilistica di Nettuno che hanno permesso l’esecuzione dei lavori. Cfr. Petriaggi (2004), pp. 273-276. 2 Il porto romano di Torre Astura sorge in una posizione strategicamente rilevante tra i due promontori di Anzio e S. Felice Circeo, nei pressi di Nettuno a sud di Roma, ed in età imperiale romana era l’unico approdo sicuro lungo un litorale di quasi trenta chilometri, privo di ridossi contro i venti di traversia. La località è ricordata, tra gli altri, da Tito Livio, Plinio il Vecchio e dal geografo Strabone, che la definisce, appunto, ultimo approdo protetto fino al Circeo. Sappiamo che Cicerone possedeva una villa nei pressi di quel promontorio che, come scrive ad Attico nel 46 a.C. «…è visibile sia da Anzio, sia dal Circeo». La residenza dovette essere molto cara all’Arpinate ed altre volte viene menzionata nei suoi scritti. Tra l’altro, la villa fu teatro delle ultime drammatiche ore che precedettero la fuga dell’oratore, dopo la proscrizione, in cerca di una disperata quanto impossibile via di scampo dai sicari di Antonio. In passato si è voluto identificare, nelle strutture superstiti della villa che ora occupa il promontorio di Astura, i resti di quella residenza ciceroniana; ma ciò non è affatto sicuro, così come non si sa con precisione quando il sito, che certamente ebbe una sua rilevanza strategica anche in età volsca, divenne anche un porto attrezzato. È da ritenere che il porto nacque in età imperiale in funzione della grande villa, le cui strutture presentano evidenti fasi risalenti già alla fine dell’età repubblicana. Come ricorda Svetonio, la villa divenuta proprietà imperiale, fu frequentata, tra gli altri, da Augusto, Tiberio e Caligola che la utilizzarono come base per raggiungere le Isole Pontine o per momentanee soste in occasione di navigazioni più lunghe. Si è già notato come il tratto costiero campano – laziale fosse relativamente scarso di approdi sicuri, problema al quale cercarono di porre rimedio gli imperatori romani dall’età Giulio-Claudia fino a Traiano. È probabile, allora, che i moli, dei quali sono attualmente visibili i resti sott’acqua, siano stati gettati tra l’età neroniana e quella traianea, nel periodo in cui, dopo la realizzazione del complesso di Portus alle foci del Tevere, furono riqualificati alcuni preesistenti porti della costa tirrenica nei pressi di Roma, quali Antium (Anzio) e Anxur (Terracina), mentre altri furono creati ex novo, come Centumcellae (Civitavecchia). Il porto si inserisce, dunque, come essenziale stazione di ricovero e protezione lungo la rotta litoranea di avvicinamento a Roma da sud e come fulcro costiero della navigazione da e per le isole, sia le Pontine e sia, poco più a sud, quelle del golfo di Napoli. Nella Tabula Peutingeriana, il noto documento cartografico del v sec. d.C., Astura viene riportata con la definizione di Statio al vii miglio da Anzio, lungo la via Severiana. Ciò significa che, anche alla fine dell’età antica, non era venuta meno la sua funzione cruciale per i traffici costieri. Ritrovamenti subacquei di spade e armi del periodo saraceno nel tratto di mare antistante la torre, documentano che la località non fu esente da episodi bellici e da saccheggi in epoche successive alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. I primi documenti scritti di età medievale che menzionano Torre Astura datano al x secolo, quando presso Astura, fino ad allora

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Fig. 22. Pulitura del muro di una delle vasche della peschiera di Torre Astura. Nettuno, Roma (Archivio iscr).

nella zona militare occupata dall’Ufficio Tecnico Territoriale Armi e Missilistica di Nettuno (Roma), che, in qualche modo, ne ha garantito la conservazione fino ai nostri giorni. Prima dell’intervento, l’intera superficie delle murature era completamente ricoperta da organismi marini stratificati e talmente compatti da rendere impossibile la lettura dello stato di conservazione e della tecnica costruttiva. La pulitura superficiale, non a contatto con la struttura antica, è stata praticata mediante l’uso di piccozze, scalpelli e spatole. La messa in luce del paramento del muro, con i ricorsi di conci lapidei e i giunti di malta ha imposto l’uso di strumenti più delicati come il bisturi, le spatoline e gli specilli. La finitura è stata portata a termine con l’uso di spazzole e spugne (Fig. 22). possedimento dei Conti Tuscolani, sorse un monastero dei monaci di S. Alessio sull’Aventino. Alterne vicende portarono la località di mano in mano fino al 1193 quando, dopo la distruzione di Tuscolo e la definitiva decadenza dei Conti Tuscolani, essa passa ai Frangipane con la torre e il fortilizio che, nel frattempo, era stato edificato dai precedenti Conti Tuscolani. Nel 1268 la Torre fu teatro del dramma che coinvolse il giovane Corradino di Svevia, tradito dai Frangipane. Quasi venti anni più tardi, una flotta siciliana vendicò lo sfortunato principe incendiando la rocca e uccidendo Michele, l’incolpevole figlio del traditore Giacomo. Nel corso del xiv secolo la Torre fu disputata da Bonifacio VIII, Ludovico il Bavaro, Pietro d’Aragona, finché passò all’Ospedale di S. Spirito in Sassia, ai Caetani e agli Orsini. Tra il ’400 e la fine del ’500 Astura fu dei Colonna, con alcune parentesi papali, poi, nel 1594, fu definitivamente venduta a Clemente VIII, cum turri ac portu, e da allora, per tutto il xvii e il xviii secolo, fu al centro di numerosi episodi bellici nella difesa costiera contro i Turchi ed i pirati. Ancora alla metà dell’800, dopo essere passata ai Borghese, la torre ospitava una guarnigione militare, come riferisce il Gregorovius nel suo Passeggiate per l’Italia. Cfr. Piccarreta (1977): 7-19.

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Fig. 23. La prova di pulitura mette in evidenza la differenza tra la porzione di muro trattato e la parte restante della parete di una delle vasche della peschiera di Torre Astura. Nettuno, Roma (Archivio iscr).

In generale i conci della muratura si presentavano in buono stato e saldamente coerenti con la struttura, ad eccezione di quelli posti in zone dove si era verificata la perdita di malta tra i giunti. La mancanza della malta è causata, in questi casi, dall’erosione provocata dalle forti correnti di marea, particolarmente violente soprattutto in corrispondenza di brecce e tratti di muratura in rovina. Nel corso del lavoro ci si è accorti, però, che anche piccoli pesci e crostacei, con l’intento di procurarsi un sicuro rifugio all’interno della fragile matrice cementizia, avevano causato qualche danno, ampliando fori e fessure nello spessore del muro. Ma la maggior parte dei danni erano imputabili a vari fattori, che sono sempre concomitanti in aree a forte concentrazione antropica: la frequentazione di bagnanti poco attenti, le ancore dei piccoli natanti date alla fonda direttamente a ridosso dei muri. L’ultima fase dei lavori è stata caratterizzata dal restauro delle strutture murarie, per il ripristino della continuità architettonica e per il contenimento della perdita degli elementi costitutivi delle murature (Fig. 23). Per il risarcimento delle lacune tra i conci lapidei, sono stati testati due tipi di malta: uno per i consolidamenti in profondità, denominato Albaria iniezione Venezia©, un altro per la ripresa dei giunti tra gli elementi della cortina muraria, detto Albaria allettamento strutturale©, addizionato con biocidi a lento rilascio.

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La colorazione della malta da allettamento è stata ottenuta addizionando terre ventilate ed inerti pozzolanici o polvere di mattone.1 L’aggiunta del biocida, di cui era stato preventivamente testata la compatibilità nei confronti della fauna marina, era stata motivata dalla necessità di tentare di contenere il proliferare della vegetazione e l’attecchimento degli organismi bentonici (ancorati al sustrato) sulle zone restaurate, evitando al massimo la contaminazione dell’ambiente circostante. Tuttavia, nelle successive fasi della sperimentazione condotta presso il sito sommerso di Baia, tale pratica è stata sospesa e si è passati a tentativi di contenimento della colonizzazione biologica mediante sistemi di copertura.2 Per evitare la dispersione della malta in acqua, sono state impiegate sacche di erogazione (del tipo di quelle usate in pasticceria per la decorazione dei dolci) in materiale idrorepellente riempite a terra. Inoltre, la speciale formulazione (tixotropica) delle malte e l’aggiunta di prodotti antidilavamento, hanno ridotto quasi totalmente la dispersione del materiale sotto forma di nube, consentendo al restauratore subacqueo di operare in acqua con ottima visibilità e con materiali di facile manipolazione. Le sacche sono state utilizzate come siringhe, disponendo semplicemente l’ugello d’erogazione all’estremità della lesione da risarcire ed iniettando il prodotto attraverso la pressione esercitata (Fig. 24). Nel nostro caso si trattava di lesioni poco profonde; per fessure di notevole entità si valutò la necessità di mettere a punto strumenti appos itamente concepiti che furono realizzati nell’anno successivo e testati in occasione della seconda campagna di restauro sperimentale in situ che ebbe luogo nel Parco Sommerso di Baia nel 2003.3 In quest’ultima località si sono susseguite fino al 2014, e sono ancora in corso numerose campagne di restauro e di documentazione dello stato di conservazione delle strutture sommerse.4 I lavori si sono svolti presso due ambienti pavimentati a mosaico e un ambiente termale (calidarium) della cosiddetta “Villa con ingresso a protiro” (Fig. 36, nn. 1, 2, 3),5 su un pavimento a mosaico e sul muro di cinta in opera mista con semicolonne in laterizio del viridarium della Villa dei Pisoni (Fig. 35, Capitolo terzo, p. 108),6 1 La lavorabilità di queste malte è buona, sia con strumenti tradizionali, quali cazzuole, stecche, spatole, sia operando una lieve pressione delle dita, per garantirne una perfetta adesione ai bordi delle lacune. A partire dal 2005 la società che produceva le malte “Albaria”, la mac di Treviso, è stata acquistata dalla basf. Da quel momento, nonostante le assicurazioni da parte della basf di non aver variato la composizione del premiscelato, iniziarono a presentarsi problemi nelle fasi di indurimento delle malte. Si decise, quindi, di selezionare un nuovo prodotto e, dopo una sperimentazione di altre malte idrauliche presenti sul mercato, condotta in laboratorio e in situ, si è scelto di utilizzare la Volteco Microlime Gel®. 2 Cfr. Petriaggi, Mancinelli (2004): 118-121. 3 Per i dettagli su Baia ed il Parco cfr. Capitolo primo, pp. 41-42; Capitolo secondo, p. 51; Capitolo terzo, pp. 101-105. 4 Il cantiere di restauro sperimentale è stato promosso dal Nucleo per gli interventi di archeologia subacquea dell’Istituto Centrale per il Restauro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ora iscr), grazie all’ospitalità e alla collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli. 5 Petriaggi, Mancinelli (2004), pp. 109-126. 6 Petriaggi (2005), pp. 135-147.

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Fig. 24. Il metodo adottato per iniettare la malta all’interno delle lacune del muro di una delle vasche della peschiera di Torre Astura. Nettuno, Roma (Archivio iscr).

presso l’edificio con cortile porticato a Portus Iulius,1 su di un tratto della via Erculanea e nell’ambiente pavimentato ad opus sectile delle terme presso Punta dell’Epitaffio.2 Ulteriori interventi sono ancora in corso. L’esperienza di Torre Astura è servita come riferimento per la scelta degli strumenti di lavoro, delle metodologie di intervento e dei materiali sebbene a Baia ci si trovasse a fronteggiare diverse e nuove situazioni di degrado, in differenti condizioni di profondità e di contesto sommerso. Il primo intervento consisteva nel tentare di ricostituire l’unità formale e strutturale dell’ampio pavimento di un ambiente andato perduto per la metà della sua estensione e completamente sottoscavato dal mare nel lato e-se. Sulle strutture superstiti erano presenti alghe verdi, di specie diverse e organismi corallini e bivalve, saldamente ancorati al substrato. L’intero pavimento era ricoperto da un sottile strato di alghe, di spugne, di depositi incoerenti, sedimenti e sabbia. La colonizzazione algale sembrava prediligere la malta di allettamento dei cubilia o dei laterizi, probabilmente per la minore difficoltà di penetrazione in profondità incontrata dalle radici, mentre gli organismi bento1 In occasione di questi lavori è stato applicato il sistema, messo a punto da chi scrive, per l’analisi e la registrazione del degrado delle strutture archeologiche sommerse (samas). Si tratta della schedatura che prende spunto dalla Carta del Rischio e che, attraverso l’elaborazione di un apposito Database, conduce alla redazione di un GIS finalizzato alla corretta gestione dei Beni e alla prevenzione del rischio di perdita. Cfr. Petriaggi, Davidde (2005), pp. 161-170. 2 Il rendiconto di questo intervento di restauro e di quello a Portus Iulius sono in corso di pubblicazione.

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nici sono stati riscontrati, con pari densità, indistintamente su tutte le superfici lapidee e sulle malte.1 Le spugne presenti erano di dimensioni notevoli, di aspetto verrucoso con tubercoli. Diffusissimi ovunque, poi, i serpulidi (vermi policheti), i briozoi (organismi coloniali di piccole dimensioni, 1-2 mm, calcarei o cornei) e le ascidie. L’azione di degrado esercitata da questi esseri viventi era ovunque evidente: sui muretti perimetrali in opera reticolata, dove l’impoverimento delle malte di allettamento aveva causato il distacco di elementi lapidei, coFig. 25. L’iniettore di malta a pressione sì come sulla superficie del pavimento (Archivio iscr). a mosaico; sulle tessere musive, in particolare, l’azione delle demosponge denotava estese zone fittamente perforate. Le successive colonizzazioni, poi, provocavano, in numerosi casi, una profonda alveolizzazione delle tessere. La soluzione di continuità tra i muri perimetrali superstiti ed il pavimento, dove si notava una importante lesione, dovuta al distacco e allo slittamento verso il basso del manufatto era certo indizio dell’incipiente collasso della struttura. Il moto ondoso, infatti, agisce con particolare veemenza in questo ambito, sotto l’azione dei venti di traversia del secondo quadrante (scirocco), provocando nel tempo il crollo progressivo del pavimento, a causa dell’escavazione continua al di sotto di esso. Dopo aver provveduto alla pulitura delle strutture e al risarcimento delle lacune con i metodi sopra descritti, si è affrontato il problema di questa cavità.2 1 Tra le alghe presenti si segnalano, in particolare, alghe verdi (udotea) e alghe rosse (incrostanti e non) e alghe brune la cui base di ancoraggio al substrato è incrostante. Le alghe microscopiche rilevate sono rappresentate da diatomee (planctoniche, epifite o epilitiche), alghe brune (epifite), alghe rosse (epilitiche), alghe verdi (epifite ed epilitiche). Sulle tessere erano, inoltre, attivi cianobatteri e spugne perforanti (demosponge). 2 Oltre agli strumenti utilizzati a Torre Astura, in questa occasione sono stati impiegati due nuovi apparecchi: un ablatore pneumatico per l’asportazione delle incrostazioni superficiali più tenaci ed un “erogatore pneumatico a pressione di malta antidilavamento”, realizzato appositamente per l’utilizzo in immersione per i risarcimenti delle fessurazioni e delle lacune. Lo strumento è costituito da un serbatoio di acciaio inox a chiusura stagna dotato di un coperchio che ospita i manometri e le valvole di sicurezza. Da esso si diparte un tubo di lunghezza variabile, con rubinetto di erogazione a ugelli intercambiabili di calibro diverso all’estremità, che permette l’uscita della malta contenuta in apposito cilindro di pvc collocato all’interno del serbatoio. L’aria compressa passa da una bombola ara da 15 litri nel serbatoio di acciaio attraverso un tubo di immissione che comprime il pistone che sovrasta il cilindro di pvc ad una pressione massima di 5 atmosfere. Attraverso una apertura del pistone, la malta viene convogliata in un tubo collegato al coperchio del serbatoio di acciaio. Sia la bombola per l’aria che il serbatoio sono alloggiati entro un apposito contenitore rea-

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Fig. 26. Sezione del pavimento musivo della Villa con ingresso a Protiro restaurato nel 2003 dall’icr (ora iscr). Sono messi in evidenza i sacchi di sabbia, il foglio di geotessuto con la rete di plastica sovrapposta e i picchetti di contenimento. Parco Sommerso, Baia, Napoli. Sezione a cura di A. Cetrangolo della Soprintendenza Archeologica di Napoli, rielaborata da R.P. (Archivio iscr).

Per scongiurare il definitivo crollo del mosaico, è stato realizzato un intervento d’urgenza per potere ottenere sia il sostegno della struttura, sia il contenimento dell’erosione. Sono stati inseriti alcuni pacchetti di laterizi al di sotto del pavimento, tra il fondo argilloso e gli strati preparatori, quindi il vuoto restante è stato riempito con sacchi di sabbia. Per conferire maggiore compattezza e stabilità a tale intervento di protezione e al fine di assicurare l’immobilità dei sacchetti, questi sono stati collocati sopra un telo di geotessuto nero contenuto da un foglio di rete di plastica, prolungato sul fronte a vista della lizzato con tubolari di acciaio inox, appesantito al fine di garantirne l’assetto negativo e la stabilità sul fondo. L’ideazione dello strumento è di R. Petriaggi, il progetto e la realizzazione si devono all’ing. G. Santinelli. La descrizione qui riportata corrisponde all’apparecchio così come risulta dalle più recenti modifiche apportate (Fig. 25), Cfr. Petriaggi, Mancinelli (2004), pp. 109-126; Petriaggi (2005), pp. 135-147.

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Fig. 27. Veduta panoramica del pavimento musivo della Villa con ingresso a protiro restaurato nel 2003 dall’icr (ora iscr). Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

sezione. Il tutto è stato rinsaldato con una recinzione di picchetti tubolari metallici piantati in verticale sul fondo, per una profondità di 1,5 metri circa, e posti a contrasto lungo il perimetro del taglio, per evitare eventuali cedimenti. (Figg. 26-27 e Fig. 36, n. 1). Nel corso del restauro del 2004 presso la villa dei Pisoni, le più rilevanti novità strumentali e di metodo, sono rappresentate dall’ideazione e messa in opera di cassaforme mobili in alluminio per il contenimento dei collarini di rifacimento dei profili pavimentali per i pavimenti e per la ricostituzione del massetto di fondazione di una semicolonna in laterizio1 (Fig. 28). Per l’inibizione dei processi biodeteriogeni sulle superfici dei pavimenti a mosaico, sono stati impiegati con successo teli di geotessuto bianco del tipo Terram 4000®. L’anno successivo, con lo stesso materiale, sono stati confezionati due tappeti imbottiti di brecciolino e sono stati collocati su alcuni settori di pavimento per testarne la validità e la facilità di impiego (Fig. 29). Nel 2005, sempre presso il muro di cinta in opera mista con semicolonne in laterizio del viridarium della Villa dei Pisoni, è stato restaurato un tratto di muratura ricostituendo parte dell’opera a sacco ed è stata risarcita una porzione del paramento in opera mista (Figg. 30-31).

1 Per i dettagli sugli interventi e sullo stato di conservazione delle strutture cfr. Petriaggi (2005).

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Fig. 28. Veduta panoramica di un pavimento musivo delle terme della Villa dei Pisoni restaurato nel 2004 dall’icr (ora iscr). Parco Sommerso, Baia, Napoli. Si nota lungo il profilo del pavimento la lamina di alluminio utilizzata come cassaforma per il contenimento della gettata di malta (Archivio iscr).

Fig. 29. Sperimentazione di una copertura di materassini di geotessuto riempiti di ghiaino per proteggere il pavimento delle terme della Villa dei Pisoni. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

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Fig. 30. Semicolonna di laterizio e tratto del muro di cinta del viridarium della Villa dei Pisoni dopo il restauro icr (ora iscr) del 2004. L’intervento ha comportato anche il rifacimento della fondazione e del plinto con utilizzo di casseforme mobili di lamina di alluminio. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

Fig. 31. Una fase dei lavori di restauro dell’icr (ora iscr) nell’anno 2005. Si nota una semicolonna di laterizio e un tratto del muro di cinta del viridarium della Villa dei Pisoni. Il muro in opera mista con il paramento fortemente degradato è stato parzialmente integrato con il rifacimento di alcune assise di cubilia e laterizi. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

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Fig. 32. Un tratto della via Herculanea dopo il restauro a cura dell’icr (ora iscr) nel 2005. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

Presso Punta dell’Epitaffio, sono stati riposizionati una decina di basoli della strada Erculanea, dislocati dalla sede originaria dal bradisismo e da terremoti e, a Portus Iulius, si è sperimentata l’anastilosi di una colonna in laterizio dell’edificio con cortile porticato1 (Figg. 32-33). Quest’ultimo è

Fig. 33. Portus Iulius. Una fase dell’analistilosi di una colonna di laterizi presso i magazzini del porto romano. Restauro a cura dell’icr (ora iscr), anno 2005. Parco Sommerso, Baia, Napoli (Archivio iscr).

1 Per l’anastilosi della colonna si è proceduto nel modo seguente: pulitura degli elementi da riunire; la base della colonna ancora in situ ed il moncone sono stati forati. Sulla base è stato posizionato un perno di acciaio inox; quindi, il moncone, imbracato in una struttura metallica a cerchiaggi è stato sollevato con un pallone di sollevamento e calato sulla base, dopo aver provveduto al riempimento dei fori di alloggio del perno d’acciaio con una resina idonea. Dopo il risarcimento della muratura nei punti di giunzione tra le due parti della colonna si è preferito, per prudenza, rimontare la cerchiatura nell’attesa del tiraggio delle malte. La colonna è stata liberata da questo sistema di protezione nel corso della campagna del 2006. Per i particolari si rimanda all’imminente pubblicazione dei lavori. Cfr. Petriaggi, Davidde (2007), (2008).

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Fig. 34. Terme presso Punta dell’Epitaffio (Parco Sommerso di Baia). Rilievo con laser scanner 3D dell’ambiente con resti di pavimentazione di opus sectile. Rilievo Gabriele Gomez De Ayala (Archivio iscr).

stato oggetto di un intervento di restauro e di una campagna di schedatura del degrado architettonico e biologico per avviare il nuovo metodo di indagine conoscitiva ispirato alla Carta del Rischio del Patrimonio denominato Sistema samas (Scheda Analitica Manufatti Archeologici Sommersi).1 I lavori di restauro svolti fino ad oggi, e che ancora proseguono presso il Parco Sommerso di Baia, sono stati una occasione non solo per sperimentare nuovi materiali e strumenti ma anche per testare nuovi metodi per il rilievo subacqueo, così da contribuire ad aggiornare la topografia dell’area (Figg. 34-36). In particolare, a partire dal 2011, oltre al rilievo manuale delle strutture archeologiche sommerse è stato sperimentato, per la prima volta a Baia, un laser scanner subacqueo, come si è detto sopra. L’attività di sperimentazione del progetto “Restaurare sott’acqua” si interessa anche al problema della valorizzazione e a quello della presentazione al pubblico dei siti archeologici sommersi. A questo scopo sono già stati selezionati contesti ancora non inseriti in Aree Marine Protette, ma che si spera possano presto essere compresi in un circuito di visite subacquee. I siti dove si è già lavorato finora sono: il relitto dei sarcofagi di San Pietro in Bevagna (Manduria-Taranto) di cui già si è detto;2 il relitto di una barca da pesca tradizionale dell’inizio del xx secolo, naufragata con il suo carico di mattoni 1 Cfr. p. 244, nota 4. Si è accertato, tra l’altro, che il muro di cinta del viridarium della Villa dei Pisoni era scandito da ampie aperture finestrate tra le semicolonne. Infatti, il piano del davanzale di una di queste aperture è venuto alla luce, dopo la pulitura, lungo il limite sud-ovest del muro. 2 Qui è stato realizzato un progetto di musealizzazione in situ e di rilevamento tridimensionale con fotogrammetria digitale cfr. Petriaggi, Davidde (2010).

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capitolo settimo

Fig. 35. Villa con ingresso a protiro, Parco Sommerso, Baia, Napoli. Rilievo 3D del pavimento a mosaico bianco e nero decorato con motivi geometrici, fitomorfici e pelte. Vedi anche Fig. 36 n. 3. Rilievo di Gabriele Gomez De Ayala (Archivio iscr).

davanti all’isola Martana, nel lago di Bolsena;1 il relitto di Cala Spalmatore a Marettimo (Trapani), datato al xvii-xviii secolo, dove i cannoni di ghisa rinvenuti su un fondale di circa 15 metri sono stati protetti in situ mediante il collegamento con anodi di sacrificio.2 Fin qui la storia e l’attualità dell’archeologia sott’acqua; ma, mentre chiudiamo questo manuale, già si vanno riempiendo le pagine bianche del futuro… .

1 Davidde Petriaggi; Galotta, Ricci et alii, in corso di stampa. 2 Bartuli, Petriaggi, Davidde et alii (2008).

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composto in car attere dante monotype dalla fabrizio serr a editore, pisa · roma. stampato e rilegato nella tipo gr afia di agnano, agnano pisano (pisa).

* Gennaio 2015 (cz 2 · fg 21)

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