Archeologia teorica. Nuova edizione 9788843082100

Questa nuova edizione di Archeologia teorica è l’occasione per aggiornare e ampliare il primo manuale, in italiano, che

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Archeologia teorica. Nuova edizione
 9788843082100

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Archeologia teorica uova edizione

Enrico Giannichedda

Carocci editore C1J Studi Superiori

Carocci editore

@, Studi Superiori

Questa nuova edizione diArcheologia teorica è l'occasione per aggiornare e ampliare il primo manuale, in italiano, che discute delle idee degli archeologi. L'archeologia è, difatti, una disciplina pratica, ma ciò non toglie che quanto gli archeologi fanno dipende da ciò che pensano. Sono infatti le opinioni e le teorie relative alla vita dell'uomo, allo sviluppo sociale, alla concezione della storia a condizionare il loro lavoro. Il libro intende dunque guardare con maggior attenzione al presente, e al futuro, di una disciplina che, per molteplici ragioni, è talvolta ritenuta in grande crescita e talvolta in crisi profonda. Oltre alla storia delle idee, il volume affronta perciò il rapporto teoria-metodologia-pratica della ricerca, evidenzia i forti legami che l'archeologia intrattiene con antropologia e storia, discute dei più recenti progressi disciplinari e si chiude proponendo una via, italiana e pluriverso, per lo sviluppo di un'archeologia globale. Fnril'O Cia1111il'lwdda si occupa prevalentemente di metodologia della ricerca, archeologia della produzione, archeologia teorica. Ha svolto ricerche sul campo in diverse regioni dell'Italia settentrionale e, come docente a contratto, ha insegnato nelle Università di Genova, Siena, Piemonte orientale, Lecce e Cattolica di Milano. Fra i suoi lavori.Archeologia della produzione (con Tiziano Mannoni; Torino 1996) e Uomini e cose. Appunti di archeologia (Bari zoo6).

ISBN 978-88-430-8210-0

€ 18,00

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I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 2.2.9 00186 Roma telefono 06 42. 81 84 17

fax 06

42. 74 79 31

Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.twitter.com/ carocciedicore

Enrico Giannichedda

Archeologia teorica Nuova edizione

Carocci editore

edizione, giugno 2.016 "Bussole" 2.002. (10 ristampe) © copyright 2.016 by Carocci editore S.p.A., Roma 2.•

1' edizione,

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino Finito di stampare nel giugno 2.016 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-82.10-o

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione alla nuova edizione

II

Introduzione

17

I.

Una teoria per la pratica

21

I.I.

21

1.8.

Contro gli specialismi Teoria, metodologia e pratica della ricerca Al mercato delle idee Teoria e storia dell'archeologia Teoria e preistoria Teoria e presente Archeologia e scienza Punti fermi

2.

La nascita di una disciplina

39

2.1.

Le verità rivelate La premessa illuminista Il paradigma delle tre età La geologia attualista e stratigrafica L'evoluzione naturale La storia è di classe L'evoluzione sociale Le spiegazioni del cambiamento

39 42 44 46 47 so

1.2.

1.3. 1.4. 1.5.

1.6. 1.7.

2.2. 2.3. 2.4. 2.5.

2.6. 2.7. 2.8.

7

24 26 28

30 32 33 36

52

54

ARCHEOLOGIA TEORICA

3.

Consolidamento e tradizione

59

3.1. 3.2. 3.3.

Archeologia e storia dell'arte Arte e società Il concetto di cultura archeologica

59 63 64

4.

Scetticismo e scoperta del tempo

69

4.1. 4.2. 4.3. 4-44.5.

Un paradigma inespresso Nuove idee marxiste ed evoluzioniste La sostanza del passato La scoperta del tempo: il C14 I tempi della storia

69 70 72 74 75

5.

La New Archaeology

81

5.1. 5.2. 5.3. 5-45.5. 5.6. 5-7. 5.8.

Un'archeologia ottimista Scienza e legge Cultura come adattamento Teorie di medio raggio Archeologia dei sistemi Archeologia analitica Behavioral Archaeology Il materialismo culturale

81 83 85 86 88 91 92 95

6.

L'archeologia postprocessuale e contestuale

99

6.1. 6.2. 6.3. 6-46.5. 6.6. 6.7. 6.8.

Un'archeologia contro Contesto e cultura materiale L'individuo attivo Stile e significato Precursori illustri Gli sviluppi più recenti Gender Archaeology Lo strutturalismo

8

99 102 104 105 I06 I08 109 Il I

INDICE

7.

La ricomposizione del conflitto

7.1. 7.2. 7-47.5.

Un futuro pluriverso Uomo, tecnica, arte Archeologia cognitiva Cacciatori e detective La cultura materiale

8.

Sviluppi di inizio millennio

8.1. 8.2. 8-48.5. 8.6.

"Rivoluzioni" troppo ottimiste La non morte della teoria Piccole e grandi teorie Dalla simmetria al Processual plus Materialità Agency, habitus, tendenze e tradizione

9.

Materiali e cultura materiale

145

9.1. 9.2.

146

9.3.

Identificare, classificare, interpretare Metafore e approcci storici Uomini e cose

IO.

Archeologia!

155

IO.I.

Qualche esempio In sintesi

156 165

Bibliografia

167

7.3.

8.3.

10.2.

115 115 120 122 123 128

9

131 131 134 135 137 139 141

149 153

Introduzione alla nuova edizione Ho una enorme collezione di conchiglie che tengo sparse per le spiagge di tutto il mondo. Steven Wright, I Have a Pony, 1985

A quasi quindici anni di distanza dalla prima edizione, riprendere in mano un proprio libro per "aggiornarlo" ha imposto alcune riflessioni. Prima di tutte "Sarà utile?" e, subito dopo, "Cosa resta oggi di quel testo?': Ovviamente, alla prima domanda ho risposto sì e alla seconda, senza falsa modestia, ho risposto "Molto o abbastanza". E, pertanto, insieme all'editore ho ritenuto utile non riscrivere interamente il volume, intervenendo come si sarebbe potuto fare su ogni singola frase, né tantomeno realizzare un'opera nuova arricchita, ad esempio, da brani antologici e da figure che sarebbero certamente utili. Ho invece preferito non stravolgere un lavoro volutamente di facile lettura, leggero e, passatemi il termine, sbarazzino. E del resto, in una delle pochissime recensioni avute, il lavoro del 2002 è stato definito un lavoro onesto, didattico, influenzato ma non succube delle teorie anglosassoni e con una propria radicata idea di base: la teoria per la pratica (Gonzalo Ruiz Zapatero, in "Complucum", 2004, 15, pp. 276-7 ). Conoscendo, credo bene, i pregi e i difetti di un lavoro che molto ha circolato in Italia (quasi una ristampa all'anno) ho quindi ritenuto utile offrire qualche ulteriore elemento di riflessione ai potenziali lettori. Lettori che, molto spesso, sono stati giovani archeologi obbligati a "leggermi" in quanto testo consigliato nei corsi universitari di metodologia, storia della disciplina, archeologia in genere. Il testo pubblicato nel 2002 contava sette capitoli e un'Introduzione a cui nel presente lavoro ho aggiunto tre nuovi capitoli in chiusura del volume, indicazioni bibliografiche aggiornate e qualche ritocco dove era assolutamente necessario. Nel fare questo mi sono anche permesso di esplicitare con maggiore chiarezza la mia idea di archeologia. Nell'Introduzione, non modificata rispetto al 2002, viene fornita una definizione volutamente semplice dell'archeologia come disci-

II

ARCHEOLOGIA TEORICA

plina pratica, che studia gli oggetti materiali a scopo di ricostruzione storica. E, poi, si ragiona dei "fatti", che esistono indipendentemente dalle teorie, e di queste ultime che, da tempi antichissimi, aiutano a organizzarli e comprenderli. Dare ordine alle idee degli archeologi è, difatti, uno degli scopi del libro. La "necessità di fare chiarezza" caratterizza anche il primo capitolo Una teoria per la pratica, dove si accenna alla necessità di distinguere nettamente i metodi, e le metodologie, dalle teorie che, molto spesso, gli archeologi prendono a prestito da altri ambiti disciplinari (antropologia, geografia, storia e, più raramente, dalle cosiddette scienze esatte). Più avanti si accenna al concetto di "paradigma" come definito da Thomas Kuhn e cioè un insieme di conoscenze e competenze condiviso dai membri di una comunità scientifica. Oggi, benché continui a pensare che nelle discipline umanistiche è inevitabile il convivere di più paradigmi (è un arricchimento! e lo stesso Kuhn riconobbe che ogni paradigma è debitore del precedente), credo che in realtà il patrimonio condiviso da tutta la comunità archeologica si collochi a un livello diverso dalle teorie qui discusse. Possiamo avere idee diverse sul divenire storico, i fenomeni sociali, la rilevanza di questo o quell'aspetto desumibile dalle evidenze materiali, ma un archeologo moderno deve avere ben chiari tre paradigmi di medio livello che possiamo definire stratigrafico, tipologico, tecnologico. Il primo consente di mettere ordine e studiare la formazione dei depositi, il secondo e il terzo si applicano in particolare ai manufatti e a quanto può desumersi da forma, materiale ecc. Di questo ho però scritto in un libro, Uomini e cose. Appunti di archeologia (Giannichedda, 2006), che è in parte la naturale prosecuzione di altri lavori precedenti e a cui rinvio. In questa sede, sono perciò tornato sul solo paradigma tipologico (CAP. 9) perché erede della tradizione disciplinare ottocentesca, perché è con tutta evidenza uno strumento di lavoro, perché l'archeologia non è scienza, ma i metodi d'indagine che utilizza devono essere i più scientifici possibili. Ma anche perché, dei tre, è il paradigma più debole, quello che affronta l'estrema variabilità delle esperienze umane laddove sono meno condizionate dai vincoli fortissimi che, normalmente, sono imposti dalla tecnica e dalle regole relative alle sovrapposizioni stratigrafiche. Nel CAP. 2, La nascita di una disciplina, è tratteggiata un'epoca che appare tanto lontana quanto formativa per l'archeologia attuale. A partire almeno dal Rinascimento, con il contributo di alcuni gran-

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INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

dissimi studiosi si giunse a definire il sistema delle tre età (tuttora in uso nonostante i difetti che lo affliggono) e a riconoscere l'utilità di quanto scoperto in altri ambiti disciplinari (dalla geologia attualista all'evoluzionismo darwiniano). Nel testo si accenna anche ai problemi dell'evoluzione sociale, e quindi ai diversi modi di produzione, affrontati nel corso dell'Ottocento da Morgan, Marx, Engels. Il CAP. 3, Consolidamento e tradizione, affronta problemi che, a ben vedere, si sarebbero potuti evitare perché raramente interessano gli specialisti dell'archeologia teorica. Non parlare di "Archeologia e storia dell'arte" sarebbe però stato un errore. Sia per l'importanza dell' approccio storico-artistico nell'archeologia italiana del Novecento, sia perché i manufatti artistici sono una produzione che al pari di altre informa del contesto storico. Inevitabile, invece, accennare a Gordon Childe e al concetto di "cultura archeologica" che, rivisto e aggiornato, resta, al tempo stesso, strumento di lavoro e, in molti casi, punto d'arrivo. In tal modo risulta evidente che esistono (almeno) tante culture quante sono le società, che le culture non sono monolitiche, che il tema del contatto fra culture diverse è un tema attuale con radici antiche. Ai titoli dei CAPP. 4, se 6, nel 2002 avrei potuto aggiungere qualche data. Grossomodo prima meta Novecento per il capitolo dedicato all'archeologia storico-culturale con il suo scetticismo, le descrizioni fini a se stesse, nei casi migliori un approccio neomarxista, sociale e sostantivista a cui ho accennato brevemente. Il titolo del successivo CAP. 5, La New Archaeology, avrebbe potuto essere completato dalla dicitura I900-I980 e il CAP. 6, L 'archeologia postprocessuale e contestuale, da I980-2000. Così facendo non avrei certamente sbagliato, ma avrei però finito con il suggerire, con ancora maggiore forza, un succedersi di idee, diverse fra loro, che non corrisponde alla realtà. Negli ultimi decenni del secolo scorso un certo modo di intendere l'archeologia non è stato sostituito in toto da una differente scuola di pensiero, ma è stato criticato, messo talvolta alla berlina, stimolato in un confronto aspro che, a lungo, è parso irrisolvibile. La New Archaeology americana si caratterizzava difatti per un approccio interpretativo anziché descrittivo, antropologico e scientifico anziché storico-culturale. Lo scopo era la ricerca di leggi generali del comportamento umano, indipendenti dalle situazioni storiche, con la cultura ritenuta mezzo di adattamento all'ambiente e con l' intelligente definizione di teorie di medio raggio, spesso derivanti da os-

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ARCHEOLOGIA TEORICA

servazioni emoarcheologiche, utili per comparare presente e passato. Invece, l'archeologia postprocessuale, riconosciuto che nessun oggetto è funzionale al cento per cento, ritenne fondamentale lo studio degli aspetti simbolici e comunicativi connessi al vivere sociale. E ha quindi dato spazio a credenze, valori, idee, arte, religione, azioni individuali o di specifici gruppi sociali, ricercando il particolare anziché il generale, il soggettivo anziché l'oggettivo, l'eccezione e non la norma. Nei precedenti tre capitoli, come spesso avviene a scopo didattico, avevo quindi utilizzato il termine paradigmi per designare tre differenti modi di intendere l'archeologia e farne la storia, nonostante sia del tutto evidente che non si tratta di approcci universalmente condivisi. E oggi è possibile sostenere che non c'è stata, e non ci sarà, un'evoluzione lineare dallo storico-culturale al New e al Post, ma che questi approcci hanno contribuito all'attuale archeologia in modi diseguali. Nel CAP. 7, intitolato La ricomposizione del conflitto, si trattava proprio di quanto sopra. Benché scritto in un momento in cui la contrapposizione era ancora forte, vi si sostiene ciò che poi è diventato un luogo comune: bisogna andare oltre la polemica New contro Post, perché tale polemica ha già fatto emergere il meglio e il peggio di ogni tendenza. Ma occorre anche riconoscere che i meriti della New Archaeology sono molteplici: aver imposto un rigore metodologico che prima era spesso carente, centrare l'attenzione sul rapporto uomo/ambiente (e quindi le tematiche relative alle risorse, ma non solo), puntare ad aspetti fondamentali dello sviluppo storico. Fra le parole chiave sono da ricordare adattamento, norma, società, funzione, materialismo. E una frase, in cui ancora mi riconosco, riaffermava che bisogna «cercare di essere bravi materialisti e processuali per poi essere postprocessuali meno incerti o, peggio, troppo fantasiosi nel trovare, per il solo fatto di cercarlo, un significato a ogni costo. Da ultimo, [si potrà] divenire storici delle evidenze materiali e quindi, compiutamente, archeologi» (oraapp. uS-9). A ribadire che una terza via è possibile nel 2002 portavo vari esempi: l'opera di André Leroi-Gourhan che lega uomo, tecnica, arte; l'archeologia cognitiva che punta alla comprensione del "pensiero selvaggio" ma anche alla ricostruzione dei saperi tecnici o delle scelte di potere; i processi che portano dai dati all'interpretazione. E chiudevo, forse troppo rapidamente, parlando di cultura materiale. Nell'edizione di Archeologia teorica che avete in mano, prima di riprendere quel discorso è però stato necessario accennare a ciò che è

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INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

successo in questi ultimi anni (CAP. 8). Anni che per taluni sono stati di crisi dell'archeologia teorica, ma che in realtà sono stati caratterizzati soltanto da una perdita di vigore polemico che ha coinciso, però, con una maggiore maturità e, quindi, con la capacità di distinguere il fondamentale dall'accessorio, arricchita da una moltiplicazione di nuove tematiche quasi incontrollabile. Nel CAP. 9, ripartendo dalle tipologie e dagli approcci che ognuno di noi adotta quando lavora, sono ora tornato sul tema Materiali e cultura materiale per ribadire alcuni concetti chiave. E, del resto, continuo a pensare che, ogniqualvolta si discute di archeologia teorica, a mio avviso inevitabilmente, si deve ritornare a ragionare di manufatti, di rapporti uomini/cose e, a chiudere il cerchio, di teoria-metodologia-pratica della ricerca. Il CAP. 10, più che un sermone ripetitivo di cose già dette, vorrebbe essere un martello, figura retorica usata dai New Archaeologists, per battere ancora su qualche tasto importante. Buona lettura. Maggio 2.016

Introduzione La storia dell'archeologia dall'antichità ai giorni nostri non è la storia indefinita del progresso delle conoscenze, bensì un mare agitato da onde tumultuose, che lasciano sulla sabbia conchiglie che altre onde riportano lontano. Schnapp (1994, p. n) Non possiamo sguazzare per sempre in ciò che si può pensare; la scienza si occupa di ciò che si può fare. Gould (1997, p. 106)

L'archeologia è una disciplina estremamente pratica che si caratterizza per studiare oggetti concreti a scopo di ricostruzione storica. Essa, apparentemente, necessita solo di un metodo per far parlare oggetti altrimenti muti: un metodo che eviti errori grossolani, come attribuire un manufatto a un periodo anziché a un altro, o sbagliare sul modo in cui fu prodotto, sulla provenienza, sull'uso che di quell'oggetto poteva essere fatto. Il reperto archeologico, si sa, può parlare. Spesso lo si considera una fonte diretta giunta fino a noi dal passato. Se però si lascia da parte l' autocelebrazione del proprio mestiere, la realtà è ben diversa. Ogni archeologo, nel chiuso del magazzino dei reperti, sa che non udrà alcuna voce levarsi dalle cassette impolverate. I reperti tacciono. I metodi, compresi quelli mutuati dalle discipline scientifiche, se ben impiegati risolvono questioni specifiche, forniscono dati, ma da soli non conducono mai alla ricostruzione del passato. Questa resta da farsi. E il compito, è inutile negarlo, se non ingrato, è certamente gravoso. I manufatti, e più in generale tutti i reperti, vanno forzati a essere parte di una storia avente per protagonisti gli uomini e il loro vivere in società. Inevitabilmente l'archeologo ne sarà il regista: attribuisce le parti ai vari interpreti, organizza una trama, suggerisce un finale e, talvolta, una morale. Per fare questo, se non un copione già scritto, serve almeno un canovaccio o un'idea. Senza idee non si fa storia (e non si girano film). Per fortuna tutti hanno qualche idea in testa o, come minimo, sanno dove copiarla; gli archeologi da sempre, e oggi

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ARCHEOLOGIA TEORICA

non meno che in passato, hanno attinto alle fonti scritte con trame che giocano ora a confermarne le ricostruzioni, ora a porle in discussione. La concretissima archeologia segue così percorsi segnaci da altri nel solco della tradizione scritta. Spesso neppure si è consci di copiare; gli archeologi, essendo stati bravi liceali, conoscono le fonti, e quindi, in maniera piana e senza sussulti, ne ricavano schemi collaudaci che è sconsigliato abbandonare. Nello studio della preistoria, per l'assenza di fonti storiche coeve, altre trame utili a organizzare i reperti sono invece ricavate da fonti posteriori, ipotizzando una qualche continuità storica, o dall'etnologia descrittiva dei popoli "primitivi" attuali. Caso particolare, ma non infrequente, è quello di chi decide di non provare neppure a raccontare una storia con i propri reperti. Spesso il motivo è che gli stessi sono davvero poverissimi o comunque inadeguati; al massimo si può organizzarli per un futuro utilizzo in qualche opera basata su un maggior numero di dati. L'archeologo in questo caso non si fa regista, ma si limita a organizzare una specie di scuola di recitazione da cui altri potranno accingere. Talvolta i mezzi per un buon film sembrano invece esserci e la scoria che non viene è allora conseguenza non della paura del palcoscenico, ma del non sapere che cosa fare con i dati che si sono raccolti. Nell'industria cinematografica un simile individuo privo di idee, ovviamente, non potrebbe mai diventare regista e il produttore, colui che paga e pretende un risultato, lo destinerebbe più utilmente, e non a caso, a trovarobe. L'archeologia, come si è detto, è questo: lo studio di oggetti materiali a scopo di ricostruzione storica, qualunque siano gli oggetti e qualsiasi cosa si intenda per ricostruzione storica, ma purché esista il problema di porre in relazione le osservazioni condotte nel presente con il passato che si cerca. Proprio per fare questo, dietro la concretezza dei materiali e la varietà dei metodi, si cela sempre un'idea che contraddistingue chi li cerca, li organizza, li utilizza. Idea originale o copiata, aperta o fissa, tradizionale o trasgressiva, talvolta mutevole o confusa, ma che inevitabilmente concerne la vita dell'uomo, la storia della società, la concezione del passato, il posto che si ritiene giusto per sé e per gli altri. Sono queste idee che portano a ricostruire una data storia anziché un'altra, a valorizzare ciò che è funzionale al proprio disegno, ad adottare i metodi più utili allo scopo. In più occasioni, nel corso del presente lavoro, si vedrà come le idee degli archeologi facciano ricostruire un cerco passato anziché un altro: per dirne una, il creazionismo basato sul racconto biblico, ma

INTRODUZIONE

anche, parimenti insostenibile, l'archeologia razzista e coloniale che negava le capacità intellettive dei nativi americani e africani. Talvolta, a distanza di tempo, certe idee possono sembrare talmente incredibili da far dubitare della serietà di chi le sosteneva, ma così facendo, non collocandole nel proprio ambiente, si farebbe un torto a molti studiosi che hanno contribuito a ciò che è oggi l'archeologia. Si perderebbe così quel che più conta: l'opportunità di interrogarsi, alla luce di siffatta esperienza, sul modo in cui quelle idee hanno costruito le fonti che si dicono oggettive, su ciò che influenza l'attuale sentire, su quanto reggeranno alla prova del tempo le convinzioni odierne, sull'essere, l'archeologia, un corpo unico in cui teoria e pratica sono inestricabilmente avvinghiate.

Idee, teorie, fatti Le teorie altro non sono che insiemi di idee strutturate in modo coerente al fine di riconoscere, spiegare, interpretare, talvolta anche prevedere, fatti. Questi, come ben sapeva Newton colpito dalla caduta di una mela, esistono indipendentemente dalle teorie e, solo per questo motivo, spesso appaiono essere più sicuri e attendibili. Le persone quasi sempre apprezzano la concretezza, il fare anziché il pensare ed è evidente, ad esempio, il diverso valore di affermazioni d'uso frequente come "è un dato di fatto", "trattasi di una teoria". Il sicuro verificarsi di un evento (fatto) da solo non è però sufficiente per avere una qualche corretta conoscenza della natura del medesimo; se più persone assistono a un incidente si avranno ad esempio varie descrizioni e diverse interpretazioni delle cause; se in agosto il primo giorno di ferie piove (fatto) non si rinuncerà per questo alle vacanze e si confiderà in una teoria che prevede "probabile" bel tempo. Del resto, solo la scoperta della teoria gravitazionale chiarì a Newton il motivo per cui le mele, similmente a ogni altro materiale, cadono. Nella testa dei Sapiens, la registrazione dei fatti avvenuti e le idee che li spiegano stanno insieme da epoche imprecisate e di gran lunga precedenti all'invenzione di una teoria storiografica. Essa ha comunque il medesimo scopo delle osservazioni più elementari: ordinare i fatti di cui si ha memoria rendendoli comprensibili ed evitando di essere schiacciati da una realtà altrimenti non conoscibile tanto è complessa. Dato un ordine alle idee, ogni nuovo fatto potrà arricchire la casistica

19

ARCHEOLOGIA TEORICA

e migliorare la teoria confermandola, modificandola, contribuendo a costruirne una nuova. Tra fatti e teorie non ci sono vie di mezzo. Peggio della teoria c'è però l'ipotesi fine a se stessa, la congettura, la credenza e, distanziata, la balla più o meno clamorosa. Argomentazioni discutibili e controverse, come sono molte teorie, ma che, diversamente da queste, non contribuiscono al progresso delle conoscenze perché, se anche contengono del vero, non sono strutturate logicamente al fine di spiegare i fatti e non è quindi possibile porle in discussione. Un sincero ringraziamento a Daniele Manacorda, Tiziano Mannoni, Maria Pia Rossignani e Marco Milanese che, letto il testo, mi hanno fornito importanti consigli per migliorarlo. Per tutto il resto devo ringraziare mia moglie Patrizia, Leo e Miki. Per espresso desiderio dell'autore il compenso relativo a questo libro sarà devoluto a Emergency. Settembre 2.002.

2.0

I

Una teoria per la pratica

I.I

Contro gli specialismi In archeologia da quasi cinquant'anni le discussioni cosiddette teoriche hanno acquisito sempre maggiore importanza e oggi all'archeologia teorica si dedicano convegni, riviste, siti web. Non tutti gli archeologi di fronte alla teoria hanno però la stessa posizione e non tutti la intendono allo stesso modo. Le posizioni estreme sono ovviamente quelle di chi non vuole sentire parlare di teoria e di chi, all'opposto, pensa che in archeologia quel che conta è solo la teoria. A ben vedere questo libro non è stato scritto né per gli uni né per gli altri. Esso ha per obiettivo chi si colloca in posizioni intermedie e ritiene necessario ragionare del proprio modo di operare e delle sfide interpretative poste dai manufatti antichi. Anche per la sua brevità, il testo altro non può però essere che un'introduzione, semplice e ragionata, all'archeologia teorica; l'approfondimento dei problemi cui qui si accenna sarà realizzabile solo attingendo copiosamente ai testi citati in Bibliografia. Il rinvio alla bibliografia induce un'osservazione. Ogni anno in Italia si pubblicano alcune decine di riviste e di libri di archeologia, fra cui opere di sintesi generale e di inquadramento, monografie, resoconti di scavo, cataloghi, atti di convegni. Molto di più si pubblica all'estero e il padroneggiare una tale impressionante quantità di carta stampata è quasi impossibile per chi fa anche ricerca "sul campo" scavando, organizzando dati e pubblicazioni, gestendo beni archeologici. Quanti hanno il tempo per mantenersi aggiornati? Forse solo chi si occupa di un argomento particolarmente angusto ed evita di guardare ciò che gli capita attorno. E quanti trovano il

2.1

ARCHEOLOGIA TEORICA

tempo anche per l'archeologia teorica? Gli studenti interessati alla questione dovranno fra l'altro recuperare i termini di un dibattito che da almeno trent'anni è vivacissimo e non semplice. Chi prova ad avvicinarsi alla materia non partendo da un'opera orientativa corre il rischio, nel perpetuarsi delle polemiche, che, da un lato, cucco gli appaia essere già stato scritto e, dall'altro, che non esistano punti fermi generalmente accettabili. Se ciò non bastasse, chi avrà il tempo di formarsi un'opinione personale leggendo le opere originali che spesso si trovano citate a supporto di varie tesi? Chi ha lecco per davvero Marx, Collingwood, Croce, Hempel, Foucaulc, LéviStrauss ... ? Nell'organizzazione del presente volume si è tenuto conto di quanto sopra ed è inutile negare che io stesso ho lecco molto meno di quanto avrei desiderato. Nonostante ciò, si è deciso di schematizzare le questioni caratterizzanti l'archeologia teorica perché cale operazione coincideva con l'esigenza di fare maggiore chiarezza anche per sé. Chiarezza in un dibattito che ha raggiunto coni impossibili, con un frastuono di voci insopportabile che rischia di allontanare molti non professionisti dell'archeologia teorica da temi invece fondamentali. In questa stessa direzione si è del resto già orientato Nicola Terrenaco che, nell'ambito della Summer School di Siena, si è proposto di « far pensare» e di far sì che le lezioni servissero da «vera e propria scuola» (Terrenaco, 2000, p. 20 ). In realtà, il tentativo di fare scuola imporrebbe imparzialità nel presentare teorie diverse, ma nell'opera di un singolo questo non è possibile. In un campo così vasto la stessa selezione degli argomenti o dei riferimenti bibliografici è di parte e quindi è bene dichiararsi. La scuola da cui provengo è quella di un'archeologia pratica, detta talvolta militante, condotta prevalentemente in Liguria, una regione povera di resti monumentali, ma con una grande tradizione di ricerca sul campo, di studio dei manufatti, di valorizzazione di tutte le testimonianze, comprese quelle apparentemente minori (si pensi ai contributi di Nino Lamboglia e Luigi Bernabò Brea). Una regione in cui fin dagli anni settanta si è riconosciuta l'importanza fondamentale dello studio dei processi di formazione dei depositi, dell'archeometria, di un approccio multi periodale allo studio del territorio. Tutto questo, tenuto insieme dal pensare all'archeologia come a una disciplina che lega scoria e antropologia, dal ritenere

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I. UNA TEORIA PER LA PRATICA

insostituibile lo studio della cultura materiale e, non ultimo, dal lavoro infaticabile e intelligente di un maestro quale è stato Tiziano Mannoni (1928-2010 ). Proprio per sottolineare ancor meglio che la teoria archeologica cui si anela è una teoria utile per la pratica, e non tale da sostituirsi a ciò che un tempo si diceva essere "il rispetto per l'evidenza", a titolo di esempio si rinvia ai lavori, condotti proprio con Mannoni, e dedicaci all'archeologia della produzione (Mannoni, Giannichedda, 1996). In essi si è cercato di soddisfare un'idea ben sintetizzata da Chang (1967, p. 128), e cioè che «in archaeology a good theorist is also a good fieldworker », ma anche al suo opposto: un buon archeologo da campo deve anche essere un buon teorico. Diversamente da altre discipline che non hanno una branca teorica distinta, l'archeologia non può fare a meno di ragionare sulla natura delle idee che guidano lo studio della documentazione al fine di padroneggiarla. Idee e teorie che solo i collezionisti più chiusi possono ritenere un lusso intellettuale, perché per loro i manufatti sono feticci e beni di scambio, ma che, volenti o nolenti, tutti gli altri usano, talvolta senza saperlo e anche quando rifiutano addirittura di prenderle in considerazione. In archeologia è difatti la teoria a indirizzare il proprio procedere; non il come si scava, ma il perché si scava e il perché si usa in un dato modo ciò che si trova. Inutile quindi forzare la discussione dicendo che tutto è teoria, essendo invece più conveniente distinguere la teoria dalla pratica proprio con il fine di evidenziarne la diversa natura. Oggi, il rischio maggiore che corre l'archeologia teorica è quello di divenire un nuovo specialismo, con i suoi padri nobili, le sedi del potere, i luoghi di discussione. Un posto per pochi eletti, caratterizzato in qualche caso da un linguaggio iniziatico in cui non c'è nessun tentativo di farsi capire all'esterno e, quindi, in ultima analisi nessun desiderio di vedere le proprie idee cambiare il corso dell'archeologia. Quel che conta è stare asserragliati nel fortino, affilare le armi della critica, ricercare la citazione inedita o il gioco di parole, meglio se incomprensibile ai più. Un aneddoto, fra i tanti, ricorda che, durante un convegno a Washington, un archeologo sovietico, stanco di teorie fini a se stesse, chiese a un amico se, per caso, gli americani non avessero mai scavato (cit. in Kohl, 1993). La teoria va difatti distinta ma non disgiunta dalla pratica e, una volta accettato che l'archeologia neces-

ARCHEOLOGIA TEORICA

sita di entrambe, si è ora pronti a entrare nel vivo di altre questioni di carattere generale.

1.2

Teoria, metodologia e pratica della ricerca In molti lavori capita di vedere discussi insieme temi detti teoricometodologici: ad esempio i criteri di classificazione dei materiali, i principi scientifici alla base delle datazioni archeometriche, i diversi modi di guardare alla stratificazione, le tecniche di survey, le applicazioni informatiche. Temi importantissimi, ma qui volutamente trascurati e non solo per esigenze di spazio. Tali argomenti non si caratterizzano come idee degli archeologi, ma come strumenti che da quelle idee derivano e che a quelle idee servono. Escluderli da questa trattazione significa sottolinearne da un lato l'importanza, che impone di rinviare a opere specifiche, e dall'altro la separazione di fatto che deve riconoscersi esistente fra teorie, metodologie e pratica della ricerca. Esse possono difatti essere considerate come ambiti collegati fra loro, ma posti su piani differenti come sono i vani di un edificio, in cui nessun piano da solo può dirsi né completo né soddisfacente e nessuna parte è eliminabile. Nell'edificio dell'archeologia, dotato di un posto di osservazione sul mondo attuale, ma saldamente fondato sulla tradizione e retto da un robusto puntello etnoarcheologico, ciascuno potrà scegliere se muoversi liberamente, e sperimentare l'utilità di ciò che trova nelle diverse stanze, o chiudersi in un cantuccio più o meno particolare (cfr. FIG. 1). Ogni archeologo, muovendo dalle proprie idee, e quindi da una qualche teoria, nell'affrontare lo studio dei manufatti e del territorio può scegliere i metodi che ritiene più confacenti al proprio progetto, senza che questi ne siano alterati o divengano inutilizzabili da altri studiosi aventi progetti diversi. La Beta Analitic Inc., o un qualsiasi altro laboratorio di analisi, per datare con il metodo del radiocarbonio ( C14) i vostri reperti non vi chiede se siete materialisti o idealisti o cos'altro pensiate; quel che conta è che paghiate trecento dollari per analisi. Il metodo è lo stesso per tutti, diverso è l'uso, o il non uso, che vorrete farne. Nel caso dei metodi di classificazione, gli archeologi di tradizione storico-culturale adottano ad esempio procedimenti intuitivi, mentre i New Archaeologists, coerentemente con le proprie idee,

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I. UNA TEORIA PER LA PRATICA

FIGURA I

L'edificio dell'archeologia

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Posto di

Interpretazione

TRADIZIONE DISCIPLINARE

COLLEZIONI

L'edificio dell'archeologia è saldamente fondaco e ha un primo piano corrispondente alla pratica, un piano intermedio occupato da merodi e merodologie, un piano superiore o, se si vuole, nobile dove alloggiano le idee e le teorie. Ovviamente, come in ogni edificio, nessun piano da solo può dirsi né completo né soddisfacente. Importante, oltre al posto di osservazione sul mondo, il robusto puntello emoarcheologico.

sviluppano tassonomie numeriche. Ognuno sceglie quindi a seconda delle proprie esigenze e idee, ma i metodi, con i loro pregi e difetti, sono a disposizione di tutti. A tale proposito è forse utile rilevare che, indipendentemente dalle idee degli archeologi, taluni metodi sono certamente migliori di altri perché sono quelli che garantiscono la più completa e corretta acquisizione dei dati senza comportare un'inutile perdita di informazioni. Nel corso del tempo la pratica della ricerca sul campo si è sviluppata ed è difficile sostenere che non sia un progresso l'essere

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passati dallo sterro per disseppellire monumenti e raccogliere reperti di un qualche pregio, allo scavo stratigrafico che mira alla comprensione dei modi di formazione dei depositi; dalle ricognizioni in cerca di nuovi siti da scavare alla copertura a tappeto di intere aree che ha per obiettivo la storia del territorio e dell'ambiente antico; dalla raccolta di poche classi di manufatti facilmente riconoscibili alla sistematica valorizzazione di reperti paleobotanici e archeozoologici. Tutte insieme, queste e altre conquiste avvenute nell'ultimo mezzo secolo sono designate "archeologia stratigrafica" perché si basano, a scale diverse, sull'avere riconosciuto come fondamentale per una corretta acquisizione dei dati la valutazione della stratificazione intesa come l'esito materiale di una sequenza di eventi che, nel corso del tempo, hanno portato un qualcosa a essere quello che oggi ci appare (non solo quindi stratificazioni di scavo, ma anche quelle leggibili sul territorio o sulla superficie di un vaso). L'archeologia stratigrafica, nel suo complesso, è quindi un insieme di metodi che certamente offrono più dati di qualsiasi altro approccio di indagine e oggi l'unica giustificazione che possa limitarne l'applicazione è la carenza di risorse (tempo e denaro).

1.3

Al mercato delle idee La discussione teorica in archeologia ha quasi sempre fatto riferimento a idee e posizioni originatesi in altri ambiti per risolvere i comuni problemi relativi alle origini della cultura, al rapporto dell'uomo con la natura e con i consimili, al senso del progresso e della storia, a che cosa deve ritenersi peculiare del genere Homo. Dentro l'archeologia si sono quindi portate idee maturate in altri campi: antropologico, storico ed economico, ma anche, a seconda dei momenti, religioso, filosofico, sociologico, geografico. Questi innesti spesso sono avvenuti con la naturalezza derivante dall'essere l'archeologo un animale sociale, che vive quindi le idee del suo tempo, ma talvolta è sorto il sospetto che l' adesione, spesso superficiale, alle mode intellettuali del momento si sia unita a una ricerca del nuovo condotta solo per diversificare il proprio operato da quello dei colleghi più ortodossi. Negli ultimi decenni si è così avuto un consumismo archeologico di idee sviluppate altrove, con l' imprestito affrettato di problematiche e terminologie che, trasferite a

2.6

I. UNA TEORIA PER LA PRATICA

sostegno e orientamento di tesi archeologiche, spesso si sono ridotte a cattiva antropologia o filosofia. A ritagliare cioè brandelli di riflessione "alta" a proprio uso e consumo, quasi che una citazione illustre renda meglio sostenibile una posizione altrimenti non sempre né approfondita né pertinente. Scorrendo un qualsiasi manuale di antropologia è facile cogliere quanto di quella disciplina ha influenzato il lavoro degli archeologi e ciò provoca un qualche sconcerto se si pensa che l'opposto non si è verificato. Gli antropologi, e perfino gli storici, si sono quasi sempre disinteressati del modo in cui gli archeologi costruiscono le proprie interpretazioni e, al massimo, ne utilizzano i dati scegliendo fior da fiore. Questo fatto, se da un lato è riconducibile all'incapacità tipica, ad esempio degli storici, di utilizzare i dati di cultura materiale, dall'altro dimostra quanta strada resta da fare per scrollarsi di dosso lo stereotipo dell'archeologo interessato solo ai propri cocci e un po' sempliciotto quando discute di problemi più generali. Il succedersi di innesti e imprestiti provenienti da altre discipline ha comunque portato a una sorta di sperimentazione archeologica di tutto quanto si trova al mercato delle idee con il risultato di far rilevare che forse è meglio fare da soli. Diversi archeologi, soprattutto negli ultimi anni, hanno difatti iniziato a pensare che la « scarpa presa in prestito spesso calza male» (Ammerman, 2000, p. 169) e ritengono quindi che, pur senza impossibili chiusure, è meglio costruirsi da soli una teoria utile all'archeologia evitando idee vecchie e spesso difettose. La deriva filosofica sembra perciò essersi di molto attenuata e in più occasioni si sono avuti richiami all'uso del senso comune - che, se necessita di essere meglio definito, è comunque lontano dalle sottigliezze, anche lessicali, dei pensatori di professione - e al fatto che, più importante della filosofia, deve essere, per gli archeologi, il possesso di una solida cultura storica. Essere critici e propositivi rispetto al mercato delle idee è una posizione tutt'altro che comoda e da cui si può trarre vantaggio solo se si cerca di focalizzare l'attenzione sui problemi specifici posti dalla documentazione, senza alimentare l'illusione di facili e periodici cambiamenti epocali nel modo di lavorare. È questa difatti l'unica posizione che impone di verificare le corrispondenze fatti-teoria senza un ombrello epistemologico bello e pronto, pur riconoscendo che !"'indipendenza teorica" degli archeologi non potrà mai essere totale perché i problemi da risolvere sono gli stessi che interessano, come minimo, a storici e antropologi.

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ARCHEOLOGIA TEORICA

1.4

Teoria e storia dell'archeologia Diversamente da quanto accade per altre materie, la storia dell'archeologia sembra interessare al pubblico soprattutto se tratta di sequenze di ritrovamenti con nomi, luoghi e date e non per i problemi che essa affronta e spesso risolve (problemi e non misteri). Le storie dell'archeologia di cui si dispone, e che si sono ampiamente utilizzate per questo lavoro, sono perciò in molti casi semplici storie delle scoperte in cui poco spazio è lasciato alle idee. Sabatino Moscati, nella prefazione alla Storia dell'archeologia di Glyn Daniel (1982, p. s) sostiene che l'archeologia è storia di uomini e scoperte non basata « sulle idee e sui modi di concepire la disciplina» perché ciò avrebbe reso il testo soggettivo e opinabile. Daniel ovviamente le idee le aveva e una, paradossalmente, era che non fosse il caso di discuterle né di dedicarvi troppo tempo. Egli tracciò quindi una storia del succedersi delle scoperte talvolta influenzata da eventi casuali e tutta interna alla disciplina. Concentrati invece sulla cosiddetta opinabile storia delle idee, oltre a un certo numero di scritti minori, sono alcuni lavori più recenti, opera di archeologi preistorici, mentre i classici, fatti salvi alcuni studi sul periodo fascista, disertano quasi sempre l'argomento o lo riducono a notizia minuta, spesso al necrologio celebrativo dei personaggi più importanti. L'archeologia medievale, forse perché ancora troppo giovane, solo in rare occasioni ha tratteggiato la propria storia e ricercato le proprie origini. In tutti i casi, le storie della disciplina hanno il pregio di richiamare a una maggiore consapevolezza critica consentendo, come minimo, di distinguere alcune questioni dibattute in passato e ormai inattuali da altre che restano aperte e per le quali si è ancora influenzati dalla tradizione disciplinare. Le storie dell'archeologia, in tutti i loro molteplici aspetti, compresi i lavori biografici, la sequenza delle scoperte, le innovazioni susseguitesi nei metodi, sono quindi lavori importanti per la storia delle idee. In questa sede, le vicende minute e la discussione del lavoro di singoli autori saranno però trascurate per dare maggiore spazio ai grandi temi che, a partire dall'Ottocento, ne costituiscono lo sfondo e il fondamento. A tal fine si ritiene utile introdurre il concetto di paradigma come definito da Thomas Kuhn (1999), un importante storico della scienza.

I. UNA TEORIA PER LA PRATICA

Per paradigma kuhniano s'intende un insieme di idee, leggi, teorie, metodi e strumentazione, accettato dai membri di una data comunità scientifica e che ne orienta la pratica quotidiana di ricerca. È quindi l'insieme, di teoria e pratica, che costituisce la base stessa della disciplina ed evita ogni volta di partire da zero rimettendo tutto in discussione. Nel corso del tempo, per motivi diversi e non escluse varie casualità, succede però che agli scienziati possano presentarsi situazioni non risolvibili, e spesso neppure affrontabili, sulla base del paradigma condiviso. A quel punto le vecchie conoscenze entrano in crisi e si va verso la definizione di un nuovo criterio di fare ricerca. A una prima fase conflittuale segue solitamente l'affermarsi del nuovo paradigma che, a quel punto, approfondisce lo studio dei fenomeni ritenuti caratterizzanti la disciplina, forma conformemente ai propri principi nuove generazioni di ricercatori, allarga la propria sfera di influenza con pubblicazioni destinate a diventare "classiche", assimila quelle idee che, pur ponendolo in discussione, non sono in grado di destabilizzarlo. La posta in gioco in questi casi non è quasi mai solo scientifica, ma è anche di potere e prestigio e il fisico Max Planck ha lucidamente riconosciuto che «una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa» (cit. in Kuhn, 1999, p. 183). A un periodo di crisi più o meno lungo, secondo Kuhn, fa seguito un periodo di scienza normale; la comunità scientifica condivide un paradigma imperante, distintivo di chi ne fa parte e rispetto al quale tornare indietro è impossibile. E così ogni disciplina dispone di proprie pietre miliari incontestabili: attualmente, in chimica i principi sanciti da Lavoisier, che hanno soppiantato i principi alchemici; in astronomia, la teoria copernicana che ha sostituito quella tolemaica. Quella tratteggiata da Kuhn è perciò una storia della scienza che distingue nettamente i momenti di cambiamento repentino, e quindi il procedere della storia a salti o per rivoluzioni, dai momenti di scienza normale da tutti condivisa. Lo schema, se si vuole, è semplicistico ma certamente ha il pregio di evidenziare come un paradigma ne sostituisca un altro e la relativa impossibilità di compiere passi a ritroso. In realtà, come lo stesso Kuhn rileva, perfino nelle scienze esatte le cose sono spesso più complicate e il processo è tutt'altro che lineare; nelle cosiddette scienze storiche, e quindi anche in archeologia, è addirittura frequente la tendenza al

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convivere di paradigmi diversi e reciprocamente incompatibili. Non esiste quindi una sola archeologia definibile come normale, ma più scuole o tradizioni di ricerca talvolta in contrasto fra loro, più spesso separate e prive di contatti. L'archeologia è del resto disciplina con più settori tradizionalmente distinti e ciò consente, ad esempio, a un etruscologo di non interessarsi a ciò che è fondamentale per un medievista o per un americanista e viceversa. Proprio per questi motivi i concetti di paradigma e di scienza normale sono applicabili all'ambito storico-archeologico solo riconoscendo che convivono svariati paradigmi, senza che possa riconoscersi inoppugnabilmente quale sia il migliore, e cioè quello in grado di spiegare più fatti. Kuhn (ivi, p. 101) del resto notava che « ad un insieme di dati, è sempre possibile sovrapporre più di una costruzione teorica» e nessuna teoria è quindi mai invalidata dal confronto con la natura, ma da nuove teorie alternative che ne rilevano i difetti e, talvolta pur senza risolverli, hanno comunque l'effetto di indirizzare la ricerca verso altri settori, ad esempio, spostando l'attenzione dallo studio delle dinamiche culturali su grandi aree ali' interazione uomo-ambiente in ambito locale.

1.5

Teoria e preistoria Agli occhi di molti l'archeologia teorica è un qualcosa che riguarda solo i preistorici, ma questa osservazione non può essere condivisa neppure riconoscendo che, quantitativamente, sono soprattutto gli specialisti di quel periodo a occuparsi e scrivere di teoria. Del resto gli stessi preistorici sono tradizionalmente anche fra i più attenti allo sviluppo delle metodologie ed è evidente che queste necessitano, senza eccezioni, a tutti coloro che studiano manufatti. Allo stesso modo, non si può sostenere che la teoria sia occupazione da anglosassoni solo perché questi se ne sono occupati in maniera più esplicita e insistente di altri. L'attenzione dei pre-protostorici, e anche degli anglosassoni, per la teoria deriva invece da una tradizione disciplinare meno angusta di quella che, in molti casi, lega gli archeologi classici e medievisti alla storiografia e alle fonti testuali, e in cui, da sempre, l'archeologo si confronta con lo studioso di scienze naturali, ma anche con l'etnologo, l'antropologo, il sociologo, lo storico. Una tradizione in cui l'interpretazione del passato va costruita e non è già data. Erroneo è

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RIQUADRO I

La forza della tradizione Le diverse tendenze che hanno caratterizzato la storia dell'archeologia e che possono definirsi come paradigmi sono state tutte elaborate nel mondo occidentale; prima nell'Europa centrosettentrionale, con l'alternarsi di posizioni nazionali più o meno forti, e poi negli Stati Uniti, e infine in Gran Bretagna. Fino a oggi nessun nuovo paradigma si è affermato nella patria del precedente e questo dimostra la forza della tradizione "normale". Le comunità scientifiche più importanti perpetuano se stesse coprendo tutti i settori della ricerca definiti come significativi, avendo una lingua comune, organizzando il consenso grazie a una struttura gerarchica, a un sistema premiale per i giovani ortodossi, alla gestione di pubblicazioni e convegni.

quindi il pensare, come piace ad alcuni archeologi classici degni eredi della «preistoria scienza degli analfabeti» del Mommsen, che occuparsi di teoria sia una sorta di passatempo per chi studia periodi o aree geografiche in cui vi è pochezza di resti. In tutto il mondo, i preistorici studiano infatti contesti di una tale complessità, e spesso monumentalità, che certamente non avrebbero motivi per approfondire questioni teoriche se non ne avvertissero l'utilità. Generalizzando, si può quindi sostenere che gli archeologi text aided, quelli cioè che dispongono di fonti scritte, sono i più condizionati da un ordine documentario e da una tradizione storiografica spesso così forte da limitarne la visuale. Gli archeologi text free sono invece quasi sempre i più interessati a ragionare delle teorie interpretative perché più liberi o, se si vuole, perché non disponendo dell'aiuto delle fonti, devono fare altrimenti. Al riguardo, la distinzione non è quella canonica fra preistoria e storia, ma fra quegli archeologi che studiano periodi per i quali si dispone di una documentazione scritta - che al tempo stesso traccia un quadro generale del periodo e contestualizza i singoli ritrovamenti - e quelli che non dispongono di tali informazioni pur essendo in molti casi interessati anch'essi a fenomeni successivi all'invenzione e diffusione della scrittura: ad esempio, al mondo rurale d'età classica e all'alto medioevo, dove le fonti sono poche, o all'età industriale in cui ampi settori d'attività non sono documentati. In margine a quanto detto sopra, e ai problemi connessi alla partizione cronologica della disciplina in settori distinti, si può rilevare che, da più parti, e indipendentemente gli uni dagli altri, molti ar-

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ARCHEOLOGIA TEORICA

cheologi ritengono che un'esperienza d'indagine multiperiodale possa essere fonte d'arricchimento culturale perché permette di percepire la complessità e varietà delle esperienze umane, di cogliere come vi siano tratti distintivi di singole epoche e tratti invece di più lunga durata, e di riconoscere le caratteristiche peculiari in ogni lavoro archeologico. È questa la strada percorsa ad esempio da Ammerman, da Balfet e Bruneau, da una pattuglia di archeologi italiani che, non trascurando l'etnoarcheologia, compiono scorribande fra preistoria recente, medioevo, postmedioevo. Ovviamente senza per questo ritenere che gli specialismi siano inutili, ma circoscrivendoli alla conoscenza dei materiali, all'applicazione di metodi particolari, alla competenza storica e non alle idee, alle teorie, ai modi di costruire l'interpretazione.

1.6 Teoria e presente La ricerca archeologica ovviamente si fa nel presente e l'archeologo, in molte occasioni, si trova perciò a dover confrontare le proprie esigenze di ricerca con le esigenze di altri. Ciò induce a due brevi riflessioni su temi importanti, ma su cui poi si eviterà di tornare. La prima riflessione è relativa al fatto che l'archeologia non è una disciplina neutrale rispetto al mondo in cui opera. Esempi di ciò sono l'archeologia filonazista e razzista, il culto della romanità fascista, il conformismo marxista degli archeologi in Unione Sovietica e in Cina, ma anche le meno note impostazioni celebrative di interessi locali, spesso in situazioni di forti contrasti nazionali o etnici, avutesi in Messico, Giappone, Iran e, da ultimo, in Israele con gli scavi di Masada, la cosiddetta archeologia biblica, la recente contesa con i palestinesi per le aree sacre di Gerusalemme. In tutti questi casi gli archeologi si sono schierati e la politica ha indirizzato le interpretazioni del passato fino al punto di renderle, a distanza di tempo, inaccettabili se non farsesche. Di questo essere nel mondo si dovrà avere memoria. La seconda riflessione è conseguenza del fatto che l'archeologia teorica da diversi anni si occupa anche di aspetti relativi alla corretta conservazione del bene, alla sua valorizzazione, al suo uso a scopo didattico, culturale ed economico. Su questi temi ovviamente non è possibile tirarsi indietro ed è necessario lavorare al fianco di altri operatori culturali. Quel che è chiaro, e che vale per entrambe le questioni

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RIQUADRO 2.

Teoria e fantarcheologia Ricercare le prove archeologiche della venuta sulla terra degli extraterrestri è uno dei campi più frequentati dai cosiddetti fantarcheologi. Persone che quasi sempre si dichiarano osteggiate da poteri accademici fortissimi e interessati a celare le loro scoperte perché tali da sconvolgere l'umanità. In realtà di sconvolgente nella fantarcheologia c'è soprattutto la sistematica disinformazione di cui si fanno complici giornali e televisioni con "rivelazioni" quasi sempre vecchie e tutte simili fra loro. Pensare alla fantarcheologia come a ingenuità di dilettanti non solo è erroneo, ma non vale a contrastare la sistematica distorsione dell'evidenza archeologica, le congetture non dimostrabili in alcun modo, il ricorso a reperti falsi e appositamente inventati. Alle teorie fantarcheologiche in questo libro non si darà perciò spazio se non per sostenere che non si tratta di costruzioni logiche coerenti, ma di "teorie truccate" essendo costruite in modo da impedire che si possa trovare qualche riscontro di segno opposto. Esse non possono perciò né essere verificate, né migliorate o riconosciute false e questa è la loro unica forza. Se non si è logicamente in grado di escludere che i marziani siano atterrati a Giza, ciò infatti non comporta che tale sbarco sia avvenuto e neppure che sia possibile o probabile. Certamente non ne esiste alcuna traccia oggettiva ma, in assenza di un'impossibile prova contraria, chi vuole crederci è libero di farlo. Il rutto non ha però nulla a che fare con l'archeologia.

cui si è accennato, è che la teoria archeologica non può oggettivamente dimostrare che quanto si fa è importante o è giusto. Tale giudizio dipende da considerazioni di natura sociale e politica, nel senso più alto dei termini, e a tali valutazioni gli archeologi possono contribuire motivando le proprie concezioni, sapendo però che spesso, essi, più che dare, ricevono condizionamenti culturali dall'esterno. Esempio ne è lo sviluppo degli studi paleoambientali proprio in conseguenza del maturare in Europa di una più ampia coscienza ecologista.

1.7

Archeologia e scienza Fin qui, con l'eccezione della discussione sul concetto di paradigma, si è evitato di parlare dell'archeologia come di una scienza anche se è frequente leggere che, da un dato momento in poi, essa è divenuta

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ARCHEOLOGIA TEORICA

scientifica o che una data ricerca si caratterizza per la sua scientificità. Su affermazioni di siffatta natura occorre ragionare brevemente prendendo le mosse da ciò che solitamente si ritiene essere la scienza. Scienza si dice quel procedere in cui l'attenta selezione di dati e metodi consente di svolgere ricerche le cui conclusioni non dipendono dalle opinioni del ricercatore. L'esperimento scientifico è, per definizione, l'esperimento ripetibile, o galileiano, caratteristico delle scienze esatte, anche se è ormai da tutti accettato che molti altri esperimenti si configurano come la pianificata e controllabile osservazione di un fenomeno indipendentemente dall'azione del ricercatore; è il caso degli studi meteorologici, dell'etologia animale, dell'osservazione della crescita della vegetazione, dell'etnoarcheologia. In tutti questi casi la natura dei dati e la complessità dei parametri significativi riduce la ricerca all'identificazione di ricorrenze e regolarità verificabili, ma mai replicabili. In pratica, nonostante i metodi scientifici, non possiamo avere certezza del tempo che farà domani o del comportamento di un dato individuo. Nella società moderna, per molti anni la scienza ha assunto la funzione che aveva la Chiesa per gli uomini del medioevo; essa è stata, e spesso è, ritenuta dispensatrice di verità. È la scienza che attesta, ad esempio, l'efficacia e sicurezza di un farmaco ma, come a tutti è noto, ciò non esclude casi particolari ed eccezioni. Diversamente da quanto credevano gli uomini dell'Ottocento, da tempo sono gli stessi progressi scientifici, e in primis la meccanica quantistica, ad avere dimostrato che non è possibile fidarsi troppo della scienza e che perfino le cosiddette leggi di Natura non possono essere ritenute sempre vere, ma solo altamente probabili. La distinzione, e discussione, scienza-non scienza è del resto vecchia e non necessita qui di essere ripresa. Attualmente, perfino nelle scienze esatte la possibilità di verifiche scientifiche in molti casi è stata riconosciuta impossibile non per la carenza dei dati, che nel caso si potrebbero migliorare, ma per la complessità dei fenomeni. Il rigore scientifico è quindi un qualcosa di elastico, comprendente anche le eccezioni che paiono contraddirlo e che, per essere approssimato, necessita anche della tecnica detta da Karl Popper di falsificazione: nei casi in cui non è possibile provare ciò che è vero, cercare almeno di eliminare ciò che è falso. Se non si può accertare quale fosse l'uso di un manufatto, è quasi sempre possibile escluderne, per valide ragioni, molti impieghi e quindi restringere il campo delle ipotesi su cui concentrare nuove indagini.

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In archeologia possono distinguersi quattro modi di utilizzare il termine scienza. Il primo è forse il più frequente e, insieme, il meno importante: una ricerca è detta scientifica perché condotta con rigore e con metodo, ad esempio stratigrafico o tipologico o statistico. Questo tipo di scientificità dovrebbe però caratterizzare tutti i lavori e allora l'uso del termine serve solo a indicare che si tratta di una ricerca che supera i limiti di vecchi lavori considerati privi di metodo. Scientifico è quindi usato come sinonimo di moderno, di accademico, di professionale, ma siccome ciò che oggi è moderno presto sarà inevitabilmente vecchio, è qui evidente l'implicita intenzione di suggerire la qualità, e quindi l'importanza, del lavoro svolto. In altri casi si usa il termine scientifico ancora con il senso di rigoroso, ma con lo scopo di sottolineare una scelta di campo e quindi l'essere contro un'archeologia intuitiva, approssimativa, incapace di ricercare verifiche oggettive e sostanzialmente ancella delle fonti scritte. In questo senso l'uso del termine non va rifiutato. Il secondo e il terzo modo di considerare l'archeologia come una scienza sono fra loro simili: per taluni l'archeologia è scienza umana imparentata con antropologia, sociologia, psicologia, per altri è scienza storica attenta allo studio dei processi nel corso del tempo e legata quindi alla biologia evoluzionista oltre che alla storia. Ovviamente le discipline con cui in questo modo l'archeologia si imparenta non sono, neppure loro, scienze nel senso proprio del termine; l'uso, ormai divenuto comune, di termini quali scienza storica non rende di per sé più chiaro in che cosa consista essere scientifici in archeologia, ed è solo un bel modo per evidenziare un rispettabile fine. L'unico modo "vero" di essere scienza per l'archeologia si ha quando essa procede ad analisi chimico-fisiche dei reperti. Analisi di per sé ripetibili, controllabili, per le quali sono necessari competenze e metodi da scienziati. In questo caso il farsi scienza è però un abdicare, che si spera momentaneo, al farsi storia; al centro del progetto di ricerca scientifica si collocano allora questioni particolari e se da queste si cerca di risalire all'uomo si è costretti a ricorrere ad altri metodi. L' archeometrista, e cioè lo scienziato, che ha ottenuto ad esempio una datazione radiocarbonica, non può difatti evitare di tornare a essere archeologo perdendo un po' della baldanza delle scienze dure per la duttilità delle scienze storiche e umane. Solo queste consentono difatti di "leggere" quel dato interpretandolo storicamente secondo gli

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interessi del ricercatore. Solitamente, un approccio scientifico forte dà risultati storici di scarso rilievo (ad esempio, "è un carbone"), mentre un approccio debole, elastico, meno sicuro può comportare risultati più rilevanti ("è l'esito di una distruzione per incendio"); ovviamente l'uno perde significato in assenza dell'altro e si può correre il rischio di errori gravi come quando l' archeometrista non consideri le condizioni di rinvenimento del reperto che analizza, o l'archeologo sbagli nell'identificare un materiale. L'archeometria, un tempo definita non a caso scienza sussidiaria dell'archeologia e ora più giustamente riconosciuta componente essenziale di ogni ricerca, è quindi, nei limiti caratterizzanti il moderno concetto di scienza, l'unico settore archeologico realmente definibile come scientifico, ma, in relazione all'uso che si fa dei dati, non si può dimenticare una celeberrima affermazione di David Clarke (1998, p. 346): «gli ausili scientifici non rendono l'archeologia "scienza" più di quanto una gamba di legno non faccia di un uomo un albero».

1.8

Punti fermi Data una definizione di archeologia fedele all'etimologia e agli autori antichi, in altre parole discorso o indagine sulle cose del passato, è possibile cercare di identificarne qualche carattere che si può sperare da tutti condivisibile. A rigore neppure questo è facile, perché nel corso delle polemiche fra teorici di diversa ispirazione è stato scritto tutto e il contrario di tutto, ma forse si possono stabilire alcuni punti fermi in cui, se non i critici di professione, possono riconoscersi almeno coloro che l'archeologia la fanno, oltre che pensarla. Un primo punto fermo è che, benché secondo alcuni il passato non esista, ne esistono testimonianze materiali di vario genere e origine. Quindi, la storia di tali oggetti e degli uomini che, con termine generico, li hanno "utilizzati", almeno in qualche sua parte deve potersi ricostruire. Discutere dell'esistenza del passato è perciò argomento che può lasciarsi ai filosofi, così come ai fisici si possono lasciare le questioni dello spazio-tempo, dei mondi paralleli e così via. Oltre a ciò esistono altri punti fermi di cui non si ha certezza assoluta, ma che sono talmente probabili, e si sono verificati infinite volte, da essere solitamente dati per scontati. Fra questi, la durata massima

I. UNA TEORIA PER LA PRATICA

della vita umana (che consente di escludere che Augusto abbia conosciuto Attila), gli effetti della forza di gravità (utili per lo studio dei modi di formazione delle stratificazioni), i caratteri fisici dei materiali (ad esempio, le temperature di fusione o di ebollizione, ma anche il poter ordinare in sequenza materiali via via più duri come fa la scala di Mohs). Fatti, quelli citati, che rinviano alla discussione di che cosa sia scienza e al valore delle leggi naturali, ma dell'argomento si è già detto e non è il caso di tornarvi: nelle condizioni normali in cui si esercita la ricerca archeologica, si può stare sicuri che la forza di gravità ha fatto cadere al suolo, nello stesso identico modo, sia un bicchiere antico, sia, a seguito di un incidente domestico, un qualsiasi oggetto moderno. Stabilito il fatto che il passato è studiabile e che per alcuni aspetti esso non poteva essere troppo diverso dal presente, un terzo punto fermo che ogni tanto si cerca di evitare senza peraltro mai riuscirvi è quello relativo a quali difficoltà si incontrano studiando i resti materiali del passato. Christopher Hawkes già nel 1954 aveva perfettamente definito la questione e a tal proposito è spesso giustamente citato (ad esempio in Guidi, 1988). Nell'ordine si incontrano difficoltà crescenti passando dallo studio abbastanza agevole della tecnologia a quello della sussistenza, al difficile settore degli studi sociali, allo studio, per Hawkes pressoché impossibile, di ideologia e vita spirituale. Questa scala di difficoltà ha ovviamente il pregio della concretezza e dell'essere quindi spendibile quando si progetta una qualche ricerca. Le operazioni connesse a produzione e alimentazione non solo lasciano tracce materiali tangibili, analizzabili e replicabili sperimentalmente, ma rispondono a una qualche logica. Logica che, se non assente, non è invece evidente in quelle tracce che gli archeologi spesso definiscono rituali o simboliche proprio perché non spiegabili razionalmente. La scala di difficoltà definita da Hawkes neppure esclude che dallo studio dei settori più facili si possa risalire ad altri, né, tantomeno, stabilisce una gerarchia o comporta una perdita della visione d'insieme: ad esempio, dallo studio delle tecniche a quello delle relazioni sociali, e oltre, avendo la consapevolezza che, se si vuole salire di grado in complessità e completezza informativa, occorre procedere né più né meno di come si fa al termine di uno scavo quando si pongono in relazione attività diverse, ognuna formata da più unità stratigrafiche, così da avere un quadro intellegibile del periodo.

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2

La nascita di una disciplina

2.1

Le verità rivelate Quanto sia vecchia la questione delle origini dell'uomo, delle cose e del mondo è impossibile dirlo; tutte le grandi religioni offrono una qualche spiegazione, ma solo dal pensiero cristiano discendono le concezioni che hanno accompagnato la nascita dell'archeologia. Per i Padri della Chiesa interessarsi dei fenomeni fisici era occupazione poco importante essendo possibile, grazie alla teologia, attingere direttamente alla causa prima della storia. San Tommaso colloca nell'Eden quella che chiameremmo una società di caccia e raccolta e riconosce come naturale e guidato da Dio lo sviluppo di alcuni uomini, quelli più dotati, verso l'agricoltura, l'attività manifatturiera, la civiltà. In ogni caso, le moderne storie dell'archeologia segnalano che, fin dall'antichità, gli uomini hanno raccolto reperti caratteristici di epoche precedenti sia per il loro valore sia a scopo mitico o religioso. Significativo è il caso di Nabonedo, re di Babilonia, che, nel VI secolo a.C., su antichi resti appositamente disseppelliti fece costruire un nuovo tempio che, unendo passato e futuro, legittimava continuità dinastica ed esercizio del potere. Anche in questo caso si trattava però di un'attività non finalizzata alla comprensione del passato. Di origine medievale, ma ancora fortissima a fine Ottocento, era una visione del mondo e della storia basata sulle letture bibliche. Trattandosi di verita rivelate, ovviamente non era lecito porle in discussione. La Creazione doveva essere avvenuta in epoca recente nell'area vicino-orientale in cui sono ambientate le vicende narrate dalla Bibbia; qui vi era il giardino dell'Eden e qui avvenne il Diluvio cui seguì la dispersione delle diverse genti, il degenerare nel politeismo, il perdersi

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ARCHEOLOGIA TEORICA

nell'arretratezza dei popoli destinati a restare primitivi. Altrove si era poi formata la società greco-romana e la Storia con la S maiuscola, ovvero quella narrata dagli autori classici, trascritta dai copisti medievali, sempre presente agli eruditi dell'età moderna. Tutto era semplice e si era svolto sotto l'occhio vigile e benevolo di Dio; al massimo si poteva accettare che l'età classica fosse stata un periodo d'oro per l'umanità soprattutto nel settore artistico e discettare del perché Dio permettesse certe iniquità. La cosiddetta teologia naturale si era difatti preoccupata di riconoscere l'esistenza di Dio nei prodotti della creazione e così si era potuto sostenere che i ghiacciai erano al servizio dell'uomo poiché "impastavano" i suoli per renderli lavorabili, o che gli affioramenti di carbone rispondevano a un disegno di localizzazione delle risorse mirato al soddisfacimento dell'uomo. Il Libro della Genesi, del resto, afferma che l'uomo è l'unico essere creato a immagine e somiglianza di Dio; un uomo che deve riempire la terra, soggiogarla, dare un nome alle altre creature che, non c'è da dubitare, sono al suo servizio. La natura fu quindi creata per uno scopo e con un significato morale; le eccezioni, come l'apparente crudeltà dei carnivori o il gatto che gioca con il topo, sono pertanto spiegabili solo con l'idea che gli animali non provino un dolore, fisico e psicologico, simile a quello degli uomini moderni (e così i primitivi, perché vi sono avvezzi, ma anche per poca coscienza di sé, del passato e del futuro; si crede che essi provino solo il male fisico). Con il Rinascimento l'osservazione dei fenomeni naturali portò molti eruditi a interrogarsi su singole evidenze materiali come, ad esempio, l'affiorare in zone montane di fossili simili ad animali marini, di punte di selce a forma di frecce, di vasi con ossa, o a chiedersi chi fu a erigere megaliti e tumuli. Già Fracastoro e Leonardo avevano accertato che i fossili erano resti animali e, a partire dal XVI secolo, si ebbero spiegazioni ragionevoli dell'affiorare di vasi e selci. L'idea che si trattasse di vasi cresciuti spontaneamente nel sottosuolo, di pietre alterate dal fulmine o di frecce di nani o elfi fu però viva ancora a lungo. Ciò che oggi sembra evidente e neppure da dimostrare faticò moltissimo ad affermarsi: le vecchie mitologie si mischiavano alle nuove osservazioni condotte sul campo e così grandi intuizioni rimasero a lungo sommerse da fantasie ridicole. Fin verso la metà dell'Ottocento la Chiesa ebbe facile gioco nel contrastare e rendere inoffensive quelle idee che alcuni eruditi avevano maturato sulla base di osservazioni geologiche e naturalistiche ancor prima che archeologiche. Tali idee riguardavano in particolare l'antichità della Terra e del genere umano

2..

LA NASCITA DI UNA DISCIPLINA

e l'ipotizzata contemporaneità fra uomini e specie ormai estinte. In questa sede ovviamente non è importante seguire gli sviluppi più recenti della questione, con la Chiesa che difende posizioni indifendibili fino, ad esempio, a scomunicare Darwin nel 1860 o a riabilitare Galileo davanti all'Accademia Pontificia delle Scienze solo nel 1999. Quel che conta è il freno imposto per lungo tempo alla ricerca. La posizione della Chiesa era del resto netta: subordinare la ragione e l'evidenza alla fede, accogliere alla lettera quanto riportato nelle Sacre Scritture, bollare come "curiosità sacrilega" le indagini al riguardo, rifiutare il confronto con chi non accetta i suoi dettami giacché eretico e inaffidabile. Mai vi fu un principio di autorità così forte o, se si vuole, un paradigma tanto sbagliato quanto strenuamente difeso. Per fare qualche esempio, fin dal V secolo sant'Agostino aveva etichettato come false le cronologie plurimillenarie già allora ipotizzate, ad esempio, per l'antico Egitto. Nel 1558 furono dei religiosi a fare riseppellire un calendario azteco da poco scoperto che rischiava di risollevare la già fin troppo imbarazzante questione cronologica posta dalle civiltà americane. Nel 16n, basandosi sulle genealogie di Adamo, fu invece possibile sostenere in una Bibbia anglicana che la Creazione era avvenuta nel 4004 a.C. e perfino precisarne la data al 2.6 ottobre, ore 9; data e ora determinate da un rettore di Cambridge e che, certo non per caso, coincidono con il tradizionale inizio dell'anno accademico. Nel 1656 il nobile francese Isaac Lapeyrère scrisse un trattato il cui titolo iniziava significativamente con la parola Preadamitae e in cui si discuteva dell'esistenza di epoche precedenti alle cronologie bibliche. Per questo motivo Lapeyrère fu processato per eresia da un tribunale - che, ironia della sorte, comprendeva alcuni grandi collezionisti di antichità classiche - e, per salvarsi, dovette rinnegare le proprie idee. Ancora nel XVIII secolo Buffon sosteneva in pubblico che la Terra era vecchia di almeno centomila anni, e solo in privato, a Diderot, dichiarava più probabile una datazione, ad altri indicibile, di milioni di anni. Più in generale, gli uomini di Chiesa procedettero sistematicamente, perfino nel xx secolo, a screditare tutte quelle evidenze che provavano la contemporanea esistenza di uomini primitivi e di animali estinti perché in contrasto con la descrizione biblica del Diluvio universale in cui tutte le specie sono dette salvate dall'uomo. Un'ascia in selce trovata insieme allo scheletro di un mammut fu quindi ritenuta l'arma di un antico britanno morto nello scontro con un elefante al seguito delle truppe dell'imperatore Claudio, ma più frequente era il ritenere

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l'associazione di resti wnani e di animali estinti conseguenza casuale di alterazioni dei depositi imputabili sia allo scavo di buche da parte dell'uomo, sia all'azione di animali; in pratica, di azioni postdeposizionali. I metodi di scavo, è inutile negarlo, in molti casi erano ancora inadeguati e lasciavano spazio alle critiche di chi voleva pregiudizialmente considerare i manufatti come infiltrati, ma con il tempo il numero dei rinvenimenti divenne sempre più numeroso e difficile da contrastare. Nel tratteggiare queste vicende si deve però riconoscere che la posizione dei credenti, benché miope, fu in molti casi sofferta testimonianza di fede e vi fu chi, come Georges Cuvier (1769-1832), benché fosse un ardente creazionista, ricercò sul campo la prova delle proprie convinzioni. Egli riconobbe i fossili di specie estinte come tali e, individuando nelle successioni geologiche frequenti casi di brusche interruzioni, ritenne che ciò fosse spiegabile solo con il succedersi di più catastrofi e non di un solo diluvio. Egli giunse perciò ad accettare che la Terra fosse molto antica, ma continuò a rifiutare ogni ipotesi di evoluzione; simile crisi la vissero anche altri creazionisti che dovettero ad esempio "inventarsi" intere sequenze di eventi diluviali precedenti quello biblico per spiegare l'estinzione di quelle specie, anche umane, che gli scavi portavano alla luce. Tale attività, pur muovendo da premesse erronee, finl comunque con il dimostrare l'insostenibilità della teoria biblica e quindi, alla lunga, contribuì alla nascita di nuove spiegazioni.

2.2

La premessa illuminista A partire dal Rinascimento, gli uomini di cultura iniziarono a ragionare del fatto che il passato era diverso dal presente e intuirono che, in alcuni paesi europei, si stavano verificando cambiamenti sempre più rapidi sia nel mondo della tecnica sia, conseguentemente, nei modi di vita. Era l'inizio del progresso, un termine, questo, fondamentale per testimoniare un processo in corso e, allo stesso tempo, la soddisfazione di esserne partecipi. In quella situazione, con il cambiamento ormai nell'aria, nel mondo della cultura si sviluppò l'Illuminismo, un movimento che, senza divenire unitaria scuola di pensiero, riuscì a rinnovare profondamente il modo di fare ricerca. Dalla disputa salottiera fra libertini che, lontano da orecchie indiscrete, mischiavano religione, filosofia, scienza e storia, si giunse difatti a una nuova visione del mondo.

2.. LA NASCITA DI UNA DISCIPLINA

L'Illuminismo fu prima di tutto affermazione della libertà di ricercare senza pregiudizi in ogni settore e ciò portò, nel Settecento, alla nascita delle Sciences de l'homme con tutte le loro infinite specializzazioni e sfumature. Da allora la ricerca della verità è ritenuta opera meritoria da compiersi sottoponendo a critica qualsiasi fonte e affermazione, senza rispetto per alcuna tradizione, nella consapevolezza di poter sbagliare e rivendicando il diritto al dubbio e alla sospensione del giudizio. Famosa è l'affermazione di Diderot «i pensieri sono le mie puttane» che significa rifiuto dell'autorità, apertura alle innovazioni, ricerca originale. Fondamentale conquista degli illuministi è l'avere stabilito l'unità psichica della specie umana e cioè il riconoscere che tutti gli uomini sono intellettualmente ed emotivamente simili. Ognuno non solo ricerca, al pari di altri animali, il nutrimento, il sesso, il sonno, l'affetto (comprensivo della sicurezza individuale) e, in modo speciale, anche il gioco, inteso come fare un qualcosa solo per il piacere di farlo senza un tornaconto materiale, ma non può rinunciare al chiedersi il perché degli eventi. Domanda che, per essere rivolta ai consimili, si ritiene abbia poi comportato la nascita del linguaggio. La capacità di pensare razionalmente è quindi ciò che unisce gli uomini e li distingue dagli animali. Uomini che si differenziano fra loro per le diverse "esperienze" essendo stati tutti "creati uguali': scrigni vuoti arricchiti solo dall'erudizione come già aveva sostenuto John Locke nel 1690. Il progresso è comunque pensato come qualcosa di naturale e inevitabile perché motivato dal desiderio di migliorare le condizioni di vita e controllare la natura. L'arretratezza dei popoli primitivi è invece ritenuta la conseguenza di limiti ambientali o climatici o di accidenti storici comunque non dipendenti dalla natura umana, ma tali da impedire di percorrere per intero le fasi evolutive che hanno portato alle società statali europee. Riconosciuta l'unità del genere umano, fondata sulla capacità di pensare razionalmente, la reazione successiva alla Rivoluzione francese mosse però da questa stessa considerazione per sostenere che i popoli primitivi attuali, pur essendo potenzialmente come noi, in realtà sono un po' peggio di noi. Il buon selvaggio tornò così a essere sporco e cattivo. Per taluni, il ritardo tecnologico che caratterizzava molti popoli era indizio della collera divina e i conservatori creazionisti non potevano accettare di avere, fra i propri antenati, primitivi simili a quelli che vivevano nelle Americhe, in Africa o in Australia. Questi perciò continuarono a venire pensati come esseri degenerati e il paradigma illumi-

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nista fu spesso rifiutato preferendogli idee più adatte a giustificare imprese coloniali, cristianizzazione e acculturazione forzate, genocidi. In conseguenza di ciò, i drammi furono quindi molto più gravi del ritardo imposto allo studio della storia dell'uomo. Un caposaldo, basilare per lo sviluppo del pensiero moderno, l'Illuminismo però l'aveva posto e proprio sull'unità psichica della specie possono riconoscersi fondate due fra le prime conquiste archeologiche e storiche: il paradigma delle tre età e le leggi dell'evoluzione naturale.

2.3

Il paradigma delle tre età Per la storia del pensiero archeologico il 1797 è stato detto annus mirabilis in quanto in una lettera l'inglese J ohn Frere descrisse alcune asce di selce e le datò a un periodo precedente al mondo attuale o età storica. A partire da questo momento iniziò a farsi sistematico il riconoscimento degli utensili preistorici e la loro associazione con specie estinte. Un'epoca volgeva al termine e ben presto l'Ottocento porterà a grandi rivoluzioni nel modo di pensare la storia. Nel 1816 Christian Jiirgensen Thomsen (1788-1865) fu invitato a catalogare i reperti della Reale commissione danese per la salvaguardia e la collezione di antichita e nel far ciò stabilì un criterio cronologico che divenne il primo paradigma davvero condiviso da tutti gli archeologi: l'universale successione di tre età caratterizzate dall'uso della pietra, del bronzo, del ferro. Thomsen probabilmente aveva letto Lucrezio, in cui vi è il primo accenno al succedersi di età caratterizzate dall'uso di materiali diversi, e certamente conosceva sia scavi in cui gli utensili in pietra risultavano precedenti al bronzo sia quei passi biblici in cui si dice che questo materiale ha preceduto il ferro. Prima di tale incarico egli si era occupato della classificazione di monete e sapeva quanto fossero importanti, per la datazione, le variazioni stilistiche e la valorizzazione dei contesti chiusi, come tombe o tesoretti, che garantivano una qualche contemporaneità dei reperti. Tenendo in mente tutto ciò, Thomsen classificò i manufatti distinguendone l'uso, il materiale, la forma, gli aspetti accessori e decorativi; in pratica, egli valorizzò i caratteri tecnologici, funzionali, stilistici di ogni oggetto e arrivò a distinguere una sequenza di periodi in cui seppe collocare anche vari aspetti del rituale funerario.

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2.. LA NASCITA DI UNA DISCIPLINA

Benché in quel periodo gli antiquari scandinavi fossero influenzati da idee illuministe, Thomsen non spiegò i periodi da lui riconosciuti come il risultato di una sequenza evolutiva in campo tecnologico, ma come la conseguenza di idee provenienti dal Vicino Oriente. I critici, ritenendo invece che si trattasse di sistemi economici coesistenti in cui prevalevano materiali diversi a seconda della ricchezza di ognuno, si soffermarono soprattutto a ironizzare sul perché egli non avesse pensato anche a età del vetro, del legno o dell'oro, ma ciò non evitò che nel volgere di pochi anni il sistema delle ere età divenne universalmente riconosciuto come valido. Jens Jacob Worsaae ne verificò l'attendibilità con scavi stratigrafi.ci rilevando anche che le diverse età erano caratterizzate da fauna e ambienti differenti, mentre altri lo impiegarono fruttuosamente in altre parti d'Europa. Insieme, le seriazioni di Thomsen e le stratigrafi.e di Worsaae creavano il primo affidabile sistema di cronologie relative, avente, come conseguenza pratica, la possibilità di una storia dell'uomo anche per i periodi antecedenti le fonti scritte. Non a caso, lo scozzese Daniel Wilson (1816-1892.) utilizzò lo schema delle tre età in chiave evoluzionista e coniò il termine preistoria per quel periodo e quelle popolazioni senza nome che ora riteneva possibile studiare archeologicamente. Altri studiosi associarono allo schema più approfondite osservazioni di carattere stratigrafico, tecnologico e tipologico e, a distanza di tempo, si è riconosciuto che proprio queste tre nozioni fondamentali ancora caratterizzano le metodologie archeologiche. L'eredità illuminista, l'evoluzionismo e l'idea di progresso erano alla base del sistema di Thomsen e questo, agli albori della rivoluzione industriale, ne rese più facile l'accettazione da parte degli archeologi che facevano parte di una borghesia in via di affermazione. Del sistema delle tre età altri avevano scritto prima di Thomsen, ma solo ora vi erano le condizioni per farne uno strumento di lavoro duraturo; nel 1908 Joseph Déchelette scrisse che era «la base della preistoria» e nel 192.1 Robert A. S. Macalister lo definì la «chiave di volta dell'archeologia moderna». E così, il primo paradigma condiviso da tutti gli archeologi indirizzò il lavoro di intere generazioni di studiosi impegnati a mettere in sequenza i manufatti e a vincere lo scetticismo sette e ottocentesco circa la possibilità di storicizzare i resti preistorici. E, non a caso, ancora molti anni dopo Glyn Daniel (1982., p. 60) riconosceva che il sistema delle tre età era stato fondamentale per dissipare la nebbia delle antichità preistoriche.

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ARCHEOLOGIA TEORICA

2.4

La geologia attualista e stratigrafica Agli inizi dell'Ottocento, archeologia e geologia erano entrambe condizionate nel loro evolversi da pregiudizi religiosi circa il diluvio, l'antichità del popolamento, la natura dei fenomeni che determinano la conformazione superficiale della Terra. Facendo seguito a una lunga tradizione di studi e infinite polemiche, nel 1830-33 l'inglese Charles Lyell pubblicò un'opera che va collocata, insieme a quelle di Darwin e Marx, era i frutti più importanti di metà Ottocento. Il titolo del volume, qui tradotto, spiega chiaramente le conclusioni cui Lyell era giunto: Principi di geolo-

gia, ossia un tentativo di spiegare gli antichi cambiamenti della superficie della terra facendo riferimento a cause ora in azione. Lyell con quest'opera dimostrò che i mutamenti geografici e geomorfologici avvenuti in passato sono la conseguenza di fenomeni del tutto simili a quelli osservabili nel presente e, quindi, dei diversi modi di essere dei processi erosivo-sedimentari protrarcisi per tempi lunghissimi o, come si usa per l'appunto dire, geologici. Ciò significava rifiutare tutti i catastrofismi diluviali e affermare l'utilità del metodo comparativo per la scoria geologica della superficie terrestre; in pratica, studiando il presente (da ciò il nome di teoria attualista) si può comprendere anche il passato. Lyell, diversamente dai catastrofisti, seppe anche dimostrare il perché della mancata attestazione di alcuni periodi nelle sequenze stratigrafiche. Egli suggerì di immaginare una nuova eruzione del Vesuvio che copra sia la Pompei romana sia la Napoli attuale; proprio le differenze fra le due realtà saranno la prova dell'esistenza di periodi intermedi e, per un qualche motivo, non documentati. La geologia stratigrafica a quel punto poteva dirsi nata e Mosé era privato di ogni merito relativamente alla scoria dell'uomo; gli archeologi dal canto loro potevano iniziare a muoversi liberamente in un passato preistorico a cui era restituito uno spessore cronologico altrimenti impensabile per chi aveva propugnato tesi preconcette ormai superate dall'argomentare e dagli esempi offerti da Lyell. Una dimensione temporale dilatata che fra l'altro si rivelerà indispensabile per la stessa teoria evoluzionista elaborata in quegli anni da Charles Darwin, che non a caso scrisse: «[ho] la sensazione che i miei libri siano usciti per metà dalla mente di Lyell» e riteneva i Principi di geologia un'opera paradigmatica in grado di cambiare la mentalità del lettore.

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2.5

L'evoluzione naturale Il sistema classificatorio predisposto da Linneo nel 1758, distinguendo migliaia di vegetali e animali in generi e specie, non diede alcun adito a polemiche in quanto non proponeva alcuna spiegazione, ma solo un riordino del creato. L'uomo in cale visione tradizionale era ovviamente al vertice del Sistema Naturae e non necessitava neanche di essere descritto così come l'immutabilità di piante e animali, dal momento della loro creazione fino al presente, non era messa in discussione. Solo nel corso dell'Ottocento, a seguito di sempre più numerosi rinvenimenti paleontologici, il terna dell'evoluzione degli esseri viventi divenne sempre più importante e d'attualità. Jean-Baptisce de Larnarck nel 1794 propose una teoria secondo la quale lo sviluppo in vita di determinati organi poteva essere trasmesso ereditariamente alla generazione successiva; in pratica, allenandosi ad allungare il collo per raggiungere il cibo, le giraffe ottenevano di avere eredi con il collo lungo. Diversamente, e correttamente, Charles Darwin descrisse l'evoluzione degli esseri viventi non come l'esito di un'operazione indirizzata a un fine, ma come effetto di molteplici casualità nella trasmissione dei caratteri ereditari. Il principio dell'evoluzionismo darwiniano sanciva che, a fronte di numerosi casi di variazione, sopravvivevano gli individui più adatti all'ambiente perché in grado di riprodursi con maggiore successo. Non quindi la legge del più forte, ma la legge del più adatto alle condizioni ambientali date. Darwin nella sua opera, in effetti, non trattava dell'evoluzione dell'uomo, ma era evidente che quanto sosteneva aveva valore generale. La reazione della Chiesa fu quindi impetuosa e il problema dell'ominazione fu così portato alla ribalta da chi non voleva neanche sentirne parlare. Le teorie di Darwin non ebbero quindi vita facile e bisogna riconoscere che per cucco l'Ottocento l'archeologia poco contribuì a sostenerle. Vi fu chi organizzò le proprie ricerche e collezioni con cale fine, ma nella maggioranza degli archeologi o prevaleva l'interesse puramente collezionistico o, fra i preistorici, la prudenza. La scienza non solo sembrava andare contro la fede, ma urtava anche le regole di convenienza sociale. Famosa è la battuta attribuita a una nobildonna inglese stupita che si potesse ipotizzare la discendenza dell'uomo dalle scimmie: « spero che non sia vero, ma se lo fosse auguriamoci non si sappia troppo in giro».

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Contrariamente all'impegno anche umanitario di Darwin, le teorie evoluzionistiche offrirono da subito nuovi argomenti a chi sosteneva vecchie tesi razziste; lo sviluppo biologico provato da Darwin si pensò poter essere stato analogo allo sviluppo culturale ed emotivo e ciò dimostrava l'inferiorità, non solo tecnologica, dei primitivi attuali descritti come miserabili e, spesso, depravati. Gli europei, e in particolare i ceti abbienti, erano invece la parte migliore dell'umanità. Questa tesi, oltremodo conveniente anche se per nulla convincente, fu detta darwinismo sociale e sostenuta fra gli altri daJohn Lubbock, importante archeologo inglese autore di Prehistoric Times (1865). Oltre a giustificare colonizzazione ed etnocidio, si giunse così a ritenere le attuali popolazioni primitive senza storia, e quindi a non ricercarne le testimonianze più antiche, non curando le cronologie, privilegiando le distinzioni di aree culturali, spiegando ogni cambiamento riscontrabile nei materiali con l'adozione di tecniche straniere o con la migrazione di popolazioni più evolute. In Africa, Americhe, Australia l'archeologia aveva così finito con l'essere una disciplina denigratoria del proprio stesso oggetto, mai contestualizzato nel proprio ambiente, ma confrontato con quanto altrove esumava l'archeologia antiquaria. Da un lato popoli ritenuti senza storia, dall'altro, in Europa e aree limitrofe, popoli la cui storia gli archeologi ricostruivano a partire dalle fonti scritte e ornavano con la descrizione di monumenti e opere d'arte. Questa distinzione, che tanta parte ha avuto nell'indirizzare la storia delle ricerche nei diversi continenti, ovviamente non può imputarsi a Darwin a cui neppure può farsi risalire alcuna giustificazione del razzismo o, di segno opposto, la tendenza che lega, ad esempio in Marx, il processo evolutivo al progressivo riscatto sociale. Darwin ne L'origine delle specie non trattava della storia degli uomini e anche per questo, insieme a quello di Lyell, il suo contributo assume il valore di base solidissima su cui fondare l'archeologia. Consciamente o inconsciamente, il paradigma evoluzionista fa difatti parte del bagaglio di ogni archeologo e ha condizionato l'opera di numerosi autori e di intere scuole su cui ci si dovrà soffermare più avanti: da Morgana Marx, dagli studi ecologico-funzionali fino all'archeologia processuale e postprocessuale, alla genetica storica, all'archeologia della mente. E ancora, il metodo tipologico di seriazione dei manufatti è l' applicazione del darwinismo agli oggetti e presuppone che sopravvivano nell'uso i manufatti più adatti, che vi siano varianti destinate a estinguersi, che il processo evolutivo abbia un senso e una direzione (spesso pensata

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come il procedere da manufatti semplici a manufatti complessi). In tal modo, però, gli archeologi non solo corrono il rischio di semplificare quanto caratteristico dell'evoluzione biologica, ma non si accorgono che il mutare nel tempo dei caratteri di un utensile è meglio descrivibile con il tipo di evoluzione prospettato da Lamarck in cui c'è un fine e non una pura casualità. In ciò vi è anche l'idea che il processo storico sia spesso similare allo sviluppo di ogni individuo con nascita, crescita, declino e scomparsa. Questo progredire ordinato è ciò che spesso si ritiene caratterizzare la storia di determinati manufatti, di interi villaggi o anche di stili artistici e culture. La più recente Evolutionary Archaeology più ambiziosamente si propone addirittura la sistematica applicazione del pensiero di Darwin in archeologia, e non solo dando importanza, come già altri fanno, all'adattamento ambientale, ma considerando l'evoluzione dei comportamenti a seguito della trasmissione di conoscenze da una generazione alla successiva e cercando di valutarne gli effetti sul successo riproduttivo dei diversi gruppi umani. Successo che porta alcuni a perpetuarsi in bande di pochi individui dediti a caccia e raccolta e spinge altri a evolversi in società differenziate e sempre più complesse. In un arco di tempo più breve di quello a cui fece riferimento Darwin, si riconosce che l'evoluzione interessa una popolazione di individui differenziati non solo geneticamente, e per sesso o età, ma anche per capacità genericamente definibili come intellettive. Perfino nelle più semplici comunità umane la complessità è quindi grande, non dovuta al solo caso e conseguenza del convivere di mutazioni diverse e preesistenti alla situazione ambientale data. Questo anche per l'assenza di sviluppi in isolamento e talvolta con cambiamenti improvvisi, veri e propri salti, caratteristici dell'evoluzione culturale. Oggi, tenendo comunque presenti i rischi di leggere in chiave evoluzionista fenomeni storici di breve durata, il paradigma darwiniano è quindi ben radicato in archeologia anche se, talvolta, se ne dimentica perfino l'origine. Grazie soprattutto allo sviluppo della genetica, la selezione naturale può difatti ritenersi un fatto provato al di là di ogni ragionevole dubbio, eppure si deve ricordare che, negli Stati Uniti, in alcuni Stati federali tale fatto è spiegato agli studenti ponendolo sullo stesso piano delle teorie creazioniste così che ognuno possa scegliere in che cosa credere. Riconoscendo perciò che non c'è peggiore sordo di chi non vuole sentire, a Darwin bisogna invece riconoscere il merito di avere abolito la figura dell'orologiaio che regola il corso della storia

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e, indirettamente, di avere restituito agli uomini una concezione laica dell'esistenza in cui il successo, e il senso della vita, è nel vivere stesso.

2.6 La storia è di classe Sulla tomba di Karl Marx (1818-1883) l'amico e compagno Friedrich Engels disse una frase destinata a essere spesso citata: «Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana». In tal modo egli non solo ribadiva l'autorità della visione marxista della storia, ma collegava quella legge ai lavori di Darwin letti con l'entusiasmo di chi vi riconosceva il medesimo sentimento caratteristico di metà Ottocento: fede nel progresso e operosa attesa degli sviluppi che avrebbero dovuto condurre alla migliore società possibile. Marx, come è noto, legò la propria ricerca di carattere storico alla necessità di capire il mondo per trasformarlo e, un secolo e mezzo dopo, constatare che le previsioni rivoluzionarie non si sono realizzate significa rilevare il fallimento, perlomeno temporaneo, di quel progetto politico. Ma, nonostante ciò, bisogna anche riconoscere che, benché molti si siano opposti alle sue idee, nessuno le ha ritenute trascurabili e per questo il marxismo occupa tuttora un posto di rilievo nella storia del pensiero moderno e quindi anche nella storia dell'archeologia. L'intento rivoluzionario della Critica dell'economia politica di Marx ovviamente ne orientò l'interesse verso le epoche più recenti, capitalistiche, per le quali riconosceva che si era compiuto un salto qualitativo rispetto al passato, con il risultato di trascurare le epoche prefeudali e di privilegiare la ricerca di spiegazioni generali alla comprensione storica di un dato periodo. Se l'analisi compiuta da Marx delle società antiche fu quindi approssimativa, e per la preistoria affidata quasi esclusivamente alla ripresa dell'opera di Lewis Henry Morgan, quel che è oggi significativo richiamare è il criterio adottato per organizzare quello schema evoluzionista. Criterio ben diverso da quello di altri autori dell'epoca. In primo luogo, benché semplificante e poco usata da Marx, è utile la distinzione fra la base reale della vita economica (la struttura) e gli aspetti sociali e ideologici (la sovrastruttura) da essa dipendenti.

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La struttura si configura come la base nascosta e invisibile della società e quindi è stata anche definita come la "storia reale" i cui protagonisti sono, da un lato, le forze della produzione, e quindi l'insieme di condizioni oggettive che lega le risorse materiali e umane alle conoscenze e alla tecnologia, e, dall'altro, i rapporti di produzione e cioè l'organizzazione della produzione e degli scambi. Rapporti che sono «determinati, necessari, indipendenti» dalla volontà degli uomini - che « fanno la storia, ma non sanno di farla» - e che sono la base della società. Per Marx « non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche»; fondamentale è perciò lo studio delle relazioni fra gli uomini e quindi dei rapporti sociali che organizzano materiali, strumenti di lavoro, individui equiparati a merci (il mercato del lavoro). La sovrastruttura, ovvero la politica, la religione, la filosofia, l'arte, i modi stessi della vita collettiva e sociale, fra cui ad esempio l'organizzazione della parentela, sono quindi fondamentali perché si abbia il perpetuarsi di un certo modo di produzione, ma essi dipendono comunque dai caratteri strutturali essendo un riflesso condizionato della vita economica. L'ideologia e più in generale le parti in cui è scomponibile la sovrastruttura hanno difatti la funzione di legittimare l'esistente, fare apparire normali e convenienti interessi di parte, mascherare le ineguaglianze facendole ritenere inevitabili. Questo senza connotazioni negative e, se è notissima l'affermazione che designa la religione come «oppio dei popoli», a tal proposito non si può dimenticare che la stessa è per Marx anche il «gemito dell'oppresso». La prima affermazione sarà ad esempio esemplificata archeologicamente da rituali funerari egualitari in società divise in classi, dove si ha quindi il tentativo di "mascherare" le ineguaglianze; la seconda dalle molteplici tracce di spiritualità popolare rinvenibili in molti contesti. Marx era quindi ben conscio dell'importanza delle scelte che gli uomini fanno, anche quando apparentemente irrazionali e di natura extra-economica, ma riteneva che è da quelle razionali inerenti alla produzione e di cui si hanno notizie abbondanti che si possono riconoscere tutti gli altri aspetti del vivere in società. Lo schema evolutivo dei diversi modi di produzione per Marx si fondava sulla struttura della proprietà e la divisione del lavoro: a una primitiva società senza classi a carattere tribale facevano seguito i modi di produzione asiatico, antico (schiavista), feudale, borghese, moderno. Essendo per Marx ognuno di questi modi di produzio-

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ne caratterizzato da contrasti interni di diversa natura (ad esempio padrone-schiavo, contadino-signore, proletario-borghese), gli stessi contrasti erano eletti a spiegazione delle trasformazioni. Non a caso il Manifesto inizia con la frase «La storia di tutta la società sinora esistita è la storia della lotta di classe». Il cambiamento è quindi conseguenza di una crisi ed è rapido, spesso violento perché risolutivo di un conflitto, al punto da essere definito un salto dialettico spesso risoltosi in pochi decenni o, al massimo, nel volgere di qualche generazione. L'importanza della dinamica interna e delle contraddizioni strutturali ovviamente fa sì che nell'analisi marxiana non trovino spazio spiegazioni del cambiamento basate su fattori ambientali o comunque esterni, come ad esempio quelli conseguenza di migrazioni o diffusione: se ciò si ha è perché all'interno della società si è già innescato un antagonismo sociale. Come è ovvio la proposta marxiana, per il periodo stesso in cui fu redatta e per il suo essere manifesto politico, doveva configurarsi come spiegazione scientista, ottimista, valida quindi per ogni situazione e periodo. Una proposta definita alternativamente materialismo storico o socialismo scientifico a sottolinearne tanto il principio caratterizzante quanto il porsi dalla parte della ragione. Proprio l'inevitabile lettura in chiave politica del pensiero marxiano ha ovviamente portato, da un lato, al rifiuto più intransigente, ad esempio negli Stati Uniti, e, dall'altro, all'adesione acritica e dogmatica. Il paradigma marxista, relativo alla preminenza della struttura sulla sovrastruttura, in archeologia è comunque molto diffuso, anche se talvolta usato in maniera approssimativa e inconsapevole riducendolo a un materialismo determinato dai reperti che, per loro natura, inducono a discutere di produzione e scambio più che di rituali o di ideologia.

2.7 L'evoluzione sociale A partire almeno dal XVIII secolo i primitivi, per il solo fatto di esistere, avevano posto grandi problemi agli uomini di scienza. Problemi che riguardavano la creazione dell'uomo, l'origine della società, la sua evoluzione. Nella seconda metà dell'Ottocento ci si avvide però dell'utilità del cosiddetto metodo comparativo, già utilizzato nel secolo precedente per riconoscere quale fosse l'uso di singoli oggetti antichi, e quindi

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RIQUADRO

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La prima grande conquista La più grande conquista dell'archeologia fu talmente grande da divenire un paradigma oggi destinato a passare quasi inosservato. Esso fu sancito da Gabriel de Mortillet nel 1867 quando, a lettere davvero capitali, scrisse LEGGE DEL PROGRESSO DELL'UMANITÀ, LEGGE DELLO SVILUPPO PARALLELO, ALTA ANTICHITÀ DELL'UOMO. Con l'ultima affermazione, e con il piglio che caratterizzava un uomo cresciuto in un convento e poi divenuto anticlericale al punto da negare perfino l'esistenza di qualsivoglia rituale preistorico, de Mortillet pose fine a dispute accesissime in cui l'evidenza archeologica e geologica era stata in più occasioni negata per rispetto dei sacri testi. Il preistorico francese, che usava il termine "legge" per sottolineare l'infallibilità delle proprie opinioni, con l'alta antichità dell'uomo indicava un campo di ricerca nuovo e, pensando al progresso, già si riteneva pronto a darne spiegazione. Ciò era evidentemente nel carattere del personaggio, ma era anche il risultato di un periodo particolarmente fecondo nella storia del pensiero occidentale.

sperimentato in geologia da Lyell, impiegato per lo studio dell'evoluzione biologica o, in campo linguistico, per riconoscere l'origine delle lingue europee. In antropologia, e in archeologia, nel corso dell'Ottocento esso fu utilizzato per paragonare alcuni gruppi d'interesse etnografico a popolazioni paleolitiche o neolitiche ritenute "tipiche" e i cui resti erano noti da ricerche archeologiche. In tal modo si traslavano nel passato informazioni relative, ad esempio, alla discendenza matrilineare o patrilineare, alle istituzioni, alle credenze religiose. Il metodo comparativo divenne quindi d'uso comune benché fosse chiaro che non era esente da difetti. L'antropologo Lewis Henry Morgan (1818-1881), ad esempio, vi fece ricorso per elaborare uno schema che si voleva di validità universale e che era basato sulla conoscenza diretta sia di situazioni etnografiche sia delle fonti greche e romane. Pur non escludendo l'esistenza di possibili eccezioni, esso poneva in sequenza tre principali periodi etnici caratterizzati da variabili tecnologiche ed economiche e da specifiche forme di organizzazione familiare e sociale: dal matrimonio di gruppo alla moderna famiglia nucleare, dall'orda alla tribù e allo Stato. Lo schema di Morgan, fatto proprio, con modifiche non sostanziali, da Engels, già nei primi decenni del xx secolo fu però rifiutato

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da Franz Boas e dagli antropologi interessati al particolarismo storico inteso come ricerca delle peculiarità distintive di singoli gruppi. Ripreso poi dai cosiddetti neoevoluzionisti, esso dimostra quanto sia difficile lo studio dell'organizzazione sociale. Archeologicamente, è ad esempio facile discriminare solo i casi estremi, ovvero le società cosiddette egualitarie, in cui si hanno solo distinzioni di sesso, età o capacità individuali, dalle società fortemente stratificate in cui non tutte le persone hanno lo stesso accesso alle risorse. Più difficile è invece il riconoscimento dei casi intermedi, ad esempio i chiefdoms, o società rette da capi, anche perché il porli fra tribù e Stato ha spesso portato a trascurarne i fattori di stabilità e la durata. Alcuni archeologi pensano, del resto, all'evoluzione sociale come a un tentativo di ridurre i conflitti interpersonali e altri invece la ritengono conseguenza inevitabile della ricerca di maggiore benessere; i primi studiano quindi i fattori di crisi, i secondi le opportunità legate alle risorse, a nuove tecnologie, al crescere del commercio e al contatto con altri popoli.

2.8 Le spiegazioni del cambiamento Il paradigma delle tre età elaborato da Thomsen, consentendo la periodizzazione, non riusciva però a spiegare perché vi fosse stato il cambiamento fra età della pietra, del bronzo e del ferro. Tantomeno esso spiegava perché alcuni popoli moderni si presentassero come fossili viventi rimasti indietro a occupare rami laterali della storia umana. L'interesse della questione ovviamente non era sfuggito né a Thomsen né ad altri e Worsaae, per esempio, era convinto che il repentino mutamento, avutosi fra età del bronzo e del ferro nel Nord Europa, andava spiegato con un'ondata migratoria, una vera e propria invasione simile a quelle narrate dalle fonti altomedievali. Il problema di capire un fenomeno dinamico, come il cambiamento dei modi di vita, a partire dallo studio della inevitabilmente statica documentazione archeologica, era comunque fondamentale per cercare di fare storia e impegnò perciò moltissimi autori. La contrapposizione fra spiegazioni evoluzioniste dei cambiamenti, relative a mutamenti interni alle società studiate, e spiegazioni basa-

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RIQUADRO 4

Lombrichi e metodo storico Nel 1881 Darwin dedicò l'ultimo suo libro ai lombrichi, un tema apparentemente minore per chi ha delineato la storia evolutiva di tutte le specie e ne ha addirittura riconosciuto le cause. Per un archeologo quell'opera è però importante in quanto Darwin, studiando il terreno che "si muove sotto i propri piedi" per effetto dei vermi, evidenzia come dal piccolo, osservato sistematicamente, si possa non solo ricostruire una storia, ma impostare una metodologia di ricerca. Egli, misurando sperimentalmente gli effetti dell'attività dei lombrichi nel livellare il paesaggio e nel provocare il seppellimento sia di piccoli oggetti sia, in parte, dei monoliti di Stonehenge, comprese difatti come i cambiamenti - e i non cambiamenti - siano essi dello stato del suolo, di una specie o di una società, sono spesso l'esito di processi comunque cumulativi dovuti a migliaia di individui. Per capire ciò, Darwin, al pari di Lyell, seppe dare il giusto valore all'effetto del tempo, utilizzando quanto osservava nel presente per capire il passato ed esprimendo criteri guida per lo studio dei manufatti. Egli difatti riconobbe che « se si deve lavorare su un singolo oggetto, si devono cercare le imperfezioni che ne documentano l'origine storica, se sono disponibili vari oggetti, si deve tentare di identificarli come fasi di un singolo processo storico; se è possibile osservare direttamente dei processi, se ne devono sommare gli effetti nel tempo» (Gould, 1997, p. 132.). Un'osservazione, questa, fondamentale per chi analizza scarti di lavorazione, ma, più in generale, utile per chiunque tenti di riordinare manufatti o per chi studia una stratigrafia con il fine di capirne i processi di formazione.

te su apporti esterni, fino agli inizi del xx secolo in qualche misura non escludeva che i due fenomeni potessero talvolta convivere. John Evans, Augustin Pitt Rivers, Edward Tylor e altri riconoscevano, ad esempio, che si doveva tenere conto di situazioni intermedie conseguenza di scambi commerciali, rapporti di alleanza e matrimoniali, invenzioni indipendenti frutto del simile lavorio della mente umana. Questioni su cui non si poteva generalizzare prendendo partito per un'ipotesi anziché per l'altra, ma che dovevano risolversi caso per caso. Sul finire dell'Ottocento, il lavoro sul campo di moltissimi archeologi era volto a definire seriazioni regionali di manufatti con il fine di perfezionare il sistema di cronologia relativa impostato da Thomsen. Fondamentali, fra gli altri, restano i lavori di Pitt Rivers, Oscar Montelius e William Matthew Flinders-Petrie; quest'ultimo, nel 1891, dal confronto incrociato fra materiali egizi e greci, ricavava elementi per una cronologia as-

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saluta a cui ancorare i principali contesti della preistoria mediterranea. A tale ricerca, rigorosa e attenta a valorizzare i dati stratigrafici, con il passare del tempo se ne affiancarono però altre basate su semplici somiglianze e si accettò, come generalmente vero, che i manufatti egizi e vicino-orientali fossero all'origine di oggetti via via più semplici rinvenuti in Europa. Anche al fine di ottenere comunque un qualche risultato, in questo modo si procedette a "datare" per confronto reperti di tutta Europa risolvendo in apparenza il problema di rendere assolute le periodizzazioni regionali basate sui caratteri dei manufatti. L' archeologia ottenne così, con un procedimento che si voleva obiettivo, di selezionare quei manufatti tipici, che si riteneva provassero l'origine orientale delle tecniche fondamentali, e di fare proprie le indicazioni provenienti da studi geografici e linguistici. Il diffusionismo divenne così la pigra spiegazione archeologica di ogni sviluppo culturale. Esso era basato sul ritenere impossibile che un'invenzione si ripeta due volte in luoghi diversi e pertanto ogni costruzione megalitica, perfino quelle centroamericane, doveva derivare dalle piramidi tronche egiziane. Alcuni autori videro nell'antico Egitto e nella Mesopotamia l'origine di ogni civiltà (Ex oriente lux) e tale tesi, talvolta detta iperdiffusionista, benché sostanzialmente indimostrata e indimostrabile, ebbe grande successo. Una spiegazione ancora più radicale dei cambiamenti culturali, il migrazionismo, giunse poi a ipotizzare lo spostamento di intere popolazioni da una parte all'altra del continente europeo già nella preistoria e in maniera non dissimile da quanto noto per le invasioni barbariche. Con il tempo, diffusionismo e migrazionismo si sono rivelati essere spiegazioni che rimuovono, anziché risolvere, il problema del cambiamento culturale e si deve ricordare che fin dalle origini il paradigma diffusionista fu osteggiato da chi, di fronte a spiegazioni preconcette, confronti generici, semplificazioni aberranti (talvolta falsificazione dei dati), parlò invece di Mirage orienta! riconoscendovi il pericolo di considerare le popolazioni "acculturate" per diffusione come passive e capaci soltanto di apprendere per imitazione. Negli ultimi decenni, anche a livello teorico, si è però dovuto riconoscere che le spiegazioni diffusioniste possono talvolta essere più convincenti di altre e non vanno rifiutate a priori. Ne sono esempio la diffusione di alcuni manufatti in conseguenza dello spostamento di artigiani che in tal modo esportano le proprie conoscenze tecniche e la cosiddetta Archeologia del contatto che studia i fenomeni di interazione fra comunità indigene ed europei

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2.. LA NASCITA DI UNA DISCIPLINA

in seguito, ad esempio, alle esplorazioni geografiche. Caso ancora più eclatante è il riconoscimento dell'onda d'avanzamento degli agricoltori neolitici dal Vicino Oriente all'Europa basato sullo studio delle differenze nel patrimonio genetico ereditario delle popolazioni attuali. Un lavoro molto complesso che rivaluta, evitando meccanicismi, una spiegazione peraltro non generalizzabile e da suffragare con i dati senza ricadere nell'errore di trascurare il ruolo delle comunità "acculturate".

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Consolidamento e tradizione

Sulla strada di chi vuole ragionare di quali idee caratterizzarono il lavoro degli archeologi per gran parte del Novecento si ergono due macigni molto diversi fra loro, ma egualmente ingombranti: i problemi riconducibili allo studio dell'arte e la definizione di che cosa debba intendersi essere la cultura. Il primo, importantissimo nel panorama italiano, è in realtà ben poca cosa se confrontato con il secondo, che è invece ineludibile qualunque sia il periodo cronologico che si affronta. L'arte è difatti un settore delle attività umane evidentemente più limitato, ma la storia della disciplina le ha attribuito un ruolo del tutto particolare e su questo è necessario soffermarsi.

3.1 Archeologia e storia dell'arte Oggi in molti paesi l'archeologia del mondo greco e romano si designa come classica e nelle università italiane, fra gli insegnamenti più importanti, vi è Archeologia e storia dell'arte greca e romana. Una disciplina con una singolare duplice denominazione che comprende interessi diversi, ma che spesso privilegia un approccio storico-artistico, di derivazione antiquariale, esteso allo studio delle produzioni artigianali e poco incline alla comprensione archeologica del processo storico. Tradizionalmente, gli archeologi classici si sono quasi sempre mantenuti estranei al dibattito su metodi e teorie e la stessa critica d' arte vede raramente fra i propri principali protagonisti gli archeologi, spesso impegnati o in un lavoro incessante di acquisizione dati - anche con importanti progetti di scavo e ricognizione - o in catalogazioni

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descrittive, in molti casi, di opere note da tempo e di cui se ne precisa la datazione, l'attribuzione e il significato. In qualche misura, tenendo conto di quanto detto sopra, si sarebbe quindi legittimaci a non accennare neppure a questa tradizione di scudi così come non si affrontano le questioni caratterizzanti la storia dell 'aree del medioevo o di aree non mediterranee. Ciò però non è possibile; l'archeologia incesa come scoria dell 'aree classica gioca difatti un ruolo nella formazione degli archeologi italiani che non può essere trascurato. Il macigno è ingombrante e sostanzialmente non scalfibile anche perché per tradizione è ben presidiato, ma ciò non coglie che sia possibile ricercare quali idee e impostazioni teoriche vi siano alla base. Senza spingersi troppo a ritroso nel mondo dell'antiquaria rinascimentale, il personaggio di riferimento per discutere della nascita dell'archeologia classica è certamente Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) che nella sua Storia dell'arte antica procedette allo studio dell' aree greca, e della statuaria in particolare, ricorrendo alle fonti scritte e all'indagine stilistica per stabilire attribuzioni e cronologie. La grandezza e la fortuna dell'opera furono conseguenza dell'aver evitato il semplice repertorio descrittivo di schemi iconografici, costruendo invece una scoria mitizzata di come nel mondo antico si fosse giunti a canoni di bellezza ritenuti insuperabili. Tutt'oggi si dice quindi "classica" la perfezione formale raggiunta in Grecia verso la metà del v secolo a.C. nell'imitazione di una natura idealizzata che si reputa frutto di una società libera e perfetta. Arte e vita civile sono quindi ritenute intimamente legate, nel passato e nel presente, e la comprensione dell'arte non necessita quindi di metodo storico, ma di esperienza estetica ed educazione al gusto. Un'esperienza che si ritiene poter elevare le qualità anche morali delle persone e, allora, si può ironizzare ricordando che il sommo Winckelmann forse proprio perché studiò copie di età romana, e non quelle originali allora sconosciute, fece una brutta fine, ucciso in circostanze equivoche da uno sconosciuto con cui occasionalmente si era accompagnato. Più seriamente bisogna però riconoscere che a Winckelmann si deve la nascita del neoclassicismo con la diffusione di un ideale artistico improntato a grandezza, serenità, "calma olimpica". Un ideale che, pur modificatosi nel tempo, permea la moderna società occidentale. Se la comunanza emotiva con l'antico può essere ricordata come il retroterra lontano su cui si fonda l'archeologia classica, eredità oltre che di Winckelmann anche di Goethe, nel corso dell'Ottocento, grazie soprac-

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3. CONSOLIDAMENTO E TRADIZIONE

tutto a studiosi tedeschi, si definì un approccio più rigoroso allo studio dell'arte antica, in parte applicato anche nel caso di oggetti di artigianato corrente fra cui le ceramiche dipinte. Tale approccio fu detto filologico perché simile al lavoro degli storici che, dal confronto di più versioni medievali di un medesimo testo, cercano di risalire ali' originale greco o latino. Alla base dell'archeologia filologica vi era quindi una grande erudizione, la sistematicità nei confronti, il rifiuto del dilettantismo antiquario. Tenendo a freno l'esteta che ha in sé, l'archeologo è colui che conosce tutto quanto emerso dagli scavi (spesso senza avere mai scavato e guardandosi bene dal farlo), sa come pubblicarlo filologicamente, evita di distrarsi dal proprio compito e non guarda quindi ai contesti di ritrovamento né, tantomeno, ai metodi usati ad esempio dai colleghi preistorici. Al massimo si occupa del restauro dei pezzi lacunosi con integrazioni affidate ad artisti educati al modo degli antichi. Pur con sfumature diverse, il paradigma caratterizzante l' archeologia classica dalla sua nascita e per gran parte del Novecento è il ritenere preminente lo studio delle manifestazioni artistiche per la comprensione delle società antiche. A più riprese vi fu chi provò a percorrere altre strade e, ad esempio, già nel 1865 c'è in Italia chi critica l'archeologia attenta solo a "battezzare le statue" e in quegli stessi anni Giuseppe Fiorelli cerca di migliorare i metodi di scavo a Pompei, formare i giovani, mantenere una tradizione positivista che miri alla comprensione della città e non solo dell'arte. La posizione vincente è però quella espressa da Theodor Mommsen: formare archeologi esperti nello scavo è pericoloso perché potrebbero allontanarsi «dalla grande arte e poesia de' maggiori» (cit. in Barbanera, 1998, p. 28), non meritano interesse i siti e le stratigrafie, ma solo i monumenti. Fin verso il 1902, con il riconoscimento dell'antichità delle pitture di Altamira, si era del resto esclusa la stessa possibilità di esistere per un'arte paleolitica. E allora, fra gli archeologi tedeschi, tuttora fra i più legati al paradigma "artistico-filologico': va ricordato Heinrich Schliemann che, guidato anch'egli dalle fonti scritte, utilizza però la stratigrafia per scendere nella preistoria omerica ben oltre la grecità classica. Benché la storia dell'archeologia classica sia soprattutto una storia di continuità più che di cambiamenti radicali, nei primi decenni del Novecento si ha comunque il superamento, almeno sul piano teorico, dell'approccio filologico e di ogni residuo positivista, di pari passo con l'affermazione in diversi ambiti culturali della filosofia idealista e in particolare del pensiero di Benedetto Croce.

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Con il tempo, l'erudizione filologica, mantenutasi viva come pratica di lavoro, giunse comunque a ricostruzioni più rigorose e corrette di quelle che furono di Winckelmann, ma il mito della superiorità dell'arte greca non venne per questo scalfito. Tale superiorità indiscussa, se da un lato limitava il campo d'azione dei classici, dall'altro ne garantiva il successo: la preistoria era considerata specializzazione minore e il paradigma classico finiva con il condizionare perfino i giudizi e l'impostazione di altre archeologie, fra cui l'egittologia e l' assiriologia. Occasionalmente il mito dell'arte greca era scalfito da tendenze vive nella società del Novecento, ad esempio dalle esperienze primitiviste, la scoperta dell'arte africana, l'espressionismo o il cubismo, ma ciò non ebbe rilevanti effetti nel campo dell'archeologia classica, che preferì quasi sempre chiudersi in se stessa. Da un lato, nella tradizione del positivismo ottocentesco, raccogliendo e accumulando materiali per la costruzione del futuro edificio della storia: ad esempio, nei vari corpora di iscrizioni, vasi, specchi ecc.Dall'altro, affidandosi al sempre riemergente idealismo che non solo propone l'origine greca dell'intero pensiero artistico occidentale, ma ritiene ogni periodo storico un caso a sé stante, da analizzare in dettaglio all'interno di uno schema di valori già sancito e basato sostanzialmente sul racconto delle fonti letterarie. Così facendo, l'archeologia classica, nata per cercare l'essenza dell'arte, paradossalmente ottenne di perdere di vista sia quel primo obiettivo sia la possibilità di confrontarsi con le idee nuove che attraversavano altre archeologie e si precluse la possibilità di studi comparativi verso altre culture. Tradizionalmente si finì, ad esempio, con il considerare la romanizzazione come un processo di acculturazione delle comunità italiche ed europee senza valutare, per le stesse, un possibile ruolo che non fosse l'opposizione bellica e quindi la sottomissione conseguente alla sconfitta. Ad acuire questo fenomeno in Italia contribuì poi anche la retorica nazionalista che, già ben prima del fascismo, fece leva sulla passata grandezza dell'impero romano. Nel 1870 i Savoia, posto fine al potere temporale dei papi, crearono una Soprintendenza che aveva per compito sia la tutela dei monumenti sia, indirettamente, la celebrazione della grandezza di Roma. Fu però durante il ventennio fascista che la propaganda fece massiccio uso dei simboli che si richiamavano all' impero e, in campo archeologico, si avviarono grandi imprese di sterro volte a liberare i monumenti dalle testimonianze di età posteriori. Nel secondo dopoguerra, gli stessi archeologi che avevano cantato le lodi

3. CONSOLIDAMENTO E TRADIZIONE

di Roma tornarono in cattedra e la mancata epurazione fece sì che il coro non cambiasse, ma si limitasse a evitare i toni eccessivi caratteristici della propaganda. Fra gli archeologi classici solo pochi solisti affrontarono problemi di metodo e rarissimo fu perfino il tentativo di giungere a un rinnovamento nel settore degli studi artistici. Al riguardo fondamentale resta però la lezione di Bianchi Bandinelli.

3.2.

Arte e società Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), benché influenzato da Croce che disprezzava gli studi dei preistorici e le ricerche sperimentali, si allontanò nel corso della carriera dall'impostazione idealista tipica del periodo e seppe rifiutare sia l'idea di evoluzione lineare degli stili sia l'equiparazione del classico al bello e all'esemplare. Egli indirizzò il proprio lavoro allo studio delle personalità artistiche lamentando come l'archeologia italiana, superata la filologia, si fosse ridotta alla raccolta di oggetti minuti utili al collezionismo, ma non alla storia. Per Bianchi Bandinelli la produzione artistica era quindi ancora strumento fondamentale per capire un'epoca, ma non per questo l'arte poteva essere separata dal contesto in cui era stata realizzata. Lo studio delle personalità artistiche maggiori non può essere quindi isolato da quello delle opere minori e della produzione artigianale in cui cogliere non solo gli echi di scherni iconografici colti, ma l'ambiente stesso in cui le opere si formano. È difatti tutto l'insieme a determinare la qualità dell'opera d'arte e diviene quindi importante non solo la "volontà" dell'artista, ma il rapporto con la committenza, il potere, la "volontà" epocale. Influenzato dal marxismo, non a caso Bianchi Bandinelli ricorda più volte che l'arte, soprattutto romana, era una merce pagata come le altre a giornata o a unità di prodotto. In Bianchi Bandinelli lo studio dell'arte non era finalizzato all'elevazione dello spirito, come voleva Winckelrnann, né alla semplice seriazione stilistica dei filologi, ma era ricerca storica circa la natura dei rapporti fra arte e ideologia, strutture sociali ed economia. In tal modo dall'iconologia descrittiva positivista si passa all'iconologia interpretativa avente comunque un carattere idealista. Questa impostazione di ricerca storica è caratteristica soprattutto degli scritti più maturi, quando Bianchi Bandinelli giunse a definire il Croce degli anni

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1920-40 una seconda dittatura cui, dopo il fascismo, si era stati costretti. L'esigenza di fare storia lo spinse a dare vita nel 1967 alla rivista "Dialoghi di Archeologia", una palestra di interdisciplinarità che, aprendosi al confronto con gli studi di preistoria e protostoria, non poté impedire che la maggioranza degli archeologi classici prediligesse ancora una storia dell'arte sostanzialmente chiusa in se stessa. Contro questa archeologia irrimediabilmente datata Andrea Carandini, già allievo di Bianchi Bandinelli, nel 1968 scrisse un libello polemico destinato a segnare un passaggio epocale; «il culto del "bel paese" per la bellezza» (Carandini, 1979, p. 10) è ritenuto un indizio del ritardo culturale conseguenza di un'archeologia priva di metodo, che, forse perché immagina gli antichi intenti soltanto a scolpire statue e a fare mosaici, è incapace di abbandonare la poetica dell'arte per la storia delle produzioni quotidiane. Agli archeologi classici fu così offerta la possibilità di voltare pagina senza rinnegare lo studio dell' arte, ma riconoscendo che si tratta di una parte e non del tutto. Questo cambiamento però avvenne solo in piccola parte e l'idealismo, incapace fra l'altro di confrontarsi con approcci esterni di impostazione etnografica o scientifica, resta tuttora un paradigma forte tra molti classicisti.

3.3 Il concetto di cultura archeologica Sul finire dell'Ottocento, e poi per svariati decenni, gli archeologi si trovarono in difficoltà a spiegare i cambiamenti culturali resi sempre più evidenti dalla migliore definizione di numerosissime facies archeologiche locali. L'evoluzionismo applicato alla storia non sembrava difatti in grado di spiegare fenomeni rapidi, di breve durata, coinvolgenti gruppi limitati di persone o singole aree geografiche. Oltretutto pensare all'evoluzione e all'ambiente era, quasi per definizione, un pensare alla parte meno nobile dell'uomo, al suo avere bisogni non troppo diversi da quelli di un qualsiasi animale. Il diffusionismo, con i suoi eccessi, era parimenti una spiegazione meccanica e ripetitiva che, agli occhi dei critici più attenti, rimuoveva, più che risolvere, il problema. L'archeologia, con il procedere dei decenni, e in certe aree, Italia compresa, fino al secondo dopoguerra finì con il rinchiudersi in sé, incapace di trovare strade diverse dall'erudizione descrittiva di reper-

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ti e monwnenti o dall'essere disciplina ausiliaria della storia. Questo fin quando un archeologo inglese di origine australiana, Vere Gordon Childe ( 1892-1957) non rubò a tutti la scena. Egli indicò, in opere rimaste memorabili, un nuovo e formidabile strumento di analisi, che non era privo di antecedenti, ma che solo ora veniva elevato a paradigma. Un paradigma di cui tutti siamo ancora partecipi e al quale si deve riconoscere il merito di avere indicato una strada in grado di dare valore ai reperti, alla loro conoscenza accurata, alle cronologie elaborate per confronto tipologico, alle carte di distribuzione dei reperti, allo studio del territorio. Grande conoscitore di materiali, che considerava espressione di società vive e non fossili morti, Childe nel 1929 diede la definizione di cultura tuttora maggiormente citata: «Noi troviamo certi tipi di resti - case, utensili, ornamenti, riti funerari e tipi di abitazioni - costantemente associati. Definiamo un tale complesso di tratti associati come gruppi culturali o culture» (cit. in Guidi, 1988, p. 101). Una definizione pratica, chiara, che ben si presta a un utilizzo generalizzato. La regolarità dei manufatti (la ceramica tipica, la casa tipica ecc.) è difatti ritenuta derivare da norme condivise e per questo si parla di definizione normativa della cultura. Essa, stabilendo un'equivalenza tra manufatti, territori e popoli, ottenne di creare un mosaico di culture complesso, ma sostanzialmente privo di sovrapposizioni geografiche. L' archeologia in tal modo poté dare un nome ai popoli preistorici, altrimenti anonimi, e confrontarsi con la linguistica storica e, per la protostoria, con le fonti antiche. Anziché la storia di un'unica razza dominatrice, spesso richiamata dal diffusionismo più semplificante, erano ora possibili molte storie locali di popoli identificati guardando alla descrizione dei loro manufatti. Importanti per Childe erano però anche l'organizzazione della produzione, la distribuzione geografica dei reperti, l'idea di mercato in senso moderno, gli elementi di cambiamento e innovazione portati dall'esterno da mercanti, prospettori minerari, "missionari megalitici". Dei manufatti egli valutò il diverso potenziale informativo considerando migliore indicatore del gusto locale ed emico la ceramica d'uso, gli ornamenti e i riti, mentre armi e utensili erano ritenuti indizio di scambi commerciali. Il diffusionismo in Childe era quindi elevato a formidabile strumento di spiegazione e vi si affiancavano elementi evoluzionisti ben evidenti quando egli definisce la cultura «l'espressione materiale durevole di un adattamento a un ambiente, umano come pure fisiografico,

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che ha permesso a una società di sopravvivere e svilupparsi. Da questo punto di vista gli edifici, gli utensili, le armi, gli ornamenti e altri documenti conservati sono connessi tra loro come elementi di un tutto funzionante» (cit. in Cazzella, 1989, p. 36). In tal modo Childe superò le semplificazioni da lui stesso adottate in varie occasioni quando l'evidenza archeologica lo aveva spinto a parlare dell'importanza di un numero limitato di fossili guida o, addirittura, di siti tipici. Tra le due citazioni qui riportate non bisogna però dimenticare che erano passati vene' anni durante i quali Childe conobbe la teoria degli stadi, elaborata dagli archeologi sovietici come la regolare successione di mutamenti sociali già previsti da Marx, e quindi si avvicinò, oltre che all'evoluzionismo, al materialismo dialettico e al marxismo. Tali nuove idee non lo portarono comunque a rinnegare il diffusionismo che, in quanto leggibile nei fatti, per lui «non poteva essere non marxista» (cit. in Trigger, 1996, p. 272). Nel complesso l'impatto dell'opera di Childe fu enorme; per fare solo un esempio, Luigi Bernabò Brea dichiarò che non aveva capito nulla della preistoria europea prima di averne letto le opere, e termini come rivoluzione neolitica e rivoluzione urbana, con tutto il loro potenziale di ricostruzione storica, per decenni sono stati d'uso comune. Così, per il suo essere insieme strumento di organizzazione dei dati e strumento per interpretarli, la definizione di cultura data da Childe divenne uno dei paradigmi più forti tra quelli utilizzati dagli archeologi non classicisti nel xx secolo. Esso è stato adoperato dai preistorici europei per tracciare storie di una grandiosità e di un'articolazione prima impensabili; è stato adattato dai medievisti allo studio dell'archeologia barbarica legando fra loro territorio, razza e corredo sepolcrale; è stato impiegato dagli archeologi americani per redigere liste tipologiche in cui il dato etnografico non è distinto dall'archeologico e si finisce così con il sottolineare la continuità culturale dei popoli nativi. Più recentemente il concetto di cultura archeologica è statoripreso dai New Archaeologists, che ne accentuano l'aspetto ambientale adattivo, mentre laddove la tradizione storiografica è forte, come in Italia e Germania, esso è tuttora usato per distinguere le varie comunità dell'età dei metalli che per secoli hanno occupato le stesse aree geografiche, sono ricordate dalle fonti scritte, hanno lingue distinte attestate dall'epigrafia (venetico, leponzio, etrusco, retico) e di cui, per inciso, si privilegia quasi sempre lo studio dei manufatti di pregio e quindi delle élite.

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3. CONSOLIDAMENTO E TRADIZIONE

RIQUADRO

S

Definizioni antropologiche di cultura Tutt'oggi, quando utilizzano il termine cultura, gli archeologi spesso inconsapevolmente uniscono una definizione pratica, riferibile a Childe, ed empiricamente impiegata fin dall'Ottocento, al significato più generale caratteristico dell'antropologia. In un importante lavoro Kroeber e Klukholn hanno distinto più di cento diverse definizioni antropologiche di cultura raggruppabili in diverse categorie di significato e, in particolare, cultura come ereditarietà, come apprendimento, adattamento, comportamento accettato, fenomeno specifico di un dato settore o di determinate persone. La situazione è quindi complessa al punto che molti archeologi preferiscono non utilizzare tale termine, che può generare confusioni, sostituendolo con altri, ad esempio facies archeologica. Questa strada è però sostanzialmente impraticabile non solo perché molte "culture" sono ormai entrate a far parte del gergo (cultura del vaso a bocca quadrata, di Rinaldone ecc.), ma perché un nuovo termine non garantisce che se ne faccia un uso migliore. Guardando alla storia del termine cultura, in ambito antropologico è possibile riconoscere nel 1871 un momento fondamentale: Edward B. Tylor in Primitive Culture ne propose difatti una definizione evoluzionistica intesa come «l'intero complesso che include conoscenze scientifiche, credenze religiose, arti, idee morali, leggi, usanze e altre capacità e abitudini acquisite dall'uomo in quanto membro di un certo tipo di società» (cit. in Trigger, 1996, p. 171). Ciò significa riconoscere a tutti gli uomini, compresi i primitivi, la possibilità di fare cultura, l'esistenza di tante culture quante sono le società, il pensare la cultura come un insieme totalizzante con parti "logicamente" e funzionalmente collegate e comprendente quanto riconducibile sia alla vita pratica sia alla concezione del mondo. Tale definizione ben si sposa perciò con quella descrittiva di Childe, essendo ambedue definizioni normative che considerano la cultura come un insieme di comportamenti, credenze e idee a cui, in un dato contesto, è riconosciuto un valore sociale.

La cultura di Childe, intesa come l'insieme delle caratteristiche diagnostiche e quindi il vasellame, l'abbigliamento o l'abitazione tipici di un dato gruppo, essendo osservabile, in più casi è alla base del contributo che gli archeologi hanno spesso offerto al concetto di nazione. A tale proposito è stato rilevato che Childe scrisse negli anni in cui era maggiormente forte il nazionalismo con l'uso politico dell'archeologia chiamata a testimoniare la passata grandezza della Roma fascista, della polacca Biskupin, della gallica Alesia, della spagnola Numanzia e

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perfino del centro di Teotihuad.n in Messico; un uso politico dell'archeologia storico-culturale che oggi sopravvive ancora in quelle situazioni postcoloniali dove la lotta per l'autodeterminazione si combatte con ogni mezzo, compreso quindi un paradigma vecchio, ma efficace e di cui, in quei casi, non vale la pena cogliere i limiti. Con il passare degli anni il paradigma espresso da Childe non solo è stato ampiamente vagliato, ma è riuscito spesso ad arricchirsi proprio grazie alle critiche che non lo hanno mai completamente superato. Da più parti si è ad esempio notato che le delimitazioni culturali non sono mai nette e che il potenziale informativo caratteristico delle diverse classi di manufatti va meglio valutato; si è riscontrato che quasi sempre esistono elementi comuni a più culture e altri maggiormente specifici; si è verificato che nessuna cultura, per piccola che sia, è esente al proprio interno da differenziazioni, così come nessuna cultura, per grande e isolata che sia, è esente da rapporti con le altre. In breve, le culture non possono essere considerate insiemi monolitici e fra situazioni distanti si collocano quasi sempre dei mediatori culturali rappresentati sia da persone, ad esempio i viaggiatori di professione, sia da oggetti che funzionano da tramite, talvolta differenziando e talvolta invece favorendo l'integrazione. In molti casi si è anche visto che cultura archeologica ed ethnos - inceso come l' autoriconoscimenco di sé come parte di un gruppo - spesso non coincidono affatto e non possono essere confusi; omogeneità di manufatti, lingua o religione potevano essere, anche nel passato, caratteristica di situazioni multietniche.

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4

Scetticismo e scoperta del tempo

4.1

Un paradigma inespresso A metà del xx secolo l'archeologia si trovava in una condizione singolare. Aveva rifiutato il razzismo e l'evoluzionismo, non riteneva possibile, con i propri dati, affrontare il mentalismo di certa etnografia né la ricerca degli aspetti non materiali della cultura, evitava l' approfondimento di ricostruzioni economiche ( il marxismo era ridotto a ortodossia ali' Est e criminalizzato ali' Ovest), non forzava lo studio dei reperti in chiave scientifica. Nonostante gli stimoli che venivano da più parti, la grande maggioranza degli archeologi era impegnata a raccogliere dati per un elementare gioco degli scacchi dove - per usare le parole di Glyn Daniel - le pedine sono le culture, o per una storia dell'arte spesso ridotta a classificazione meticolosa di reperti attribuibili a produzioni di serie e d'uso comune. Quasi sempre il ricorrere alle fonti scritte concorreva a decretare uno status di subordinazione dell'archeologia alla storia. Di questo periodo e dell'archeologia come semplice raccolta dati, un "non paradigma" o forse, ancora meglio, un paradigma inconfessabile, il citato archeologo inglese Glyn Daniel oltre a esserne un protagonista, fu lo storico e, se non lo spirito critico, perlomeno l'analista. Daniel difatti riconosceva l'impotenza di un'archeologia che troppo poco ricavava dai propri dati e utilizzava le culture di Childe come un trucco utile a collegare manufatti e territori in assenza di datazioni precise. Fondamentale era in tutti i casi una dettagliata ricostruzione delle cronologie e per fare ciò si continuava sulla strada indicata da Thomsen - il paradigma delle tre età- e il solito Daniel (1982, p. 181), ancora agli inizi degli anni ottanta, evidentemente insoddisfatto, esprimeva quello

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che per lui continuava a essere il motto dell'archeologia preistorica, ovvero che « spesso, ahimè, non sappiamo le risposte». Per fortuna già intorno alla metà del secolo, in anni caratterizzati da scetticismo e perdita di fiducia, una rivoluzione si era compiuta. Essa avrebbe cambiato radicalmente non solo il quadro di riferimento cronologico generale, ma il modo di guardare ai reperti e al tempo storico. Prima di affrontare tale questione bisogna però ricordare alcuni sviluppi che contribuirono al sorgere dei paradigmi più recenti.

4.2

Nuove idee marxiste ed evoluzioniste Nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale l 'archeologia di derivazione marxista era ben viva, sia nei paesi del cosiddetto socialismo reale, sia in altre aree. Diversamente dagli studiosi di altre discipline, gli archeologi non potevano contare su chiari principi dettati direttamente da Marx, Engels, o tantomeno Lenin, e procedettero quindi all'adozione acritica degli schemi evoluzionistici basati sulla proprietà dei mezzi di produzione e al ricercarne conferma archeologica. Grande attenzione fu posta allo studio dei manufatti, evitando però lo sviluppo degli studi tipologici ritenuti di derivazione borghese e idealista, considerando che i mutamenti leggibili nella documentazione materiale fossero quasi esclusivamente la conseguenza di cambiamenti interni: da ciò l'interesse per la tecnologia e l'ambiente, ma non per i contatti interculturali né, tantomeno, per i temi cari all'archeologia occidentale, come diffusione e migrazione. Nell'Europa occidentale, solo a partire dagli anni settanta gli archeologi marxisti assunsero un ruolo significativo contribuendo a un dibattito storiografico in cui, con fatica, si andò oltre la discussione dogmatica e scolastica, se non pedante, dei sacri testi. In particolar modo in Italia e in Francia la lezione marxista venne comunque maturando e si riconobbe che, per analisi di lunga durata, la contrapposizione struttura-sovrastruttura andava meglio definita riconoscendone la complessità. Si scoprì che nell'antichità, e in genere nelle società prestatali, i rapporti di parentela in molti casi sono anche rapporti di produzione e quindi, allo stesso tempo, struttura e sovrastruttura. Di ciò, in effetti, vi era qualche accenno nello stesso Marx e, coerentemente, Maurice

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4. SCETTICISMO E SCOPERTA DEL TEMPO

Godelier riconobbe che la parentela non era solo un rapporto di subordinazione, ma più generalmente un rapporto sociale ed educativo nel segno della tradizione, al punto da dirsi plurifunzionale e plurideterminato e per questo di grande importanza. La struttura non è più quindi intesa come la sola produzione, ma in essa vi è « fusione intima, senza confusione» di componenti diversi. Lo stesso concetto di classe venne posto in discussione e lo studio dell'economia antica affrontò perciò questioni sociali come, ad esempio, i fattori distintivi di ordini, caste, status. Nella logica marxista le cause principali del cambiamento restano comunque da ricercarsi nei rapporti di produzione, non più considerati isolati, e dando maggiore importanza, oltre che ai sistemi di scambio, anche a fattori ecologici, demografici, politici, sociali e, perfino, religiosi. Il tutto confrontandosi con altre discipline, e in particolare con la storia, la geografia e l'antropologia. Sul piano pratico, una conseguenza non secondaria dell'ideologia marxista fu l'aver riconosciuto l'importanza dello studio delle produzioni quotidiane e dei cosiddetti "senza storia", adottando una visuale dal basso che ha anche portato a riconoscere come, al fianco di una sovrastruttura dei ricchi, esisteva anche una sovrastruttura dei poveri, degli sfruttati, dei colonizzati. Temi ricorrenti fra gli archeologi neomarxisti furono la schiavitù nel mondo antico, il rapporto città-campagna, la distinzione fra il valore d'uso e il valore di scambio dei diversi manufatti, il ruolo del commercio. Negli ultimi decenni, e dopo la caduca del muro di Berlino anche nei paesi ex comunisti, gli archeologi marxisti si sono sempre più aperti alle idee esterne, sviluppando la ricerca tipologica, migliori seriazioni cronologiche, abbandonando schemi di sviluppo unilineare, affrontando criticamente il confronto con le nuove tendenze provenienti dal mondo anglosassone. Un interesse crescente è stato quindi rivolto ai problemi dell'interpretazione, non più risolta né con l'adesione alla vecchia ideologia di regime né con gli schemi narrativi storico-culturali, ma tutta da costruire. Tornando però agli anni cinquanta, si deve ricordare un'altra scuola, detta evoluzionismo (o neoevoluzionismo) culturale, che muoveva da posizioni marxiste con lavori che influenzeranno profondamente la nascita della New Archaeology e non solo. I principali esponenti furono Leslie White e Julian Steward, oltre al più giovane Marvin Harris di cui si dirà più avanti. Al primo si deve la definizione di cultura come meccanismo di adattamento extrasomatico in cui è fondamentale il

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ARCHEOLOGIA TEORICA

ruolo giocato da varie costrizioni di carattere tecnologico ed economico, mentre per il secondo sono maggiormente importanti i condizionamenti ambientali. In ambedue i casi, pur evitando le questioni dialettiche connesse alla lotta di classe, la tendenza è nettamente materialista e determinista al punto da far sostenere che «il grado di sviluppo culturale varia in modo direttamente proporzionale all'efficienza degli arnesi impiegati, altri fattori rimanendo costanti» (White 1959, cit. in Harris, 1971, p. 858). In pratica, oggi è facile rilevare il pericolo di un riduzionismo rozzo e non rispettoso della complessità culturale, con società pensate stabili solo perché le risorse non cambiano per lunghi periodi. Del resto, in quegli anni, le critiche all'uso della storia culturale come sostitutiva della storia politica - con le migrazioni al posto delle battaglie e i reperti tipici al posto degli uomini di governo - avevano già portato al funzionalismo inteso quale studio descrittivo di "come gli uomini vissero nel passato": la sussistenza, la tecnologia, la demografia. In alcuni casi, l'attenzione all'ambiente era cresciuta fino a far parlare di un "piccolo terremoto geografico-ambientale" destinato a svegliare anche i più sonnacchiosi archeologi tradizionali, ma così non fu. In molti neppure si avvidero del terremoto e altri ne trascurarono gli effetti. A distanza di tempo, grazie anche allo sviluppo di una più generale sensibilità ecologista, l'interesse per i temi connessi ad ambiente e territorio crebbe e, fra i risultati importanti e duraturi di queste tendenze, vi è l'attenzione per gli studi botanici e zoologici e la caratterizzazione dei territori antichi. In questa logica, da un lato si sviluppò una sorta di storia economica dei modi di vita nella preistoria, con la scuola di Paleoeconomy e i suoi metodi deterministi di studio delle risorse - ad esempio la Site catchment analysis - dall'altro, presero campo le ricognizioni di superficie.

4.3

La sostanza del passato Fra gli archeologi, e in particolare fra gli specialisti del Vicino Oriente e i protostorici, a partire dagli anni cinquanta ha avuto un rilevante impatto la teoria economica sostantivista riconducibile al lavoro di Karl Polanyi (1886-1964) o, più in generale, ai cosiddetti primitivisti. Una teoria che rifiuta una visione continuista e unificante della storia e che,

72.

4. SCETTICISMO E SCOPERTA DEL TEMPO

invece, ritiene necessarie nuove categorie concettuali appositamente costruite per lo studio dell'antichità e non derivate da quelle in uso nella società attuale. Polanyi contesta difatti l'idea che al centro della storia vi siano le regole di mercato e ritiene invece fondamentale l'economia sostanziale, così chiamata perché è quella che davvero soddisfa i bisogni umani fondamentali. La questione cruciale che differenzia i sostantivisti dai marxisti è il ruolo dell'economia nella società; i primi rifiutano difatti l'idea che alla base di ogni società vi siano i fatti economici ritenendo invece che nelle società primitive l'aspetto economico doveva essere inestricabilmente unito, o meglio compenetrato, al sociale e al culturale. I fatti che per i marxisti sono sovrastrutturali, e quindi secondari, per i sostantivisti sono invece fondamentali. In conseguenza della compenetrazione del sociale nell'economico, i sostantivisti ritengono che l'idea di sfruttamento possa non evolvere in contrapposizione di classe e rivalutano il ruolo dei ceti egemoni che forniscono alla collettività servizi non economici ma di carattere culturale o organizzativo, parimenti necessari al buon funzionamento complessivo. Per questo insieme di motivi, lo studio delle società primitive impone l'uso di categorie qualitativamente diverse da quelle utili per le società mercantili e capitaliste, in cui i prezzi sono determinati dalla legge della domanda e dell'offerta che giunge a influenzare tutte le sfere della vita sociale. I sostantivisti ritengono difatti lo scambio più importante della produzione e determinante per differenziare tipi diversi di società. Con l'aiuto di fonti storiche e osservazioni etnografiche, procedono quindi a distinguere società in cui vige la reciprocità paritaria, con grande importanza delle relazioni di parentela e doni ritualizzati destinati a sottolineare il rango di chi li fa e di chi li riceve, e società redistributive in cui un potere centrale controlla e ripartisce le risorse. Nelle prime lo scambio a lunga distanza precede storicamente lo scambio fra vicini, mentre nelle seconde si hanno sistemi di tassazione più o meno articolati ed esemplificati dai grandi imperi mesopotamici, l'antico Egitto, lo Stato incas, il feudalesimo medievale. Poco considerate sono invece le situazioni in cui prevale l'economia domestica, caratterizzata essenzialmente dall'autoconsumo, e ciò evidenzia come spesso la logica sostantivista finisca con l'occuparsi solo degli scambi più appariscenti e non di quelli quotidiani. Nel suo complesso, l'ipotesi sostantivista ha offerto agli archeologi un fertile schema in cui organizzare l'evidenza distinguendo i prodotti

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ARCHEOLOGIA TEORICA

di pregio dai beni d'uso quotidiano, guardando alla distribuzione territoriale dei manufatti, all'esistenza di recipienti idonei a contenere razioni redistribuite, a beni lussuosi o esotici interpretabili come doni fra potenti, all'esistenza di quartieri artigianali o amministrativi posti sotto il controllo di un'autorità centrale, alla gerarchia fra siti principali e siti secondari. Le possibilità di applicazione della teoria sostantivista si sono difatti rivelate molteplici e di particolare interesse per gli archeologi che si occupano dei periodi di transizione verso le società complesse, protostatali e statali. Per taluni il sostantivismo è quindi divenuto una sorta di paradigma operazionale in grado di fare leggere i dati grezzi e di classificare le società sulla base dei diversi sistemi di scambio. I critici, pur muovendo notevoli rilievi a questa impostazione, non ne hanno scalfito il nocciolo di fondo anche se è certo che, in date condizioni storiche, possano convivere scambi diversamente organizzati a seconda, ad esempio, dei beni veicolati e dello status dei partecipanti.

4.4

La scoperta del tempo: il C14 Per i sumeri e gli assiro-babilonesi il futuro sta dietro e il passato è davanti a sottolineare che capire il tempo significa capire il passato. L' attuale percezione del tempo, solitamente ritenuta caratteristica della specie umana, si basa invece su una visione continuista dal passato al presente e inconsciamente si rifà, quasi a titolo di unità di misura, alla durata della vita umana da cui deriva anche l'idea che molti processi storici si svolgano con nascita, crescita, maturità, declino e morte. Questo modo di vedere è, in effetti, un mezzo per organizzare le informazioni, ma non si deve dimenticare che l'attuale percezione del tempo potrebbe in futuro apparire irragionevole almeno quanto oggi sembrano le teorie creazioniste ottocentesche. Fin dal 1916 la teoria della relatività generale ha difatti dimostrato che l'esistenza dell'uomo si ha in un continuum spazio-temporale a quattro dimensioni, di cui una è il tempo, e ciò ha consentito ai fisici teorici di postulare come possibile sia il viaggiare nel tempo sia l'esistenza di mondi paralleli, questioni certamente lontane dall'aiutare nell'interpretazione del passato, ma tali da sottolineare che la nozione di tempo è un qualcosa di cui nella storia più volte è mutata la percezione: ad esempio, in conseguenza dell'adozione dei sistemi di misurazione che hanno condotto,

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4. SCETTICISMO E SCOPERTA DEL TEMPO

dall'istintiva percezione della stagionalità naturale, ai sistemi calendariali e agli orologi che misurano istanti altrimenti non avvertibili singolarmente. Per gli archeologi la fondamentale questione di "datare" i resti del passato è improvvisamente mutata con una scoperta rivoluzionaria verificatasi nel momento forse più giusto. Una scoperta che va oltre il senso comune e che si deve a Willard F. Libby, un fisico americano che nel 1949 datò resti organici misurandone il contenuto in carbonio 14, o carbonio radioattivo. Il metodo di datazione radiocarbonica inizialmente fece fatica ad affermarsi, e non solo per lo scetticismo di tanti archeologi, ma perché le date così ottenute ponevano in discussione un "giocattolo" apparentemente funzionante, anche se basato quasi soltanto sui confronti tipologici dei reperti. Nel 1960, anno in cui Libby ricevette il Nobel per la chimica, il metodo era comunque affermato e presto si scoprì che molti siti europei erano più antichi di quelli vicino-orientali da cui il diffusionismo li aveva fatti derivare: ad esempio, i templi neolitici maltesi e i megaliti nordeuropei risultavano costruiti ben prima delle piramidi egizie. Il diffusionismo come spiegazione generale dei cambiamenti culturali a quel punto fu spazzato via e la cosiddetta rivoluzione del C14 obbligò a riscrivere la preistoria europea ricercando nuove cause per le trasformazioni storiche. Ciò, insieme ad alcuni lavori di archeologi funzionalisti, portò allo studio delle dinamiche interne a ogni società e quindi a quella che in seguito sarà chiamata archeologia sociale. Più direttamente connesse alla questione del tempo e all'utilizzo delle datazioni scientifiche si vennero poi a porre le questioni dell'effettiva contemporaneità di molti siti, in cui il rinvenimento di manufatti simili non garantisce che gli stessi siano stati attivi nel medesimo momento, della possibilità di riconoscere quadri sincronici del popolamento e di un dettaglio nella ricostruzione del passato che, prima di Libby, era del tutto impensabile.

4.5

I tempi della storia La scoperta della possibilità di datare scientificamente e con rilevante precisione i resti del passato ha cambiato la storia dell'archeologia, ma è evidente che, trattandosi di un metodo, lo stesso può impiegarsi anche riduttivamente, con il fine di puntualizzare meglio solo alcuni

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RIQUADRO

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Periodizzare Datazioni, contemporaneità di oggetti e fenomeni, tempi della scoria. Olcre a questo, l'archeologo ha a che fare con il tempo quando periodizza o, per dirla più chiaramente, quando distingue fasi, periodi, età, da un prima e un dopo che ritiene differenti. Separa, cioè, l'età romana dalla preromana e dalla medievale, o seziona l'età del bronzo in mille frazioni. Per farlo, ovviamente, ci si muove nel solco della tradizione disciplinare e si segue il ritmo degli oggetti e le informazioni desunte dalle fonti: la comparsa di un determinato tipo o forma ceramica, la notizia della caduta dell'impero. Sapendo che ogni momentaneo presente era fatto di tanti passati per cui, nello scavo di una casa postmedievale, si trovano, insieme, la selce preistorica riusata come pietra focaia, oggetti vecchi di qualche generazione, ancora nessuna conseguenza della scoperta dell'America. Studiando i manufatti e la durata della loro vita, l'archeologo è in grado di comprendere tutto ciò, ma poi proprio la tradizione disciplinare lo obbligherà a incasellarlo in un ambito determinato dove le relazioni fra cose (la selce preistorica usata con l'acciarino in ferro) o le percezioni delle persone, per manufatti vecchissimi, vecchi, rinnovati e nuovi (ma di utilizzo contemporaneo in quella casa), saranno compresse o mal percepite. E, perciò, molto spesso in archeologia si usano le cose (i reperti) per scandire il tempo e, molto meno, per informare della percezione che ne avevano le persone. Evidentemente, suddividere il tempo storico (con l'oggetto più recente che "data") significa delimitare spazi di relativa omogeneità creando limiti e discontinuità, ma correndo svariati rischi. È ad esempio vero che sviluppo della pastorizia ed erosione del suolo nelle valli mediterranee sono fenomeni associati, ma il primo fu un evento di breve durata e non necessariamente fu l'unica causa del secondo che ebbe, invece, uno sviluppo secolare. E, quindi, le due osservazioni vanno tenute distinte fintanto che, luogo per luogo, se ne stabilisca il rapporto. Oppure, si corrono alcri rischi quando alcune etichette finiscono con il separare ambiti di studio rendendoli compartimenti stagni, ognuno con propri specialismi, metodi e problematiche, facendo ad esempio dimenticare che età del ferro, età classica ed epoca assira sono partizioni cronologiche che, almeno in parte, indicano il medesimo periodo ma aree differenti. La scala delle osservazioni, e i motivi alla base delle suddivisioni cronologiche, sono quindi fondamentali e se il concetto di medioevo era adeguato per gli umanisti che lo consideravano sulla base di un pregiudizio classicista, è poi diventato insoddisfacente e si è dovuto distinguere alto e basso medioevo, ma anche un periodo tardoantico, un medioevo "classico" di XII e XIII secolo, un tardo medioevo che è quasi età moderna.

4. SCETTICISMO E SCOPERTA DEL TEMPO

Il proliferare delle partizioni cronologiche è per certi versi inevitabile, e segnala la maturità della disciplina, ma è qualcosa su cui vale la pena soffermarsi. Non tanto perché la periodizzazione determina partizioni accademiche e carriere, ma perché spezzettare la freccia del tempo per "datare meglio" significa spezzettare tutti quei fenomeni irrispettosi dei limiti cronologici imposti e dare talvolta eccessivo valore a fenomeni temporanei. E, forse, in molte occasioni è più interessante muoversi sul limitare di due periodi, cogliendo e cercando di spiegare i cambiamenti, che non asserragliarsi nello studio specialistico di un singolo momento di relativa omogeneità.

aspetti della ricerca, o può non considerarsi affatto come dimostra chi si ostina a ritenere errata la datazione radiocarbonica del telo sindonico di Torino - tradizionalmente ritenuto sudario di Cristo - al medioevo. Grossomodo negli stessi anni settanta, in cui la rivoluzione radiocarbonica si è diffusa, agli archeologi si offrivano però anche i risultati di un lavoro che, da tutt'altre direzioni, ha contribuito a ridefinirne obiettivi e paradigmi. Per dirla con Carandini (1979 ), lo storico francese François Braudel (1902-1985) scoprì difatti la «relatività del tempo storico», un fenomeno che certo non interessa ai fisici, ma che, insieme al concetto di struttura (in chiave non marxista), alla geostoria, alla storia globale e della mentalità, è una delle intuizioni più importanti a cui è giunto uno fra i principali esponenti della scuola delle "Annales". Intuizione, quella della relatività del tempo storico, che Braudel ha raggiunto lavorando a opere formidabili aventi per oggetto la storia a n dimensioni del Mediterraneo tra medioevo ed età moderna. Una storia che talvolta è detta sinfonica per la capacità di padroneggiare fonti diverse fra loro, ma tutte volte a ricostruire la complessità delle azioni dell'uomo. Proprio lavorando sulle fonti, Braudel rilevò come alcune raccontino storie di breve durata, ad esempio avvenimenti quotidiani, e altre narrino invece eventi di durata epocale. Egli perciò ritenne di poter distinguere tre diversi tempi storici, utili non solo per organizzare i dati, ma, ancor prima, fondamentali per capire la rilevanza dei diversi fenomeni. Entrata ormai nell'uso comune è la definizione di "lunga durata~ talvolta designata anche come storia immobile, storia pesante, inconsapevole, tempo geografico. È questa la storia dei fenomeni duraturi, come ad esempio il rapporto con l'ambiente che può rimanere inalterato per millenni o evolvere tanto lentamente che le persone non se

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 2.

Il senso del tempo

t Per gli uomini occidentali il tempo è rappresentabile con una freccia e il motto del borghese ottocentesco impegnato nella rivoluzione industriale potrebbe essere "Presto che è tardi". Nelle società tradizionali lo scorrere del tempo può invece rendersi con una clessidra: la breve durata si ripete a ogni capovolgimento con piccole variazioni che interessano i singoli granelli. Questo però vale nel caso di società bloccate e non per quelle che rischiano di apparire cali a causa del moto troppo accelerato deU 'osservatore; per rendere visibile il "loro" tempo è meglio l'immagine di un fiume che scorre, s'inabissa, s' impantana, riprende forza. Un fiume che può quindi avere diverse velocità, ma che non si ferma ed è sempre diverso pur potendo apparire sempre uguale. Di questo tempo composito è possibile fare la scoria.

ne avvedono. È la storia del clima, del cambiamento in senso evolutivo della stessa specie umana, del progresso demografico, ma anche la storia della mentalità, delle abitudini, del gusto, delle tecniche. Alcuni critici maliziosi hanno ritenuto che la lunga durata possa costituire un espediente per discutere di fenomeni per i quali non si riescono apredisporre descrizioni più dettagliate e ciò ha fatto equiparare la lunga durata a una sorta di presbiopia che affliggerebbe ad esempio i preistorici, costretti a vedere da lontano. In realtà essa è la chiave di lettura delle strutture profonde che in ogni società condizionano la vita degli uomini costretti a muoversi tra fattori che non padroneggiano. Sono queste strutture, intese come ciò che dura tanto a lungo da apparire immutabile per l'osservatore contemporaneo, che fanno dire a Braudel che gli uomini non fanno la storia, ma è questa a forgiarli. La lunga durata è quindi il registro su cui si collocano gli altri tempi della storia o, meglio, è l'armatura che tutto regge. È la storia di molti processi lenti in cui è impossibile cogliere un inizio e una fine, ma che in seguito si rivelano importanti anche se tutt'altro che rivoluzionari per coloro

4. SCETTICISMO E SCOPERTA DEL TEMPO

che li vissero: la neolitizzazione, la nascita delle città, la formazione dei primi Stati. Per inciso, scoprire l'esistenza di fenomeni tipicamente di lunga durata può significare che, in certi casi, non sono importanti datazioni di grande precisione: se un tipo di utensile resta inalterato per più secoli, può ad esempio essere inutile, oltreché difficile, cercare di datarne i vari esemplari ritrovati. La media durata con i suoi cinque, dieci o cinquant'anni è invece il tempo sociale (ed economico e politico) lentamente ritmato da congiunture di cui gli uomini possono avere percezione; è la crisi per il diffondersi di una malattia, il cambiamento portato da nuove idee o da persone straniere o da rilevanti fatti di carattere economico e sociale. La breve durata è il tempo individuale, episodico, in cui avvengono "fatterelli" che, visti da lontano, incidono poco sul corso della storia pur avendo grande impatto sulla vita dei singoli. È l'evento riportato con clamore dal cronista, ma anche lo strato di crollo o di incendio improvviso rilevato dall'archeologo. Eventi interessanti, ma di valore limitato fin quando non si ripetono, divenendo organizzabili in serie ordinate di dati coerenti (FIG. 2). Tutte insieme le diverse durate possono poi acquistare maggior senso se sono collegate in una storia comparata che non solo unisce al tempo lo spazio, ed è definita da Braudel geostoria, ma che evidenzia il contemporaneo svolgersi di fenomeni aventi diversa velocità: ad esempio, rapida evoluzione del gusto, percepibile guardando ai decori di alcuni manufatti, mentre il sistema sociale si evolve più lentamente e senza che nessun cambiamento si abbia nel modo di produzione o nel clima o quant'altro. Braudel nota anche, ed è osservazione utilissima, che gli storici godono di «insostituibili vantaggi» perché a distanza di tempo possono riconoscere quali avvenimenti del passato hanno avuto conseguenze rilevanti e quali no, così da scegliere i settori di studio da privilegiare al fine di comprendere sia i cambiamenti epocali sia i fattori di stabilità.

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s La New Archaeology

5.1 Un'archeologia ottimista Con il termine New Archaeology si designa un movimento culturale affermatosi negli anni sessanta nei campus americani in contrapposizione all'archeologia tradizionale. Il suo principale esponente è stato Lewis R. Binford e la data di nascita di una teoria che ha scosso il mondo sonnacchioso delle università può porsi nel 1962, con un articolo dal titolo Archaeology as Anthropology. Quello che si descriverà più avanti come un vero e proprio nuovo paradigma ovviamente aveva degli antecedenti, ma negò ogni legame con il passato ritenendo che la strada intrapresa sarebbe stata senza ritorno e tale da giungere a un'archeologia scientifica, antropologica, moderna. A distanza di tempo si deve però rilevare che così non è stato; al di fuori del mondo anglosassone molti archeologi non hanno modificato in alcun modo le proprie opinioni e tantomeno il loro procedere, quasi che la rivoluzione propugnata da Binford, e ben presto designata anche come archeologia processuale, fosse un tornado passeggero e che interessava solo le praterie americane. Altri, con maggiore intelligenza e acume critico, hanno invece cercato di cogliere i limiti propri della New Archaeology, sia per porvi rimedio, sia per contrapporvisi percorrendo nuove strade. Nel tentare di delineare i caratteri salienti della New Archaeology non si può evitare di premettere che il compito è tutt'altro che semplice; si è trattato di un movimento niente affatto unitario e i suoi membri, una volta dimostrato che il re è nudo, hanno poi violentemente polemizzato fra loro, cambiato opinione, contaminato l' impostazione iniziale con idee diverse. Per dire della complessità della

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New Archaeology basti ricordare che, se il già menzionato atto dinascita del movimento è un articolo del 1962., Binford, il padre-padrino incontrastato e indiscusso, già nel 1983 aveva confermato che la sua ricerca aveva preso «negli ultimi due decenni, un sentiero spesso divergente da quello della New Archaeology» (Binford, 1989, p. 133). Questo a dimostrare un ripensamento parziale, ma di grandissima intelligenza, di un uomo che certamente non può essere visto come colui che, lanciato il sasso, si ritrae dall'arena delle polemiche conseguenti. Proprio a quel volume del 1983, l'unico contributo di Binford tradotto in italiano, ci si rifarà del resto per molte delle osservazioni seguenti; in esso il "Binford pensiero" è difatti scremato dalle ingenuità originarie e offre probabilmente il meglio di sé. Nella Premessa a tale volume Colin Renfrew (ivi, p. 7 ), notando tra i difetti della New Archaeology l' iniziale assenza di un corpus teorico coerente, dichiara la propria ammirazione per il lavoro di Binford, « un tipo di archeologia pratica, vissuta in maniera totale, in cui le idee e tutto ciò che si riesce a comprendere del passato viene vagliato e modificato attraverso esperienze dirette» (corsivo di Renfrew ). Nel tratteggiare brevemente la storia dell'archeologia, Binford distingue un Periodo dei cimeli e dei monumenti, con attenzione ai fossili guida, alle cronotipologie e alle distribuzioni geografiche, e un Periodo del manufatto e della collezione, intendendo in questo caso l'associazione di reperti alla base delle culture archeologiche come definite da Childe. Tutto questo era ritenuto insoddisfacente dai New Archaeologists che attaccavano l'archeologia tradizionale perché la ritenevano non in grado di comprendere il funzionamento delle società del passato, ma limitata nei casi migliori alla descrizione dei modi di vita. Essa era considerata ferma alla raccolta e descrizione minuziosa di sempre nuovi reperti da accumulare per future ricerche a cui rinviare, indefinitamente, lo studio dei contesti sociali di provenienza. A quell'archeologia si rimproverava l'incapacità di valorizzare i dati, la mancanza di fondamenti teorici (un "lungo sonno"), le generalizzazioni non dimostrabili, il porsi come ancella della storia e delle fonti letterarie. Essa, in tal modo, sarebbe potuta giungere solo a ricostruzioni storiche non sufficientemente provate perché i dati non vengono "testati': ma più semplicemente selezionati e usati per confermare opinioni ritenute corrette a priori. Opinioni solo apparentemente plausibili, come il ritenere caratteristico del genere umano ciò che è invece proprio delle società in cui gli archeologi vivono: predilezione

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per la vita sedentaria, istinto "vitalistico" a ricercare forme migliori di vita e quindi a incrementare la produzione di beni, la specializzazione artigianale, la differenziazione sociale. Binford, per sottolineare il proprio diverso modo di essere archeologo, ricordava con quanta difficoltà aveva dovuto spiegare a un conoscente che il suo lavoro non consisteva nel trovare cose prima mai viste e che, per il successo, non poteva quindi contare sulla fortuna, ma sul metodo. Similmente, la distanza da quella che si può definire archeografia tradizionale, e che Binford associa al feticismo, è resa con il racconto della fine riservata a un coccio che, per la qualità del decoro, aveva suscitato grande entusiasmo in uno studente: fu distrutto schiacciandolo sotto i piedi. A tal proposito si deve oggi rilevare che, guardando alla situazione italiana, la difficoltà di spiegare il "mestiere dell'archeologo" ali' opinione pubblica è purtroppo rimasta invariata, ma a causa dell'imprinting storico-culturale che caratterizza ogni archeologo cresciuto in Europa non si può negare un po' di curiosità per quel coccio. Benché la rivoluzione non potesse aspettare, viene quasi da pensare che Binford, prima di distruggerlo, avrebbe almeno potuto fotografarlo.

5.2 Scienza e legge Già prima della rivoluzione portata da Binford, l'insoddisfazione per il modo di ragionare caratteristico dell'archeologia tradizionale era sostanzialmente condivisa anche dagli storici che, spesso a torto, evitavano di utilizzare gli esiti delle ricerche archeologiche ritenendole opera di collezionisti privi di metodo. Dagli anni sessanta, merito dei New Archaeologists fu il passare dall'insoddisfazione generica e da critiche sterili alla proposizione di un modo del tutto originale di ragionare in archeologia. Un modo che era nuovo perché nato in un contesto storico nuovo e in un paese fino ad allora considerato marginale per la storia dell'archeologia. Alla fine degli anni cinquanta la scoperta delle datazioni radiocarboniche sembrava preludere non solo alla soluzione del fondamentale problema di datare i resti antichi, ma anche a un periodo in cui la scienza applicata all'archeologia avrebbe potuto dare certezze fino ad allora inimmaginabili. Più in generale negli Stati Uniti erano quelli gli anni della presidenza Kennedy, della conquista della Luha, del movimento studentesco. All'entusiasmo per la prudenza, tipico degli storico-cui-

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turali, si sostituiva ora l'entusiasmo di affrontare sempre nuove sfide interpretative e la presunzione di poterle finalmente risolvere. In questo clima la New Archaeology si affermò rapidamente nelle università americane al punto da fare poi designare Binford con l'appellativo, non propriamente amichevole, di Mafia. L'ottimismo era un paradigma che pervadeva ogni ambiente scientifico mentre statistica e informatica, insieme, sembravano essere gli strumenti indispensabili per padroneggiare in modo automatico grandi quantità di dati. I computer che avevano guidato l'uomo fin sulla Luna potevano aprirgli la strada nel passato. Sul piano teorico i New Archaeologists facevano riferimento alle opere del filosofo della scienza Carl G. Hempel e quindi a una vecchia idea di scienza che riteneva possibile formulare delle vere e proprie leggi generali del comportamento umano da verificare con studi di carattere ipoteticodeduttivo dell'evidenza archeologica. Leggi che, al pari ad esempio della forza di gravità, si pensavano universali, astoriche, indipendenti dal singolo caso cui sono applicate e, quindi, dalle scelte di singoli individui o gruppi. Il retroterra di questa impostazione è ovviamente riconoscibile nel positivismo ottocentesco che prevedeva di poter procedere, con metodi sperimentali, alla verifica di ipotesi formulate esplicitamente. Si sa però che il positivismo può scivolare nello scientismo, in altre parole in una fede cieca nelle possibilità della Scienza, con la S maiuscola, mentre si è poi scoperto che la scienza è anche il saper dubitare. Esempi di alcune delle leggi proposte dai New Archaeologists possono essere le seguenti asserzioni. Legge del minimo rischio: fra le tante alternative possibili prendere la decisione che minimizza i rischi. Legge del minimo sforzo (o della pigrizia): sfruttamento razionale delle risorse, sedentarizzazione dei nomadi in aree ricche di beni naturali, invenzioni, compresa l'agricoltura, mirate alla riduzione del lavoro. Legge di proporzionalita diretta fra complessità tecnologica, organizzazione sociale, pratiche di consumo. Per la loro apparente ovvietà le leggi furono presto etichettate come buone solo per Topolino (Mickey Mouse Laws) e Kent Flannery, il più caustico fra gli stessi New Archaeologists a cui si deve tale definizione, scrisse che Binford nutriva i propri studenti con pochi pani e pochi pesci e che la tendenza era o per un approccio dogmatico, tipo law and order, o per un approccio Serutan, nome di un lassativo che naturalmente regolarizza (e che, letto al contrario, diviene Natures richiamando alla mente quanto per i New Archaeologists fosse importante il determinismo ambientale).

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A distanza di anni, e molte polemiche dopo, oggi si può sostenere che l'uso del termine "legge" fece certamente più danni che altro e va considerato per quello che fu: allo stesso tempo ambizioso e ingenuo, propagandistico e rovinoso. Esso non solo ha offerto infiniti argomenti ai critici, ma ha celato il fatto che, spesso, lo si doveva intendere come generalizzazione e regolarità del processo storico, come fa ad esempio Renfrew, il quale dichiara che le leggi sono la sua « bestia nera», non perché egli ami l'illegalità, ma perché riconosce che si tratterebbe di un comodo mezzo per fare storia se solo tali leggi esistessero davvero. Proporre l'esistenza di leggi del comportamento umano, in quanto imposizione normativa, è ormai considerata un'aberrazione, ma è altrettanto chiaro che le generalizzazioni empiriche riconosciute nei dati sono vere e le stesse eccezioni, in quanto tali, ne sono la conferma. Proprio a causa di queste ultime, le generalizza~ioni, che legano più variabili di diversa complessità, hanno valore probabilistico: il modo in cui si scheggia una selce, il corrispondere l'attrezzatura domestica a criteri di funzionalità, il trovarsi i castelli in aree sommitali, il rapporto fra siti dominanti e siti periferici, il rarefarsi di un materiale con la distanza dal centro di origine. Generalizzazioni che, per quanto possano apparire ovvie, non devono comunque essere considerate irrilevanti e che, invece, spesso sono verificabili sia sperimentalmente sia storicamente studiando più casi.

5.3 Cultura come adattamento Sgomberato forse un po' frettolosamente il campo dai temi relativi alle leggi e al proporsi della New Archaeology come scienza, è utile affrontare altri argomenti che solo in apparenza sono di livello inferiore. Temi ai quali i New Archaeologists, in effetti, non hanno dato un'impostazione normativa, ma processuale, attenta cioè alle dinamiche di cambiamento di più fattori ritenuti importanti per il funzionamento delle società del passato. Per questo la New Archaeology è detta anche "archeologia processuale" e si basa sul pensare alla cultura come a un sistema di adattamento extrasomatico in cui tutto si tiene in funzione dell'ambiente. Ambiente inteso soprattutto come luogo fisico e attribuendo quindi grande importanza alle risorse, al clima, ai caratteri del territorio e al loro variare sia per cause naturali sia per l' a-

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zione dell'uomo. È l'ambiente che condiziona non solo le scelte tecniche ed economiche, a partire dalla sussistenza, ma perfino l'ideologia e in questa logica il mutamento culturale è quindi ritenuto dipendere da fattori materiali che disturbano l'equilibrio adattivo comportando una qualche reazione e quindi un cambiamento. Il processo è perciò una catena di cause ed effetti ed esempio ne sono la colonizzazione di un territorio, lo sviluppo del commercio, il concatenarsi delle parti in un ciclo produttivo, il formarsi di un sito pluristratificato. Più in generale, pensando ai processi di cambiamento culturale, Binford definisce se stesso come «essenzialmente darwiniano» (1989, p. 275) e postula un principio di inerzia, inteso come la tendenza alla perpetuazione delle condizioni di vita fino all'insorgere di un problema. Proprio il pensare alla storia come a un mutamento evoluzionistico dal semplice al complesso (ad esempio dalle bande allo Stato), il valorizzare lo studio dei fattori di cambiamento, il rifiutare le spiegazioni storiche caratteristiche del vecchio modo avvenimentale di fare archeologia (con guerre, migrazioni, influenze culturali, invenzioni) è ciò che fece dire a Binford: «Archaeology is che past tense of anthropology».

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Teorie di medio raggio Come è ovvio i New Archaeologists fin dalle origini sapevano che in archeologia non sono possibili esperimenti scientifici se non nel chiuso dei laboratori rilevando i caratteri chimico-fisici dei diversi materiali. Ciò è quel che si chiama archeometria, o scienza applicata all'archeologia. Tuttavia, l'approccio ipotetico-deduttivo e quindi sperimentale non poteva ridursi a siffatte metodiche analitiche. Esso doveva essere rivolto a interi sistemi sociali perché erano questi gli obiettivi della ricerca e l'archeometria al confronto appariva come un nuovo tipo di feticismo, scientifico, utile, ma pur sempre feticismo. Per cale motivo, benché la New Archaeology abbia favorito le ricerche archeometriche, non sono certo queste a caratterizzarla. Due sono invece gli ambiti di ricerca in cui la New Archaeology si è più esercitata ottenendo di cambiare il modo di fare e pensare l'archeologia. Essi sono l 'etnoarcheologia e l'archeologia sperimentale. In sintesi, con la prima si intende lo studio archeologico di società o contesti viventi e non necessariamente riducibili all'osservazione dei soli

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cosiddetti primitivi attuali; con la seconda, il procedere a scopo di studio alla replica di procedimenti antichi. A queste Binford associa quella che definisce « archeologia delle zone storiche», intesa come lo studio di quelle situazioni in cui la documentazione (ad esempio fotografica o scritta) consente all'archeologo di ricostruire la vita di segmenti del passato. Al riguardo si deve però notare che cale settore di ricerca, oltre che meno frequentato, risente spesso di un'ingenua valutazione delle fonti non archeologiche e del loro rapporto con quelle materiali. L'interesse, per cui qui lo si richiama, è essenzialmente nel riconoscervi una certa affinità con l'approccio regressivo alla ricostruzione storica propugnato, in Europa, da archeologi genericamente materialisti o marxisti. L'archeologia sperimentale, se, come l 'etnoarcheologia, ha dovuto la propria crescita alla temperie processuale, in effetti è meno importante dal punto di vista teorico in quanto si limita quasi per intero al replicare tecniche e processi antichi. Essa si configura quindi come un esperimento ripetibile, condotto su materiali moderni e relativamente semplice. Binford affronta perciò il problema di passare dalla documentazione archeologica, che si conserva staticamente nel presente, alla ricostruzione dinamica del passato pensando che sia l'ecnoarcheologia a servirgli da stele di Rosetta. Lavorando fra gli esquimesi o studiando gli ultimi cacciatori raccoglitori, Binford documenta così le attività nel loro svolgersi: il formarsi di un accampamento, la stagionalità dei siti di caccia, l'evolversi dei fenomeni. Particolare attenzione è ovviamente rivolta a ciò che, a distanza di tempo, potrà diventare dato archeologico. Famosi a questo proposito sono i lavori dedicati alle ossa e alle alterazioni che subiscono per l'azione di animali e, ancor più, all'organizzazione spaziale all'interno dei siti con lo studio di situazioni che sembrano davvero universali: uomini seduti intorno a un fuoco, in azione in un'ampia area di lavoro, intenti al riposo o a piccole attività personali. A scala più ampia è da ricordare la sistematica comparazione, su base mondiale, delle attuali società di caccia e raccolta per ricavarne elementi utili alla comprensione delle società paleolitiche e non dimenticando il problema di come cali gruppi possano avere "inventato" l'agricoltura. Lo studio dei "processi dinamici nel mondo moderno" è quindi ritenuto fondamentale per l'elaborazione di specifiche middle range theories che, gettando un ponte fra presente e passato, consentano di capire le (altrimenti statiche) testimonianze archeologiche e metterle in moto. Più in generale, salendo in complessità, cali teorie di medio livello serviranno anche a collegare le osservazioni empiriche (i dati) a

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teorie più generali. Ad esempio facendo ritenere che sepolture infantili con ricco corredo siano testimonianza certa di società stratificate in cui il rango è ereditario e non acquisito nel corso della vita. Il lavoro di Binford e di molti altri etnoarcheologi è quindi eccezionale anche perché fin dal più basso livello documenta, con procedimenti espliciti e non intuitivi, quanto altrimenti si rischia di ipotizzare senza averne esperienza diretta. Esso ovviamente ha come difetto di fondo il proprio stesso indispensabile presupposto che quanto si registra nel presente sia, se non identico, perlomeno simile a quanto avvenne nel passato. Questo è certamente vero nel caso di processi chimico-fisici, come il formarsi di una stratificazione, ed è ragionevolmente ipotizzabile nel caso di azioni semplici, ma per molti comportamenti umani ciò non è sostenibile e, certamente, non si può accettare l'analogia di interi contesti sociali (gli esquimesi non sono i paleolitici). Forse per i primi uomini neppure si può ipotizzare che tornassero regolarmente ai campi base e ne configurassero gli spazi, potendo essere questa una conquista successiva, così come è noto che lo stesso genere di tracce può essere determinato da attività fra loro molto diverse. Famoso è a tal proposito il caso del Musteriano francese, dove la variabilità dei manufatti in selce, spiegata da François Bordes con il succedersi di gruppi culturali diversi, è stata invece interpretata da Binford come conseguenza dello svolgersi di attività diverse da parte di un solo gruppo. In questo caso la comparazione etnoarcheologica utilizzata da Binford non ha risolto il problema ma, ponendo in discussione il lavoro di Bordes senza poterne escludere la giustezza, ha ottenuto il risultato di attirare l'attenzione sulla possibile esistenza di altri fattori ancora non considerati.

5.5 Archeologia dei sistemi Con l'avvento della New Archaeology sono entrati nel vocabolario d'uso comune alcuni termini desunti da altre discipline e, fra questi, "modelli" e "sistemi" con tutti i neologismi da essi ricavabili, ad esempio modellizzare. Per i New Archaeologists la cultura è un sistema di adattamento costituito da diversi sottosistemi in relazione fra loro in maniera non dissimile da quanto avviene negli ecosistemi dove un qualsiasi cambiamento, ad esempio l'introduzione di un nuovo predatore, conduce a un nuovo

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equilibrio. I fattori costituenti i sistemi archeologici possono ovviamente cambiare a seconda di quanto si ritiene importante, ma solitamente sono sempre presenti, anche se con nomi diversi, i sottosistemi ambientale, demografico o del popolamento, tecnologico, economico e di sussistenza. Talvolta l'ambiente è considerato a parte e nei casi meno rozzi si dà anche spazio ai sottosistemi sociale (comprensivo della parentela), religioso, psicologico, linguistico visti comunque non per il loro aspetto puramente simbolico, ma per il contributo che danno al funzionamento dell'insieme; ad esempio, legittimando differenze di status o influendo sulle pratiche di sussistenza. In tal modo ogni parte del sistema è studiabile archeologicamente perché lascia qualche traccia: dai resti di pasto si deduce la sussistenza, dai vasi importati il commercio, dagli oggetti cultuali non il culto in quanto tale, ma il suo effetto sociale. I sistemi sono quindi una concettualizzazione arbitraria che ha il pregio di porre in relazione più fattori, e non singole cause (FIG. 3). Essi possono essere omeostatici, se prevedono meccanismi autoregolatori e conservativi, o dinamici se in continuo mutamento sia per fattori esterni che interni. Inoltre, nella dinamica dei sistemi è prevista sia la possibilità che alcuni sottosistemi cambino nella medesima direzione rafforzandosi (feedback positivo), con, ad esempio, l'incremento demografico che si accompagna allo sviluppo tecnologico, sia che l'uno contrasti l'altro (feedback negativo), come quando l'incremento demografico porta alla crisi per carenza di risorse alimentari. Talvolta la crescita eccessiva e rapida di un qualche sottosistema può anche portare al crollo complessivo e a sviluppi in direzioni inaspettate. Un esempio di tali casi, riconducibili alla cosiddetta "teoria delle catastrofi': è la crescita della produzione artigianale a cui segue incremento del controllo politico, crisi delle attività rurali, dipendenza dalle importazioni, crollo del sistema. Lo studio diacronico dei sistemi inevitabilmente tende ad avere un'impostazione evoluzionista o, a seconda dei casi, sostantivista o marxista, riconducendo in tali logiche anche cambiamenti conseguenti, ad esempio, a guerre o acculturazioni ed evitando quindi di ridurre le cause del mutamento al singolo evento o a spiegazioni diffusioniste. Il successo dell'archeologia dei sistemi è essenzialmente conseguenza dell'impossibilità di giungere a vere leggi del comportamento culturale e dell'accettare, come risultato della ricerca, il poter comunque porre fra loro in relazione più elementi di un processo. La creazione di modelli di società, intesi come rappresentazioni semplificate e predittive, consente così di "giocare" a modificarne parti per simulare

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FIGURA

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Esemplificazione di un sistema archeologico

Il sistema è rappresentato - anziché, come di prassi, con frecce - da molle e marchingegni che collegano le varie parti e rendono evidente sia la possibilità di effetti moltiplicatori sia i "freni" che facilitano il perpetuarsi dell'equilibrio.

ciò che potrebbe essersi verificato in passato e di cui magari non si ha documentazione. Ovviamente, in quasi tutti i casi, proprio per la parzialità delle informazioni archeologiche, è frequente l'utilizzo di dati etnografici. La debolezza dell'archeologia dei sistemi è stato rilevato essere in molti casi il ricadere nel funzionalismo (il sistema è ritenuto credibile solo perché la società funzionava, ma senza in realtà poter verificare se proprio in quel modo) o nel materialismo volgare con spiegazioni meccanicistiche e che, per quanto articolate, sono sempre simili fra loro anche quando trattano situazioni storicamente molto diverse. Altre critiche hanno poi rilevato che i sistemi sono inadatti a tenere nel giusto conto l'imprevedibilità degli individui, i loro diversi ruoli, i fattori culturali che possono andare contro la logica generale.

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5.6 Archeologia analitica L'inglese David Clarke (1938-1976) è stato spesso considerato vicino ai New Archaeologists, ma il suo lavoro ha tratti distintivi piuttosto marcati. Il grado di ortodossia di Clarke al "Binford pensiero" è in ogni caso poco rilevante, mentre è certamente utile richiamarne i contributi più significativi. Per iniziare si deve ricordare un articolo del 1973, Archaeology: The Loss ofJnnocence, in cui Clarke rileva l'assoluta necessità da parte dell'archeologia di farsi adulta acquisendo nuovi metodi e idee. Per divenire una disciplina matura essa deve avere un proprio caratteristico approccio rigoroso, spesso matematico, che non solo eviti terminologie implicanti giudizi di valore (ad esempio, per la ceramica termini come rozza, fine, rara, comune ecc.), ma che collochi al giusto posto ogni evidenza. Per fare questo, Clarke ritiene che alle statistiche e alle tassonomie numeriche debba associarsi la definizione di chiare entità archeologiche gerarchicamente ordinate. Al livello elementare egli pone l'attributo ossia la variabile che appare irriducibile essendo parte di un manufatto. Questo è detto «un comportamento "solido"» (Clarke, 1998, p. 74) per la possibilità di riconoscervi un elevato potenziale informativo in relazione sia a semplici operazioni, produttive e d'uso, sia ad aspetti non materiali e simbolici. A un più alto grado di complessità, cultura è un gruppo articolato e complesso ("politetico") di manufatti in un'area geografica limitata, gruppo culturale è una famiglia di culture collegate e affini, tecnocomplesso è un più ampio gruppo di culture che condividono una gamma di manufatti caratteristici di attività svolte nel medesimo contesto ambientale, economico e tecnologico. Ne è esempio l'Europa medievale fra il 900 e il 1200 che ha, tutti insieme, i caratteri di società urbana, feudale, a base agricola, con più lingue diverse in un ambiente climaticamente definibile come subatlantico. La definizione di un'entità così grande avrà ovviamente un contenuto informativo relativamente generico, ma storicamente importante per l'ampiezza del territorio e delle popolazioni che interessa; ogni entità piccola fornirà invece le informazioni di dettaglio. In questo quadro relativamente semplice Clarke riconosce la possibilità di differenziazioni interne, ad esempio con il coesistere di sottoculture etniche, regionali, occupazionali, e dà grande importanza alle variabili geografiche anche con analisi locazionali dei siti in relazio-

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ne ai caratteri del territorio. Per ogni entità, ad esempio la cultura, egli riconosce che non si tratta mai di un insieme di manufatti tutti uguali (gruppo monotetico ), ma di un insieme in cui ogni oggetto condivide con gli altri un certo numero di attributi, come la forma dell'orlo o il tipo di materiale, ma se ne differenzia per altri (gruppo politetico) e quindi occorre scegliere ciò che si ritiene significativo per l' appartenenza a un dato gruppo. Avere colto questo aspetto significa attrezzarsi per valutare la grandissima variabilità dei manufatti, rigettare l'idea del fossile guida, dare un posto a quelli che altrimenti restano inspiegati tipi ibridi o varianti di un'impossibile norma; in sostanza, prepararsi ad affrontare la complessità archeologica. Scopo dell'Archeologia analitica propugnata da Clarke è quindi l'individuazione di regolarità, limitazioni e tendenze nella scoria dell'uomo. E allora, «che vi sia o meno ordine nel mondo esterno [... ] non è rilevante per l'ordine deliberato che vi porta l'uomo e che viene fossilizzato nei suoi manufatti. Questo ordine è la chiave dell'archeologo per interpretare la cultura materiale delle società antiche; gli attributi selettivamente ordinaci, i manufatti e i complessi del passato racchiudono le percezioni e i concetti dei loro fabbricanti, un messaggio nel rumore del disordine» ( ivi, p. 348). Fondamentali sono quindi i metodi di elaborazione statistica dei dati e la rigidità di questo approccio è mitigata solo dal riconoscere che le eccezioni possono essere frequenti: si ritiene infatti che le proposizioni archeologiche abbiano quasi sempre valore solo probabilistico, sia in senso di frequenza (il 30% dei reperti è... ), sia di ragionevolezza (le asce a mano non possono essere usate per... ). A distanza di anni il contributo di Clarke, fortemente debitore dell'opera di Childe per il concetto di "cultura" che corregge in chiave maggiormente quantitativa anziché qualitativa, deve ricordarsi non solo per la definizione delle entità come inevitabilmente policeciche, ma per il tentativo di superare sia l'empirismo della vecchia archeologia sia gli ingenui determinismi di troppi colleghi.

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Behavioral Archaeology In ambito processuale uno degli autori che maggiormente ha focalizzato la propria attenzione su un tema specifico, ma di grande importanza, è l'americano Michael Brian Schiffer. Egli, con quella che definisce

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Behavioral Archaeology, mira alla costruzione di un ponte verso il passato e per farlo affronta innanzitutto la questione dei modi di formazione dei depositi. Diversamente da Binford, Schiffer rileva come questi non siano un reperto fossile delle attività svolte dagli uomini nel passato, ma la conseguenza di varie alterazioni e trasformazioni dei depositi archeologici per eventi culturali, che chiama C-transforms, e naturali o N-transforms. Schiffer non solo rifiuta la cosiddetta Pompeii premise, in altre parole il credere che gli strati d'uso siano situazioni inalterate ma, oltre alle trasformazioni successive all'abbandono, rileva quanto sia importante studiare i modi di formazione della stratificazione. Nello scavo di una casa abbandonata occorre difatti discriminare gli oggetti scartati e persi durante la vita nell'abitazione, quelli accantonati in previsione dell'abbandono, quelli definitivamente lasciati, quelli che sono esito di successivi eventi naturali, di rifrequentazioni più o meno saltuarie e di riusi, ad esempio, come immondezzai. Essi sono difatti la conseguenza di storie diverse riconoscibili guardando, insieme, ai caratteri della stratificazione e a quelli dei manufatti (funzione, valore, durata della vita). Nell'analisi della stratificazione Schiffer ritiene importante il riconoscere relazioni semplici e certe, utilizzabili in un modello processuale delle attività che prevede acquisizione di materiali, manifattura, uso, manutenzione, scarto, riuso e riciclo. In più occasioni il progetto complessivo di Schiffer è stato utilmente schematizzato in una sorta di tavola della legge Behavioral che si può riassumere in poche frasi: l'archeologia è lo studio delle relazioni comportamenti-manufatti; occorre procedere alla ricerca di spiegazioni scientifiche dei comportamenti; le domande scientifiche prevalgono su quelle storiche; necessita il concorso di strategie diverse e in particolare di ecnoarcheologia, archeologia sperimentale, archeologia preistorica e storica oltre al contributo di scudi etnografici e storici; fondamentale è la distinzione del contesto sistemico (ciò che esisteva) dal contesto archeologico (ciò che si è trovato); bisogna riconoscere i modi dell'avvenuta alterazione del record e studiare i cicli di vita dei manufatti. Negli scudi di cultura materiale Schiffer distingue quattro tendenze o strategie. Esiste innanzitutto il tradizionale approccio descrittivo dei modi di vivere (che cibo? che tecnica?) utile alla costituzione di una banca dati, ma non risolutivo di alcun problema (si dice che gli stessi New Archaeologists abbiano sostituito un nuovo insieme di cause espii-

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cative - ad esempio, modificazioni ambientali o riduzione delle risorse a spiegazioni vecchie come il diffusionismo, le migrazioni, le guerre). La seconda e la terza tendenza sono invece tipicamente Behavioral e ricercano leggi sia di natura particolare (tracce di un utensile, relazione abitanti-rifiuti) sia generale. Anche questioni complesse come la neolitizzazione o la formazione degli stati si ritengono affrontabili in chiave comportamentale ricostruendo il funzionamento di singoli settori d 'attività e con la consapevolezza che il variare di uno ha sempre come conseguenza il variare degli altri. La quarta strategia, anch'essa Behavioral, è lo studio del presente come nel caso del citatissimo Garbage Project (Progetto spazzatura) in cui sono stati studiati i rifiuti di una moderna comunità cittadina, o in tutte quelle situazioni dove è possibile utilizzare sia analogie etnografiche, ritenendo che vi sia una similarità culturale con il passato, sia l'approccio storico diretto laddove è accertata una discendenza lineare che rende valido il confronto. L'obiettivo ultimo di Schiffer è un'archeologia che sia disciplina coerente, con proprie leggi e teorie non derivate da altre discipline, com'è consuetudine di gran parte dei New Archaeologists, ma costruite studiando i contesti di più periodi. L'archeologia è quindi pensata come un ibrido fra la storia (le questioni) e le scienze dell'uomo (comportamento culturale e naturale). Per questi motivi, poiché la storia della cultura materiale è lo studio dell'interazione persone-oggetti, recentemente si è detto che la Behavioral Archaeology potrebbe soddisfare sia i processuali sia i loro maggiori critici postprocessuali e marxisti. In tutti i casi si considera che i manufatti siano pertanto l'esito di comportamenti che potrebbero dirsi pratici, senza per questo ridurli a una pura sequenza di contrazioni muscolari, ma che orientano e mediano processi ecologici, culturali, sociali e cognitivi. Poco convincente, anche tenendo conto degli sviluppi di altre discipline comportamentali, fra cui sociologia, psicologia e antropologia, appare invece il tentativo di una teoria comportamentale della comunicazione. Il richiamo è evidentemente a tendenze postmoderne, ma non sembra che questo registro si addica a Schiffer. Rilevare che un vaso informa circa alcuni caratteri della fornace, l'abito di alcuni caratteri della persona e la casa di quelli del clima non costituisce un grande progresso. È invece meglio ricordare che la forza della Behavioral Archeology è certamente da riconoscersi nell'attenzione allo studio dei processi di formazione della stratificazione e il considerarlo un mezzo, e non un fine, per studiare l'interazione uomini-oggetti. Il limite dichiarato è

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evidentemente nel ritenere a essa estranee le questioni designabili con parole problematiche come significato, senso, simbolo, intenzione, motivazione, valore, credenza, norma, mente, cultura.

5.8 Il materialismo culturale L'antropologo americano Marvin Harris è fra coloro che hanno maggiormente contribuito al dibattito sulla cultura materiale da una posizione non lontana da quella dei New Archaeologists e spesso assunta anche da altri archeologi che fanno affidamento a uno degli aspetti più facilmente desumibili dalle evidenze archeologiche: la tecnologia. I principi del materialismo culturale a cui Harris si richiama sono, in realtà, più complessi ed egli parla difatti di determinismo tecnicoambientale e tecnico-economico per indicare che, in situazioni simili, si ha un analogo sviluppo dei sistemi di produzione e distribuzione e che, in conseguenza di ciò, si determineranno anche analoghi sistemi sociali, di valori, di credenze. La storia delle diverse culture è quindi considerata prevedibile se soltanto sono noti caratteri ambientali, risorse, modo di produzione, livelli di sviluppo demografico. Alla base del comportamento umano Harris pone alcuni semplici principi: le persone per vivere devono mangiare e, in genere, prediligono diete ricche di proteine, calorie, grassi; le persone sono condizionate da stimoli sessuali, generalmente rivolti verso l'altro sesso; le persone non possono essere del tutto inattive, ma cercano di ottimizzare gli sforzi a parità di risultato. Scambio di sesso, scambio di cibo e scambio di informazioni - quest'ultimo avente per conseguenza la nascita del linguaggio - sono quindi all'origine delle prime formazioni sociali, i gruppi familiari, che mirano a garantire sicurezza di approvvigionamento e quindi, in estrema sintesi, benessere, felicità, amore. Tali stimoli all'azione condizionano l'evoluzione culturale degli uomini, che non sono nati per "dare e avere" come nella logica economicista moderna, ma che, proprio nel soddisfare i bisogni primari, finiscono con il creare le prime ineguaglianze sociali pur mantenendo rapporti interpersonali capaci di garantire la riproduzione e quindi il perpetuarsi inalterato della società. Il ricondurre tutto ai bisogni primari fa sostenere a Harris che, se nell'universo esistessero creature asessuate e non necessitanti cibo, queste, non avendone motivo, ben-

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RIQUADRO 7

Processare l'abbandono Nel corso degli anni l'archeologia processuale ha profondamente cambiato il modo di vedere eventi un tempo pensati semplici: ad esempio, costruzione di un edificio o di un villaggio, frequentazione, abbandono, crollo, seppellimento. Oggi, a tal proposito, si parla di processi e si riconosce che l'abbandono è una trasformazione, leggibile nella stratificazione, che inizia prima e finisce dopo il fatto in sé, spesso organizzata e graduale, in cui si hanno fasi intermedie con rifrequentazioni temporanee delle stesse o di altre persone (anche di generazioni successive legittimate a occupare il sito), con cambiamenti nelle modalità d'uso, in cui agiscono vari fattori fra cui le motivazioni che hanno dato il via allo spostamento o la distanza dal nuovo sito in cui il gruppo si è insediato. Per comprendere ciò, sembra necessario lavorare a diverse scale: dalle microstratigrafie nei diversi edifici allo studio del variare dei modelli insediativi a scala regionale chiedendosi che cosa, a livello sociale, possa avere comportato un abbandono che non può mai essere ridotto a un trasloco di vettovaglie. L'abbandono non è la conseguenza meccanica di guerre, degrado ambientale, malattie, cambiamento climatico o altra imposizione dall'esterno, ma, anche se imposto, deve essere studiato in quanto scelta della comunità che inevitabilmente pone in relazione ciò che ha, e ciò che è, con ciò che prevede sarà il futuro. Sul tema si noti quanto sia normale, anche nella precedente descrizione, l'uso di categorie nette in un universo di variazioni continue e, ancora più significativo, il ricorso a termini diversi a seconda di ciò che interessa al ricercatore; si usa abbandono se si è interessati alla partenza, migrazione se si guarda al reinsediamento, strategia se si tratta di piccoli gruppi, collasso se di gruppi complessi. Ciò, anche se inevitabile per rendere padroneggiabile la realtà, almeno a parole, non va dimenticato.

ché intelligenti, certamente non avrebbero né dipinto grotte (arte), né scambiato beni (economia). In questa logica universale, biologica ed evoluzionista la spiegazione dei fenomeni socioculturali è per Harris da ricercarsi in fatti di natura ecologica, economica (rapporto costi-benefici), tecnica o funzionale. Un esempio classico è quello delle vacche indiane che Harris ritiene siano considerate sacre, e non uccise per cibarsene, solo al fine di ottimizzare la produzione di combustibile (sterco), latte e forza motrice. La spiegazione rituale maschererebbe quindi il vero motivo per cui le vacche sono preservate in vita e cioè l'impossibilità, in quel clima, di condurre un efficiente allevamento di animali da carne. Gli individui sono pertan-

5. LA NEW ARCHAEOLOGY

to sempre ritenuti tanto abili nei comportamenti quanto ingenui e privi di libertà o di possibilità di sperimentare variabili adattive. Harris, pur dichiarandosi marxista, ritiene che il materialismo dialettico, basato sullo studio dei rapporti di produzione, sia un caso particolare di quello culturale in quanto tende a enfatizzare il ruolo della lotta di classe, che è invece una caratteristica esclusiva delle società statali più evolute. In tal modo egli evita di subordinare la dialettica materialista alla politica, opponendosi comunque, sul piano culturale, allo status quo e alla spiegazione idealista dei comportamenti. Questo, da archeologi, deve essere ritenuto un pregio, pur riconoscendo il rischio del determinismo tecnologico-ambientale che, secondo Carandini (1979) è tanto più forte proprio perché non ricondotto nella logica marxista. Inutile dire che Harris non affronta mai temi ideologici e sovrastrutturali se non per svelarne il retroscena materiale ed è aspramente contrario ai cosiddetti etnoscienziati, che definisce "mentalisti" in quanto erroneamente alla ricerca di regole simboliche del comportamento. A fronte di principi espressi con un raro vigore e con una scrittura persuasiva, che si sospetta in grado di rendere credibile qualsiasi spiegazione, i critici hanno facilmente rilevato l'estrema parzialità con cui Harris affronta ogni questione e il suo ritenere, pur senza indagarne altri aspetti, la spiegazione funzionale vera solo perché la società funziona. Ovvia anche la critica relativa al ridurre l'uomo a uno stomaco bipede in cui il problema di riempire la pancia sopravanza qualsiasi altra logica intellettuale. Da ciò la malevola definizione di materialismo volgare e il notare come l'accettare il principio del minimo sforzo significa spesso precludersi la possibilità di capire i veri motivi di scelte apparentemente irragionevoli. Se la parzialità è certamente una caratteristica distintiva del lavoro di Harris, si deve però rilevare l'utilità dell'approccio diacronico ai problemi che gli consente di stabilire uno stretto legame fra antropologia e archeologia. Paradossalmente, ciò viene però fatto senza occuparsi concretamente dei caratteri dei manufatti e delle condizioni materiali della produzione, con un atteggiamento comune fra gli antropologi attenti solo alla disamina di attività e comportamenti. Nonostante ciò, Schiffer indica i lavori di Harris come letture obbligate, oltre che divertenti, per ogni studente di archeologia in quanto esempio di studi diacronici e materialisti in cui sono distinti i comportamenti dai significati, i fatti dalle teorie.

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L'archeologia postprocessuale e contestuale

6,I Un'archeologia contro Thomas Kuhn, trattando delle rivoluzioni scientifiche, sosteneva che cambiare paradigma significa « afferrare l'altra estremità del bastone» e cioè capovolgere completamente il proprio modo di agire. Rispetto al paradigma processuale, questo è ciò che è stato ritenuto necessario fare dagli archeologi che, per l'appunto, si sono definiti poscprocessuali o, talvolta, contestuali. Benché poco interessino le questioni nominalistiche, è qui utile rilevare come il primo termine intenda sancire un'opposizione, che peraltro si sarebbe meglio resa con antiprocessuale, mentre il termine contestuale evidenzia un aspetto propositivo di questa tendenza sviluppatasi soprattutto in Gran Bretagna a partire dagli anni ottanta. Per comodità, di seguito si userà il termine poseprocessuale a indicare complessivamente una teoria dalle molte sfaccettature, ma che si riconosce nella critica ai New Archaeologiscs, in un proprio guru, l'inglese lan Hodder, e in Cambridge come centro di riferimento. Poiché il poscprocessuale si è caratterizzato inizialmente per il suo "essere contro", per descriverlo si può muovere proprio dalle critiche che Hodder e altri hanno rivolto alla New Archaeology e dalle roventi polemiche susseguitesi per anni nel totale disinteresse dell'opinione pubblica e della maggioranza degli archeologi classici (cfr. FIG. 4). Fondamentale è il rilievo sul non considerare importante il fatto che, in qualsiasi epoca, le persone impiegano parte del proprio tempo a fare cose inutili e non razionali, come, ad esempio, l'arte o gli ornamenti. Per i postprocessuali ciò va contro la realtà, in cui non solo funzionale e non funzionale stanno insieme, ma dove nessun oggetto può essere ri-

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 4

L'archeologia teorica negli anni ottanta

Le polemiche processuali e poscprocessuali (al centro) nel totale disinteresse dell'opinione pubblica (a destra) e degli archeologi classici (a sinistra). Fonte:Johnson (1999).

tenuto funzionale al cento per cento perché esiste sempre una qualche concessione all'apparenza e all'estetica. Influenzato dal postmodernismo che caratterizzava la contemporanea antropologia e più in generale l'intero dibattito culturale, il passo successivo a tale constatazione ha portato ovviamente a valorizzare gli aspetti non materiali del vivere sociale, al cercare di cogliere le credenze e i pensieri degli individui attivi nel passato, al ragionare sulla natura non scientifica dell'interpretazione archeologica, al ritenere impossibile testare le ipotesi e tantomeno le generalizzazioni che i New Archaeologists volevano dimostrare essere leggi. Se per la New Archaeology l'archeologia è scienza naturale, per i postprocessuali l'archeologia è scienza sociale e, per alcuni, è addirittura un'arte. Ai New Archaeologists viene rimproverato di ridurre la complessità culturale a semplice tecnica di sopravvivenza e l'uomo a un'entità biologica, cioè un individuo medio, ipotizzato rappresentativo della società e con una libertà limitata da leggi naturali e costrizioni sociali. I postprocessuali ricercano invece le testimonianze di ogni

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individuo che abbia un qualche ruolo sociale. In poche parole, essi sostituiscono allo studio della società quello degli individui che in essa si nascondono. La tendenza di fondo che caratterizza l'archeologia postprocessuale è costantemente volta a forzare la dimensione simbolica e sociale dell'evidenza così da evi tare di separare il materiale dall'ideale; quindi è ritenuto erroneo il credere che, per gli uomini del passato, il grano o gli animali fossero prima cibo e poi simboli, o che il territorio fosse percepito come una riserva di risorse e non allo stesso tempo come il luogo natio e abituale, fatto di ricordi e sentimenti. Affermazioni come "questo è un accampamento" sono ritenute possibili solo se si riesce a pensare "dentro" il passato; perfino dire che in uno strato si sono trovati ventitré denti non può ritenersi un dato oggettivo perché dipende dalle strategie di scavo e quindi dall'idea che si ha di ciò che si cerca. Sollevando questi problemi ai postprocessuali, è ovviamente stato facile rilevare i molti difetti della New Archaeology e ridicolizzare le leggi universali del comportamento ridotte a generalizzazioni spesso insostenibili. Perfino la semplice affermazione che vi è proporzionalità fra numero di abitanti e superficie insediata trova difatti eccezioni in campo etnografico e, comunque, se anche così non fosse, i postprocessuali possono a ragione sostenere che comunque ciò non prova che tale legge sia stata valida in passato. Questo senza neppure dover criticare i metodi o i modi di fare ricerca sul campo, ma, più radicalmente, evidenziando come gli approcci positivisti, evoluzionisti, funzionalisti e behavioristi siano per loro natura inadatti a cogliere la complessità sociale. Grande risalto è dato dai postprocessuali alla constatazione che interpretare il passato è un'operazione che si compie nel presente e a cui può attribuirsi un significato politico. La New Archaeology, discutendo di leggi del comportamento, è quindi accusata di limitare la libertà degli individui, in quanto sostiene i medesimi sistemi di valori che caratterizzano le economie capitalistiche - ad esempio, i criteri del minimo sforzo, del ridurre i rischi, del massimizzare i profitti - e poiché legittima il colonialismo che opprime popolazioni economicamente e tecnologicamente arretrate. Questa chiave di lettura può però ritenersi una forzatura polemica e non rispetta ciò che è nello spirito di molti New Archaeologists, evidenziando semmai la componente neomarxista, e al tempo stesso idealista, tipica dei postprocessuali.

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6.2 Contesto e cultura materiale « I rapporti culturali non sono provocati da nulla al di fuori di essi. Essi semplicemente esistono. II compito degli archeologi è di interpretare questa componente irriducibile della cultura, così che la società che sta al di là dell'evidenza materiale possa essere letta» (Hodder, 1992, p. 7 ). Per leggere gli oggetti occorre però riconoscerne il contesto, ma questo, per lo stesso Hodder, è un qualcosa da interpretare nei dati e la cui definizione è materia di discussione. Qui non si tratta difatti semplicemente del contesto di rinvenimento, che può coincidere con un luogo o uno strato, ma della "totalità dell'ambiente rilevante" per ciò che si intende studiare. II contesto è quindi un insieme di relazioni unico, irripetibile e non generalizzabile. Per un postprocessuale il contesto rilevante per studiare, ad esempio, un vaso non comprende solo i materiali e i modi di produzione, le pratiche d'uso, i processi di scarto - come sarebbe per un archeologo tradizionale o per un New Archaeologist -, ma è esteso al fine di cercare di stabilire relazioni più ampie tenendo ad esempio conto dei decori, dei caratteri non funzionali, dei significati sociali. I decori sulle pentole possono quindi confrontarsi con quelli su altri oggetti, come le pareti delle fornaci, o con il trucco delle donne, evidenziando così relazioni altrimenti insospettate; ad esempio, un contesto di significato in cui stanno insieme attività designabili come "calde": la cottura dei cibi, la conduzione della fornace, lo stato di gravidanza. In questo procedere è evidente l'arbitrarietà delle scelte possibili e I' incontrollabilità dei risultati che portano i postprocessuali a elogiare le interpretazioni divergenti, inconciliabili, incerte che secondo Hodder sarebbero il segno di una nuova maturità (FIG. s). II significato non dipende difatti dall'autore, ma da chi "legge" l'oggetto e il contesto. Quindi non si può sostenere che ve ne sia uno giusto e uno sbagliato. Significativo è quindi il titolo di uno dei più importanti libri di Hodder, Leggere il passato, e il suo presentare, nella copertina dell'edizione originale, la figura dei piedi di un archeologo frenato nel suo procedere dal fango dell'evidenza materiale. II contesto per Hodder (ivi, p. s) sono quindi le «idee, le credenze, e i significati che si interpongono fra gli individui e le cose»

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6. L'ARCHEOLOGIA POSTPROCESSUALE E CONTESTUALE

FIGURA

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I problemi dell'interpretazione

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I problemi dell'interpretazione come sono esemplificaci in Hodder (1992) e in Shanks, Tilley (1992). Qual è il lato frontale della scatola? Un orso che si arrampica su un albero o solo un tronco nodoso? Uccello che guarda in alto o cervo? Vecchia rugosa o avvenente fanciulla? In basso, vari casi archeologici con soluzioni parimenti impossibili, ma soltanto nel caso non si disponga di altri dati: scena dipinta paleolitica, numeri o decori su un vaso di pietra ollare, incisione rupestre. Senza il richiamo al contesto il gioco interpretativo non ha granché senso.

e risponde quindi a una serie di regole. Rinviando alla linguistica, e giocando su context letto with text, si propone quindi l'esistenza di una grammatica della cultura materiale intesa come la materia inerte trasformata da pratiche sociali in un oggetto culturale. Il rifarsi alla linguistica porta a sostenere che da pochi buoni esempi si possono ricavare le strutture grammaticali con cui si costruiscono infinite frasi e ciò ovviamente giustifica il ridurre l'attività sul campo, il rinunciare agli studi quantitativi dei reperti, il guardare allo strutturalismo. La grammatica della cultura materiale è ipotizzata come relativamente semplice anche se non priva di ambiguità e comunque tale da consentire un qualche successo interpretativo.

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Nell'analisi di sepolture neolitiche si distinguono, ad esempio, il fuori e il dentro, la destra e la sinistra, e, sulle ceramiche di corredo, le sequenze di tratti continui o interrotti, ricercando così un ordine, grafico e deposizionale, da porre in relazione ad altre coppie di possibili significati: vita-morte, produrre-distruggere, fertilità-infertilità, individuo-cosmo e, perfino, noi-essi. Da ciò per poi ipotizzare che le tombe abbiano avuto il significato, ovviamente indimostrabile, di contribuire al mantenimento dell'ordine sociale. Più in generale, il tipo di sepoltura non è ritenuto dipendere dallo status in vita del defunto, ma dalla concezione che in quella società si aveva della morte e dall'ideologia, così come lo studio dei rifiuti di pasco non informa delle pratiche di consumo, ma degli atteggiamenti verso il cibo, lo sporco, l'organizzazione degli spazi. Hodder quindi critica Binford per non avere indagato quale sia l'atteggiamento mentale degli esquimesi riguardo alla spazzatura, ma questi, per tutta risposta, si dichiara stupito che si possa dare importanza a cale questione.

6.3 L'individuo attivo Un momento fondamentale nella formazione delle teorie postprocessuali si ha nel 1982, quando Hodder, pur provenendo da tutt'altre esperienze in ambito archeologico, pubblica Symbols in Action. Ethnoarchaeological Studies o/ Materiai Culture. Durante ricerche etnoarcheologiche condotte a Baringo, in Kenya, Hodder scopre che la cultura materiale non è un semplice riflesso del comportamento umano, ma una trasformazione di quel comportamento. Egli ritiene che la gran parte delle azioni dell'uomo non abbia obiettivi di convenienza o di adattamento e propone tre temi fondamentali: la cultura materiale è costituita in modo significante, l'individuo deve essere parte delle teorie sulla cultura materiale e il mutamento sociale, l'archeologia deve essere legata alla scoria. Il termine practice è ora utilizzato non per designare un processo fisico, ma l'insieme in cui l'azione ha significato. È quindi uno studiare gli atteggiamenti, la mentalità, la percezione del paesaggio o del futuro, senza ridurre il tutto a comportamenti volti solo a risultati materiali. Anche in questo caso si ha un present-past etnoarcheologico, non finalizzato però a teorie

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materialistiche di medio raggio, ma a offrire un campionario di spunti originali, vivi, discutibili per provare a pensare "dentro" il passato. L'etnoarcheologia si configura quindi come un sostituto povero della macchina del tempo per entrare in contatto con gli antichi e, a tal proposito, Tilley (1996), introducendo un volume di studi preistorici, immagina di essere trasportato nella Svezia neolitica a osservare una realtà di cui poi scrivere un resoconto etnografico che ne evidenzi, dal di dentro, la complessità.

6.4 Stile e significato Per gli archeologi postprocessuali le evidenze archeologiche vanno studiate guardando in primo luogo allo stile che non può essere ridotto né a un elemento utile solo per stabilire cronologie, come fa l'archeologia tradizionale, né trascurato come fanno, preferendovi lo studio delle funzioni, i New Archaeologists. Lo stile non è più solo il modo, caratteristico di singoli individui, gruppi o periodi, in cui sono fatte le cose, ma è un mezzo per veicolare messaggi e porta a stabilire determinate relazioni fra persone: ne favorisce l'integrazione, sottolineando, ad esempio, l'appartenenza del singolo a un gruppo familiare, etnico o sociale, ma anche, al contrario, può evidenziare le differenze, le disparità, le contraddizioni sociali. Lo stile è quindi uno strumento di comunicazione visiva e di azione sociale estremamente complesso e non riducibile al pensare meccanicamente che stesso stile vuol dire stesso significato, stesso ethnos, stesso periodo. Gli stili possono quindi essere tantissimi, molti di più delle funzioni materiali riconoscibili nei manufatti, ma non per questo i due aspetti devono ritenersi disgiunti ed è anzi quasi sempre vero il contrario. Le tombe possono ad esempio essere orientate, rispetto al vento dominante, come le case, benché ovviamente non ve ne sia necessità pratica, ma solo l'intento di sottolineare un legame e un significato; all'opposto, gli abiti, per quanto pensati per evidenziare lo "stile" individuale o lo status, solitamente sono anche realizzati tenendo conto del clima o delle condizioni d'uso. Talvolta stile e funzionalità si sacrificano l'uno per l'altra, come nel caso di qualche scollato abito invernale o, all'opposto, di qualche utensile che nulla concede al design.

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6.5 Precursori illustri L'archeologia postprocessuale nel suo cercare di elevarsi a nuovo paradigma non dimentica quasi mai di richiamarsi a una precedente illustre eredità. Per fare questo, da un lato si rif'a ad autori notoriamente idealisti, fra cui storici e antropologi, dall'altro coglie sparse citazioni in opere che hanno fatto la storia dell'archeologia, ma che spesso hanno tutt'altra impostazione. Fra i padri veri dell'archeologia postprocessuale il più importante è certamente l'archeologo e filosofo inglese Robin G. Collingwood,

RIQUADRO

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Estremisti e libere interpretazioni Fra gli scritti postprocessuali non pochi sono quelli che testimoniano di posizioni estreme basate sul ritenere parimenti accettabile qualsiasi interpretazione archeologica non essendovene nessuna che possa dirsi obiettiva e verificabile. Shanks e Tilley (1992) paragonano, ad esempio, la verità storica a una moneta completamente abrasa in cui ognuno può leggere ciò che vuole. Il passato è detto non esistere; le tracce che si colgono sono nel presente e sia gli archeologi storico-culturali sia i New Archaeologists altro non fanno se non ricostruzioni retoriche, socialmente e politicamente orientate. Esempio di ciò sono ritenuti, non senza qualche ragione, gli allestimenti museali in cui spesso si progetta la persuasione occulta del visitatore sottolineando i valori del progresso tecnologico e non i modi del vivere sociale. Spinta all'eccesso la multivocalità e la pluralità delle interpretazioni, utile ad esempio per dare voce a ciò che pensano del passato gli aborigeni australiani, diviene però uno story telling che, se non può tradursi con raccontar balle, fa comunque perdere valore allo studio e al rigore dei metodi. La credibilità stessa della disciplina viene messa in gioco, ma per Shanks e Tilley questo non si pone come un problema; l'indeterminatezza cronologica è considerata un mezzo utile a evitare la pedanteria della storia e, essendo l'archeologia equiparata a narrativa, poetica, arte, le diverse ricostruzioni del passato devono valutarsi solo in funzione del successo che incontrano nel pubblico. Nelle precedenti posizioni, ovviamente, è facile riconoscere il riapparire di un idealismo sfrenato, a cui deve aggiungersi il sospetto che i più estremisti fra i postprocessuali non siano neppure troppo interessati alla pratica archeologica. Prova di ciò sembra essere l'affermazione di Tilley secondo il quale «digging is a pathology of archaeology» (1989, p. 275).

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6. L'ARCHEOLOGIA POSTPROCESSUALE E CONTESTUALE

RIQUADRO 9

Lattine di birra Esempio dei problemi metodologici affrontati provocatoriamente dai postprocessuali è un ponderoso lavoro di Shanks e Tilley (1992) che, forse anche per l'argomento originale, ha avuto discreta rilevanza. Gli autori hanno analizzato i decori sulle confezioni di birra e le relative immagini pubblicitarie utili allo studio delle diverse culture del bere in due paesi: in Gran Bretagna i decori sottolineano mascolinità e tradizione, in Svezia, per contrastare la locale riprovazione al consumo di alcolici, sono invece più vari e "mimetici". Il risultato di tale studio, ricco di tabelle e illustrazioni, è quindi la scoperta di quanto già noto, ad esempio ai pubblicitari e ai sociologi, che viene ora proposto come un caso di significato culturale attivo, di cui non può ritenersi autore solo chi materialmente ha disegnato le lattine, mal' intera società. Facilissimo, ma non per questo inutile, il lavoro della critica di tradizione New Archaeology: ad esempio, per Kohl (1993) è meglio un buon romanzo che leggere dell'interpretazione dei decori, siano essi sulle lattine di birra o su qualsiasi altro oggetto, in quanto argomenti del tutto irrilevanti rispetto alla grandiosità di un Childe e più inutili di qualsiasi pur criticabile legge di comportamento. Tale studio, del resto, si ferma all'iconografia e non solo non considera le lattine (materiale e funzione), ma - quel che più conta! nulla dice della birra in esse contenuta. Un po' come studiare i tituli picti sulle anfore senza interessarsi né di quelle né di ciò che potevano contenere.

per il quale i dati non esistono e il passato si può rivivere solo nella propria testa con l'empatia che porta a immedesimarsi nel modo di sentire degli antichi. Un Collingwood che non a caso cita il Benedetto Croce di Teoria e storia della storiografia del 1919: « Volete intendere la storia vera di un neolitico ligure o siculo? Cercate innanzitutto, se vi è possibile, di rifarvi mentalmente neolitico ligure o siculo; e se non vi è possibile, o non vi importa, contentatevi di descrivere o classificare e disporre in serie i crani, gli utensili e i graffiti che si sono rinvenuti». A dargli retta, ovviamente, la strada è segnata: o postprocessuali, e idealisti, o catalogatori di reperti sostanzialmente inutili. Maggiormente strumentali e forzati sembrano invece i richiami dei postprocessuali ad autori che vengono impiegati per stabilire una sorta di collegamento, in chiave anti New Archaeology, con l'archeologia storico-culturale. Hodder ad esempio cita Childe, che notava come gli uomini non si adattino all'ambiente per quel che è, ma per ciò che perce-

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piscono e vi coglie un riferimento allo «spirito europeo» per sostenere che si può ragionare, in archeologia, di anima celtica, etica protestante, spirito latino. Allo stesso modo, Shanks e Tilley (1992, p. u6) citano addirittura la celeberrima frase di Mortimer Wheeler: « The archaeologist is digging up, not things, bue people » (gli archeologi non scavano cose, ma persone; 1954, p. 13) che fu però scritta per sottolineare il distacco dall'antiquaria, per un'archeologia attenta alle questioni cronologiche e storiche, ma non pensando al significato di reperti e azioni.

6.6

Gli sviluppi più recenti Nel corso degli anni l'archeologia postprocessuale, così come ogni altra tendenza attiva in archeologia, ha parzialmente modificato il proprio orientamento pur senza rigettarne le basi. Nella fase di avvio, la metafora della cultura materiale come testo, che si può leggere ricercandovi i significati usati nei diversi contesti, era stata importantissima, ma successivamente, e con maggiore vigore dagli anni novanta, si è avviata una seconda fase, detta interpretativa, in cui, senza rinunciare al ruolo attivo della cultura materiale e dell'individuo, si evita il relativismo totale degli autori più radicali e si cerca di leggere il passato recuperando la storicità del dato archeologico e riconoscendo che in esso vi è insieme oggettivo e soggettivo, materiale e ideale. Già nel 1986, nel sostenere che nella New Archaeology «molto viene lasciato senza spiegazione», Hodder ( 1992, p. 20) doveva riconoscere che l' archeologia postprocessuale solleva più problemi di quanti ne possa risolvere. L'esistenza di leggi storiche universali dovute a quei caratteri dei materiali non dipendenti dalla cultura, a una certa costanza nei processi di apprendimento, al ruolo della tradizione è ora considerata possibile e, forzando, si può sostenere che se prima si cercava l'individuo attivo al di là della società, ora lo stesso resta il principale obiettivo della ricerca, ma è stato ricondotto nei ranghi di una qualche normalità. La cultura materiale risulta costituita, oltre che in modo significante, anche pragmaticamente e si riconosce che gli oggetti funzionano in un mondo non culturale dove un attrezzo, prima di tutto, deve essere idoneo allo scopo per cui è stato prodotto. E, a tal proposito, non si può non ricordare che l' Hodder postprocessuale di cui si è detto è lo stesso individuo che, nel 1976, influenzato soprattutto da Clarke, pubblicava,

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insieme a Clive Orton, Simulation Studies in Archaeology, un lavoro in cui cercava di "testare le ipotesi" con simulazioni, dette rigorose e precise, di processi, sistemi, modelli, e con le medesime teorie, applicate allo studio di traffici, risorse, territorio, che i New Archaeologists chiamano di "medio raggio". Invece, durante la fase interpretativa che contraddistinse l 'archeologia postprocessuale, Hodder riconosce che studiare le strutture mentali significa muoversi su un terreno incontrollabile, dove si trova sempre qualche interpretazione che la bravura dell'analista adatta all'evidenza. L'unica controprova possibile è quasi sempre la continuità nel presente di un certo significato e, allora, per evitare le "astuzie", egli ritiene necessario procedere a storicizzare i problemi, rivalutare l'approccio narrativo proprio degli storico-culturali, guardare allo strutturalismo, al neomarxismo, alla teoria sociale di Giddens. All'arbitraria lettura di un testo si cerca di sostituire una ricostruzione storica convincente perché, più di altre, in grado di "risolvere" senza inutili complicazioni logiche questioni altrimenti inspiegabili.

6.7 Gender Archaeology In ambito postprocessuale un'importante tendenza è la cosiddetta Gender Archaeology, nata negli anni ottanta nell'ambito del movimento femminista. Essa è dichiaratamente un'archeologia di parte, che si configura quasi sempre come il lavoro di archeologhe che scrivono di altre donne, siano esse del passato o colleghe, per cogliere quale fu il loro ruolo nella storia. Tralasciando quei contributi che solo per adesione alla moda culturale si definiscono gender, ma trattano invece in modo tradizionale di questioni inerenti alla storia dell'acconciatura o dell'abbigliamento, in una prima fase all'archeologia femminista deve riconoscersi il merito di aver smascherato il maschilismo che fa scrivere del primo uomo o di preistorici e romani, anziché della prima donna e di preistoriche e romane. Questo, ovviamente, avviene spesso solo per comodità, ma è innegabile che contribuisca a far sottovalutare il ruolo delle donne anche se, oggi, pur non essendo cessato l'androcentrismo tipico della società occidentale, in archeologia si è più cauti nell'associare, alla distinzione sessuale su base biologica, caratteri ipotizzati un tempo come tipici e naturali:

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l'uomo attivo, razionale, dominante, con ruoli pubblici e di potere; la donna passiva, irrazionale, emotiva, caotica e destinata a ruoli domestici o ausiliari. In molti casi l'etnografia ha reso evidente la natura semplicistica ed erronea del pensare gli uomini cacciatori e le donne raccoglitrici o, nelle società complesse, del ritenere il commercio e l'artigianato attività prevalentemente maschili. Stabilita una sorta di parità fra i sessi e ridottasi la spinta delle idee femministe, la Gender Archaeology oggi si propone di estendere l' indagine ad altre questioni. Per fare ciò, il primo passo è stato la definizione di gender. Se la distinzione uomo-donna è possibile cromosomicamente, e quindi ha base biologica, in realtà per la vita delle persone è più importante l'identità sessuale socialmente percepita. Identità che non è data una volta per sempre, ma dipende dal contesto, storico e sociale, in cui si forma; oltre a maschi e femmine nel passato potevano aversi persone con altri ruoli sessuali: eunuchi, transessuali, ermafroditi, omosessuali e, se il termine ha un senso, asessuati. Il concetto digender è quindi culturale e sociale, anziché naturale e biologico, e questa ridefinizione dei ruoli di uomini e donne deve riconoscersi come un arricchimento verso problematiche non facili da affrontare. In qualche caso l'indagine nelle necropoli ha fornito dati interessanti, non solo per la ricerca relativa alle identità sessuali, ma anche per la comprensione di altri aspetti caratteristici del vivere sociale. Ad esempio, le distinzioni basate sull'età (dai dati antropologici e dagli indizi di avvenuta iniziazione allo stato adulto), sullo stato civile, sull'appartenenza a una qualche classe sociale, confessione religiosa, associazione professionale, etnia. Similmente lo studio delle abitazioni, ma anche di chiese, conventi o luoghi di lavoro, può cercare di conoscere le diverse configurazioni degli spazi utilizzati da donne e uomini, ragionando di strutture familiari, privacy, divisione del lavoro e per fare questo, oltre a particolari classi di reperti, sono certamente necessari i dati ricavabili da iconografie e documenti scritti. Il compito che la Gender Archaeology si è attribuito certamente non è facile. L' androcentrismo alla rovescia è difatti inutile, mentre per lo stato della documentazione altre ricerche, ad esempio sull'omosessualità nella preistoria, rischiano di essere impossibili o di portare a quello che è stato ironicamente definito come genderlirium. Il richiamo alla prudenza è quindi d'obbligo, ma ciò non significa che la questione dell'identità sessuale non sia intrigante e che, quando possibile, non vada affrontata.

IIO

6. L'ARCHEOLOGIA POSTPROCESSUALE E CONTESTUALE

6.8 Lo strutturalismo Fra gli studiosi che hanno caratterizzato gli sviluppi recenti dell'antropologia è sicuramente il francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009) ad avere maggiormente attirato l'attenzione degli archeologi postprocessuali e ad aver influito sulla storia del pensiero occidentale moderno. Prima ancora di accennare ai temi discussi da Lévi-Strauss è bene ricordare che egli dava grande importanza alle osservazioni sul campo, voleva rifuggire dalla filosofia e dalle teorie, dichiarava di accettare il primato dell'economia e l'utilità del marxismo per lo studio delle società umane. Dichiarazioni di principio, queste, che sono in apparente contrasto con l'impostazione data a lavori interamente dedicati a Il

pensiero selvaggio. L'opera di Lévi-Strauss ha avuto come obiettivo l'analisi integrale dei sistemi sociali e per fare ciò egli ritenne di doverne ridurre la complessità concentrando lo studio su ciò che ne considerava essere la base, ovvero le strutture mentali profonde da cui deriva ogni ragionamento. Per fare questo, Lévi-Strauss ha studiato, comparandoli gli uni agli altri, migliaia di miti, soprattutto americani, in cui ricerca un retroterra comune. L'idea guida è che «dietro il complesso doveva esserci del semplice» e quindi ecco l'ostinata ricerca di regolarità, ricorrenze, somiglianze, ma anche di differenze e opposizioni nel pensiero simbolico dei diversi popoli. Con questo lavoro di schedatura sistematica Lévi-Strauss giunge a riconoscere il "semplice" nel ricorrere di simboli riducibili a varie coppie di elementi in opposizione. Fra questi cielo e terra, alto e basso, guerra e pace, a monte e a valle, rosso e bianco, maschio e femmina, giorno e notte, estate e inverno. Opposizioni che "funzionano" nel pensiero mitico in quanto dall'unione di parti opposte si ha una totalità nuova (coniugale, giornata, anno ecc.) che è ritenuta avere valore universale. L'apparente arbitrarietà nella scelta delle opposizioni è superata dal loro ripetersi, che non può essere casuale e che consente di equipararle a una sorta di Tavola di Mendeleev con, al posto degli elementi chimici, gli elementi costitutivi delle strutture base del pensiero umano. Da ciò, a questa scuola, la denominazione di strutturalismo. Le strutture mentali individuate da Lévi-Strauss, nonostante il nome, sono ovviamente cosa del tutto diversa dalle basi economiche delle diverse società di cui trattano i marxisti; esse sono difatti imma-

III

ARCHEOLOGIA TEORICA

RIQUADRO IO

Uno scavo riflessivo La teoria postprocessuale per sua natura ha sempre avuto difficoltà a incidere sulla pratica di ricerca. Operativamente nello scavo bisogna difatti procedere e ciò comporta varie rigidità, come separare il momento descrittivo, che si vuole oggettivo e si standardizza in apposite schede, da quello interpretativo. In realtà, è noto che l'interpretazione inizia già in punta di cazzuola quando, con lo strato appena esposto, si decide come procedere. A un livello basso, ad esempio nell'identificazione di un focolare, si può allora tentare di essere obiettivi, ma ciò diviene sempre più difficile via via che la complessità di ciò che si scava aumenta. Partendo da questa contraddittorietà fra il momento della raccolta dati e il momento interpretativo, Hodder ha adottato nello scavo del sito neolitico di Catalhoyuk, in Turchia, un approccio "flessibile", mirato a far riflettere sulla soggettività delle interpretazioni e con diversi correttivi che destabilizzano la routine: redazione di un diario di scavo a più voci, in cui riportare tutte le interpretazioni e non solo quella del direttore di scavo, documentazione in video dei lavori e delle discussioni che ne conseguono, studio sociologico delle dinamiche di gruppo e dei processi decisionali. Importante, e praticabile in altre situazioni, è la proposta di modificare le tradizionali categorie di studio dei reperti che, anziché basate sui caratteri dei materiali, vengono organizzate per problemi; nel caso del cucinare, i frammenti di pentole saranno, ad esempio, studiati insieme ai resti di pasto e ai focolari cercando cosi nuove relazioni fra dati e interpretazione. Ovviamente, il rischio di uno "scavo riflessivo" è l'immobilismo (si discute anziché scavare), la polifonia di giudizi comprensiva di voci prive di esperienza, l'inseguire la moda di Internet quando, intellettualisticamente, si propone la condivisione in rete dei dati senza considerare quanti sono davvero gli archeologi nelle condizioni di partecipare al dibattito. Il tentativo è comunque interessante e, come minimo, evidenzia l'esistenza di un problema che, in misura diversa, affligge ogni ricerca.

teriali e non caratterizzanti alcun contesto storico; non dipendono dall'ambiente fisico o culturale, ma sono prerogativa di ogni uomo che viva in società. Esse sono la conseguenza delle modalità di comunicazione che gli uomini necessariamente instaurano fra loro per scambiare donne, beni e servizi, messaggi. È in conseguenza di questi scambi che si costituiscono i diversi sistemi familiari, economici, linguistici e quindi «nello scambio c'è molto di più che non le cose scam-

II2.

6. L'ARCHEOLOGIA POSTPROCESSUALE E CONTESTUALE

biate», c'è l'instaurarsi di un rapporto fra uomini e quindi un «fatto sociale totale». Per l'obiettivo che si pone, la lezione di Lévi-Strauss è ovviamente molto lontana dalla storia tradizionale, in quanto si configura come analisi sincronica che non si occupa del cambiamento. Il progresso è ritenuto un accidente della storia e quel che conta sono le strutture invariabili del pensiero ed è con queste che Lévi-Strauss giunse a influenzare Braudel mentre questi insinuò, nel collega antropologo, un qualche interesse per gli avvenimenti e i cambiamenti di breve periodo. Storia e antropologia restano però distinte e distanti, ma non opposte, nel pensiero di Lévi-Strauss, per il quale il tempo è ripetizione e riattualizzazione delle opere degli antenati o di personaggi mitici non storicizzabili. Le società che per taluni sono "senza storia" egli ritiene più giusto pensarle come società "fatte per durare" proprio perché organizzate per evitare i cambiamenti. Lévi-Strauss definisce queste società, quasi sempre piccole e poco complesse, "fredde" in opposizione a quelle "calde" in continuo cambiamento e, se nelle prime il metodo strutturale sembra ottenere i migliori risultati, egli riconosce che nella realtà si hanno sempre casi intermedi fra società immobili e società aperte a ogni cambiamento. Nel suo complesso, la posizione di Lévi-Strauss è stata ritenuta inaccettabile da molti critici che lo hanno definito antistorico per il suo particolare modo di intendere la lunga durata, in una sorta di immobilismo etnografico dove ogni mutamento è escluso, il tempo è assente, le differenze culturali sono sistematicamente trascurate correndo il rischio di studiare un "pensiero selvaggio" indifferenziato e buono in qualsiasi giungla per una sorta di individuo medio che, in realtà, non è mai esistito. Un pensiero che, in effetti, non tiene conto del punto di vista degli individui e talvolta ritiene di svelare esattamente l'opposto di quanto gli uomini raccontano nei propri miti. Questo però è il prezzo che lo stesso Lévi-Strauss sa di dover pagare per non fermarsi alle apparenze e scendere maggiormente, non nel dettaglio, ma nel profondo. Del tutto incidentale è quindi il rilevare la scarsa attenzione per i dati di cultura materiale e per l'archeologia o la storia. Negli anni settanta, proprio lo strutturalismo, richiamando l'attenzione sugli aspetti non materiali della vita, contribuì alla nascita dell'archeologia postprocessuale e, pur trascurando l'individuo, offrì un cospicuo repertorio di opposizioni utili a organizzare i dati: ad esempio, interno ed esterno di una struttura, caratteri microscopici e macroscopici in un oggetto, diversa organizzazione o forma di un elemento decorativo (pieni e vuoti, righe e punti ecc.).

113

7

La ricomposizione del conflitto

7.1

Un futuro pluriverso Attualmente in archeologia convivono i paradigmi storico-culturale, processuale, marxista, postprocessuale e svariati ibridi. Ognuno di questi paradigmi in realtà andrebbe definito protoparadigma, perché non accettato da tutti gli archeologi, o considerato un paradigma immaturo, incapace di affermarsi perché non è possibile provarlo con fatti, ma solo con teorie di più "basso livello" che da esso derivano o ne fanno parte costituendo un circolo vizioso e senza scampo. L'incremento della complessità sociale o della tecnologia è, ad esempio, una tipica affermazione di medio livello che si può cercare di provare con i dati archeologici, ma che per taluni sarà spiegabile, in chiave storico-culturale, con il diffusionismo, per altri sarà processuale se si guarda alle risorse, marxista basandosi sui conflitti sociali, postprocessuale se letta pensando ali' ideologia del potere. I paradigmi vengono quindi spesso ridotti a opinioni contrastanti e, a tal proposito, è interessante notare come uno stesso studioso possa attestarsi, a seconda dei casi e dei momenti, su posizioni diverse e magari in contrasto fra loro. Oltre a Childe, che conciliò gli apparentemente inconciliabili diffusionismo e marxismo, numerosi studiosi dichiarano ad esempio la propria antipatia per la New Archaeology anche se poi ne adottano parti significative. Con la nascita della New Archaeology molti ritennero che l' archeologia avrebbe perso la propria ingenua innocenza e sarebbe diventata adulta, ma !'"agenda processuale" delle cose da fare è stata poi alterata dalla critica postprocessuale. Anziché alla maturità si è giunti a uno stato di crisi: da the loss o/innocence a the loss o/nerve. La polemica è però vecchia e tutto sembra sia già stato scritto, comprese varie malignità

115

ARCHEOLOGIA TEORICA

come il sostenere che i New Archaeologists si sono occupati di teoria perché non avevano siti importanti da scavare, mentre i postprocessuali avrebbero compiuto la medesima scelta quando Margaret Thatcher tagliò i fondi destinati alla ricerca sul campo. Quel che è certo è che bisogna andare oltre e in questo tentativo, avviato da almeno un decennio da più autori, aiuta proprio la passata virulenza del contrasto che ha fatto emergere il meglio, e il peggio, di ogni tendenza. Il primo risultato di trent'anni di dibattito è l'avere reso evidente che, oggi, non si può prescindere dal ragionare sui modi dell'interpretazione e dal riconoscere che una qualsiasi teoria si configura o come materialista o come idealista, essendo questa una contrapposizione astorica che caratterizza ogni inchiesta sul genere umano. La medaglia ha quindi solo due facce. Da un lato, la faccia positivista e funzionalista con ad esempio Pitt Rivers, Wheeler, Binford; dall'altro, la faccia idealista, strutturalista, postmoderna, qualche volta neomarxista, di Hodder e Tilley, ma anche di molti archeologi storici dell'arte. Due facce composite e che, in estrema ma non erronea sintesi, con termini dal significato più limitato e specifico, possono dirsi processuale e postprocessuale così da attualizzarne la contrapposizione senza allontanarsi dal campo archeologico

(cfr. TAB. 1). Ovviamente ambedue le "facce" hanno pregi e difetti e di questo si dovrà fare tesoro. Un primo motivo per superare le polemiche è il riconoscere che le multinterpretazioni del passato, cioè l'avere opinioni diverse sugli stessi fatti, non costituiscono alcun arricchimento culturale; la realtà è già di per sé sufficientemente ricca di casi, anche strampalati, che certo non occorre aggiungervi quelli parzialmente o malamente interpretati dagli archeologi. Dicendo questo si finisce però con il dichiarare la propria simpatia processuale e, in fondo, viene da chiedersi: come è possibile non essere materialisti se si è scelto di dedicarsi allo studio dei materiali archeologici? Questo senza dogmi scientisti, rifiutando la ricerca di inesistenti leggi del comportamento umano, ma riconoscendo che nel processo storico sono esistite delle regolarità a diversi livelli, tali comunque da renderlo intelligibile pur non escludendosi infinite variabili dipendenti da molteplici fattori. Una regolarità fatta quindi di irregolarità, ma che giustifica comunque la ricerca di generalizzazioni basate su campioni adeguati a prevedere all'indietro, in modo non dissimile da ciò che si fa, per il futuro, nei sondaggi elettorali.

116

7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

TABELLA I

Le parole d'ordine dei processuali e dei postprocessuali Processuali

Poscprocessuali

Corpo

Mente

Materiale

Ideale

Oggettivo

Soggettivo

Generale

Particolare

Razionale

Irrazionale

Determinato

Indeterminato

Prevedibile

Imprevedibile

Norma

Eccezione

Scienza

Aree

Società

Individuo

Funzione

Stile

Uso

Significato

Per usare le parole di Renfrew (1980), nell'adottare, pur criticandolo, un approccio processuale bisogna stare attenti a non gettare il bambino con l'acqua sporca da cui è invece urgente separarsi. Un primo riconoscibile merito della New Archaeology è stato il rigore metodologico e quindi la verificabilità delle procedure anche laddove non sia immediatamente possibile misurare l'attendibilità delle interpretazioni. Indietro, su questo, non si può tornare. Al massimo, oltre a evitare di farsi guidare da teorie lacunose e ingenue, si dovrà fare in modo che l'interesse per i metodi non superi quello per i risultati, come talvolta accade in archeometria con scienziati impegnati in ricerche tanto eccezionali, e dispendiose, quanto archeologicamente inutili. Altrettanto importante è il ribadire la centralità del rapporto uomo-ambiente, o uomo-natura o uomo-territorio che dir si voglia, sia per la comprensione dei modi di formazione delle stratificazioni, sia, più in generale, per lo svolgersi del processo storico. Forse possono usarsi altri termini, ma il designare la cultura come un sistema di adattamento ambientale sembra ancora efficace solo se non si dimenti-

117

ARCHEOLOGIA TEORICA

ca che il rapporto uomo-ambiente non va ridotto a uomo-risorse. Esso deve difatti comprendere anche aspetti non economici e non razionali, conseguenti ad esempio a quella che poteva essere la percezione dell'insieme, al significato attribuitogli, alla previsione circa il futuro della comunità, all'organizzarsi della vita sociale. E allora, pensando ai processi di apprendimento nel bambino, si deve riconoscere che la cultura è un mezzo di adattamento, oltre che ambientale, anche sociale; insegnare a perpetuare se stessi, a procurarsi il cibo, a vestirsi o a curarsi è, inevitabilmente, sia natura che cultura. Oltre a ciò è certamente importante superare un approccio esclusivamente sincronico, sviluppando la ricerca diacronica e, per fare questo, accettare come base la cultura storica, porre in relazione le testimonianze archeologiche con altre fonti, cercare di valorizzare quanto tradizionalmente ha costruito l'archeologia storico-culturale descrivendo singoli casi e organizzandoli in serie. In Europa, dove l'archeologia ha sempre guardato più alla storia che all'antropologia, ciò dovrebbe essere più facile che altrove. La consuetudine con le fonti antiche e la lezione di Braudel sui diversi tempi della storia, e più in generale la grande lezione offerta dalla scuola delle "Annales", in questo certamente aiutano anche per evitare un ritorno all'"entusiasmo per la prudenza" tipico degli storico-culturali intenti spesso a descrivere e a rinviare ogni interpretazione. Il richiamo al contesto, termine che riconduce ai postprocessuali e a Hodder in particolare, è poi fondamentale. Contesto in quanto ambito significativo la cui definizione non è data, ma deve essere costruita a seconda del problema che si vuole affrontare, e deve intendersi in senso ampio e guardando, nell'ordine, al contesto deposizionale e fisico, al contesto d'uso, al contesto ideologico dove gli oggetti avevano un valore comunicativo altrimenti assente. Nel fare questo, l'etnoarcheologia sarà indispensabile supporto e pungolo: potrà prospettare soluzioni inaspettate, escludere ipotesi erronee e, nei casi di dimostrata continuità storica, fornire vere e proprie soluzioni. A tal proposito, le teorie processuali di medio raggio restano obiettivi di ricerca tutt'altro che disprezzabili e per la cui costruzione necessitano ancora grandi sforzi. Proprio i diversi modi di intendere il termine contesto, sia come espressione materiale che ideologica, evidenziano al meglio la sequenza logica che si propone per ogni ricerca archeologica; cercare di essere bravi materialisti e processuali per poi essere postprocessuali meno incerti o, peggio, troppo fantasiosi nel trovare, per il solo fatto

u8

7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

di cercarlo, un significato a ogni costo. Da ultimo, divenire storici delle evidenze materiali e quindi, compiutamente, archeologi. Definite così alcune idee e un percorso capace di andare oltre gli "opposti estremismi", materialista/ idealista, pragmatico/ semiotico, e lontano dagli eccessi scientista e iper-relativista, si deve però ricordare che secondo alcuni ciò può farsi con il confronto e la conciliazione, e quindi con una sintesi che, a livello teorico, sembra però impossibile. L'ipotizzata e auspicabile terza via, benché prospettata più volte, sembra un difficile equilibrismo, descrivibile solo in negativo, per il non essere né materialista né idealista, o per un generico richiamo al senso comune. È invece certamente più agevole, e in qualche misura normale, integrare fra loro, caso per caso, i distinti aspetti d'interpretazione processuale con aspetti postprocessuali. Nell'analisi di un fenomeno ampio, ad esempio l'organizzazione di un territorio, è quindi possibile partire dal ridiscutere quanto ne hanno detto gli storico-culturali per poi procedere allo studio di ambiente, economia, insediamenti e, successivamente, ragionare di quale percezione se ne poteva avere e dei conseguenti significati di lunga durata. In molti casi si è ad esempio verificato che, nonostante il cambiare dei culti e del sistema insediativo dalla preistoria all'alto medioevo, si ebbe continuità nell'uso sepolcrale di determinate aree cui era evidentemente attribuito un qualche significato o un ricordo; in altri casi si è ipotizzato che la rioccupazione di ville romane abbandonate si sia avuta non solo per riutilizzarne i materiali, fatto verificabile e che può dirsi dinatura processuale, ma per "ereditarne" il prestigio (fatto postprocessuale parimenti importante). Nell'analisi di un singolo oggetto è invece possibile muovere dal "catalogo" di manufatti analoghi organizzato dagli storico-culturali, non soffermandosi solo su questioni cronologiche o attribuzionistiche, ma valutando invece gli aspetti tecnici, materiali e d'uso per porli in relazione al possibile significato dell'oggetto e ragionare di come funzione e stile fossero o non fossero in relazione. Proprio la postprocessuale attenzione allo stile come veicolo di messaggi può, fra l'altro, portare a riconsiderare il problema dell'arte, e del suo studio, non separato da quello di altri manufatti aventi funzione comunicativa: ad esempio, il vasellame dipinto o gli abiti. Costretti a scegliere, il porsi dalla parte processuale è quindi aderire alla teoria che meglio focalizza l'indagine su ciò che si ritiene più importante per la vita dell'uomo e che - rallegra saperlo - è più facilmente

119

ARCHEOLOGIA TEORICA

studiabile nella documentazione materiale degli aspetti postprocessuali del vivere. Questo, sorridendo di chi ritiene gli uomini esclusivamente affamati di cibo, sesso e potere, ma riconoscendo che, per quanto caricaturale, tale rappresentazione è più vera del pensare gli uomini intenti solo a comunicare fra loro senza uno scopo "pratico". Gli uni e gli altri ovviamente sono le stesse persone, così come Leonardo fu insieme scien ziato e artista, e la contrapposizione processuale/postprocessuale è stata difatti descritta come un uccello con due ali parimenti importanti, ma distinte. Proprio questo è ciò che può intendersi per pluriverso e all'archeologo spetta quindi non l'impossibile compito di fondere aspetti diversi, ma quello di considerarli entrambi e distintamente. Questo, "girando" intorno agli oggetti, e ai problemi interpretativi che gli stessi pongono, senza però confondere quelli che hanno natura diversa. Giustamente Johnson ( 1999) sostiene che, in Texas, stare nel mezzo della strada sia impossibile perché lì si trovano solo la riga bianca e armadilli morti, ma certo si può procedere, nel suo caso non nascondendo simpatie postprocessuali, ora di qua ora di là, facendo attenzione ad attraversare e cambiando ogni volta il proprio modo di procedere. Equipaggiamento irrinunciabile per questa operazione sarà l'eredità illwninista (eguaglianza degli uomini e libertà di ricerca pur nella consapevolezza che le tenebre non potranno mai eliminarsi completamente), i paradigmi ottocenteschi (tipologie, stratigrafie, tecnologia), dosi variabili a seconda dei gusti di evoluzionismo e marxismo. Di seguito, a evidenziare questa possibilità di ricomposizione del conflitto in una disciplina, che fin dalla nascita è tutt'altro che unitaria, anziché un'impossibile conclusione, si propongono casi diversi: dal lavoro di ricerca sull'uomo condotto, a tutto tondo, da LeroiGourhan, all'archeologia della mente, al modo di costruire e ragionare dell'interpretazione, alla definizione di cultura materiale.

7.2 Uomo, tecnica, arte Archeologo ed etnologo, il francese André Leroi-Gourhan (1911-1986) è stato certamente uno dei più grandi studiosi dell'uomo. Sul campo egli si è dedicato allo sviluppo dei metodi di scavo e, in particolare, all'analisi delle superfici d'abitato al fine di documentare la distribuzione spaziale delle diverse attività condotte dagli uomini. Nel sito

120

7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

paleolitico francese di Pincevent, tale tipo di scavo, non a caso detto etnografico, ha ad esempio fornito dati che, decenni dopo, Binford ha potuto confrontare con quanto osservato in un campo eschimese. Per entrambi gli studiosi, il ricorso all'analogia etnografica è quindi uno strumento obbligato che non può ridursi a usare dati di seconda mano, ma deve portare gli archeologi a costruire le proprie fonti e i propri strumenti analitici. Proprio in questo specifico campo Leroi-Gourhan ha probabilmente realizzato il suo capolavoro rivolgendo l'attenzione alle operazioni tecniche elementari che contraddistinguono l'operare dell'uomo in un qualsiasi contesto: «dai manufatti si passa alle mani, poi al cervello, all'ambiente geografico, alle relazioni fra gli uomini» (Leroi-Gourhan, 1993, voi. 1, p. u). L'obiettivo è sempre antropologico: non «lo studio delle tecniche umane, ma lo studio dell'uomo che pensa e agisce tecnicamente» (ivi, p. 14). A tal fine Leroi-Gourhan organizzò migliaia di schede perforate dedicate all'attrezzatura tecnica elementare ed espose il proprio pensiero nell'opera Evoluzione e tecniche, divisa in due volumi intitolati L'uomo e la materia, Ambiente e tecniche. Titoli, e volumi, da cui traspare immediatamente l'impostazione evoluzionista, materialista, tecnoantropologica, attenta ai condizionamenti ambientali e avente come conseguenza il riconoscere l'esistenza di tendenze universali nel rapporto degli uomini con il mondo fisico. Su un fronte del tutto distinto, lo stesso Leroi-Gourhan affrontò lo studio dell'arte paleolitica non fermandosi all'opera singola, ma ordinando tutte le evidenze note al fine di cogliere un qualche ordine celato nel disordine apparente delle grotte. Egli quindi studiò le tecniche di pittura, il tempo d'esecuzione, la distribuzione spaziale dei segni e le relazioni fra gli stessi. Rifuggendo dalle spiegazioni troppo semplici e immotivate o generiche, come il pensare che l'animale grosso o gravido possa simboleggiare il culto della fertilità, egli, pur senza giungere a riconoscere quale fosse il contenuto del messaggio, identificò trattarsi di un sistema religioso, esteso dalla Spagna alla Russia, basato su un pensiero coerente, complesso, in cui giocano un ruolo determinante i simbolismi sessuali. A distanza ormai di anni l'opera di Leroi-Gourhan è uno dei possibili esempi di come sia necessario scegliere quando (e quanto) occorra essere materialisti e quando si possano percorrere altre strade. Con lo scavo etnografico e lo studio dei materiali, Leroi-Gourhan anticipò temi poi cari alla New Archaeology, mentre con lo studio dell'arte affrontò temi tipicamente postprocessuali al punto che Hodder

12.1

ARCHEOLOGIA TEORICA

ha potuto criticarne solo i dati troppo limitati, senza però giungere a un'interpretazione più convincente, ma limitandosi ad affiancare alla tradizionale idea di raffigurazioni legate alla caccia e alla sussistenza non meglio motivati richiami a sciamanesimo, stati di trance e allucinazione. Leroi-Gourhan, conscio delle difficoltà, aveva del resto scritto che, data l'impossibilità di coglierne il contenuto, riconoscere il contenente, inteso come lo schema di fondo di un'attività religiosa, è di per sé importante per capire almeno un poco del pensare paleolitico.

7.3

Archeologia cognitiva Fra le tendenze archeologiche sviluppatesi a partire dagli anni ottanta, quella che maggiormente lega aspetti processuali e postprocessuali è l'archeologia cognitiva, o della mente. Da un lato, essa stempera il determinismo tecnoambientale studiando il sapere tecnico incorporato nei manufatti, le capacità progettuali, la percezione del territorio, la previsione circa l'uso delle risorse, i meccanismi di creazione del prestigio e del potere; dall'altro, cerca il modo per testare le ipotesi relative agli aspetti simbolici della cultura materiale riducendo la libertà interpretativa di derivazione idealista. In questo modo l'archeologia cognitiva si è sviluppata superando la tradizionale scorciatoia interpretativa consistente nel sostenere che tutto quanto non compreso può definirsi come rituale o simbolico e nulla più. Essa si occupa di scienza, tecnica, ideologia, iconografia, cosmologia e religione, cercando di affrontare questioni relative alla trasmissione e codificazione del sapere o di motivare le scelte caratteristiche di particolari gruppi sociali. Il tutto sapendo che uno dei rischi più forti è quello di trasferire nella cesta degli uomini del passato pensieri attuali, e magari abituali, che per questo motivo sembrano convenienti o addirittura naturali e universali. Fra questi, ad esempio, il modo occidentale di procedere alla ricerca di cibo, sesso, comfort, privacy, sicurezza. Per i periodi anteriori alla comparsa dell'Homo sapiens l'archeologia cognitiva valuta il modificarsi dei caratteri antropologici e i condizionamenti fisiologici che obbligano i piccoli a una lunga permanenza con la madre e a un lento apprendimento che porta a legami duraturi. Gli studi sul progressivo incremento del volume cerebrale negli ominidi sono anche volti alla comprensione dei cambiamenti nel funzionarnen-

I 2.2.

7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

to della mente e, a cale scopo, si utilizzano, insieme, i dati archeologici e gli scudi sull'apprendimento infantile condotti dalle scienze cognitive moderne. Michen ( 1996), riconosciuta così una sorca di modularità della mente, con parei variamente specializzate, ne ipotizza l'evoluzione e quindi la storia dei modi di pensare nelle diverse epoche preistoriche (FIG. 6). Egli, ad esempio, ritiene che pensare come un neanderthaliano è compiere azioni intelligenti in assenza di memoria e percezione cosciente. È guidare l'automobile lungo un percorso "abituale", che quasi non si sa descrivere, e senza "accorgersi" dei semafori pur rispettandone "automaticamente" le indicazioni. È scansarsi "istintivamente" quando si rovescia la tazzina del caffé e non quando si rovescia quella dello zucchero. È un pensare fra virgolette, che è persino difficile credere possa caratterizzare tutta una vita e una società, ma che sembra leggibile nella monotonia degli utensili in pietra, uguali per millenni, nell'assenza di arte (che presuppone intento comunicativo, simbolizzazione di parei del mondo naturale, realizzazione tecnica) e, ancor più, nel mancato sviluppo dell'industria in osso e avorio, materiali "pensati" soltanto come resti animali e non ancora come materie prime. A sottolineare che l'archeologia cognitiva può veramente diventare la nuova frontiera di un costruttivo confronto fra processuali e poscprocessuali si ricordi che il "manifesto" di cale tendenza può, almeno per cerci aspetti, essere identificato ne Il pensiero selvaggio di Lévi-Strauss e che, oggi, ribadendo l'unità psichica del genere umano riconosciuta dagli illuministi, si può, con Renfrew, parlare di cognitive-processual approach e quindi della necessità di dare sostanza (substantialization) allo studio dei rapporti mente-maceria, non guardando solo alla preistoria e allargando il campo all'età storica. In tal modo, l'archeologia cognitiva potrà avvalersi del confronto con altre fonti, perseguendo, ad esempio, un'archeologia del sapere tecnico o un'archeologia del potere e quindi non più solo il come si pensava, ma addirittura il cosa si pensava.

7.4 Cacciatori e detective Discutere del modo di pensare degli antichi rinvia in qualche misura al modo di pensare degli archeologi e, a tal proposito, è utile riprendere i terni di un dibattito sviluppatosi in Italia negli anni ottanta e che prese avvio dalla constatazione che, solo un secolo prima, nelle scienze urna-

12.3

ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA

6

Le intelligenze dell'Homo sapiens sapiens Arte, religione e scienza Sapere tecnico (animali e piante come "risorse" e "manufatti") Antropomorfismo e totemismo (animali e piante come "persone")

Intelligenza sociale

Socialità ( uso simbolico dei "manufatti")

(,~ : (.;ti !~,~ij'

Intelligenza storico•naturalc

@ §

Intelligenza tecnica

Q

Linguaggio

@

Intelligenza complessiva

-

Nell'Homo sapiens sapiens la mente non è né una spugna che assorbe né un coltello svizzero che è idoneo a più scopi, ma un collegamento fluido fra settori comunque distinti. Fonte: adattata da Mithen (1996).

ne aveva fatto esplicita comparsa un modo di ragionare antichissimo: un modo utilizzato anche dagli storici e, ancor più, dagli archeologi, per costruire le proprie interpretazioni. A fine Ottocento Giovanni Morelli, medico e storico dell'arte, utilizzava i tratti minuti usati per il disegno di un orecchio, un piede, un dito, per riconoscere l'autore di un'intera opera pittorica, quasi che si trattasse della firma. Similmente, e pressoché contemporaneamente, Sigmund Freud muoveva da sintomi superficiali alla scoperta dell'in-

7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

conscio e Sherlock Holmes, il detective uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle, sulla base di indizi apparentemente irrilevanti risolveva complessi casi polizieschi. Ad accomunare il modo di pensare dei tre diversi investigatori vi era l'essere medici e quindi il conoscere i principi della semeiotica medica che studia, a scopo clinico, relazioni di causa-effetto. Gli stessi principi che lo storico Carlo Ginzburg riconosce utilizzati sia dal cacciatore paleolitico sia dall'indovino mesopotamico, e che non differiscono da quanto costituisce il bagaglio di un cacciatore moderno o di un qualunque rabdomante. Tutti hanno un metodo, non scientifico, per cercare di guardare, partendo da informazioni verificabili nel presente, al passato, o se si vuole al futuro, ma comunque al di là di una cesura temporale rilevante. Segni, indizi, sintomi, tracce; sono queste le parole che si usano per designare cose minori, ma in grado di informare di altre preesistenti e spesso importantissime. In ogni caso destinate a segnalare una sequenza temporale e un rapporto effetto-causa (e non il contrario): segnostile pittorico, sintomo-malattia, indizio-delitto, traccia sul terrenoanimale cacciato. In tutti questi casi si ragiona sempre nel medesimo modo: Sherlock Holmes, ad esempio, conosce i dettagli di molti casi, ha un proprio archivio di tipi (ad esempio, le varietà di ceneri da cui risalire a un dato sigaro e quindi ai gusti di un criminale), fa ragionamenti stratigrafici (un'impronta ne copre un'altra ... ), fa prove sperimentali, formula ipotesi e ne valuta le conseguenze, ogni tanto tira a indovinare. Per Carandini (1980, p. 8) questo è anche il modo di procedere dell'archeologo; chi scava è, nello stesso tempo, cacciatore e scienziato e il sapere trovato per strada dal primo può essere organizzato in serie ottenendo un rigore pari a quello del secondo. Non potendo essere scienziati per intero, che almeno si sia buoni cacciatori capaci di tipologizzare le prede (i reperti), riconoscere i contesti (la stratificazione), utilizzare le conoscenze pregresse (fonti e documentazione storica). Cacciatori, detective e archeologi ragionano in maniera simile e, coscienti o meno di farlo, utilizzano contemporaneamente tre diversi modi di organizzare le informazioni (cfr. FIG. 7 ). Il modo, o metodo, induttivo è quello che si basa sulla raccolta di dati e per il quale la frequenza di attestazioni simili si ritiene abbia un valore di prova (ad esempio, cento castelli sono sommitali; questo sito, essendo sommitale, eun castello). È questo il metodo proprio degli storico-culturali, che nei casi peggiori però si limitano a raccogliere dati per poi interpretarli alla luce di altre fonti.

125

ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 7

Schema esemplifìcacivo dei ere tipi di ragionamento

da premesse certe a necessarie conclusioni logiche Soluzione logica

da segnali deboli alla ricapitolazione fulminea di eventi razionali Soluzione emotiva

dal ricorrere di casi singoli a generalizzazioni probabili Soluzione coerente

Valorizzando elementi discinti, i tre diversi modi di ragionare possono convergere verso una soluzione uvera".

Il metodo ipotetico-deduttivo, spesso ritenuto carattenmco dei New Archaeologists, è invece quello che ritiene un argomento vero se le premesse sono vere (se ci sono mura e difese allora un castello). Metodi quindi diversi e per i quali necessitano competenze differenti, ma che non possono utilizzarsi separatamente perché il secondo dipende sempre dal primo, tanto che il normale iter di indagine archeologica prevede sempre raccolta e organizzazione dati (induttivo), conseguente formulazione di ipotesi e ragionamento logico (deduttivo), verifica dell'ipotesi guardando a nuovi dati (induttivo). Nel fare questo, non è però estraneo un terzo modo di ragionare, detto abduzione, meglio adattato a valorizzare informazioni sparse o casuali, ma parimenti concreto anche se può definirsi come la componente creativa dei primi due. In pratica, il tirare a indovinare,

e

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7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

non a caso, ma con il buon senso di chi mette, ad esempio, insieme quanto offre una banca dati carente, una teoria di cui sono note le pecche, una fonte non del tutto pertinente (un sito in un 'area pianeggiante chiuso da una palizzata lignea e privo di muri di pietra, datato a un periodo di farti contrasti, ecomunque interpretabile come un castello). Al riconoscimento dei meccanismi del discorso archeologico e dell'interpretazione un contributo importante è stato portato dalla cosiddetta scuola logicista riconducibile all'operato del francese JeanClaude Gardin. Tale scuola muove dalla constatazione che spesso non è palese il percorso che unisce i dati ali' interpretazione. Distinguere, come si fa normalmente, la parte descrittiva di uno scavo dalle conclusioni quasi sempre non risolve il problema. Gardin dalla sistematica analisi di moltissimi testi ha ricavato lo schema di un tipico percorso di ricerca e del modo con cui se ne organizzano i risultati. Dapprima si ha l'identificazione del manufatto e il riconoscimento di un obiettivo di studio descrivendo, da un lato, l'oggetto e, dall'altro, sottolineandone, spesso in maniera retorica, l'interesse in quanto rarità o novità. A ciò segue la descrizione dettagliata dell'oggetto e il collocarlo nell'ambito della disciplina occupandosi dello stato delle conoscenze. In questa fase, le descrizioni non sono mai neutre o esaustive, ma mirate a sottolineare quei caratteri maggiormente utili all'interpretazione che si dice di stare ancora cercando. Il confronto fra quanto evidenziato nella descrizione e quanto tradizionalmente noto porta poi a una reinterpretazione che compendia, talvolta invertendolo, quanto già scritto sull'argomento. In fase di sintesi non resta che richiamare argomenti prima trascurati e che ora, letti alla luce della nuova interpretazione, concorrono a confermarla (validazione) e a suggerire nuove ipotesi e vie di ricerca. Nel complesso, la controllabilità dei meccanismi interpretativi appare scarsa e l'operazione è avvalorata soprattutto da discorsi persuasivi e citazioni ad hoc. In questo procedere, induzione, deduzione e abduzione giocano tutte un loro ruolo e cercare di distinguerle è utile proprio per rendere evidente la logica del discorso che lega gli oggetti all'interpretazione. Per fare ciò, Gardin ritiene indispensabile un linguaggio che si presti a forme rapide di comunicazione, in pubblicazioni schematizzate, con evidenti nessi logici, e tabelle sostitutive del testo, così da aversi «una riduzione di volume senza perdita di materia» (1995, p. 64).

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ARCHEOLOGIA TEORICA

7.5 La cultura materiale Così come per archeologia teorica anche i termini cultura materiale e storia della cultura materiale spesso hanno l'effetto di far allontanare il lettore che prevede inutili complicazioni e una noia davvero mortale. Nel caso della cultura materiale ciò è probabilmente conseguenza del contrasto, immediatamente evidente, fra quanto abitualmente si ritiene essere cultura (aree, letteratura, musica ecc.) e gli aspetti materiali della vita: il lavoro, le attività quotidiane, il succedersi di fatterelli minuti sempre uguali pur nella loro infinita varietà. Stabilire una relazione fra cultura e materiale suona perciò cavilloso, ma solo se non si nota che cale relazione è nei fatti e nei materiali. È lì, fuor di filosofia, nella concretezza della vita, prima, e delle fonti archeologiche, poi, che essa si ha e si può affrontare. Per evidenziare la possibilità di un lavoro che, muovendo dai materiali, sia - seppur in momenti discinti - processuale e postprocessuale, occorre fare una precisazione: cultura materiale non è sinonimo di associazione di manufatti ricorrenti, perché altrimenti equivarrebbe alla semplificata definizione della cultura come fu fatta da Childe. Ancor peggio è chiamare i manufatti cultura materiale compiendo la stessa operazione che fanno quelli che chiamano non vedente il cieco, ma non per questo si preoccupano di eliminare le barriere architettoniche che ne ostacolano il cammino. Cultura materiale, rifacendosi a una definizione tipica degli anni settanta quando parte dell'archeologia italiana tentava di liberarsi dal giogo dell'arte classica, è invece tutto ciò che ha a che vedere con le condizioni reali di vita delle persone e, in particolare, i modi di produzione e le attività quotidiane, non intese come semplici atti materiali, ma come azioni sociali. In pratica, si disse allora, la scoria delle masse altrimenti senza storia e dei fenomeni ricorrenti e di lunga durata; una scoria in cui l'ordinario diventava importante. Con il tempo, questo schierarsi a "sinistra': per simpatia, ma ancor più per la necessità di contribuire a una storia che non era raccontata dalle fonti scritte, si è però arricchito con il riconoscere che l' archeologia può dare un contributo rilevante e originale anche allo studio delle classi agiate e dei fenomeni di breve durata. La storia dei contadini deve costruirsi insieme a quella del signore, gli eventi quotidiani si comprendono meglio confrontandoli con quelli eccezionali, la campagna va posta in relazione alla città così come le aree monumentali di questa non possono essere comprese senza le periferie.

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7. LA RICOMPOSIZIONE DEL CONFLITTO

La storia della cultura materiale è quindi studio integrale delle relazioni uomini-manufatti nella più vasta accezione che possa darsi a questo termine. Sono manufatti l'ascia e la statua, ma anche la strada, il versante collinare terrazzato, il solco dell'aratro, il seme o l'animale selezionato, il segno inciso per scrivere o dipingere e quello conseguenza di un procedimento tecnico o perfino di un urto casuale. L' archeologia, che concorre con altre fonti e discipline alla storia della cultura materiale, proprio nello studiare i manufatti deve necessariamente affrontare le due questioni che si sono dette comuni a ogni ricerca sul genere umano. A scopo esemplificativo, ciò può essere reso graficamente con un triangolo avente al vertice i manufatti, perché è da questi che muove l'archeologo, e alla base i comportamenti e i significati (cfr. FIG. 8). A seconda dei manufatti in corso di studio, le frecce che compongono il triangolo potranno essere più o meno spesse e importanti. Nel caso di un utensile, il triangolo sarà "sbilanciato" verso lo studio dei comportamenti, da non confondersi con gli atteggiamenti che si possono assumere nel fare una data azione, né, all'opposto, riducendone il senso a una sequenza meccanica di gesti e operazioni. I comportamenti sono quindi ciò che gli uomini fanno e il perché lo fanno; ad esempio, i gesti tecnici finalizzati al compiersi di un ciclo produttivo e dal cui studio si può risalire al modo di produzione in cui questo s'inscrive. Si può così avere per obiettivo la descrizione di singoli casi (ad esempio, quale tecnica?), ma anche la verifica di osservazioni più generali (basate sul riconoscere la natura dei materiali e le svariate costrizioni d'ordine materiale e ambientale che condizionano ad esempio l'evoluzione tecnica) o lo studio della relazione che, in un dato sistema sociale, lega modi di produzione a elementi sovrastrutturali. Nel caso di un oggetto rituale, come un crocefisso o una statua votiva, il triangolo della cultura materiale sarà invece "sbilanciato" verso lo studio dei rapporti che gli uomini instaurano fra loro proprio in relazione alle cose e imponendo originali attribuzioni di significato: culturale, religioso, ideologico. E allora, per quanto attiene alla disamina dei significati sarà più utile ricercare quanto caratterizzava il sistema di comunicazione proprio di una data società, o di un suo segmento, anziché mirare al senso attribuito, nel chiuso della propria capanna, da un singolo individuo a un qualche manufatto. Per molti oggetti, occorrerà però affrontare entrambi gli approcci di studio. Una brocca dipinta, un abito, un cibo o un edificio andranno difatti valutati di volta in volta cercando, oltre a una disamina puntuale

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA

8

La cultura materiale Costruzioni

Alimenti preparati

Arredi e mobilia

Abiti

Utensili

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coa,orl1a11tl Razionalità

Arte Ornamenti

Documenti

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(ciò che si fa)

( ciò che si pensa)

Arbitrarietà

Idee, Credenze, Valori

Abilità personale, Sapere tecnico Cicli produttivi

Giochi

Cicli di vita

Sistema d'incesa Percezione del mondo

Nel triangolo della cultura materiale tutte le parti sono collegate e muovendo dallo studio dei manufatti (di cui si è sempre occupata l'archeologia scorico-culcurale) si possono ricostruire i comportamenti (aventi natura antropologico-processuale) e i significati (aventi natura postprocessuale o contestuale).

dei comportamenti associati (tecnica di realizzazione, modalità d'uso ecc.), anche di utilizzare tali dati per capire il significato di quell'oggetto in quel contesto. Discutendo di archeologia teorica, a mio avviso inevitabilmente, si è tornati a ragionare di manufatti e quindi delle stesse basi dell'edificio archeologico. Il cerchio si è chiuso: teoria, metodologia, pratica della ricerca non possono essere disgiunte. Ragionare sul proprio operato e sui presupposti teorici che orientano i meccanismi dell'interpretazione significa contribuire nei fatti a un'archeologia pluriverso attenta allo studio integrale delle vicende che legano uomini e manufatti e in cui, solo per comodità, si possono distinguere i comportamenti (ciò che gli uomini fanno) dai significati (ciò che gli uomini pensano). Nel fare questo, fra l'altro, quasi naturalmente, si eviterà anche il rischio, proprio delle impostazioni antiquariali e storico-culturali, della storia feticista del coccio, della scarpa, di una qualsiasi tecnica.

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8

Sviluppi di inizio millennio

8.1 "Rivoluzioni" troppo ottimiste Com'era già chiaro sul finire del secolo scorso, la contrapposizione processuali/postprocessuali e quindi gli opposti estremismi materialista/ idealista, pragmatico/ semiotico, scientista/ iper-relativista si sono molto attenuati. E, ovviamente, il dibattito teorico ne ha risentito. In assenza di contrasti forti è diventato più noioso e, in qualche occasione, la stessa archeologia teorica è venuta ridimensionandosi

(FIG. 9). Alcuni studiosi hanno posto l'accento sul fatto che l'archeologia mai come oggi sta vivendo una stagione di grandi successi, quasi una terza rivoluzione dopo quella ottocentesca (dall'antiquaria a disciplina storica) e quella di metà Novecento (la cosiddetta rivoluzione del radiocarbonio). Gli elementi costitutivi della rivoluzione attuale sarebbero conseguenti all'esponenziale crescita delle ricerche sul campo e, più significativamente, al progresso scientifico, in particolare la caratterizzazione del DNA di singoli individui e, quindi, di antiche popolazioni che ha fatto scrivere del sogno di poter estrarre, in un futuro imprecisato, i suoni o le parole del passato dagli atomi di chissà quali reperti. Nella stessa direzione si ritiene vadano altri strumenti che si stanno diffondendo, ad esempio per ottenere sempre migliori datazioni scientifiche, per caratterizzare i materiali o per lo studio dei paesaggi. Altro elemento di sicuro progresso è per taluni la rivoluzione informatica, l'ennesima, legata a Big data e Open access. In breve, alcuni ritengono che la massiccia diffusione di conoscenze e prodotti infor-

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 9

Cosa hanno in testa gli archeologi?

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I cappelli, in questo caso, rappresentano le idee di archeologi "avventurieri" amanti di esplorazioni esotiche (1840-1900), di "accademici" storico-culturali (1900-1960), di "militanti" attenti a teoria e pratica (1960-1990), di "manager" dei beni culturali (1990-). In orizzontale l'asse del tempo, in verticale le cesure più significative.

Fonte: modificata da Praetzellis (~ooo).

matici consentirà la gestione di una mole enorme di dati, formalizzati e liberamente consultabili. Dati che, da un lato, dovrebbero consentire la condivisione e la crescita di conoscenze, ma la cui gestione porterà, più verosimilmente, a nuove forme di controllo, gestione centralizzata, imposizione di standard. Forse, nei fatti e al di là delle migliori intenzioni, alla limitazione della libertà di fare ricerca. La necessità di formalizzare le osservazioni eterogenee e irripetibili tipiche degli scavi archeologici, per poi procedere a informatizzarli, dovrebbe, inoltre, imporre una stringente riflessione su cosa si intenda per dato e il vecchio adagio per cui l'interpretazione si fa in punta di trowel (e, quindi, riprendendo Hodder, 1997, p. 693, con la cazzuola a scavo in corso) sta da tempo a indicare che il dato grezzo non esiste. I dati e il riconoscimento stesso delle evidenze archeologiche, e da ciò

8.

SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

l'utilizzo che se ne farà, dipendono dalla "teoria" e se, a questo punto del libro, non si è convinti di ciò, basti considerare un altro ostacolo alla rivoluzione digitale. In Italia, ma non solo, quasi il 90% degli scavi non è pubblicato, non ne vengono studiati i materiali, non si ricostruiscono le associazioni di fase, e neppure si procede a datazioni scientifiche o analisi naturalistiche. Il lavoro svolto sul campo resta perciò confinato nella cosiddetta Grey Archaeology, le relazioni di fine scavo non destinate alla pubblicazione da cui derivano le note preliminari in cui il funzionario di turno descrive solo gli aspetti più eclatanti dell'evidenza (per fare un esempio, in tali relazioni le tracce di attività produttive sono quasi sempre ritenute "probabili" perché non adeguatamente studiate). A ben vedere, informatizzare la documentazione cartacea di scavi mai studiati è, quindi, un accumulare fonti secondarie, utili forse a una storia delle ricerche (e alla costituzione di potentati accademico-informatici), molto meno a un'archeologia di attività e insediamenti. E con questo non si vuole negare la grande utilità di banche dati a libero accesso, ogniqualvolta sono finalizzate a specifici problemi della ricerca. Esattamente ciò che avviene per il radiocarbonio, la dendrocronologia, la zooarcheologia e altri settori in cui, ritenendo il progresso scientifico un'impresa cumulativa, vengono stabiliti standard analitici e controlli di qualità così da accumulare dati via via più attendibili e in grado di formare curve o costituire atlanti di riferimento. Con la consapevolezza, però, che l'archeometria è agnostica rispetto alle teorie che ne utilizzeranno i risultati e si potrebbe sostenere che Big data e informatizzazione, al pari delle analisi, sono i meccanici impegnati nella messa a punto di un'auto che vorremmo guidata da altri. Da chi ha una meta, un'idea del mondo, una teoria. In realtà, la visione iper ottimista di alcuni archeologi che si ritengono protagonisti di progressi epocali si scontra anche con altre questioni estremamente attuali e concrete; la riduzione dei finanziamenti alla ricerca in molti paesi, l'uso della storia che si fa in altri, la distruzione del patrimonio in gran parte del Vicino Oriente, il legare la conservazione non alla tutela ma alla valorizzazione economica in Occidente e, quindi, al turismo anziché alla conoscenza. E, vale la pena ripeterlo, l'ottimismo si scontra con la montagna sempre crescente di documentazione inedita e di materiali mai studiati e abbandonati, diciamo pure per sempre, nei magazzini.

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ARCHEOLOGIA TEORICA

8.2 La non morte della teoria A seguito della contrapposizione teorica fra processuali e postprocessuali, oltre a noia e stanchezza, sono venuti progressivamente emergendo tre differenti modi di guardare all'archeologia teorica. Alcuni sostengono che, in fin dei conti, della riflessione teorica è possibile fare a meno e, guardandosi quasi sempre dal dichiararlo, mirano a un'archeologia aproblematica e descrittiva, o ripartono da quanto offre loro la vecchia impostazione storico-culturale: il diffusionismo, la definizione di culture territoriali o il lavorare a migliorare le partizioni cronologiche e le classificazioni dei manufatti. Altri, invece, hanno solo corretto il tiro e tuttora continuano a scrivere opere di carattere, più che archeologico, filosofico o sociologico in cui le testimonianze antiche sono un pretesto e il vero intento è l'esegesi di testi altrui, in un gioco di citazioni colte il cui scarso valore è, nei casi peggiori, facilmente verificabile. La prova del nove, di fronte a lavori che citano, a ogni riga, Adorno, Barthes, Collingwood, Derrida, Foucalt, Giddens, Heidegger e molti altri, sta nel provare a riassumerli. Spesso si scopre che sono stati scomodati grandi pensatori, che mai si sono confrontati con le problematiche archeologiche, per sostenere affermazioni banali: ad esempio la possibilità di fare storia a partire dai manufatti che, ovviamente, sappiamo informare di cicli produttivi, pratiche d'uso, relazioni economiche e sociali, credenze religiose e simili. O, anziché scrivere "le proprietà dei materiali", si discetta della "materialità degli oggetti" esponendosi alle critiche di chi, in tutto questo, riconosce ruminare di filosofi, perversioni accademiche, linguaggi grotteschi (lngold, 2007 ). Rispetto ai due precedenti modi di guardare o scrivere di archeologia teorica, un terzo è più interessante e utile. In un agile libretto intitolato The Death ofArchaeological Theory ?, John Bintliff e Mark Pearce, nel 2.ou, hanno proposto una "moratoria teorica" così da evitare di discutere ancora di sacri testi e vecchie questioni in una logica autoreferenziale alimentata da citazioni finalizzate all'indottrinamento del lettore. Essi propongono un'archeologia (teorica) riflessiva, eclettica, libera dai paradigmi principali, in grado di creare modelli e sostenere teorie, testabili a partire dai dati. Un qualcosa che viene definito bricolage nel senso che al termine diede Claude Lévi-Strauss e, cioè, capacità di deviare dal prestabilito in un approccio "multiverso" che altro non è se non il pluriver-

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8. SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

so di cui si è già detto (CAP. 7 ). E su cui, ovviamente, torneremo perché qualsiasi bricolage, per funzionare, deve essere indirizzato e consapevole. Al momento, è però sufficiente ribadire che i paradigmi di alto livello e di parte, che abbiamo chiamato storico-culturale, processuale e postprocessuale, non vanno visti in una logica di progresso dall'uno all'altro, ma di evoluzione. Evoluzione non lineare e con adattamenti, estinzione o quasi estinzione di parti, attardamenti, speciazioni, contaminazioni, ibridazioni. E per questo motivo non dobbiamo aspettarci in futuro un nuovo paradigma unitario, ma imparare a muoverci conservando con cura quanto di utile è stato costruito in passato. Alla non morte dell'archeologia teorica hanno concorso, in questi ultimi anni con sempre maggiore peso, altri due fenomeni originatisi, se si vuole, nell'alveo postprocessuale ma debordanti anche in altre direzioni. Da un lato, ricorrendo talvolta al termine meta-archeologia, è stata puntata l'attenzione su come gli archeologi costruiscono le proprie interpretazioni, sul rapporto che hanno con altri sistemi di fonti, in particolare con quelle etnografiche, su ciò che l'archeologia determina nella società attuale (conservazione, messa in valore, conoscenza, ma anche attivazione di saperi alternativi e mode culturali). E, questo, anche in conseguenza di un altro fenomeno che ha visto affiancarsi agli studiosi anglosassoni altri protagonisti provenienti soprattutto dall'Europa settentrionale, dalla Spagna e dal Sudamerica. L'imperialismo culturale di poche scuole è stato così intaccato, sono aumentate le indagini che coniugano ricerca locale a grandi temi e l 'archeologia del capitalismo e del colonialismo si è sviluppata anche riprendendo suggestioni storico-culturali ( il diffusionismo, l'attenzione per le cronologie) e postprocessuali (con lo studio dei significati delle cose in una prospettiva indigena). Più raramente, purtroppo, sono stati studiati temi processuali fra cui il trasferimento di tecnologie dal Vecchio al Nuovo mondo o le conseguenze dell'adattamento umano in aree ecologicamente diverse da quelle d'origine.

8.3 Piccole e grandi teorie

In passato, l'estinzione dei grandi dinosauri liberò ampi spazi e in questi si affermarono specie nuove. Qualcosa di simile è avvenuto in archeologia teorica, ma credo che le nuove specie si muovano ancora

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ARCHEOLOGIA TEORICA

all'ombra delle vecchie, da cui dipendono e che si stanno adattando e avranno lunga vita. In fase di lenta evoluzione sono l'archeologia darwiniana e quella cognitiva che, nonostante le differenti fortune, meritano pari attenzione. L'archeologia esplicitamente darwiniana (a cui si è fatto cenno nel PAR. 2.5) è una teoria di nicchia in cui si colgono due tendenze principali. La prima considera gli uomini, e le società, quasi come fossero animali e quindi la cultura e i rapporti sociali sono poco importanti, mentre quel che conta è il successo riproduttivo, la gestione delle risorse, la riduzione dei rischi. La seconda tendenza dà maggiore spazio ai fattori culturali e, in particolare, alla trasmissione di quelle informazioni che si perpetuano per tempi lunghissimi e di generazione in generazione. Ovviamente, al centro dell'interesse sono le fasi più antiche della preistoria, si pensi all'ominazione, ma spunti interessanti possono essere usati nello studio dei periodi successivi per comprendere, ad esempio, stabilità e cambiamento, adattamento ambientale, costrizioni biologiche, mutamenti demografici, fenomeni di acculturazione e selezione. Un insieme di processi che, oltre a essere complessi, possono essere stati non lineari ed essersi verificati anche quando non necessari o casuali o non finalizzati a qualche genere di progresso. Diversamente dalla precedente, l'archeologia cognitiva è una branca dell'archeologia in continua espansione anche grazie ai rapporti che intrattiene con l'antropologia, la sociologia, le scienze che si definiscono per l'appunto cognitive. Fin dalle origini, come già rilevato nel CAP. 7, essa affronta sia tematiche processuali (ad esempio, trasmissione del sapere tecnico o i concetti di equivalenza monetaria, peso, proprietà) sia tematiche postprocessuali (interpretazione di simboli, ma anche la nascita dell'arte in conseguenza di sogni, visioni, pratiche sciamaniche). Da tempo, però, sembra più frequente lo studio di situazioni intermedie: ad esempio, fenomeni percettivi, gusti estetici e artistici, categorizzazioni, intendendo con questo termine la suddivisione del mondo (e dei manufatti) in tipi, classi e modelli. Fra le novità recenti, alcune sono solo etichette utili a costruire carriere accademiche o a sottolineare tematismi particolari. Penso alla distinzione fra archeologia femminista e archeologia di genere, a tutte le teorie che hanno per oggetto il territorio, e pur essendo conseguenza di nuovi e importanti metodi di indagine, ancora utilizzano concetti derivati dalla geografia o riprendono quanto proposto dalla vecchia Site catchment analysis (determinismo ambientale e studio delle risorse).

8.

SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

Fra i tematismi importanti, ma da non confondere con nuove teorie, si pongono anche l'archeologia della guerra e la Forensic Archaeology. La prima è interessante soprattutto quando, in una logica di lunga durata, impone una riflessione sulla natura umana, mentre l'archeologia forense si caratterizza per le conseguenze imposte dal breve decorso di tempo che separa l'archeologo dai fatti che indaga (dalla deposizione dei resti all'identificazione della "scena del crimine"). Un'archeologia che ha a che fare con ricerca di identità individuali, questioni morali e politiche (restituire dignità e giustizia a chi è stato oltraggiato) e che è importante anche perché evidenzia il problema della responsabilità dell'archeologo nello scoprire la "verità" e nel farlo con metodi che reggano durante il dibattimento processuale. Altri tematismi, o pseudoteorie, sono figlie della crisi economica laddove l'archeologo è obbligato a inventarsi nuovi mestieri e si specializza in management, heritage o, più frequentemente, in divulgazione, cura di allestimenti, promozione culturale, insegnamento. Attività ovviamente importanti, in cui le idee indirizzano il lavoro e concorrono al risultato, ma che spesso hanno ben poco a che fare con l'archeologia.

8.4 Dalla simmetria al Processual plus Fra le novità del terzo millennio l'archeologia simmetrica è certamente una fra le più supponenti. Per alcuni, essa è difatti una nuova teoria, tutta archeologica e non dipendente da suggestioni antropologiche o sociologiche, in grado di modificare l'intera archeologia. Per altri, più correttamente, è il tentativo di pochi studiosi che cercano di coniugare dualismi ritenuti irrisolti. L'ambito in cui è nata l'archeologia simmetrica è un postprocessualismo consapevole che gli uomini e le cose sono, ovviamente, interconnessi. Contrapporre nettamente oggetto/ soggetto, scienza/ mito, individuo/società, ma anche uomini/animali, vero/falso, passato/ presente (o, in generale processuale/ postprocessuale) è quindi ritenuto una semplificazione eccessiva. E sbagliata, perché in un medesimo oggetto gli antichi potevano vedere, insieme, funzione e significato come caratteri inseparabili l'uno dall'altro. Su questo, nulla da eccepire, ma sostenere che il dualismo comportamenti/ significati poteva non funzionare in passato o che gli oggetti condizionano le scelte

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degli uomini o che il passato condiziona il presente non è, a ben vedere, una grande novità. Secondo alcuni, l'archeologia simmetrica è un "pragmatic concept" e, parafrasando il titolo di un importante libro di Gordon Childe, si può perfino convenire che l'uomo non ha mai autonomamente creato se stesso perché le cose che lo circondano hanno qualità attive ed è quindi stato il seme, che germoglia, a dare lo spunto per la "rivoluzione neolitica". Nonostante ciò occorre però continuare a chiedersi se, luogo per luogo, quel seme è stato notato da un indigeno ( invenzione indipendente, si diceva un tempo), o è stato apprezzato solo in seguito a informazioni giunte da altre persone (acculturazione), o è arrivato insieme a un colono (diffusionismo, diffusione demica), o è diventato frutto apprezzato grazie a una significativa interazione fra cacciatori locali e agricoltori stranieri. In tutti i casi si trattava di semi che possono definirsi "attivi~ ma è evidente che i processi sono storicamente diversi. In una direzione non troppo dissimile dalla precedente vanno altri due approcci: la più importante e nota New BehavioralArchaeology e il cosiddetto Processual plus che dietro il nomignolo degno di un detersivo cela un sentire e un agire rispettabilissimo. La versione New della Behavioral Archaeology (di cui si è già detto nel PAR. 5.7) non rinuncia a studiare gli esiti dei processi materiali leggibili nella stratificazione, consapevole che il record archeologico è la rappresentazione distorta di qualcosa che è stato. Ammessa, quindi, l'impossibilità di passare direttamente, o per analogia, dai dati a conclusioni scientifiche, anche nello studio dei processi formativi viene dato spazio ad azioni e attività simboliche, rituali o genericamente sociali come, ad esempio, i riti di passaggio. Scoprendo che, spesso, le strategie di scarto, unite alla gestione dei rifiuti, influenzano il record archeologico più delle strategie d'uso. In questa prospettiva, le leggi del comportamento, quindi, vacillano perché la sequenza di produzione, uso, riuso, scarto si complica, ma guardando ai caratteri della stratificazione e a quelli degli oggetti, è ancora possibile riconoscere un deposito temporaneo di beni da riciclare, un cimelio conservato per il suo valore o un oggetto smarrito da uno che è stato scartato perché non funzionante o perché ritenuto ormai fuori moda, inadatto, vecchio. Processual plus è definito l'approccio di chi, pur ammettendo i difetti della New Archaeology, la ritiene ancora fondamentale per lo studio di sussistenza, tecnologia, ambiente e, quindi, per la comprensione del processo storico. Non una vera teoria, quindi, ma una scelta di

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8. SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

campo con le critiche postprocessuali assorbite e fuse in una massa di processualismo vecchio stile. In sintesi, la Symmetrical Archaeology non sembra essere quella proposta audace (e generale) che voleva essere; la New Behavioral Archaeology ha il pregio e, al contempo, il difetto di essere per certi versi troppo settoriale; Processual plus è un'etichetta gradevole e poco più. In tutti i casi, e questo è importante, si tratta di tentativi che, al pari di altri, mirano a conciliare processuali e postprocessuali e concorrono a un'archeologia multidisciplinare, eclettica, libera da dogmatismi e visioni aprioristiche e di parte.

8.5 Materialità Con il terzo millennio, spesso senza neppure aver smaltito l'ubriacatura postmoderna, antropologi, sociologi e perfino architetti si sono accorti dell'importanza dei materiali e con intensità crescente hanno iniziato a scrivere di materialità (materiai turn). E se ciò può essere ritenuto un bene per alcune discipline, è paradossale che l'argomento sia stato proposto anche fra gli archeologi come una novità. Per gli archeologi lo studio del mondo materiale dovrebbe difatti essere, da sempre, la specialità della casa, ma evidentemente alcuni se ne erano dimenticati. E, quindi, la materialità è diventata un topic, un must, una mission da perseguire nel futuro. Ma cosa è la materialità e in cosa differisce (se differisce) dallo studio dei caratteri dei materiali, dall'archeometria, dalla storia della cultura materiale, dalla storia delle tecniche artistiche o, più in generale, dalla stessa archeologia? Materialità, riprendendo dalle numerose definizioni che si trovano in letteratura, è il modo concreto di fare le cose, non tanto dal punto di vista tecnico (l'archeologia della produzione) ma dal punto di vista del rapporto individui-cose, entrambi attivi nella costruzione del divenire storico. Non è quindi la "bruta" archeometria, ma non è per gli specialisti del settore neppure la vecchia storia della cultura materiale che, nei decenni passati, non piaceva perché accusata di separare il materiale dall'ideale e ora non piace perché l'interesse per quest'ultimo sembra diventato eccessivo. Materialità, è stato detto, è ricerca di quali caratteri dei materiali erano significativi; le cose non vengono quindi più studiate come fos-

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ARCHEOLOGIA TEORICA

sera testi (e quindi smaterializzate nel processo di interpretazione), ma in quanto "agenti attivi" dando, perciò, importanza allo studio delle forme, del colore, delle finiture superficiali e di tutto ciò che può informare delle percezioni sensoriali degli utilizzatori. Un'archeologia fenomenologica che, ad esempio, sperimenta la replica di esperienze sensoriali; dal muoversi al buio in un cunicolo adibito a sepolcro, a ricercare la sonorità di strumenti antichi o quale manualità serviva per determinati lavori. Abbastanza frequente è anche lo studio della "biografia" di singoli oggetti scelti fra quelli investiti di significati, emotivi e affettivi, legati a momenti particolari, o a ricordi, della vita delle persone in una prospettiva quasi sempre nostalgica. Per sostenere che "Things are us", e viceversa, sono stati richiamati casi diversi; la domesticazione neolitica che certamente non fu soltanto accrescimento di risorse e nuove forme di gestione del territorio, ma portò a vedere in modo nuovo piante e animali; gli occhiali, tipica invenzione medievale che non è solo vetro e ottica ma, per affermarsi, dipese da nuovi bisogni (la lettura) e dall'accettare se stessi con una protesi sul naso che da un lato indica nn difetto e, dall'altro, è modellata per migliorare l'aspetto esteriore. Fino al ragionare della dipendenza da sigarette e droghe o del libero possesso, negli Stati Uniti, di armi da guerra dove, semplificando, si confrontano due idee: è il fucile che rende l'uomo assassino (opzione materialista) o è l'uomo che decide di sparare comunque (opzione sociale)? Il ragionare di materialità, per fortuna, ha obbligato molti postprocessuali ad abbandonare ogni eccesso idealista per ripartire dai lavori di Childe, Leroi-Gourhan, Rathje o Schiffer ostinandosi però a non prendere in considerazione Binford, forse soltanto per partito preso. O, probabilmente, per paura di ricadere nel determinismo ambientale e preferendo sostenere che la relazione uomini-cose è dialettica, "ingrovigliata" (entanglement), mutevole nel tempo in modi imprevedibili e non razionali. Come alcuni hanno rilevato, e Tim lngold (2007) ha scritto meglio di altri, la conversione postprocessuale alla materialità si basa su riflessioni generali e filosofiche ("Che cosa è una cosa?") sempre orientate alla ricerca del nuovo per il nuovo. Con la conseguenza che lan Hodder (2012a) finisce con il contraddire ciò che scriveva soltanto pochi anni fa continuando, però, a sostenere che le proprie mutevoli idee sono un fondamentale sviluppo disciplinare e non, come sembra, l'ennesima rinegoziazione tutt'altro che rivoluzionaria di

8. SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

FIGURA IO

Relazioni complesse Culture history

Processual

Postprocessual

'' '' '

Lo schema, ripreso da Hodder (~oub), evidenzia, in particolare, la complessità di relazioni fra tendenze riconducibili agli ambiti processuale e postprocessuale. A mezza via, oltre ad agency, andrebbe però posta anche l'archeologia cognitiva e quella sociale, ma è evidente soprattutto il numero di interrelazioni che inevitabilmente mutano nel tempo e a seconda delle opinioni dei vari autori. HBE significa Human Behavioral Ecology.

vecchie questioni (FIG. 10 ). Una rinegoziazione, comprensiva di un tardivo ritorno a casa, che va salutata positivamente ma nulla aggiunge a quanto noto da tempo a molti archeologi e storici della cultura materiale. E, perciò, proprio sottoponendo a critica il termine stesso "materialità", Ingold osserva giustamente che le ricostruzioni storiche devono basarsi sullo studio dei caratteri empirici dei materiali, intendendo quei caratteri che erano realmente (e praticamente) importanti per gli antichi produttori e utilizzatori (durezza, peso, conducibilità termica, colore, lucentezza, ma anche bellezza e utilità relativa o adeguatezza al contesto storico-sociale).

8.6 Agency, habitus, tendenze e tradizione E qui occorre fare qualche passo indietro. L'archeologia simmetrica, significativa ma non rivoluzionaria, nel tentativo di coniugare aspetti contrapposti, ha riportato difatti l'attenzione su due ferrivecchi dell'archeologia teorica a cui, per ragioni di spazio, non si era precedentemente prestata attenzione. Per sottolineare il ruolo attivo degli individui nella società (sia nel preservarla sia nel modificarla), e quindi l'importanza di scelte che potevano dipendere da sesso, genere, posizione sociale, formazione

ARCHEOLOGIA TEORICA

culturale, i postprocessuali già negli anni ottanta avevano fatto spesso ricorso al concetto di agency che, in italiano, può essere tradotto come azione, capacità di azione, iniziativa. Un concetto che acquisisce maggiore utilità per l'archeologo quando si associa ad habitus inteso come attitudine o comportamento ripetuto, conseguente al contesto e che, generalmente, lascia poco spazio a improvvisazioni e cambiamenti repentini. Habitus è quindi il modo di fare le cose e spesso potrebbe tradursi con "abitudine" per sottolineare che i cambiamenti non sono impossibili e che può non esserci consapevolezza del perché l'individuo attivo faccia una cosa in un certo modo. Nell'analisi dei cicli produttivi è facile sostenere che a un determinato habitus concorrono il sapere tecnico consolidatosi nel passaggio di informazioni di generazione in generazione, i condizionamenti oggettivi imposti da materiali e attrezzature, le aspettative del cliente. Da ciò ne consegue stabilità, carenza di innovazione, importanza della tradizione in tutte, o in quasi tutte, le attività produttive condotte nelle società di antico regime. E se agency e habitus, definiti negli anni settanta dai sociologi francesi Giddens e Bourdieu e poi utilizzati dai postprocessuali per reazione all'archeologia dei sistemi, sono ancora utili, è bene rilevare che non si discostano molto dalla definizione di tendenza tecnica (come proposta da Leroi-Gourhan) o di tradizione. In tutti i casi si tratta di pratiche dipendenti da un sapere trasmesso con l'esperienza, spesso in assenza di regole scritte, socialmente accettato, implicito nel fare, inspiegabile a parole, condizionato dai caratteri dei materiali, conservativo ma non immutabile, costitutivo di processi di lunga durata, soddisfacente per la realizzazione di azioni efficaci. Agency, a seconda dei casi, può essere un fattore di continuità o di cambiamento sociale ed è importante notare che il termine è usato anche per azioni collettive o per il condizionamento imposto dalle cose agli uomini. Incorno a un bancone da cucina, a una forgia metallurgica, a un festino redistributivo o a una pira funeraria, nella medesima maniera, tutto quanto sopra elencato concorre ad azioni (agency) che devono essere efficaci sia dal punto di vista materiale sia da quello socioculturale. In tal modo, i singoli eventi divengono pratiche ripetute (habitus) e determinano le evidenze archeologiche "normali", le più diffuse e significative. Testimonianze che, spesso, semplificando all'eccesso, si designano come testimonianze di vita quotidiana, ma sono invece testimonianze di momenti, che possono avere tempistiche differenti, im-

8.

SVILUPPI DI INIZIO MILLENNIO

portanti perché ricorrenti (più volte al giorno, giornalmente o soltanto ai cambi di stagione o in occasione di eventi particolari). Dalle situazioni sopra menzionate, produttive e non, dovrebbe essere chiaro che agency e habitus non possono essere patrimonio dell' archeologia postprocessuale, ma hanno molto a che fare con tematiche tipicamente processuali. Ad esempio, sono utili per studiare lo sviluppo, o non sviluppo, tecnologico, le pratiche commerciali, gli strumenti del potere e perfino i modi con cui i diversi gruppi sociali operavano per attivare risorse ambientali, dallo sfruttamento del bosco a qualsiasi altra forma di gestione del territorio. Ovviamente, non è necessario procedere, a ogni piè sospinto, a scrivere di agency e habitus così come non è necessario fare riferimento al concetto di tendenza tecnica o all'idea di tradizione, che spesso ha addirittura una connotazione negativa se intesa come persistere nel tempo di attività obsolete. Ma è necessario riconoscere che quanto sopra è un'eredità del secolo scorso di cui occorre fare tesoro per meglio comprendere alcuni aspetti importanti dell'agire sociale che l'archeologia indaga, con differenti consapevolezze, da lungo tempo (dalle tradizioni tecniche a stili e scuole artistiche).

143

9

Materiali e cultura materiale

Un punto fermo del presente libro è credere nella possibilità di ricostruire il passato a partire da resti materiali. E fin qui si è anche visto che lo studio dei manufatti, punto di partenza del lavoro archeologico, può essere attuato con modalità e obiettivi differenti a seconda del periodo, degli interessi del ricercatore e di molto altro. In anni recenti, si è passati dalla contrapposizione violenta fra archeologia processuale (tesa alla ricostruzione scientifica e per cui la cultura è un sistema di adattamento ambientale) e archeologia postprocessuale (libera interpretazione del passato, anche quando di parte, e attenzione ai diversi attori sociali) fino all'attuale reciproca tolleranza. O, come si è visto, al ritenere New e Post due paradigmi co-costitutivi, l'uno parte dell'altro, correlati se non legati. Il perdurare del dibattito, che vede protagonisti poche decine di archeologi in tutto il mondo, rischia però di assomigliare sempre più a un cortocircuito di affermazioni banali o di apparente buon senso (ad esempio, l'importanza delle cose o il discettare su "che cosa è una cosa"). Quasi una tela di Penelope che non procede anche perché c'è chi continuamente aggroviglia il filo. Nei testi di archeologia teorica, e perfino nei manuali di metodologia, raramente si ragiona di reperti e, ancor meno, dei criteri di classificazione che gli archeologi adottano. Ciò è perlomeno paradossale a meno di credere che classificare sia operazione neutra, oggettiva, ininfluente. In realtà è un'operazione complessa da cui dipende la possibilità di fare storia e per la quale non è sufficiente adottare procedure standardizzate e criteri più o meno analitici o, peggio, affidarsi ali' esperto di turno. Ragionare sui processi di classificazione può, quindi, costituire un esempio di cosa significhi fare teoria archeologica non fine a se stessa, ma pensando alla pratica.

145

ARCHEOLOGIA TEORICA

9.1

Identificare, classificare, interpretare Nel classificare, un primo passo è distinguere gruppi di reperti basandosi su caratteri oggettivi e verificabili. Ad esempio forma, materiale, dimensioni, colore, caratteri accessori, decori. Nel farlo, si potrà privilegiare questo o quell'attributo, ma certamente è possibile operare in modo razionale, sistematico, analitico, gerarchico e quasi scientifico. Così facendo, si potrà dare vita a un sistema classificatorio simile a quello adottato dai naturalisti e utilizzabile per distinguere le produzioni di diversi luoghi e periodi. Un secondo passo, non del tutto disgiunto dal primo, è catalogare funzioni. Chiedersi, cioè, per quale scopo l'oggetto fu prodotto. Talvolta, se il reperto è riconducibile a uno schema mentale di cui si ha esperienza diretta o mediata, la risposta è ovvia (e si distingue facilmente un coppo da un'anfora), ma in altri casi occorre cercare di ricondurre l'oggetto in corso di studio, e funzionalmente "misterioso", a un qualche bisogno fra quelli tipici dei Sapiens. In tal modo, si potrà valutare se ha quei caratteri imprescindibili, ad esempio, per cuocere, servire, tagliare ecc. Non in astratto, ma così come è verosimile che tali attività fossero attuate in diverse situazioni, contesti e periodi storici. E senza dimenticare che molti oggetti potevano non avere alcuna funzione pratica e servivano per scopi simbolici, rituali, distintivi e comunicativi e molti altri servivano sì a qualcosa di concreto, ma non erano privi di uno "stile" caratteristico di un sistema condiviso. Le tipologie "funzionali" evidentemente segnalano tendenze e non fatti concreti. Consentono di sostenere che certi materiali potevano servire per cuocere, ma non ci dicono nulla sul come, o sul cosa, nello specifico contesto. Il terzo passo è, quindi, passare alla ricostruzione dei singoli fatti (o usi); dalla tendenza cuocere il cibo (che è soddisfazione di un bisogno) al come, in ogni singola cucina, si organizzavano fatti particolari che derivavano dal compromesso avutosi, in quel dato tempo e luogo, fra caratteri dei materiali, conoscenze tecniche, condizionamenti del mercato, scelte di consumo, sistema sociale in senso lato. La stessa pentola funzionava diversamente se faceva o no parte di una batteria, se era usata in una casa o in un monastero, quotidianamente o in occasioni speciali. Per passare da generiche funzioni alla determinazione di

9. MATERIALI E CULTURA MATERIALE

usi significativi, occorrerà ricostruire, in primis, le associazioni di manufatti coevi, valorizzando al massimo i dati di scavo e, quindi, lavorare su campioni rappresentativi e appositamente selezionati. Quasi sempre, oggetti che, per ragioni proprie o dipendenti dai modi di stratificazione, saranno più leggibili di altri. Oggetti su cui si potranno riconoscere microscopiche tracce d'uso o altri dettagli importanti. Quando possibile, un quarto e penultimo passo sarà ricostruire la biografia di singoli oggetti che, per qualche ragione, possono essere informativi di fatti rilevanti. Ad esempio, in un contesto monastico dove moltissime scodelle, una volta rotte, venivano riparate cucendole con filo di rame, non è tanto importante che le scodelle continuassero a servire, un po' meno bene, da scodelle, ma è importante cogliere se quell'uso dipese da difficoltà di approvvigionamento, da propensione al risparmio, dall'attribuzione di un significato particolare o che altro. Fin qui è del tutto evidente che si sta ancora procedendo a una costruzione intellettuale tutta nostra ( archeologica, occidentale, moderna), basata su fattori validi per ogni periodo e latitudine (le tendenze e i bisogni) che non consentono di "immedesimarsi", riprendendo un termine usato da Renato Peroni (1998), nella testa degli antichi. In tale direzione cognitiva va il quinto passo e, cioè, il riconoscere quali classificazioni e differenziazioni, formali e non, erano percepite come significative dall'artigiano o dal consumatore antichi. Un passo che resta il più difficile o, se si preferisce, il più "teorico". Nonostante ciò, un siffatto sviluppo delle ricerche ha molto a che vedere con quanto definiamo studio della cultura materiale; che non è studio di manufatti in quanto tali, e neppure compilativa elencazione di tutto quanto costituiva l'equipaggiamento materiale degli antichi, ma va ben oltre e lega, come minimo, comportamenti e significati, ciò che si fa e ciò che si pensa, razionalità e arbitrarietà. Forse ogni produttore, nella propria testa e sugli scaffali della bottega, organizzava il vasellame, o qualsiasi altro prodotto, guardando ai caratteri produttivi e alle funzioni che (tendenzialmente) poteva soddisfare. Ma, quasi certamente, i diversi acquirenti modificavano tali logiche classificatorie a seguito di considerazioni relative alle associazioni di manufatti, agli usi, a come erano conservati o passavano di mano (ad esempio, per via

147

ARCHEOLOGIA TEORICA

TABELLA l

Classificare manufatti Classificazione

Criteri

Oggetto

TECNICO PRODUTTIVA

Oggettivi, analitici, gerarchici, quasi scientifici

Totalità dei reperti

Schemi mentali relativi a bisogni e tendenze tecnoantropologiche

% elevata dei reperti

(serie cronologiche) l

FUNZIONALE

(equipa~iamento materiale

3

USI CONCRETI

(associazioni d'uso)

Valutazioni quantitative, Campione dati di scavo significativo Indicatori specifici, tracce d'uso, analisi

4

VITA DEI MANUFATTI

Indicatori specifici, tracce d'uso, analisi

Singoli esemplari significativi

5

SISTEMI CLASSIFICATORI ANTICHI

Riconoscimento schemi mentali antichi

Totalità dei manufatti e contesto

Schema semplificato dei passaggi classificatori discussi nel testo con indicazioni dei criteri e degli insiemi di oggetti in studio.

Fonte: Giannichedda (2016).

ereditaria) e, quindi, al caricarli di valori e significati che si aggiungevano a quelli d'uso e di mercato. Se si alza il capo oltre il tavolo su cui si classificano i reperti, è evidente che, fra il punto di partenza ( classificazioni che si vorrebbero sistematiche, oggettive, analitiche, gerarchiche e quasi scientifiche) e quello d'arrivo, l'archeologo è chiamato ad affrontare problemi diversi (TAB. 2.). Alcuni risolvibili con analisi di singoli pezzi o poco più, altri con valutazioni contestuali a dimostrare che la storia della cultura materiale ha gli strumenti (pratici, metodologici e teorici) per affrontare questioni fondamentali; materiale vs ideale o, per essere chiari, studio degli aspetti funzionali e studio degli aspetti ideologici, dei comportamenti pratici e dei significati arbitrari.

9. MATERIALI E CULTURA MATERIALE

RIQUADRO II

Lavoro inutile Come distinguere oggetti funzionali, pratici e necessari da oggetti aventi funzioni simboliche, comunicative, decorative? Talvolta la domanda può apparire priva di senso, per quanto la risposta suona ovvia, ma la distinzione fra i primi e i secondi, in molti casi, non è netta. E, allora, può venire in aiuto rilevare che i secondi hanno richiesto all'artigiano che li ha prodotti un sovrappiù di lavoro che possiamo definire "lavoro inutile" (Giannichedda, 2.006). Inutile perché non necessario al funzionamento dell'oggetto (che svolgerebbe il proprio compito anche se privo di decori, iscrizioni, elementi accessori), ma in realtà utilissimo per aderire a un canone estetico, un gusto o uno stile. O anche per segnalare identità e ruoli, organizzazioni sociali, talvolta rango, successo, potere. Tale eccesso di lavoro ha il pregio di essere quasi sempre percepibile dall'archeologo durante lo studio delle sequenze produttive dei reperti e, in qualche misura, sarà quantificabile valutando l'eventuale ricorso a materiali rari o inconsueti (lavoro per l'approvvigionamento), a lavorazioni accessorie, a complicazioni costruttive che richiesero tempo e particolari competenze tecniche. Quantificare il lavoro inutile è, quindi, quantificare l'investimento dedicato a funzioni "simboliche", o non pratiche, e nel caso degli oggetti di prestigio è importante notare che gli stessi erano, al tempo stesso, manifestazione ed elemento costitutivo del potere, con un ruolo sociale attivo sia nel sostenere la struttura gerarchica sia nell'influenzare il complesso delle tecnologie attive (talvolta con la sperimentazione di nuovi materiali o procedimenti e, quindi, favorendo lo sviluppo tecnologico anche con il trasferimento di maestranze verso i centri maggiori). Ovviamente con la consapevolezza che nessun oggetto è funzionale o simbolico al cento per cento; l'ascia cosiddetta da parata poteva non essere del tutto "inutile" e, anche se non fosse stata ostentata, sarebbe servita a tesaurizzare il materiale, così come l'abito cerimoniale copre e protegge comunque il corpo. A ben vedere, quantificare il "lavoro inutile" è un modo "processuale" per studiare il "postprocessuale" e l'eccesso di virgolette in questa frase serve a segnalare la distanza che permane fra la ricerca che si compie (e le parole che la descrivono) e la possibilità di cogliere i significati profondi che portarono a determinate scelte di materiali, lavorazioni, decori.

9.2 Metafore e approcci storici Molte metafore sono state utilizzate per rendere l'idea della complessità degli studi di cultura materiale. A tal proposito abbiamo già scritto che non si può stare a metà strada perché si finirebbe schiacciati e

149

ARCHEOLOGIA TEORICA

bisogna perciò prendere posizione. Pertanto, non ci piacciono quelle metafore per cui la cultura materiale è una porta girevole o un pendolo che oscilla fra materiale e ideale. Sostenere che è una moneta a due facce o un uccello con due ali, del resto, indica soltanto che ogni parte, se presa singolarmente, risulta incompleta. Consapevoli che ogni metafora implica una semplificazione, ma induce anche nuovi spunti di riflessione, forse, si può sostenere, con Mark Pearce (in Bintliff, Pearce, 2.on, p. 85) che la cultura materiale è un menù da cui scegliere o, meglio, un'enorme corsia di ipermercato dove ricercare ciò che più è utile per lo studio archeologico di un oggetto o un contesto. Se accettiamo però l'idea del menù, questo ha il pregio di ordinare e scandire. In archeologia, non "primi, secondi, contorni", ma valutazione dei caratteri materiali, delle possibilità di utilizzo concreto (dell'oggetto, della costruzione, del cerri torio ... ), del significato di associazioni e contesti. Fino alla completa digestione ( interpretazione) del cucco, così che ogni parte contribuisca con le altre al risultato finale. Per valorizzare storicamente il lavoro, classificatorio e non, condotto su manufatti ed ecofacci, gli approcci di studio possono essere molteplici e forse è opportuno cercare di schematizzarli, così da segnalarne, insieme agli obiettivi, anche pregi e difetti. Tranne il primo, che potremmo definire agnostico, alcuni approcci di studio sono nettamente materialisti, talvolta fino all'eccesso, e altri consentono di studiare maggiormente il significato delle cose. Tutti insieme offrono chiaramente l'idea della complessità del lavoro da svolgere ogniqualvolta l'obiettivo è la ricostruzione globale del passato (TAB. 3). Definiremo approccio cronocipologico quello che maggiormente riduce la complessità del rapporto uomini-manufatti. Le cose valgono in quanto "fossili-guida" finalizzati alla datazione di fasi e contesti, ma è importante distinguere almeno la datazione iniziale (momento della produzione), la durata del ciclo di vita, il momento dello scarto. Ammettendo che, in qualsiasi periodo storico, possono convivere oggetti prodotti in momenti diversi, ma associati nell'uso. L'approccio tecnologico risponde alla domanda "Come si passa (o passava) da macerie prime, minerali animali o vegetali, a prodotti finiti?". La tecnica è vista come una ricetta; una sequenza di operazioni in cui distinguere passaggi fondamentali da altri accessori e meno importanti. Oggetto di studio privilegiato sono, oltre a scarti e difetti di lavorazione, gli utensili, e nel fare ciò può essere di grande ausilio

150

..,.....

TABELLA 3

Materia prima ----> Prodotto finito

Macchine e uteruili

Tempi della storia

Manufatti d'uso, monete, opere d'arte

Fonte: Giannichedda {w14).

I diversi approcci possibili nello srudio dei manufatti:

Catena operativa

1.

Approccio

Materie prime, utensili e oggetti d'uso

Matmauzalion

Engagemmt

Sapere tecnico Percezione

Monete, contenitori

Stturrure sociali Dono, baratto, bottino Studi quantitativi Territorio anttopizzato

Storia ddl'economia Economia politica

d'importazione

da trasporto, oggetti

Percezione Agenti attivi, habitus

regole. ..

Questioni di staIUS, leggi e

New Materiai Culture

New Archacology Arch. postprocessuale Storia ddl 'arte Anttopologia culturale

Utensili, oggetti d'uso, cibi, ornamenti, arre, giochi, abiti, abitazioni, monumenti ..

Prodotti finiti...., Società

Che ruolo avevano le cose nei rapporti fra gli uomini?

Approccio sociale

le domande che ci si pone; ~- i casi di più frequente applicazione; 3. alcune parole chiave caratteristiche.

Forma - funzione Sapere tecnico

New Archaeology Arch. postprocessuale Processi cognitivi Semiologia, Storia delle invenzioni, Design

scpoltutC-.

Utensili, materie prime, ornamenti, arte, giochi, abiti, abitazioni,

Oggetti...., Mente

Merci...., Gruppi sociali

Corpo umano

Manufatti .....

socioeconomico Come si scambiavano le cose?

Approccio cognitivo

Come funzionavano le cose Come si "pensavano" in relazione agli uomini? le cose?

Approccio tecnoanttopologico

Archeologia sperimentale Ergologia Storia della tecnica Archeologia sperimentale Archeologia indusaiale Emografia e Anttopologia delle tecniche

Come si facevano le cose?

Comesidara?

Tipologie Merodi datazione

Approccio tecnologico

Approccio cronotipologico

Approcci e domande

ARCHEOLOGIA TEORICA

l'archeologia sperimentale. L'approccio tecnologico dà, però, il meglio e al contempo il peggio di sé nello studio delle macchine. Macchine il cui potere di fascinazione può spingere lo studioso a idealizzarle, finendo così per non studiare più specifici oggetti, ma tipi noti talvolta soltanto da descrizioni antiche o disegni progettuali. Ovviamente il rischio del determinismo storico tecnologico è forte e può portare a separare tecnica, e produzione, da società. Variante evoluta del precedente è l'approccio tecnoantropologico per cui la tecnica è considerata, riprendendo i lavori di Marce! Mauss, un "atto tradizionale efficace", dove tradizionale sta a indicarne proprio la rilevanza sociale. La domanda che gli studiosi si pongono diviene, quindi, come funzionavano le cose in relazione agli uomini (dalla produzione, al consumo, allo scarto), ma, quasi sempre, l'impostazione è troppo schiettamente materialista e porta a trascurare scelte estetiche, produzioni artistiche, condizionamenti immateriali. L'approccio cognitivo allo studio dei manufatti affronta invece proprio tali questioni cercando di rispondere alla domanda "Come si 'pensavano' le cose?". L'approccio cognitivo, per sua natura, è, più di altri, un contenitore di idee differenti che ruotano attorno agli aspetti non materiali dei cicli produttivi. Dal come un'idea si è materializzata e ha portato alla creazione di nuovi oggetti ( il primo vetro, i simboli del potere), alla possibilità che dall'osservazione di cose esistenti siano state dedotte nuove idee astratte (ad esempio i concetti di peso, peso specifico). Il rischio maggiore consiste ovviamente nel fare ipotesi arbitrarie e indimostrabili e perciò occorre cautela, ampie valutazioni di contesto, ricerca di prove oggettive a partire dai caratteri immodificabili dei materiali: ad esempio rarità, pesantezza, colore, peso, durata, forma. Il tema di ricerca caratteristico dell'approccio socioeconomico è "Come si scambiavano le cose?". Un approccio non disgiunto da altri, ma limitante se si considerano gli oggetti soltanto come "merci" e si dimenticano altri possibili modi di scambiare diffusi nelle società precapitaliste: dal dono al baratto, dal fitto alle tasse, dal furto al bottino di guerra. Lo scambio commerciale, inteso come transazione razionale e conveniente che soddisfa la regola della domanda e dell'offerta, è quindi un caso fra tanti e il mondo antico, come noto, non era regolato dalle logiche del "mercato". E, quindi, l'archeologo deve evitare di trasferire nel passato idee e comportamenti tipicamente moderni. Più complesso e variegato di altri, l'approccio sociale cerca di rispondere alla domanda "Che ruolo avevano le cose nei rapporti fra gli

9. MATERIALI E CULTURA MATERIALE

uomini?". Dove "uomini" è termine generico per designare tutti i gruppi sociali che, laddove possibile, è doveroso distinguere guardando a sesso, identità di genere, età, status, cultura ecc. L'approccio sociale studia prevalentemente manufatti finiti, distinguendo beni di consumo che dovevano ricostituirsi continuativamente (il cibo, primo fra tutti) e beni durevoli (di pregio e non). Quel che interessa non è però l'efficacia reale (tecnica) delle cose, mal' efficacia sociale che con la prima può confliggere ogniqualvolta le necessità comunicative dell 'oggetto prevalgono sulla sua funzione pratica. È il caso di oggetti artistici, mezzi di comunicazione, monumenti e sepolture monumentalizzate e, talvolta, ornamenti, abiti, strutture insediacive. Più di altri, l'approccio sociale, a cui sono riconducibili ricerche diversissime, dagli scudi ormai classici di Vere Gordon Childe, fino ali' archeologia dei sistemi e ali' archeologia marxista, è un approccio potenzialmente inclusivo e capace di fare tesoro di quanto caratterizza gli altri approcci già descritti.

9.3 Uomini e cose Aver ragionato del lavoro classificatorio o degli approcci di studio che si adottano per passare dai reperti alle ricostruzioni storiche significa segnalare che, a tutti i livelli, gli archeologi incontrano i medesimi problemi. Lo studio di una tecnica è sempre più facile, più obiettivo, più scientifico, dello studio di un'attività rituale, spirituale, ideologica. Eppure, una ricostruzione storica globale deve mirare a entrambi. Altrimenti si ricostruisce solo qualche parte della storia inglobata nei reperti, nelle associazioni dei medesimi, nei contesti, nei quadri sincronici, nelle sequenze cronologiche, nelle reti di relazioni che l'archeologo riconosce ogniqualvolta si fa storico della cultura materiale. La lezione di questi ultimi decenni è stata chiara. Ad esempio, in ambito medievistica, dove il retaggio storico-culturale è forte e le fonti giocano un gran ruolo nell'indirizzare l'opera degli archeologi, la pulsione processuale, più o meno conscia, ha portato allo sviluppo dell'archeometria e ad affrontare nuovi temi fondamentali: sussistenza, dieta, gestione del territorio, sviluppi regionali, economia, potere. L'archeologia postprocessuale ha invece portato contributi rilevanti quasi soltanto nello studio delle identità sociali in contesti particolari; i cimiteri, i monasteri, in qualche caso gli spazi do-

153

ARCHEOLOGIA TEORICA

mestici. Nel tentativo di affrontare studi globali di situazioni complesse si è perciò compreso che occorre studiare, con pluralità di metodi e fonti, sia l'ambiente fisico, sia l'ambiente sociale, sia l'ambiente ideologico e quindi, nel concreto, gli spazi lavorativi, quelli abitativi, quelli ideologici (chiese, luoghi sacri e simili). E lo stesso frequente ripiegare di molti postprocessuali verso simmetrie, materialità e grovigli (cfr. CAP. 8) è significativo: oggi, per cercare di essere bravi archeologi e, quindi, per fare storia, occorre essere materialisti e processuali limitando gli eccessi che chiameremo giovanili (le leggi del comportamento) e facendo tesoro sia della tradizione storico-culturale sia delle critiche postprocessuali. Ammettendo, senza difficoltà, che l'obiettività scientifica è in assoluto irraggiungibile, soprattutto se si punta a "grandi narrazioni storiche", ma che le interpretazioni soggettive sono totalmente insoddisfacenti e non contribuiscono alla crescita della disciplina e della conoscenza.

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IO

Archeologia!

Un libro, in genere, non ha due finali. Tanto più se l'argomento non si presta ai colpi di scena. Nel 2002, Archeologia teorica si concludeva prevedendo, e auspicando, un futuro pluriverso, in grado, quindi, di conciliare impostazioni che, altrimenti, prediligono o lo studio processuale delle condizioni materiali di vita o lo studio postprocessuale degli aspetti artistici, spirituali, simbolici. Una prospettiva non distante da ciò che altri hanno definito, in tempi diversi, come archeologia globale e archeologia della complessità (Mannoni, Cabona, Ferrando, 1988; Brogiolo, 2007 ). Due approcci, che facendo tesoro dell'esperienza accumulata nello studio di casi microregionali, segnalano la necessità di non privilegiare a priori siti o periodi o temi di ricerca e si basano sulla valutazione del potenziale informativo di siti e contesti per riconoscere quanto è più importante per la comprensione della storia umana. Ricorrendo, di frequente e in modo originale, al contributo di discipline extra-archeologiche attente alla storia della cultura materiale (a titolo di esempio, dall'etnografia, alla toponomastica storica, allo studio delle fonti orali). L'idea di un futuro pluriverso a ben vedere non era quindi particolarmente originale e andava in direzioni diverse, ma non troppo, rispetto a tendenze successive e ampiamente dibattute (archeologia simmetrica e, meglio, Processual plus o materiality) ma, nel tempo, non ha trovato né critici né estimatori. Forse per il notorio disinteresse degli anglosassoni per tutto ciò che non è scritto in inglese, dei "fìlosofi" per ciò che è scritto chiaramente e, con poche eccezioni, degli archeologi italiani per ciò che è "teorico". Ritornare sull'argomento deriva dal ritenere l'archeologia - per tradizione, metodo e riflessione teorica - una disciplina ben attrezzata e in grado più di altre di contribuire alla storia della cultura materiale.

155

ARCHEOLOGIA TEORICA

Ovvero a una parte importante della storia con la S maiuscola, quella dei rapporti degli uomini con le cose (manufatti ed ecofatti) e dei rapporti fra uomini, singoli e in società, in relazione alle cose (produzione, scambio, uso, scarto). Una storia a cui concorrono fonti e discipline diverse, fra cui etnografia e antropologia, ma che proprio l'archeologia può ricostruire meglio di altri per due motivi. Primo, perché studia oggetti reali disponibili in numero e varietà infinite e, secondo, perché copre un arco temporale talmente ampio da consentire di cogliere l'evolversi dei processi, anche i più complessi e radicati, relativi sia al modificarsi dei comportamenti sia al modificarsi dei significati. In infinite situazioni e contesti, l'archeologo può difatti arrivare a chiedersi sulla base di quali considerazioni gli antichi prendevano le loro decisioni e conseguentemente ragionare di ambiente, risorse, demografia, produzioni, percezioni, valori, relazioni interpersonali e molto altro ancora. O, se si vuole, di questioni tecniche, tecnoantropologiche, cognitive, socioeconomiche e sociali in senso lato. In una parola, o quasi, di quella storia della cultura materiale che è vero punto di raccordo fra tutte le discipline umanistiche (e, ovviamente, fra tutte le teorie archeologiche che, evitando contaminazioni incoerenti, possono non solo polemizzare ma interagire e convivere).

IO.I

Qualche esempio Un tipico libro di archeologia teorica solitamente non ha figure. Eppure, proprio le figure, più delle parole, possono sostituire, almeno in parte, i manufatti ed essere di aiuto nel fissare un'idea o sostenere una narrazione. Poiché questo libro vuole essere un libro di teoria per la pratica, alcune figure meritano di essere presentate, in chiusura, proprio per ribadire l'approccio pluriverso finalizzato alla storia della cultura materiale. La FIG. 11 ha il pregio di schematizzare perfettamente il rapporto uomini-cose e fra gli stessi uomini in relazione alle cose. Non soltanto ogni manufatto è visto come conseguenza di esigenze diverse (produzione e uso/consumo), ma ogni individuo opera nella società. Ed è in questa che progetta, raccoglie stimoli esterni, elabora informazioni,

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IO. ARCHEOLOGIA!

FIGURA II

Lavorare in società

Progettata,'\

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Ideata

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La produzione di manufatti come attività che, in tutte le sue fasi (dal!' ideazione, alla progettazione, alla realizzazione), unisce considerazioni materiali e sociali.

Fonte: Clarke (1998).

costruisce oggetti e relazioni. La figura, ripresa da un lavoro di David Clarke pubblicato per la prima volta nel 1968, ricorda inoltre che tutto questo è noto da tempo e ovviamente potrebbe essere ridisegnata sostituendo gli scheggiatori preistorici con artigiani di un qualsiasi periodo e perfino con commercianti che soppesano le merci o consumatori che usano singoli manufatti per cucinare o vestirsi. La FIG. 12 è, se si vuole, simile alla precedente, ma nei due individui fotografaci a lrian Jaya, Nuova Guinea, si "vede" ancor meglio il modo inconsapevole con cui si trasmettono saperi di lunga durata, l'associazione di quei saperi a valori familiari e sociali (l'utilità dell'acqua per la levigatura dell'ascia, ma anche il figlio che impara dal padre), la continuità mutevole della tradizione. Anche questa figura illustra questioni già richiamate nel testo: corpo e mente, società e individuo, funzione e stile, ma anche bisogni e tendenze, agency e habitus. E, in modo diverso dalla precedente, evidenzia il divenire del processo storico (anziché due contemporanei presenta individui di generazioni successive). La FIG. 13 mostra la collina di Gobekli Tepe, un sito indagato da archeologi tedeschi, fra tutti quelli maggiormente legati alla tradizione storico-culturale, che ha rivoluzionato le conoscenze sulle società di

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 12.

Comportamenti e significati

I comportamenti non possono essere disgiunti dai significati ed entrambi sono inglobati nei manufatti e, per questo, restano a portata di mano degli archeologi. Nella fotografia è evidente il passaggio di competenze tecniche e di valori culturali, affettivi, simbolici ben resi dalle teste che si toccano (Missione del CSRL, lrian Jaya, Nuova Guinea, 1990, in "Ligabue Magazine~ 18, 1991, grazie alla cortesia di Giancarlo Ligabue). FIGURA 13

La collina di Gobekli Tepe (Turchia orientale) e uno dei monoliti scolpiti (foto dell'autore).

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10. ARCHEOLOGIA!

FIGURA 14

L'immagine di copertina dell'ultimo libro di Lewis R. Binford (2001)

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cacciatori raccoglitori e sulla transizione verso l'agricoltura. La monumentalità di strutture databili al 10000 a.C. o poco dopo ha difatti imposto di ragionare sul legame precoce fra sfruttamento dell'ambiente, sviluppo sociale e importanza delle pratiche rituali proprio negli anni in cui, da più parti, si coglieva la necessità di superare la contrapposizione processuale vs postprocessuale. La FIG. 14 è tratta dalla copertina dell'ultimo fondamentale libro di Lewis Binford ed è un omaggio a molti archeologi, formatisi a metà Novecento, che stanno scomparendo ma che vanno considerati come giganti sulle cui spalle è possibile alzarsi per andare oltre. Nello specifico, è anche un richiamo, esplicitato nel sottotitolo, all'importanza "di

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA IS

Testimonianze di complessità sociale

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Ricostruzione delle trasformazioni subite dalla statua stele Sorano v fra età del rame, età del ferro e alto medioevo e un particolare della starua stele Filetto IV. Disegno da E. Paribeni (a cura di), Guerrieri dell'eia delferro in Lunigiana, La Spezia ~001.

un metodo analitico per costruire teorie archeologiche(!) usando dati etnografici e ambientali". Passando dal generale al particolare, dai giganti ai nani, la FIG. 15 è relativa a statue stele lunigianesi. Manufatti, databili fra età del rame e antica età del bronzo (circa 3400-2000 a.C.), rinvenuti spesso in giaciture secondarie, ma tipologicamente ben caratterizzati e oggetto di molti lavori. Lo studio delle associazioni di steli, oltre a informare dell'organizzazione territoriale, ha consentito di chiarire che, in occasioni eccezionali, erano erette in piccoli gruppi, dove compare quasi sempre l'uomo con pugnale, la donna riconoscibile da seni e collane,

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IO. ARCHEOLOGIA!

un probabile bambino di dimensioni inferiori. Diversamente dalle raffigurazioni rupestri, con anonimi personaggi di profilo, la vista frontale delle steli le fa ritenere rappresentazioni identitarie di singoli individui o, forse, di antenati mitici. E se si ammette che le statue più semplici siano le più antiche, è significativo che fra queste prevalgano le figure femminili e solo in seguito prendano il sopravvento gli armati. Dubitativamente si potrebbe quindi ragionare di una sorta di iniziale egualitarismo e, quindi, del rafforzarsi della componente maschile, con armi, con l'infante che testimonia la trasmissione ereditaria, e non per meriti, del rango. La comparazione con steli e con altre evidenze dell'arco alpino, ma non solo, fa poi ritenere che questo tentativo di affermazione "clanica" non ebbe successo e, spesso, le armi furono cancellate sovrapponendo raffigurazioni, più "democratiche': di scene collettive (ad esempio, di caccia sul masso di Cemmo in Lombardia). Fin quando, nell'età del ferro, la diversificazione sociale si fece davvero forte anche in conseguenza di contatti con realtà diversamente strutturate. Una storia quindi complessa e che perdurò nell'alto medioevo, quando alcune pievi furono costruite in luoghi ancora segnati da quelle steli che tuttora sono ritenute simbolo identitaria di un territorio. La FIG. 16 presenta alcuni esemplari di ceramiche bassomedievali dal Monastero di santa Maria di Bano a Tagliolo Monferrato. Un sito in cui molte pentole presentano fori di riparazione, prova di una necessità pratica acuita da difficoltà di approvvigionamento, e dove quasi tutto il vasellame utilizzato nel refettorio era inciso con le iniziali dei nomi delle monache. Tali incisioni, essendo prive di uno scopo pratico (piatti e scodelle erano tutti funzionalmente simili), segnalano un'esigenza individuale e privata. Dove la Regola monastica limitava ogni individualismo e imponeva un'apparente eguaglianza sociale, il gesto di incidere un oggetto di proprietà significava riappropriarsi di parte della propria vita, sancire dei limiti alle azioni altrui, stabilire una continuità con l'esterno e con la casa natale da cui proveniva la dote, rinvigorire quella che è stata definita una cultura materiale della speranza. Una pratica (e una cultura di "marcare il territorio") che si ritrova, abbastanza simile, in altri luoghi di detenzione o di limitazione dell'identità personale: ospedali e ospizi, ma anche, seppur con significative differenze, nei castra romani lungo il limes, sulle galee medievali, nelle carceri ottocentesche. In questo caso, è evidente che se non si fosse avuta attenzione per segni

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ARCHEOLOGIA TEORICA

FIGURA 16

Affermazioni di identità

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L'eccezionale frequenza dei "segni di proprietà" sul vasellame rinvenuto in un monastero medievale è la prova della difesa dcli' identità personale da parte di monache costrette a una vita in comune e in condizioni di costrizione.

Fonte: adattata da Giannichedda (2012).

e simboli, si sarebbe potuto soltanto distinguere singoli tipi ceramici, e le importazioni spagnole da quelle toscane, trascurando gran parte della storia. La FIG. 17 raffigura alcune misure in uso a Genova sul finire del medioevo. Oggetti robusti che informano dei modi di produrre manufatti "inalterabili" e con precisi caratteri tecnici, ma anche delle modalità di misurare olio, vino e granaglie, delle alterazioni intenzionali che miravano a trarre illeciti vantaggi, della logica mercantile che presiedeva all'approvvigionamento della città. Oggetti su cui, per sancirne il valore, erano incisi stemmi, date, indicazioni d'uso. E che,

162.

IO. ARCHEOLOGIA!

FIGURA 17

Misurare rapporti sociali O

5 cm

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In alco, misure da vino (Pinta, Mezza pinta e Due amole); in basso, Barile da vino (disegno e foto), Mezzo barile da olio, Staro da grano (scale diverse; foto dell'autore).

non a caso, erano conservati nella Cattedrale. Ma, nonostante ciò, a Genova come sul mar Baltico o nell'Europa del Nord, le misure che si erano volute inalterabili (per materiale, segni, collocazione) in realtà erano periodicamente "ampliate", spesso scavandole all'interno, per truffare i fornitori. E, perciò, oggi informano di come il rapporto uomini-cose sia mutevole e complesso. Un rapporto che non risulterebbe comprensibile se si studiassero soltanto le equivalenze nominali fra i sistemi di misura adottati a Genova e nelle Riviere o lo stile delle iscrizioni. I tre casi appena accennati sono ovviamente diversi, se non altro per il diverso ruolo sociale che avevano individui di rango preistorico, monache di clausura, commercianti e maggiorenti genovesi, ma è evidente che nell'insieme segnalano un modo di fare archeologia pluriverso che sembra conveniente. Nell'ordine, procedendo dallo studio dei caratteri dei materiali (e quindi informazioni su cronologia, produzione, provenienza), al riconoscimento degli usi nello specifico contesto, fino alla messa in valore di caratteri che non possono essere ritenuti accessori (da un lato il numero e la frequenza di

ARCHEOLOGIA TEORICA

alcuni elementi distintivi, dall'altro le iniziali graffite e, terzo esempio, le tracce di alterazione e lo stemma della Repubblica o le anse classicheggianti). In tal modo, da bravi materialisti allertati dalle critiche postprocessuali, sarà possibile cogliere nel concreto il reale rapporto "personecose" che soddisfaceva comportamenti e veicolava significati differenti. In particolare, negli ultimi due casi, condizionando le relazioni fra eguali ( le monache nel refettorio) o fra persone con ruoli e saperi diversi (verificatori e fornitori di vettovaglie presso le porte urbiche). Con l'archeologo che, nonostante il decorso di tempo, può perfino cogliere nei manufatti più di quanto vi percepivano i diretti utilizzatori o quanto gli stessi, se interrogati, avrebbero negato. Da un lato le costrizioni del vivere in una collettività chiusa; dall'altro gli interessi di chi, avendo una posizione di potere, alterava a proprio vantaggio le misure di cui era garante. Altre storie però sarebbero possibili contestualizzando diversamente le informazioni desunte dai manufatti. Ad esempio, si potrebbe ragionare della diversa considerazione (e, quindi, classificazione mentale) che le monache avevano quando si trovavano nella casa paterna e dopo, quando erano ormai giunte nel monastero fra le montagne. Oppure, muovendosi sull'asse del tempo, si potrebbe rilevare che nei monasteri tardo e postmedievali l'abitudine di incidere le ceramiche scomparve e spesso veniva usato vasellame appositamente dipinto con il logo dell'istituzione. Eppure i monasteri erano ancora luoghi chiusi, ma, più in generale, era cambiato il rapporto persone-cose; dalla ricercata ostentazione di pezzi di pregio, tutti differenti fra loro e di proprietà personale, si era passati alla dimostrazione di buon gusto e morigerata eleganza, meglio resa dai nuovi servizi da tavola coordinati. Oppure si potrebbe valutare come la realizzazione delle misure con la tecnica adottata per le campane condizionava le forme, necessariamente di tradizione, e quindi le possibilità di impiego, o come le misure più piccole erano "tradotte" in altri materiali, fra cui vetro e ceramica, da utilizzare nelle osterie e per il commercio al minuto. Evidentemente, di fronte ai manufatti, ai contesti, al territorio, non esiste una ricetta a cui l'archeologo debba attenersi. Ogni studioso può liberamente scegliere di cosa occuparsi, ma un approccio globale deve, perché sia conveniente, partire dai manufatti e da osservazioni oggettive, ad esempio relative alle possibilità di utilizzo, e solo successivamente giungere a ipotizzare significati e valori a essi associati.

IO. ARCHEOLOGIA!

10.2

In sintesi Quello che indicano gli esempi citati non è mai un procedere basato su una sola teoria, ma un percorso fra le teorie. Non a un livello filosofico e astratto, ma a un livello medio, dove la semplicità è un pregio, dove si parla e si scrive come si mangia (o come si scava), riconoscendo che fra le middle range theory processuali si devono collocare non solo gli studi sui processi formativi, ma anche molte altre spiegazioni, verificabili con nuovi dati e ricerche. E che anche un esempio volutamente banale è comunque significativo perché il modo di procedere è il medesimo che si adotta quando si ragiona della formazione delle società complesse, del rapporto città-territorio, del confronto fra gruppi distinti, dei motivi di stabilità e cambiamento e così via. Ad esempio, se si volesse spiegare "l'invenzione della ceramica" o la domesticazione neolitica bisognerebbe valutare, in ordine di importanza e difficoltà, i caratteri dei materiali, in un caso anche degli animali, l'ambiente in cui si verificò il tutto, la rilevanza iniziale del fenomeno (quantificazione reperti, ricostruzione contesti d'uso, modificazioni intervenute nella gestione di territorio e risorse, possibili alterazioni dei rapporti sociali ecc.). E, quindi, giungere a considerazioni che tengano conto anche di attribuzioni di significato e valore (ad esempio, in entrambi i casi menzionati, in occasione di "feste" redistributive e di eventuali differenze di genere di cui ricercare una qualche evidenza archeologica). Evitando, ovviamente, le spiegazioni ad hoc, prive cioè di riscontri oggettivi e basate solo su analogie etnografiche o ragionamenti astratti. E, dati i recenti progressi dell'archeologia, sapendo che riconoscere la complessità dello sviluppo storico non è più un risultato soddisfacente perché tale complessità va adeguatamente compresa e risolta. Per finire, l'archeologia che vorremmo è, banalmente, un' archeologia centrata su uomini e materiali (la storia della cultura materiale) con la consapevolezza che essendo l'interpretazione "occidentale e moderna", la disciplina deve essere riflessiva e teorica. E, più ambiziosamente, vorremmo un'archeologia non dipendente da teorie e ricette altrui (di antropologi, storici o geografi), capace di travalicare limiti cronologici e partizioni accademiche, non soggetta alle mode o alla tirannia dei metodi (una tradizionalissima e ben costruita tabella, o un bollettino d'analisi, o una macrofoto, possono essere molto più informativi di

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ARCHEOLOGIA TEORICA

un asettico rilievo 3D). Una disciplina storica non vincolata alle logiche della conservazione o, peggio, della valorizzazione a ogni costo e, quindi, al mercato. Un'archeologia che non sia un nuovo corporativismo autoreferenziale. In positivo, vorremmo rigore nell'acquisizione dei dati, attenzione alle logiche dell'interpretazione, capacità di legare conservazione e conoscenza storica, apertura all'integrazione con altre discipline. Un'archeologia dove divulgazione significa educazione e sviluppo delle conoscenze e in cui deve essere garantita libertà di ricerca, di metodi, di sperimentazione.

166

Bibliografia

Letture consigliate Le indicazioni bibliografiche sono ridotte all'essenziale privilegiando quando possibile i testi più recenti. Non si danno riferimenti per i classici dell'Ottocento citati nel testo e si ricordano invece le riviste "Antiquity", "American Antiquity", "Archeologia Polona", "Journal of Archaeological Method and Theory", "World Archaeology", "Journal of Materiai Culture", la collana curata da M. B. Schiffer "Advances in Archaeological Methods and Theory" e le italiane "Origini", "Dialoghi di Archeologia", "Archeologia Medievale". OPERE D'INTERESSE GENERALE E CAPITOLO I

Per il rapporto teoria-pratica e per molte delle questioni affrontate nei diversi capitoli cfr.: A. M. BI ETTI SESTIERI, I dati difronte alla teoria, in "Dialoghi di Archeologia", III s., 4, 1986, 2., pp. 2.49-63; P. BRUNEAU, P. Y. BALUT,Mémoires d'archéologie genérale: Artistique et archéologie, in "Mage", I, 1989, 1, pp. 1-136; CAZZELLA (1989); K. R. DARK, Theoretical Archaeology, lthaca (NY) 1995; G. DONATO, H. HENSEL, s. TABACZYNSKI (a cura di), Teoria e pratica della ricerca archeologica, voi. 1: Premesse metodologiche, Torino 1986; A. GALLAY, L'archéologie demain, Paris 1986; D. T. HURST, Archaeology, Orlando 1998;

z. VASICEK, Archeologia. Storia, problemi, metodi, Milano 1997 (ed. or. Cambridge 1990 ); c. RENFREW, P. BAHN,Archeologia. Teorie, metodi, pratica, Bologna 1995 (ed. or. London 1991); A. SCHNAPP (éd.), L 'archéologie aujourd'hui, Paris 1980; TERRENATO (2.000 ); P. J. UCKO (ed.), Theory in Archaeology. A World Perspective, London-New York 1995. Di grande utilità le voci in R. FRANCOVICH, D. MANACORDA (a cura di), Dizionario di archeologia. Temi, concetti e metodi, Roma-Bari 2.000. In generale sulle teorie cfr. E. BELLONE, L'origine delle teorie, Torino 2.006. JOHNSON (1999 ); J. MALINA,

Per un'approfondita storia del pensiero archeologico cfr. A. WYLIE,

Thinkingfrom Things. Essays in the Philosophy ofArchaeology, Berkeley-Los

ARCHEOLOGIA TEORICA

Angeles 2002. Per una chiara discussione dei concetti chiave c. RENFREW, P. BAHN, Archaeology. The Key Concepts, London 2005. Opere generali con importanti introduzioni teoriche sono c. GAMBLE, Archaeology. The Basics, London 2001; c. E. ORSER (ed.), Encyclopedia of Historical Archaeology, London-New York 2002 (in particolare la voce "materiai culture"); T. INGOLD (ed.), Companion Encyclopedia oJAnthropology, London 2003; L. MESKELL, R. w. PREUCEL (eds.), A Companion to Socia/ Archaeology, Oxford 2004; D. H. THOMAS, R. L. KELLY, Archaeology, Belmont 2006; B. CUNLIFFE, c. GOSDEN, R. A. JOYCE, The Oxford Handbook ofArchaeology, Oxford 2009. CAPITOLO 2

Per la storia del!' archeologia cfr.: BARBANERA (1998); DANIEL (1982); GUIDI ( 1988 ); G. PUCCI, Il passato prossimo. La scienza dell'antichita alle origini della cultura moderna, Roma 1993; SCHNAPP (1994); TRIGGER (1996). L'attualità dell'Illuminismo è ben resa in E. SCALFARI (a cura di),Attualita dell'Illuminismo, Roma-Bari 2001. Sull'archeologia darwiniana cfr. H. D. G. MASCHER (ed.),DarwinianArchaeologies, New York 1996 e l'articolo di R. D. LEONARD, Evolutionary Archaeology, in I. Hodder (ed.), Archaeological Theory Today, Oxford 2001, pp. 65-97. Sulla complessità sociale cfr. A. GUIDI, Preistoria della complessita sociale, Roma-Bari 2000; sull'archeologia marxista cfr. quanto citato al CAP. 4. Per Darwin e i lombrichi cfr. GOULD (1997) e M. VIDALE, Produzione artigianale protostorica. Etnoarcheologia e archeologia, in "Saltuarie del Laboratorio del Piovego~ 4, Padova 1992. Per l'etnoarcheologia (e l'uso delle analogie) cfr.: A. M. BIETTI SESTIERI, A. GRECO PONTRANDOLFO, N. PARISE (a cura di), Archeologia e antropologia. Contributi di preistoria e archeologia classica, in "Quaderni di Dialoghi di Archeologia", II, 1987, pp. 1-108; A. CAZZELLA, Livelli di analisi nella ricerca paletnologica, in "Dialoghi di Archeologia", III s., IV, 1986, 1, pp. 45-9; GALLAY, L 'archiologie demain, cit.; VIDALE, Produzione artigianale protostorica, cit.; o. P. s. PEACOCK, Pottery in the Roman World. An Ethnoarchaeological Approach, London 1982 e gli Atti del I Convegno nazionale di Etnoarcheologia, in "Archeologia Postmedievale", 2000, 4, pp. 13-206. CAPITOLO

3

Per la storia dell'archeologia classica cfr. BARBANERA (1998). Per il rapporto tra arte e archeologia cfr. R. BIANCHI BANDINELLI, Storicita dell'arte classica, Bari 1973 e ID., Introduzione all'archeologia, Roma-Bari 1976, ma anche le tesi di CARANDINI (1979). Per il concetto di cultura archeologica, oltre a v. G. CHILDE, Il progresso nel mondo antico, Torino 1963 (ed. or. Harmondsworth 1942) e ID., L'evoluzione delle societa primitive, Roma 1964 (ed. or. New York

168

BIBLIOGRAFIA

1951), cfr. s. TABACZYNSKI, Cultura e culture nella problematica della ricerca archeologica, in "Archeologia Medievale~ III, 1976, pp. 2.7-52.; B. WISZOMIRAWERBART, P. BARFORD (eds.), Special Theme: The Concept o/Archaeological Cultures, in "Archeologia Polona", 1996, 34, pp. 13-2.04. Buone introduzioni antropologiche sono B. BERNARDI, Uomo, cultura, societa. Introduzione agli studi demo-etnoantropologici, Milano 1998 e u. FABIETTI, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Roma-Bari 1999. Per la definizione di "cultura" resta fondamentale c. KLUCKHOLN, A. L. KROEBER, Il concetto di cultura, Bologna 1972. (ed. or. New York 1952.); mentre anticipatore di temi cari alla New Archaeology è L. WHITE, La scienza della cultura, Firenze 1969 (ed. or. New York 1949). CAPITOLO 4

La rivoluzione del radiocarbonio è discussa in c. RENFREW, L'Europa della preistoria, Roma-Bari 1987 (ed. or. Cambridge 1979). Per i temi della prima parte del capitolo, oltre a quanto in DANIEL (1982.) e K. POLANYI, La sussistenza dell'uomo. Il ruolo dell'economia nelle societa antiche, Torino 1983 (ed. or. New York 1977 ), cfr. J. G. D. CLARK, Europa preistorica. Gli aspetti della vita materiale, Torino 1969 (ed. or. London 1952.) e A. J. AMMERMAN, L. L. CAVALLI SFORZA, La tradizione neolitica e la genetica di popolazioni, Torino 1986 (ed. or. Princeton 1984). Per le teorie neomarxiste cfr. M. GODELIER, Antropologia e marxismo, Roma 1977 (ed. or. Paris 1973); CARANDINI (1979) e M. SPRIGGS (ed.), Marxist Perspectives in Archaeology, Cambridge 1984. Ai testi di F. BRAUDEL, Civilta e imperi del Mediterraneo nell'eta di Filippo II, Torino 1986 (ed. or. Paris 1949) e Scritti sulla storia, Milano 1989 (ed. or. Paris 1969) e di M. VOVELLE, Storia e lunga durata, in J. Le Goff (a cura di), La nuova storia, Milano 1990, pp. 47-80 (ed. or. Paris 1979) per i tempi della storia si aggiunga il lavoro di L. OLIVIER, A. COUDART, French Tradition and the Centrai Piace o/History in the Human Sciences, in Ucko (ed.), Theory in Archaeology, cit., pp. 363-81. Per l'influenza delle "Annales" cfr. J. BINTLIFF (ed.), The Anna/es School and Archaeology, London 1991. CAPITOLO

Oltre a

5

e 2.001) si vedano almeno CLARKE (1998); M. B. Bahavioral Archaeology. First Principles, Salt Lake City 1995 e HARRIS (1971), sono utili c. REDMAN, In Defense o/the Seventies. The Adolescence o/ New Archaeology, in "American Anthropologist", 1991, 93, 1, pp. 2.95-307 e N. YOFFEE, A. SHERRATT (eds.), Archaeological Theory: Who Sets the Agenda?, Cambridge 1993. Lo scarso impatto della New Archaeology in Italia è discusso da A. GUIDI, La storia dell'archeologia italiana nel contesto euBINFORD (1989

SCHIFFER,

ARCHEOLOGIA TEORICA

ropeo, in Terrenato (2.000), pp. 2.3-37, ma si consideri l'approccio processuale allo studio delle stratificazioni in G. LEO NARDI (a cura di), Processi formativi della stratificazione archeologica, in "Saltuarie del Laboratorio del Piovego~ 3, Padova 1992. e in A. BIETTI, A. M. BIETTI SESTRIERI, Problemi di teoria e di metodo in archeologia preistorica, in AA.VV., Studi in onore di S. M Puglisi, Roma 1985, pp. 13-2.9. CAPITOLO 6

I testi da cui partire sono HODDER (1992.) e ID., Symbols in Action. Ethnoarchaeological Studies ofMateriai Culture, Cambridge 1982., ma un influente lavoro con tendenze strutturaliste era già CHANG (1967 ). Oltre ai già citati lavori di Hodder cfr.: J. MORELAND, Method and Theory in Medieval Archaeology in the 1990 in "Archeologia Medievale", XVIII, 1991, pp. 7-42.;

s,

SHANKS, TILLEY (1992.) e M. cuozzo, Prospettive teoriche e metodologi-che nell'interpretazione delle necropoli: la ''Post-processualArchaeology", in "AION",

n.s., 3, 1996, pp. 1-37. Per la Gender Archaeology cfr. T. L. SWEELEY (ed.),

Manifèsting Power. Gender and the Interpretation of Power in Archaeology, London 1999 e T. A. DOWSON (ed.), Queer Archaeology, in "World Archaeology", 2.000, 32., 2.. Per una recente sintesi su gender e identità: A. GUIDI, M. A. cuozzo,Archeologia delle identita e delle differenze, Roma 2.013. CAPITOLO 7

Un futuro pluriverso è tratteggiato in A. CAZZELLA,L 'archeologia dopo la New Archaeology. Il rapporto con l'etnoantropologia, in "Dialoghi di Archeologia~ III s., 1985, 1, pp. 11-2.4; ID., Livelli di analisi nella ricerca paletnologica, cit.; ID. (1989) e GALLAY, L'archéologie demain, cit., ma verso la ricomposizione del conflitto vanno molte fra le opere d'interesse generale già ricordate. I diversi approcci allo studio del passato sono affrontati in LEROI-GOURHAN (1993) e ID., Le religioni della preistoria, Milano 1993 (ed. or. Paris 1964). Per l'archeologia cognitiva cfr. MITHEN (1996) e c. RENFREW, E. ZUBROV (eds.), The Ancient Mind. Elements o/Cognitive Archaeology, Cambridge 1994. Sui metodi d'indagine induttivo e deduttivo cfr. AA.VV., Paradigma indiziario e conoscenza storica. Dibattito su "Spie" di C. Ginzburg, in "Quaderni di Storia", VI, 1980, 12., pp. 3-54; CARANDINI (1980 ); A. CARANDINI, Storie della terra. Manuale di scavo archeologico, Torino 1991; GALLAY, L'archéologie demain, cit.; G. PUCCI, La prova in archeologia, in "Quaderni Storici", 1994, 85, pp. 59-74 e, sulla logica dell'interpretazione, GARDIN (1995) e J. c. GARDIN, Cognitive Issues in Archaeology, in "Archeologia Polena", 1996, 34, pp. 2.05-32.. Per la cultura materiale cfr. CARANDINI (1979); J. o. PROWN, Mind in Matter. An Introduction to Materiai Culture Theory and Method, in "Winthertur

170

BIBLIOGRAFIA

Portfolio", 17, 1982, I, pp. 1-19; MANNONI, GIANNICHEDDA (1996) e i testi citati in E. GIANNICHEDDA, Storia della cultura materiale, in "Archeologia Postmedievale", I, 1997, pp. u7-32.. CAPITOLO 8

Per ragionare di scienze archeologiche e a sostegno di una rivoluzione in corso: K. KRISTIANSEN, Towards a New Paradigm? The Third Science Revolution and its Possible Consequences in Archaeology, in "Current Swedish Archaeology~ 2014, 22, pp. u-34 e altri contributi nel medesimo volume; D. KILLICK, The Awkward Adolescence ofArchaeological Science, in "Journal of Archaeological Science", 2015, 56, pp. 242-7; A. JONES, Archaeological Theory and Scientiflc Practice, Cambridge 2004; M. MARTINON-TORRES, D. KILLICK, Archaeological Theories and Archaeological Sciences, in A. Gardner, M. Lake, U. Sommer, The Oxford Handbook ofArchaeological Theory, Oxford Handbook online 2015, pp. 1-17. Su archeologia e informatica: T. L. EVANS, P. DALY ( eds.), Digitai Archaeology. BridgingMethodand Theory, Oxon-New York 2006; F. ANI CHINI, G. GAT-

Verso la rivoluzione. Dall'Open Access all'Open Data: la pubblicazione aperta in archeologia, in "Post - Classica! Archaeologies~ 2015, 5, pp. 299-326. TI GLIA,

Per la partecipazione al dibattito di voci nuove e per lo stato della disciplina, oltre a BINTLIFF, PEARCE (2ou), cfr. J. BINTLIFF, Beyond Theoretical Archaeology: A Manifesto far Reconstructing /nterpretation in Archaeology, in Kristiansen, Smejda, Turek (2015), pp. 24-35; P. P. FUNARI, A. ZARANKIN, E. STOVEL (eds.), Global Archaeological Theory. Contextual Voices and Contemporary Thoughts, New York 2005. Oltre ai testi generali, sull'archeologia evoluzionista e darwiniana: J. P. HART, J. E. TERRELL ( eds. ), Darwin and Archaeology, A Handbook ofKey Concepts, Westport-London 2002; s. L. KUHN, Evolutionary Perspectives on Technology and Technological Change, in "World Archaeology", 2004, 36, 4, pp. 561-70. Per l'archeologia cognitiva, oltre ai lavori citati al CAP. 7, cfr. c. RENFREW,

c. SCARRE, Cognition and Materiai Culture: The Archaeology of Symbolic Storage, Cambridge 1998; E. DE MARRAIS, c. GOSDEN, c. RENFREW (eds.), Rethinking Materiality. The Engagement ofMind with the Materiai World, Cambridge 2004. L'archeologia simmetrica è discussa in c. L. WITMORE, Symmetrical Archaeology: Excerpts ofa Manifesto, in "World Archaeology", 2007, 39, 4, pp. 546-62. Nella medesima rivista altri articoli di B. Olsen, T. Webmoor e M. Shanks che compaiono con leggere modifiche anche in un dossier curato da A. GONZALEZ-RUIBAL intitolato Arqueologia Simétrica: un giro teorico sin revolucion paradigmatica, con brevi commenti critici di autori spagnoli (in "Complutum~ 2007, 18, pp. 283-5).

171

ARCHEOLOGIA TEORICA

Per la versione aggiornata (new) della Behavioral Archaeology cfr. M. B. (ed.), Behavioral Archaeology. Principles and Practice, LondonOakville 2010. E per i riferimenti ai riti di passaggio e alla vita degli oggetti si veda L. FOGELIN, M. B. SCHIFFER, Rites ofPassage and Other Rituals in the Lift Histories ofObjects, in "Cambridge ArchaeologicalJournal", 2015, pp. 1-13; E. GIANNICHEDDA, Lo scavo, i residui, l'affidabilita stratigrafica, in "Facta. A Journal ofRoman Materiai Culture Studies", I, 2007, pp. 51-64. Alla materialità (oltre a HODDER, 2012a) sono dedicati molti lavori: D. MILLER (ed.),Materiality, Durham-London 2005, L. MESKELL (ed.),Archaeologies of Materiality, Oxford 2005; T. WEBMOOR, c. L. WITMORE, Things SCHIFFER

Are Us! A Commentary on Human/Things Relations under the Banner oJa "Socia!" Archaeology, in "Norwegian Archaeological Review", 2008, pp. 1-18; e. KN AP P ET, Materiality in Archaeological Theory, in C. Smith (ed.), Encyclopedia of Global Archaeology, New York 2014, pp. 4700-8; L. HURCOMBE, A Sense of Materials and Sensory Perception in Concepts of Materiality, in "World Archaeology", 2007, 39, 4, pp. 532-45. Sensibilità diverse, tentativi di riconciliazione e critiche sono invece espresse in INGOLD (2007) e in G. LUCAS, Critica! Approach to Fieldwork. Contemporary and Historical Archaeological Practice, London-New York 2001; T. D. VANPOOL, c. s. VANPOOL (eds.), Essential Tensions in Archaeological Method and Theory, Salt Lake City 2003; E. DOMANSKA, The Return to Things, in "Archeologia Polona", 2006, 44, pp. 171-85; P. URBANCZYK, Where Does the "Return to Things" Lead Us?, in "Archeologia Polona", 2006, 44, pp. 187-94; M.-P. JULIEN, C. ROSSELIN, J. P. WARNIER, Le corps: matiere a décrire, in "Corps", 2006/r, r, pp. 45-52; M. NAJI, L. DOUNY (eds.), Special

lssue: "Making" and "Doing" the Materia! World: Anthropology ofTechniques Revisited, in "Journal of Materiai Culture", 2009, 14, 4, pp. 4u-512; N. YOFFEE, s. FOWLES, Archaeology in the Humanities, in "Diogenes", 2012, pp. 1-18. Per habitus, agency (e per rinvio a opere precedenti) cfr. M. DIETLER, I. HERBICH, Habitus, Techniques, Style: An lntegrated Approach to the Socia! Understanding ofMateria! Culture and Boundaries, in M. Stark (ed.), The Archaeology o/Socia! Boundaries, Washington 1998, pp. 233-63; J. ROBB, Beyond Agency, in "World Archaeology", 2010, 42, 4, pp. 493-520; R. OSBORNE, lntroduction: For Tradition as an Analytical Category, in "World Archaeology", 2008, 40, 3, pp. 281-94. CAPITOLO 9

Su tipologie e classificazioni, oltre al fondamentale PERONI (1998) e ad A. M. BIETTI SESTIERI, Classificazione e tipologia, in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Roma-Bari 2000, pp. 61-5; cfr. A. GABUCCI,

L'archeologia come mestiere. Dallo scavo al magazzino: i materiali,

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Trieste 2.013; M. L. s. SORENSEN, Paradigm "Lost'' - On the State ofTypology within Archaeological Theory, in Kristiansen, Smejda, Turek (2.015, pp. 8494); GIANNICHEDDA (2.016).

La discussione sui diversi approcci di studio dei manufatti è sviluppata in Per l'archeologia medievale oltre ai contributi nel Numero speciale dell'omonima rivista (2.014), cfr. R. GILCHRIST, Medieval Archaeology and Theory: A Disciplinary Leap ofFaith, in R. Gilchrist, A. Reynolds (eds.), Rejlections: 50 Years ofMedieval Archaeology, 1957-2007, Leeds 2.009, pp. 385-408; A. MCCLAIN, Theory, Disciplinary Perspectives and the Archaeology ofLater Medieval England, in "Medieval Archaeology~ 2.012., 56, pp. 131-70. GIANNICHEDDA (2.006, 2.014).

CAPITOLO IO

Per gli esempi discussi nel testo, e per molti altri, oltre a K. SCHMIDT, Costruirono i primi templi, Genova 2.012. (per Gobekli Tepe), cfr. GIANNICHEDDA (2.006) e, nel dettaglio, ID. (a cura di), È sotto terra la tradizione di Bano. Archeologia e storia di un monastero femminile, Firenze 2.012.; ID., Pesi e misure: storia e archeologia di sistemi eterogenei, in A. Clericuzio, G. Ernst (a cura di), Il Rinascimento italiano e l'Europa, vol. v: Le scienze, Treviso 2.008, pp. 641 57 (e apparati alle pp. 766-70 ), o il più sintetico ID., Le misure bronzee della Repubblica di Genova, in VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, vol. 2., Lecce 9-12. settembre 2.015, Firenze 2.015, pp. 2.99-304. Su cultura materiale, interpretazione e proposte conclusive, oltre ai lavori già citati, cfr. J. P. WARNIER, La cultura materiale, Roma 2.005; A. GONZALEZ RUIBAL, Hacia otra arqueologia: diez propuestas. Towards Another Archaeology. Ten Proposals, in "Complutum", 2.012., 2.3, pp. 103-16; M. E. SMITH, How Can Archaeologist Make Better Arguments ?, in "The SAA Archaeological Re-

cord", 2.015, September, pp. 18-2.3.

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